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Prof. Andrea Canevaro
Pedagogia Speciale
1° Sezione
A cura di prof. Andrea Canevaro Sezione prima La pedagogia speciale
1. L’azione sociale ed educativa per le persone handicappate 1.1 Un diritto per tutti 1.2 Contro l’esclusione 1.3 Un’educazione verso un’integrazione sociale 1.4 Un mondo diviso 1.5 Conclusioni
2. Come uscire dalle istituzioni totali, senza distruggerle ma aprendole a nuova vita 2.1 Cosa intendiamo per istituzioni totali 2.2 La valorizzazione dell’istituzione e il superamento della totalità 2.3 Diversi luoghi e diversi tempi 2.4 Nuove offerte, nuove occasioni 2.5 Conclusioni
3.
La pedagogia speciale , la ricerca, la documentazione
3.1 La pedagogia speciale e la specificità della sua dimensione 3.2 I compiti della pedagogia speciale nella realtà odierna 3.3 I rischi che la pedagogia speciale può incontrare 3.4 La necessità della documentazione 3.5 Scheda per le proposte riabilitative
4.
Le ragioni dell’integrazione
4.1 Evitare un’educazione isolata 4.2 Un’educazione ed una didattica interattiva 4.3 Autorità e fonte dell’insegnamento non coincidono 4.4 Importanza dei “sistemi di mediazione” Verifiche
L'AZIONE SOCIALE ED EDUCATIVA PER LE PERSONE HANDICAPPATE 1.1. Un diritto per tutti Dobbiamo partire da una affermazione ampia e molto chiara. Tutti i bambini e tutte le bambine hanno diritto ad un'educazione. Tutti gli individui, uomini e donne, hanno il diritto a una vita la più libera possibile. Tutti gli individui hanno dei diritti e dei doveri. Un individuo con ridotte capacità, dovute a un deficit, non perde nessuno dei suoi diritti e nessuno dei suoi doveri. E' quello che viene chiamato anche il diritto di cittadinanza. All'interno di questa affermazione dobbiamo più attentamente riferirci alla situazione di chi cresce avendo dei bisogni particolari. La sensibilità di questi anni ha permesso di distinguere il deficit, come un danno irreversibile, e gli svantaggi o handicap intesi come possibili barriere - ostacoli, che l'individuo incontra e che possono essere ridotti ma anche aumentati. Possono essere annullati ma anche ingigantiti, diventare sempre più numerosi. Chi nasce con una differenza dovuta a un deficit ha bisogno certamente di attenzioni particolari. Si può ragionare secondo due logiche: una risponde all'esigenza di avere un luogo dove accogliere e raccogliere tutti coloro che hanno un certo deficit. Facciamo un esempio: per chi nasce o diventa cieco, secondo questa logica, vi deve essere un luogo, un istituto, in cui vengono a trovarsi tutti coloro che sono ciechi. Un altro istituto accoglierà e raccoglierà coloro che sono sordi, un altro istituto accoglierà e raccoglierà coloro che hanno delle lesioni cerebrali, e quindi hanno delle ridotte possibilità motorie, e forse di linguaggio, ed altri luoghi ancora accoglieranno secondo delle categorie di deficit. Vi saranno però anche luoghi che non potranno avere le persone con un deficit perché dovranno accogliere persone che hanno più deficit, vengono anche definiti pluri handicappati. In questa logica chi ha dei bisogni particolari deve andare in un posto, quindi deve cambiare la sua casa, deve abbandonare la sua famiglia, non piò più vivere nel suo contesto e deve raggiungere il luogo tecnicamente attrezzato per rispondere ai suoi bisogni. L'altra logica si muove invece per raggiungere, con le risposte adeguate, ogni individuo laddove vive, nel suo contesto familiare, scolastico, sociale, culturale. In questo caso non si tratta tanto di categorizzare, cioè far entrare un individuo in una categoria particolare, quanto di analizzare i suoi bisogni e cercare di rispondere a ciascuno di questi bisogni nel modo più adeguato e personalizzato. Questa seconda logica non fa ricorso a degli istituti ma fa ricorso a delle tecniche che devono integrarsi all'ambiente. La prima logica ha avuto una storia molto importante e tuttora è praticata in molti paesi del mondo. Ma in molti paesi del mondo vi è anche un desiderio di rivedere questa logica e di capirne i limiti, che sono emersi soprattutto con le critiche fatte da studiosi di ogni parte del mondo che hanno messo soprattutto in luce un rischio, quello dell'esclusione. Qualcuno ha parlato di istituzioni totali,
cioè di luoghi che dovrebbero rispondere a tutte le esigenze di un individuo, escludendolo però, nello stesso tempo, dalla partecipazione alla società più ampia. I rischi delle istituzioni per categorie, i rischi degli istituti, sono molto noti anche a chi lavora, o ha lavorato, all'interno di questi istituti, e quindi è dall'interno che sono comprensibili le esigenze di superarli. Educatrici ed educatori, specialisti che lavorano all'interno di istituti, testimoniano le difficoltà a stabilire dei progetti individualizzati. Segnalano costantemente il rischio dell'anonimato, ossia della difficoltà a rispondere alle esigenze personali perché la prevalenza è la risposta alle esigenze dell'istituzione. I gusti nell'abbigliamento, nel mangiare, nei ritmi di vita non possono essere totalmente lasciati alla scelta individuale perché l'istituto non sarebbe in grado di rispondere a queste scelte, a un'ampia gamma di possibilità. Un istituto che abbia un elevato numero di ospiti deve avere una cucina che prepara un pasto, non può quindi consentire una grande varietà di scelta dei cibi. Questo sarebbe poco pratico, molto costoso e rischierebbe di creare un'enorme confusione, anziché‚ dei benefici. Lo stesso esempio si può rifare parlando dei divertimenti, delle attitudini ad imparare qualcosa e naturalmente degli abiti, della possibilità di curare i propri interessi culturali e sociali. Molte volte proprio coloro che hanno dedicato la loro attività professionale all'istituto si sono resi conto di come l'istituto condizioni e livelli al ribasso le persone che sono ospiti. Già educatori ed educatrici del secolo
scorso
segnalavano
il
rischio
che
i
grandi
istituti
modellassero
uno
stereotipo
dell'insufficiente mentale, del paraplegico, dell'emiplegico, del sordo, del cieco. Uno stereotipo, vale a dire un ritratto che si riproduce un po' per tuffi. Ed allora si poteva pensare che l'insufficienza mentale della sindrome di Down, o Trisomia 21, caratterizzasse in maniera talmente forte tutti coloro che erano affetti da tale sindrome da renderli tutti uguali. In realtà era la vita dell'istituto che rendeva gli insufficienti mentali tuffi uguali. Non appena gli istituti hanno assunto delle aperture verso le attività esterne si è potuto constatare come ciascuno degli insufficienti mentali, così come dei ciechi, dei sordi e degli altri handicappati, avesse la sua caratteristica individuale. Le differenze di genere, il maschile, il femminile, sono state riconosciute come elementi importanti del riconoscimento dell'individuo. E la logica che portava a raccogliere tutti coloro che avevano dei bisogni in un solo luogo ha cominciato ad essere vista come una logica rischiosa, se non addirittura pericolosa. Ma non è semplice abbandonarla e non è semplice dire, e soprattutto realizzare, l'altra logica. Sarebbe profondamente sbagliato considerare le competenze accumulate negli istituti come non più necessarie. Sono invece necessarie ma devono trovare una nuova dimensione ed una nuova valorizzazione. Vi sono esempi, e anche molti, di istituti che, anziché‚ accogliere e raccogliere tutti dentro le loro mura, si sono aperti ed hanno permesso alle competenze dei loro tecnici, delle loro educatrici, dei loro educatori, di raggiungere le sedi in cui vivono gli individui: famiglie, scuole,
lavoro. Vi sono istituti che si sono trasformati in centri di servizi aperti alla società. Centro di servizio significa possibilità che le competenze diventino tali da raggiungere altri luoghi e da costituire un elemento complementare all'azione educativa e sociale di tutti i luoghi della vita. Questa seconda logica è importante, è difficile, ma è possibile. E' possibile lavorando al riconoscimento di competenze complementari, non più totali: la competenza di un genitore non è sufficiente quando c'è un bambino o una bambina che ha dei bisogni particolari. Ma neanche la competenza dello specialista è sufficiente. Le due competenze devono incontrarsi, devono lavorare insieme, dialogare. Ed è questo il punto principale di una prima realizzazione del riconoscimento dei diritti. 1.2 Contro l’esclusione Bisogna chiarire che essere handicappato non significa automaticamente essere escluso dalla società. Bisogna chiarire: nel senso che occorrono dei gesti, delle pratiche sociali, che permettano di riconoscere questo principio il più possibile nella quotidianità. Dobbiamo poter incontrare, nella vita, le persone handicappate. Escluderle significa non poterle mai incontrare, perché‚ sono segregate anche, a volte, con delle motivazioni che sembrano tecniche, scientifiche. La segregazione, l'esclusione, non possono essere il modo di trattare le persone handicappate. Occorre pensare che una disabilità non equivale automaticamente a miseria, marginalità. Bisogna, non solo per amore della precisione delle parole ma soprattutto per amore della giustizia e della realizzazione di una buona educazione sociale, permettere di distinguere fra handicappati e deficit, handicap come svantaggio e deficit come danno irreversibile; e avere una malattia non e l'equivalente dell'essere handicappato. Vi possono essere persone handicappate in piena salute e che si ammalano; vi può essere una persona con sindrome di Down che si ammala e poi guarisce. Riconoscere la possibilità di ammalarsi significa curare la buona salute di una persona handicappata, non trascurarla. La distinzione tra essere handicappato e essere ammalato è di fondamentale importanza. Può essere importante capire la cattiva condizione, ad esempio, dei denti e della bocca di una persona con lesione cerebrale in condizioni fisiche permanentemente di diversità rispetto agli altri. Se la sua diversità comprende anche la trascuratezza, evidentemente noi consideriamo il monoblocco della sua disabilità e della sua possibile malattia. E questo inevitabilmente peggiora molto le situazioni. Quante volte, in passato, anche illustri personaggi della storia dell’educazione e della medicina hanno considerato elementi comprensivi della situazione di handicap stati che potevano essere di passaggio, perché sarebbero stati da considerare piuttosto come malattia. Vi sono poi delle confusioni che portano all'esclusione, fatte mettendo insieme una diversità, dovuta a un deficit, con degli elementi morali. In passato vi è stata una letteratura anche autorevole che ha considerato l'insufficienza mentale come una condizione in cui
potevano essere più frequenti le perversioni sessuali, non prendendo affatto in considerazione le condizioni di vita in cui vivevano gli insufficienti mentali. Era la condizione di vita di reclusione ed esclusione che poteva favorire dei comportamenti sessuali che allora venivano detti perversi. Tutte queste confusioni permettono di realizzare delle esclusioni molto violente, e a volte vi sono delle ragioni che sembrano scientifiche. L'esclusione in nome della scienza è una delle forme con cui abbiamo più volte giustificato nostri comportamenti violenti. E tuttora credo che sia molto opportuno, necessario, interrogarsi su ogni trattamento educativo particolare che noi possiamo proporre per un soggetto handicappato domandandoci se quel trattamento favorisce la crescita e l'appartenenza all'umanità o non lo trasforma in oggetto di cura. Il passaggio da soggetto a oggetto è molto facile ed è pericoloso, perché contiene ancora degli elementi di esclusione e di violenza. Il rapporto tra esclusione e confusione è quindi notevole. E bisogna considerare con la massima attenzione la possibilità che grandi strutture di ricovero possano essere elementi di confusione. “Perché questo?”- Perché le grandi strutture di ricovero possono permettere, a volte, di considerare più protetto, al suo interno, un individuo, un bambino, una bambina, che abbia, ad esempio, delle difficoltà ad essere sostenuto a casa, per la povertà, la miseria, la scarsità di cibo. Il ricovero nel grande istituto per handicappati può essere il modo per pensare di risolvere delle difficoltà di carattere sociale, economico, ma porta a confondere, porta a entrare in un mondo in cui si rischia di perdere la propria identità originale e a essere, come già ho detto, molto simili a uno stereotipo: tutti si conformano ad un certo stereotipo. L'interessante, nella storia dell'educazione degli handicappati, è stata proprio la continua ricerca di uscire dalla confusione che poteva permettere di mettere insieme come appartenenti allo stesso, unico, stereotipo, bambine e bambini abbandonati, bambini con gravi ritardi mentali, bambini o bambine che erano sopravvissuti a violenze, a carestie, e anche bambini, bambine che si erano persi in epoche di grandi spostamenti di popolazioni Tutti costoro potevano essere messi nello stesso luogo che ne faceva degli esclusi prima di tutto, ma poi potevano essere, anche, considerati insufficienti mentali. Per un lungo periodo l'insufficienza mentale, chiamata anche con altri termini, ha rappresentato un quadro confusivo, in cui le differenze si annullavano e tutto tendeva ad avere un unico referente in uno stereotipo di comportamenti abbandonici, cioè dominati da un senso di abbandono, di mancanza di iniziativa, di perdita di capacità decisionali, e di trasformazioni delle decisioni in crisi, in ribellioni, ossia in comportamenti che sembravano confermare lo statuto dell'insufficienza mentale. Era una grande confusione. Nel nostro mondo si è poi fatta strada una necessità di cominciare a capire meglio, e allora i grandi ricoveri per l'infanzia hanno cominciato ad essere luoghi interessanti per studiosi che volevano capire le differenze, e quello che prima era un posto in cui il grande studioso non aveva nessuna attrattiva è cominciato a diventare un luogo in cui
gli studiosi potevano andare per capire meglio l'umanità. I grandi studiosi che l'Ottocento e la prima metà del Novecento ha messo in contatto con l'esclusione, nei cui luoghi si è avviata l’elaborazione per uscire dall'esclusione. Occorre capire che dalla stessa esclusione è nato un movimento scientifico, culturale, che ha cercato di rompere l'esclusione e di allargare 10 spazio in cui erano contenute le persone, i bambini, le bambine, ritenute non adatte a stare nella società: allargare questi spazi e cominciare a capire le differenze. Questo movimento dura tuttora ed è a questo movimento che abbiamo la possibilità di collegarci per cercare di capire in che senso muovere un'educazione con la tendenza all'integrazione sociale. 1.3. Un'educazione verso un'integrazione sociale Più o meno in tutto il mondo si sta sviluppando il passaggio dalla logica dell'esclusione alla logica dell'integrazione. Ogni paese ha la sua storia, incontra le sue difficoltà ma anche le sue risorse, scopre le capacità di realizzare questo passaggio in termini originali. In questa pluralità di esperienze che si sta sviluppando in ogni parte del mondo vi possono essere alcuni punti che, senza nessuna pretesa di assoluto, diventano interessanti un poco per tutti. Ciascun paese ha poi la necessità di riformularli e farli propri, secondo le proprie caratteristiche storiche, culturali, e investendo con le proprie scelte questa più ampia scelta. Quello che provo a fare è sviluppare l'aspetto del passaggio verso la logica dell'integrazione sociale per punti che, ripeto, possono essere comuni a molte esperienze che sono nel mondo. Un primo punto riguarda la prima e la seconda infanzia. Sembra interessante esplorare tutte le possibilità perché‚ nascano delle esperienze, potremmo pensare a delle esperienze - pilota, oppure delle esperienze anche estese, che consentano ai bambini e alle bambine handicappate di essere accolti nelle scuole dell'infanzia o nei servizi educativi per la prima e la seconda infanzia. Quando i nidi e le scuole dell'infanzia o materne sono diffuse, è possibile pensare che vi sia accoglienza di handicappati. E' possibile farlo secondo criteri che consentano o di ridurre il numero di presenze dei bambini o di avere, per almeno una buona parte del tempo, un personale educativo supplementare. Possono essere gli stessi operatori degli istituti, istituti specializzati ad avere un distacco parziale perché‚ partecipino alle attività di un nido o di una scuola materna e aiutino le insegnanti, le puericultrici, ad accogliere nelle giuste maniere un bambino handicappato. Per chi è piccolo, e ha bisogno certamente di molte attenzioni, comuni a tutti gli altri bambini, non si pongono immediatamente i problemi di apprendimento formali: ha bisogno di attenzione ai proprio corpo, alla propria igiene, alle possibilità di muoversi, di esplorare, di toccare. E tutte queste attività, che sono normali nella vita di chi cresce, possono presentare delle utilissime occasioni di buona educazione, speciale e integrata insieme. – “Cosa possiamo intendere con questa espressione?”-
Possiamo intendere la necessità di rispondere a dei bisogni particolari che un bambino, una bambina, può avere, avendo un deficit, ma di rispondere a questi bisogni integrando la risposta alle attività educative di tutti. Questa possibilità non è solo un vantaggio per quel bambino, quella bambina, che ha bisogni speciali ma diventa anche un vantaggio per gli altri bambini, bambine. L'attenzione allo sviluppo delle comunicazioni, quando vi è un bisogno particolare, è un beneficio per tutti. Le attività di gioco, organizzate in modo tale da consentire un miglior sviluppo motorio, diventano un'occasione per tutti per acquisire delle competenze motorie. Se vi è un bambino o una bambina cieca, vi è la necessità anche per gli altri bambini, bambine, di capire come è importante la vista ma anche come è importante il tatto. E vi possono essere molti esempi di esperienze già realizzate che ci possono far capire quanto il beneficio non sia di un individuo particolare ma di un intero gruppo. L'educazione speciale integrata può portare a un beneficio di qualità educativa per tutti. Vi sono degli effetti secondari che è bene ritenere altrettanto importanti: quello, ad esempio che i familiari, i genitori, di un bambino o di una bambina con bisogni speciali entrano in contatto con i familiari degli altri bambini e bambine e stabiliscono dei rapporti di amicizia e di solidarietà, non più esclusivamente con coloro che hanno o che si pretende che abbiano lo stesso problema. Incominciamo a scoprire che non hanno un problema ma hanno un figlio, o una figlia, e questo è un elemento importante. Altri effetti secondari riguardano l'organizzazione degli spazi, gli accessi, i percorsi dalle abitazioni alla scuola, al nido, alla scuola materna. Nasce quindi una vasta azione che permette di non avere un beneficio unicamente in un luogo e su un individuo ma di avere un'espansione nel sociale. E questo permette, a tutte le educatrici, a tutti gli educatori, a coloro che sono insegnanti, di capire che il senso di inadeguatezza si può superare e si può arrivare ad essere competenti per educare bene anche un bambino, una bambina, con bisogni speciali. Un secondo punto riguarda l’apertura degli istituti specializzati. Se nel primo punto la dinamica è: i bambini speciali nelle strutture educative per tutti, il secondo punto può essere interpretato come quasi il contrario: le strutture per handicappati aperte a chi handicappato non è. In che senso? Gli istituti possono avere delle risorse, possono avere degli spazi, possono avere delle opportunità da offrire agli altri. E' capitato, può capitare ancora, che un istituto abbia uno spazio per il gioco, abbia una palestra, abbia la possibilità di usare la piscina aprendola ad altri, abbia una mensa che può servire
anche
ad
altri,
ragazzi
e
ragazze,
bambini,
bambine.
L'istituto
può
consentire
l'organizzazione di momenti di attività, comuni a tutti, ed anche nelle iniziative future vi può essere una grande possibilità di realizzare questa apertura. Si pensi all'investimento che l'educazione speciale può avere nei confronti delle tecnologie. Vi sono certamente delle buone possibilità perché chi è handicappato abbia, attraverso i computer, dei benefici. Realizzare un laboratorio informatico
aperto a tutti, anche quindi ai normodotati, può essere un investimento verso la realizzazione della prospettiva di integrazione. C'è da aggiungere che negli istituti vi possono essere delle competenze utili per tutti. i disturbi del linguaggio non riguardano unicamente gli handicappati, possono riguardare molti bambini e bambine. Può essere quindi utile che chi, abituato a trattare handicappati negli istituti, tratti handicappati che sono fuori dagli istituti e che non sono realmente handicappati ma hanno dei ritardi o dei problemi di crescita. Queste possibilità di integrazione per apertura si possono ancora più sviluppare quando si tratta di organizzare dei servizi che raggiungono le famiglie e le strutture educative che possono essere le scuole. Vi sono poi sviluppi interessanti che riguardano il lavoro; la possibilità di creare delle formazioni al lavoro attraverso sia dei laboratori misti di handicappati e non handicappati, sia delle piccole imprese che permettano di trovare il lavoro ad handicappati e non handicappati. E' qualcosa che si sta sviluppando in molte parti del mondo e che deve ovviamente fare i conti con l'economia locale e anche con l'organizzazione del lavoro che ciascun paese ha attraverso le sue leggi. Quindi è quasi impossibile dettagliare questo aspetto ma indicarne un possibile sviluppo, questo si può fare. “Un terzo punto riguarda la possibilità di stringere dei rapporti che vengono definiti, ormai un po’ ovunque nel mondo di partenariato”. E' un termine che può essere sostituito da collaborazione. Ma sembra, almeno nella espressione italiana, che “partner" sia qualcosa di più che collaboratore: voglia dire condivisione delle responsabilità e capacità di stabilire un rapporto di interdipendenza. L'uscita dalla logica delle istituzioni totali è proprio questa. Cosa significa istituzione totale?. Significa che all'interno di una sola istituzione si trovino o si tenti di trovare tutte le risposte di cui un individuo ha bisogno. Rompere questa totalità significa creare delle reti di collaborazione e permettere la nascita di una logica di interdipendenza. Interdipendenza può essere il rapporto di collaborazione che un istituto può avere con le famiglie; la riduzione dell'istituto a momenti della vita di un bambino, di una bambina, di un ragazzo, di una ragazza, perché altri momenti siano vissuti in famiglia; e l'estensione di questa collaborazione alle scuole esterne. Nell'istituto si può vivere una parte della giornata, in famiglia un'altra parte, a scuola una terza parte, e le tre realtà diventano capaci di collaborazione, di partenariato e di interdipendenza, nel senso che ognuna di queste tre realtà ha bisogno delle altre due. E si può continuare, perché non sono solo tre le realtà che un bambino può vivere. Può vivere momenti di gioco, di sport, di attività che possono richiamare altre strutture. Si crea quindi una rete di partner, di collaborazioni interdipendenti. E si impara quindi a negoziare a rapportarsi gli uni con gli altri tenendo conto che le competenze mie devono incontrare le competenze dell'altro e devono trovare il modo di comporsi e non di
scontrarsi. Non è possibile stabilire un rapporto unicamente su base gerarchica. E' necessario stabilire una collaborazione, sapendo, però, che qualcuno deve coordinare un progetto. Nascono quindi delle esigenze che esigono una chiarezza di rapporti fra le diverse realtà, fra le diverse istituzioni. E questo si crea con il tempo. C'è bisogno di non immaginare che una realtà di condivisione e di partenariato si realizzi unicamente con accordo giuridico; l'accordo giuridico può avviare un processo che ha bisogno di tempo per diventare solido e trasformarsi in pratica sociale. E' quindi necessario proporsi un progetto nel tempo. Un quarto punto riguarda la valorizzazione dei gruppi eterogenei. Si tratta di rovesciare una consuetudine che fa riferimento sempre alla necessità di rendere omogeneo un gruppo, quindi di fare in modo che un gruppo educativo abbia bambini e bambine tutti con le stesse capacità, o con, più spesso è accaduto, con gli stessi problemi. E' poi scontato che vi siano delle differenze all'interno del gruppo. Anche il gruppo composto tutto da persone cieche al suo interno ha delle differenze individuali. Valorizziamo queste differenze e apriamole ancora. Realizziamo quindi un capovolgimento logico pensando che le differenze permettono un migliore apprendimento e quindi una migliore capacità educativa. E' una verità che si è pian piano fatta strada un po' ovunque: noi comunichiamo e apprendiamo grazie alle differenze. L'assenza di comunicazione si ha quando non c'è nulla che permetta di dare o di ricevere da un altro perché‚ si ritiene che l'altro sia esattamente come me. Questo non accade quasi mai, o per lo meno accade in situazione di forte pregiudizio o di modellamento, cioè quando le condizioni, e quindi il condizionamento, ha operato un livellamento degli individui. Nella realtà gli individui presentano sempre delle diversità. Allora l'interessante è compiere un capovolgimento delle logiche e non pensare che l'educazione sarà migliore se il gruppo è fatto di persone tutte uguali. Al contrario: l'educazione sarà migliore se le diversità emergono e vengono valorizzate. Un quinto punto riguarda la continuità fra prevenzione, educazione speciale ed educazione in generale. In ogni parte del mondo vi sono più o meno sviluppate secondo le possibilità. delle attività di prevenzione; vi sono delle attività di educazione speciale, vi sono delle attività in educazione in generale. Bisogna creare dei punti di contatto fra questi tre comparti. E' come se fosse necessario stabilire dei rapporti fra tre isole, per evitare che isola non significhi isolamento. Quindi vi devono essere dei contatti, degli interscambi, delle passerelle, dei ponti, che permettano un passaggio; e, il più possibile, integrarsi. Questo ha un risvolto nella nostra organizzazione mentale. Dobbiamo cercare di comprendere e ragionare che fra le tre espressioni, prevenzione, educazione speciale, educazione in generale, vi può essere una continuità; anzi che la buona qualità è data dalla continuità. Vi è una linea di continuità tra l'educazione che offro a un bambino, una bambina, con paralisi cerebrale infantile e l'educazione che offro a tutti i bambini e a tutte le
bambine. Vi è una linea di continuità, che può essere espressa in azioni, incontri, operazioni di spesa fatta in comune, capacità di organizzare sempre più qualcosa che colleghi. Tali attività possono essere ancor più realizzate se vi sono momenti di formazione comune, di informazione offerta a tutti, e quindi un allenamento alle capacità di ascolto reciproco. Può essere molto importante
capire
che
l'investimento
nella
formazione,
universitaria,
para-universitaria
professionale, può partire da un'unica logica e non dividersi immediatamente. Questo può portare alla valorizzazione delle differenze e alla capacità di una maggiore collaborazione nelle differenti ottiche e nelle differenti capacità professionali. Un sesto punto riguarda un patrimonio comune a molte delle pratiche educative. Si tratta della educazione attiva. Ha oramai un secolo di vita e ha riguardato le grandi esperienze che si sono realizzate in tante parti del mondo. A volte senza che vi fossero delle conoscenze reciproche, hanno riguardato movimenti che si sono organizzati come gruppi. La capacità dell'educazione attiva di essere calata nelle situazioni ha permesso il sorgere, in molte parti del mondo, di esperienze che hanno avuto come punto debole il fatto di essere povere. Lo dico paradossalmente perché è anche stato un punto di forza. L'educazione attiva ha voluto dire anche la capacità di organizzare la qualità dell'educazione nei punti, nelle attività e nei problemi, che sembravano più difficili, con ragazzi sbandati, nei punti nevralgici della povertà, nelle periferie. Ogni paese ha avuto educatori attivi e ne ha, e bisogna quasi riscoprirli, valorizzarli, capirne la portata ampia per tutto il mondo. Questa capacità di invenzione e di scoperta accanto ai problemi è la risorsa maggiore che l'integrazione può offrire, e può far capire che non esiste una novità che non abbia già delle radici. Bisogna sforzarsi di capire che in quasi tutto il mondo, in tutto il mondo, quando si avvia un processo di integrazione si scopre che esisteva già, che non era ufficiale e che aveva delle radici che, come tutte le radici, sono nascoste e non vanno sradicate. Bisogna capirle, conoscerle, ma lasciarle ben immerse nel terreno in cui sono andate a svilupparsi. Vi è quindi una necessità: rileggere la propria storia scoprendo, nella propria storia, le radici di questa prospettiva dell'integrazione. 1.4.Un mondo diviso Il mondo è diviso. Le cifre degli handicappati ci dimostrano che vi è una parte del mondo con colori meno intensi e una parte del mondo con colori molto intensi. Il colore intenso significa molti handicappati, il colore meno intenso significa un po' meno. I colori intensi coincidono con i paesi in cui i problemi dell'acqua, dell'alloggio, del cibo, della salute, sono molto estesi. La cecità e la sordità sono maggiori laddove mancano delle risorse di base. Le mine danno a 63 paesi, almeno, un numero molto elevato di handicappati da incidenti. Secondo l'UNICEF da oggi al 2005 i paesi che hanno un certo sviluppo economico ed industriale avranno un calo calcolato nel 14% del numero
dei bambini e bambine con handicap, mentre nei paesi che consideriamo solitamente meno sviluppati vi sarà un incremento addirittura del 47%, in buona parte dovuto alla possibilità di sopravvivenza, quindi a un elemento che è positivo ma che certamente comporta delle nuove responsabilità. Il mondo e quindi diviso. Possiamo far finta di non accorgercene, ritenere che questa divisione sia un dato "naturale", oppure, accorgendocene, capire che abbiamo bisogno di realizzare un vasto movimento di cooperazione tra i popoli e tra i paesi. La cooperazione non può essere tale se sviluppa un rapporto di dipendenza, se fa credere che vi siano dei paesi che ne sanno di più. Vi può essere certamente, in punti e in momenti particolari, qualcuno che ha possibilità maggiori di un altro, come succede tra individui; ma un momento non crea una stabile situazione di dipendenza, non lo deve creare. In ogni paese vi sono risorse. Non possiamo ritenere che sotto questo termine "risorse" vadano unicamente compiuti dei trasferimenti da chi ha a chi non ha. Questo consentirebbe di tradire la stessa parola "cooperazione". Abbiamo bisogno di creare una comunità scientifica capace di cooperare. E questo e il grande dovere delle università. La possibilità è data dalla stessa comunità scientifica che interagendo crea la possibilità non di avere dei percorsi a senso unico, - da un paese vengono trasferite competenze, ricchezze, a un altro paese -, ma un interscambio. Sappiamo tutti come e fecondo l'atteggiamento di chi porta qualche cosa con la ricerca che nell'altro vi sia qualcos'altro. Questo può essere la base del commercio ma e anche la base dell'amicizia. Un rapporto di collaborazione forte tra le università, che sono in tutti i paesi del mondo, può portare un contributo al superamento, in prospettiva, della divisione, o per lo meno può portare a non accettare che la divisione sia un dato di fatto su cui non abbiamo nulla da dire. Dovremmo lavorare proprio in questo senso: creare le condizioni perché una comunità scientifica internazionale abbia la possibilità di ricomporre le divisioni e di superarle. E il terreno che si riferisce agli handicappati, delle situazioni di handicap, delle disabilità, può essere privilegiato. Può essere proprio in questa tematica che scopriamo una delle più ricche possibilità di collaborazione. Sicuramente il termine handicappato ha delle realtà diverse in ogni paese. Quando dico "insufficiente mentale" ho presente chi intendo nel mio paese come insufficiente mentale, ma non so se in un altro paese si intende la stessa realtà. Quindi abbiamo bisogno umilmente di conoscere ciascuno cosa dice, quando dice. Abbiamo bisogno di capire che in paesi che hanno avuto dei profondi cambiamenti vi sono difficoltà aggiuntive che potrebbero, ad esempio, risultare dal desiderio di cambiare tutto, e di non mantenere le competenze che si hanno, mentre queste vanno integrate con possibili competenze che arrivano da altri paesi. Ancora una volta il termine “integrazione" è importante. Dobbiamo capire che in paesi in cui vi siano state catastrofi, guerre o disastri ecologici, il termine "handicappato" può racchiudere realtà molto diverse da paesi in cui
non vi siano stati quegli stessi avvenimenti. E allora vi sono necessità diverse, urgenze diverse, che vanno capite senza spirito di colonialismo. Cooperare significa proprio imparare reciprocamente. Si deve stabilire un rapporto di reciprocità. E questo punto, quarto e ultimo della riflessione, è molto importante. E' anche il più breve perché è quello che è più da realizzare, e quindi è più un indicatore di percorso. Andiamo in quella direzione. Indica anche la necessità, fra qualche tempo, di capire quanta strada abbiamo fatto. Capirlo insieme. 1.5 Conclusioni Le conclusioni sono molto brevi. Esiste un detto. "Dove c'è una volontà c'è un sentiero". La prospettiva dell'integrazione, del riconoscimento dei diritti ai più deboli, del non ammettere la segregazione, l'umiliazione, la separazione, parte da una volontà. E' una prospettiva difficile ma questo detto saggio ci può far capire che il punto di partenza è una volontà e nasce da questa un sentiero, un terreno su cui mettere i piedi. Dobbiamo stare, - si dice anche, - coi piedi per terra. I nostri piedi sono però guidati da una volontà. I nostri piedi troveranno un sentiero, sia pure difficile, da percorrere.
COME USCIRE DALLE ISTITUZIONI TOTALI, SENZA DISTRUGGERLE MA APRENDOLE A NUOVA VITA 2. 1 - Cosa intendiamo per istituzioni totali Vi è molta letteratura su quelle che sono state chiamate istituzioni totali. Possono essere elencate sotto questa voce diverse istituzioni, che vanno dagli orfanotrofi, agli istituti, ai reclusori, agli ospizi, agli ospedali psichiatrici. In questo elenco vi è un punto in comune: il fatto che un certo numero di persone venga costretto o debba vivere in un unico luogo, e abbia come risposta ai problemi individuali una risposta unica e uguale per tutti. La vasta letteratura sulle istituzioni totali ha come punto in comune soprattutto quello della risposta unica per una pluralità di situazioni che viene omologata, ovvero viene ritenuta non più varia quanti sono gli individui, ma tale da potere essere interpretata come un’unica situazione. Facciamo un piccolo esempio. In un ricovero per persone anziane, non più in grado di essere autosufficienti, vi possono essere degli standard, cioè delle modalità di organizzare la vita di tutti i giorni, uguale per tutti: un unico orario per il risveglio, un unico orario per la prima colazione e per tutti gli altri punti che scandiscono la giornata; ed ancora: una prima colazione uguale per tutti, un pasto uguale per tutti. Si può arrivare anche a un modo di distribuire la biancheria uguale per tutti e una biancheria non personalizzata ma di una taglia più o meno adattabile a tutti ed a ciascuno. Trasferiamoci in un istituto per bambini; esemplifichiamo meglio dicendo per bambini con insufficienza mentale. L’organizzazione è analoga a quella degli anziani, non autosufficienti, cambiano poche cose, la taglia del vestito e della biancheria è evidentemente più piccola, ma altrettanto adattabile, con una sola o poche differenze, a tutti ed a ciascuno; il cibo è unico, l’orario è unico, non vi sono flessibilità; tutti devono servirsi degli stessi servizi igienici, la notte ha un’unica durata per tutti e le uniche possibilità di differenziarsi sono nelle trasgressioni. L’istituzione totale rende inevitabili le trasgressioni come possibilità di personalizzare, da parte dell’individuo, qualcosa. Ma l’istituzione totale potrebbe anche avere un miglioramento sul piano tecnico e scientifico, facendo in modo che vi sia una maggiore pertinenza di risposta, appunto tecnica e scientifica, ai bisogni degli individui, rendendo, però, la varietà degli individui unitaria, e facendo in modo che un problema che accomuna la pluralità degli individui diventa il punto di incontro della risposta tecnica: l’insufficienza mentale, piuttosto che gli insufficienti mentali, la condizione di anziano piuttosto che gli anziani. In questa trasformazione degli individui con la loro pluralità e la loro singolarità in problema, è quasi superfluo domandarci o cercare risposte che siano adeguate al genere, vale a dire che siano differenziate se si tratti di uomini e di donne, di bambini e di bambine. Queste differenze diventano molto sbiadite.
Una risposta: questa è la condizione in cui noi spesso abbiamo operato al meglio delle possibilità che ci erano state date, per dare risposta a dei bisogni particolarmente difficili, e questa risposta è stata data. Non nascondiamo, quindi, le qualità, gli aspetti positivi, che le strutture che chiamiamo totali hanno rappresentato, nel tempo e tuttora possono rappresentare. E’ sicuramente possibile interpretare l’ospedale psichiatrico come un rifugio, in cui trova protezione una persona che abbia molte fragilità, che abbia delle difficoltà a vivere con gli altri. E’ certamente un rifugio per l’infanzia abbandonata l’orfanotrofio. Proviamo ad andare oltre, però; proviamo ad andare a vedere questa risposta che abbiamo interpretato come una, uguale per tutti, con una possibilità di crescita, e vediamo come possa trasformarsi senza mortificarsi, anzi, valorizzandosi.
2. 2 – La valorizzazione dell’istituzione e il superamento della totalità Individuiamo, nel modello istituzione totale, una concentrazione di risorse, che non vengono valorizzate adeguatamente. Se noi immaginiamo una grande istituzione, come può essere un istituto, che ha una quantità di operatori addetti alle diverse mansioni, noi potremmo avere operatori che agiscono per le cucine, altri che agiscono per la lavanderia e per la biancheria, altri ancora che sono più direttamente impegnati nei compiti educativi vicino ai bambini, alle bambine, agli ospiti. E abbiamo una quantità di individui che schematicamente vive la realtà professionale in dimensione che utilizza minime caratteristiche individuali. La persona addetta alle cucine, quando poi sta a casa, prepara da mangiare per i suoi familiari o per se stessa, e utilizza una varietà di possibilità, secondo quello che può permettersi, quindi secondo le proprie risorse, ma certamente con una possibilità di rispondere ai propri gusti personali., a quelli dei suoi familiari, e con la possibilità di dare al pasto un significato non solo alimentare ma anche simbolico, e quindi può dare al pasto il significato di un ricordo, di un compleanno, il significato di una domenica, di un giorno di festa, ecc. Quello che può fare è personalizzare, e probabilmente, oltre che a preparare da mangiare, è la medesima funzione svolta nell’istituto, questa stessa persona sa fare altre cose, ha delle passioni: forse dipinge, forse canta, forse va a ballare. Anche chi è educatore nell’istituto compie il suo impegno di educatore o di educatrice secondo la regola dell’istituto, e non ha modo di far capire, di svelare le altre passioni che vive: vive la passione per la musica, per il giardinaggio, per la pesca, per la lettura, per la storia delle arti, per i viaggi. Ciascuno ha alcune passioni che si porta dentro ma che rigorosamente tiene fuori dalla dimensione lavorativa. Una prima operazione che potremmo fare è proprio quella di cominciare a scoprire come ciascuno degli operatori impegnati nell’istituzione che chiamiamo ancora totale abbia queste caratteristiche individuali che differenziano. Allora non avremo più dei generici addetti alle cucine ma avremo la
cuoca tale che ama molto viaggiare, il cuoco tale che ama andare a pescare, andare a giocare a carte, ecc ..; e avremo anche degli educatori e delle educatrici che hanno altrettante attività di passatempo, di passioni, alcuni amano andare al cinema, conoscono le opere cinematografici di alcuni registi, sono appassionati del giallo, ecc.; ognuno ha dei gusti. Questi gusti, che erano appena conosciuti nelle conversazioni che accompagnano inevitabilmente i lavori, devono essere in qualche modo invitati ad essere risorsa per l’istituzione, ad aprire, quindi, l’istituzione stessa a queste risorse, che sono personalizzate; cominciamo, quindi, a vedere non più un solo modo di fare l’educatore ma, nell’unitarietà di un ruolo professionale, in diversi stili, le diverse interpretazioni, connotate anche dalle diverse passioni. E dobbiamo organizzare perché queste passioni, questi hobbies abbiano un loro ingresso, o meglio l’istituzione si apra perché diventino risorsa utile per la stessa istituzione. E allora immaginiamo che, allo stesso modo, come vengono fatte delle distinzioni all’interno degli operatori, si cominci a osservare le distinzioni tra gli ospiti, e si scopra che quel tal ragazzo, o bambino, può essere anche invitato a partecipare ad un laboratorio di pittura, che quell’educatore che per conto suo, nei giorni di festa, andando in vacanza, dipinge, adesso può tenere un laboratorio di pittura, un altro terrà un laboratorio di musica. Non ci piace il nome laboratorio, lo confondiamo con altre attività che hanno un’altra caratteristica? Togliamo il nome laboratorio e chiamiamolo gruppo, spazio, attività; cerchiamo, cioè, quel nome che permetta al gruppo istituzionale, alle persone che lavorano in quell’istituto di capire che cosa stanno facendo, non prendiamolo a prestito da altri luoghi che hanno fatto delle scelte sicuramente motivate per loro ma che potrebbero esserci estranee; continuiamo il nostro percorso con le nostre caratteristiche, con la nostra identità, ma con la capacità di cambiamento, di trasformare le abitudini. E allora possiamo continuare, in questa riflessione, a dire laboratorio, ma avendo capito che è una parola che potrebbe essere sostituita senza danno alla proposta stessa. Noi continuiamo a chiamare laboratorio di pittura, di musica, di giardinaggio, e abbiamo cominciato a delineare diverse funzioni dello stesso ruolo: operatore, educatore, educatrice, e anche delle distinzioni tra gli ospiti, che cominciano a distinguersi a seconda delle possibilità di stare, non vuol dire con questo di diventare anche loro bravissimi e tali come i maestri ma di stare, possibilità di essere compatibili con i loro problemi, con i loro limiti, ciascuno con i propri limiti, ma di stare nel laboratorio di pittura, ad esempio, di non avere da questo un danno, da non sentirsi agitati al punto di dovere poi scappare via, oppure da fare azioni incontrollate di distruzione. Se il laboratorio di pittura, qui esemplificato, non fosse adatto ad alcuni soggetti si può esaminare quale è il laboratorio non diciamo “adatto” ma che sicuramente può essere tollerato da quei soggetti, e allora potremmo individuare anche non solo i laboratori già esistenti perché frutto di quelle che sono le risorse del
gruppo, ma individuare qualche nuovo laboratorio che permetta l’ingresso nel laboratorio, o gruppo, o spazio, o attività, di quegli altri soggetti. Con una progressione che può essere rapida o lenta, a seconda delle situazioni, noi individuiamo delle caratteristiche personali dei singoli ospiti, non più, quindi, raggruppabili ed esprimibili con una sola indicazione: ritardo mentale, ad esempio, ma distinti tra loro a seconda delle loro attività, a cui partecipano con un grado di coinvolgimento, di attenzione, di intelligenza, variabile. Vi sarà chi partecipa del tutto passivamente per molto tempo, forse per sempre, e chi invece partecipa con una sua attività, compatibile e utile per il laboratorio. Vi saranno persone la cui intelligenza è fortemente limitata e compromessa anche dal lungo periodo di vita monotona, che sembreranno non accorgersi di essere in un laboratorio piuttosto che in un altro, o che forse hanno come reazione la crisi, il muoversi con senso di agitazione, l’urlare, in un certo laboratorio, ed è necessario riprovare, proporre altre esperienze di quella che abbiamo detto essere attività di laboratorio. Non pensiamo ad attività che durino un’intera giornata, certamente, che abbiano dei tempi compatibili con un’organizzazione che è già abbastanza articolata ma che sia nello stesso tempo anche scandita in tempi compatibili con i soggetti, con le risorse e con le energie che lo stesso personale può avere: in un’ora si può essere disponibili a una grande attenzione di coinvolgimento di tutti i soggetti, se invece dovessimo prolungare l’attività di un gruppo per molto tempo gli stessi operatori si sentirebbero esausti, non saprebbero come fare. Meglio, quindi, avere dei tempi di una certa qualità piuttosto che avere dei tempi di quantità che non tengono il livello qualitativo. Si apre, quindi, la possibilità di un’organizzazione di contenuti e di tempi differenziati, e inizia un’identificazione delle diverse identità. E, aspetto che diventa il più importante di quelli finora delineati, si comincia a intravedere, all’interno dello stesso soggetto, la possibilità di avere una pluralità di attitudini. Comincia, quindi, a delinearsi quella che ci piace chiamare l’identità plurale, cioè la possibilità che nel termine identità siano racchiusi, ma non prigionieri, altri termini: il termine legato al genere, maschile o femminile, legato alle attitudini, amante della musica, legato al tipo di socievolezza e di strumenti per la socievolezza, capace di stare simpaticamente in silenzio, capace di sorridere ma anche di parlare. Identità plurale: un individuo può essere uomo e nello stesso tempo può essere figlio, fratello, marito, può essere bambino e può essere nato in una certa località, può essere biondo, bruno; bambino, ma poteva essere bambina, bionda, bruna, di un’altra località, vivace, lenta, appassionata della musica, del canto, non ha ancora mostrato le sue passioni, ce le mostrerà, le aspettiamo. A volte anche situazioni di una certa gravità, in questa pluralità di sguardi, rivelano che non sono un solo elemento di identità, ma rivelano un’identità plurale. Questo è un aspetto sicuramente interessante, importante, non immediatamente comprensibile, probabilmente, ma per capirlo meglio
ciascuno di noi può riflettere sulla possibilità che ha avuto, sicuramente, di avere l’impressione che tutte le persone anziane che incontrava erano uguali, avevano tutte una caratteristica che dominava, quella di non essere giovani. E non c’erano tante differenze tra gli anziani uomini e gli anziani donne, e solo con una conoscenza più ravvicinata era possibile distinguere il gusto che ciascuno aveva, la storia che ciascuno si portava addosso, e quindi le differenze di carattere, di capacità, di parola, di silenzi - anche i silenzi sono diversi gli uni dagli altri. I modi di esprimere le proprie nostalgie, le proprie rabbie, differenziano gli uni dagli altri, uno da tutti gli altri, ciascuno è originale. Se vediamo degli anziani in un ricovero li confondiamo uno con l’altro, se abbiamo dei genitori anziani, delle persone che abbiamo conosciuto nella loro storia, e che quindi li abbiamo viste diventare anziani, li distinguiamo, non li confondiamo. La stessa cosa avviene per gli insufficienti mentali: vederli tutti insieme significa non distinguerli, avere l’impressione che siano scambiabili l’uno con l’altro; al più possiamo indicare con una certa sicurezza quelli che sono più gravemente insufficienti mentali, ma anche questi più o meno stanno dietro l'etichetta “insufficienza mentale”. Li conosciamo meglio, abbiamo la possibilità di fare qualche uscita con loro, di vederli nella natura, di vederli attorno a dei giochi, a dei colori, a dei suoni. E cominciamo ad avere la percezione che non sono più confondibili ma ciascuno è diverso dagli altri, e così è un po’ per tutte le aggregazioni che sono nate o che sono risposta a dei problemi. Una sola risposta per diverse individualità sembra togliere a ciascuna individualità la sua originalità, ma non appena vi è la possibilità di operare delle aperture di diverse attività e di permettere o di favorire, di aiutare ciascuno ad inserirsi in diverse attività, allora cominciano ad esserci delle differenze. Vi sono delle persone insufficienti mentali, anche gravi, che riescono ad essere utili nel lavoro di giardinaggio e dell’orto, e altri che riescono a non creare fastidi nell’ateliér di pittura. Questa differenziazione è il primo passo importante a cui ne seguono, o si
accompagnano, degli
altri.
2. 3 – Diversi luoghi e diversi tempi Nella nostra ipotesi di utilizzazione delle grandi risorse che sono nell’istituto – lo chiamiamo così – dell’istituzione totale, le risorse che sono poco utilizzate, poco valorizzate, si sviluppano nel tempo e negli spazi. Tempo: il tempo si articola. Non la giornata e la notte, non solo questa scansione che fa sì che l’unica differenza sia nella luce e nel buio: la giornata invernale è più corta, la giornata estiva è più lunga, ma sempre uguale. Non solo le scansioni dettate dai bisogni alimentari, igienici, corporali, ma l’introduzione di differenze nell’organizzazione dell’arco della settimana, con la possibilità che ogni giorno abbia una sua peculiarità, una sua organizzazione. E ci sarà il giorno della settimana in cui si fa musica, il giorno in cui si fa giardinaggio, oppure, se tutti i giorni si fa
musica e tutti i giorni si fa giardinaggio, vi sarà il giorno della settimana in cui, oltre che fare musica e fare giardinaggio, si va in piscina, ci si dedica alle pulizie della casa in maniera più approfondita, e si comincia a delineare un vero e proprio calendario, non più fatto di giornate tutte uguali ma differenziate, e tali da poter essere rappresentate. Forse i nostri ospiti non sanno leggere, come forse non sanno scrivere, ma forse sanno vedere le figure o sentirle con il tatto, ed è quindi forse possibile proporre un calendario della settimana che abbia per ogni giorno, alcune figure, o basterebbe una, rappresentative di quella che è l’attività che caratterizza quella giornata. Si può arrivare anche a cogliere gli elementi di novità che sono nella giornata riguardo al clima: piove o c’è il sole? E aggiungere, allora, al calendario fatto di elementi che sono già previsti, quelli che sono rivelati quando alla mattina si scopre se la giornata è di neve o se è una giornata ventosa, e allora si aggiungono degli elementi. Si ampliano, quindi, le possibilità che non ci sia un solo tempo ripetitivo e più adatto a dei vegetali che a degli umani, anche se i vegetali sono capaci di percepire a loro modo le stagioni, il freddo e il caldo, e quindi hanno una percezione del cambiamento del tempo. A volte le nostre strutture non lavorano sul tempo, non differenziano il tempo, e quindi chiudono la totalità del tempo in una sola dimensione ripetitiva. Uscire dalla totalità significa articolare il tempo. Il tempo ha poi la possibilità di essere anche percepito come durata per capire una possibile nostra organizzazione dell’energia. Se noi diciamo ad un bambino che capisce bene quello che è il senso delle parole: “Stai seduto con me per cinque minuti”, quel bambino, se capisce che cinque minuti sono una durata di cui ha il controllo, sarà capace di organizzare le sue energie per stare seduto; ma se abbiamo un bambino ancora piccolo, o una bambina ancora piccola, e sappiamo che non significa per loro un gran che dire cinque minuti, noi usiamo degli altri modi per segnalare il tempo, e diciamo: “Stiamo ancora fermi per il tempo che finisca questa musica” oppure “Quando avremo finito di mangiare questo gelato andremo a fare due passi”. Diamo, quindi, al tempo una possibilità di essere colto, letto, sulla base di elementi controllabili. E perché non costruirli questi elementi controllabili? Perché non pensare che l’organizzazione del tempo voglia dire anche costruire delle macchine del tempo, delle clessidre, insieme agli ospiti. E, quando nella clessidra la sabbia scorre, abbiamo la possibilità di leggere, di capire, quanto tempo ancora dobbiamo stare seduti, quanto tempo ancora dobbiamo attendere per fare una certa cosa; e abbiamo la possibilità di rovesciare la clessidra e di ricominciare, e di percepire i numeri in funzione del tempo, perché potremmo stabilire che andremo in giardino quando avremo fatto passare la sabbia per quattro volte, ossia avremo girato la clessidra per quattro volte; e ogni volta che gira la clessidra potremmo utilizzare un segnale, un cilindro colorato che appendiamo a un chiodo, quando avremo quattro tondi colorati appesi alla parete noi avremo la possibilità di dire che
è passato il tempo e che possiamo andare in giardino. L’organizzazione del tempo articolato, differenziato, è fondamentale. E gli spazi: un certo modo di vivere l’educazione nelle istituzioni può ridurre molto gli spazi, e fare sì che le persone vivano la loro giornata in uno spazio che è più o meno sempre lo stesso. E’ un’aula, è il dormitorio che diventa spazio in cui ci si intrattiene durante la giornata, avendo accumulato i letti da una parte, è la possibilità che la giornata trascorra articolando pochi spazi, e non contrassegnati da delle differenze funzionali. Quella rappresentazione delle attività, o laboratori, può articolare gli spazi. E possiamo cominciare ad avere uno spazio in cui siamo abituati a vivere la nostra vita di riposo e uno spazio in cui siamo invitati a vivere le nostre attività. Però anche le attività possono differenziarsi, e quindi possiamo avere più spazi: uno per un’attività, uno per un’altra, oppure lo stesso spazio, ma che deve essere riorganizzato in funzione dell’attività che svolgiamo, e che quindi diventa nostra cura e nostro impegno di educatori, probabilmente in maniera in maniera più forte, ma con l’aiuto anche degli ospiti, diventa uno spazio investito da una nostra progettualità, un nostro cambiamento funzionale a quello che dobbiamo pensare di fare. Si toglie, quindi, allo spazio quel grigio indistinto che è proprio di molte istituzioni totali, e si comincia a valutare l’articolazione degli spazi, e a pensare, ma anche a praticare, soprattutto a percorrere, degli itinerari. Comincia ad articolarsi, come si è articolato il tempo, anche lo spazio, in percorsi che devono avere una loro organizzazione. E avendo un’organizzazione hanno anche, inevitabili, dei momenti di conflitto. Quando si articolano tempi e spazi vi sono anche dei possibili malintesi che fanno venir fuori la necessità di organizzare dei momenti di mediazione e di comunicazione. Se abbiamo uno spazio con la possibilità di vedere la televisione, forse abbiamo la possibilità che vi siano diversi gruppi che vogliano vedere la televisione e, se lo spazio lo permette, tutti potranno stare insieme, ma se questo non fosse possibile bisognerà o trovare modo di avere un altro spazio per un’altra televisione, oppure organizzarsi perché ci sia un calendario di quello spazio per i diversi gruppi. I movimenti nello spazio esigono un’organizzazione con dei mediatori. Potrebbero essere dei buoni mediatori i segnali stradali ma che, in una comunità o in uno spazio educativo, non sono tanto utilizzati nella forma in cui li incrociamo andando in giro a piedi o in automobile, ma sono organizzati con cartelli, con tabelloni, con lavagne, con insegne, con indicatori che permettono di capire che cosa si fa in quello spazio, cosa si fa in quell’altro, chi ha occupato ha previsto di usare lo spazio per quell’attività il tal giorno, dalla tal ora alla tal altra, e chi invece si prenota per subentrare immediatamente dopo. Incomincia ad esserci bisogno di una certa organizzazione, e si può cominciare ad immaginare che qualcuno degli ospiti faccia parte anche dell’organizzazione, cioè diventi collaboratore attivo e in
qualche modo protagonista dell’organizzazione, facilitando i compiti del personale e nello stesso tempo assumendo delle piccole responsabilità nell’organizzazione della comunità. Verrà poi il momento, se non è già venuto, nella nostra immaginazione, che un certo modo di fare le cose e una certa attività abbia avuto la possibilità di utilizzare degli spazi esterni all’istituto: di andare, per esempio, in piscina fuori, o, altra possibilità, di permettere a persone che vengono da fuori, di venire nella piscina che abbiamo noi, dentro, di andare in una palestra attrezzata che è in un altro edificio, in una scuola, in un centro sportivo; oppure, noi abbiamo una buona palestra, il nostro istituto si mette a disposizione di una comunità più larga e non solo di chi è residente nell’istituto. Incominciano ad articolare gli spazi, e naturalmente anche i tempi, anche fuori; si intreccia, quindi, una certa attività che permette di ampliare le risorse, e di vederle non solo nel concentrato dell’istituzione ma anche in una rete di risorse esterne che permettono di individuare altre competenze, anch’esse esterne, perché possiamo in questo modo scoprire che abbiamo degli anziani, pensionati ma ancora capaci di dare una mano e capaci, quindi, di organizzare l’orto sulla riva del fiume, e quindi di andare a fare il nostro orto non più dove stiamo e dove abbiamo già stabilito delle nostre attività, ma una possibilità più lontana, ecc. Qui gli esempi si potrebbero moltiplicare: l’interessante di questa riflessione speriamo che sia il cogliere la possibilità di uno sviluppo, di un intreccio, e anche di un’apertura di occasioni, perché lo sviluppo di questo intreccio di tempi e di spazi può portare a capire come realizzare un altro punto importante dell’istituzione totale e cioè la crescita di altre occasioni.
2.4 - Nuove offerte, nuove occasioni
L’istituzione, valorizzata al suo interno, comincia ad essere interessata a collegarsi con altre istituzioni e forse a creare nuove proposte. Uno degli obiettivi di un’istituzione totale che cambia è quella di non aumentare sempre la sua popolazione. Facciamo un esempio: se un istituto ha una sua popolazione di 400 ragazzi bisogna che si ponga il problema di non aumentare il numero e, nello stesso tempo, di farsi carico e avere una responsabilità che permetta di rispondere ad altre richieste, ad altri bisogni di aiuto, non solo con l’ingresso nell’istituto ma con altre forme di risposta. Possono essere possibilità il rendere compatibile la vita in famiglia e la permanenza in orari di attività di giorno nelle occupazioni dell’istituto. Possono essere, però, anche l’attivare dei servizi di volontariato che permettano a ragazzi e ragazze che hanno dei bisogni particolari di avere delle esperienze residenziali esterne, in gruppi-famiglia. Possono quindi essere tante le risorse che si aprono e che hanno bisogno di una regia, non possono essere lasciate a loro stesse, devono avere il sostegno di una esperienza educativa competente che c’è proprio nell’istituto. Si rivaluta, quindi, e
si valorizza l’istituto, non tanto come spugna che assorbe, quanto come elemento organizzatore che sostiene gli impegni di altri che sono fuori dall’istituto. E certamente questa va fatto di concerto, di comune accordo con quelle altre istituzioni che hanno dei compiti, in rapporto alla risposta ai bisogni. Nasce quindi una possibilità che la trasformazione dell’istituto avvenga non solo con una riorganizzazione interna dei compiti che già aveva assunto, ma anche con una capacità progettuale, con una possibilità, quindi, che si proceda verso un ampliamento delle risposte, una maggiore possibilità di rendere personalizzate le risposte, e quindi con una possibilità di, ogni volta che vi sono dei problemi, quasi progettare la risposta più adeguata a quel problema, ma soprattutto di progettare la risposta più adeguata a quell’individuo: sempre più non leggere l’individuo come problema ma leggere il problema nell’individuo e nella sua storia, e nelle sue esigenze che sono originali e non possono essere fotocopiate dagli altri. Una delle realizzazioni più interessanti che un centro - l’istituto cambia nome e diventa più facilmente un centro di proposte, di servizi, di attività – può fare è quella che chiamiamo banca del tempo. Così come abbiamo detto per i laboratori, il nostro vocabolario indica una certa attività, una certa organizzazione, ma non vuole proporla proprio con queste parole. E’ possibile che in altri contesti i termini banca del tempo significhino poco o creino qualche problema di comprensione di cosa questo può significare. Cosa vorremmo dire? Vorremmo dire che si può organizzare un punto di riferimento per un intero quartiere, per un paese, per una cittadina, che permetta a chi ha un’ora di tempo alla settimana, un giorno al mese, un giorno festivo ogni tanto, da mettere a disposizione con delle risorse umane: una persona può saper fare qualche cosa che riguarda la cura del giardino, altri possono sapere lavorare a maglia, stirare, essere capaci di portare in giro la gente, di guidare un’automobile, sanno leggere a chi non ha modo di leggere; altri ancora possono fare della corrispondenza per chi desidera entrare in corrispondenza e non ha gli strumenti per farlo, e così via. Gli esempi si possono moltiplicare tanto quante sono le persone che incontriamo andando in una strada affollata. Di ciascuno di questi che offrono un tempo e una piccola loro qualità che ritengono di avere dobbiamo tener conto per poterli mettere in relazione a bisogni che non siano troppo pesanti perché non è utile appoggiarli a delle persone che hanno delle competenze di volontariato, e non delle competenze professionali. In questo modo noi potremmo non togliere il lavoro a chi lo ha professionalmente ma permettere a chi ha delle competenze professionali di utilizzarle al meglio e di essere accompagnato da altri soggetti, esterni alla professione, e quantomai utili perché i soggetti che richiedono delle attenzioni particolari incontrino una pluralità di individui e non solo gli addetti ai lavori professionali. Questo servizio è una possibile iniziativa di quelle che permettono all’istituzione di diventare centro di
riferimento per una pluralità di iniziative, che permette una pluralità di risposte, e che permette, nello stesso tempo, di fare un’opera di sensibilizzazione in un contesto allargato, utile per la prevenzione. Non intendo, qui, tanto la prevenzione primaria, quella cioè che impedisce l’insorgere dei bisogni particolari e dei problemi, quanto della prevenzione secondaria, cioè quella prevenzione che impedisce, ad esempio, la cronicizzazione delle patologie, le sostiene in un tessuto sociale. Proprio le iniziative, che l’istituto che ho voluto chiamare, poi, centro può prendere, sono capaci di stabilire delle reti sociali, e sappiamo quanto importante per ciascuno di noi è poter contare non soltanto sulle risposte professionali, ma anche su una rete sociale. A maggior ragione le reti sociali diventano importanti quando si tratta di crearle ed elaborarle in situazioni che hanno subito dei traumi non solo individuali ma collettivi, o grandi trasformazioni di carattere culturale, economico, sociale, e in cui quelle che erano le precedenti reti sociali si sono strappate, non sono più quelle che funzionavano, hanno bisogno di un elemento nuovo, non tanto che le sostituisca quanto che le faccia riscoprire. Poi, nel nuovo c’è anche la possibilità che vi sia il nuovo aggiunto. Ma quello che sembra importante in questa riflessione è il non enfatizzare troppo il nuovo quanto l’innovazione, la nuova possibilità di utilizzare le risorse che già c’erano, e forse incontrandone delle nuove. Nella possibilità progettuale la valorizzazione degli operatori incontra la necessità di avere nuove informazioni e anche di avere aggiornamenti informativi. Bisogna, cioè, essere competenti non tanto per delle operazioni che si ripetano tali e quali per tutto il nostro percorso professionale, dal giorno in cui abbiamo cominciato a lavorare al giorno in cui lasciamo per raggiunti limiti di età. Abbiamo bisogno, in questo percorso, di essere capaci di cambiamento, non i cambiamenti fini a se stessi ma dettati dalle esigenze che incontriamo, e dalla lettura originale di ogni esigenza. Non possiamo, quindi, operare per riduzioni, e incontrando dei bisogni originali ridurli in modo tale che stiano nelle caselle che avevamo già in qualche modo predisposto. Dobbiamo addizionare le cose che sapevamo già ad altre che dobbiamo imparare, che ci sono fornite dalle novità degli incontri umani, dei bisogni e dell’avanzamento delle ricerche. E’ questo intreccio che permette la valorizzazione piena delle differenze. Il nostro percorso ha valorizzato innanzitutto le differenze, quindi le distinzioni di originalità tra il personale, educatori e operatori in generale, accompagnando questa differenziazione del personale con la differenziazione degli ospiti, che poi sono diventati piano degli individui con dei percorsi e dei progetti di vita, la strutturazione di spazi e di tempi, i mediatori e le competenze da accrescere, rinforzandole, non buttando mai via nulla, ma rileggendo, riformulando, capendo meglio, e inserendosi – perché no – in quegli scambi più allargati che consentono a diversi paesi di confrontarsi, di lavorare a distanza e incontrandosi, e di scambiarsi le esperienze. Che bisogno c’è di scambiarsi le esperienze quando sono le stesse, perché le istituzioni
che chiamavamo totali funzionavano più o meno nello stesso modo a tutte le latitudini, e in tutti i paesi la finestra si apriva sulle montagne o sul mare ma quello che accadeva nelle stanze era lo stesso, sia in montagna che al mare. Aprendosi, le istituzioni cominciano a diventare ricche di esperienze e bisognose, anche delle esperienze degli altri, ricche e povere nello stesso tempo, ricche della loro esperienza ma anche povere in rapporto alle esperienze degli altri, e quindi curiose, curiose per vedere cosa succede in altri contesti, come vengono a loro volta valorizzate le loro esperienze, quali sono le ricerche attive. E’ utile, quindi, immaginare che una trasformazione del genere abbia come obiettivo più complesso quello di un sentirsi parte di una più ampia appartenenza, che non è solo più quella di un singolo paese, di una singola istituzione, ma è quella di una comunità educativa e scientifica comporta da tanti paesi; ciascuno con le sue forze contribuisce ad arricchire la comunità. E ciascuno sente che da solo non basta e che ha bisogno degli altri, un po’ come gli educatori e un po’ come gli ospiti: ciascuno è importante ma ciascuno ha bisogno degli altri e anche gli altri sono importanti. Tutto questo si riorganizza in una rivisitazione dei termini che sono quanto mai importanti per l’educazione degli handicappati. Uno è immediatamente presente in questa riflessione a chi la sta facendo: il termine autonomia, che cambia significato. Mentre l’autonomia nello schema delle istituzioni totali era quella che gli ospiti non avevano e non avrebbero potuto avere, perché era intesa e a volte è intesa come una capacità di fare, la riflessione nuova indica una autonomia fatta soprattutto di capacità di riferirsi agli altri, e quindi di individuare negli altri le persone che possono fare quello che un soggetto da solo non sa fare. Banalizzando molto questa riflessione, si può tranquillamente immaginare quello che accade a un bambino o a una bambina che dovrebbe prendere un oggetto posto su un ripiano a cui non arriva. Vi sono molte possibilità: o quella di fare in modo che, magari anche con qualche capriccio una persona adulta arrivi a quell’oggetto e glielo porga, o fare in modo che una persona adulta avvicini una sedia dove si arrampica quel bambino o quella bambina per prendere l’oggetto, oppure avere imparato ad avvicinare la sedia, salire sulla sedia e prendere l’oggetto. In tutti e tre le realizzazioni l’autonomia in quanto “far da soli” non c’è; in tutte e tre le organizzazioni vi è un fare insieme, anche insieme a una sedia, e non si arriva a una sedia mossa da uno stesso oggetto in totale autonomia se non c’è stata una possibilità di far muovere la sedia a un altro o di vedere un altro che muove la sedia, la avvicina, vi sale sopra, ecc. Quindi vi è una possibilità di leggere l’autonomia come un processo che implica, necessariamente, il rapportarsi agli altri. Più volte abbiamo indicato come autonomia - la buona autonomia - quella che permette di saper chiedere - e abbiamo anche detto come è importante sapere a chi chiedere, cosa chiedere e come chiedere. Non raggiungeremo con alcuni soggetti che sono dati alle nostre responsabilità delle autonomie intese come possibilità che ciascuno faccia tutto, ma possiamo
raggiungere delle autonomie intese come capacità di chiedere e sapere individuare la persona giusta, e sapere cosa chiedere e, fatto molto importante, come chiedere, perché chiedere agli altri può diventare l’elemento che rompe ogni possibilità di convivenza, si diventa estremamente noiosi, oppure si impara ad essere, nella richiesta che si fa agli altri, anche molto piacevoli, simpatici, utili, capaci di valorizzare gli altri. Non possiamo nascondere che tante volte, nella vita di ciascuno, il fatto che qualcuno ci abbia chiesto qualche cosa, anche di impegnativo e di faticoso, ci ha gratificato. Puntiamo su questo. Come educatori abbiamo la possibilità di riscoprire, o di rileggere, il termine autonomia con tutt’un altro significato rispetto a quello che il contesto dell’istituzione totale ci indicava come un punto irraggiungibile tra i soggetti di cui dobbiamo occuparci e di cui abbiamo una certa responsabilità educativa. Con l’autonomia come termine guida di una serie di altri termini si può allargare il discorso pensando anche alla nostra stessa autonomia. Ciascuno di noi non può ritenersi capace di risolvere tutto, anche professionalmente, ma deve capire quali sono gli elementi in cui il suo apporto è di valore ed è utile, quali sono, invece, gli elementi che vanno messi a disposizione, messi in mano, o per i quali va richiamata l’attenzione di altri, non necessariamente di altre professioni ma anche all’interno di una stessa professione vi può essere una capacità per fare certe cose in un educatore, per farne altre in un altro educatore. Ed è quanto mai salutare vincere le resistenze delle gelosie, capendo come sia molto proficuo per tutti permettere la valorizzazione, ancora una volta, delle competenze. Con l’autonomia nascono, appunto, delle nuove letture di altre parole che hanno, tra quelle più importanti, proprio il termine competenza. La competenza: come per l’autonomia, vale la stessa riflessione. Nelle istituzioni che chiamiamo totali le competenze erano ritenute assenti, o presenti in misura talmente larvale da non costituire una risorsa. Nell’articolazione di tempo, spazio, mediatori, nuove proposte, e tutta quest’altra apertura di prospettive, è quasi evidente che si declinano e si scoprono nuovi modi di poter interpretare il termine competenza, e quindi scoprire la possibilità che soggetti, che sembravano totalmente privi di competenza, ne dimostrino, in rapporto a determinati compiti, nuovi contesti, diversi da quelli in cui ripetutamente avevano trascorso la loro vita, e abbiano la possibilità di rivelare competenze.
2. 5 – Conclusioni Nel percorso della riorganizzazione delle istituzioni a volte vi è una fase molto tormentata, fatta di grandi resistenze al cambiamento ma anche di grandi entusiasmi - perché i cambiamenti sono interpretati anche come liberazione dalle catene, di grandi entusiasmi che hanno permesso a certi psichiatri di diventare delle figure importanti della nostra storia, in epoche anche lontane, all’inizio
dell’800, perché erano coloro che liberavano da situazioni molto chiuse, situazioni in cui, dopo, si è potuto leggere un certo grado di violenza, anche. Sono le letture che si fanno dopo perché le persone che vivevano e che si impegnavano non avevano, forse, nessuna voglia esplicita di essere violenti, ma erano le strutture, le circostanze che, col senno di poi, sono leggibili in termini di violenza. Momenti di grande liberazione, difficoltà a realizzarli ma anche grande entusiasmo: è l’entusiasmo dei pionieri. Passato il momento dell’entusiasmo e del cambiamento più difficile, anche, epico in qualche modo, diventa complicato mantenere la carica energetica, mantenere la tensione etica, per potere continuare, anche perché a volte vi sono dei malintesi. Qualcuno può intendere - è capitato in diverse circostanze – che uscire dalle istituzioni totali possa anche voler dire accorgersi, come per miracolo, che non esistono più persone problematiche, persone che abbiano problemi di limite, e invece ci si rende conto che i limiti ci sono, le persone continuano a soffrire, e che bisogna continuare a lavorare. Ed è proprio su questo “continuare a lavorare” che vale la possibilità di continuare a progettare e a confrontarsi, a lavorare in un concorso, in un concerto, in un confronto che sia ampio, perché è molto possibile che la grande carica dell’innovazione abbia poi un arresto per caduta di tensione, e anche per delusione, perché i problemi si ritrovano. Non è possibile, quindi, ingannarci e ingannare dicendo che l’istituzione totale ha creato la malattia mentale, l’insufficienza mentale. Ha creato, forse, una possibilità di non individualizzare e di non percepire l’originalità di ciascuno degli insufficienti mentali, dei malati psichiatrici, ecc. Ma dobbiamo renderci poi conto che il lavoro continua. Il lavoro continua e ha bisogno di una organizzazione quotidiana. Ed è su quello che abbiamo voluto incentrare la nostra riflessione, non sulle grandi trasformazioni di carattere politico, dei vertici, ma più su una possibilità che nel quotidiano si vivano delle trasformazioni significative che si organizzano attorno a un termine importante che è valorizzazione, valorizzare il singolo, valorizzare distinguendo il singolo dal mucchio. Non è più un mucchio ma ognuno è un individuo, con le sue caratteristiche, con i suoi valori. Questo ci permette di capire che mentre nell’istituzione totale avevamo a che fare con una base molto ristretta di esigenze e di risposte, tutto stava in un perimetro molto ristretto, invece aprendosi e ristrutturando tempo e spazi, mediatori, rituali, proposte, noi stiamo facendo un’operazione – la facciamo per ora col pensiero, e bisogna accompagnarla con i fatti – di allargamento della base su cui stiamo procedendo. E’ proprio la lettura di una base molto più ampia, di elementi che non sono organizzati in un concentrato, ma che permettono di disseminarsi, quindi perdono sicuramente visibilità. La necessità è quella di non sentire la perdita di visibilità – l’istituto si vede, l’azione sociale potrebbe essere anche nascosta, intrecciata a tutto quello che accade in un contesto civile – la perdita di visibilità potrebbe anche coincidere con una capacità gestionale che
deve vederci preparati, ed è su questo che dobbiamo ragionare per capire l’importanza della documentazione e della capacità di offrire agli altri una buona informazione documentata sul lavoro che stiamo svolgendo.
LA PEDAGOGIA SPECIALE, LA RICERCA E LA DOCUMENTAZIONE 3.1 La Pedagogia Speciale e la specificità della sua dimensione Lo statuto scientifico della Pedagogia Speciale non è sempre compreso. Questo può essere considerato un elemento comune a tante aree disciplinari. In particolare la Pedagogia Speciale rischia di essere capita come una disciplina o un’area disciplinare che aveva le sue ragioni di essere quando sovrabbondavano le strutture separate. A qualcuno potrebbe sembrare che la scelta di una prospettiva di integrazione permetta anche il superamento della Pedagogia Speciale e il suo assorbimento in altre aree disciplinari. Riteniamo che questo sia un errore, dovuto forse alla non conoscenza di una realtà come quella di chi ha dei bisogni particolari derivati da deficit. Crediamo utile specificare la dimensione dell’area in rapporto ai deficit, ossia a delle mancanze permanenti che possono creare svantaggi. Abitualmente viene usato il termine handicap, che dovrebbe indicare gli svantaggi e che sovente diventa il termine con cui si designa l’insieme di deficit e svantaggi. Nella specificità dell’area disciplinare è invece opportuno specificare la differenza fra deficit e handicap e chiarire che uno dei motivi di maggiore necessità della specificità dell’area disciplinare è proprio quello della riduzione dell’handicap o degli handicap. Tale riduzione, nella prospettiva dell’integrazione, esige delle competenze: competenze specifiche tanto più quanto esse debbano o desiderino raggiungere gli individui nel loro contesto di vita, e non portare gli stessi individui in un contesto speciale: istituto, ricovero, centro specializzato. "La Pedagogia Speciale è [……] innanzitutto, Pedagogia, ha lo stesso oggetto di questa, cioè di problemi relativi all’educazione, ma come campo di ricerca, si è staccata dalla Pedagogia Generale, conservandone tutti gli elementi fondanti e aggiungendo degli specifici, rispondenti a quelli che abbiamo individuato come “bisogni educativi speciali” dei soggetti con situazioni particolari. La diversità alla quale guarda la Pedagogia Speciale è dunque quella comprensibile su un piano genetico-funzionale, come risultante di processi mentali, psicologici e/o comportamentali che, per la presenza di una condizione handicappante, hanno avuto una loro strutturazione che si è allontanata dalla normalità, cioè si è discostata dalle linee con le quali tali processi evolvono e si strutturano nel soggetto considerato normo-dotato". (M.Gelati, 1996, p.14). Questa indicazione di Maura Gelati fa riferimento a condizioni handicappanti che vengono ritenute quelle che fanno nascere bisogni particolari permanenti. Questo non significa che gli handicap rimangano sempre tali. Handicap come svantaggi hanno bisogno di un intervento di carattere scientifico per essere ridotti. Non sempre le condizioni handicappanti sono già conosciute. Vi è quindi un’interpretazione della Pedagogia Speciale che ha come necessità la ricerca delle condizioni in cui possono insorgere gli handicap.
“La Pedagogia Speciale” non può dunque limitarsi a porre attenzione all’handicap ufficialmente riconosciuto e “certificato”. Se questo è un atto dovuto, è pur vero che il suo compito è più esteso e delicato. Senza invadere il campo della psicoterapia, il suo compito sembra proprio quello di individuare le aree problematiche e le questioni che richiedono una interpretazione per mettere in atto un intervento speciale intendendo con questo termine un intervento non comune in attesa di diventare comune, ricorrente, e condiviso. Il compito della Pedagogia Speciale è dunque di rendere sempre più speciale ogni forma di intervento educativo facendo diventare patrimonio comune la capacità di cogliere i problemi e la competenza
nell’affrontarli,
la
padronanza
nell’ipotizzare
opzioni
nelle
risposte
educative".
(F.Montuschi, 1997, pp.163 – 164”). Come si può vedere La Pedagogia Speciale è un divenire, ha compiti esplorativi, deve dare risposte a bisogni che a volte sono già conosciuti e a volte sono da individuare e deve, nello stesso tempo, cercare di rendere ordinarie le attenzioni speciali. Questo dovrebbe essere facilitato dalla prospettiva dell’integrazione. Ma proprio nella prospettiva dell’integrazione, già lo dicevamo, vi è il rischio di considerare la Pedagogia Speciale come una disciplina, o un’area disciplinare , superabile, annullabile. E’ diverso parlare di annullare e parlare di integrare. In una dimensione un po’ paradossale si potrebbe dire che l’integrazione esige una maggiore identità. Esige una possibilità di collaborazione sapendo che questa non porterà a sparire. Le necessità di risposte specifiche sono anche necessità di competenze tecniche altrettanto specifiche; non solo tecniche ma culturali in un senso ampio e, quindi con un fondamento scientifico. E’ proprio questa la principale ragione per cui si può parlare della Pedagogia Speciale in rapporto a compiti di ricerca e quindi a necessità di documentazione.
3.2 I compiti della Pedagogia Speciale nella realtà odierna Come abbiamo già in parte annunciato un compito importante della Pedagogia Speciale è quello di dare risposte specifiche a problemi particolari o, come dice Montuschi, non comuni. Nella prospettiva dell’integrazione tali risposte hanno bisogno di essere ampiamente ripensate e riformulate per poter essere maggiormente adatte alle necessità del singolo in rapporto al contesto e allo sviluppo, quindi, della sua interazione con il contesto. La specificità dei compiti attuali della Pedagogia Speciale derivano dal fatto che proprio la Pedagogia dell’integrazione ha sempre più sottolineato la multicausalità di una situazione di handicap. Schematizziamo per rendere più comprensibile questo passaggio non sempre facile. Con le strutture speciali è più semplice considerare l’individuo come appartenente a una categoria speciale. E’ semplice quindi individuare i bisogni di un individuo dal momento che lo si definisce per il deficit che lo caratterizza: insufficiente mentale, ad esempio. Nella prospettiva dell’integrazione la caratterizzazione per il
deficit è solo un elemento, sia pur molto importante, che non può essere né dimenticato, né demagogicamente ritenuto trascurabile. L’accettazione dell’altro come appartenente a pieno titolo alla cittadinanza non può annullare le differenze. Nella nostra tematica le differenze sono anche bisogni particolari. Ma se la categoria di insufficienti mentali poteva far ritenere che tutti coloro che entravano in questa categoria avessero gli stessi bisogni, o addirittura si poteva dire lo stesso bisogno, e quindi potevano avere una risposta omologabile per tutti, le necessità individuali risaltano nella prospettiva dell’integrazione. E vi è quindi la necessità di rendere bisogni specifici dovuti al deficit come integrati, ancora questa parola, nella persona originale, nell’individuo. Questo permette di personalizzare il trattamento comunicativo e permette anche di utilizzare quel termine che abbiamo già proposto: multicausalità. Affrontiamo in particolare la situazione di handicap, ossia gli svantaggi, cerchiamo di ridurre gli handicap e dobbiamo renderci conto che essi sono provocati non da una causa sola ma da più cause, e quindi esigono più risposte. La multicausalità si collega con la multimodalità: diversi modi per rispondere alle esigenze di un individuo. Questa caratteristica è proprio della Pedagogia Speciale ma non è esclusiva di tale area disciplinare. Vi possono essere, quindi, altri collegamenti con altre discipline che vivono la stessa problematica di ricerca. I compiti della Pedagogia Speciale sono quelli di ridurre in termini pedagogici, e quindi in proposte educative, le risultanze delle ricerche che collegano causalità e multimodalità: Nella specificità dell’assunto di chi scrive queste pagine, il riferimento utile sembra essere quello alla Pedagogia Istituzionale che ha il misconoscimento, in generale, perché la si fa spesso assorbire ad una presunta individuazione di Rogers come ispiratore, mentre non ha rapporto se non come tanti altri studiosi; oppure la si fa derivare da elementi soprattutto relazionali, con qualche punto di riferimento interessante ma che dovrebbe essere chiarito, e cerchiamo di farlo in due righe. Istituzionale significa complementarietà di istituito e di istituente, di già dato e di divenire, quindi possibilità di prendere in considerazione ciò che è già costituito, e da lì far scaturire lo spazio costituente. Costituente può voler dire progettante, che ha una sua proiezione nel futuro e che deve, nello stesso momento, rendere organizzata la progettazione. L’elemento organizzativo è importante. E’ importante in funzione di una necessità continua di considerare gli elementi di centralità del progetto e gli elementi di sbilanciamento. Centralità non significa un datato: è centralità nel progetto; cioè qualcosa che deve poter essere riorganizzata ogni qualvolta si sposta la dinamica del progetto stesso. Queste righe sono probabilmente troppo brevi. Hanno la giustificazione unica di potere far capire, o di tentare questo, che la Pedagogia Speciale è uno degli elementi componenti di un intreccio ampio di più aree disciplinari e l’apporto che può dare la Pedagogia Speciale è quello relativo alla riformulazione e all’individuazione di risposte in un contesto integrato che permetta la scomparsa
dello strumento specifico. Questa forse è la peculiarità della Pedagogia Speciale moderna: l’affrontare problemi non comuni e desiderare di fare scomparire la “Specialità”; nello stesso tempo il volere, ed è questo il punto più paradossale, mantenere la propria specificità. Probabilmente chi è molto lontano dalle nostre tematiche può smettere di leggere, e forse siamo noi a non farci capire bene. Potrebbe dire: ma questi cosa vogliono? E in effetti la Pedagogia Speciale vuole esistere in quanto tale ma scomparire il più possibile nelle pratiche, riuscendo ad essere una risposta competente nei contesti ordinari. Se questo modo di porre il tema può sembrare solo una originalità paradossale, è più semplice, però, rintracciarne la sua autenticità facendo riferimento alle necessità: necessità di risposta a problemi di comunicazione che non sono riducibili alla buona volontà. Esigono delle tecniche, esigono degli ausili, problemi di apprendimento, sia formalizzato che informale, di comportamenti sociali, problemi che riguardano la sfera dell’intimità, la sessualità, aspetti importanti che riguardano la differenza che può esservi tra le conoscenze che si avevano quando molti soggetti vivevano in istituzione chiusa e le nuove conoscenze che si devono raccogliere, negli stessi tipi di soggetti che vivono una realtà aperta. Si pensi, ad esempio, alla Sindrome di Down. La Sindrome di Down aveva delle caratteristiche molto legate al tipo di vita che veniva proposto, se si può dire così, o imposto, come forse è più giusto dire, ai soggetti. Nello specifico vi erano molte riduzioni di possibilità, dovute a elementi organici, e potevano fare pensare, con molta legittimità, che fosse proprio della Sindrome di Down non permettere all’individuo lo sviluppo di certe facoltà, di certe possibilità. La realizzazione di una vita sociale, la possibilità di crescere insieme agli altri, bambini e bambine, di diventare adulti insieme ad altri, uomini e donne, ha spostato i termini del limite anche organico. Ad esempio (esempio nell’esempio) l’invecchiamento: Qualche decennio fa non era neanche un problema perché non esisteva, o esisteva talmente raramente da non costituire un elemento di particolare studio e ricerca. Oggi, nel nostro mondo europeo, la presenza di persone adulte Down che raggiungono i sessanta anni è una realtà. In molte situazioni veniva percepita l’età adulta come un’età in cui vi era la possibilità dell’Altzaimer, ed era quasi scontato che la persona adulta Down sui quaranta anni presentasse
dei sintomi di invecchiamento caratteristici dell’Altzaimer. Oggi
questo è in gran parte cambiato ed esige nuove ricerche. Dove vanno fatte queste ricerche? Non certo nei luoghi dove un tempo si potevano fare, cioè negli istituti. Vanno fatte nella realtà di vita delle persone, delle loro famiglie, nei luoghi di lavoro, protetto o non protetto, nei centri di socializzazione, nelle strutture, quindi, della vita sociale che hanno molte caratteristiche comuni a soggetti che non hanno la Sindrome di Down. Cambiano le esigenze di ricerca, cambiano i profili dei problemi da affrontare, devono cambiare certamente anche le risposte, ma non possono perdere quella specificità che deve essere peculiarità della Pedagogia Speciale; non possono riprendere,
però, la separatezza. Specificità non equivale a separatezza. E’ per questo che riteniamo fondamentale ragionare sulle competenze che la Pedagogia Speciale ha il dovere di avere. Come ogni compito difficile, anche la Pedagogia Speciale può incontrare non pochi rischi.
3.3 I rischi che la Pedagogia Speciale può incontrare. Il cammino della Pedagogia Speciale ha delle difficoltà che si sono sempre espresse e che oggi noi cerchiamo di vedere nelle realtà in cui viviamo. Non sono rischi tali da renderli così diversi da altre discipline, ma hanno ancora una loro specificità propria di quest’area disciplinare. E’ una navigazione
difficile
tra
due
scogli,
la
lontananza
della
ricerca
e
il
coinvolgimento
dell’accompagnamento. La lontananza della ricerca è il rischio che corrono molte discipline. La ricerca ha bisogno di una presa di distanza dai compiti più attuali, più immediati. Ha bisogno di costruire un quadro di riferimento concettuale che superi l’empiria. Sicuramente ha bisogno di una dimensione di carattere storico. Ha bisogno quindi, nel caso della Pedagogia Speciale, di capire in che dimensione si colloca un intervento rispetto a una molteplicità di interventi nella storia, in che modo si colloca una tecnica rispetto alle altre tecniche e rispetto anche alle dimensioni etiche che non sono da trascurare e che non possono essere considerate, però, degli assoluti, e che bisogna rapportare ai contesti. Vi sono necessità di intrecci continui tra elementi che devono essere reperiti non nel contesto vivo ma nel contesto scientifico, che è nello stesso tempo vivo e simbolico, più complicato. Questo può portare alla lontananza della ricerca, una lontananza che a volte è stata, nel caso della Pedagogia Speciale, una protezione che ha permesso di elaborare interventi di grande importanza, utilizzabili, però, solo quando la lontananza è diminuita, quando il richiamo dei contesti reali è stato accettato e quando vi è stata la possibilità di “sporcare” la ricerca per mettere a confronto i propri strumenti, i propri risultati, con i risultati della contingenza, con la contingenza stessa. La lontananza della ricerca è il rischio del laboratorio. Henry Wallon, così come Vigotsky, avevano molte riserve per una ricerca educativa fatta in laboratorio, non tanto per una questione morale quanto per un rapporto di efficacia, che permettesse alla ricerca di mantenere saldo il collegamento con la stessa realtà di studio. Si potrebbe dire che questo è un elemento comune a tante discipline delle scienze dell’educazione. Vi è però qualcosa di più specifico dovuto alla stessa storia della Pedagogia Speciale per gli elementi che abbiamo già illustrato di una area disciplinare che poteva essere interpretata come quella della separatezza, quindi come quella che per mantenere un suo statuto di ricerca deve riprendere una certa separatezza. Ma, d’altra parte, lo scoglio del coinvolgimento dell’accompagnamento, come lo abbiamo chiamato, è altrettanto pericoloso perché può portare a considerare unicamente gli elementi di implicazione: implicazione in un rapporto diretto, nella realtà viva; e quindi a considerare come doveroso il coinvolgimento nelle vicende dei
singoli al punto di non sapere prendere delle distanze per collocare quegli stessi avvenimenti, di quelle stesse vicende, in un quadro più ampio. La Pedagogia Speciale ha vivo questo senso dell’attuale, del corrispondere alle necessità dei soggetti. E questo è un punto di forza ma implica anche un rischio, il rischio che si vive quando si ha la possibilità di integrare il proprio ruolo in funzione di una relazione umana. E’ un elemento di ricchezza ed è anche un forte condizionamento della propria attività scientifica. Accettare questo condizionamento per saperlo organizzare in una prospettiva di ricerca significa poter compiere, ed è molto difficile, un ruolo nello stesso tempo di coinvolgimento e di distacco. Il primo è il rischio di rimanere molto attaccati alle tipologie e alle competenze relative ai singoli deficit, quindi alle categorizzazioni, alla possibilità, che è data, di avere competenze ancorate alla specifica definizione del deficit. E allora si possono avere le competenze tiflologiche,. Ossia le competenze legate ai problemi della vista, come elementi separati in cui la realizzazione dello studio e della ricerca è legato a una continua estrapolazione dalle vicende, per esaminare unicamente, e non è poco, quindi non vorremmo essere ingenerosi nei confronti di questo atteggiamento, gli elementi che riguardano la problematica della vista. L’altro scoglio può essere riletto come la necessità di conoscere il singolo soggetto, quindi di non procedere a delle amplificazioni e delle generalizzazioni legate a vicende di singoli. E allora sarà più l’attenzione alla vita di un singolo soggetto con problemi della vista, come nell’esempio fatto, che non la comprensione dei meccanismi di apprendimento, o l’organizzazione delle percezioni ad esempio, in coloro che sono privi della vista. Si è più calati sulla storia di un caso. Ancora si possono leggere questi due possibili scogli come, il primo, la necessità di riferirsi alle strutture legislative, alle strutture organizzative, ed anche, quindi, ai dati statistici da mettere in correlazione con tali strutture; il secondo, invece, è il riferimento continuo alle esperienze, con gli episodi che le documentano. Ancora, si può leggere i rischi di quantità e di qualità. Badare solo alla quantità, ai numeri, ai dati, oppure badare unicamente a dei frammenti di qualità. Si possono ancora riprendere questi due scogli come, da una parte, l’estensione e il desiderio di un tema, magari specifico, di dare degli elementi di grande vastità, e dall’altro lo scoglio del piccolo frammento, prezioso, che consenta di avere un elemento di qualità ritenuta rara. Il contributo di una Pedagogia Speciale che sappia fronteggiare questi rischi può essere significativo, anche in rapporto ad altri rischi che sono largamente comuni alle aree disciplinari messe sempre in discussione. Paradossalmente chi si sente messo sempre in discussione, e viene trascurato, dimenticato, corre di più il rischio di considerare in maniera ipertofica la propria identità, e quindi di essere un linguaggio autoreferenziale o di considerare ed esclusivamente con i propri sentimenti la realtà, di considerare la propria condizione di marginalità un punto che consente di sviluppare il vittimismo, vale a dire la capacità di utilizzare lo statuto di vittima per trarne dei vantaggi.
Questi rischi possono essere a volte contrapposti a quello della dimensione biologica, del prendere in considerazione unicamente degli aspetti che fanno della Pedagogia Speciale una scienza parabiologica. Il tema dell’identità può essere rapportato all’identità dell’altro; il rispetto dell’identità può essere vissuto sottolineando l’eccezionalità dell’altro senza vedere l’intreccio di eccezionalità e di ordinarietà che è nell’altro; e considerare un individuo handicappato come una eccezionalità da rispettare senza ammettere che la ricerca è anche intrusione, è destabilizzazione, è entrare in una situazione non per rispettarla ma per rispettare la dignità, che è altra cosa. Non per rispettare la situazione, perché la situazione di handicap va invece modificata: bisogna ridurre l’handicap. Vi è poi un rischio ulteriore che è quello del contrapporre identità culturale e interazione sociale, o di mettere in rapporto gerarchico queste, di considerare il proprio ruolo, la propria dimensione missionaria come un elemento prioritario rispetto a tante altre discipline, e quindi farsi portavoce di chi non ha voce, in termini che possano diventare un elemento di preziosità, in qualche modo contribuendo al mantenimento di uno statuto separato e non lavorando per l’integrazione. Tutti questi rischi fanno parte della Pedagogia Speciale, ed è proprio ritornando a considerare la Pedagogia Speciale e la sua situazione paradossa che riflettiamo sulla necessità di far fronte ai rischi con un collegamento della Pedagogia Speciale e della ricerca a cui è chiamata con le strutture che chiamiamo documentazione.
3.4 La necessità della documentazione Nel 1873 in occasione della esposizione universale di Vienna, Edouard Séguin fu invitato dal governo Statunitense, in qualità di commissario speciale per l’educazione e dagli stessi organizzatori dell’esposizione. In quella occasione Séguin compì un viaggio di studio nei paesi europei e scrisse, in seguito, un rapporto sull’educazione, apparso nello stesso anno 1873 in edizione statunitense, e ripreso, in lingua francese, nel 1895. Tale rapporto contiene un percorso. Riguarda i bambini piccoli, la loro educazione "“nel ventre della madre", come dice lo stesso Séguin, nei primi anni di vita, nelle organizzazioni infantili che sono gli asili e i giardini di infanzia, e quindi le scuole infantili, riguarda l’educazione dei sensi, il sistema muscolare, la lezione delle cose. Questa è l’esposizione del percorso educativo dei normali. In una seconda parte Séguin esamina i progressi realizzati dal punto di vista dell’educazione dei sordomuti. Allora il termine era largamente impiegato, oggi è fortemente criticato. E nella terza parte del rapporto Séguin tratta l’educazione degli idioti e dei deboli di spirito. Si trattava di esaminare, in rapporto all’educazione di tutti, quello che erano i bisogni speciali di bambini con caratteristiche diverse. Ricordiamo questa opera di Séguin come uno dei capisaldi di una documentazione cercata e prodotta nello stesso tempo. Edouard Séguin ebbe una grande attenzione nei confronti di quella pluralità di committenti
che può essere sempre presa in considerazione da chi ricerca e studia. Nello specifico della Pedagogia Speciale i committenti comprendono anche le persone “speciali” ed il proprio io ideale, quello che ciascuno dei ricercatori, degli studiosi, così come delle ricercatrici e delle studiose, desidera essere. E’ indubbio che la Pedagogia Speciale, come d’altra parte quasi tutte le scienze dell’educazione, sollecita il narcisismo e quindi consente di sentire la propria attività e la propria ricerca come particolarmente indispensabili. E’ indubbio che la possibilità di rendere meno difficile la vita di qualcuno possa tradursi in un senso quasi di onnipotenza. Proprio per questo consideriamo importante riflettere sui committenti. Tra i committenti vi è anche il committente-amministratore, il committente sociale, che deve tenere conto di una composizione di risorse e di interessi, che non può permettere che un tema sia la nota dominante. Per questo la documentazione può essere messa in rapporto con i diversi committenti. In sé il termine “documentazione” ha la possibilità passiva di essere utilizzato da chi vuole documentare e vuole documentarsi solo secondo le proprie aspirazioni e le proprie convinzioni. Vorremmo qui, invece, richiamare la documentazione come la necessità particolarmente importante per la Pedagogia Speciale e la sua area disciplinare, di vivere la documentazione come uno scambio multiplo e quindi, per questo, l’abbiamo riferita e raccordata anche alle molteplicità dei committenti. Uno studioso svizzero parla di una Pedagogia Specializzata, o Speciale, intelligente. Cosa vuol dire questo? Dice che l’intelligenza significa, in questo caso, sinonimo di sfruttamento delle risorse naturali per economizzare, nelle installazioni tecniche costose, senza trascurare il benessere dell’uomo e il suo miglioramento. E’, secondo questo studioso, un principio che dovremmo adottare, senza tardare, in Pedagogia Specializzata o Speciale: sforzarsi di aumentare la qualità della vita degli utenti e, nello stesso tempo, arrivare a ridurre i costi delle prestazioni. Attorno a questa Pedagogia Speciale intelligente chiama a raccolta gli altri studiosi (G.Stauny – Bossart, 1999). Questo richiamo potrebbe essere mal interpretato se escludessimo gli altri committenti. E’ evidente, ancora una volta, che si può utilizzare un aspetto in termini esclusivi e ridotti all’attualità, e si può quindi interpretare il compito della Pedagogia Speciale come un intervento nell’attualità e nell’economia del momento. Documentarsi e documentare con una pluralità di committenti significa capire come si possa economizzare, ma anche capire come si possa trasformare un’economia tenendo conto delle necessità e dei bisogni speciali. Sosteniamo con questo che la Pedagogia Speciale debba investirsi di una competenza tipica degli economisti. Deve, però, saper leggere anche l’economia, quindi deve sapere completare la propria conoscenza utilizzando la conoscenza e la competenza degli altri. Questa pluralità di committenti è un elemento importante in rapporto alla documentazione. E’ difficile stabilire dei confini precisi o addirittura assoluti alla documentazione utile per la Pedagogia Speciale. Ed è difficile anche stabilire dei confini precisi all’apporto della Pedagogia Speciale. Questa seconda
questione è meno labile perché vorremmo ricordare il significato di Pedagogia Speciale come apporto per bisogni non comuni, e quindi come una tematica con lo studio, riflessione, ricerca, riportata sempre al contatto con una popolazione che si può anche definire “speciale”. Questo contatto è importante. Noi potremmo pensare che la documentazione è il collegamento problematico continuo fra l’esperienza e ciò che è riportato dall’esperienza: la testimonianza, il diario di bordo, il racconto, la storia di vita, ma anche, oggi più di ieri, le immagini, la rappresentazione, e la documentazione formalizzata nella ricerca. E’ un collegamento, la documentazione, fra le pratiche, e l’elaborazione teoretica. In questo senso il documentare Pedagogia Speciale può essere più definito, mentre il documentarsi, per la Pedagogia Speciale, è avere un orizzonte che si sposta sempre, con tutte le possibilità di imbroglio che vanno tenute presenti. Quando si deve o si vuole entrare in ambiti disciplinari diversi dal nostro, abbiamo la possibilità di raccogliere degli elementi, di trasportarli senza avere la competenza della loro collocazione di campo. Abbiamo la possibilità di fare riferimento a chi è biologo, ad esempio, ed ha una cultura e quindi una possibilità di parlare a partire dalla propria ricerca e dalla propria competenza di biologo; noi possiamo estrapolare e commettere qualche uso improprio. Queste sono possibilità indubbie. Abbiamo però anche la necessità, il dovere, di aprire a una documentazione quasi senza confini le esigenze, le tematiche della Pedagogia Speciale. Pluralità di committenti significa anche questo: necessità di percorrere degli itinerari che assumano tutte le informazioni necessarie a completamento di elementi che potrebbero apparire solo in rapporto alle necessità evidenti della Pedagogia Speciale. Vi sono possibili esempi. Trascurare le storie i contesti storici in cui sono emerse delle proposte, in cui sono state realizzate delle ricerche a volte significa non comprendere la necessità, che a loro volta i ricercatori e gli studiosi hanno avuto, di tenere conto della pluralità dei committenti. E' uno degli elementi che riteniamo più interessanti per capire cosa accadde, negli Stati Uniti, con il venir meno del Welfare State Kennediano, quando, cioè, la dimensione solidaristica, che sicuramente era presente nella realizzazione e nella ricerca di Pedagogia Speciale, si dovette trasformare in una dimensione che potremmo anche chiamare scientista. Il committente, inteso come apparato politico – amministrativo, poteva corrispondere risorse in una chiave scientifica, e abbiamo detto anche scientista, mentre aveva difficoltà a corrispondere analoghe risposte se rimaneva il quadro solidale e solidaristico. E' comprensibile che in poco tempo nascessero programmi e strumenti che, riportati in altri contesti e trascurando le ragioni di origine, rischiano ed hanno rischiato di divenire neutri e assoluti. Documentazione significa anche questo: evitare che una proposta, una ricerca, assumano un carattere neutro ed assoluto. Per questo riteniamo importante, riferendosi allo specifico di progetti e metodi riabilitativi, procedere a un’indagine che permetta di avere, il più possibile, elementi di
conoscenza di carattere storico e metodologico. E per questo riteniamo utile proporre una scheda che abbia questa caratteristica. Di ogni proposta possiamo vagliare l’albero genealogico, la collocazione nel tempo e nello spazio, i bisogni a cui ha cercato di dare risposta, la possibilità di ampliamento per altre necessità e i collegamenti, oltre che le variabili. Importante è anche conoscere i punti deboli, i limiti, le controindicazioni. E’ possibile che non si riesca ad avere tutte queste conoscenze ma anche questo è un elemento di documentazione di conoscenza. Abbiamo bisogno, quindi, di procedere con una curiosità che permetta di evitare l’enfasi o il rigetto, il rifiuto di particolari indicazioni tecniche. La Pedagogia Speciale, come altre aree disciplinari, proprio per quelle ragioni che abbiamo già detto e che sono riassumibili nei termini di multicausalità e multimodalità, ha oggi più di ieri la necessità di documentarsi e di documentare, cioè di rispondere a delle richieste ma anche di fare delle richieste, di porsi delle domande, di cercare di sapere se esistono già le risposte o se vanno ancora ricercate. Avere delle risposte plurime vuol dire attivare delle strutture dialogiche con le altre aree disciplinari. Vuol dire potere collaborare e, a volte, anche confrontarsi o scontrarsi con le strutture della ricerca che hanno in molte situazioni una struttura gerarchica e di potere, dettata dalle attribuzioni di compiti, in parte, e in parte anche da quelle che possono essere definite le rendite accademiche. L'area della Pedagogia Speciale ha scarse rendite accademiche e molte richieste. E questa può essere una morsa che stringe. La possibilità di uscirne è data anche dall'utilizzazione, nella documentazione, di quella che potremmo chiamare una logica ipertestuale: la possibilità di leggere le tematiche della Pedagogia Speciale come si è portati a fare con un ipertesto, facendo, cioè, “esplodere” parole concetti e anche situazioni, per vedere tutte le implicazioni possibili ma anche per scegliere quali implicazioni percorrere. Vi è, nella documentazione, un’assunzione di responsabilità. Non è possibile, neanche umanamente, percorrere tutte le implicazioni: bisogna poterle sceglierle. Ed è questa scelta che deve avere, da parte del ricercatore, delle domande dei committenti. Se prendiamo in considerazione unicamente le domande esplicite, le domande visibili, le più clamorosamente visibili, potremmo trascurare domande più importanti, implicite, o fatte in modo tale da dovere essere ricercate. Questo è il compito interessante, appassionante, ma anche molto difficile, che la Pedagogia Speciale
oggi si
propone, e questo collegamento fra un’area disciplinare, la ricerca e la documentazione diventa tanto più importante in quanto la Pedagogia Speciale ha assunto la prospettiva dell’integrazione. Perché è importante? Per molte ragioni, ma ne vogliamo sottolineare soprattutto una. L’integrazione a volte è letta soprattutto attraverso l’integrazione scolastica. Ma noi vorremmo tenerla aperta anche alla cultura, alla scienza, alla socialità, al sociale, all’economa. Ebbene, l’integrazione ha avuto degli sviluppi dal momento in cui si è mossa una società. Per l’Italia l’emigrazione interna ha fatto saltare schemi che sembravano molto praticabili e che riguardavano insegnamenti differenziati,
scuole differenziate. Non più percorribili quegli schemi si è fatta strada la prospettiva dell’integrazione. Per ragioni ben più drammatiche in altri paesi le grandi masse di persone che si sono spostate per catastrofi, per guerre, hanno reso vulnerabile una parte della popolazione, soprattutto infantile, e, ancora una volta, gli schemi che permettevano di rispondere a bisogni per categorie non sono stati più praticabili ed è nata una necessità di integrazione. La Pedagogia Speciale ha un compito importante: aggiungere qualità a necessità. E la qualità può essere ricercata proprio attraverso questi collegamenti fra l’area disciplinare, la ricerca e la documentazione.
3.5 Scheda per le proposte riabilitative Espongo sinteticamente i punti che considero importanti nel prendere in esame un percorso riabilitativo. 1. Il quadro storico specifico. Intendo con questo, una precisa descrizione dell’origine di ogni metodo, del contesto in cui si è realizzato, in rapporto a quali soggetti ha avuto le prime prove pratiche, in quale realtà istituzionale; a quali precedenti si è ispirato, ed a quali precedenti storici può essere accostato; come è stato diffuso, o divulgato, in quali contesti. 2. La chiarezza delle controindicazioni. Sembrerebbe superfluo – e a volte non lo è – dire che un processo riabilitativo può dare esiti positivi per alcuni soggetti, nessun esito per altri, ed esito negativo per altri ancora. A parte il naturale ruolo che vi è sempre per l’imprevisto, è necessario avere una previsione la più possibile accertata. 3. La capacità di integrazioni congruenti. Intendo con questo, la possibilità che vi sia un processo di integrazione fra le attività riabilitative e le altre attività del soggetto, e che di conseguenza possa delinearsi un progetto esistenziale che non coincida esclusivamente e totalmente con il percorso della tecnica riabilitativa. Questo punto può essere espresso anche attraverso due indicazioni: a. dal punto di vista dell’educazione, è fondamentale evitare che la vitalità venga risucchiata dall’invalidità e dalla situazione di handicap: bisogna evitare che la vita diventi l’ombra della difficoltà; ovvero: che diventi esclusivamente riabilitazione. b. La centralità dell’individuo non deve essere resa periferica da una presunta centralità della situazione di handicap. Tutto questo si riassume nella possibilità di integrazioni congruenti. 4. La chiarezza circa gli errori compatibili e la conseguente rielaborazione del percorso riabilitativo. Questo punto indica la necessità che vi sia un margine esplicitato di tolleranza all’errore, per evitare che il presupposto di un modello riabilitativo idealmente perfetto colpevolizzi oltre misura il soggetto stesso che opera.
NOTE BIBLIOGRAFICHE M.GELATI, Pedagogia Speciale problemi e prospettive, Corso Edit., Ferrara 1996 F.MONTUSCHI, Fare ed essere. Il prezzo della gratuità nell'educazione, Cittadella, Assisi, 1997 A.BRAUNER, A.MICHELET, Ecrits de Edouard Séguin 1812 - 1880, Groupement de recherches pratiques pour l'enfance, Saint Mondé, 198 G.STAUNY - BOSSART, Plaidoyer pour une "pédagogie spécialisée intelligente", in "Pédagogie spécialisée", Lausanne - Lurern, 1, février 1999
LE RAGIONI DELL’INTEGRAZIONE 4. 1. Evitare un’educazione isolata In un filmato del Canada, e più precisamente del Québec, del 1973, vi era un’ampia spiegazione della Sindrome di Down. Il filmato era fatto con molta cura e, a distanza di anni, rivela alcuni elementi di pregiudizio che non possono colpevolizzare gli autori. In particolare può essere utile soffermarsi su alcuni passaggi per capire, non tanto gli aspetti che possono risultare datati, quanto una logica, che si potrebbe chiamare di apprendimento isolato. Il video mostrava una lezione di matematica. Si svolgeva con la preparazione dell’ambiente, svolta dal solo insegnante, senza la presenza degli allievi. La preparazione consisteva nel disporre tavoli in modo tale che formassero un cerchio, evitando che lo sguardo fosse attratto dalle finestre aperte sul paesaggio. Vi era poi la cura del materiale, peraltro semplice, composto di gettoni e caramelle, e quindi entravano gli allievi. Erano pochi, un piccolo piccolo gruppo, formato da soggetti Down. L’insegnante svolgeva la sua attività impegnando ciascuno di loro in un calcolo che aveva il possibile rapporto concreto con le caramelle o con i gettoni. Si trattava di scambiare, di sottrarre, di addizionare e dividere, facendo sempre riferimento a degli elementi manipolabili, concreti: caramelle o gettoni. Questa situazione aveva una sua logica che abbiamo chiamato dell’apprendimento isolato. Ciascuno dei soggetti doveva apprendere in rapporto ad una dinamica gestita interamente dall’insegnante e il supporto stesso, gettoni e caramelle, era a disposizione dell’insegnante. Proviamo ad immaginare alcune modifiche alla stessa scena. Proviamo a immaginare che anziché svolgere quelle modeste operazioni di preparazione dell’ambiente e del materiale da solo, l’insegnante le svolga con l’aiuto degli allievi. Proviamo a immaginare che questa operazione sia svolta raccontando quello che si fa e anche perché lo si fa. Pensiamo che il materiale abbia una sua collocazione abituale, in un armadio, e possa essere tirato fuori, scelto quindi, forse tra altri materiali, sulla base di una anticipazione di quello che si dovrà in qualche modo fare. Pensiamo che le caramelle abbiano un’origine, non sono certamente già lì, o se erano lì lo erano da un tempo non infinito. A differenza dei gettoni, che non sono materiale deperibile, le caramelle, non come altri prodotti alimentari, certamente non possono rimanere per anni in un armadio. Vi è stato qualcuno che ha procurato le caramelle acquistandole. Possiamo limitare un’operazione all’avere le caramelle, potremmo prolungarla pensando che c’è stato un momento in cui quell’insegnante, o un altro insegnante, è uscito con gli allievi per comprare le caramelle. Potremmo immaginare variabili quali il compito assegnato a uno o a una degli allievi perché venendo a scuola compri le caramelle, ecc.. Abbiamo molte, molte possibilità. La sola riorganizzazione delle disposizioni da prendere per poter poi svolgere la lezione diventa interessante per capire che vi può essere uno sviluppo di una logica di cooperazione. La sindrome di
Down assume non tanto una connotazione passiva, che deve solo ricevere da un insegnante disponibile ad avere ritmi adatti a persone più lente, materiale concreto per concretizzare sempre i concetti, un numero limitato di allievi per poterli seguire individualmente. Queste regole sembrano essere quelle dell’insegnamento separato, solitario. Nell’insegnamento cooperativo il soggetto Down viene invitato a collaborare alla realizzazione del progetto di apprendimento e la prima operazione che abbiamo incontrato è stata quella della preparazione dell’ambiente. Ne nasce, quindi, la possibilità di trasmettere un atteggiamento attivo importante, che fa passare da una constatazione di capacità a una strategia di capacità. Si passa quindi da una constatazione del “So fare", oppure "Non so fare”, a una strategia del “So fare se…”: se organizzo l’ambiente in un certo modo, se ho il materiale adatto, se ho il tempo per potere ragionare, se ho l’interlocutore adatto alle mie possibilità; e "non so fare se" non ho una serie di elementi organizzativi. La parte organizzativa, quindi, non è un dato immutabile ma comincia ad essere attiva. E’ una possibilità di intervento sulla realtà che mi circonda. Certo, si possono poi incontrare degli ostacoli, non è un intervento magico. E’ un intervento che può costare fatica, comportare degli errori e quindi delle piccole frustrazioni, avere dei limiti istituzionali. Il dato di realtà in cui opero non mi consente qualsiasi cosa ma una certa quantità di cose sono possibili, anche se alcune sono possibili se io rispetto il rapporto con il vicinato e non faccio del chiasso disturbando chi sta lavorando nella stanza accanto, ecc.: una serie di operazioni. Questa attenzione sulla preparazione è seguita da una interazione che si dimostra non solo attiva dall’insegnante verso ciascuno degli allievi, ma capace di stabilire anche l’interazione tra gli allievi stessi, e quindi di formare dei processi che consentono la messa in atto di trasmissioni non unilaterali e non solo a raggiera ma anche a intreccio. In questo caso la matematica può consentire più facilmente la possibilità di distribuire dei compiti e di formare delle attività di piccolo gruppo che affrontino dei problemi di organizzazione della distribuzione di una merce, ad esempio. L’organizzazione di un piccolo gruppo significa l’incontro, forse, ma è molto probabile, di capacità diverse, di ritmi di lavoro diversi, di ritmi di attenzione, di capacità di attenzione differenziati. In un progetto è più facile che la competenza del più alto trascini e aiuti a raggiungere un più alto livello chi si trova in una posizione più bassa. Però bisogna avere un progetto. La cooperazione esige un progetto: è necessario pensare a riorganizzare quella scena motivando l’apprendimento attraverso un progetto. Questo non significa che ogni operazione del progetto sia sempre chiara per tutti. Non è mai così. Ma la ricapitolazione deve poter chiarire a tutti in maniera significativa, quello che è stato il percorso. Anche se vi sono tratti di percorso che sono nell’oscurità per qualcuno, vi deve essere poi una possibilità ricapitolativa tale da dare senso anche a quel tratto di oscurità.
4. 2 . Una educazione e una didattica interattiva E’ capitato, a chi scrive queste note, di trovarsi in un paese lontano, a passare del tempo con un bambino Down. A volte passare del tempo senza avere qualcosa da fare può diventare pesante e si ha qualche comportamento di impaccio; in questo caso l’impaccio sembrava più dell’adulto che non del bambino e l’adulto, per uscire da quella situazione non ideale, aveva provato a fare qualche cenno di conversazione, di dialogo, senza sortire grandi effetti. Si era ricordato di avere una risorsa particolare, il sapere fare il verso di un animale, più precisamente della gallina, e così si produsse in questa piccola performance, ottenendo il risultato che quel bambino Down rispose immediatamente che si trattava della gallina e proponendo a sua volta un verso di animale. Iniziò così un’interazione giocosa di versi di animali che dovevano essere individuati con il loro nome, e come risposta bisognava dare un altro verso di animale individuabile a catena, fino a che l’adulto non si trovò in difficoltà perché pensava di aver esaurito il campo dei versi da lui riproducibili. Forse anche con l’idea di mettere fine al gioco aprì ripetutamente la bocca senza emettere nessun suono. Quel bambino Down rispose immediatamente dicendo che si trattava della carpa, inteso come pesce. E iniziò quindi una serie di versi di animali muti che diventarono assai più divertenti della prima parte del gioco. Era stato quel bambino a proporre uno sviluppo inedito, ed era stato, però, anche quel bambino ad avviare il gioco. E’ vero che era stato l’adulto a fare il primo verso di animale, ma era stato il bambino a riprenderlo e rilanciarlo, e quindi a dargli una forma. In questo caso era accaduto che la ricerca di un mediatore, per uscire da una situazione di piccolo impaccio – lo stare accanto senza avere granchè da dirsi né granchè da fare -, era stata fortunosamente, per combinazione, fornita di un elemento produttivo, fecondo. Un rapporto di apprendimento basato su una dimensione interattiva deve cercare dei mediatori fecondi, quindi l’interazione diventa cooperativa e non presuppone un rapporto in cui l’insegnamento e l’iniziativa per l’insegnamento, sia unilaterale. Questo piccolo esempio dimostra che lo stereotipo dell’individuo Down, simpatico ma passivo ricevitore di stimolazioni, si rompe. Si rompe lo stampo, lo stereotipo, e si libera una possibilità di, a sua volta, fornire uno stimolo. Si rompe la catena stimolo-risposta per attivare non più una catena ma una dinamica interattiva. Quel bambino Down ha mostrato una capacità interessante: integrare un elemento di novità in una struttura che avrebbe dovuto interrompersi e svanire proprio perché sembrava non esserci l’elemento fondante della struttura stessa. Il verso dell’animale poteva sembrare l’unico elemento senza il quale il dialogo tra noi non avrebbe potuto andare avanti. Quel bambino ha fatto in modo che il verso dell’animale assumesse una dimensione paradosso, e ha quindi continuato ad esserci anche col silenzio dell’animale, ed è nata, quindi, la parte dell'attività, chiamiamola così, di animali muti che pure fanno un verso. Questo elemento paradosso contiene una verità: si pensi a come certa evoluzione del vocabolario non ci dovrebbe più consentire di
parlare di sordomuti, proprio perché abbiamo considerato, o dovremmo considerare, che il linguaggio non è solo quello che colpisce l’udito; il linguaggio assolve a una funzione e sta in un quadro simbolico. La funzione può essere assolta molte volte dall’udito, ma a volte può essere assolta da altri sensi. Si può quindi costruire un linguaggio che non ha nulla a che fare con l’udito. E’ quello che, in maniera molto empirica e attraverso un gioco che quindi poteva essere l’elemento motivante, aveva sviluppato quel bambino. Il gioco come elemento motivante può sviarci perché può farci pensare che la ragione della persistenza dell’interattività fosse nella considerazione che quel bambino potrebbe aver fatto nella sua testa: ”Mi piace tanto questo gioco, mi diverte, e quindi mi conviene escogitare qualche trucco per poterlo continuare anche quando sembra essere alla fine”: Se questo lo confiniamo al gioco noi capiamo una parte sola della ragione per cui la struttura cooperativa, e quindi interattiva può creare degli elementi di sorpresa e delle conquiste. La struttura cooperativa può permettere a qualcuno di scoprire il modo per poter mantenere l’impegno cooperativo. Trasferiamolo dal gioco al lavoro, alla scoperta, e quindi all’apprendimento, e vediamo la possibilità che vi sia, nella struttura cooperativa, una domanda, una domanda che consente di andare avanti. Quello che succede quando nella classe una maestra sceglie una pagina appropriata a una tematica, da un’opera che potrebbe rimanere sconosciuta e trova nella classe una ricettività ed un ascolto che è domanda di conoscere tutta l’opera e quindi non può più permettersi di dire “Ho previsto solo questo e ci dobbiamo fermare”. Deve riorganizzare il lavoro in modo tale che anche la conoscenza di quell'opera sia raggiunta. Però vi potrebbe essere in questo un elemento di disturbo circa il progetto. In altri termini, potrebbe esservi una voglia di sfuggire all’impegno, e quindi un proseguire qualcosa per poter non affrontare qualcos’altro che è ritenuto più impegnativo. In questo caso bisogna ricordare che la cooperazione non è l’annullamento dell’autorità di progetto. L’insegnante che entri in un rapporto cooperativo con la classe diventa l’autorità garante della possibilità di mantenere la tensione progettuale. La cooperazione nel gruppo è in funzione di un elemento che viene chiamato, nel mondo del lavoro, la “mission”: l’insegnante ha il compito di essere l’autorità garante del mantenimento della "mission", che nella scuola è l’apprendimento. Non può quindi consentire che il mantenimento di una parte dell’impegno diventi un modo di realizzare un sabotaggio per l’impegno reale. Ma nel caso che avevamo preso come esempio, -pagina antologica che viene proposta alla classe con l’idea di fornire un esempio che si apra e si chiuda nel corso di una mattina; richiesta, da parte della classe, di poter conoscere tutta l’opera,- in questo caso la curiosità e l’esigenza espressa dal gruppo può stare dentro la "mission", può diventare un maggior incremento dell’insegnamento e dell’apprendimento. Quindi può rinforzare la "mission". Tutti noi abbiamo avuto episodi in cui abbiamo sentito la nostra fierezza di scolari contro la noia della scuola quando abbiamo potuto scoprire una debolezza di un insegnante che aveva le sue
passioni. E, quando il tempo diventava minaccioso perché poteva accadere di dover affrontare argomenti noiosi o un’interrogazione, c’era sempre qualcuno che poteva attivare l’interesse per quella passione. L’insegnante collezionista di francobolli, una volta svelata questa passione, presenta
un’occasione d’oro per la classe di potere, attraverso la passione per la collezione di
francobolli, avere delle soste di tensione. Queste sono le abitudini e le tradizioni di una certa scuola a cui facciamo tanto riferimento con questi riferimenti all’incremento della domanda. Nella
struttura cooperativa, l’attenzione maggiore
è mantenere la tensione progettuale. E bisogna che ci sia, nella classe, il momento in cui si annuncia un progetto, e oltre che l’enunciato vi sia una trasmissione nei fatti di una tensione progettuale che avrà dei momenti in cui si evidenzia maggiormente, dei momenti in cui è più appannata (questo è nella natura delle cose; ma deve essere presente).
4. 3. Autorità e fonte dell’insegnamento non coincidono Una delle regole interessanti della cooperazione e della pedagogia istituzionale è la seguente: l’insegnante ha un ruolo di autorità riconosciuta, istituita, e come tale non dimenticabile, non cancellabile, non mimetizzabile, e istituente, nel senso che può fare proposte, può anche, però, accogliere proposte di altri elementi istituenti che sono i componenti della classe. L’insegnante, come autorità, non è l’unica fonte del sapere. La non coincidenza della fonte del sapere e dell’autorità trasforma il ruolo in un organizzatore di fonti del sapere. Questo è l’elemento più interessante della struttura cooperativa nella pedagogia istituzionale. In termini pratici questo aspetto ha ricadute molto interessanti in rapporto alle questioni che possono essere
affrontate
dall’integrazione di persone handicappate. E’ utile sempre avere presente che l’integrazione non può avere un’interpretazione ridotta alla presenza fisica di una persona handicappata nello stesso ambiente, nello stesso gruppo. Non può avere un’interpretazione, ancora riduttiva, che è quella di ritenere che il gruppo eterogeneo è composto da individui che percorrono delle piste di apprendimento individualizzate. Ma vi deve essere ancora un’interpretazione dell’integrazione che consente di scoprire come nel curriculum, e quindi negli apprendimenti , vi siano gli interrogativi alla situazione di handicap e vi sia la necessità di porre risposte agli interrogativi, di procedere alla ricerca delle risposte che quegli interrogativi richiedono. Ecco allora, che sulla situazione
di
handicap entrano in gioco competenze e saperi che non sono già contenuti nell’insegnante. L’insegnante ne può avere alcuni ma deve essere capace di inviare ad altri. Molti lo fanno già quando richiedono a bambini e bambine di darsi da fare per consultare le enciclopedie, per capire che cosa significa una certa parola. E vi sono, nella classe, risposte che non riguardano solo le enciclopedie ma vi sono anche proposte di andare a consultare Internet. In classi di scuole
elementari le voci sono quelle che dicono: “Io ho mia madre che mi può aiutare a trovare in Internet quello che cerchiamo” o “Mio padre che…”, quindi le possibilità di scoprire altre fonti. Questo è un elemento che fa parte di una strategia abbastanza abituale, che parte dal presupposto che: “Io lo saprei: saprei quindi darvi il significato della tal parola, la risposta a tal quesito, ma preferisco….”, da insegnante che preferisce attivare i suoi allievi piuttosto che attivarsi al posto degli allievi, “darvi il compito di cercar voi”. Ma il presupposto implicito è. “Io saprei…”. Vi sono, però altre situazioni che permettono, invece, di scoprire che vi sono dei saperi che hanno dei confini, e bisogna spostare i confini, quindi insieme andare a cercare. Se, per esempio, noi incontriamo la parola “autismo” e non la incontriamo solo come parola ma anche come situazione presente in un contesto scolastico e vogliamo avere maggiori conoscenze, potremmo anche scoprire che vi sono, non tanto delle conoscenze assolute, quanto delle ricerche attive che possono anche non andare d’accordo fra loro, possono essere in forte dibattito anche polemico. In questo caso non abbiamo solo la possibilità di avere un’interprete, ma abbiamo la possibilità di sentire più interpreti, di interrogarli , forse di metterli a confronto e di procedere, anche, a una decodifica dei loro apporti per capire come entrano nelle aree disciplinari in cui la scuola sta producendo un suo percorso di apprendimento. Perché una delle questioni più importanti è che questa cooperazione sia capace di integrare nei percorsi di apprendimento scolastici e quindi non sia una divagazione, una ricreazione intelligente, ma sia un arricchimento del percorso scolastico. Ecco allora che ci sono, e possono essere veramente molto importanti, nella strutturazione di una dinamica cooperativa nella pedagogia istituzionale, delle necessità di chiarimento della distanza che può esservi fra la mia autorità insegnante e il mio ruolo di fornitore del sapere. Questa distanza è fondamentale per articolare una strutturazione ed una organizzazione.
4.4. Importanza dei “sistemi di mediazione” Philip Meirieu si ricorda che secondo Oury, la semplice regola che permette a dieci ragazzini di utilizzare il sapone senza litigare, è già un’istituzione” Perché la regola esista è necessario che vi sia un sapone: cioè l’istituzione ha bisogno della mediazione dell’oggetto. (PH. MEIRIEU, Lavoro di gruppo e apprendimento individuale, la Nuova Italia, Firenze, 1987, p.65; ediz. originale 1984) Nella strutturazione della cooperazione l’organizzazione di sistemi di mediazione è fondamentale. Riesce difficile immaginare un apprendimento che non sia anche organizzazione materiale. Spesso chi insegna in università incontra operatori che sentono il confronto con l’universitario come confronto fra chi vive la pratica e chi vive la teoria. E pensano di avere a che fare con studenti, studentesse che hanno una buona, si spera, teoria e una scarsa pratica. Però la teoria da sola non basta. Anche a chi vive dell’università, perché deve organizzare il tempo, che può essere, se
disorganizzato, un tempo perso; correre da un’aula all’altra senza organizzarsi, avere dei buchi vuoti e perdere il tempo di quei buchi tra un’ora e l’altra, avere un’ora libera e non sapere come riempirla, non sapersi procurare le fonti, le letture, i libri, non riuscire a organizzare il proprio tempo in sala studio o in biblioteca, non organizzarsi i trasporti in maniera adeguata alle esigenze del proprio progetto di esami, non calendarizzare bene gli stessi esami. Tutta l’organizzazione è materiale, ed è fondamentale per potere vivere l’assorbimento teorico e la ricerca teorica con una strutturazione costruttiva. Il sistema di mediazione universitario è molto legato a una concezione dell’università in Italia, in cui l’organizzazione materiale era lasciata come un punto complementare per pochi bisogni, perché per la maggioranza vi era la possibilità di ricorrere a un’organizzazione materiale propria, della propria famiglia, del proprio gruppo di appartenenza. L’università è cambiata, come è cambiata la scuola, ma per molti versi i sistemi di mediazione sono rimasti gli stessi. Con la presenza di persone handicappate, con numeri anche elevati ormai anche nell’università, bisogna pensare a sistemi di mediazione più espliciti con elementi materiali presenti. Si pensi alla questione degli ausili. O diventano protesi individuali o diventano strutturazioni significative per tutti. La possibilità di servirsi di un computer per la comunicazione o per l'intervento sull’ambiente ha una dimensione protesica individuale mimetica, oppure diventa organizzazione civile, scolastica. I sistemi di mediazione danno necessità di nuove strutturazioni anche normative. Ecco le regole a cui quella citazione richiamava. E con le regole si ha la possibilità di una moltiplicazione infinita di piccole norme senza scoprire più quali sono quelle costitutive di un gruppo. Allora comincia ad esservi una serie di richieste talmente pressanti e frastagliate da rendere impossibile la loro esecuzione, non capendo più quali sono le regole che fondano, senza le quali un gruppo non esiste, l’apprendimento non esiste, la missione si perde, e quali sono invece le regole derivate, che hanno una funzione contestuale, legata a degli elementi contingenti, che bisogna quindi usare con il ricorso al buon senso, senza esagerare. La moltiplicazione delle regole senza distinzione tra quelle strutturali e quelle contingenti porta poi a un risultato molto scadente, che è quello del non seguirne neanche più una. Si dice che la moltiplicazione dei controlli nelle gestioni porti a fare sì che nessuno di questi controlli sia preso davvero sul serio e gli stessi controllori non esigano dal loro impegno il massimo perché sanno che quello che loro fanno sarà rifatto da altri, rifatto da altri; quando si trova un controllore pignolo lo si considera uno stravagante, quasi. Ecco allora che l’organizzazione dei sistemi di mediazione per la cooperazione nella pedagogia istituzionale diventa l’elemento portante di una organizzazione scolastica. Ed è qui che arriviamo a un episodio interessante: quello che ha permesso di ragionare attorno alla differenza – uguaglianza di un bambino Down in un gruppo di coetanei. Quel bambino Down ha una presenza attiva nella scuola, non è certamente un bambino tenuto in disparte,
marginalizzato, segue gli apprendimenti, ha maestre che esigono da lui, e quindi non sono lì per accoglierlo in maniera passiva, solo volendogli un bene passivo , ma hanno anche delle esigenze; e lui risponde, collabora alla costruzione di un percorso di apprendimento. Vi sono però alcuni comportamenti che potrebbero creare del disturbo; uno di questi è la sua passione per le gomme che vengono sottratte e poi masticate e ridotte a poltiglia. Le maestre hanno deciso dall’inizio del percorso che è arrivato alla quarta elementare, di non porsi alla difesa di quel bambino né di porsi alla difesa del resto dei bambini e delle bambine da quel bambino. Hanno sempre dichiarato, nei fatti nelle parole, che i rapporti tra bambini devono essere regolati da loro stessi e loro sarebbero intervenute solo nel caso in cui il regolamento dei rapporti avesse usato maniere non tollerabili: il passaggio all’atto. Cosa che non si verificò fino al giorno in cui il miglior amico di quel bambino Down si ribellò all’ennesimo “furto” di gomma, ai suoi danni questa volta, da parte di quel bambino. E allora vi fu una ribellione che fu fatta con una presa per il collo da parte del bambino derubato nei confronti del bambino Down che aveva “rubato”, e la classe che si schierò per l’immunità, perché quel bambino Down non venisse ripreso. La classe si mise a discutere sulla necessità di tollerare un comportamento o di non tollerarlo. E vi fu la necessità di capire meglio chi era quel bambino Down. Se era giusto tollerare o e sera necessario non tollerare e chiedergli comportamenti adeguati alla situazione. E questo impegnò in un lavoro, che prosegue, alla scoperta delle caratteristiche specifiche di ciascuno di noi, e quindi alla scoperta di parole che non erano per loro abituali e già conosciute: cromosoma, cellule. Tutto questo portò ad allargare il campo della loro curiosità, a tendere verso un progetto di conoscenza in cui i comportamenti non venivano più visti come tollerabili o meno, ma venivano considerati come possibilità di stabilire un traguardo di conoscenze rigido, stabilito a priori e che non permette integrazioni. Vi è la possibilità di non avere traguardi, e quindi di seguire quelli che sono gli interessi, le motivazioni, le curiosità, di volta in volta. Vi è la possibilità di stabilire dei traguardi e saper integrare i percorsi per raggiungerli, e anche di riformulare i traguardi sulla base delle esigenze nuove che si vengono a scoprire. L’interesse per questo, terzo tipo di possibilità, è molto importante per l’umanità intera, ma soprattutto per un’umanità che non voglia essere una frantumazione individualistica, che voglia permettere la costruzione di un individuo sociale. E'’ necessario lavorare perché la costruzione di una struttura cooperativa non diventi un pretesto per non impegnarsi nell’apprendimento inteso anche in un senso molto tradizionale. La tradizione non può essere vista solo come un elemento negativo, da abbandonare. Vi è un significato estremamente positivo del termine, e bisogna restaurarne questa dimensione, farla vivere come una possibilità di radici profonde. In questo c’è bisogno di integrare. E allora integrare le curiosità significa anche capire meglio i comportamenti, non solo viverli nella dimensione dell'immunità, o dell'intolleranza, ma come ricerca perché il
comportamento scomodo sia certamente diminuito nella sua scomodità, sia anche a volte superato, scompaia, ma soprattutto sia capito come punto di partenza per una migliore conoscenza. Questo è un percorso interessante nella cooperazione che permette di mettere l’amicizia al servizio di un processo attivo nella conoscenza. Se l’amicizia per quel bambino Down dovesse essere una concessione ai suoi comportamenti scomodi, possiamo ritenere che debba essere un’amicizia a termine, oppure molto selettiva, per cui solo le persone molto pazienti riusciranno a sopportarla e portarla avanti. Se invece l’amicizia diventa impegno per conoscere insieme molti degli elementi scomodi potranno essere rielaborati, ma anche spiegati, proposti come parte di una storia evolutiva, e non più fissati in un stereotipo che deve essere conservato come si conservano le riserve indiane, luoghi di tristezza.