Focus Storia Collection Autunno 2015 [PDF]

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Autunno 2015 € 7,90

DA GIOTTO A MICHELANGELO, DA SAN FRANCESCO AI BORGIA

Sped. in A. P. - D.L. 353/03 art. 1, comma 1 NE/VR

MEDIOEVO E RINASCIMENTO riccardo cuor di leone da ant te alig ghieri Ta amer rla ano nostra adam mus raffa aello leona ardo da vin nci lorenzo de’ medici fed deriico dii sve evia machia ave elli matilde di canossa lut tero o ivan il terr ribile e vasar ri dracul la Bo ona Sfo orza a Pic co della a Mir rand dola a...

I PROTAGONISTI

P

er alcuni storici non è esatto parlare di Rinascimento. Preferiscono piuttosto ipotizzare un lungo Medioevo durato oltre un millennio. Quali che siano i confini di queste epoche, i secoli seguiti all’anno Mille sono stati costantemente segnati da carestie, fame, peste e guerre. Si viveva poco e male, nel conforto cristiano della vita eterna. Ma è nel cielo più buio che spiccano le stelle. Ed è nei tempestosi primi secoli dopo il Mille che il genio italiano ha brillato come non mai. Mentre la politica spesso falliva e lasciava risolvere i problemi alle armi, fioriva parallela la lunga stagione culturale e artistica che ha reso immortali in tutto il mondo le menti ingegnose di Giotto, Dante, Leonardo, Machiavelli, Michelangelo, Raffaello.... La raffinata e colta vita delle corti rinascimentali non poteva fare a meno degli artisti, e molti di questi a loro volta dipendevano in tutto dai denari dei loro signori. Giusta o sbagliata che fosse, l’alleanza fra arte e potere funzionò. Senza gli Sforza, i Medici, i Borgia o i Della Rovere oggi non saremmo qui a ricordare la vita dei più grandi geni di tutti i tempi. Emanuela Cruciano caporedattore

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Ritratto di Flora di Bartolomeo Veneto, ispirato a Lucrezia Borgia.

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ARTISTI, DAME E CAVALIERI Chi erano, e in che contesto hanno agito, i grandi personaggi del Medioevo e del Rinascimento. In secoli dominati dalla violenza.

Accorto, fortunato, ricchissimo: ai primi del ’500, con il suo denaro, Agostino Chigi salvò dalla bancarotta anche la Santa Sede. 30

POLITICI 10

pag. 20

L’IMPERATORE DELLE MERAVIGLIE

36 pag. 30

In copertina: Michelangelo davanti a Papa Giulio II, in un dipinto di Anastasio Fontebuoni (1571-1626). © ALINARI

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IL MAGNIFICO LORENZO Lorenzo de’ Medici a 20 anni era già il signore di Firenze. E indirizzò la cultura di un’intera epoca.

I CALIENTI BORGIA Imprese, vizi e virtù della famiglia più chiacchierata del Rinascimento.

Federico II di Svevia ha segnato la storia europea del ’200, suscitando grandi entusiasmi e odi altrettanto profondi. 20

UN SEGRETARIO PARTICOLARE Machiavelli fu un buon segretario della Repubblica fiorentina e un acuto pensatore. Ma era anche un burlone, che amava la compagnia degli amici e delle donne.

UN CUORE DA LEONE Nella saga del ribelle Robin Hood, Riccardo Cuor di Leone si guadagnò la fama di re buono, eroico e giusto. Ma chi era davvero?

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IL BANCHIERE DEI PAPI

pag. 46

LA SOVRANA DEI VELENI Forse avvelenò la nuora. Forse fu avvelenata dall’amante. Di certo Bona Sforza fu una protagonista del Rinascimento: esportò all’Est usi, architetture e... ortaggi. 3

I PROTAGONISTI TIRANNI 52

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IL SIGNORE DELLE STEPPE Nel ’400 il suo regno andava dalla Persia all’India. Il suo nome era Timur, per noi è Tamerlano il Grande.

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Michelangelo fu un artista al servizio dei potenti, ma sempre libero e ribelle nella sua opera.

pag. 64

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E NACQUE IL VAMPIRO In Romania Vlad III Dràculea è un eroe. Ma nel ’400 la propaganda nemica ne fece un mostro assetato di sangue.

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IVAN LO ZAR DEL TERRORE

pag. 92

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RELIGIOSI

pag. 106

FIRENZE AL TEMPO DI DANTE

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GIOTTO RIVOLUZIONARIO

84

126

pag. 120

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Fu sempre pronto a sfruttare ogni occasione di lavoro pur di continuare a sperimentare: era grande anche per questo.

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LUTERO SEGRETO Il padre della Riforma protestante non era il puritano che si crede. Anzi, era vanitoso e... buongustaio.

pag. 126

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DOMANI ACCADRÀ Nostradamus è considerato il veggente più noto di tutti i tempi, eppure sapeva poco di astrologia. Il suo segreto? Scrivere il più possibile. E con un linguaggio fumoso.

IL CABALISTA INNAMORATO Pico della Mirandola era un prodigio dell’intelletto, ma anche un giovane preso dalle umane passioni, femminili e non solo. Giudicato eretico, a ucciderlo fu forse l’arsenico.

L’ERETICO MANCATO San Francesco d’Assisi non era poi così diverso dai predicatori “eretici” del suo tempo. Lo salvò la diplomazia.

LEONARDO, GENIO A TUTTO TONDO

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IL CARISMA DI MATILDE Bella e potente, Matilde di Canossa diventò l’ago della bilancia nello scontro tra impero e papato. E il bersaglio delle malelingue.

Il poeta sognava un mondo sobrio e pudico, ma con Lapo e Guido si era divertito in riva all’Arno... Padre della pittura moderna, fu il primo artista viaggiatore: la sua gloria è affidata a opere in tutta la Penisola, da Firenze a Roma, da Padova ad Assisi.

LO SPICCIO GIORGINO Giorgio Vasari fu biografo dei grandi del tempo, inventore della storia dell’arte e anche un artista, seppure poco apprezzato.

ARTISTI

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IL PITTORE DELLE MADONNE Raffaello Sanzio fu rivale di Michelangelo, venne corteggiato da papi e cardinali, ma morì sul più bello.

I suoi scatti d’ira e le sue violenze divennero leggendari. Cinque secoli fa Ivan il Terribile unificò la Russia, imponendola all’attenzione del mondo.

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IL TORMENTO E LA PERFEZIONE

pag. 140

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LETTURE

presenta

LA STORIA DA LEGGERE ALESSANDRO MAGNO LIBR



O

,99

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UN GRANDE NARRATORE RACCONTA UN GRANDE CONDOTTIERO

Fino alle soglie dei tempi moderni, e in alcuni casi anche in seguito, qualunque generale che aspirasse a lasciare una traccia di sé nella Storia si è posto come modello Alessandro Magno. Il sovrano macedone fu un conquistatore impareggiabile, uno stratega raffinato, un tattico lucido e brillante, un generale imbattuto e, soprattutto, un condottiero di inarrivabile coraggio, sempre in prima fila in battaglia e sotto gli spalti di una roccaforte nemica, colpito, ferito e vicino alla morte decine di volte ma in grado, con il suo esempio, di motivare i propri uomini come nessun altro comandante. Questo libro racconta le imprese di Alessandro depurandole dall’incredibile mole di leggende fiorite sul suo conto dopo la prematura morte, analizzando, oltre agli strumenti e alle capacità che gli consentirono di diventare il più grande condottiero di tutti i tempi, i limiti e i difetti della sua strategia militare e le circostanze che favorirono i suoi successi. Dall’autore de “Le grandi battaglie di Roma antica”, la trilogia “Dictator” su Giulio Cesare, la saga de “Gli Invincibili” e molti altri saggi e romanzi storici.

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INTERVISTA

Chi erano, e in che contesto hanno agito, i grandi PERSONAGGI

ARTISTI, DAME C

esare Borgia e Vlad III l’impalatore, Matilde di Canossa e Lorenzo il Magnifico, Leonardo Da Vinci e Michelangelo Buonarroti, San Francesco e Nostradamus: violenti e potenti condottieri, uomini di religione, geni, artisti e donne dal polso di ferro hanno animato il lungo periodo, circa undici secoli, compreso tra l’inizio del Medioevo e la fine del Rinascimento. I confini di queste due epoche, frutto di convenzioni, sono molto labili e non facilmente collocabili sulla linea cronologica della Storia (vedi riquadro), ma quelli temporali non sono gli unici problemi che affliggono gli storici dell’Età di mezzo. Pregiudizi e luoghi comuni, infatti, continuano a pesare su queste due epoche: è opinione diffusa, per esempio, che Medioevo faccia rima con cavalieri, barbarie ed estrema ignoranza; quando invece si parla di Rinascimento, pensiamo automaticamente a un’epoca “di splendori, di ritorno alla classicità e di rinnovamento artistico”. In realtà, invece, in entrambi i casi bisogna ricordare che, come qualsiasi altro periodo storico, anche questi furono secoli ricchi di contraddizioni, divisi tra guerra e religione, analfabetismo e cultura, superstizioni e scoperte cruciali per la storia dell’umanità. Il vero Medioevo non fu solo feudi e feudatari: in questo periodo nacquero le lingue, le nazioni, le banche e i Comuni. Tra la metà dell’XI e la fine del XIII secolo, l’Europa fu uno dei luoghi migliori per vivere, grazie alla lontananza della guerra (concentrata in Terra Santa) e al prosperare dell’agricoltura e dei traffici commerciali. Solo dopo, dalla metà del Trecento, cominciò una nuova fase di declino, con epidemie, carestie e

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guerre: durò fino al Seicento, a conferma che il Rinascimento non fu esclusivamente quel mondo ricco d’arte, mecenati e prosperità che i più immaginano. Ne abbiamo parlato con lo storico Franco Cardini, tra i più noti medievalisti italiani, autore di numerosi saggi sull’argomento. L’idea del Medioevo come periodo “buio”, violento e immobile, una pausa oscura della Storia fino allo sbocciare del Rinascimento e il ritorno alla perfezione dell’età classica, è ancora molto comune. Ma quanto c’è di vero? Questa definizione non è mai stata valida né credibile. Anzitutto, il “Medioevo” è un periodo convenzionale durato un migliaio di anni, elaborato dagli umanisti tre-quattrocenteschi e poi ribadito dai philosophes settecenteschi sulla base di pregiudizi socioculturali o religioso-culturali. L’“oscuro Medioevo” – bisognerebbe proibire per legge un’espressione del genere – è poi passato nella cattiva educazione scolastica e nelle espressioni più volgari e conformistiche, ma in realtà conteneva tutto e il contrario di tutto. Terra di conquista, terra di papi, terra di mercanti, terra di repubbliche marinare, terra di mecenati: in Europa, la nostra penisola ha avuto un ruolo dominante nella storia medioevale e rinascimentale. Che cosa la rese il centro attorno al quale ruotarono gli interessi politici ed economici di quel periodo? L’antichità e il Medioevo – uso questi termini con puro valore di periodizzazione cronologica – sono età mediterraneocentriche: l’Italia è al centro del Mediterraneo, ne delinea i due bacini, è un ponte tra Europa, Asia e Africa. Il significato e la centralità di Roma, l’eredità

A NOZZE NEL CASTELLO Il banchetto di nozze della figlia del re di Guascogna: miniatura trattadal manoscritto I quattro figli di Aimone (Loyset Liédet, XV secolo).

del Medioevo e del Rinascimento. In secoli dominati dalla VIOLENZA

E CAVALIERI Una questione di date

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utti a scuola abbiamo imparato che il Medioevo comincia nel 476 d.C., l’anno in cui il generale germanico Odoacre depose l’ultimo imperatore romano d’Occidente. Non tutti gli storici, però, sono d’accordo: alcuni notano infatti che se, invece del crollo dell’impero, considerassimo l’introduzione a Roma del cristianesimo come religione di Stato, il grande cambiamento sociale che segnò la fine dell’antichità, dovremmo anticipare l’inizio del Medioevo di quasi un secolo, al 380 d.C. Altri suggeriscono invece di posticipare questa data alla metà circa dell’VIII secolo, quando prese forma in Europa il tipo di società agricola basata sul potere dei cavalieri e dei proprietari terrieri che cambiò l’economia antica. Non meno discussa la data del 1492, anno della scoperta dell’America, scelta come simbolica fine del Medioevo e inizio del Rinascimento: alcuni storici preferiscono infatti parlare di un lungo Medioevo, conclusosi nel Settecento con l’esplosione della rivoluzione scientifica, industriale e illuminista. Chi invece non rinuncia al Rinascimento identifica la sua fine nel 1527: il 6 maggio di quell’anno Roma venne saccheggiata dalle truppe lanzichenecche dell’imperatore Carlo V d’Asburgo.

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POTERE MASSIMO Papa Sisto IV (1414-1484) nomina il Platina (Bartolomeo Sacchi) prefetto della Biblioteca Vaticana: affresco di Melozzo da Forlì del 1477.

Lo sfarzo di pochi, la fame di molti

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l mondo, nel IX-X secolo era difficile e pericoloso. Per tutti, ma a maggior ragione per la gente comune, la pura sopravvivenza era la prima, assillante preoccupazione. I contadini e il popolo dovevano lavorare duramente per riuscire a mangiare e, nel sistema feudale, il lavoro dei

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campi consentiva appena ai contadini e alle loro famiglie di sfamarsi. Le condizioni igieniche erano precarie, diffuse le epidemie e alta la mortalità infantile. E anche durante il Rinascimento le cose non andavano meglio: le ricchezze e gli splendori delle arti erano in mano a poche

nobili famiglie, mentre la nostra penisola era tormentata da guerre, percorsa da capitani di ventura e colpita dalla peste, ragion per cui raramente un uomo superava i 40 anni di età. Cibi bassi. Le differenze di ceto venivano mantenute persino a tavola: secondo una

corrispondenza simbolica tra classi e cibi, gli animali e i vegetali “alti”, cioè i volatili e la frutta, spettavano di diritto alla nobiltà, mentre i contadini dovevano accontentarsi di cibi “bassi”. Niente pesche, quindi, ma rape, aglio, porri e cipolle. E, come carne, al massimo quella di maiale.

Per secoli l’Italia è stata PROTAGONISTA in Europa: per la sua posizione e per l’organizzazione del territorio ereditata da ROMA dell’organizzazione territoriale dell’impero e il suo rapporto col cristianesimo, l’abbondanza di centri abitati portuali e no, l’innervatura stradale, le felici condizioni climatiche furono le precondizioni storiche dell’importanza della penisola. Colpisce che la maggior parte dei personaggi più noti di questo periodo abbia compiuto imprese straordinarie a un’età in cui oggi si è considerati ancora “ragazzi”: dipendeva da una certa consapevolezza della propria breve aspettativa di vita o da un differente tipo di educazione e di cultura? Rispetto a oggi si viveva mediamente meno e si cresceva più in fretta. Un ragazzo era già “uomo” tra i 15 e i 25 anni, secondo le tradizioni locali; le donne si sposavano presto e ci si aspettava che rimanessero sempre incinte, finché non terminava il loro periodo fertile. Oggi, sui giornali si parla addirittura di “ragazzi di 40 anni”, quando nel Medioevo a questa età si era già quasi vecchi: il fatto è che l’infanzia durava poco ed era considerata solo propedeutica alla vita. Il bambino era un uomo futuro e contava solo in quanto tale: per lui c’erano amore, tenerezza, protezione, ma sempre subordinati al fatto che doveva crescere rapidamente. E dai bambini nessuno veniva mai tiranneggiato, anche perché non esisteva un’industria che si arricchisse sulla loro adorazione. A proposito di figli, qual era la condizione delle donne tra Medioevo e Rinascimento? Nel Medioevo e nel Rinascimento molte donne hanno avuto un potere anche immenso, come Matilde di Toscana (più nota come Matilde di Canossa, ndr) nel secolo XI o Elisabetta I (regina d’Inghilterra e Irlanda, ndr) nel XVI; ma il loro potere diminuiva mano a mano che si scendeva nella scala sociale. La società era peraltro regolata su princìpi comunitari, non individualistici, per cui alle donne spettavano anzitutto i diritti e i doveri connessi alla maternità, alla coesione familiare, all’educazione dei figli.

Passando al mondo maschile: gli uomini che ambivano al potere quali caratteristiche imprescindibili dovevano avere per emergere? C’erano i privilegi di nascita, quelli di condizione (appartenere alle famiglie gentilizie o al clero), quelli derivati dall’ingegno e dalla laboriosità. Ma all’epoca un uomo che ambiva al potere era considerato vittima della superbia e dell’egoismo, brutti vizi, laddove la virtù conclamata e rispettata era il Bonum Commune. Ciò che Nietzsche definì “Volontà di Potenza” esisteva anche allora, ma era una tentazione: la cristianità era un sistema religioso e sociopolitico duro, crudele, implacabile, ma dove tutti gli uomini e tutte le cose stavano al loro posto. E non si pensava in termini individualistici. Certo c’era anche spazio per chi, come oggi, voleva non “essere” bensì “avere”, apparire, far carriera, emergere magari a scapito di altri. Esistono casi del genere, numerosi e documentati: l’Inferno di Dante ne è pieno. Personaggi violenti come Tamerlano o Ivan il Terribile oggi vengono ancora catalogati come “mostri”, nonostante gli storici ne abbiano ormai rivalutato la finezza politica e gli interessi culturali. Ma in fondo, anche tra quelli passati alla Storia come “buoni”, per esempio Riccardo Cuor di Leone, Federico di Svevia o Lorenzo il Magnifico, non dominavano la guerra, l’inganno e l’omicidio? Non esiste un tempo nel quale guerra, inganno e omicidio non abbiano dominato. Quanto ai “buoni”, oggi la stragrande maggioranza delle persone sarebbe disposta a giurare che Toro Seduto e Radetzky erano “cattivi”, mentre Umberto I e Winston Churchill erano “buoni”. E questi sono solo due degli esempi del conformismo e della disinformazione dei nostri tempi. Dalla guerra alla cultura: il Rinascimento è considerato l’età d’oro dell’arte e del genio italiano. Sappiamo che i più grandi artisti dell’epoca dipesero

dai loro mecenati: ma, viceversa, quanto dipendevano i potenti dai loro artisti e letterati? Abbastanza poco. La fama romantica dell’artista geniale e sregolato l’ha creata gente come il Vasari o come certi scrittori romantici. L’arte la dirigevano i committenti eccome: se poi gli artisti riuscivano a far emergere il proprio genio, o per loro forza o perché incontravano committenti più generosi o più disattenti, tanto meglio. Un artista o un letterato, come un intellettuale, sono funzionali al potere: non viceversa. Infine la religione: in Italia ma non solo, il Medioevo e il Rinascimento furono dominati dalla Chiesa, soprattutto dal punto di vista politico. Molto meno da un punto di vista prettamente morale: i signori si sposavano davanti a Dio (di solito per motivi politici), ma poi vivevano liberamente i loro amori; i papi, pronti a bacchettare i fedeli, facevano figli con le loro amanti; il tribunale ecclesiastico dell’Inquisizione usava ampiamente la tortura e, in nome della religione, si combatterono anche le crociate. I credenti come vivevano queste contraddizioni? Il punto non è che Medioevo e Rinascimento fossero dominati dalla Chiesa, ma che la Chiesa era (ed è) la comunità dei fedeli e che almeno fino al Settecento, nei Paesi cattolici, Chiesa e società si identificavano: erano la Cristianità nella quale i re non erano sacrae personae meno dei preti. Era un mondo duro, ma gli scopi di chi guidava la società erano precisi: portare i sudditi a rispettare il Bonum Commune e a salvarsi l’anima. Tutto qui. Quanto al far la guerra nel nome della religione, oggi la si fa per le materie prime come il petrolio: fra i due scopi, personalmente preferirei il primo. t Maria Leonarda Leone

FRANCO CARDINI Storico e saggista italiano specializzato nello studio del Medioevo. È docente presso l’Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze.

RICCARDO CUOR DI LEONE - 1157

L

a notte era stellata. Perciò dopo cena il re d’Inghilterra, Riccardo Cuor di Leone, decise di controllare lo stato d’assedio. Senza armatura, fermo sotto i bastioni, era convinto che nessuno potesse fargli del male. Poi una freccia, scagliata da una feritoia, lo raggiunse alla spalla sinistra. Minimizzò, com’era sua abitudine, ma la ferita peggiorò: la setticemia se lo portò via in pochi giorni, il 6 aprile 1199, sotto le mura del castello di Châlus-Chabrol, vicino a Limoges, dov’era giunto per sedare una rivolta di nobili nei domini inglesi in terra di Francia. Secondo alcuni cronisti dell’epoca fu una punizione divina e, allo stesso tempo, una grazia: ponendo fine alle cattive azioni del re, infatti, Dio gli aveva evitato di aggiungere ai suoi misfatti crimini ancora più grandi. E Riccardo se l’era potuta così cavare con il Purgatorio. Eppure, nonostante il giudizio della Chiesa, nella successiva storiografia medioevale quest’uomo diventò un esempio di re giusto e pietoso, il modello delle virtù regali. Qual era dunque il suo vero volto? Quello dell’omone fiero, arrogante e col viso pallido, che affrontò i nemici con crudeltà, o del re nobile e gentile che di ritorno dalla crociata in Terrasanta diede la sua benedizione al leggendario ladro-gentiluomo Robin Hood? Assetato di potere. Di sicuro, fra i cinque maschi messi al mondo con Enrico II Plantageneto, Riccardo fu il prediletto della combattiva Eleonora d’Aquitania, che lo partorì a Oxford nel 1157. Lo storico inglese Steven Runciman lo definì “un cattivo figlio, un cattivo re, ma un valoroso e magnifico soldato”. «Era una personalità complessa, chiaramente un uomo divorato dall’ambizione e con un enorme desiderio di potere instillato dalla madre», spiega Enrico Basso, docente di Storia dell’Europa medioevale all’Università di Torino. La regina Eleonora, l’unica di cui si fidò sempre, gli ispirò l’amore per la terra francese, la poesia e la musica. «Riccardo crebbe alla corte d’Aquitania, in un ambiente culturalmente stimolante. Parlava francese, visse per lo più in Francia e lì si fece seppellire: anche se viene considerato uno dei migliori sovrani inglesi, in 10 anni di regno rimase in Inghilterra appena sei mesi», prosegue Basso. Non a caso, dell’impero 10

SCALA

Nella SAGA del ribelle Robin Hood si guadagnò la FAMA di re

BATTAGLIERO Miniatura del 1350 raffigurante la battaglia di Gisors (Francia), nel 1180, tra Filippo II di Francia e Riccardo Cuor di Leone. Si narra che il re inglese (a destra) abbia introdotto qui, come grido di battaglia, il motto in francese (ancora presente sullo stemma della Casa d’Inghilterra) Dieu et mon droit (Dio e il mio diritto).

BUONO, eroico e giusto. Ma chi fu davvero Riccardo I d’Inghilterra?

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GETTY IMAGES

Fu l’ecclesiastico del XII secolo GIRAUD DE BARRY il primo a dare al sovrano inglese il celebre SOPRANNOME di “Cuor di Leone” plantageneto-angioino, che comprendeva quasi tutta la Gran Bretagna e due terzi dell’odierna Francia, il padre gli riservò il ducato di Aquitania e di Poitou. Dato che il primo figlio, Guglielmo, era morto a soli 3 anni, promise al secondo, Enrico il Giovane, la corona di re d’Inghilterra, la Normandia, l’Angiò e il Maine, e al quarto, Goffredo, la Bretagna. Al piccolo Giovanni concesse invece solo la sovranità sull’Irlanda (v. riquadro). «Riccardo non sarebbe dovuto diventare re d’Inghilterra, ma era disposto a passare su tutto per ottenere il trono», prosegue l’esperto. Sua madre lo spronò in questa direzione, spingendolo a combattere, non ancora sedicenne, al fianco dei fratelli contro il padre Enrico II. “È nella nostra natura, lasciataci in eredità dagli avi, che nessuno di noi debba amare l’altro, sì che il fratello lotterà contro il fratello o il figlio contro il padre”, spiegò Goffredo ai messi di pace inviati dal genitore prima dello scontro. Mito cercasi. Riccardo non si stancava di motivare quest’odio ancestrale con le origini soprannaturali della sua famiglia: “Tutti veniamo dal diavolo e al diavolo dobbiamo tornare”, chiosava. Al di là della mitologia, da uomo colto, amante dei componimenti epici e delle canzoni, conosceva il valore delle leggende come strumento per intimidire i nemici e impressionare sudditi e soldati. «Quando la morte del fratello maggiore Enrico il Giovane nel 1183 e del padre nel 1189 gli spianarono la strada al tro12

no, usò in modo molto abile i celebri miti della Bretagna, legandosi alla figura di re Artù», spiega Basso. Fece cercare, ovviamente “con successo”, la sepoltura del leggendario sovrano bretone. Scelse personalmente per il figlio del fratello Goffredo il nome di Arturo. Dichiarò di possedere la mitica spada Excalibur e di essere perciò il discendente legittimo del potere di Artù. Identificandosi con questo antico re, che rappresentava il ricordo di un passato glorioso e la speranza di un ritorno all’antica età dell’oro, Riccardo riuscì a tenere uniti i sudditi bretoni, normanni e anglosassoni del vasto regno inglese. Anche se poi, senza pensarci troppo, donò la favolosa “Excalibur” al re di Sicilia, Tancredi, in cambio di ospitalità: il fatto la dice lunga su quell’arma e sul suo reale valore simbolico al di fuori dell’Inghilterra. Ma anche sulla sensibilità del nuovo sovrano, che si dimostrò non troppo spiccata alla sua incoronazione, quando vietò l’ingresso a donne ed ebrei. «In quella società maschilista, il potere apparteneva agli uomini: era piuttosto normale, perciò, che in una cerimonia ufficiale mancassero le donne. E per quanto riguarda gli ebrei, mi sarei stupito di più se li avesse invitati: l’antisemitismo era molto diffuso all’epoca e l’Inghilterra era il Paese più xenofobo d’Europa», commenta lo storico. Fu proprio un mix di superbia, incoscienza e orgoglio a ucciderlo nel suo ultimo assedio: questi difetti,

ROCCAFORTE I resti di ChâteauGaillard a Les Andelys (Normandia). La rocca fu fatta costruire da Riccardo I nel 1197.

PEZZO DI CHARTA

ALINARI

SCALA

A destra, la Magna charta: nel 2007 uno dei 17 manoscritti originali è stato venduto all’asta per 21 milioni di dollari.

La Chaartaa di BRIDGEMAN/ALINARI

“I IN PRIGIONE In alto, Riccardo I prigioniero dell’imperatore Enrico VI, da un manoscritto miniato del Duecento. Sotto, Riccardo I con la leggendaria spada di re Artù, Excalibur, nel manoscritto Historia Major, del 1240.

che in politica gli fruttarono numerose inimicizie, sul campo di battaglia gli valsero però il soprannome di “Cuor di Leone”. Il leone non era solo il re della foresta, ma anche l’emblema della famiglia dei Plantageneti, presente spesso sui loro abiti. Che non fosse un gran diplomatico lo prova una delle infelici proposte di pace fatte a Saladino durante la terza crociata: un matrimonio “misto” fra sua sorella, cristiana, e il fratello del sultano, musulmano. Saladino si fece una risata, pensando a uno scherzo, e Riccardo grazie alla gaffe venne invitato a un grande banchetto con gli emiri. Fatto che “dette luogo a gravi espressioni di biasimo contro di lui e a malevole parole”, dicono i cronisti dell’epoca. Omosessuale? Ma quelle sprecate in questa occasione non furono le sole “malevole parole” rivolte a Riccardo: molti lo accusarono di immoralità, facendo riferimento alle “abitudini sregolate che aveva preso nella foga della gioventù”. Abitudini mai smentite dal sovrano, che ammise che i “cespugli spinosi della libidine hanno invaso il mio spirito”. Anche se alcuni

l re fasullo d’Inghilterra”: così lo chiamava Robin Hood nel cartone animato della Disney. Ma anche nella realtà il nomignolo del fratello più piccolo di Riccardo, suo successore al trono nel 1199, non fu troppo lusinghiero: Giovanni era “senza terra” perché suo padre non gli aveva lasciato alcun possedimento, ma solo la sovranità sull’Irlanda, un potere nominale dato che quell’isola era suddivisa in cinque circoscrizioni, ciascuna retta da un sovrano locale. Fiore all’occhiello. I cronisti medioevali lo descrivono come un vecchio grasso, basso e calvo. Ma al di là della fama di usurpatore, anche Giovanni Senzaterra ebbe i suoi meriti: alcuni storici moder-

Giovvannni ni esaltano le sue conoscenze giuridiche e amministrative e l’impulso che diede al commercio. Il suo atto più importante fu però la firma, seppure interessata, della Magna charta libertatum, la prima “carta dei diritti” d’Europa, antenata delle costituzioni. Giovanni non era però un filantropo e nel 1215 concesse la carta ai baroni solo perché aveva bisogno del loro appoggio economico nella guerra contro la Francia. I primi diritti. Il documento, scritto in latino, di fatto riduceva il potere del regnante d’Inghilterra, vietandogli di imporre nuove tasse ai vassalli senza l’approvazione di un consiglio composto da baroni e membri della Chiesa: un embrione di monarchia costituzionale.

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BRIDGEMAN/ALINARI

scrittori gli attribuirono gloriose imprese sessuali con suore, mogli e figlie altrui, le dicerie sui suoi “atti illeciti”, aggiunte al suo celibato durato fino ai 32 anni, alla mancanza di amanti note e ai quasi inesistenti rapporti con la moglie Berengaria di Navarra, fruttarono a Riccardo la fama di omosessuale. Più probabilmente, fu la cavalleria l’unico vero amore del re. «Credeva, come molti sovrani dell’epoca, nell’ideale di re-cavaliere difensore della cristianità: per questo nel 1190 partì per la terza crociata, deciso a liberare Gerusalemme, riconquistata tre anni prima dalle truppe di Saladino», spiega Basso. Spauracchio. Riccardo diventò l’idolo della cavalleria occidentale e l’incubo dei musulmani. Era impossibile non notare le sue crudeltà. Lungo la strada, i crociati massacrarono tutti gli ebrei che trovarono in Germania e distrussero interi villaggi in Turchia, perché non si erano accorti che erano abitati da popolazioni convertite al cristianesimo. Senza contare i quasi 3 mila prigionieri, donne e bambini compresi, che Riccardo fece decapitare fuori dalle mura di Acri (in Palestina) nonostante gli accordi presi con Saladino per la loro liberazione. Tanta crudeltà, però, non servì. Dopo due anni di combattimenti, Riccardo dovette accontentarsi di un pareggio: riportò a casa solo una tregua con il sultano, senza aver neppure messo piede a Gerusalemme. L’Inghilterra infatti aveva bisogno del suo re. «La madre lo aveva avvisato che la situazione era ormai degenerata: il re di Francia, Filippo Augusto, aveva rotto

GRANGER COLLECTION/ALINARI

Il suo corpo fu SEPOLTO in Francia, nell’abbazia di Fontevrault. E il CUORE fu portato a Rouen

il giuramento e invaso le province francesi del regno, mentre Giovanni stava tentando di usurpargli il trono», spiega Basso. Il ritorno del re. Il suo ritorno si trasformò in una lunga odissea, conclusa nelle carceri dell’imperatore germanico Enrico VI, una delle teste coronate che il re aveva urtato con il suo comportamento prepotente. Tornato a piede libero, Riccardo carico di entusiasmo si armò contro i suoi nemici: invase il territorio di Nottingham con un piccolo contingente e sconfisse i ribelli comandati dal fratello Giovanni, poi combatté contro Filippo Augusto, con il quale siglò una tregua il 13 gennaio 1199. Ma nemmeno tre mesi dopo morì. Nella leggenda. Che cosa lasciò in eredità? Secondo gli studi inglesi più recenti, nient’altro che uno stato di guerra semipermanente con la Francia e una crociata andata male. La figura di Riccardo I è stata infatti molto ridimensionata dagli storici britannici. Eppure, quando si trattò di pagare per la sua liberazione l’enorme cifra di 150mila marchi d’argento, i suoi sudditi diedero tutto quello che avevano per riaverlo. Perché lo fecero? «Perché fu un ottimo generale e un politico energico», risponde Basso. «Il suo merito fu di aver tenuto insieme la struttura complessa del regno: con la sua forza e l’indubbia crudeltà Riccardo controllò la nobiltà e riuscì persino a dare una patina dorata di benevolenza al suo regno. A differenza del fratello Giovanni, che ereditò il trono e perse le terre francesi in meno di vent’anni». I successivi sovrani inglesi vissero nel sogno di poter ricostituire l’antico impero e mitizzarono la figura di quel re che col suo cuore da leone era riuscito a tenerle unite. t Maria Leonarda Leone

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IL “PRINCIPE GIOVANNI” Illustrazione di un manoscritto del Trecento che ritrae Giovanni Senzaterra: il re d’Inghilterra nel 1215 concesse la Magna charta.

UNTO DEL SIGNORE L’unzione di Riccardo I in una miniatura del Flores Historiarum, un manoscritto francese del XIII secolo.

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FEDERICO II DI SVEVIA - 1194

Il RE “illuminato” che ha segnato la STORIA europea del ’200, suscitando grandi ENTUSIASMI e odi altrettanto profondi

GETTY IMAGES

L’imperatore delle

F



CAPOLAVORO DI GEOMETRIA A sinistra Castel del Monte, un edificio a pianta ottagonale (a destra la vista dal cortile) costruito da Federico II a 18 km da Andria, in Puglia. Circondato da torri anch’esse ottagonali, il castello ha un’architettura complessa e ricca di simbolismi.

REALY EASY STAR

RE ECLETTICO Federico II (11941250) in una miniatura. Il re, a capo del Sacro romano impero, fu chiamato Stupor mundi (“Meraviglia del mondo”) per le sue qualità politiche, militari e culturali.

osse stato uno schiavo il suo prezzo non avrebbe raggiunto le 200 dracme”. Stando alle parole di un cronista arabo, l’aspetto di Federico II di Svevia non doveva suscitare grande impressione. Era il 26 dicembre 1194 quando Costanza d’Altavilla, già quarantenne (un fatto stupefacente per quei tempi), lo partorì in una tenda eretta nella piazza principale della cittadina marchigiana di Jesi (An). Figlia di Ruggero II, re normanno di Sicilia, la donna era sposata da nove anni con Enrico VI Hohenstaufen, imperatore del Sacro romano impero, che grazie a quel matrimonio aveva acquisito il diritto di regnare sulle terre meridionali della Penisola. Allora, e già da più di un secolo, l’Italia del Sud era governata da uomini dai capelli biondi e dagli occhi azzurri, arrivati dall’Europa del Nord come guerrieri mercenari e ben presto diventati signori di quegli splendidi e dolci paesaggi. Dopo la nascita di Costantino – come lo aveva chiamato la madre prima che gli fosse imposto un più imperiale Federico (il piccolo era nipote di Federico Barbarossa) – le maldicenze si sprecarono. Qualcuno arrivò a dire che era figlio di un macellaio. Con falsità simili Federico avrebbe dovuto convivere a lungo: il potere che aveva in mano non poteva che destare invidia e preoccupazione.

AGK/MONDADORI PORTFOLIO

Astro nascente. Il bimbo di Jesi cresceva nei palazzi normanni di Palermo, mentre altri si contendevano quello che gli sarebbe spettato di diritto. Era ancora troppo giovane per partecipare al grande gioco della politica e della guerra. Rimasto orfano di entrambi i genitori, a soli quattro anni era diventato re di Sicilia, ma le decisioni le prendeva papa Innocenzo III, suo tutore. Ottone IV di Brunswick si sarebbe invece appropriato nel 1209 del titolo imperiale, apprestandosi a invadere la Sicilia. Ma anziché a Palermo, i due finirono per incontrarsi a Costanza, porta del regno di Germania. Era il 1212 e, diretto in città, Ottone si era fatto precedere dai suoi cuochi perché gli preparassero un festino; sapeva che Federico stava per giungere, ma era certo di precederlo perché quel diciassettenne, con al seguito pochi cavalieri, avrebbe superato con difficoltà le insidie di un viaggio in territori tanto ostili. Giunto alle porte della città, le trovò sbarrate; all’interno Federico si stava godendo lo spettacolo e il cibo di Ottone. Era nata una stella: il ragazzo di Sicilia aveva compiuto un vero slalom per evitare le zone a lui più avverse e giungere in anticipo sul rivale. Un atto temerario che chiariva le sue velleità imperiali, a cui fece seguire un’abile attività diplomatica, rinnovando e ampliando i diritti dei principi tedeschi e promettendo al papa una crociata in tempi brevi. Tanto bastò per portare alla sconfitta Ottone e condurre Federico alla corona di Germania (nel 1215 ad Aquisgrana) e a quella imperiale (nel 1220 a Roma). La legittima autorità era ristabilita, ma per Federico la Germania restava un problema irrisolto: troppi i principi e i vescovi riottosi. Ne scaricò le responsabilità sul figlio Enrico, con il risultato di trovarselo ribelle nel 1235 e di dover organizzare una spedizione per deporlo dalla carica regale e incarcerarlo. Preferì limitarsi a un dominio a distanza, assicurandosi la fedeltà dei signori locali attraverso la concessione di alcuni privilegi. L’altra questione delicata era rappresentata dal Regno d’Italia. La prima volta che aveva attraversa17

CON IL FALCO Miniatura del trattato di falconeria De arte venandi cum avibus (“Sull’arte di cacciare con gli uccelli”), scritto da Federico II.

BRIDGEMAN/ALINARI

Aveva CREATO il suo stato ideale nel SUD ITALIA, tra caccia, fortezze, buon governo e LETTURE colte to la Pianura padana, nella cavalcata verso Costanza, Federico si era trovato a mollo nel fiume Lambro, dove si era gettato per sfuggire all’incalzare delle truppe milanesi. L’esordio dei rapporti con i comuni ribelli italiani non era stato dei migliori e il seguito sarebbe stato peggio: era pur sempre il nipote dell’odiato Barbarossa. Sulle truppe della Lega lombarda avrebbe riportato la sua più grande affermazione militare (nel 1237 a Cortenuova), ma la sottomissione di quelle zone all’autorità imperiale non sarebbe mai stata completa. Filo-arabo. “Sultano di Foggia”, “emiro”, “sultano battezzato”, lo definiva sprezzantemente la Curia pontificia, che per ostacolarne il crescente potere cercava di screditare l’imperatore di fronte al mondo cristiano, additando le sue simpatie nei confronti della cultura araba e la presenza a corte di uno stuolo di servitori musulmani. Per i pontefici il problema era evidente: invece di riconoscere il primato della Chiesa di Roma e impegnarsi nella liberazione della Terra Santa, Federico aveva in pochi anni rifondato il Regno di Sicilia e da quella sicura fortezza cercava di riannodare la tela del potere imperiale che avrebbe potuto schiacciare i territori della Santa Sede. A Roma doveva poi creare imbarazzo quella corte chiassosa, itinerante per l’Europa con tanto di ten-

doni, odalische, eunuchi, saltimbanchi, paggi e con al seguito l’intero serraglio reale: elefanti, cammelli, cani e falconi da caccia, animali feroci. Federico amava apparire, e lo faceva in grande stile ovunque si trovasse. Ricevette tre scomuniche, che testimoniano i difficili rapporti tra lui e il papato. “L’imperatore è morto”, arrivò ad annunciare la cancelleria vaticana mentre Federico era impegnato nella crociata del 1229, quella che grazie alle sue doti diplomatiche aveva riportato sotto il controllo occidentale i luoghi sacri. Il Vaticano cercò di approfittare della sua assenza per occupare il Regno di Sicilia, ma con un tempestivo ritorno Federico II riuscì a cacciare le truppe pontificie. E lo fece da scomunicato, ma fresco dell’incoronazione a re di Gerusalemme. Giardino di delizie. Il Regno di Sicilia era il suo capolavoro, il suo giardino di delizie, il rifugio dalle tempeste dell’impero. Un paradiso dell’assolutismo medioevale dominato da un uomo assetato di potere e di sapere, colto e a tratti illuminato, conoscitore del latino, del greco e dell’arabo, curioso di arti e di scienze. «Il regno di Federico II non aveva una capitale vera e propria», spiega Raffaele Giannantonio, docente di storia dell’architettura all’Università di Chieti e Pescara. «L’unità era assicurata dagli spostamenti attraverso le regioni dello

LAMA DA RE Spada da cerimonia con l’aquila imperiale usata nel 1220 per l’incoronazione di Federico II a Roma.

Siciliani biondii e con la pellle chiara

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isici scolpiti, alta statura, barba e capelli rossi o biondi: a un primo sguardo i Normanni – una popolazione di origine scandinava giunta in Sicilia all’inizio del secondo millennio – sembrerebbero avere poco a che spartire con i siciliani. Ma anche

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loro, come altri popoli giunti nell’antichità, hanno lasciato un’eredità genetica sull’isola. Ai grandi occhi scuri e al viso ovale che i Greci hanno dato ai siciliani orientali, infatti, fanno da contraltare nella Sicilia Centrale e Occidentale uomini e donne di statura elevata,

capelli biondi e pelle chiara. Lo confermano gli studi del genetista Luca Cavalli Sforza, secondo il quale i siciliani nord-occidentali sarebbero più simili agli abitanti del Nord Europa. Dalla Francia. I Normanni si erano messi in viaggio dalla

Scandinavia all’inizio del X secolo. Quando, dopo aver sostato in Normandia, arrivarono dalle nostre parti (ne sono state trovate tracce già intorno al 999 a Salerno) parlavano ormai il francese ed erano considerati Franchi (in Italia li definivano “Franci”). (m.l.l.)

MIX DI CULTURE San Giovanni degli Eremiti a Palermo: dopo essere stata moschea (la città aveva subito la dominazione araba), nel 1136 fu convertita in chiesa dal re normanno Ruggero II, nonno di Federico II.

stesso re, che lì riuniva i parlamenti. Per migliorare il sistema delle entrate, Federico II curò l’organizzazione delle finanze e del fisco, con una rete di uffici periferici coordinati da una sorta di Corte dei conti centrale, così che a formare la nuova classe dirigente locale furono numerosi “funzionari-banchieri”». Da padrone assoluto, Federico II si poté permettere anche una legislazione che contemplava i diritti delle donne, le cure gratuite ai poveri, norme igieniche per aria e acqua. Concesse qualche libertà agli ebrei e concentrò a Lucera i “saraceni”, liberi di professare la propria religione a pochi chilometri dal palazzo reale di Foggia. Il regno era il granaio d’Europa e le esportazioni fornivano i fondi necessari per mantenere il controllo politico e militare. Per questo Federico II incrementò l’agricoltura e ripristinò il sistema doganale normanno, imponendo dazi alle merci in uscita. I contadini beneficiavano di condizioni agevolate per la messa a coltura dei terreni di sua proprietà, ma come tutti dovevano soggiacere a una pesante tassazione. Dalle masserie regie (aziende agricole di Stato) arrivavano anche i cavalli destinati agli

arcieri arabi, che con la cavalleria pesante germanica costituivano il nerbo dell’esercito. Libri, poeti e falconi. La macchina statale doveva marciare a pieno regime anche per finanziare le iniziative culturali, come la fondazione dell’Università di Napoli (1224) o il rafforzamento della scuola di medicina di Salerno. Oltre ai saltimbanchi, a corte si aggiravano alcune tra le menti più brillanti d’Europa e del Mediterraneo; accanto a loro c’erano i traduttori dall’arabo e dal greco, impegnati con le opere naturalistiche di Aristotele, e i poeti in volgare della scuola che poi sarà detta “siciliana”. Ma il passatempo preferito di Federico, quello a cui avrebbe dedicato un trattato ricco di miniature, era la caccia con il falcone. Un amore che gli sarebbe costato caro durante l’assedio di Parma del 1248, quando proprio per una battuta di caccia lasciò sguarnito l’accampamento reale, che fu saccheggiato dai cittadini. La parabola del suo astro volgeva ormai al termine, lo Stupor mundi (“Meraviglia del mondo”) sarebbe morto due anni dopo. t Carlo Migliavacca

Le radicci del Meridione

A LAIF/CONTRASTO

l suo apice, il regno dei Normanni in Italia arrivò a coprire una superficie di circa 100mila chilometri quadrati (un terzo della Penisola): si estendeva tra Sicilia, Calabria e Puglia ed era abitato da circa 4,5 milioni di persone. Mercenari. In origine questo popolo era costituito da guerrieri che vivevano in modo spartano e si schieravano con chiunque in cambio di terre e denari. Erano anche individualisti e divisi tra loro, almeno fino a quando Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo, riuscì a compattarli e a ottenere un’importante vittoria contro papa Leone IX a Civitate (Fg) nel 1053. In nome di Dio. A quel punto la situazione cambiò, perché Roma si convinse che era meglio averli come alleati. La situazione politica del Mezzogiorno, infatti, era disastrata: la Sicilia era

in mano agli Arabi, il resto del Mezzogiorno dominato dai Bizantini (di rito greco) e il potere di Roma ormai al lumicino dopo lo scisma con la Chiesa d’Oriente del 1054. I Normanni erano le uniche spade in grado di ridare al pontefice il controllo del Meridione. Per questo Niccolò II, successore di Leone IX, nel 1059 li nominò feudatari di tutte le terre conquistate e persino della Sicilia, su cui non avevano ancora messo piede. Multietnici. Quasi un secolo dopo Ruggero II, pronipote del Guiscardo, ricevette dall’antipapa Anacleto II la corona del Regno di Sicilia. Era il 1130, e un normanno era a capo di un regno unitario popolato da musulmani, cristiani ed ebrei. Un regno che, passando di mano in mano, sarebbe sopravvissuto per più di sette secoli, fino all’Unità d’Italia. (m.l.l.)

LORENZO DE’ MEDICI - 1449

A 20 anni era già il signore di FIRENZE. E non solo in senso politico: come un direttore d’orchestra, indirizzò la cultura di un’intera EPOCA

IL MAGNIFICO

LORENZO

SCALA

TRATTATIVA Principi rinascimentali a confronto: Lorenzo e Galeazzo Maria Sforza, duca di Milano, che morì in chiesa pugnalato.

L

a notte del 5 aprile 1492 un fulmine squarciò il cielo di Firenze e si abbatté sulla cattedrale di Santa Maria del Fiore. Il frate Girolamo Savonarola lo vide subito come un presagio di sventura: “Ecco la spada del Signore sopra la terra”. Tre giorni più tardi l’intera città avrebbe pianto la scomparsa di Lorenzo de’ Medici, l’uomo la cui luce aveva illuminato l’arte, la cultura e la politica italiana del XV secolo. Subito protagonista. Tutto ebbe inizio quando Giovanni di Bicci, bisnonno di Lorenzo, fondò una banca che divenne in poco tempo la prima d’Europa, trasformando i Medici in una delle famiglie più ricche di Firenze. Il figlio di Giovanni, Cosimo detto il Vecchio, aggiunse al senso per gli affari una buona dose di malizia politica: sfruttò la ricchezza per inserirsi nell’amministrazione della città e si distinse come promotore della cultura e dell’arte, utilizzate per dar lustro al proprio nome. Rientrò in quest’ottica la scelta di affidare a uno degli architetti più prestigiosi del tempo, Michelozzo, i lavori per la nuova residenza di famiglia (Palazzo Medici Riccardi, in via Cavour). Alla morte di Cosimo si fece strada il figlio Piero, detto il Gottoso. Dal suo matrimonio con Lucrezia Tornabuoni nacque, il 1° gennaio del 1449, Lorenzo, seguito quattro anni dopo da Giuliano. Il ragazzo ricevette un’accurata educazione sbalordendo per la sua intelligenza e per la passione che metteva in ogni cosa: già a 12 anni scriveva versi, suonava la lira e brillava nelle attività sportive. L’umanista Angelo Poliziano scriverà che era “un uomo nato a grandi cose, e in tutte ugualmente si distingueva”. Lorenzo fu subito introdotto nel mondo che contava: a 5 anni venne presentato al duca Giovanni II d’Angiò, a 10 prese parte ai festeggiamenti per il futuro duca di Milano Galeazzo Maria Sforza, a soli 16 fu inviato a Roma in visita ufficiale da papa Paolo II e poi a Napoli, alla corte di Ferdinando I d’Aragona. Matrimonio d’interesse. Seppur educato agli affari e alla politica, Lorenzo rimaneva un ragazzo che amava divertirsi con gli amici, scrivere poesie e correre dietro alle giovani donzelle. Tra queste ve ne era una che aveva conquistato il suo cuore, la fiorentina Lucrezia Donati, ma la ragion di Stato gli riservò Clarice Orsini, nobildonna romana la cui famiglia possedeva importanti proprietà terriere. Il matrimonio si celebrò a Firenze il 4 giugno del 1469, ma lo sposo non esitò a parlare di “mariage de convenance”. Sei mesi più tardi, Piero il Gottoso morì e Lorenzo si ritrovò alla guida della città. Non impiegò molto a mostrare grandi capacità, integrando alla perfezione le sue due nature di letterato e politico. Il giovane Medici era, prima di tutto, un cultore

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THE ART ARCHIVE SCALA

LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO

Da artista e letterato, Lorenzo DE’ MEDICI si circondava di filosofi e pittori e FINANZIAVA l’arte dell’arte e delle humanae litterae, figlio di un’epoca passata alla storia come Rinascimento. Mecenate. Lo studio della filosofia, la promozione dell’arte e la riscoperta della cultura greca e romana erano considerati in quegli anni la miglior via per superare i secoli bui del Medioevo. Così la pensava anche Lorenzo, che si dilettò come scrittore e si distinse quale generoso mecenate, guadagnandosi l’appellativo di “Magnifico”. Altrettanto magnifica fu la sua corte, frequentata da letterati e artisti dello spessore di Leon Battista Alberti, Sandro Botticelli, Filippino Lippi, Antonio Pollaiolo, Antonio e Giuliano da Sangallo, Andrea del Verrocchio e da un giovanissimo Michelangelo. Come un direttore d’orchestra, Lorenzo indirizzò la cultura di un’intera epoca. Tra i suoi intimi c’erano i più brillanti pensatori del tempo: Pico della Mirandola, Angelo Poliziano e Marsilio Ficino (fu lui, massimo esponente del neoplatonismo, a chiamare Lorenzo “figlio del Sole”). Con loro andava nella villa di Careggi a conversare di filosofia, bellezza e contemplazione. L’ago della bilancia. Il Magnifico indirizzò i primi anni della sua signoria all’ordinamento inter22

no di Firenze e alla pacificazione dei focolai di rivolta, smorzando con maestria le tensioni tra alcune città. Si conquistò così il nuovo appellativo di “ago della bilancia italiana”. Ma a dare uno strattone ai piatti della bilancia ci pensò papa Sisto IV, che voleva piazzare a Firenze come arcivescovo Francesco Salviati (parente dei Pazzi, i nemici giurati dei Medici). Da parte sua Lorenzo strinse nel 1474 un’alleanza con la Repubblica di Venezia e con il Ducato di Milano, mentre il re di Napoli Ferdinando I prese le parti del papa. Tutti parevano sul piede di guerra, ma invece di una battaglia ci fu una cospirazione. La congiura. Banchieri anche loro, i Pazzi mal digerivano lo strapotere dei Medici. Idearono allora un piano per eliminare Lorenzo e il fratello Giuliano. Luogo prescelto: Santa Maria del Fiore. Giorno: 26 aprile 1478, durante la messa. Ma mentre il fratello moriva trafitto dalla spada del sicario, Lorenzo riuscì a scappare rimediando solo una piccola ferita. La notizia fece il giro della città e quando il Magnifico si affacciò vivo dalla sua dimora iniziò una spietata caccia all’uomo al grido di “Palle, palle!” (le “palle” erano effigiate sul blasone dei Medici).

MATRIMONIO COMBINATO A sinistra, Clarice Orsini, moglie del Magnifico, scelta dalla madre di Lorenzo per i suoi beni e la posizione. A destra, dipinto da un anonimo, questo ritratto di Lorenzo si trova a Palazzo Medici Riccardi. Dietro di lui, la Firenze del ’400.

LA CULLA DEL RINASCIMENTO Piazza della Signoria a Firenze, in un dipinto ottocentesco, con in primo piano Palazzo Vecchio, da sempre sede del potere politico. All’epoca del Magnifico la città era una delle più potenti d’Italia.

L’arcivescovo Salviati e Francesco Pazzi furono impiccati e poi esposti dalle finestre di Palazzo Vecchio, Jacopo Pazzi fu appeso e poi buttato in Arno. Senza che Lorenzo si sporcasse le mani, il popolo linciò decine di congiurati. La famiglia Pazzi fu cancellata dalla faccia della terra. Il Magnifico ne uscì più forte di prima, ma Sisto IV lo scomunicò e si preparò alla guerra. Fama in crescita. Il pontefice spinse le truppe verso Firenze, Lorenzo organizzò allora il suo capolavoro diplomatico: con una mossa a sorpresa, il 6 dicembre 1479 partì in gran segreto per Napoli, in visita a Ferdinando I, riuscendo a persuadere il re a sciogliere l’alleanza con il papa. Sisto IV rimase così isolato e Lorenzo tornò a Firenze da eroe. “Era parso un grande andandosene, appariva grandissimo tornando”, scrisse molti anni dopo Niccolò Machiavelli. Il potere era ormai tutto nelle sue mani, ma anche gli storici più severi non mancano di sottolineare come Lorenzo fosse amato dal suo popolo. Merito forse del fiorire delle arti e del susseguirsi di feste e giostre che avevano reso Firenze il palcoscenico personale dei Medici. Unica voce fuori dal coro era quella del frate do-

menicano Girolamo Savonarola, che in quegli anni infiammava Firenze con lunghe arringhe contro la condotta viziosa e priva di morale della città e del suo signore. Il Magnifico non fece però mai nulla per allontanare il frate ostile: tra tutti i suoi nemici, era l’unico che parlava nel nome di Dio e meritava rispetto. Cala il sipario. Lorenzo fu abile a dialogare, ottenendo la pace siglata nel 1486. I piatti della bilancia erano di nuovo in equilibrio. La salute del Magnifico iniziava però a peggiorare (soffriva di gotta come il padre, detto Gottoso non a caso). Ormai vedovo, si trasferì a Careggi in cerca di riposo. Qui ricevette la visita degli amici e persino del Savonarola. La luce del “figlio del Sole” si spense l’8 aprile del 1492. Accanto a lui il secondogenito Piero (Lorenzo ebbe nove figli), gli amici Pico della Mirandola e Angelo Poliziano. Appena due anni prima aveva scritto una poesia, la Canzona di Bacco. Iniziava con due versi che ancora oggi sono il miglior riassunto della sua filosofia di vita e dell’epoca in cui visse: “Quant’è bella giovinezza, che si fugge tuttavia! Chi vuol essere lieto, sia: di doman non c’è certezza”.t Matteo Liberti 23

AGOSTINO CHIGI - 1465

IL DEI

PAPI

Accorto, FORTUNATO, ricchissimo: ai primi del ’500, con il suo DENA ARO, il banchiere senese salvò dalla BANCAROTTA A anche la SANTA SEDE

LIBRI CONTABILI Alla fine del ’400 i Medici (qui, un loro registro) persero la gestione delle finanze vaticane. In favore di Agostino Chigi.

CONTRASTO

Sotto, Agostino Chigi il Magnifico (1465-1520): secondo le cronache del tempo era il banchiere più ricco del Vecchio Continente. In alto a destra, d’oro (come questi di Milano) o d’argento, i ducati furono la moneta di molti Stati rinascimentali.

sempre meno “operaia”. Le cronache di allora (facile che esagerassero) annotano che, al culmine della sua parabola, Chigi era diventato il più ricco banchiere d’Europa, con un patrimonio di 800mila ducati (circa 100 milioni di euro di oggi) e una rendita annua di 70mila. La sua argenteria, si narra, era più consistente di quella di tutta la nobiltà romana. Ma, come la maggior parte della classe dirigente dell’epoca, non si accorse delle secche verso cui stava navigando il Paese: la rinuncia a investire in potenza per spendere in magnificenza fu una delle cause dell’indebolimento del nostro sistema economico e del fallimento degli Stati regionali (ricchi, straboccanti di quadri e sculture, ma disuniti). Colpo di fortuna. Agostino fece una carriera al fulmicotone. Il padre Mariano, mercante, era stato consigliere della signoria di Siena e ambasciatore presso il papa. A Viterbo e nella città natale aveva fondato due piccoli banchi. «Fin dal Basso Medioevo», dice Giampiero Nigro, che a Prato dirige l’Istituto internazionale di storia economica F. Datini (www.istitutodatini.it), «le attività di mercante e di banchiere si confondevano: i banchieri prestavano denaro ai sovrani e, in cambio, ottenevano vantaggi fiscali e monopoli commerciali». Compiuto l’apprendistato con il padre, Agostino venne mandato a Roma per lavorare al banco del conterraneo Ambrogio Spannocchi. Chigi aveva 22 anni e la provvidenza – è proprio il caso di dirlo – gli diede una mano. «Pochi anni dopo salì al soglio pontificio Alessandro VI, un Borgia che tolse ai Medici, banchieri fiorentini in odore di decadenza, la gestione della Camera apostolica, l’organo finanziario del Vaticano», dice Nigro. Al loro posto si fece avanti lo Spannocchi, e il papa lo accolse a braccia aperte. Agostino capì che quella era la sua occasione. Bravo, ruffiano, rubò la scena al maestro: finanziò i capricci del pontefice, pagò le imprese belliche del figlio Cesare (il “duca Valentino”) e, nei momenti di crisi, riempì i granai della Santa Sede. Grande disponibilità. Il papa ricambiò: «Agostino», spiega Nigro, «ottenne in concessione la direzione delle imposte e delle saline dello Stato Pontificio, e poi della dogana dei pascoli, che faceva pagare una gabella sulla transumanza del bestiame». Il giovane Chigi, da un mese all’altro, si ritrovò con una montagna di soldi in tasca. Quando, nel 1496, Piero de’ Medici gli chiese 4mila ducati in prestito, Agostino non ci pensò due volte: sborsò il contante e in pegno si fece dare “167 cammei incasto25

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LESSING/CONTRASTO

IL PIÙ RICCO D’EUROPA

A

veva le amicizie giuste, una dialettica efficace, un padre che non perdeva il sonno per pagare l’affitto, una donna bellissima che prima fece rapire e poi sposò. Se è vero che tanti storici hanno definito il Rinascimento “un dono avvelenato” (per il tramonto economico e politico che ne seguì) quello di Agostino Chigi, nato a Siena nel 1465, fu un dono e basta. Geniale, un po’ spregiudicato, di cultura traballante (ma aperto a idee e suggerimenti) Agostino incarnò in modo impeccabile la finanza italiana del Cinquecento, ansiosa di arricchirsi e di nobilitarsi, un po’ meno di strapazzarsi di fatica. Vivere di rendita. Timorati di Dio, martoriati dalla peste, dall’XI secolo in poi i mercanti locali erano stati viaggiatori instancabili, inquieti, assillati dai guadagni e dal futuro: la loro, aveva scritto Francesco Datini, grande imprenditore pratese di origini modeste, era stata “una vita da chani”. Per Agostino non fu così: il senese (e tanti altri come lui) fu il prototipo di un’Italia sazia e sfarzosa, sempre più capitalista e munifica protettrice dell’arte,

Al banco dei pegni

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LESSING/CONTRASTO

monti di pietà nacquero in Italia nel XV secolo su iniziativa del movimento francescano. Obiettivo degli istituti era combattere l’usura (già all’epoca vietata ma ampiamente praticata) ed erogare piccoli prestiti alle persone meno abbienti in cambio di un pegno. I monti, in genere, si rivolgevano agli abitanti delle città, poiché i contadini disponevano raramente di oggetti da impegnare che non fossero utensili o semenze. Quando

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il debito era appiaManassei. In seguito, nato, il pegno veniva grazie a donazioni restituito. pubbliche e private, Guadagni. Fin da ne furono fondati subito si accese un molti altri, soprattutto dibattito se i monti nell’Italia Centrodovessero o meno Settentrionale. I monti applicare interessi: di pietà furono di fatto gran parte di essi, alla i primi finanziatori del fine, si accordarono su credito al consumo, una percentuale che quello che oggi, tanto variava fra il 3 e il 10%. per intendersi, viene La giustificazione fu erogato per acquiche un utile era neces- stare computer o sario per consentire automobili. la sopravvivenza di questi istituti. Consumismo. Il più CONTRO L’USURA antico monte di Un predicatore invita a pietà risale al 1462 e costituire un monte di fu aperto a Perugia pietà: una via per arrivare al dal monaco Barnaba paradiso (stampa del 1494).

Una sala di villa Farnesina. Fatta costruire da Agostino Chigi come sua abitazione, fu la prima residenza patrizia fuori dalle mura di Roma. Sotto, Il cambiavalute, dipinto del XVI secolo. In realtà, era un semplice usuraio.

nati in tavolette d’argento e 15 balle di arazzi, stoffe e pietre preziose”. Tra il XV e il XVI secolo l’Italia era un Paese benestante: al centro delle principali rotte commerciali tra il Mediterraneo e il Mare del Nord, era divenuta, con la sua rete di banche, la cassaforte d’Europa. Il problema è che a governarla, in un nepotismo dilagante, c’era una miriade di principi spendaccioni e con pochi liquidi. Le banconote ancora non esistevano e le monete erano scarse. Chi, come Agostino, se lo poteva permettere, accorreva a sostegno del debito pubblico: i crediti rientravano con lauti interessi e, anche se non rientravano, servivano ad alimentare il potere personale di commercianti e finanzieri. Il senese lo aveva capito. Nel 1502, con il padre e il fidato amico Francesco Tommasi, fondò a Roma il Banco Chigi. Neppure quarantenne, era uno degli uomini più ascoltati e rispettati della capitale. «L’anno prima», osserva Nigro, «aveva anche avuto dal papa l’appalto per l’estrazione di alunite dalle cave dei Monti della Tolfa». L’alunite è un solfato da cui si ricavava una sostanza (l’allume) insostituibile nei processi di fissaggio dei colori, di produzione del vetro, di lavorazione della lana e di concia delle pelli. Le cave rendevano ad Agostino cifre enormi: per conservare il minerale e avere uno sbocco diretto al mare, acquistò Porto Ercole (Grosseto) per 20mi-

FOTOTECA STORICA GILARDI

ALINARI

VIA DAL CAOS DELLA CITTÀ

PALAZZO CHIGI, sede del governo italiano, deve il nome a un PRONIPOTE di Agostino la ducati, rocca e castello compresi. La sede centrale del Banco Chigi fu aperta in via dei Banchi (l’attuale via romana del Banco di Santo Spirito) lungo la strada che si percorreva per entrare nella cittadella pontificia. Attigua all’ufficio, c’era l’abitazione di Agostino. Con circa 20mila dipendenti e cento navi, le sue attività erano arrivate dappertutto: controllava società e aveva decine di agenti a Londra, al Cairo, ad Anversa e a Costantinopoli. Incontri da salotto. È a questi anni che risale anche il suo mecenatismo. Stanco del trambusto di via dei Banchi, commissionò all’architetto Baldassarre Peruzzi una villa faraonica. «Chiamata in seguito Farnesina (perché acquistata dai Farnese nel 1577), venne costruita sulla riva destra del Tevere, ai margini della città abitata», dice Sergio Guarino, storico dell’arte alla Pinacoteca Capitolina. Gli affreschi al suo interno, ispirati alla mitologia classica, furono realizzati da Peruzzi e da artisti come Sebastiano del Piombo, il Sodoma e, soprattutto, Raffaello: suo è il celebre Trionfo di Galatea (una ninfa del mare). Chigi fece della villa uno dei luoghi più incantevoli della Roma rinascimentale: vi incontrava letterati (come il Bembo e l’Aretino), artisti, cardinali. Si racconta che i piatti d’oro e d’argento usati per i banchetti venissero alla fine gettati nelle acque del Tevere (dove però venivano recuperati da un invisibile sistema di reti). Chigi, invischiato in un’aspra disputa con gli eredi Spannocchi, aveva conosciuto Raffaello nel 1510: «Tra i due si era subito instaurata un’amicizia sincera», continua Guarino. «Insieme alla Galatea, Raffaello ricevette da Agostino anche l’incarico di decorare la cappella Chigi, nella chiesa di Santa Maria della Pace». Una seconda cappella, progettata dallo stesso urbinate, fu costruita a Santa Maria del Popolo e scelta da Chigi come luogo di sepoltura. Quelle della cappella Chigi furono fra le prime opere pubbliche di Raffaello e vennero accolte con un entusiasmo straordinario (ricordato da Giorgio Vasari). A villa Farnesina (da non confondere con l’attuale sede del ministero degli Esteri) Chigi celebrò anche le nozze con Francesca Andreazza. Il rapporto con la donna (seconda moglie dopo la senese Margherita Saracini) non fu facile: Agostino l’aveva fatta rapire sette anni prima, e solo nel 1519 si decise a sposarla. Il rito fu officiato dal papa Leone X, che aveva insistito perché Agostino regolarizzasse la sua posizione. Denaro liquido. Ma prima di Leone X, a segnare la biografia di Agostino era stato un altro pontefice: Giulio II. Nemico giurato dei Borgia, 27

Giulio veniva dalla famiglia Della Rovere. «Agostino, che si era compromesso con Alessandro VI, sfoderò col nuovo papa abilità diplomatiche non indifferenti», dice Giampiero Nigro. Il Borgia aveva lasciato le finanze vaticane sull’orlo del baratro e Giulio II, per risanarle, aveva urgente bisogno di liquidità. Il Chigi era uno dei pochissimi finanzieri “romani” in grado di soccorrerlo. Il papa dimenticò il vecchio astio e accettò l’offerta. Agostino non si risparmiò e Giulio, in segno di riconoscenza, gli riconfermò tutti gli incarichi. Il prestito più cospicuo fu superiore ai 40mila ducati (5 milioni di euro attuali): «Agostino, in quell’occasione, si fece dare in pegno la mitra di Paolo II», fa notare Nigro. Ma, come con tutti i sovrani, fu sempre molto paziente nel chiedere i rimborsi, perché sapeva quanto contassero certe amicizie. Al contrario, si dimostrò inflessibile con i privati. Agostino era un arrampicatore: «Sfruttando anche meriti non propri», dice Sergio Guarino, «divenne il banchiere ufficiale della Chiesa e, mentre lo Stato senese gli as28

segnava l’appellativo di Magnifico, dal papa ebbe la facoltà di inquartare lo stemma di famiglia con la quercia dei Della Rovere». Eredi in lotta. Meno di un anno dopo il matrimonio con Francesca Andreazza, Agostino morì: aveva 55 anni. Ai funerali parteciparono più di 5mila persone e al corteo funebre si unirono anche le 86 carrozze della famiglia pontificia. Lasciò un’eredità di 400mila ducati, tenute, castelli e una quantità immensa di sculture, pitture, tappeti, arazzi. Francesca fu avvelenata sette mesi dopo e fra gli eredi si scatenò una lotta accesissima. Nello stesso anno morì anche l’amico Raffaello. Se per i Chigi si aprì una parentesi buia (ma passeggera), per l’Italia dei “principini” si chiuse l’età dell’oro: la scoperta dell’America stava cambiando il mondo. Il Paese non resse il passo e il testimone della più grande potenza mercantile occidentale passò, alle soglie del XVII secolo, alle metropoli t del Nord Europa. Michele Scozzai

ARALDO DE LUCA

Al funerale di CHIGI furono accese 250 TORCE. I CARDINALI ne avevano diritto a 100

PACE SONTUOSA La cappella Chigi, nella chiesa romana di Santa Maria del Popolo, progettata da Raffaello su commissione di Agostino Chigi per la sua sepoltura.

NICCOLÒ MACHIAVELLI - 1469

Fu un buon segretario della Repubblica FIORENTINA e un acuto PENSATORE. Ma era anche un BURLONE, che amava la COMPAGNIA degli amici e delle donne

UN SEGRETARIO

FINE DI UN’EPOCA Carlo VIII, re di Francia, entra a Firenze nel 1494. I Medici vengono cacciati e si instaura la repubblica, per la quale Machiavelli lavorò per molti anni come segretario della seconda Cancelleria.

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FILOSOFO E... BURLONE Ritratto del filosofo e politico fiorentino Niccolò Machiavelli (1469-1527) dipinto da Benedetto Crespi, detto il Bustino.

SCALA (2)

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veva trattato con re, signori e cardinali e discusso questioni militari e politiche di primaria importanza. Aveva fatto perfino il ghost writer. Eppure rimase senza lavoro. E per riaverlo, come fanno tutti, mandò ai potenziali nuovi datori di lavoro una lunghissima “lettera” di presentazione, a cui dette anche un titolo: Il Principe (1513). Non pensando, con questo scritto, di passare alla Storia. Quando lo compilò, infatti, Niccolò aveva perso quello a cui più era affezionato, il suo posto. Era stato segretario della Cancelleria della Repubblica fiorentina ininterrottamente per 14 anni, dal giugno del 1498 al novembre del 1512 e con questo scritto avrebbe voluto convincere i Medici, di nuovo signori di Firenze, a riassumerlo dimostrando che conosceva bene gli affari di Stato e i problemi internazionali. Un’ottima partenza. La sua carriera era cominciata in modo fulminante. Cinque giorni dopo il rogo in piazza del frate Girolamo Savonarola, nel 1498, il Consiglio degli ottanta della Repubblica fiorentina lo aveva proposto come segretario. E di lì a poco Machiavelli era divenuto anche segretario della magistratura dei Dieci di libertà e pace, con compiti di politica interna ed estera. Perché la scelta fosse ricaduta proprio su di lui non si sa, non era dottore in legge e nemmeno un letterato di fama: all’epoca era uno sconosciuto trentenne con poca, per non dire nessuna, esperienza nelle cose di Stato e oltretutto rampollo di una famiglia sì conosciuta ma non così in vista. Il padre, Bernardo, era dottore in legge, ma talmente avversato dalla fortuna da dichiararsi egli stesso figlio illegittimo del casato. Il magro sostentamento proveniva in massima parte dalle proprietà che servivano a mantenere la moglie Bartolomea de Nelli, le due figlie dai nomi vezzosi, Primavera e Margherita, Niccolò, primo figlio maschio, nato il 3 maggio 1469, e il piccolo Totto, nato nel 1475. Bernardo con la sua professione guadagnava ben poco, a differenza della maggior parte degli avvocati e notai dell’epoca, forse perché il suo lavoro non lo appassionava e l’unica sua consolazione erano i libri, la storia e la filosofia antica. Certamente la sua piccola biblioteca personale ebbe un ruolo importante nella formazione del giovane Niccolò. Non solo, padre e figlio erano molto legati, avevano in comune il piacere di stare in compagnia e la battuta sempre pronta. Un assaggio di questo sarcasmo che non risparmiava nessuno lo ebbe un frate della Basili-

SCALA

Per il segretario fiorentino la RELIGIONE era uno strumento del quale un PRINCIPE si doveva servire per ottenere il CONSENSO del popolo, che è necessario per GOVERNARE

GIOVANI PROMESSE Giovanni dalle Bande Nere in un ritratto del XVI secolo. Secondo Machiavelli il condottiero avrebbe potuto salvare l’Italia dallo straniero. Ma morì a soli 28 anni in battaglia (nel 1526). Sotto, alla battaglia di Marignano (1515), qui ritratta, partecipò anche Machiavelli con il compito di organizzare le truppe di Giovanni dalle Bande Nere.

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del calibro di Caterina Sforza, contessa di Forlì, e con uomini potenti come il re di Francia e il cardinale di Rouen, quando si trovò di fronte al Valentino rimase colpito come mai prima. Il giovane condottiero a soli 27 anni aveva già conquistato Rimini, Pesaro, Imola, Faenza, Forlì e da poche ore anche Urbino, nel cui Palazzo il segretario fu ricevuto. Alle due di notte il duca stava rinchiuso nelle sue stanze circondato solo da pochi e fidatissimi uomini. Machiavelli, che se lo trovò davanti illuminato solo da una fioca luce di candela, provò fin da subito per quell’uomo una grande ammirazione. Ebbe anche modo di sperimentare sulla sua pelle le capacità oratorie e la determinazione del condottiero e del politico quando questi lo convinse a farsi dare 36mila fiorini dalla Repubblica in cambio della pace. Così Firenze si salvò da un possibile attacco, ma si rese conto che era debole. I politici rimanevano in carica solo pochi mesi e non vi era un responsabile unico del governo. Per rimediare, nel 1502 si decise di istituire la carica di gonfaloniere a vita. Per questo compito fu scelto Pier Soderini, a cui l’ormai famoso segretario fiorentino scrisse perfino il discorso di insediamento del nuovo governatore. Non solo, con Soderini Machiavelli lavorò a stretto contatto: il gonfaloniere si fidava di Niccolò e finalmente i suoi consigli erano ascoltati. Insieme decisero di istituire una milizia di leva per evitare di arruolare i mercenari, più interessati ai soldi che alla patria. Ma dopo dieci anni inaspettatamente la vita di Machiavelli cambiò per sempre. La caduta. Il 7 novembre 1512 un comunicato della Signoria lo informò che da quel momento non era più segretario della Seconda cancelleria e nemmeno dei Dieci. Era stato licenziato e anche con disonore: un’ingiunzione

ANCORA A PALAZZO Machiavelli in un dipinto di Santi di Tito conservato in quel palazzo che fu tanto caro al fiorentino, Palazzo Vecchio, dove lavorò come segretario della Repubblica.

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ca di Santa Croce quando informò Niccolò che alcuni cadaveri erano stati seppelliti di nascosto nella cappella di famiglia e si sentì rispondere che il padre era amante della conversazione e quanti più fossero andati a intrattenerlo tanto più a lui avrebbe fatto piacere. Machiavelli padre lasciò poche ricchezze materiali ai figli, ma molte qualità morali e un grande amore per le lettere, i classici e il bello scrivere. La madre di Niccolò, di cui poco si sa, pare che fosse una donna colta, che scriveva poesie (ma purtroppo non ci sono pervenute). Quando Niccolò era poco più che ventenne, oltre alle scarse finanze, dovette fare i conti anche con una realtà che stava cambiando. Finita l’epoca di Lorenzo il Magnifico (1492), i suoi figli non erano in grado di gestire con altrettanta destrezza la cosa pubblica, al punto che persero la città. Alla discesa in Italia del re di Francia Carlo VIII, nel 1494, Piero de’ Medici, uomo pavido e inconcludente, tentò di trattare con lui, finendo per consegnargli la città. Piero fu così cacciato insieme alla sua famiglia dai cittadini. Si aprì per Firenze un periodo di autonomia dalla famiglia Medici, nella quale Machiavelli ebbe un ruolo importante, anche se non di primo piano. Tra i suoi compiti vi era quello di informare i Signori sulle questioni militari per orientarne le scelte politiche. Vizi privati. Niccolò era sempre in giro per il mondo, e durante i suoi lunghi soggiorni in Italia e in Europa i suoi amici lo reclamavano. A Palazzo Vecchio, con i suoi collaboratori, aveva messo in piedi una brigata con cui passava il tempo nelle osterie a ridere, scherzare e giocare. Ma delle sue lunghe assenze si lamentava soprattutto la moglie, Marietta Corsini. A 32 anni, infatti, Niccolò aveva sposato − forse per convenienza − una donna di rango leggermente più alto del suo. Nonostante il matrimonio le sue abitudini non cambiarono ed egli continuò a fare la solita vita: sempre in viaggio. Non assistette nemmeno alla nascita di qualcuno dei suoi numerosi figli (Primerana, Bernardo, Lodovico, Guido, Piero, Baccina e Totto) e soprattutto continuò a non disdegnare la compagnia femminile. La consorte non mancava di fargliela pagare nell’unico modo in cui poteva farlo: non gli scriveva e si lamentava con gli amici. Ma lui non aveva intenzione di cambiare la sua vita. Il problema era che niente lo appassionava di più del suo lavoro. E quando i signori di Firenze lo inviavano a sondare gli umori di qualche potente, lui montava a cavallo e non si fermava fino a quando non giungeva a destinazione. Pubbliche virtù. Indubbiamente uno dei lavori più importanti fu quello svolto alla corte del duca Valentino, al secolo Cesare Borgia. Niccolò, che aveva trattato con gente

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achiavelli non avrebbe mai pensato che un giorno sarebbe stato trasformato in un aggettivo. E nemmeno uno dei più simpatici. Il termine “machiavellico” infatti è sinonimo di cinico, freddo e calcolatore. Meno che mai poteva pensare che 50 anni dopo la morte sarebbe stato considerato padre morale di scempi come la strage di San Bartolomeo a Parigi, nella quale i cattolici sterminarono gli ugonotti. Eredità scomode. Tutta colpa della fatidica frase “il fine giustifica i mezzi” che sottende che si possa sottomettere ogni legge morale alla ragion di Stato. Peccato che Machiavelli quella frase non l’abbia mai scritta e nemmeno pensata, è solo frutto di un’interpretazione semplicistica del

suo pensiero, in realtà molto complesso. Esempio ne è il capitolo del Principe, considerato uno dei più scabrosi, nel quale parla della crudeltà e della pietà e se è meglio per un principe essere amato o temuto. Scrive Machiavelli: "Era tenuto Cesare Borgia crudele: nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede" (XVI capitolo). Il principe ideale deve essere sì considerato pietoso e non crudele, ma deve stare molto attento a non usare male questa pietà. Essere troppo buono può creare danni, così come essere troppo crudele per lungo tempo. Ideali senza ideologia. Negli altri capitoli, spiega che il principe dovrebbe avere la capacità di essere "golpe

e lione", cioè volpe per l’astuzia e leone per la forza; essere simulatore e dissimulatore allo stesso tempo. Alcune di queste caratteristiche le aveva notate nel Borgia. Il suo principe ideale era arrivato al potere grazie alla fortuna (per l’aiuto del padre, papa Alessandro VI) ma, proprio come doveva avvenire sempre in questi casi, aveva saputo mantenere il potere solo con le sue virtù di grande condottiero e bravo governante. Mentre scriveva questo trattato, che dedicò ai Medici, stava lavorando anche ai Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, nel quale si dedicò a una forma di Stato completamente diversa (e che conosceva bene): la repubblica. Questo dimostra che Machiavelli non voleva essere un ideologo, ma un teorico della politica.

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Vittima del proprio nome

TUTTI NEL SACCO Sopra, un ritratto presunto di Cesare Borgia. Sullo sfondo, i Lanzichenecchi verso Roma (Johannes Lingelbach, XVII secolo). Machiavelli tentò di evitare il sacco di Roma (1527) fino a pochi mesi prima di morire.

Nel “Principe” scrisse che il GOVERNANTE ideale deve conoscere e IMITARE i grandi esempi della STORIA ed evitare di circondarsi di CATTIVI CONSIGLIERI re compose alcune della sue opere più importanti: Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, poi l’Arte della guerra e le Istorie fiorentine. Roma umiliata. Nel 1527 i Lanzichenecchi al soldo dell’imperatore Carlo V marciarono su Roma e il 6 maggio la devastarono. A Firenze vennero cacciati i Medici e fu restaurata la repubblica. A questo punto Machiavelli, che era a Roma per soccorrere papa Clemente VII, tornò sperando di riavere il suo posto. Ma così non fu, era ormai considerato consigliere dei tiranni. I suoi scritti (soprattutto i Discorsi) su cui si erano formati tanti giovani repubblicani fiorentini erano stati strumentalizzati. Machiavelli morì poco dopo, il 21 giugno, ma forse più che per la peritonite acuta, che l’aveva colpito, patì per lo scempio che si stava consumando in Italia, con l’invasione degli imperiali a Roma. • Federica Ceccherini

CANUTO Machiavelli (qui in un ritratto conservato agli Uffizi) non abbandonò mai, nemmeno prima di morire, la speranza di tornare all’amato lavoro a Palazzo Vecchio.

SCALA

di qualche giorno dopo gli imponeva di rimanere fuori da Palazzo Vecchio per un anno, un versamento di mille fiorini e l’obbligo di non lasciare la città. Il motivo di questa decisione era dovuto al fatto che i Medici erano rientrati a Firenze e dopo essersi riassicurati il potere avevano fatto piazza pulita di tutto quello che li aveva preceduti. Sull’ex segretario fu aperta perfino un’inchiesta per indagare su come aveva speso i soldi stanziati per le milizie. L’inchiesta si concluse in un nulla di fatto, ma i guai non erano finiti. Dopo poco fu sventata una congiura contro i Medici, i promotori Pietro Paolo Boscoli, Agostino Capponi, Niccolò Valori e Giovanni Folchi furono arrestati. Tra i documenti dei congiurati però fu trovato, non si sa bene perché, il nome di Machiavelli. Niccolò fu arrestato, imprigionato e torturato per estorcergli uno straccio di confessione. Dalle sfarzose sale di Palazzo Vecchio era finito in una cella fredda e buia. Le strade erano due: piangersi addosso o reagire. Scelse la seconda: prese carta e penna e armato della sua ironia, scrisse a Giuliano de’ Medici non una pietosa lettera ma due sonetti nei quali raccontava con tutto il suo sarcasmo dei lacci ai piedi e dei segni di fune sulle spalle (a causa della tortura), dei pidocchi grandi come farfalle e della puzza più forte di quella che si respirava nel campo di battaglia di Roncisvalle coperto di cadaveri. Per non parlare della cella, un “ostello” allietato dal suono stridente dei chiavistelli e dalle urla dei torturati. Insomma un posto non adatto a un poeta, scriveva Machiavelli. Lo scrittore ci teneva, nonostante gli stenti, l’angoscia e il tormento, a sottolineare di essere sempre lo stesso, lo stesso burlone, il “Machia” come lo chiamavano gli amici. Il principe e gli altri. Finalmente dopo qualche mese fu graziato. Ma gli anni a venire furono per il segretario fiorentino pieni di amarezza, gli amici erano invecchiati e ingrigiti, la vita politica era lontana e le uniche attività che lo consolavano erano l’osteria dove si dedicava al gioco del tric e trac (simile al backgammon) e le serate passate con i personaggi antichi, i pensatori che ritrovava nel suo studio nella casa di Sant’Andrea in Percussina nella quale si era ritirato. Proprio in quel periodo scrisse Il Principe (v. riquadro nella pagina a fianco) che poi affidò a Francesco Vettori, ambasciatore presso l’allora papa Leone X (della famiglia Medici) perché lo sottoponesse al pontefice. A segui-

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DINASTIE

I CALIENTI

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AMANTE SEGRETO? Alessandro VI, al secolo Rodrigo de Borja, pontefice dal 1492 al 1503. Per alcuni, avrebbe avuto una relazione anche con la figlia Lucrezia.

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omanda: che cos’è la castità? Risposta: è una virtù che papi e cardinali si tramandano di padre in figlio. La battuta è impietosa ma non gratuita: chi l’ha inventata aveva presente l’esempio di una potente famiglia italo-spagnola del Rinascimento, da cui uscirono personaggi famosi, che di “castità ereditaria” erano campioni. Alcuni esempi: un cardinale che ebbe tre figli, un papa che ne contava nove e una duchessa che ne partorì otto da uomini diversi, compresi forse il papa e il cardinale già citati, che erano poi suo padre e suo fratello. Famigerati. In Spagna li chiamano Borja, in Italia Borgia. Un nome che da noi gode pessima fama, non senza qualche motivo: il cardinale Cesare (14751507) gettata la porpora divenne un politico e militare dal cinismo proverbiale, che ispirò Il Principe di Machiavelli; suo padre Rodrigo (1431-1503) alias papa Alessandro VI ridusse Roma a quella città-bordello che poi Lutero paragonò a Sodoma; infine la duchessa Lucrezia (1480-1519), intrigante e forse incestuosa, è ricordata come un archetipo di femminilità negativa, peggio della strega di Biancaneve. A creare la leggenda nera dei Borgia contribuirono molti, ma più di tutti Rodrigo, nato spagnolo, che diventò papa nel 1492 (l’anno della scoperta dell’America) e già prima di iniziare dimostrò di che pasta era, comprando il conclave. Uno storico romano dell’epoca, Stefano Infessura, scrisse che una notte quattro muli carichi d’argento andarono dal palazzo dei Borgia a quello di Ascanio Sforza, cardinale chiave per

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Imprese, VIZI e virtù della famiglia più CHIACCHIERATA del Rinascimento. Partita dalla Spagna alla CONQUISTA del potere

AGK/MONDADORI PORTFOLIO

LEGGENDARIA Un ritratto di inizio ’500 a lungo ritenuto di Lucrezia Borgia (in realtà un’allegoria della dea Flora). A destra, Cesare Borgia, figlio di Alessandro VI. Fu detto “il Valentino” dopo il 1498, quando divenne duca del Valentinois, in Francia: un titolo creato per lui.

PORPORATI BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO

Il cardinale Carlos de Borja ritratto da Andrea Procaccini nel 1721. I Borgia legarono i loro destini a quelli della Chiesa.

In tutto, la DINASTIA Borgia diede alla Chiesa due PAPI, cinque l’esito del voto. L’indomani Rodrigo fu eletto e Ascanio divenne suo vicecancelliere (oggi diremmo segretario di Stato). Viziosi. Recita un adagio che “dall’alba si conosce il giorno”. E infatti gli 11 anni di pontificato che seguirono furono un’orgia di nepotismo, simonia, intrighi, tradimenti e sesso selvaggio. Nepotismo: cinque Borgia vennero nominati cardinali e altri trenta occuparono alte cariche di corte. Simonia: decine di titoli ecclesiastici furono venduti al miglior offerente. Intrighi e tradimenti: il papa fu prima nemico dei francesi che volevano metter mano su Napoli, ma appena questi, dopo la conquista, fecero capolino a Roma cambiò fronte e accorse in aiuto ai vincitori. Infine sesso selvaggio, che per Alessan38

dro VI era un hobby a 360 gradi, senza la minima discrezione, né discriminazioni di classe, né tabù di parentele. Una delle amanti del papa era la nobildonna Giulia Farnese, che possedeva una casa collegata direttamente a San Pietro. Un’altra era l’ostessa Giovanna Cattanei detta Vannozza, che gestiva tre locande in centro città e che diede al papa i quattro figli prediletti (Giovanni, Cesare, Lucrezia e Goffredo). Una terza, come si diceva, era forse la sua stessa figlia Lucrezia (v. riquadro). A tramandare dettagli sulla condotta disinvolta del papa Borgia è stato un vescovo alsaziano, maestro di cerimonie a corte: Johannes Burckhardt, in Italia noto come Burcardo di Strasburgo. Nei suoi testi si legge che, quando Lucrezia si

sposò, gli invitati si sfidarono in una gara di simil-basket, andando a canestro con i confetti nelle scollature delle dame. E che il clou delle feste papali era il “ballo delle castagne”, dove 50 donne nude si dimenavano su un pavimento cosparso di ricci, improvvisando mosse scomposte che divertivano i presenti. Quelle “feste da papi” (dove papi è un sostantivo plurale) provocarono reazioni scandalizzate in parte del clero. Il critico più aspro fu un frate fiorentino, Girolamo Savonarola, che verso la Chiesa di allora non usava perifrasi: “Nella lussuria ti sei fatta meretrice sfacciata, tu sei peggio che bestia, tu sei mostro abominevole”. Alessandro VI prima lasciò dire, poi definì le tesi di Girolamo una “perniciosa dottrina, con scandalo e iattura delle ani-

TORRE DI PARTENZA

ALAMY/IPA

I resti della casa-torre di Canals dove nel 1378 nacque Alonso de Borja, futuro papa Callisto III. A destra, il castello di Xàtiva, del cui territorio la casa-torre di Canals faceva parte al tempo di Alonso de Borja.

E l’arte d’IItalia arrivò in Spaggna

I CARDINALI e anche un SANTO me semplici”. E poiché le anime vanno tutelate, finì che il frate ribelle fu scomunicato, impiccato e poi bruciato. Va precisato che Alessandro VI non si sporcava mai personalmente le mani di sangue: lasciava che lo facessero altri. In primis suo figlio Cesare, detto il Valentino, nominato cardinale nel 1493 e spretato nel 1497, che Niccolò Machiavelli (con giudizio condiviso da pochi) definì “signore molto splendido e magnifico, et nelle armi tanto animoso”. Fu Cesare a spazzar via i signorotti romagnoli che non volevano sottostare al papato; e fu sempre lui a occuparsi dell’ordine pubblico a Roma, eliminando gli oppositori. Implacabile. Quanto “splendido” fosse in queste operazioni il Valentino, lo dicono due episodi. Uno, noto come

“cena di Senigallia”, è del 1503: fatta pace con cinque nobili ribelli, Cesare li invitò a un banchetto di riconciliazione; ma poi, dopo averli accolti, ne ammazzò quattro. L’altro episodio è datato 1497: una notte il primogenito del papa, Giovanni, fu gettato nel Tevere da sicari rimasti ignoti. Il cardinale Sforza indirizzò i sospetti su “persone offese causa de femine”, ma la vox populi accusò Cesare, geloso dei favori paterni verso il fratello. La saga di quella famiglia di parentiserpenti finì male: Alessandro VI morì nel 1503 con sospetti sintomi di avvelenamento, poco dopo una cena a Monte Mario in casa di un cardinale, Adriano Castellesi. Secondo lo storico coevo Francesco Guicciardini si era trattato di un tragico errore: il papa avrebbe bevu-

n Spagna sono famosi come da noi Giotto o Botticelli: si chiamavano Paolo di San Leocadio e Francesco Pagano. Uno era di Reggio Emilia, l’altro di Napoli, e furono i pittori che portarono a Valencia i canoni artistici del Rinascimento italiano. A invitarli laggiù, nel 1472, fu il cardinale Rodrigo Borgia, futuro papa Alessandro VI. Motivo: nella cattedrale di Valencia c’era stato un incendio e si volevano rifare le decorazioni. Scuola italica. Gli italiani eseguirono e

fecero scuola. Soprattutto Paolo, allievo del Mantegna, che decorò la volta dell’abside con angeli musicanti e un cielo in prospettiva che evocavano la Camera degli sposi dei Gonzaga a Mantova. Eredi. Il Rinascimento spagnolo proseguì con Hernando de los Llanos, Hernando Yañez de la Almedina e Joan de Joanes. Ma il legame con l’Italia rimase: i due Hernando erano stati allievi di Leonardo (che Cesare Borgia aveva però ingaggiato come ingegnere militare).

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ALAMY/IPA

Il monastero di Santa Maria de la Valldigna, dove il futuro Alessandro VI fu abate.

Il Valentino fece UCCIDERE il secondo MARITO di Lucrezia, Alfonso d’Aragona: disse che il cognato voleva ELIMINARLO to da “fiaschi infetti di veleno fatti consegnare a un ministro non consapevole”, che il solito Cesare aveva preparato per altri. Morto il papa, il Valentino declinò in fretta: arrestato ed evaso per due volte, morì in battaglia nel 1507. Ritorno alle origini. Fine dei Borgia? In Italia sì, ma in Spagna la famiglia continuò fino al 1820, grazie ai discendenti dell’ucciso Giovanni, che oltre al cognome ereditarono un feudo (il Ducato di Gandía, presso Valencia) e il connesso sangue blu, ambedue comprati da Alessandro

VI come il conclave. Tuttora, in quel di Valencia, i Borja sono molti: la guida del telefono ne elenca 223. «Ma si tratta di omonimi: gli unici eredi dei “veri” Borja si chiamano Osuna e sono a Madrid», precisava Ramón Arnáu, già storico dell’Academia valenciana de genealogía y heráldica. In Spagna però il cognome di papa Alessandro non ricorre solo sulle guide telefoniche: viaggiare tra Valencia e Gandía vuol dire scoprire palazzi, chiese e opere d’arte che fanno riferimento in modo più o meno diretto alla famo-

SCALA

Lucrezia, la ducchessaa maleedeetta

U Vannozza Cattanei, amante di Rodrigo e madre di Lucrezia.

n cavaliere francese, tale Bayard, la definì “buona duchessa, perla di questo mondo”. Il vescovo Burcardo di Strasburgo l’accusò di incesto col fratello Cesare e col padre, a cui avrebbe addirittura dato un bimbo, passato alla Storia

come Infante Romano. Lei, in una lettera scritta in fin di vita, si dichiarò “christiana benché peccatrice”. Chi fu dunque Lucrezia Borgia, figlia di papa Alessandro VI? Inquieta. L’accusa di incesto non è provata, ma è certo che la nobildonna più chiacchie-

rata del Rinascimento ebbe una vita sessuale turbolenta: a 11 anni aveva già imbastito e rotto due fidanzamenti ufficiali; a 13 si sposò una prima volta, a 19 una seconda, a 21 una terza. Il primo marito (Giovanni Sforza, duca di Spoleto) fu ripudiato con l’accusa

CENTRO DI POTERE

MONDADORI PORTFOLIO

Cesare Borgia e Machiavelli (a destra) discutono davanti al cardinale Juan de Borja.

di impotenza, il secondo (Alfonso d’Aragona) morì assassinato, il terzo (Alfonso I d’Este, duca di Ferrara) le sopravvisse. Ai mariti vanno poi aggiunti vari amanti, dall’umanista Pietro Bembo a un servo del padre, tale Perotto. Pedina. Una mangiauomini, dunque? La tradi-

che vive di industrie tessili. Quale dei due comuni ha ragione? Entrambi: la dimora più antica dei Borja è senz’altro a Canals: ne resta una torre. Ma secoli fa quella casa era inclusa nel territorio di Xàtiva. Che i Borgia siano così gettonati non stupisce: infatti nella loro “saga nera” ci furono anche pecore bianche. “Bianchissimo” fu senz’altro un pronipote di papa Alessandro, Francesco (1510-1572), quarto duca di Gandía, poi generale dei gesuiti, infine addirittura santo (v. riquadro): pure lui, come il bisnonno, ebbe fi-

zione dice di sì: la leggenda vuole che la “buona duchessa” avesse un anello avvelenato con cui eliminava i maschi che le venivano a noia, come una mantide religiosa. Ma gli storici moderni tendono a rivedere tutto: forse Lucrezia fu solo pedina e vittima di giochi

altrui. I suoi matrimoni vennero combinati e disfatti dal padre per ragioni politiche. E l’unico marito che Lucrezia amò davvero (il secondo) fu ucciso quasi certamente da sicari di Cesare Borgia, per gelosia o solo perché era diventato ingombrante.

gli, ma prima di farsi prete. “Bianco” fu anche Alonso (1378-1458), alias Callisto III: un altro papa di famiglia, zio di Alessandro VI, mai accusato di stravizi ma solo di nepotismo, peccato veniale. Fu proprio Alonso, nato nella casa-torre di Canals, a dare il “la” all’epopea italiana dei Borja, che fino al primo ’400 erano una tranquilla famiglia benestante di provincia, notabile ma non nobile, che aveva per stemma un toro rosso: un logo che oltre i Pirenei ha la stessa ovvietà di una lupa a Roma o di un biscione a Milano. Era una famiglia ancora

LESSING/CONTRASTO

sa famiglia. La realtà è che al di là dei Pirenei i Borgia hanno lasciato ricordi diversi che da noi: là sono ritenuti benefattori, mecenati, talvolta eroi. Tanto che vie e statue dedicate a loro si sprecano. E che due comuni in provincia di Valencia (Xàtiva e Canals) si disputano il titolo di “culla” storica della famiglia. Radici contese. Tra le culle rivali corrono solo 6 km. Xàtiva è una cittadina di 28mila anime, nota per le sue cartiere (le più antiche d’Europa) e per un imponente castello, mai espugnato. Canals invece è un piccolo paese,

La camera da letto di Lucrezia nel castello di Sermoneta (Latina).

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Sotto, lo stemma di Luigi Ignazio Borgia, signore in Sardegna nella prima metà del Settecento.

MONDADORI PORTFOLIO (3)

Sopra, frammento di epigrafe di Alessandro VI, a Roma. Sotto, stemma di Francesco Borgia d’Aragona.

CESARE Borgia nominò “architetto e ingegnere generale” LEONARDO da Vinci. Alla sua corte c’era anche MACHIAVELLI povera di storia (solo tre generazioni documentate) ma ricca di altre risorse: l’amicizia con i re d’Aragona, astri nascenti della Spagna cristiana, ed estesi aranceti, strappati alla Spagna araba. Traslochi. Quella vita agreste, dolce e monotona come un’aranciata, finì appunto con Alonso. Il quale, voltate le spalle agli agrumi, si dedicò agli studi, prese tre lauree, vinse una cattedra di diritto a Lleida e diventò vicecancelliere del re d’Aragona Alfonso V. E poiché la cura del potere e quella delle anime spesso coincidono, fece anche carriera ecclesiastica: a 51 anni fu nominato vescovo di Valencia, a 66 cardinale e a 77 papa. Il pontificato durò solo un triennio, ma cambiò molte cose: per i Borja, per la Spagna, per l’Italia, per la Chiesa. I Borja, anzitutto, cambiarono patria (molti si trasferirono a Roma al seguito del papa), cognome (italianizzato in Borgia proprio da Callisto III) e status sociale (da produttori di arance a prelati, giuristi, alti funzionari e poi duchi). La Spa42

gna cambiò canoni artistici, scoprendo il Rinascimento italiano (v. riquadro). Quanto all’Italia, cambiò assetto politico e 50 anni dopo rischiò di essere unificata dal “perfido” Cesare. La Chiesa, infine, mutò i suoi equilibri. Callisto III era il primo papa spagnolo in assoluto e il primo non italiano da otto conclavi. Commenta Arnáu: «Fu una vera rivoluzione, che spiazzò le famiglie patrizie romane (Orsini, Colonna, Piccolomini) abituate a trattare il papato come “cosa loro”. E la rivoluzione continuò anche dopo il conclave: il nepotismo, di cui Callisto III fu poi accusato dagli avversari, era solo un tentativo di inserire nell’apparato vaticano uomini di sua fiducia, per togliere potere ai nobili di Roma». Ma come aveva fatto Alonso ad arrivare così in alto, partendo dalla torre di Canals? Sul punto ci sono due scuole di pensiero. Patti chiari. Per capire la prima “scuola” basta vedere la pala d’altare dell’Oratori de la Torre, una chieset-

ta di Canals proprio di fronte all’ex casa Borja. Il dipinto ritrae un arcigno predicatore trecentesco, padre Vicente, che sta di fronte a un bambino e gli predice: “Tu da grande farai il papa e poi proclamerai me santo”. Il bimbo annuisce. Da quel patto di scambio, narra la tradizione, derivò un doppio effetto: una volta cresciuto, il bimbo divenne papa Callisto III; e padre Vicente fu da lui canonizzato come san Vincenzo Ferrer, patrono di Valencia. La seconda scuola di pensiero dà un’altra versione: se Alonso fece carriera, fu grazie ai musulmani. Premessa: quando si aprì il conclave del 1455, il mondo cristiano viveva tempi difficili. Infatti a est i Turchi, dopo aver espugnato Costantinopoli (1453), stavano risalendo i Balcani verso l’Ungheria, mentre a ovest i “mori” occupavano ancora un pezzo di Spagna e a sud imperversavano i pirati saraceni. Per fermare i Turchi ci voleva un papa allenato a contrastare l’islam: per questo fu scelto uno spagnolo.

GIUDIZIO SUPREMO

SCALA

Savonarola, scomunicato da Alessandro VI, sotto processo: finirà al rogo.

Crociati. Per i Borja i musulmani erano dei (detestatissimi) vicini di casa. Quanto vicini, lo si capisce nel centro storico di Xàtiva, un intrico di vicoli in collina che evoca la kasbah di Algeri; o nel vicino Simat de la Valldigna, paese rurale dove un convento di cui fu abate Alessandro VI (Santa Maria) convive con la Xara, una ex moschea cinta da aranceti. Quanto detestati, lo si può vedere poi al Museo de bellas artes di Valencia, nelle opere di Juan Rexach, pittore del Quattrocento che in una Via Crucis piazzò turbanti arabi in testa a tutti i “cattivi”, incluso Ponzio Pilato. Alonso Borja veniva dallo stesso clima culturale di Rexach. E da papa cercò di indire una crociata antiturca. La risposta dei re europei fu tiepida, ma gli invasori furono comunque fermati alle porte di Belgrado. Dunque, se oggi le donne serbe non portano veli islamici, lo devono un po’ a Callisto III. «E se non li portano neanche le andalu-

se, lo devono un po’ ad Alessandro VI, supporter dei “re cattolici” che cacciarono gli ultimi mori dalla Spagna», aggiunge lo storico Vicente Ribes Iborra. Dunque Alessandro VI non fu solo il papa dei “basket nuziali” e dei balli delle castagne? Proprio così: altrimenti non avrebbe, come ha, una statua a Gandía e un’altra sul sagrato della Col-

legiata di Xàtiva, accanto a quella di Callisto III. Ma c’è di più: senza Alessandro e i suoi figli, la regione valenciana non avrebbe importanti monumenti storici. A Gandía il Palazzo ducale, a Xàtiva la Collegiata stessa, a Valencia l’università e palazzo Benicarló (ex casa Borja, ora sede delle Corts Valencianes, il parlamento regionale).

Nella barra, ma a forza di pugni

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a vivo, Alessandro VI stabilì che per un funerale non si potessero spendere più di 1.500 ducati; da morto, per sé spese ancor meno. Orrore. La sua salma rimase per giorni nella Cappella Sistina. E Burcardo di Strasburgo, maestro di cerimonie, ne fece questa orripilante descri-

zione: “Il volto del papa era diventato brutto e nero, tanto che quando lo rividi assomigliava a un ragno. Era tutto gonfio, la faccia e il naso; la bocca larga; la lingua riempiva tutta la bocca, e questa era aperta e ognuno diceva che non si era mai visto nulla di tanto orribile”. Ma il peggio venne

quando si chiuse la bara: “Tale ufficio fu compiuto da sei bifolchi, che intanto facevano barzellette e allusioni al papa, e da due falegnami che avevano fatto la cassa troppo stretta e troppo corta”. Epilogo: “Lo fecero entrare nella bara a forza di pugni, tutto ciò senza torce, senza lume, senza alcuno prete”.

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ALAMY

DUCA E PRELATO La casa di Francesco Borgia a Gandía, città di cui fu duca prima di farsi prete nel 1548. A destra, vignetta satirica contro Alessandro VI, simbolo della corruzione della Chiesa di Roma tra i protestanti.

A causa degli INTRECCI dinastici del passato, l’attuale sovrano di Spagna, Filippo VI, è un LONTANO discendente dei Borgia

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ha scritto persino un’edificante storia di tolleranza interetnica, perché la Xara (la moschea di cui si diceva) fu costruita da Cesare Borgia, mentre (come già il padre) era abate del vicino monastero di Santa Maria, a uso di alcuni contadini arabi rimasti dopo la Reconquista cristiana. Un bel gesto davvero. Peccato che il mihrab, cioè la nicchia da cui l’imam guida la preghiera, non fosse rivolto verso la Mecca, come l’islam vuole. Quando si accorsero della beffa, i contadini prote-

starono, ma si sentirono rispondere che se la moschea non era a misura di Corano, loro potevano pur sempre riciclarla in chiesa e farsi cristiani. Di fronte a una logica così stringente, gli arabi di Simat abbandonarono i loro aranceti per il Marocco. Laggiù oggi i loro discendenti producono agrumi sottocosto, li esportano in Europa e mettono fuori mercato gli agricoltori spagnoli. Anche questa è un’eredità dei Borgia, casta dinastia di santi, avvelenatori e fruttivendoli. t Nino Gorio

La festta di san Borgia

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gni anno, tra fine settembre e inizio ottobre, Gandía celebra con una settimana di feste per strada il “suo” santo, cioè Francesco Borgia (15101572), che prima di darsi alla vita religiosa fu duca della città, viceré di Catalogna e uomo di fiducia dell’imperatore Carlo V. E che poi, turbato dalla morte dell’imperatrice Isabella e rimasto vedovo, nel 1548 si fece prete,

MONDADORI PORTFOLIO (2)

Effetto Borgia. Semplificando un po’, verrebbe da dire che i Borgia furono per Valencia ciò che nello stesso periodo i Medici furono per Firenze. «Ma la famiglia non fu importante solo in Spagna», aggiunge Ribes Iborra. «In Italia Alessandro VI e il Valentino furono i primi a concepire l’idea di unificare la Penisola sotto una sola corona. E ciò con un anticipo di 350 anni sui Savoia. Se il loro progetto fosse andato in porto, forse il papato si sarebbe trasformato in una monarchia ereditaria a carattere nazionale». L’effetto Borgia si fece sentire anche oltre Atlantico. «Infatti, dopo la scoperta dell’America, Alessandro VI riuscì a evitare una guerra mondiale fra Spagna e Portogallo, dividendo le Indie Occidentali in due aree d’influenza: se ancora oggi dal Cile al Messico si parla spagnolo mentre il Brasile usa il portoghese, è per quell’antico arbitrato papale. Non è tutto: la città californiana di San Diego fu creata grazie ai capitali dei Borja. E l’epopea dei gesuiti in Paraguay, narrata dal film Mission, con Robert De Niro, fu voluta dal santo e duca Francesco». Tante sorprese. Insomma: l’ex oscura famiglia di Canals (o di Xàtiva) ha scritto un bel pezzo di storia del mondo. Anzi, a Simat de la Valldigna

entrò nella Compagnia di Gesù e nel 1565 ne diventò il “generale”, cioè il capo supremo.

Francesco, di fronte a Isabella morta, lascia il titolo di duca.

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BONA SFORZA - 1494

ROGER VIOLLET/ALINARI

Forse uccise la nuora. Forse fu AVV VELE ENA ATA A dall’amante. Di certo l’italiana che divenne regina di POLO ONIIA fu una protagonista del RINA ASCIM MEN NTO O: esportò all’Est usi, architetture e... ortaggi

La sovrana dei

N

IN TERRA STRANIERA

vulsioni e forti dolori di stomaco. «Sui documenti predisposti per comunicare la notizia del decesso, alla voce “causa” venne lasciato uno spazio bianco», spiega Angela Campanella, autrice di Bona Sforza. Regina di Polonia, duchessa di Bari (Laterza). «Il 22 ottobre 1494 Ludovico Sforza venne proclamato nuovo duca di Milano, a discapito del legittimo erede Francesco, primogenito di Gian Galeazzo. Beatrice d’Este, moglie di Ludovico il Moro, divenne duchessa di Milano, lasciando a Isabella d’Aragona il titolo di duchessa di Bari». Bona crebbe così fra Napoli e Bari, educata dall’umanista Crisostomo Colonna, in attesa di un buon matrimonio. Un marito a Cracovia. Nel 1518, a 24 anni, l’orfana andò in sposa al già stagionato re Sigismondo I di Polonia, che aveva oltre il doppio dei suoi anni, diventando così regina di Polonia e granduchessa di Lituania. Già due anni prima del suo arrivo alla corte di Cracovia fece in modo di trovare un ambiente più che accogliente: l’architetto toscano Bartolomeo Berecci, avvalendosi della collaborazione del collega Francesco Fiorentino, cominciò i lavori di modifica del Castello di Wawel, a Cracovia. Il risultato finale è giudicato oggi da molti storici dell’arte come «il più bell’esempio del Rinascimento toscano a nord delle Alpi», dice Campanella. A corte Bona respirava a pieni polmoni aria di casa: letterati, religiosi, medici, ma anche sarti e domestici l’avevano seguita dall’Italia. La sovrana raccolse intorno a sé la crème del Rinascimento: Cracovia poté fregiarsi della presenza di artisti italiani e di pensatori come Copernico ed Erasmo da Rotterdam.

NATIONAL MUSEUM VARSAVIA

A sinistra, Bona Sforza (1494-1557) in una tela di Lucas Cranach il Giovane. Sposando Sigismondo I Jagellone divenne regina di Polonia. A destra, la sovrana e il marito (seduto) in una tela del XIX secolo.

on fu profeta in patria, ma in Polonia è una vera celebrità. La dama rinascimentale Bona Sforza fu avvelenata dal sospetto, ma non solo da quello: suo padre venne probabilmente ucciso dallo zio con il veleno, lei stessa fu accusata di avere contribuito alla morte delle due nuore con il medesimo metodo e, infine, forse ne fu vittima. La sua storia somiglia a un dramma shakespeariano. Bona era figlia di Gian Galeazzo Sforza, signore di Milano, e di Isabella d’Aragona, nonché nipote di Bianca Maria Sforza, che nel 1494 aveva sposato l’imperatore Massimiliano I del Sacro romano impero. Con tal parentado la sua strada era spianata, ma la futura regina di Polonia si distinse più per il piglio deciso e per la vita travagliata che per i nobili natali. Pozioni. Si trovò subito al centro di una fitta trama di intrighi, che la portò ad avere familiarità con il veleno fin dalla più tenera età. Non aveva ancora un anno quando rimase orfana di padre, forse ucciso dallo zio Ludovico il Moro: situazione dubbia e “amletica”. Lo zio, infatti, era reggente già dalla minore età di Gian Galeazzo e non si era mai premurato di trasferire il potere al legittimo proprietario una volta maggiorenne. La moglie Isabella inviava invece missive accorate al padre, il re di Napoli Alfonso II, perché intervenisse: “Da più anni, o padre, mi sposaste a Gian Galeazzo perché, appena giunto all’età virile, egli governasse da sé il suo regno. Ecco, ha passato la prima gioventù, è padre: e a stento può ottenere da Ludovico la comodità della vita”. Così al Moro toccò probabilmente accelerare la fine del nipote, che morì fra con-

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Bona imparò in fretta il POLACC CO e iniziò a VIAG GGIARE E per il regno, mentre dava a SIGISM MONDO O 5 figli (il sesto morì)

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re la vita della coppia. Cominciarono a correre dicerie sul conto di Barbara: si mormorava che praticasse magia nera e che non fosse in grado di generare un erede. Tutto inutile: il 7 dicembre 1550 Barbara venne incoronata regina per volontà di Sigismondo. «Le ragioni del malcontento di Bona e della corte erano diverse», continua Campanella. «La regina non aveva potuto consolidare con un erede di Elisabetta il rapporto con gli Asburgo, casata a lei invisa, ma fondamentale dal punto di vista strategico; la nobiltà polacca temeva di perdere la corte, che Sigismondo Augusto avrebbe forse spostato da Cracovia a Vilnius. Inoltre in Lituania si stava affermando il luteranesimo. Nonostante Bona avesse dimostrato grande elasticità, consentendo e agevolando la costruzione di chiese cattoliche, ortodosse e rutene, la maggioranza cattolica della nobiltà polacca temeva le nuove dottrine riformiste e di conseguenza l’atteggiamento del nuovo re. Forse Sigismondo aveva intenzionalmente evitato un matrimonio d’interesse, in coerenza con i propri principi morali, improntati a dottrine non sempre in linea con la Chiesa di Roma. Bona possedeva libri di Calvino e di Erasmo. Di quest’ultimo, in particolare, la Institutio principis christiani, dove l’umanista condannava i matrimoni stipulati dai regnanti per perseguire fini politici». Una morte sospetta. Sta di fatto che Barbara, a distanza di cinque mesi dall’incoronazione, si ammalò gravemente. Bona cercò di riconciliarsi con la nuora e in una lettera dichiarò “di riconoscere e onorare la Vostra Altezza Serenissima come propria figlia e beneamata nuora” pregando“che il Signore Iddio vi guarisca presto”. Barbara non migliorò e morì l’8 maggio 1551. Aveva 30 anni. Le voci che indicavano in Bona la responsabile dell’accaduto si fecero insistenti. Nel 1556 scoppiò una rivolta fra i nobili e la regina fece ritorno in Italia. In realtà, i motivi che indussero Bona a lasciare la

LA NUORA DETESTATA Barbara Radziwill in un dipinto ottocentesco, mentre muore assistita dal marito Sigismondo Augusto. NATIONAL MUSEUM VARSAVIA

La regina non si occupava però solo di cultura, ma partecipava alle decisioni politiche, fra cui un trattato di pace con la Turchia nel 1533. La sua influenza era tale che nel 1530 riuscì a far incoronare il figlio Sigismondo II Augusto, di appena 10 anni, vivente rege (cioè, col vecchio re ancora in vita), scatenando l’ira della nobiltà polacca. «Bona infranse il nihil novi strappato ai predecessori di Sigismondo I, ovvero quel principio per cui niente poteva essere deciso dal re senza consultarsi con il parlamento», spiega Campanella. «Inoltre la regina italiana, grazie ai privilegi, ai denari, alle cittadine e alle vaste terre concessi a lei dal marito in cambio della sua preziosissima opera riformatrice in materia agraria, religiosa, culturale e sociale, vide aumentare il suo potere che, dalla morte di Sigismondo, divenne assoluto. E fu allora che cominciò a essere malvista dai nobili». La sua sapienza era stata però riconosciuta anche dal marito, che non aveva esitato ad affidarle le redini del regno quando la salute gli era venuta meno. Le due nuore. Bona, intanto, tesseva articolate trame matrimoniali per l’erede. La scelta cadde sull’arciduchessa d’Austria Elisabetta d’Asburgo, che nel 1543, a 17 anni, sposò il giovane re. La ragazza si trovò in mezzo alle fazioni pro e contro gli Asburgo. Era spesso in contrasto con la suocera, come capita di solito, ma la mancanza di un erede non l’aiutò e gli attacchi epilettici la condussero a morte a 20 anni. «Forse la salute già delicata della fanciulla venne ulteriormente minata dalle ferite riportate in una caduta da cavallo, ma cominciarono a circolare voci che sostenevano come la morte di Elisabetta fosse stata “favorita” per evitare la nascita di un erede al trono di salute cagionevole», sostiene Campanella. «In realtà forse il peggioramento delle condizioni di Elisabetta erano attribuibili al marito Sigismondo, che da ragazzino aveva condotto una vita dissoluta. Si diceva infatti che a 16 anni intrattenesse una relazione amorosa con una delle cortigiane della madre, la quarantenne Diana de Cardona, dalla quale, pare, avesse contratto la sifilide». Il giovane fu costretto a sposarsi di nuovo. Bona esaminò nuovamente le possibili alleanze con le famiglie Asburgo o Borbone, ma il figlio fece di testa sua. Si innamorò, infatti, di Barbara Radziwill, la figlia di un magnate lituano (v. riquadro a destra) e nel 1547 la sposò. La notizia creò scompiglio. L’anno successivo, Sigismondo il Vecchio morì e lo scettro passò a Sigismondo II. Il parlamento gli chiese di divorziare da Barbara, ma lui rifiutò. La corte polacca cercò in ogni modo di ostacola-

Barbara, l’inntrusa eliminaata

«

E

BRIDGEMAN/ALINARI

ra romantica, bella, alla moda: la regina di ogni festa». Così Angela Campanella descrive Barbara Radziwill, nuora di Bona Sforza. «Inoltre era colta, come Sigismondo: parlava e scriveva in polacco, lituano e ruteno (una lingua slava). Era vedova del notabile Stanislovas Goštautas, un uomo molto più vecchio di lei (fu un matrimonio combinato). Sigismondo, che era giovane e bello, ci mise poco a far colpo su di lei. Il re annunciò audacemente la sua scelta, ma la corte intera insorse. Sua madre specialmente andò su tutte le furie, in quanto considerava i Radziwill degli arricchiti. Sigismondo non se ne curò e sposò Barbara in segreto».

La morte della giovane principessa costituì inaspettatamente un vero lutto per la corte polacca. «Il giovane re non si riprese mai dalla perdita. Vestì di nero per il resto della sua vita, e nera era la stanza del Castello di Niasvizh, appartenuto ai Radziwill, dove, secondo una leggenda, il mago Pan Twardowski evocava per Sigismondo il fantasma di Barbara», racconta la studiosa. Lo spettro. La leggenda narra che Barbara non abbia abbandonato il castello e che ancora oggi una dama vestita di nero vi si aggiri piangendo. La vicenda è entrata nell’immaginario collettivo della Polonia, tanto da aver ispirato quadri, opere teatrali e film.

OMAGGIO POSTUMO Barbara Radziwill (1520-1551), regina di Polonia per 5 mesi, in una tela di Lucas Cranach il Giovane, che fu dipinta dopo la sua morte.

NATIONAL MUSEUM VARSAVIA

Il SEGRETA ARIO Pappacoda potrebbe aver AVVEL LENATO O Bona su ordine della CORO ONA SPA AGNO OL A

ONORATA A BARI L’avvelenamento di Bona Sforza in una tela di Jan Matejko del 1859. Il mausoleo della regina si trova nella Basilica di San Nicola di Bari.

La signora dellle verduree

P

are che sia stata proprio la regina Bona a introdurre in Polonia verdure allora sconosciute, come cavolfiori, porri e sedano. Molti ortaggi in polacco hanno infatti nomi simili all’italiano, a differenza di altre lingue di ceppo slavo: karczochy (car-

ciofo), cebula (cipolla), pomidory (pomodoro), kalafior (cavolfiore)… Pinzimonio d’autore. La celebre insalata polacca mizeria, composta da cetrioli e panna acida, sembra debba il suo nome proprio a Bona, che gustandola esclamò “Miserere!”, forse ricor-

dando con rimpianto il cibo della sua patria o, secondo altre fonti, a seguito di un’indigestione. Inoltre ogni anno a Czersk, vicino a Varsavia, si svolge una manifestazione dedicata agli “orti della regina Bona” (ogrody królowej Bony).

Polonia sono nebulosi: «Secondo alcune fonti, i fratelli libellisti Silvio e Ascanio Corona, la Sforza decise di raggiungere il suo segretario e amante Gian Lorenzo Pappacoda, ma è un’ipotesi poco probabile data la condotta esemplare della regina dopo il matrimonio, anche se in gioventù la sua vita amorosa era stata piuttosto chiacchierata», spiega Campanella. Le ragioni più credibili sono altre: dopo la morte del marito, il figlio accentrò nelle sue mani le responsabilità del governo e di fatto la esautorò, privandola anche di beni e possedimenti dono del consorte. La salute cominciò a vacillare e Bona sperò di migliorare in un clima meno rigido. Inoltre, i turchi premevano sul ducato di Bari. Non ultime le accuse riguardo alla morte della nuora Barbara, che circolavano insistentemente a corte. «Fra i motivi che accelerarono la partenza di Bona Sforza e la indussero a rimanere in Italia ci fu probabilmente anche la trattativa del Pappacoda, che suggerì alla regina la possibilità di essere nominata viceré di Napoli dagli Asburgo e successivamente di riunire la propria corte nella città partenopea, com’era stato per sua madre Isabella», continua Campanella. Pare evidente che Bona avesse più motivi per partire che per restare. Fu avvelenata? Il 13 maggio 1556 la regina venne accolta a Bari dalla folla festante. Si premurò subito di effettuare migliorie nel Castello Svevo, sua nuova dimora, consacrandone a san Stanislao, patrono polacco, la cappella. «Ma con il trascorrere del tempo, Bona cominciò a rendersi conto di come il Pappacoda l’avesse subdolamente raggirata», spiega Campanella. «Tramite il suo segretario la regina aveva prestato all’imperatore ingenti somme in cambio della promessa di ottenimento della massima carica del vicereame di Napoli, ma ciò non si verificò affatto e Bona iniziò a nutrire seri dubbi sulla correttezza e le capacità diplomatiche del Pappacoda». Nel frattempo, le figlie cominciarono a premere per il suo rientro in Polonia e perfino il figlio Sigismondo si impegnò a riconsegnarle le terre che le aveva confiscato. Forse spinta dalla nostalgia per l’amata Polonia, l’astuta regina Bona commise una leggerezza che le fu fatale. «Rivelò a Marina Arcamore, sua personale domestica, il proposito non solo di rientrare in Polonia, ma anche di esautorare il Pappacoda: errore certamente funesto, che consentì all’infida cameriera di allarma-

re il pericoloso ministro. Questi iniziò a tessere subdole manovre per evitare che la regina, andandosene, mandasse in fumo i suoi rapporti diplomatici con Filippo II d’Asburgo», continua Campanella. Intanto Bona, il cui stato di salute era migliorato in Italia, si dedicò alla difesa della costa pugliese contro i turchi, quando improvvisamente, l’8 novembre 1557, fu colpita da dolori lancinanti. Il medico personale della sovrana brancolava nel buio e le voci che Pappacoda l’avesse avvelenata si fecero sempre più insistenti. Fra gli indizi a suo sfavore c’era infatti un testamento di Bona fatto redigere con l’aiuto di un notaio amico del segretario. In caso di morte della sovrana, Pappacoda avrebbe ottenuto favorevoli concessioni di benefici. Eppure il piano non riuscì. La regina, infatti, migliorò e fece redigere un nuovo testamento da un notaio di sua fiducia da depositare a Napoli, ma Pappacoda non si arrese e raggiunse l’uomo di legge sulla strada per la città, convincendolo a non dare seguito agli ordini della sovrana. Giallo nel giallo. Pochi giorni dopo, il 19 novembre 1557, Bona Sforza morì. Fu tolta definitivamente di mezzo dal Pappacoda? «La sua responsabilità era evidente», afferma Campanella. «Un certo Cesare Farina, dipendente dell’amministrazione del castello, parlò apertamente di avvelenamento e indicò in Pappacoda il colpevole. Nei documenti custoditi nella Biblioteca nazionale di Madrid, e riportati dallo studioso Alfonso Falco, risulta mandante del delitto. Come esecutori materiali vengono indicati il medico Giovanni Antonio da Matera, esperto nel maneggiare veleni, e un cugino del Pappacoda, tale Pardo Martulo o Pardo Martillo, maestro di cucina della regina. Dagli stessi documenti si apprende che gli esecutori testamentari subirono la stessa sorte della regina: il medico morì ingerendo per sbaglio una pozione dello stesso veleno somministrato a Bona, Pardo Martulo e un medico di nome Romanello, figlio di un notaio, testimoni del misfatto, perirono durante un viaggio per Napoli, liberando così Pappacoda del pericolo di una eventuale accusa o di un ricatto». Per le malelingue si potrebbe dire che l’avvelenatrice fu infine avvelenata, ma è più probabile che la regina al cui occhio nulla sfuggiva fu solo vittima e non carnefice, tradita dalle tante chiacchiere che avevano costellato la sua vita contribuendo ad alimentarne l’oscura fama. • Ilaria Prada

Il Castello di Wawel, a Cracovia, fatto ampliare da Bona Sforza.

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TAMERLANO - 1336

SIGNORE

A. PRATI (2)

Il

NOMADE DI CITTÀ La statua di Tamerlano a Samarcanda (Uzbekistan). Dal 1991 il condottiero nomade nato nel 1336 è un eroe nazionale. Fu lui a rendere grandiosa questa città. Nella foto grande, il Registan, l’antico mercato di Samarcanda, costruito da Tamerlano e ampliato con le scuole coraniche dai suoi successori.

delle

STEPPE

Nel 1400 il suo REGNO O andava dalla Persia all’India. Il suo nome era TIM MUR, ma per noi è Tamerlano IL GRANDE E

I

l suo impero svanì alla stessa velocità con cui lui l’aveva creato dal nulla, nella seconda metà del Trecento. Ma le sue spedizioni, dall’India fino alle porte d’Europa, sono diventate leggendarie. Tamerlano ordinò massacri, passò a fil di spada decine di migliaia di uomini. Ma non per sete di sangue, bensì per calcolo. Nato nomade, fece di Samarcanda una delle città più sfarzose dell’Asia. Figlio di uno sciamano, divenne paladino dell’islam. Dicevano fosse analfabeta, ma conosceva persiano, turco e mongolo. Era un amante della musica (della cetra in particolare) e aveva un’autentica passione per l’architettura. Insomma, capire chi fu veramente è tutt’altro che semplice.

Lo Zoppo. Innanzitutto bisogna farsi un’idea del mondo in cui nacque, nel 1336. Il grande impero di Gengis Khan era ormai frammentato in una miriade di regni (khanati), legati tra loro da fragili rapporti. L’islam, che sotto i colpi dell’esercito mongolo aveva rischiato di scomparire dall’area, stava rifiorendo. Anche la famiglia di Timur (questo il suo vero nome, diventato Timur Leng, Timur lo Zoppo in turco-persiano, dopo una ferita di freccia a una gamba) era di fresca conversione. Il padre Taragay era capo della tribù dei Barlas, di origine mongola ma completamente turchizzata. Una genesi poco nobile che Tamerlano revisionò con un’astuta operazione di propaganda. 53

A. PRATI (3)

Russia Kazakistan Ma

Mar Nero

o spi r Ca

Turchia

Uzbekistan

Samarcanda Turkmenistan

Cina

Tagikistan

Siria Cipro

Afghanistan

Iraq Iran

Pakistan La massima estensione del regno timuride, intorno al 1400.

O ce a n o Indiano

India

Le tappe della sua vita 1336 Timur nasce a Shahri Sabz (oggi in Uzbekistan), una città circa 100 km a sud di Samarcanda. Vent’anni dopo sposa la figlia dell’emiro Khazgan. 1370 Diventa il signore della Transoxiana e viene proclamato Grande emiro a Balkh. 1373 Durante una delle campagne militari torna precipitosamente a Samarcanda: un sogno lo ha avvisato della morte imminente del primogenito Giahangir. Arriverà troppo tardi.

1391 Prende Herat, in Afghanistan, terra che diventerà suo protettorato. Durante la conquista ordina la costruzione di minareti eretti con crani dei nemici uccisi. 1387 Il mongolo Toktamiš invade la Transoxiana. L’anno dopo Timur respinge l’invasione. 1398 Partenza per la campagna militare contro l’India, indebolita da una guerra civile. Attacca la capitale Delhi, difesa tenacemente, che viene saccheggiata.

Si inventò una genealogia che lo collegava direttamente a Gengis Khan, il cui cugino, Karatšar Noyan, sarebbe stato il trisnonno di suo padre. «Per Timur era importante dimostrare la discendenza da Gengis Khan», spiega il medievista Franco Cardini. «Questo gli avrebbe garantito una legittimazione presso le tribù, base dell’impero mongolo. Le tribù erano federazioni di famiglie allargate, difficili da controllare perché legate da vincoli di sangue e da un consenso che si rinnovava periodicamente nelle kulturai, le riunioni dei capi mongoli». Universale. Nonostante l’immenso potere accumulato, Tamerlano non volle titoli reboanti. Si accontentò di essere Amir al-Kabir, Grande emiro. Un primus inter pares al servizio dell’islam. «La grande differenza tra Gengis Khan e Tamerlano», continua Cardini, «è che quest’ultimo era un musulmano sunnita. Si sentiva portatore di un ideale universalistico e si comportava di conseguen54

1401 Ha contatti diplomatici con Bisanzio e con la colonia genovese di Pera (presso Istanbul). Conquista Damasco e Baghdad e l’anno dopo sconfigge gli Ottomani. 1404 Torna a Samarcanda e pianifica l’invasione della Cina, che non riuscirà a realizzare. 1405 Muore a Otrar (Kazakistan) poche settimane dopo la partenza (in lettiga) per la Cina. Tra le possibili cause del decesso: una malattia polmonare o l’abuso di alcol.

za. Non a caso il suo regno era centralizzato, come i sultanati musulmani e diversamente dai khanati mongoli». A soli 34 anni Tamerlano era già il padrone della Transoxiana, che comprendeva il moderno Uzbekistan e le regioni meridionali del Kazakistan. Quel primo successo l’aveva conseguito più con la diplomazia e con l’astuzia che con le armi. E forse persino con quei sogni premonitori che si dice lo avessero accompagnato per tutta la sua vita. E che lo convinsero di essere l’ombra di Dio sulla terra. Così, le truppe galvanizzate si schieravano sul campo di battaglia con la convinzione di essere invincibili. I sogni lo avvertirono anche delle disgrazie familiari: nel 1373 tornò a tappe forzate a Samarcanda perché aveva avuto la visione del suo primogenito Giahangir in agonia. Trovato il figlio morto, cadde in depressione come gli capiterà altre volte di fronte alle questioni private.

ARCHITETTI E ASTROFILI Sopra, il palazzo di Timur nella sua città natale, Shahr-i Sabz. Sotto, l’osservatorio astronomico fatto costruire dai Timuridi a Samarcanda.

OLYCOM (2)

Riuscì a far CONVIVERE le tante ANIME del suo regno: turchi e mongoli, imam e sciamani, SHARIA e yasak, la religione mongola A CACCIA SUI MONTI Sopra, le alture dell’Uzbekistan dove Tamerlano andava a caccia (a destra, in una miniatura persiana del XV secolo).

Nel primo decennio del suo regno Tamerlano si dedicò a Samarcanda. Fece costruire il Registan, la moschea Bibi Khanum e il mausoleo Shahr-i-Zindah. Nel giro di pochi anni l’antica città divenne una magnifica capitale. Timur aveva anche un forte senso della giustizia, come dimostrò con il suo intervento armato contro il figlio squilibrato Miran Shah, dispotico principe di Tabriz. In quella spedizione Tamerlano trasformò i soldati in muratori, fece ricostruire quel che il figlio aveva distrutto e restituì il maltolto alla popolazione. Espansionista. Ma la vera sfida per il Grande emiro era far convivere le tante anime del suo regno: turchi e mongoli, imam e sciamani, nomadi e stanziali. E soprattutto sharia e yasak, la legge dell’islam e la religione turco-mongola che risaliva a Gengis Khan in persona. «Parlare di progetto politico, nel suo caso, non ha molto senso», precisa Cardini. «È un’espressione che appartiene alla lo-

gica occidentale. L’idea di Tamerlano era riorganizzare la compagine federale dell’Impero mongolo che si era dissolta dopo la morte di Gengis Khan. Puntò a riempire quel vuoto politico, ma non si fermò. Andò oltre, nel subcontinente indiano e nella penisola anatolica, dove Gengis Khan non era mai arrivato». Nel 1381 Tamerlano avviò la fase espansionistica che si sarebbe fermata solo con la sua morte. Cominciò dalla Persia, muovendo contro Herat (oggi in Afghanistan). Fu una vittoria facile e segnò l’inizio delle deportazioni di artisti, artigiani e operai verso Samarcanda. Non tutti i nemici si arresero con la stessa rapidità. Per dissuadere chi voleva resistere ci volevano degli esempi: la presa di una guarnigione nemica scatenò la brutalità che segnò il debutto di Timur il sanguinario. I soldati furono sgozzati, gran parte dei civili calpestata dai cavalli, mentre tutte le case furono bruciate. 55

Massacro. A Isfahan, nell’Iran Centrale, la carneficina fu apocalittica. Il governatore Muzzaferi Kaši gli consegnò le chiavi della città. Ma mentre l’esercito riposava un banale incidente scatenò la caccia all’invasore. Nel giro di poche ore vennero massacrati 3mila uomini di Tamerlano. La sua reazione fu terrificante: mise in salvo i religiosi e coloro che avevano aiutato i suoi nella fuga, poi ordinò di uccidere un numero prestabilito di nemici (70mila) incaricando i soldati di contare le teste. Persino Ghiyasoddin Ali Yazd, segretario di corte e autore delle Gesta di Tamerlano, scrisse: “Tale fu lo spargimento di sangue che l’acqua del fiume Zende-Rud straripò [...]. All’interno della città i cadaveri giacevano riversi uno sull’altro e all’esterno con le teste degli uccisi furono erette torri altissime, che superavano i palazzi più elevati”. Presa la Persia e razziato ciò che restava dell’impero di Gengis Khan, Tamerlano non aveva placato la sua sete di conquista. Si rivolse a Oriente e verso la fine del 1398 passò il fiume Indo su un ponte di barche. Si apprestava a conquistare Delhi. Qui si trovò di fronte a un nemico imprevisto: gli elefanti. All’inizio i pachidermi dell’esercito indiano ebbero la meglio. Tamerlano, si dice, ordinò allora di mettere davanti alla cavalleria dei bufali carichi di arbusti infuocati. Lo stratagem-

Un uzbeko mostra una banconota con l’effigie di Tamerlano.

A. PRATI (2)

La sua dinastia fu breve. Il suo SUCCESSORE portò la capitale in AFGHANISTAN e nel 1506 il regno timuride fu annesso dagli UZBEKI

Il fascino irresistibile di Timur

I

n Uzbekistan le sue statue, dopo l’indipendenza dall’Urss del 1991, hanno preso il posto di quelle di Lenin e il dittatore del Paese Islom Karimov ne ha fatto un padre

della patria. Ma la sua fama è arrivata, molto prima, anche in Occidente. In Italia fin dal ’400 grazie al senese Beltramo Mignanelli, il primo a riportare le sue gesta, influenzando

Machiavelli che ne fece il modello del principe orientale. In Francia nel ’600, quando il ministro francese Jean-Baptiste Colbert suggerì al Re Sole la traduzione di un’opera persiana

dedicata al condottiero. Fascinoso. Tra Cinque e Seicento il Grande emiro divenne protagonista di drammi a base di violenza e conquiste, come Tamerlano il

OLYCOM BRIDGEMAN/ALINARI

ULTIMI ATTI Sopra, l’assedio posto a Delhi, in India, nel 1398. A sinistra, la lettera inviata da Tamerlano al re di Francia Carlo VI nel 1402. Vi si prospettano accordi commerciali. Nella pagina a sinistra, la tomba di Timur a Samarcanda, nel mausoleo Gur-e Amir. Il corpo fu riesumato e studiato nel 1941.

ma funzionò. Solo dopo mesi di razzie l’esercito timuride riprese la via di Samarcanda stracarico d’oro, pietre preziose e schiavi. Il Grande emiro scosse anche l’Occidente: sconfisse l’Impero ottomano governato da Bayezid I, padrone della regione balcanica dopo la vittoria di Kosovo Polje (uno scontro rispolverato in chiave propagandistica durante la guerra nella ex Iugoslavia), distrusse il sultanato mamelucco, in Egitto, e invase la Siria, saccheggiando Aleppo e Damasco. Armate fedeli. Di fronte a tante battaglie viene da chiedersi chi fossero i soldati di Tamerlano. Da dove venivano questi cavalieri indomiti che obbedivano ciecamente al loro comandante? Erano tribù di nomadi che odiavano le città e sognavano di saccheggiarle e distruggerle. Fortissimi fisicamente e resistenti a qualunque sofferenza, ognuno portava con sé un cavallo, pelli e un carico di cibo sufficiente per un anno. Si portavano dietro archi, scudi, faretre, ma anche vanghe, picconi e reti da lancio. Un cavallo di scorta ogni due uomini e una tenda ogni dieci. Seguirono Tamerlano ovunque, perfino in Siberia, come nel caso della guerra contro Toktamiš, suo acerrimo nemico mongolo. Perché il Grande emiro li conduceva di vittoria in vittoria e assicurava loro ricchezze eccezionali. E, sempre al fianco dei suoi cavalieri, si dimostrò anche un grande stratega: fu, per esempio, tra i precursori della guerra-lampo. Onda lunga. Nel dicembre 1404 Tamerlano era un uomo debole e malato eppure deciso a non rinunciare all’invasione della Cina. Partì in pieno inverno, in lettiga, ormai incapace di cavalcare. Morì il 12 gennaio per una congestione polmonare che cercò di curare bevendo alcol. Per alcuni cronisti, in realtà, gli fu fatale una bevuta di troppo alla festa in onore delle principesse che l’accompagnavano. Una fine ingloriosa che non ha impedito ai padroni delle steppe nati dalla caduta dell’Urss, dopo il 1991, di farne il loro capostipite. Un’improbabile parentela, almeno quanto quella del Grande emiro con Gengis Khan. t Matteo Scarabelli

Grande dell’inglese Christopher Marlowe (1587). Anche il filosofo Voltaire ne fu conquistato e ne scrisse a lungo nel suo Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni (1756).

Grandi compositori come Georg F. Händel e Antonio Vivaldi si sono ispirati alle sue gesta, mentre Giacomo Puccini gli rese omaggio nel 1924 con la Turandot, chiamando Timur il

padre del principe Calaf, uno dei protagonisti. Nella letteratura moderna, infine, l’argentino Jorge Luis Borges (1899-1986) ne ha fatto il simbolo della sfida umana.

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DRACULA - 1431

EVERETT/CONTRASTO

In ROMANIA Vlad III Dràculea è un EROE. Ma nel ’400 la propaganda nemica ne fece un MOSTRO assetato di sangue

E NACQUE

ALAMY/IPA

A CASA DEL DIAVOLO Le rovine del palazzo dei principi di Valacchia a Tirgoviste (Romania). Si narra che qui, nel 1456, Vlad III fece massacrare 500 persone in un solo giorno. A sinistra, il vampiro (Klaus Kinski) nel film Nosferatu di Werner Herzog.

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ino al 1992 il vampiro più famoso del mondo era pressoché sconosciuto nella sua terra d’origine, la Romania. Solo allora, dopo la caduta del dittatore comunista Ceausescu, il romanzo Dracula, scritto dall’irlandese Bram Stoker nel 1897, fu tradotto e pubblicato in rumeno. E solo allora i rumeni poterono leggere la storia – resa celebre da tanti film dell’orrore (ma che nel loro Paese erano vietati) – dell’avvocato londinese Jonathan Harker. Che, giunto al castello del conte Dracula in Transilvania, scopre come il nobile sia in realtà un vampiro (una sorta di morto vivente) che si nutre del sangue dei vivi. Solo dopo mille pericoli Harker e l’avventuriero Morris riusciranno a ucciderlo.

L’IMPALATORE. Eppure il cattivissimo di Stoker fu ispirato (almeno nel nome) da una figura storica della Valacchia (l’antica Romania) medioevale: il famigerato Vlad III Dràculea, vissuto a metà del Quattrocento. Un uomo diventato in Occidente simbolo del male, la cui leggendaria violenza è però in parte frutto della propaganda dei suoi nemici. E che in patria è invece considerato un eroe nazionale. Molto di quel che si dice di Vlad, detto Tepes, cioè “l’Impalatore”, deriva da una serie di racconti sensazionalistici della fine del XV secolo. Le incisioni sui libri tedeschi dell’epoca lo raffigurano come un tiranno folle che pasteggia tranquillo di fronte alle sue vittime impalate. Si dice che avrebbe

IL VAMPIRO 59

la regione, l’Ungheria. Per tenere in pugno i valacchi, il sultano Murad II prese in ostaggio Vlad e il fratellastro Radu. Quando il padre di Vlad morì, il trono di Valacchia passò di mano da un principe all’altro e il Paese cadde nell’anarchia. DIPLOMATICO. Non ancora diciottenne, Vlad riuscì a convincere il sultano ad aiutarlo nella riconquista del trono paterno. Quando fu acclamato sovrano di Valacchia, nel 1456, giurò fedeltà al re d’Ungheria Ladislao il Postumo, ma mantenne buoni rapporti con i turchi. Almeno finché Murad II non morì. Il nuovo sultano, Maometto II, minacciò di invadere la Valacchia se Vlad non avesse pagato l’esoso tributo di 10mila ducati e non gli avesse giurato fedeltà. Vlad cercò l’aiuto del re d’Ungheria e dei sassoni. Il loro rifiuto costrinse Vlad a cedere al ricatto di Maometto II. Ladislao, intanto, tramava per mettere al posto di Vlad un sovrano più malleabile. Dopo aver sventato un complotto per assassinarlo, Vlad chiese al re d’Ungheria se l’accordo di pace tra i loro Paesi fosse ancora valido oppure no. Vlad replicò all’eloquente silenzio di Ladislao facendo bruciare villaggi e castelli nelle terre abitate dai sassoni, protetti dal re d’Ungheria. «Nel primo racconto tedesco su Dracula, stampato a Vienna nel 1463», dice

CIRCONDATO DAI NEMICI Il castello gotico di Hunedoara, in Transilvania. Qui Vlad III fu imprigionato nel 1462 dal re ungherese Mattia Corvino. In basso a destra, Corvino e il sultano Maometto II.

FIGURINE HORROR Dracula si nutre dei nemici impalati, in un’incisione tedesca del Cinquecento. MONDADORI PORTFOLIO

ucciso da 20 a 40mila tra rivali politici, criminali e gente comune e oltre 100mila turchi, suoi acerrimi nemici. Ma forse sono esagerazioni. NESSUNA PIETÀ. «È vero che Vlad era feroce, ma bisogna tenere conto del contesto storico in cui visse», spiega Antonello Biagini, docente di Storia dell’Europa orientale alla Sapienza di Roma. «A quei tempi non esisteva il concetto di prigioniero di guerra. Chi non poteva essere sfruttato come schiavo veniva ucciso, per evitare di lasciare in circolazione potenziali nemici». Per la stessa ragione, quando il monaco Hans, rifugiatosi in Valacchia, chiese a Vlad perché si accanisse tanto su donne e bambini, lui rispose così: “I piccoli che sono qui diventerebbero grandi nemici, se li lasciassi crescere”. «La ferocia», prosegue Biagini, «era un ammonimento per tutti. Il comportamento spietato delle truppe induceva le popolazioni dei territori invasi ad arrendersi più in fretta, agevolandone la conquista. Un esercito che si fosse imbattuto in una foresta di corpi impalati ci avrebbe pensato due volte prima di proseguire. Va anche detto, però, che il supplizio dell’impalatura non fu introdotto da Vlad, bensì dai crociati, nel 1200». Ma la vera storia di Vlad III riserva altre sorprese. Radu Constantinescu, esperto rumeno di diritto medioevale, ha per esempio confrontato le punizioni inflitte da Dràculea con quelle previste a quel tempo dalle leggi dei “sassoni” (i mercanti tedeschi dei Balcani). La straordinaria conclusione è che Vlad, quando condannava a morte i sassoni, non faceva altro che giustiziarli secondo le pene previste dalle loro stesse leggi. NOBILI NATALI. Nato a Sighisoara, nella regione della Transilvania, intorno al 1431, Vlad era noto sin da giovane anche con il nome di Dracula. «Per la maggior parte dei ricercatori il nome indicherebbe l’appartenenza del padre, Vlad Dracul, all’ordine del Dragone fondato nel 1408 dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo», spiega Matei Cazacu, studioso dell’antica Romania all’Università di Parigi IV e autore del libro Dracula. La vera storia di Vlad III l’Impalatore (Mondadori). «Poiché dal latino draco (“drago, serpente”) deriva il rumeno drac (“diavolo”), Dracul si dovrebbe tradurre come “il diavolo” e Dracula (da Dràculea) come “figlio del diavolo”». Ma Dracula potrebbe significare anche solo “figlio del dragone”. Quando Vlad aveva 6 anni, il padre scacciò il governatore della Valacchia diventando “gran voivoda”, cioè signore assoluto. A quel tempo incombeva sui Balcani la minaccia ottomana. I turchi avevano già conquistato la Serbia e la Bulgaria e si apprestavano a invadere la Grecia. Se ci fossero riusciti, la Valacchia sarebbe diventata una zona cuscinetto tra i musulmani e il principale Stato cristiano del-

ALAMY/IPA BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO (2)

L’ IMPALATURA non fu un supplizio introdotto da Dràculea, ma dai CROCIATI nel 1200 Cazacu, «questi attacchi sono presentati senza alcuna spiegazione, come frutto della crudeltà gratuita del tiranno». Ma in realtà erano la risposta (nello stile dei tempi) di un sovrano a chi aveva tentato di liquidarlo. E nonostante la loro provata infedeltà, Vlad confermò i privilegi di libera circolazione dei sassoni in Valacchia. COMPLOTTO A CORTE. Nel frattempo Vlad doveva vedersela anche con le truppe ottomane di ritorno dalla guerra in Serbia, che attaccavano le sue cittadelle. L’Impalatore partì alla caccia dei soldati turchi con un esercito di 5mila uomini. Ebbe la meglio sugli invasori e ne massacrò oltre 10mila. Quindi, per rifinanziare l’esercito in vista della ritorsione turca, impose nuove tasse ai sassoni. Ben presto, a corte, si cominciò a pensare di deporlo. Vlad decise di risolvere la questione a modo suo. Si racconta che la domenica di Pasqua del 1459 invitò a un banchetto nel suo palazzo a Tirgoviste tutti i nobili e i signori del Paese. Chiese loro quanti prìncipi avessero visto salire al trono. I boiardi, beffardi, risposero che ne erano passati oltre cinquanta, come a dire che non aveva poi tanta

importanza chi occupasse il trono del principato. “Com’è possibile che abbiate avuto tanti principi?”, domandò Vlad: “La colpa è delle vostre vergognose discordie!”. Detto ciò, fece condurre i nobili fuori dal castello e li fece impalare insieme alle mogli e ai servi. In tutto, oltre 500 morti. Ma per Cazacu e altri studiosi la cifra è falsa. «Secondo i miei calcoli», spiega lo storico, «nella stanza dei banchetti del palazzo non potevano starci più di 50 persone. È un’altra dimostrazione di come le cronache del tempo, compilate dai tedeschi ostili a Vlad, tendevano a ingigantirne la crudeltà». TERRA BRUCIATA. Intanto, la vendetta turca si avvicinava. Vlad riuscì a liquidare l’avanguardia inviata dal sultano per farlo prigioniero: alcune decine di uomini finirono impalati. Ma quando il grosso dell’esercito ottomano (oltre 60mila uomini) penetrò in Valacchia, Vlad, che aveva un esercito di circa 31mila soldati, fu costretto a indietreggiare, bruciando campi e villaggi per tagliare gli approvvigionamenti ai turchi. L’avanzata ottomana si fermò solo di fronte a una “foresta” di oltre 20mila corpi impalati, uno spettacolo di morte che si estendeva 61

IL VERO CASTELLO?

ALAMY/IPA

Il castello di Bran, al confine fra Transilvania e Valacchia. È accreditato come “castello di Dracula”, anche se mancano documenti che lo provino.

Fra il ’500 e il ’700 centinaia di persone furono GIUSTIZIATE in Romania con l’accusa di essere VAMPIRI

Malati di vampirismo

Una maschera “antivampiro” rumena.

M. POLIDORO

S

pinto dall’interesse per la diffusione delle superstizioni sui vampiri nei Balcani, Bram Stoker studiò il folklore locale per sette anni prima di scrivere il suo romanzo. Anche se non è sicuro che conoscesse la storia di Vlad III, è certo che si imbatté nel nome di Dracula, scegliendolo per il protagonista (in un primo tempo chiamato conte Wampyr). Ma come

era nato il mito dei succhiatori di sangue? Sangue cattivo. Secondo Wayne Tikkanen, chimico della California State University di Los Angeles, i “vampiri” erano persone affette da una forma di porfiria acuta, detta morbo di Gunther. La porfiria è una malattia metabolica rara ed ereditaria, causata dal deficit di alcuni enzimi e che provoca l’accumulo

UCRAINA

MOLDAVIA

UNGHERIA

Sighisoara (casa natale)

Tirgoviste (palazzo) Snagov (tomba)

SERBIA

MAR NERO

BRIDGEMAN/ALINARI

L.S. INTERNATIONAL/DISEGNI L. SPIANELLLI

Poienari Bran (fortezza) (castello)

BULGARIA

NELLA TERRA DI VLAD Nella cartina della Romania, i luoghi in cui visse Vlad III (a destra). Ma nel Paese sono molti i castelli (magari dell’Ottocento!) garantiti come “draculei”.

per tre chilometri in lunghezza e uno in larghezza. Fu l’ultimo massacro. Maometto II aveva ormai vinto e mise sul trono di Valacchia Radu il Bello, fratellastro di Vlad. L’Impalatore fuggì in Ungheria, dove però lo aspettava la prigione: il nuovo re, Mattia Corvino, si accordò con Radu e mise Vlad sotto chiave. PROPAGANDA. Corvino non aveva alcuna intenzione di combattere contro i turchi, come il papa gli chiedeva di fare. Togliendo di mezzo Vlad, che avrebbe innescato nuovi conflitti con gli ottomani, il re ungherese prese tempo. Ma come spiegare al papa l’arresto di un valoroso combattente contro gli infedeli? Per farlo, ricorse alla propaganda. «Corvino giustificò l’arresto di Vlad elencando (e ingigantendo) le mille atrocità di cui si sarebbe reso colpevole», dice Cazacu. Nel 1463 fu pubblicata in tedesco la Storia del voivoda Dracula, un ca-

nel sangue di prodotti non finiti, le porfirine. Il morbo di Gunther, in particolare, determina una grave anemia e una estrema sensibilità alla luce. Ciò spiegherebbe perché i “vampiri” fossero pallidi, bevessero sangue (di animali) e fuggissero il sole. La “contagiosità” del vampirismo sarebbe legata invece alla diffusione della rabbia. Senza vitamine. Jeffrey e William Hampl, dell’University of Massachusetts di Worcester, ritengono

invece che i vampiri fossero malati di pellagra. L’alimentazione a base di grano saraceno e la diffusione della farina di mais portarono a una riduzione del consumo di vegetali e a una conseguente carenza vitaminica, responsabile della pellagra. Se esposta ai raggi solari, la pelle dei malati diventa rossa e a scaglie. Inoltre, l’alito diventa pestilenziale e come terapia omeopatica si ricorreva all’aglio. (a. b.)

talogo di violenze che ebbe un enorme successo. Fu forse il primo best-seller horror della Storia e diede origine alla leggenda nera dell’Impalatore. Quando i turchi tornarono a farsi minacciosi, Mattia si decise a scalzare il nuovo sovrano di Valacchia, Basarab III, e a rimettere Vlad sul trono. Sperava che le gesta di Dracula contro i turchi sarebbero state degne di quelle di un tempo. All’inizio fu così, ma intorno al Natale del 1476 Basarab III, unitosi agli ottomani, riuscì ad avere la meglio su Vlad. Dracula fu fatto a pezzi e la sua testa, consegnata a Maometto II, fu esposta in pubblico. Anche per questo, per i rumeni di oggi, Vlad non è il tiranno psicopatico dei racconti tedeschi e ungheresi, bensì un eroe nazionale, che difese l’antica Romania dagli invasori stranieri. PADRE DELLA PATRIA. Nel 1976 il quinto centenario della morte di Vlad è stato celebrato da film, libri e persino da un francobollo commemorativo. Erano gli anni della dittatura di Nicolae Ceausescu, durante i quali Vlad fu rivalutato in chiave nazionalista. «Il recupero di figure storiche serviva a ricompattare l’opinione pubblica», spiega Antonello Biagini. «Era come dire: “Noi siamo stati indipendenti e possiamo opporci a ogni nemico esterno”. È un argomento che riscuote successo anche adesso che il regime di Ceausescu è finito». In più, in questi anni Dracula è diventato un ottimo affare per l’industria turistica. I “castelli di Vlad Dracula” sono spuntati come funghi e qualcuno ha persino proposto la costruzione di una Disneyland “vampiresca”. Il confine tra il personaggio di Stoker e Vlad III, in Romania, ora è davvero molto sottile. t Massimo Polidoro 63

IVAN IV DI RUSSIA- 1530

IVAN LO ZAR DEL TERRORE

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CONQUISTATORE Le cupole della cattedrale di San Basilio a Mosca. Fu ordinata da Ivan IV (di fianco) nel 1555 per celebrare la conquista moscovita del confinante khanato di Kazan.

LAIF/CONTRASTO

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arbetta da demonio, occhi spiritati, bastone da castigamatti: è l’immagine di Ivan IV detto “il Terribile” che ci ha trasmesso Sergej Ejzenštejn, il grande regista della Corazzata Potëmkin (1925) e autore anche di due film sul primo zar di Russia. «Terribile, per molti versi Ivan lo fu davvero; la sua fu una vita travagliata, piena di guerre e violenze», conferma Sergio Bertolissi, docente all’Università degli Studi di Napoli L’Orientale. Eppure il regno del “Terribile” non fu solo un film dell’orrore. Gli storici riconoscono a Ivan IV vari meriti: per esempio quello di avere centralizzato nel ’500 il nascente Stato russo e arginato le invasioni dei cavalieri delle steppe orientali, che 4 secoli prima avevano fatto la loro improvvisa comparsa con Gengis Khan facendo poi il bis con Tamerlano. Così in Russia il primo zar è vissuto come un padre della patria. «L’appellativo “Terribile” è una cattiva traduzione di groznyj, che vuol dire solo “minaccioso”», precisa Bertolissi. Dunque fu un tiranno o un eroe? MOSAICO. Facciamo un passo indietro e chiariamo qual era la Russia che Ivan trovò, quando nacque, nel 1530. Era anzitutto molto meno estesa di oggi. A ovest confinava con la Svezia, la Livonia (più o meno Estonia e Lettonia attuali), la Lituania,

CORBIS/CONTRASTO

I suoi scatti d’ira e le sue VIOLENZE divennero leggendari. Ma 5 secoli fa Ivan il TERRIBILE unificò la Russia, IMPONENDOLA all’attenzione del mondo

BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO

Gli SPIETATI metodi della sua MILIZIA personale furono ripresi dalla polizia POLITICA dell’800 e da quella SOVIETICA SICARI DI STATO Ivan il Terribile con alcuni membri della sua corte personale (talvolta detta Opričnina, come il territorio che controllavano): erano gli opričniki, che seminarono il terrore fra i nobili contrari allo zar.

allora uno dei più grandi Paesi europei. A sud c’era lo Stato tartaro di Crimea, detto khanato perché governato da un khan, cioè da un nobile turco-mongolo. A est la strada degli Urali era sbarrata da altri khanati: quello di Siberia e quelli di Kazan sul fiume Volga e di Astrakhan verso il Caspio (v. cartina nelle pagine seguenti). Quella che oggi chiamiamo Russia, per di più, allora non esisteva: al suo posto c’era un mosaico di principati (Mosca, Kiev, Novgorod e altri) divisi fra loro e spesso agitati da lotte di potere fra nobili (i “boiardi”). Solo da poco Mosca aveva preso il sopravvento: Ivan III, nonno del Terribile, si era proclamato gran principe di Moscovia e zar di tutte le Russie (non a caso al plurale). Ma non era mai stato incoronato pubblicamente come tale: la prima in-

coronazione a zar fu proprio quella di Ivan IV, alias Ivan Vasilevič, cioè “figlio di Basilio”. Baby-killer. Il futuro Terribile nacque per l’appunto da Basilio III ed Elena Glinskaja e non ebbe un’infanzia felice. A tre anni perse il padre. La madre assunse la reggenza ma morì anche lei, avvelenata, 5 anni dopo. Così Ivan si ritrovò tutto solo in un mondo di intrighi, emarginato dai boiardi, felici che il sovrano fosse ancora un moccioso. Si ricordavano di lui solo per le cerimonie ufficiali, dove veniva agghindato da re, servito e riverito. Poi se ne dimenticavano e gestivano in proprio il Palazzo e la Russia. Insultato, offeso, deriso continuamente (i boiardi gli toglievano i domestici e persino gli amichetti con cui giocare), il piccolo re – tale solo di età, poiché fisicamente era grande e grosso – si ritirò

La mezza Russia dei cavalieri neri

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ra il 1565 e il 1572 il Terribile divise la Russia in due: la Zemščina, governata tradizionalmente, e l’Opričnina, ai suoi ordini diretti e con un proprio esercito, composto dai famigerati opričniki: 6mila inquietanti ca-

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valieri che montavano cavalli neri e avevano come stemma una scopa (per “ripulire” la Russia) e una testa di cane (a guardia dello zar). Ben presto l’Opričnina degenerò. Brutalità. I sospettati di tradimento, soprattutto nobili

e preti, venivano incarcerati, torturati e spesso uccisi; le loro terre, confiscate, erano poi assegnate alla nuova nobiltà, devota a Ivan. Intere città subirono la furia dello zar. Come Novgorod, sul confine dell’Opričnina, saccheggiata

perché sospettata di aiutare i ribelli. Però, nel popolo, Ivan non lasciò un ricordo così terribile, forse perché indirizzò le violenze verso i possidenti che tartassavano i contadini: nelle fiabe russe, il principe Ivan è un eroe che ripara i torti.

AGK/MONDADORI PORTFOLIO

LOTTA DI POTERE

BPK/SCALA

Nobili russi (boiardi) in missione diplomatica: Ivan il Terribile si oppose al loro strapotere.

in un solitario mondo di letture, amarezza e giochi crudeli, come quello di buttare giù dai tetti i suoi cani da caccia. Poi a 14 anni decise che non avrebbe più sopportato: ordinò di arrestare un influente boiardo e lo fece strangolare davanti a sé, restando impassibile. Il re-bambino aveva iniziato la sua carriera di Terribile. E nel 1547, a soli 17 anni, si incoronò zar, cioè imperatore e autocrate di tutte le Russie. Il Buono... Nello stesso anno prese moglie, la prima di 7, forse l’unica che amò davvero. Ordinò alle famiglie nobili di Russia di inviare a Mosca le pulzelle maritabili e fra loro scelse Anastasia, della famiglia Romanov (che allora non era ancora dinastia regnante). Doveva essere un anno felice, invece finì male. Mosca bruciò: per l’incendio il popolo accusò i nobili e ci furono linciaggi. Lui stesso rischiò la pelle e soffrì la prima delle tante crisi psicologiche della sua vita: interpretò il fuoco come un castigo divino, si pentì pubblicamente e promise di governare solo per il popolo. Fu l’avvio del periodo “buono”, caratterizzato da grandi riforme. Ivan convocò lo zemskij sobor, l’assemblea (non elettiva) dei rappresentanti di tutte le classi, e fece approvare un codice penale e una riforma amministrativa, togliendo potere ai nobili locali. Regolò i rapporti con la Chiesa, assoggettandola allo Stato. Incentivò commerci e artigianato. Firmò accordi mercantili con gli inglesi (il porto di Arkangelsk, sul Mar Bianco, divenne la loro base) e cercò di attirare in Russia professionisti stranieri (medici, insegnanti, architetti, artisti e artigiani) ma senza successo. Il Brutto... Ivan riformò anche l’esercito: rafforzò le difese nel sud, introdusse reggimenti di moschettieri (gli strelizy), valorizzò artiglieria e genio, regolò i contributi della piccola nobiltà alla difesa

comune. Nel 1551 attaccò il khanato di Kazan e poi quello di Astrakhan, annettendoli. La cattedrale di San Basilio, che domina la piazza Rossa di Mosca con le sue guglie colorate, fu costruita proprio per festeggiare la conquista di Kazan. Finita questa guerra Ivan ne iniziò altre contro Svezia, Lituania, Polonia e teutonici di Livonia, che annientò. «All’inizio», osserva Bertolissi, «non era tenuto in gran considerazione all’estero. Con le guerre conquistò gran parte dei territori contesi e ottenne il riconoscimento internazionale». Intanto l’odio per i boiardi era aumentato. Motivo: a 23 anni Ivan si era ammalato. Tutti pensavano che sarebbe morto e i boiardi non giurarono fedeltà a suo figlio, disobbedendogli; a sorpresa lo zar guarì, e non dimenticò lo sgarro. Poi, nel 1560, morì la prima moglie Anastasia: Ivan si convinse che l’avessero assassinata i suoi più stretti consiglieri e la paranoia aumentò ancora; non si fidava più di nessuno. Arresti, esili, condanne a morte divennero ordinari. Molti boiardi fuggirono in Lituania: fra loro c’era uno dei migliori generali, Andrej Kurbskij. Improvvisamente però, a 34 anni, Ivan abbandonò la capitale portando con sé il tesoro di Stato. Si rifugiò ad Aleksandrov, una fortezza 125 km a nord-est di Mosca, e lasciò per un anno il regno nell’anarchia. ...e il Cattivo. Dal suo nido inviò due lettere pubbliche. In una accusava boiardi e clero di tutti i mali del Paese e annunciava l’intenzione di abdicare; ma con l’altra rassicurava il popolo: non l’avreb-

TERRIFICANTE L’attore Nikolaj Cerkassov nei panni dello zar nel film Ivan il Terribile (1944), del regista Sergej Ejzenštejn.

Opričnik dello zar

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Guerriero mongolo del Mar d’Azov

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Il principato di Moscovia nel 1572: in verde scuro il regno di Ivan III, in chiaro le conquiste di Ivan il Terribile. La linea tratteggiata era l’Opričnina.

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NEL REGNO DI IVAN

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Guerriero nomade della Siberia

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Ivan invitò 120 fra MEDICI, architetti, insegnanti e ARTISTI europei.

CONDOTTIERO La presa della fortezza dei Livoni a Koknese (oggi in Lettonia) da parte dei soldati di Ivan IV, durante la Guerra livonica (1573).

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be lasciato alla mercé degli avidi nobilastri. Clero e boiardi, disorientati come un gregge di pecore privato del suo pastore, stando alle cronache dell’epoca, lo pregarono di tornare. Spiega Bertolissi: «Rientrò solo quando furono accettate le sue condizioni. Cioè il diritto di punire a piacimento i “traditori” senza restrizioni e la divisione della Russia in due aree: l’Opričnina, al comando diretto dello zar, e la Zemščina, sotto il vecchio controllo dei boiardi». Con l’Opričnina e le scorribande della sua milizia (gli opričniki) la Russia conobbe un autentico periodo di terrore. Senz’altro uno degli obiettivi, proba-

bilmente non l’unico, era ridurre il potere dei nobili. La zona assegnata allo zar formava infatti un cuneo che aveva per base le città e i villaggi del Nord e si addentrava nella zona centrale della Moscovia, dividendo in due la Zemščina. L’Opričnina poi comprendeva la parte più ricca della Moscovia, con più vie commerciali e aree coltivate. Ma non solo: includeva proprio quelle terre che avevano costituito le antiche proprietà dei boiardi. Comunque la novità durò poco: Ivan decretò la fine dell’Opričnina nel 1572 e vietò ai sudditi anche solo di nominarla. «Uno degli elementi che portarono alla fine dell’esperimento fu l’ennesima invasione dei Mongoli di Crimea, che giunsero fino a Mosca senza che i soldati dello zar riuscissero a fermarli». Il tramonto. Le guerre intanto continuavano. A ovest, svedesi e polacco-lituani lanciarono controffensive vittoriose riprendendosi i territori persi. A est invece iniziò la conquista del khanato di Siberia, da dove partì la “lunga marcia” fino al Pacifico, un’epopea simile alla conquista del West negli Usa. Ma il Terribile era alla fine: negli ultimi anni divenne mentalmente più instabile; nel 1581 uccise il figlio Ivan in un eccesso d’ira e non si perdonò più quell’omicidio. Tre anni dopo morì: di crepacuore, si disse. Così sir Jerome Horsey, un agente commerciale inglese, descrisse gli ultimi giorni del-

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Ma in Germania fu loro VIETATO di salpare alla volta della RUSSIA lo zar: “L’imperatore cominciò a patire di gonfiore ai testicoli, dei quali aveva abusato nel modo peggiore per più di cinquant’anni, giacché si vantava di aver deflorato un migliaio di vergini e di aver messo a morte migliaia di suoi figli”. Quale eredità lasciò? Riassume Bertolissi: «Unificò la Russia, ma a caro prezzo. Il potere centrale fu rafforzato, la proprietà terriera messa in discussione e resa dipendente dallo Stato, la Chiesa idem. L’esercito fu usato anche per la repressione interna e per imporre la volontà dello zar. La nobiltà perse il potere politico locale ma fu compensata con grandi estensioni di terreno e con uomini per lavorarle: i contadini furono legati alla terra, privati del diritto di lasciare la proprietà e resi di fatto servi della gleba». Somiglianze. A pensarci bene, il sistema di potere di Ivan IV divenne poi un modello ricorrente nella storia russa. Anche Stalin, secoli dopo, centralizzò il potere, sottomise la Chiesa, svuotò i poteri intermedi e locali. Certo, i contesti erano diversi: Ivan pose le basi della servitù della gleba, Stalin voleva un’economia di Stato. Ma il dubbio che i “due Terribili” avessero somiglianze imbarazzanti venne a Stalin stesso: tanto che quando Ejzenštejn volle fare un terzo film su Ivan IV, il Cremlino lo bloccò. Eppure la figura del primo zar esercitò sempre sulle autorità sovietiche un fascino ambiguo. Al pun-

to che nel 1963 la salma fu riesumata dalla cattedrale dell’Arcangelo Michele al Cremlino, dove era sepolta, e sottoposta ad autopsia. A sorpresa, nel corpo furono trovate tracce di mercurio, che ribaltavano la chiave di lettura sulle circostanze della morte. I casi erano due: o Ivan era malato di sifilide (il mercurio era usato all’epoca come antidoto alla malattia) oppure era morto avvelenato. t

CARATTERACCIO Il vecchio zar con il figlio morto, ucciso nel 1581 in un impeto di violenza durante un litigio.

Federico De Palo

Il mito della “terza Roma”

L

a scelta del titolo di “zar” (derivato dal latino caesar, “cesare”) che Ivan IV adottò per sé, non fu casuale. La leggenda voleva infatti che 5 secoli prima Costantino IX, imperatore bizantino, avesse inviato le insegne del potere a un suo parente russo, antenato dei principi moscoviti. Addirittura era stato compilato un albero genealogico secondo cui quei principi sarebbero stati discendenti di Cesare Augusto, primo imperatore romano. Senza freni. Per di più, pochi decenni prima della nascita di Ivan,

un abate di Pskov aveva elaborato una dottrina in base alla quale Mosca risultava la “terza Roma”. Secondo questa teoria, all’originaria Chiesa romana era seguita quella di Costantinopoli, capitale dell’Impero romano d’Oriente. Dopo la conquista musulmana di Costantinopoli (1453) l’eredità spettava alla Chiesa del regno di Basilio III, padre del “Terribile”. «Il potere dello zar assunse dunque un carattere divino, superiore a quello degli altri nobili», conclude Sergio Bertolissi.

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DANTE ALIGHIERI - 1265

AL TEMPO DI DANTE

SCALA

IL POETA sognava un mondo SOBRIO E PUDICO, ma con LAPO e GUIDO si era divertito in riva all’Arno...

CONTRASTO

C

PROTAGONISTI DEL DUECENTO Dante (1265-1321) dipinto da Giotto e, sullo sfondo, La Chiesa militante e trionfante, particolare degli affreschi di Andrea Bonaiuti (XIV secolo) in Santa Maria Novella a Firenze.

i sono epoche, momenti irripetibili nella vita di una città, in cui tutto congiura per il meglio, ogni cosa tende al progresso, uomini d’ingegno ed eventi fausti concorrono a creare quell’aurea aetas, l’età dell’oro, che mai più gli abitanti di quell’angolo di mondo conosceranno. A Firenze successe nel Rinascimento, ma prima ancora, fra la metà del XIII e la metà del XIV secolo, nell’atmosfera bellicosa dell’epoca, una magica combinazione di eventi e talenti donò alla piccola cittadina sull’Arno lo status di vera potenza. Una scintilla può innescare una rivoluzione, e nell’ancor cupa Florentia del Medioevo bastarono i fiorini d’oro a generare il miracolo. Quei dischetti di metallo nobile (v. riquadro nelle pagine successive), coniati a partire dal 1252, aprirono la strada ai commerci, alla nascita delle banche e delle grandi famiglie fiorentine, a un formidabile sviluppo artistico e, soprattutto, a una storica novità: la nascita dell’italiano. Era il tempo di Dante. Non ancora sommo. Durante Alighieri, questo il suo vero nome, nacque nel 1265, quando sulla Penisola frantumata in mille potentati si andavano spegnendo gli ultimi fuochi del conflitto eterno fra papato e impero. Dante, come veniva familiarmente chiamato, nostalgico del secondo si distinse nella lotta contro il primo, rimettendoci i suoi pochi beni, un incarico pubblico e, sopra ogni cosa, quella città dall’animo mercantile e traditore che sommamente disprezzava e che rimpianse tutta la vita quando dovette abbandonarla di fretta a 36 anni, per un esilio dal quale non fece più ritorno. Le origini forse nobili della sua famiglia si erano diluite di generazione in generazione nei rigagnoli di fango delle strade di Porta San Pietro, il sestiere dov’era nato, lasciandolo pieno di livore e senza mezzi, ma ricco di quel talento sul quale contava per trovare una collocazione al sole delle piazze di Firenze. In quegli spazi aperti dove più tardi, nel ’400, ragazzotti muscolosi si sarebbero cimentati nel gioco del calcio, ora altri giovani di mente sottile si pavoneggiavano nei loro abiti fatti di calze a strisce sgargianti e giacchetti preziosi, coreografiche maniche a sbuffo o, per gli anziani autorevoli, toghe più 71

Tutto avveniva IN PIAZZA e sui sagrati delle CHIESE: nozze, funerali, ESECUZIONI capitali Un movimento tutto fiorentino, se si escludono Cino da Pistoia e il bolognese Guido Guinizzelli. Fu quest’ultimo a tracciare le linee guida di una corrente poetica che per la prima volta si espresse in “vulgare” e non più in latino, scrivendone il manifesto: il cantico Al cor gentil rempaira sempre amore. Rivoluzionari per la lingua usata, innovatori nel mettere al centro la “costola d’Adamo” fino ad allora poco celebrata, gli stilnovisti vedevano la donna come un angelo capace di avvicinare l’uomo a Dio. Poco importa se poi, a rima finita e a coppa di vino scolata, i rimatori si ritemprassero dai loro sforzi poetici nei bordelli in riva all’Arno, fra le carni generose delle meretrici. La prostituzione, che allora prosperava rigogliosa, entrava nel cursus honorum dei giovani fiorentini e le sue sacerdotesse si mostravano in giro senza troppi problemi. Come quella scandalosa Midea rimasta famosa per girare in abiti maschili, capelli corti e stiletto alla cintola. I passatempi. Mentre si ammiravano le belle dame, per strada si giocava anche a scacchi, stando attenti a non venire sbudellati a tradimento co-

AL COR GENTIL... Un episodio del Decameron di Boccaccio. I circoli dei poeti stilnovisti mettevano la donna al centro delle loro rime.

BRIDGEMAN/ALINARI

sobrie con cappuccio e frange, come quella che Giotto mette indosso a Dante in un ritratto. Alla fine del ’200 Firenze era preda dei suoi poeti. La “cricca” del Dolce stil novo. Uomini fatti, che usavano il pugnale alla cintura indifferentemente per tagliare le carni al desco o ferire a morte un nemico della fazione avversa, che quando si incontravano si tendevano la mano a mostrare di non essere armati, si riunivano in circoli di rimatori per scambiarsi versi su donne e sentimenti, a discutere “con teologico impegno” – come scrisse Indro Montanelli nel saggio Dante e il suo secolo (Rizzoli) – temi come “la dama tradita da un amante ha il diritto di prendersene un altro più fedele?”. Sull’esempio delle corti d’amore dei troubadour, i trovatori provenzali, anche l’élite della gioventù toscana andava formando la sua poesia. Guido Cavalcanti, membro della più nobile schiatta, Gianni Alfani, mercante della seta, Dino Frescobaldi, figlio di banchieri, il notaio Lapo Gianni, il rettore d’ospedale Sennuccio del Bene, Lapo degli Uberti, figlio dell’eroe ghibellino Farinata: furono loro i moschettieri del Dolce stil novo.

Boccaccio tifoso di Dante BIOGRAFO DI LUSSO

SCALA

Giovanni Boccaccio (qui ritratto da Andrea del Castagno) fu il primo a studiare e a valorizzare l’opera di Dante.

L

’altro pilastro della letteratura italiana, Giovanni Boccaccio (1313-1375), fu il primo biografo di Dante. Lo ammirava al punto da ottenere dal comune di Firenze, nel 1373, l’incarico di avviare in Santa Croce un ciclo di Lecturae Dantis, forse le prime della Storia.

Fan sfegatato. Nato quando il poeta era già in esilio, l’autore del Decameron non lo incontrò mai. Eppure, scrive Indro Montanelli, “si innamorò di Dante e ne divenne un irriducibile tifoso” tanto da raccogliere nel Trattatello in laude di Dante notizie e dicerie, testimonianze e aneddoti, senza badare

a discernere fra vero e falso. Comunque onore al merito, visto che riuscì a restituire a Firenze l’orgoglio di aver dato i natali al più grande poeta in lingua italiana. Un gigante. Boccaccio, che nacque in Toscana e visse a Firenze a più riprese, divenne egli stesso uno dei più grandi narratori in volgare.

me tal Betto Brunello, ammazzato mentre studiava una mossa. Ogni piazza era una bisca e i barattieri, bookmaker autorizzati, in uniforme e cappello nero a punta raccoglievano le puntate. Nei capannelli all’aperto ci si affrontava alle bocce o al pugilato, senza guantoni e all’ultimo sangue. A Campo di Marte si teneva una giostra di cavalieri che invece di infilzarsi con la lancia avevano ripiegato su un fantoccio di legno: la “quintana” o il “saraceno”. E quando non bastava il gioco, a occupare il tempo libero ci pensavano le vendette. Dante era stato promesso fin dall’età di 12 anni a Gemma Donati, com’era d’uso all’epoca. Lui si era attenuto al contratto sposandola già a 20 anni, imparentandosi così con una delle famiglie più importanti nella storia di Firenze, la stessa che ne determinò l’esilio. Gemma era, infatti, cugina di Corso Donati, fratello di Forese detto “Bicci”, giovanotto dotato di talento poetico ma dalla condotta licenziosa. Con lui Dante ne combinò qualcuna di troppo e l’amicizia degenerò in baruffa e poi in lite aperta, tutta combattuta in rime. Accusò Bicci di tenere al freddo la moglie, lui di campare a sbafo dei fratelli (Dante aveva due fratellastri, Francesco e Tana, figli della matrigna Lapa). Insomma, tra loro finì a colpi di “figliuolo di non so chi”. Le dame, i cavalieri, l’arme e gli amori. Comunque è vero che poco o niente si sa di come il poeta mantenesse la sua famiglia. Si iscrisse alla corporazione degli speziali, ma non risulta che in vita sua abbia mai mescolato pozioni o preparato medicamenti. Era andato coscritto alla battaglia di Campaldino (11 giugno 1289) ma, più che dalle manovre militari, nella sua migliore età era preso dalla bramosia di vita, occupato “da tutte quelle Lisette, Violette, Fiorette e Pargolette, dalla letteratura, dalle gaie brigate, dalle risse poetiche, e forse non solo poetiche”, scriveva Montanelli, “che si accendevano fra le consorterie”. 73

Guido, i’ vorrei... Dante era stato accolto sotto l’ala protettiva di Guido Cavalcanti (di dieci anni più grande), che verrà descritto così due secoli dopo da uno speciale ammiratore, Lorenzo il Magnifico:“Sottilissimo dialettico e filosofo [...] bello e leggiadro, come di sangue gentilissimo [...] magnifico, ammirabile, gravissimo nelle sentenzie”. Famoso per i suoi giudizi categorici e per gli sdegnosi furori, Guido poteva permettersi tutto: come i suoi amici, era aiutato dal blasone e dal denaro a dar sfogo al suo estro, a vivere l’arte per l’arte. Dante, che da sempre aspirava alla promozione sociale, fu accolto in questa consorteria e li sedusse con il suo genio: “Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io fossimo presi per incantamento, e messi in un vasel ch’ad ogni

vento per mare andasse al voler vostro e mio; [...] E monna Vanna e monna Lagia poi con quella ch’è sul numer de le trenta con noi ponesse il buono incantatore: e quivi ragionar sempre d’amore, e ciascuna di lor fosse contenta, sì come i’ credo che saremmo noi”. L’Alighieri citava la Vanna (Giovanna) amata da Cavalcanti, ma questa non fu l’unica “madonna” a interessare la gioventù dorata dello Stil novo: Lapo andava dietro a monna Lagia, e con Guido – anche lui padre di famiglia, come quasi tutti – si divideva in un rapporto a tre le grazie di una certa Lapa, mentre il bellissimo Dino Frescobaldi faceva parlare tutta Firenze con le sue scorribande amorose. Dante, per non essere da meno, si incamminò sulla strada delle rime per

PRESTITI GARANTITI A destra, banchieri toscani del XIV secolo negli affreschi di Niccolò di Pietro Gerini (Chiesa di San Francesco, Prato).

ANCHE A NOI In basso a sinistra, i mendicanti nel Trionfo della morte dell’Orcagna (1348), in Santa Croce.

Fioriini ed elemosinne

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a cittade montò molto in istato e in ricchezze e signoria, e in gran tranquillo: per la qual cosa i mercatanti di Firenze per onore del comune, ordinaro col popolo e comune che si battesse moneta d’oro in Firenze”. Così racconta il banchiere-scrittore Giovanni Villani nella Nova cronica (1322 circa), caposaldo della storiografia fiorentina, introducendo il discorso sulla “buona moneta d’oro fine di ventiquattro carati, che si chiamano fiorini d’oro” (foto)

che fu concausa e forse scintilla di uno dei grandi miracoli del Medioevo italiano: lo sviluppo di Firenze tra il “Dugento” e il Trecento. Tasse e welfare. La Toscana dell’interno aveva già ripreso vigore all’inizio del Basso Medioevo grazie alla via Francigena, che garantiva la circolazione delle merci oltre a quella dei pellegrini. Firenze lo fece nel XIII secolo, servendosi per giungere al mare e sui mercati di Francia, Brabante e Fiandre di un’altra via: l’Arno. La città favorì il ritorno dell’Occidente alla moneta d’oro, quella delle transazioni, la stessa

che prenderà in fretta la via delle corti europee, prestata dai banchieri fiorentini a caro prezzo – e ad altissimo rischio – a più di un sovrano scialacquatore. Ma c’era anche un’altra sorprendente novità: l’affermarsi in quel nucleo di imprese, che sarebbe stato prematuro chiamare “aziende”, di una funzione amministrativa, di un libro mastro, di una direzione. I “mercatanti”, come li definiva il Villani, cominciarono a studiare i mercati, a raffinare le merci, a incrementare la produzione. Nasceva, ancora agli albori, una genia di affaristi intraprendenti e navigatori impavidi che nel Quattrocento avrebbe dato al mondo Amerigo Vespucci e Giovanni da Verrazzano. Firenze era tassata allora per una ricchezza colossale di 25 milioni di libbre d’oro. Ma su 90-100mila abitanti quasi 20mila erano indigenti, un sottoproletariato senza capi in attesa di un capopolo. La città si era dotata però di un sistema di welfare, uno stato sociale avanzatissimo: i poveri venivano iscritti negli elenchi degli “elemosinari”, ai quali distribuire regolari sussidi, e le Arti avevano

una loro cassa pensione per malati, vedove e orfani. Viva la lana! Gli abili si buttavano nel business in un fervore di menti e in un lavorio di braccia che si concentrarono su un bene semplice e fondamentale: il panno di lana. Comprare la materia prima in Inghilterra, e non solo, fu il primo passo; trasformarla nelle abili mani dei tintori, darle il mordente, conferirle una dignità estetica, furono la logica evoluzione per un popolo ingegnoso (quello toscano in generale) e costituirono la base di un nuovo mestiere: l’arte della lana. Ma fu sull’onda del prestito, del “fido” così come nacque in Toscana nel ’300, che queste merci viaggiarono di scalo in scalo mettendo le ali all’economia fiorentina. Il fido non veniva concesso sulla base di garanzie reali, ma sulla fiducia e sui progetti. I banchieri si scambiavano informazioni attraverso una rete da far invidia al registro dei protesti di oggi. Poco dopo arrivarono anche l’ordine scritto e la lettera di cambio, che si ritrovano nei documenti toscani fin dal ’400: erano state gettate le basi dell’economia capitalistica.

A fine ’200 FIRENZE aveva tra 90 e 100mila abitanti mentre in Italia solo 23 CITTÀ ne facevano 20mila

L’AMICO PITTORE

SCALA (3)

Giotto di Bondone (1267 ca.-1337) lavorò a molti capolavori di Firenze.

l’angelicata Beatrice, coetanea conosciuta a malapena a 9 anni e che forse amò solo per convenzione poetica. Era uomo di mondo e doveva esibire anche lui un frutto proibito al quale rendere omaggio in rima. La ragazza, figlia del banchiere Folco Portinari, andò in sposa a un altro figlio dei soldi, Simone de’ Bardi, fece la sua vita e morì giovanissima. Ma non le dispiacque esser l’oggetto del desiderio di un poeta così promettente. Tutta Firenze sussurrava i versi che Dante le dedicava, ma sparlava anche delle altre: la “donna schermo” era forse per Dante un amore ben più concreto e carnale. Così, pare, ci fu anche una piccola scena di gelosia. L’incontro in paradiso era ancora lontano. Pastorelle e camporelle. Quello era il tempo della meglio gioventù di Firenze, che si riuniva per gareggiare in certami all’ultimo verso o gozzovigliare con ricche libagioni e donzelle di contorno. E se non c’erano quelle, restava il peccato “contro natura”, che nel 1325 veniva punito con ammende, amputazione della mano, castrazione e persino con il rogo, ma in realtà doveva essere abbastanza diffuso e moralmente tollerato visto che nel tedesco dell’epoca gli omosessuali venivano chiamati Florenzen. Se Cavalcanti scriveva versi su una certa “pasturella” armata di “verghetta”, Lapo degli Uberti rispondeva: “Guido, quando dicesti pasturella, vorre’ ch’avessi dett’un bel pastore”. E Dante nell’Inferno metteva tra i sodomiti proprio il suo maestro, quel Brunetto Latini (ca. 1220-1294), che riscoprì la lingua colta dei classici e fecondò le menti dei suoi discepoli, preparandole all’imminente nascita dell’Umanesimo. Immaginiamo questo messere, infervorato da 75

Secondo lo STORICO Villani, in città gli uomini in ARMI tra 15 e 70 anni erano 25mila: un ESERCITO quello speciale rapporto maestro-allievo sdoganato dai filosofi greci, presentare a Dante brani del suo Tesoretto: “Incontrai uno scolaio su ’n muletto vaio, che venìa da Bologna e sanza dir menzogna molt’era savio e prode: ma lascio star le lode, che sarebbero assai”. La parodia non è casuale. Nubi all’orizzonte. Ma qualcosa cambiò nella vita di Dante e della dorata gioventù fiorentina. Lui raccontò nella Vita nuova come gli fosse apparsa in sogno Beatrice, “mirabile visione” che lo indusse a metter la testa a partito. In realtà, a Firenze si agitavano ben altri spettri: quello del papato e dell’impero che tornavano a rimestar nel torbido. E fu così che “nel mezzo del cammin” della vita di Dante, in quell’anno 1300 che segnò tanti destini, il poeta si buttò in politica e iniziò a pensare la sua Divina commedia. La commedia umana, invece, stava per piegare in tragedia. Tra guelfi e ghibellini. Siena, Pistoia, Arezzo, i nemici esterni erano tanti e le guerre sanguinose, ma a Firenze si combatteva anche quartiere per quartiere, famiglia contro famiglia. In una città dove gli animi erano accesi da sempre, la lotta tra guelfi e ghibellini non si era mai sopita: i primi parteggiavano per il papa, i secondi per l’imperatore, e se le suonavano di santa ragione in scontri di piazza, guerre campali e scannamenti improvvisati. La rivalità tra guelfi bianchi e neri era una variante di questa battaglia condita di morti sventrati e gettati in Arno, di esìli più o meno temporanei, di palazzi arsi e pubblico dileggio. Doveva essere un gran divertimento per i gabellieri di guardia alle porte di Firenze vedere, di volta in volta, uscire gli uni di gran carriera verso lidi più sicuri e rientrare gli altri con l’espressione tronfia. Papa Bonifacio VIII, tanto vituperato da Dante, si contendeva l’ardore delle fazioni – e la loro spada – con imperatori e principi dell’epoca. Il cuore dell’Alighieri si era infiammato per quel Manfredi “biondo” e “di gentile aspetto”, figlio di Federico II di Svevia, che pochi anni prima della sua nascita era stato a un passo dall’ottenere la corona d’Italia. In quel frangente Farinata degli Uberti, condottiero di parte ghibellina e suocero di Guido Cavalcanti, che era stato messo al bando e costretto alla fuga, aveva riconquistato con la vittoriosa battaglia di Montaperti (1260) un posto d’onore fra le famiglie fiorentine, riprendendosi quello che pochi mesi prima i guelfi gli avevano tolto. La resa dei conti. La verità è che a Firenze ormai erano in troppi. Immaginiamo una città operosa, ma ancora piccola e soffocante, minacciata di conti76

nuo dal fuoco e dalle pestilenze per la sua conformazione di strade strette e maleodoranti, dove grufolavano i maiali e le case di legno si accendevano come fiammiferi. L’afflusso della “gente nova” che tanto poco piaceva a Dante aveva già fatto guadagnare al perimetro di Firenze una seconda cerchia di mura, ma con la costruzione di nuovi ponti le case iniziarono a dilagare Oltrarno e ancor più fuori. Non c’erano ancora il Duomo, i bei portici di piazza della Signoria e le ricche dimore patrizie. C’erano il palazzo del vescovo e del podestà, il Battistero, ma privo dei suoi marmi verdi e bianchi, le case-fortezza e le torri minacciose dei patrizi in lite perenne. La città-capolavoro che conosciamo oggi era ancora cupa e affamata, ma presentava alcune novità: i signori dei feudi si erano inurbati e con la crescita dell’oligarchia erano aumentati anche i poveri. Il popolo si era organizzato in corporazioni, le “arti”, per lo più di parte guelfa, efficienti nello smistare le maestranze e regolare la concorrenza, nel fissare il prezzo delle merci e stabilire gli obiettivi comuni. Tanto potenti da potersi permettere di assoldare il maestro Arnolfo di Cambio, che lavorava ai cantieri di Santa Croce e Santa Maria del Fiore, per commissionargli un’opera che fosse il simbolo delle corporazioni: la loggia di Orsanmichele (dove poi lavorò un altro maestro del calibro di Andrea Orcagna). Le arti maggiori (giudici e notai, cambiatori e banchieri, medici e speziali, setaioli, lanaioli e pellicciai) si erano arricchite e avevano formato il “popolo grasso”, che con il “popolo minuto” delle arti minori (fornai, muratori...) e i nobili andavano a costituire le tre classi della società fiorentina del Duecento.

BONIFACIO VIII La statua del papa scolpita da Arnolfo di Cambio. Sotto, sigillo guelfo, il partito papalino.

Una vista di Firenze nel 1352. Nel 1284 il comune aveva avviato la costruzione di una nuova cinta muraria, più estesa rispetto alla precedente.

Tutto in pezzi. Fu tra queste classi che riprese la lotta. Come Dante si ritrovò invischiato nella guerra tra Cerchi e Donati, le due famiglie guelfe più potenti del suo tempo (l’una bianca, l’altra nera), sarebbe troppo lungo da dire. Diventò prima ambasciatore e poi priore, carica di primo piano allora, ma finito nella fazione perdente, i cerchisti, in men che non si dica perse tutto. I Donati, parenti di Dante, vinsero ed epurarono i loro nemici – primi fra tutti gli stilnovisti – e qualche “amico”, ammazzando e bruciando quanto poterono. Il 27 gennaio 1302 anche Dante fu bandito dalla città. Quando fu emessa la sua condanna al rogo il poeta era già lontano. In esilio, a Padova incontrò nuovamente un suo amico: Giotto. Dante non rientrò più in Toscana (morirà a Ravenna nel 1321), ma Giotto vi tornò a render più bella Firenze con il duomo, il suo campanile e gli affreschi in Santa Croce. Intanto la città rimetteva insieme i cocci e riprendeva a crescere. Lo fece fino al 1348, l’anno della peste nera. Ma questa è un’altra storia. t Lidia Di Simone

L’ALTRA FAZIONE Farinata degli Uberti, nobile di parte imperiale, citato da Dante fra i “degni del passato”. Sotto, sigillo ghibellino.

SCALA (5)

LA CITTÀ ESPLODE

GIOTTO DI BONDONE - 1267

ESPRESSIONI UMANE Incoronazione della Vergine, particolare del Polittico Baroncelli, pannello centrale (1330 ca). A destra, Cuspide con Dio Padre e angeli, parte del Polittico.

Padre della pittura MODERNA, fu il primo artista viaggiatore: la sua gloria è affidata a opere in tutta la PENISOLA, da Firenze a Roma, da Padova ad Assisi

rivoluzionario F

ormidabili, quegli anni. E quell’Italia, agli sgoccioli del Medioevo. Siamo nei decenni a cavallo tra XIII e XIV secolo. A breve distanza l’uno dell’altro, agiscono due padri fondatori della nostra cultura: Dante Alighieri, che trasformò il volgare da dialetto in lingua nazionale, e Giotto di Bondone, per tutti Giotto, che inventò la lingua figurativa italiana. Per dirla con Cennino Cennini, pittore e trattatista, “Giotto rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno”. Con queste parole il critico voleva dire che l’artista fiorentino fu grande, anzi il più grande del suo tempo, perché abbandonò la staticità bizantina, colma di ori e di astrazioni, e passò a ritrarre persone concrete, la natura così com’era, le emozioni umane: il tutto dentro una misura, uno spazio, una prospettiva. I personaggi delle sue storie non sono più figure piatte, immateriali, staccate dalla vita quotidiana. Basta pensare a L’omaggio dell’uomo semplice, una delle 28 scene nella Basilica Superiore di Assisi: un uomo stende il suo morbido mantello ai piedi di San Francesco, in una piazza di Assisi, tra personaggi vestiti da borghesi dell’epoca, in uno spazio che ha una profondità quasi tridimensionale. Eccola, la rivoluzione di Giotto, pacifica e rapidissima: fatta nel giro di pochi anni, cambiò la faccia della pittura e fu una svolta senza ritorno. Ma facciamo un passo indietro: chi era Giotto nella vita? Di lui si conosce molto e molto si ignora o

si discute. La datazione di parecchie e importanti opere, anzitutto. Ma anche l’anno di nascita: 1267 secondo alcuni cronisti del Trecento, 1276 secondo il biografo e pittore Vasari. E il luogo: parrebbe essere Vespignano del Mugello, vicino a Firenze, in cui sono ambientati racconti veri e leggende della sua infanzia (vedi riquadro a pag. 82), e dove da adulto acquisterà terreni e case per la famiglia. Atti di nascita o certificati di battesimo a Firenze, del resto, non risultano. Ma certo fu lì che Giotto fece l’apprendistato, secondo la tradizione nella bottega del pittore Cimabue (il padre Bondone era invece un fabbro), e lì iniziò la sua attività, da subito in chiese importanti. Prima grande commissione: la Croce di Santa Maria Novella, eseguita per l’Ordine domenicano. «Giotto era un genio dalla prima gioventù e un mostro di pubbliche relazioni», afferma Serena Romano, docente di Storia dell’arte medievale all’Università di Losanna e curatrice della mostra Giotto, l’Italia (vedi riquadro a pag. 83). «A 20-25 anni era già in contatto con le più esclusive sfere sociali della città e aveva lavorato con le alte gerarchie dei due Ordini Mendicanti più prestigiosi, francescani e domenicani, che alla fine del Duecento erano autentiche potenze, ponte tra mondo ecclesiastico e società civile». Non per nulla chiamò i primi figli avuti dalla moglie Ciuta Francesco e Chiara, e si stabilì nel quartiere di Santa Maria Novella. Come attesta un 79

Gestiva CANTIERI multipli, con molti collaboratori e compresenze. Come un’ARCHISTAR del nostro tempo FESTA DI ANGELI E COLORI A sinistra, Polittico di Badia (1295-1300). Sotto, il Polittico Baroncelli in tutto il suo splendore: si trova in una cappella di Santa Croce, a Firenze, e fu eseguito per l’omonima famiglia di ricchi banchieri.

documento del 1301, nella casa attigua alla sua andò ad abitare il notaio Latino, fratello di Brunetto Latini, maestro e amico di Dante. Volete che i due innovatori non si fossero almeno conosciuti? Documenti ufficiali, però, non ne abbiamo. A partire dagli anni Novanta del Duecento, durante il pontificato del francescano Nicolò IV, è da Assisi che arriva l’incarico della fama eterna per Giotto: le Storie di San Francesco dalla giovinezza alla morte, affreschi che già destavano meraviglia nei suoi contemporanei. Il futuro maestro li dipinse di certo con mol-

ti aiuti e l’esperienza del cantiere con artisti di tutto il Centro Italia gli allargò gli orizzonti. Non solo. Da queste opere, che dimostrano una buona conoscenza di antiche rovine e magnifici edifici medievali dell’Urbe, si capisce che Giotto doveva essere già stato a Roma. Forse vi era andato con Cimabue, artista illustre e noto alle alte sfere pontificie. E certo era riuscito a instaurare buoni rapporti con la Curia, tanto che venne chiamato dal papa per il Giubileo del 1300. A questo punto Giotto era diventato un artista importante, considerato dai colleghi e apprezzato dai committenti, che crescevano ogni giorno di più . Genio e imprenditore. Risultato? Tra il 1300 e il 1310 ha inizio il su e giù per l’Italia del pittore fiorentino, che diventò così il primo artista viaggiatore. «Nel primo decennio del Trecento Giotto sarà a Rimini, dove lavorerà per i francescani della Chiesa di San Francesco, oggi Tempio Malatestiano, in cui si ammira ancora la sua Croce. Nello stesso periodo è attivo a Firenze, dove opera nella Chiesa di Badia e dipinge la Madonna in trono col bambino e angeli della Chiesa di Ognissanti», continua Serena Romano. Ma soprattutto Giotto in quegli anni fu a Padova: lo aveva chiamato nel 1303 il magnate Enrico Scrovegni, figlio di un notaio tristemente noto per la sua attività di usura, tanto da essere finito nell’Inferno dantesco. Scrovegni ottenne il permesso di erigere un oratorio alla Madonna e chiamò il massimo artista del momento per affrescarlo. Nacquero così le Storie della Vergine, le Storie di Cristo, le figure di Vizi e Virtù e il grandioso Giudizio finale nella controfacciata, dove appare anche Enrico Scrovegni. Ma come faceva, Giotto, ad accontentare così tanti committenti? Perché dopo, arrivarono chiamate da Roma, ancora da Assisi e da Firenze. Stare su un ponteggio per due anni di seguito non sarebbe stato possibile, se non perdendo parecchie richieste. «Giotto seppe gestire cantieri multipli e complessi, grazie alle compresenze, a validi collaboratori e una straordinaria abilità organizzativa e imprenditoriale», spiega la professoressa Romano. «Proprio come una moderna archistar, accettato un incarico ne stabiliva regia, ideazione, protocollo, la parte destinata al suo lavoro diretto e quella degli allievi, che ricalcavano strettamente il modello del maestro». Riuscì così a realizzare per la basilica di San Pietro il mosaico della Navicella e il polittico voluto dal facoltoso cardinale Jacopo Caetani Stefaneschi, canonico di San Pietro, a occuparsi degli affreschi della Basilica inferiore di Assisi e delle splendide cappelle in Santa Croce, a Firenze, per le ricche famiglie Pardi, Peruzzi e Baroncelli. 81

UN ALTARE PER IL VATICANO A sinistra, Madonna col bambino in trono e due angeli (1288 ca). Qui, particolare del Polittico Stefaneschi (recto) con il cardinale committente, Jacopo Caetani Stefaneschi, che regge il modello della tavola di Giotto, in dono a San Pietro (II decennio del ‘300).

La verità sulla “O” di Giotto

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econdo Lorenzo Ghiberti e poi il celebre Vasari, Giotto incontrò il suo maestro Cimabue a 10 anni, mentre pascolava il gregge del padre agricoltore. Cimabue stava andando da Firenze a Vespignano e notò il fanciullo mentre ritraeva una pecora su una pietra liscia, senza che nessuno glielo avesse insegnato se non la natura. Meravigliato, lo prese con sé a bottega. In realtà Bondone, il padre di Giotto, faceva il fabbro e non possedeva greggi. Quindi è inverosimile che i due si siano

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conosciuti così. Compasso? No, grazie! Quanto alla celebre “O” di Giotto, sempre il Vasari racconta che papa Bonifacio VIII spedì un messaggero all’artista, con la richiesta di disegnare qualcosa che dimostrasse il suo talento. Egli immerse il pennello nel rosso e disegnò un cerchio perfetto con un solo tratto. Quando il papa lo vide, capì che Giotto superava gli altri artisti del periodo e lo chiamò a Roma. Tutto vero? Abbiamo solo il racconto di Giorgio Vasari, e potrebbe trattarsi di nuovo di una leggenda.

Nei suoi anni più tardi, tra il 1328 e il 1332 circa, l’instancabile artista soggiornò alla corte di Napoli, dove l’aveva chiamato Roberto d’Angiò, che lo stimava tanto da nominarlo “familiare” e pagarlo in abbondanza, assegnandogli un vitalizio da trasmettere anche ai suoi eredi. Ormai aveva lavorato per il papa e il re, per tutte le corti e molti governi italiani (con incursioni anche a Bologna, Pisa, forse Verona e forse Avignone), per cardinali, ordini religiosi e facoltosi banchieri. Cosa poteva dargli ancora Firenze, la sua patria? Nel 1334 il governo comunale lo nominò magister di tutte le opere architettoniche della città, inclusa la fabbrica della cattedrale, le mura e l’incarico prestigioso di costruire il celebre campanile, di cui riuscì a gettare le fondamenta e a dirigere i lavori sino al primo ordine dei rilievi. L'ultimo viaggio «A 70 anni, poco prima di morire, venne mandato dal Comune fiorentino a Milano, da Azzone Visconti, come ambasciatore di lusso: Firenze inviava ai temuti signori di Milano un campione illustrissimo», racconta Serena Romano. Per il loro palazzo Giotto affrescò una Gloria e una serie di Uomini illustri, tra i quali lo stesso Azzone. Opere perdute, purtroppo, per rifacimenti dell’edificio voluti dagli eredi Visconti. Giotto tornò poi a Firenze e l’8 gennaio 1337 spirò. La città lo seppellì con tutti gli onori, nel duomo e a spese pubbliche. La sua arte, diventata leggendaria e celebrata da Dante, Boccaccio e Petrarca, nonché da Vasari, verrà studiata da Masaccio e Michelangelo e lo stesso faranno molti altri artisti nel corso del tempo, persino nel XX secolo: in lui vedranno, come noi oggi, l’autore di un dolce stilnovo di santi e madonne. t Irene Merli

SU GENTILE CONCESSIONE DEL SERVIZIO FOTOGRAFICO DEI MUSEI VATICANI, © GOVERNATORATO DELLO STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO

SU GENTILE CONCESSIONE DEL SERVIZIO FOTOGRAFICO DEI MUSEI VATICANI, © GOVERNATORATO DELLO STATO DELLA CITTÀ DEL VATICANO

A 67 anni diventò MAGISTER di tutte le fabbriche di Firenze, CATTEDRALE e fortificazioni comprese

MORBIDE PIEGHE Polittico Stefaneschi, particolare dal verso: il velo di Plautilla, nel pannello con la decapitazione di San Paolo.

Passeggiando tra capolavori

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el Palazzo Reale di Milano è in corso fino al 10 gennaio Giotto, l’Italia, un’esposizione che presenta 14 capolavori, di attribuzione e provenienza certa, mai riuniti prima in una stessa mostra. Il percorso, che intende visualizzare il tragitto del maestro in Italia, inizia da tavole gio-

vanili: il frammento della Maestà della Vergine da Borgo San Lorenzo e la Madonna da San Giorgio in Costa, del periodo in cui Giotto era attivo tra Firenze e Assisi. Segue il nucleo della Badia fiorentina, con il Polittico dell’altare maggiore e alcuni frammenti degli affreschi che lo deco-

ravano. Dalla Cappella degli Scrovegni proviene Dio Padre in Trono, che documenta la fase padovana, e poi si arriva nella spettacolare sala con il Polittico bifronte di Santa Reparata, il Polittico Stefaneschi, mai uscito in 7 secoli dal Vaticano, e un frammento affrescato mai visto prima, di col-

lezione privata, con due teste di apostoli sempre provenienti da San Pietro. Infine, il fiorentino Polittico Baroncelli con la sua cuspide, giunta del San Diego Museo of art, e il Polittico di Bologna. (Tutte le immagini del servizio sono di opere esposte nella mostra, courtesy Electa)

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RMN/ALINARI

LEONARDO DA VINCI - 1452

L’ENIGMA E IL SUO CREATORE La Gioconda, alla quale l’artista lavorò per anni, da alcuni identificata nella nobile fiorentina Lisa del Giocondo. A destra, ritratto di Leonardo (1452-1519) eseguito da un suo allievo, forse il Melzi o Marco d’Oggiono.

ALINARI

genio a tutto tondo Fu sempre pronto a sfruttare ogni OCCASIONE di lavoro pur di continuare a SPERIMENTARE: era GRANDE anche per questo 85

Nel 1476 fu accusato di SODOMIA con altri allievi del Verrocchio, ma la sua CARRIERA non ne risentì

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arcando la soglia del Castello di Amboise (Francia), portando con sé la Gioconda e gli inseparabili appunti, Leonardo trepidava di gioia. Era il 1517 e alla veneranda età di 65 anni aveva finalmente trovato il mecenate che cercava: il re di Francia Francesco I di Valois lo aveva nominato “premier peintre, architecte, et mecanicien du Roi”, cioè “primo pittore, architetto e ingegnere reale”. Il che significava uno stipendio annuo di un paio di migliaia di scudi, oltre a vitto e alloggio. Era il degno coronamento di una vita di viaggi e di lavori disparati, al servizio degli uomini più potenti. Lavori il cui unico scopo era finanziare i propri studi in tutti i possibili campi del sapere. A bottega. La fame di conoscenza che lo portò a sfruttare ogni occasione di lavoro che la vita gli offrì (e lo spinse a cercarne sempre di nuove) caratterizzò Leonardo fin da piccolo. Se ne accorse presto il padre, Piero, rispettato notaio ben introdotto negli ambienti fiorentini (poteva annoverare anche i Medici tra i suoi clienti). Fu lui, intorno al 1470, ad accompagnare quel suo figlio illegittimo, ancora adolescente, in una delle botteghe più importanti del tempo, quella di Andrea Verrocchio. Qui il ragazzo imparò subito a risolvere problemi pratici, come quelli affrontati quando ebbe l’incarico di porre sulla cima della cupola di Santa Maria del Fiore l’enorme palla di rame dorata che la bottega aveva fuso. Ma qui, soprattutto, si cimentò per la prima volta con la pittura, con risultati da subito sorprendenti. Come nel suo intervento sul Battesimo di Cristo, classico esempio di allievo che supera il maestro: l’angelo dipinto da Leonardo, dai colori più fluidi e dall’angolazione innovativa, era decisamente meglio riuscito di quello vicino, del Verrocchio. Racconta il Vasari che il maestro fu così umiliato che decise di “non toccar più colori”. Nello stesso periodo Leonardo dipinse l’Annunciazione, quadro che, pur

con qualche ingenuità, contiene già tutti gli elementi che lo faranno distinguere dai suoi contemporanei: dalla particolare disposizione delle figure al paesaggio che si vede sullo sfondo. Certo è che quando – verso il 1475 – dipinse il ritratto di Ginevra Benci (rampolla di banchieri) quel giovane pittore che dipingeva “alla fiamminga” era già una celebrità per la borghesia fiorentina. Piove lavoro. Solo che Leonardo non voleva limitarsi a dipingere. Si era già cimentato con il disegno tecnico, reinterpretando con nuove applicazioni le macchine della tradizione medioevale e, ancora prima, romana (come leve, carrucole e piani inclinati). Così si lanciò in progetti visionari, come sollevare il battistero di Firenze per aggiungervi, alla base, una scalinata. Fra tante commissioni (che ormai non gli mancavano), cominciò a lasciare a metà diverse opere. Nel 1478 gli fu chiesto di realizzare la pala d’altare della Cappella di San Bernardo in Palazzo Vecchio, che non portò mai a termine. E incompiuti rimasero sia il San Girolamo sia l’Adorazione dei Magi, commissionatagli dai monaci di San Donato a Scopeto, che fu poi abbandonata con altri oggetti in casa dei Benci. Tanta inconcludenza si deve, secondo i biografi, al fatto che Leonardo, ormai stufo di Firenze, stava cercando nuovi lidi. La città delle opportunità. Nel 1482 Lorenzo de’ Medici decise di mandarlo a Milano, alla corte di Ludovico il Moro, forse come segno dei buoni rapporti tra le due corti, forse per timore di essere travolto dalla politica espansionista del duca di Milano. Per Leonardo la possibilità di entrare in contatto con quella che stava diventando una delle più importanti corti d’Europa fu un’occasione d’oro: Milano si trovava al centro di una regione nella quale non mancavano le opportunità di mettere in pratica le sue conoscenze tecniche, per esempio nella regolazione delle acque convogliate nella estesa rete di

Quel posto sarà mio

Q

uando si recò da Ludovico il Moro, nel 1482, Leonardo portò con sé una lettera di presentazione (non autografa: si fece forse aiutare da un conoscente non digiuno di diplomazia), che era una sorta di curriculum studiato ad hoc.

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Stratega. Astutamente Leonardo metteva in luce le sue abilità di ingegnere militare, proprio in un momento in cui il Moro coltivava l’ambizione di espandere il suo regno, e solo nell’ultimo punto (su dieci) scrisse di ciò che avrebbe potuto fare “in tempo di pace”. Tutta la parte

precedente è un catalogo di opere belliche che prometteva di realizzare, dai “ponti leggerissimi e forti” alle “bombarde commodissime et facili da portare”, ai “carri coperti, securi et inoffensibili”. Solo sulla carta. Non sappiamo quanti di questi progetti furono realizzati, e sembra

che il Moro in battaglia raramente abbia fatto uso delle macchine leonardesche. Ma la lettera raggiunse il suo scopo e gli anni del primo periodo milanese di Leonardo, sotto la protezione di Ludovico il Moro, furono tra i più fecondi di tutto il Rinascimento.

La suaa vita

Una macchina da guerra per falciare letteralmente i nemici. L’arma è spinta da cavalli: il movimento delle ruote che serve a fare avanzare il carro, agendo sugli ingranaggi, fa ruotare anche le lunghe lame.

14 452 2 Leonardo nasce il 15 aprile a Vinci, figlio naturale di ser Piero e di una certa Caterina. 14 470 0 È a Firenze, nella bottega del Verrocchio. 14 472 2 È membro della corporazione dei pittori fiorentini, con Perugino e Botticelli. 14 474 4 Esegue il ritratto di Ginevra Benci. 14 476 6 È accusato di sodomia. Il processo si conclude con l’archiviazione. 14 481 1 Inizia l’Adorazione dei Magi per i frati di San Donato. 14 482 2 Si stabilisce a Milano, alla corte di Ludovico il Moro. 14 483 3 Si dedica alla Vergine delle rocce. 14 490 0 È a Pavia con Francesco di Giorgio Martini. Organizza la Festa del Paradiso, progetta una colossale statua equestre (mai realizzata) e dipinge la Dama con l’ermellino. Si stabilisce da lui un ragazzo, detto il Salaì, forse suo amante. 14 495 5 Comincia il Cenacolo in Santa Maria delle Grazie. 14 499 9 Lascia Milano, occupata dai francesi. È ospite a villa Melzi a Vaprio d’Adda, poi a Mantova, dove incontra il matematico Luca Pacioli. 15 500 0 È a Venezia, attraversa il Friuli e quindi rientra a Firenze. 15 502 2 Cesare Borgia lo nomina ingegnere militare delle sue truppe. 15 503 3 Torna a Firenze. Inizia la Gioconda e la Battaglia di Anghiari. 15 506 6 Va a Milano chiamato da Carlo d’Amboise, governatore francese. 15 508 8 Esegue lavori urbanistici e idrografici per i francesi. Progetta un monumento equestre (mai realizzato) per il condottiero Gian Giacomo Trivulzio. 15 513 3 Si stabilisce a Roma, nel Palazzo del Belvedere, con Melzi e il Salaì, sotto la protezione di Giuliano de’ Medici, fratello del papa. 15 514 4 Progetta la bonifica delle paludi pontine. 15 517 7 Si trasferisce ad Amboise, in Francia, nel Castello di Clos Lucé, dove è raggiunto dal Melzi e dal Salaì. 15 519 9 Muore il 2 maggio. Lascia scritti e disegni al Melzi.

IL NONNO DEL PEDALÒ Questa imbarcazione, evoluzione di una precedente idea medioevale, è azionata a pedali, grazie a un meccanismo che trasforma il moto alternato delle gambe in moto rotatorio continuo.

COME UN PIPISTRELLO Una delle macchine volanti progettate da Leonardo ispirandosi al volo degli uccelli. Il pilota è seduto e il movimento delle ali meccaniche è regolato con le braccia e con due pedali.

DISEGNO CONCESSIONE MINISTERO BENI E ATTIVITÀ CULTURALI/BIBLIOTECA REALE DI TORINO

PER MIETERE NEMICI

L’ultimo LAVORO per il Moro fu la DECORAZIONE della Sala dell’Asse nel CASTELLO Sforzesco (1498)

SCALA

canali che il Moro stava facendo costruire per alimentare le tante tessiture. Per avere più possibilità di farsi accettare dal Moro, Leonardo si fece scrivere una lettera di presentazione (v. riquadro nella pagina precedente) in cui metteva in luce le proprie capacità come ingegnere militare. Anche se, in cuor suo, considerava la guerra una “pazzia bestialissima”. Di testa sua. A Milano la sua personalità indipendente si andò definendo. Lo dimostra la storia del primo dipinto milanese. Il priore della Confraternita laica dell’Immacolata concezione gli commissionò una pala d’altare: doveva rappresentare la Vergine in primo piano in un ambiente montano, vestita con un abito di broccato oro e azzurro, con il Bambino, un gruppo di angeli e due profeti. Il risultato, la Vergine delle rocce, era però ben diverso. L’episodio rappresentato (l’incontro tra i piccoli Gesù e san Giovanni Battista narrato nella Vita di Giovanni secondo Serapione), nonché il modo innovativo in cui l’artista lo dipinse, scandalizzarono i committenti, che lo ritennero ereti-

L’OPERA PERDUTA Il disegno a sinistra potrebbe appartenere al lavoro preparatorio per la Battaglia di Anghiari (1503), oggi perduta, che Leonardo dipinse nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio (Firenze).

ILLUSTRAZIONE F. BOZZANO ALINARI

Che spasso le feste di Leonardo!

IL CENACOLO MENEGHINO L’Ultima cena (14951498), nel refettorio di Santa Maria delle Grazie, a Milano. Nel 1999 è stato completato il suo restauro più recente.

M

ostri che emergevano dall’oscurità, apparizioni magiche, angeli in volo, esplosioni pirotecniche... Le feste rinascimentali furono tra le più sfarzose di ogni tempo. I signori e i loro ospiti andavano in visibilio per i quadri viventi, scene mitologiche fatte rivivere con canti e balli, e rese più spettacolari grazie agli effetti speciali che lasciavano tutti a bocca aperta.

Il più creativo in questo campo fu forse Leonardo da Vinci. Automi. Per la corte milanese degli Sforza realizzò vari automi, tra cui un cavaliere che muoveva la mascella e le braccia. Memorabile rimase la Festa del Paradiso (sopra, una ricostruzione), con fanciulli travestiti da angeli, grandi nicchie con le allegorie dei pianeti e candele usate al posto delle stelle, che riflesse da una

co. L’atteggiamento di Leonardo non cambiò neppure quando il committente fu il duca di Milano in persona. Era troppo ansioso di sperimentare cose nuove. Un esempio: intorno al 1490 ritrasse la bella Cecilia Gallerani, nel dipinto poi noto come La dama con l’ermellino, su uno sfondo nero e di tre quarti, mentre sembra guardare (insieme all’animale) un’azione che si svolge al di fuori del quadro. Una novità. E sperimentò anche quando dal Moro ricevette l’incarico di dipingere, su una parete del refettorio del convento annesso alla basilica di Santa Maria delle Grazie, l’affresco dell’Ultima cena. A Leonardo la tecnica dell’affresco, che prevedeva di lavorare velocemente sull’intonaco “a fresco” (cioè su intonaco appena steso), non piaceva. Per cui se ne inventò una che gli permettesse di andare ogni tanto a dare anche una sola pennellata, continuando a seguire in contemporanea i suoi innumerevoli altri studi e lavori. Troppo tardi scoprì che il dipinto, in questo modo, si deteriorava molto rapidamente: quando ancora Leonardo era

superficie dorata creavano un fulgido scintillio. Per l’Orfeo del poeta Angelo Poliziano, infine, Leonardo concepì una montagna di cartapesta che si apriva mostrando fiamme e demoni, mentre il signore dell’Ade, Plutone, emergeva dal sottosuolo grazie a una specie di ascensore. Un’invenzione considerata la prima scenografia mobile del teatro moderno. (a. c.)

in vita, complice l’umidità dell’ambiente, il Cenacolo era ridotto a una macchia di colore indistinta. Il tempo, l’incuria dei frati e i soldati di Napoleone hanno fatto il resto. Nel frattempo Leonardo cercava di riscattarsi dalla sua condizione di “omo sanza lettere” (non aveva seguito un adeguato corso di studio) e per rispondere ai “trombetti” (così definiva chi recitava a pappagallo il sapere altrui) che lo deridevano, affermò che la regola della “vera scienza” era quella di basarsi sull’esperienza, e che “nessuna certezza è dove non si può applicare una delle scienze matematiche”. Voli poco pindarici. Questi precetti accompagnarono anche il suo sogno più grande: quello di realizzare ali per “immergersi nell’aria” (cioè volare). Non ci riuscirà, ma aveva certo ben presente l’analogia tra aria e acqua. E forse il fatto che le sue intuizioni siano andate così vicino al volo umano si deve anche al fatto che il Moro gli aveva dato molto lavoro come ingegnere idraulico. Neppure le macchine più stupefacenti nacquero 89

Non tutti sanno che...

Fo orse no on era ita alian no all 10 00% La madre di Leonardo era, secondo alcuni, di origini orientali. Il nome Caterina era infatti comune tra le schiave convertite al cattolicesimo. Inoltre, le impronte digitali di Leonardo rilevate sul San Girolamo mostrerebbero somiglianze con un tipo diffuso tra gli arabi. Il su uo gu usto o del grotttessco Il suo sguardo era attirato non solo dal bello, ma anche dal deforme, tanto che molti lo considerano l’iniziatore del genere della caricatura. In effetti disegnò teste maschili in cui le caratteristiche fisiche sono accentuate fino a un effetto grottesco. Essportò lui la a Gio oco onda a Un’idea ancora diffusa è che la Gioconda sia stata portata al Louvre dai napoleonici. Fu invece lo stesso Leonardo a condurla con lui in Francia, e il re Francesco I la pagò 4 mila scudi d’oro (due anni dello stipendio di Leonardo). Le truppe napoleoniche presero invece, senza mai restituirli, alcuni manoscritti (oggi “Codici dell’Istituto di Francia”). Ca apiv va i fosssilii Al suo tempo si riteneva che i “nichi”, come si chiamavano allora i fossili, fossero resti del Diluvio universale o forme di vita a cui Dio non aveva dato l’anima. Leonardo fu il primo (dopo gli antichi Greci) a comprendere che in realtà erano resti di animali e piante pietrificati da processi geologici e portati alla luce

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dai movimenti della crosta terrestre. Sm masche erò ò i ch hirrom manti t Anche se nel Codice Atlantico è riportata una spesa di sei soldi per farsi predire la sorte, Leonardo scrisse che la chiromanzia era “fallace”. Notò infatti che basta confrontare le mani di persone morte nello stesso momento per vedere che le linee della vita non si somigliano. Sccoprì gli anellli deg gli alb beri La prima persona a osservare gli anelli di accrescimento degli alberi, e a capire che, contandoli, si può determinare l’età di una pianta, fu proprio Leonardo. Da questa osservazione è nata in anni recenti una nuova scienza, la dendroclima-tologia, che studia i climi del passato grazie a particolari tracce lasciate dalla natura negli anelli degli alberi. Sttudiava a il cu uore e Ai tempi di Leonardo si credeva che il cuore servisse per scaldare il sangue. Fu lui il primo a intuirne la funzione di pompa. Per questo alcune strutture anatomiche cardiache hanno in seguito preso il suo nome. Per esempio il “fascio moderatore di Leonardo da Vinci” o anche la “trabecola arcuata di Leonardo”. Raccconta ava a barzzelle ette e Ed erano anche storielle piuttosto sconce, come questa: “Una aveva i piedi molto rossi e, passandole appresso, uno prete domandò con ammirazione donde tale rossezza dirivassi; al quale la femmina subito rispuose che tale effetto accadeva perché ella aveva sotto il foco. Allora il prete mise mano a quello membro, che lo fece essere più prete che monaca, e, a quella accostatosi, con dolce e sommessiva voce pregò quella che ’n cortesia li dovessi un poco accendere quella candela”.

SPLENDIDA E CONTROVERSA La Bella principessa è un disegno su pergamena al centro di un recente dibattito: secondo alcuni potrebbe essere un ritratto di Bianca Sforza realizzato da Leonardo.

BRIDGEMAN/ALINARI

Erra vege etarria ano Leonardo aveva uno sviscerato amore per gli animali. Andava addirittura nei mercati a liberare dalle gabbie gli uccelli pronti per essere venduti. Un contemporaneo, il navigatore toscano Andrea Corsali, disse di lui che “non si ciba di cosa alcuna che tenga sangue”.

Nel luogo in cui fu SEPOLTO, ad Amboise (Francia), nel 1863 fu rinvenuto un CRANIO, forse il suo Sotto a destra, disegni sul feto ancora nell’utero. Fra i tanti schizzi contenuti nei suoi Quaderni di anatomia, questi sono i più impressionanti, anche per la precisione. “Se alitasse, annegherebbe”, scriveva.

dalla pura fantasia speculativa di Leonardo: molte furono il frutto dei suoi incarichi di scenografo. Nel 1490 curò la realizzazione della Festa del Paradiso, andata in scena nel Castello Sforzesco per le nozze tra Isabella d’Aragona e Gian Galeazzo Sforza. Dopo il 1494, però, gli eventi precipitarono. Carlo VIII, re di Francia, varcò le Alpi mentre i Medici vennero cacciati da Firenze. Leonardo, che aveva appena finito di realizzare gigantesche strutture per fondere il colossale cavallo che avrebbe dovuto celebrare la casata degli Sforza, vide il bronzo destinato alla statua dirottato verso usi militari. Il Moro fu costretto a fuggire in Germania e Leonardo annotò con amarezza: “Il duca perse lo Stato e la roba e la libertà, e nessuna sua opera si finirà per lui”. Bisognava trovarsi un nuovo datore di lavoro. Sul mercato. La prima tappa di Leonardo fu Mantova, dove la coltissima Isabella d’Este, cognata del Moro (la sorella Beatrice aveva sposato Lodovico Sforza), gli chiese di farle un ritratto. Lui accettò e fece uno schizzo, che oggi è al Louvre. Ma per non perdere qualche opportunità di lavoro, Leonardo non esitò a tenere il piede in più scarpe: si avvicinò ai francesi, che pure avevano fatto imprigionare il suo ex mecenate, il Moro; mise a punto sistemi difensivi contro i Turchi per conto della Repubblica di Venezia, ma intanto offrì i suoi servigi al sultano Bayazid II, progettando un ardito ponte sul Bosforo, a Istanbul. Alla fine lo trovò, il nuovo mecenate: il terribile Cesare Borgia detto il Valentino, condottiero spietato e crudele. Per conto suo viaggiò, tra il 1502 e il 1504, fra Toscana, Emilia, Romagna, Marche e Umbria, visitando fortezze, progettando bastioni e tracciando mappe. Nel frattempo portava avanti studi di ottica, astronomia, idraulica, geologia e anatomia. Tanto talento non passò inosservato e i francesi lo chiamarono a Milano. Qui, nel 1508, progettò una “villa di delizie” per Carlo II d’Amboise: un giardino con zampilli, strumenti musicali azionati dall’acqua e altre meraviglie meccaniche, come un colossale orologio idraulico con un automa che batteva le ore. Cinque anni dopo, quando gli Sforza tornarono a Milano con Massimiliano, figlio del Moro, Leonardo era troppo compromesso con i francesi e dovette fuggire. Stavolta andò a Roma, chiamato da Giuliano de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico e futuro duca di Nemours. Qui entrò al servizio di suo fratello Giovanni, diventato papa col nome

di Leone X. Si aprì così un nuovo filone di studi per Leonardo, che progettò di prosciugare le paludi pontine e il porto di Civitavecchia. Ma il toscano si fece anche la fama di stregone, perché nel frattempo continuava i suoi studi di anatomia per trovare la “sede dell’anima”. Fu allora che fece il suo ultimo viaggio. Verso la Francia. Nel Castello di Amboise, al servizio del sovrano francese Francesco I, Leonardo trovò finalmente la pace. E ad Antonio de Beatis, segretario del cardinale Luigi d’Aragona che nel 1517 andò a trovarlo, raccontò dei suoi mille progetti. Tra questi, una città ideale e le scene per la festa di nozze del nipote del papa. Nonostante l’emiparesi destra che gli rendeva difficile parlare, era felice. Il suo ultimo committente gli dava lavoro, ma soprattutto lo rispettava come uomo. Come riportò Benvenuto Cellini, anch’egli al servizio dei francesi, dopo la morte del genio di Vinci, nel 1519, il re disse che “non credeva mai che altro uomo fusse nato al mondo che sapessi tanto quanto Lionardo, non tanto di scultura, pittura e architettura, quanto che egli era grandissimo filosofo”. t Daniele Venturoli

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IL PARTO DELL’ANATOMISTA

PICO DELLA MIRANDOLA - 1463

Era un prodigio dell’intelletto, ma anche un giovane preso dalle umane PASSIONI, femminili e non solo. Giudicato eretico, a ucciderlo fu forse L’ARSENICO

IL CABALISTA INNAMORATO

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Certo aveva preso dai parenti materni l’amore per la cultura (suo cugino Matteo Boiardo scrisse il famoso poema Orlando innamorato). Al contrario dei suoi due bellicosi fratelli maggiori, del potere non gli importava e alla guerra preferiva le poesie d’amore. Rinunciò quindi ai beni di famiglia, riservandosi una rendita sufficiente a un’agiata vita da intellettuale e spese la sua fortuna in rari testi antichi o per soggiornare nei maggiori centri di studio. Un’occupazione, quest’ultima, cui si dedicò molto presto: fin dai 14 anni si spostò di università in università, da Bologna a Ferrara, da Padova a Pavia, fino a Parigi per dedicarsi al diritto canonico, agli studi umanistici, ai corsi di retorica e di logica matematica. Nel frattempo si procurò anche un’infarinatura di greco ed ebraico, lingue che, insieme all’arabo e al caldaico, gli sarebbero tornate utili per il futuro, quando si cimentò con la cabala, l’antica “sapienza occulta” degli ebrei. Arrivò a Firenze, all’epoca attivissimo centro culturale, a 21 anni: qui entrò a far parte della cerchia dell’Accademia platonica, una specie di “circolo” per gli amici letterati di Lorenzo de’ Medici, mecenate e Signore del capoluogo toscano. Guai con il papato. Eppure la sua fama e l’incondizionata ammirazione del Magnifico non bastarono a far accettare le sue idee. Dicevano i latini: AKG/MONDADORI PORTFOLIO

C

he fosse un personaggio fuori dall’ordinario non ci sono dubbi: il 24 febbraio 1463, quando Giovanni Pico, conte di Mirandola e principe di Concordia, venne al mondo nel suo castello nel Modenese “fu vista una fiamma in forma di cerchio stare sopra il giaciglio della partoriente e tosto svanire”, scrive il nipote Gianfrancesco Pico, autore di una sua Vita. Il segno era evidente: quel bambino era destinato a illuminare il mondo, ma solo per un breve periodo di tempo. Per l’esattezza 31 anni, in cui gli capitò di tutto. Fu condannato come eretico, ma anche definito il più grande pensatore della cristianità dopo sant’Agostino; fu accusato di omosessualità, ma per amore si improvvisò rapitore di mogli altrui; finì in carcere, ma grazie al suo prestigio si guadagnò un posto in una sacra rappresentazione dipinta da Botticelli. PICCOLO GENIO. Ricco, generoso, bello, elegante, coltissimo ed estremamente intelligente, si racconta che da ragazzo rispose per le rime a un cardinale che sosteneva come di solito i bambini prodigio da grandi divengano perfetti idioti: “Chissà com’era dotata da piccolo Vostra Eminenza!”, avrebbe commentato Pico. E non aveva avuto tutti i torti a risentirsi per quella battutaccia: si dice infatti che fosse capace di recitare a memoria tutta la Divina commedia o qualunque altro poema avesse ascoltato una sola volta.

SCALA

LETTURE Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) ritratto da Antonio Maria Crespi nel ’600 (Pinacoteca Ambrosiana di Milano). Nella pagina accanto: Pico da piccolo, come se lo figurava nell’800 il pittore francese Paul Delaroche.

“Nomen omen” (il destino è nel nome). E infatti Pico, che preferiva il titolo di Conte della Concordia, cercò di riconciliare l’antica filosofia aristotelica, quella platonica e i vari elementi della cultura orientale in una filosofia universale, che riunisse idealmente tutte le religioni. Nella convinzione che i grandi filosofi avessero come unico scopo la conoscenza di Dio e che in questo senso avessero contribuito alla nascita del cristianesimo. Che cosa ne pensasse la Chiesa, sempre ossessionata da streghe ed eretici, Pico lo scoprì presto. Nel 1486 decise di organizzare a Roma un congresso filosofico: la sua idea era di sostenere le proprie tesi, uno contro tutti, di fronte a una sala di potenziali dotti oppositori. Non aveva calcolato che il primo e più accanito di questi sarebbe stato proprio il papa. Il pontefice Innocenzo VIII rinviò infatti lo svolgimento della disputa e istituì una commissione per esaminare le 900 Proposizioni dialettiche, morali, fisiche, matematiche, te-

ologiche, magiche, cabalistiche, sia proprie che dei sapienti caldei, arabi, ebrei, greci, egizi e latini formulate dal giovane filosofo. In tre mesi i teologi vaticani ne dichiararono eretiche 7 e infondate 6. Così Pico, che avrà avuto pure una memoria straordinaria, ma sicuramente difettava in diplomazia, buttò giù una furiosa Apologia, in cui rivendicò la sua libertà di filosofo e tacciò di ignoranza i censori. Con ciò non fece altro che peggiorare la situazione: Innocenzo VIII condannò in blocco le 900 tesi e ne vietò la lettura, la copiatura e la stampa, pena la scomunica. Non solo: l’ira papale seguì Pico anche Oltralpe. Il filosofo venne arrestato in Francia, dove si era rifugiato, ma fu liberato meno di un mese dopo e rispedito in Italia per intercessione di Lorenzo il Magnifico. Dall’estate del 1488 si stabilì nei pressi di Firenze, sui colli fiesolani. Affetto dalla scabbia e profondamente turbato per la condanna di eresia (che gli venne revocata solo cinque anni dopo, da papa

AMICI PER LA PELLE Pico (al centro) tra i suoi amici umanisti Marsilio Ficino (a sinistra) e Angelo Poliziano (a destra), in un affresco di Cosimo Rosselli nella Cappella del miracolo del Sacramento (chiesa di Sant’Ambrogio, Firenze).

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Aveva una grafia ILLEGGIBILE. Il dotto Elia del Medigo diceva che era più DIFFICILE leggere le sue LETTERE che dar risposta ai suoi QUESITI

ALINARI

Due pagine del trattato Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae con il quale Pico spiegava la sapienza della cabala.

AMICO “INTIMO” Il poeta Girolamo Benivieni fu legato a Pico da amicizia e stima. E per le malelingue anche da qualcosa di più.

MARITO TRADITO Giuliano Mariotto de’ Medici, lontano parente di Lorenzo, a cui Pico nel 1486 portò via la moglie Margherita. SCALA (3)

TEOLOGIA E CABALA

Alessandro VI Borgia), si convertì a uno stile di vita quasi monacale, desideroso com’era di ottenere l’assoluzione. In una lettera il superiore dell’Abbazia di Fiesole, Matteo Bossi, ne lodò il comportamento ossessivamente virtuoso: “Egli aveva allontanato talmente il piede da ogni mollezza e tentazione della carne da sembrare che, al di là dei sensi e dell’ardore giovanile, vivesse una vita da angelo”. Follie d’amore. Ma Pico non era sempre stato uno stinco di santo: solo un paio di anni prima, il 10 maggio 1486, ad Arezzo aveva tentato di rapire la bellissima Margherita, moglie di un lontano parente di Lorenzo, Giuliano Mariotto de’ Medici. L’amata, stregata dagli occhi azzurri, dai capelli biondi e dalle spalle larghe e muscolose di quel ragazzone alto quasi due metri, scappò con lui verso Siena fingendosi vittima di un rapimento. Ma i due furono raggiunti dal marito tradito e dai suoi soldati, che con le armi si ripresero la fuggiasca. La perdita dell’amata lo irritò parecchio, ma Pico riuscì a consolarsi: le donne non gli mancarono mai e forse neppure gli spasimanti del suo stesso sesso. All’interno dell’Accademia fiorentina, infatti, l’umanista Marsilio Ficino (noto omosessuale) proponeva l’amor socratico, cioè l’amore spirituale fra uomini (perché, a suo dire, nelle donne la perfezione dell’anima non esiste), decantato dall’antico filosofo greco Platone come mezzo per avvicinarsi alla bellezza di Dio. Dicono le malelingue che, in chiave molto terrena, Pico sperimentò questo tipo d’amore con l’umanista Girolamo Benivieni. Con lui divise anche tomba e lapide

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L’umanista GIROLAMO BENIVIENI dedicò all’amico Pico un SONETTO D’AMORE “affinché dopo la morte la separazione di luoghi non disgiunga le ossa di coloro i cui animi in vita congiunse Amore”. Fu solo Amore filosofico? A mettere la pulce nell’orecchio dei contemporanei fu il frate Girolamo Savonarola, legato a Pico da un’amicizia nata negli ultimi anni di vita del passionale emiliano. Dopo la morte dell’amico, durante una predica il domenicano rivelò che la sua anima “non è potuta andare subito in Paradiso, ma è assoggettata per un certo tempo alle fiamme del Purgatorio”. Visto che il frate aveva rivelato il peccatore ma non il suo peccato, ci pensarono i fedeli a ricamare su quella notizia data solo a metà. E per spiegare quegli ultimi 13 giorni di febbri dolorose, che s’erano portate via il filosofo il 17 novembre 1494, tirarono in ballo la sifilide.

IL CIRCOLO In alto, Savonarola sul rogo in Piazza della Signoria, a Firenze, nel 1498. A sinistra, particolare dell’Adorazione dei Magi (1475) di Botticelli: Pico (a destra) con Poliziano (al centro) e Lorenzo il Magnifico (a sinistra).

SCALA

Papa Innocenzo VIII, che condannò le 900 tesi di Pico e lo fece arrestare come eretico in Francia nel 1488. Sotto, il domenicano Girolamo Savonarola, amico del mirandolano.

La morte. In effetti alcuni storici credono che Pico sia stato una delle prime vittime della grande epidemia di “mal francese” che colpì l’Europa nel 1493-94. Il nobile senese Antonio Spannocchi raccontò, in una lettera datata 29 settembre 1494, che un altro membro dell’Accademia platonica, Angelo Poliziano (morto in modo altrettanto rapido e inaspettato meno di due mesi prima di Pico) si era ammalato poco dopo un suo giovane amante. Ma, forse, l’affaire sessuale, vero o presunto, sarebbe stato usato per nascondere una vicenda molto più torbida. Secondo gli antropologi, l’occupante della tomba fiorentina nella chiesa di San Marco fu avvelenato con l’arsenico: ne rimangono infatti abbondanti tracce nelle sue ossa. Perché? Tra le varie ipotesi, la più probabile vuole che l’unico amore proibito che costò la vita a Pico fu quello per la scienza. Il geniale mirandolano era convinto che i corpi celesti non avessero il potere di influire sulle vicende umane e che non fosse possibile prevedere il futuro basandosi sulle congiunture astrali. Solo l’uomo, diceva, poteva decidere del proprio destino con le sue libere scelte. Criticò, perciò, quella che all’epoca per molti era una “scienza esatta”, relegandola al ruolo di “arte divinatoria” nel suo Disputationis adversus astrologiam divinatricem, pubblicato postumo. Certo oggi nessuno ucciderebbe per dar ragione a Branko, ma all’epoca invece qualcuno potrebbe averlo fatto per evitare la condanna della Chiesa. Lo proverebbe una lettera anonima scritta pochi mesi dopo la morte di Pico, secondo molti da Camilla Rucellai, guida della potente corporazione degli astrologi. Era indirizzata al suo allievo nelle arti dell’occulto, Marsilio Ficino: “Dopo la morte del nostro nemico hai fallito. […] L’assassinio di Pico è una sciocchezza. Si sarebbe fatto dimenticare ritirandosi dal gioco e adesso eccolo trasformato in vittima. Il suo libro assumerà ancora più importanza. Pico esitava a pubblicarlo, ora il suo erede si sentirà in dovere di farlo. Il Papa vuole il libro per comprometterci. […] Quel manoscritto deve sparire, ritrovalo”. Ma il fatto che il pamphlet di Pico contro l’astrologia riuscisse a vedere le stampe grazie al nipote è la prova che i suoi nemici se la cavavano meglio t con gli oroscopi che con i furti.

Omicidio, le altre ipotesi

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u per le sue teorie, per i soldi o per invidia che Pico della Mirandola venne ucciso? Oltre agli astrologi (v. testo principale) c’era qualcun altro che poteva volere la morte del pensatore: il suo segretario, un certo Cristoforo da Casalmaggiore. Pare che Pico lo avesse nominato erede di parte delle sue fortune, un movente tale da spingere il segretario ad ammazzarlo. Il cronachista Marino Sanuto registrò nel 1497 l’arresto del losco figuro, che confessò di aver causato la morte del padrone avvelenandogli il cibo. I mandanti. Sanuto scrisse però anche di due probabili mandanti: Piero de’ Medici, figlio di Lorenzo e suo successore, e papa Borgia, che non vedevano

Pico di buon occhio per la sua scomoda amicizia con Girolamo Savonarola, il frate che tuonava dal pulpito contro l’amoralità dei Medici e del papato. Morto Pico, Savonarola finì sul rogo quattro anni dopo e, sempre secondo Sanuto, il segretario assassino finì, guarda caso, al servizio del cardinale Remolines (capo dell’Inquisizione e uomo di fiducia del Borgia) per svolgere mansioni poco pie. Pratiche stregonesche. Lo scrittore francese Jean Claude Lattes sospetta invece che il mandante fosse l’umanista Marsilio Ficino: Pico gli aveva scritto di smetterla con le “arti demoniache” e tornare alla ragione, se non voleva che lui e Poliziano lo accusassero di stregoneria. ALINARI

IL PAPA E IL FRATE

Il Libro d'ore di Galeotto Pico della Mirandola, fratello del filosofo.

Maria Leonarda Leone 97

MICHELANGELO - 1475

IL

TORMENTO E LA

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on alcuni artisti è impossibile scansare i superlativi e certi cliché cari ai romantici. Michelangelo è uno di questi. Da qualunque parte la si giri, la sua vicenda appare smisurata. Fuori scala come le figure che scolpì e dipinse infaticabilmente tra il 1490 e il 1564, elevando la perfezione del corpo umano a rivelazione del divino e sintesi di quegli ideali di bellezza e armonia che gli umanisti recuperavano dall’antichità greca e romana. Carattere difficile. Quel che connota la sua parabola – visse 89 anni e creò fino alla morte – non è solo un’ambizione artistica sconfinata, ma anche un’autonomia di pensiero che non ha eguali, non solo nel Cinquecento. Michelangelo fu l’artista più pagato e ammirato del Rinascimento – ne insidiò il primato per un breve tratto (causa morte prematura) solo Raffaello, tanto più conciliante di lui con i potenti, tanto più allineato con le posizioni della Chiesa romana – ma fu anche il più solo. Per volontà, temperamento e obiettivi. Il mito del genio insofferente, intrattabile, incoercibile – la “terribilità” riconosciutagli dai contemporanei – è più che fondato. Più di altri maestri del suo tempo, dovette turarsi il naso per servire mecenati in contrasto con i suoi ideali politici e religiosi. Né fu uno stinco di santo, anzi. Peccò di gravi difetti, miserevoli tare come l’avidità e l’avarizia, che lo indussero più volte a imbrogliare le carte e tentare doppi giochi incongruenti con la sua intransigenza espressiva; ma alla fine dei conti, e cioè nell’opera, si rivelò sempre libero, più forte di qualunque condizionamento. Schivò l’agiografia an-

GIOVANE E VINCENTE Il viso del celebrato David, la scultura che Michelangelo (1475-1564) scolpì per piazza della Signoria a Firenze, come simbolo della libertà repubblicana della città.

PERFEZIONE

che dove sembrava impossibile e rischiò, per imporre la propria visione, scomuniche e processi da parte dell’Inquisizione: obbedendo, di sfida in sfida, a quel demone che lo spingeva a superare se stesso e i limiti del canone imperante. Se è vero che il classicismo rinascimentale fu una cresta sottile, fatalmente destinata a essere superata, Michelangelo fu quello che la valicò più in fretta con il suo furore sperimentale, aprendo la strada al barocco. In ciascuna delle sue sfere d’azione, scultura, pittura e architettura, fu uomo-cerniera tra Rinascimento e manierismo. Riscatto sociale. Tanto coraggio, tanta abnegazione nell’operare affondavano le radici in una ferita originaria, un senso di caduta e inferiorità sociale che l’artista patì e da cui volle strenuamente riscattarsi. Il suo casato (i Simoni Buonarroti) appartene-

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Fu un ARTISTA al servizio dei POTENTI, ma sempre LIBERO e ribelle nella sua opera

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va da secoli alla classe dirigente fiorentina di fede repubblicana, quel popolo grasso in cui confluivano banchieri e mercanti delle arti maggiori; ma era in piena decadenza da un paio di generazioni. I suoi avi erano stati priori, gonfalonieri e commissari di guerra, mentre Ludovico, suo padre, si era ridotto a fare il podestà a Caprese, un selvaggio borgo del Casentino, per quattro soldi. Proprio per questo, Michelangelo, che a Caprese aveva visto la luce il 6 marzo 1475, era stato mandato a lavorare, apprendista alla bottega dei fratelli Ghirlandaio, a 12 anni: in pratica declassato ad artigiano del popolo minuto. Un’altra ferita familiare dovette contribuire al suo carattere selvatico e tormentato: perse la madre a soli 6 anni. Per tutta la vita avrebbe ossessivamente accumulato ricchezze, acquistato terreni e case per sé, il padre e alcuni fratelli, sempre a Firenze, la patria elettiva, benché vivesse ormai a Roma. Conducendo peraltro vita francescana, priva di lussi e persino dei principali comfort: proteso unicamente a restituire il rango perduto alla sua stirpe. Non occorre essere psicoanalisti per capire come la sua enorme energia vitale venisse incanalata per intero nella creazione, a 100

scapito degli affetti e dei piaceri terreni. Era maniacalmente perfezionista nella scelta dei marmi: passò anni sulle Alpi Apuane dormendo all’addiaccio, in bivacchi di fortuna, per scegliere la pietra giusta e trasportarla nel suo atelier. E si scordava di mangiare e dormire per intere settimane quando era in preda ai suoi estri creativi. Meglio del maestro. Il suo precoce magistero plastico si può spiegare solo in termini di genialità, giacché non aveva esempi artistici in famiglia. Già nei primi disegni dal vero surclassò il suo maestro, Domenico Ghirlandaio. Che pare si lasciasse sfuggire un “Costui ne sa più di me”. Lo prese sotto la sua ala Lorenzo de’ Medici, che ammantava di mecenatismo illuminato quella che era ormai una tirannide in una Firenze solo formalmente repubblicana. Il Magnifico aveva aperto una sorta di accademia di scultura nel Giardino del Casino di San Marco. Michelangelo, chiamato con altre giovani promesse, si mise subito in luce con una testa di fauno. Lorenzo gli spalancò le porte del suo palazzo. Alla corte medicea, dove abiterà fino alla morte del duca (1492), Michelangelo intrattenne rapporti con Marsilio Fi-

MAGNIFICA AURORA La personificazione dell’aurora, che con quella del crepuscolo sta a guardia della tomba di Lorenzo de’ Medici duca di Urbino, nelle Cappelle Medicee.

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Ebbe per BALIA una figlia e moglie di SCALPELLINI. E lui disse di esser cresciuto “a latte impastato con la polvere di MARMO”

BELLEZZA E DOLORE La Pietà conservata a Roma, in San Pietro, e qui fotografata da una prospettiva insolita. Quando la scolpì, l’artista era poco più che ventenne.

cino, Pico della Mirandola e Poliziano e ne assimilò gli ideali neoplatonici. Una scultura “in movimento”. Fu Poliziano a suggerirgli il tema con cui il genio adolescente compì la sua prima rivoluzione facendo invecchiare di colpo la tecnica di Donatello: la scultura, ispirata a un brano di Ovidio, si intitolava Battaglia dei centauri. Un unico, vibrante rilievo. Con quest’opera, osserva lo studioso Antonio Forcellino, l’artista era riuscito a «collocare nello spazio non più un corpo fermo ma un corpo in movimento, con gli arti che si prolungano gradualmente e non più su tanti piani successivi». A tanto può giungere solo chi osa spingersi con lo scalpello «fino alla pelle del marmo stesso», annota ancora Forcellino, «laddove gli altri artisti vi si avvicinavano prudentemente con la raspa». Dopo la morte di Lorenzo, Michelangelo lasciò il palazzo di via Larga, ma mantenne stretti rapporti con il successore del Magnifico, Piero de’ Medici, il quale gli consentì, tra l’altro, di frequentare l’obitorio dell’ospedale di Santo Spirito e far pratica di anatomia sui cadaveri. Poche settimane prima che Firenze, trascinata dal Savonarola, abbattesse il duca, Mi-

chelangelo, fiutata la tempesta, abbandonò l’amicomecenate e riparò prima a Bologna e poi a Venezia. Disaccordi e compromessi. Da quel momento i suoi rapporti con i Medici, che a ripetizione persero e riconquistarono Firenze e con analoga frequenza riuscirono a salire al soglio pontificio, furono uno stillicidio di risse e riconciliazioni. Michelangelo era un fervente repubblicano, si considerava erede spirituale di Dante e condivideva parecchi degli sdegni savonaroliani. Sicuramente aveva ascoltato le prediche infuocate del domenicano e aborriva i despoti. Nel 1527, quando, dopo il sacco di Roma, Firenze si ribellò ancora una volta ai Medici, progettò addirittura fortificazioni per impedirne il ritorno. Ma alla fine non poteva rinunciare alle committenze più prestigiose, così come i Medici non potevano privarsi dell’artista più importante del momento. Per qualche tempo preferì restare a Roma e dedicarsi alla sbalorditiva Pietà di San Pietro. Tema già insolito per la nostra tradizione, cui lui aggiunse le spiazzanti invenzioni d’una Madonna giovanissima, d’un Cristo splendente malgrado il calvario e d’un panneggio ineguagliabile. 101

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Un capolavoro da censurare

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a decorazione della Cappella Sistina, teatro delle più solenni cerimonie della curia vaticana, è di gran lunga la maggior impresa pittorica di Michelangelo. Colori accesi. Fu papa Giulio II a incaricarlo, nel maggio 1508, di decorare la volta della cappella inaugurata da Sisto IV nel 1483 (40 metri di lunghezza per 13 di larghezza e 20 d’altezza). Gli dette carta bianca e Michelangelo compì una rivoluzione iconografica e stilistica. Scelse le storie della Genesi, dando rilievo a personaggi minori e al mondo pagano (le Sibille), abolendo il paesaggio. Capovolse la tradizionale gerarchia tra architettura e pittura, mettendo la prima al servizio della seconda, e squadernò una fantasia cromatica sconvolgente, basata sui contrasti e sui colori complementari.

L’opera fu completata, dopo crisi e grandi tensioni, in 4 anni. Immensi furono la fortuna e l’influsso del ciclo, a iniziare dalla scena del Creatore che infonde la vita, attraverso l’indice della mano, in un Adamo di apollinea bellezza. Ai suoi contemporanei non sfuggì tuttavia il messaggio ideologico, centrato sui temi del peccato e del castigo ineluttabile: una visione che anticipava gli argomenti della Riforma protestante. Proprio in quegli anni l’artista si scagliava contro la corruzione curiale in un’invettiva di sapore dantesco: “Qui si fa elmi di calici e spade /e ‘l sangue si vend’a giumelle” . Scandalo! Ben più radicale e scandalosa fu la seconda puntata dell’impresa: il Giudizio Universale sulla parete dietro l’altare. L’incarico fu conferito al Buonarroti da Clemente VII nel 1534 e

portato a termine nel 1541. Fu una prova eroica, che l’artista, ormai anziano, affrontò con le sue sole forze. Quattrocento le figure: un vortice di nudi, di diavoli e angeli senza ali, in cui salta la distinzione tra salvezza e condanna, Inferno e Paradiso. Un corrusco Dies irae in cui tutti appaiono uguali e ugualmente angosciati, con un Cristo giustiziere, tutt’altro che misericordioso. Grande fu lo sconcerto del mondo ecclesiastico, ormai nel clima della Controriforma. Intollerabili quei nudi, quel Cristo imberbe, quel caos oltraggioso per l’immagine della Chiesa. Molti invocarono l’Inquisizione, l’Aretino tacciò d’empietà l’ex amico, vari papi promisero di distruggere l’affresco. Per fortuna non lo fecero: furono solo coperte molte nudità e chi si prese l’incarico si guadagnò il soprannome di Braghettone.

IL GIUDIZIO UNIVERSALE La Cappella Sistina è il grande capolavoro pittorico di Michelangelo. Il Giudizio Universale, l’affresco dietro l’altare, rappresenta lo spartiacque fra le sicurezze dell’Umanesimo (e del Rinascimento) e l’incertezza che segnerà l’epoca successiva: davanti al Cristo giudice (al centro) prevale in tutti angoscia e paura. Fece scandalo e il pittore rischiò seriamente di finire inquisito dal Santo Uffizio. Sotto, Michelangelo Buonarroti ritratto dal pittore manierista Iacopino del Conte nel 1535 circa.

Un nuovo simbolo. Nel settembre 1502, quando i fiorentini elessero Pier Soderini gonfaloniere a vita, sentì che era venuto il momento di tornare a casa. A Firenze lo attendeva la prima delle sue sfide titaniche: creare il nuovo simbolo della libertà repubblicana sbozzandolo da un unico, gigantesco blocco di marmo. Già due scultori di vaglia si erano arresi alla prova del David. Michelangelo la spuntò regalando al mondo l’icona tuttora insuperata della bellezza maschile. Ormai era l’artista più acclamato: iniziò la sua fase più gloriosa e travagliata. Ora i suoi committenti erano i mecenati più ricchi e potenti, i papi, che volevano rappresentarsi come novelli Cesari. Michelangelo dovette scendere a patti con quattro di loro. Il primo fu Giulio II, che voleva rinverdire i fasti dell’antica Roma e chiamò Bramante a ridisegnare San Pietro e Raffaello a dipingere le Stanze vaticane. Al Buonarroti affidò l’incarico di creargli una tomba a dir poco sfarzosa (40 statue nella prima ipotesi). Era il 1505. La vicenda si protrasse per 40 anni, tra minacce e contratti stracciati e riscritti, divenendo un incubo per l’artista: “la tragedia della sepoltura”. Un po’ perché Michelangelo si faceva distrarre da altre offerte e molto perché ci marciava: sperperava i lauti anticipi in acquisti immobiliari e tramava per spostare marmi e lavori a Firenze. Nondimeno Giulio II gli commissionò il primo affresco della Cappella Sistina (la volta). Per il Buonarroti, che non aveva esperienza di affreschi, fu un grandioso banco di prova. Vinse la sfida imponendo la monumentalità delle sue figure anche in pittura. A caccia dell’appalto. Il secondo papa con cui si scontrò fu Leone X, Giovanni de’ Medici, figlio del Magnifico. L’ex compagno di gioventù gli fece subito il più grande degli sgarbi nominando Raffaello, già sugli scudi in Vaticano come pittore, architetto di San Pietro. Ma poi riparò coinvolgendo Michelangelo nel rifacimento della facciata di San Lorenzo, a Firenze. Anche in questo caso Michelangelo si fece prendere dall’ingordigia e cercò di accaparrarsi da solo l’intero appalto, ricorrendo anche a mezzucci e sotterfugi. Di nuovo la cupidigia gli si ritorse contro: incontrò mille ostacoli nella selezione dei marmi e dopo tre anni dovette desistere. Venne compensato magnanimamente con l’incarico di scolpire le tombe di Giuliano e Lorenzo de’ Medici nella cappella di famiglia: figure che doveva esaltare come grandi condottieri. Come per il

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Per indagare i segreti del CORPO UMANO frequentava l’ OBITORIO dell’ospedale di SANTO SPIRITO

IL VOLTO DEL DUCA Particolare della tomba di Giuliano de’ Medici, duca di Nemours, nella Sagrestia Nuova di San Lorenzo (Firenze).

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SCALA

Fino all’ultimo giorno

N

egli ultimi, e intensamente mistici, anni della sua vita, Michelangelo sentì il bisogno di misurarsi ancora, privatamente, con il tema della Pietà. Lo fece con la Pietà Bandini e, fino a pochi giorni prima di morire, con l’incompiuta Pietà Rondanini (foto sopra), oggi custodita al Castello Sforzesco di Milano. L’arte è nel togliere. Quest’ultimo capolavoro rappresenta l’estrema frontiera del suo sperimentalismo. Opera modernissima sia per l’impostazione verticale (una rottura dello schema tradizionale) sia per l’effetto di non-finito, in virtù del quale non solo le due

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figure sembrano fuse in una, ma come riportate alla luce: estratte dal marmo informe che le teneva prigioniere. “Non ha l’ottimo artista alcun concetto / ch’un marmo solo in sé non circoscriva / col suo soverchio, e solo a quello arriva / la mano, che ubbidisce all’intelletto” teorizzò l’artista. Stava a lui togliere con sapienza la materia fino a mettere a nudo la forma incapsulata nel blocco marmoreo: Michelangelo aveva già esaltato quest’intuizione nei quattro Prigioni che avrebbero dovuto adornare la tomba di Giulio II e che sembrano divincolarsi, lottare con la materia che li contiene.

Dario Biagi

A. IEMOLO

sepolcro di Giulio II, obbedì, ma trovò il modo di non scadere nell’apologia e di mettere in rilievo quel che premeva a lui. Nelle tombe medicee, le vere protagoniste sono le statue che rappresentano il malinconico scorrere del tempo e della vita. Un memento mori che torna in altra forma nel mausoleo di Giulio II, in cui l’ambizioso papa Della Rovere è ridotto a una figurina ripiegata su se stessa: il vero protagonista della composizione è il muscolare Mosé dalla barba a boccoli. Michelangelo compì un miracolo per la scarsezza di marmo disponibile; girò addirittura la faccia al suo gigante pochi giorni prima della scadenza, colto da un pentimento improvviso. Un nuovo cupolone. Un’altra caratteristica del suo modo di lavorare era proprio quella di non fissarsi nel primo schema, ma di modificarsi in corso d’opera, adattando anche l’architettura e i supporti tecnici alle correzioni di tiro. Prassi che si rinnovò nel secondo affresco della Cappella Sistina, quel Giudizio Universale commissionatogli da un altro papa de’ Medici, Giulio, ovvero Clemente VII, e confermatogli, l’anno dopo, da Paolo III. Con l’elezione a papa di Alessandro Farnese, sembrò chiudersi trionfalmente il suo cursus honorum: gli fu finalmente conferita la carica di “supremo architetto, scultore e pittore dei Palazzi Vaticani”. Ciononostante non smise di lottare: contro i detrattori che lo reputavano un dilettante dell’architettura e contro le maestranze fedeli ai predecessori, che nei primi tempi lo boicottarono. Ebbe la meglio anche in questo campo: ricondusse San Pietro all’originario progetto bramantesco e ne ridisegnò il cupolone a somiglianza della cupola fiorentina del Brunelleschi. Peccatore redento. Gli ultimi trent’anni li trascorse a Roma, dove trovò l’amore nel giovane patrizio Tommaso de’ Cavalieri. Una passione nascosta, censurata, che tuttavia trabocca da molte sue poesie. L’erompere dell’omosessualità fece deflagrare il suo dramma di cristiano peccatore. Un senso di colpa che lo avvicinava alle posizioni luterane, in particolare alle idee degli Spirituali, il cenacolo raccolto intorno alle figure di Vittoria Colonna, poetessa e marchesa di Pescara, e del cardinale Reginald Pole, i quali cercavano di conciliare Riforma protestante e ortodossia cattolica. L’attraeva in particolare il tema dell’accoglienza: la teoria, poi ritenuta eretica, secondo cui la grazia dipende dalla fede e non dalle opere, per cui i più meritevoli di salvezza sono in fin dei conti i peccatori. Quando il 18 febbraio 1564 Michelangelo lasciò questo mondo, gli trovarono nell’armadio pochi frusti giubboni e, sotto il letto, una cassa di monete d’oro. Svaniva la miseria umat na e restavano i frutti divini della sua arte.

Era ORGOGLIOSO, avaro, IRASCIBILE: il suo spirito IRREQUIETO emerge anche dalle sue poesie

INCOMPIUTA Lo Schiavo morente, una delle 6 statue dette “Prigioni”, inizialmente pensate per la tomba di Giulio II a Roma.

RAFFAELLO SANZIO - 1483

DA GIOVANE

L’enfant prodige di Urbino fu RIVAL LE di Michelangelo, venne CORT TEGGIA ATO da papi e cardinali, ma MORÌ sul più bello

Raffaello Sanzio nacque a Urbino il Venerdì santo del 1483. In questo autoritratto, conservato agli Uffizi, il pittore si ritrae ventitreenne. Sopra, uno studio per la Liberazione di san Pietro, affresco realizzato nel 1514 nella Stanza di Eliodoro in Vaticano.

SCALA

IL PITTORE DELLE

MADONNE

LESSING/CONTRASTO

E

ra bello in volto, eccellente sul lavoro, educato alla modestia e al bon ton. Era anche ruffiano a sufficienza per sfruttare bene tutte le doti precedenti. Che sia stato l’artista-simbolo del Rinascimento, ex aequo con Leonardo e Michelangelo, è indubbio; ma rispetto ai due rivali conquistò un primato assoluto, la produzione di Madonne: in 22 anni di attività ne dipinse ben 25. E poiché si dice che nei loro volti riproducesse quelli delle sue amanti, se ne deduce che privo di donne non fu mai. Un marchigiano alla porta. Raffaello Sanzio (ovvero Santi o de’ Santi) nacque a Urbino il Venerdì santo del 1483, cioè nove anni prima dello sbarco di Colombo in America. E morì a Roma nel 1520, ancora di Venerdì santo, proprio mentre il conquistador Hernán Cortés metteva a frutto le scoperte colombiane massacrando gli Aztechi del Messico. Ma quegli eventi d’oltremare, destinati a rivoluzionare il mondo, non toccarono neanche di striscio la vita del nostro, che si dipanò interamente fra Urbino, Perugia, Firenze, Roma e poche altre località del Centro Italia. Del resto, perché mai Raffaello avrebbe dovuto allargare il suo orizzonte? Per un artista dell’epoca, il Centro Italia bastava e avanzava: su Urbino aleggiava lo spirito di Federico III di Montefeltro, il duca-mecenate che aveva sponsorizzato fra l’altro

Piero della Francesca (1415 ca.-1492); a Perugia brillava la scuola di Pietro Vannucci detto “il Perugino” (1450 ca.-1523), il pittore più trendy dell’ultimo scorcio del ’400; Firenze, poi, era la capitale dei Medici, che Lorenzo il Magnifico (1449-1492) aveva trasformato in capitale culturale d’Europa. Quando Raffaello nacque, in quel panorama effervescente solo Roma era un po’ defilata, dedita più ai torbidi intrighi fra cardinali che ai gioiosi riti delle Muse. Ma il vento cambiò nel 1503, con l’avvento di Giulio II, il papa-re che aprì il cantiere di San Pietro, ordinò gli affreschi della Cappella Sistina e ridisegnò la città, trasformandola in un Eldorado per architetti, pittori e scultori a caccia di commesse. Scultore, Raffaello non fu mai; ma pittore e architetto sì: così dal 1508 divenne una star della corte papale. A bottega da papà. Ma andiamo con ordine. In principio fu Urbino, e non solo perché il futuro “Stakanov delle Madonne” emise lì i suoi primi vagiti. Nella città marchigiana, infatti, Raffaello apprese i rudimenti della pittura da suo padre Giovanni Santi, un artista di corte dei Montefeltro che nessuno ricorderebbe se non avesse avuto tanto figlio. L’umanista toscano Giorgio Vasari (15111574, vedi articolo pagine seguenti), che di “Rafael da Urbino” scrisse una biografia traboccante di lodi, di Santi senior dice invece spietatamente che era “non molto eccellente, anzi non pur mediocre”. 107

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tà di Castello, dove dipinse prima una pala per il convento di Sant’Agostino (distrutta da un terremoto nel 1789), poi un crocefisso per la chiesa di San Domenico, e infine un celebre Sposalizio della Vergine che rappresentava una sfida aperta al suo maestro, che poco tempo prima aveva dipinto lo stesso soggetto per la cattedrale di Perugia. Inevitabile il confronto fra le due opere, simili per struttura ma non per qualità: «Un confronto che ancora oggi sembra pensato da una mente sadica per umiliare il vecchio maestro», commenta un altro biografo di Raffaello, l’esperto d’arte rinascimentale Antonio Forcellino. Dettaglio curioso: nello stesso anno (1504) Raffaello, poco più che ventenne, dipinse anche un ritratto del Perugino, che a occhi moderni appare come una sottile beffa: se il maestro umbro ha tramandato a noi la sua immagine, deve dire grazie al suo allievo-sfidante. Al cospetto dei grandi. Dopo l’Umbria venne la Toscana, cioè Siena e poi Firenze, dove Raffaello perfezionò la sua formazione, a diretto contatto con l’atmosfera creata da altri campioni dell’arte rinascimentale. Riassume il solito Vasari: “Studiò Rafaello in Fiorenza le cose vecchie di Masaccio, e vide ne i lavori di Lionardo e di Michele Agnolo cose tali che gli furono cagione di augumentare lo studio”. Risultato: “Gran miglioramento e grazia accrebbe in tale arte”. Tradotto: in questo periodo le sue quotazioni lievitarono. Parallelamente, lievitò anche il numero delle Madonne: in Umbria Raffaello ne aveva dipinte solo due, ma a Firenze ne creò una decina (inclusa quella, famosissima, detta “del cardellino” perché ai suoi piedi ci sono Gesù Bambino e San Giovanni che si

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FOTOTECA STORICA GILARDI

A Urbino e nelle Marche, comunque, Giovanni era molto gettonato. E Vasari riferisce che in tutti i suoi lavori “facevasi aiutare” dal figlio, il quale “ancor che fanciulletto, lo faceva il più et il meglio che e’ sapeva”. Anche perché il maestro-papà riponeva grandi ambizioni nel futuro del figlio e di conseguenza era quanto mai esigente per il suo presente, tanto che “non gli lasciava metter punto di tempo in mezzo né attendere ad altra cosa nessuna, acciò che più agevolmente e più tosto venisse nell’arte di quella maniera che egli desiderava”. Fu una fortuna papà Giovanni: insegnò al figlio a maneggiare i pennelli e quando morì, nel 1494, lasciò un orfano appena undicenne ma già in grado di camminare sulle sue gambe. A 15 anni Raffaello ebbe forse la sua prima fidanzata. Badate bene: quest’ultima notizia non è ricavata dal Vasari, ma dedotta dalla data della prima Madonna dipinta, un affresco nella casa di famiglia, che tuttora si può vedere a Urbino. Dal Perugino. La seconda patria di Raffaello fu Perugia, anche se non è affatto chiaro quando e come avvenne l’incontro fra la città e l’artista. Sul punto, Vasari racconta che fu lo stesso Giovanni a portare il figlio nel capoluogo umbro per introdurlo nella bottega del Perugino. Ma gli storici sono scettici: «Gli archivi», sostiene Enzo Gualazzi, biografo del pittore, «affermano che Raffaello può essere dato assente da Urbino soltanto a partire dal 13 maggio 1500», cioè quando il padre era già morto da sei anni. In fondo però le date contano poco. Di più importa che in Umbria Raffaello non si limitò a fare il ragazzo di bottega del Perugino e cominciò invece a brillare di luce propria: soprattutto a Cit-

UNA CULLA IDEALE Urbino in una tavola del XVI secolo. Quando vi nacque Raffaello, sotto la signoria dei Montefeltro, era presa a esempio come “città ideale” del Rinascimento. Lo sposalizio della Vergine (1504), gemma della Pinacoteca di Brera a Milano, viene considerata l’opera dove Raffaello s’ispira al Perugino e supera il maestro.

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A URB BINO frequentò urbanisti e pittori del gabinetto del DUCA di Montefeltro

IL DRAGO La tavoletta con San Michele e il drago (1505) doveva costituire con un’altra opera, San Giorgio e il drago (1504), un dittico dipinto forse per i Montefeltro.

ALINARI

Secondo il VA ASARI Raffaello era “la GE ENTIL LEZZA stessa”, non meno “eccellente che GRAZIO O S O” Promesse da pittore

R

affaello era un uomo di parola? Alfonso I d’Este, duca di Ferrara, se fosse ancora vivo risponderebbe di no. Per tre anni, infatti, il nobile emiliano chiese ripetutamente (e inutilmente) che il pittore onorasse un contratto per la fornitura di un quadro per cui era già stato versato un acconto: un Trionfo di Bacco a cui il duca teneva molto, ma che Raffaello evidentemente non voleva dipingere, per ragioni ignote. Bidone. La prima traccia della querelle si trova in una lettera di Alfonso, datata 21 marzo 1517, che sollecitava la consegna dell’opera promessa. A quel messaggio Raffaello rispose inviando tutt’altro lavoro: un cartone intitolato Giustificazione di Leone III, che era avanzato dagli affreschi degli appartamenti papali. Insoddisfatto di quel fondo di magazzino, il duca tornò alla carica più volte. E nel 1519 dai solleciti passò alle minacce, avvertendo il pittore di stare attento “a non provocare l’odio nostro ove gli portammo amore”. Inutile: il Trionfo non fu mai dipinto e solo nel 1520, dopo la morte di Raffaello, il duca riuscì a riavere l’acconto versato anni prima.

TUTTE DIVERSE

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A fianco, la Madonna del diadema blu (151011, al Louvre di Parigi). Più a destra, la Madonna dei garofani (1506-07, alla National Gallery di Londra).

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passano un uccellino). Che la frequenza ossessiva dello stesso soggetto religioso fosse frutto di devozione non l’ha mai pensato nessuno; probabilmente tutto derivava da scelte dei committenti. Ma è divertente credere che l’inflazione di Madonne sottintendesse un fitto turn-over di partner. Del resto, che quel pittore dallo sguardo dolce e dai lunghi capelli neri fosse sensibile al fascino femminile (e viceversa) non è una leggenda. “Era Raffaello persona molto amorosa et affezzionata alle donne, e di continuo presto ai servigi loro”, riferisce Vasari. Il quale precisa che “continuando egli i diletti carnali, era con rispetto da’ suoi grandissimi amici osservato”. Che ci fosse un nesso tra le amanti e le Madonne del pittore è un’altra idea suggerita dal Vasari: “Ritrasse [...] altre donne e particularmente quella sua et altre infinite”. In realtà non sempre il rapporto specialissimo tra Raffaello e il gentil sesso si tradusse in “diletti carnali”: a volte restò a livello platonico, ma fu comunque forte. Lo dimostra fra l’altro il fatto che spesso il pittore di Urbino ebbe committenti femminili, fenomeno non usuale per l’epoca: uno dei suoi dipinti umbri (l’Incoronazione della Vergine) era stato ordinato da una nobildonna perugina, Maddalena degli Oddi; e la sua prima pala d’altare, quella di Sant’Agostino a Città di Castello, fu pagata da un convento di suore.

RAPPEZZATA A sinistra, la Madonna del cardellino (1506 circa) rappresenta forse l’opera più alta del periodo fiorentino di Raffaello. Già nel ’500 fu ridotta a pezzi dal crollo di un soffitto e del restauro ne parlò Vasari nelle sue Vite (1550), le biografie dei grandi. Sopra, particolare dell’Autoritratto con un amico (1518-1519) dove Raffaello si mostra ormai maturo.

A lanciare Raffaello nel gotha dell’arte furono però due uomini: Bramante (1444-1514), primo architetto di San Pietro, anche lui di Urbino, che simpatizzò col giovane conterraneo e gli fece da capocordata a Roma; e papa Giulio II, che essendo un lontano parente di Bramante teneva in gran conto i suggerimenti del cugino-architetto. Quel rapporto bi-clientelare portò fortuna a tutti: a Raffaello, ma anche al papa, che arricchì di capolavori Roma, e al Bramante, che invecchiò convinto di aver trovato un erede per il cantiere di San Pietro. Il grande balzo. Così, all’età di 25 anni, il figlio del “non molto eccellente, anzi non pur mediocre” Giovanni Santi si trasferì a Roma e divenne il pittore numero 1 (o 2, secondo solo a Michelangelo, vedi articolo precedente) della corte pontificia. La sua prima opera fu un ciclo di affreschi sui muri della Sala della Segnatura, la biblioteca degli appartamenti pontifici del Vaticano. Anni dopo dovevano seguire le decorazioni di altre tre stanze, dette rispettivamente “di Eliodoro” (sala per le udienze), “dell’incendio di Borgo” (sala da pranzo) e “di Costantino” (opera incompiuta). La Stanza della Segnatura era solo l’inizio di un periodo straordinario, che doveva portare Raffaello a sbaragliare la concorrenza, a creare una bottega “industriale” di artisti-artigiani e a realizzare una miriade di opere, fra cui ritratti, affreschi e gli arazzi che decorano la Cappella Sistina. E benché la corte papale fosse la cliente principale della bottega, Raffaello non disdegnò altri com111

LA SCUOLA DI ATENE Nell’affresco della Stanza della Segnatura, in Vaticano, Raffaello raffigurò gli antichi filosofi e matematici. Nel Platone con la barba bianca, al centro, si ravvisa Leonardo.

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e criticando senza pietà gli arazzi realizzati per la Cappella Sistina. Ma da quelle bordate Raffaello non era neppure scalfito: sia perché professionalmente inattaccabile, sia perché protetto dalle sue molte Madonne. Anzi, a Roma nel 1514 superò se stesso e andò a mettersi sotto la tutela di una “madonnina” di soli 10 anni, Maria, nipote di un cardinale potente, Bernardo Bibbiena. Vasari giura che Raffaello visse malissimo quel fidanzamento da pedofilo, sottoscritto per interesse, e che in attesa delle nozze (rinviate per anni) continuò ad “andare di nascosto ai suoi amori”, quelli con donne adulte. Ma ci sono pericoli da cui nessuna Madonna può difendere. Anzi, ce ne sono certi che dalle “madonne” possono caso mai derivare. Raffaello (pare) incappò proprio in uno di questi. Vasari narra l’incidente così: “Continuando fuor di modo i piaceri amorosi, avvenne ch’una volta fra l’altre disordinò più del solito, perché a casa se ne tornò con una grandissima febbre”. L’artista resistette qualche giorno, poi morì, a soli 37 anni di età. La “sua” Maria non ebbe modo di piangerlo perché se n’era andata mesi prima, appena sedicenne. Che sepolcro! Raffaello fu sepolto nel Pantheon, per esaudire un suo esplicito desiderio. Invece le sue Madonne furono disperse ai quattro venti: oggi solo una (quella dipinta sui muri di casa Santi a Urbino) rimane al suo posto; un’altra (la Madonna Bentivoglio di Sassoferrato) è andata perduta grazie alle razzie di Napoleone; quanto alle restanti 23, oggi 7 si trovano in Germania, 5 in Italia, 3 negli Stati Uniti, mentre Gran Bretagna e Francia ne hanno un paio a testa e infine Spagna, Austria, Russia e Ungheria si dividono le ultime quattro. t Tommaso Marzaroli

INNAMORATA La Fornarina (15181519) fu il grande amore di Raffaello. Il quadro si trova nella Galleria nazionale di arte antica di Palazzo Barberini, a Roma.

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mittenti, primo dei quali un ricco banchiere nato senese, Agostino Chigi (vedi articolo nelle pagine precedenti), fondatore della dinastia che acquisterà poi il palazzo attuale sede del governo italiano. Il vento in poppa non venne meno neppure nel 1513, quando Giulio II morì e sulla cattedra di san Pietro salì Leone X, alias Giovanni de’ Medici, che negli anni precedenti, da cardinale, era stato protagonista di un sanguinoso saccheggio ai danni della ribelle Prato e che poi, da pontefice, avrebbe provocato lo scisma di Lutero. Raffaello seppe lavorarsi ben bene il nuovo papa con un’opera di agiografia pura: affrescò un’intera sala del Vaticano (quella detta “dell’incendio di Borgo”) con le opere di tutti i papi precedenti di nome Leone. Nemici giurati. Grazie (anche) a questa vocazione agiografica, proprio sotto Leone X Raffaello toccò il culmine della carriera, aggiungendo alla sua professione abituale di pittore quella (inventata ex novo) di architetto. E anche nella nuova veste ebbe qualche risultato: alla morte del Bramante gli subentrò al vertice del cantiere di San Pietro (anche se il suo disegno non venne mai realizzato); inoltre, progettò la Cappella Chigi in Santa Maria del Popolo e alcuni palazzi civili (Alberini, Jacopo da Brescia, più un terzo che non esiste più perché fu demolito nel ’600 per far posto al colonnato di San Pietro). Che tanto successo provocasse invidie, era inevitabile. E furono invidie di rango, firmate da Sebastiano del Piombo (1485 ca.-1547), pittore di origine veneziana trapiantato a Roma, e nientemeno che da Michelangelo (1475-1564). Entrambi furono nemici giurati di Raffaello; Sebastiano, in particolare, mise il suo astio anche per iscritto, definendo il rivale “principe della sinagoga” (cioè ebreo, qualifica all’epoca infamante), accusandolo di rubare al papa “almeno tre ducati al giorno”

Misteriosa Fornarina

S Tra i suoi incarichi, la pianta di ROMA AN NTIC C A. E un progetto per SAN N PIIETRO mai realizzato

econdo alcuni era la figlia di un fornaio, Margherita Luti, la donna che dopo la morte dell’artista si ritirò nel convento di Sant’Apollonia. Secondo altri critici, “la Fornarina” non era che il soprannome dato a una famosa meretrice, con una poco sottile allusione a ben altro tipo di pagnotte da infornare. Fu comunque il grande amore di Raffaello, che la dipinse in questa posa discinta poco prima della sua morte, tra il 1518 e il 1519. Forse la ritrasse più volte: alcuni studiosi ravvisano nella giovane che qui cerca di coprirsi il seno la stessa che appare abbigliata nella Velata degli Uffizi. Convolò a nozze? Il gaudente Raffaello avrebbe dovuto impalmare la nipote del cardinal Bibbiena, al quale doveva la committenza delle stanze vaticane, ma forse sposò la donna del popolo: l’anello che la Fornarina porta all’anulare potrebbe avallare questa tesi; e il bracciale sull’avambraccio con la firma Raphael Urbinas sembra ribadire il possesso dell’adorato bene. Di certo l’artista l’amò intensamente. Si racconta che trovandosi a Villa Farnesina, ad affrescare la Loggia di Galatea per il banchiere Chigi, minacciò di posare il pennello se non gli avessero condotto la donna. Fu esaudito e la villa sul Lungotevere mostra oggi un magnifico ciclo di affreschi. (l. d. s.)

GIORGIO VASARI - 1511

SCALA

LO SPICCIO

G. ANDREINI

Fu BIOGRAFO dei grandi del tempo e inventore della STORIA DELL’ARTE. Ma fu anche un artista poco apprezzato

ALLO SPECCHIO Autoritratto di Giorgio Vasari dipinto nel 1566: in mano tiene i suoi progetti di architetto. A sinistra, Paolo III dirige i lavori di San Pietro nella Sala dei cento giorni (quelli impiegati per affrescarla) nel Palazzo della cancelleria a Roma, decorata da Vasari nel 1544.

L

e mani nei folti riccioli neri e la paura che anni di duro lavoro per rientrare nelle grazie del potente casato dei Medici, che lo aveva bandito, andassero definitivamente a farsi benedire. I timori di Giorgio Vasari mentre contemplava l’affresco che gli aveva commissionato papa Paolo III nel Palazzo della cancelleria, a Roma, non erano campati per aria. A detta di tutti quell’opera era una soverchia porcheria. Indegna per uno che mirava a diventare un artista di corte. Era il 1544 e Vasari sapeva che nel secolo di Tiziano e di Michelangelo, il favoloso Cinquecento italiano, era dura dimostrare di essere più bravo degli altri col pennello e farsi largo nella buona società, soprattutto per lui che veniva dalla piccola Arezzo. È vero, per la Cancelleria gli avevano messo fretta: cento giorni (da cui il nome della sala che ospita l’opera). E lui era incappato nell’imperdonabile errore di affidare i cartoni preparatori dell’affresco a collaboratori giovani e inesperti, e non gli restava che recitare il mea culpa. Del resto, la fama postuma gli sarebbe venuta non per l’arte, ma per un libro: le Vite di oltre 160 maestri tra i “più eccellenti pittori, scultori e architettori italiani, da Cimabue insino a’ tempi nostri”. Quanto a lui, rimase sempre sospeso tra l’apprezzamento di circostanza dei committenti e il disprezzo sincero dei suoi colleghi. Crudel Giorgetto. Giorgio (nato il 30 luglio 1511) era il suo nome di battesimo, ma data la bassa statura e l’esile corporatura fu spesso storpiato in “Giorgino”. E Benvenuto Cellini, suo detrattore, arrivò a definirlo in un sonetto “l’impio bòtol” (un empio cagnetto ringhioso) e “crudel Giorgetto”. Ma come mai i suoi contemporanei lo detestavano? «Perché, pur essendo stato cacciato nel 1537 da Cosimo I de’ Medici, che lo considerava uomo privo di fermezza, venne poi richiamato a Firenze – sempre da Cosimo – nel 1554. E per venti lunghi anni, fino alla sua morte, fu il regista assoluto della cultura medicea», risponde Barbara Agosti, docente di Storia della critica d’arte all’Università di Roma Tor Vergata e autrice del libro Giorgio Vasari. Luoghi e tempi delle Vite. «Chiunque potesse fargli ombra veniva subito liquidato. Il Bronzino per esempio, che era il ritrattista ufficiale di casa Medici, fu allontanato appena lui mise piede nella corte». 115

MANIERISTA

SCALA

M. MEROLA

A sinistra, lo Studio del pittore nella casa del Vasari a Firenze. Di fianco, il Cristo in croce in San Giovanni a Carbonara (Napoli).Nei suoi dipinti Vasari imitava lo stile di Michelangelo, Leonardo, Raffaello.

Per di più, Vasari non si faceva certo scrupoli a mettere mano al lavoro altrui. In un passo delle Ricordanze, le memorie in cui il Vasari annotò ossessivamente tutti i passaggi salienti della sua parabola artistica durata quasi cinquant’anni, si legge: “Magnifico Messer Ottaviano de’ Medici mi fecie fare un quadro [...] bisognò contraffare un quadro che già gli aveva fatto Andrea del Sarto che lo Illustrissimo Duca Cosimo gli tolse. Così io lo finii [...]”. È la storia (un esempio tra tanti) di un odioso scippo artistico perpetrato ai danni di uno dei suoi maestri, Andrea del Sarto, con cui Giorgio aveva iniziato a lavorare a Firenze. Versatile. Ma è giusto riconoscere al Vasari i suoi meriti. Intanto, in senso artistico, fu uno e trino: pittore in primo luogo, ma anche architetto e scenografo, oltre che primo storico dell’arte. «Possiamo addirittura considerarlo il fondatore della storia dell’arte», dice l’esperta. «Nelle sue Vite il racconto parte dal ’200, con Giotto e Cimabue, passando per il ’400 di Brunelleschi, Donatello e Masaccio, fino alla sua epoca. L’epoca cioè in cui i canoni pittorici della “buona e bella maniera” trovarono i massimi interpreti in Leonardo da Vinci e Michelangelo. Mai nessuno aveva scritto un’opera del genere, che includeva non solo biografie di grandi geni ma anche di artisti che prima non erano considerati degni di essere trattati storicamente». Delle Vite esistono due edizioni. In quella datata 1550 Vasari parla solo degli artisti già morti, mentre in quella del 1568 inserì anche i viventi. Tra questi 116

“Michele Agnolo” (così lo chiama) Buonarroti, per cui nutriva un’ammirazione sconfinata: “È veramente stata la lucerna che ha fatto tanto giovamento e lume all’arte della pittura, che ha bastato a illuminare il mondo, per tante centinaia d’anni in tenebre stato” si legge nel capitolo a lui dedicato. Il Vasari, dicono le cronache, si precipitò a Roma quando – il giorno di Natale del 1541 – fu inaugurata la Cappella Sistina affrescata dall’amico Michelangelo. E rimase letteralmente abbagliato da quello che vide. Al punto tale da volerlo imitare. Ma il confronto tra il Giudizio universale che Giorgino realizzò per la fiorentina Santa Maria del Fiore e quello michelangiolesco fu impietoso. Vasari, comunque, qualcosa di bello secondo gli storici dell’arte lo dipinse: l’Immacolata concezione della chiesa fiorentina dei Santi Apostoli, il Battesimo di San Paolo a Roma, il Cristo in croce della chiesa di San Giovanni a Carbonara, a Napoli, e la pala con la Deposizione di Cristo che si trova nella Galleria romana dei Doria Pamphilj. Del resto era sempre pronto a cimentarsi in qualunque impresa. «Anche gli amici si stupivano della superattività di Vasari», commenta Barbara Agosti. «Viaggiava molto, per aggiornarsi professionalmente e per stabilire nuovi contatti: Bologna, Venezia, Verona, Mantova, Roma, Napoli. Da ogni viaggio ricavava informazioni preziose che poi avrebbe trasferito nelle Vite, che in effetti progettò una decina di anni prima della loro pubblicazione, già intorno al 1540».

SCALA (2)

Iperattivo e VULCANICO, non si fermava di fronte alle DIFFICOLTÀ tecniche. Ma il RISULTATO poi ne risentiva

Un biografo “creativo”

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BRUTTA COPIA Il Giudizio universale che Vasari dipinse nel Duomo di Firenze, cercando di “copiare” Michelangelo.

asari ce la mise tutta per scrivere, con le sue Vite (sopra, il frontespizio della seconda edizione), un’opera di qualità. Ma si travestì da biografo senza averne le basi. La vita di Leonardo, per esempio, è lacunosa, specie nella parte relativa alla sua attività nella Milano sforzesca di fine ’400. Basta rileggere la descrizione che Vasari fece del Cenacolo per intuire che probabilmente non vide mai l’originale. Michelangelo, invece, era oggetto di venerazione assoluta da parte di Vasari, anche se questi gli giocò un tiro mancino. Giorgino attribuì a Michelangelo un parere negativo su Tiziano (colpevole di realizzare opere con poco disegno, di puro colore). In realtà tra i due c’era un rapporto di grande stima. Seconda mano. Su Raffaello, poi, Vasari non aveva informazioni di prima mano. La sua vita a Urbino, la sua produzione, il rapporto con il duca di Montefeltro gli erano completamente sconosciuti. Scrisse che il pittore urbinate “studiando le fatiche de’ maestri vecchi e quelle de’moderni, prese da tutti il meglio, e fattone raccolta, arricchì l’arte della pittura di quella intera perfezzione”. Lo accusò cioè di scarsa originalità.

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Nel 1565 realizzò a FIRENZE per COSIMO I DE’ MEDICI un Scrivi, che è meglio. Gli stessi personaggi che disprezzavano il Vasari pittore capirono che avrebbe invece potuto dare molto nella scrittura. Ne era particolarmente convinto l’amico e medico Paolo Giovio, le cui lettere sono conservate nell’archivio vasariano della casa natale, ad Arezzo: “Le cose che avete fatto a Monte Oliveto in Napoli, a quelli tiranni delle frittate grosse e grasse (i preti, ndr), alla fine saranno cacabaldole (bazzecole, ndr) consumate dal salnitro e dalli tarli [...]. Ma quello che scriverete non lo consumerà il ladro tempo”. Nel 1547 Giorgino accettò un incarico pittorico al monastero di San Fortunato, a Rimini. Ci andò di malavoglia, solo dopo aver strappato la promessa di avere a sua disposizione un monaco che gli trascrivesse in bella copia le Vite. Dopo tre anni, dunque, il “bel libro delli famosi pittori” fu stampato e fu subito un successo. Anche se, a onor del vero, era un’opera incompleta dal punto di vista geografico. Tutti gli artisti passati al setaccio risiedevano al Centro-Nord dell’Italia. Gli unici meridionali citati erano il pittore calabrese Marco Cardisco e lo scultore napoletano Girolamo Santacroce. 118

Furbacchione. Vasari, astutamente, utilizzò le Vite (l’edizione del 1568) a scopo politico, retrodatando la sua amicizia con Michelangelo e citando con date volutamente sbagliate alcune delle tante lettere che i due si erano scambiati. Il loro rapporto, infatti, era iniziato verso il 1550, ma l’aretino voleva a tutti i costi dare l’impressione che il grande (e influente) artista fosse suo amico da quando era un govinetto e che avessero fatto un percorso artistico comune. Puro sfruttamento dell’immagine altrui, diremmo oggi. Il fatto che Michelangelo fosse morto nel 1564 (Vasari stesso aveva organizzato i fastosi funerali a Roma), cioè quattro anni prima della seconda edizione delle Vite, gli rese la mossa più facile. Di vero c’è comunque che fu proprio il Buonarroti a spingere Vasari verso l’architettura. Lo considerava un onesto professionista di belle speranze. E infatti Giorgino, quando nel 1554 tornò nella Firenze di Cosimo I, si trovò la strada spianata come architetto. «Trasformò Palazzo Vecchio da sede della Repubblica fiorentina a reggia ducale, con soluzioni architettoniche e decorative molto indovinate. Diede inoltre il via alla grande Fabbrica degli Uffizi, la serie di edifici destinati in seguito alle 13 magistra-

INNOVATIVO Vasari progettò gli Uffizi (sopra), a Firenze, serie di edifici destinati alle 13 magistrature e oggi sede di uno dei più importanti musei del mondo.

SCALA SCALA CONTRASTO

SIME PHOTO

CORRIDOIO sopraelevato come via di fuga: il “PASSETTO” PITTORE E ARCHITETTO Sopra, Cosimo I attorniato dai “suoi” artisti: Vasari, autore del dipinto, si è ritratto in basso, con un progetto in mano. A destra, il “passetto” realizzato per Cosimo e il Palazzo dei cavalieri (o della carovana) a Pisa, oggi sede della Scuola Normale.

ture del Granducato di Toscana. E realizzò il meraviglioso Palazzo dei cavalieri a Pisa, che oggi ospita la Scuola Normale», spiega l’esperta. Passaggio segreto. Vasari si era inventato anche un “passetto” (il corridoio che oggi porta il suo nome) di collegamento tra Palazzo Vecchio, Uffizi e Palazzo Pitti, quale via di fuga per Cosimo in caso di pericolo. A Firenze non si stava mai tranquilli. Negli occhi dell’artista era ancora vivo il ricordo dei moti del 1527 quando lui (appena sedicenne) e il pittore Francesco Salviati avevano raccolto da terra con amorevole cura un braccio del David di Michelangelo finito in frantumi in seguito alla furia degli scontri di piazza. I due giovani lo portarono a casa e rimisero insieme i pezzi. Fu il primo concreto atto di venerazione di Giorgino per Michelangelo. E lo stesso Buonarroti lo avrebbe ripagato facendo del Vasari il suo confidente. In una lettera del 1° luglio 1557, per esempio, Michelangelo gli scrisse: “Se si potesse morire di dolore e di vergogna io non sarei vivo”. Che aveva fatto il grande artista di così grave? Un grande errore di progettazione nella Cappella del re di Francia in San Pie-

tro, a Roma. Uno scivolone rimasto segreto ai più, ma illustrato con alcuni disegni all’amico Giorgio. Bilanci. Se Vasari fece carriera, dunque, fu anche grazie a Michelangelo. Di certo, stando ai registri che teneva ed emersi dagli archivi, con le sue opere non da urlo mise insieme una cifra straordinaria per l’epoca: 51.620 scudi. Ai quali vanno aggiunti i compensi per le commesse minori e per le edizioni delle Vite. Oltre a quelli ricevuti per la sua attività meno nota, quella di scenografo. Nel 1536 Vasari aveva supervisionato gli “apparati urbani” in occasione del matrimonio tra Alessandro de’ Medici e la figlia dell’imperatore tedesco Carlo V. Nel 1541 a Venezia disegnò le scene per la Talanta del suo compatriota Pietro Aretino; e nel 1565 realizzò un “teatro da sala” (una scena temporanea) a Palazzo Vecchio per il matrimonio tra Francesco I de’ Medici e Giovanna d’Austria. Insomma, l’artista che Giovio aveva liquidato come “espedito, resoluto e manesco pittore” per la rapidità d’esecuzione (a scapito della qualità), si era ritagliato un ruolo come regista di grandi eventi. E nessuno lo chiamò più Giorgino. t Marco Merola 119

MATILDE DI CANOSSA - 1046 BRIDGEMAN/ALINARI

Bella e POTENTE, Matilde di Canossa diventò l’ago della bilancia nello SCONTRO tra impero e papato. E il bersaglio delle MALELINGUE 120

IL DI TUTTI AI SUOI PIEDI A sinistra, Enrico IV nel 1077 implora l’abate di Cluny e Matilde di intercedere per lui presso il papa Gregorio VII, che lo aveva scomunicato. Sotto, la corte di Matilde in una miniatura del codice Vita Mathildis, la sua biografia compilata intorno al 1115 dal monaco Donizone di Canossa.

CARISMA C

ronaca fantastorica di un evento impossibile dei nostri giorni. In un Paese di media grandezza del Terzo Mondo, maschilista quanto basta, pieno di armi e di morti di fame (come il Ciad, l’Etiopia o la Colombia) vanno al potere per puro caso due donne, madre e figlia. Poniamo che le signore si montino la testa, convochino tutti i cardinali del mondo e decidano chi deve fare il papa; poi, la figlia dichiara guerra a una superpotenza che mette il becco nella sua zona (diciamo gli Stati Uniti) e pretende che il leader straniero vada in ginocchio a casa sua. Il bello è che ci riesce. Circa mille anni fa qualcosa di simile accadde davvero. Al posto del Ciad c’era il Nord Italia e in quello degli Usa c’era il Sacro romano impero. Il potente si chiamava Enrico IV, la donna che lo mise in ginocchio Mathilda von Tuszien, più nota come Matilde di Canossa. Lui, malgrado il nome latinizzato, era tedesco e lei italianissima: nata a Mantova, vissuta nell’Appennino, incoronata a Quattro Castella (Reggio Emilia).

SCALA

Ereditiera. Matilde visse dal 1046 al 1115, ai tempi della lotta per le investiture e della prima crociata. Regnò su Lombardia, Emilia, Toscana, Umbria e paraggi, col titolo di grancontessa e poi con quello di regina d’Italia. Fu la prima donna della Penisola che si impose in politica non come “moglie di”, ma in virtù del suo prorompente carisma, che Torquato Tasso, nel canto XVII della Gerusalemme liberata, 500 anni dopo celebrò in due versi: “Può la saggia e valorosa donna / sovra corone e scettri alzar la gonna”. Era andata al potere senza cercarlo. Suo padre Bonifacio, feudatario potente e poco amato, era stato ucciso nel 1052 con una freccia in gola, mentre cacciava nei boschi lungo il Po mantovano. E le terre di famiglia, munitissime di castelli, erano finite in mano alla sua vedova Beatrice perché l’unico figlio maschio, Federico, era minorenne. Ma pochi mesi dopo anche Federico morì (forse avvelenato); idem una sorella. Uniche eredi restarono così mamma Beatrice e la bambina Matilde. Marcate strette. Chi aveva teso l’agguato a Bonifacio? «Si diceva che lo avesse voluto l’imperatore (allora Enrico III, ndr) geloso del suo ricchissimo vassallo e timoroso della sua potenza; altri parlavano di una congiura di nobili», ha scritto Vito Fumagalli, tra i maggiori biografi di Matilde. Ma un altro studioso, Paolo Golinelli, storico dell’Università di Verona, obietta: «Bonifacio era stato più volte ribelle all’impero, poi però era tornato a esserne uno dei più fedeli sostenitori. Perché Enrico avrebbe dovuto farlo assassinare?». Certo è che l’imperatore, anche se non fu il mandante del delitto, tentò di esserne il beneficiario e impose alla vedova e all’orfana una “protezione” stretta. Così stretta che diventò un duplice sequestro di persona quando Beatrice si macchiò di un imperdonabile gesto di autonomia: si risposò e, da mamma premurosa, avviò Matilde sulla stessa strada. Per una vedova dell’epoca era un classico modo per coprirsi le spalle. Ma Beatrice aveva trovato marito senza il permesso del suo “patrono”. Pena per lo sgarro: arresto e deportazione. Donne al potere. A tempi papato e impero erano ai ferri corti e l’Appennino emiliano, già cuo121

Matilde diede a GOFFREDO IL GOBBO soltanto una FIGLIA (che morì neonata). Per questo fu accusata di avere il MALOCCHIO re del feudo canossiano, era uno Stato-cuscinetto fra Roma e la Germania che non poteva essere lasciato in mani femminili, per definizione inaffidabili. Di più: nel 1037 il papà di Enrico, Corrado II il Salico, aveva varato le norme (dette di “diritto salico” e tuttora adottate da molte dinastie) che escludevano il sesso debole dall’eredità di scettri e corone. Beffa del destino: nel 1056, quando Enrico III morì suo figlio Enrico IV aveva 6 anni, perciò anche l’impero finì nelle mani dell’imperatrice-vedova Agnese. Quanto a mamma Beatrice, finalmente libera da tutele non richieste, tornò a reggere il suo maxifeudo. Mai l’Europa era stata così tinta di rosa. Ma fin qui era solo facciata: Beatrice aveva pur sempre un marito-paravento (Goffredo III il Barbuto, duca dell’Alta Lotaringia, in Germania). E Agnese fu presto messa in congedo (1062) da una banda di vescovi tedeschi, grintosi e complottardi. La rosa e le spine. La vera “rivoluzione rosa” arrivò solo con Matilde e solo quando il suo matrimonio, voluto dalla madre, fallì (v. riquadro in questa pagina). Fu allora che l’ultima erede dei Canossa decise: lei, donna a tutto tondo (i cronisti la descrivono bella e bionda), avrebbe governato da sola, alla faccia dell’impero, del diritto salico e del sesso forte. Per anni esercitò il potere solo come vice della madre, ma nel 1076, morta Beatrice, si trovò a guidare il più grande Stato a sud delle Alpi: ad appena 30 anni e senza mariti-stampella. La solitudine di Matilde è stata ampiamente enfatizzata, da contemporanei e posteri. Un cronista coevo, Giovanni da Mantova, coniò per la grancontessa un titolo adatto più a una monaca di clausura che a una sovrana: “sposa di Dio”. E Dante, nel suo Purgatorio, la descrisse come “una donna

soletta che si gìa / e cantando e scegliendo fior da fiore / ond’era pinta tutta la sua via”. Commento: quel quadretto da “vispa Teresa” non rende giustizia alla grancontessa, se non altro perché la vita di Matilde fu più ricca di spine che di fiori. La prima spina arrivò subito. Proprio nel 1076 la guerra fredda papato-impero diventò calda. Flashback: un anno prima papa Gregorio VII aveva rivendicato alla Chiesa l’esclusiva della nomina dei vescovi. “Davanti a tutti proibì all’imperatore di avere da allora in poi alcun diritto nell’assegnare i vescovadi”, si legge nelle Gesta archiepiscoporum mediolanensium di Arnolfo, storico dell’epoca. Ma Enrico IV, che era diventato maggiorenne e aveva preso il potere, nominò tre vescovi, fra cui quello di Milano. Ne nacque un pandemonio. Il papa richiamò all’ordine l’imperatore (dicembre 1075) e subito (gennaio 1076) Enrico reagì riunendo a Worms, sul Reno, 25 vescovi tedeschi più quello di Verona, che destituirono il papa con parole roventi: “Poiché nessuno di noi, come tu dichiaravi, per te finora è mai stato vescovo, tu pure d’ora in poi per nessuno di noi sarai pontefice”. Il papa, in risposta, scomunicò Enrico e sciolse dal giuramento di fedeltà verso di lui “i cristiani che l’hanno fatto o lo faranno”. I due litiganti. In gioco non c’era più solo la nomina dei vescovi: il papa, ricambiando l’invasione di campo dell’impero nella sfera religiosa, si poneva come autorità assoluta e universale, in grado di decidere le sorti di tutte le istituzioni civili. “Mio è il potere dato da Dio di legare e sciogliere in cielo e in terra”, scriveva Gregorio nella scomunica di Enrico. «Era un atto inaudito, un fatto mai accaduto: per questo le reazioni furono notevoli e tra i sostenitori di Enrico IV cominciarono le defezioni», commenta Golinelli.

SCONTRI AL VERTICE A destra, Matilde e il vescovo di Modena in una miniatura del 1100. La città faceva parte dei domini di Matilde, ma era di fatto controllata dai vescovi, talvolta in disaccordo con il papa. Sotto, un’altra scena dell’incontro di Matilde con il vescovo: qui è rappresentata la riesumazione del corpo di san Geminiano da Modena, avvenuta nel 1106.

Regina di cuori, tra nozze fallite e avventure presunte

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u davvero una donna sola? In realtà Matilde si sposò due volte. Il suo primo marito, scelto dalla madre (Goffredo IV il Gobbo, duca di Lorena, a cui comunque diede una figlia), era un uomo deforme che lei detestava. E il secondo, Guelfo V d’Este, futuro duca di Baviera, un sedicenne catapultato nell’alcova di una donna che avrebbe potuto essere sua madre. Risultato: il matrimonio-bis non fu consu-

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mato, Matilde insultò e cacciò il malcapitato, che passò alla Storia col nomignolo di “Guelfo l’Impotente”. Così narra un cronista boemo dell’epoca, Cosma da Praga. Vendicativa. Sorte peggiore ebbe Goffredo: Matilde l’aveva lasciato e poi, secondo Landolfo Seniore da Milano, per sfuggire alla persecuzione del marito l’aveva fatto uccidere “mentre stava seduto al cesso, infilandogli una spada nell’a-

no”. L’attribuzione dell’omicidio alla grancontessa va presa con le pinze, ma Goffredo morì davvero in quel modo atroce: lo conferma un importante storico dell’epoca, il benedettino tedesco Lampert von Hersfeld. Pettegolezzi? A Matilde furono attribuite anche relazioni col vescovo di Lucca, Anselmo II, e col papa Gregorio VII, ambedue futuri santi. Il pesante gossip veniva da fonti

filo-imperiali, quindi sospette per definizione, ma era così insistente che Anselmo fu costretto a smentire: “Non cerco in lei nulla di terreno e di carnale”, scrisse, “ma servo giorno e notte il mio Dio nel mantenerla fedele ad Esso”. Di tutt’altra idea era il vescovo Benzone d’Alba, che accreditando i pettegolezzi arrivò a insultare Matilde con un epiteto scurrile e lapidario: os vaginae (“bocca di vagina”).

SCALA

SCALA

Senza eredi, Matilde ADOTTÒ nel 1099 il CONTE fiorentino Guido Guerra. Ma quando morì i suoi BENI andarono alla Chiesa Ancor più inaudito fu però quel che accadde dopo. Mentre l’Europa piombava in una cupa crisi istituzionale, fra i litiganti si intromisero come mediatrici due donne: Adelaide di Susa, suocera del sovrano, e Matilde, che di Enrico era cugina e di Gregorio amica, o forse amante. Si arrivò così alla celebre “umiliazione di Canossa”: nel gennaio 1077 l’imperatore salì in Val d’Enza al castello della “sposa di Dio” dove lo attendeva il papa, e in cambio di un plateale atto di contrizione si fece cancellare la scomunica. L’episodio, mediaticamente suggestivo, ispirò per secoli cronisti, pittori, drammaturghi (fino a Pirandello nel Novecento). A dare il la fu il papa in persona: in una sua compiaciuta lettera si legge che Enrico “lasciando alle spalle le insegne reali, con aspetto miserabile, scalzo e vestito di poveri abiti, si trattenne con molte lacrime a implorare l’aiuto e la consolazione della misericordia apostolica”. Altre fonti aggiungono che l’imperatore restò tre giorni in “sala d’attesa”, fuori dalle mura sotto le neve, vestito di umile lana e con la cenere sul capo. Tutto vero? Non proprio: falso era quanto meno il pentimento di Enrico. L’“umiliazione” del 1077, infatti, non segnò la fine della lotta per le investitu124

re, ma solo l’inizio. Nel 1080 l’imperatore si beccò un’altra scomunica; però stavolta invece di umiliarsi nominò un antipapa, Clemente III, e nel 1084 lo insediò a Roma con le armi. Fingendosi penitente, il furbo imperatore aveva preso tempo, chetato i dissensi e preparato la rivincita. Oggi ciò fa dire paradossalmente a vari storici, fra cui Golinelli, che «Canossa fu la più grande vittoria di Enrico IV». Terza potenza. Ma a uscire vincente dall’umiliazione di Canossa fu soprattutto Matilde: il fatto che un imperatore venisse a inginocchiarsi a casa sua la legittimò come terza potente d’Europa. Il diritto salico era stato dimenticato. E il prestigio che derivò alla grancontessa ebbe un peso non da poco quando, dal 1080 in poi, lo scontro fra papato e impero diventò guerra aperta e ci fu bisogno di alleati. Allora Matilde non fu più una diplomatica mediatrice, ma una guerriera aggressiva e schieratissima: dalla parte del papa. Ufficialmente perché Matilde era molto religiosa. Il suo confessore Donizone, un monaco che divenne il suo biografo ufficiale, la definì “una luminosa fiaccola, ardente in un cuore pio”. E Bonizone da Sutri, vescovo di Piacenza, rincarò la dose giudicandola “un’eccelsa contessa, vera figlia di san Pietro”. Lei stessa accreditò

LO SCENARIO DEL CONFRONTO Sopra, le rovine del castello di Canossa, in provincia di Reggio Emilia, sull’Appennino. Qui nel 1077 Enrico IV incontrò papa Gregorio VII.

questa immagine da devota con un’altra definizione, che adottò come firma abituale: “Matilda, Dei gratia si quid est”. Tradotto: “Matilde, che se è qualcosa lo è per grazia di Dio”. Devota. Che fosse pia Matilde lo dimostrò in vari modi. Appoggiò il movimento dei Patarini, che voleva far tornare la Chiesa al rigore delle origini. Aprì i castelli ai sudditi, affamati da ricorrenti carestie. Infine coprì di doni e privilegi il suo monastero prediletto, l’Abbazia di Polirone a San Benedetto Po (Mantova), e permise ai frati di far scorrazzare i loro maiali bradi nei suoi boschi. Ma se Matilde tifò per il papato, fu anche per un motivo che con la religione c’entrava poco: molti pontefici dell’XI secolo furono “affare” dei Canossa. Uno, Stefano X (papa nel 1057-58), era addirittura uno zio acquisito della grancontessa. Un altro, Alessandro II (1061-73), aveva avuto la tiara solo perché il tandem Beatrice-Matilde aveva indotto i cardinali, riuniti casualmente a Mantova, a dichiarare legittimo lui invece di Onorio II, un papa-bis nominato dall’imperatore. Quanto a Gregorio VII fu l’alter ego di Matilde. Da guerriera a regina. Per difendere questo papato fatto in casa, più volte Matilde guidò di per-

sona le sue truppe collezionando successi militari. Nel 1082 Enrico prese d’assalto Canossa, ma fu respinto. Poi i canossiani nel 1084 a Sorbara (Modena) assalirono di notte un accampamento dove alcuni prelati filo-imperiali dormivano ebbri. La lotta per le investiture continuò oltre la morte di Matilde: ufficialmente fino al Concordato di Worms (ratificato nel 1123) che sancì la divisione dei poteri. Il papato vinse 2-1, garantendosi la nomina dei vescovi e il potere temporale, ma non l’autorità universale pretesa da Gregorio VII. Già prima di quell’accordo, però, scomparsi Enrico IV (1106) e il papa suo rivale (1085) la rissa era andata spegnendosi. Tanto che nel 1111 il nuovo imperatore Enrico V era salito in Appennino non per attaccare Matilde, ma per incoronarla regina d’Italia. Immortale. Il nuovo titolo non portò fortuna all’ex guerriera, che si ammalò di gotta e negli ultimi anni fu costretta a letto. Morì in un giorno di luglio del 1115. Sepolta prima nella “sua” Abbazia di Polirone, trovò poi posto in San Pietro, a Roma, privilegio raro per una donna. Intanto, dato ancor più singolare per un’italiana, aveva anche lasciato traccia nella lingua tedesca, dove la frase “nach Canossa gehen” ha tuttora lo stesso significato del nostro “andare a Canossa” (piegarsi a un’umiliante sottomissione). Con buona pace di Enrico IV. t Nino Gorio

UNA VITA DA RICORDARE La comitissa (ovvero “contessa”, cioè Matilde) accetta il libro sulla sua vita scritto dal suo confessore Donizone, che gli era anche amico.

La lunga carriera dei Canossa di Toscana

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a dinastia a cui Matilde apparteneva, oggi nota col nome di Canossa, in realtà si chiamava von Tuszien, cioè “di Toscana”. Di stirpe longobarda e di origine lucchese, ha lasciato notizie di sé dall’inizio del X secolo. Il capostipite Sigifredo acquisì le prime terre in Emilia, presso Parma, poi suo figlio Adalberto, alias Attone, costruì vari castelli sull’Appennino reggiano, fra cui quello di Canossa, il luogo simbolo della famiglia. Il successore Tebaldo si allargò a nord del Po, annettendo Mantova, che poi il figlio Bonifacio proclamò capitale del feudo.

Proprio con Bonifacio i possedimenti canossiani toccarono l’apice, fino a comprendere la Marca di Toscana (che includeva Umbria e Alto Lazio). Arroccati. Chiave di tanta potenza era il controllo dei passi appenninici, transiti obbligati fra Roma e il Nord: per questo, benché possedesse molte città, la famiglia fu sempre radicata nei suoi castelli di montagna. Secondo la tradizione, Matilde avrebbe poi inaugurato coi suoi lasciti una forma di proprietà collettiva, la partecipanza agraria, ancora in uso tra Emilia e Veneto.

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SAN FRANCESCO - 1181

Il santo di Assisi non era tanto diverso dai PREDICATORI “eretici” del suo TEMPO. Ma si salvò grazie alla DIPLOMAZIA

L’ERETICO MANCATO

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Anche prima della rottura con suo padre Pietro Bernardone, si ritiene che fosse in contatto con il vescovo di Assisi, Guido, e che nella sua ombra avesse già fatto con discrezione una prima scelta ecclesiale, quella di “penitente”. «Lo confermerebbe anche una fonte di Assisi, la cosiddetta Leggenda dei tre compagni», prosegue l’esperto. «In questa biografia, non ufficiale ma credibile, si legge come i consoli della città (l’autorità civile nei comuni medioevali, ndr), cui un esasperato Pietro Bernardone si era rivolto per denunciare le stranezze del figlio, si professassero incompetenti demandando la questione al vescovo. Francesco era già in qualche modo “proprietà” ecclesiastica». La classica immagine di Francesco “giullare di Dio”, guardato dai coetanei benpensanti come un hippy ante litteram, convive dunque con il gene della fedeltà al papa scritto nel suo “Dna spirituale”. In questa prospettiva si inserisce, al di là dell’agiografia, il viaggio a Roma del 1209-10. Prudente. Contro le sue stesse aspettative, Francesco catalizzò attorno a sé un primo gruppo di seguaci: con lui erano 12 in tutto, un numero forse simbolico. Questo poteva destare sospetti. Così sentì l’esigenza di ottenere dal papa il benestare al “proposito di vita” della sua fraternitas (il gruppo di discepoli). Il suo interlocutore era Innocenzo III, persecutore inflessibile, ma anche uno stratega che puntava a recuperare a ogni costo gli eretici alla causa della Chiesa. In quegli “uomini penitenziali di Assisi”, i futuri francescani, che gli si accostavano con assoluta deferenza, il pontefice intuì qualcosa, forse l’occasione – che si rinnoverà di lì a pochi anni con i domenicani – di mostrare ai fedeli un’alternativa ortodossa al modello di vita e di fede dei movimenti ereticali. Concesse molto a Francesco, sebbene

SCALA

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ndovinello: in una cittadina del Medioevo uno spensierato e danaroso mercante di stoffe si converte all’ideale evangelico e comincia a vivere in semplicità e fratellanza, cambia vita e dona ai poveri tutto quello che ha, tanto da essere costretto – narrano le cronache – a “mendicare in pubblico, come gli altri poveri, nella città dove aveva brillato per gloria e onore, sotto gli occhi atterriti dei suoi concittadini”. Presto quell’uomo raduna un gruppo di seguaci. Chi è? Se avete pensato a san Francesco ricredetevi: il Poverello d’Assisi nascerà una decina di anni più tardi. Questi fatti, descritti dal manoscritto del 1170 circa Liber visionum et miraculorum, si svolsero in Francia, a Lione. Protagonista è infatti Valdo di Lione, al cui movimento (ispiratore dei valdesi attuali) la Chiesa di Roma chiuderà le porte nel 1184 col suggello dell’eresia. Destino per altro comune a molti movimenti pauperistici, che predicavano cioè il ritorno alla povertà. Per loro ci saranno roghi e stragi di massa (nel 1208, quando Francesco aveva 27 anni, fu bandita la crociata contro gli albigesi). A dispetto delle notevoli somiglianze con gli eretici del tempo e con le loro idee, a partire dalla pretesa di usurpare le prerogative dei preti predicando da laici (quali erano Francesco, diventato diacono solo più tardi, e i suoi compagni), il Poverello sfuggì però a questo destino. Che cosa trasformò una potenziale vittima della neonata Inquisizione in un simbolo del cattolicesimo? Obbediente. Alfonso Marini, docente di Storia medievale alla Sapienza di Roma ed esperto francescanista, non ha dubbi: «Come atteggiamento Francesco era molto vicino ai movimenti ereticali del XII e XIII secolo, però sin dagli inizi la sua vicenda spirituale si muove nel solco di un’assoluta obbedienza alla Chiesa».

CREDERE E OBBEDIRE San Francesco riceve l’approvazione della Regola da papa Innocenzo III (1210), nell’affresco di Giotto alla Basilica Superiore di Assisi.

Per EVITARE di essere associato agli ERETICI predicò OBBEDIENZA assoluta al PONTEFICE di Roma con prudenza: un’approvazione (verbale) e l’autorizzazione a predicare da laici, limitata però con un abile escamotage giuridico a edificanti sermoni “penitenziali”, che non si sovrapponessero cioè alle prerogative del clero in materia di dottrina. Regista di questa manovra politica fu in parte il vescovo Guido, che – con atteggiamento ben più aperto di quello tenuto dai presuli di Lione di fronte a Valdo – pare abbia preparato al suo protetto la strada verso l’udienza col pontefice. Ma decisivo fu soprattutto l’atteggiamento obbediente di Francesco, che anche nel suo testamento ribadirà di volere i suoi frati idiotae e subditi, “ignoranti e sottomessi” a tutti: persino ai sacerdoti “poverelli di questo mondo”, cioè il clero meno sapiente. Un caso politico. Quella di Francesco fu dunque una mossa diplomatica? «Può darsi, perché certamente era un semplice ma non un sempliciotto», risponde Marini. «La decisione di andare a Roma

potrebbe anche nascondere la necessità di coprirsi le spalle e di non essere confuso con gli eretici, garantendosi così la possibilità di predicare e assicurando un futuro al suo movimento. Nel 1217 chiese persino che un cardinale della curia vigilasse sull’ordine in qualità di protettore». Nonostante il futuro santo fosse destinato a diventare un baluardo contro le eresie, trovare nella vita e nei testi di Francesco un avallo alle violenze della repressione è impresa ardua. «La sua fu sempre e comunque una predicazione di pace. Non usò mai la parola “eretico” nei suoi scritti, solo nel testamento troviamo un passaggio duro nei confronti dei suoi confratelli qui non sint catholici, che avevano cioè “deviato”. Al dualismo dei càtari – che erano sì poveri, ma per disprezzo verso la materia, considerata ricettacolo di ogni male – Francesco rispose non con invettive ma con un inno “programmatico” alla vita, il Cantico delle creature».

NUDO E PURO Francesco rinuncia ai suoi averi, suscitando lo sdegno del padre, sempre nel ciclo attribuito a Giotto (1296 circa).

Francesco e il sultano: incontro tra civiltà

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schi giotteschi) fu cordiale. Secondo le fonti coeve, una sorta di manuale applicato di cortesia cavalleresca. Lo scambio. Colto e poco guerrafondaio, al-Kamil (che più tardi negozierà un lungo trattato di pace in Terrasanta con un altro sovrano illuminato, Federico II di Svevia) trattò infatti gli ospiti

cristiani con tutti gli onori, ringraziandoli per la loro disinteressata preoccupazione verso le sorti della sua anima, e tacitando i dignitari che lo consigliavano di passarli a fil di spada. L’incontro tra i due si concluse con un’ottima impressione reciproca. Ciascuno rimase della sua idea, eppure quel

piccolo episodio di dialogo e tolleranza in un’epoca di fanatismi darà un frutto longevo: la Custodia, cioè la provincia e il presidio francescano in Terrasanta, che da quasi otto secoli rappresenta la Chiesa cattolica e cura a suo nome i Luoghi santi a Gerusalemme e in Palestina.

SCALA (2)

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opo lupi e lebbrosi, ci fu l’incontro di Francesco con l’”altro” per definizione: il sultano Al-Malik al-Kamil, nipote del condottiero Saladino, nonché capo supremo di quegli “infedeli” contro cui fu indetta la quinta crociata. Francesco lo incontrò nel 1219, dopo essersi imbarcato da Ancona per la Terrasanta, in quello tramandato come uno degli episodi più avventurosi della sua vita, e un’ennesima prova di abilità diplomatica. In Egitto. La guerra infuriava da due anni e il frate, animato da zelo missionario, assieme a un confratello fu accolto nell’accampamento cristiano che assediava la città egiziana di Damietta. Qui ottenne il permesso di entrare in territorio nemico, per tentare di convertire il sultano e porre fine allo scontro. L’accoglienza delle guardie fu rude, ma l’incontro (ritratto a lato negli affre-

Pericoli in vista. Una volta accettato, l’ordine rischiava però di diventare troppo “istituzionale”. E Francesco era umile, ma uomo di carattere. Voleva “vivere secondo la forma del santo Vangelo”: una forma tutta sua, non omologata a tradizioni preesistenti come quella monastica, che al mondo sostituiva il chiostro. Ribadì di aver ricevuto da Dio la chiamata a essere “unus novellus pazzus in mundo”, un “nuovo pazzo” con un’identità refrattaria a confondersi con altre esperienze. È proprio questa, forse, la chiave per capire le sue mosse di fronte alle mutazioni cui andavano incontro i francescani. In pochi anni infatti l’Ordine dei frati minori crebbe, espandendosi anche fuori dall’Italia. A indossare il saio francescano arrivavano nuovi confratelli di ceto e cultura superiore, che non avevano neanche mai visto il fondatore della loro fraternitas, più sensibili all’influenza della curia romana. Una curia che, preoccupata dall’atteggiamento dei confratelli più rigoristi verso proprietà privata e stile di vita degli ecclesiastici, premeva per avere francescani più organizzati e “in riga”. Il ritocchino. Il movimento iniziò a burocratizzarsi: arrivarono i conventi, un ministro generale, i ministri provinciali. Già nel 1219 Francesco era stato raggiunto in Terrasanta, dove si trovava per cercare di convertire il sultano, dalla notizia che alcuni suoi vicari stavano introducendo norme lontane dallo spirito originario. Nel 1221 respinse gli inviti di qualche confratello a surrogare da altri ordini religiosi una Regola già pronta e approvata. Dovette comunque redigerne una, rifiutata però da Roma. Lo spettro dell’eresia si stava riavvicinando. A una nuova versione misero allora mano confratelli più colti di Francesco, e forse lo stesso cardinale di Ostia, Ugolino di Anagni, futuro papa Gregorio IX. E nel 1223 arrivò l’agognata approvazione di Onorio III. Fu un compromesso al ribasso: slancio missionario ridimensionato, clericalizzazione del movimento, predicazione subordinata al placet del ministro generale e del vescovo. I caratteri “eretici” erano ormai stemperati. Francesco reagì con l’isolamento. Già nel 1220, quando la “gabbia” della gerarchia era in costruzione, se ne chiamò fuori affidando il governo dell’ordine ad altri: l’amico Pietro Cattani, quindi frate Elia. Era malato e quasi cieco per una congiuntivite tracomatosa, contratta in Oriente e maldestramente “curata” con un ferro arroventato. Uno dei racconti sulla sua vita, la Compilazione di Assisi, riporta 130

l’amara confidenza fatta a un confratello: “Se i frati camminassero ed avessero camminato secondo la mia volontà, non vorrei, per la loro consolazione, che avessero altro ministro che me”. Depresso. Dalla stessa autorevole fonte apprendiamo che Francesco soffrì per oltre due anni di “una gravissima tentazione dello spirito”. «Non certo la lusinga di un tardivo ritorno al mondo», spiega Marini. «Piuttosto, l’insidia psicologica di considerarsi in qualche modo un fallito». Un’amarezza che rischiava di sconfinare nella depressione. Come riporta ancora la Compilazione, “molte volte si sottraeva alla compagnia dei fratelli, poiché non era in grado di mostrarsi loro lieto come era solito”. Uscì dalla crisi, stando alle fonti, soltanto con la fiducia nell’approvazione divina simboleggiata dalle stimmate. «Di certo c’è che l’ultima parte della vita di Francesco – dalla sacra rappresentazione di Greccio nel 1223 fino al Cantico delle creature redatto in volgare, caso unico tra i suoi scritti – fu segnata da un aprirsi e un agire sempre più al di fuori del suo ordine, sublimandone in qualche modo i comportamenti deludenti con il proprio carisma e la propria spiritualità». Tornando, quindi, a quella “eresia” originaria. Vittime e carnefici. Nel 1226 Francesco morì. L’eretico mancato si era trasformato in eroe della Chiesa e i suoi “eccessi” sembrarono disinnescati. Eppure il fantasma dell’irrequietezza continuerà ancora a infestare per secoli la famiglia francescana, subito divisa tra gli “zelanti” (detti più tardi spirituali, cioè i più fedeli alla povertà delle origini) e i conventuali, appoggiati da Roma. Era l’inizio di una disputa che toccò punte al calor bianco tra Duecento e Trecento, quando buona parte dei francescani fedeli alla Chiesa fu arruolata tra gli inquisitori. L’Inquisizione, da parte sua, farà salire sul banco degli accusati francescani del calibro (teologico) di Guglielmo da Ockham e dello stesso ministro generale Michele da Cesena. Nel 1318 la tomba di Pietro di Giovanni Olivi, il fondatore degli spirituali, fu distrutta per ordine del pontefice e il suo allievo Ubertino da Casale fu costretto alla clandestinità. Solo a fine Ottocento papa Leone XIII riorganizzerà il movimento in tre ordini: frati minori, conventuali e cappuccini. Ciascuno interprete di uno dei volti di san Francesco: che fu l’unico, però, capace di far convivere in una sola persona i tratti del t conformista e quelli del rivoluzionario. Adriano Monti Buzzetti Colella

SCALA (2)

Fu fatto SANTO a due anni dalla MORTE, da Gregorio IX: uno dei PROCESSI di canonizzazione più RAPIDI nella storia della CHIESA

UBIQUO L’apparizione di Francesco, che era altrove ,ad Arles (Francia), durante il Capitolo (assemblea) del 1225. Sotto,San Francesco nel ciclo giottesco.

Umiliati e valdesi: storie parallele, destini opposti

I

l movimento fondato da Valdo di Lione, simile per molti aspetti a quello francescano, non ottenne l’approvazione del papa in carica, Alessandro III. Nel 1184 i suoi seguaci furono scomunicati e si rifugiarono nel Sud della Francia e in

alcune regioni settentrionali dell’Italia. Perseguitati per tutto il Medioevo, sopravvissero fino al ’500 e aderirono alla Riforma luterana. Fratelli diversi. Opposto, forse più per i casi della Storia che per la sostanza delle idee, il

destino degli umiliati, nati nel 1028 in Piemonte ma radicati in Lombardia. La loro Regola, simile a quella di Valdo di Lione, fu approvata nel 1201 da Innocenzo III dopo anni di persecuzioni. Ma se per i valdesi la Riforma significò la

salvezza, per gli umiliati fu una iattura. Sospettati di calvinismo, entrarono in conflitto con l’arcivescovo di Milano, Carlo Borromeo, che un membro dell’ordine tentò di assassinare. Così gli umiliati furono soppressi nel 1571. (g. r.)

MARTIN LUTERO - 1483

SEGRETO

RITRATTO DI FAMIGLIA In questo montaggio, Lutero suona il liuto circondato dalla moglie Katharina von Bora (ex monaca sposata nel 1525) e dai figli, sullo sfondo della sua casa di Wittenberg (Germania) oggi diventata museo.

Il padre della Riforma PROTESTANTE non era il PURITANO che si crede. Anzi, era VANITOSO e... buongustaio

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ittenberg (Germania), ottobre 2004: tra le rovine di una casa d’epoca viene trovato un water. «Un evento straordinario», commentava a caldo Stefan Rhein, direttore della Stiftung Luthergedenkstätten, la più prestigiosa istituzione culturale della città. Motivo di tanto entusiasmo? Si ritiene che la casa (e il water) siano stati di proprietà del “profeta” della Riforma protestante: Martin Luther, monaco agostiniano, in Italia noto col nome storpiato di Lutero. Quel bagno fu il luogo di nascita del protestantesimo. Nelle parole pronunciate da Rhein non c’era alcuna intenzione dissacrante: la Stiftung Luthergedenkstätten è una serissima fondazione che coordina dotti studi sugli albori della Riforma. E l’irrispettosa deduzione del suo direttore aveva precise ragioni storico-biografiche. «Lutero soffriva di stitichezza cronica e passava ore in bagno», ha spiegato Rhein. «Lui stesso dice di aver messo a punto la sua dottrina in cloaca, cioè alla toilette». Morale: oggi il water di Wittenberg è diventato un cimelio, come il trono di Napoleone Bonaparte e la poltrona gestatoria dei papi. Contraddittorio. Ha avuto una strana sorte, da 50 anni in qua, Martin Lutero. Il mondo cattolico, che gli fu nemico, lo ha rivalutato molto, forse addirittura troppo: «Uno strano spirito ecumenico», riassume Claudio Pozzoli, germanista e biografo del “profeta”, «sta tentando di affossare il

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Lutero più vivo a favore di un riformatore imbalsamato, buono per tutti. Col risultato di soffocarne la vitalità umana, la forza rinnovatrice e la violenza dirompente, per non parlare della contraddittorietà che ha spesso caratterizzato la sua azione». Forse era inevitabile: tutti, nemici inclusi, sono stati sempre affascinati dall’immagine di quel ribelle austero e temerario, tramandata da antichi biografiagiografi, fra cui Johannes Mathesius, cinquecentesco parroco di Joachimsthal (Boemia), che definì Lutero “grande e amato profeta della terra tedesca”. Ma Martin fu davvero l’uomo duro, puro e rivoluzionario che la tradizione ha descritto? Senz’altro sì, dirà chi antipatizza con papi e curie. Eppure Lutero fu anche tutt’altro. E paradossalmente questa nuova visione è stata messa a fuoco soprattutto in Germania. Un Paese a maggioranza protestante dove il fondatore della corrente religiosa più diffusa è stato vivisezionato, demitizza-

to e umanizzato spesso in modo spietato: il water di cui si diceva è il caso limite di un’operazione da cui la figura di Lutero esce ridisegnata e tratteggiata da poche definizioni impietose: iperprotetto, incline ai piaceri della carne e della gola, razzista, reazionario e vanitoso. Protettori. Vediamo i “capi d’accusa”. Primo: iperprotetto. I biografi del passato hanno spesso sottolineato che Martin, nato in una cittadina di provincia (Eisleben) della Sassonia, nel cuore della Germania, era figlio di un minatore. E che nonostante ciò portò a termine con successo studi di legge e di teologia; e che poi, scandalizzato dalla corruzione della Roma papalina, osò sfidare ad armi impari pontefici e sovrani: soprattutto Leone X (il papa che finanziava il cantiere di San Pietro vendendo indulgenze) e Carlo V (l’imperatore che voleva globalizzare il mondo sotto la sua cattolicissima corona). Tutto ciò è vero, ma non è tutta la verità.

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Secondo alcuni, le “95 TESI” non furono affisse da LUTERO, ma dai suoi STUDENTI su sua indicazione

SCUOLA DI CANTO Il giovane Lutero (al centro) canta davanti a Ursula Cotta, la padrona della casa di Eisenach in cui visse da ragazzo, nel 1499.

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QUI NACQUE...

L’“eroe solitario” aveva le spalle coperte. Fin dai primi passi fu il cocco di Federico III, principe di Sassonia. Grazie a Federico, nel 1508 Lutero ottenne una cattedra all’Università di Wittenberg, da dove prese a lanciare invettive, ora invocando il ritorno all’applicazione letterale della Bibbia, ora bollando il mercato delle indulgenze e il “culto idolatra” delle reliquie. Fu qui che nel 1517 scrisse il suo trattato antiromano, sintetizzato nelle “95 tesi”. E sempre grazie a Federico, nel 1521 ebbe un salvacondotto imperiale per andare a Worms a sostenere un confronto coi teologi ortodossi. Non è tutto: quando una scomunica lo mise in concreto pericolo di vita, Lutero scampò al rogo grazie al suo solito protettore, che finse di rapirlo e lo chiuse dietro le mura inespugnabili di un castello, a Wartburg. L’“eretico” restò nascosto lì per 10 mesi, dedicandosi in tutta tranquillità alla traduzione del Nuovo Testamento in tedesco: un’altra sfida alla Chiesa, che ammetteva solo versioni delle Scritture in greco o in latino, incomprensibili per i più e quindi interpretabili a piacere dal clero. Insomma: senza Federico, Lutero non sarebbe stato Lutero. Amatore. Seconda accusa: poco casto. In realtà Martin ebbe

una sola donna, Katharina von Bora, ex monaca che diventò sua moglie nel 1525. Fu un matrimonio felice, esente da gossip, da cui nacquero sei figli. Tutto ciò, ancora una volta, era in linea con la Bibbia, che al sesto comandamento non prescrive affatto la castità ma si limita a vietare l’adulterio (Esodo, 20: 14). Però Lutero aveva giurato fedeltà eterna alla regola di sant’Agostino, che sul punto è un tantino più esigente: “Gli occhi, anche se cadono su qualche donna, non si fissino su alcuna”. Terzo aggettivo: goloso. È l’accusa più recente, mossa nel 2008 da archeologi del Landesmuseum für Vorgeschichte di Halle, che hanno rovistato in discariche e pozzi neri di Eisleben e di Wittenberg, dove Martin visse. Dopo il famoso water, sono così tornati alla luce i rifiuti delle due famiglie Lutero (quella di origine e quella di elezione), che hanno rivelato diete poco monacali, a base di maialetti allo spiedo, oche arrosto e pesci pregiati. Nei rifiuti c’erano anche i resti di gatti e pettirossi (ma non si sa se furono mangiati da Lutero). Antisemita. Quarto aggettivo: razzista. Questa accusa, a differenza della precedente, non è nuova. Già nel lontano 1946, durante il processo di Norimberga ai criminali di guerra nazisti, Julius Streicher, editore alla sbarra per aver incitato alla persecuzione degli ebrei, si difese sostenendo di essere in BILDERBERG (4)

La piazza di Eisleben (Sassonia), città natale di Lutero, con una statua che lo ricorda. Al centro, il letto in cui morì, esposto nella casa-museo di Eisleben. A destra, la ricostruzione degli interni dell’ultima residenza di Lutero, sempre a Eisleben.

LETTURA LIBERA Sopra, Lutero con il cappello da docente, a Wittenberg. A destra, fac-simile della prima Bibbia che Lutero tradusse in tedesco (1534): fu alla base della Riforma protestante.

LUOGHI DI SPIRITO

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Da sinistra, portale della casa di Lutero e Katharina a Wittenberg: Kathe lo fece realizzare per donarlo al marito nel 1540; una stanza della casa di Coburg, dove Lutero soggiornò nel 1530. A destra, la chiesa di Hartenfels, la prima consacrata da Lutero nel 1544; e la residenza di Lutero a Wittenberg, dove fu insegnante all’università.

linea con la dottrina luterana. Da allora gli storici si sono divisi: gli innocentisti sono ricorsi a sottili distinguo, parlando di strumentalizzazione nazista di Lutero. Ma Streicher non aveva tutti i torti: lo dimostra un libro dello “strumentalizzato”, dal titolo eloquente: Degli ebrei e delle loro menzogne (1543). Quel testo non usava mezzi termini: “Sappi caro cristiano, e non avere dubbi al riguardo, che subito dopo il diavolo tu non hai nemico più acre, più velenoso, più acceso di un vero giudeo”. Il monito era accompagnato da valanghe di insulti per gli ebrei tedeschi, definiti “usurai”, “gente miserabile e incorreggibile” o addirittura “velenosi basilischi”. Sintetica conclusione operativa: “Le loro sinagoghe siano distrutte col fuoco, e chi può vi getti sopra zolfo e pece, e se qualcuno potesse gettarvi anche il fuoco dell’inferno, sarebbe cosa buona”. Sull’antisemitismo, Lutero concordava con molti cattolici. Contro l’arte. Penultima accusa: reazionario. Per comprendere questo bisogna partire da un passo della Bibbia: “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è in cielo né di ciò che è in terra né di ciò che è nelle acque” (Esodo, 20: 4). Preso alla lettera, quel versetto comporta la condanna di ogni forma di arte figurativa. E in effetti la Riforma, sempre ligia alle Scritture, si distinse per le sue chiese

disadorne. Ma poiché spesso si trattava di luoghi di culto cattolici riciclati, comportò la distruzione di pitture e sculture preesistenti. In quella campagna iconoclasta spiccò per intransigenza Andreas Bodenstein, detto Karlstadt (14801541), un professore di Teologia dell’Università di Wittenberg, che prima era stato insegnante di Lutero e poi ne era diventato un seguace, ma più radicale. Mentre Martin era assente perché finto prigioniero del suo protettore Federico, Karlstadt pubblicò un saggio intitolato Sulla distruzione delle immagini, che incitava a “bonificare” le chiese facendo strage di madonne e santi “romani”, sia dipinti, sia scolpiti, sia sotto forma di reliquie. La risposta popolare non tardò. Nel 1521 nacque un movimento detto Bildersturm (“Tempesta delle immagini”) che da Wittenberg dilagò in mezza Europa, saldandosi nel 1524-25 con furiose rivolte contadine, che alle teste mozzate dei santi di pietra aggiunsero spesso quelle in carne e ossa di preti, nobili e prelati che facevano resistenza. Nel passaggio dalle prime teste alle seconde ebbe un ruolo chiave un altro teologo estremista, Thomas Müntzer (1489-1525), un ruvido montanaro deciso a trasformare la Riforma in una violenta rivoluzione sociale.

Gli altri riformatori

O

ltre a Lutero, la Riforma protestante ebbe altri due leader: lo svizzero Huldrych Zwingli (1484-1531) e il francese Jean Cauvin, alias Giovanni Calvino (1509-1564). Ad accomunare i tre erano l’opposizione al papato, il ritorno alle Sacre Scritture e (sia pure con toni diversi)

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il rifiuto dell’arte sacra. A dividerli, invece, erano sottili questioni teologiche, ma soprattutto politiche. Sul fronte teologico, divergente era la valutazione dell’eucarestia, che per Zwingli era una mera rievocazione dell’ultima cena di Gesù e per gli altri due un vero sacramento. Ma Zwingli si distinse dagli altri

soprattutto per la teoria e la pratica della lotta armata, che Lutero e Calvino rifiutavano: alternando le battaglie ideologiche a quelle con le armi, lo svizzero finì per morire sul campo. Niente immagini. Sull’arte sacra e il culto delle immagini, invece, Zwingli e Calvino furono sulle stesse posizioni,

più estreme di quelle di Lutero: tanto che Calvino volle essere sepolto in una tomba anonima per evitare che i fedeli ne istoriassero la lapide. Invece Zwingli morì prima di poter esprimere le sue volontà in proposito. Zurigo, la sua città, nel dubbio gli eresse una statua presso la cattedrale.

L’invenzione (tedesca) della STAMPA nel 1450 aiutò la DIFFUSIONE del pensiero PROTESTANTE in Europa

Lutero e Zwingli a Marburgo (1529) discutono delle loro divergenze dottrinali.

SCALA

A CONFRONTO

Martin non la prese bene. Bollò Müntzer con parole roventi: “Il demonio ha inviato tra voi falsi profeti: guardatevene!”, scrisse ai contadini, nella sua Esortazione alla pace. E ancora: “Si sono uniti a voi molti profeti di delitti, che vogliono per mezzo vostro divenire signori del mondo”. In effetti Thomas aveva travalicato lo spirito della Riforma. Ma anche Lutero andò oltre, invocando una repressione spietata dei contadini: “Ritengo che sia meglio uccidere dei contadini che dei prìncipi e magistrati. Perciò, cari signori, sterminate, scannate e strangolate: chi ha il potere lo usi!”. Erano parole da reazionario doc, difensore a tutti i costi di ogni autorità costituita. Con due sole eccezioni: l’“Anticristo” e la “Sodoma romana”, cioè il papa e il papato. «Per Lutero l’autorità era in ogni modo voluta da Dio», spiega Pozzoli. «Quindi da lui legittimata, anche se sbaglia o agisce in modo non cristiano». Nel suo richiamo all’ordine, l’ex rivoluzionario Lutero attaccò a sorpresa anche il compagno Karlstadt (definito “spirito sedizioso”). Perché? Lutero si era reso conto del fatto che nessun movimento culturale ha mai potuto fare a meno dell’arte. Così, se la Roma dei papi aveva identificato la sua stella polare in Michelangelo, anche l’austera Germania riformata finì per scegliere un suo punto di riferimento artistico: un baffutissimo pittore bavarese, Lucas Cranach (1472-1553), detto “il Vecchio” per distinguerlo da un figlio, omonimo e collega (“il Giovane”). Strana scelta, perché Lucas era tutt’altro che un campione di sobrietà: il museo Ermitage di San 138

Pietroburgo, in Russia, conserva una sua Venere con Cupido in nudo integrale; la Staatliche Kunsthalle di Karlsruhe (Germania) un Giudizio di Paride dove i nudi sono tre, con sei seni in mostra; e la Galleria nazionale d’arte antica di Trieste ha una sua Diana con le ninfe al bagno che raggiunge quota 7 nudi, ma con soli 11 seni perché una ninfa è vista di spalle e una di fianco. Insomma: più che per la Bibbia, Cranach sembrava aver vocazione per una paganissima sensualità. Vanitoso. Ma il “Vecchio” era un abile cortigiano, che sapeva fiutare dove tirava il vento. Intuendo che il futuro della Sassonia sarebbe stato luterano, prese a dipingere ritratti su ritratti non solo di Martin, ma anche di suo padre Hans, di sua madre Margarethe e di sua moglie Kathe. Chi poteva restare insensibile a un simile culto della personalità? Fu lì che la vanità (l’ultima accusa) di Martin venne a galla. E nella Germania dei protestanti l’arte, uscita dalla porta, rientrò dalla finestra. Volendo, alle sei definizioni se ne possono aggiungere altre due: umanissimo e beffato. Perché umanissimo, è chiaro: con le sue contraddizioni, il suo ondeggiare tra gola e stitichezza, il “profeta” della Riforma risulta un po’ meno eroico e un po’ più vero di come lo voleva la propaganda luterana. Perché beffato, poi, è pure evidente: lui, che lottò per togliere dalle chiese le reliquie dei santi, sarà ricordato in un museo anche per quella strana reliquia: t il water di Wittenberg. Nino Gorio

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BILDERBERG

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Anche la MOGLIE Kathe contribuì alla RIFORMA: la sua fu la prima famiglia-tipo PROTESTANTE

ROGO ERETICO Lutero brucia la bolla papale di risposta alle sue tesi eretiche (Exsurge Domine) e i libri di diritto canonico: era il dicembre del 1520.

Dalla religione alla politica SATIRA ANTI-PAPA A sinistra, vignetta satirica e anticattolica del 1545 che ritrae il papa mentre decapita l’imperatore. Il castello di Wartburg dove Lutero fu condotto con un falso rapimento e tenuto nascosto nel 1521.

C

hiarire questioni di dottrina religiosa e riformare la Chiesa per restituirle la purezza delle origini. In fondo Lutero voleva questo, e non rompere con Roma a tutti i costi. Eppure il monaco tedesco, rifiutando di ritrattare le sue tesi, avviò una spaccatura in cui la politica mise presto il suo zampino. Precetti. I cardini del luteranesimo erano: l’equiparazione del mercato delle indulgenze (il condono della pena conseguente a un peccato) al peccato di simonia (la compravendita di cariche ecclesiastiche); la subordinazione

della dottrina alle Sacre Scritture; la confessione solo a Dio; la salvezza garantita unicamente dalla grazia divina; lo scarso peso dato alla liturgia e al culto dei santi; la limitazione dei sacramenti a due (battesimo ed eucarestia). Guerra. Quando, nel 1521, l’Editto di Worms volle imporre la fede cattolica in tutto l’impero tedesco, i luterani risposero rendendo pubblica una protestatio (da cui il termine “protestante”). Prìncipi e feudatari dell’imperatore Carlo V vi reclamavano il diritto alla propria libertà di fede, dando il via allo scontro aperto.

Con la pace di Augusta (1555) fu stabilito il principio cuius regio eius religio (“a chi appartiene la regione spetta deciderne la religione”): ogni principe e ogni libera città della Germania poteva scegliere il cattolicesimo o il luteranesimo. Ma i conflitti religiosi continuarono a dilagare, sfociando nella Guerra dei trent’anni (1618-1648) che travolse l’Europa. Nel 1635 l’entrata in guerra della Francia (cattolica) contro l’imperatore tedesco (anche lui cattolico) provò che in ballo c’era l’egemonia militare, e (a. c.) non la fede.

NOSTRADAMUS - 1503

DOMANI

LESSING/CONTRASTO

È considerato il VEGGENTE più noto di tutti i tempi, eppure sapeva poco di astrologia. Il suo SEGRETO? Scrivere il più possibile. E con un LINGUAGGIO fumoso

FANTASTICHE DIVINAZIONI Simboli e creature fantastiche dai quadri di Hieronymus Bosch (1450-1516), simili a quelli che affollavano le visioni di Nostradamus. A destra, in un quadro del Seicento tratto dalle descrizioni del figlio César. A fianco, un’edizione del 1690 delle sue celebri profezie.

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ACCADRÀ U



del Reich) contiene, forse, uno dei più formidabili misteri della Seconda guerra mondiale. Nei primi mesi del conflitto contro la Francia (estate 1940), i tedeschi usarono come arma segreta sedicenti profezie di Nostradamus (15031566), il più celebre astrologo di tutti i tempi. I tedeschi fecero credere che questi avesse previsto l’invasione del Paese da parte della “Grande Germania”, e che solo la parte sud-orientale sarebbe stata risparmiata dal turbine di fuoco degli Stuka. Quando i nazisti attaccarono Parigi, verso nord, in direzione della Manica, trovarono le vie sgombre da profughi, proprio come volevano. Strumento politico. Che la propaganda e la manipolazione facciano vincere battaglie e guerre è cosa nota; ma che alcune migliaia di opuscoli abbiano potuto determinare lo spostamento in massa di una popolazione è un

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n piccolo trucco che fece grossi danni fu un opuscolo, all’apparenza innocuo, che fu distribuito in gran quantità dai nostri agenti e anche lanciato dagli aerei. Stampato in francese e presentato come un’edizione delle Profezie di Nostradamus (e infatti ne conteneva diverse), il libriccino prevedeva distruzioni immani a opera di ‘fiammeggianti macchine volanti’, mentre il Sud-Est della Francia sarebbe stato immune dal disastro. Mentre preparavo questo opuscolo, non immaginavo che avrebbe avuto il tremendo effetto che ebbe. Tutti gli sforzi delle autorità francesi di impedire l’esodo della popolazione verso il Sud-Est furono vani”. Questo ricordo di Walter Schellenberg, capo della Sesta Sezione (spionaggio estero) del Reichssichersheitshauptamt (ufficio centrale per la sicurezza

SPECCHIO DELLE MIE BRAME... Caterina de’ Medici convoca Nostradamus per conoscere il futuro del trono di Francia. Secondo la leggenda, il veggente mise in atto un complesso rito magico basato su uno specchio.

Nel corso dei secoli le sue PROFEZIE furono MANIPOLATE per fenomeno che sbalordì lo stesso ideatore di questa messinscena. Lo stratagemma di Schellenberg era certo astuto, ma non avrebbe avuto tanta efficacia se non avesse potuto contare sulla plurisecolare fama di Nostradamus. Bastò il nome, messo in calce a quartine spurie o manipolate, perché la gente si fidasse ciecamente di quelle pretese profezie. Le previsioni dell’astrologo per antonomasia sono infatti così ambigue da prestarsi alle più svariate interpretazioni (nei riquadri di queste pagine ne presentiamo alcune). Così, fin dal XVII secolo la raccolta delle Profezie di Nostradamus fu utilizzata per scopi politici. E sempre ad alto livello, nelle corti più importanti d’Europa. Ebreo, ma non troppo. Michel de Nostredame, che latinizzò il proprio nome in Nostradamus, nacque a Saint-Rémy-de-Provence il 14 dicembre 1503, in una casa di Rue du Viguier. Un suo discepolo e biografo, Jean Aimé de Chavigny, scrisse che il futuro veggente nacque a mezzogiorno, ma questa meticolosità documentaria non è che un omaggio postumo al ma142

estro, per il quale era adatta come ora natale nulla di meno che l’esaltazione del Sole al meridiano. Nostradamus era di origini ebraiche, ma i suoi antenati si erano convertiti al cattolicesimo e lui stesso ignorava l’ebraico, anche se molti esegeti improvvisati enfatizzano la conoscenza che il veggente avrebbe avuto della Qabbalah. Michel de Nostredame giunse ad Avignone nell’autunno del 1518, destinato allo studio di grammatica e retorica, le cosiddette arti liberali, che al tempo costituivano l’indispensabile preparazione per accedere all’università. Nel 1521, il giovane provenzale ottenne il titolo di maestro d’arti, più o meno l’attuale diploma superiore. Ancora non si interessava di astrologia o profezie: si occupava di erboristeria e farmacia. Non aveva neppure in mente, allora, di diventare medico, altrimenti non si sarebbe dedicato allo studio delle piante medicinali. Infatti le facoltà di medicina non accettavano studenti che avessero avuto pratica di pharmacaitre, come si diceva allora, considerata un’occupazione inferiore, indegna di un medico. Nostradamus, invece, come

scriverà lui stesso, dedicò “la più grande parte dei miei giovani anni alla farmacia e alla conoscenza e studio dei mezzi per guarire; per più terre e Paesi, dal 1521 al 1529, sempre vagando, per apprendere la sorgente e l’origine delle piante e altri mezzi dalla facoltà curatrice”. In viaggio. Il futuro astrologo percorse in questo modo gran parte del Sud-Ovest della Francia: Guienna, Linguadoca, Provenza, Delfinato, Lionese... Conobbe erboristi e farmacisti, di alcuni dei quali cita i nomi nella sua opera Traité des Fardements et Confitures (Trattato dei cosmetici e delle confetture). Finché, nell’autunno del 1529, Michel non decise di iscriversi alla facoltà di medicina a Montpellier, la più rinomata del regno. Il giovane aveva compreso che tisane e decotti non gli avrebbero dato la fama e l’onore cui ambiva. Il 3 ottobre 1529, Michelet de Nostre-Dame (così si firma e il documento è tuttora conservato) domandò l’iscrizione alla facoltà di medicina; ma il Procuratore degli studenti, Guillaume Rondelet, lo radiò, perché lo studente era farmacista ed “era stato sentito dir male dei medici”. Michel

SCALA (3)

VEDERE LONTANO A destra, una versione di fine ’800 di Nostradamus, raffigurato sempre con la barba da sapiente. Sotto, in veste di osservatore degli astri.

La fuga di Luigi XVI Quartina IX.20 Di notte verrà per la foresta di Reines / due parti voltorte Herne (?) la pietra bianca / il monaco nero in grigio dentro Varennes / eletto cap. causa tempesta fuoco sangue taglio.

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essere UTILIZZATE a fini POLITICI non si dette per vinto: chiese e ottenne la protezione di un altro Procuratore, e si iscrisse il 23 ottobre 1529. Non sappiamo quando Nostradamus ottenne la laurea in medicina, perché gli archivi dell’università sono andati perduti. La data più probabile è il 1533. Verso quell’anno, Nostradamus si recò ad Agen, in Aquitania, su invito di un erudito italiano, Giulio Cesare Scaligero. La città dovette piacere molto al giovane medico, perché vi si fermò per sei anni. Ma il periodo che va dal 1533 al 1539 è il più oscuro di tutta la vita di Nostradamus. Sappiamo che ad Agen si sposò, ma non conosciamo il nome della moglie. Il suo primo biografo, Jean-Aimé de Chavigny, dice solo che era una “fort honorable demoiselle” (“una signorina molto per bene”). Da questa donna nacquero due figli, anche loro rimasti senza nome. Contro la peste. Nel 1546 Nostradamus venne chiamato dalla città di Aix-en-Provence a combattere la peste che vi era scoppiata. Non c’è da stupirsi: i maghi (o in alternativa gli uomini di Chiesa) erano spesso l’unica arma contro quello che ai più pareva un ca-

stigo divino. L’anno successivo l’epidemia arrivò a Lione, e Nostradamus fu convocato nuovamente, grazie all’esperienza già accumulata, per cercare di salvare la città. Restò miracolosamente sano e, in quello stesso anno, si trasferì a Salon-de-Provence, dove si stabilì definitivamente. A 43 anni compiuti, dopo una vita itinerante, Michel voleva mettere la testa a posto. A Salon prese moglie: una ricca vedova senza figli, tale Anne Ponsard. Con i proventi della professione di medico, ma anche con la cospicua dote, Nostradamus acquistò una casa nel quartiere Ferreiroux. Casa che esiste ancora, e che si trova al numero 2 di quella che oggi è, ovviamente, rue Nostradamus. Nel 1548-1549 Nostradamus andò in Italia. Si trattò probabilmente d’un viaggio di istruzione: forse desiderava approfondire certe conoscenze o scambiare esperienze con altri medici. Sappiamo che durante i due anni di permanenza in Italia (a Savona, Milano e Genova), egli prescrisse medicine, di sua formulazione, a personaggi della nobiltà, il che testimonia come ormai fosse una celebrità.

a presenza del toponimo Varennes ha convinto gli esegeti di Nostradamus che questa quartina anticipasse la fuga di Luigi XVI (21 giugno 1791), che si concluse con l’arresto della famiglia reale nel paesino di Varennes. Ma gli altri dettagli vengono ignorati o manipolati. In questo, il francese Jean Charles de Fontbrune è un maestro. Per lui quel misterioso Herne è riferito agli Hernutes, che furono – dice – una setta cristiana che si distingueva per purezza dei costumi, e starebbe a indicare la monarchia di diritto divino. Il “monaco nero in grigio” sarebbe l’immagine di Luigi che, fuggendo, si sarebbe travestito da frate. Falsità. Secondo i memoriali, Luigi XVI era invece vestito d’una finanziera scura con gilet e un cappello rotondo: nulla che facesse pensare a un monaco. “Cap.”, per i volenterosi decifratori, starebbe per Capeto e si riferirebbe sempre al re. Ma Luigi XVI (che non fu “eletto”, ma fu re per diritto di nascita) durante il suo processo dichiarò con orgoglio che Capeto non era il suo cognome o comunque un nome dinastico che egli riconoscesse.

Hitler, magro e sanguinario

Quartina II.9 Nove anni il regno il magro in pace reggerà / poi cadrà in sì sanguinaria sete: / per lui grande popolo senza fede né legge morirà / ucciso da uno ben più bonario.

M

olti studiosi moderni vi hanno visto profetizzato Adolf Hitler, ma questa interpretazione è legata più che altro al fatto che il personaggio è definito magro e sanguinario, e certamente Hitler fu l’uno e l’altro. Tuttavia il tiranno nazista non fu al potere per nove anni, ma per tredici (1932-1945); inoltre, il suo governo non si può certo definire un periodo di pace, anche prima della Seconda guerra mondiale: basta pensare al feroce regime di repressione che Hitler instaurò appena giunto al cancellierato. Senza fede? Suggestivo il passo in cui si parla di un popolo “senza fede né legge”, che può evocare l’immagine delle sottomesse masse tedesche. Le quali però, purtroppo, una loro fede l’avevano: la fede nel Führer.

SCALA

TUTTO STUDIO E LAVORO A sinistra, una rappresentazione classica di Nostradamus: seduto allo scrittoio, circondato da segni zodiacali. Sotto, nelle vesti di astrologo. BRIDGEMAN/ALINARI

La SVOLTA avvenne dopo un VIAGGIO in ITALIA: rientrato a Svolta magica. Al ritorno dal tour italiano Nostradamus iniziò a pubblicare le sue Prognostications astrologiques (Previsioni astrologiche), opuscoli annuali che avrebbe continuato a far uscire fino alla morte, 17 anni più tardi. Il libretto che diede fama imperitura a Nostradamus fu stampato il 4 maggio 1555 a Lione, dall’editore Macé Bonhomme. Formato da appena 46 fogli di dimensioni ridotte (8 per 13 cm), il volumetto è oggi rarissimo: se ne conoscono due sole copie originali, conservate nei Fondi Rochegude della Biblioteca d’Albi (Francia) e nella Osterreichische Nationalbibliothek di Vienna. Con piglio da consumato uomo di marketing, non pubblicò il suo corpus profetico in una sola volta: lo fece uscire in tre successive edizioni (l’ultima nel 1558), ciascuna delle quali si accresceva di nuove profezie (per un totale di 360 quartine). Successone. Il nome di Nostradamus fece rapidamente il giro delle grandi corti d’Europa. Come spiegarlo? In parte era lo spirito dei tempi. Ma fattore essenziale fu una circostanza frutto dell’inventiva di Michel: Nostradamus 144

scrisse moltissimo. Ogni anno pubblicava almeno un almanacco astrologico, o anche più di uno. Così, l’abbondante produzione del veggente si impose all’attenzione. Come è facilmente intuibile, più cose vengono previste, più alte sono le probabilità che qualche profezia si avveri. Inoltre, lo stile di Nostradamus era il perfetto stile oracolare, degno della Pizia greca: oscuro, ambiguo, allusivo, vi si poteva trovare tutto e il suo contrario. Nostradamus, infine, era un medico, uno studioso vero, “certificato” da una formazione universitaria. Conosceva l’italiano, il latino e un po’ di greco. Parlava poco, aveva un aspetto austero. Insomma, incarnava il ruolo del vecchio saggio che promana autorevolezza; perciò le sue previsioni erano accolte con rispetto. Certo, i nemici non gli mancavano. Come il medico e astrologo Laurens Videl, che accusò Nostradamus di incompetenza astrologica: lo definì addirittura “grosso asino” e “grossa bestia”. “Uno che non avesse mai visto un libro di astrologia”, gli scrisse, rivolgendosi direttamente a Michel, “non saprebbe fare er-

rori più grandi di quelli che fai tu”. Tuttavia, sebbene avesse agguerriti nemici, Nostradamus poteva contare su importanti santi in paradiso. Astrologo dei vip. Nel dicembre 1559, Margherita di Francia, sorella di Enrico II, e suo marito Emanuele Filiberto di Savoia, in viaggio da Parigi a Nizza, andarono a Salon apposta per fare visita al veggente. Divenuto ormai l’astrologo dei vip, Nostradamus non si curava affatto delle disposizioni del Concilio Laterano V (1512-1517), che vietavano la pubblicazione delle profezie. E neppure diede peso all’Ordonnance d’Orléans del re di Francia (31 gennaio 1560), che proibiva nel regno la stampa di almanacchi che non avessero l’imprimatur del vescovo. Del resto, grazie alle sue entrature, Nostradamus non aveva difficoltà a ottenere l’autorizzazione episcopale, tanto che poté dedicare l’almanacco del 1562 allo stesso papa Pio IV. Tanto favore si doveva al fatto che Nostradamus, ai suoi clienti, non prediceva mai sventure. Gli oroscopi dei nobili erano pieni di allarmi, ma anche di meravigliose promesse. Per la dinastia

Napoleone, il macellaio

RITRATTO DI SAPIENTE

Quartina I.60

Un imperatore nascerà accanto all’Italia / che all’impero sarà venduto assai caro / diranno con quali genti egli si unirà / che si troverà meno principe che macellaio.

Un’immagine moderna di Nostradamus. Come astrologo era gettonatissimo fra i vip dell’epoca, anche perché, astutamente, per loro non prevedeva mai sventure.

T

utti gli interpreti vi hanno trovato prefigurato Napoleone Bonaparte: nato in Corsica, isola vicina all’Italia, sarà un imperatore che costerà caro al suo popolo e a quelli soggiogati nelle sue cruente campagne di conquista. Limiti. Calzante la definizione di macellaio per un uomo che impose all’Europa più di un decennio di guerra, e che non era di stirpe regale (non era dunque principe). L’accenno alle genti con cui si unirà non ha però spiegazione convincente. SCALA

Il gran sole di Hiroshima Quartina II.91

casa cominciò a scrivere profezie astrologiche francese Nostradamus divenne un oracolo propagandistico: prevedeva infatti che tutto il mondo sarebbe stato sottoposto a un “Gran Monarca” e che questi sarebbe stato francese. Il “Gran Monarca”. Quando il profeta di Salon pubblicava le sue Profezie, dal 1547 sedeva sul trono di Francia Enrico II, figlio di Francesco I, che da Caterina de’ Medici aveva avuto due figlie e quattro figli, uno dei quali era Enrico. Sappiamo che Caterina chiamò Nostradamus a consulto sul destino dei figli, e che egli venne ampiamente ricompensato. Forse perché proprio per Enrico, il cocco di mamma pur essendo terzogenito (e che darà poi una caccia ostinata al trono, diventando re col nome di Enrico III), Nostradamus aveva profetizzato un impero mondiale. Non fu così. Se il veggente fosse vissuto più a lungo (morì quando Enrico aveva 15 anni) avrebbe assistito alla sua triste storia: Enrico III fu un sovrano di scarso valore, amante del lusso sfrenato e dissipatore. La sua giovane vita sarebbe stata spezzata dal pugnale di un frate fanatico che lo ammazzò perché lo riteneva troppo debole con i protestanti.

Sempre di moda. Nostradamus morì il 2 luglio 1566, ma per lui si apriva una nuova era: quella della continua esegesi delle sue quartine. Tra i più noti interpreti postumi ci fu l’ottocentesco Anatole Le Pelletier, che sciolse alcuni anagrammi seminati dall’indovino nei suoi testi: Rapis sta per Paris, Nersaf per France, Eiouas per Savoie, Chiren per Henric, Loin per Lion. Ogni epoca, del resto, riscoprì Nostradamus in modo diverso. Se in età romantica fu considerato più poeta che astrologo, in epoca positivista i lettori subirono il fascino dei suoi codici. Ne derivò una nuova scuola interpretativa: la ricerca di una logica interna alle Centurie, come furono chiamate le centinaia di versi del provenzale. Si studiarono cioè come elementi di un puzzle che doveva essere ricomposto per svelare il messaggio nascosto. I versi divennero tessere di un mosaico che appare assurdo solo perché volutamente messo in disordine. Ricomporlo è il compito che ancora oggi si danno gli esegeti di un profeta che forse poco sapeva di astrologia, ma molto di psicologia umana. t Paolo Cortesi

Sole levante un gran fuoco si vedrà / rumore e splendore verso aquilone tendendo: / entro il circo morte e grida si udrà / per spada, fuoco, fame morte gli attendenti.

A

lcuni commentatori vi vedono le bombe sganciate su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto 1945. L’interpretazione è motivata dal termine “sole levante”, che indicherebbe il Giappone, e il “gran fuoco” che viene collegato alle “morte e grida” del terzo verso. Circo. Ma potrebbe essere un’indicazione temporale e non geografica: al levar del sole. Inoltre non è spiegato il circo (o cerchio, in francese rond) dentro cui si dovranno udire le grida.

Le Torri gemelle Quartina II.92

Fuoco color d’oro di cielo in terra visto: / colpito dall’alto, nato, fatto caso meraviglioso: / grande eccidio umano, preso del grande il nipote / morte di spettacoli fuggito l’orgoglioso.

V

i è stato visto l’attentato dell’11 settembre 2001, ma nulla si riferisce chiaramente alle Torri gemelle. Ci sono solo elementi che possono ricondurre a esso: il fuoco, il nipote (Osama bin Laden, nipote di emiri), il grande eccidio. Ma è troppo poco: nelle Prophéties la parola “fuoco” ricorre ben 70 volte. Inganni. Lo zelo degli interpreti talvolta arriva alla frode: c’è chi ha tradotto nay con “nave”, e vi ha aggiunto “aerea” per suggerire un aeroplano. Invece, per Nostradamus, nay significa “nato” , in tutta la sua opera.

LETTURE A cura di Matteo Liberti

Feederi r co II. Im mperattore, uo omo, mito to Hubert Houben (Il Mulino) Federico II di Svevia è uno dei personaggi più discussi del Medioevo e tra i più carismatici della Storia. Il libro ne analizza le qualità politiche, gli interessi multiculturali e i tentativi di dialogo con il mondo arabo-musulmano.

Lo orenz nzo o ill Mag gnificco e il su uo tem uo mpo o Ingeborg Walter (Donzelli) Sullo sfondo dell’Italia rinascimentale spicca la figura di Lorenzo de’ Medici, abile politico, raffinato poeta e stimato intellettuale. Grazie a lui Firenze si affermò come capitale dell’arte e della cultura, dove si formarono maestri del calibro di Leonardo e Michelangelo.

Pico o del ellaa Miraandolla Mariateresa Fumagalli Beonio Brocchieri (Laterza) Ricostruzione della vita dell’eclettico umanista Giovanni Pico della Mirandola, che si distinse per la costante ricerca di una filosofia “universale” che conciliasse i saperi antichi e quelli moderni.

I Bo Borrgiaa. Sto oriaa e seegreti Marcello Vannucci (Newton Compton) Storia dell’inarrestabile ascesa dei Borgia, famiglia di origine spagnola che divenne una delle più influenti in Italia grazie a personaggi come Rodrigo (papa Alessandro VI) e i figli Cesare (il Valentino) e Lucrezia, conturbante pedina di giochi di potere.

Daante. e Il roma man nzo deellaa sua vitta Marco Santagata (Mondadori) Intreccio di vicende storiche ed episodi privati riguardanti Dante Alighieri sullo sfondo della Firenze del XIII e XIV secolo. Ne emerge un ritratto originale del Sommo Poeta, abile nel-

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MEDIOEVO E RINASCIMENTO la sua Commedia a raccontare la politica e i costumi del proprio tempo.

Leeonar ard do. Simb mbol olii e se segrreti Paul Crenshaw, Rebecca Tucker (Rizzoli) Dalla Gioconda all’Ultima Cena, il volume analizza gli enigmi e i significati reconditi che si celano dietro ai dettagli delle opere di Leonardo da Vinci (e nei suoi molti disegni tecnici), aiutandoci a comprendere meglio le peculiarità di un genio che incarnò come pochi la cultura rinascimentale.

Meedioe oevo o e Rin nasciimento o Eugenio Garin (Laterza) Classico della storiografia e del pensiero filosofico, il volume analizza il passaggio dall’epoca medievale a quella rinascimentale, soffermandosi sul mutamento dei valori della società e cercando di superare la semplicistica antitesi tra “tenebre” (Medioevo) e “luce” (Rinascimento).

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Maach hiavelli Francesco Bausi (Salerno) Il libro indaga le vicende umane e letterarie di Niccolò Machiavelli con un’analisi puntuale di tutti i suoi scritti. Ne viene fuori un’immagine nuova – meno accademica e forse più vera – del brillante intellettuale fiorentino, indimenticato autore de Il Principe e padre della moderna scienza politica.

Maarttin Lutero o Roland H. Bainton (Einaudi) La storia personale e religiosa di Martin Lutero, il carismatico monaco agostiniano che accusò la Chiesa di corruzione e assestò un durissimo colpo al cattolicesimo con la Riforma protestante: un evento che modificò per sempre il corso della Storia.

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