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Sped. in A. P. - D.L. 353/03 art. 1, comma 1 NE/VR
1939-1945
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I N O I Z O M E E L I V I WARS. RIV DELLE GRANDI IA. R O T S A L L E D E I BATTAGL
CALENDARIO A SOLI
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La storia militare dell’Urbe, da Servio Tullio all’Impero d’Oriente. I centurioni, gli hastati, i principes e i triarii, le differenze tra manipoli e coorti, le macchine d’assedio, le armi e gli equipaggiamenti.
In più con questo numero il calendario storico 2016 delle legioni di Roma. DA NON PERDERE!! WARS LA STORIA IN PRIMA LINEA
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II GUERRA MONDIALE
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TU UTTI I PER RCHÉ DEL LL’EC CATO OMBE E
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I NUMERI DEL CONFLIT TTO
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M AL DI GER R M AN NI A
Nel 1919 la Germania era nel caos: fu proclamata la Repubblica di Weimar e il Paese divenne il cuore (e il problema) dell’Europa.
In copertina: la polizia militare americana perquisisce prigionieri tedeschi fra Granville e Avranches (Francia, 31 luglio 1944). MAGNUM/CONTRASTO
PE ERCHÉ CI SIAM MO ANDAT TI
Attaccando la Grecia, Mussolini voleva emulare la guerra-lampo di Hitler accrescendo il prestigio dell’Italia nei Balcani. Invece...
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L’IITA ALIA A VA A AL LL A GU UER RR A
Il 10 giugno 1940 Mussolini annunciò l’entrata in guerra dell’Italia. Spinto dai suoi sogni di gloria e dai travolgenti successi sul campo dei tedeschi. Ecco come si arrivò alla fatale decisione.
OB BIET TTIVO O SOL LE EVANTE E I giapponesi erano invincibili, o così sembrava. Ma una formazione americana minò la loro fama di imbattibilità attaccandoli in casa.
Milioni di morti e città distrutte: il bilancio della guerra fu spaventoso. Ecco le cifre che fotografano l’Europa del 1945.
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IN NTR IGO O NEL PACIF FICO
Con l’attacco alla base americana di Pearl Harbor, l’America entrò in guerra. Ma fu vera sorpresa o una trappola congegnata dai poteri forti per convincere l’opinione pubblica?
Un mondo dominato dalla razza ariana: questo l’obiettivo di Hitler, e questa la ragione per cui scatenò la guerra. Un sogno folle costato 71 milioni di morti.
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Truppe americane sbarcano sulle coste della Normandia subito dopo il D-Day, il 6 giugno 1944.
IL L DESER RTO O CONTESO
El Alamein fu la resa dei conti di un braccio di ferro iniziato nel 1940.
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GL LI SFID DAN NT I
Rommel e Montgomery comandarono le due armate che si affrontarono a El Alamein. Ecco chi erano. 3
BRIDGEMANIMAGES/ MONDADORI PORTFOLIO
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uanti sono 71 milioni di morti? Per farci un’idea, è come se sparissero dalla faccia della Terra tutti gli abitanti di Italia, Svizzera e Slovenia o subisse la stessa sorte la popolazione di Francia e Norvegia. 71 milioni sono le vittime civili e militari della Seconda guerra mondiale. Un tributo di sangue senza precedenti. Come è potuto accadere? Si stenta a credere che sia stata la folle volontà di un uomo solo a trascinare nel baratro tutto il mondo. Ma le responsabilità sono chiare, come lo erano i progetti di Hitler di costruire un’Europa nuova senza ebrei, comunisti, omosessuali, pacifisti, zingari, malati e ovviamente dissidenti di qualsiasi natura. Dicono gli storici che se le potenze democratiche avessero fermato Hitler qualche anno prima, il bilancio dell’orrore sarebbe stato diverso. Ma le potenze democratiche, che non avevano dimenticato il conflitto mondiale di vent’anni prima, non lo fecero perché temevano la guerra. Per il mondo civile la paura è stato il freno, per i nazisti l’arma. Con questo numero di Focus Storia Collection torniamo nell’Europa di quegli anni per capire da dove è partito il male, come ha agito e che fine ha fatto. Emanuela Cruciano caporedattore
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La campagna di Russia doveva essere una guerra-lampo. Invece fu una débâcle: per colpa di chi?
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A piedi nella steppa a 40 gradi sotto zero, in mezzo al fuoco nemico nelle trincee, senza cibo... I ricordi dei reduci. Scarponi che sembravano di cartone e maglioni di finta lana: l’equipaggiamento della sconfitta.
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Bombardata dagli Alleati, in mano ai nazisti dopo l’8 settembre, Roma visse i drammi della guerra di liberazione. 118
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Sporcizia, sovraffollamento, fame. Ecco come si viveva nei ghetti ebraici.
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Il 30 aprile 1945 Hitler si toglieva la vita. Con lui, fino all’ultimo, era rimasta una delle sue guardie del corpo: Rochus Misch. Ecco la sua versione.
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Abbiamo intervistato Enrico Vanzini, che nel 1945, a Dachau, fu costretto dai nazisti a portare i cadaveri nei forni crematori. 92
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Il capo del nazismo morì a Berlino nel 1945. Come andò veramente?
Il 27 maggio 1942 con l’Operazione Antropoid un commando suicida liquidò a Praga Reinhard Heydrich, uno dei padri della “soluzione finale”.
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Lo sbarco in Normandia è ricordato da tutti come un momento epico. Ma un libro svela le violenze e gli eccessi compiuti dagli Alleati.
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Albert Speer progettò la Nuova Berlino, poi divenne responsabile della produzione bellica durante la guerra. 82
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Nella primavera del 1944, in Ciociaria le truppe coloniali francesi stuprarono migliaia di donne italiane.
La ricca tabella uniformologica dei belligeranti, con le illustrazioni di Giorgio Albertini. A pag. 75
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Il 25 luglio 1943, dopo 10 interminabili ore di seduta notturna, il Gran consiglio del fascismo votò la sfiducia a Mussolini.
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Il 10 luglio 1943 gli Alleati sbarcarono in Sicilia. Per il fascismo fu l’inizio della fine. Con qualche lato oscuro: violenze gratuite e accordi con la mafia.
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La discriminazione degli ebrei fu solo colpa del fascismo? Oppure in Italia l’antisemitismo trovò terreno fertile?
L’assedio alla città durò sette mesi: decretò la supremazia dell’Armata Rossa e il declino della potenza tedesca. 64
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Centinaia di criminali nazisti sfuggirono ai processi di Norimberga. Come? E con l’appoggio di chi?
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INTERVISTA
Un mondo dominato dalla razza ARIANA: questo in ultima analisi l’OBIETTIVO di Hitler, e questa la ragione per cui scatenò la guerra. Un sogno folle costato 71 MILIONI di morti
TUTTI I PERCHÉ DELL’ECATOMBE È il conflitto degli stermini di massa, dei campi di concentramento e dei bombardamenti aerei sulle città, del nazismo di Hitler e del fascismo di Mussolini, dell’attacco giapponese a Pearl Harbor e delle bombe atomiche americane su Hiroshima e Nagasaki: con i suoi 71 milioni di morti, per lo più civili, l’orrore della Seconda guerra mondiale è in un certo senso persino più tangibile di quello della prima. Dalla sua fine, il 2 settembre 1945, ci separano appena 7 decenni, ma l’inizio risale a sei anni prima: il 3 settembre del 1939, infatti, Gran Bretagna e Francia dichiararono guerra alla Germania di Adolf Hitler, colpevole di aver attaccato la Polonia. Il casus belli, creato a tavolino dal Führer, fu una messinscena: un finto assalto di finti soldati polacchi alla stazione-radio tedesca di Gleiwitz (l’attuale Gliwice, in Polonia). In quella occasione persero la vita due ignari soldati: i primi di un conflitto che, cominciato in Europa, si allargò progressivamente fino a coinvolgere ben 80 Stati in tutto il mondo. Due schieramenti opposti, ma anche due blocchi ideologici: gli Stati democratici contro gli Stati retti da regimi totalitari. Ma quali furono le motivazioni profonde che portarono allo scoppio di questo secondo immane scontro? Ne abbiamo parlato con Giovanni Sabbatucci, uno dei massimi storici del nostro tempo, docente universitario, giornalista e autore di numerosi saggi di storia moderna e contemporanea. 6
Al di là della causa occasionale, cioè l’invasione della Polonia, quali premesse prepararono il conflitto? Rispetto alla Prima guerra mondiale, le premesse nel caso della seconda sono abbastanza chiare: se infatti la Grande guerra scoppiò per un meccanismo che trascinò i protagonisti prescindendo in parte dalla loro volontà, nella seconda la motivazione è da ricondursi essenzialmente al desiderio di Hitler di portare la Germania a dominare in Europa e nel mondo. Gli altri motivi, a esempio le conseguenze della conferenza di pace di Parigi e del trattato di Versailles o le sanzioni punitive imposte alla Germania, furono cause remote, non immediate. Le cose sarebbero potute andare diversamente? Per ipotesi, che cosa sarebbe successo se Hitler non avesse invaso la Polonia? Pensa che la Seconda guerra mondiale sarebbe scoppiata comunque? Posso dare la stessa risposta che si dà alla domanda: “E se Mussolini non fosse entrato in guerra?”. Hitler non poteva non entrare in Polonia: le cose sarebbero forse potute andare diversamente solo se non fosse andato al potere o se fosse stato fermato quando, in aperta violazione del trattato di Versailles, rimilitarizzò la Renania (1936). Ma una volta lì, lui non era un tipo da rinunciare o da fare compromessi: il suo programma era ben delineato e, date quelle premesse, la guerra era inevitabile. Quanto influì sullo scoppio della guerra la crisi economica cominciata nel 1928 e perdurata negli anni Trenta?
Moltissimo, ed è bene sottolinearlo: dire che la Seconda guerra mondiale scoppiò in seguito al fallimento della conferenza di pace di Parigi è un grave errore. In realtà la situazione mondiale dopo la fine della Grande guerra si era avviata a una forma di normalizzazione: fu invece la grande crisi economica a provocare un nuovo shock, mettendo in moto una reazione contro gli istituti della democrazia che aprì la strada ai totalitarismi. E fra la comparsa di questi totalitarismi e lo scoppio della Seconda guerra mondiale il nesso è diretto. Perché, proprio come nella Prima guerra mondiale, il conflitto si allargò dall’Europa al resto del mondo? Esistevano fin dall’inizio indizi che lasciassero intuire la futura enorme estensione del teatro di guerra? Nel Novecento, come già nell’Ottocento, che i conflitti tendessero ad allargarsi era un fatto quasi automatico, che dipendeva dall’esistenza degli imperi coloniali. Fino a che l’Europa rimase l’unica grande “sede politica” fu facile limitare gli scontri, ma quando lo scenario mondiale si globalizzò, il teatro di guerra si estese di conseguenza. In particolare in questo caso, in cui si sovrapposero due diversi conflitti: da un lato quello causato dalle velleità di dominio della Germania sull’Europa, aggravate dalla presenza di Adolf Hitler, dall’altro quello del Giappone contro gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, in Estremo Oriente. A questo punto era già coperta buona parte del globo.
LA FORMA DEL POTERE
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Adolf Hitler (a sinistra) ed Ernst Röhm (a destra) al Raduno di Norimberga del 1933, il congresso dei nazisti che si teneva annualmente ed era caratterizzato da imponenti scenografie.
Sui RESPONSABILI del conflitto ci sono pochi dubbi. Le potenze
L’esercito tedesco avanza in Polonia nel settembre 1939. A destra, folla davanti alla Borsa di New York nell’anno della grande crisi, il 1929.
In genere quando si litiga la colpa è di entrambe le parti: nel caso della Seconda guerra mondiale, quali furono le responsabilità di Adolf Hitler e quali quelle degli Stati che gli si opposero? Mentre per la Prima guerra mondiale si discute ancora dopo tanti anni sulle responsabilità del conflitto, sicuramente non tutte da imputare alla Germania e all’Austria-Ungheria, per la Seconda guerra mondiale la questione è molto meno controversa: le responsabilità sono nette e appartengono a Hitler. Non vi sono dubbi sul fatto che a provocare il conflitto fu la politica di conquista e di aggressione della Germania nazista. La principale colpa delle potenze democratiche, semmai, è nel non aver voluto far iniziare prima la guerra: l’anno giusto sarebbe stato il 1936, quando Hitler rimilitarizzò la Renania e il riarmo tedesco era ancora agli inizi. Allora sarebbe stato tutto più facile, invece Gran Bretagna e Francia si illusero, con la confe8
renza di Monaco (1938), di aver placato la Germania accogliendo le sue rivendicazioni e permettendole di annettere il territorio cecoslovacco abitato dai Sudeti (una popolazione di etnia tedesca). Era chiaro che, una volta accontentato, il Führer non si sarebbe mai fermato: già nell’ottobre del 1938 aveva pronti i piani per l’occupazione della Boemia e della Moravia, ossia della parte più popolosa e più sviluppata della Cecoslovacchia. E già alla fine di marzo 1939 aveva rivendicato il possesso di Danzica e il diritto di passaggio attraverso il “corridoio” che univa la città al territorio polacco. Certo, la colpa per chi non si oppone esiste, ma c’è una bella differenza fra chi compie il crimine e chi interviene tardi: insomma, le responsabilità dello scoppio della Seconda guerra mondiale non possono essere divise. Cosa voleva ottenere Hitler con la guerra? Per il Führer contava di più la politica nazionalista tedesca o le sue
convinzioni sulla superiorità della razza ariana? E quale delle due fu funzionale all’altra? Hitler sicuramente era un nazionalista, ma il nazionalismo era solo l’inizio del suo programma: il suo vero scopo era mettere in pratica la propria folle ideologia razziale. L’espansione e la potenza della Germania erano un mezzo per raggiungere l’obiettivo finale: un mondo dominato dalla razza ariana. Non si spiega in altro modo lo spreco di risorse umane, altrimenti destinabili ai combattimenti, messo in atto con i campi di sterminio e finalizzato alla cancellazione del popolo ebraico. Possiamo allora definire la Seconda guerra mondiale come un conflitto combattuto non fra Stati ma fra ideologie? E possiamo farlo anche se, almeno all’inizio, Urss e Germania accantonarono le proprie convinzioni in nome di una conveniente – e momentanea – alleanza?
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DECENNIO NERO
democratiche hanno però SBAGLIATO a non intervenire prima Due guerre o un unico conflitto?
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Sicuramente ci fu una componente ideologica fortissima nella Seconda guerra mondiale, ma il conflitto divenne manifestamente ideologico solo a partire dal 1941, anno in cui la Germania aggredì l’Urss e gli Stati Uniti entrarono in guerra. Fino a quel momento lo scontro poteva anche essere considerato una continuazione di quanto cominciato con la Prima guerra mondiale (vedi riquadro a destra), quasi un secondo capitolo della cosiddetta “Guerra dei Trent’anni” (1914-1945), combattuta tra la Germania che voleva essere egemone in Europa e le altre potenze che cercavano di impedirglielo. Solo quando si arrivò alla grande coalizione antinazista da una parte e all’unione tra regimi fascisti o autoritari di destra dall’altra, si fece dominante e più forte che in passato l’elemento ideologico. Per gli Stati che si accingevano a riprendere le armi, non ebbe alcun impatto il ricordo della vittoria o della
sconfitta, ma soprattutto dei massacri della Grande guerra? Al contrario, ebbe un impatto fortissimo, soprattutto per chi le armi non voleva prenderle: non fu abbastanza per dissuadere Hitler, ma fu più che sufficiente per bloccare le altre potenze. E questa è la risposta a chi si chiede come mai gli Stati democratici furono così corrivi nei confronti del Führer e rinfaccia loro di aver creduto all’accordo di Monaco. Questa “colpa” si spiega con la memoria dell’altra guerra: molti statisti avevano partecipato al conflitto, quindi sapevano bene cosa li aspettava e sapevano anche che c’erano uomini di una certa classe di età, soldati nella prima guerra, che sarebbero tornati a combattere. Persino in Germania, al netto dei deliri di Hitler, i tedeschi non erano così entusiasti: allo scoppio del secondo conflitto mondiale nella piazze ci fu il gelo, non la festa esplosa t all’inizio della prima. Maria Leonarda Leone
on è solo perché vennero combattuti nel medesimo secolo che alcuni storici vedono, nei due conflitti mondiali, una seconda (dopo quella che si svolse in Europa tra 1618 e 1648) Guerra dei Trent’anni, cominciata con lo scoppio della Grande guerra nel 1914 e terminata nel 1945, con la resa della Germania. Benché non tutti siano d’accordo con questa interpretazione, proposta fin dall’immediato dopoguerra, tra i due conflitti esistono infatti, oltre a differenze tecnologiche, tattiche e ideologiche, anche innegabili analogie: entrambe furono guerre“totali”, che coinvolsero e fecero vittime sia tra i soldati che tra i civili, e“mondiali”, nate cioè come scontro tra potenze europee e poi ampliatesi a livello planetario. In comune. Non solo: in entrambe le occasioni, gli Stati Uniti ebbero un ruolo decisivo, pur entrando in guerra in un secondo momento, e in generale i protagonisti, gli schieramenti e i vincitori furono più o meno sempre gli stessi, a eccezione dell’impero d’Austria-Ungheria, che cessò di esistere nel 1918, e del passaggio al fronte opposto dell’Italia e del Giappone, a fianco della Germania nel secondo conflitto.
Giovanni Sabbatucci Storico, giornalista e docente universitario, insegna Storia contemporanea alla facoltà di Lettere dell’Università La Sapienza di Roma. È considerato uno dei massimi esperti di fascismo e dei movimenti politici italiani.
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TERRA BRUCIATA
Milioni di MORTI e città DISTRUTTE: il bilancio della guerra
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ista in cifre la Seconda guerra mondiale svela tutto il peso delle sue conseguenze: fu il più tragico conflitto della Storia e l’Europa ne uscì mostrando uno scenario di miseria e desolazione. I dati di queste pagine raccontano il nostro continente nel 1945, quando i combattimenti volgevano al termine. Un avvertimento, però: i numeri sulle vittime e sui danni materiali causati dalle operazioni belliche sono frutto di stime spesso difficili da ripartire per territori e tipologie. E ancora oggi gli storici ne dibattono. t
860 CALORIE A giugno ’45 era la razione giornaliera per i cittadini di Berlino, nella zona occupata dagli americani. A Budapest (Ungheria) nel dicembre 1945 la media era di appena 556 calorie.
40.000 TONNELLATE
ORFANI
Le bombe che colpirono la città di Berlino tra fine aprile e inizio maggio del 1945. I bombardamenti durarono 14 giorni e il 75% degli edifici non fu più abitabile.
Erano quelli della Iugoslavia a fine 1945. In Cecoslovacchia erano circa 49mila; in Olanda 60mila; in Polonia 200mila.
6.500 66% TONNELLATE
Le bombe (molte incendiarie) sganciate su Dresda dagli Alleati nel febbraio ’45. Morirono fra 35 e 100mila persone e si trovarono cadaveri fino agli Anni ’60.
DEI NEONATI
È la percentuale che moriva alla nascita a Berlino, nel luglio 1945. La causa: un’epidemia di dissenteria da inquinamento idrico.
87
500.000 CASE DISTRUTTE
Il dato si riferisce al biennio 1944-45 nella sola Francia. In Europa i danni materiali più devastanti furono provocati dai bombardamenti aerei.
-63,3%
DONNE STUPRATE
Questo è il dato della sola Italia. L’industria segnò invece un –29%, nonostante lo sforzo bellico.
CALO PRODUZIONE AGRICOLA
Nella sola Vienna, nelle tre settimane successive all’ingresso dell’Armata rossa. Si tratta di una stima per difetto.
1945
INTANTO NEL MONDO
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FEBBRAIO Conferenza di Jalta, in Crimea, alla quale partecipano Roosevelt, Stalin e Churchill.
MAGGIO Resa della Germania: il giorno seguente è considerato la fine della guerra in Europa.
GIUGNO Si chiude la conferenza di San Francisco, con la sottoscrizione dello statuto dell’Onu.
LUGLIO Si apre la conferenza di Potsdam, in Germania, tra Usa, Inghilterra e Urss.
SETTEMBRE Firma sull’accordo della resa incondizionata dichiarata dal Giappone il 15 agosto.
SETTEMBRE Conferenza di Londra per definire i trattati di pace con le nazioni alleate della Germania.
fu spaventoso. Ecco le CIFRE che fotografano l’Europa del 1945
DEL CONFLITTO
40
A cura di Anita Rubini
16 MILIONI
%
INFOGRAFICA: VITTORIO SACCHI
La percentuale di linee danneggiate in Italia. In Urss furono distrutti 65mila km di linee. In Francia si passò da 12mila a 2mila locomotive.
PERDITE CIVILI IN URSS Si tratta di una cifra per difetto. Qui e in Paesi come Polonia (oltre 5 milioni), Iugoslavia (1,4 milioni), Grecia, Francia, Olanda, Belgio e Norvegia le perdite civili superano di gran lunga quelle militari. In Italia furono oltre 150mila.
LINEE FERROVIARIE
L’EUROPA NELLA PRIMAVERA DEL 1945
PERDITE MILITARI ITALIANE La maggior parte delle perdite militari furono subite da Urss (8,6 milioni) e Germania (4 milioni).
Reykjavík
ISLANDA
PERDITE UMANE
FINLANDIA
SVEZIA NORVEGIA
Per alcuni la cifra salirebbe a 80 milioni. I civili furono circa il 60 per cento del totale. La sola Polonia perse un quinto della popolazione.
UNIONE SOVIETICA
Helsinki
Oslo
ESTONIA
Stoccolma
MOSCA
LETTONIA M A R E D E L N O R D
DANIMARCA
LITUANIA CARTINA: F. SPELTA
REGNO UNITO
COPENAGHEN
IRLANDA
6MILIONI
Dublino
GERMANIA
POLONIA UCRAINA
PARIGI
UNGHERIA
EBREI STERMINATI Si stima che gli internati siano stati circa 7,5 milioni. Insieme a omosessuali, Rom e Sinti. Gli ebrei italiani deportati dopo l’8 settembre ’43 furono 8.500.
VARSAVIA
BERLINO
LONDRA
FRANCIA
ROMANIA
BUDAPEST
SVIZZERA
BUCAREST Belgrado
IUGOSLAVIA ITALIA BULGARIA
PORTOGALLO SPAGNA
M A R N E R O Istanbul
ROMA
MADRID
GRECIA
TURCHIA
LISBONA
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OTTOBRE Iniziano i processi di Norimberga contro i criminali di guerra nazisti.
DICEMBRE Viene istituita la Banca mondiale, insieme al Fondo monetario internazionale.
Tunisi
TUNISIA MAROCCO
ALGERIA
M A R M E D I T E R R A N E O
ATENE
IRAQ SIRIA
LIBIA EGITTO
Stati neutrali
Territori liberati
Stati mai occupati
Alleati
Stati dell’Asse
Territori occupati
Il Cairo
ARABIA SAUDITA
TRA LE DUE GUERRE
Nel 1919 la Germania era nel CAOS: fu proclamata la Repubblica I CONGIURATI I protagonisti del putsch di Monaco, insieme a Hitler nel 1923, dopo il processo.
MAL DI GERMANIA 12
HULTON/CORBIS
di WEIMAR e il Paese divenne il cuore (e il problema) dell’Europa
GETTY IMAGES
A Weimar fu redatta la COSTITUZIONE della prima REPUBBLICA tedesca. Dopo l’avvento di HITLER rimase (solo formalmente) in vigore fino al DOPOGUERRA
E
spressionismo è un eccesso di “espressione”che porta a una distorsione dei segni: la parola nella scrittura, i colori nella pittura e le inquadrature nel cinema. E fu proprio nel cinema espressionista che la Germania ebbe un grande ruolo negli Anni ’20. Emozionanti. Capostipite della corrente è considerato Robert Wiene con Il gabinetto del dottor Caligari (1919). Dopo di lui altri registi come Lang, Pabst, Murnau usarono gli effetti speciali per distorcere la realtà e suscitare emozioni.
14
Per esempio l’”effetto Schüfftan”, dal nome dell’ottico che lo inventò: grazie a uno o più specchi posti vicino alla macchina da presa era possibile girare immagini riflesse di oggetti e persone, insieme a immagini reali di attori. Rendendo così la scena surreale. Fritz Lang nel 1927 ne fece largo uso nel suo Metropolis (foto). Un altro effetto innovativo, usato anche nel Nosferatu (1922) di Friedrich W. Murnau, fu il primo piano su volti pesantemente truccati e con espressioni deformi, quasi demoniache.
Philipp Scheidemann proclamò la repubblica affacciandosi da una delle finestre del Reichstag (il parlamento a Berlino), di cui divenne in seguito il primo cancelliere. Sempre a Berlino, poche ore dopo, gli estremisti di sinistra, gli Spartachisti, guidati da Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht, proclamarono la Repubblica socialista. Mentre a Mona-
ZONA ROSSA Un blindato e soldati davanti alla sede del Partito comunista tedesco ad Amburgo, nel 1923. Sotto, una scena di Metropolis (1927) del regista Fritz Lang.
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Un cinema sempre più espressivo
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el mondo di ieri c’erano uno Stato funzionante e una moneta solida, i padri lasciavano eredità sicure ai figli, i giovani e le famiglie potevano pianificare il loro futuro. Poi la classe media è andata via via impoverendosi, le istituzioni si sono indebolite e il denaro si è inflazionato, ha perso potere d’acquisto ed è divenuto carta straccia. Non è la Grecia (o la Spagna o l’Italia) di oggi, ma la Germania di un secolo fa. Addio impero. Era l’ottobre del 1918 e la Prima guerra mondiale era a un passo dalla fine. Ma l’alto comando della marina, senza consultarsi con il governo, decise di far uscire ugualmente la flotta d’alto mare (la Hochseeflotte), di base nella città di Wilhelmshaven, per un ultimo disperato tentativo di attaccare la Royal Navy inglese. Praticamente un suicidio. I marinai quindi si rifiutarono di partire, ammutinandosi. L’insubordinazione dei marinai di Wilhelmshaven innescò la miccia, dopo poco anche i marinai di Kiel si ammutinarono e alle proteste dei militari si unirono gli operai. Seguirono tumulti in gran parte del Paese, tanto che il 9 novembre il Kaiser Guglielmo II fu costretto ad abdicare. Lo stesso giorno il deputato socialdemocratico
Alcune ragazze si esibiscono in un varietà a Berlino, nel 1928.
MONETA PER GIOCARE A destra, alcuni bambini giocano con il Papiermark, il “marco di carta” che nel 1923 fu sostituito dal Rentenmark.
co erano stati eletti consigli di operai e soldati, sul modello dei soviet bolscevichi del 1917, facendo fuggire il sovrano di Baviera, Ludovico III. Il clima era incandescente e il pericolo che le rivolte si trasformassero in una rivoluzione bolscevica in stile russo preoccupava le classi medie e i politici, così i socialdemocatrici si riunirono a Weimar (Berlino era troppo pericolosa) per stilare il nuovo statuto della Repubblica e dare alla Germania un governo stabile. Benvenuta repubblica. L’atto di nascita della Repubblica di Weimar fu però il gennaio del 1919. Mentre i Freikorps, le truppe irregolari formate dai nazionalisti, cercavano di ristabilire l’ordine nelle città ribelli, il segretario dell’Spd Friedrich Ebert indisse le elezioni per un’Assemblea Costituente divenendo lui stesso il primo presidente della neonata repubblica. Il primo esperimento di democrazia della Germania però durò meno di 15 anni. Per anni gli storici si sono interrogati sui motivi di questo fallimento della democrazia e sembrano essere tutti concordi nell’imputare al meccanismo istituzionale la maggior parte delle colpe. Era infatti un sistema che portava spesso alla paralisi e all’ingovernabilità. Nell’elezione del Reichstag non
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VOGLIA DI CANTARE
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La TENSIONE SOCIALE aumentò dal 1930 a causa della POLITICA di rigore ECONOMICO era previsto alcun premio di maggioranza e la legge elettorale proporzionale era applicata alla lettera: i seggi erano ripartiti in base alle percentuali di voti conseguite. In più, non esisteva uno sbarramento per i piccoli partiti, il che portò alla proliferazione di questi ultimi e di fatto alla difficoltà di costituire una maggioranza solida capace di governare. Molti problemi erano dovuti alle opposizioni, in parlamento e nelle piazze, di comunisti e nazionalisti. Ma era lontano dai palazzi del potere che si giocava la partita più importante. Un Paese in ginocchio. Nel 1923-24 i disoccupati tedeschi erano più di due milioni e mezzo e l’economia era al collasso. Dopo la guerra, la produzione di carbone era diminuita del 26% e del 75% quella di ferro. Senza considerare il disastro nei trasporti: erano perduti tutti i mercantili di grande stazza e migliaia di locomotive e vagoni ferroviari. La Germania non era più competitiva sui mercati e, come se non bastasse, era piegata dai debiti contratti per lo sforzo bellico e dalle pesan16
tissime riparazioni chieste dai vincitori per i danni provocati dall’aggressione tedesca, considerata unica responsabile della guerra. La richiesta era di 132 miliardi di marchi. I versamenti sarebbero dovuti andare avanti fino al 1988 se Hitler non li avesse sospesi durante il suo cancellierato. Per pagare i debiti il governo fece stampare enormi quantità di banconote. Così, le quotazioni del marco negli Anni ’20 cominciarono a precipitare rispetto al dollaro: nel 1914 un dollaro valeva circa 4 marchi, nel 1923 il cambio era a 11 zeri (4.200 miliardi). Questo ebbe un effetto psicologico devastante sulla popolazione, poiché l’inflazione aveva toccato sia gli alti funzionari sia gli operai, e tutti imputavano al governo la responsabilità della precaria situazione. Si sentivano privati non solo di un futuro ma anche di un presente e molti temevano di morire di fame e di non avere più carbone per scaldarsi nel freddo inverno tedesco. La maggior parte dei tedeschi abitava ancora in villaggi o piccole cittadine e solo il 30 per cento
FRA LUSSO E SVENDITE Nella foto grande, nel 1931, una svendita totale in seguito al fallimento, in un negozio di preziosi. Sopra, una pubblicità della Opel del 1932 promuove l’auto come oggetto destinato solo “ai più fortunati”.
INTANTO NEL MONDO NN
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l n vem re Berlin il ise roclamata la re ubblica dal de utato socialdemocratico Phili Sc ei emann.
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n gennaio la rivolta spartachista ( ilocomunista) viene repressa. Assassinio ei ue ea er Rosa Luxem urg e Kar Lie nec t n Bav e Nasce un’e imera repubblica sovietica. Battaglia di Monac n a osto AWeimar viene approvata a nuova Costituzione
n ata i scioperi in Ita ia. Inizia i “ iennio rosso”. n Russia i aga a guerra civi e tra ’Armata Rossa bolscevica e l’Armata Bianca zarista, appoggiata da otenze straniere. Trattato i Versai es 28 iu no .
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l 24 febbrai a Monac Hitler fonda il Partito naziona socia ista ei avoratori. Tentato co o di Stato diWolf K ivolta comunista della Ruhr ressa dalle tr Frei o .
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A Londra i vincitori impon ono alla Germania il mento i 135 mi ia i i marc i r e r arazioni i uerra n India Gandhi inizia la resistenza assiva contro la B. n Cina si afferma il Kuominta ( rtito nazionalista).
Einstein riceve i No e per a Fisica.
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n Italia, il 28 ottobre Mussolini diventa ca o del overno. l 30 dicembre Lenin roclama la nascita dell’Unione o
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a Ru r è occu ta a Francia e Be io come ranzia sui danni di uerra n vem re Hitler tenta il col di Stato tsc i Monaco e viene arrestat
ustafa Kemal (Ata r iventa esi ente e a eonata re bblica turca. L’Im ro ottomano non esiste ù.
Prima es sizione e a scuo a e Bau aus a Weim Il francese Marcel Ducha lascia inco iuto il G n e vet e smette i rea izzare ere
nvestimenti Usa sta i izzano ’economia. La Germania pe e l’Alsazia e la Lorena. Le truppe rancesi iniziano a lasciare la Ruh l 20 dicembre Hitler esce di pri ione.
uore Lenin 24 gennaio n Ita ia viene assassinato i e utato socia ista i c m M tte tti e truppe e Kuomintan occupano Pec ino. Fine e eleste impero.
Muore lo scrittore Franz Ka ka. Le sue opere (tra cu Il process La metamor osi) sono pubblicate os ume T omas Mann 1875-1955 pu ica a monta na ncantata
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Il compositore Arnold Schönbe , inventore della dodecafonia è costretto a lasciare la Germania
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della popolazione totale (60 milioni) viveva nelle grandi città, come Berlino, Amburgo e Monaco di Baviera. Anni ruggenti. Eppure, nonostante le difficoltà economiche, la società tedesca stava cambiando, come e forse più delle altre nazioni europee. Fu un’epoca di rivoluzione nei costumi, soprattutto femminili, improntati a un’inedita emancipazione. E grandi idee invadevano la vivacissima Berlino, dove vennero ricostruiti interi quartieri in base a innovativi criteri urbanistici, ancora oggi presi a modello. Forse per questo l’immagine di una Germania laboriosa e positiva mantenne il sopravvento su quella di nazione triste, sconsolata e perdente, tanto che qualche intellettuale straniero la definì il Paese più stimolante d’Europa. Nel 1923 ci fu una piccola ripresa, con l’introduzione di una nuova moneta, il Rentenmark, che fece diminuire l’inflazione: l’economia sembrò migliorare. Seppur fiaccati dalle preoccupazioni e dai debiti, i tedeschi avevano tenuto duro e alla fine degli Anni ’20 erano state ricostruite la flotta mercantile e la rete ferroviaria e le esportazioni erano addirittura aumentate rispetto all’anteguerra. La produzione industriale cominciò a diventare competitiva per merito della manodopera altamente specializzata e dell’ammodernamento dei metodi di produzione. Nel 1930, tuttavia, nonostante la ripresa economica e sociale, la repubblica cominciava a mostra-
L’innovativo metodo della scuola Bauhaus
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finanziamenti, oltre che dalle rette degli studenti, arrivavano dalle aziende che commissionavano prototipi e progetti di oggetti e lavori all’avanguardia. Nel 1935 chiuse a causa della mancanza di commesse e per l’ostilità del nazismo.
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difici con una particolare architettura per gli alunni e casette nel bosco per gli insegnanti. Così si presentava una delle scuole più famose di tutti i tempi. Si chiamava Bauhaus e sorse in Germania, nell’età di Weimar. Muratori artisti. Il nome, dato dal suo ispiratore, l’urbanista Walter Gropius, deriva da Bauhütte che nel Medioevo indicava la loggia dei muratori. La nuova scuola nacque nel 1919 nella città di Weimar, con l’aiuto del governo socialdemocratico, dalla fusione dell’accademia delle arti con la scuola professionale di arti e mestieri. Al maestroartista, infatti, si affiancava il maestro-artigiano. La scuola, che si spostò a Dessau nel 1925 e nel 1932 a Berlino, attirò artisti e professionisti da tutto il mondo (vi insegnarono tra gli altri Kandinskij e Klee). I
Nel ’33 il Reichstag fu INCENDIATO. I nazisti ne approfittarono per dare pieni POTERI al cancelliere NELLA GERMANIA DI SINISTRA Una marcia di giovani comunisti nel 1925. Il Partito comunista tedesco nacque dopo la prima guerra mondiale e ottenne un gran numero di seggi al Reichstag. Poi, fu bandito e perseguitato dai nazisti.
CATENA MILITARE Le Ss, qui schierate a Berlino negli Anni ’30, nacquero nel 1925 come guardia personale di Hitler.
re segni di forte indebolimento: in poco più di 10 anni si erano avvicendati al potere 11 diversi cancellieri e si erano svolte 5 elezioni per il rinnovo del Reichstag, i cui membri venivano rieletti ogni qual volta (cioè molto spesso) ci si trovava in una situazione di ingovernabilità. Il baratro, per Weimar, si aprì quando divenne cancelliere l’esperto di finanza Heinrich Brüning, che tra i suoi obiettivi aveva quello di contrastare con il rigore di misure, anche impopolari, una nuova crisi economica dovuta alla Grande Depressione americana. Propose un decreto per il risanamento che il Reichstag non approvò, così il presidente Hindenburg usò i poteri straordinari che gli conferiva la Costituzione e sciolse il parlamento. Decisione che influenzò la storia a venire. Il nuovo protagonista. Nelle elezioni per il nuovo Reichstag che si tennero il 14 settembre 1930, ci fu una novità importante: il partito nazionalsocialista prese il 18,3% passando dai 12 depu-
tati del 1928 a 170. Hitler e i nazisti avevano cominciato negli Anni ’20 a cavalcare il malcontento delle masse rispetto alla questione delle riparazioni di guerra, che gravavano sulla popolazione che quella guerra non l’aveva voluta e, cosa ancora più grave, sulle generazioni future. Grazie ai proseliti fatti nelle università, nelle piazze e nei piccoli centri rurali il partito di Hitler aveva cominciato ad acquisire consensi e ora se la giocava all’interno del recinto istituzionale, pur contribuendo a costruire un clima di terrore e violenza fuori dal Palazzo. Dopo il fallimento del Putsch di Monaco nel 1923, Hitler aveva deciso che avrebbe preso il potere in modo legale. E così fu. Alle elezioni del 1932 ci fu il sorpasso: i nazisti superarono i socialdemocratici in Parlamento. Da quel momento Hitler, nominato cancelliere nel gennaio 1933, avrebbe iniziato a smantellare quel che restava della democrazia. t Federica Ceccherini
VERSO IL BARATRO
Il 10 giugno 1940 MUSSOLINI annunciò l’ENTRATA in guerra dell’Italia. Spinto dai suoi SOGNI di GLORIA e dai travolgenti successi sul campo dei TEDESCHI. Ecco come si ARRIVÒ alla fatale decisione
GUERRA
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“
umiliante stare con le mani in mano mentre gli altri scrivono la Storia [...]. Per fare grande un popolo bisogna portarlo al combattimento, magari a calci in culo. Così farò...”. Erano questi i bellicosi intenti di Benito Mussolini nell’aprile 1940, quando la Seconda guerra mondiale era iniziata ormai da sette mesi vedendo protagonista assoluta la Germania di Hitler e grande assente l’Italia. Nonostante la recente alleanza con il Führer, il Duce aveva deciso di prender tempo prima di gettarsi in un conflitto che il Paese non era ancora in grado di affrontare. Con il passare delle settimane, però, la sua opinione mutò radicalmente, facendogli compiere una scelta che in molti giudicheranno un colossale errore. Patto d’acciaio. Gli impegni bellici del regime fascista si fecero particolarmente intensi dal 1935, quando Mussolini iniziò la guerra d’Etiopia in capo alla quale, il 9 maggio 1936, proclamò la nascita dell’impero “sui colli fatali di Roma” (impero che nella sua massima espansione arriverà a includere Albania, Dodecaneso, Eritrea, Etiopia, Libia e Somalia). «Tale iniziativa, subito condannata dalla comunità internazionale, deteriorò in particolare i rapporti con la Francia e l’Inghilterra, fino a quel momento improntati alla cooperazione», spiega lo storico Renato Moro dell’Università degli Studi Roma Tre. «Il conseguente stato di isolamento in cui si ritrovò l’Italia indusse Mussolini ad avvicinarsi al regime tedesco, in precedenza criticato». Il Duce uscì in ogni caso dall’impresa etiope con la sensazione di aver fatto dell’Italia una grande potenza e, mentre si cullava nei sogni di gloria, non mancò di intervenire nella Guerra civile spagnola (1936-1939), favorendo il sorgere della dittatura del generale Francisco Franco. Nel frattempo, il 23 ottobre 1936, ufficializzò l’avvicinamento alla Germania con un storico accordo che, ribattezzato Asse Roma-Berlino, mirava a contrastare le forze comuniste e capitaliste (nel 1940 vi aderirà anche il Giappone) pur non implicando alleanze militari. In tale scenario, nel marzo 1938,
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A sinistra, Mussolini aaffacciato al balcone ddi Palazzo Venezia aannuncia l’entrata in gguerra dell’Italia (10 ggiugno 1940). E i giornali dell’epoca nne danno la notizia ((qui a sinistra).
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Come eravamo... fascisti
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molti figli. Peraltro, pur imponendo a quest’ultima il modello “madre e sposa”, il fascismo ne favorì la mobilitazione sociale attraverso associazioni come i Fasci femminili e le Massaie rurali. Quanto allo sport, servì sia a inquadrare la gioventù sia come veicolo di propaganda, dacché gli stadi favorivano le sfarzose adunate care al Duce.
Hitler procedette all’annessione dell’Austria (Anschluss) e a settembre la Conferenza di Monaco – a cui parteciparono francesi, inglesi, italiani e tedeschi – gli consentì di occupare ampie aree della Cecoslovacchia, con l’illusione che desistesse così da ulteriori velleità belliche. Da parte sua, Mussolini occupò nell’aprile 1939 l’Albania e discusse poi con il Führer da pari a pari (almeno nella forma) circa un’alleanza tra Italia e Germania in previsione di una futura guerra. Il 22 maggio 1939, a Berlino, fu quindi siglato il Patto d’Acciaio, definito dal firmatario Galeazzo Ciano “vera e propria dinamite”. «L’accordo, sancendo un’alleanza difensiva e offensiva tra le due nazioni – all’entrata in guerra dell’una, l’altra avrebbe dovuto seguirla – non mancò di creare divergenze all’interno della stessa dirigenza fascista», riprende Moro. Già rovente, il clima europeo si infuocò definitivamente il 1° settembre 1939, quando l’invasione della Polonia da parte della Germania avviò il secondo conflitto mondiale. Non belligeranza. Grazie alla “guerra lampo”, basata su un rapido e simultaneo utilizzo di divisioni corazzate, aviazione e marina, in pochi giorni le forze naziste costrinsero Varsavia ad alzare bandiera bianca, mentre l’Urss occupava la parte orientale della nazione polacca (senza scontrarsi con i tedeschi in virtù di un trattato di non aggressione firmato poche settimane prima: il celebre patto Molo22
Al quale non piaceva invece la libertà di opinione, tanto da imporre la censura su testi scolastici, giornali, cinema e radio, mentre l’arte e l’architettura furono usate per celebrare la maestosità del regime. Opere. Nondimeno, col fascismo si registrò la nascita delle prime autostrade, la realizzazione di grandi bonifiche e una
crescita in campo tecnicoscientifico, con la nascita nel 1923 del CNR e lo sviluppo degli studi in fisica e chimica. In ambito religioso, pur rivendicando la propria laicità, il Fascismo andò a braccetto con la Chiesa per opportunità politica. Il rapporto si incrinò però con le leggi razziali del 1938 e con l’entrata in guerra.
Badoglio considerava l’entrata in guerra un SUICIDIO e dello stesso avviso erano la CHIESA, la monarchia e i fascisti moderati
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el decennio fra le due guerre il fascismo si innestò nella società italiana conquistando un ampio consenso. Come? Certamente ricorrendo all’uso della forza, ma non solo: vendette il sogno di un’Italia destinata a divenire una grande potenza e mise le mani in ogni settore della cultura e della società. Il fascismo plasmò lo stile di vita degli italiani sulla base di un esasperato nazionalismo che si rifletté persino sui nomi delle cose... tanto che il sandwich fu ribattezzato tramezzino, i cocktail bevande arlecchine e il ketchup salsa rossa. A 360 gradi. L’indottrinamento partì dai più giovani (sopra, il saluto romano di un gruppetto di “figli della lupa”) con l’Opera nazionale balilla, ente dedito alla loro educazione morale e fisica. Il fascista ideale doveva d’altronde avere un corpo atletico e così la donna, per allevare
CI SIAMO ANCHE NOI! Sotto, Mussolini e altre autorità in Piemonte, sulle Alpi francesi. È il 25 giugno 1940 e si è appena conclusa la Battaglia delle Alpi Occidentali.
tov-Ribbentrop). In risposta alle azioni tedesche, il 3 settembre Francia e Gran Bretagna avevano intanto dichiarato guerra alla stessa Germania, anche se per molti mesi non vi saranno vere operazioni belliche. Il 10 maggio 1940, però, Hitler ruppe gli indugi e – dopo aver già invaso Danimarca e Norvegia – attaccò a sorpresa Belgio e Paesi Bassi, travolgendo poi la Francia. E l’Italia? “Non prenderà iniziativa alcuna di operazioni militari”, aveva annunciato il 2 settembre 1939 a tutta pagina il Corriere della Sera. «Fin dallo scoppio della guerra, Mussolini aveva infatti optato per la non belligeranza, concetto peraltro ben diverso da quello di neutralità», sottolinea lo storico. «In breve, l’Italia fascista si era dichiarata favorevole alla causa tedesca e non aveva escluso un futuro intervento». Tra l’altro, Mussolini avrebbe dovuto partecipare subito al conflitto al fianco dei tedeschi in virtù del Patto d’Acciaio, ma a causa della mancata consultazione dell’Italia da parte della Germania prima di invadere la Polonia (cosa che contravvenne al patto stesso), il Duce poté riservarsi di non entrare in guerra a supporto di Hitler. «A indurlo alla non belligeranza furono essenzialmente due motivi: lo stato di impreparazione dell’industria e dell’esercito e un’opinione pubblica massicciamente contraria, che simpatizzava anzi per la Polonia cattolica aggredita dai nazisti», aggiunge Moro. Pur preferendo per
il momento rimanere alla finestra, Mussolini nutriva in ogni caso la convinzione che la guerra avrebbe potuto portare sostanziali vantaggi geopolitici per il Paese, soprattutto nel controllo del Mediterraneo a scapito delle forze francesi e inglesi. Ripensamenti. Durante i mesi di non belligeranza il Duce apparve spesso inquieto, intento a valutare l’opportunità di intervenire nel conflitto. “Il problema non è [...] sapere se l’Italia entrerà o non entrerà in guerra [...], si tratta soltanto di sapere quando e come”, si lasciò sfuggire nel marzo 1940. «Ad accelerare il corso degli eventi furono gli straordinari successi ottenuti dai nazisti, soprattutto in terra francese», continua lo storico. «Questi spinsero definitivamente Mussolini a propendere per la partecipazione al conflitto, volendo egli assicurarsi che, prima della fine della guerra, l’Italia raggiungesse nuove conquiste per sancire il proprio status di grande potenza. “Mi serve un pugno di morti per sedermi al tavolo delle trattative”, arriverà a dire con cinismo». La sua intenzione era quella di combattere con le proprie forze una guerra parallela a quella tedesca, con operazioni di breve durata in aree marginali del conflitto. Nondimeno, il maresciallo Pietro Badoglio
“Ah, se solo gli italiani fossero rimasti LONTANI da questa GUERRA!”, commenterà sarcastico più volte HITLER
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alla stregua di un giocatore d’azzardo – determinarono una sequela di sconfitte che si reiterarono dalla Grecia alle gelide steppe dell’Urss passando per l’infuocato deserto africano di El Alamein», conferma Moro. “Ah! Se solo gli italiani fossero rimasti lontani da questa guerra!”, commenterà con sarcasmo Hitler, costretto più volte ad assistere militarmente le nostre truppe. Tragica conferma di quanto fosse stata scellerata la scelta bellicista del 10 giugno 1940, che portò il Paese alla catastrofe e determinò il crepuscolo politico (e non t solo) dello stesso Mussolini. Matteo Liberti
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avvertì come a suo giudizio l’entrata in guerra fosse da considerarsi un “suicidio”, mentre il commissario generale per la produzione bellica, Carlo Favagrossa, consigliò di non scendere in campo prima di due anni. Simili diffidenze furono palesate dalla monarchia, dalla Chiesa e dagli esponenti più moderati del fascismo, ma Mussolini sembrò sordo a ogni critica. Il 29 maggio convocò quindi a Palazzo Venezia lo stato maggiore dell’esercito e comunicò la decisione di entrare quanto prima in guerra. Frattanto, influenzata da una crescente propaganda (che prospettava una guerra “dinamica” e “rapida”), l’opinione pubblica aveva iniziato a mostrare dei ripensamenti circa la partecipazione al conflitto, convincendosi che il suo esito fosse scontato – visti i successi nazisti – e che l’Italia potesse realmente acquisire dei vantaggi economici e territoriali, scongiurando inoltre una futura subordinazione allo Stato tedesco. “Vincere e vinceremo” (anzi no). Per quanto titubante, anche il re accettò infine l’impegno bellico. E così, in data 10 giugno 1940, fu consegnata una formale dichiarazione di guerra all’ambasciatore inglese Sir Percy Loraine e a quello francese André François-Poncet, che dichiarò deluso: “Avete atteso che noi fossimo a terra per darci un colpo di pugnale nella schiena”. Dopodiché, affacciato al balcone di Palazzo Venezia, il Duce annunciò al popolo la propria scelta: “Uomini e donne d’Italia [...]! La dichiarazione di guerra è già stata consegnata [...]. La parola d’ordine è una sola [...]: vincere e vinceremo!”. Trasmesso per radio e amplificato nelle piazze delle maggiori città italiane, nonché riportato dalle prime pagine di tutti i giornali, il discorso di Mussolini accese di speranze la nazione mentre le truppe tricolori si schieravano lungo il versante alpino occidentale allo scopo di attaccare la Francia già messa in ginocchio dai tedeschi. Il 14 giugno alcuni stabilimenti industriali di Genova furono quindi bombardati dalle forze francesi senza che la marina italiana riuscisse a intervenire, mentre nella Battaglia delle Alpi Occidentali, che si protrasse fino al 24 giugno, i soldati italiani ottennero scarsi successi limitandosi alla conquista del comune di Mentone. Sfumarono così i progetti di spartizione della Francia e di acquisizione del suo Impero coloniale africano. Nonostante la roboante propaganda fascista, i sogni di gloria svanirono più tardi anche altrove. «L’impreparazione delle truppe e gli errori di valutazione del Duce – che spesso tendeva a ignorare la realtà per inseguire i fuochi fatui dell’ideologia, comportandosi
ALLEANZA MORTALE Sotto, Mussolini e Hitler a Monaco, il 25 settembre 1937: la guerra non è ancora scoppiata ma da un anno Italia e Germania sono vincolate nell’Asse Roma-Berlino.
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GIAPPONE-USA
Con l’ATTACCO alla base americana di PEARL HARBOR, l’America entrò in guerra. Ma fu vera SORPRESA o una TRAPPOLA congegnata dai poteri forti per CONVINCERE l’opinione pubblica?
7 DICEMBRE 1941
INTRIGO
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GRANGER/ALINARI
ATTACCO ALL’AMERICA
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Sopra, la base navale statunitense di Pearl Harbor (Hawaii) il 6 dicembre 1941, il giorno prima dell’attacco giapponese. Sotto, la corazzata Arizona, affondata dopo essere esplosa. A sinistra, un quadro di Robert Grant Smith (1914-2011) con la ricostruzione dell’evento.
NEL PACIFICO 27
Il disastro della difesa americana minuto per minuto
TIME & LIFE PICTURES/GETTY IMAGE
7 dicembre 1941 ore 6:00 I primi 183 aerei giapponesi decollano dalle portaerei, 230 miglia (circa 370 km) a nord delle Hawaii.
L’ OFFENSIVA contro la flotta del PACIFICO era stata progettata oltre UN ANNO prima
ore 7:02 Gli operatori radar sulla costa settentrionale dell’isola di Oahu (dove sorge la base) rilevano gli aerei giapponesi. L’ufficiale di turno però ritiene si tratti di bombardieri B-17 americani attesi per quel giorno e non dà l’allarme.
ore 7:15 I 167 aerei della seconda ondata decollano dalle portaerei giapponesi. Alla base non è ancora stato dato l’allarme. Gli aerei da caccia sono a terra e nessuna difesa antisiluro è stata approntata. È domenica, e molti ufficiali sono in libera uscita.
Corazzata Nevada ore 7:53 1a ondata
ore 8:54 2a ondata
Corazzata Arizona
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e uniche cose certe sono le bombe giapponesi e i morti statunitensi. Ma sul come e sul perché si giunse a quel mattino del 7 dicembre 1941 – quando la base navale Usa di Pearl Harbor (Hawaii) fu attaccata da forze aeree nipponiche – gli storici non concordano. La domanda è: si trattò di un attacco a sorpresa, come scrisse la stampa a stelle e strisce, o qualcosa era trapelato e si poteva evitare una strage che costò la vita a oltre 2mila uomini e trascinò il Paese nel secondo conflitto mondiale? Le risposte degli storici sono di tre tipi. Primo tipo: “sì, il bombardamento prese tutti alla sprovvista e fu un’infamia poiché non preceduto da una formale dichiarazione di guerra”. Secondo tipo: “ni, le intenzioni giapponesi erano note, ma il disastro fu colpa di ufficiali incompetenti”. Terzo tipo: “no, nessuna sorpresa, il presidente Usa Franklin Delano Roosevelt conosceva le intenzioni nipponiche ed era ansioso di trovare un casus belli per entrare in guerra”. Per capire se la spiegazione “del terzo tipo” è un’esagerazione bisogna riavvolgere il nastro della Storia di 75 anni. Alta tensione. Nell’autunno del 1940, 12 mesi dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale, il Giappone (alleato dell’Italia di Mussolini e della Germania di Hitler) avviò l’occupazione dell’Indocina francese (attuali Vietnam, Laos e Cambogia) suscitando l’ostilità degli Stati Uniti. «Gli Usa teme28
Corazzata West Virginia
Corazzata Tennessee
Incrociatore Detroit, una delle navi incolumi
vano di perdere la supremazia sull’area del Pacifico (controllavano le Filippine, ndr)», spiega Mario Del Pero, docente di Storia e istituzioni delle Americhe all’Università di Bologna. «Sapevano infatti che in Asia non esistevano potenze che potessero contrastare l’ascesa nipponica». Per arginarne l’espansionismo, Roosevelt decretò l’embargo contro l’impero del Sol Levante, giungendo presto al blocco totale del traffico petrolifero e dell’industria pesante. Sul piano strettamente militare, si sperava invece che la potente flotta del Pacifico, che faceva base alle Ha-
LA MENTE In alto a sinistra, Yamamoto, l’ammiraglio e stratega che ideò l’attacco.
M. PATERNOSTRO
Il bombardamento durò meno di tre ore nelle quali i giapponesi impiegarono 78 caccia, 40 aerosiluranti e più di 200 bombardieri. Le portaerei Usa, in mare, si salvarono.
ore 7:53 Il comandante Mitsuo Fuchida lancia l’ordine d’attacco“Tora! Tora! Tora!”(“Tigre! Tigre! Tigre!”) con 50 bombardieri“Val”, 40 aerosiluranti“Kate”, 50 bombardieri d’alta quota e 43 caccia“Zero”. Vengono subito colpiti i campi di volo e le navi all’ancora.
ore 8:10 La corazzata Arizona viene affondata da una bomba che, incuneatasi nella santabarbara (deposito di munizioni) di prua, la fa esplodere uccidendo oltre mille uomini dell’equipaggio.
ore 8:54 La seconda ondata giapponese (35 caccia e 132 bombardieri) incontra il primo fuoco di sbarramento. Viene colpita la corazzata Pennsylvania.
ore 9:30 L’attacco è al suo culmine: una bomba disintegra la prua del cacciatorpediniere Shaw. Frammenti della nave arrivano fino a diversi chilometri di distanza.
Aerosilurante Nakajima B5N“Kate”
ore 9:45 Gli aerei giapponesi si radunano in formazione e lasciano l’obiettivo. Quattro corazzate Usa risultano affondate, altre tre gravemente danneggiate, una decina di unità minori perdute e 188 aerei distrutti. I giapponesi hanno perso 29 aerei. Gli americani contano 2.433 morti e quasi 1.200 feriti, i giapponesi 55 morti.
Corazzata Pennsylvania Corazzata California
Cacciatorpediniere Shaw Corazzata Maryland
Corazzata Oklahoma
Caccia Mitsubishi A6M“Zero”
Bombardiere Aichi D3A“Val”
SOTTO LE BOMBE Nel disegno, la ricostruzione del raid a Pearl Harbor con le tipologie di aerei giapponesi e le unità americane coinvolte.
waii, bastasse come deterrente. Così non fu e, quando nel luglio del 1941 il Giappone completò l’occupazione indocinese, gli Usa risposero congelando i beni nipponici nel proprio Paese. Ormai sull’orlo dell’asfissia economica, i giapponesi intrapresero la via diplomatica, avendo però già nel cassetto un progetto di attacco aereo contro le basi Usa nel Pacifico. «Ogni tentativo di accordo si scontrò con la chiusura diplomatica americana, la cui rigidità era giustificata dalla prospettiva di dover fronteggiare, in caso di vittoria dell’asse
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Incrociatore Raleigh
SCONFITTO L’ammiraglio Kimmel, capo della flotta del Pacifico, rimosso dopo l’attacco.
Gli strani precedenti dell’interventismo americano
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el dibattito alimentato dalle tesi complottiste dopo gli attacchi contro gli Usa dell’11 settembre 2001 (che ipotizzavano un coinvolgimento del governo Usa, ansioso di invadere l’Afghanistan e l’Iraq) si sono evocati alcuni precedenti nella storia dell’in-
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terventismo americano. Nel 1898 gli Usa combatterono contro gli spagnoli (conquistando Cuba e altre aree dell’America Centrale) utilizzando come casus belli l’esplosione della nave Maine, attribuita a un attacco iberico. La Spagna respinse ogni accusa, ma la
stampa americana lanciò una campagna che portò alla guerra (poi si scoprì che si era trattato di un incidente). Ammissioni. Se nel 1917 e nel 1941 l’ingresso in guerra fu conseguenza di due attacchi non proprio inattesi (v. articolo) nel 1964 toccò ai nordvietna-
miti, accusati di aver silurato un’unità navale statunitense. Era il cosiddetto“incidente del Tonchino”, che determinò l’intervento americano in Vietnam. Ma nel 2003 l’ex segretario alla Difesa Robert McNamara ammise che si era trattato di un’invenzione strumentale.
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Una nave di PATTUGLIA rilevò SOTTOMARINI, ma si preferì attendere ulteriori verifiche invece di lanciare l’ALLARME Roma-Berlino-Tokyo, un’alleanza ostile che comprendeva l’intera massa continentale euroasiatica», aggiunge lo storico. Bisognava agire in fretta. Ma come convincere il Congresso (l’unico organo preposto a decidere un’eventuale entrata in guerra) e la cittadinanza della necessità dell’impegno bellico? Un sondaggio del settembre 1940 aveva chiarito che quasi il 90% degli americani era contrario a una partecipazione al conflitto. E lo stesso Roosevelt aveva giurato agli americani che nessun ragazzo sarebbe caduto in battaglia poiché il Paese non avrebbe mai preso parte alla guerra in Europa. A sciogliere l’impasse diedero una mano proprio i giapponesi. Piani. Nell’estate del 1941, in previsione di un fallimento dei colloqui diplomatici, l’ammiraglio Isoroku Yamamoto completò la messa a punto del piano di attacco a Pearl Harbor. «Il piano prevedeva – come da tradizione giapponese – la consegna di una formale dichiarazione di guerra solo pochi minuti prima dell’inizio delle operazioni, così da sfruttare pienamente l’effetto sorpresa», spiega lo storico Sergio De Santis, esperto di spionaggio nella Seconda guerra mondiale. Con il nome in codice di Operazione Z, la manovra nipponica iniziò il 26 novembre (a trattative ancora in corso) quando una
L’AMERICA BRUCIA
INASCOLTATO Joseph Lockard, l’operatore radar che rilevò gli aerei in rotta verso la base: l’ufficiale responsabile pensò però fossero americani. GETTY IMAGES
Sopra, i quotidiani Usa dell’8 dicembre 1941 riportano la notizia dell’attacco alle Hawaii. A sinistra, i soccorsi a un sopravvissuto dopo l’attacco.
flotta composta da corazzate, incrociatori, portaerei e sommergibili salpò dalla Baia di Hitokappu (Isole Curili, a nord del Giappone) in direzione delle Hawaii. Falliti gli ultimi tentativi diplomatici, i giapponesi si portarono nei pressi dell’arcipelago americano e all’alba del 7 dicembre dalle loro portaerei si alzarono in volo ben 350 aerei carichi di bombe. Quanto alla dichiarazione di guerra, pur se partita in tempo, per una serie di intoppi giungerà alla segreteria di Stato Usa solo ad attacco iniziato. Caso volle, poi, che quando alle 7:02 un radar avvistò i primi aerei giapponesi, i militari si convinsero che si trattasse di bombardieri americani il cui arrivo era previsto a breve. E per di più il 7 dicembre 1941 era una domenica, giornata di libera uscita per gli equipaggi e quindi di minore efficienza. Il bombardamento cominciò alle 7:55, due minuti dopo che il capitano Mitsuo Fuchida aveva urlato via radio la parola d’ordine “Tora! Tora! Tora!” (tre volte “Tigre”, ma in questo caso da tradurre come “Attacco!”). In un paio d’ore di bombardamento vennero affondate quattro corazzate e altre grandi
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VIA LIBERA A destra, il radiogramma del consolato giapponese alle Hawaii che il 6 dicembre 1941 confermava la presenza della flotta Usa. Qui a fianco, il“memorandum McCollum” desecretato nel 1994: già nell’ottobre 1940 suggeriva come indurre i giapponesi ad attaccare per primi.
Sull’onda dell’entusiasmo, i PILOTI giapponesi avrebbero voluto TORNARE con una terza ONDATA, ma furono fermati Tra questi Robert Stinnett, ex combattente nella marina Usa e pluridecorato nel secondo conflitto mondiale, autore di uno studio durato ben 17 anni e pubblicato negli Usa nel 1999. Stinnett definisce Roosevelt una vittima della ragion di Stato, ma non ha dubbi nel dire che gli oltre 200mila documenti da lui presi in esame provano che l’attacco “non fu una sorpresa, né per il presidente, né per i suoi consiglieri politici e militari”. La tesi di Robert Stinnett si basa, tra le altre cose, sulle trascrizioni delle intercettazioni che l’esercito Usa fece ai danni della marina giapponese nel 1941, la cui divulgazione è stata possibile grazie al Freedom of Information Act del 1966, una legge che permette di accedere ai documenti desecretati. «Da questi sono emersi particolari inquietanti, come il fatto che già nel gennaio 1941 l’ambasciatore statunitense a Tokyo, Joseph Clark Grew, aveva segnalato l’esistenza di un piano per attaccare Pearl Harbor», racconta Sergio De Santis. «Inoltre risulta che i servizi Usa avevano decifrato molti messaggi giapponesi grazie a Magic, una macchina di decodifica, che a inizio dicembre avevano confermato come l’attacco fosse questione di ore». Tra l’altro, dice Stinnett, “i bollettini radio confermano che nelle due settimane precedenti l’attacco Roosevelt aveva il pieno accesso alle intercettazioni”. Cabina di regia. Stinnett si è spinto anche più in là, ipotizzando che l’attacco fu il risultato di un’occulta regia Usa. Lo ha fatto basandosi su un documento emerso nel 1994: il “memorandum McCollum”. Si tratta di uno scritto firmato da Arthur McCollum (uomo dell’intelligence americana) e consegnato alla presidenza Usa il 7 ottobre 1940. Nel testo si sottolineava la necessità impellente di entrare in guerra per difendere gli interessi americani e ci si au-
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navi da guerra e distrutti quasi 200 aerei, consegnando alla morte oltre 2.400 uomini. «Già il giorno dopo, sull’onda dell’emozione, il Congresso votò l’entrata in una guerra nella quale di fatto gli Usa erano già coinvolti», dice Del Pero. «Per mesi si era temporeggiato di fronte allo scoglio di un’opinione pubblica refrattaria a intervenire fuori dai confini». Ma lo choc fece cambiare idea a quasi tutti e molte famiglie furono orgogliose di mandare i propri figli a “vendicare Pearl Harbor”. Coincidenze. In molti, per la verità, chiesero anche spiegazioni sulla débâcle della difesa Usa. In prima battuta fu scaricata ogni responsabilità sui comandanti di stanza alle Hawaii: il generale Walter Short e l’ammiraglio Husband Edward Kimmel, destituiti dopo che una commissione d’inchiesta voluta da Roosevelt li giudicò incapaci di svolgere il loro compito. Nel corso del tempo, però, si sono accumulati molti dubbi su questa ricostruzione. Già nel 1917 gli Stati Uniti entrarono in guerra contro la Germania dopo aver allestito una prolungata propaganda seguita all’affondamento per mano tedesca del transatlantico Lusitania (1915), nave inglese su cui viaggiavano anche cittadini Usa. Che cosa c’entra Pearl Harbor? «C’è un’analogia», risponde De Santis. «Nel 1915 gli americani conoscevano benissimo il rischio che correva il Lusitania, che trasportava segretamente materiale bellico. La Germania aveva persino avvisato New York, porto di partenza, di non imbarcare nessuno poiché, lungo la sua rotta, rischiava di violare il blocco navale. E nel 1941 lasciare la flotta ancorata alle Hawaii era altrettanto rischioso e provocatorio». Questo il punto: in un Paese come gli Usa, dove l’opinione pubblica gioca un ruolo decisivo, serve sempre un motivo valido per muovere guerra. Nel caso di Pearl Harbor, i “dietrologi” pensano che i vertici americani abbiano voluto provocare i giapponesi offrendo loro una preda irresistibile: la flotta alle Hawaii. Un’accusa dura che molti studiosi rigettano ma che altri hanno indagato senza tabù.
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ell’ottobre del 1940 l’Italia era alle prese con una doppia offensiva, in Libia e in Grecia, e la sua flotta era concentrata nel porto di Taranto. I britannici, rivali nel Mediterraneo Sud-orientale, notando che “tutti i fagiani erano nel nido” (come disse
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l’ammiraglio Cunningham), decisero un attacco a sorpresa. Indifesi. La base era poco organizzata: solo un terzo degli oltre 12mila metri di reti antisiluro previsti era stato disteso in mare; mancavano adeguate misure di rilevamento notturno e la contraerea era caren-
te. Partiti dalla portaerei Illustrious, nel Basso Ionio, gli aerei giunsero sull’obiettivo verso le 23:00 dell’11 novembre: in un’ora e mezzo misero fuori uso 4 navi lasciando sul campo 59 morti. L’attacco sarà“imitato”dai giapponesi a Pearl Harbor poco più di un anno dopo.
GRANGER/ALINARI
Taranto 1940: la Pearl Harbor italiana
vembre i vertici militari Usa ricevettero questa comunicazione: “Gli Stati Uniti desiderano che il Giappone intraprenda il primo passo”. Secondo Stinnett, Roosevelt – seppure a malincuore – “provocò l’attacco e accettò, consapevolmente, di esporre a un enorme rischio i militari nell’area del Pacifico”. Un’area che rimarrà bollente fino all’agosto del 1945, quando il nuovo presidente americano, Harry Truman, farà sganciare le due atomiche che posero fine al conflitto, invertendo simbolicamente le sorti del 7 dicembre 1941: americane le bombe, giapponesi i quasi 200mila civili morti. t Matteo Liberti
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VENDETTA A sinistra, manifesto Usa esorta a vendicare Pearl Harbor. A destra, Roosevelt firma la dichiarazione di guerra, l’8 dicembre 1941. Nella foto in basso, aerei Usa in fiamme dopo l’attacco giapponese.
gurava che ad attaccare per primo fosse il Giappone. Nel memorandum si suggerivano 8 azioni provocatorie per ottenere questo risultato, tra cui l’invio di navi e sommergibili presso le acque territoriali giapponesi, l’appoggio alla Cina, l’avvio di un embargo totale e il mantenimento della flotta Usa alle Hawaii, nonostante i rischi che ciò comportava. «Ogni punto del memorandum fu messo in atto e poco prima del 7 dicembre furono allontanate da Pearl Harbor tre portaerei, lasciando nella base navi meno moderne», ricorda De Santis.«Ce n’è abbastanza per dubitare della versione ufficiale». Sacrificio. Tutti d’accordo? Naturalmente no. «Il memorandum non dimostra che Roosevelt avesse intenzione di provocare l’attacco per giustificare l’intervento americano», obietta Del Pero. Di tutt’altra opinione è Stinnett, il quale ricorda che a fine no-
INCURSIONI
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OBIETTIVO
IL RAID DI DOOLITTLE A pianificare il raid e guidare gli aerei in missione su Tokyo fu il tenente colonnello Jimmy Doolittle (foto a sinistra). Sul giornale, il Giappone ammette di aver subito danni.
bombardieri a lungo raggio che potessero raggiungere le isole giapponesi, le basi del Pacifico da cui avrebbero potuto tentare erano in mano nemica e Cina e Urss non accettavano avamposti sul loro territorio. Tra le navi che ancora rimanevano agli americani, però, vi erano le portaerei, che durante l’attacco a Pearl Harbor erano fuori in esercitazione. Queste, sì, potevano avvicinarsi, seppur con estremo pericolo, alle coste del Giappone, ma non esistevano aerei imbarcati che avrebbero potuto comunque spingersi fino a Tokyo; figuriamoci poi farne ritorno. Niente da fare: era un compito per bombardieri. Tentare l’impossibile. La soluzione venne in mente per caso a un capitano dell’Us Navy, Francis S. Low, mentre, nel gennaio 1942, assisteva a un’esercitazione di alcuni B-25 che si addestravano ad attaccare una finta portaerei. Il bimotore B-25 Mitchell era uno dei migliori bombardieri medi in dotazione, benché non ancora testato in guerra. Sebbene neppur lontanamente concepito per quel ruolo, forse quel mezzo per ingombro, peso e potenza sarebbe potuto decollare da una portaerei!
I giapponesi erano INVINCIBILI, o così sembrava. Ma una formazione americana minò la loro FAMA di imbattibilità ATTACCANDOLI in casa
TAKE OFF! In questo montaggio di foto d’epoca, un bombardiere B-25B pronto a decollare dalla portaerei Hornet e poi in volo sul Pacifico. Destinazione, gli obiettivi militari presenti a Tokyo, Yokohama, Kobe, Osaka e Nagoya.
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ll’inizio del 1942 gli Stati Uniti erano a un punto critico: l’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941 ne aveva messo in ginocchio la potenza navale, ma soprattutto aveva dato un duro colpo al morale della popolazione. Le vittorie nipponiche nel Pacifico allarmavano l’opinione pubblica: la gente aveva paura, comitati pubblici offrivano denaro per colpire i giapponesi. Serviva qualcosa per confermare alla popolazione che le Forze armate Usa erano ancora combattive. E andava fatto in tempi brevi. Lo stesso presidente Roosevelt auspicava un’azione altamente dimostrativa. Già a dicembre, da esperto psicologo delle masse, il presidente aveva proposto ai capi di Stato Maggiore di bombardare Tokyo. Capiva che, per rialzare il morale americano e minare quello nemico, si doveva colpire dove avrebbe fatto più male, direttamente sul suolo del Giappone, su quella terra che i nipponici amavano più di ogni altra cosa. E cosa meglio della capitale, considerata inviolabile? Già, ma come farlo? Gli Usa non disponevano di
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Il vero risultato non fu il DANNO a Tokyo, di SCARSA entità, ma la notizia che il GIAPPONE non era più INVIOLABILE I capi di Stato maggiore della Marina, l’ammiraglio Ernest J. King, e dell’ Usaaf, generale Henry H. Arnold, approvarono e i test ebbero inizio. Vennero esaminati anche altri aerei, ma il B-25 si dimostrò, con due voli di prova nel febbraio 1942, pur con grandi difficoltà, l’unico adatto al decollo da una portaerei. Ma non era poi in grado di appontare, quindi un rientro dei velivoli con lo stesso sistema era da scartare. Ormai la decisione era presa e con la massima segretezza lo Special Aviation Projet N.1 andò avanti, affidato al comando di uno dei piloti più famosi ed esperti del momento, il tenente colonnello Jimmy Doolittle. Si trattava ora di preparare i mezzi, rapidamente, anche per ovvi motivi di sicurezza, selezionare e soprattutto addestrare gli equipaggi, assolutamente digiuni di operazioni del genere su aerei concepiti per il decollo da terra. Aerei e raider. Furono scelti 24 B-25B (solo 16 avrebbero preso parte all’azione) del 17° Gruppo da bombardamento dell’Usaaf (U.S. Army Air Force), che aveva i piloti più esperti su quei velivoli. Gli equipaggi (di 5 uomini) vennero selezionati tra i volontari per una “missione non specificata, ma estremamente pericolosa”. Dal 1° marzo 1942, Jimmy Doolittle, col suo entusiasmo condito da una buona dose di lucida follia tipica dei pionieri del volo, mise sotto uomini e macchine: in sole 3 settimane di addestramento, intensivo e maniacale (decollo simula36
to da un ponte di poco più di 70 metri, volo e bombardamento a bassa quota, volo notturno e sul mare), erano pronti per la missione. Agli aerei si dovettero aggiungere serbatoi supplementari (fino a circa 4.300 litri di carburante), blindature, dispositivi antighiaccio e di autodistruzione (in caso di atterraggio in territorio nemico) e, di contro, fu eliminato tutto il superfluo per ridurne il peso in decollo, tra cui il moderno dispositivo di puntamento (cambiato con uno semplificato) e addirittura le mitragliatrici di coda, sostituite da pezzi di legno verniciati. Ordigni e piani di volo. Tutti gli aerei portavano 4 ordigni da 225 kg costruiti appositamente: 3 ad alto esplosivo e uno incendiario, con 128 sub-munizioni ciascuno. Anche il piano era stato delineato: gli aerei sarebbero stati caricati sulla portaerei Hornet, scelta per l’esigenza (al comandante fu detto che si trattava solo di un trasferimento), che avrebbe fatto rotta verso il Giappone scortata dalla Task Force 16.2 e dalla TF 16.1, che avrebbe incontrato in mare aperto. A circa 700 km dalla costa gli aerei sarebbero decollati verso Tokyo-Yokohama. Arrivando da sud-ovest, sganciato il carico, si sarebbero allontanati nella stessa direzione. Poi rotta a ovest verso la Cina e atterraggio su aeroporti segreti locali, guidati da radiofari che gli Usa avevano convinto i riluttanti cinesi a installare. Riforniti, sarebbero poi ridecollati verso basi alleate da stabilire (erano in cor-
NEL MIRINO Sopra, l’arsenale Yokosuka (nella zona di Tokyo), foto presa da uno dei bombardieri durante il raid.
G. ALBERTINI
UNIONE SOVIETICA adivostok
Pechino
GIAPPONE
Mar del Giappone
COREA
CINA
Tokyo Kobe
Hiroshima
Nagoya Osaka
Yokohama Hornet
Mar Giallo
Nanchino Hangkow
Nagasaki
Shanghai
Chungking
Mar Cinese Orientale
FORMOSA
Canton
HONG KONG
L’AMERICANO A destra, capitano pilota; sul completo color cachi estivo veste il giubbino A-2 in pelle, in dotazione all’Usaaf.
Oceano Pacifico
Mar Cinese Meridionale
so trattative con l’Urss). Non più di 3.200 km di volo a tratta, considerando un’autonomia massima di 3.800 km. Piano facile sulla carta, in realtà pieno di incognite: a partire dal decollo, che abbisognava di un forte vento di prua, fino al problema degli atterraggi in Cina. Una volta decollati, poi, i B-25 avrebbero volato senza uno straccio di caccia ad accompagnarli e difenderli. Il 1° aprile 16 aerei e 24 equipaggi (alcuni in riserva) furono imbarcati sulla Hornet nella base di Alameda. Per poco non si rischiò di rendere pubblica l’operazione a causa di una troupe imbarcata per filmare gli eventi: il regista era infatti John Ford e questo aveva già richiamato l’attenzione della stampa. Senza altri intoppi il 2 aprile la Hornet e le navi di scorta salparono. Solo in alto mare Doolittle mise al corrente dei dettagli del piano i propri piloti e i comandanti delle navi. L’unico già al corrente era il vice ammiraglio Halsey, che con la TF 16.1 raggiunse la TF 16.2 nel punto previsto, il 13 aprile. Fin qui tutto secondo i piani, ma nelle prime ore del 18, a circa 1.300 km dalla costa giapponese, navi nemiche in pattugliamento costrinsero la flotta a cambiare rotta. Alle 7:30 circa, un’altra nave del Sol Levante, la Nitto Maru, fu affondata dall’incrociatore Nashville, ma l’allarme, captato anche dagli americani, era stato dato. Il rischio era troppo; non si poteva più attendere. Con circa 10 ore di anticipo e a oltre
Il raid nel Pacifico
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l 7dicembre 1941 aerei giapponesi attaccano Pearl Harbor (Hawaii). Il 3 febbraio 1942 iniziano i primi esperimenti con i B-25 e a marzo parte l’addestramento al comando del ten. col. Doolittle. Il 2 aprile la portaerei Hornet con imbarcati gli equipaggi Usaaf e 16 B-25 salpa dalla California con rotta per il Giappone, scortata dalla Task Force 16.1. Il 13 nel punto stabilito (38° 2 si incontra (38 Nord Nord, 180° 180 Est) Est), la TF 16 16.2 con la TF. 16.1 in arrivo da Pearl Harbor. Ecco cosaa accade il 18 aprile. 03:12 Su ui radar appaiono alcune naavi nemiche. La rotta odificata. viene mo na nave giapponese 07:15 Un lancia l’alllarme. L’ordine d di decollaree è anticipato. 08:20 Deecolla il primo B-2 25 dalla Hornet. 12:30 Glli aerei di Doolittle sono su TTokyo e bombardano gli obietttivi. 18:30 I 15 B-25 (uno ha fatto rotta per l’Urss) avvistano o la costa della Cina. Nelle ore seguenti, a causa della mancanza dei radiofari sull’aeroporto, superate le 13 ore di volo tutti gli aerei vanno perduti negli atteerraggi oppure in ammarag ggi di fortuna. Il 21 aprile Doolittle è promosso generale di brigata.
G.RAVA
Chuchow
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LIBRARY OF CONGRESS
Il RAID finì per spingere l’ammiraglio YAMAMOTO ad attaccare 640 km dal punto previsto Doolittle e il comandante della Hornet Marc Mitscher decisero di dare il via all’operazione. Gli aerei furono in tutta fretta caricati delle bombe e preparati al decollo. La concitazione era al massimo. All’ultimo momento su ogni aereo furono stivate altre 10 taniche da 19 litri da usarsi in volo per aumentare l’autonomia. Sull’obiettivo. Alle 8:20, con un tempo pessimo, il primo aereo, ai comandi dello stesso Doolittle, decollò dalla Hornet. Alle 9:19 tutti e sedici i B-25 erano in volo verso il loro destino. Schierati in 5 gruppi su un fronte di 80 km, i velivoli arrivarono sulle coste del Giappone dopo circa 5 ore, senza incontrare nessuno. Sul territorio nemico volarono a bassissima quota, sporadicamente incontrando velivoli singoli o in gruppo che, evidentemente sicuri dell’inviolabilità del territorio, li scambiarono per aerei amici. Individuati gli obiettivi, alle 12:30 locali i bombardieri si portarono a 500 metri di quota relativa e, aperti i portelli, iniziarono il loro compito distruttivo. Le squadre si erano divise i compiti: furono colpiti Tokyo e la baia, Kanagewa, Yokohama e i cantieri di Yokosuka. L’attacco durò pochi minuti, con una reazione contraerea scoordinata. Nessun aereo fu abbattuto dalla difesa o dai pochi caccia alzatisi in volo, disorientati. Anche se poi il danno sarebbe risultato limitato, la sorpresa fu massima e la stoccata inflitta al morale nemico alta. Il ripiegamento. Il più era fatto; ora bisognava filare via. Ritornati sul mare e fatto un mezzo giro a destra, i B-25 diressero verso la Cina. Gli aerei, tranne uno che aveva virato verso l’Urss atterrando poi a 65 km da Vladivostok, erano diretti al campo di Chu Chow a circa 150 km dalla costa. Ma chi doveva guidarli non dava segnali: non sapendo del decollo anticipato, i cinesi non avevano ancora predisposto né i radiofari previsti, né l’illuminazione. E i 38
due aerei cinesi inviati poi in fretta sul posto furono abbattuti. I B-25, non più in formazione, erano ora abbandonati a loro stessi, su un territorio sconosciuto e senza riferimenti. Dopo 13 ore di volo e l’ultima goccia di carburante, ognuno andò incontro al suo destino: alcuni equipaggi, tra cui quello di Doolittle, si lanciarono col paracadute, altri ammararono, altri ancora atterrarono dove capitava. Degli 80 aviatori del raid, 3 persero la vita negli atterraggi o negli scontri, 8 furono catturati (tre di loro vennero fucilati e uno fatto morire di fame), gli altri, tra cui il comandante, scamparono alla morte e alla cattura grazie all’aiuto dei cinesi, che poi subirono dure rappresaglie. Doolittle, rimpatriato, nell’aprile 1942 fu promosso generale di brigata e decorato con la Medaglia d’Onore del Congresso. Grazie a lui e ai suoi uomini, il morale degli americani si era rafforzato e il Giappone era stato minato nella sua certezza di invincibilità: molte risorse aereo-navali furono richiamate per difenderne il territorio. t Stefano Rossi
PRIMA E DOPO Sopra da sinistra: la preparazione di un bombardiere nella base di Alameda; i danni a uno degli obiettivi sensibili.
CATTURATO Un pilota americano viene condotto via, forse alla sua esecuzione. I giapponesi dissero che nessuno degli aviatori catturati sarebbe stato giustiziato. E invece...
Hiroshima e Nagasaki: le ultime bombe
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raid nel Pacifico dei B-25 segnarono un punto importante contro il Giappone, ma sarebbero serviti altri tre anni per giungere alla vittoria definitiva degli Stati Uniti. Con la battaglia delle isole Midway nel giugno 1942 la potenza militare del Sol Levante subì un colpo durissimo: gli americani affondarono 4 portaerei nemiche bloccando di fatto l’avanzata nipponica e passando alla controffensiva. Negli anni successivi gli Stati
Uniti bombardarono ripetutamente le città giapponesi, seminando distruzione e uccidendo migliaia di civili (solo a Tokyo morirono in due giorni 200mila persone). Fu tuttavia lo sgancio delle bombe atomiche su Hiroshima (6 agosto) e Nagasaki (9 agosto), che uccisero circa 150mila persone, a costringere il Paese alla resa. Il 15 agosto 1945 l’imperatore Hirohito, imponendo la sua volontà ai militari, si arrese senza condizioni.
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La portaerei Hornet
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ltima delle tre moderne portaerei della classe Yorktown (le altre erano l’Enterprise e la Yorktown), la Hornet (CV-8) era entrata in servizio nell’ottobre del 1941, più aggiornata e migliorata, dotata di un radar di scoperta aerea Cxam e centrali di tiro Mk-37 a telemetro ottico e radar che coordinavano le difese. Con un dislocamento a pieno carico di 25.800 tonnellate, poteva trasportare 87 aerei: 36 caccia, 36 bombardieri a tuffo, 15 aerosiluranti e poteva
vantare una velocità massima di 33 nodi. Un gioiello, la cui vita operativa però sarebbe stata solo di un anno. Carriera. Al comando del cap. Marc A. Mitscher, uno dei piloti navali e comandanti di portaerei più esperti dell’Us Navy, la Hornet fu scelta per il raid su Tokyo. Nel giugno 1942 parteciperà alla Battaglia di Midway, perdendo quasi tutti gli aerosiluranti. In
ottobre prenderà parte alla Battaglia di Santa Cruz e sarà colpita con 8 bombe e 3 siluri. Irreparabilmente danneggiata, nella notte del 27 ottobre 1942, la Hornet verrà affondata per non lasciarla ai giapponesi.
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MIDWAY: per i giapponesi, respinti, fu l’inizio della FINE
Bombardiere B-25B Mitchell della Usaaf come quelli che decollarono dalla Hornet.
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CAMPAGNA DEI BALCANI
Attaccando la GRECIA, Mussolini voleva emulare la guerra LAMPO di Hitler accrescendo il prestigio dell’Italia nei BALCANI. Invece...
PERCHÉ
CI SIAMO ANDATI 40
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“ LE SPEZZEREMO LE RENI? A sinistra, Mussolini affacciato a Palazzo Venezia nel 1940. Sopra, i bersaglieri sul fronte greco-albanese nell’autunno 1940. A destra, la copertina di Tempo del 24 aprile 1941 che preannuncia la vittoria sulla Grecia. Che in effetti arrivò, ma solo grazie all’intervento dei tedeschi.
issi che avremmo spezzato le reni al Negus. Ora, con la stessa certezza assoluta, vi dico che spezzeremo le reni alla Grecia”. È così che il 18 novembre 1940 il duce commentò la campagna militare in corso in terra ellenica, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto bissare l’impresa etiope del 1936 (contro il Negus, ovvero l’imperatore, Hailé Selassié) ma che vedeva invece da quasi un mese i soldati italiani in gravissime difficoltà. Impantanati al punto che alla fine toccherà a Hitler risollevare in extremis le sorti di quella che il giornalista Indro Montanelli definì senza giri di parole “una smargiassata di Mussolini”. Ma quando e perché il duce si era impelagato nei territori greci? PRETESTI. «La Grecia era retta all’epoca dal primo ministro Ioannis Metaxas, ex generale che, a partire dal 1936, aveva instaurato – appoggiato da re Gior-
gio II – un regime per alcuni aspetti affine a quello fascista», racconta Marco Clementi, ricercatore di Storia dell’Europa Orientale all’Università della Calabria. «Pur dichiarandosi un ammiratore del duce, Metaxas doveva però fare i conti con il contesto geopolitico della Grecia, coinvolta in aspre tensioni con i vicini albanesi, bulgari, iugoslavi e turchi: uno scenario che lo indusse a tenere i piedi in due staffe allacciando buoni rapporti anche con la Gran Bretagna, potenza che disponeva di numerosi avamposti nel Mediterraneo e che era in aperto contrasto con le posizioni di Mussolini». I rapporti tra Grecia e Italia avevano preso una brutta piega già nel 1923, allorché il generale italiano Enrico Tellini, inviato a delimitare i confini tra Grecia e Albania, fu trucidato presso Giannina (la greca Ioannina). Le relazioni tra i due Paesi era41
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MUSSOLINI commise molti ERRORI di valutazione: era convinto che la GRECIA fosse corrotta e debole e contava su un inverosimile SUPPORTO dei Paesi vicini no poi migliorate, ma quando nella primavera del 1939 l’Italia invase l’Albania per la seconda volta nella sua storia (v. riquadro in basso), suscitò nuovi allarmismi nei dirimpettai greci. «Queste preoccupazioni crebbero con lo scoppio della Seconda guerra mondiale, un conflitto in cui l’Italia, legata alla Germania dal Patto d’Acciaio, entrò il 10 giugno 1940», prosegue Clementi. «Da parte sua, la Grecia si mantenne neutrale». LA SCELTA. La decisione di attaccare i greci venne presa dal duce sulla base di valutazioni di ordine politico prima ancora che strategico-militare. Visti i successi che andavano collezionando i nazisti, a suo dire occorreva compiere un’azione parallela che bilanciasse il prestigio di Hitler; se possibile emulando la guerra lampo teorizzata proprio dai tedeschi. «Dal 1936, anno dell’impresa etiope, Mussolini si era rivolto sempre più verso l’estero, con l’idea di edificare un impero che ricalcasse i fasti di quello romano», riprende Clementi. «Quanto all’alleanza con Hitler, non era paritetica come credeva il duce, visto che il leader nazista pensava di fatto solo all’interesse tedesco». Ai progetti espansionistici e alla sopita rivalità con il Führer si sommava in Mussolini la convinzione che i greci (visti nella propaganda del regime come una “razza inferiore”) e gli inglesi stessero tramando alle sue spalle: da qui scaturì la decisione di invadere la Grecia. Una mossa che avrebbe potuto, inoltre, minare l’egemonia inglese nel Mediterraneo, spina nel fianco per la marina italiana. Infine, rafforzato nella sua opinione dai rapporti del ministro degli Esteri Gian Galeazzo Ciano, il duce si persuase che l’operazione sarebbe stata favorita dalla corruzione dei politici locali, dallo scontento dei popo42
li di confine – che immaginava pronti a supportare l’invasore – e, più in generale, dalla debolezza militare ellenica. Non andò così. I PREPARATIVI. Esclusa ogni possibilità di accordo diplomatico con Metaxas (per il quale allearsi con l’Italia avrebbe significato creare tensioni con gli inglesi e con i vicini balcanici), i comandi militari suggerirono che per dare battaglia occorrevano almeno 20 divisioni, da far penetrare in Grecia muovendo dall’Albania. Nello specifico, la strategia era quella di occupare la città di Salonicco e le isole ioniche per poi procedere all’invasione integrale
ALBANIA IMPERIALE A sinistra, i bersaglieri sbarcano a Durazzo. A destra, Vittorio Emanuele III imperatore e re d’Albania nel 1939.
GRECI IN RIVOLTA Atene, autunno 1940: manifestazione all’ambasciata italiana ad Atene dopo l’annuncio dell’invasione.
Ambita Albania
L
e altalenanti relazioni italoalbanesi iniziarono con la Prima guerra mondiale quando le truppe italiane occuparono l’Albania, strategica per il controllo dell’Adriatico e dei Balcani, rimanendovi fino al 1920. Seguì un periodo di distensione finché, con il fascismo, gli italiani fecero il bis. Toccata e fuga. Prima dello scoppio della Grande guerra, l’Italia aveva sostenuto l’indipendenza albanese dagli ottomani (ottenuta nel 1912
attraverso la nascita di un principato) con la speranza di poter presto gestire a piacere il dirimpettaio adriatico. Non a caso, al momento dell’ingresso in guerra (1915), fu concordato con gli alleati della Triplice Intesa (Inghilterra, Francia e Russia) che, al termine del conflitto, i territori albanesi sarebbero passati sotto il controllo italiano. Nel giugno 1917 fu quindi pubblicato un proclama in cui si stabiliva il protettorato dell’Italia sul piccolo Stato balca-
nico e l’occupazione di alcune sue aree. Finita la guerra, la comunità internazionale favorì però lo sviluppo di una politica autonomista, dove un’accesa propaganda patriottica portò a una sommossa che toccò l’apice nel 1920. All’Italia non rimase che riconoscere l’indipendenza della nazione albanese, che dal 1925 divenne una repubblica. Amicizia? Con l’avvento al potere di Mussolini (1922) Italia e Albania strinsero vari accordi di coopera-
italiani (anche civili). Il 16 aprile Vittorio Emanuele III, fresco del titolo di imperatore, fu proclamato sovrano d’Albania. L’Italia avviò una politica di albanizzazione forzata ai danni delle minoranze montenegrine, serbe e greche, appoggiando le rivendicazioni albanesi sulla regione della Ciamuria, contesa con i Greci e usata a pretesto per invadere la terra ellenica. Nell’aprile 1941, nell’ambito dell’invasione tedesca della Iugoslavia e della Grecia, l’Italia ne approfittò inoltre per accaparrarsi il Monte-
negro, terra d’origine di Elena di Savoia, moglie di Vittorio Emanuele. Rimpatriati. Quanto alle sorti dell’Albania, nel corso dei mesi seguenti emerse un movimento di resistenza antifascista a cui l’Italia rispose p con rappresapp Granatieri a Tirana nel 1939, pronti a decollare verso il Nord del Paese.
glie e crimini di guerra. Una certa ruggine tra le vecchie generazioni di italiani e albanesi risale proprio a questa fase. Poi, inatteso, arrivò l’8 settembre 1943, con l’annuncio dell’armistizio: decine di migliaia italiani dovettero di it li i d tt
arrendersi agli albanesi, a migliaia morirono di fame e a centinaia furono fucilati. Infine, nel ’44 gli invasori abbandonarono il martoriato Paese, che entrerà nell’orbita sovietica nel 1946, come Repubblica popolare d’Albania. l d’Alb i ANSA (2)
zione, anche dopo che nel 1928 il presidente Ahmed Zog si proclamò monarca. Seguì anzi un’intensificazione dei rapporti che portò tra l’altro, nel 1933, all’insegnamento obbligatorio dell’italiano quale seconda lingua (è una delle ragioni per cui la nostra tv è così seguita in Albania). Nel 1939 l’Italia propose un’alleanza militare, alludendo alla possibilità di insediare coloni italiani, ma Zog declinò l’offerta. Mussolini passò allora al gioco duro. Il 7 aprile 1939 ordinò l’occupazione e fece sbarcare oltre 20mila
Quando gli italiani erano i buoni
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taliani-greci: una faccia, una razza”. Non è insolito sentirsi rivolgere questa frase passeggiando per le stradine di Rodi o di Coo. In queste e in altre dieci isolette dell’Egeo gli italiani sono ricordati quasi con affetto. Del resto quando si stabilirono qui, tra il 1912 e il 1947, portarono più benefici che danni. La colonizzazione. Tutto iniziò nel 1912 quando, durante la guerra italo-turca, gli italiani occuparono le isole del Dodecaneso (sotto, gli italiani a Rodi), per poi annetterle formalmente all’Italia nel 1923, con il trattato di Losanna. Erano gli anni in cui Mussolini ambiva a esportare la cultura
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italica: costruì acquedotti, centrali elettriche, scuole e ospedali, e intraprese operazioni igienico-sanitarie (tra cui l’eradicazione della malaria). Felice convivenza? Molti italiani si trasferirono da queste parti: nel 1936 a Rodi erano in 7mila su una popolazione di 28mila abitanti, quasi il 30 per cento. Ma la convivenza felice non durò a lungo. I greci non gradirono l’occupazione italo-tedesca durante la Seconda guerra mondiale, e nel periodo post bellico i coloni se ne tornarono a poco a poco quasi tutti in patria. Lasciando qualche buon ricordo, e molti edifici in inconfondibile stile littorio. m. e.
Il DUCE mirava a giocare un RUOLO CHIAVE nei BALCANI, come un tempo l’Austria-Ungheria del territorio greco. A tal fine, tra l’11 e il 12 agosto 1940, Ciano e Mussolini incontrarono a Roma Sebastiano Visconti Prasca, comandante delle truppe in Albania, intimandogli di preparare “al più presto” i soldati per l’attacco. «Nel frattempo, i servizi di intelligence del Sim (Servizio informazioni militare) avevano espresso molte riserve circa i propositi di Mussolini. Questi, però, non sentì ragioni, convinto che l’Italia dovesse giocare nei Balcani il ruolo geopolitico che era già stato dell’Austria-Ungheria, entità politica spazzata via dalla Grande guerra», dice Clementi. «Non bastasse, Mussolini fu miope nel non riconoscere la propria “subalternità” rispetto a Hitler, convincendosi anzi di poter far presto della Germania “una pedina del nostro gioco”». Stando così le cose, mancava ormai solo una campagna propagandistica che preparasse gli italiani all’intervento e un casus belli che lo giustificasse. MENZOGNE. A partire dall’11 agosto 1940, salì all’onore della cronaca il nome di Daut Hoggia, la cui storia finì su tutti i giornali. Da noi è uno sconosciuto, ma in Albania ancora oggi è un eroe: un patriota barbaramente ucciso dai greci per aver sostenuto l’indipendenza della Ciamuria, territorio al confine tra Albania e Grecia e conteso tra i due Paesi. «La morte di Hoggia divenne il pretesto per una violenta campagna antigreca, con l’Italia che si spacciò per paladina delle rivendicazioni albanesi», ricostruisce lo storico. «In questo scenario, a Ferragosto il sommergibile italiano Delfino affondò un incrociatore greco presso l’isola di Tinos, ma l’Italia de-
SALUTO ROMANO Il primo ministro greco Ioannis Metaxas (al centro) nel 1937, durante una cerimonia ad Atene.
CONTROFFENSIVA
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Soldati greci occupano la città albanese di Argirocastro, nell’inverno 1940-41.
clinò ogni responsabilità cercando di addossarla agli inglesi. Il bluff non funzionò e l’unico risultato fu di alzare il livello della tensione». Quando, l’11 ottobre, Mussolini venne a sapere che i nazisti erano prossimi a stanziare un proprio contingente in Romania, furioso per non essere stato interpellato decise di passare all’azione. Giurò di voler ripagare Hitler con “la stessa moneta. Saprà dai giornali che ho occupato la Grecia”. Così il 15 ottobre, in un incontro con gli alti comandi militari a Palazzo Venezia (incluso il capo di stato maggiore Pietro Badoglio, che non manifestò resistenze), il duce ordinò di procedere all’invasione. L’ULTIMATUM. Presa la decisione di attaccare, fu redatto un ultimatum in cui si chiedeva a Metaxas di consentire agli italiani l’occupazione di svariati luoghi chiave del suo Paese al fine di “garantire la neutralità della Grecia”. Si avvisava poi che, se gli
italiani fossero stati ostacolati, ogni forma di ostilità sarebbe stata piegata con le armi. In parallelo, furono architettati ad hoc alcuni incidenti di frontiera. «Il compito di consegnare l’ultimatum a Metaxas spettava all’ambasciatore italiano ad Atene, Emanuele Grazzi, una voce fuori dal coro», spiega Clementi. «Grazzi aveva sconsigliato l’operazione, avvertendo del pericolo di un intervento britannico, nonché della determinazione dei greci». L’ambasciatore aveva visto giusto, ma non fu ascoltato e il 28 ottobre 1940 fu costretto a recapitare l’ultimatum. Il termine per l’accettazione delle condizioni italiane era stabilito per le 6:00 del giorno stesso (fu consegnato alle tre di notte) e Metaxas si limitò a dire laconico: “Allora, questa è la guerra!”. I soldati italiani – che a dispetto delle richieste iniziali dei vertici militari erano ordinati in sole sei divisioni – passarono il confine tra Albania e Grecia, intra-
prendendo una marcia che sarebbe stata presto frenata dall’audace resistenza dei militi greci, supportati dagli inglesi e, come aveva previsto Grazzi, da larghe fasce della popolazione. I TEDESCHI. «Le difficoltà incontrate subito dagli italiani furono di vario genere», riprende Clementi. «In parte dovute all’inferiorità numerica, in parte alla difficile conformazione del territorio greco, ma soprattutto legate a una generale scarsità di mezzi e di organizzazione». Mandati allo sbando, i soldati si ritrovarono così risucchiati in una snervante guerra fatta di attacchi e contrattacchi. A togliere le castagne dal fuoco ci pensò Hitler, che nella primavera 1941 ordinò alle sue truppe di invadere la Iugoslavia e la Grecia. Entrambi i Paesi furono piegati in pochi giorni: il 17 aprile giunse la resa della Iugoslavia e il 21 quella greca, evento che frustrò il duce in quanto messo nuovamente in ombra dal Führer. «A dire il vero, Hitler avrebbe fatto volentieri a meno di impegnarsi nei Balcani: questa operazione rischiava infatti di attirare nell’area maggiori forze britanniche e di ritardare – come in effetti fu – il piano di invasione dell’Unione Sovietica», spiega Clementi. Nondimeno, il duce e l’alleato tedesco procedettero a spartirsi il territorio, con l’Italia che, già in possesso del Dodecaneso, prese anche il controllo della Grecia continentale (Macedonia esclusa), di Atene, del Peloponneso, delle Cicladi, di parte delle Sporadi, dell’oriente di Creta e delle isole ioniche. «A dispetto dei grossolani errori compiuti dagli alti comandi, gli italiani riuscirono a opporre una valida resistenza al contrattacco greco. Se non vinsero la guerra, non si può neppure dire che la persero del tutto», conclude Clementi. A conti fatti, però, le reni della Grecia non furono spezzate (non da noi, almeno), mentre la vanagloria di Mussolini spezzò le vite di tanti soldati di cui, sprezzante, nel Natale del ’40 aveva detto: “Questa neve e questo freddo vanno benissimo; così muoiono le mezze cartucce e si t migliora questa mediocre razza italiana”. Matteo Liberti
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La Campagna di GRECIA si rivelò presto un fallimento. A venire in SOCCORSO degli italiani fu la Germania di HITLER. Che finì così col dover rallentare l’ INVASIONE dell’Urss
I CARRI ITALIANI...
RESISTENTI ALL’INVASORE Un gruppo di partigiani greci. La resistenza della popolazione fu uno dei fattori non previsti dagli italiani.
L’avanzata dei corazzati italiani nel 1941 e, a destra, tedeschi ad Atene.
SCALA
Italiani sterminatori a Domenikon
...E QUELLI TEDESCHI
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come rappresaglia per un attacco di partigiani a una colonna italiana costato la vita a 9 soldati. La popolazione del villaggio fu rastrellata e 150 maschi sopra i 14 anni fucilati. «Domenikon fu il primo di una serie di episodi di repressione», ha spiegato Lidia Santarelli, storica della New York University che nel 2008, con il documentario La guerra sporca di Mussolini, ha sollevato il velo della rimozione sull’episodio. «Per annientare la resistenza», spiega la studiosa, «andavano annientate le comunità locali». Da qui missioni punitive e stupri di massa. I tedeschi dovettero chiedere agli italiani di non esagerare. a. c.
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uando le bande partigiane greche contrastarono l’occupazione, gli italiani si affiancarono ai nazisti in una repressione tra le più violente della Seconda guerra mondiale (sotto, un manifesto greco postbellico in cui un partigiano regge i simboli del nemico: un elmetto da bersagliere e uno stivale nazista). Crimini. Gli occupanti italiani applicarono gli stessi metodi repressivi dei nazisti: metodi per anni rimossi nel Dopoguerra. Solo recentemente è stata ricostruita, per esempio, la strage di Domenikon (Tessaglia). Lì, il 16 febbraio 1943, reparti italiani intervennero con bombe incendiarie
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IN AFRICA
EL ALAMEIN fu la resa dei conti di un braccio di FERRO iniziato
IL DESERTO
CONTESO
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SOTTO CONTROLLO Libia, 1941: un mezzo corazzato tedesco in ricognizione nella Cirenaica controllata dall’Asse. A sinistra, un sidecar della 21a Panzerdivision.
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nel 1940. Ecco come ci si arrivò
l 29 giugno 1942 Mussolini salì su un aereo per raggiungere il deserto libico. Si racconta che portasse con sé lo spartito di un Inno alla vittoria, fatto comporre per l’occasione, e persino un cavallo bianco con cui intendeva cavalcare da trionfatore su Alessandria d’Egitto e sul Cairo. Era convinto che il suo esercito, affiancato da quello tedesco, stesse per avere la meglio sulle truppe britanniche in Nord Africa, e che le sorti dell’intera guerra si sarebbero decise lì, e a favore dell’Italia. Ma dopo tre sole settimane dovette tornare a Roma, in preda a una gastrite e a violenti attacchi di diarrea. Brutto segno. E infatti il Nord Africa sarebbe stato sì decisivo, ma non per la vittoria che lui si aspettava. All’attacco. Nello scacchiere africano le cose iniziarono a complicarsi da subito, il 10 giugno 1940, quando l’Italia entrò in guerra al fianco della Germania contro Francia e Gran Bretagna. In quel momento gli italiani erano presenti soprattutto in Libia (colonizzata quarant’anni prima) mentre gli inglesi erano concentrati nel confinante Egitto. In Nord Africa c’erano anche i francesi, ma la loro madrepatria stava per arrendersi alla Germania. Sul campo di battaglia c’erano dunque solo truppe italiane e britanniche. «I nostri soldati erano però mal equipaggiati e privi dei mezzi per affrontare una guerra nel deserto», spiega Luigi Goglia, docente di Storia dell’Africa all’Università di Roma Tre. «Vi fu poi un’anomalia: nonostante fosse stata l’Italia a dichiarare guerra, non eravamo pronti ad attaccare; a malapena lo eravamo a difenderci». I primi a muoversi furono infatti gli inglesi, con una serie di sortite che spinsero il duce a promettere l’invio di adeguati rinforzi. Mussolini incitò il governatore della Libia, Italo Balbo, a “mettere le ali sotto ai piedi di tutti”, ma il 28 giugno questi morì, abbattuto per errore dalla nostra contraerea. Le truppe italiane si misero quindi in marcia solo il 9 settembre, sotto la gui-
L’Italia aveva SCHIERATI in Libia circa 220MILA uomini. Gli INGLESI, in Egitto, solo 40MILA. Ma meglio equipaggiati
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PER SUA MAESTÀ Soldati sudafricani al riparo dietro un’autoblindo. I britannici erano meglio preparati per la guerra nel deserto.
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da del maresciallo Rodolfo Graziani. Pur tardiva, la mossa portò in pochi giorni alla conquista dei villaggi di Sollum e di Sidi El Barrani, in Egitto. La tappa successiva avrebbe dovuto essere il porto di Marsa Matruh «ma di proseguire non se ne parlò proprio», continua Goglia. «Si preferì attestarsi nelle zone tolte al nemico, rafforzando la presenza italiana. Fu progettato persino un acquedotto, segno che i nostri comandi, a differenza di quelli inglesi, non avevano compreso che nel deserto, come in mare, sono più efficaci movimenti rapidi e continui». No, grazie. Di fronte ai tentennamenti italiani, Hitler offrì il suo aiuto, ma Mussolini era determinato a far da sé nel Mediterraneo, di cui rivendicava il controllo, e declinò l’offerta. Salvo poi rivolgere tutta la sua attenzione alla Grecia (che l’Italia invase il 28 ottobre). Prive di adeguati rinforzi, le truppe italiane in Nord Africa non riuscirono a organizzare una linea difensiva adeguata per contrastare i più corazzati cingolati inglesi. Il generale britannico Richard O’Connor non perse tempo e il 6 dicembre lanciò l’Operazione Compass (“Bussola”): il giorno successivo gli aerei della Royal air force iniziarono a bombardare le posizioni italiane, mentre la fanteria procedeva spedita via terra. In pochi giorni gli inglesi si ripresero Sidi El Barrani giungendo a poche decine di chilometri dallo strategico porto libico di Tobruk. Il grosso delle truppe italiane tentò di sbarrare loro la strada trincerandosi nella vicina Bardia. Le numerose perdite e la carenza di rinforzi avevano però reso di burro la difesa, e all’inizio del nuovo anno il nemico non esitò ad affondarvi il suo coltello: dopo aver preso Bardia, il 21 gennaio 1941 gli uomini di O’Connor si impossessarono di Tobruk. Al generale Graziani non rimaneva che ritirarsi, e il 31 gennaio le truppe italiane iniziarono ad abbandonare la Cirenaica, ossia la regione orientale della Libia. Lungo il cammino molti soldati caddero prigionieri o finirono dispersi nel deserto. In un paio di mesi le forze britanniche erano avanzate di circa mille chilometri, sfruttando al meglio una superiorità organizzativa che andava dai mezzi corazzati alle scorte alimentari: molti dei nostri non credettero ai loro occhi quando scoprirono che il nemico aveva abbondanti riserve di cioccolata, marmellata e sigarette. Per tentare di capovolgere le sorti del conflitto non rimaneva ormai che una mossa: accettare l’aiuto di Hitler.
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ULLSTEIN/ALINARI
SBARCO CORAZZATO A sinistra, un carro armato italiano viene sbarcato in Nord Africa nell’ottobre del 1941. A destra, un ufficiale d’artiglieria inglese studia col suo aiutante la cartina della zona di guerra.
Arriva la “Volpe”. L’11 febbraio venne firmato un accordo tra Italia e Germania che prevedeva l’invio in Libia di un corpo d’armata costituito ad hoc: il famoso Afrika Korps. A condurlo era il generale Erwin Rommel (v. articolo pagine seguenti). Tra le file italiane, intanto, il generale Italo Gariboldi prese il posto di Graziani. «Ma se questi si era mostrato poco capace, il sostituto non era certo migliore», dice Goglia. Rommel non vedeva l’ora di mettersi in mostra, e già il 4 marzo cominciò a tastare il terreno con un’offensiva. A fine mese decise che poteva riprendersi tutta la Cirenaica: dopo aver raggiunto la città di Bengasi, a meno di 400 km da Tobruk, e altri villaggi minori, il generale tedesco (convinto che la velocità dovesse avere precedenza su tutto) si mise all’inseguimento degli inglesi in ritirata. Il 4 aprile gran parte della Cirenaica era tornata in
mano alle forze dell’Asse. «Ma i britannici avevano ancora Tobruk, e la loro potenzialità offensiva era rimasta intatta grazie alle enormi riserve logistiche di cui disponevano in Egitto», spiega Goglia. Dopo un triplo attacco, nel mese di aprile i tedeschi e gli italiani conquistarono ampie aree attorno a Tobruk. Tuttavia il porto era rimasto in mano agli inglesi e la situazione si trasformò in uno stallo preoccupante. A secco. Rommel (che nel frattempo si era guadagnato il soprannome di Desert fox, “Volpe del deserto”, per le sue astuzie) poteva comunque dirsi soddisfatto. Lo stesso non valeva per Gariboldi, che fu infatti sostituito dal generale Ettore Bastico. Il problema più pressante era ora quello degli approvvigionamenti: la linea di rifornimento si era di nuovo allungata, e per tenere le posizioni servivano urgentemente uomini e mezzi di rinforzo. Questi sarebbero dovuti arrivare via mare, ma a rendere l’im-
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n Nord Africa l’esito della guerra fu deciso anche dai servizi segreti. A fare la parte del leone furono soprattutto quelli inglesi, che permisero spesso di anticipare le mosse di Rommel o bloccarne le linee di rifornimento. Ma come ci riuscirono? Cifrati. Dal 1937 le forze armate tedesche usavano per l’invio dei messaggi cifrati Enigma, una macchina crittografica con innumerevoli chiavi che
cambiavano ogni giorno e considerata inespugnabile. Ma gli inglesi iniziarono fin dal 1940 a decifrare quei messaggi: lo fecero grazie ad alcune Enigma ricostruite con l’aiuto dei servizi polacchi e dopo aver messo al lavoro a Bletchley Park, a nord di Londra, un gruppo di matematici e crittografi (il progetto Ultra). Bingo! A piccoli passi, grazie anche a decifrazioni casuali di parti di codici,
Ultra divenne molto efficiente: nel 1942 decrittava più di 80mila messaggi al mese, con un ritardo di appena due, tre giorni. Intercettati. Tra queste comunicazioni c’erano quelle di Rommel e le rotte dei convogli navali con i rifornimenti a lui destinati, regolarmente affondati. Rommel diede sempre la colpa a falle nell’intelligence italiana. I tedeschi infatti continuarono sempre a ritenere infallibile il loro sistema. (s. r.)
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Ultra contro Enigma, 1 - 0
presa ardua c’era la marina inglese: il Mediterraneo era infatti ben controllato dalle sue navi, che sull’isola di Malta, a poche miglia dall’Africa, avevano importanti basi logistiche. Così i convogli italiani venivano regolarmente colati a picco. In molti rimproverarono il duce per non aver mai tentato la conquista dell’isola. «In realtà non ci sarebbero stati i mezzi per farlo», commenta Goglia. «Ci si dovette quindi limitare a bombardarla, colpendo più che altro la popolazione». Lo stesso Rommel fece pressioni su Hitler per risolvere la questione maltese, che però rimase aperta fino alla fine della campagna. A caro prezzo. A peggiorare le cose per l’Asse arrivò una nuova offensiva in grande stile degli inglesi, che il 18 novembre lanciarono l’Operazione Crusader. In poche ore penetrarono di oltre 50 km attraverso le linee nemiche e per una decina di giorni il teatro di guerra divenne un vero caos. Almeno finché le forze italo-tedesche, il 29 novembre, accer-
chiarono gli inglesi nei pressi di Tobruk. Nell’operazione andarono però perduti metà dei corazzati, per i quali in ogni caso il carburante iniziava a scarseggiare. Gli inglesi continuavano invece ad avere le spalle ben coperte. Natale di guerra. Che fare? La risposta di Rommel fu una ritirata strategica, e tra l’8 dicembre e Natale il grosso delle forze italo-tedesche arretrò fino ad Agedabia, nella zona ovest della Cirenaica. «Rommel era scaltro e non amava rischiare invano, ma quando disponeva di mezzi adeguati non esitava ad attaccare», dice Goglia. E con il nuovo anno i mezzi arrivarono: munizioni, carburante e viveri in quantità. La “Volpe” non perse tempo e alle 8:30 del 21 gennaio 1942 lanciò una nuova offensiva che in poche settimane consentì di recuperare gran parte del terreno perduto. La situazione rimase stabile fino a primavera inoltrata, quando Rommel sferrò un nuovo e decisivo
PRONTI AL DECOLLO In basso a sinistra, pilota italiano (con la tuta chiara) davanti a un bombardiere tedesco Heinkel He 111 a Bengasi (Libia) nel maggio del 1941. A destra, carristi italiani sulla copertina di una rivista dell’epoca.
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La SCONFITTA africana segnò la FINE della “guerra parallela” di ITALIA e GERMANIA
Le tappe della campagna, dalla dichiarazione di guerra a El Alamein 1940 Il 10 giugno l’Italia dichiara guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, ma l’11 i primi ad attaccare sono gli inglesi, che superano le difese italiane in Libia. 28 giugno Italo Balbo, governatore della Libia, muore in volo tra Derna e Tobruk, colpito dalla contraerea italiana.
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9 settembre Le truppe italiane attaccano le postazioni inglesi, e già quattro giorni più tardi riescono a penetrare in territorio egiziano. 6 dicembre Il generale britannico Richard O’Connor annuncia l’Operazione Compass. Si tratta della prima controffensiva inglese.
1941 Il 21 gennaio le truppe britanniche entrano nel porto libico di Tobruk: gli italiani perdono una delle posizioni strategiche nella Cirenaica. 31 gennaio Su ordine del generale Rodolfo Graziani, i soldati italiani si ritirano dalla Cirenaica.
12 febbraio Dopo che Italia e Germania si sono accordate per l’invio di truppe tedesche sul fronte africano, sbarca a Tripoli il generale Erwin Rommel, seguito di lì a poco dal neocostituito Afrika Korps. 13 aprile Dopo aver recuperato le posizioni perdute durante la ritirata, le truppe italo-
APPOSTATI Postazione d’artiglieria italiana mimetizzata nel deserto libico.
attacco. Dopo un primo scontro presso Ain El Gazala, a giugno gli italo-tedeschi iniziarono a puntare in maniera concentrica verso Tobruk, chiudendo definitivamente il cerchio alle 9:30 del 21 giugno. La riconquista di Tobruk fruttò prigionieri, automezzi, viveri e, soprattutto, 2mila tonnellate di carburante: abbastanza perché Rommel decidesse di proseguire l’inseguimento del nemico lungo il litorale egiziano. Ma quando il 28 giugno venne raggiunta Marsa Matruh, le conseguenze di quello sforzo si fecero sentire: molti soldati erano allo stremo. Guerra di spie. Notizie contraddittorie giungevano intanto dai servizi di spionaggio. Se gli inglesi, grazie al servizio Ultra erano da tempo in grado di decifrare i messaggi in codice dei tedeschi, Rommel poteva sfruttare le informazioni rubate da alcuni infiltrati all’ambasciata americana di Roma (dal 1941 gli Usa si erano uniti agli inglesi nel conflitto). Le spie tedesche avevano messo le mani su un codi-
tedesche penetrano a Sollum, sul confine tra Libia ed Egitto: gran parte della Cirenaica è riconquistata. 18 novembre Gli inglesi lanciano una nuova controffensiva: parte l’Operazione Crusader. 8 dicembre Impossibilitato a difendere le posizioni conqui-
state, Rommel dà il via a un ripiegamento. 19 dicembre Nella notte i mezzi d’assalto della Regia marina italiana, dopo aver forzato le difese del porto di Alessandria d’Egitto, danneggiano alcune corazzate nemiche, mettendo in difficoltà la flotta inglese. 1942 Alle 8:30 del 21 gennaio
ce cifrato (il Black code) usato dal colonnello Frank Fellers per inviare rapporti a Washington. Ma a fine giugno gli inglesi si accorsero della fuga di notizie: da allora niente più “piccoli Fellers”, come Rommel chiamava i dispacci intercettati. Nonostante il blackout dell’intelligence, e malgrado la cronica carenza di mezzi (a cui si aggiunse il fatto che Hitler e gli alti comandi tedeschi erano ormai distratti dalle difficoltà sul fronte russo), il generale tedesco decise ugualmente di proseguire alla conquista dell’Egitto. Prima mossa: raggiungere le truppe inglesi dislocate nei pressi di una piccola stazione lungo la linea ferroviaria per Alessandria d’Egitto. Sarà proprio là, però, che la baldanza della “Volpe del deserto” (e quella di Mussolini) dovrà fare i conti con una sconfitta che segnerà le sorti dell’intero conflitto in Nord Africa. Quella stazioncina si chiamava El Alamein. t
il generale Rommel lancia una nuova offensiva contro gli inglesi. 21 giugno Dopo aver riconquistato, nel corso dei mesi precedenti, Bengasi e altre importanti città della Cirenaica, gli italo-tedeschi strappano agli inglesi anche Tobruk. 28 giugno Rommel conduce le
Matteo Liberti
sue truppe fino all’avamposto egiziano di Marsa Matruh e decide di inseguire il nemico. 30 giugno Le truppe italotedesche raggiungono El Alamein, dove si combatteranno le tre battaglie decisive. 6 novembre Le forze dell’Asse si ritirano, duramente sconfitte.
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PROTAGONISTI
Comandarono le due ARMATE che nel
GLI SFI L
a “Volpe del deserto” versus “Monty”, ovvero Erwin Rommel contro Bernard Law Montgomery. Furono loro, al comando delle armate nemiche, a battersi per quasi un anno su uno dei fronti più difficili della guerra: in Africa del Nord, da El Alamein (in Egitto) a Tunisi. Scontro dal quale Rommel uscì sconfitto. Diversi. Erwin Rommel era un giocatore d’azzardo, un “fegataccio” tattico senza paura e di rara fortuna: si muoveva con fantasia, colpiva all’improvviso, usava tattiche destabilizzanti e in Africa ottenne subito grandi risultati contro un nemico demoralizzato. Giocò spesso d’astuzia: sue furono le idee di camuffare semplici automobili con sagome di carri armati o di montare motori d’aereo su automezzi per sollevare polvere e sabbia, ingannando il nemico sulla consistenza delle sue truppe. E sua fu anche la trovata di usare cannoni antiaerei contro i carri armati inglesi. “Monty” invece era uno stratega di prim’ordine,
SCALATA AL POTERE Rommel: a 50 anni era già ai vertici delle forze armate tedesche.
ERWIN ROMMEL La “volpe” che alla fine si perse nel deserto
BUNDESARCHIV BILD
E
rwin Rommel nacque a Heidenheim (Germania) nel 1891, terzo di cinque figli di un insegnante di matematica che lo volle nell’esercito, dove Erwin entrò da allievo ufficiale nel 1910. Brillante. Scoppiata la Prima guerra mondiale, Rommel combatté in trincea in Francia e in Romania. Ma anche in Italia con l’Alpenkorps durante lo sfondamento di Caporetto. Le sue brillanti azioni sul
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monte Matajur e a Longarone (Belluno) gli valsero la croce al merito. Dopo la guerra rimase nell’esercito e nel ’33 divenne maggiore. L’anno dopo conobbe Hitler, di cui era un fervente sostenitore, e nel ’39, promosso Generalmajor, fu assegnato proprio al comando delle guardie del corpo del Führer. Poco dopo l’inizio della Seconda guerra mondiale, nel febbraio 1940, Hitler gli affidò il comando della 7a Panzerdivi-
sion: fu allora che si cominciò a parlare di uno “stile Rommel”. Nel 1941, da Generalleutnant, partì per il Nord Africa al comando dell’Afrika Korps: nacque allora il mito della “Volpe del deserto”, che però si infranse a El Alamein. Il declino. Nel 1943 gli fu dato un comando in Italia, poi fu trasferito in Grecia e in Francia. Nel giugno del ’44, quando gli Alleati sbarcarono in Normandia, era in licenza: rientrò di
corsa, ma non gli furono assegnate le divisioni di riserva che chiedeva. Il 17 luglio fu ferito alla testa in un attacco aereo. Tre giorni dopo Hitler subì un grave attentato e Rommel fu accusato di far parte del complotto. Il 14 ottobre due inviati del Führer gli offrirono il suicidio come alternativa al processo: Rommel accettò, fu dichiarato deceduto per la ferita alla testa ed ebbe funerali di Stato.
1942 si affrontarono a EL ALAMEIN. Ecco chi erano...
DANTI
ULLSTEIN BILD/ALINARI
ma un calcolatore fin troppo freddo e puntiglioso. Al fronte conduceva una vita spartana: per cibo solo manzo bollito e gallette e per letto una branda da caserma. Inoltre non beveva alcolici e ogni sera si addormentava solo dopo aver letto la Bibbia. Non faceva troppo affidamento sui trucchi, puntando invece sulla superiorità numerica e di armamento, sui rifornimenti e sulla logistica. Era quasi ossessionato dalla fama della “Volpe”, di cui teneva un ritratto nel suo caravan-comando. Alla costruzione del mito di Rommel aveva contribuito infatti anche la stampa inglese, e alcuni comandanti britannici rallentavano la loro avanzata temendo una delle trappole dell’“invincibile”. Con la truppa. Rommel incitava i suoi uomini sul campo, anche in situazioni pericolose, spesso atterrando in mezzo a loro col suo aereo, ma non si faceva scrupolo di spremerli fino alle ultime risorse. Per il nemico non provò odio e, tra i pochi comandanti tedeschi, non si macchiò mai di alcun crimine.
GENERALE BARONETTO Montgomery: grazie alla sua vittoria fu nominato sir e 1° visconte di El Alamein.
BERNARD LAW MONTGOMERY Generale per caso, preferito da Churchill
N
ato a Kennington, a sud di Londra, nel 1887, quarto di 9 fratelli, Bernard Law Montgomery crebbe in Australia, dove il padre era vescovo anglicano. Contro il parere della madre, nel 1906 entrò all’Accademia militare di Sandhurst mettendosi in luce per le qualità sportive, ma anche per la scarsa disciplina. Nel 1908 fu assegnato in India e due anni dopo era sottotenente del Reggimen-
to reale Warwickshire. Non brillava, ma si specializzò in logistica e comunicazioni. Ascesa. Nella Prima guerra mondiale fu ferito a Ypres (Belgio), decorato e promosso capitano. Proseguì la carriera fino al grado di maggior generale (1937) e, allo scoppio della Seconda guerra mondiale, comandava in Francia la 3a Divisione di fanteria. Il primo ministro inglese Churchill, che lo stimava, gli
affidò l’addestramento delle truppe contro la paventata invasione della Gran Bretagna e, quindi, il comando dell’8a Armata in Africa: era il 13 agosto 1942. Sconfiggendo Rommel a El Alamein, spezzò il fronte dell’Asse, inseguendo il nemico fino in Tunisia. Ombre. Partecipò poi allo sbarco in Sicilia e fu richiamato in patria per comandare la 21a Armata e le forze terrestri dello sbarco in Normandia.
Ormai field marshal, condusse i suoi soldati fino alla fine della guerra, con alterne vicende e alcune ombre, come la fallita operazione Market Garden per la liberazione dell’Olanda. Nel 1945, ricevuta la resa dei tedeschi, fu nominato comandante in capo delle forze di occupazione. Nel 1951 divenne vicecomandante della Nato, dove restò fino al 1958. Si dedicò poi a scrivere le sue memorie e morì nel 1976.
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SCALA
APPUNTI DI GUERRA Sotto, movimenti di truppe nella zona di Bardia (Libia) in uno schizzo di Rommel.
Anche durante la RITIRATA tedesca il generale inglese IN LIBIA
SIERRA (2)
Sopra, Erwin Rommel durante la presa di Tobruk (Libia) nel maggio 1942. Alle sue spalle, a sinistra, due ufficiali italiani. Qui a destra, Rommel in una delle trincee sulla linea del fronte.
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Montgomery, dai suoi soldati, pretendeva la stessa ferrea disciplina che esigeva da se stesso (nel suo ufficio un cartello non ammetteva repliche: “Qui non si beve, non si fuma, non si tossisce”) ma non li mandava mai al massacro e si preoccupava delle loro esigenze (si dice non facesse mai mancare alle truppe la razione per il tè delle 5). Fu popolarissimo per la familiarità e la franchezza con cui trattava i soldati di ogni grado, ma anche per le stranezze in fatto di abbigliamento: il giaccone kaki della Royal Navy, con cappuccio, bottoni di legno e asole di corda, che spesso indossava sopra la divisa, divenne nel dopoguerra un capo di gran moda,
Ettore Bastico e le scintille con Rommel
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SCALA
n Nord Africa c’era un maresciallo italiano che, in via teorica, era superiore per incarico allo stesso Rommel: si trattava di Ettore Bastico, 66enne ufficiale di Stato Maggiore che mal sopportò il carisma e le prevaricazioni del tedesco, col quale si scontrò più volte e che lo chiamava “bombastico” per prenderlo in giro. Nelle colonie. Bersagliere, aveva partecipato alla Guerra di Libia nel 1913, alla Grande guerra, alle operazioni in Africa Orientale e nel 1937 aveva comandato il Corpo truppe volontarie nella guerra civile spagnola. Nel 1941,
mentre era governatore delle isole dell’Egeo, Bastico era stato chiamato da Mussolini, amico personale, a ricoprire il doppio incarico di governatore della Libia e comandante superiore delle forze armate italotedesche in Africa Settentrionale. Bocciato. I suoi continui litigi con Rommel convinsero Mussolini a lasciare a Bastico, promosso maresciallo d’Italia nell’agosto del 1942, solo l’incarico di governatore della Libia senza alcuna autorità sulle truppe al confine egiziano. Togliendogli così ogni possibilità di decidere a El Alamein.
Ettore Bastico (a destra) con Erwin Rommel.
temette l’ennesimo COLPO di mano di Rommel
Stefano Rossi
OPERATIVO Sopra, El Alamein, agosto 1942. Montgomery (con un cappello australiano) consulta una mappa. A sinistra, Montgomery col binocolo in una foto del 1943. ULLSTEIN BILD/ALINARI
proprio con il suo nome. Entrambi misogini e intransigenti, i due generali ebbero problemi anche con colleghi e rispettivi alleati: italiani da una parte e americani dall’altra erano infatti considerati troppo “molli”. Arrivederci. Dopo la guerra in Africa Settentrionale ebbero modo di combattere di nuovo l’uno contro l’altro in Normandia, durante lo sbarco del 6 giugno 1944. Ma, sebbene i due fossero ancora considerati tra i migliori in campo, il loro declino era già cominciato e gli eventi della guerra nel deserto erano ormai entrati nella leggenda. t
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SCONTRI DECISIVI
L’ASSEDIO alla città durò sette mesi: decretò la supremazia dell’ARMATA ROSSA e il declino della potenza TEDESCA. E della sua VI Armata, decimata dal FREDDO e dalla FAME
NELLA MORSA DI
STALINGRADO
RUSSIA Stalingrado
MAR NERO
BLOCCO MORTALE Soldati russi alle porte di Stalingrado nell’inverno del 1942. L’assedio iniziò l’estate precedente (17 luglio) con l’avanzata delle truppe dell’Asse fino al Don e al Volga.
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ITAR/TASS
RUSSIA
Dopo l’Operazione URANO, i tedeschi chiesero a HITLER di SOSPENDERE l’attacco. Ma il Führer caparbiamente RIFIUTÒ
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CORBIS
ltre un milione tra morti, dispersi e prigionieri. L’assedio di Stalingrado fu la Caporetto tedesca. Dopo due mesi di attacchi ininterrotti – iniziati il 17 luglio del 1942 – nella città bombardata e bruciata, casa per casa e incrocio per incrocio, era stata ingaggiata una battaglia feroce. Dalle fogne asciutte la notte uscivano gruppi di combattimento russi che spuntavano alle spalle dei tedeschi, li colpivano e sparivano tra le macerie. I carri armati si muovevano a fatica tra le strade sventrate e le montagne di detriti, punteggiate dai cadaveri insepolti di militari e civili. E, su tutto, incombeva l’incubo dei cecchini. La VI Armata. A cercare di prendere il comando della città era la VI Armata del generale Friedrich Paulus, quasi 300.000 uomini. Ma le sue forze si stavano esaurendo e le possibilità di approvvigionamento scarseggiavano. La “fornace” di Stalingrado inghiottiva ogni giorno immense quantità di munizioni e altro equipaggiamento. Il 19 novembre, quando l’Operazione Urano venne scatenata, quindi, Paulus non fu in grado di fare nulla per contrastarla.
In omaggio al settimo pianeta del sistema solare, i sovietici scelsero questo nome in codice per indicare l’offensiva dell’Armata Rossa, appoggiata da migliaia di carri armati e dall’aviazione. Durò una settimana, dal 19 al 26 novembre. Si completò quando le truppe comuniste, avanzanti da sud e da nord, si incontrarono nei pressi di Kalach. Il corridoio terrestre che univa la VI Armata alle linee tedesche era spezzato. A quel punto Paulus, resosi conto della situazione in cui si trovava, chiese a Hitler il permesso di interrompere l’attacco a Stalingrado, tentando di spezzare l’accerchiamento con una controffensiva in direzione ovest. Il permesso, contrariamente alle sue aspettative, però, non gli venne accordato: Hitler riteneva la vittoria a Stalingrado a portata di mano, ma soprattutto temette che l’avanzata sovietica potesse mettere in pericolo il milione di soldati tedeschi del Gruppo d’Armate A (v. riquadro nella prossima pagina) che si trovavano nel Caucaso e che rischiavano di essere tagliati fuori dalle proprie linee. Il suo ordine fu quindi indiscutibile: la VI Armata doveva restare a Stalin-
LA CITTÀ MORTA Sotto, cittadini a Stalingrado, dopo la battaglia: morirono circa un milione di persone. A destra, combattenti tra le macerie: nelle fasi finali dell’assedio, i soldati di entrambi gli schieramenti si nascondevano nelle fogne. Da qui il nome Rattenkrieg, la “guerra dei ratti”.
LATO NORD (CAPITOLAZIONE 2/2/43)
Fiume Vo lga
nto Fabbrica di armi me 1943 a i h erc nnaio c c A ge ° al 1 Quartiere operaio
Aeroporto Stazione ferroviaria Comando di Paulus
CORBIS
Stazione sud
LATO SUD (CAPITOLAZIONE 31/1/43) GETTY IMAGES
LA BATTAGLIA Sopra, la mappa con i luoghi cruciali dell’assedio di Stalingrado nella fase finale. La stella indica il luogo in cui si trovava il comando sovietico.
grado. Intanto, mentre si preparava una offensiva del Gruppo d’Armate B per la sua liberazione, si tentò di rifornirla dal cielo, con un ponte aereo di dimensioni mai raggiunte precedentemente. Il grande assedio. Cominciò così un lungo assedio, con un ininterrotto via vai di aerei da trasporto e da bombardamento che atterravano e decollavano dagli aeroporti di quello che iniziò a essere definito der Kessel, il calderone: la sacca di Stalingrado, in cui erano chiusi i tedeschi. E mentre i sovietici, preoccupati di rinforzare la morsa intorno alla VI Armata, esercitavano solo una leggera pressione dall’esterno della città, all’interno i tedeschi continuarono a cercare di strappare ai nemici l’ultima testa di ponte sulla riva occidentale del Volga: i combattimenti proseguirono sopra e intorno alla collina di Mamayev Kurgan, il rilievo intorno al quale era costruita Stalingrado. I primi a rimetterci furono i civili. Prima dell’attacco tedesco, Stalingrado aveva ricevuto infatti un imponente afflusso di profughi dall’ansa del Don. E un ordine di Stalin aveva proibito l’evacuazione dei civili per dare una motivazione in più per combattere con con-
vinzione ai soldati dell’Armata Rossa e per creare impedimento ai tedeschi. Morti di fame. Durante i combattimenti, prima dell’assedio, la popolazione subì così i bombardamenti aerei e i colpi di artiglieria sia tedeschi sia sovietici. Ma la vera tragedia cominciò quando cessò l’afflusso dei rifornimenti alla VI Armata nel mezzo del tremendo inverno russo. I superstiti civili cercarono rifugio nelle cantine e nelle fogne della città diroccata. Il titanico sforzo della Luftwaffe contro l’inclemenza del clima, le batterie contraeree e la caccia sovietica non riuscì a fornire ai tedeschi assediati rifornimenti di materiali e viveri sufficienti: la popolazione rimase abbandonata a se stessa. Le prime vittime della fame furono i cavalli da tiro dell’armata da cui l’armata dipendeva in gran parte per il trasporto delle artiglierie e dei rifornimenti. Privi di foraggio vennero macellati (il clima rigido consentiva peraltro di abbattere i cavalli e di conservarli nella neve). Dagli aeroporti partivano gli aerei carichi di feriti e congelati e ritornavano carichi di viveri e munizioni. Poi cominciò a mancare il combustibile e, non avendo più cavalli, i rifornimenti non pote-
I numeri dell’ecatombe
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Stalingrado c’erano circa 200mila tedeschi, 18.000 HiWi (volontari ucraini e russi antisovietici), aliquote di truppe ungheresi, croate e soprattutto romeni. Il solo dato dei sopravvissuti
che gli storici ci hanno tramandato riguarda i tedeschi: circa 5mila. La popolazione civile invece venne quasi tutta sterminata. Dopo la battaglia, 40mila abitanti furono rintracciati, ma non si sa nulla degli sfol-
lati intrappolati nella città morente. Morti fantasma. Le perdite dell’Armata Rossa non furono mai rese note, ma furono enormi. Si ritiene che un milione di persone siano morte per i combattimenti e
la fame. Pochi giorni dopo la fine dell’assedio, dentro le fabbriche prive del tetto, gli operai ricominciarono a colare l’acciaio per forgiare le armi che avrebbero portato l’Armata Rossa a Berlino.
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Settantasette AUTIERI italiani, tra i 20 e i 35 anni, parteciparono all’assedio: furono CATTURATI e portati in SIBERIA. Di loro, solo DUE rientrarono in Italia
RIFORNIMENTI DAL FIUME Navi lungo il fiume Volga cariche di cibo e armamenti riforniscono i soldati a Stalingrado.
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tedeschi erano usciti malconci dal primo inverno di guerra sul fronte orientale: a pochi chilometri da Mosca erano stati ricacciati. A fatica il fronte fu ristabilito e la primavera successiva il III Reich scatenò una nuova offensiva non più in direzione di Mosca, ma verso sud-est. L’attacco si sviluppò in direzione del Don e poi si divise in due direttive: il Gruppo d’Armate A si diresse verso i pozzi petroliferi del Caucaso, mentre il Gruppo d’Armate B, cui apparteneva la VI Armata di Paulus, puntò verso il Volga e Stalingrado. Il Volga fu raggiunto prima a nord di Stalingrado (fine agosto del 1942) poi sia al centro sia a sud: il 13 febbraio iniziò l’attacco tedesco. Una tenaglia avrebbe dovuto restringere la 62ma Armata sovietica in una morsa stretta su tre lati dai tedeschi e sul quarto lato dal Volga. Resistere o morire. Fino ad allora, i sovietici non avevano
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costituito un ostacolo serio alle offensive tedesche. Ma a Stalingrado l’Urss giocò il tutto per tutto. La città, duramente bombardata dalla Luftwaffe, resse e l’armata venne attirata nell’incubo dei combattimenti urbani in una città devastata, punteggiata da crateri, tra case distrutte. All’inizio, oltre alle demoralizzate truppe della 62ma Armata – arrivate dopo una sanguinosa ritirata dal Don al Volga – il compito di resistere ai tedeschi era ricaduto sulle milizie cittadine e su truppe inesperte spedite a tamponare le falle nelle difese urbane. Ma presto cominciarono ad arrivare anche le truppe esperte provenienti dalla Siberia che, invece di essere mandate a subire l’attrito dei combattimenti urbani, furono dislocate a sud e a nord della città, per volere di Stalin, per preparare la risolutiva Operazione Urano: l’accerchiamento degli assedianti.
ITAR/TASS (3)
La (vincente) strategia russa
STALINGRADO ANNO ZERO
CORBIS
Sotto, un soldato russo sventola la bandiera dell’Urss dopo la cacciata dei tedeschi, tra i blindati dell’Armata Rossa. Sotto, il generale tedesco Friedrich Paulus; a destra, il comandante russo della 62ma armata Vasilij Čujkov.
rono essere trasportati nei vari punti di Stalingrado. Progressivamente ristretta da attacchi sempre più incisivi, la controffensiva tedesca per tentare di sbloccare la VI Armata (chiamata “Tempesta Invernale”) risultò debole e, ostacolata sia dall’Armata Rossa sia dal clima invernale, si smorzò. Era arrivato il momento per i tedeschi di asserragliarsi nelle rovine e nelle fogne per resistere agli attacchi sovietici. Tra le macerie gli uomini lottavano senza più speranza di essere soccorsi: fu la Rattenkrieg, la guerra dei ratti, come venne definita in Germania. Mentre la propaganda nazista strombazzava l’eroismo di quelli che ora erano i difensori di Stalingrado, l’Armata moriva lentamente. Le munizioni scarseggiavano, le armi disponibili erano sempre meno e le razioni alimentari decrescevano ogni giorno fino a che si decise di non alimentare più chi, per le ferite o le malattie, non era in grado di combattere. Il tracollo. Sottoposti a un incessante bombardamento, i tedeschi persero il controllo degli aeroporti e, negli ultimi giorni, vennero riforniti solo paracadutando le provviste. Ci furono anche casi di cannibalismo. Il freddo e le malattie avevano decimato i 200mila veterani fino a renderli una mas-
sa inerte, istupidita e apatica. Quando Paulus decise di arrendersi (2 febbraio 1943), dopo aver ricevuto il grado di Feldmaresciallo, quello che rimaneva della VI Armata era incolonnato in marce forzate nel ghiaccio e trasportato nei campi di prigionia. Solo poco più di 5.000 tornarono in Germania. Era iniziata la parabola discendente dell’Asse, sconfitta anche in Africa a El Alamein. Tra le rovine di Stalingrado, quando già iniziava a tornare la popolazione civile, gruppi di disperati tedeschi sopravvivevano nascosti nei sotterranei, uscendo la notte per uccidere e rubare qualcosa da mangiare. I sovietici li cercavano sistematicamente. Sigillavano i condotti fognari, li allagavano o li facevano saltare con l’esplosivo, usavano i lanciafiamme. L’ultimo tedesco fu ucciso il 10 marzo del 1943. t Andrea Marrone
Gli altri assedi tedeschi
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ue altre grandi città dell’Urss subirono un duro assedio tedesco: Leningrado e Sebastopoli. L’assedio della prima cominciò il 30 agosto del 1941, due mesi dopo l’inizio dell’Operazione Barbarossa (l’aggressione nazista all’Urss) con l’interruzione dei ponti ferroviari sul fiume Neva. A condurlo furono sia i tedeschi sia i finlandesi: durante l’assedio rimase solo un esile corridoio acquatico, ghiacciato d’inverno, per portare cibo in una città di più di tre milioni di abitanti. Fino al 30 gennaio del 1944 la città patì continui bombardamenti che la distrussero quasi completamente: nei 900 giorni dell’assedio perirono circa un milione di civili. Caso Sebastopoli. A fine maggio del 1942 Sebastopoli era assediata da tre lati dai tedeschi mentre sul quarto lato aveva il mare, battuto dall’alto dalla Luftwaffe
e presidiato da una flottiglia d’assalto mista italo-tedesca. La città era una minaccia sia per la vicinanza dei suoi campi d’aviazione ai pozzi petroliferi di Ploiesti in Romania (alleata dell’Asse), sia per la prevista avanzata tedesca nel Caucaso. Davanti a Sebastopoli i tedeschi schierarono la più poderosa forza d’artiglieria mai assemblata: 208 batterie che includevano i mortai Gamma da 427 mm, i Karl da 615 mm e la poderosa “Dora” da 800 mm, per il cui trasporto erano necessarie sessanta vagoni di un treno speciale. Il bombardamento d’artiglieria e della Luftwaffe distrusse uno dopo l’altro i forti a difesa della città che cadde a fine giugno. Tedeschi e sovietici persero circa il 10% delle truppe impiegate, dai 40 ai 50mila uomini complessivamente, la guarnigione sovietica superstite fu catturata e i civili morti furono più di 200mila.
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UNIONE SOVIETICA
ANATOMIA
La campagna di RUSSIA doveva essere una GUERRALAMPO. Invece fu una débâcle: per COLPA di chi?
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DI UNA
ALL’ASSALTO Fanti russi con fucili automatici. Quelli di italiani e tedeschi erano invece manuali e andavano ricaricati dopo ogni colpo. A destra, un italiano armato di lanciafiamme. Quest’arma micidiale era in dotazione alle compagnie “Chimici” della nostra fanteria.
MONDADORI PORTFOLIO /AKG
PROVA DEL FUOCO A sinistra, combattimenti sostenuti dal Corpo di spedizione in Russia durante la prima fase della campagna, che fu avviata già nel 1941.
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“
ortmund” era la parola d’ordine che dava inizio all’operazione. Venne trasmessa alle 19, ora di Berlino, del 21 giugno 1941, un sabato sera: il giorno dopo la Germania di Hitler invadeva l’Unione Sovietica. Ma più che di un’operazione militare si trattò del coronamento di un sogno condensato nella parola tedesca Lebensraum, “spazio vitale”, quello cioè che andava conquistato per il popolo tedesco: assoggettare l’immenso territorio russo e i suoi Stati satellite per farne un grande magazzino alimentare, industriale, petrolifero e umano al servizio del Terzo Reich. L’offensiva scattò su un fronte di 1.600 chilometri, dal Baltico al Mar Nero, cogliendo Stalin impreparato. L’attacco inizialmente ebbe effetti devastanti lungo le tre direttrici di marcia principali: a nord su Leningrado (oggi San Pietroburgo); al centro su Mosca; a sud verso Kiev, le steppe della Russia meridionale e i lontani campi petroliferi sul Volga. I tedeschi disponevano in Russia di 170 divisioni, per un totale di 3 milioni di uomini e circa 3mila mezzi corazzati; da parte loro i sovietici schierarono 150 divisioni per un totale di 4.700.000 uomini. Due giganti a confronto. Ma Hitler era in netto vantaggio. Generale Inverno. L’avanzata tedesca proseguì inarrestabile e l’esercito russo continuava ad arretrare. Mosca era sempre più vicina e la guerra sembrava ormai vinta. Ma qualcosa accadde. L’Italia di Mus-
solini si trovava in difficoltà nei Balcani e la Germania fu costretta a correre in suo aiuto, ritardando di alcune preziose settimane l’assalto a Mosca. Quando la Germania, nell’ottobre 1941, sferrò l’attacco decisivo alla capitale sovietica, era troppo tardi. Ai russi bastò bloccare l’esercito tedesco a 40 chilometri dalla città, rafforzare la resistenza e lasciare che l’incipiente, terribile inverno russo facesse la sua parte. Quella che doveva essere una guerra-lampo si trasformò in una guerra di usura e la Germania perse il suo vantaggio tecnico e strategico di fronte alla neve, alla scarsità di viveri e alla mancanza di equipaggiamenti invernali adeguati per le truppe. Guerra di muscoli. Facciamo un passo indietro e immaginiamoci Mussolini svegliato nel cuore della notte da una telefonata che gli comunicava l’invasione della Russia da parte della Germania. Senza prima consultare il suo principale alleato, Hitler aveva rotto gli indugi e a Mussolini non restava che entrare in guerra al suo fianco. A nulla valsero le raccomandazioni del Führer di concentrare le forze italiane nel Nord Africa, lasciando perdere la Russia: Mussolini insisteva. Così, nell’estate del ’41, il duce inviò in Urss lo Csir, il Corpo di spedizione italiano in Russia, formato da tre piccole divisioni (circa 62mila uomini) abbastanza ben equipaggiate. Lo scopo era unicamente quello di mostrare la bandiera, facendo bella figura con pochi uomini e le migliori attrezzature disponibili. 65
La chiamata di Hitler. Passato l’inverno, in primavera la situazione ancora non si era sbloccata. Questa volta fu Hitler a chiedere un rafforzamento della presenza italiana in Russia. Prontamente Mussolini inviò al fronte un nuovo corpo di spedizione che inglobò lo Csir sotto un unico nome: Armir (Armata italiana in Russia). Arrivarono così altre 7 divisioni, di cui tre alpine (“Tridentina”, “Julia” e “Cuneense”), che fecero salire il numero dei soldati italiani a 230mila. Per dare un’idea dell’imponenza dello sforzo bellico basti pensare che l’esercito italiano contava in tutto 65 divisioni, di cui la metà era nei Balcani e una decina in Africa. Destinare al fronte russo dieci divisioni della ventina che rimanevano a disposizione sul suolo italiano non era certo una decisione di poco conto. Viene però da chiedersi: perché inviare truppe alpine nella steppa russa? È difficile immaginare un terreno meno adatto per le divisioni di montagna. Queste infatti erano state inizialmente destinate al teatro di guerra del Caucaso ma poi, ai primi di agosto del ’42, furo-
no dirottate con il resto delle divisioni italiane sulla linea del Don, per coprire l’avanzata della 6a Armata tedesca su Stalingrado. Tante parole sono state spese sull’inadeguatezza dell’equipaggiamento di queste truppe per quello scenario di guerra che prometteva un inverno glaciale: divise non sufficientemente calde, scarponi dentro i quali i piedi gelavano, fucili che si inceppavano col freddo e automezzi inutilizzabili per la mancanza di liquido antigelo. Se all’esercito tedesco il primo inverno sulle nevi russe, nel 1941, era servito per meglio equipaggiarsi all’arrivo del secondo, lo stesso non poteva dirsi per le truppe italiane. Saturno contro. Nel novembre 1942 i contrattacchi sovietici sui fiumi Don e Volga chiusero in una sacca le forze tedesche che assediavano Stalingrado. I tedeschi si organizzarono per rompere l’accerchiamento, ma i russi si mossero con altrettanta rapidità e misero a punto l’Operazione Piccolo Saturno, che prevedeva la definitiva rottura della linea difensiva nemica schierata sul Don. Le forze italiane, rumene, ungheresi e tedesche lì attestate non erano sufficienti da sole a reggere l’impatto, senza un’adeguata retroguardia. Ma tutte le rimanenti forze tedesche erano impegnate a Stalingrado, e dietro le linee dell’Armir non si vedeva altro che la sconfinata steppa russa.
PASSAGGI DIFFICILI Nell’autunno 1942 soldati italiani stabiliscono collegamenti telefonici con le retrovie e (a destra) trainano un pezzo d’artiglieria alpina.
Durante la campagna di Russia i MORTI sono stati circa 85mila e i FERITI 27mila
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LOTTA AL FREDDO Sopra, i valenki di feltro calzati dai russi erano riempiti di paglia per mantenere meglio il calore.
Il 16 dicembre l’esercito russo sferrò la grande offensiva che investì le divisioni italiane di fanteria e il gruppo rumeno “Hollidt”, schierati sul medio Don, risparmiando più a nord il Corpo d’armata alpino. Misero in campo le forze corazzate (un migliaio di carri armati) e la fanteria italiana non poté che cedere. La scelta fu di piegare più a sud e, nell’attesa (vana) di rinforzi tedeschi, tentare di ricostituire una linea difensiva. Ma il fronte era ormai rotto e l’obiettivo di Stalin raggiunto: i tedeschi non avevano più le forze per organizzare una controffensiva su Stalingrado. «I fanti italiani non erano per nulla pronti a una guerra di movimento», commenta lo storico e saggista Giorgio Scotoni. «La prima colonna di quelli che stavano ripiegando fu spazzata via in una delle più sanguinose battaglie nella conca di Arbusovka (la cosiddetta “Valle della morte”), dove sono ancora sepolti 15mila nostri connazionali, mentre il resto resistette accerchiato a Chertkovo». Stretta mortale. A gennaio anche il Corpo d’armata alpino, che era rimasto sull’Alto Don, venne accerchiato dalle truppe sovietiche del fronte di Voronezh. La 40a Armata corazzata russa mise in rotta la 2a Armata ungherese, schierata a nord degli alpini. Intanto i carri russi della 3a Armata corazzata avanzavano a sud, dove lo schieramento era tenuto dal 24° Corpo corazzato tedesco e dalla “Julia”. I russi raggiunsero anche Rossosch, sede del comando
alpino: furono respinti solo inizialmente, poi il 16 gennaio riuscirono a prendere la cittadina. Le truppe alpine erano dunque ormai chiuse in una tenaglia, che andava stringendosi da nord e da sud. La sera del 17 gennaio i comandi italiani ordinarono il ripiegamento. Fu una decisione dettata dalla disperazione: gli uomini e le armi a disposizione non potevano nulla contro il dispiegamento di forze russe. Seppure l’idea di una ritirata a piedi nella steppa aperta, senza alcun riparo e senza poter sperare nell’arrivo di rinforzi, sembrasse folle, proseguire in una difesa a oltranza sarebbe stato un suicidio. Cominciò così la lunga marcia di ripiegamento degli alpini. I battaglioni avanzarono per dieci lunghi giorni nella neve: nessuna indicazione da parte dei comandi, nessuna possibilità di collegamento radio, niente viveri, nessun mezzo tranne poche slitte stracariche di feriti e qualche stanco mulo per trainarle. A un certo punto, l’ordine di deviare in direzione di una cittadina che oggi non esiste nemmeno più sulle carte: Nikolajevka. Ultimo capitolo. Il 26 gennaio 1943 si riversò alle porte della città un’enorme massa di sbandati, ma solo la “Tridentina”, l’unica divisione che aveva fortunosamente ricevuto via radio informazioni sulle posizioni di sbarramento nemiche, riuscì ad aprirsi un varco. I resti delle divisioni “Vicenza”, “Julia” e “Cuneense”, a cui gli ordini non erano mai arrivati, finirono nelle mani della cavalleria cosacca. Le cifre parlano chiaro: si calcola che durante la campagna di Russia i morti siano stati circa 85mila e i feriti o congelati 27mila. Ma a chi imputare la colpa di questa disfatta? In primo luogo al clamoroso ritardo nell’autorizzazione tedesca al ripiegamento, in una logica di sacrificio delle truppe. I comandi italiani, dal canto loro, ebbero la responsabilità di non aver saputo organizzare la ritirata. Resistenze. L’Operazione Barbarossa, il nome in codice per l’invasione nazista dell’Unione Sovietica, fu senz’ombra di dubbio una disfatta. E fin da subito i tedeschi addossarono sugli italiani – accusandoli di lassismo e impreparazione – le colpe della sconfitta. Ma l’apertura in anni recenti degli archivi russi ha gettato nuova luce sulla vicenda dell’Armir e conferiscono il giusto valore all’azione e alla resistenza dell’esercito italiano. «Emerge anche un giudizio positivo sui generali e sulla difesa disperata delle fanterie dell’Armir, tanto coraggiose da costringere i comandi sovietici ad anticipare l’ingresso delle truppe corazzate in battaglia. Queste valutazioni, se non cambiano il carattere di débâcle complessiva, ribaltano le tradizionali accuse mosse dagli allora alleati tedeschi e l’immagine critica tratteggiata dai comandanti della Wehrmacht nelle loro met morie», conclude Scotoni. Viola Calabrese 67
TESTIMONIANZE
RITORNO SUL DON H
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o ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don”. Così inizia Il sergente nella neve, romanzo autobiografico di Mario Rigoni Stern (1921-2008) sulla ritirata dell’Armata italiana in Russia (Armir) nell’inverno tra il 1942 e il ’43. Lo scrittore è sopravvissuto e la sua esperienza è diventata letteratura. Ma non è l’unico a essere tornato. In queste pagine ricostruiamo la storia della sventurata campagna militare seguendo il racconto dei reduci: ultraottantenni che, intervistati qualche anno fa, hanno voluto rendere l’ultimo omaggio a chi, dalla Russia, invece, non è più tornato. Alcuni nel frattempo sono morti. Ma le loro parole sono più vive che mai. Chi mal comincia... Che fosse una spedizione iniziata sotto i peggiori auspici c’era chi l’aveva capito fin dai primi giorni. Come Egidio Pin, artigliere alpino di Pianzano (Tv), classe 1921, inquadrato nella Divisione Julia. «Partimmo con la tra-
A piedi nella steppa a 40 gradi SOTTO ZERO, in mezzo al fuoco nemico nelle TRINCEE, alla ricerca di CIBO nelle case dei russi: i RICORDI dei reduci RUSSIA IERI E OGGI Alpini in posa dopo essere usciti da una sacca di accerchiamento russa nell’inverno del 1943. Sotto, un’ansa gelata del fiume Don oggi, lungo la linea del fronte di 72 anni fa. In basso, alpini del Battaglione Verona, Divisione Tridentina, entrano in Ucraina nel 1942.
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dotta: passammo da Gorizia e poi, via Tarvisio, in Austria, Polonia e Ucraina. Ma lì ci dovemmo fermare: in Russia i binari avevano una larghezza diversa rispetto al resto d’Europa. Scendemmo e ci accampammo per la notte, noi e il migliaio di automezzi al seguito della “Julia”, parcheggiati in ordine, pronti a partire il giorno dopo. Non vi dico le bestemmie in quei momenti. Con tutta la strada ancora da fare e il treno fermo lì, cominciavamo bene. Il giorno dopo, all’alba, ci preparammo a partire. Ma gli autisti, che erano stati i primi a salire sugli automezzi, avevano già scoperto che non si potevano nemmeno mettere in moto. Eravamo ancora in settembre ma durante la notte la temperatura si era abbassata a tal punto da far congelare i motori, dove nessuno si era preoccupato di mettere l’antigelo. Così, cambio di programma e via a
piedi: marciammo per 5 giorni, facendo una quarantina di chilometri al giorno». I giovani dell’Armir andavano a ingrossare le file dei primi arrivati: «Io in Russia ci sono arrivato nel 1941 con il Corpo di spedizione italiano in Russia (Csir): sono partito alla guida di un camion della Divisione Torino e me ne sono dovuto tornare a piedi. Dopo 20 mesi di guerra», queste le parole di Leonida Giannelli, di Calzolaro di Umbertide (Pg), caporalmaggiore decorato con la Croce di Ferro tedesca. Il primo convoglio dello Csir era partito infatti da Verona il 10 luglio di quell’anno: 62mila uomini e 5.500 automezzi suddivisi in tre divisioni: “Pasubio”, “Torino” e “Celere”. Partenza. Il rincalzo di 230mila uomini è arrivato un anno dopo. «Ci hanno messo in mano un fucile modello 91, una baionetta e qualche vecchia mi-
BUON VIAGGIO L’accoglienza festosa alle prime truppe italiane dirette al fronte russo, nell’alleata Ungheria, durante il luglio del 1941. Sotto, due gavette incise dai soldati in Russia con pensieri dedicati alla propria amata e vignette ironiche.
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Ai nostri soldati, spesso afflitti dalla FAME, capitava di intercettare le vettovaglie dei SOVIETICI e di riuscire a rubargliele
Il rancio? Solo sulla carta
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ane (700 g), carne (250 g), pasta (220 g), legumi (50 g), formaggio (40 g), ma anche olio, lardo o strutto, conserva, sale, pepe, caffè (o surrogato), zucchero, vino o liquori. Il tutto per un totale di circa 3.738 calorie. Era questa, nel 1940, la razione alimentare giornaliera
per i soldati in grigioverde. Ma durante la campagna di Russia le cose cambiarono drasticamente. Sbobba. Le calorie scesero a 3.569, e non furono sempre garantite. I rifornimenti infatti diventarono sempre meno costanti, le cucine mobili da campo e le “casse di cottura” si rivelarono
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Un italiano con un bimbo russo davanti a un’isba. A destra, per sfamarsi i soldati ricavano il rancio dalla carcassa di un animale morto e congelato.
tragliatrice. E senza tanta preparazione siamo partiti, accompagnati alla stazione dalla fanfara, tra i saluti e i pianti dei nostri cari. Eravamo tutti commossi»: a parlare è Giovanni Mirenda, nato a Sperlinga (En) nel 1921, partito con l’Armir. L’ufficiale di artiglieria alpina Franco Fiocca, milanese classe 1921 (morto nel 2009) si avviò con tutt’altro spirito: «Per me, appassionato di scalate, la Russia era un sogno. Voleva dire avventura. Molti di noi erano spinti dalla voglia di crescere e di imparare. Poi eravamo galvanizzati dalla propaganda e dall’idea di una guerra lampo, di cui tanto vaneggiavano i tedeschi. Solo quando fui lì realizzai. Innanzitutto che non c’era motivo che noi andassimo a “rompere le scatole” ai russi. Si vedeva che era brava gente, gente come noi». Amaro risveglio. Il mestiere della guerra furono costretti a impararlo in fretta anche i “bocia” (reclute). «Il mio primo giorno in trincea? È stato memorabile», raccontava Ugo Zappa, fante lombardo partito ventunenne per la Russia il 20 settembre del 1942, inquadrato nel 37° Reggimento fanteria, Divisione Ravenna. «Appena arrivato ho
inadatte al clima: così i soldati dovettero imparare ad arrangiarsi con la razione di riserva che prevedeva gallette e marmellata (quasi mai distribuita) e scatolette di carne o minestra. Quest’ultima era la famigerata “Chiarizia” (dal nome del generale di commissariato che l’aveva inventata): un minestrone di verdure
amaro, disgustoso, spesso gelato, che provocò gravissimi problemi intestinali. Durante la ritirata poi, mentre interi magazzini cadevano nelle mani del nemico, i soldati ingurgitarono di tutto, da animali morti ormai in decomposizione al grasso degli automezzi che, congelato, pareva commestibile. (s. r.)
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VITTIME
cercato di orientarmi in quei lunghi fossati profondi circa due metri che si intrecciavano tra di loro e terminavano in piccole caverne rivestite di tronchi, riempite con rudimentali letti a castello: le nostre “camere da letto”. Poi mi sono fatto coraggio e mi sono affacciato al bordo della trincea guardandomi attorno: eravamo piazzati nella steppa piena di neve, davanti c’era il fiume Don, tutto gelato. Quando arrivò l’imbrunire i russi cominciarono a mandare canzonette italiane a tutto volume: ci invitavano ad arrenderci illustrando la stupenda vita che facevano i prigionieri di guerra. Ma mi sono accorto davvero di essere in trincea quando mi hanno dato un pezzo di postazione da controllare e i russi hanno iniziato a sparare: sparavano i miei compagni e sparacchiavo anch’io. A un certo punto le acque si sono calmate e mi hanno dato finalmente il cambio: sono entrato nel mio tugurio, mi sono spogliato e coricato a letto. A svegliarmi poco dopo sono state invece raffiche di fucili, grida e ordini. Ed è qui che ho imparato la mia prima grande lezione: mai togliersi i vestiti, neanche per riposare!». Estate 1942: alpini impastano il pane.
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Durante la ritirata, di NOTTE si cercava RIPARO nelle isbe dei CONTADINI russi. Spesso dividendole con le DONNE e i BAMBINI
passarlo, ma sono stati respinti. È andata avanti così fino al 17 dicembre, quando a Stalingrado i russi hanno rotto la linea e noi abbiamo ricevuto l’ordine di ripiegare e concentrarci a Rostov». Era iniziata la massiccia controffensiva russa, chiamata Operazione Piccolo Saturno. Da quel momento tutto cambiò. Polito: «A Rostov ci siamo riuniti e abbiamo formato una colonna alla quale, più avanti, si sono aggiunti tedeschi, rumeni e polacchi. Di lì è cominciata la grande ritirata: una colonna di cui non si vedeva la fine. Si camminava giorno e notte, ci si fermava solo qualche ora nei paesi abbandonati, cercando di trovare qualcosa da mangiare. Poi c’erano i nostri muli: qualcuno moriva e così si recuperava qualche pezzo di carne; approfittando delle
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Divisi da un fiume. Celeste Polito, classe 1922 di Farra d’Alpago (Bl), e i suoi compagni arrivarono al fronte con un compito preciso: «La mia divisione, la “Vicenza”, doveva dare il cambio agli alpini della “Tridentina” che furono spostati più a nord. Quando arrivammo trovammo perciò le trincee, i camminamenti e anche qualche piccolo bunker che gli alpini avevano già fatto e che noi abbiamo continuato ad ampliare. I giorni e le notti passavano un po’ a scavare e un po’ a fare la guardia; cibo e munizioni arrivavano attraverso i camminamenti, di sera o durante la notte perché di giorno era pericoloso uscire allo scoperto: una volta una pallottola mi ha bucato la gavetta facendomi rovesciare tutto il brodo. Il peggio però era la notte, quando a turno si andava di pattuglia sulla riva del Don: si indossava la tuta bianca e si percorreva la sponda del fiume. Tra noi e i russi c’era solamente qualche cespuglio e il fiume gelato. In varie occasioni loro hanno tentato di
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DESTINO INCERTO Sopra, una sosta nei boschi durante il ripiegamento dal fronte del Don, nel gennaio 1943. A destra, Polonia, 1943. La tradotta, in sosta in una stazione, riporta verso ovest i reduci della spedizione italiana. A sinistra, truppe in ritirata nel 1943.
case o dei pagliai che bruciavano riscaldavamo alla meglio qualche pezzo di ciò che avevamo trovato e si metteva nello zaino il resto. In tutto ciò gli scontri a fuoco erano continui. Un giorno, al calare della sera, hanno mitragliato la colonna e un compagno che camminava al mio fianco è stato colpito da una pallottola alla gola. È cascato a terra, si è rialzato e mi ha detto: “Polito, addio!” afflosciandosi su se stesso. D’istinto io mi sono buttato nella neve e le pallottole mi hanno sfiorato così da vicino da bucarmi lo zaino che avevo sulle spalle e dentro il quale tenevo come un tesoro due scatolette e un pezzo di pane di segale nero, tutte le mie provviste». Fortunato. Il caporalmaggiore di Codognè (Tv) Evaristo Barazza, classe 1920, inquadrato nella “Julia”, se la cavò per un colpo di fortuna. «Mangiare? Era un miraggio. Si riusciva solo se si aveva la buona sorte di passare vicino a qualche isba o a qualche ricovero, dove trovavamo patate, crauti o piccole mele sotto aceto. Chi non era così fortunato rimaneva là. In quella lunga ritirata io mi sono salvato perché un giorno ho trovato una borraccia piena di miele che mi ha dato l’energia necessaria per andare avanti. Figurarsi che lì era faticoso anche respirare, tanto l’aria era fredda: per farlo ci mettevamo un pezzo di coperta in faccia. Questo finché non arrivammo a Nikolajevka, quando i nostri ufficiali ci dissero: “Tenetevi pronti perché bisognerà fare un assalto alla città”. In realtà quel giorno il nostro comandante girò in largo e ci portò ad aggirare le forze russe. D’altronde con cosa potevamo combattere? Non avevamo più né fucili né pistole, solo cannoni che a quel punto però erano diventati inservibili». “Tridentina” avanti! Alle porte di Nikolajevka c’era anche Augusto Caliaro (1922-2014), alpino veneto, partito nel 1942 nella “Tridentina”, 6° Battaglione Verona: «Il nostro generale, Luigi Reverberi, ci incitò a entrare in città: quando l’abbiamo fatto non si potevano contare i morti».
A piedi. Rotto il blocco di Nikolajevka gli italiani continuarono la lunga marcia verso casa nella steppa innevata. «La mantellina che avevamo in dotazione si accorciava a vista d’occhio: ogni giorno ne tagliavo una striscia per rifare le fasce da mettere sulle gambe, sotto al ginocchio. Le scarpe le avevo buttate via quasi subito perché facevano entrare l’acqua e i piedi si gonfiavano. Così li ho avvolti in un pezzo di coperta e ho evitato di farli congelare», raccontava Umberto Battistella (1920-2012), arrivato in Russia da San Michele di Piave (Tv) nel 3° Reggimento di artiglieria da montagna della Divisione Julia. Illusioni alcoliche. In quella quotidiana lotta per la sopravvivenza ci si misero d’intralcio anche gli alleati. Ugo Zappa, milanese, classe 1921: «Nella lunga colonna di uomini e automezzi i tedeschi si mischiavano agli italiani. E non sempre la convivenza era facile. I camion che avrebbero dovuto trasportare i feriti spesso erano occupati da tedeschi sani, che con il calcio del fucile impedivano agli italiani di salire. Io riuscii ad appollaiarmi sul triangolo di aggancio tra la motrice e il rimorchio. Feci un po’ di strada così, ma presto mi resi conto che mi si stavano congelando i piedi. Ritornai perciò a camminare. Quella notte, nel fienile in cui mi rifugiai, ricordo le pulci che mi tormentavano: ’ste disgraziate al freddo non si sentivano, ma non appena ci si rintanava al caldo cominciavano a trottare su tutto il corpo. L’indomani ripresi il cammino, fra immense distese di neve, con punte di 40 gradi sotto zero, tra file di cadaveri ai bordi della pista. Molti furono uccisi dall’illusione di “scaldarsi” con un po’ di cognac. Un sergente ci aveva raccomandato di mischiarlo sempre con l’acqua. Ma quelli che non seguirono il consiglio morirono seduti sui loro zaini, ad aspettare che gli passasse la sbronza». Dolori e atrocità sempre più lontane, ma proprio per questo t da non scordare mai. Anita Rubini (ha collaborato Claudio Botteon) 73
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Colbacchi d’agnello furono acquistati in Romania, Paese alleato dell’Asse.
CIACULA
L’uniforme della fanteria prevedeva la bustina pieghevole di panno.
BUSTINA
Il Corpo di spedizione italiano usava l’elmetto modello 1933.
ELMETTO
on il freddo dell’inverno russo (fino a 40 gradi sotto zero) proteggere la testa era fondamentale. Ma la dotazione, anche in questo caso, fu insufficiente. Solo alcuni riuscirono a procurarsi un prezioso colbacco di pelo.
C
Più che l’elmetto, servì il colbacco
I guanti di lana a tre dita servivano per poter sparare senza restare a mani nude. Bagnati, però, si congelavano.
GUANTI A TRE DITA
L’uniforme mod. 1940 era in panno autarchico. Il cappotto rendeva difficili i movimenti e non riparava a sufficienza dal vento gelido della steppa russa.
PASTRANO INSUFFICIENTE
PARTIRONO COSÌ
Scarponi che sembravano di CARTONE e maglioni di FINTA LANA: l’equipaggiamento della SCONFITTA
LANA E FLANELLA La camicia era di flanella e il maglione di lana autarchica, come le mutande, le calze e il (raro) passamontagna.
UNIFORMOLOGIA
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ell’estate 1941, quando i primi soldati del Corpo di spedizione italiano arrivarono in Russia, le uniformi potevano anche andare bene. Anzi, il tessuto faceva sudare. Era la normale uniforme mod. 1940 in panno grigioverde, aggiornamento di quella della Prima guerra mondiale. L’inverno russo, però, ne evidenziò le carenze. Autarchici. Il panno “autarchico” (fabbricato con cascami di lana rigenerati e un contenuto di lana pura ridotto al 16%) delle uniformi e dei pastrani non era sufficiente. Gli scarponi, in cuoio anch’esso autarchico (ricavato da pelli di seconda scelta riconciate), si disfacevano nella neve e nel fango quasi fossero di cartone, e diventavano morse con il gelo. Alle vedette vennero forniti speciali “calzari da scolta”, sovrascarpe imbottite di pelo e con la suola di legno, che impacciavano i movimenti, ma almeno riparavano i piedi dai congelamenti. Rinforzi. A novembre i soldati ricevettero una “dotazione invernale” acquistata in Ungheria e Romania attraverso il comandante del Corpo di spedizione Giovanni Messe, che aggirò le restrizioni sugli acquisti imposte dai tedeschi. Comparvero anche le ambite “ciacule” rumene: colbacchi di pelo. Da quel momento non vi furono altri rifornimenti. Gli alpini avevano colbacchi foderati di pelo di agnello, ma in numero insufficiente. Lo stesso tipo di pelo rivestiva (ma non sulle maniche) alcuni rari giacconi. rponi Gli unici equipaggiati in modo adeguato, con scarponi con suole di gomma (“Vibram”), giacche a vento, guuannti agliooe giubbe imbottite, erano gli alpini sciatori del Battaagli ne Monte Cervino. Ripieghi. Gli italiani iniziarono a utilizzare di tutto per proteggersi dal freddo: mantelli, coperte e materiale preeso al nemico. Come i preziosi valenki, tradizionali stivali di feltro russi. Fu fatto un tentativo di produrre in Italia calzature simili ma, a causa di episodi di corruzione negli appalti, l’iniziativa fallì. Così, durante la ritirata, i soldati procedettero con gli scarponi tenuti insieme daa corde e filo di ferro. Alcuni arrivarono a marciare con i t piedi nudi avvolti in stracci e pezzi di coperta. Stefano Rossi FOTO DI D. VITTIMBERGA
ALLA ZUAVA I pantaloni alla zuava in panno erano l’unica protezione per le gambe (non tutti avevano mutande lunghe). In fondo, si stringevano con le fasce mollettiere.
GIACCHETTA
Gli scarponi di cuoio, chiodati, scivolavano sul ghiaccio. Il piede era avvolto in pezze da piedi e calze di lana; le mollettiere fungevano da ghette.
SCARPONI E CALZE
Lo zaino affardellato: coperta di lana e telo mimetico modello 1929, usato anche come poncho. Ma in spalla si portavano pure armi e vettovaglie.
ZAINO IN SPALLA
Il panno della giacca teneva caldo d’estate e freddo d’inverno. Non essendo idrorepellente, se bagnato (per esempio con la neve) diventava freddo e pesante.
PROTAGONISTI
Progettò la NUOVA BERLINO, poi divenne responsabile della produzione BELLICA durante la guerra. E fu un fedelissimo di Hitler
L’ARCHITETTO DEL
DIAVOLO
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Un Reichsparteitag (raduno nazionale del partito nazista) a Norimberga nel 1937. L’architetto Albert Speer (1905-1981, di fianco) fu l’artefice delle imponenti scenografie di quelle manifestazioni propagandistiche.
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SCENOGRAFIE MONUMENTALI
ALINARI
HITLER non di rado “fuggiva” dalla Cancelleria per recarsi nell’ufficio di Speer per parlare di nuovi PROGETTI architettonici
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RIUNIONE SUL VALLO Nel 1943, Hitler e Speer parlano del Vallo Atlantico, che prevedeva una serie di fortificazioni lungo le coste dell’Europa Nord-occidentale.
1937-40 SPEER, SOPRINTENDENTE ALL’URBANISTICA, PROGETTA GLI EDIFICI DELLA “NUOVA BERLINO”, DI CUI POCHI REALIZZATI
ei limiti in cui Hitler mi ha impartito degli ordini e io li ho eseguiti me ne sento responsabile, però preciso anche di non aver eseguito tutti i suoi ordini”. È il 19 giugno 1946, siamo a Norimberga, nel tribunale allestito per giudicare i crimini nazisti. Alla sbarra un uomo che nei giorni precedenti aveva uno sguardo smarrito e il volto segnato dai tic nervosi: è Albert Speer, l’architetto del Terzo Reich. Speer infatti era stupito di essere tra gli imputati. Era convinto che i “tecnici” come lui non potessero essere ritenuti responsabili come gerarchi e politici nazisti. Lui non si era mai occupato di politica e con Hitler aveva condiviso solo grandi sogni: il primo, da architetto, era quello di una Berlino caput mundi (o Welthauptstadt, alla tedesca); l’altro, dal 1942, anno in cui fu nominato ministro degli Armamenti, era quello di vincere la guerra. Non si realizzarono né l’uno né l’altro e alla fine tutto si trasformò in un incubo. Archistar ANTE LITTERAM. Il giovane Speer era molto ambizioso e, una volta uscito dall’università, era, come affermò lui stesso, disposto a vendere l’anima al diavolo per diventare quella che oggi si direbbe un’archistar. La sua occasione arrivò nel dicembre del 1930, a 25 anni, quando alcuni studenti lo convinsero a partecipare al comizio di un nuovo politico: Adolf Hitler, capo del partito nazionalsocialista, che stava facendo proseliti nell’università. Albert aveva trovato il diavolo a cui vendere la propria anima. Speer, schivo e introverso, proveniva da una famiglia borghese e liberale di Mannheim. Non amava la politica, ma nemmeno la odiava; semplicemente non voleva averci a che fare. Eppure, quel pomeriggio d’inverno, come racconta nelle sue Memorie del Terzo Reich (1971), lo segnò. Era diventato un’altra persona, capace di provare vera ammirazione per Hitler, freddo ma appassionatamente votato alla causa della Germania. Si iscrisse al partito, e fu la sua fortuna professionale. Iniziò con lavoretti in case e ville di esponenti del partito e quando Hitler prese il potere, nel gennaio del 1933, Speer era già suo fedele collaboratore. Arrivò finalmente un incarico importante: Joseph Goebbels, ministro della Propaganda, gli affidò il
Il sogno di una capitale tutta nuova
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pubblici e alberghi di lusso. Luoghi di cultura. Uno spazio era poi destinato all’intrattenimento e alla cultura. A metà della via erano previsti infatti il Palazzo dell’opera e teatri, uno per la prosa, uno per l’operetta e uno per il varietà. Un gigantesco cinematografo in grado di ospitare circa 6mila spettatori. All’inizio e alla fine della grande strada dovevano sorgere due maestosi edifici: una cupola, disegnata dallo stesso Hitler, di
220 metri di altezza e 250 metri di diametro ispirata alla Basilica di San Pietro di Roma. Nella Volkshalle (Sala del popolo, sotto) si sarebbero potute radunare fino a 180mila persone. All’estremità opposta, un Arco di Trionfo che avrebbe ridicolizzato quello di Parigi (50 m): alto 120 metri, avrebbe avuto incisi i nomi dei caduti tedeschi nella Prima guerra mondiale. Vicino alla cupola era previsto un monumentale Palazzo del Führer, concepito su modello di Palazzo Pitti a Firenze.
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deare una nuova Germania era per Hitler uno dei “passatempi” a cui si dedicava con maggior piacere. Tra il 1937 e il 1940, con Speer lavorò molto sul progetto di una nuova Berlino, vero fiore all’occhiello del Terzo Reich. La capitale doveva essere attraversata da una lunga via, la “Strada Grande”. Sui suoi 5 km si sarebbero dovuti affacciare i più importanti palazzi di rappresentanza del Reich e del partito. E poi aziende commerciali, musei, enti
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rifacimento del palazzo del suo dicastero. Da quel momento la scalata fu inarrestabile e nel 1934 Speer divenne l’architetto ufficiale del partito. Speer e Hitler passavano molto tempo a discutere di progetti che anche Hitler stesso disegnava, vagheggiando una nuova Germania, splendida e monumentale, simile all’antica Roma. E proprio come per Roma, le sue rovine avrebbero “parlato” ai posteri della grandiosità del Terzo Reich. Ambizioni monumentali. Hitler in architettura aspirava al maestoso e al mai visto: voleva lo stadio più grande del mondo a Norimberga, il grattacielo più alto ad Amburgo, il più vasto stabilimento balneare in Pomerania. Questa tendenza al monumentale si manifestava soprattutto in quella che avrebbe dovuto essere la Nuova Berlino, dove si progettò di abbattere 50mila edifici per fare spazio a enormi e sfarzosi palazzi del potere e della cultura (v. riquadro a destra). “Ero alla ricerca di un architetto cui poter un giorno confidare i miei progetti edilizi”, disse Hitler a Speer. “Lo volevo giovane perché come lei sa questi progetti sono proiettati nel futuro. Io ho bisogno che anche dopo la mia morte possa continuare a percorrere questa strada con l’autorità che io gli avrò conferito. E l’ho visto in lei”. Così, nel 1937, lo nominò soprintendente all’urbanistica e volle il suo ufficio vicino alla Cancelleria, per poterlo raggiungere con discrezione ogni volta che lo desiderava. Di giorno, ma anche di notte. Non di rado dopo la mezzanotte, Speer riceveva una telefonata da casa Hitler: di solito era un aiutante che gli chiedeva se avesse qualche nuovo progetto di cui parlare, poiché il Führer aveva bisogno di distrarsi. Ma poi arrivò la guerra e con lei l’inaspettata (quanto sospetta) morte, nel 1942, di Fritz Todt, ministro degli Armamenti, per il quale
POSE PLASTICHE
GRANDI OPERE
Hitler osserva un plastico insieme a Speer (primo a sinistra), nel 1936. Il Führer voleva ricostruire le principali città tedesche.
Nel 1937, Hitler con Fritz Todt, all’epoca ispettore alle strade; a destra (indicato dalla freccia), il suo collaboratore Speer.
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Albert Speer al processo di NORIMBERGA scampò alla PENA capitale: fu condannato a 20 anni di CARCERE Speer aveva lavorato e di cui diventò, per ordine di Hitler stesso, il successore. Inizialmente perplesso vista la propria inesperienza di guerra, Speer si convinse in fretta: “Ricordo ancora quale sensazione di grandezza mi venisse dal fatto di poter disporre, con una firma, di miliardi e dirigere centinaia di migliaia di persone che lavoravano nei cantieri”. Corsa agli armamenti. Speer, abbandonati riga e compasso, si buttò sul nuovo incarico. Tanto da prendere, nel 1943, il pieno controllo dell’apparato produttivo bellico tedesco. Godeva (cosa rara) della stima di Hitler e di un certo prestigio nell’opinione pubblica per la sua capacità di amministratore. Perfino un pezzo da novanta come Goebbels aveva mostrato per quell’uomo, un po’ incolore dal punto di vista dell’iPER VOLERE DI deologia, una certa ammirazione, HITLER tanto da considerarlo un “autentiSPEER DIVENTA co nazionalsocialista”. La strategia di Speer come miMINISTRO DEGLI ARMAMENTI nistro era proteggere, delocalizzandole, le industrie che producevano pezzi indispensabili per i mezzi da guerra. Per esempio i cuscinetti a sfera. Erano prodotti in maggioranza nel territorio di Scheinfurt. Il bombardamento del 1943 su quella zona provocò la riduzione della produzione del 40%. La strategia degli Alleati era quella di bombardare le città tedesche per demoralizzare la popolazione concentrandosi poco sugli obiettivi sensibili, come le fabbriche di armamenti. Questo, sommato allo sfruttamento del lavoro coatto di deportati e prigionieri (dopo l’8 settembre 1943 tra questi anche molti soldati italiani internati), portò a una grandissima produzione di armamenti. Troppi. Nell’estate del 1944 la situazione era paradossale. La Germania al tracollo in guerra toccò il suo apice nella produzione bellica suscitando un senso di euforia prima della fine: erano stati prodotti equipaggiamenti per 270 divisioni e la Wehrmacht ne contava a malapena 150. Fu allora che iniziarono gli screzi: Speer non era d’accordo sulla strategia bellica e chiese (inascoltato) UN ARCHITETTO AGLI ARMAMENTI di bombardare le industrie nemiche, in particolare Speer negli Anni ’40 parla in uno stabilimento di produzione bellica. Abile simulatore, oltre quelle sovietiche. Gli alti comandi invece si concenche stretto collaboratore di Hitler, riuscì a conquistarsi la fiducia di molti dirigenti del settore. trarono sulla battaglia aerea, che nei piani di Hitler
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1942
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LA CATTURA Da sinistra, Speer, l’ammiraglio Karl Dönitz e il generale Alfred Jodl nel 1945, arrestati dagli Alleati.
IL PROCESSO
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A Norimberga nel 1946, nonostante il parere contrario dell’avvocato, decise di assumersi la responsabilità dei fatti.
FUORI DAL CARCERE Speer nel 1971, nella casa di Heidelberg dove visse dopo aver scontato 20 anni nel carcere di Spandau (Berlino).
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avrebbe dovuto servirsi di mezzi e armi nuovi. Speer, anni dopo, affermò che quella nei cieli fu “la più grande battaglia perduta” dai tedeschi nel conflitto. Fine dell’idillio. Con il crollo sul fronte occidentale, nell’agosto del 1944 Hitler dichiarò: “Se il popolo tedesco dovesse uscire sconfitto dalla lotta questo vorrebbe dire che non avrà saputo superare la prova impostagli dalla Storia, e quindi non potrebbe che essere votato alla fine”. La carica distruttiva del nazismo stava per rivolgersi contro il popolo tedesco e Speer avrebbe dovuto esserne l’esecutore materiale: doveva smantellare gli stabilimenti per la produzione di energia. Ma era solo l’inizio, il Führer ordinò la distruzione di industrie, magazzini di provviste, centrali telefoniche, documenti anagrafici, bancari e catastali, monumenti e fattorie. Il nemico avrebbe dovuto trovare solo il “deserto”. Speer disattese i suoi ordini fingendo di credere che il Reich, non ancora sconfitto, avrebbe ripreso in mano le sorti della guerra. I due però erano ormai ai ferri corti. Secondo quanto Speer ha affermato a Norimberga, pensò perfino di uccidere il Führer (ma non ci sono prove) immettendo gas nell’impianto di aerazione del bunker di Berlino. Era il 1945 e, con il nemico alle porte, l’ex architetto decise di pensare solo alla sopravvivenza. Mandò la moglie e i sei figli da un amico nello Schleswig-Holstein, lui li avrebbe poi raggiunti. Non prima di aver incontrato per l’ultima volta Hitler nel bunker, poco prima che si suicidasse. Nel maggio ’45 Speer fu arrestato dagli Alleati e processato un anno dopo. Condannato a 20 anni di carcere poiché aveva ammesso le sue responsabilità e perché, a suo dire, non sapeva ciò che avveniva nei lager. Scarcerato nel ’66 fu travolto dalle polemiche: la sua difesa a Norimberga e le sue Memorie per molti storici minimizzano il ruolo che ebbe t nei crimini nazisti. Federica Ceccherini
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PROTAGONISTI
Il 27 maggio 1942 con l’Operazione ANTROPOID un commando suicida liquidò a Praga REINHARD HEYDRICH, uno dei padri della “SOLUZIONE finale”
U
n prestante Sigfrido di un metro e novanta, tratti decisi e muscoli tonificati dallo sport: l’ideale “uomo-copertina” per il Terzo Reich, seppure con qualche difetto. Gli occhi, per esempio. E soprattutto il naso adunco, imbarazzante stereotipo razziale che sul volto arianissimo sembrava dar corpo alle voci su una sua presunta origine ebraica, cruccio di un’intera vita. Questo è ciò che le foto d’epoca ci dicono su Reinhard Heydrich, detto “la belva bionda”, uomo tra i più influenti della corte del Führer: capo della Gestapo e papabile successore di Hitler, teorico dell’Olocausto e aguzzino del popolo ceco. Proprio a Praga un’azione suicida della resistenza (sostenuta dagli inglesi) nel 1942 segnò la fine di quella carriera sanguinaria.
Al vertice. L’anno prima Hitler gli aveva conferito l’ultimo, fatale incarico: quello di vicegovernatore del Protettorato di Boemia e Moravia, territori che dal 1939 erano sotto il dominio nazista. Il governatore del protettorato era il barone von Neurath, vecchio e malato, che Heydrich ebbe buon gioco nel dipingere come un incapace senza nerbo. Il 28 settembre 1941 ne prese il posto, insediandosi come un signore feudale nell’antico castello della capitale ceca. Il giorno dopo proclamò la legge marziale e inaugurò la sua attività di “boia di Praga”. In poche settimane inviò al plotone d’esecuzione o nei lager centinaia di oppositori e dissidenti, intellettuali e politici cechi come il primo ministro Eliáš e i generali Bílý e Vojta, mentre sempre nuovi manifesti con i volti dei giustiziati tappezzavano le vie del centro.
UCCIDETE LA BELVA OCCUPANTI
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CAMERA PRESS/CONTRASTO
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Truppe tedesche marciano su Praga nel 1942: Boemia e Moravia erano sotto il dominio nazista dal 1939.
NEL MIRINO Il comandante di divisione delle Ss Reinhard Heydrich (1904-1942), dal 1941 governatore di Boemia e Moravia, represse la resistenza ceca e fu ucciso da un commando nella stessa Praga.
BIONDA
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COLPIRLO aveva una grande importanza strategica e simbolica: Heydrich era un alto GERARCA e un possibile successore di Hitler Quei messaggi erano parte della brutale politica del governatore: i cechi erano forza-lavoro per gli sforzi bellici tedeschi e le razioni di cibo dipendevano dal loro rendimento. Heydrich annunciò da subito iniziative di pulizia etnica. La misura fu presto colma e il governo del presidente ceco Edvard Beneš, in esilio a Londra, decise di tentare un colpo di mano per eliminare la “belva”. Missione segreta. Protagonista della missione – denominata Operazione Antropoid alludendo forse all’aspetto solo esteriormente umano della vittima designata – fu un gruppo di cechi appositamente addestrato in Scozia dal Soe, reparto speciale dell’esercito britannico. Jozef Gabčík e Jan Kubiš, uomini chiave dell’operazione, in poche settimane
furono trasformati in esperti parà sabotatori. Che sapessero di essere destinati a una missione quasi certamente suicida è suggerito tra l’altro dal testamento che scrissero il 28 dicembre. Quella stessa notte un aereo militare Halifax MkII li paracadutò sul territorio ceco. A Praga – come previsto dal piano alleato – i due si unirono al tenente ceco Adolf Opálka e, spostandosi in varie case di fiancheggiatori, attesero l’occasione propizia. Passarono cinque lunghi mesi in clandestinità. Prima si pensò di colpire Heydrich durante un trasferimento in treno. Poi si progettò di attaccarlo durante uno degli spostamenti in città, dove il gerarca si muoveva con una Mercedes 320C decappottabile, spesso senza scorta: un ber-
AL CASTELLO A sinistra, l’insediamento del governatore di Moravia e Boemia Heydrich nel Castello di Praga, nel settembre del 1941. Alla sua sinistra, Karl Frank, vice di Heydrich.
Disonorato, ma riciclato dalle Ss
I
l “macellaio di Hitler” – un altro dei soprannomi di Reinhard Heydrich – nacque in Sassonia (Germania Orientale) nel 1904. Figlio di musicisti e forse di origini ebree (da bimbo era detto “Moses”) era un provetto violinista, ottimo studente e atleta modello. Dopo un periodo passato nel gruppo paramilitare dei Freikorps entrò in marina, da
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dove però fu presto congedato con disonore a causa di uno scandalo sessuale. Ripescato. L’ex tenentino sembrava al capolinea quando, grazie alle giuste conoscenze, entrò nelle Ss e nel partito nazista. Fu allora che incontrò la sua buona (si fa per dire) stella: Heinrich Himmler. Il comandante delle Ss voleva creare una struttura di intelligence in-
terna al corpo scelto del partito nazista. Ambizioso, instancabile e totalmente amorale, la “belva bionda” iniziò così una sfolgorante carriera: in pochi anni divenne il leader indiscusso della Gestapo (la polizia segreta) e presto si trasformò in uno degli uomini più temuti del Reich. Provocatore. Fu Heydrich a dare il “la” alla Seconda guerra
mondiale. Lo fece inscenando, il 31 agosto 1939, un falso attacco polacco (in realtà condotto da Ss) alla stazione radio tedesca di Gleiwitz, che fornì il pretesto per l’invasione della Polonia. Ma soprattutto fu lui, con i vertici nazisti, a pianificare nella Conferenza di Wansee (20 gennaio 1942) i dettagli della “soluzione finale”, lo sterminio degli ebrei.
CONTRASTO
GRANDI ONORI Hitler rende omaggio alla salma di Heydrich nella camera ardente di Praga, il 9 giugno 1942. A destra, l’auto di Heydrich dopo l’attentato e (sotto) il mitra senza calcio usato da Gabčík e una bomba a mano del commando.
saglio ideale. Ma solo a maggio l’occasionee adatta si presentò. In quei giorni Heydrichh era nella sua residenza estiva di Panenskéé Brezany, a una quindicina di chilometri daa Praga. Gli informatori avvisarono il com-mando: il governatore era stato convocatoo da Hitler e sarebbe tornato in città la mat-tina del 27 maggio. L’ora x scattò alle 10:35 di quel giorno,, in via Holešovičkách. Gli attentatori ave-vano scelto quel punto perché lì una cur-va a gomito avrebbe costretto l’autista a ral-lentare. Questa la rapida sequenza: Gabčíkk si para davanti alla vettura, preme il grilletto del suo mitragliatore Sten ma l’arma si inceppa. Allora interviene Kubiš, lanciando una granata contro l’auto. Heydrich, colpito dalle schegge ma apparentemente illeso, esce dall’auto con la pistola in pugno. I due attentatori fuggono allora tra le vie cittadine convinti di aver fallito, ma pochi istanti dopo il nazista si accascia svenuto. Trasportato d’urgenza in ospedale, morirà il 4 giugno, a 38 anni: le infezioni causate dalle schegge dell’ordigno avranno la meglio sulla fibra del “boia”. Presi. Mentre a Berlino Hitler organizzava per Heydrich funerali degni di un divo, a Praga si scatenò una caccia all’uomo tragicamente breve. Grazie al traditore Karel Čurda, la notte del 18 giugno due
battaglioni di Ss circondarono la chiesa ortodossa di Cirillo e Metodio, dove il pope Vladimir Petřek aveva nascosto Gabčík, Kubiš, Opálka e altri 4 uomini della resistenza. La battaglia costò ai tedeschi 14 morti. I superstiti del commando, senza via di scampo nella cripta della chiesa inondata di acqua e lacrimogeni, preferirono suicidarsi, per proteggere gli amici. Fu inutile. Padre Petřek e altri che avevano dato loro asilo moriranno nel campo di sterminio di Mauthausen (Austria). E la rappresaglia nazista si scatenerà sugli abitanti del villaggio di Lidice: 173 uomini uccisi sul posto, donne e bambini deportati. Ma di quest’ennesimo massacro la “belva bionda”, oggi in una tomba senza nome del cit mitero di Berlino, non seppe nulla. Adriano Monti Buzzetti Colella 85
OLOCAUSTO
ERO UN
Abbiamo intervistato fu costretto dai nazisti
SONDERKOM
Maximilian Grabner, capo dell’Ufficio politico del campo di Auschwitz.
SCHEDATI Con le sigle PPole (prigioniero politico polacco), Jude (ebreo), o ASO (asociale), alcuni internati di Auschwitz (Polonia) tra il 1941 e il 1942. Le foto segnaletiche furono scattate da Wilhelm Brasse (v. riquadro a fine articolo) per il Servizio identificazioni del campo. Nei riquadri rossi, alcuni nazisti che usarono le immagini di Brasse.
Enrico Vanzini, che nel 1945, a DACHAU, a portare i CADAVERI nei forni crematori
MANDO L’INTERVISTATO Enrico Vanzini, oggi 93 anni, quando era un giovane militare. Deportato in Germania, divenne un Sonderkommando nel 1945.
S
onderkommando: in tedesco significa squadra speciale. E speciale era effettivamente il compito affidato a chi, tra i deportati nei campi di sterminio del Terzo Reich, ne faceva parte: disfarsi dei cadaveri dei prigionieri. Nei primi tempi a riempire i forni crematori erano le stesse Ss, ma con l’incremento delle morti, occuparsi tutti i giorni di cadaveri divenne sempre più disgustoso e pesante. Furono quindi create squadre speciali d’internati. Chi meglio di loro, nell’ottica nazista, poteva fare il lavoro sporco? Primo Levi scrisse che ad Auschwitz i Sonderkommando avevano il solo privilegio di mangiare a sufficienza, ma dopo qualche mese di quel terribile compito, nei forni ci finivano anche loro, perché non raccontassero quel che avevano visto. Nel libro L’ultimo Sonderkommando italiano (Rizzoli, 2013), Enrico Vanzini, varesino di 93 anni, rivive i suoi 15 giorni di tormento passati ai forni di Dachau nel 1945, poco prima dell’arrivo degli americani. Ne parla dopo sessant’anni di silenzio su quei sette mesi trascorsi nel lager. I tedeschi lo presero a 21 anni, quando era militare italiano ad Atene, deportandolo in una fabbrica in Germania, da dove fuggì. Poi una ragazza milanese, per denaro, lo consegnò alla Gestapo. 87
Ricordare il Male
I
l 27 gennaio 1945 le truppe dell’Armata rossa aprirono i cancelli del campo di concentramento di Auschwitz, in Polonia, scoprendone gli orrori. I nazisti se ne erano già andati, portando con sé i prigionieri più sani (molti dei quali morirono durante la marcia). I russi trovarono così soltanto pochi superstiti, e in condizioni disperate. È attraverso la loro testimonianza che oggi conosciamo i dettagli del genocidio. Mai più. Dal 2000 l’Onu ha scelto proprio il 27 gennaio, liberazione di Auschwitz, per ricordare la Shoah (lo sterminio sistematico di milioni di ebrei, oltre che di rom, comunisti, omosessuali e Testimoni di Geova, da parte dei nazisti) e per celebrare i quasi 25mila “giusti” che aiutarono gli ebrei a sfuggire alla morte. Obiettivo: evitare che eventi del genere possano verificarsi ancora.
UOMINI QUI, DONNE LÀ La selezione dei deportati appena giunti in treno nel campo di concentramento di Birkenau, in Polonia. È il 1944.
Carl Clauberg, medico delle Ss che usava gli internati come cavie.
Nonostante le tantissime testimonianze, c’è ancora chi DUBITA dell’esistenza delle CAMERE A GAS. Per questo è importante RICORDARE sempre no di sinistra. È così che ho capito che Erich Priebke, capitano delle Ss, erano ebrei: quello era il forno che dovescrisse nel suo testamento che le camevamo usare solo per loro». re a gas sono state un’invenzione della A negare l’esistenza delle camere a propaganda alleata e che a Dachau gli gas non è stato solo il nazista Priebke: americani ne costruirono una per metdopo l’uscita del libro lei ricevette una tere in cattiva luce i tedeschi... strana telefonata. «Ma per favore! Li ho «Un uomo, che si tirati fuori io quei povepresentò come ingeretti dalla camera a gas, gnere di Padova, mi una cosa terribile, che disse di essere stato a non si può neanche imDachau e che la camaginare. Io non sapemera a gas non esiste. vo neanche che esistesse Non insistetti troppo, quel posto, poco oltre lo ribattei soltanto che stanzone dove per tutta io in quel lager non la notte buttavamo nelle ci sono entrato da tufiamme i morti. Poi una rista, ma in sette memattina, assieme al fransi ci ho lasciato 56 chicese che lavorava con me li e la mia giovinezza. ai forni, la guardia mi ci Ho visto purtroppo ha portato. Ci fece inquello che le Ss facevadossare delle mascheriEnrico in Grecia, in posa con altri commilitoni ai piedi del Partenone. no, provando sulla mia ne, ma la testa lì dentro pelle fame e bastonate. mi girava lo stesso. Per Ho visto la gente morire di stenti e materra c’erano sessanta uomini, che erano lattie, ho visto i disperati farla finita getentrati lì credendo di trovarsi nella doctandosi sui reticolati elettrificati; ho vicia comune. Tutti abbracciati tra loro. Si sto come li ammazzavano con le puntuvede che sentendosi morire avevano cerre di benzina, con le pallottole o usandocato un ultimo gesto di umanità. È stata li come cavie da esperimento. E noi, che un’immagine straziante, per me un dolonon avevamo neanche la forza di stare in re tremendo. Ci hanno costretto a stacpiedi, dovevamo caricare quei cadaveri carli gli uni dagli altri e a trascinarli al for89
Josef Mengele: documentava anche lui con foto i suoi esperimenti medici.
Tanti sono MORTI subito dopo la LIBERAZIONE nella foga di addentare finalmente il cibo: il loro INTESTINO, sottile come carta velina, si SPACCAVA pelle e ossa e portarli fuori dal campo vicino alle caserme dove c’era l’edificio con i forni e la camera a gas». Come ricorda la fine di tutto questo? «Il 29 aprile 1945, dopo una giornata di combattimenti, gli americani sono entrati nel campo e hanno lasciato carta bianca ai prigionieri: chi si è vendicato di più con gli oppressori sono stati i russi, che erano più in salute rispetto agli altri. Ho visto un ufficiale Ss appeso al pennone della bandiera. Il primo liberatore che mi ha parlato è stato un ragazzo americano: io ero appoggiato alla baracca, non mi reggevo in piedi e camminavo sulle ginocchia. In italiano mi ha detto: “Finito, finito tutto, adesso andare a casa da mamma”. Mi ha baciato e mi ha lasciato uno zainetto pieno di cioccolata, caramelle, biscotti. Mi ha fatto capire che dovevo mangiare poco per volta: meno male, perché tanti sono morti nei primi giorni proprio per il troppo cibo. Dopo mesi di fame l’intestino era sottile come carta velina e si spaccava». Tra i tanti episodi che hanno segnato la sua esperienza nel lager, quale le si ripresenta più spesso? «Per anni ho avuto incubi. Mi capitava di dover staccare dai fili elettrificati persone che vi si erano lanciate per liberarsi dai patimenti: mi risuonava nelle orecchie lo scricchiolio dei nervi umani che brucia90
vano. Ma ho due ricordi più terribili degli altri. Un giorno stavo per buttare nel forno un morto portato dall’infermeria, dove ai malati facevano un’iniezione per farli collassare. Scivolando sono finito con l’orecchio sul petto di quel poveretto e ho sentito un lieve battito. Era ancora vivo! Vedendomi indugiare, la guardia mi ha puntato il mitra, ha gridato e mi ha fatto capire che se non mi sbrigavo avrebbe buttato dentro anche me. Un altro giorno, anziché mandarmi come sempre a riparare i binari colpiti dai bombardamenti, mi hanno destinato a una fattoria. Strada facendo sono stato affiancato da una vecchia contadina che camminava lungo un fosso: sembrava mia madre. A un tratto la donna mi ha mostrato un tozzo di pane: “Brot, gut, essen”. Mi invitava a prenderlo, diceva che era buono. Sapevo che se avessi accettato l’avrei messa in pericolo. Così ho rifiutato più volte, poi però l’ho preso e nascosto sotto il berrettino. È stato un attimo. Ho sentito una raffica di mitra e la donna è finita nel fosso. Mi sono sentito colpevole di quella morte assurda e non ho mai mangiato quel pane: l’ho tenuto come una reliquia. Una volta a casa l’ho dato a mia madre, le ho raccontato come l’avevo avuto e abbiamo pianto insieme. Poi lei l’ha portato in una chiesa e l’ha donato a Dio». t Roberto Brumat
L’autore degli scatti
A
vrebbe dovuto bruciarle tutte le oltre 50mila foto scattate nei campi di Auschwitz (alcune delle quali sono in queste pagine), invece le conservò, rischiando la vita, per documentare l’orrore. Internato. Lui è il fotografo polacco Wilhelm Brasse (sopra in un autoritratto del 1938, prima di essere catturato nel 1941 dai nazisti, che poi ne sfruttarono il talento). La sua storia è raccontata in un libro, Il fotografo di Auschwitz (Piemme ).
INCONSAPEVOLI Ebrei in attesa in un boschetto a Birkenau nel 1944: non lo sanno ancora, ma stanno per essere portati nella camera a gas.
A.JUBRAN/MUNDO ESTRANHO/ED. ABRIL/CONTENT XP.
OLOCAUSTO
SPORCIZIA, sovraffollamento e malnutrizione. Ecco come si VIVEVA nei ghetti EBRAICI ripristinati da Hitler
CONFINATI NEL
SENZA CULTURA Era vietata l’istituzione di scuole, a volte improvvisate in segreto in soffitte o scantinati. Anche gli artisti lavoravano di nascosto.
GHETTO O
ggi quando si nominano i ghetti si evocano i famigerati quartieri in cui i nazisti, durante la Seconda guerra mondiale, confinarono milioni di ebrei. L’ordine di relegarli in “zone speciali” delle città occupate arrivò nel 1939, poco dopo l’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche. L’idea di costringere i membri delle comunità ebraiche in quartieri chiusi era venuta in realtà già nel 1555 a papa Paolo IV, che voleva tenerli separati dai cristiani: solo in Italia ne sorsero a decine e per tre secoli la vita al loro interno fu segnata dalle più crudeli vessazioni. L’ultimo ghetto, a Roma, fu abolito nel 1870. Ma il termine “ghetto” ha origini ancora più antiche e non era sinonimo di segregazione: si chiamava così, nel
XIV secolo, il ricco quartiere di Venezia in cui si erano stabiliti gli ebrei, intorno alle fonderie della città (in veneziano gheto, “getto”). FINE CERTA. Tra il 1939 e il 1945 la furia antisemita della Germania nazista determinò l’istituzione di circa 400 ghetti, per lo più nei Paesi occupati dell’Europa dell’Est. Inizialmente vi si usciva per ragioni di lavoro (e scortati), ma le restrizioni aumentarono finché furono vietate anche le comunicazioni con l’esterno (servizi postali e telefonici inclusi). Nel ghetto talvolta fioriva un’economia sotterranea basata sul contrabbando di alimenti e merci. Non esistono dati ufficiali, ma la maggior parte degli ebrei dei ghetti (tra i 3,5 e i 4,5 milioni) morirono poi t nei campi di sterminio.
STELLA FAMIGERATA Nel 1939 i nazisti costrinsero gli ebrei del ghetto di Varsavia a portare una stella di David gialla come segno distintivo. Il “marchio” si diffuse poi negli altri ghetti europei.
Anita Rubini
VIAGGI MORTALI MODELLO IN GRANDE La ricostruzione di un ghetto ispirata a quello di Varsavia (Polonia) istituito nel 1939. Era il più grande d’Europa.
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All’entrata del ghetto di Varsavia c’era un punto di raccolta. Vi convergevano i nuovi arrivati o si radunavano coloro destinati ai campi di concentramento.
SCARSA IGIENE Altissima la mortalità dovuta al diffondersi di malattie come la dissenteria, il tifo e la tubercolosi. Gli alloggi erano infestati da topi, pulci, cimici, mosche e zanzare.
SPAZI RIDOTTI Intere famiglie erano ammassate in un’unica stanza che fungeva da cucina, bagno e camera da letto. Si dormiva su letti a castello a più piani e lo spazio a disposizione per persona era di 2 metri quadrati.
TUTTI ALLA FAME
PICCOLE LIBERTÀ
Fame e malnutrizione erano costanti: i nazisti fornivano meno del 10 per cento del cibo necessario per sfamare gli abitanti del ghetto.
La pulizia dei servizi igienici e la distribuzione del cibo era affidata dal Judenrat, il Consiglio ebraico a cui i nazisti delegavano la gestione del ghetto. Senza però alcuna autonomia.
MEMORIE SCOTTANTI I fatti quotidiani si registravano in documenti segreti, diventati la prova delle atrocità naziste.
LEGGI RAZZIALI BRIDGEMAN/ALINARI
FRATELLI
D’ITALIA FARABOLA
La discriminazione degli EBREI fu solo COLPA del fascismo? Oppure in Italia il germe dell’ANTISEMITISMO trovò un terreno fecondo?
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n colpo non meno vigoroso è stato inflitto agli ebrei dal Consiglio dei ministri nella tornata del 2 settembre”. Parole di Goebbels? No, di Civiltà Cattolica, rivista dei gesuiti, da sempre interprete del pensiero della Chiesa sulle questioni politiche e sociali. L’occasione: il varo delle leggi razziali nel 1938. “Vediamo attuarsi quella terribile sentenza che il popolo deicida ha chiesto su di sé e per la quale va ramingo per il mondo”. Un inquisitore medioevale? No, padre Agostino Gemelli, fondatore dell’Università cattolica del Sacro Cuore, in appoggio a quelle leggi. Nel 1924, per la morte di un intellettuale ebreo, aveva scritto: “Ma se insieme con il positivismo, il socialismo, il libero pensiero e con il Momigliano morissero tutti i giudei che continuano l’opera dei giudei che hanno crocifisso nostro Signore, non è vero che al mondo si starebbe meglio?”. Poi, per giustificarsi, padre Gemelli rincarò la dose: era stata una “reazione alle brutture che ogni giorno si vedono: sono ebrei che ci hanno regalato il comunismo, la massoneria, il dominio delle banche e mille altre stre-
gonerie di questo genere”. Insomma, ce n’è quanto basta per chiedersi legittimamente se in Italia l’antisemitismo fosse già ben vivo prima delle leggi razziali approvate dal regime fascista. E come queste furono accolte dagli italiani. Causa di ogni male. Secondo gli storici l’antisemitismo di massa, diffuso da secoli nell’Europa Centro-Orientale o in Francia, in Italia non c’è mai stato. Non ci furono mai, come in Germania, in Austria, in Ungheria, movimenti politici o religiosi antisemiti. Rari nella storia i pogrom, i massacri di ebrei, abituali invece in Russia, Polonia, Ucraina. Due i motivi principali: lo scarso numero di ebrei presenti sul territorio italiano, mai più di 40-45 mila, e la riconosciuta parità di diritti con gli altri sudditi, sancita da Carlo Alberto di Savoia nel 1848. Gli ebrei aderirono con entusiasmo al Risorgimento, accettando poi senza riserve il nuovo Stato italiano, e in gran parte persero progressivamente i tratti esteriori della religiosità per un ebraismo più laico e personale. “Ebrei di complemento”, li definiva lo scrittore Primo Levi. Ci furono, agli inizi,
IN FUGA VERSO LA LIBERTÀ Sotto a sinistra, ebrei italiani in preghiera a bordo del transatlantico Conte di Savoia in viaggio verso gli Usa, nell’aprile del 1940.
ITALIANI BRAVA GENTE? Qui sotto, il cartello affisso subito dopo la promulgazione delle leggi razziali (1938) da un negozio nei pressi del ghetto ebraico di Roma.
LUCE/SCALA
U
“
Si calcola che nell’ ITALIA fascista, dopo il 1938, un EBREO su RASTRELLAMENTO
anche molti ebrei fascisti. Difficile quindi, per la propaganda religiosa o politica, eccitare fanatismi contro di loro. C’erano però gli antisemiti, i portatori dell’antigiudaismo teologico, l’antico odio del cristianesimo per gli ebrei accusati della morte del Cristo, responsabili di orrende pratiche sacrileghe, da rinchiudere nei ghetti. Sulla stampa cattolica o nelle prediche, già dalla fine dell’Ottocento si ripeteva fino alla nausea che gli ebrei erano causa della Rivoluzione francese, del Risorgimento, del capitalismo e del socialismo. Dopo il primo conflitto mondiale divennero colpa degli ebrei anche la guerra e la Rivoluzione russa. E all’antigiudaismo cattolico si affiancò quello politico dei nazionalisti e dei fascisti più accesi. Per loro, imbevuti di futurismo, culto della bellezza e della violenza, gli ebrei erano pacifisti, borghesi privi di spirito di avventura e di qualsiasi altro valore che non fosse il denaro. Fra i più attivi vi fu il giornalista Giovanni Preziosi, con la rivista Vita italiana, al quale si unì un
LEEMAGE
MUSEO DEL FUME TTO E DELLA
COMUNICAZIONE FRANCO FOSS
ATI
FOTOTECA GILARDI
Sotto a destra, un camion di ebrei rastrellati dalle Ss nel ghetto di Roma il 16 ottobre 1943. Oltre mille romani finirono così nei campi di sterminio di Auschwitz e Birkenau: fecero ritorno solo in 17, tra i quali una donna. In basso, fumetto antisemita pubblicato sul Balilla, settimanale della Gioventù italiana del littorio. A destra, due numeri del quindicinale La difesa della razza, uscito dal 1938 al 1943.
prelato, Umberto Benigni. Il loro cavallo di battaglia furono i Protocolli dei savi anziani di Sion, un falso confezionato all’inizio del XX secolo dalla polizia zarista per avallare la tesi di un piano ebraico di conquista del mondo. Il seme dell’odio. Antigiudaismo cattolico e antisemitismo nazionalista rimasero a lungo fenomeni marginali. Ma, come ha spiegato il massimo storico del fascismo, Renzo De Felice, “ciò non toglie che alcune gocce del veleno antisemita si spargessero in quasi tutti gli ambienti”. L’Italia non divenne antisemita, ma gli italiani “fecero in un certo senso l’orecchio e si abituarono inconsciamente a certi argomenti” convincendosi che, in fondo, qualcosa di vero dovesse pur esservi. Gli effetti si videro con le leggi per la difesa della razza promulgate a partire dal settembre 1938. Per la Chiesa avevano “alcuni lati buoni”. “Discriminare e non perseguitare” fu la posizione più o meno ufficiale. Ma “la discriminazione era persecuzione, la più barbara e la più ingiusta che da secoli la
terra italiana avesse conosciuta”, ha scritto De Felice. Anche se talvolta le amministrazioni applicarono con scarso zelo le normative razziali, per la preoccupazione di bloccare interi settori commerciali tradizionalmente in mano agli ebrei, in pochi mesi migliaia di persone persero il lavoro. Emma Terracina raccontava che il marito, meccanico specializzato all’azienda tranviaria di Roma, nel giro di tre giorni «fu allontanato dal lavoro, come altri ebrei che lavoravano con lui, senza ricevere alcun compenso per il mancato preavviso e nessuna solidarietà da parte dei colleghi». Rovinati. Molti, vivendo solo di stipendio, finirono sul lastrico o dovettero subire odiosi ricatti. «Mio padre fu licenziato dalla compagnia di assicurazioni per la quale lavorava e iniziammo a peregrinare da Torino a Milano a Roma, alla ricerca di chi gli desse un lavoro qualsiasi, sempre clandestino e precario», ricorda Lia Levi, oggi scrittrice. I professionisti dovettero chiudere gli studi, professori e studenti ebrei furono espulsi dalle scuole.
Mussolini , i musulmani e la superiorità della razza araba
O
asi di Bugàra (Libia), 20 marzo 1937: 2.600 cavalieri arabi celebrano il duce che, a cavallo, riceve la “Spada dell’islam”. Erano gli anni in cui l’Italia cercava di scalzare il dominio anglofrancese in Africa del Nord: «Dietro allo slancio del duce verso il mondo arabo ci fu sempre la voglia di esercitare un ruolo di potenza mediterranea», dice Manfredi Martelli, autore del libro Il Fascio e la Mezzaluna (Settimo Sigillo). «Dagli Anni ’30 l’Italia intrattenne rapporti stretti con i movimenti nazionalisti arabi e indiani, fornendo loro armi e denaro e soste-
LA SPADA DELL’ISLAM
nendone la battaglia irredentista». Simpatia reciproca. Soprattutto in Egitto, nacquero organizzazioni arabe d’ispirazione fascista. Formazioni paramilitari dalle divise colorate (le Camicie azzurre, le Camicie verdi) che del fascismo ammiravano l’aspetto militaristico, la volontà di rivalsa sulle potenze occidentali, l’oscillare fra tradizione e progresso. Si arrivò fino all’affermazione di un’affinità dottrinale tra fascismo e islamismo. Superiorità araba. Certo il crescente antisemitismo italiano generò qualche confusione (gli arabi sono semiti come gli ebrei). Per rassicurare, la stampa par-
lò di “superiorità della razza araba” rispetto non solo agli ebrei ma anche agli altri popoli di colore. Intanto s’intensificarono le iniziative di penetrazione culturale e ideologica: la Fiera del Levante dal 1930, i convegni a Roma degli studenti asiatici nel 1933 e nel 1934, le trasmissioni in arabo di Radio Bari dal 1934. Dal punto di vista militare, nel 1942 si tentò di costituire una Legione Araba, ma fu un fallimento. In tutto questo la religione c’entrò poco. «L’integralismo religioso», dice Martelli, «arrivò dopo. Sorse dalle ceneri delle continue mortificazioni dell’aspirazione dei popoli arabi a una piena indipendenza». ALINARI (2)
mille morì SUICIDA
Il duce con la spada d’oro donatagli dai libici. In realtà fu forgiata in Italia.
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I loro DOCUMENTI avevano la dicitura “RAZZA EBRAICA”. ESCLUSI
LUCE/ALINARI
LEEMAGE
Sotto, manifesto sulle leggi del 1938, che escludevano gli ebrei dagli uffici pubblici. In basso, ebrei al lavoro sul greto del Tevere, a Roma. Nel 1942 fu decretato il lavoro coatto per uomini e donne ebrei: furono destinati ai lavori pesanti.
«Quando fui cacciato avevo appena iniziato la prima elementare e non riuscivo a capire quale colpa avessi commesso», testimonia Renato Astrologo. «Ricordo molto bene la rabbia e la vergogna provata». Persero la licenza perfino venditori ambulanti, tassisti e osti. Anche lo scrittore e giornalista Luciano Tas (è morto nel 2014) è sempre stato un testimone lucido di quei giorni: «Per continuare a lavorare, mio padre dovette cedere a un prestanome “ariano”, ma pagandolo, la sua licenza di tagliatore di diamanti. Mio zio, commerciante, dovvette trasformarsi in garzone di m merceria». Divieti tra il tragico e iil ridicolo. Tra le tante norm me vessatorie imposte dal reggime, anche il divieto di posssedere radio, di figurare negli eelenchi telefonici, di raccoglierre lana per materassi, di gestire sscuole da ballo, di accedere allle biblioteche pubbliche, di pillotare aerei, di allevare colom-
bi viaggiatori, di appartenere a club sportivi e di avere domestiche “ariane”, perché “la razza ‘superiore’ non poteva fare servizi a quella cosiddetta inferiore”, spiegava De Felice. Chi poté, emigrò; altri si fecero battezzare, nella vana speranza di sfuggire alle persecuzioni; nelle famiglie miste si crearono tragiche lacerazioni. Se la responsabilità maggiore fu del fascismo, ribadiva De Felice, è anche vero che “l’antisemitismo, dopo che superò il primo momento di resistenza degli italiani, fu da moltissimi di questi accolto come qualcosa di meno grave di quanto fosse sembrato in un primo momento”. I giornali si riempirono di attacchi e calunnie sempre più personali e dirette ad avvocati, medici, attori e perfino sportivi ebrei. Partì la caccia al cognome ebraico, quasi sempre in base a criteri malamente orecchiati. Si diffusero le denunce anonime e le estorsioni. Peggio ancora fece il mondo della cultura: per scrittori, docenti, giornalisti fu l’occasione per mettersi in mostra, fare carriera, denaro, per sfogare rancori, per prendere il posto tolto al collega ebreo. Solo con il crollo del fascismo e l’occupazione
Ma il passaporto no, per spingere gli ebrei a EMIGRARE Tutti i beni mobili e immobili appartenenti agli ebrei furono confiscati. Nelle città della Repubblica sociale le spoliazioni non si fermarono neppure davanti agli oggetti di uso domestico: il mobilio, gli attrezzi da cucina, la biancheria personale, persino i vasi da notte furono requisiti. Atteggiamento ambiguo. La Chiesa ufficialmente tacque, pur appoggiando l’opera dei religiosi a favore degli ebrei. Ma non rinunciò del tutto alle sue posizioni. Quando il governo Badoglio decise di abolire le leggi razziali, un incaricato del Vaticano, padre Pietro Tacchi-Venturi, comunicò al maresciallo d’Italia che la legislazione razziale “secondo i principi e le tradizioni della Chiesa cattolica, ha bensì disposizioni che vanno abrogate (quelle sui convertiti e i matrimoni misti) ma ne contiene pure altre meritevoli di conferma”. t
ISOLATI Sotto a sinistra, una circolare del Club alpino italiano che limitava l’iscrizione ai soli “ariani” e una lettera della Siae che bandiva gli autori ebrei.
Achille Prudenzi
LEEMAGE
tedesca si comprese la vera natura delle leggi razziali e il Paese mostrò il meglio, e purtroppo anche il peggio, di sé: da una parte i molti che, rischiando la deportazione o la fucilazione, salvarono la vita a migliaia di ebrei nascondendoli nei conventi, nelle chiese, nelle soffitte, nei fienili, fornendo loro documenti falsi. Dall’altra tutta una serie di collaboratori, volenti o nolenti, che i tedeschi trovarono tra gli italiani per la realizzazione dei loro piani di sterminio. È un fatto, secondo De Felice, che “polizia, carabinieri e militari, tranne casi sporadici, eseguirono passivamente gli ordini dei comandi tedeschi, compiendo arresti, rastrellamenti, traduzioni di ebrei”. Lia Levi e la sua famiglia furono avvertiti in tempo e sfuggirono alla razzia del 16 ottobre 1943 nel ghetto di Roma. Mussolini era caduto, destituito dal Gran consiglio del fascismo nella notte tra il 24 e il 25 luglio 1943, ma la tragedia per gli ebrei italiani cominciava proprio allora. La famiglia di Luciano Tas spese fino all’ultimo centesimo per procurarsi documenti falsi e corrompere le guardie confinarie fasciste nella fuga verso la Svizzera.
Segregati nei ghetti per volere del papa
CATALOGO MOSTRA “DALLE LEGGI ANTIEBRAICHE ALLA SHOAH”
L’
idea di confinare gli ebrei in quartieri chiusi, per separarli dai cristiani, venne a papa Paolo IV nel 1555. In Italia i ghetti furono decine, da Firenze a Ferrara, da Modena a Venezia (foto sopra), da Ancona a Mantova, da Trieste a Gorizia. Tartassati. Per tre secoli la vita nei ghetti fu segnata da ogni possibile vessazione: pagare le guardie interne, esercitare due soli mestieri (commerciare stracci e prestare denaro, quest’ultimo perché vietato ai cristiani), portare un segno distintivo, assistere alle prediche conversionistiche, mantenere la casa dei catecumeni (gli ebrei convertiti). Le restrizioni variavano a seconda degli umori
dei papi, delle circostanze politiche o economiche, dei rapporti tra Stati e Chiesa. In alcune città, come Milano, un ghetto non ci fu mai perché agli ebrei era vietato soggiornarvi. A Livorno, invece, i Medici concessero agli ebrei ogni libertà perché con i loro commerci arricchivano la città. Espulsi. Nel 1569 Pio V ordinò agli ebrei dello Stato della Chiesa, salvo quelli di Roma e Ancona, di lasciare le loro terre. Molti emigrarono negli Stati vicini, altri si rifugiarono nelle due città e nei loro nomi rimase il ricordo di quella espulsione: Di Cori, Di Nepi, Ravenna, Modena, Tagliacozzo. L’ultimo ghetto, a Roma, fu abolito nel 1870.
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LIBERAZIONE
ATTACCO ALLA
SICILIA
Il 10 luglio 1943 gli ALLEATI sbarcarono in Sicilia. Per il fascismo fu l’inizio della FINE. Con qualche lato OSCURO: violenze gratuite e accordi con la MAFIA...
“
Q
A sinistra, unità alleate (in questo caso inglesi) scendono a terra sulla costa sudorientale della Sicilia durante l’Operazione Husky, nome in codice dello sbarco che durò fino a metà agosto. Sotto, il fumo di una nave americana colpita da aerei tedeschi al largo di Gela, nel tentativo di contrastare lo sbarco il 10 luglio 1943.
to oscuro. Per fare un po’ di luce bisogna tornare a quando e a dove tutto ebbe inizio: ossia al gennaio del 1943, nella città marocchina di Casablanca. Nel “ventre molle”. Nel corso del 1942, terzo anno del secondo conflitto mondiale, le truppe degli Alleati avevano conquistato il grosso dell’Africa Settentrionale e iniziato a dibattere su quale fosse la strategia migliore per strappare all’Asse Roma-Berlino il controllo della “Fortezza Europa”. A tal fine fu organizzata un’apposita Conferenza a Casablanca, dove tra il 14 e il 24 gennaio 1943 si confrontarono il presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt, il premier britannico Winston Churchill e Charles de Gaulle, leader del movimento France libre (“Francia libera”). Alla fine prevalse l’idea inglese di attaccare l’Europa partendo dal suo “ventre molle”, ossia dall’Italia. E come porta d’ingresso fu scelta la Sicilia, strategicamente posta nel cuore del Mediterraneo, poco distante dal Nord Africa. Il comando delle operazioni fu assegnato al generale statunitense Dwight “Ike” Eisenhower, futuro presidente Usa, che scelse come comandanti l’inglese Bernard Law Montgomery (a capo dell’8a armata, supportata da una divisione canadese) e il risoluto Patton (7a armata). Il piano prevedeva che
ROGER VIOLLET/ALINARI
GETTY IMAGES
TUTTI A TERRA!
uando sbarcheremo di fronte al nemico, non esitate a colpirlo. [...] Non mostreremo pietà. [...] Il bastardo cesserà di vivere. Avremo la nomea di assassini... E gli assassini sono immortali”. È così che il generale americano George Smith Patton aizzò nel luglio del 1943 i suoi uomini, alla vigilia dello sbarco alleato in Sicilia. Dove, per la cronaca, i bastardi da colpire erano i soldati italiani. La guerra è guerra, si sa. Ma il discorsetto motivazionale redatto dal “generale d’acciaio” – questo il soprannome di Patton, che amava girare con un cinturone da cowboy da cui pendevano due luccicanti Colt calibro 45 – funzionò anche troppo. Tanto che alcuni soldati a stelle e strisce, inebriati da quelle parole di fuoco, estesero il concetto di nemico anche ai civili. Così l’Operazione Husky (il nome in codice dato allo sbarco alleato) liberò sì l’isola dal nazi-fascismo, ma al prezzo di una lunga serie di crimini di guerra. Non solo. Come sappiamo oggi, lo sbarco fu reso possibile dall’aiuto di noti mafiosi, che non tardarono a diventare i nuovi padroni dell’isola. Non stupisce quindi che dietro alle immagini di festa, con lanci di cioccolata e sigarette da parte dei soldati americani, il nostro D-Day nasconda un inquietante la-
101
Messina
IL D-DAY ITALIANO
Reggio Calabria
Palermo (22 luglio)
L’Operazione Husky durò dal 10 luglio al 17 agosto 1943, quando i nazisti lasciarono l’isola superando lo Stretto di Messina. I morti tra i soldati italiani e tedeschi furono oltre 8mila, tra gli Alleati oltre 5mila. Gli italiani fatti prigionieri dagli angloamericani furono circa 140mila.
17 agosto
SICILIA Trapani (23 luglio) Marsala (23 luglio)
Gruppo Enna
Divisione Aosta
Enna (20 luglio) Caltanissetta (18 luglio)
Augusta (13 luglio) Siracusa (11 luglio)
Gruppo Fullriede Div. Göring
Divisione Assietta
Div. Livorno Agrigento Licata (17 luglio)
Gela Vittoria
Div. Napoli Brigate aviotrasportate
Ragusa
(10 lu
glio)
7 ARMATA (Patton) a
Pantelleria (11 giugno)
Catania (5 agosto)
Gruppo Schmaiz
Capo Passero lio) lug 0 (1
FORZE DELL’ASSE 230.000 uomini
Italiani
Tedeschi 60.000 uomini
Alleati 160.000 uomini 4.000 aerei 1.375 navi da guerra 1.124 navi da trasporto 3.000 mezzi corazzati
Statunitensi Inglesi
M. PATERNOSTRO
TU
NI
SI
A
8a Armata (Montgomery)
Canadesi
Il primo TERRITORIO italiano a essere LIBERATO fu Pantelleria, l’operazione venisse condotta dai britannici a est (nella zona tra Capo Passero, Siracusa e Augusta) e dagli americani a ovest (tra Licata, Gela e Vittoria, v. cartina qui sopra). La manovra, il cui inizio fu fissato per le prime ore del 10 luglio, sarebbe stata preceduta da bombardamenti strategici e da un lancio di paracadutisti. Il tutto con la più ampia flotta militare mai messa in mare alle spalle. Arriva Cosa Nostra. Prima di procedere era però necessario preparare il terreno, ed è a questo punto che entrò in gioco Cosa Nostra. Il disegno al-
leato prevedeva una missione segreta che con settimane di anticipo creasse l’humus adatto per l’arrivo dei liberatori, e a tale scopo furono intavolate trattative con boss della criminalità organizzata americana (di origine siciliana, ma non solo) del calibro di Francesco Castiglia, alias Frank Costello, e Salvatore Lucania, alias Lucky Luciano. Vent’anni prima di quei giorni di luglio la mafia siciliana era stata colpita sul piano militare con le misure eccezionali attuate dal “prefetto di ferro” Cesare Mori. Molti criminali avevano preferito far
Britannici in azione (agosto 1943).
ROGER VIOLLET/ALINARI
Lo scenario bellico e l’avanzata alleata Gennaio-febbraio 1943 Primi bombardamenti su Augusta, Catania, Trapani e Palermo. 8 maggio Bombardamento su Pantelleria. 9 maggio Nuovo bombardamento su Palermo. 11-13 giugno Gli angloamericani occupano le isole di Pantelleria, Lampedusa e Linosa.
18 giugno Bombardamento alleato di Messina. 9-10 luglio Preceduto dal lancio di truppe aviotrasportate, inizia nottetempo lo sbarco alleato, con le truppe che si dislocano lungo 160 chilometri nella costa meridionale della Sicilia. 10-12 luglio L’8a armata prende Siracusa.
MAGNUM/CONTRASTO
che si ARRESE l’11 giugno 1943 le valigie per gli Usa. «A ben vedere, però, l’intervento di Mori aveva colpito solo i ranghi più bassi della mafia e non le alte sfere», dice lo storico siciliano Giuseppe Casarrubea, autore di Storia segreta della Sicilia (Bompiani). «Di fatto l’intelaiatura mafiosa rimase viva anche durante l’epoca fascista». Intanto la mafia “emigrata” diede l’assalto alle grandi città americane. «Cosa Nostra negli Usa riuscì a modernizzarsi, senza che i suoi esponenti dimenticassero mai la terra d’origine, con cui mantennero intensi rapporti».
La risalita della 7a armata è rallentata dalla Divisione Livorno. 13-18 luglio Sono occupate Augusta, Agrigento, Caltanissetta. 22 luglio Gli Alleati prendono Palermo. 25 luglio Sfiducia e dimissioni di Mussolini. Al suo posto il re nomina Pietro Badoglio.
5 agosto Cade anche la città di Catania. 6 agosto Dopo 5 giorni di combattimenti gli Alleati occupano Troina, lungo la strada per Messina. 17 agosto Le truppe di Patton entrano a Messina, abbandonata dalle truppe tedesche. 3 settembre A Cassibile (Siracusa) il Regno d’Italia
firma in segreto l’armistizio con gli Alleati. 8 settembre Badoglio rende pubblico l’armistizio e gli Alleati sbarcano in Calabria. 9 settembre Gli Alleati lanciano l’Operazione Avalanche e sbarcano a Salerno. 1° ottobre Gli angloamericani entrano a Napoli.
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TRAVOLTI Tedeschi catturati dopo lo sbarco. La maggior parte delle forze naziste si ritirò attraverso lo Stretto di Messina. A destra, il generale Patton in Sicilia.
L’alleanza con la MAFIA in vista dello sbarco “minò” lo Stato ITALIANO? Forse, ma Cosa Nostra era già ben RADICATA Utili servigi. Un emigrante della prima ora era proprio Luciano (trasferitosi in America nel 1907) che all’epoca dello sbarco stava scontando una condanna pluridecennale e che venne avvicinato dalla Cia per ottenere “contatti utili” sul territorio siciliano, con la promessa di un aiuto per la gestione della regione una volta occupata l’isola. In cambio, nel 1946, il boss verrà scarcerato “per i grandi servigi resi”. Tra i “consulenti” chiamati in causa dagli Usa si contarono anche i fratelli Camardos e don Calogero Vizzini, che attivarono la loro rete di amicizie per promuovere azioni di boicottaggio contro i fascisti e operazioni di spionaggio. Secondo alcune fonti, don Calogero Vizzini, boss di fama internazionale, fornì una lista di persone amiche che contribuirono a organizzare sabotaggi e poi a far da guida sul territorio alle truppe alleate. «Dal punto di vista militare il contributo offerto 104
dalla mafia allo sbarco fu però marginale», chiarisce Casarrubea. «Il principale aiuto Cosa Nostra lo fornì in seguito, a sbarco ultimato, garantendo l’ordine dopo la partenza degli Alleati». Con o senza la “mano” mafiosa, i 160mila soldati messi in campo dagli angloamericani (numero più che raddoppiato nei giorni seguenti), supportati da circa 4mila aerei, decine di grandi navi e quasi 3mila mezzi da sbarco, non tardarono a impadronirsi dell’isola, trovando scarsa resistenza e completandone la conquista in poco più di un mese. Sarà infatti proprio in Sicilia, a Cassibile (frazione di Siracusa), che il 3 settembre verrà firmato segretamente l’armistizio tra Alleati e italiani. La conquista. Il tracollo siciliano portò con sé, il 25 luglio, la caduta di Mussolini, messo in minoranza dal Gran consiglio del fascismo, arrestato e sostituito da Pietro Badoglio. «Ma prima delle dimissioni del duce, in Sicilia si versò una gran quantità
VERSO PALERMO Gli americani accolti come liberatori a Monreale, alle porte di Palermo. La città si arrese il 22 luglio.
IL DOLORE DEI CIVILI Sopra, una foto scattata (come altre di queste pagine) dal reporter Robert Capa, che seguì le truppe Usa. A destra, una ragazzina ferita durante l’avanzata.
MAGNUM/CONTRASTO (3)
di sangue innocente», dice Fabrizio Carloni, giornalista e saggista. «All’inizio ci pensarono i bombardamenti a fare strage tra i civili, trasformando per molte settimane la vita dei siciliani in un inferno. A partire dal 10 luglio toccò invece agli uomini di Patton, che nel motivare i suoi aveva tra l’altro ordinato di sparare al nemico senza accettare proposte di resa». Gli “uccelli tonanti”. I primi a tradurre in pratica l’ordine furono gli uomini della 45a divisione di fanteria Usa (detta Thunderbird, v. riquadro) con il sostegno dei colleghi dell’82a divisione aviotrasportata. Quasi tutti i soldati della 45a erano al battesimo del fuoco, e si davano coraggio con alcol e anfetamine. Questo mix si rivelò micidiale. «Nelle primissime ore dello sbarco, a Gela, fu per esempio uccisa senza motivo una ragazza con i suoi due bambini, e nel pomeriggio fu messo al muro e fucilato a sangue freddo il podestà di Acate, Giuseppe Mangano. Accanto a lui c’era il figlio, che venne a sua volta trucidato con un colpo di baionetta alla gola», racconta Carloni. «Nel frattempo, ancora nei pressi di Gela, si era compiuta una carnefi-
cina contro una dozzina di carabinieri che si erano appena arresi». Quattro giorni dopo, all’aeroporto di Acate, furono invece spogliati, derubati e fucilati oltre 70 prigionieri – tra cui alcuni civili – per iniziativa del capitano John Compton e del sergente Horace West, entrambi della 45a. «Tra Gela, Acate e Vittoria si formò un “triangolo della morte” in cui le uccisioni furono di due tipi: “a caldo”, in fase di bonifica del territorio, e “a freddo”, condite spesso da un odio quasi razziale per gli italiani», dice Carloni. Tristemente esemplare è quanto avvenne il 13 luglio in contrada Piano Stella, dove cinque coltivatori, estranei alle vicende belliche, furono prelevati dalle loro case e assassinati senza un motivo apparente. «Entrarono e ci fecero segno di seguirli», ricorda Giuseppe Ciriacono, che allora aveva 13 anni e che fu l’unico
Una Sicilia indipendente?
N
el vuoto di potere della Sicilia post-sbarco si fece velocemente strada l’ideologia separatista del Cis, il Comitato per l’indipendenza della Sicilia nato nel 1942, il cui obiettivo era la secessione. Misteri. Leader dei separatisti era Andrea Finocchiaro Aprile, che coinvolse poi personaggi come il docente universitario
Antonio Canepa e il barone Lucio Tasca (nel 1943 eletto sindaco di Palermo). Dopo l’8 settembre il movimento indipendentista si radicò nel territorio con il placet dei servizi segreti Usa e nel 1944 dal Cis nacque il Mis (Movimento per l’indipendenza della Sicilia) a cui aderirono per un periodo noti mafiosi come don Calogero Vizzini. In risposta alla repressione
della polizia, che in autunno uccise 24 persone reprimendo una manifestazione autonomista a Palermo, il Mis iniziò la lotta armata creando l’Evis (Esercito volontario per l’indipendenza della Sicilia) e contattando il bandito Salvatore Giuliano. Nel 1946 la nascita della Repubblica tolse potere ai separatisti, abbandonati anche dagli Stati Uniti.
Don Calogero Vizzini, nel 1944 sindaco di Villalba e boss mafioso.
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superstite. «Poi un americano mi prese per il bavero e mi fece allontanare. Dopo pochi passi sentii le raffiche di mitra, seguite dalle urla di mio padre e degli altri». Un’ennesima strage si verificò infine a Canicattì, presso una fabbrica di sapone con annesso deposito di generi alimentari. «Qui il colonnello Herbert McCaffrey sparò su alcuni disperati che stavano razziando lo stabilimento, freddando sei adulti e una bambina». A denunciare le violenze statunitensi (assai meno numerose di quelle nazifascite, ovviamente) furono gli stessi americani. In particolare il cappellano William King, chiamato il 14 luglio ad Acate da alcuni soldati che gli confidarono di provare vergogna per quello che stava succedendo e che gli mostrarono anche i corpi delle vittime di Compton e West. Nonostante i tentativi di Patton di insabbiare tutto, le voci di queste stragi cominciarono a diffondersi.
Sotto processo. «Dalle indagini storiche, dalle inchieste giornalistiche, dai processi della corte marziale americana e da numerose testimonianze emergeranno chiaramente le responsabilità di Compton, West e McCaffrey», racconta Carloni. «L’unico a essere condannato però fu West: si beccò un ergastolo, ma fu poi graziato. Dalle inchieste emerse inoltre che alcuni soldati americani si erano lasciati andare a stupri e saccheggi». “Guerra pi tutti...”. A lungo relegate nell’oblio dall’euforia della liberazione dalla dittatura, ben presto iniziarono anche le operazioni per ripagare la mafia per i suoi servigi. Gli americani, in cerca di uomini da sostituire alle autorità fasciste, assegnarono cariche a personaggi “al di sotto di ogni sospetto”. Per esempio don Calogero Vizzini fu nominato sindaco di Villalba, e Vito Genovese, pregiudicato, fu promosso interprete ufficiale dell’Amministrazione alleata nella Sicilia occupata.
Lo sbarco in Sicilia fu anche una “PROVA GENERALE” di quello in NORMANDIA, il 6 giugno 1944
ULTIMO SFORZO Sotto, americani presso Troina, sulla via verso Messina, il 4 agosto 1943. Qui ci furono scontri fra i più cruenti.
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l loro stemma, almeno fino al 1938, fu una svastica. Che venne poi sostituita dall’uccello tonante (thunderbird), figura mitologica dei nativi americani. Quasi tutti i soldati della divisione provenivano da Arizona, Colorado e Oklahoma e avevano scarsa esperienza: questi i segni distintivi della 45a divisione di fanteria Usa, responsabile di violenze gratuite. Protagonisti. Già attiva in Nord Africa, dopo lo sbarco in Sicilia la Thunderbird partecipò alla liberazione di Roma (i suoi uomini furono i primi a entrare in Vaticano), della Francia e della Germania, brillando in operazioni di salvataggio dei prigionieri di guerra. Oltre alla gloria,
INCONTRI Un carro armato americano a tu per tu con un contadino siciliano, in un altro magistrale scatto di Robert Capa.
incassarono però molte accuse, in seguito provate da processi e tribunali militari. Vendette. Il 29 aprile 1945, per esempio, dopo aver liberato i detenuti del campo di concentramento di Dachau (Germania), quelli della 45a sterminarono le guardie tedesche, che si erano arrese. Frank Sheeran, testa calda della divisione, dirà in proposito che “quando un ufficiale ti diceva di prendere un paio di prigionieri tedeschi sapevi cosa dovevi fare” e il colonnello Felix Sparks parlò di una dozzina di prigionieri mitragliati. Altri testimoni alzeranno tale cifra, e nel 1986 l’ex colonnello Howard Buechner rivelerà che il massacro coinvolse 520 tedeschi.
CORTESIA MURSIA ED. DAL LIBRO ”GELA 1943 - LE VERITÀ NASCOSTE DELLO SBARCO AMERICANO IN SICILIA”
La divisione della vergogna
VIOLENZE Soldati della 45a divisione nelle vie di Gela. Qui avvennero violenze gratuite in seguito condannate dagli Usa.
«A beneficiare della generosità Usa fu anche Giuseppe Genco Russo, boss che dopo aver avuto un ruolo di primo piano nel coordinamento delle fasi post-sbarco fu messo a capo della cittadina di Mussomeli», aggiunge Casarrubea. «Poi fu la volta di Nicola “Nick” Gentile, a cui fu affidata la gestione del territorio di Agrigento, e di Vincenzo Di Carlo, nominato responsabile dell’Ufficio per la requisizione dei cereali. Gli Alleati fecero cioè un pericoloso passo verso la legittimazione della mafia, che dopo l’Operazione Husky intraprese la sua decisiva escalation». Secondo la maggior parte degli storici, il prezzo fu alto ma valeva la pena pagarlo pur di lasciarsi alle spalle il fascismo e uscire dall’incubo della guerra. Certo, il conto arrivò a una popolazione già sfiancata, vittima perfetta di un vecchio adagio locale: “La guerra, quannu veni, veni pi tutti...”. La guerra, quando arriva, arriva per tutti. Anche se a portarla non è chi l’ha scatenata e anche se chi la fa viene nelle vesti del liberatore. t Matteo Liberti 107
SCALA
ORE DECISIVE
Il 25 LUGLIO 1943, dopo 10 interminabili ore di seduta notturna, il GRAN CONSIGLIO del fascismo votò la SFIDUCIA a Mussolini. Ecco i fatti e i protagonisti
LA CADUTA N
el copione di due decenni di dittatura, un ultimo atto lungo “solo” dieci ore è poco più di uno schiocco di dita. Di fatto però l’Italia fascista andò in pezzi così, con quell’ultima riunione-fiume di gerarchi in sahariana nera che nell’afosa notte tra sabato 24 e domenica 25 luglio 1943 decisero di “staccare la spina” a Mussolini. Uomo chiave dell’operazione un conterraneo romagnolo del duce, Dino Grandi: presidente della Camera dei fasci e delle corporazioni (il “parlamento” fascista) e già ministro degli Esteri, della Giustizia e ambasciatore a Londra. Un uomo intelligente, soprannominato “fedele disubbidiente” per il suo dissidio interiore tra fedeltà al duce e crescente percezione dei limiti del regime. 108
La “grande pena”. I dubbi di Grandi e le sue decisioni presero forma in un contesto di emergenza: la guerra contro gli Alleati andava sempre peggio, in primavera era crollata l’ultima resistenza italiana in Africa e anche in Russia le truppe della Wehrmacht erano al collasso. Il 26 marzo, dopo l’incontro con un Mussolini disfatto, Grandi annotò nel suo diario: “Sento una grande pena per quest’uomo, ormai prigioniero del suo demone interiore”. Ai primi di giugno si confrontò con Vittorio Emanuele III e con lui mise a punto un piano: usare il Gran consiglio del fascismo – “comitato centrale” del Partito nazionale fascista – per scaricare Mussolini e sganciarsi dalla Germania. La situazione, però, precipitò: il 10 luglio gli angloamericani sbarcarono in Sicilia. Il 13 e il 16 luglio i ge-
FINE DI UN’ERA? A sinistra, un uomo distrugge a martellate uno stemma con il fascio littorio, il 26 luglio 1943. In alto, manifestazione a Milano per la caduta del fascismo (25 luglio 1943). A destra, la prima pagina del Corriere della Sera.
OLYCOM
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rarchi inviarono a Mussolini pressanti richieste di convocazione del Gran consiglio. Il duce dapprima rifiutò poi, a sorpresa, il 21 luglio acconsentì. Pretesto della riunione: l’esame dell’andamento del conflitto. Come mai il duce cambiò idea? In trappola. Per lo storico Giuseppe Parlato, che ha curato la prefazione alla più recente edizione del memoriale di Grandi, la spiegazione è semplice: «Non poteva fare altro, ormai un po’ tutti gli chiedevano di sganciarsi dalla Germania. Il 19 luglio, mentre era impegnato nell’inconcludente incontro di Feltre con Hitler (v. riquadro a destra) lo raggiunse la notizia del primo bombardamento alleato su Roma (v. articolo nelle pagine seguenti). In quella situazione credo che lo stesso Mussolini pensasse all’even-
tualità di lasciarsi forzare al disimpegno da Berlino». Grandi non perse tempo. Preparò in gran fretta un ordine del giorno volto a chiedere “l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali”, privando Mussolini dei poteri dittatoriali inaugurati con le “leggi fascistissime” del 1925. A quel punto diede inizio a febbrili contatti segreti con gli altri membri del Consiglio: le prime adesioni furono quelle di Giuseppe Bottai e del genero del duce, Galeazzo Ciano. Il 22, forse per lealtà, Grandi incontrò Mussolini per anticipargli i contenuti della sua mozione e gli chiese, a tu per tu, di passare la mano. Il duce ribatté con ciò che aveva appreso da Hitler a Feltre: un’arma segreta avrebbe capovolto le sorti del conflitto. “Ma”, concluse, “ne parleremo al Gran consiglio”.
ITALIA IN FESTA Sotto, le piazze (qui San Marco a Venezia) gremite di folla salutano il nuovo governo il 26 luglio 1943.
L’ordine del giorno GRANDI aveva lo scopo di passare al re Vittorio Emanuele il COMANDO delle forze armate
BPK/SCALA
Una lunga notte. L’ultima assise del vertice fascista (che non si riuniva dal ’39) iniziò alle ore 17 del 24 luglio nella Sala del pappagallo di Palazzo Venezia. Dopo l’appello, ci fu il discorso del duce: “Guerra o pace? Resistenza o capitolazione? Da questo Gran consiglio potrà uscire la parola che la nazione in questo momento attende”. Seguì una seduta interminabile in cui tutti, fedelissimi e critici, presero lungamente la parola. Gli ordini del giorno presentati erano tre: quello di Grandi, quello del “fascistissimo” Farinacci, che voterà contro Grandi pur sostenendo tesi simili, e quello del neosegretario del Partito fascista Carlo Scorza, che confermava l’appoggio a Mussolini, seppure chiedendo “metodi e mezzi nuovi”. A VENEZIA A destra, di fronte alla Basilica di San Marco protetta dai bombardamenti si issa la bandiera italiana.
SOTTO LA MADONNINA
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an Fermo di Belluno, nei pressi di Feltre, 19 luglio 1943. Nella rinascimentale Villa Gaggia le due appannate star del Patto d’Acciaio fra Italia e Germania fanno il punto. Per Mussolini è l’ultimo atto ufficiale da capo del governo: la fronda cova da tempo, e lo stesso capo di Stato maggiore, Vittorio Ambrosio, prima del summit lo scongiura di far inviare subito rinforzi tedeschi in Sicilia, altrimenti“dobbiamo sganciarci e pensare ai fatti nostri”. Cioè mollare il Führer. A pranzo
Hitler parla di nuove e potenti armi (i missili V2, appena testati) ma poi snocciola i molti errori italiani costati cari ai tedeschi. Morale: niente aiuti. Opportunità. La notizia del bombardamento di Roma e il precipitoso rientro del duce conclusero quel vertice senza storia. Ma che la Storia avrebbe potuto farla se gli ambienti militari italiani vicini al re – come si ipotizzò – avessero sfruttato l’occasione per catturare i due leader, facendo forse finire la guerra con due anni d’anticipo.
FOTOTECA STORICA CARUBELLI
Sotto, a Milano in piazza Duomo si festeggiò la deposizione di Mussolini sventolando bandiere tricolori.
La guerra poteva finire a Feltre?
SCALA (3)
Sopra, la lettera del 14 luglio con cui il ministro degli Esteri inglese Eden respinse l’idea di uccidere Mussolini. In alto, il duce e Hitler a Feltre.
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Nonostante l’uniforme estiva, il CALDO era ATROCE. Anche perché le finestre della sala erano OSCURATE a causa dei bombardamenti giurati” erano solo Grandi, Bottai, Ciano, Federzoni e De Stefani». Mussolini, racconta Grandi, avrebbe concluso la seduta con un teatrale “Signori, stasera avete provocato la crisi del regime” fermando con un gesto il saluto romano del fedele Scorza. “Ci separammo salutandoci appena”, ricorderà anni dopo un altro dei presenti, De Marsico. Eterogenei. Ma chi erano davvero i “venticinqueluglisti”? Fascisti non allineati, dissidenti o che altro? «C’era un po’ di tutto», risponde Parlato. «Nazionalisti come Federzoni, vecchi militari come De Bono, sindacalisti come Cianetti, Pareschi e Gottar-
PUNTO DI SVOLTA A destra, l’arresto del duce rievocato nel 1963 sulla Domenica del Corriere.
A GENOVA... A lato, il tram che va da Foce a Sampierdarena espose una scritta inneggiante al nuovo capo del governo.
HUMOUR A sinistra, una scritta ingiuriosa rivolta al duce su un portone di Milano. Dice: “Voleva essere Cesare, morì Vespasiano”. In basso, in corso Vittorio Emanuele un gruppo di romani posa sorridente per festeggiare la fine del regime fascista. SCALA (5)
L’atteggiamento del duce era passivo: ribatteva alle critiche senza convinzione. Probabilmente perché, ribadisce Parlato, «si trattava di una pantomima a beneficio di chi tra i presenti, come Farinacci, era pronto a riferire tutto all’ambasciata tedesca. Doveva insomma mostrare a Hitler di avere le mani legate, che era obbligato dai gerarchi a ricusare l’alleanza, oppure a passare la mano a qualcuno che lo facesse al posto suo. Ecco perché, paradossalmente, accolse quasi con fastidio l’ordine del giorno dell’ignaro Scorza, che era in suo sostegno, e fece votare per prima la mozione Grandi». L’ora della verità. Alle 2:40 del 25 luglio, la proposta che “pensionò” di fatto il duce passò con 19 firme contro 8. Molti però erano convinti di fargli cosa gradita. «Quante volte in passato», ricorda lo storico, «il duce aveva bypassato un voto appellandosi magari a un errore di battitura? Stavolta non lo aveva fatto, quindi era ciò che voleva: questo pensavano in molti, e questo Pareschi e Gottardi (che votarono l’ordine del giorno Grandi) ripeteranno in seguito al processo di Verona. Altri non vollero leggere tra le righe e votarono non credendo affatto di sancire la fine politica di Mussolini: pensavano solo di responsabilizzare il re restituendogli il comando delle forze armate. Il ministro delle Corporazioni Cianetti capirà tutto il giorno dopo e scriverà al duce ritrattando il voto, cosa che gli salverà la vita. I veri “con-
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di. C’era chi contava e chi non contava più, come il vecchio e sordo Marinelli, ex segretario amministrativo del partito fascista, che della seduta non capì quasi nulla». Molti erano spinti dal rancore per essere stati ridimensionati (Bottai e lo stesso Grandi). «In generale erano avversi al fascismo più muscolare». Re golpista. Il colpo di scena finale spettò a Vittorio Emanuele. Il pomeriggio del 25 luglio Mussolini si recò dal re a Villa Savoia per comunicargli l’esito della riunione. “Caro duce, l’Italia va in tocchi”, esordì il sovrano. Dopodiché gli comunicò bruscamente la sua sostituzione, a capo del governo, con il maresciallo Pietro Badoglio, e lo fece arrestare all’uscita del palazzo, tra le ire della regina Elena che considerava tradite le regole dell’ospitalità. Di quello che era ormai diventato un golpe della Corona e degli alti gradi dell’esercito (Badoglio in testa), più fedeli al re che al duce, i 19 della mozione Grandi furono più strumenti che protagonisti. L’era fascista era finita in una notte. t Adriano Monti Buzzetti Colella
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ASPETTANDO GLI AMERICANI
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Bombardata dagli ALLEATI, in mano ai nazisti dopo l’8 settembre, la capitale visse per prima i DRAMMI della guerra di liberazione
ROMA
CITTÀ APERTA “ E PRIMA VIOLATA POI OCCUPATA A sinistra, il bombardamento alleato su Roma del 19 luglio 1943 e un manifesto tedesco che invitava i soldati italiani di stanza a Roma alla resa, dopo l’8 settembre. A destra, blindati italiani messi fuori uso da un carro armato tedesco a Roma, il 10 settembre 1943.
mo’ questi ’ndo vanno?”. Naso all’insù, è questo quel che si domandarono molti romani quando, la mattina del 19 luglio 1943, videro luccicare in cielo uno stormo di bombardieri angloamericani, già convinti che, come altre volte, fossero diretti altrove. D’altronde, chi mai avrebbe osato colpire la Città eterna, la sede del Vaticano e del Colosseo? Stavolta, però, gli aeroplani non andavano ma “venivano”. Roma non era più intoccabile e un’inaspettata pioggia di bombe si abbatté sul quartiere di San Lorenzo, sul cimitero del Verano, sull’università e su molte altre aree civili, per una conta finale di oltre 2mila morti. Sei giorni dopo, il 25 luglio, moriva anche il fascismo, con le dimissioni di Mussolini e la nascita del governo di Pietro Badoglio. Iniziava una nuova era, che per la città dei sette colli assunse immediatamente i contorni di un incubo. Aperta, ma a chi? «Il 14 agosto Roma fu dichiarata da Badoglio “città aperta”», ha scritto Roberto Maffioletti (1927-2015), partigiano della Resistenza romana nel saggio-testimonianza La scelta. Roma 1943-1944 (GBEditoriA) . «Con tale termine giuridico si indicava che la città era concessa al nemico (a quel tempo gli angloamericani) senza opporre resistenza militare, al fine di tutelarne i cittadini e il patrimonio artistico». Dopo l’annuncio dell’armistizio tra Italia e Alleati (l’8 settembre), le truppe naziste invasero però la città, mentre il re Vittorio
Emanuele III si rifugiò a Brindisi e vi trasferì provvisoriamente il governo del Regno. Gli Alleati decisero allora di non riconoscere il nuovo status di Roma che, ormai piena di tedeschi, divenne un obiettivo strategico oltre che simbolico. La Penisola si ritrovò così divisa in due. Ma Roma significava anche Vaticano. Dove a sudare freddo c’era papa Pio XII, che il giorno dei bombardamenti alleati aveva consolato i romani davanti al Verano e ora osservava i soldati tedeschi posizionarsi sul limitare di Piazza San Pietro con i mitra puntati verso la parte “laica” dell’Urbe (il Führer aveva ordinato di non violare la zona vaticana). «Lo scenario di Roma si fece drammaticamente anomalo», ha spiegato Maffioletti. «La capitale era infatti stata aperta all’ex nemico angloamericano (con cui l’Italia era ora cobelligerante), ma era tenuta in scacco dai nazisti (fedeli alleati fino a pochi giorni prima) e ancora piena di militanti fascisti». Vendetta nazista. «Con gli Alleati ancora impantanati in Campania, i tedeschi ebbero la strada spianata per mettere al giogo la città, e dopo aver prescritto divieti come il ricorso al mercato nero e l’ascolto di radio nemiche, avviarono i rastrellamenti per ottenere forza lavoro», ha spiegato lo storico americano Robert Katz (1933-2010). Quanto alla sorte degli ebrei romani, fin dai primi giorni circolarono voci che suggerivano loro di nascondersi o fuggire, ma quasi nessuno lo fece. «Di fronte all’antisemitismo tedesco il papa aveva scelto una diplo115
La borgata del QUADRARO fu ribattezzata dai tedeschi “nido di vespe” per la presenza di molte basi PARTIGIANE matica politica del silenzio», ha spiegato Katz. «Così, il 16 ottobre il ghetto ebraico di Roma, uno dei più antichi del mondo, fu teatro di un rastrellamento ai danni di oltre mille sventurati». Chi riuscì a sfuggire alla retata fu tenuto nascosto da cittadini e preti di buon cuore, ma a complicare le cose ci si misero alcuni fanatici del duce che formarono bande irregolari e catturarono decine di antifascisti ed ebrei seviziandoli poi nei sotterranei di Palazzo Braschi (in Piazza Navona) dove aveva sede il Partito fascista repubblicano (fedele alla Repubblica di Salò fondata da Mussolini il 23 settembre). Sostenuto dalle Ss era invece il sadico Pietro Koch, ex granatiere messo a capo di un drappello di uomini (la “banda Koch”), artefice di nefandezze come l’assalto del 4 febbraio 1944 al convento della Basilica di San Paolo, dove furono arrestate 67 persone. «In risposta alle crudeltà nazifasciste il partigiano Comitato di liberazione nazionale nato subito dopo l’armistizio aveva intanto messo in piedi una rete di unità combattenti, coordinate da una giunta militare e pronte a compiere agguati e sabotaggi», spiegava Maffioletti. «Come le imprese dei Gruppi d’azione patriottica (Gap) che operavano nell’orbita del Partito comunista».
Resistenti. A partire dall’autunno si registrarono sempre attentati partigiani, condotti spesso con tipici chiodi a quattro punte, perfetti per forare i copertoni dei convogli nazisti, fabbricati in segreto da eroi popolari come il fabbro trasteverino Enrico Ferola. «In questo clima, il 22 gennaio 1944 giunse la notizia che gli Alleati erano sbarcati ad Anzio, a sud di Roma. L’eco dello sbarco spinse molti partigiani a uscire allo scoperto», ha spiegato Maffioletti. «E questo favorì il lavoro della Gestapo che divenne più veloce negli arresti». Molti si rifugiarono allora nelle periferie, infoltendo le file dei combattenti delle borgate: da Centocelle al Quadraro fino al Quarticciolo, dove divenne celebre Giuseppe Albano, artefice di rocamboleschi assalti ai forni del pane. In centro, in via Veneto, c’era invece il parrucchiere René, che aveva tra i suoi clienti gerarchi nazisti ai quali carpiva informazioni per conto dei partigiani. «In modo spontaneo, spesso in reazione all’arroganza tedesca, aveva preso corpo una rete di resistenza urbana che anticipò il movimento partigiano del Nord Italia», ha aggiunto. Agonia. Dei liberatori, dopo lo sbarco, in città non si vide traccia troppo a lungo. Un romano spiritoso scrisse su un muro di Trastevere: “Americani, tenete duro, che presto verremo a liberarvi”.
DEPORTAZIONI Le schede di alcuni ebrei romani deportati in Germania dopo l’8 settembre 1943: il flusso aumentò nel 1944, fino all’arrivo degli Alleati.
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L’ATTENTATO In alto, soldati delle truppe tedesche di occupazione uccisi dai partigiani in via Rasella (23 marzo 1944). Qui sopra, i rastrellati prima di essere condotti alle Fosse Ardeatine. A destra, il generale Clark (a sinistra), comandante della 5a armata Usa, a Roma nel giugno 1944.
Nell’attesa, il 23 marzo, un attentato “gappista” in via Rasella, vicino al Quirinale, costò la vita a 32 tedeschi. La Gestapo ordinò la rappresaglia: dovevano essere uccisi 10 italiani per ogni caduto (al conto aggiunsero anche un soldato morto altrove). L’elenco finale incluse ecclesiastici filopartigiani come don Pietro Pappagallo, la cui storia ispirò (insieme a quella del sacerdote Giuseppe Morosini) il personaggio interpretato da Aldo Fabrizi nel film di Roberto Rossellini Roma città aperta (1945). Il 24 marzo, presso alcune cave di pozzolana lungo la via Ardeatina (da cui il nome di Fosse Ardeatine), furono fucilate, sotto il comando dell’Ss Herbert Kappler, 335 persone. Cinque più del previsto. Mentre la notizia si diffondeva, i nazisti strinsero ancora di più il pugno della repressione. «In pochi giorni la “banda Koch” arrestò chiunque fosse accostabile alla Resistenza e si procedette a ridurre le razioni di pane, affamando la città», spiega Katz. Già messi in pentola i gatti romani (così
narra la leggenda), alcune donne assaltarono i forni del pane, causando una nuova reazione dei nazisti, che il 17 aprile rastrellarono il Quadraro deportando nei lager circa mille persone. Circolò anche voce che, in caso di arrivo degli americani, i tedeschi sarebbero stati pronti a far saltare in aria la città. Che fosse solo una voce fu certo quando, il 4 giugno 1944, gli Alleati arrivarono sul serio. Libera! Messi in fuga i nazisti, la mattina del giorno dopo le truppe Usa vennero osannate da migliaia di persone. «Le strade furono invase da donne e uomini che sgomitavano per raccogliere cioccolata e sigarette lanciate dai militari, mentre noi ragazzi sgranavamo gli occhi di fronte a novità come gli accendini “zippo”, il Ddt e le zuppe in scatola», ha ricordato Maffioletti. «La pace sembrava vicina e c’era una gran voglia di ricominciare a vivere». Non sarà così facile. Il resto della Penisola aveva davanti ancora quasi un anno di guerra di liberazione. t Matteo Liberti
De Sica, piccolo “Schindler”
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ll’inizio del 1944, in piena occupazione nazista, il regista Vittorio De Sica diede il via, a Roma, alle riprese del film La porta del cielo, pellicola la cui gestazione divenne presto una storia a sé, degna di una tragicommedia. Scritturati... Il film raccontava la vicenda di alcuni pellegrini
diretti al Santuario della Madonna di Loreto per chiedere una grazia. E alla fine un mezzo miracolo arrivò sul serio: il regista decise infatti, con il placet del Vaticano (in altre occasioni più ambiguo circa le sorti degli ebrei), di abbinare alle riprese un’operazione di “salvataggio” a favore di ebrei e partigiani braccati dalla
Gestapo. Come? Scritturandone un numero spropositato (e tecnicamente inutile) in qualità di “comparse”. ...e salvati. Certo che dentro l’abbazia i quasi trecento figuranti sarebbero stati al sicuro (anche se qualcuno verrà comunque arrestato nel corso delle riprese), De Sica si ritrovò dunque, per
molti mesi, alle prese con una folla eterogenea il cui unico compito era fingere di recitare. Il regista era peraltro a corto di denaro e così si arrangiò usando pellicola di recupero salvo poi, una volta finita anche quella, iniziare a simulare le riprese. Riuscendo a protrarre i “lavori” fino all’arrivo degli angloamericani.
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CRIMINI DI GUERRA
Sugli stupri in Ciociaria, il segreto di Stato francese sarà rimosso solo nel 2047. Ma già nel 1994 il colonnello Jean-Louis Mourrut, responsabile dell’Ufficio storico dell’Armée, ha anticipato le drammatiche cifre ufficiali contenute nei documenti. Le richieste ufficiali di risarcimento (di cui 12mila ben documentate).
Le vittime italiane risarcite dalla Francia.
Tasso di attendibilità delle denunce presentate, secondo la commissione d’inchiesta francese.
Le condanne a morte o all’ergastolo inflitte dalla Francia per stupri e omicidi in Ciociaria.
Nella primavera del 1944, durante l’avanzata degli Alleati, in CIOCIARIA le truppe coloniali francesi STUPRARONO migliaia di donne italiane
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VITTIME E CARNEFICI Sopra, alcuni goumiers, i soldati coloniali francesi. Sotto, donne italiane fotografate dagli Alleati durante l’avanzata del 1944.
spettavano i liberatori, la fine della guerra dopo quattro mesi di paura per quei cannoni minacciosi sul vicino fronte di Cassino. Aspettavano una speranza e invece arrivò il terrore. Sono passati 70 anni da quel maggio del 1944, quando la Ciociaria visse il dramma delle migliaia di donne violentate dai soldati delle truppe coloniali francesi. I militari del Cef (Corpo di spedizione francese), guidati dal generale Alphonse Juin, un algerino di 55 anni, tozzo e grasso, dai modi bruschi. A corto di uomini, prevedendo l’intensificarsi dei combattimenti in Normandia come in Italia, gli Alleati avevano chiesto rinforzi ai francesi. E sul fronte italiano furono spediti i nordafricani, che così descrisse lo scrittore marocchino Tahar Ben Jelloun: “Era gente abituata a vivere sulle montagne. Pastori, piccoli agricoltori, gente misera. I francesi li rastrellarono, li caricarono sui camion, con un’azione violenta di sopraffazione, e li portarono a migliaia di chilometri da casa a compiere altre violenze. Le loro azioni brutali vanno inquadrate in questo contesto”. Multietnici. Cassino era la madre di tutte le battaglie, in quei mesi. I combattimenti iniziarono nel gennaio del 1944 e si conclusero proprio a maggio. Vi furono impegnati, contro i tedeschi, militari di ben quindici nazioni diverse, ricordati nei cimiteri attorno a Cassino. E c’erano anche loro, i goumiers, storpiatura in francese del termine arabo qum (“squadrone, banda”). Venivano soprattutto dal Marocco, ma c’erano anche tunisini, senegalesi e algerini. E tra le 4 diverse etnie non correva sempre buon sangue. Vestivano in maniera particolare, con uniformi pittoresche, che incutevano paura: i djellaba, l’abito nazionale, una tunica di lana grezza a righe grigie dal colore variabile tra bianco, nero e marrone. I colori tradizionali delle montagne dei Chleuh. Poi, come copricapo, un cappuccio ampio, il koub, resistente alla pioggia perché confezionato con pelo di capra. Sul capo, un turbante. Da solo o sotto un elmetto. Ai piedi, dei sandali: i nails. Abituati alla vita dura di montagna nel freddo e nella mancanza di cibo, quelle truppe vennero utilizzate come carne da 119
SIERRA
Nell’immediato DOPOGUERRA alcune furono RISARCITE con 150mila lire, a patto che non avanzassero altre RICHIESTE
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Un goumier con la tipica divisa (djellaba) in lana grezza, a strisce. Come arma avevano un pugnale lungo, la micidiale koumia.
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macello per gli assalti più sanguinosi. E loro risposero come sapevano. I goumiers consideravano la guerra una dimostrazione di coraggio, sgozzavano spesso i nemici catturati, si gettavano contro le linee tedesche all’arma bianca, senza paura di morire. Preferivano un coltello largo, lungo e affilato, chiamato koumia. La guerra in casa. Molti goumiers morirono nei combattimenti. I sopravvissuti, una volta sfondata la linea nazifascista, proseguirono la loro marcia verso i Monti Aurunci e si scatenarono contro i civili italiani. Senza distinzioni. Li consideravano prede di guerra, nemici, aizzati anche dai discorsi dei loro comandanti francesi che covavano profondi risentimenti per gli italiani dopo la “pugnalata alle spalle” decisa da Mussolini nel 1940, quando era entrato in guerra al fianco della Germania. Nell’intera Ciociaria, dopo le bombe, la fuga e la fame, arrivarono gli stupri. Negli archivi comunali, nel Museo virtuale sulla Battaglia di Cassino, nelle testimonianze raccolte dalla ricercatrice Gabriella Gribaudi e da altri, sono riuniti i racconti fatti negli anni da quelle donne. In vita, ne restano poche. Sono i loro figli e nipoti a ricordarle ogni anno. La memoria collettiva in quei luoghi, così, ha capovolto il ricordo della guerra, tramandando il mito del “tedesco buono”. Ha scritto Daria Frezza, storica dell’Università di Siena: «L’idea era che i tedeschi avevano rispettato le donne, a differenza dei marocchini, definiti bestie. È una ferita non ancora rimarginata nella memoria collettiva». Carta bianca. In molte testimonianze si dice che per 50 ore il generale Juin concesse “carta bianca” ai suoi uomini, come ricompensa per l’eroismo dimostrato a Cassino. Erano state le truppe coloniali, al prezzo di 5.241 caduti (alcune fonti dicono 6.039), a sfondare per prime il fronte tedesco. In quelle 50 ore, i goumiers divennero, come riportano le testimonianze tramandate, “li diavuli”, i diavoli. A Lenola (Latina), gli stupri accertati furono 282: donne tra gli 11 e gli 80 anni. Le truppe coloniali non risparmiarono gli uomini: in 18 furono violentati. Raffaele Albani, un testimone, raccontò: “I tedeschi in partenza dissero che sarebbero arrivati i negri e di nascondere le donne. I miei parenti si meravigliarono, perché aspettavano gli americani”.
DALLE MONTAGNE NORDAFRICANE
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LA SCENA DEL DRAMMA
l’età di Assunta, violentata da 13 militari
Frosinone
42 uccisi (uomini e donne)
CASTRO DEI VOLSCI
Latina
CASSINO
SANT’ELIA FIUMERAPIDO
LENOLA Sabaudia
ESPERIA Terracina
Formia
900 stupri (stimati)
Testimonianze e ricostruzioni a posteriori hanno permesso di disegnare la mappa di quei tragici giorni.
282 stupri accertati (anche uomini)
SULLA LINEA DEL FUOCO L’incontro fra soldati americani e donne italiane nella primavera del 1944, durante l’avanzata. Alcuni reporter al seguito degli Alleati segnalarono i racconti delle “marocchinate”.
A Castro dei Volsci (Frosinone), il parroco don Quirino Angeloni scrisse un promemoria, elencando la successione degli orrori a partire dal 27 maggio del 1944: “Una maestra di 45 anni dovette sottostare per un’intera notte a un plotone di marocchini, alla presenza del marito che fu legato”. Sempre a Castro dei Volsci, i goumiers uccisero 42 persone tra uomini e donne. A Sant’Elia Fiumerapido la storia di Assunta, ragazzina di 13 anni stuprata e picchiata da 13 militari, viene ricordata ogni anno. Complicità. Gli ufficiali francesi, che avrebbero dovuto garantire la legalità e tenere a freno i soldati, chiusero gli occhi. Per timore, convenienza o complicità. Inutili furono le segnalazioni ai comandi. Del resto, le giovani più delle anziane provavano vergogna a parlare. Soltanto nella seduta notturna del 7 aprile 1952, la deputata comunista Maria Maddalena Rossi denunciò in parlamento il dramma di quelle donne. Azzardò una cifra: 60mila violentate e 17.368 richieste di risarcimento. E disse: “Perduta la possibilità di avere una famiglia, di avere dei figli; perfino il lavoro è precluso a queste giovani e la povertà nel loro caso è ancora più tragica, perché il benessere economico, il lavoro potrebbero almeno aiutarle in parte a uscire da questo terribile isolamento in cui le ha gettate la disgrazia”. Se tentavano di difendere le loro donne, gli uomini venivano uccisi. La notte più tragica fu vissuta a Esperia: 900 violentate. Tra loro, Laura Spiriti, di 14 anni, che contrasse la sifilide. Sul territorio del paese i soldati si scatenarono. Il parroco, don Alberto Terilli, cercò di fermare i goumiers. Fu legato e violentato. Morì due anni dopo, il 17 agosto 1946, per le conseguenze degli abusi. A Esperia fu distrutto anche il 90 per cento delle case. Raccontò Maria De Angelis, che allora aveva 17 anni: “Non sapevamo che questi marocchini pigliavano le femmine. Noi sentivamo alluccà (gridare, ndr), ma non sapevamo che cos’era”. Con il buio aumentava il terrore. A gruppi, i soldati bussavano alle porte. Se non veniva aperto, sparavano. Il sindaco di Esperia, Giovanni Moretti, scrisse l’11 ottobre del 1947: “Le truppe marocchine rimasero da occupanti in paese per dieci giorni. L’intera popolazione fu depredata e spogliata di tutto. Qualcuno cercò di trovare conforto e aiuto dagli ufficiali francesi che rispondevano evasivamente e a volte negativamente”. Il generale Juin aveva aizzato i suoi uomini, alla vigilia della battaglia decisiva. Li incoraggiò, li motivò, forse stuzzicò sentimenti e desideri. Ma il documento di cui parlano alcune testimoni, quella “carta bianca” concessa ai soldati, alibi per gli stupri, non si è mai trovato. Il testo, più volte riprodotto, direbbe: “Oltre quei monti degli Aurunci, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c’è una terra larga larga e ricca di donne, di vino, di case… Se voi riuscirete a passare oltre la linea senza lasciare vivo un 121
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Nel 2004 il presidente CIAMPI conferì una medaglia d’oro e dodici d’argento al VALOR CIVILE ai comuni colpiti dalle violenze
RASA AL SUOLO Sopra, Cassino dopo i bombardamenti alleati e la furiosa battaglia contro i tedeschi, che durò da metà febbraio al 19 maggio 1944. A sinistra, madre e figlia italiane in quegli stessi mesi.
nemico, il vostro generale vi promette, vi giura, vi proclama che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete, sarà a vostro piacimento e volontà per 50 ore”. Insabbiamento. Di fatto, nessun ufficiale riuscì a frenare la violenza dei soldati. Molte, ma i dati esatti mancano anche per la ritrosia delle donne a farsi visitare, si ammalarono di sifilide e blenorragia. In tante cercarono di dimenticare, senza un riconoscimento dell’abuso subìto. La ragion di Stato impedì di porre la questione nelle trattative di pace. L’Italia doveva conquistare consensi negli organismi internazionali, farsi perdonare il peccato originale della guerra. E si scelse il silenzio. Quando l’Osservatore romano provò a denunciare le violenze, fu zittito dagli Alleati. Ma papa Pio XII non volle ricevere a Roma il generale De Gaulle. Per protesta, si mormorò, contro quelle violenze. Nel 2004, celebrando i 60 anni dalla battaglia di Cassino, l’allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, assegnò una medaglia d’oro e dodici d’argento al valor civile ad altrettanti comuni della provincia di Frosinone. E parlò esplicitamente di quelle violenze nel suo discorso a Cassino: «Nessuno potrà mai perdonare le violenze inflitte alle donne, ai bimbi, agli anziani di Esperia e di tanti altri paesi». In realtà, la lunga battaglia legale delle donne, tra pudori da superare, ritrosie, diffidenze dei loro compaesani, fu perdente. Molte non parlarono, tennero nascoste malattie veneree e figli indesiderati. Nell’immediato dopoguerra ci furono raccolte di fondi per aiutarle. Poi fu stabilito che, come risarcimento una tantum, il governo italiano dovesse anticipare le somme, ricavandole dai 30 miliardi di lire di riparazione di guerra dovuti alla Francia. All’inizio, arrivarono 30mila domande. Fu poi previsto un indennizzo individuale di 150mila lire, ma le donne dovevano dichiarare al pretore che non avrebbero accampato pretese su eventuali pensioni successive, come vittime civili di guerra. Molte, per avere quei soldi – pochi, maledetti e subito – firmarono. Ma gli stupri non erano ancora riconosciuti come crimini di guerra. Lo fece l’Onu, e soltanto nel 2008. Per le donne ciociare, una beffa della Storia. t Gigi Di Fiore
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RETROSCENA
Lo SBARCO IN NORMANDIA è ricordato da tutti come un momento epico nella LOTTA per la liberazione dell’Europa. Morirono migliaia di soldati americani. Ma fu terribile anche per la POPOLAZIONE civile. Ecco gli errori, gli eccessi e le VIOLENZE compiuti dagli ALLEATI secondo la ricostruzione di uno storico inglese
BLINDATA Le spiagge della Normandia 12 giorni dopo lo sbarco: gli Alleati scaricano i rifornimenti dalle navi ormeggiate in rada o attraccate ai porti artificiali. Lo sbarramento di palloni protegge dalle incursioni aeree tedesche. A destra, un giornale annuncia lo sbarco del 6 giugno.
IL LATO OSCURO DEL
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IMPERIAL WAR MUSEUM
Dal 6 GIUGNO al 25 AGOSTO la Normandia si trovò sotto il TIRO incrociato dei tedeschi e degli Alleati
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emo l’effetto negativo che potrebbe avere sulla popolazione francese il bombardamento che si svolgerà nelle prime fasi dello sbarco… La mia paura è che i liberatori alleati possano lasciarsi alle spalle un senso di repulsione e una lunga scia di odio”. Con queste parole il primo ministro inglese Winston Churchill metteva in guardia il presidente americano Roosevelt pochi giorni prima del 6 giugno 1944, data fissata per lo sbarco in Normandia (D-Day). L’interlocutore liquidò la cosa senza darvi peso, ma i fatti avrebbero dimostrato che le paure di Churchill erano fondate. I rapporti tra la popolazione e le truppe alleate furono caratterizzati in più occasioni da tensioni e violenze, e anche sul piano militare l’operazione rischiò più volte di arenarsi. «Ancora si tende a sorvolare sugli aspetti negativi legati allo sbarco in Normandia», afferma il saggista inglese Antony Beevor, autore di D-Day. La battaglia che salvò l’Europa (Rizzoli), «eppure quell’impresa eroica nasconde un lato oscuro». D’altronde, se a un certo punto apparve su alcuni muri francesi la scritta Usa go home! (“Americani tornatevene a casa!”), qualcosa non dovette andare per il verso giusto. Arrivano i nostri. I primi a toccare il suolo francese furono i paracadutisti, lanciati durante la notte dopo una serie di bombardamenti prepara126
tori. I soldati avrebbero dovuto raggiungere alcuni punti chiave all’interno dello scacchiere normanno, diviso per l’occasione in cinque zone: da ovest a est vi erano le spiagge Utah, Omaha, Gold, Juno e Sword, con le prime due assegnate agli Usa e le restanti agli inglesi supportati dai canadesi. Ma dopo il lancio, per molti iniziò un vero viaggio verso l’orrore. Decine di paracadutisti furono uccisi in aria dal fuoco nemico e la maggior parte di chi toccò terra incolume si trovò il più delle volte nel luogo sbagliato (nel paese di Sainte-Mère-Eglise vi fu addirittura chi rimase impigliato sul campanile della chiesa). «Dei primi 600 lanci, solo 160 raggiunsero gli obiettivi prefissati, per via del forte vento e di manovre errate dei piloti», spiega Beevor, riconosciuto esperto della Seconda guerra mondiale. A qualcuno capitò poi di ritrovarsi impigliato tra le fronde degli alberi, dove venne torturato dai tedeschi a colpi di baionetta. «Ma appena la notizia si diffuse», prosegue lo storico, «cominciarono le vendette più atroci». Un esempio? Con un’iniziativa degna di Bastardi senza gloria (film di Quentin Tarantino in cui una squadra di soldati americani va a caccia di nazisti) ci fu chi iniziò a far collezione di orecchie mozzate ai nemici, mentre altri si divertirono a fare a pezzi i cadaveri tedeschi. La cosa inquietante è però che «di lì a poco tale violenza avrebbe caratterizzato anche il rapporto tra Alleati e popolazione
IN AZIONE 22 giugno 1944: un bombardiere Mitchell Mk II della Raf colpisce l’area industriale di Colombelles. Si vedono il fiume Orne e il canale di Caen: il 6 giugno le truppe aviotrasportate britanniche ne avevano preso i ponti per impedire ai carri tedeschi di raggiungere le spiagge dello sbarco.
GUERRA IN CITTÀ
ALAMY
KEYSTONE/CONTRASTO
Sotto, soldati americani sparano nelle strade di Cherbourg. Nel mese di giugno del ’44 le città costiere della Normandia furono liberate una alla volta. Nella foto grande: l’84a Field company dei Royal engineers, sbarcata a Sword beach, muove sotto il fuoco nemico, con un ferito assistito dai commilitoni infermieri.
francese», spiega ancora Beevor, che per questo libro ha scovato documenti e prove in archivi finora inaccessibili o trascurati. Lo sbarco vero e proprio cominciò all’alba, condotto dalla più grande armata marittima della Storia e con il supporto di una flotta aerea altrettanto vasta: “Ogni cosa in grado di volare fu spedita in aria”, dirà poi un ufficiale della Raf. Le nuvole basse limitarono però la visuale di molti aerei e così “il più grande bombardamento mai visto” – come lo definì il generale Dwight Eisenhower, capo supremo delle forze alleate – fu un mezzo fiasco. I bombardieri iniziarono, infatti, a mancare gran parte degli obiettivi fissati, colpendo al loro posto i tetti delle abitazioni. Spiagge di sangue. Il flop si ripercosse poi sull’umore delle truppe in mare, dove qualcuno commentò sarcastico: “L’unica cosa che stiamo ottenendo è svegliare i tedeschi”. «All’arrivo sulle spiagge i soldati erano già psicologicamente distrutti», prosegue Beevor, «e a peggiorare le cose ci pensò l’alta marea, che rese invisibili le mine e gli ostacoli difensivi». A Omaha (che si guadagnerà presto il soprannome di bloody Omaha, ovvero insanguinata) il benvenuto alle divisioni alleate venne dato dalle batterie di cannoni piazzate a ridosso della costa. I fortunati che riuscirono ad attraversare incolumi la spiaggia p gg si ritrovarono poi, nell’80% dei casi, con armi e munizioni inutilizzabili per via dell’acqua e della sabbia, nonostante le custodie stagne in dotazione e l’inge-
gnoso tentativo di usare i condom (sì, proprio i preservativi) a protezione delle canne dei fucili. Le varie truppe riuscirono infine a riunirsi e iniziarono la marcia verso le zone interne al grido di shot the bastards, “spara ai bastardi”. Sulle altre spiagge le cose andarono meglio, ma in ogni caso la giornata si sarebbe chiusa con quasi 10mila soldati alleati morti, di cui oltre 2mila nella sola Omaha (con altrettanti civili francesi uccisi dalle bombe). «Interi villaggi erano andati distrutti, come nel caso di Vierville-sur-Mer», aggiunge Beevor. Erano state gettate le premesse affinché i timori di Churchill si trasformassero in realtà. «La Normandia sarebbe presto divenuta l’agnello sacrificale della liberazione francese», scrive lo storico britannico. Un massacro inutile. Fu a Caen, nel capoluogo del dipartimento del Calvados, che si ebbe una delle più clamorose stragi di civili dell’intera guerra (una carneficina simile c’era stata in Italia con il bombardamento da parte alleata dell’abbazia di Montecassino). La conquista di Caen era stata ritardata da una contro-offensiva tedesca guidata dalla divisione Hitlerjugend, ma nel frattempo la Raf aveva iniziato a far piovere bombe sulla città. Molti dei 60mila abitanti si ritrovarono così sepolti tra le macerie e a migliaia cercarono rifugio sottoterra, tra i cunicoli della città medioevale. Qui sarebbero rimasti per un mese intero, senza cibo e con il boato delle bombe nelle orecchie. “Stanno sventrando la nostra città in maniera feroce e senza pietà”, disse un testimone a un giornalista. Per poi aggiungere: “Si tratta di un
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Il prolungato bombardamento di CAEN fu TERRIBILE: la città
massacro tanto inutile quanto criminale, anche perché qui di tedeschi ce ne sono sempre stati pochissimi”. Il 9 luglio gli Alleati ebbero infine la meglio e riuscirono a penetrare in quel che rimaneva della città, ormai un obitorio a cielo aperto, mentre migliaia di profughi vagavano disperati nelle aree vicine. «Eppure non tutti si resero conto di ciò che Caen aveva subìto», commenta Beevor. «Non certo quell’ufficiale canadese che, appena entrato in città, domandò candidamente a un ragazzo se sapesse indicargli il nome di un buon ristorante». Nel frattempo, fin dall’8 giugno il grosso delle truppe alleate era in marcia in direzione del porto di Cherbourg, a nord di Utah beach. Qui alcuni generali ordinarono di uccidere qualsiasi nazista incontrato lungo la strada senza risparmiare i civili sospettati di collaborazionismo. Fu in questo clima che iniziò a spargersi fra le truppe una voce inquietante: i tedeschi stavano utilizzando le francesi come cecchini. Guerra alle donne. «In effetti, vi furono alcuni casi di stretta collaborazione tra nazisti e donne francesi (spesso costrette)», spiega Beevor, «ma quella che colpì i soldati alleati fu una vera e propria paranoia, e numerose donne subirono aggressioni ingiustificate». Oltre a ciò, iniziava a diffondersi il saccheggio delle abitazioni private. A darne conferma è lo storico statunitense William Hitchcock, che nel suo The bitter road to freedom (“L’amara strada verso la libertà”) rivela come nell’estate del ’44 le ruberie a danno della popolazione francese proseguirono senza freni, tanto che le se128
gnalazioni furono più numerose che durante l’occupazione tedesca. Come spiega Beevor, «quel che si andava delineando era un preoccupante doppio volto dell’impresa di Normandia: eroica liberazione da una parte, umana violenza dall’altra». E senza dubbio violento era il trattamento riservato a uomini e donne accusati di collaborazionismo. Si andava dalle cosiddette “feste del taglio dei capelli” – con le vittime che venivano rasate a zero e poi derise o, nel peggiore dei casi, prese a calci e pugni – alla fucilazione. In questi casi gli Alleati agivano spesso insieme a membri della Resistenza francese. Ma la maggior parte dei civili morì durante gli scontri a fuoco tra le truppe naziste e gli eserciti alleati, trovandosi spesso in mezzo a una grandinata di colpi. «In questa situazione molte mamme scrivevano sopra ai vestiti dei figli gli indirizzi dei parenti. In caso fossero morte, chi li avesse trovati avrebbe saputo dove portarli», racconta Beevor. Il doppio volto del D-Day continuò intanto a esprimersi, oltre che attraverso le violenze, anche con diversi errori militari. Fu tragicomico quanto accadde ad alcune truppe canadesi. Queste avevano segnalatori di fumo giallo da usare nel caso di bombardamento, visibili agli aerei alleati che così avrebbero evitato di colpirli. Per una svista alcune divisioni americane adoperarono segnalatori simili per evidenziare invece le aree da bombardare! Tra quelli scampati al fuoco amico si diffuse così l’abitudine di urlare, al primo rumore di aereo: “Al riparo, potrebbero essere i nostri!”. Humor nero a parte, nel campionario di atrocità fecero la loro comparsa an-
EFFETTI COLLATERALI Sopra a sinistra, gli americani rispondono al fuoco dei tedeschi in ritirata nei pressi del villaggio di SaintSauveur-le-Vicomte (luglio 1944). In alto, in un villaggio della Bassa Normandia due patrioti francesi tagliano i capelli a una donna accusata di collaborazionismo.
bruciò per 11 GIORNI e venne rasa al suolo quasi completamente
CACCIA GROSSA Agosto 1944: il 16 del mese i carri Sherman liberano Flers, a sud-ovest di Caen. L’80% della cittadina era stato distrutto dai bombardamenti alleati.
che gli stupri. A macchiarsi di questi crimini fu solo una piccola percentuale di soldati alleati, ma le cifre fornite dal criminologo statunitense Robert Lilly (ricavate dagli archivi dell’esercito Usa) fanno comunque paura: le violenze sessuali furono oltre 3mila. Numeri tragicamente simili furono riscontrati nell’Italia del Sud, quando le truppe coloniali del Nord Africa francese si abbandonarono a stupri e saccheggi (vedi articolo pagine precedenti). Liberi a caro prezzo. Intanto, mentre il generale americano William Hoge dichiarava sconsolato che alcuni dei suoi uomini si stavano comportando “peggio dei tedeschi”, Charles De Gaulle, comandante delle forze della Francia Libera e futuro presidente della Repubblica, convinse i vertici militari alleati a far convergere la manovra in direzione di Parigi, la cui liberazione avrebbe avuto un importante valore simbolico. Il 25 agosto le truppe alleate sfilarono per le vie della capitale tra le grida festose dei suoi abitanti. Racconta però Beevor che «qualche americano scambiò Parigi per un par-
co giochi senza regole e tra i suoi monumenti organizzò feste a base di alcol e prostitute». Il quartiere di Pigalle, già luogo di distrazioni, venne ribattezzato Pig alley (“vicolo del maiale”). Molti parigini non gradirono il generale atteggiamento di superiorità e spocchia mostrato dagli americani. Beevor racconta che una ragazza rimase perplessa quando si sentì domandare: “Ma voi sapete cos’è il cinema?”. Conclude: «Questi episodi, insieme ai più gravi eccessi compiuti prima, avrebbero prodotto un peggioramento nelle relazioni franco-americane che si fa sentire ancora oggi. Ma se le cose non andarono proprio come previsto, dando vita a un vero martirio in Normandia, lo sbarco alleato fu comunque un successo fondamentale per le sorti europee. Impedì che a fare la parte del leone fosse la sola Armata Rossa sovietica (impegnata sul fronte orientale) con le conseguenze geopolitiche che ne sarebbero derivate». Con buona pace dei civili francesi morti per la causa. t Matteo Liberti
LA RICOSTRUZIONE DELLO SBARCO IN NORMANDIA
Operazione Overlord Oltre 2 milioni di soldati ALLEATI e mezzo milione di VEICOLI sbarcarono nel giro di poche settimane
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n questa ricostruzione è raffigurato l’apparato messo in piedi dagli Alleati per lo sbarco in Normandia (il cui nome in codice era Operazione Overlord). Preliminari. Dopo la mezzanotte del 5 giugno 1944 gli aerei della Raf decollarono alla volta della Francia per lanciare nell’entroterra i paracadutisti che avrebbero appoggiato le unità da sbarco; gli
“asparagi di Rommel”(pali alti e acuminati conficcati al suolo) e le zone fatte allagare per sventare l’attacco dall’alto non fermarono i lanci. Cominciarono ad atterrare anche gli alianti carichi di uomini e mezzi. Sulle spiagge iniziò intanto il bombardamento navale (1). Mini sommergibili X Boat (2), rimasti fino ad allora in immersione, emersero per se-
gnalare i punti per lo sbarco. Da 4.266 navi (di cui 700 da guerra) si staccarono i mezzi da sbarco Lci, Lcm e Lca (3). L’assalto. Alle 6:30 del mattino del 6 giugno le truppe alleate iniziarono a prendere terra. Molti mezzi saltarono in aria (4): nel fondale sabbioso erano piantati pali con affisse mine che rimanevano a pelo d’acqua,
invisibili; sulla battigia c’erano campi minati e cavalli di Frisia (5). I tedeschi facevano fuoco da bunker e casematte con mitragliatrici e mortai, ma i ricognitori della Raf segnalarono le loro posizioni alle navi, che li bombardarono (6). I carri anfibi Sherman DD (7) vennero messi in difficoltà dalle onde e poi dal terreno molle lasciato dalla
bassa marea: per farli avanzare vennero stesi dei teli (8). Carri Crocodile dotati di lanciafiamme scaricavano lingue di fuoco (9), mentre gli Sherman Crab con catene rotanti sminavano il terreno davanti ai fanti (10). Intanto, dalla Manica, stavano arrivando i Mulberry harbour, porti artificiali da ancorare alle spiagge.
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D. FLORENTZ
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PROTAGONISTI
LA FINE DI ADOLF Il capo del nazismo morì nel suo BUNKER a Berlino nel 1945 con un COLPO alla testa. Ma come andò VERAMENTE?
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il 29 aprile del 1945, è mezzanotte passata e diversi metri sottoterra si celebra quello che in un altro momento sarebbe stato il matrimonio del secolo. La sposa è Eva Braun e lo sposo è Adolf Hitler. Al contrario di quasi tutte le spose, Eva indossa vestito e scarpe nere, unico tocco di colore due rose sulla scollatura e un trucco pesante. Testimoni di nozze sono i fedelissimi del Führer, il suo segretario personale Martin Bormann e il ministro della Propaganda e numero due del nazismo, Joseph Goebbels. Alla cerimonia, officiata da un impiegato comunale di Berlino, fa da sottofondo “musicale” l’artiglieria russa che mette a ferro e fuoco la città. Cerimonia lugubre. Nel bunker costruito sotto il giardino della Cancelleria del Reich vivevano da qualche mese una trentina di persone. Quel giorno però c’è un silenzio imbarazzante, a parte gli schiamazzi dei soldati ubriachi ai piani superiori. Alcuni di loro scendono nella parte riservata al Führer e ai suoi collaboratori, per omaggiare la sposa e congratularsi con lo sposo. Solo Goebbels prova con qualche battuta a sciogliere la tensione. Ma tutti lo sanno: è una festa di morti, i russi sono sempre più vicini. Dopo la funzione Hitler si chiude nello studio con la sua segretaria, per formalizzare i due testamenti, quello privato riguarda il suo patrimonio, l’altro è un testamento politico: dopo di lui Goebbels sarà cancelliere del Reich e Bormann capo del partito. Ha intenzione di suicidarsi. Poi si ritira con la neomoglie nella sua stanza. Il giorno seguente non è migliore, anzi, arrivano notizie catastrofiche: Mussolini è mor132
to e Milano è insorta. I russi sono a pochi metri dal bunker. Non c’è più tempo. Molti erano già fuggiti dal bunker qualche giorno prima, e ora anche altri decidono di abbandonare il nascondiglio: meglio affrontare i nemici piuttosto che attendere la morte sottoterra, senza luce e con poca aria (i condizionatori malfunzionavano e l’energia elettrica andava e veniva). Così Hitler dà le ultime disposizioni: incarica Otto Günsche, suo assistente personale, di procurarsi 200 litri di benzina per bruciare il suo corpo e quello di Eva dopo il loro suicidio. Subito dopo raduna tutte le sue collaboratrici, segretarie, cuoche, infermiere e assistenti (che sono rimaste) e dà loro l’ultimo saluto. A questo punto è pronto: si chiude nel suo studio con Eva e dopo aver ingoiato del cianuro si spara alla testa. Tutto questo si presume dalle ricostruzioni dei testimoni, i pochi sopravvissuti, che riportarono di aver visto, dopo aver aperto la porta della stanza, i coniugi Hitler sul divano. Morti. Eva con la pistola ai piedi, senza tracce di colpi di pistola, Hitler con un colpo in testa, il vaso di fiori sul tavolo di fronte rovesciato e acqua sparsa sul pavimento. Successivamente i corpi vennero trascinati fuori, bruciati e seppelliti nel giardino della Cancelleria del Reich. Era il 30 aprile; il 2 maggio arrivarono al bunker i sovietici. Ritrovamento oscuro. Ma le cose andarono veramente così? Hitler si suicidò? Di quegli ultimi giorni nel bunker rimasero pochi testimoni: Goebbels si uccise (con la moglie e i figli), il generale Hans Krebs si tolse anch’egli la vita e Bormann morì in circostanze mai del tutto chiarite. E anche quel-
SULLE ALPI A destra, Adolf Hitler (1889-1945) nella sua casa di Berghof, in Baviera. A destra in alto, il Führer tiene un discorso alla radio dal più famoso tra i suoi rifugi, la Wolfschanze (“Tana del lupo”) in Polonia, poche ore prima dell’attentato fallito del 20 luglio 1944. Quello in cui Hitler morì fu solo l’ultimo dei 13 bunker che il dittatore si fece costruire. A destra sotto, un soldato americano nella stanza in cui Hitler si suicidò, nel 1945.
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li che sopravvissero non furono di grande aiuto, pare. “Ognuno dei pochi testimoni aveva visto Hitler in una maniera diversa”, ha scritto Henri Ludwigg nel suo libro L’assassinio di Hitler, che nel 1967 ricostruì i fatti. “Uno, la testa completamente spaccata; un altro, malgrado questo, la fronte con un riccio caratteristico; un terzo, la fronte spaccata fino al naso; e l’ultimo, un medico, soltanto un cranio attraversato da un proiettile. Chi parlerà più tardi della morte di Hitler, potrà scegliersi la versione che più gli aggraderà e che più corrisponderà a far valere la propria tesi come unica e vera”. I sovietici, poi, non fecero che confondere le acque. Grande mistero fu fatto sul ritrovamento del cadavere di Hitler. Stalin preferì, infatti, che sulla morte del capo nazista rimanessero dubbi, per alimentare la leggenda che potesse essere fuggito, pronto a riprendere il potere. 133
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MORTI NEL 1945
CHI C’ERA NEL BUNKER DI BERLINO?
BORMANN MARTIN (1900-1945). Segretario di Hitler, morì tra l’1 e il 2 maggio forse tentando di passare le linee nemiche.
BRAUN EVA (1912-1945). Amante del Führer e sua moglie per un solo giorno. Morì il 30 aprile, con Adolf Hitler.
GOEBBELS JOSEPH (1897-1945). Successore di Hitler per un giorno, si suicidò il 1° maggio in circostanze mai chiarite.
Lo racconta nelle sue memorie Elena Rzhevskaya, scrittrice russa al servizio, come interprete dal tedesco, del controspionaggio sovietico. La donna partecipò alle ricerche per il ritrovamento del cadavere di Hitler e alle successive indagini per identificarlo. Dopo qualche giorno dal ritrovamento, infatti, le fu consegnata una preziosa cassetta contenente la presunta mascella di Hitler perché fosse analizzata. Elena riuscì a mostrare il reperto a una delle assistenti del dentista di Hitler, Käthe Heusermann, che confermò che apparteneva al Führer grazie al confronto con alcune radiografie ritrovate nella Cancelleria. La notizia rimbalzò sui giornali occidentali. Ma Stalin, deciso a non confermare la morte del Führer e far circolare le voci sulla presunta fuga, avviò una finta indagine – amplificata dalla stampa sovietica – per ritrovare il capo del nazismo che, aiutato da Francisco Franco (dittatore fascista spagnolo) si diceva
GOEBBELS MAGDA (1901-1945). Moglie di Joseph, fu una grande sostenitrice del Führer. Si suicidò con il marito.
GOEBBELS HELGA (1932-1945). Figlia maggiore dei Goebbels fu uccisa dai genitori insieme ai suoi 5 fratelli.
KREBS HANS (1898-1945). Capo di Stato maggiore dell’esercito, si suicidò l’1 o il 2 maggio, dopo la resa.
I presunti RESTI di Hitler furono nascosti e poi BRUCIATI nella Germania Est nel 1970. Restano una MASCELLA e un CRANIO
SCALA
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Nel Führerbunker
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ato come rifugio antiaereo, il bunker, con due spazi interconnessi sotto il giardino della Cancelleria a Berlino, divenne dal 16 gennaio 1945 la residenza fissa di Hitler e dei suoi più stretti collaboratori.
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1 La stanza da letto di Hitler
(a sinistra) e la sala riunioni dove prendeva le decisioni militari. 2 Salottino con il divano per il relax; a fianco, l’ufficio del Führer. 3 La camera da letto di Eva e, a sinistra, il bagno a lei riservato. 4 L’ufficio di Bormann e la sala comunicazioni. 5 Lo studio di Goebbels. 6 La camera di Goebbels; a fianco, l’infermeria.
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SOPRAVVISSUTI UNA BUCA IN GIARDINO Un soldato russo, nel 1945, mostra ai corrispondenti di guerra il presunto luogo dove fu sepolto il corpo di Hitler.
GÜNSCHE OTTO (1917-2003). Ufficiale delle Ss, bruciò i cadaveri di Adolf ed Eva nel giardino della Cancelleria.
JUNGE TRAUDL (1920- 2002). Segretaria personale di Hitler, fu arrestata dai russi mentre tentava di fuggire dal bunker.
KEMPKA ERICH (1910-1975). Autista del Führer incaricato, con Günsche, di farne sparire i resti. Fu preso dagli americani.
LINGE HEINZ (1913-1980). Ufficiale Ss e cameriere personale di Hitler dal 1935 fino agli ultimi giorni nel bunker.
MISCH ROCHUS (1917-2013). Telefonista e guardia del corpo del Führer, fu uno degli ultimi a lasciare il bunker il 2 maggio all’alba.
occasione di una grande mostra dal titolo Agonia del Terzo Reich-Castigo. Per la prima volta furono esposti (della mandibola c’era però solo la fotografia) insieme ai rapporti dei servizi segreti, a brandelli di stoffa del sofà, sul quale presumibilmente morì Hitler, e ad altri cimeli del bunker. Ma a più di settant’anni di distanza il dibattito non è ancora chiuso. Nel 2009 alcuni ricercatori statunitensi dell’Università del Connecticut, Nick Bellantoni e Linda Strosbach, hanno affermato che in base ai loro studi quel cranio non apparteneva al Führer, ma a una donna di 40 anni (che non poteva essere nemmeno Eva, morta pare per avvelenamento). Fine ingloriosa. Allora forse Hitler non si sparò? Oppure, come afferma Ludwigg, sarebbe morto non per mano sua, ma per mano di qualcuno che prima lo avvelenò, poi gli sparò alla testa, in modo da far credere al mondo che si fosse suicidato da soldato, da eroe. In altre parole potrebbe essere stato “suicidato” da uno dei suoi. Ma da chi? I suoi successori, forse Bormann? O Goebbels, che secondo qualcuno voleva liberarsene, prendere il suo posto e firmare la pace con i russi? Non si sa. E quindi le ipotesi si sprecano. Quel che è certo è che, nonostante i tentativi fatti dai nazisti dopo la morte di Hitler, Mosca non accettò nessuna trattativa di pace: l’unica via percorribile dai vertici tedeschi era la resa incondizionata, e la sera del giorno successivo la morte di Hitler, Goebbels si uccise. Eppure anche sulla fine di Goebbels, secondo i testimoni, c’è confusione: si avvelenò? Sparò prima alla moglie e poi rivolse la pistola contro se stesso? Si fece uccidere da un attendente delle Ss? Sembra che sui suoi resti carbonizzati e quelli della moglie non sia stato possibile nessun tipo di indagine. Ma del resto a Stalin non importava. Era Hitler, la personificazione del male, a fare più paura di tutti; era l’unico che gli serviva tenere in vita, uno spauracchio utile a mantenere i russi (e il mondo) con il fiato sospeso. t
fosse scappato in Argentina. Ma i britannici, scettici sulle notizie che venivano da Mosca, nel 1945 incaricarono lo storico Hugh Trevor-Roper di indagare sulla vicenda, al fine di fugare ogni sospetto sulla sua effettiva morte. Trevor-Roper lavorò per un paio di anni, intervistando sopravvissuti e testimoni, e il risultato fu un libro dal titolo Gli ultimi giorni di Hitler (1947), un “classico” sul quale si fondano la maggior parte delle informazioni che abbiamo oggi sulla vicenda. Resti itineranti. Mentre le grandi potenze si davano battaglia sull’affaire Hitler, i resti furono portati dai servizi segreti sovietici al sicuro, a Magdeburgo, nella Germania occupata dai sovietici. Qui furono seppelliti in un luogo segreto. Solo nel 1970 l’allora presidente dell’Unione Sovietica, Leonid Brežnev, diede ordine di riesumarli (non si è mai saputo quanti e quali fossero), di bruciarli e spargerli in un affluente del fiume Elba. Si salvarono, non si sa come né perché, solo un cranio con un foro e una mandibola, attribuiti a Hitler. Quel che rimaneva del Führer fu riposto negli archivi segreti di Mosca e mostrato solo nel 2000, in
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FLEGEL ERNA (1911-2006). Infermiera, rimase nel bunker fino all’arrivo dei sovietici. Visse fino al 1977 nell’anonimato.
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DIETRO LE QUINTE
L’ULTIMO
TESTIMONE Il 30 aprile 1945, in un BUNKER di Berlino, Adolf Hitler si toglieva la vita. CON LUI, fino all’ultimo, era rimasta una delle sue GUARDIE del corpo: Rochus Misch. Ecco la sua VERSIONE
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l 30 aprile 1945 Hitler si suicidò con la sua compagna Eva Braun nel bunker ricavato sotto il giardino della Cancelleria del Reich (vedi articolo pagine precedenti). Con lui erano rimasti pochi gerarchi e qualche soldato, tra cui la guardia del corpo Rochus Misch, ex imbianchino che si arruolò nelle Ss nel 1937, entrò nella scorta del Führer e vi rimase fino alla fine. Il 2 maggio 1945 fu catturato dai sovietici. Scontata la lunga prigionia in un gulag, nel 1954 poté tornare a Berlino, dove aprì un negozio di articoli per la casa. La sua vicenda è stata raccontata in un libro pubblicato in Italia nel 2007 da Castelvecchi (L’ultimo). Poco prima che morisse (nel 2013) lo abbiamo intervistato. Quando incontrò Hitler per la prima volta? «Nel 1940. Il capo degli aiutanti di 136
GIOVANE SS Rochus Misch in divisa da Ss nel quartier generale di Hitler (1944). A destra, Il Reichstag (parlamento) di Berlino bombardato, nel maggio del 1945.
campo, Wilhelm Brückner, mi aveva preso da parte per chiedermi come mi andassero le cose. Brückner era un tipo paterno, io un giovane soldato ancora molto rigido. A un certo punto lui si alzò e io aprii la porta. Dietro c’era Hitler, il suo ufficio era a pochi passi. Brückner mi presentò e io tremavo dall’emozione. Hitler mi chiese da dove venissi ma lo indovinò subito da solo, probabilmente per via del mio accento: “Dalla Slesia, vero?”. “Signorsì, vengo dall’Alta Slesia, dalle parti di Oppeln”, risposi. Hitler si rivolse a Brückner: “Ho già degli slesiani tra i miei uomini? Comunque il giovanotto può subito fare qualcosa per me”. E mi affidò una lettera da portare a sua sorella a Vienna». Lei ha riferito più volte di avere avuto paura in quegli anni. Di che cosa? «Di sbagliare. Ai ricevimenti Hitler ci osservava per vedere come trattavamo gli
sia, nemmeno alla fine». Secondo lei era pazzo? «No, per nulla. La sua mente era sicuramente lucida. Anche quando si discuteva nel bunker – e quei discorsi in parte li ho sentiti – si esprimeva in modo normalissimo. Hitler sapeva bene cosa diceva. Anche se era fragile e un po’ malmesso: la mano gli tremava, all’inizio solo un poco, verso la fine sempre di più». Le era simpatico? «No, si aveva sempre la sensazione che fosse inavvicinabile. Non mi ha mai dato la mano; una volta gli porsi la mia mentre scendeva dall’auto, ma non la prese». Quando lei parla di Hitler lo definisce sempre “il capo”, “il Führer” o “Adolf Hitler”, mentre per Eva Braun usa semplicemente il nome “Eva”... «È vero, la chiamavamo per nome. Mi ricordo la prima volta che l’incontrai al
Berghof. Mi venne presentata come governante che avremmo dovuto chiamare “gentile signorina”, ma nessuno si attenne a questa disposizione. Per tutti era semplicemente Eva». Lei sostiene che Joseph Goebbels era il più simpatico tra i capi attorno a Hitler. Ma come, proprio il fautore della “guerra totale”? «Già, però era sempre di buon umore. Goebbels osava contraddire Hitler, gli diceva in faccia le sue opinioni. Perché Hitler di solito si fidava troppo degli altri, specialmente dei vecchi camerati». Oggi noi – lei compreso – sappiamo che queste persone che giudicava simpatiche erano in realtà dei criminali... «Allora non li vedevo così, facevano parte del sistema. I compiti che svolgevo al servizio di Hitler erano in realtà limitati, e molti argomenti erano tabù. Tre 137
ULLSTEIN BILD - VOLLER ERNST
AP/LA PRESSE
ospiti. Guardava come prendevamo in consegna i fiori portati dagli invitati. Che magari avrebbero potuto contenere una bomba. Chi faceva un errore scompariva nel nulla da un giorno all’altro». Che faceva Hitler durante il giorno? «Passava molto tempo nel suo ufficio. Ogni tanto, ma solo per poco, andava a fare due passi in giardino con Blondie, il suo cane pastore. Quando era in montagna, a Berchtesgaden, se ne stava un po’ sulla terrazza del Berghof e poi scompariva di nuovo. Disegnava molto, era pieno di carte e leggeva parecchio. C’era un gran giro di dispacci, il fattorino andava e veniva in continuazione». Hitler dimostrò mai compassione nei suoi confronti, visto che gli rimase accanto fino all’ultimo? «Non riesco a ricordare di averlo mai visto mostrare compassione per chicches-
cordo più se si trovava sul divano o nella poltrona accanto, ma la vedo ancora davanti a me con le ginocchia tirate su quasi fino al petto». Si dice che Hitler abbia ingerito il cianuro e si sia anche sparato. Avete sentito il colpo? «No, non posso affermare che si sia sparato. E non ho nemmeno visto del sangue sul suo cadavere». Uno dei capitoli più terrificanti di quegli ultimi giorni nel bunker di Berlino riguarda la famiglia Goebbels: i genitori uccisero i figli... «Sì. Quello fu davvero troppo per la mia mente. Mi ricordo ancora che i bambini di tanto in tanto venivano giù da noi. Un giorno Hanna Reitsch, la pilota che il 26 aprile 1945 era riuscita ad atterrare a Berlino sotto il fuoco dei russi, implorò la signora Goebbels: “Se lei vuole restare qui, è affar suo. Ma per favore, i bambini non possono rimanere, li porto via io con l’aereo”. La Reitsch quasi piangeva, ma la Goebbels era di ghiaccio. Una vera nazista che voleva morire insieme agli altri. Proprio come Eva, anche se non so se Eva volesse davvero morire». E lei? Voleva morire anche lei con gli altri? «No, io volevo andarmene e aggregarmi ai gruppi che sarebbero usciti dal bunker. Ma vi restai come fedele servitore». Finché Goebbels, il 2 maggio del 1945, non la lasciò andare... «All’improvviso venne e mi disse: “Siamo stati capaci di vivere, saremo anche capaci di morire. Non ho più bisogno di lei. Pianti tutto e se ne vada”. Mi sbrigai, distrussi tutto quanto poteva essere distrutto e mi precipitai dall’addetto agli impianti: “Senti, non dobbiamo più essere reperibili, Goebbels mi ha licenziato”». Le faccio una domanda personale: si sente ancora legato al suo “capo”? «Sì, non posso negarlo». t
È FINITA SZ/AGF
Soldati americani a Parigi leggono la notizia della morte di Hitler.
Durante la PRIGIONIA Misch fu torturato dai sovietici: si dice che STALIN non avesse creduto alla MORTE di Hitler
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Con questo non vorrà mica negare l’Olocausto? «No, assolutamente no. Ora sono informato bene sui fatti di allora. È acclarato che sia successa questa cosa atroce, non ci sono giustificazioni. I campi di concentramento sono esistiti davvero, non si può negare. Sono stati commessi dei crimini inauditi». Lei ha assistito alla fine del Terzo Reich nel bunker. Chiunque andasse da Hitler doveva passare davanti al suo ufficio. Ci racconti come si arrivò alla fine... «Ce la aspettavamo. Il 22 aprile stavo andando da mia moglie, nella casa berlinese dove viviamo ancora oggi, quando Hitler dichiarò al personale: “La guerra è persa, ma io resto a Berlino, nessuno di voi è obbligato a fare qualcosa, nessuno”. Poi le cose si risolsero a poco a poco». Lei si trovava a pochi metri quando venne aperta la porta della stanza di Hitler e lo vide morto. Che cosa provò? «Non l’ho disprezzato per il suicidio. L’aiutante personale del Führer mi aveva appena detto: “Poco fa il capo si è congedato. Non vuole più essere disturbato”. Per me era tutto chiaro. Quando venne aperta la porta, guardammo nella stanza. Hitler aveva la testa poggiata sul tavolo, quella di Eva era reclinata di lato. Non ri-
Sascha Priester
ROCHUS MISCH
CORTESIA P.M. HISTORY
quarti di quelli che accompagnavano Hitler portavano il distintivo d’oro del partito, erano grandi nazisti». Una diceria è quella secondo cui Hitler si sarebbe servito di sosia... «Per carità, no! Hitler non avrebbe mai accettato una cosa del genere. E lo so con certezza, perché noi lavoravamo a stretto contatto con i servizi segreti del Reich». Lei è mai stato con Hitler in un campo di concentramento? «No, mai. Se Hitler ne avesse visitato uno ci sarebbe stato uno di noi ad accompagnarlo. Nella cerchia più stretta lui non ha mai accennato ai campi di sterminio. Forse era un argomento segretissimo, oppure i suoi collaboratori non volevano che lo stesso Hitler ne venisse a conoscenza». Sta dicendo seriamente? «Certo. Quando per esempio Hitler venne a sapere che due gerarchi sequestravano chiese in Austria per scopi militari, li fece licenziare immediatamente». Sembra quasi che voglia sollevare Hitler dalla responsabilità per i crimini nazisti. Non crede di farla troppo facile? «All’epoca c’erano molti Hitler, mica uno solo. E non tutti agivano come voleva lui. Il secondo Hitler alle spalle del Führer era Himmler, e quello era onnipresente».
Nato nel 1917 in Alta Slesia (oggi Polonia) è vissuto e morto a Berlino (nel 2013). A 20 anni si arruolò nelle Ss e divenne guardia del corpo di Hitler.
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EPILOGO
Centinaia di criminali nazisti SFUGGIRONO ai processi di NORIMBERGA. I documenti desecretati in questi anni hanno permesso di CAPIRE come e con l’APPOGGIO di chi
LA GRANDE
ella primavera del 1945 in Europa gli dèi erano caduti da un pezzo. Chi aveva aspirato a prenderne il posto – Hitler e Mussolini in testa – si accingeva a fare la stessa fine. Berlino bruciava sotto i colpi dell’Armata Rossa e Milano “capitolava” di fronte agli Alleati e ai partigiani. E mentre la Germania faceva i conti con l’evidenza della sconfitta, il resto del mondo li faceva con la ferocia dell’Olocausto. Le immagini dei reportage di guerra erano inequivocabili: uomini come topi, segregati in campi di sterminio. Città coperte da tonnellate di bombe. Intere nazioni in ginocchio pagavano il prezzo di ideologie sanguinarie. È in quei mesi di inizio ’45 che molti gerarchi nazisti cercarono di mettersi in salvo, dandosi alla clandestinità nel fuggi fuggi generale. Esodo. Dall’Europa Centrale e dalla Croazia centinaia di migliaia di profughi scendevano come in un esodo biblico verso l’Italia e la Spagna, meta strategica per la fuga. Molti tedeschi con le mani sporche di sangue si unirono a loro: almeno 50 criminali di guerra e oltre 300 quadri militari del Reich riuscirono così a farla franca. I loro nomi sono noti: Ante Pavelic, il capo degli ustascia croati; Erich Priebke, boia delle Ardeatine; Josef Mengele, il sadico “dottor morte”; Adolf Eichmann, organizzatore della “soluzione finale”; Klaus Barbie, il boia di Lione; e molti altri (v. riquadro nelle pagine successive). Tutti si rifecero una vita, chi in Sud America, chi in Medio Oriente, chi in Australia e chi addirittura in Europa o negli Stati Uniti da collaboratore del140
la Cia, del Kgb o della Stasi. Come fu possibile? E il nostro Paese che ruolo giocò in questa partita? Gli archivi desecretati in questi anni hanno permesso di fare luce. Operazione verità. La risposta però non è univoca. Ed è bene, prima di addentrarsi nella complessa vicenda, sgombrare il campo da alcune delle più clamorose bufale che ancora circolano sul tema: nessun alto dirigente nazista nel ’45 scappò a bordo di improbabili sommergibili attraverso l’Atlantico. Men che meno Hitler. Sulle spiagge del Sud America non arrivarono mai casse stracolme d’oro sottratto agli ebrei, né furono costruiti nascondigli segreti sulle Ande. Anche il famoso Piano Odessa – presunta operazione pianificata per agevolare la fuoriuscita dei criminali in vista della rinascita di uno Stato neonazi-
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FUGA N GERMANIA ANNO ZERO Il busto di Hitler trovato vicino alle rovine della Cancelleria del Reich a Berlino (sopra) nel giugno del 1945, alcune settimane dopo il suicidio del dittatore tedesco.
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Il processo di NORIMBERGA iniziò il 18 ottobre 1945. Per gli STORICI, oltre 50 criminali nazisti e CENTINAIA di collaborazionisti MANCAVANO all’appello sta – va maneggiato con cura. Non ci fu infatti niente del genere. Piuttosto, stando alle ricostruzioni, si trattò di una rete di fuga resa possibile da connivenze di uomini dello Stato e della Chiesa. Molti di loro agirono spaventati dal cosiddetto “pericolo rosso”, il nuovo nemico comunista. Altri da affinità elettive nei confronti dei nazifascisti, maturate negli Anni ’30. Le stesse affinità che li rendevano propensi ad accogliere i tedeschi e a respingere gli ebrei. Campione di “ospitalità” fu l’argentino Juan Perón, che accettò fino a 5mila nazisti. In buona compagnia con altri capi di Stato sudamericani: quello del Brasile ne ospitò quasi 2mila. Il Cile poco più di 500, seguito da Uruguay e Paraguay. Ma c’era anche chi andava in Sudafrica, in Medio Oriente e in Australia. La rete. I servizi segreti americani chiamarono Rat line (“linea dei topi”) il sistema di vie di fuga europee percorse da nazisti e fascisti per mettersi in salvo. 142
La tecnica era questa: nelle settimane del crollo del Reich chi riusciva si metteva in clandestinità. Poi, con il tempo, prendeva contatti con uomini conniventi, grazie ai quali raggiungeva basi sicure, spesso con l’appoggio di monasteri, dall’Austria all’Italia. Nel frattempo i gerarchi ottenevano una nuova identità e con l’appoggio di servizi segreti stranieri espatriavano verso Paesi con regimi di destra e anticomunisti. A gestire quel traffico erano in molti. Uomini dello Stato, della Chiesa e della Croce Rossa. Il più attivo era un prete croato, padre Krunoslav Dragonovich, dal 1945 impiegato all’Istituto croato del Collegio di San Girolamo degli Illirici, a Roma. La sua attività era nota agli americani e le vie di fuga che poteva garantire erano ritenute sicure ed efficienti. «Il flusso raggiunse il suo apice tra il 1948 e il 1949 e coinvolse una cinquantina di militari più un cospicuo numero di alti quadri del Reich, nonché
LA DÉBÂCLE Le rovine della stazione ferroviaria di Berlino nei giorni precedenti la resa. Nelle ultime due settimane di guerra, sulla città caddero 40.000 tonnellate di bombe. Alla fine, il 75% delle abitazioni era inabitabile o distrutto.
LA SECONDA VITA DEI NAZISTI
Attraverso una rete internazionale di appoggi e con false identità, criminali nazisti e collaborazionisti sono riusciti a mettersi in salvo. Ecco dove. 1
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HANS LIPSCHIS
ANTE PAVELICˇ
ALOIS BRUNNER
ARIBERT HEIM
FRANZ STANGL
GERMANIA Guardiano di Auschwitz, è stato arrestato nel 2013 a Stoccarda.
SPAGNA Dittatore croato a capo degli ustascia. Morì in Spagna nel 1959.
SIRIA Capitano delle Ss, fuggì in Egitto ed è morto in Siria nel 2010.
EGITTO Medico nel campo di Mauthausen, si dice sia morto in Egitto nel 1992.
BRASILE Comandante del campo di Treblinka, fu arrestato in Brasile nel 1967. È morto.
HANS LIPSCHIS GERMANIA
FRANZ STANGL BRASILE
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ALOIS BRUNNER DAMASCO
ARIBERT HEIM
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EGITTO
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BOLIVIA
JOSEF MENGELE BRASILE
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WALTER RAUFF
EDUARD ROSCHMANN
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PARAGUAY
SANTIAGO DEL CILE
ERICH PRIEBKE ARGENTINA
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JOSEF MENGELE
KLAUS BARBIE
BRASILE Medico di Auschwitz detto “dottor morte”, morì in Brasile nel 1979.
F. SPELTA
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ADOLF EICHMANN ARGENTINA
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EDUARD ROSCHMANN
BOLIVIA PARAGUAY Comandante della Gestapo Comandante del ghetto a Lione, fu arrestato in di Riga (Lettonia), morì nel Bolivia nel 1971. È morto. 1977 in Paraguay.
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WALTER RAUFF CILE L’ideatore dei camioncamera a gas morì di morte naturale nel 1984.
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ADOLF EICHMANN
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ERICH PRIEBKE
ARGENTINA ARGENTINA Organizzatore dello Capitano delle Ss, finì sterminio, catturato nel agli arresti domiciliari nel ’57 e giustiziato nel ’62. 1995. È morto nel 2013.
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Il capitano delle Ss Alois Brunner è MORTO a Damasco nel 2010. Collaborò con i DISSIDENTI del regime di Hafez Assad, PADRE di Bashar al-Assad migliaia di collaborazionisti francesi, belgi, croati, sloveni, ucraini e ungheresi, nonché fascisti di Salò», spiega Matteo Sanfilippo, docente di Storia moderna all’Università della Tuscia. Il tutto in un contesto caotico. «L’Italia, stremata dal conflitto e incapace di far fronte alla nuova emergenza, dopo la guerra si trovò circa 12 milioni di profughi desiderosi di una patria e di un’identità». Nel giugno del 1945, al Brennero per esempio, le amministrazioni locali e quella statale, insieme alle associazioni e agli enti internazionali, cercarono di porvi rimedio. Si aprirono campi di identificazione dove prima c’erano i campi di concentramento nazifascisti. Tantissimi profughi vi rimasero per anni, in attesa di un’identità certa. «Molti erano sospettati di essere nazisti in fuga», precisa lo storico, «oppure spie di regimi comunisti, ritenuti potenzialmente pericolosi oltre che 144
“mangiapane a tradimento”. Per affrontare la situazione intervennero la Croce Rossa internazionale e la Pontificia commissione di assistenza. Quest’ultima si occupò del sostegno spirituale dei cattolici, la Croce Rossa di quello materiale di tutti i profughi, che includeva la generalizzata mancanza di documenti». Il problema, però, fu che quell’aiuto fu dato a tutti indistintamente: criminali e non. Travestimenti. Avvenne così che uno dei principali responsabili dell’Olocausto, Adolf Eichmann, in abiti da montagna con in testa un cappello tirolese, riuscì a passare il Brennero con l’aiuto di “traghettatori” di frontiera. Lo consegnarono al parroco di Vipiteno. Qui, con il beneplacito del vicario generale della diocesi di Bressanone (un filotedesco che non aveva digerito l’annessione del Sudtirolo all’Italia) ricevette un nuovo nome. Il suo rifugio fu poi un chio-
PROFUGHI Sopra, un campo profughi della Croce Rossa in Danimarca.
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Eugenio Pacelli nel 1939, anno in cui divenne papa Pio XII: il suo pontificato durò fino al 1958. È ancora discussa la posizione mantenuta nei confronti del regime nazifascista e degli ebrei.
Maria dell’Anima, a Roma. Con lui collaborò il vescovo argentino Augustin Barrère. Ma il capo della Chiesa cattolica, Pio XII, era al corrente? La questione è dibattuta: «In realtà, al di là di singoli sacerdoti, che non lavoravano per il Vaticano, ma per altre associazioni e comitati della Chiesa cattolica, non c’è prova di una strategia vaticana di salvare alti funzionari nazisti», risponde Sanfilippo. «In genere si trattava di preti tedeschi. Erano in gioco reti di relazioni personali preesistenti e sentimenti di affinità politica: non dimentichiamo che molti sacerdoti avevano sostenuto il fascismo e il nazismo». La Santa Sede si sarebbe spesa per offrire una via di fuga a profughi sfollati. Non in quanto nazisti, ma perché profughi. Lo stesso fece la Croce Rossa. È questa oggi l’opinione dominante nelle ricostruzioni, sebbene non sia condivisa da tutti. Vincitori e vinti. Sono tutti d’accordo invece nel ritenere che nessuna delle competenze naziste in fatto di torture e tecniche di pressione psicologica sia andata perduta. Gli uomini della Gestapo nell’immediato dopoguerra vennero arruolati di nascosto da moltissimi Stati. Chi non divenne uomo della Cia entrò nel Kgb, nella Stasi della Germania Est o in altri servizi segreti. A confermarlo, nel 2014, è stato anche il tedesco Der Spiegel. Il settimanale ha pubblicato i contenuti di alcuni documenti desecretati, che confermano questa scomoda (ma risaputa) verità: il “padre” della Germania postbellica e dell’Europa unita – il leader democristiano Konrad Adenauer – era a conoscenza dell’arruolamento di nazisti nei servizi di sicurezza tedeschi del Dopoguerra e in quelli statunitensi. Come avrebbe detto Lenin, spesso “il cinismo non sta nelle parole che descrivono la realtà, ma t nella realtà stessa”. Giuliana Rotondi
TUTTI IN ARGENTINA Una foto dall’alto della piazza principale di Buenos Aires: almeno 5mila nazisti dopo il 1945 trovarono rifugio nell’Argentina di Perón.
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UN PAPA IN BILICO
stro dei francescani nella provincia di Bolzano, finché a Merano ottenne documenti falsi e, a Genova, un “permesso di libero sbarco”. Non andò peggio a Josef Mengele, il medico di Auschwitz che finì i suoi giorni in Sud America, senza mai dover rendere conto delle atroci torture compiute su donne e bambini. Le modalità di fuga furono simili a quelle di Adolf Eichmann: dopo alcuni anni in Baviera, ottenne, con modalità mai chiarite, documenti falsi a nome di Helmut Gregor, nato nel comune di Termeno (Bolzano), meccanico. Erich Priebke, il boia delle Fosse Ardeatine, si dotò invece di documenti e identità nuove diventando Otto Pape, “lettone, direttore d’albergo”, con doppia residenza a Roma e Bolzano. Trascorse quasi mezzo secolo a San Carlos de Bariloche (Argentina) con la moglie e tornò più volte in Italia prima di essere arrestato. Il sistema di fuga, per lui e gli altri, era sempre lo stesso: trovare figure “amiche” in possesso di passaporti falsi. E con quelli fuggire. I documenti recentemente desecretati hanno permesso di ricostruire tipologie e persino prezzi dei passaporti: i nazisti pagavano fino a 1.000 scellini austriaci per andarsene il più in fretta possibile, ma c’era chi otteneva i documenti addirittura gratis. Gli archivi hanno permesso di capire anche chi fu a coprire i criminali di guerra: oltre al già citato Krunoslav Dragonovich e al vicario generale della diocesi di Bressanone Alois Pompanin, fu attivo il vescovo austriaco Alois Hudal, guida spirituale della comunità tedesca in Italia e parroco della chiesa di Santa
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LETTURE A cura di Matteo Liberti
La Seccondaa guerrra mond diale Raymond Cartier (Mondadori) Pietra miliare della saggistica sulla Seconda guerra mondiale, il volume ne ricostruisce i momenti salienti e ne analizza cause e conseguenze. L’autore attinge a documenti diplomatici e militari, spaziando dagli archivi del Pentagono agli interrogatori dei criminali di guerra a Norimberga.
Le orig gini della Seecond da gueerra mon ndiale Richard J. Overy (Il Mulino) Libro che offre un’analisi dettagliata delle cause che portarono al secondo conflitto mondiale, che non fu semplice espressione delle velleità belliche di Hitler ma l’esito di crescenti instabilità internazionali, tra il declino dei vecchi imperi e l’emergere di nuove potenze.
La graande storia deella Seccon nda gu uerra mon ndiale Martin Gilbert (Mondadori) Minuziosa sintesi dei sei anni che vanno dall’aggressione tedesca alla Polonia alla resa finale del Giappone, con descrizioni delle operazioni belliche, dei retroscena diplomatici, delle attività di spionaggio, dell’orrore dei lager e degli sconvolgimenti patiti dalla società civile.
Gueerra asso oluta. Laa Russia sovviettica neella Seecon nda gueerra mon ndiale Chris Bellamy (Einaudi) Rifacendosi a fonti inaccessibili prima del crollo dell’Urss, il volume ricostruisce i combattimenti lungo il fronte orientale svelando i fattori che permisero ai sovietici di frenare l’avanzata dell’Asse.
La Seccondaa guerrra mond diale Gerhard Schreiber (Il Mulino) Agile volume che ripercorre l’intero conflitto: dalle cosiddette guerre secondarie, combattute in Polonia e Francia, alla guer-
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ra principale scatenata dall’Asse nel 1941 contro l’Urss, con una puntuale analisi delle dinamiche che condussero gli Alleati alla vittoria.
Il nem mico in n casa Marco Patricelli (Laterza) A partire dal 1943, in concomitanza con la caduta di Mussolini, il suolo italiano diventa terra contesa: dagli anglo-americani che risalivano da Sud e dai tedeschi che scendevano da Nord. Pronti, entrambi, a macchiarsi di brutali crimini di guerra.
D-D Dayy Antony Beevor (Rizzoli) 5.000 navi e mezzi anfibi, 104 cacciatorpediniere, 150.000 soldati: queste le forze impegnate nello sbarco in Normandia, evento raccontato con l’ausilio di lettere dal fronte, diari di guerra e memorie personali, senza sottacere gli errori strategici commessi dagli Alleati.
La Seccondaa guerrra mondiale. I sei an nni chee han nno o cam mbiato laa Storia Antony Beevor (Rizzoli) Avvalendosi di recenti scoperte d’archivio, il libro offre un ricco mosaico del conflitto soffermandosi sui fronti meno noti – dal Sahara alla giungla della Birmania – e su numerose storie personali, svelando così la dimensione drammaticamente “umana”della guerra.
Unaa guerraa al traamontto Rick Atkinson (Mondadori) Poderosa opera che prende le mosse dalle spiagge della Normandia, luogo dello sbarco alleato del 1944, per concludersi l’anno seguente in una Berlino circondata dall’Armata rossa, dopo una sequela di epocali battaglie in luoghi impressi per sempre nella nostra memoria collettiva.
LA II GUERRA MONDIALE Mondadori Scienza S.p.A. - via Battistotti Sassi, 11/a - 20133 Milano
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