Focus Storia Collection - Primavera 2016 [PDF]

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Zitiervorschau

Primavera 2016 � 7,90

DAI ROMANI AL REGNO UNITO, L’EVOLUZIONE DELLA FORMA DI GOVERNO PIÙ ANTICA

MONARCHIE

Sped. in A. P. - D.L. 353/03 art. 1, comma 1 NE/VR

I SOVRANI CHE HANNO GOVERNATO IL MONDO i 90 anni di età e i 64 sul trono della regina elisabetta • carlo magno e carlo V: nel nome di dio • il re sole • Borbone, asburgo e savoia • l’educazione di un principe • i re degli eccessi • sissi, la più bella del reame • l’ultimo atto di vittorio emanuele III • tutte le corone di oggi

er molti di noi i re sono personaggi da favola, protagonisti buoni o malvagi di avventure lontane nel tempo. Perché l’Italia ha smesso di essere un regno 70 anni fa, e oggi i Savoia sono perlopiù oggetto di studio a scuola o di gossip sui rotocalchi. Insieme a loro, l’ultimo secolo ha spazzato via anche altre monarchie. Eppure nel mondo vivono ancora decine di sovrani e la sola Elisabetta II d’Inghilterra domina da 64 anni sul Regno Unito e altri 16 Paesi. Oggi molti dei re che ancora siedono sul trono discendono proprio da quelle dinastie – dai Borbone agli Asburgo ai Windsor... – che nei secoli passati hanno fatto il bello e il cattivo tempo in Europa e oltre ancora. Questo numero di Focus Collection si muove in due direzioni. Ci aiuta a comprendere valori e simboli della monarchia anche nel mondo di oggi. E ci accompagna in un viaggio nelle regge che hanno dominato l’Europa. Re e regine rivivono attraverso le loro azioni e i giochi di potere, certo, ma anche gli errori, le debolezze, i dolori. Perché la vita era durissima per tutti e ai sovrani, unti o meno del Signore, non erano risparmiate malattie, morti premature, unioni infelici. Oltre agli obblighi della rigida vita di corte, male necessario della regalità. Emanuela Cruciano, caporedattore 6

LE RAGIONI DELLA MONARCHIA

SIMBOLI

L’incoronazione di Carlo II Stuart (1630-1685), re d’Inghilterra, Scozia e Irlanda.

SCALA

P

MONARCHIE

26

pag. 10

Le origini e i tanti volti di un protagonista assoluto del potere dall’inizio della Storia a oggi: il monarca.

Re, prìncipi, imperatori: quando i libri di storia ci raccontano il passato, lo fanno attraverso le gesta dei sovrani. Ancora oggi la corona conserva un forte valore morale e simbolico. Uno storico esperto e appassionato ci spiega perché.

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UNA LUNGA STORIA

La monarchia è stata la forma di governo più usata nei Paesi occidentali. E resta la grande protagonista del nostro passato.

18

34

TUTTI I REGNI DEL MONDO

40

TEMPI MODERNI

Anni duri per la corona spagnola, a caccia di credibilità dopo qualche brutto scandalo. Una sfida sulle spalle del giovane re e della sua famiglia.

NATI CON LA CORONA

Privilegi, giochi, castighi, capricci, intrighi. E metodi educativi che oggi fanno rabbrividire. La vita dei piccoli prìncipi che salivano al trono ancora fanciulli non era proprio una passeggiata.

Chi regna fuori dall’Europa? La “solita” Queen Elizabeth. Più una ventina di sovrani nei Paesi arabi e in Asia.

22

INSEGNE REGALI

La maestà è fatta anche di simboli. Ecco i significati di quelli più importanti, dallo scettro al trono alla corona.

pag. 26

10

C’ERA UNA VOLTA UN RE

pag. 34

IL LATO OSCURO

Costantemente al centro dell’attenzione, e al di sopra della legge, ai sovrani è stato (quasi) sempre permesso tutto. Anche gli eccessi più estremi. Che vi raccontiamo.

COPERTINA: LA REGINA ELISABETTA II, BETTMANN/GETTY IMAGES

3

MONARCHIE GOD SAVE THE QUEEN

46

Ha 90 anni, di cui quasi 64 vissuti da regina. Ha superato in longevità di regno l’ava Vittoria e tutti i precedenti sovrani inglesi. Insomma, un monumento. Che il mondo omaggia.

98

pag. 54

È vero che Margherita mangiava il pollo con le dita? Aneddoti, fatti e curiosità sulle regine (ufficiali e non) dal 1861 al 1946.

102

RINASCIMENTO INGLESE

54

Nella seconda metà del ’500 la regina Elisabetta I fece dell’Inghilterra un centro di potere e cultura.

108

L’impero della regina Vittoria era immenso, ma di lei ricordiamo la cuffietta, l’abito vedovile, la morale puritana imposta a tutti i sudditi e un certo gossip su un cameriere...

114

IL SOLE DI FRANCIA

120

128

Odiata perché regina di Francia ma di origine austriaca, fu travolta dalla rivoluzione del 1789. Ma chi fu davvero Maria Antonietta?

I PRIMI SAVOIA

Sono stati re d’Italia per quasi un secolo. Ma che origini hanno i Savoia, una delle casate più antiche d’Europa?

134

Nel 1734, con Carlo III, nasce la dinastia Borbone in Italia. E Napoli divenne una delle più belle capitali d’Europa.

4

L’IMPERATRICE DEI LUMI

Nel Settecento riformò l’impero austriaco e fece di Milano una piccola Parigi. E dire che Maria Teresa nemmeno portava la corona.

pag. 128 pag. 140

140

BENVENUTI AL SUD

92

FEDERICO L’UNICO

Gettò le basi della Grande Germania. Per alcuni, ispirando addirittura il Terzo Reich. Ma chi era davvero Federico II?

UNA FAVOLA SENZA LIETO FINE

88

IL MONARCA D’EUROPA

Nel Cinquecento si ritrovò sul capo più di una corona. Così Carlo V unificò mezza Europa in nome di Dio. E arrivò anche oltreoceano.

pag. 98

Luigi XIV volle riportare l’assolutismo nella monarchia. Anche a costo di imporre a ministri e cortigiani rituali imbarazzanti.

82

ULTIMO ATTO

Fu uno degli episodi più controversi del 1943: il frettoloso trasferimento di Vittorio Emanuele III nell’Italia del Sud.

Da re dei barbari Franchi a imperatore romano e leader della cristianità. L’incredibile ascesa di Carlo Magno.

74

IL NONNO DELLA COSTITUZIONE

In bilico tra ancien régime e idee liberali, Carlo Alberto di Savoia tentò di fare l’Italia. Lui fallì, ma non il suo Statuto.

pag. 88

L’INVENTORE DEL MEDIOEVO

66

ALLE DUE CORTI

La vita privata, lo stile di governo e le idee nelle casate che a metà Ottocento guidavano il Regno di Sardegna e il Regno delle Due Sicilie.

pag. 66

REGINA DI CUORI

60

SOVRANE D’ITALIA

SPECCHIO SPECCHIO DELLE MIE BRAME

Elisabetta d’Austria era ossessionata dalla bellezza. Diete, palestra e cure maniacali non erano mai abbastanza.

146

LETTURE

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STEVEN SPIELBERG FIRMA UN NUOVO CLASSICO DEL CINEMA

1957: l’FBI cattura una spia sovietica a Brooklyn. Un legale statunitense dovrà affrontare un’incredibile impresa: negoziare in modo pacifico il suo scambio a Berlino Est condue cittadini americani. Steven Spielberg è l’autore di un capolavoro, ispirato a una vicenda vera. Ottimi gli interpreti: Tom Hanks e Mark Rylance, premio Oscar © come miglior attore non protagonista.

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INTERVISTA

LE RAGIONI

della monarchia Re, principi, imperatori: quando i LIBRI di storia ci raccontano il passato, lo fanno attraverso le gesta dei sovrani. Oggi molti REGNI non ci sono più, ma dove la corona resiste conserva un forte valore morale e SIMBOLICO. Uno STORICO esperto e appassionato ci spiega perché

ALDO ALESSANDRO MOLA Storico e saggista italiano. È stato docente di Storia contemporanea all’Università Statale di Milano e contitolare della cattedra Théodore Verhaegen dell’Università Libera di Bruxelles. È esperto di monarchia, di massoneria e del Risorgimento in Italia.

SUL TRONO DI FRANCIA

La consacrazione di Carlo X come re di Francia (regnò dal 1824 al 1830) nella Cattedrale di Reims, in un dipinto di François Gérard.

6

Due secoli fa, la maggior parte degli Stati europei aveva a capo un re o una regina. Oggi sono solo undici e meno di una trentina in tutto il mondo. Secondo lei la Corona ha ancora ragione di esistere nel nostro tempo? Occorre distinguere fra la monarchia di radice romana, fondata sulla volontà del popolo e del Senato e poi arricchita con l’investitura sacrale dei re dei Franchi (l’unzione con l’olio delle Sacre Ampolle, che ne rendeva inviolabile il corpo), e quella orientale, puramente divina. Le monarchie europee derivano tutte dalla sacralità imperiale romano-cristiana. Le persone che fisicamente le incarnano sono sicuramente importanti; ma molto di più lo sono i simboli e i luo-

ghi che via via abitano. L’imperatore (o il re) può anche essere “dormiente”. La regalità invece è viva. La Francia è una Repubblica monarchica e dalle visite al suo Pantheon e agli altri edifici storici (si pensi alla reggia di Versailles) trae benefici enormemente superiori a quelli dell’intero sistema museale italiano. Lì appare la Maestà: cioè la magia del sovrano che secondo la tradizione detiene poteri sovrannaturali (guarisce le piaghe, restituisce la vista e amministra la giustizia, sintetizzata nello scettro con le tre dita, simbolo trinitario). Dopo la Rivoluzione francese, per più di un secolo, l’istituto monarchico dovette affrontare il passaggio da una forma di legittimazione dinastica a una di tipo nazionale-rappresentativo.

GETTY IMAGES

E

sattamente 70 anni fa, il 2 giugno 1946, gli italiani sceglievano la repubblica alla monarchia. Ma nonostante l’uscita di scena della famiglia reale, i Savoia restano fra i protagonisti della storia italiana, così come i Windsor lo sono del Regno Unito e i Borbone in Spagna, dove siedono ancora sul trono. Perché la monarchia è stata l’unica forma di governo utilizzata nel mondo, e negli Stati europei in particolare, con continuità. Nel bene o nel male, quando volgiamo lo sguardo al passato, è a re e regine che ci rivolgiamo. Ne parliamo col professore Aldo Alessandro Mola, storico della massoneria e del Risorgimento e grande esperto di monarchia.

Secondo lei la modernità finì per minarne i principi o la monarchia riuscì ad adattarsi al nuovo? Anche dopo la Rivoluzione francese imperatori e re sono stati garanti dei principi di tradizione, legittimità e di equilibrio tra le potenze. A unirli non era un groviglio di “trattati” ma la Santa Alleanza. La monarchia è stata soprattutto il caposaldo dei principi “non negoziabili”: il rapporto tra cittadini e potere, tra persona e sovranità, che vengono molto prima del profitto. In tutti i Paesi europei continentali la monarchia ha inoltre conciliato lo Stato con le confessioni religiose, a cominciare dalla cattolica, anche quando il sovrano non era personalmente “osservante” . In origine i monarchi trovarono la legittimazione del loro potere nella sfera religiosa e spirituale. Quanto ha influito il cristianesimo sulla storia della monarchia e che conseguenze concrete ha finito per provocare? La monarchia imperiale romana si fondò sulla pace e sulla cittadinanza universale, curiosamente concessa da un imperatore poco morigerato come Caracalla nel 212 d.C. Il cristianesimo coniugò il Verbo Incarnato con il Diritto. La Chiesa divenne depositaria della legittimità del potere. Lo si vide non solo con Costantino il Grande (non per caso ha il monumento a San Giovanni Laterano), ma con Teodosio e poi con il Sacro romano impero che durò fino al 1806. I papi hanno esercitato un ruolo fondamentale nella sacralizzazione del potere politico: da una parte investendone i titolari (pensiamo a Niccolò II che investe il normanno Roberto il Guiscardo nel 1060) dall’altra assumendone i segni esteriori, compresi il triregno e la sedia gestatoria, usata sino all’incoronazione di papa Paolo VI. Qual è il suo giudizio storico su Elisabetta II, regina del Regno Unito? È l’incarnazione della regalità. E la prova che la monarchia può essere compatibile con il mondo moderno. Elisabetta mostra quotidianamente che la monarchia è non solo forma ma sostanza di un Paese orgoglioso della propria storia. Una storia certamente fatta di

conflitti anche sanguinosi (la guerra delle Due Rose, la decapitazione di Maria Stuarda, quella di Carlo I, la cacciata di Giacomo II), ma soprattutto di conquiste di diritti fondamentali, inalienabili e inviolabili, dalla Magna Carta all’Habeas corpus (il diritto, per l’imputato, di conoscere la causa dell’arresto: lo sancì per prima la Magna Carta, ndr), alla costruzione di un impero civilizzatore che andò dalla Nuova Inghilterra all’India, all’Australia. Catherine Middleton, duchessa di Cambridge, moglie del principe William. sarà la prima commoner che salirà sul trono negli ultimi cinCOME UN DIO

La statua di Ottaviano Augusto (63 a.C.-14 d.C.) nei panni di Giove: fu lui a gettare le basi di due millenni di sovranità in Europa.

quecento anni di storia del Regno Unito. Non è la sola tra i reali più conosciuti a non avere sangue blu. Penso a Charlene, la principessa di Monaco, a Mary di Danimarca, a Daniel, consorte della principessa ereditaria Vittoria di Svezia, a Maxima in Olanda, a MetteMarit in Norvegia o Letizia in Spagna. La condizione di nobiltà di discendenza ha perso il suo valore dinastico? No. Nei secoli il re è stato investito dai suoi pari, come il pontefice viene eletto dai cardinali. L’ascesa di borghesi a ruoli di sovrano è l’adattamento odierno di un rito antico. Nell’Impero romano, dopo la sequenza delle dinastie

GETTY IMAGES (2)

La nobiltà non sta nell’origine della PERSONA ma nel ruolo che ESERCITA. Monarchi di origine borghese ci sono sempre stati. E oggi sono IN AUMENTO ADDIO AL RE

A sinistra, I’Unità annuncia la vittoria della repubblica al referendum del 1946.

(i Giulio-Claudi, i Flavi, gli imperatori di adozione) furono i generali, le legioni o i pretoriani ad alzare sugli scudi il detentore della sovranità, che ne assumeva le funzioni indossandone i paramenti e i simboli (la corona, la spada, la fissità dello sguardo). La nobiltà non sta nell’origine della persona ma nel ruolo che assume e che esercita. Pensiamo al generale Jean-Baptiste-Jules Bernadotte (17631844), un borghese diventato principe ereditario della corona di Svezia e futuro Carlo XIV. Gli altri sovrani in Europa avevano radici più o meno remote, ma i loro antenati, comunque, avevano conquistato il potere, che veniva prima delle loro persone e delle loro dinastie. Si discute tanto tra gli storici se il primo vero “padre” dell’Europa sia stato un sovrano, l’imperatore Carlo Magno. Qual è la sua idea? Fondatore dell’Europa fu Caio Ottaviano Augusto, figlio adottivo di Giulio Cesare, che gettò le basi di due millenni di sovranità in Europa. Guidato da papa Leone III, Carlo Magno ebbe l’intelligenza di capire che se non si fosse fatto consacrare imperatore in Roma, come avvenne nel Natale dell’800 d.C, sarebbe rimasto solo uno dei tanti re dei Franchi, vincitore di molte battaglie ma non il restauratore dell’impero, un vero gigante della grande storia. In Spagna, in cui sembrano sempre più rilevanti le spinte repubblicane e indipendentiste, riuscirà Filippo VI a ridare lustro alla monarchia? Unico perno della pax interna e del ruolo intercontinentale della Spagna (tuttora rilevante) fu ed è la monarchia,

come del resto recita la sua Costituzione. La Spagna ebbe due repubbliche, di breve durata. La seconda deragliò nella spaventosa guerra civile del 1936-1939. Perciò anche esponenti della sinistra, come il comunista Santiago Carrillo e il socialista Felipe González, si riconobbero nella instaurazione della monarchia incarnata da Juan Carlos. Senza Felipe VI, il successore non solo dei suoi diretti predecessori, i Borbone, ma degli Asburgo e via via risalendo, la Spagna precipiterebbe nel caos. Qual è il suo giudizio sulle monarchie extra-europee, la maggior parte di tipo assoluto? Storiograficamente a suo avviso è possibile comunque considerare modelli così diversi in un’unica tradizione monarchica? La monarchia romano-cristiana è stata consultiva, amministrativa e costituzionale. Ha sempre presupposto la compartecipazione dei “sudditi”, cioè di cittadini che volontariamente si sottopongono alla legge, ma non sono succubi: sono attori della sovranità, come spiegò bene Luigi Einaudi quando dichiarò perché avrebbe votato monarchia al referendum istituzionale del 2 giugno 1946 e poi fu primo presidente della Repubblica. Molte monarchie extra-europee si basano su principi del tutto diversi, ispirati dalla identità tra confessione religiosa e sistema politico. Perciò occorre evitare confusioni tra monarca quale supremo organo dello Stato e un “santone”. In Medio Oriente, a causa di conflitti e terrorismo, i confini di alcuni Stati si sono profondamente modificati. Ritiene, per i destini dell’area, rilevante il

fatto che i Paesi del Golfo o Marocco e Giordania siano governati da un re? Alcuni sovrani di Paesi popolati prevalentemente da islamici garantiscono il fragile equilibrio tra lo Stato di modello romano-cristiano, fondato sulla separazione dei poteri e sull’uguaglianza dinnanzi alle leggi, e la concezione della società propriamente islamica, secondo la quale comunità dei credenti e “terra” sono tutt’uno. Va constatato che monarchi come quelli del Marocco e della Giordania sono eredi della tradizione europea. È il miglior lascito della colonizzazione. Infine un suo giudizio su Casa Savoia che per ottantacinque anni, dal 1861 al 1946, ha retto le sorti del nostro Paese. Senza Casa Savoia non esisterebbe lo “Stato d’Italia”. A Carlo Alberto gli italiani debbono lo Statuto del 4 marzo 1848 che sancì l’uguaglianza dei cittadini dinnanzi alla legge e fondò la libertà di confessione religiosa nel rispetto delle norme. Gli debbono il tricolore come bandiera nazionale. Suo figlio, Vittorio Emanuele II, è stato riconosciuto Padre della Patria anche da Giorgio Napolitano, che nel 2011, 150° del regno d’Italia, gli rese omaggio al Pantheon. Umberto I, assassinato nel 1900 da un anarchico dal mandante ancora oscuro, legò il nome a leggi sociali innovatrici. Credo che, nel centenario della Grande guerra, sia doveroso riportare in Italia le spoglie di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Sarebbe un atto meritorio di una Repubblica finalmente adulta e memo• re della lunga storia degli italiani. Francesco De Leo 9

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EUROPA

UNA LUNGA STORIA

La MONARCHIA è stata la forma di governo PIÙ USATA nei Paesi occidentali. E anche OGGI che ha ceduto il passo in molti Stati, resta la grande protagonista del nostro PASSATO.

SACRO PER GLI DEI

Il quadro Secolo di Augusto: nascita di Gesù Cristo (JeanLéon Gérôme, 1855). Ottaviano non volle farsi re, ma assunse il nome di Augusto: “colui che è sacro per designazione degli dei”.



L



Europa ha vissuto quasi tutta la sua storia sotto la mano aspra o morbida di uomini con la corona; deve loro alcune ore felici, e quando si risolse a sbarazzarsene lo fece senza odio, come quando si manda in soffitta un mobile antico. Non è facile credere che la stessa Francia odiasse quel bonaccione di Luigi XVI”. Così scriveva il filosofo e saggista spagnolo José Ortega y Gasset (18831955), a sottolineare l’intenso legame fra gli europei e i loro sovrani. La monarchia è la forma di governo più antica e il potere del re, dalla notte dei tempi, si è sempre giocato al tavolo dell’investitura divina. Romani. Nel periodo monarchico di Roma (tra il 753 e il 509 a.C.) il re non solo era il supremo capo politico e militare, ma soprattutto il detentore degli “auspicia”, il designato dalla divinità. Quando la monarchia decadde per lasciare il posto a una nuova forma di governo, il rex restò come rex sacrorum, capo religioso, spogliato del suo carattere politico, ma non della sua funzione spirituale. Poi arrivò la lunga parentesi repubblicana: Roma divenne la capitale di tutto il mondo conosciuto e la tradizione monarchica sembrava tramontata per sempre. Sembrava, appunto. Quando Ottaviano (63 a.C.-14 d.C.), nipote di Giulio Cesare, s’impadronì dello Stato divenendone di fatto sovrano assoluto, la monarchia, riadattata, riapparve. Ottaviano, che come Cesare non volle farsi re, si fece convincere comunque ad assumere il nome di Augusto, “colui che è sacro per designazione degli dei”. Il ritorno al carattere divino dell’imperatore si accentuò di successore in successore e, con Diocleziano (244-311 d.C.), l’imperatore non solo era il massimo sacerdote, ma una delle divinità. Ma i tempi del politeismo avevano i giorni contati: una nuova grande forza, morale prima, politica poi, stava per cambiare per sempre le carte in tavola della Storia e della monarchia. Nel nome di Dio. Il cristianesimo identificava nell’imperatore il legittimo rappresentante dell’Impero romano, ma non poteva riconoscerne il carattere di semidio, partecipe dell’autorità divina. Le persecuzioni furono lo scotto da 11

coc pagare dai cristiani per questa concezione rivoluzionaria e destabilizzante per le stanze del potere. Fino al 313, quando Costantino accordò loro libertà di culto. Di più: prese a partecipare direttamente agli affari della Chiesa e allontanò la corona dal paganesimo. Forte dell’appoggio della grande e ramificata comunità religiosa cristiana rafforzava così il prestigio del monarca. Il Papa Re. Ma mentre l’Impero romano gradualmente si cristianizzava, la figura del papa assumeva via via connotati monarchici. Spiega il medievalista Franco Cardini: «Dal IV secolo in poi il papa iniziò a ricevere progressivamente i segni della regalità. Si cominciò con l’imperatore Graziano che, nel 380, in quanto cristiano, si spogliò del titolo di “Pontifex Maximus”. Gli subentrò il Vescovo di Roma, e non in qualità di “capo” di tutte le fedi religiose dell’impero ma quale figura al vertice delle diocesi cristiane. E da qui il papa cominciò ad assumere qualifiche e prerogative che erano proprie dell’imperatore». A esprimere questa nuova identità del vescovo di Roma l’adozione dei simboli esteriori del potere. Come il manto rosso porpora che l’imperatore Graziano cedette al papa. «Da allora il pontefice lo ha sempre portato, anche se nel tempo si è progressivamente ridotto sino a diventare la mozzetta, una mantellina corta chiusa sul petto da bottoni. È stato papa Francesco, l’attuale pontefice, il primo a rifiutare quest’ultimo simbolo monarchico», racconta Cardini. Nella notte di Natale dell’anno 800, papa Leone III incoronò il re franco Carlo Magno. Sotto l’egida dell’investitura divina potevano così rinascere l’antico Impero romano d’Occidente e prendere forma i primi confini dell’Europa moderna. Ma, si sa, i matrimoni di convenienza spesso traballano e la luna di miele fra monarchia e Chiesa non fece eccezione. Potere temporale. La rottura del “Previlegium Octonianum”, il contratto bilaterale tra Ottone I (912-973) e papa Giovanni XII (937-964), e la nomina da parte dell’imperatore di un

L’Impero ROMANO RINASCE nel Sacro romano impero. E CARLO MAGNO viene incoronato dal PAPA

L’IMPERO VAL BENE UNA MESSA

Carlo Magno (742814): con lui si inaugurò il sodalizio fra imperatore e Chiesa. Il primo proteggeva il clero, il papa legittimava il potere del sovrano.

antipapa segnò l’inizio di un lungo e travagliato periodo di lotte tra la Chiesa e l’impero, ognuno a rivendicare la propria supremazia e autonomia l’uno dall’altro. «A un certo punto i vescovi di Roma elaborarono una filosofia teologico-politica che li portò a rivendicare la superiorità della Chiesa su tutti gli altri regni del mondo. Questo significava, per dirla con il linguaggio di Bonifacio VIII (1230-1303), che i papi avevano due spade: quella del potere spirituale, che esercitavano direttamente sulle anime, e quella del potere temporale, che delegavano perché il papa dava le corone», spiega Cardini. Naturalmente gli imperatori erano di tutt’altro avviso e i conflitti che ne seguirono sono nei libri

di storia: lotte per le investiture, guelfi e ghibellini, la Riforma... Nei Paesi rimasti cattolici, il papa continuò ad avere, almeno spiritualmente, la pretesa di una supremazia che non è mai del tutto venuta meno. E i re hanno continuato a venire incoronati con formule che sono quelle della Chiesa romana. A contratto. L’Umanesimo mandò in crisi l’idea di monarchia come diritto divino e fra XV e XVI secolo la sovranità, sempre più intesa come delega del popolo e in un certo senso “contrattualizzata”, assunse forme diverse: monarchia assoluta nello Stato milanese; assolutismo temperato dal Parlamento e dalle assemblee in Francia; monarchia feudale nobiliare negli Stati tedeschi, in

Ungheria e in Polonia; monarchia costituzionale in Inghilterra. Fino a quando, in Francia, la politica di Luigi XIV (1638-1715) portò alla personificazione dello Stato nella figura del sovrano: L’Etat c’est moi, diceva il Re Sole. Per Versailles, lo ius regaliae, l’amministrare i vescovati e le loro rendite, era parte integrante del potere monarchico. Anche dall’altra parte della Manica il trono vinceva sulla Chiesa. Non solo i re inglesi dei Tudor prima e degli Stuart restarono fedeli allo scisma voluto da Enrico VIII (XVI secolo), il re che osò staccarsi dal papa e fondare una nuova Chiesa; ma si tennero ben stretti il ruolo di guida: ancora oggi il capo della Chiesa anglicana è il re (o la regina) inglese.

RAPPORTI DI FAMIGLIA

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Re Luigi XIV riceve il fratello, il Duca di Anjou, cavaliere dell’Ordine dello Spirito Santo, nato allo scopo di proteggere il re di Francia.

Non è tutta uguale

L

a monarchia è la forma di governo più usata in tutta la Storia. Il potere è nelle mani di un’autorità sostanzialmente (ma non esclusivamente) monopersonale e dura per tutta la vita del sovrano o fino alla sua rinunzia (l’abdicazione). Le monarchie europee sono sempre state dinastiche e dunque soggette a rigide norme di successione. Ecco le forme principali.

ASSOLUTA: il potere politico è accentrato nelle mani del sovrano che esercita in modo diretto o indiretto, attraverso organi dipendenti, il potere legislativo, esecutivo e giudiziario. COSTITUZIONALE: ebbe origine in Inghilterra a conclusione della “Glorious Revolution” (1688-89) dopo il lungo e drammatico confronto tra l’assolutismo monarchico in declino e i ceti emergenti decisi a ottenere un peso essenziale negli equilibri di potere.

COSTITUZIONALE PURA: il monarca mantiene il potere esecutivo (governo), mentre quello giudiziario e legislativo sono rimessi ad altra autorità (assemblee elettive e magistratura). PARLAMENTARE: i poteri dello Stato sono divisi tra monarca e Parlamento. Il sovrano non è detentore di poteri effettivi, in quanto “regna, ma non governa”. Il potere esecutivo deve godere della fiducia del Parlamento.

Illuminati. Intorno al XVIII secolo, l’Illuminismo entrò inevitabilmente in conflitto con ogni forma di tradizione politica, religiosa, sociale e morale. I grandi pensatori del tempo si trovarono concordi contro il potere monarchico tradizionale e le nuove idee si abbatterono con violenza sulla Francia. Ma dalla Rivoluzione francese uscì comunque una repubblica debole, troppo fragile per resistere alle ambizioni di Napoleone Bonaparte, generale della Francia rivoluzionaria prima, “Imperatore dei francesi” poi. La caduta di Bonaparte e il Congresso di Vienna portarono al ripristino dei sovrani spodestati da Napoleone. Ma la “lezione” era passata e i governi, scossi dagli accadimenti rivoluzionari, compresero quanto fosse per loro necessario trovare una “nuova” legittimazione. Dove? Nel principio divino, ovviamente, un viatico per il trono che dopo una manciata di secoli si poteva ben rispolverare. Fu così che il sodalizio fra trono e altare si ricostituì e con la Santa Alleanza i sovrani di Austria, Russia e Prussia si impegnarono a prestarsi aiuto e assistenza in nome dei precetti del cristianesimo. Da monarca a funzionario. Le nuove alleanze però non tenevano conto di un nuovo protagonista della scena europea: le nascenti aspirazioni di libertà politica e di indipendenza nazionale. E l’istituto monarchico fondato su diritto storico, divino e dinastico venne definitivamente travolto a favore di una nuova legittimità di tipo nazionale-rappresentativo. Come spiega la storica Giulia Guazzaloca, curatrice del libro Sovrani a metà (Rubbettino Editore): «In questo difficile passaggio la corona perse alcuni elementi fondanti della propria legittimità ma ne acquisì dei nuovi. E il sovrano non sarebbe diventato altro, con modalità e tappe diverse da Paese a Paese, che un funzionario dello Stato, titolare solo dei diritti e dei poteri con• cessigli dalla Costituzione».

La Rivoluzione FRANCESE tagliò la testa al MONARCA ma non alla monarchia. Che riprese più VIVA che mai

BONAPARTE PIGLIATUTTO

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Napoleone Bonaparte (1769-1821) nelle vesti di re d’Italia in un dipinto di Andrea Appiani. È stato l’ultimo dei sovrani italiani a essere cinto con la Corona Ferrea.

Francesco De Leo

Nasser Mohammed Al-Jaber Al-Sabah ex primo ministro del Kuwait

Principe Alberto di Monaco

Granduca Enrico di Lussemburgo

Imperatore Akihito del Giappone

Mohammed bin Zayed Al Nahyan di Abu Dhabi

Alessandro II di Jugoslavia

Re del Lesotho Letsie III

Michele I di Romania Costantino II di Grecia

Simeone II di Bulgaria Regina Elisabetta II del Regno Unito

CAMERA PRESS/CONTRASTO

FOTO DI GRUPPO CON REGINA

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rincipi, principesse e regine stanno ancora benissimo. Attorno a noi, nella sola Europa, ci sono ben dodici Stati retti da monarchi (incluso il Vaticano) che governano oltre 160 milioni di cittadini. Oltre alla corona inglese e a quella spagnola, di cui parliamo nelle prossime pagine, ecco un breve excursus fra tutti gli altri troni. Il Belgio è uno Stato composto da tre comunità principali molto eterogenee – i fiamminghi, i valloni e i tedeschi – non sempre in ottimi rapporti. In questo contesto la monarchia è storicamente servita da collante per mantenere un equilibrio tra le varie realtà, tanto che il titolo corretto del sovrano è Re dei Belgi (e non del Belgio). L’attuale re è Filippo di Sassonia-CoburgoGotha, salito al trono il 3 luglio 2013, dopo l’abdicazione del padre Alberto II. La sua famiglia è di origini tedesche e regna dal 1831, ovvero dall’indipendenza ottenuta dai Paesi Bassi con la Rivoluzione belga. Sul trono dell’antico Regno di Danimarca, che risale all’VIII secolo, dal 1972 siede la Regina Margherita I. Molto amata dal suo popolo, appartiene alla Casata di SchleswigHolstein-Sonderburg-Glücksburg, sovrani costituzionali dal 1863, anno in cui subentrarono all’ultimo monarca assoluto del Paese, il Re Federico VII (1808-1863) di Oldenburg. Gli Oldenburg sono un’importante casata di origine tedesca di cui i Glücksburg costituiscono un ramo collaterale. La Regina Margherita è sovrana anche della Groenlandia. Il Principato del Liechtenstein, 160 km² tra Austria e Svizzera, prende il nome dalla Casata che vi regna. È Stato indipendente dal 1806, in seguito alla dissoluzione del Sacro

Principe dell’Arabia Principessa Saudita Mohammed bin Nawaf bin Lalla Meryem Abdulaziz Al Saud del Marocco

Alberto II del Re Harald V Belgio di Norvegia

Regina Margherita II di Danimarca Beatrice dei Paesi Bassi

Tupou VI Re di Tonga

Vajiralongkorn, principe ereditario della Thailandia

Ex emiro del Qatar Hamad bin Khalifa alThani Re di Giordania Abd Allah II Re del Bahrein Hamad bin Isa Al Khalifa Sovrano della Malesia Abdul Halim

Re di Svezia Carlo XVI Gustavo Bernadotte Sultano del Brunei Hassan Al Bolkiah

romano impero. L’attuale sovrano, Hans Adam II, tra l’altro presidente del gruppo bancario LGT Bank, pur mantenendo il titolo di Principe Sovrano del Liechtenstein, ha ceduto i poteri al figlio Alois. Il Granduca Enrico del Lussemburgo, di Borbone-Parma, è discendente diretto di Luigi XIV. L’attuale granduca è un collaterale della casata Nassau-Weilburg, che ha regnato dal 1890. Sua nonna, la Granduchessa Carlotta di Lussemburgo (1896-1985), ultima esponente dei Nassau-Weilburg, sposò Felice di Borbone-Parma (1893-1970) . La famiglia Grimaldi, di origine genovese, regna sul ricco e mondano Principato di Monaco dal 1612. Il principato è una città-Stato indipendente che, in mancanza di eredi diretti, passerebbe alla Francia. Per scongiurare questo rischio sono state introdotte delle modifiche alla Costituzione secondo le quali anche le sorelle (Carolina e Stefania) del principe regnante e i loro figli, in caso di assenza di eredi maschi, possano entrare nella successione dinastica. Pericolo comunque scongiurato in quanto il Principe Alberto II ha avuto un figlio maschio nel 2014. La principessa consorte è Charlène Lynette Wittstock, ex nuotatrice e modella. I Grimaldi non sono nuovi a unioni non blasonate. La più famosa resta la coppia formata dal Principe Ranieri e l’attrice americana Grace Kelly (genitori di Alberto), sposatisi con una cerimonia da fiaba nel 1956. Harald V di Glücksburg è il Re di Norvegia. La sua famiglia ha dato il via a quello che viene definito Secondo Regno di Norvegia, cominciato nel 1905 con il Re Haakon VII (1872-1957), dopo 382 anni di domini danesi e svedesi.

Principe Hans Adam II del Liechtenstein Re dello Swaziland Mswati III

Alcune teste coronate eccezionalmente riunite nel castello di Windsor per festeggiare i 60 anni di regno della regina Elisabetta II, nel 2012. Il Re Willem-Alexander di Orange-Nassau, dopo l’abdicazione della madre, la Regina Beatrice, avvenuta nel 2013, è diventato il primo sovrano maschio dei Paesi Bassi dopo 123 anni di regine. Gli Orange-Nassau sono stati una delle famiglie più importanti in ambito europeo e regnano sui Paesi Bassi dal Congresso di Vienna, pur avendo avuto un ruolo importante in ambito nazionale sin dal XVI secolo. Fu proprio il capostipite, Guglielmo I d’Orange (1533-1584), a mettersi a capo della rivolta olandese del 1568 che portò all’indipendenza del Paese. Ha origini francesi l’attuale Casa Reale di Svezia, infatti nel 1810 il Parlamento di Stoccolma scelse come erede al trono il generale napoleonico e Maresciallo del Primo impero di Francia Jean-Baptiste Jules Bernadotte, in quanto Re Carlo XIII (1748-1818) non aveva eredi. Bernadotte divenne re con il nome di Carlo XIV Giovanni di Svezia e Carlo III Giovanni di Norvegia. Suo discendente diretto è l’attuale Re Carlo XVI Gustavo. Il Principato di Andorra, piccolo Stato collocato sui Pirenei, è una diarchia dove i coprincipi sono il vescovo di Urgell e il presidente della Repubblica francese, che hanno funzioni principalmente cerimoniali visto che il potere è esercitato da un’assemblea parlamentare eletta. Lo status di co-principe di Andorra fa del presidente francese l’unico sovrano che è contemporaneamente il capo di Stato di una repubblica. Quella della Città del Vaticano infine è una monarchia elettiva, ed essendo priva di una Costituzione è l’unica monarchia assoluta del mondo occidentale. Francesco De Leo (Ha collaborato Davide Colombo)

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DINASTIE D’EUROPA BORBONE

ASBURGO

CAPOSTIPITE IPOTETICO

CAPOSTIPITE IPOTETICO

Childeprando (VIII secolo), fratello di Carlo Martello, prozio di Carlo Magno, Francia.

Guntram il Ricco (X secolo), Alsazia.

RAMI PRINCIPALI Borbone di Francia Borbone di Spagna Borbone delle Due Sicilie Borbone di Parma Borbone-Orléans

RAMI PRINCIPALI Asburgo di Spagna Asburgo d’Austria Asburgo Lorena

STORIA

STORIA

Di origine francese, i Borbone regnarono in diversi Stati dell’Europa occidentale e meridionale – Francia, Spagna, Napoli, Parma e Lucca – e furono, con gli Asburgo, la più potente famiglia principesca d’Europa. Alla casa dei Borbone appartengono alcuni dei sovrani che più hanno influenzato la storia d’Europa, come Luigi XIV di Francia, Filippo V di Spagna e Ferdinando II delle Due Sicilie.

È una delle più importanti e longeve dinastie europee della Storia. Feudale prima, regale e imperiale poi, di origini probabilmente alsaziane, si trasformò in una potenza fin dal XIII secolo. Il nome deriva dalla Habichtsburg (il “Castello dell’Astore”), in Svizzera, che fu sede della famiglia nel XII e XIII secolo. Legati all’Austria, gli Asburgo ampliarono i propri domini, costituendo un vasto impero. I suoi re e imperatori regnarono su Austria, Ungheria, Boemia e Spagna dal 1273 al 1918. La casa reale ebbe possedimenti italiani e la corona imperiale. Dapprima alla guida del Sacro romano impero e poi, dopo l’età della Rivoluzione francese e di Napoleone, dell’Impero d’Austria, gli Asburgo giocarono un ruolo decisivo nella politica europea dell’Età moderna e contemporanea. La linea diretta degli Asburgo formalmente si estinse nel 1780 con la morte di Maria Teresa d’Austria. La casata, però, continuò con i suoi discendenti, nati dal suo matrimonio con Francesco I di Lorena: gli Asburgo-Lorena furono considerati un ramo cadetto degli Asburgo e i membri della nuova casata continuarono a far capo alla casa d’Austria.

CRONOLOGIA DEI PRINCIPALI SOVRANI • Enrico IV di Borbone, primo re di Francia della dinastia (1553-1610) • Luigi XIII di Francia (1601-1643) • Luigi XIV di Francia, il Re Sole (1638-1715) • Carlo X di Francia (1757-1836) • Luigi Filippo di Francia, Borbone Orléans (1773-1850) • Filippo V di Spagna, primo re Borbone sul trono (1683-1746) • Carlo III di Spagna, già re di Napoli e Sicilia (1716-1788) • Juan Carlos di Spagna (1938) • Ferdinando I delle Due Sicilie (1751-1825) • Francesco I delle Due Sicilie (1777-1830) • Ferdinando II delle Due Sicilie (1810-1859) • Francesco II delle Due Sicilie, l’ultimo sovrano prima dell’Unità d’Italia (1836-1894) CHE FINE HANNO FATTO Regnano ancora sul Regno di Spagna (Re Filippo VI, ramo BorboneSpagna) e sul Granducato del Lussemburgo (Granduca Henri Nassau, genealogicamente del ramo Borbone-Parma). Il capo del ramo Due Sicilie, il principe Carlo di Borbone (1963), Duca di Castro, vive tra Montecarlo e Parigi e si occupa di attività assistenziali, essendo Gran Maestro del Sacro militare ordine costantiniano di San Giorgio (Napoli). Il Regno di Spagna però riconosce questo titolo (ramo spagnolo) a Pedro (1968), Duca di Calabria, come capo del ramo Due Sicilie. In Francia il pretendente al trono che non c’è è Enrico di BorboneOrléans (1933), conte di Parigi, in contrapposizione a Luigi Alfonso di Borbone (1971), discendente da un ramo rinunciatario dei Borbone Spagna. Il principe Don Carlo Saverio di Borbone-Parma, duca di Parma e Piacenza, è il capo del ramo della sua casata, e vive in Olanda. Un Borbone è tra l’altro anche il pretendente al trono del Brasile, Luigi Gastone di Borbone-Orléans-Braganza (1938).

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CRONOLOGIA DEI PRINCIPALI SOVRANI • Rodolfo I, imperatore del Sacro romano impero (1218-1291) • Massimiliano I, imperatore del Sacro romano impero (1459-1519) • Carlo V, imperatore del Sacro romano impero, re di Spagna (15001558) • Filippo II, re di Spagna (1527-1598) • Ferdinando II di Asburgo d’Austria, imperatore del Sacro romano impero (1578-1637) • Carlo II, re di Spagna (1661-1700) • Francesco Giuseppe I di Asburgo Lorena, imperatore d’Austria (1830-1916) CHE FINE HANNO FATTO L’attuale capo della casa è l’arciduca Carlo d’Asburgo Lorena, pretendente al trono d’Austria-Ungheria, figlio di Otto d’Asburgo Lorena (1912-2011).

Sono diverse le CASATE che hanno regnato in Europa. Vediamo le tre più IMPORTANTI, dalle origini a oggi. Francesco De Leo (Ha collaborato Davide Colombo)

CAPOSTIPITE IPOTETICO Umberto I Biancamano (ca. 980-1048), conte di Savoia RAMI PRINCIPALI Il ramo originario, che vide prima i conti, poi i duchi di Savoia e infine i re di Sardegna, si estinse nel 1831. Ramo Savoia-Carignano da cui ebbero origine i Savoia-Villafranca, i Savoia-Genova e i Savoia-Aosta. STORIA La dinastia, originatasi nel territorio del Regno di Borgogna tra il X e l’XI secolo, regnò sull’Italia dal 1861 al 1946, dopo aver guidato il processo di unificazione nazionale. Trae nome dall’omonima regione dove inizialmente ebbe propri possedimenti, poi estesi anche al di qua delle Alpi fino a formare uno Stato. Dopo che l’Italia diventò un regno unificato nel 1861, quattro re (Vittorio Emanuele II, Umberto I, Vittorio Emanuele III e Umberto II) si succedettero sul trono, negli 85 anni che trascorsero da allora al 1946, quando con un referendum popolare la monarchia fu sostituita dalla repubblica.

CRONOLOGIA DEI PRINCIPALI SOVRANI • Vittorio Amedeo II, primo re di Casa Savoia, fu re di Sicilia e successivamente re di Sardegna (1666-1732) • Carlo Felice, re di Sardegna, con lui si estinse il ramo originario (1765-1831) • Carlo Alberto di Savoia-Carignano, re di Sardegna, gettò le basi per il Risorgimento italiano (1798-1849) • Vittorio Emanuele II, primo re d’Italia (1820-1878) • Umberto I (1844-1900), assassinato a Monza da un anarchico • Vittorio Emanuele III, re e imperatore (1869-1947) • Umberto II (1904-1983), regnò solo un mese e affrontò il referendum istituzionale del 1946 CHE FINE HANNO FATTO I quattro figli dell’ultimo re, Umberto II, vivono fuori dall’Italia. Sono: Maria Pia, Vittorio Emanuele, Maria Gabriella, Maria Beatrice. I diritti dinastici sono contesi fra Vittorio Emanuele di Savoia (1937) e Amedeo di Savoia-Aosta (1943). Quest’ultimo si considera l’attuale capo di Casa Savoia e pretendente al trono in quanto il figlio di Umberto II, Vittorio Emanuele, ha contravvenuto alle leggi dinastiche sposandosi senza il consenso del re e perdendo ogni diritto al trono. La Consulta dei Senatori del Regno, che si propone come la più alta autorità monarchica esistente in Italia, è favorevole alla tesi di Amedeo di Savoia-Aosta e ritiene principe ereditario suo figlio, Aimone di Savoia-Aosta (1967), duca delle Puglie.

MILLE ANNI DI SAVOIA

L’albero genealogico dei Savoia, dalle origini (Umberto I Biancamano) agli anni Cinquanta. A sinistra, Amedeo VI detto il Conte verde, a destra Amedeo VII detto il Conte rosso.

SCALA

SAVOIA

LE ALTRE CORONE

Chi regna FUORI dall’Europa? La “solita” Queen Elizabeth. Più una ventina di SOVRANI distribuiti nei Paesi arabi e in Asia.

Tutti i regni del

MONDO

L’

Europa non è la sola a poter vantare un nutrito numero di monarchie. Nel mondo ci sono ancora decine di Stati che fanno capo a un sovrano e i monarchi sono quasi una cinquantina. Di questi, meno di trenta governano in monarchie, ducati, principati o, addirittura, in una repubblica (quella sudafricana). Molti non hanno più un regno, qualcuno ne ha più di uno: la sola Elisabetta d’Inghilterra presiede su 16 Paesi del Commonwealth. La sovrana non solo è monarca di Regno Unito, Canada, Australia e Nuova Zelanda, ma è anche formalmente regina dei Paesi Reami del Commonwealth delle nazioni e cioè: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Giamaica, Grenada, Isole Salomone, Papua Nuova Guinea, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, Tuvalu. La regina nomina un governatore generale che la rappresenti come capo di Stato de facto e con il compito di esercitare i poteri di un monarca costituzionale, con doveri di rappresentanza. Senza democrazia.Tutto “quello che resta” è concentrato in Asia ma soprattutto nei Paesi del Golfo Persico, dove regnano attualmente le monarchie più influenti, potenti e quasi sempre assolute. La tradizione democratica europea non ha attecchito infatti in questi Stati, in fondo estranei anche al concetto stesso di monarchia perché non appartiene alla tradizione politica islamica (per la quale l’unico re è Dio). «Quando si utilizza il termine democratico», spiega lo storico Franco Cardini, «ci si riferisce alla democrazia moderna, un prodotto di secoli di elaborazioni, soprattutto delle nostre borghesie. Qui siamo davanti a realtà costruite dagli occidentali, non a realtà arcaiche. E anche l’istituzione della monarchia è totalmente estranea all’islam. Queste cose se le sono inventate soprattutto gli inglesi, alla fine della Prima guerra mondiale, quando hanno indotto, se non obbligato, le varie tribù arabe che erano rimaste prive

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del governo del sultano ottomano di Istanbul, che dominava l’Arabia Saudita fino al 1918, a travestirsi da re all’occidentale. Li avevano scelti loro e sapevano benissimo che si trattava di sovrani tra le tribù più arretrate». Eppure sono proprio queste monarchie ad avere oggi un ruolo strategico sia politico (vista l’instabilità del Medio Oriente) che economico. Gli Stati bagnati dalle acque del Golfo Persico godono infatti di un’immensa ricchezza legata agli idrocarburi. Nel Golfo Persico. Gli Emirati Arabi Uniti, il Regno dell’Arabia Saudita, il Sultanato dell’Oman e l’emirato dello Stato del Qatar sono tutte monarchie assolute e siedono nel Consiglio di cooperazione del Golfo. Ne fanno parte anche Bahrein e Kuwait. Creata all’epoca della guerra Iran-Iraq, l’organizzazione, che aveva per scopo l’apertura di un mercato comune nel Golfo Persico, di fatto rappresentò il baluardo del polo sunnita per il contenimento dell’espansione dello sciismo iraniano e del ba’thismo iracheno nell’area. Gli Emirati Arabi Uniti sono una monarchia assoluta, formata da un gruppo di sceicchi della Penisola araba e composta da sette emirati: Abu Dhabi, Ajman, Dubai, Fujaira, Ras al-Khaima, Sharja e Umm al-Qaywayn. Il capo assoluto è lo sceicco Khalifa bin Zayed Al Nahayan. Nel Regno dell’Arabia Saudita, Salman è sovrano e capo di Stato. Venticinquesimo figlio di Abdul Aziz al-Saud, fondatore del moderno Stato saudita, è salito al trono in ottemperanza alla legge araba mai scritta del “seniorato”, che prevede che alla successione sia chiamato il più anziano dell’unica famiglia che governa il Paese: il clan Saud. Il re e la nobiltà familiare esercitano il potere in maniera totalitaria, facendo del Paese una delle nazioni più conservatrici al mondo. In Arabia Saudita il sovrano ha anche il titolo di “Custode delle Due Sacre Moschee alla Mecca e a Medina” e la formazione di Salman è stata affidata ai più qualificati ulema, i dotti religiosi musulmani.

La coppia imperiale Akihito e Michiko GIAPPONE

Re Abdullah II, la regina Rania e i figli GIORDANIA

Re Jigme Khesar Namgyel Wangchuck

Emiro Tamim bin Hamad al-Thani QATAR

GETTY IMAGES (4)

BHUTAN

AFFARI E TRADIZIONE

A sinistra, lo sceicco del Kuwait col re dell’Arabia Saudita. Sotto, i sovrani della Thailandia in una foto di qualche anno fa. Lei non si fa vedere in pubblico dal 2012. GETTY IMAGES (2)

Sabah al-Ahmad al-Jaber al-Sabah e re Salman KUWAIT E ARABIA SAUDITA

Re Bhumibol Adulyadej con la regina Sirikit THAILANDIA

Un continente con poche corone

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n Africa ci sono soltanto tre regni. Marocco (vedi articolo), Swaziland e Lesotho. Il Regno dello Swaziland, monarchia assoluta, è uno dei Paesi più poveri del mondo con forti disuguaglianze sociali. Il re è Mswati III. Pashu, la sua primogenita, star del rap nel suo Paese, ha recentemente dichiarato: «La regalità in

Africa è molto diversa dalle monarchie europee, qui non abbiamo molto tempo per divertirci». Il Lesotho (monarchia parlamentare) è un’enclave del Sudafrica ed esiste solo dal 1966, anno in cui ottenne l’indipendenza dal Regno Unito. Il re Letsie III si è formato alle università di Bristol e Cambridge.

L’Oman è retto dal settantacinquenne sultano Qābūsha. Ascese al trono appena ventinovenne, rovesciando suo padre con un colpo di Stato. La sua arte diplomatica ha dato al sultanato una politica estera prudente e pragmatica. Mantiene relazioni cordiali con l’Iran e, pur avendo buoni rapporti con gli altri Stati arabi, ha rifiutato di partecipare ad azioni militari comuni in Bahrein, Siria e Yemen. L’emiro del Qatar, lo sceicco Tamim bin Hamad bin Khalifa al-Thani, è invece fra i più giovani regnanti al mondo (ha solo 36 anni). Il Qatar ha poco meno di due milioni di abitanti, che contano su un reddito pro-capite di oltre 100mila dollari. L’emiro ha presieduto il consiglio direttivo della Qatar Investment Authority e con lui il fondo ha comprato quote di Barclays, Sainsbury’s, Harrods, Volkswagen, Walt Disney, The Shard, Heathrow Airport, Siemens e Royal Dutch Shell e anche una quota del più alto edificio d’Europa, lo Shard London Bridge. Il fondo sovrano è proprietario anche della squadra di calcio del Paris Saint-Germain ed è sponsor del Barcellona. Con la costituzione. Aderiscono al Consiglio di cooperazione del Golfo anche due monarchie almeno formalmente costituzionali, Bahrein e Kuwait. Il Bahrein è retto dalla famiglia Āl Khalīfa, ma i poteri del re sul governo sono così influenti da rendere sostanzialmente anche questo regno una monarchia di tipo assoluto. In Kuwait l’emiro Sabah al-Ahmad al-Jaber al-Sabah è un sovrano costituzionale. Tutta20

via, pur avendo poteri limitati dal parlamento (il più antico di tutto il Golfo Persico), il 19 marzo del 2008 lo ha disciolto richiedendo nuove elezioni nel Paese ed entrando in contrasto con il governo. Quelle che funzionano. Nel mondo arabo “pesano” anche due monarchie costituzionali, Giordania e Marocco. Entrambi i Paesi stanno reggendo abbastanza bene agli scossoni provocati dalle “primavere arabe” del 2011 grazie anche alle riforme di Abdullah II e Mohammed VI. Nel Regno di Giordania, nato alla fine della Seconda guerra mondiale dopo una complessa gestazione seguita alla caduta ottomana nella Grande guerra, il re ha tuttora molto potere, mentre in Marocco, con la riforma del 2011, ha rinunciato a una serie di poteri esecutivi a vantaggio del capo del governo. Le politiche di Giordania e Marocco rappresentano due validi esempi di come sia possibile controllare con risultati accettabili, seppure con grandi difficoltà, due fenomeni come il terrorismo e l’immigrazione, generati da conflitti che stanno modificando i confini di alcuni Stati dell’area. In Asia. L’ottantanovenne Bhumibol Adulyadej, noto come Rama IX, è il re di Thailandia, monarchia costituzionale un tempo conosciuta come Siam. L’attuale sovrano regna dal 1946 ed è il capo di Stato in carica da più tempo nel mondo. Il ruolo del re è stato più che importante nella storia recente del Paese e il suo potere è preservato da leggi severissime che colpiscono il reato di lesa maestà. Riverito come un

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Monarchia assoluta Monarchia “mista” o semiparlamentare Monarchia costituzionale o parlamentare Stati associati a una monarchia (Commonwealth)

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ANCORA SUL TRONO

Nella cartina, le monarchie di oggi, suddivise per tipo: Città del Vaticano Liechtenstein Andorra Monaco Belgio Lussemburgo Olanda Danimarca Norvegia Svezia Spagna Regno Unito Arabia Saudita Emirati Arabi Kuwait Qatar Oman Bahrein Giordania Marocco Lesotho Swaziland Brunei Thailandia Cambogia Malesia Bhutan Giappone  Tonga

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Il re della THAILANDIA è considerato inviolabile. Offenderne la dignità può costare 15 anni di carcere semi-dio, è al momento il più importante simbolo di unità nazionale. Il Paese è infatti lacerato da conflitti politici e sociali che spesso sfociano in sanguinose rivolte di piazza e il potere è di fatto nelle mani dei militari. Molto meno influente è Norodom Sihamonir, re di Cambogia dal 14 ottobre 2004. Quella cambogiana è una delle poche monarchie elettive del mondo. La linea di successione al trono è determinata dal Concilio reale del trono, che sceglie un re tra i membri della famiglia reale che abbiano almeno trent’anni di età e siano discendenti del re Ang Duong, del re Norodom o del re Sisowath. Dal Borneo alla Malesia. Il Sultanato del Brunei è situato sull’isola del Borneo. È una piccola monarchia assoluta che governa su mezzo milione di abitanti. Indipendente dal 1984 dall’Impero britannico, l’attuale sultano, Hassanal Bolkiah, nel 2014 ha introdotto la sharia, bandendo nel Paese le tradizioni cristiane. Bolkiah è uno degli uomini più ricchi del mondo; fra le altre cose possiede un’immensa collezione di automobili, si dice vicina ai 6.000 pezzi. Di ben altra natura lo stile di governo del piccolo Regno del Bhutan, sulle pendici dell’Himalaya. Basti pensare che qui non si calcola il Pil (prodotto interno loro), ma la Felicità Interna Lorda. È diventato una monarchia di tipo costituzionale nel 2007, quando il trentaseienne re, Jigme Khesar Namgyel Wangchuck, chiamato Druk Gyalpo (Re Drago), indisse le prime elezioni generali della storia del Paese. La Malesia, costituitasi nel 1963, è uno Stato federale retto da una monarchia costituzionale, il cui re è eletto con un mandato di 5 anni tra i sovrani ereditari di nove dei tredici Stati che compongono la fe-

derazione. La regola non scritta è che si venga eletti a turno re della Malesia, senza restare in carica più di un mandato. Insieme al governo e al parlamento, il re della Malesia esercita il potere esecutivo e legislativo, con il compito di scegliere il primo ministro. Il Sultano di Kedah (Stato della Malesia) è attualmente Abdul Halim e ha 89 anni. Giappone imperiale. Il Giappone è l’unica monarchia del mondo il cui monarca ha ancora diritto al titolo di imperatore. L’attuale sovrano Akihito (nome imperiale Imperatore Heisei) discende, secondo la tradizione, dall’imperatore Jimmu e dalla dea del sole Amaterasu, che regnavano sin dal VI secolo avanti Cristo. La casa imperiale riconosce 125 monarchi legittimi a partire da allora e ciò rende la famiglia reale di Akihito la più antica al mondo. Suo padre, Hirohito, nel gennaio del 1946 pronunciò la celebre “Dichiarazione della natura umana dell’imperatore” e quindi Akihito è il primo a salire sul trono senza godere di prerogative “divine”. Secondo l’attuale costituzione, l’imperatore è il simbolo dello Stato e dell’unità del popolo del Giappone. Nessuno tocchi sua maestà! In Polinesia, nel Pacifico, c’è il Regno di Tonga, un arcipelago di 173 isole, 53 delle quali abitate. Il capitano inglese James Cook le visitò nella seconda metà del ’700 assicurandole all’Impero britannico. Tupou VI è re dal 2015. Il giorno dell’incoronazione, dopo averlo segnato con l’olio santo, ornato con un anello e con lo scettro, il reverendo della Chiesa metodista australiana D’Arcy Wood, nativo dell’isola, non poté porgli la corona sul capo. Motivo? È vietato, a qualsiasi • tongano nativo, toccare la testa del re. Francesco De Leo 21

SPAGNA

TEMPI MODERNI

Anni duri per la corona SPAGNOLA, a caccia di credibilità. Una SFIDA sulle spalle del giovane re. E di una famiglia molto bella

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na corona di argento dorato e velluto rosso, senza perle né pietre preziose. È il simbolo della Corona de España, la monarchia spagnola. Custodita assieme a manoscritti, reliquari e monili nel Palazzo Reale di Madrid, due anni fa, il 19 giugno 2014, ha lasciato la sua custodia per sfilare su un cuscino di velluto. L’occasione lo richiedeva: la solenne investitura in Parlamento di Filippo di Borbone e Grecia, salito al trono di Spagna con il nome di Filippo VI. «Viva il Re! Viva la Spagna!», gridarono i deputati dopo il giuramento del re, relativamente giovane (è del ’68) e decisamente altissimo (è un metro e 97!), all’indomani dell’abdicazione di suo padre Juan Carlos. Filippo non è stato incoronato, ma proclamato re dai deputati, in una cerimonia low profile, senza rappresentanti né membri delle case reali europee, come prevede il protocollo dettato dalle nuove regole in vigore per la successione. «Ci vuole una monarchia rinnovata per un tempo nuovo. La Corona deve essere vicina ai cittadini e guadagnarsi il loro rispetto», ha detto Felipe VI, dopo aver ricevuto l’investitura solenne e aver giurato sulla Costituzione.

Quella Costituzione che, dal 1978, sancisce la (ri) nascita dei Borbone in Spagna. La monarchia spagnola infatti è stata istituita con la Costituzione del 1978, tre anni dopo la salita al trono di Juan Carlos e la fine del regime franchista che per 36 anni (dal 1939 al 1975) “congelò” i poteri della casa regnante. È un sistema monarchico parlamentare, dove re e regine sono capo di Stato e comandante delle forze armate ma hanno solo un potere simbolico (gli atti sono validi solo con la controfirma del primo ministro o del presidente del Congresso dei deputati). Sotto attacco. Filippo sta facendo del suo meglio per offrire agli spagnoli il volto migliore della monarchia. Subito dopo l’investitura si è ridotto lo stipendio del 20 per cento e si è impegnato in una fitta agenda di incontri pubblici tesi a dare un’immagine nuova e moderna della Casa Reale. In questo percorso irto di ostacoli verso una nuova credibilità re Filippo può contare su un’alleata preziosa, la moglie Letizia Ortiz Rocasolano. La nuova regina di Spagna è un’ex giornalista televisiva con un divorzio alle spalle e niente sangue blu nelle vene. Eppure, o forse proprio per questo, persona comune come i suoi sud-

Non solo Borbone

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ome per altri Paesi europei, la storia politica e istituzionale della Spagna è in parte la storia della sua monarchia e dei suoi re. Fu l’Impero romano a battezzare Hispania la Penisola iberica e quella terra dette a Roma alcuni dei suoi principali imperatori come

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Traiano, Adriano, Marco Aurelio e Teodosio il Grande. Non esiste una data ufficiale di nascita del Regno di Spagna, perché frutto di varie vicende matrimoniali e territoriali nel corso di più secoli. L’uso del titolo di Re di Spagna si utilizzò a livello ufficiale solo nel 1808 grazie a Giuseppe

Bonaparte (fratello di Napoleone sul trono spagnolo dal 1808 al 1813), mentre i precedenti sovrani continuavano a utilizzare titoli corrispondenti ai propri domini e, in primo luogo, quelli di Re d’Aragona e di Castiglia. Protagonista della storia della corona di Spagna dal Rinascimento

a oggi è stata la casa dei Borbone. Hanno guidato il Paese in ben quattro reggenze, inclusa l’attuale. Prima di loro, alternandosi a fasi repubblicane, sedettero sul trono di Spagna le casate dei Trastámara e degli Asburgo, la famiglia Bonaparte e Casa Savoia.

FAMIGLIA DA COPERTINA

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Nel giorno dell’incoronazione, il 19 giugno 2014, Felipe VI con la moglie Letizia e le principesse Leonor e Sofia.

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Il RITORNO sul trono dei Borbone, nel 1975, non è stato indolore: diti, sta interpretando al meglio il suo ruolo di sovrana moderna e pian piano va restituendo alla corona iberica uno smalto che sembrava compromesso. La coppia, che ha due figlie, Leonor, 10 anni, erede al trono, e Sofia, 9, deve rimediare ai danni d’immagine provocati da due brutti scandali. Il più spinoso è quello che coinvolge direttamente Cristina, l’Infanta di Spagna sorella di Filippo. Cristina è sospettata di evasione fiscale nell’inchiesta che ha coinvolto suo marito Inaki Urdangarin, accusato di avere sottratto milioni di euro di fondi pubblici attraverso un ente di beneficenza. L’Infanta è il primo membro della Casa Reale spagnola a sedersi sul banco degli imputati e a rischiare una pena fino a 9 anni di carcere. Colpo di Stato. L’altro scivolone riguarda direttamente l’ex re Juan Carlos, immortalato nel 2012 in immagini che lo ritraevano impegnato a caccia di elefanti in Botswana. La sua foto col fucile in mano davanti alla carcassa di un pachiderma appena colpito a morte è stato il peggior servizio che potesse offrire alla famiglia reale. Criticatissi24

mo dagli ambientalisti e dai media, che lo accusavano di condurre una vita da gaudente (tra l’altro i gossip sulle sue continue avventure extraconiugali non si sono mai zittiti) mentre la Spagna correva il rischio default, fu costretto alle scuse pubbliche. E il 2 giugno 2014 all’uscita di scena. Se Juan Carlos ha abdicato sulla scia degli scandali, gli vanno però riconosciuti anche importanti meriti che risalgono al primo decennio del suo regno (è diventato re il 22 novembre 1975, vedi riquadro). Intanto fu lui a guidare la transizione verso la democrazia dopo la lunga dittatura franchista. Transizione che raggiunse il suo apice nel 1977 con le prime elezioni democratiche dal 1936 e nell’elaborazione da parte del Parlamento del testo dell’attuale Costituzione, approvata con un referendum il 6 dicembre 1978. Ma soprattutto gestì con abilità il tentativo di colpo di Stato del febbraio 1981. Mentre un folto gruppo di militari della Guardia Civil occupava la Camera dei deputati, al comando del tenente colonnello Antonio Tejero, il re comparve in televisione, in uniforme da Capitano generale dell’esercito, e richiamò al loro giuramento di fedeltà i mili-

PARENTI NEI GUAI

Sopra a sinistra, l’infanta Cristina col marito Inaki Urdangarin, accusati di frode fiscale. Sotto, la foto che ha messo nei guai Juan Carlos, in posa davanti al suo trofeo di caccia.

Nelle mani del dittatore

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J

uan Carlos è figlio di Juan di Borbone-Spagna (19131993), conte di Barcellona e terzo figlio maschio del re Alfonso XIII di Spagna e di Maria Mercedes di Borbone e delle Due Sicilie. È nato a Roma (il 5 gennaio 1938) perché qui viveva allora la famiglia reale spagnola, in fuga dalla Spagna in piena guerra civile e con i repubblicani sul piede di guerra. Il 14 maggio 1962 Juan Carlos si sposò ad Atene con la principessa Sofia di Grecia e dopo la luna di miele la coppia andò a vivere nel Palazzo della Zarzuela, alla periferia di Madrid. L’allora capo di Stato era Francisco Franco, il Caudillo de España, che aveva instaurato una dittatura fascista e nel 1947 dichiarato la Spagna una monarchia, pur senza indicare subito quale sarebbe stato il sovrano. Alfonso Botti, docente di storia contemporanea all’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia, sottolinea in questo contesto l’abilità politica del Caudillio. «Franco,

che voleva conservare tutto il potere per sé, astutamente non scelse in quel momento il nome del sovrano e lasciò in bilico la situazione sino a quando non si risolse nel ’69 con la nomina di Juan Carlos. Il monarca spagnolo non aveva detto nulla per contrastare Franco o contro la sua dittatura, perché sapeva benissimo che la propria investitura dipendeva proprio dal capo dello Stato». Meglio il figlio. Inoltre Franco non si fidava della cultura liberale e anglosassone di Don Juan (il padre) che più volte, estenuato dalla mancata restaurazione della monarchia, si era espresso contro la dittatura. Fu così che dopo la morte del Generalísimo, il 22 novembre 1975, Juan Carlos fu proclamato re. Una scelta che creò un forte conflitto all’interno della famiglia. «Don Juan, legittimo erede al trono, accetterà solo due anni dopo il fatto compiuto, cioè il salto di un anello nella catena ereditaria», conclude Botti.

Franco FAVORÌ Juan Carlos, ma la corona spettava al PADRE STORIA DI UN’ASCESA

ZUMA PRESS/MONDADORI PORTFOLIO

Sopra, Juan Carlos con la regina Sofia il giorno dell’investitura (22 novembre 1975). Sotto, insieme al generale Francisco Franco (con gli occhiali) nel 1968.

tari, sconfessando i generali golpisti e permettendo così che il golpe fosse sgominato quella stessa notte. Identikit. I reali di Spagna sono Borbone, ramo cadetto dell’antichissima dinastia dei Capetingi, che ereditò il trono di Francia nel 1589. Fu Filippo V, nipote di Luigi XIV, il capostipite dei Borbone di Spagna. Nominato erede nel testamento di Carlo II, fu proclamato Re di Spagna il 2 ottobre 1700. Fu comunque Carlo Sebastiano di Borbone, duca di Parma e Piacenza con il nome di Carlo I dal 1731 al 1735, re di Napoli e Sicilia dal 1735 al 1759 e infine Re di Spagna con il nome di Carlo III, a meritare, tra i Borbone, il giudizio più positivo da parte degli storici (vedi servizio nelle prossime pagine). Per Benedetto Croce, i suoi venticinque anni di regno come Re delle Due Sicilie “furono anni di progresso deciso” mentre lo storico Giuseppe Galasso definisce il regno di Carlo di Borbone come l’inizio dell’“ora più bella” della

storia di Napoli. Richiamato in Spagna alla morte del fratellastro Ferdinando VI nel 1759, Carlo salpò con la sua flotta dal porto di Napoli tra la commozione dei partenopei, per attraccare dieci giorni dopo in quello di Barcellona, accolto dall’entusiasmo dei catalani. Carlo modernizzò la Spagna e fu promotore di una politica riformista. Il declino. Meno brillanti le sue scelte in politica estera, dove raccolse diversi insuccessi a causa dell’alleanza con la Francia, sancita dal terzo patto di famiglia borbonico, che lo portò a contrapporsi alla grande potenza marittima della Gran Bretagna. Per il resto, la storia dei Borbone in Spagna fu tutt’altro che eccelsa: detronizzati nel 1808 e nel 1868, costretti ad affrontare guerre civili e infine ad abbandonare la Spagna nel 1931 (l’anno in cui fu deposto Re Alfonso XIII) per lasciare nascere la seconda repubblica. Tempo cinque anni, anche questa verrà spazzata via dal colpo di Stato che inaugurerà la guerra civile (1936-1939) con nazionalisti e repubblicani sui fronti opposti. Vinsero i pri• mi e vinse il dittatore Francisco Franco. Francesco De Leo 25

ANALISI

C



BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO

PRIMO “UNTO”

Pipino il Breve, re dei Franchi, fu il primo sovrano incoronato con il rito dell’unzione, che ne sacralizzava il titolo. Avvenne nel 751.

era una volta un re... Anzi, ce n’erano tre: un re-sacerdote, un re-guerriero e un re-dio. Sono i modelli-base della monarchia, forse la più antica forma di governo. Ma i volti di questo primattore della Storia sono stati in realtà molti di più. Come si chiamasse la prima testa coronata non si sa. Ma sappiamo che le città nate tra il Nilo e la Mesopotamia oltre 6mila anni fa erano governate da sovrani. E che quel primo monarca (“colui che governa da solo”, in greco) fu probabilmente uno sciamano o un sacerdote. L’antenato dei faraoni egizi, il “re Scorpione” delle cronache semileggendarie della Valle del Nilo, conosceva i segreti delle piene del fiume sacro, che sapeva prevedere e quindi sfruttare. Il controllo sul rubinetto della prosperità egizia gli assicurò un posto in cima alla piramide sociale. Furono quelli come lui a dotarsi di una delle più antiche e diffuse insegne del potere: lo scettro, sotto forma di mazza o bastone di comando. Una “bacchetta magica” che univa terra e cielo. Dinastie. Il re Scorpione fu anche il capostipite di quella che alcuni egittologi chiamano “dinastia zero”. E non c’è monarchia senza dinastia. «Anche le monarchie come le abbiamo conosciute per secoli in Occidente si basavano su rigide norme di successione, di solito sul sistema della primogenitura», conferma Maria Antonietta Visceglia, docente di Storia moderna alla Sapienza di Roma e autrice del libro Riti di corte e simboli della regalità (Salerno editrice). «La morte del re segnava sempre un momento di incertezza. Il funerale regale serviva proprio a designare pubblicamente il nuovo sovrano e proclamare la continuità del potere». L’annuncio che in Francia segnava il passaggio da un sovrano all’altro (“Il re è morto! Viva il re!”) era in fondo uno scongiuro contro quel vuoto di potere. Perché rimanere senza monarca era un po’ come rimanere senza dio. Divini. Fu sempre tra Egitto e Mesopotamia che il re-sacerdote fu promosso da mediatore tra uomini e divinità a dio lui stesso. Ben presto anche tra i popoli guidati da condottieri, come gli Itti-

Le ORIGINI e i tanti volti di un PROTAGONISTA

C’ERA UNA

DIO IN TERRA

Thutmosi III (XV secolo a.C.) fu un recondottiero, ma come tutti i faraoni ebbe anche un ruolo di sacerdote e fu lui stesso divinizzato.

ARALDO DE LUCA

ti e i Persiani, il re-guerriero delle origini fu divinizzato. E persino a Roma, dove dalla monarchia dei primi tempi (forse di derivazione etrusca) si era passati al governo repubblicano, si finì per premiare l’imperium (il diritto di comandare) ispirandosi all’esempio orientale. Il grande passo lo fece Ottaviano Augusto divinizzando Giulio Cesare nel 42 a.C. Ma il prototipo era precedente: Alessandro Magno (356-323 a.C.). Un modello efficace perché permetteva, grazie al carisma imperiale e alle cerimonie pubbliche, di mobilitare grandi masse. «Alessandro era in realtà l’erede dei tiranni greci del IV secolo a.C., che rappresentarono forse l’esperimento politico di maggiore successo dopo la crisi delle democrazie (Atene) e delle oligarchie (Sparta)», spiega Mario Vegetti, tra i più autorevoli storici italiani del mondo antico. «Era salito al trono come legittimo erede del re di Macedonia, ma il suo prestigio e il suo potere derivavano dalle conquiste militari e dall’efficacia di governo. Per rendersi accettabile ai sudditi orientali che aveva sottomesso cercò l’investitura religiosa, presentandosi in Egitto come figlio del dio Ammone, in Persia come re divinizzato». Senza re? Non tutti gli Stati antichi furono però retti da sovrani. «La Grecia, prima di Alessandro Magno, non conosceva regimi monarchici», continua Vegetti. «Benché la differenza fra re (legittimato dalla discendenza dinastica) e tiranno (detentore di un potere illegale) fosse nota in età classica, il linguaggio comune spesso non faceva differenza fra basileus (sovrano) e tyrannos. Il monarca assoluto non vincolato dalla legge era considerato caratteristico del mondo orientale. Aristotele riteneva che tutti i sudditi del re di Persia si trovassero in condizione di schiavitù e l’orrore e il timore verso la tirannide erano così forti che lo stesso Pericle (V secolo a.C.) venne accusato di comportamento dispotico da molti Ateniesi. Lo storiografo Tucidide definì il suo regime come “in teoria una democrazia, di fatto il governo dell’uomo migliore”. Ma Pericle dovette sempre rendere conto dei suoi comportamenti all’assemblea dei cittadini, di cui temeva le reazioni».

assoluto del POTERE dall’inizio della Storia a oggi: il MONARCA

VOLTA UN RE 27

Il potere di GUARIRE malattie è stato attribuito ai re inglesi fino al 1714. E a quelli FRANCESI fino al 1824 (a parte la parentesi RIVOLUZIONARIA)

MESOPOTAMICO

LESSING/CONTRASTO (2)

Statuetta di Gudea, re di Lagash (nell’attuale Iraq) dal 2144 a.C. Tra i più antichi monarchi divinizzati noti, usò il titolo di re-cittadino.

E i re che si incontrano nell’Iliade e nell’Odissea, allora? Agamennone, Nestore o Ulisse erano eredità di un’epoca in cui di democrazia, in Grecia come altrove, non si parlava ancora. «Erano l’ultima incarnazione del wanax, il re della civiltà micenea (XVII-XII secolo a.C.): una replica, in scala minore, dei sovrani orientali», continua Vegetti. «Il wanax regnava su una società in cui la burocrazia regia controllava le attività economiche, amministrava la giustizia, dominava le campagne circostanti. Ma i suoi poteri erano limitati da una classe sacerdotale da cui probabilmente dipendevano la sua investitura e legittimazione». Prescelti. Regalità ha dunque sempre fatto rima con legalità, almeno nel senso che a questa parola si dava in passato: conservazione della tradizione e continuità della dinastia. Non c’era infatti re senza il rito che lo legittimava sottolineandone il carattere sacro. Il più importante di questi riti, con radici remote ma perfezionato nel Medioevo, era quello della consacrazione. «Si articolava in diverse fasi: vestizione, giuramento, consegna delle insegne e incoronazione», riprende Maria Antonietta Visceglia. «Era un rito di passaggio che trasformava il protagonista (il principe, di solito) in persona mixta: un uomo che aveva qualcosa di divino e sacerdotale». Molti riti di consacrazione prevedevano, prima della consegna delle insegne, l’unzione: una specie di battesimo regale. «Già i re “barbari” visigoti venivano unti al momento di salire al trono, ma il rito si fa risalire alla consacrazione di Pipino il Breve, nel 751». I sovrani di Francia e d’Inghilterra dopo l’unzione si diceva acquistassero anche il potere di guarire, con il loro tocco, da alcune malattie. «D’altra parte non tutti furono unti: non lo furono i re di Castiglia e, dopo l’unione dei regni di Castiglia e Aragona, nemmeno quelli di Spagna. In ogni caso, i sovrani occidentali non diventarono mai resacerdoti come i colleghi bizantini». Anche perché in Europa un sovrano assoluto che univa potere spirituale e temporale c’era già: il papa. controPoteri. Divino o semidivino che fosse, a guardar bene nessun re è stato davvero “un uomo solo al comando”. Il potere regale ha dovuto fare i conti con “contropoteri” forti in uno slalom tra congiure e usurpatori (v. riquadro). Ai faraoni si oppose il clero delle città sante (Menfi, Abydos, Karnak). Agli imperatori romani l’aristocrazia dei

BENEDETTO

Papa Giulio II incorona Federico d’Aragona re di Napoli, nel 1504. L’incoronazione era anche un rito di legittimazione sacra.

Congiure e usurpatori: gli eterni nemici del monarca

U

na delle più antiche congiure di cui si abbia notizia risale all’Egitto di circa 4.300 anni fa. Nel mirino c’era il faraone Pepi I, che sventò il pericolo. Un’altra congiura di palazzo, tre secoli dopo, costò la vita al suo collega Amenemhat I, mentre Ramses III (XII secolo a.C.) fece squar-

tare in tempo i funzionari che con la complicità della regina volevano spodestarlo. Da allora, congiurati e usurpatori non hanno mai smesso di tramare. Tradimenti. Giulio Cesare (sovrano di fatto) finì sotto i pugnali dei filorepubblicani, ma quasi tutti gli imperatori romani dovettero guardarsi le

spalle. Il primo usurpatore fu Lucio Arrunzio Scriboniano, governatore in Dalmazia, che nel 42 si ribellò a Claudio autoincoronandosi. Lo imitarono, fino alla fine dell’impero (476), un centinaio di emuli. Impostori. Fu poi la volta dei “re dell’impostura” bizantini e medioevali. Tra falsi Costantini

(Bisanzio), Enrico e Riccardo (Inghilterra), Alfonso (Spagna), Corradino e Federico (Germania) e Dimitri (Russia), la lista è lunga ma oscura (le cronache di rado riportano i re mancati). Quasi tutti riuscirono a reclutare piccoli eserciti e vescovi pronti a legittimare con una benedizione le loro corone.

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Per RAFFORZARE le dinastie si usavano i MATRIMONI. Le famiglie REALI erano tutte IMPARENTATE RIPESCAGGI

Pietro I, sul trono di Castiglia dal 1350 al 1369. Detto “il Crudele” dai suoi nemici, fu rivalutato dai posteri come “il Giustiziere”.

senatori. Quelli bizantini dovettero vedersela con i vescovi. D’altra parte il papa (l’unico monarca assoluto ancora in sella in Occidente) appena dopo il Mille insidiò con successo la sovranità degli imperatori tedeschi. In Inghilterra, invece, furono i baroni a porre un freno al potere del re con la Magna Charta (1215), embrione di monarchia costituzionale. Persino i sovrani di Francia, almeno fino alla “rivoluzione assolutista” di Luigi XIV, fecero i conti con eminenze grigie, come i cardinali Richelieu e Mazarino. «L’assolutismo è, secondo alcuni storici, un mito», spiega Visceglia. «Il potere del sovrano era limitato da quello degli altri ordini sociali: i privilegi della nobiltà, le corti di giustizia, le prerogative di professioni, esercito e corporazioni cittadine, le istanze dei parlamenti». Nemmeno l’ancien régime era monolitico: era una società complessa, attraversata da conflitti. «Da questi conflitti l’istituzione monarchica fu lentamente mutata: lo dimostrarono a metà ’600 la rivolta contro l’assolutismo della dinastia Stuart in Inghilter-

Un re senza corona e senza scorta...

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LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO

n Europa vi sono alcuni sovrani (inclusi i Savoia, vedi articolo L’ultimo atto) che non regnano più poiché nel proprio Paese è cambiato l’assetto istituzionale ma non smettono per questo di essere re, seppure nella condizione di non regnanti. Il Re Michele I di Romania (Casata di Hohenzollern-Sigmaringen), nato nel 1921, salì sul trono ancora bambino, nel 1927. Dal 1930 al 1940 lasciò lo scettro al padre, poi tornò sul trono. Nel 1947 Michele venne deposto dai comunisti e partì per l’esilio, prima in Inghilterra – il re è cugino della Regina Elisabetta – e poi in Svizzera. Dopo la caduta del regime di Ceausescu riuscì comunque a tornare in Romania, dove gli

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vennero restituiti molti dei beni sottratti. Nel 2011, gli sono stati affidati incarichi di rappresentanza. Anche Re Simeone II di Bulgaria (Casa di Sassonia-CoburgoGotha), classe 1937, divenne re dei Bulgari giovanissimo, nel 1943. Regnò fino al 1945; poi presero il potere i comunisti, che fucilarono i tre reggenti. Nel settembre 1946 fu indetto un referendum che portò alla proclamazione della “Repubblica Popolare”. Il re, la regina madre e la sorella partirono per l’esilio ad Alessandria d’Egitto. Successivamente, nel 1951, il re si trasferì in Spagna. Nel 2001 Simeone II si presentò alle elezioni bulgare e le vinse. Governò fino al 2005. Vive a Sofia, con la moglie.

Il Re Costantino II di Grecia (Casata di SchleswigHolstein-Sonderburg-Glücksburg), classe 1940, è stato incoronato nel 1964. Durante l’invasione nazista fu costretto all’esilio, ma tornò in patria alla fine della guerra. Nel 1967 ci fu il colpo di Stato che portò la dittatura dei Colonnelli. I rapporti con la giunta militare furono sempre tesi e Costantino tentò un contro-colpo di Stato. Il tentativo fallì e il re dovette partire per l’esilio anche se rimase formalmente capo dello Stato sino al 1973, quando il generale Papadopoulos cambiò la Costituzione e instaurò la repubblica. Dal 2013 il Re è tornato a vivere in Grecia.

Francesco De Leo Davide Colombo

I sovrani degli altri, dall’America alla Cina

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THE ART ARCHIVE/SCALA

a figura del re è pressoché universale. Fanno eccezione i popoli nomadi (che pure hanno talvolta avuto grandi re-condottieri, come l’unno Attila e il mongolo Gengis Khan). Oltreoceano. Nell’impero andino degli Inca (XIII-XVI secolo) il re, Qhapaq Inca, era considerato di origine divina e come tale adorato. Più o meno nello stesso periodo in Messico regnava un altro im-

Un re maya di Yaxchilán (Messico), raffigurato come dio giaguaro.

CULTO POSTUMO

La tomba di Enrico II d’Inghilterra (padre di Riccardo Cuor di Leone). Morto nel 1189, fu subito venerato come “grande re”.

LESSING/CONTRASTO

ra (Carlo I aveva sciolto il parlamento), la Fronda francese e la rivoluzione del 1789». Contrasti che trasformarono, alla lunga, molti regni in monarchie parlamentari e i sovrani in “semplici” capi di Stato. Eppure il mito del “grande re” resiste negli attributi che ancora oggi diamo al persiano Ciro “il Grande”, ad Alessandro e a Carlo “Magno”, a Federico e a Pietro “il Grande”. Modelli. «“Grandi” erano un tempo i sovrani che diventavano modelli condivisi per i posteri», spiega l’esperta. «Come i re-profeti del Vecchio Testamento, i “giusti” David e Salomone, o il fondatore del primo impero che unì Oriente e Occidente, Alessandro Magno. Dalle loro figure idealizzate derivarono i tratti principali della sovranità basata sul principio di maestà e sulle virtù di giustizia ed equità, ma anche (per i sovrani cristiani) sulla santità». Conquiste militari e diplomatiche (è il caso di Carlo V) contavano, ma la fortuna di un monarca la faceva soprattutto una buona stampa tra i posteri. «La magnificenza nell’architettura era già segno di grandezza», conferma Visceglia. «Ma vantare un re santo nella propria dinastia era un modo per sacralizzare l’intera discendenza. Così, la fama di un sovrano si costruiva dopo la sua morte attribuendogli, in cronache e dipinti, episodi miracolosi che sconfinavano nell’agiografia». E dall’agiografia alla favola del “c’era una volta un • re forte e giusto” il passo fu breve. Aldo Carioli

peratore, quello degli Aztechi. I Maya erano invece organizzati in città-Stato che nel corso della loro millenaria storia (XV secolo a.C.-X secolo d.C.) furono governate da sovrani di dinastie ereditarie (ajaw) coadiuvati da re-sacerdoti. Eredità. Anche in Asia le monarchie ereditarie sono state sempre in primo piano: dall’India dell’Impero Moghul (XVI-XVIII secolo) alla Cina, mosaico etnico-

politico “omogeneizzato” solo dalla centralità della semidivina figura imperiale, fino al regno Khmer in Cambogia (IX-XV secolo). Il re-guerriero delle steppe orientali fu invece il Gran Khan dell’Impero mongolo (XIII-XIV secolo). Il suo assolutismo basato sulla forza militare fece da modello agli zar russi (che si definivano, come i re bizantini, autocrati) e al loro impero centralista.

ACCESSORI

La maestà è fatta anche di SIMBOLI. Ecco i

INSEGNE GLOBO

CORONA

È usata fin dai tempi dei faraoni (qui quella di Luigi XV di Francia, incoronato nel 1722). In Occidente si diffuse (sotto forma di foglie d’albero in oro) verso il IV secolo a.C. In origine aveva lo scopo di far sembrare più alto (e sovrumano) chi la portava.

SCETTRO

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Nato dal bastone di comando di re-sacerdoti e sciamani, ha assunto il significato di “guida” dei sudditi. Questo scettro dei re di Prussia aveva (come altri) simboli aggiuntivi: l’aquila (insegna imperiale di derivazione romana) e la spada.

Derivato dalla “mela regale” usata dagli antichi come segno di perfezione cosmica, nel Medioevo si trasformò in globo (questo è quello degli imperatori del Sacro romano impero). E l’antica dea della vittoria fu sostituita dalla croce cristiana.

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SIGNIFICATI di quelli più importanti

REGALI Nel corso dei secoli la monarchia ha messo a punto un repertorio di simboli per comunicare ai sudditi il proprio potere. Un codice dove niente era casuale

TRONO

BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO (2)

Già gli scranni dei capi antichi erano rialzati, per simboleggiare la superiorità di chi vi sedeva (in questo caso Napoleone I). Tipico anche delle divinità, il trono simboleggiava pure la solidità del governo. La sala del trono era il cuore del potere monarchico.

LESSING/CONTRASTO

SPADA

Riassumeva due funzioni regali: il comando militare e l’amministrazione della giustizia. Antico simbolo di forza e libertà, grazie all’elsa a croce dal Medioevo rappresentò anche la compresenza di autorità spirituale e temporale.

ERMELLINO E PORPORA

Destinata nel Medioevo anche agli alti magistrati, la pelliccia di ermellino (un piccolo mustelide) era simbolo di autorità e saggezza, segni di maestà. Le stoffe color porpora entrarono invece nei guardaroba reali come eredità dei notabili romani.

VITA A PALAZZO

Privilegi, GIOCHI, castighi, CAPRICCI e intrighi dietro ai piccoli PRÌNCIPI che salivano al trono ancora FANCIULLI

ADULATO

L’omaggio della corte a Clodoveo II, re dei Franchi nel 639, ad appena 5 anni, in un dipinto dell’Ottocento. A governare furono la madre reggente e il maggiordomo di palazzo.

Nati con la

CORONA

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I

l suo primo vagito fu accolto con sollievo da tutto il regno. Era nata l’8 dicembre 1542, festività dedicata alla Vergine Maria e quindi una data di buon auspicio: sei giorni dopo, però, il re Giacomo V di Scozia fu assassinato, e Maria Stuarda era già orfana e regina lattante. Non fu la prima, né l’ultima volta che un infante entrava nella Storia. Prima di lei, tra gli altri, Valentiniano II, acclamato imperatore d’Occidente a 4 anni nel 375; Ottone III, re di Germania a 3 anni nel 983; Enrico VI di Lancaster, re d’Inghilterra a nove mesi nel 1422; Ivan IV (il futuro “Terribile”), signore del principato di Moscovia a 3 anni nel 1533. Eredità pesanti. Il destino eccezionale che li ha accomunati è riassunto nel motto che nella Francia medioevale salutava il passaggio della corona da un sovrano deceduto al suo successore: “È morto il re, viva il re”. Eppure non era sempre stato così. «La carica regia in origine era elettiva», spiega Maria Teresa Guerra Medici, storica del diritto. «Dall’ascesa al potere di Ugo Capeto, nel 987, che inaugurò la dinastia capetingia che regnerà sulla Francia (con interruzioni) per 800 anni, si affermò invece in Europa la successione ereditaria dal padre al primogenito, in contrasto con il principio dell’eguaglianza tra i figli. Il principale vantaggio era preservare il feudo eliminando liti e discussioni sulla designazione dell’erede». L’evenienza che l’erede al feudo (o al trono) fosse un lattante o ancora nell’età dei balocchi fu risolta ricorrendo a un antico espediente: la reggenza, fino alla maggiore età, affidata a un adulto nominato dal sovrano con una lettera o nel testamento (madre, nonna, zia, sorella, cugino). «La reggenza della madre, ispirata al diritto romano e al codice dell’imperatore bizantino Teodosio II (V secolo), riconosceva alla madre o alla nonna il ruolo di tutrice dei figli o nipoti minorenni, ed è

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Luigi XV divenne re di FRANCIA a 5 anni, nel 1715. Lui fu spedito stata la formula più utilizzata dalle grandi dinastie», spiega Guerra Medici. «Nel IV secolo Èlia Pulcheria e Galla Placidia ressero rispettivamente l’Impero d’Oriente e quello d’Occidente al posto dei fratellini Teodosio e Valentiniano. Da allora, imperatrici, regine e principesse, contesse e duchesse reggenti non si contano». Intrighi di stato. Non dobbiamo però immaginare infanti regali cresciuti iperprotetti tra fasti e privilegi. «Spesso dietro all’incoronazione di un re-bambino c’era l’assassinio dell’erede designato», sottolinea Lucilla Rami Ceci, docente di Antropologia alla Sapienza di Roma. «Far salire al trono bimbetti, poi, aveva vantaggi poco nobili: sottoposti a una rigida educazione, erano costretti ad accettare senza discutere i pesanti doveri di un monarca. Assicurando ai famigliari reggenti la libertà di gestire a piacere il potere». Sono stati molti i piccoli prìncipi costretti a difendersi da chi avrebbe dovuto proteggerli e allevarli. Corradino di Svevia (1252-1268), re a due anni, si vide il trono scippato dallo zio-reggente Manfredi, che sparse la voce (falsa) della morte del piccolo. Un po’ meglio andava con la reggenza materna, adottata per esempio in Francia: “La regina madre non oserà attentare alla vita preziosa del Delfino (l’erede al trono, ndr) perché non potrebbe re36

gnare ella stessa”, spiegava il giurista francese Jean de Savaron (1566-1622). La reggenza materna fu poi esclusa dalla Costituzione francese del 1791, probabilmente in odio alla regina Maria Antonietta: “Il re è minore fino all’età di diciotto anni compiuti; [...] La reggenza appartiene al parente del re più prossimo in grado; [...] Le donne sono escluse”. A scuola di regalità. Ma come si tirava su un futuro sovrano? «L’educazione di corte ha avuto caratteristiche assai diverse nei differenti periodi storici e nelle varie società», risponde Rami Ceci. «Ma dal Medioevo fino a tutto il XVIII secolo il bambino, non solo quello di sangue reale, era un piccolo adulto». Lo testimoniano i ritratti di corte, quelli inviati alle casate reali straniere in vista di matrimoni combinati, che ci hanno tramandato immagini di piccoli prìncipi vestiti come adulti: posa marziale, insegne, onorificenze, scettri, spadini e altri attributi del potere. Nel caso delle bambine, si trattava di perfette reginette in miniatura. Intorno all’erede d’Inghilterra, a partire dal XIII secolo, si formò una “nursery reale” che era una copia in scala della corte adulta, dove prìncipi e rampolli della nobiltà, paggi e damigelle imparavano insieme l’arte del governo e delle buone maniere. Nelle corti dell’ancien régime francese il compito di forgiare i futuri sovrani e i loro collaboratori più

SORPRENDENTE

Enrico IV di Francia sorpreso dall’ambasciatore di Spagna mentre gioca con i suoi figli, tra cui il futuro Luigi XIII, sul trono nel 1610, a 9 anni.

MAMMINA CARA

THE ART ARCHIVE

MONDADORI PORTFOLIO/LEEMAGE

Maria de’ Medici, reggente di Francia dal 1600 ed esautorata dal figlio Luigi XIII (qui a 3 anni) nel 1617.

in CAMPAGNA, il duca d’Orléans (reggente) nella capitale PARIGI IN POSA

Il principe Baltasar Carlo di Spagna (6 anni) nel 1635 a cavallo di un pony, ritratto da Velázquez come condottiero.

PAPA BENEDETTO IX

FERDINANDO D’ASBURGO

fidati era invece affidato a sacerdoti, maestri e precettori dalle maniere spicce. La “scuola da re” prevedeva lezioni di scherma, caccia, danza, ma anche calligrafia, matematica, storia e letteratura. Già nel 1530 il filosofo olandese Erasmo da Rotterdam, nel suo trattato L’educazione del principe cristiano dedicato all’imperatore del Sacro romano impero Carlo V (vedi articolo nelle altre pagine), aveva fissato alcune regole rimaste valide fino al ’700, che prescrivevano persino il tipo di nutrice più adatta ai prìncipi: “Neanche a balie da poco bisogna affidare chi è nato per regnare,

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ma cercare balie oneste e preparate in precedenza al proprio compito”. Bando ai giochi. Spazio per i giochi, per gli infanti reali, ne restava dunque poco. La maggiore età arrivava in fretta. «Per le bambine era stabilita in base alla capacità di procreare, intorno ai 12 anni, per i maschi oscillava tra i 14 e i 21 anni, età adatta a indossare armi pesanti», spiega Guerra Medici. Spesso tra i fanciulli che diventavano re liberandosi finalmente dal controllo dei reggenti la tentazione di bruciare le tappe era molto forte: Enrico VI (14211471) fu incoronato un mese prima del suo ottavo

Papi, cardinali e vescovi bambini

ra i piccoli potenti del passato ci sono stati anche cardinali e persino papi. Il caso più controverso fu quello di papa Benedetto IX, al secolo Teofilatto dei Conti di Tuscolo: secondo alcuni storici (le fonti sulle date non concordano) sarebbe salito al soglio papale all’età di 11-12 anni, nel 1033,

e sarebbe il più giovane papa della Storia. Baby-porporati. Papa Leone X, cioè Giovanni de’ Medici (1475-1521), iniziò invece la carriera ecclesiastica a 7 anni, come abate di Montecassino e Morimondo, e a 13 era cardinale. Ferdinando d’Asburgo (1609-1641) fu invece detto (a ragione) “cardinale

infante”: figlio di Filippo III di Spagna e di Margherita d’Austria, a 10 anni fu nominato arcivescovo di Toledo da papa Paolo V. Minorenne fu anche Luigi Antonio di Borbone (1727-1785), ultimogenito del re Filippo V di Spagna, cardinale a 8 anni e arcivescovo di Toledo (con tutore) a 9.

PAPA LEONE X

LUIGI ANTONIO DI BORBONE

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RMH/ALINARI

Se la REGGENZA era quasi sempre affidata alla madre, il POTERE veniva solitamente esercitato dai CORTIGIANI compleanno, mentre Carlo VI (1368-1422) e Carlo IX (1550-1574) diventarono sovrani di Francia con pieni poteri rispettivamente a 12 e a 10 anni. Sconvolti. Essere oggetto di cure tanto speciali, investiti di aspettative elevatissime e privati di un’infanzia da veri bambini poteva scatenare emozioni contraddittorie. «Da un lato i piccoli prìncipi si percepivano come esseri carismatici, eccezionali, divini», sottolinea Furio Pesci, docente di Storia della pedagogia alla Sapienza di Roma. «Dall’altro erano comunque bambini, subalterni alla volontà degli adulti e spesso meno liberi di tutti gli altri coetanei». La prova lampante di questa ambivalenza si trova in un documento eccezionale: il Journal seicentesco di Jean Héroard, medico personale del Delfino di Francia (il futuro Luigi XIII). È un diario che racconta giorno per giorno la vita del regale pupillo. Una vita eccezionale fin dalla nascita, avvenuta senza privacy alla presenza del re e dei prìncipi il 27 settembre 1601: “Emetteva grida forti e potenti che non sembravano vagiti di un bambino, da lui mai emessi”. Annotando scrupolosamente i menù di 16 mila pasti, orari della nanna, ritmo del polso (“pieno”, “leggero”), aspetto del viso (“allegro”, “cattivo”), proporzioni di naso, orecchie e corpo, quantità, co38

lore e odore delle principesche feci (“fa la cacca nel catino, gialla, molto chiara, molta”), affezioni cutanee (“scabbia”, “pitiriasi”, “macchie rosse”) provocate da un’igiene sommaria (il primo bagno è annotato a sette anni, il 2 agosto 1608). Il Delfino viveva separato dai genitori. In compenso, aveva al suo servizio 225 persone, che lo iniziarono prestissimo ai rituali di corte: a un anno imparò a porgere il braccio ai visitatori per ricevere il baciamano, a due a mantenersi immobile come una statua durante le parate in città, a tre riceveva prìncipi e ambasciatori nel castello di Saint-Germain-en-Laye, a 7 era un danzatore e giocatore di pallamaglio (antenato del croquet) provetto. Il diario di Héroard non si ferma davanti a niente: il 3 settembre 1604 registra le prime esperienze erotiche (“Si sveglia alle sette e mezza, allegro e vispo, fa baciare a ciascuno il suo uccello”) e a 5 anni riporta che Luigi ha soddisfatto le sue curiosità sessuali con la nutrice. Giochi a tema. I giocattoli, a Luigi XIII, non mancavano, ma erano “tematici”: 300 soldatini d’argento e un’intera corte di bambole da vestire alla moda, per raffinare il gusto. Come annota Héroard, Luigi potenziò i peggiori difetti infantili: era ostinato, collerico, capriccioso, geloso dei

VISITE DI STATO

Luigi XV di Francia (in braccio) riceve la visita dello zar Pietro il Grande nel 1717: aveva 7 anni.

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SVAGHI DI CORTE

L’infanta di Spagna Margherita nel 1656 con le dame di compagnia e (a sinistra) l’autore del quadro: Diego Velázquez.

fratelli e fratellastri (chiamati fefés) e soprattutto disubbidiente, tanto da rifiutarsi, a 6 anni, di svolgere il rituale pasquale del lavacro dei piedi dei poveri (“Non voglio, non voglio! Hanno i piedi puzzolenti”). Per spuntarla, la governante madame de Montglat, incaricata dal re di formare il carattere del principino nei suoi primi 7 anni di vita, le provò tutte: dallo spauracchio vivente (“Per fargli paura si fa entrare il carbonaio”) al ricatto di togliergli lo status di Delfino (“Si infila il suo abito al collo del paggio”) fino

alla frusta, usata a partire dai 3 anni. “Voglio che lo frustiate”, scrisse il padre Enrico IV nel 1607 a madame Montglat. “E vi comando di farlo tutte le volte che si intestardirà o farà qualcosa di male, ben sapendo che nulla al mondo gli gioverà di più”. Tre anni dopo, Enrico IV fu assassinato e il 17 ottobre 1610, a Reims, il Delfino divenne Luigi XIII. Aveva 9 anni, ma fu sottoposto all’autorità della potente madre, Maria de’ Medici, per altri 7. • Claudia Giammatteo

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er secoli prìncipi e principesse si sono vestiti fino a una certa età pressoché allo stesso modo. Dopo le fasce da neonati, si passava a tunichette a tinta unita (nera, rossa, marrone) con spacchi ai lati o una sorta di “imbragatura” per i primi passi. Poi venivano gonne, pizzi e scollature (anche per i bimbi). Solo a 7 anni i maschietti abbandonavano i vestitini da bambola e passavano a

pantaloni e calze lunghe, mantenendo però merletti, gioielli e orecchini, mentre le femmine erano strette in corsetti irrigiditi da lamine di metallo e stecche di balena, oltre che (nel ’600) da alte gorgiere. Divise. Sull’onda di nuove idee pedagogiche, dalla metà dell’800 apparvero tre abiti distintivi dell’infanzia reale, ma non solo: il vestitino alla marinara (blusa blu o bianca con

collo di piquet quadrato ornato da àncore o galloni militari) ispirato all’abbigliamento da crociera dei prìncipi di Galles, gli eredi al trono inglese; il vestito da “piccolo lord” (pantaloni al ginocchio, marsina, collare e polsini di pizzo); la divisa dell’esclusivo college inglese di Eton (calzoni lunghi, giacca alla vita e cappello a cilindro) dove hanno studiato generazioni di rampolli della nobiltà.

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Moda unisex per piccoli prìncipi

Sembra una bimba, ma è Luigi XV di Francia (con fucile giocattolo).

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VIZI REGALI

Costantemente al CENTRO dell’attenzione, e al di sopra della legge, ai

IL LATO OSCURO

LUIGI XIV RE DEL GOSSIP

Luigi XIV, noto come Re Sole, su un curioso “trono a rotelle”, nei giardini di Versailles con la corte nel 1713. La vita e le abitudini del Re Sole erano di pubblico dominio.

sovrani è stato sempre tutto PERMESSO. Anche gli ECCESSI più estremi INCESTO DI STATO

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Nefertiti e Akhenaton (1353-1336 a.C.) adorano Aton (la divinità solare). Akhenaton era il padre di Tutankhamon, mentre Nefertiti ne era sia matrigna che suocera.

ALINARI

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ociopatici, assassini, stupratori seriali, uxoricidi, infanticidi, pedofili, adulteri, fornicatori, incestuosi: in due parole, loschi figuri. Non si tratta di un elenco di soggetti da studiare al corso di criminologia, né dei delinquenti famosi presenti al Museo delle cere di Madame Tussaud. È quello che si potrebbe definire il curriculum medio di una testa coronata, il cursus dis-honorum da trascrivere nella carta d’identità di molti sovrani. Peccati veniali nel migliore dei casi, ma per lo più reati efferati o psicopatologie gravi da ricovero coatto. E invece molti detentori di queste agghiaccianti abitudini hanno soggiornato per tutta la vita in regge sterminate con trattamento 5 stelle luxury, decidendo della vita e della morte dei loro sudditi. Perché un re era al di là della legge degli uomini, legibus solutus. Dante nel De Monarchia auspicava l’avvento di un sovrano unico, al di sopra di ogni passione. Peccato che dei loro vizi questi uomini (e donne) di potere fossero schiavi. Lo stesso poeta ne inseriva un congruo numero nell’Inferno. Fra questi, la leggendaria Semiramide, moglie di un sovrano assiro-babilonese, ospite illustre nel girone dei lussuriosi, così innamorata del figlio da costringerlo a un rapporto incestuoso. “Lìbito fe’ licito in sua legge”, dice Virgilio a Dante; in pratica, sdoganò la libidine per decreto reale. Un mito letterario? 41

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SCALA

FRA MINISTRI E FAVORITE

Nel privato il re Luigi XV (1710-1774) si faceva comandare a bacchetta da Madame Du Barry, la sua favorita, che lo prendeva in giro chiamandolo “La France”.

Vari STORICI latini – come Svetonio, Tacito, Dione Cassio – furono influenzati dalle DICERIE del tempo

TOPLESS D’ANTAN

La donna ritratta da Jean Fouquet nelle vesti della Vergine nel Dittico di Melun a metà ’400 era Agnès Sorel, favorita di Carlo VII, al quale diede quattro figli. Fu tra le prime a indossare abiti a spalle nude.

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Fidanzati in casa. A dir la verità, di incesto parla anche la Bibbia e fra i sovrani dell’antico Egitto era la norma: in quella società l’erede al trono dei faraoni, prima di essere proclamato re, sposava solitamente sua sorella. Questo perché la successione avveniva per linea matrilineare, quindi si diventava faraoni in quanto figli della Grande sposa reale, la moglie più importante del faraone; è logico, dunque, che non si volesse far entrare in famiglia sangue estraneo che potesse accedere al trono. Il sovrano, poi, poteva sposarsi quante volte voleva: Ramses il Grande (1303-1212 a.C.) ebbe oltre cento figli da almeno 5 o 6 mogli ufficiali e altre ufficiose. Una di queste era Henutmire, che alcuni studiosi ritengono sua sorella, un’altra era Merytamen, figlia dello stesso Ramses e della sua Sposa reale preferita, Nefertari. Che intreccio! Anche a Nefertiti doveva essere capitato 3.400 anni fa di fare confusione tra figlimariti e figlie-nuore. La leggiadra moglie di Akhenaton, il “faraone eretico”, era la perla più bella di una famiglia dalle strane caratteristiche fisiche: un cranio allungato simile al testone mostruoso del film Alien. D’altra parte, le deformità non dovevano essere inusuali nelle stirpi reali, dove i matrimoni fra consanguinei erano la norma. Non era sfuggito alla regola

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tra famiglia disfunzionale imperiale. Berta, figlia di Carlo Magno (742-814), può essere annoverata tra le rampolle di sangue blu sessualmente più esuberanti. Uno dei suoi amanti era addirittura un santo: sant’Angilberto di Centula, che prima di finire in monastero fu conte-poeta. Berta non aveva fatto che seguire l’esempio paterno: Carlo Magno aveva collezionato, infatti, almeno 5 mogli (secondo alcuni storici 8), fra le quali la tredicenne Ildegarda e due badesse, oltre a un certo numero di concubine. Tra spose legittime e amanti, erano così tante che persino il suo biografo Eginardo perse il conto. Un vezzo comune. In epoca rinascimentale, Carlo VII di Valois si era scelto come concubina la bella Agnès Sorel, che aveva piazzato come dama di corte alla moglie. Ritratta in topless da Jean Fouquet, l’amante gli aveva dato 4 figli prima di morire a 28 anni, assassinata – secondo alcune ricerche recenti – con un medicamento al mercurio. Enrico IV (15531610), marito della reine Margot resa celebre IL RE DEGLI ECCENTRICI

Dopo avere avuto svariati amanti di ambo i sessi, Ludwig di Baviera (1845-1886) si dedicò in privato ad abbuffate di cibo uscendo dai suoi castelli (ne fece costruire tre) soltanto di notte.

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neanche Tuntankhamon, detto Tut, il ragazzo dalla maschera d’oro. Il faraone fanciullo – che si suppone fosse figlio di Akhenaton – era, infatti, frutto dell’incesto. Ce lo dice la genetica, che ha sbrogliato l’intreccio parentale tra le mummie conservate nelle camere sepolcrali egizie: la regina Nefertiti, che gli egittologi hanno considerato per anni sua madre, gli era in realtà matrigna e suocera, visto che al malaticcio Tut era andata in sposa Ankhesenamon, una delle figlie di Akhenaton, in pratica la sorellastra. L’impero dei sensi. A Roma gli imperatori si distinguevano per un uso disinvolto del diritto di famiglia. Augusto, per esempio, aveva approvato una legge per punire le donne colpevoli di avere rapporti fuori dal matrimonio; proprio lui, che aveva ripudiato la prima moglie, Clodia, per sposare Scribonia. Inutile aggiungere che il princeps agognava costumi morigerati ma poi, una moglie tira l’altra, aveva ripudiato anche la seconda per impalmare la già maritata Livia Drusilla, voluta a tutti i costi benché incinta del suo secondogenito, Druso. Domanda: non sarà che il bebè era frutto dei lombi augustei, e non del legittimo consorte? L’autore latino Svetonio avanza proprio questa ipotesi. Ma è anche vero che, come altri storici romani, scriveva un secolo dopo i fatti, e forse ci aveva ricamato sopra. I “gossipari” dell’antichità avevano, come molti gossipari di oggi, un secondo fine: denigrare la politica imperiale e assolutista, che aveva cancellato il ruolo del Senato (di cui molti di loro erano fan). Nacquero così molte delle nefandezze che attribuiamo a Nerone. Alcune (come la faccenda dell’incendio di Roma) smontate dagli storici di oggi. Una famiglia disfunzionale. Qualche secolo dopo, al di là delle Alpi, i rumors circondarono un’al-

AL FUOCO!

Le fiaccole di Nerone, un dipinto di fine ’800. Secondo Tacito l’imperatore accusò i cristiani di aver dato alle fiamme Roma per mettere a tacere le voci che accusavano lui. Oggi sappiamo che la brutta fama di Nerone è in buona parte un falso storico.

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MEGLIO NON PIACERGLI

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Enrico VIII si intrattiene con Anna Bolena sotto gli occhi della regina Caterina d’Aragona (la stessa del ritratto sulla parete). Il dipinto è di fine ’800. La storia è nota: il re riuscì a sposare Anna, salvo farla poi decapitare.

Enrico VIII fu tra i sovrani più ESUBERANTI e crudeli. Quattro delle SEI MOGLI fecero una brutta fine da Dumas, ne aveva collezionato pure lui una lista infinita: la più nota, Gabrielle d’Estrées, vantava anche lei il ritratto in topless e una fine tragica con sospetto di avvelenamento. D’altra parte, la seconda moglie del re era la toscana Maria de’ Medici e alla corte francese, quando non ci si spiegava una morte prematura, si dava la colpa al veleno, magari italiano. Come tramanda anche la leggenda nera di un’altra regina di Francia, Caterina de’ Medici (madre di Margot e suocera di Enrico IV) accusata di essere l’avvelenatrice di figli e nuore, oltre che l’ispiratrice del massacro di san Bartolomeo (1572), in cui furono sterminati migliaia di ugonotti. La storiografia l’ha riabilitata solo di recente. Nobili appetiti. Non stupisca, però, che gli amanti reali fossero esibiti senza pudore. I costumi di un re non erano in discussione. Anzi, erano di pubblico dominio anche per rassicurare i sudditi sulla buona salute del sovrano. Nella vita di Luigi GUSTI PROIBITI

Federico il Grande (17121786) fece assumere la ballerina parmigiana Barbara Campanini, di cui apprezzava “le gambe da uomo”. E avrebbe detto di voler essere posseduto carnalmente dal filosofo Voltaire.

XIV tutto doveva essere pubblico. Al risveglio, che avveniva nel “Grande appartamento” di Versailles, la vestizione si svolgeva davanti ai membri della famiglia reale e al gran ciambellano, che lo aiutava a indossare la vestaglia, mentre i duchi gli porgevano la camicia e il valletto di parrucca gli sistemava la cascata di riccioli finti. Le abluzioni si limitavano spesso a una sciacquatina di mani nell’aceto; d’altra parte, era questa la norma per un re che, come da prescrizioni mediche e come si usava all'epoca, di bagni completi non ne fece praticamente mai. Si partiva poi con le udienze nel cabinet: era un privilegio essere ammessi alla defecazione del re mentre lui, assiso sulla “seggetta reale” rivestita di velluto, scriveva a tavolino cercando di adempiere ai suoi bisogni corporali in un catino di maiolica posto lì sotto. Del resto per un re non c’erano regole di buona creanza perché le regole le faceva lui stesso. Ma non esisteva nemmeno la legge di Dio, perché dalla divinità derivava il suo imperio e alla divinità si sostituiva. E se Dio si lamentava di lui, il re si fabbricava una religione su misura. Come fece Enrico VIII, che distrusse chiese e monasteri per appropriarsi dei beni ecclesiastici e inventò la religione anglicana per poter cambiare moglie. L’anagrafe Tudor. Il re dalle sei mogli era allora appena alla prima, Caterina d’Aragona, che gli aveva dato solo un’erede femmina, Maria I. La principessa sarebbe passata alla Storia come Bloody Mary, per via di certe sue tendenze: anche a lei, come alla regina di Alice nel paese delle meraviglie, ogni tanto scappava un “tagliatele la testa!” all’indirizzo della sorellastra Elisabetta I, che le succedette sul trono. Eppure le due Tudor non sarebbero mai divenute regine se Bessie Blount avesse parlato. L’avvenente dama di corte più che far compagnia alla regina

PASSIONI BALLERINE

la faceva al re, e fu lei a mettergli al mondo un maschio, Henry. Il bimbo fu riconosciuto, come testimonia il suo cognome Fitzroy (che in realtà è uno status: deriva dal francese fils du roi e veniva attribuito ai figli naturali dei sovrani). Ma Bessie potrebbe avergli messo al mondo anche una seconda figlia segreta, come sostiene la storica Elisabeth Norton. Se la teoria fosse vera, sarebbe stata lei la prima in linea di successione, visto che alla morte del sovrano Fitzroy era già nella tomba. Il focoso Enrico seminò anche altro. Annullato il matrimonio con Caterina, e prima di sposare Anna Bolena, si infilò nel letto della di lei sorella Maria. Quando la Regina Vergine Elisabetta nemmeno era stata concepita, l’altra Bolena aveva già partorito due figli, secondo alcuni storici di schiatta reale. Sappiamo com’è andata: Elisabetta salì al trono nonostante le intemperanze paterne. Quando è destino è destino. Cocottes reali. Non c’è dubbio, dunque, che il potere sia l’afrodisiaco supremo. Ma il tramonto dei grandi imperi segnò la crisi delle cocottes reali. Mathilde Kschessinska sarebbe divenuta la più grande ballerina dell’Impero russo tra fine ’800 e inizio ’900, ma quando incontrò lo zarevic Nicola, erede al trono, stava ballando al saggio del diploma del Teatro Marinskij di San Pietroburgo. A portare il giovane principe al cospetto della diciassettenne era stato il padre, l’imperatore Alessandro III, fedele a quell’abitudine dei nobili russi di iniziare i figli all’arte amatoria buttandoli fra le braccia delle danzatrici più avvenenti. E il Teatro Marinskij, finanziato dagli zar, era “un’aiuola dalla quale tutti potevano raccogliere i fiori • del piacere”.

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IL PICCOLO ZAR

Zar per soli 6 mesi, Pietro III (1728-1762) amava passare le sue giornate giocando con i soldatini di legno. Anche se aveva 34 anni. Morì assassinato, probabilmente su ordine della moglie Caterina.

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La ballerina russa Mathilde Kschessinska in un ritratto del 1909. Sotto, lo zar Nicola II, di cui la donna fu l’amante. Era abitudine degli zar iniziare i figli all’amore con le ballerine.

Lidia Di Simone

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OLYCOM (3)

ELISABETTA II

Ha 90 ANNI, di cui quasi 64 vissuti da regina. Ha superato in longevità di regno l’AVA Vittoria e tutti i precedenti sovrani inglesi. Insomma, un MONUMENTO. Che il mondo omaggia

GOD SAVE THE QUEEN

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ieci dinastie, più di cinquanta sovrani, 1.200 anni di vita... Il trono inglese può vantare la storia “reale” più longeva del mondo. A incarnare il senso della corona c’è oggi una signora novantenne (è nata il 21 aprile 1926) che ha superato nel suo lavoro da regina l’altra mitica sovrana inglese: Vittoria. Lo scorso 9 settembre Elisabetta superava infatti i 63 anni e 216 giorni di regno della popolarissima ava, diventando il sovrano con la più lunga anzianità di servizio nella storia della Corona britannica. Ma in perfetto stile Elisabetta, il 9 settembre scorso è stato un business as usual, un giorno di lavoro come gli altri. In compagnia del marito, il principe Filippo, la regina è salita a bordo di un treno a vapore, riabilitato dopo quasi mezzo secolo, per inaugurare la linea ferroviaria che attraversa i paesaggi scozzesi resi celebri dallo scrittore Walter Scott. La coppia ha lasciato la stazione di Waverley a Edimburgo per discendere verso il villaggio di Tweedbank seguendo un bucolico itinerario di 48 chilometri. All’arrivo Elisabetta ha ringraziato così chi le aveva manda46

FOTO DI FAMIGLIA

Sotto da sinistra, nella prima foto, del 1951, nell'ordine: Carlo, la Regina madre, la sorella Margaret, il marito Filippo, il padre Giorgio VI, Elisabetta e, nella carrozzina, la figlia Anna. Qui sotto, nel 1928, a due anni, nella stessa posa dei puttini raffaelleschi ai piedi della Madonna Sistina. Sotto a destra, nel 1945, Elisabetta ripara il motore di un mezzo militare. In guerra era nel Servizio ausiliare territoriale, dove fu addestrata come autista.

to messaggi di auguri: «È un primato a cui non ho mai aspirato... Inevitabilmente una vita lunga passa attraverso molte tappe fondamentali e la mia non fa eccezione». A Londra, le campane dell’Abbazia di Westminster hanno suonato per la ricorrenza, ma la festa vera sarà quest’anno: tre giorni di celebrazioni dal 10 al 12 giugno, quando lo storico traguardo sarà abbinato ai festeggiamenti per il 90° compleanno della sovrana. Nel culto di Vittoria. Il 6 febbraio del 1952, 115 anni dopo l’incoronazione della regina Vittoria, una donna tornò a salire sul trono di Gran Bretagna, con un nome, Elisabetta, portato per prima dalla famosa figlia di Enrico VIII nel XVI secolo. Pur avendo regnato in epoche storiche così diverse, Vittoria ed Elisabetta II, secondo la storica inglese Jane Ridley, hanno molto in comune: «Il carattere di entrambe è stato plasmato dall’essere regina. Chi altro continua a lavorare fino a 90 anni, all’apparenza senza lamentarsi e col sorriso sulla bocca, e senza poter andare in pensione?», si è chiesta la Ridley, autrice tra l’altro del libro Victoria: Queen, Matriarch

IERI E OGGI

(Empress). Secondo calcoli del quotidiano inglese The Telegraph, Vittoria fu sovrana per 23.226 giorni, 16 ore e 23 minuti e sotto il suo regno l’Impero britannico raggiunse il momento di massima espansione: si estendeva su un quarto delle terre emerse. In quei 64 anni il British Empire era incredibilmente accresciuto, la flotta militare e mercantile vantava il primo posto nella graduatoria mondiale e, in quell’era di prosperità, sostenuta da un’estrema intransigenza nella morale e nei costumi, la casa regnante era riuscita a stendere un velo sui trascorsi poco edificanti dei precedenti sovrani. A Elisabetta, invece, è toccato traghettare il regno negli anni della dissoluzione dell’impero. Ha firmato i decreti di indipendenza di 38 colonie per assistere alla nascita del Commonwealth britannico (organizzazione intergovernativa degli oltre 50 Stati dell’ex impero). In un mondo, quello del secolo scorso, di grandi e rapide trasformazioni, ha dovuto anche fronteggiare due sfide di non poco conto per la monarchia: le fatiche della ricostruzione dopo le miserie e le angosce della guerra; e le provocazioni del ’68, con un’intera generazione sul sentiero di guerra contro simboli e modi del passato. La fiaba comincia. Nel mese di ottobre del 1951, in occasione di un viaggio in Canada e negli Stati Uniti, l’allora principessa Elisabetta incontrò il presidente degli Stati Uniti d’America, Harry S. Truman, che commentò dopo averla incontrata: “Quando ero piccolo leggevo le storie di una principessa fatata. Esiste davvero”. Quattro mesi dopo Elisabetta diventava regina. Si trovava in Kenya quando dovette rientrare in patria richiamata a casa dalla morte di suo padre Giorgio VI.

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CAMERA PRESS /CONTRASTO

A sinistra, 1947: la principessa sposa Filippo, allora principe di Grecia e Danimarca. L’abito è in raso avorio, con 10mila perle cucite sopra. Qui a sinistra, la regina durante le celebrazioni del 9 settembre 2015.

OLYCOM

Guerre, incendi, SCANDALI, lutti e fallimenti privati: Elisabetta è sopravvissuta a tutto. Perché così fa una REGINA

È probabile che i britannici capirono subito che quella ragazza, giovane ma determinata, sarebbe riuscita a traghettare il Paese attraverso una stagione di profonde trasformazioni sociali ed economiche, che non potevano risparmiare la stessa Corte. Grazie papà. Suo padre Giorgio VI regnò con profondo senso del dovere e forza di carattere. Fu determinato nel superare la balbuzie che lo affliggeva (la vicenda è stata ricostruita nel film Il discorso del re) e fu inflessibile nel formare e istruire Elisabetta sui compiti di un monarca. Provato dall’abdicazione del fratello Edoardo VIII (motivo per cui toccò a lui salire sul trono) per sposare la divorziata e disinvolta Wallis Simpson, Giorgio VI reagì inasprendo il proprio conservatorismo. A partire dalla scelta del nome (Giorgio si chiamava Alberto) come segno di continuità con il regno di suo padre. In generale fu sempre più incline alla tradizione che all’innovazione e mostrò una dedizione assidua e tenace ai suoi doveri. Sua figlia dimostrerà più volte nei suoi anni di regno di aver appreso la lezione paterna. Era ancora troppo piccola quando suo zio Edoardo abdicò e fu sua madre, la sorridente e bonaria regina Elisabetta, a spiegarle che la ragion di Stato ha sempre il

DAME DI FERRO

In alto a sinistra, la regina come capo del Commonwealth va in visita nel Ghana (1961). A destra, Elisabetta con la premier inglese Margaret Thatcher nel 1979, alla conferenza del Commonwealth.

sopravvento sui sentimenti privati di re e regine (anche se, a onor del vero, il suo fu un matrimonio d’amore dapprincipio contrastato: non era abbastanza titolata per un principe). Fu sempre la Regina madre a dare coraggio alla nazione durande la guerra, decidendo di non lasciare il Paese sotto le bombe tedesche. E questo nonostante la preoccupazione per le due figlie ancora piccole. «Le bambine non possono partire senza di me, io non posso lasciare il re e il re non se ne andrà mai», fu una delle sue frasi più celebri e probabilmente più apprezzate dai britannici. Sa tutto. Ma cosa fa la regina? Intanto va detto che non possiede alcun potere diretto o assoluto. Ma... è la persona meglio informata del Regno Unito. Di più: è tra le persone più informate dell’intero pianeta. Requisito, questo, fondamentale per svolgere le tre funzioni principali del monarca britannico: “consigliare, incoraggiare e avvertire”. A ricordarlo è l’economista Walter Bagehot nella sua opera English Constitution, trattato su ruolo e compiti della Corona. Una responsabilità dunque enorme, come ricorda l’intellettuale britannico Anthony Burgess: «Il potere della regina deriva dal suo sapere e dalla sua autorità morale». Tutti i martedì, men-

Un palazzo da favola

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uckingham Palace è residenza reale e studio della Regina Elisabetta II. Fu l’architetto William Winde (16451722 ) a ricostruire Buckingham House per John Sheffield, primo duca di Buckingham, poeta e importante politico tory vissuto nella tarda epoca degli Stuart. A quel tempo era più una villa di campagna alla periferia di Londra che una residenza cittadina, allocata tra il parco di St James e Hyde Park. Era stata edificata su terreni della Corona,

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dove Re Giacomo I aveva fatto piantare un giardino di gelsi, e questo permise a Re Giorgio III di acquisirla nel 1731 come residenza privata. Fu poi la Regina Vittoria, 106 anni dopo, a trasferirsi lì, quando il palazzo era ancora fresco di vernice. Ma risultò troppo piccolo, sia per le funzioni di Stato che per la vita di famiglia e venne dunque ingrandito. Con il progetto di Aston Webb (1849-1930), Buckingham Palace divenne la reggia che conosciamo e

oggi nel suo complesso conta 775 stanze, di cui 19 sale di rappresentanza, 52 camere da letto reali e per foresteria, 188 camere da letto per il personale, 92 uffici e 78 stanze da bagno. Nella reggia lavorano più di 800 persone e ogni anno ne vengono ricevute oltre 50.000. Ci sono 1.514 porte e 760 finestre, pulite ogni sei settimane, oltre 40.000 lampadine e più di 350 orologi che ne fanno una delle più grandi collezioni esistenti al mondo, affidata alle cure di due

orologiai a tempo pieno. Negli splendidi giardini che ospitano i famosi garden-parties, vivono più di 30 differenti specie di uccelli e crescono più di 350 diversi fiori selvatici. A Palazzo c’è poi una cappella, un ufficio postale, una caffetteria, un ambulatorio medico, un cinema. Come confidò allo storico francese Meyer-Stabley un vecchio cameriere: «Fuori non ci sono che ingorghi e cacofonia, mentre il palazzo pare meravigliosamente tranquillo e silenzioso».

Parata della guardia reale davanti a Buckingham Palace.

SUL TRONO

Febbraio 1952: Elisabetta è già regina. L’incoronazione nell’Abbazia di Westminster (sopra) avvenne però il 2 giugno 1953. E lei si allenò per giorni a portare il peso della Corona di sant’Edoardo.

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tre il parlamento è in seduta, Elisabetta riceve il capo del governo a Buckingham Palace. Non può sostenere una determinata politica, né opporre un veto, ma può esprimere la sua opinione. Se dunque il primo ministro ha l’autorità, la regina ha l’esperienza di chi per più di 60 anni ha letto ogni documento governativo (solo Elisabetta, insieme al figlio Carlo e al primo ministro, può accedere a tutte le circolari e i rapporti dei ministeri) e ha incontrato i leader mondiali di tutto il mondo. Non troppo tempo fa, il primo ministro David Cameron, dopo aver sollevato una determinata questione, si sentì rispondere da Elisabetta: «Sua Maestà ha risolto quel problema sette primi ministri prima di lei». La crisi. Se per la Regina Vittoria il momento più difficile del suo regno fu la morte del marito, il principe Alberto (vedi articolo nelle prossime pagine), per Elisabetta gli anni da cancellare sono stati senz’altro il 1992 e il 1997. Nel ’92 tre dei suoi figli formalizzarono la rottura del loro matrimonio: Carlo, il primogenito, si separò da Diana Spencer (ex maestrina di sangue blu sposata nel 1981); così pure fece il terzogenito Andrea, sposato a Sarah Ferguson; mentre la secondogenita Anna divorziò da Mark Philips.

A 10 ANNI studiava già da altezza reale. Era metodica, CONCRETA, intelligentissima. Con una grande passione per CANI e cavalli

Bocconi amari per una madre, velenosi per una regina! A peggiorare la situazione ci si mise di mezzo la stampa, che sugli affari di cuore della famiglia reale non si è mai risparmiata. Del resto la royal family ha offerto piatti ghiotti all’ingordigia dei tabloid: il triangolo Carlo-Diana-Camilla (eterna amante del principe di Galles, oggi sua moglie), le confessioni di Lady D, le bizzarrie e i guai finanziari di Sarah Ferguson... Sempre nel 1992 (vero annus horribilis per la corona) prese fuoco anche la residenza di Windsor. Nel più grande castello abitato del mondo divampò un incendio che distrusse ben nove delle sale di Stato e danneggiò oltre cento ambienti. Ma il peggio doveva ancora venire. Cinque anni dopo, il 6 settembre 1997, l’Abbazia di Westminster ospitava le esequie di Lady D. I fatti sono noti. Il 31 agosto Diana, insieme al suo ultimo compagno Dodi al-Fayed, rimase vittima di un incidente automobilistico sotto il tunnel del Pont de l’Alma a Parigi. La loro Mercedes inseguita da un cronista e da alcuni fotografi si schiantò contro un pilastro della galleria. La prova più dura. La morte di Diana Spencer lasciò costernato il popolo britannico e attonita la famiglia reale. Oltre a coinvolgere emotivamente e politicamente il governo inglese e il neoeletto primo ministro Tony Blair, la tragedia mise a dura prova il protocollo di Corte e sembrò travolgere la popolarità stessa della Corona. Elisabetta, erede della tradizione vittoriana, che mal aveva tollerato la separazione di Diana da Carlo e la successiva relazione della principessa con Dodi al-Fayed, dopo l’incidente mortale gestì la situazione con imbarazzo. Mentre una processione interminabile di gente comune depositava mazzi di fiori per Diana davanti ai cancelli di Buckingham Palace e attendeva in coda, per ore e ore, pur di firmare a St. James Palace i libri di condoglianze, Elisabetta si ritirava nel lontano castello scozzese di Balmoral. Non solo era incapace di esprimere pubblicamente il proprio cordoglio, ma rifiutava anche di far esibire la bandiera a

Il peso della corona

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er quasi 400 anni, l’Impero britannico ha gettato nel mondo le basi per la diffusione del proprio sistema economico, politico e della propria lingua. Come scrive lo storico Niall Ferguson, non è esagerato affermare che il mondo di oggi è in gran parte, nel bene e nel male, il prodotto dell’epoca imperiale britannica. Durante il regno di Giorgio V (1910-1936), il Regno Unito raggiunse la sua massima

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espansione, vantando circa un quinto della popolazione mondiale e un quarto della superficie delle terre emerse. Dalla Magna Carta. Nel giugno di ottocento anni fa, con la Magna Carta, un re inglese pose le basi dello Stato di diritto e della democrazia. Fu quel documento, redatto nella sua forma definitiva dopo la morte del Re d’Inghilterra Giovanni Senzaterra, che, nonostante le diverse modifiche

subite nel corso dei secoli da leggi emanate dal Parlamento, rappresenta tuttora la Carta fondamentale della monarchia britannica. Un centinaio di Re e Regine, appartenenti a varie dinastie (Tudor, Stuart, Hannover, Windsor), trovano spazio in un’epica storia durata quasi 1.200 anni. Uomini e donne, molto diversi tra loro, furono incoronati sul trono d’Inghilterra, mentre la dinastia reale

scozzese si unì a quella inglese solamente nel diciassettesimo secolo. Alcuni sedettero sul trono solo per qualche mese, altri regnarono con così lungo e grande splendore che intere epoche storiche sono state chiamate con i loro nomi (Elisabetta I, Vittoria). Tra questi sovrani alcuni furono addirittura venerati come santi: Alfredo il Grande (849899) ed Edgardo d’Inghilterra (944-975).

In guerra. Durante la Seconda guerra mondiale l’Impero britannico, assieme alle forze alleate, diede il maggior contributo alla formazione di quel prezioso patrimonio comune a cui pensiamo, quando diciamo Europa. Dopo la capitolazione di Parigi sotto l’offensiva tedesca, tutte le grandi potenze democratiche erano state sconfitte e il Regno Unito rappresentò l’unico faro della democrazia in Europa.

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mezz’asta sul Palazzo Reale, appellandosi alla tradizione che vuole che questa non venga innalzata se la regina non è presente. Freddezza di Stato. Per la prima volta nel suo lungo regno Elisabetta sembrò subire la forza della tradizione e del suo ruolo, che finirono per congelarne comportamenti e sentimenti. Quei valori monarchici, così essenziali per la sovrana, sembrarono inadeguati agli occhi degli inglesi. La tragedia di Parigi rappresentò il punto più critico per il regno di Elisabetta. La perdita della “Principessa del popolo”, come l’aveva definita Blair, fu cavalcata dalla stampa per sottolineare la lontananza della regina dai suoi sudditi. “Dov’è la regina?”, si chiedeva con un titolone in prima pagina il Sun. “La tua gente sta soffrendo. Parlaci, regina”, esortava il Mirror. Il Mail, da sempre baluardo della monarchia e dell’impero, la invitava a mettere perlomeno la bandiera a mezz’asta. Persino la Bbc si unì al coro. Paul Reynolds, il corrispondente storico della televisione pubblica da Buckingham Palace, criticò aspramente la validità dei vecchi comportamenti protocollari: “Credo che ci si debbano porre molti interrogativi sul futuro della monarchia e sul suo stile”, disse durante il telegiornale. E Jon Snow, uno dei volti più noti del giornalismo televisivo, rincarava su Channel Four: “I Windsor sembrano estranei al dolore e all’affetto che Londra sente per la principessa”. Discorso ai sudditi. Poi, Elisabetta uscì finalmente dall’impasse. Da Buckingham Palace si comunicò che la regina sarebbe rientrata a Londra, avrebbe presenziato ai funerali che sarebbero stati pubblici, come Blair aveva più volte consigliato (ma non di Stato), e che la bandiera reale, nonostante la tradizione, sarebbe sventolata a mezz’asta sul pennone più alto di Buckingham Palace. Si chiarì nell’occasione che il funerale di Sta-

RITRATTO DI FAMIGLIA

A sinistra, in alto: il matrimonio di Carlo e Diana il 29 luglio 1981. Sotto, Elisabetta e la Regina madre ai funerali di Diana. Qui sotto, la famiglia di William, nipote della regina: oltre a Kate Middleton, George e Charlotte.

to, massima onorificenza funebre prevista nel Regno Unito, era appannaggio solo dei sovrani, degli eredi al trono e degli “eroi nazionali”. Elisabetta II aveva optato per quello che il protocollo chiama “funerale reale cerimoniale”, di norma riservato ai membri della famiglia reale, da cui Diana era stata formalmente estromessa dopo il divorzio. Il 5 settembre 1997 la sovrana si risolse finalmente a parlare ai suoi sudditi e, in diretta televisiva, alla vigilia dei funerali ricordò Diana. Il giorno successivo due miliardi di persone seguirono in diretta le esequie di Lady D: è stato uno degli eventi televisivi più visti della Storia. Gli eredi. A quasi vent’anni da quei momenti così difficili, l’attenzione ora è tutta sul futuro. Chi erediterà la corona? Fra i primi in ordine di successione ci sono Carlo, figlio della regina; William, primogenito di Carlo e Diana; i figli di William George (tre anni) e Charlotte (un anno a luglio). La prospettiva della corona a Carlo, ormai 66enne, non fa brillare di entusiasmo Elisabetta (che del resto non è mai stata particolarmente tenera col figlio). Anzi, sembra molto più presa dalla famiglia di William e dagli illustri nipotini. Ma questa è un’altra storia. • Francesco De Leo

ETICHETTA

Pranzare e conversare con la REGINA non è una passeggiata. Ecco come ci si deve comportare secondo le regole del PROTOCOLLO

L’OSPITE A DESTRA

Banchetto per la visita di Stato di Nicolas Sarkozy (alla destra della regina): Elisabetta fa gli “onori di casa”. Marzo 2008.

Al cospetto di

S

SUA MAESTÀ

e per i comuni mortali l’unico modo di incontrare la regina è attraverso giornali e tv, chi ha o ha avuto il privilegio di stare a tu per tu con lei si è dovuto preparare per il fatidico incontro. Sebbene per Buckingham Palace ufficialmente non esistano “codici di comportamento obbligatori, basta una leggera flessione del capo per gli uomini, un piccolo inchino per le donne”, nella realtà il mondo del galateo reale è ricco di abitudini e leggi di comportamento non scritte, complesse e... puntualmente infrante. Come accadde a Michelle Obama nel 2009, 52

quando salutò Sua Maestà con un caloroso abbraccio contravvenendo alla regola numero uno: mai toccare un monarca. Alla regola numero due, ascoltare l’inno nazionale in silenzio, pensò invece il marito, che propose un brindisi alzando il calice e iniziando un discorso proprio sulle prime note di God Save the Queen. Nel Regno Unito l’inno si ascolta in silenzio, invece l’ignaro Barack continuò a parlare. Elisabetta posò il bicchiere alquanto imbarazzata, mentre il presidente continuava a tenere alto il calice e a rivolgerlo verso la sovrana... Il pranzo delle insidie. I guai co-

minciano fin da subito, quando si ha la (s)fortuna di essere invitati: non si può rifiutare un invito ufficiale della regina e chi ha il privilegio di riceverlo, dovrà attenersi a regole da non trasgredire. Sarà seduto alla sua destra, se è un ospite d’onore, e la padrona di casa rivolgerà a lui la prima parola. La conversazione durerà sino al termine della prima portata e sarà solo quando comincerà a essere servito il secondo piatto che la regina rivolgerà l’attenzione all’ospite alla sua sinistra. Sarà il caso di evitare discorsi di natura politica e religiosa, ma soprattutto nessun argomento trattato dovrà essere

IL BANCHETTO

Una giornata particolare

Elisabetta inaugura con un discorso di benvenuto il banchetto in onore del presidente irlandese Michael D. Higgins (aprile 2014).

È

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a Buckingham Palace che la regina svolge le sue funzioni. Ecco la sua giornata-tipo. 7:30 Una dama apre le tende nella camera da letto. Elisabetta si alza e fa colazione con pane tostato, marmellata e una tazza di tè. Intanto ascolta le prime notizie da una piccola radio su Radio 4 della Bbc e dà uno sguardo ai giornali, con il Racing Post, popolare giornale dedicato alle corse dei cavalli, in cima alla mazzetta. 10:00 Passa nel suo studio, fa telefonate e inizia a leggere alcune delle molte lettere che riceve quotidianamente. Se non sono previste cerimonie ufficiali, la maggior parte della mattinata trascorre alla scrivania, per prendere visione dei documenti governativi. Sir Christopher Edward Wollaston MacKenzie Geidt, il segretario privato, è il primo visitatore a

divulgato alla stampa. Attenzione poi, durante il convivio, a sollevare il calice di vino dal gambo e ad appoggiare la tazza sul piattino, dopo ogni sorso di tè. Per non sbagliare c’è un trucco: seguire i comportamenti della sovrana. Per esempio sedersi dopo di lei, smettere di mangiare quando smette lei, bere solo dopo che lo abbia fatto la regina. Impegnativo, ma inezie rispetto al passato. Cani reali. Ai tempi della Regina Vittoria erano guai per i commensali. La sovrana mangiava così velocemente, che le bastavano meno di trenta minuti per sette portate. Visto che quando la re-

gina terminava, tutti i piatti dei presenti erano ritirati, c’era sempre qualcuno che restava a digiuno. Ma tornando ai Windsor, un’altra raccomandazione è utile se si incappa nei cani di Sua Maestà, gli amati corgi. I sovrani britannici considerano gli animali domestici parte della famiglia e potrebbe capitare di incontrarli mentre si è a tavola. Ebbene, non vanno accarezzati. Una volta Elisabetta II, durante un pranzo informale, disse a un ospite: «Li lasci in pace per favore, sono i miei cani e non amano essere accarezzati da altri». Chi serve in tavola è comunque ben preparato: ha bombo-

essere ammesso nello studio. Suoi compiti: organizzare le visite reali, preparare i discorsi, organizzare gli archivi reali, la segreteria del palazzo e il servizio stampa, predisporre l’agenda della regina, informarla su tutto e consigliarla. Dopo di lui è il turno del Maestro della Casa. Super amministratore, è l’uomo di riferimento per il personale e l’organizzatore dei ricevimenti. Ha con sé il menù-book, dove la regina semplicemente cancella quello che non desidera. 15:00 Pomeriggio dedicato alle visite ufficiali – sempre più rare – in compagnia della sua dama d’onore. 16:30 È il momento di un tè pomeridiano, accompagnato da dolcetti, torte e focaccine. 18:30 quotidiano arrivo da Westminster del rapporto sugli atti parlamentari della giornata.

lette di seltz, da usare all’occorrenza per allontanare i cani dalle caviglie dei commensali, ed è munito di carta assorbente per rimediare a spiacevoli incidenti. Giù le mani! Ci sono norme precise anche per incontri più brevi con la regina. Non la si baci, non la si tocchi, ci si inchini anche più volte, se è il caso. Toccherà a lei la prima parola, il più delle volte con il classico “viene da lontano?”, la frase più usata da Elisabetta. Per risponderle, la prima volta si utilizza la forma “Sua Altezza Reale”, successiva• mente può bastare un “Signora”. Francesco De Leo 53

L’ULTIMA TUDOR

RINASCIMENTO

INGLESE Nella seconda metà del ’500 la regina ELISABETTA I fece dell’Inghilterra un centro di potere e CULTURA

È

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REGINA DEI MARI

Elisabetta I nel Ritratto dell’Armada: dietro la regina è dipinta la flotta spagnola sbaragliata dagli inglesi nel 1588.

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il 9 agosto 1588 e a Tilbury, nel Sud-Est della Gran Bretagna, le truppe inglesi sono radunate in attesa che dal mare sbarchi l’Invencible armada, la temutissima flotta spagnola. Giunta in sella a un cavallo bianco, la regina Elisabetta I Tudor incoraggia i soldati: “So di possedere il corpo debole e fragile di una donna, ma ho il cuore e lo stomaco di un re. Io stessa imbraccerò le armi contro questi nemici di Dio”. Alla fine, i nemici di Dio non sbarcheranno e l’Inghilterra dominerà i mari consegnando al mito l’immagine di Elisabetta, attrice principale della golden age (l’età dell’oro) della storia inglese. Single per scelta. Nata il 7 settembre 1533 da Enrico VIII Tudor e Anna Bolena, Elisabetta I salì sul trono inglese (cui afferiva anche quello d’Irlanda) nel 1558. Ma arrivarci non fu una passeggiata. Per farlo dovette scalzare il posto di Maria I Tudor, la sorellastra nata dalla precedente unione di Enrico con Caterina d’Aragona che fu detta Bloody Mary (Maria la Sanguinaria) per la feroce persecuzione di numerosi protestanti. «A dispetto della volontà del padre, che aveva dato vita all’anglicanesimo – lo scisma della Chiesa d’Inghilterra da Roma – nei suoi cinque anni di regno Maria ordinò il ritorno alla fede cattolica e perseguì con forza ogni oppositore», racconta Giorgio Caravale, docente di Storia dell’Europa moderna all’Università di Roma Tre. «Sposò inoltre il cattolicissimo Filippo II e nel 1554 tenne a lungo prigioniera Elisabetta nelle celle della Torre di Londra». Ma dopo la morte della Sanguinaria, il 17 novembre 1558 salì al potere proprio Elisabetta, che

Prima di lei regnò la sorellastra Maria, detta “LA SANGUINARIA”, che perseguitò i protestanti nonostante lo SCISMA dalla Chiesa di Roma PACIFISTA?

ALINARI

Ne La Famiglia di Enrico VIII, Allegoria della successione Tudor (1572), Elisabetta (a destra) è vicino alla Pace.

Rivolta 1594-1601

Rivolta 1593-1603

Rivolta 1569-70

L’INGHILTERRA DI ELISABETTA

Rotta Invencible armada (1588) Spedizione inglese in Olanda (1585)

si fece subito apprezzare per il carattere forte e saggio, il brillante intelletto e la vasta cultura (parlava francese, italiano, spagnolo, greco e latino). Rossa di capelli ed elegantissima, trattò senza timore con uomini di ogni risma e ne sedusse molti, pur non volendosi mai sposare. Il suo unico scopo, sosteneva, era quello di dedicarsi al proprio amato Paese. “Non c’è gioiello, per quanto prezioso, che io anteponga a quest’altro gioiello”, affermò in proposito nel 1601 di fronte al parlamento. «Il rifiuto delle proposte che le vennero dalle corti d’Europa – che, secondo il costume dell’epoca, non erano altro che richieste di alleanza politica – fu in fondo un modo per ribadire l’indipendenza britannica», spiega Caravale. «Un’indipendenza che non voleva ingerenze e che era simboleggiata proprio dal celibato della sovrana, che le valse presto l’appellativo di Regina vergine (v. riquadro pagine seguenti): termine con cui si alludeva a una purezza politica e religiosa». RestauRazione anglicana. Elisabetta si occupò come prima cosa proprio di affari religiosi, emanando nel 1559 un Atto di uniformità che affermava la superiorità della Chiesa anglicana pur garantendo la tolleranza degli altri credo. In tempi di guerre di religione non era poco. Fu inoltre introdotto il Book of common prayer (Libro delle preghiere comuni, un misto di cattolicesimo e protestantesimo che deluse però l’ala protestante, i cosiddetti puritani). «Nello stesso anno fu reintrodotto l’Atto di supremazia – già voluto da Enrico VIII nel 1534 – che sanciva il primato della regina sulla Chiesa e la non ingerenza papale. Elisabetta fu poi abile a cercare un giusto equilibrio tra l’anima anglicana e quella puritana del Paese», dice l’esperto. Non per questo mancarono i grattacapi, a iniziare dai contrasti con la cugina-rivale Maria Stuart, sovrana di Scozia. Maria non riconosceva Elisabetta quale legittima erede al trono in quanto, prima dell’unione tra Enrico VIII e Anna Bolena, non vi era stato l’annullamento papale delle precedenti nozze regali. Sulla base di ciò, nel 1559 la Stuart si autoproclamò a sua volta sovrana d’Inghilterra. Poi, alle prese con una serie di rivolte capeggiate dal teologo protestante John Knox, fuggì dalla Scozia cercando riparo proprio presso Elisabetta, che in tutta risposta la mise sotto chiave nella Torre di Londra. Infine, allorché saltò fuori che – in combutta con Filippo II – era invischiata in cospirazioni contro la stessa Elisabetta, nel 1587 la scomoda Stuart finì sul patibolo. Quanto alla corona di Scozia, nel 1603 (anno della scomparsa di Elisabetta) venne fusa con quella inglese dando vita a un’unione formalizzata poi nel 1707 (e che oggi i separatisti scozzesi contestano). «I rapporti con la Spagna di Filippo II, padrona dei mari e intenta ad arricchirsi con i tesori dell’America, risentirono invece della condanna della cattoli-

NATIONAL GEOGRAPHIC STOCK

ca Stuart: da allora la rottura tra l’Asburgo ed Elisabetta, “colpevole” peraltro di aver rifiutato una sua proposta nuziale, divenne di fatto insanabile», spiega Caravale. Espansionismo piratEsco. Intanto la regina si concentrò sul suo Paese, rilanciandone l’economia: favorì sia lo sviluppo agricolo (ma il crescente fenomeno delle enclosures – “recinzioni” di terreni prima comuni da parte di grandi proprietari – penalizzò i contadini più poveri), sia le attività artigianali e manifatturiere. In poco tempo, grazie anche al supporto di rifugiati religiosi stranieri, sorsero imprese per la lavorazione del vetro, della ceramica e, in particolare, dei tessuti. La regina mostrò inoltre interesse per i problemi sociali favorendo un certo miglioramento delle condizioni di lavoro. «Si registrò quindi un progressivo espansionismo marittimo, che ebbe quale immediata conseguenza un rapido sviluppo della cartografica», riprende Caravale. «Le nuove rotte oceaniche contribuirono poi a migliorare l’attività commerciale e mercantile (inclusa la tratta degli schiavi), anche perché l’espansionismo riguardò sia l’America (dove il navigatore Walter Raleigh nel 1584 battezzò la colonia inglese Virginia, in onore di Elisabetta) sia l’Oriente, tanto che nel 1600 nacque la Compagnia britannica delle Indie Orientali, società con monopolio mercantile nell’area indiana». Erano i primi passi del futuro grande Impero britannico. Primi passi assistiti, soprattutto nel Nuovo Mondo, dai corsari (tra cui lo stesso Raleigh). Chi erano? Capitani di vascello ai quali la regina aveva concesso “patenti di corsa”, lettere che li autorizzavano ad attaccare le navi straniere, spagnole ma non solo. «Il corsaro più celebre fu Francis Drake, insignito addirittura del titolo di cavaliere», dice Caravale. «All’inizio il suo compito era quello di riempire le casse del regno con incursioni nelle colonie spagnole e assalti ai galeoni di ritorno in Europa, ma lui e gli altri corsari tornarono presto utili per ostacolare l’Invencible armada spagnola, grazie all’utilizzo di barche più piccole e veloci e alla maggior conoscenza dei venti e delle correnti della Manica». tra guErrE E complotti. Prima di scontrarsi in mare con gli spagnoli, l’Inghilterra dovette però fare i conti con altri fronti caldi, su tutti quello francese. Elisabetta appoggiò infatti gli ugonotti (così erano detti i calvinisti di Francia) perseguitati dai cattolici, e oltre a ciò sostenne i calvinisti belgi in lotta contro la Spagna. Entro i propri confini, la sovrana subì invece nuove congiure filocattoliche – una delle quali si concluse con la sua scomunica da parte di papa Pio V, nel 1570 – dalle quali uscì però sempre “viva e regnante” come si diceva allora. «Anche per questo sposò la causa protestante e assunse posizioni anticattoliche – che porteranno al massacro di

EROE NAZIONALE

Elisabetta ordina cavaliere Francis Drake a bordo della Golden Hind, il galeone con cui il corsaro circumnavigò il globo (1577-80).

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PER SUA MAESTÀ

La flotta inglese attacca l’Invencible armada, nel 1588. Sotto: Walter Raleigh, corsaro di Sua Maestà.

Elisabetta dovette affrontare diverse RIBELLIONI filocattoliche. E CATTOLICO fu il suo peggior NEMICO: Filippo II di Spagna

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migliaia di irlandesi cattolici – e, giocoforza, antispagnole. Nel 1585 inviò in segreto il conte di Leicester a sostenere i rivoltosi olandesi in guerra con la stessa Spagna», spiega Caravale. Fu proprio allora che Filippo II iniziò a meditare un’invasione dell’Inghilterra con la sua Armada. Detto fatto, tra fine luglio e inizio agosto 1588 l’Invencible si riversò nella Manica, ma già dal giorno 8 il destinò favorì la flotta inglese, che riuscì a ostacolare la manovra nemica con l’aiuto fortuito di una serie di tempeste, che costrinsero gli spagnoli a disperdersi nel Mare del Nord e lungo le coste irlandesi, dove molte navi naufragarono. Verso la fine. Ottenuto il dominio dei mari, l’interesse della regina tornò a volgere lo sguardo alla Francia, dove sostenne l’ascesa al trono del sovrano protestante Enrico IV di Borbone (che però poi si convertirà al cattolicesimo). In parallelo, seguitò ad aiutare i ribelli olandesi, senza smettere di sventare congiure di corte (nel 1599 ne fallì una dell’ex favorito Robert Devereaux). Alla fine, lo stress condusse Elisabetta alla depressione. La malinconia l’accompagnò fino al 24 marzo 1603, quando chiuse gli occhi sussurrando: “Chiamatemi un prete: ho intenzione di morire...”. Ironia della Storia, lo scettro passò a Giacomo I, figlio della decapitata Maria di Scozia. Fu dunque uno Stuart a porre il sigillo sull’epoca dei Tudor, ereditandone i fasti artistici. arti in fiore. Molti pittori avevano trovato ispirazione sotto Elisabetta recuperando, per omaggiare 58

la regina-mecenate, modelli antichi di divinità: rigorosamente vergini, intoccabili e bellissime. Idealizzazioni a parte, Londra era diventata con Elisabetta il cuore di una rivoluzione culturale che coinvolse la musica e l’architettura (influenzata dal Rinascimento italiano) e soprattutto il mondo dello spettacolo. Basti un nome per tutti: William Shakespeare. «Il suo teatro fuse tradizioni e generi passando dalla commedia alla tragedia, e proprio per questo seppe coinvolgere il popolino al pari degli uomini di corte, tutti pronti a osannare compagnie come quella dei Lord Chamberlain’s men. Fu quella la compagnia in cui lavorò lo stesso Shakespeare, divenuta poi King’s men proprio sotto Giacomo I», spiega Caravale. «In breve, se il dramma rinascimentale italiano assunse forme elitarie (piaceva solo ai nobili), quello elisabettiano, grazie anche al basso costo dei biglietti e al pathos delle sue trame, attirò invece ogni classe sociale fungendo da strumento di coesione e di consenso». Non a caso, fra i soggetti più popolari c’erano drammi storici che esaltavano il glorioso passato inglese. Mitizzata. L’età elisabettiana fu archiviata bruscamente nel 1649, quando la rivolta dei puritani portò alla soppressione (provvisoria) della monarchia in favore della repubblica e alla chiusura dei teatri. Ma quella stagione irripetibile della storia inglese diventerà a sua volta una gloria nazionale britannica. Anche perché per trovare sul trono una donna altrettanto amata dal popolo bisognerà attendere tre secoli e una seconda Elisabetta. Quella che oggi • è sul trono da più di 64 anni. Matteo Liberti

Illibata o soltanto politicamente pura?

N

onostante le molte proposte di matrimonio, Elisabetta rimase nubile e non ebbe eredi diretti. Il motivo di tale scelta (anomala per i tempi e fonte di vari pettegolezzi sui suoi orientamenti sessuali) è da sempre fonte di discussioni. Illazioni. Secondo alcuni la regina preferiva evitare rapporti sessuali a causa di lesioni vaginali causate dal vaiolo, mentre altri affermano che fosse sterile e che non vedeva perciò alcun senso nel maritarsi. Tale ritrosia le valse l’appellativo di Regina vergine, di cui lei stessa andò sempre fiera. Sono però pochi quelli che credono che fosse davvero illibata, e l’ostentata verginità

La luna crescente sulla corona ricorda Diana, la dea vergine della caccia.

sarebbe semmai da interpretare come metafora della purezza politica e religiosa del suo regno (la stessa Chiesa anglicana era considerata “vergine” poiché “rinnovata” rispetto al cattolicesimo). Tale purezza fu rappresentata dagli artisti di corte ispirandosi a divinità vergini come Diana e Astrea (dea della giustizia), nonché alla Madonna, simbolo di castità per eccellenza. Svantaggi. La maggior parte degli storici suggerisce che le vere ragioni del nubilato di Elisabetta siano da ricercare nel fatto che temeva di veder limitato il suo potere e di non poter gestire in piena autonomia il grande regno ereditato dal padre Enrico.

Il serpente col rubino in bocca rappresenta la prudenza e la saggezza.

L’arcobaleno trasparente nella mano destra è un simbolo di pace.

TUTTI I SEGNI DEL POTERE

Elisabetta nel celebre Ritratto dell’arcobaleno, che nel 1600 ne celebrò le virtù.

Sul manto ci sono occhi e orecchie ma non bocche: la regina vede, sente ma tiene i segreti.

REGNO UNITO

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L’ IMPERO della regina VITTORIA era immenso, ma di lei ricordiamo la CUFFIETTA, l’abito vedovile, la morale puritana imposta a tutti i SUDDITI e un certo GOSSIP su un cameriere...

Regina di

CUORI

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MONDADORI PORTFOLIO/ROYAL COLLECTION TRUST © HER MAJESTY QUEEN ELIZABETH II

A

INNAMORATA

A sinistra, una giovane Vittoria col principe Alberto, suo marito dal 1840 al 1861, anno in cui lui morì prematuramente. A destra, l’attendente John Brown, il cameriere scozzese che, secondo le malelingue dell’epoca, fu forse amante della regina.

lle 6 del mattino del 20 giugno 1837 l’arcivescovo di Canterbury e il ciambellano di corte, lord Francis Conyngham, svegliarono la principessa Vittoria per annunciarle che lo zio, re Guglielmo IV, era morto nella notte; e che quindi lei, in pantofole e camicia da notte, era la nuova regina d’Inghilterra. Un anno dopo, il 28 giugno 1838, fu incoronata nell’Abbazia di Westminster, indossando una lunga veste rossa bordata di ermellino, una corona costellata di diamanti, rubini e zaffiri, e stringendo in mano lo scettro. Regina a 18 anni. Alessandrina Vittoria, detta “Drina”, venuta al mondo a Kensington il 24 maggio 1819 da Edoardo duca di Kent (1767-1819), quartogenito di re Giorgio III, e dalla bellissima duchessa Vittoria di Sassonia-Coburgo (1786-1861), alla nascita era appena quarta in linea di successione al trono. Orfana di padre a otto mesi, morti gli zii, re Giorgio IV e suo fratello il duca di York senza lasciare figli legittimi, a 11 anni, piena di boccoli e appassionata di bambole e cagnolini, fu nominata “erede presunta”. E perciò oppressa dalla madre (“la seccatrice più implacabile e perseverante che ci sia” secondo il deputato Thomas Creevey) che, come scrisse nel suo diario, non la lasciava sola neanche di notte, la faceva seguire da un lacché in livrea, le vietava di scendere le scale senza qualcuno che la tenesse per mano. Il prestigio della corona era stato messo a dura prova dalla condotta scandalosa degli ultimi tre monar-

chi, come ha spiegato bene l’accademico francese Jacques Chastenet: “Il primo, re Giorgio III, soggetto a crisi cicliche di follia, il secondo, re Giorgio IV, un fatuo insopportabile, il terzo, Guglielmo IV, dai modi tanto rozzi che non vi fu mai un sovrano meno rispettato”. E che dire degli zii, duchi reali? “La più rara collezione di poveracci che si possa immaginare”. Con queste premesse, all’ascesa al trono della giovane principessa, bassina, colorita e rotondetta, sembrò spirare un venticello di aria fresca. Tanto più che Vittoria, come annotò lei stessa, entrò nel nuovo ruolo con straordinaria facilità, persino in mezzo a lord e ministri di Stato che avevano 3-4 volte la sua età, “come se fosse sul trono da sei anni, anziché sei giorni”, commentò il diarista Charles Greville. Parte del merito spettò al primo ministro lord Melbourne, aristocratico e beffardo leader dei whig, cioè dei liberali, che la addestrò superbamente agli altissimi compiti di regnante d’Inghilterra e governatore supremo della Chiesa anglicana cui era destinata, e per i quali l’educazione ricevuta dalla sua tata, la baronessa Lehzen, un’infarinatura di storia e geografia, ballo, inglese e francese, era carente. Basti sapere che fino a tre anni Vittoria parlava solo tedesco. Colpo di fulmine. A sua volta, il nuovo mentore fu gradualmente sostituito da un’altra figura maschile, addirittura abbagliante: Alberto di SassoniaCoburgo-Gotha, cugino di primo grado della giovane Vittoria, che per lui cadde letteralmente in estasi (“è bello... ha grandi occhi azzurri... naso delizioso...

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LUI era suo cugino, BELLO e AITANTE. Lei poco più che una linea mirabile, larga in spalle e sottile in vita”, scriverà sul diario nell’ottobre 1839) tanto da chiedergli apertamente di sposarla. Cosa che fece quattro mesi dopo, il 10 febbraio 1840, nella cappella reale del palazzo di Saint James, cerimonia seguita dal banchetto di nozze a Buckingham Palace, con torta da 150 chili decorata da cupidi e cuoricini di raso. La coppia partì subito dopo per un viaggio di nozze lampo nel Castello di Windsor: Alberto al galoppo, pallido e in uniforme tra due ali di folla esultante, e la regina al seguito in carrozza, raggiante nel suo vestito argentato trapunto di piume di raso. Pochi giorni dopo il ritorno, la nausea premonitrice annunciò la nascita della principessa reale Vittoria, Vicky, il 21 novembre successivo. Nuovamente incinta dopo soli tre mesi, la regina diede alla luce nel 1841 l’agognato erede maschio, Alberto Edoardo, Bertie, futuro re Edoardo VII, cui seguirono, al ritmo iniziale di uno ogni 12-16 mesi: la timida Alice, detta Alix, lo schivo Alfredo, la flemmatica Ele62

na, e ancora Luisa, Arturo e gli ultimogeniti – nati con il parto indolore (grazie a un fazzoletto imbevuto di cloroformio premuto sul naso, ribattezzato l’“anestesia della Regina”) – Leopoldo, in seguito scopertosi malato di emofilia (Vittoria ne era portatrice sana), e Beatrice, Baby, la figlia prediletta, nel 1857. Austerità a corte. Il matrimonio fu, evidentemente, felice e fecondo, nonostante la coppia reale avesse gusti diametralmente opposti: Alberto, spiega la scrittrice Carolly Erickson, era stato educato ai principi del luteranesimo, non beveva e non fumava, al fucile da caccia preferiva il pianoforte e alle dieci di sera già sonnecchiava sul divano. Vittoria, gaia, ma dal piglio autoritario, petulante per natura, adorava viaggiare e ballare tutta la notte. Comunque sposò in pieno la serietà del marito, trasformando la corte in un modello di rispettabilità e decoro per far dimenticare gli scandali passati. Introdusse una rigida etichetta anche nella residenza secondaria di Windsor, pretendendo il profondo inchino da parte delle dame,

ALBUM DI FAMIGLIA

Sopra, Vittoria a 18 anni. A sinistra, Lord Melbourne, il primo ministro che la educò. Sotto, la residenza di Balmoral; il castello scozzese era il buen retiro dei sovrani.

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Arrivano i Windsor

N RAGAZZINA, ma seduta su un trono IN POSA

Sopra, la regina Vittoria ritratta da Winterhalter (pittore tedesco che ha immortalato diversi regnanti) nel 1859, a 40 anni. In alto a destra, Giorgio IV, lo zio re che morì senza figli.

imponendo il colore delle piume nelle acconciature femminili e persino quello degli abiti maschili. Il principe consorte fu nominato tale solo nel 1857: inizialmente accolto con diffidenza (“È tedesco”, fu il lapidario giudizio di molti sudditi) non rimase con le mani in mano ideando l’Esposizione universale del 1851, che si tenne nel Crystal palace di Hyde Park, una struttura lunga 650 metri e larga 225, con 76 mila metri quadrati di spazi espositivi, visitati in sei mesi da 6 milioni di persone. Un grande evento che pose la Gran Bretagna alla testa del progresso tecnologico mondiale. Alberto rimise in ordine i conti della casa reale, abolendo sprechi e inefficienze, e nonostante le simpatie tory (conservatrici) divenne il più fidato consigliere della regina, influenzandola sia in politica interna che sul fronte della politica estera. Inconsolabile. La prova evidente della simbiosi in cui viveva la coppia reale fu la morte improvvisa del quarantaduenne Alberto, il 14 dicembre 1861, causata da febbre tifoide, inizialmente scambiata per

on tutti sanno che il nome dell’attuale casa reale inglese in origine era un altro: Sassonia-CoburgoGotha. Il cambiamento si deve al forte sentimento anti-tedesco sorto durante la Prima guerra mondiale, che raggiunse il suo apice nel 1917, quando un aereo Gotha G.IV bombardò Londra. Per far dimenticare ai sudditi britannici la parentela tra le dinastie tedesca e inglese, re Giorgio V, figlio di Edoardo VII e nipote della regina Vittoria, prese la decisione di assumere il cognome inglese Windsor in sostituzione di Sassonia-CoburgoGotha, ramo minore della millenaria casata sassone dei Wettin. Suscitando con questo l’ironia del cugino, il kaiser Guglielmo, che propose di ribattezzare

una nota commedia shakespeariana Le allegre comari di Sassonia-CoburgoGotha (anziché di Windsor). Montagne. In quel frangente anche la famiglia Battenberg, dalla quale discende Filippo, duca di Edimburgo e marito dell’attuale sovrana, cambiò nome in Mountbatten (la parola tedesca berg e quella inglese mount significano entrambe “monte”). Nel 1960 Elisabetta II (cugina di terzo grado del suo stesso consorte, essendo entrambi discendenti di Cristiano IX di Danimarca e pronipoti di Vittoria) ha confermato per sé e per i propri figli il cognome Windsor. Ma in omaggio al marito ha scelto il cognome Mountbatten-Windsor per gli altri discendenti maschi, salvo le altezze reali.

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influenza (“Non c’è ragione di preoccuparsi”, disse il medico sir James Clark). Evento che fece precipitare la consorte nel buco nero della depressione: “Non muovevo un dito, non mettevo una cuffia o una gonna senza la sua approvazione”, scriverà alla figlia. Vittoria si ritirò in un volontario esilio dalla vita pubblica e scelse di indossare il lutto per il resto della vita. «Il culto funebre per il principe consorte», spiegava lo storico francese Roland Marx, docente alla Sorbona e autore di un saggio sulla regina, «sfiorò la morbosità: per quasi quarant’anni la vedova ordinò che gli appartamenti del principe, rimasti immutati, fossero riordinati, gli abiti spazzolati ogni giorno, acqua fresca versata ogni mattina nel suo lavabo». La residenza scozzese di Balmoral, acquistata dal principe Alberto nel 1852, venne disseminata di obelischi, piramidi, cenotafi, statue e sedili di granito dedicati al “caro angelo, il più amato degli esseri viventi”. In campagna la regina coltivava le sue passioni: il piccolo ricamo, i cani, la botanica e l’ornitologia. Il suo esilio volontario venne però accolto con sfavore crescente, resuscitò ondate anti-monarchiche (dal 1840 al 1882 la regina Vittoria fu oggetto di sette attentati) e alimentò nuove maldicenze sul rapporto 64

MARY EVANS/SCALA

Dopo la MORTE di Alberto si ritirò dalla vita PUBBLICA per dieci anni e indossò il LUTTO per il resto della VITA della sovrana con il suo attendente, il cameriere scozzese John Brown, più giovane di sette anni, onnipresente, attento e premuroso nel suo kilt con il tartan degli Stuart. Lo aveva scelto lo stesso Alberto nei giorni felici di Balmoral, la regina lo nominò addirittura lord. Le rimase al fianco fino alla morte improvvisa, all’età di 57 anni. Come conferma lo storico Roland Marx, si sparse la voce di un loro matrimonio segreto, si ipotizzò addirittura che il vero motivo della volontaria reclusione di Vittoria fosse una gravidanza. All’inizio del suo regno era stata chiamata ironicamente “signora Melbourne” per l’ascendente che il primo ministro aveva esercitato su di lei, così adesso passava per “signora Brown”. Dall’ironia al trionfo. Fu solo nei primi Anni ’70 che Vittoria riapparve gradualmente sulla scena pubblica, guadagnando in popolarità. Il motivo scatenante fu la vittoria elettorale del galante premier conservatore Benjamin Disraeli (eletto nel 1868 e di nuovo nel 1874) che, contrariamente al rivale politico William Gladstone, le suscitava immensa fiducia. La politica inglese in quegli anni cambiò: dopo il ruolo pacifista svolto dalla Corona nei decenni precedenti, salva la partecipazione alla guerra di Crimea

GENEALOGIA

Nella cartolina, Vittoria con, in alto, il figlio Edoardo VII e la moglie Alessandra di Danimarca; in basso il nipote Giorgio V con la consorte Mary di Teck e il figlioletto Edoardo VIII. In alto a sinistra, Vittoria e Alberto nel 1854 in una foto che rievoca il loro matrimonio (avvenuto nel 1840).

SCALA (3)

VERSIONE NONNA

La regina Vittoria (a sinistra) alle terme di Aix-les-Bains, sud della Francia, con la figlia minore Beatrice, generi e nipotini. La foto è del 1885.

(1853-56), dal 1870 la regina sposò in pieno la politica imperialista, e il suo volto, trasfigurato da capelli bianchi, guance cascanti, occhi slavati, diventò l’immagine della grandiosità dell’Impero britannico. Nel 1840 era finita sul primo francobollo della Storia, il famoso e raro Penny Black, ora fu ritratta su piatti, tazze, monete e scatole di tè. Nell’immaginario collettivo la regina, imparentata con quasi tutte le famiglie regnanti europee, divenne la “madre bianca” e la “nonna d’Europa”. Furono avvolte nel trionfo e nell’adorazione le sue “nozze d’oro” con il regno (il giubileo del 21 giugno 1887) e quelle di diamante (giubileo del 22 giugno 1897), vissute su una sedia a rotelle per i postumi di una caduta, tra teste coronate, truppe coloniali e oceani di folla a cantare in coro, spontaneamente, l’inno britannico Dio salvi la

regina (composto nel 1745 per re Giorgio II e per lei cambiato dalla versione maschile God save the king). Di fatto, la regina si occupava più degli affari domestici delle sue dame – con inchieste penetranti su cameriere e cuoche – che di foreign affairs. Vivo Alberto “Vittoria fu in sostanza un semplice accessorio”, scriveva Lytton Strachey, biografo della sovrana. Poi lasciò carta bianca ai suoi primi ministri. Durante il lutto “le redini del potere caddero inevitabilmente nel pugno vigoroso di Mr. Gladstone, di lord Beaconsfield (Disraeli, ndr) e di lord Salisbury. [...] Alla fine del suo regno, la Corona era meno potente di quanto fosse mai stata in qualsiasi altro periodo della storia inglese”. L’epilogo. La sovrana uscì di scena pochi anni dopo: morì il 22 gennaio 1901, nella tenuta di Osborne, sull’Isola di Wight, dove passava sempre il Natale. Per aiutare i suoi sudditi a elaborare il lutto lasciò istruzioni precise sulle sue esequie: tra le altre, l’abito bianco che avrebbe indossato, il velo da sposa, nella mano destra un cappello del principe Alberto e, nella sinistra, un mazzolino di fiori a nascondere la foto e una ciocca di capelli di John Brown. Diresse persino la regia del suo corteo funebre, con il feretro issato su un affusto di cannone, trasportato prima sullo yacht reale Albert, poi in treno fino alla stazione Victoria, quindi per le strade di Londra in un lento e sontuoso corteo aperto dal figlio Edoardo VII (un gaudente che lei aveva sempre disprezzato, considerandolo frivolo e irresponsabile). Gran finale al Castello di Windsor, dentro il mausoleo reale di Frogmore, nella tomba di fianco al suo Albert. Anni prima vi aveva fatto incidere la frase: “Addio mio amato, • qui, finalmente, riposerò con te”. Claudia Giammatteo

come ha spiegato la biografa americana Carolly Erickson: «Da una parte si coprivano le gambe dei tavoli e dei pianoforti, perché ricordavano quelle delle mogli, i vestiti non lasciavano scoperto nessun lembo di pelle (a destra, corsetto e stivaletti di seta, dal Victoria and Albert Museum di Londra), l’Economist non parlava di pubblica igiene per evitare termini sconvenienti e l’Accademia reale di pittura vietava agli allievi non sposati

i nudi femminili». Dall’altra, «il borghese che di giorno passeggiava per la City e frequentava i club esclusivi, di notte sfogava nell’East End i più bassi istinti. Donne nude si esibivano sui palcoscenici dei locali notturni, o battevano il marciapiede nei parchi pubblici a prezzi bassissimi». Lo scenario ideale per le scorribande sanguinarie di Jack lo Squartatore, che nel 1888 fece cinque vittime.

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oto come “epoca vittoriana”, il regno della regina Vittoria cambiò faccia all’Inghilterra trasformando l’agricola e aristocratica Old merry England in una potenza industriale, con un ceto borghese e una popolazione in crescita (dal 1800 al 1851 passò da 9 a 21 milioni di abitanti). Quest’epoca ebbe anche un altro tratto distintivo: una fenomenale ondata di puritanesimo e rigore morale che nascondeva molta ipocrisia,

SCALA (2)

Costumi vittoriani

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UNTO DEL SIGNORE

QUEL CHE RESTA DI KAROLUS

Reliquiario con le fattezze di Carlo Magno conservato ad Aquisgrana. Risale alla metà del XIV secolo. A sinistra, il signum (la firma) del re: il monogramma formato dalle consonanti di Karolus.

Da re dei barbari Franchi a IMPERATORE ROMANO e leader della CRISTIANITÀ. L’incredibile ascesa di CARLO, “MAGNO” per il suo biografo ma anche per la Storia

L’inventore del

MEDIOEVO IN MANO SUA

Qui sotto, la spada e il fodero (d’oro e pietre preziose) appartenuti, si ritiene, a Carlo Magno. Oggi sono al Louvre di Parigi.

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N

on si sa di preciso quando e dove fosse nato, eppure su Carlo Magno si è ricamato moltissimo. Per molti secoli è stato tramandato come una sorta di quarto re magio o di Babbo Natale d’Oltralpe (folta barba riccioluta, aria patriarcale) venuto a salvarci dal caos. Come in ogni mito, un po’ di verità c’è. In fondo il Medioevo come ce lo immaginiamo oggi prese forma proprio nel segno di Carlo Magno. Sulle tracce di un mito. Quello che sappiamo della sua vita è frutto di un mosaico plurisecolare. «Più di mille storie, parzialmente o interamente apocrife», enumera lo storico Derek Wilson, «andarono ad aggiungersi al corpus delle opere che ne celebrarono i successi. Pellegrino, crociato, guerriero cristiano, cavaliere, esempio di perfetta monarchia, specchio di moralità, principe colto, antenato rivendicato da sovrani, protettore della Chiesa, santo». C’è persino chi ha raffigurato il re dei Franchi come un goffo buontempone (da cui, pare, l’espressione “fare le cose alla carlona”). Carlo Magno, però, non portava la barba, tutt’al più sfoggiava un bel paio di baffi, checché ne dicano i suoi ritrattisti postumi. Ed era, sì, qualche volta, buontempone, benché solo con amici e familiari: con chi gli faceva uno sgarbo o disubbidiva ai suoi ordini sapeva essere spietato. E nessuno può negare che abbia di fatto rifondato l’Impero romano d’Occidente e plasmato l’identità d’un continente, l’Europa che tuttora siede nei palazzi di Bruxelles e Strasburgo. Carlo fu infatti il primo costruttore dell’Europa nordica e continentale. Quella latino-germanica, di cui, ha scritto il medievista Alessandro Barbero,

«la Francia e la Germania sono i partner principali, e in cui l’Italia padana è più integrata del Mezzogiorno, la Catalogna più del resto della Spagna, mentre la Gran Bretagna continua a esserle in qualche misura estranea». Carlo ha “inventato” anche la casa comune di rito latino, le famose “radici cristiane” cui si sono richiamati più volte papa Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Conquistatore. Dal padre Pipino, il futuro Carlo Magno ereditò, venticinquenne, una bella fetta di Europa Centrale. Alla morte del fratellorivale Carlomanno (771), con un colpo di mano si annesse il suo regno. Quando morì, a 72 anni, nell’814, lasciò un impero più che doppio rispetto al regno originario. Un dominio che andava dai Pirenei al fiume Elba, dall’Italia Centrosettentrionale (Istria compresa) all’Ungheria fino al corso del Danubio. I Franchi si erano imposti da tempo sugli altri popoli germanici, insediandosi in Gallia. Quei barbari cristianizzati giganteggiavano sui loro rivali. E non è solo un modo di dire. Grand’uomo. Carlo Magno era un colosso di quasi due metri (un record per quei tempi). Merito forse dei suoi gusti alimentari. Era un accanito consumatore di carne (ne mangiava ogni giorno, come del resto quasi tutti i nobili) e negli ultimi anni si ritrovò a litigare con i medici, che tentarono inutilmente di convertirlo a una “dieta” a base di bolliti. Per abbozzare il suo aspetto fisico possiamo rifarci al “ritratto” che dei Franchi fecero gli antichi: rossi di capelli e con gli occhi azzurri, baffi sottili, chiome fluenti e nuca rasata, abili a cavalcare e maneggiare la “francisca”, l’ascia da lancio che prendeva nome da loro. Erano abituati a guerreggiare praticamente ogni estate, deliberando in assemblee generali di primavera le campagne militari. 67

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I FRANCHI si imposero su TUTTI anche perché si consideravano il popolo ELETTO dal Signore Non erano solo il temperamento bellicoso o brutali mire espansionistiche a spingerli alla conquista continua. C’era anche il senso d’una missione da compiere: missione divina, naturalmente. Nella sua vita, Carlo non fece che portare alle estreme conseguenze il senso di superiorità radicato nella sua gente. Paladino. La dinastia merovingia, fondatrice della potenza franca, si credeva discendente da un principe troiano (Francione) e, dunque, consanguinea dei Romani. Non solo: il capostipite Clodoveo si era convertito al cristianesimo nel 496, aderendo alla confessione cattolica, mentre gli altri popoli barbari, Longobardi in testa, avevano abbracciato la dottrina ariana, giudicata eretica dalla Chiesa di Roma. Moralmente i Franchi si sentivano persino superiori ai Romani: questi ultimi, infatti, non avevano forse perseguitato i cristiani? Ben presto il desti68

no di quel popolo che si considerava eletto incrociò quello del papato, insofferente al controllo di Bisanzio e nemico dei Longobardi (ariani). Pipino III, salito al trono nel 751, venne consacrato re dal papa e fu il primo “unto del Signore”. L’investitura divina, trasmessa dal vescovo di Roma, prese il posto del diritto di sangue e da allora fu il marchio di autenticità dei re medioevali. Un pio barbaro. Carlo interpretò radicalmente la propria missione. Si credette, e fu ritenuto dai contemporanei, un novello re Davide o, meglio ancora, una reincarnazione di Giosuè, il patriarca che aveva condotto gli Ebrei alla Terra promessa. Non si limitò al ruolo di difensore della fede: si erse a guida morale e riformatore della Chiesa e della società, che sotto di lui divenne feudale a tutti gli effetti. Si dimostrò il vero capo del popolo di Dio, dettando la linea persino al papa.

ETÀ DELL’ORO

Sopra, un dipinto ottocentesco con Carlo Magno che attraversa le Alpi, nel 773. A destra, Il trionfo della Virtù sul Diavolo, bassorilievo di un artista della scuola di palazzo di Carlo Magno.

La famiglia allargata dei carolingi

S

olo nel talamo coniugale Carlo Magno non fu ligio alle regole della Chiesa. Si mantenne fedele alla tradizione germanica, che considerava il matrimonio un contratto senza valore sacrale e consentiva ripudio e due tipi di unioni: il matrimonio ufficiale, sancito da un contratto pubblico, e la cosiddetta Friedelehe, frutto di un accordo privato ed equivalente al nostro concubinato.

Figliolanza. Carlo, che pare fosse molto sensuale e passionale, ebbe 5 mogli, 6 concubine e almeno 20 figli (10 maschi e 10 femmine). Il primogenito, Pipino il Gobbo, nato come lui fuori dal matrimonio, venne ripudiato assieme alla madre in quanto erede illegittimo. Carlo ribattezzò poi Pipino il successore designato: Carlomanno, il secondo figlio avuto dalla terza moglie

(Ildegarda). Gli ultimi tre maschi li concepì dopo i sessanta. La sua predilezione andò comunque sempre alle figlie, cui vietò di sposarsi. Il che alimentò il malevolo sospetto di rapporti incestuosi.

IL NIPOTE

Lotario, nipote di Carlo Magno e re d’Italia dall’822 all’850.

Per quanto legato a usi barbarici poco ortodossi per un credente, specie nella vita privata (v. riquadro in alto), Carlo credeva davvero nel dovere di persuadere i cristiani a vivere come una comunità di fratelli. È vero, amava i piaceri terreni (le donne, la caccia, i cavalli, la cacciagione allo spiedo), ma era anche un uomo pio, che recitava le preghiere al mattino prima ancora di vestirsi, e assisteva a due messe al giorno. Un potente che rifuggiva lo sfarzo e che, anche mentre banchettava, amava farsi leggere passi del De civitate Dei di Sant’Agostino, il suo vangelo personale. Il libro di Agostino gli indicava la meta. Condottiero. «Era necessario innalzare il pensiero dall’Urbe, la Città terrena, verso l’ordine incrollabile, la Città di Dio sorretta dall’amore», scrive lo storico Franco Cardini. Per farlo, Carlo rispolverò il ruolo, antichissimo, di sovrano mediatore tra la Terra e il Cielo, re e sommo sacerdote insieme. Convertire i pagani, anche con le armi, divenne un imperativo. La lotta al paganesimo e ai sacrilegi commessi dai pagani fu a un tempo molla e alibi della sua azione di conquista. 69

GLI UFFICI DI RAPPRESENTANZA

G. ALBERTINI

Il complesso comprendeva la sala per le udienze e per i ricevimenti.

LE RESIDENZE ABITUALI

CENTRO DI POTERE

In privato Carlo viveva ancora alla vecchia maniera dei Franchi: all’interno di semplici capanne.

LESSING

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Ad Aquisgrana, in Germania, Carlo Magno stabilì la sua residenza. Vi costruì un maestoso palazzo, di cui oggi resta la raffinata cappella Esemplare il caso italiano. Carlo superò le Alpi nel 773 per soccorrere papa Adriano I, aggredito dal re longobardo Desiderio. Questo nonostante i rapporti tra Franchi e Longobardi fossero stati sempre buoni. Carlo aveva persino sposato la figlia di Desiderio, quella che Manzoni, nell’Adelchi, chiamerà (inventandosi il nome) Ermengarda. Con un lungo assedio, Carlo espugnò Pavia. Dopodiché in un solo colpo spedì in convento il rivale, creò lo Stato pontificio e si fece incoronare re d’Italia, indossando la Corona Ferrea longobarda. Nemici germanici. Dal 772 il gigante franco aveva intrapreso un’altra guerra, la più lunga e sanguinosa: quella contro i “cugini” Sassoni, stanzia70

ti fra Germania del Nord e Danimarca. Durò, con varie pause, oltre 20 anni. Appena si distraeva, i vicini, capeggiati dal re Vitichindo, si sollevavano e contrattaccavano. Carlo ricorse al pugno di ferro, giungendo fino alla pulizia etnica e alle deportazioni. Promulgò una legge che li obbligava a battezzarsi e che puniva con la morte chiunque violasse precetti e sacramenti cattolici. Altrettanto implacabile fu, nel 787, quando invase la Baviera per reprimere le fregole espansionistiche di un certo Tassilone III, alleato dei Longobardi. Fu poi la volta degli Avari, stanziati tra Croazia e Ungheria: ne risultò il più ricco bottino della sto-

ETÀ DELL’ORO

Sopra, una moneta d’oro con l’effigie di Carlo. In alto a sinistra, il trono di Carlo Magno nella Cappella Palatina della Cattedrale di Aquisgrana e un reliquiario (sempre di Aquisgrana).

LE TERME

Erano molto amate da Carlo (grande nuotatore). Le antiche popolazioni celtiche si insediarono in questi luoghi proprio per le sorgenti d’acqua calda.

CAPPELLA PALATINA

Fu consacrata nell’804. Considerata un capolavoro carolingio, la Cappella Palatina è oggi il nucleo più antico della Cattedrale di Aquisgrana.

AMMINISTRAZIONE

Le altre aree comprendevano gli uffici amministrativi, la guardia e la foresteria.

ria carolingia (15 carri ricolmi di ori e di argenti). In mezzo, una congiura sventata, ordita contro di lui dal figlio Pipino, e un fiasco in Spagna, dov’era intervenuto, sollecitato dal califfato di Baghdad, per spodestare l’emiro di Cordoba. La spedizione fallì e l’armata carolingia fu decimata dai Baschi (e non dai Mori, come tramanda la tradizione) al passo di Roncisvalle. Una disfatta che se non altro valse all’Occidente un caposaldo della poesia epica, la Chanson de Roland. Carlo sfuggì all’imboscata dei Baschi. Del resto, nella sua lunga carriera di condottiero partecipò a pochi scontri in campo aperto: si distinse più per gli assedi. Per vincere, i Franchi del IX secolo puntava-

no sull’imponenza dell’esercito: schierando due o tre armate alla volta e logorando l’avversario. E contando sulla cavalleria, resa invincibile anche dall’uso della staffa (impiegata dai popoli orientali ma poco diffusa in Europa Orientale). La reggia. A quel punto, il re dei Franchi controllava tutto l’ex Impero romano d’Occidente. Gli mancavano una reggia e l’incoronazione per dirsi imperatore a pieno titolo. Cominciò a edificare la sua Costantinopoli nel 794, ad Aquisgrana (oggi Aachen, in Germania). Una residenza maestosa, che sfidava i palazzi dei re goti e dei basileis bizantini, e in cui sala del trono e chiesa si fondevano, significativamente, in un unico ambiente. 71

ROGER VIOLLET/ALINARI

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L’INCORONAZIONE dell’800 non fu un atto di sottomissione al papa: era la conferma che Carlo Magno guidava la nuova POTENZA cristiana Relax e cultura. Carlo, che amava nuotare e fare il bagno in folta compagnia, aveva scelto quel luogo anche per la ricchezza di acque termali: aveva dotato la reggia di piscine d’acqua calda e se ne stava volentieri a mollo, scherzando con le figlie o discettando di religione e giustizia con l’amico Alcuino e altri sapienti. Seminalfabeta (era stato istruito dopo i trent’anni), Carlo parlava il francone e leggeva il latino. Apponeva giusto le sue iniziali su lettere e documenti, e tuttavia era animato da una profonda sete di conoscenza e aveva doti oratorie. Trasformò il suo palazzo in un centro di studi, la Scuola Palatina. Non solo. Riscrisse le regole del sistema ecclesiastico, emendò la Bibbia, uniformò gli usi liturgici, promosse l’istruzione. Infine si propose come supremo custode dell’ortodossia cattolica: un’autorità più forte del papa sul terreno specifico del papa. Santificato. È vero, c’è la scena-clou dell’intera storia medioevale: la corona di “imperatore dei Romani” postagli in capo da Leone III, la mattina di Natale dell’800, in San Pietro. Il biografo ufficia72

le di Carlo, Eginardo (v. riquadro a destra), scrisse che il re era contrariato, quasi che l’investitura l’avesse colto in contropiede. In realtà fu tutto concordato. Il papa l’aveva chiamato perché lo difendesse da una congiura di palazzo. L’imposizione della corona poteva esser interpretata come un’affermazione di supremazia pontificia. In realtà era Carlo, ormai padrone d’Europa, a comandare. Lui stesso aveva messo sotto processo il papa e aveva fatto annullare le decisioni del concilio di Nicea, con il quale l’imperatrice bizantina Irene aveva restaurato il culto delle immagini sacre. Carlo era infatti favorevole all’iconoclastia (la “guerra alle immagini sacre”) e Roma dovette adattarsi. L’ex barbaro regnava di fatto sull’Urbe e sull’Orbe. Dopo la sua morte, Carlo entrò direttamente nel mito. Quando, nell’Anno Mille, i suoi (presunti) resti furono riesumati, chi c’era riferì che il re aveva ancora la corona in testa e stava seduto in trono. Le sue unghie avevano continuato a crescere e il corpo, intatto, spandeva un soave profu• mo. Come quello dei santi. Dario Biagi

MAI PERDERE LE STAFFE

Sopra, Carlo contro i Saraceni in Spagna nel 778. Secondo alcuni storici l’impiego delle staffe avvantaggiò i Franchi sul campo di battaglia. A sinistra, il reliquiario con il braccio di Carlo Magno, amputato (pare) nel XII secolo da Federico Barbarossa. Il corpo del re fu dissotterrato e smembrato per ricavarne reliquie.

SCALA

IL MOMENTO CLOU

Papa Leone III incorona Carlo Magno nella cattedrale di San Pietro a Roma in una miniatura del Quattrocento.

COSÌ CARLO CONTROLLAVA TUTTO

L’organizzazione del regno carolingio fornì le basi della società feudale medioevale. REGNI

MARCHE

CONTEE

DIOCESI

DUCATI

Entità territoriali come l’Italia o l’Aquitania.

Raggruppamenti di varie contee in zone di confine.

Circoscrizioni amministrative.

Unità territoriali appartenenti alla Chiesa.

Territori divisi su base etnica, con capi locali.

RE

MARCHESI

CONTI

VESCOVI

DUCHI

I figli di Carlo (Carlo, Pipino e Ludovico il Pio).

Non erano nominati dall’imperatore, ma prestavano giuramento di fedeltà.

MISSI DOMINICI Nominati dall’imperatore, erano gli “ispettori” imperiali inviati nel regno (di solito un conte e un vescovo).

Il nanerottolo che raccontò il gigante

T

utto quello che sappiamo oggi di Carlo Magno lo dobbiamo a un homullus (omuncolo, come era detto per via della statura, modestissima se confrontata a quella del suo idolo). Per il piccolo Eginardo, Carlo era Magno in tutti i sensi, come raccontò nella sua Vita et gesta Karoli Magni, scritta qualche anno dopo la morte del sovrano e ispirata

alla Vita divi Augusti di Svetonio: identici la venerazione che traspare per l’imperatore e l’ interesse per gli aneddoti più che per i grandi fatti storici. In carriera. Dopo aver studiato nel monastero benedettino di Fulda, nell’attuale Germania, nel 790 Eginardo fu chiamato alla corte di Carlo, diventando presto uno dei suoi consiglieri più fidati. Esperto di gram-

matica latina e abile architetto (progettò il palazzo di Aquisgrana), nel 796 subentrò ad Alcuino alla guida della scuola palatina. Morto Carlo, rimase a corte come confidente di Ludovico il Pio e consigliere di Lotario I.

Il testamento di Carlo Magno, tratto dalla Vita Karoli Magni di Eginardo.

POTERE TOTALE

Luigi XIV volle riportare l’ASSOLUTISMO nella monarchia. Anche a costo di IMPORRE a ministri e cortigiani RITUALI imbarazzanti

Il S LE di Francia

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arigi, 23 febbraio 1653. Nella residenza reale del Louvre è in programma il Ballet de la nuit, una specie di rave party di corte: dal tramonto all’alba saranno inscenate coreografie ispirate al mondo dell’antica Grecia. Piatto forte dell’esibizione è la performance del dio Apollo (protettore delle arti e cocchiere dell’astro solare), interpretato per l’occasione da un ragazzino abile nella danza e con un nome che pesa: Luigi XIV di Borbone, erede designato al trono di Francia. Il giovane indossa un appariscente costume a forma di Sole, e per farlo ha due valide motivazioni: la prima è che tale veste ben si addice al personaggio di Apollo; la seconda, come scriverà egli stesso, è che “il Sole, per lo splendore che lo circonda, per la luce che comunica agli altri astri […] per il bene che produce ovunque […] è certamente la più viva e più bella immagine per un grande monarca”. Re bambino. «Grande, Luigi XIV lo fu veramente», conferma lo storico Roberto Moro, già docente di Storia delle dottrine politiche all’Università di Milano. «Soprattutto se si pensa alla capacità che ebbe di teatralizzare il proprio potere, tanto da farne un geniale strumento di comunicazione politica». Il “genio coronato” in questione era nato il 5 settembre 1638 a Saint-Germain-en-Laye, un piccolo borgo alle porte di Parigi. Figlio di Anna d’Austria (un’Asburgo) e del re francese Luigi XIII (un Borbone), alla morte di questi (il 14 maggio 1643) ereditò il trono. 74

Avendo il re appena 5 anni, le leve del comando andarono alla madre, affiancata nel compito dal primo ministro, il cardinale Mazarino. «Era quest’ultimo a esercitare il grosso del potere», spiega Moro. «Ma la gestione del governo da parte di ministri forti non era certo una novità nella monarchia francese. Lo stesso Luigi XIII aveva avuto al fianco il potentissimo cardinale Richelieu, che finì per esercitare quasi più potere del sovrano». La politica di Mazarino, improntata al motto “più tasse per tutti”, portò nel 1648 alla rivolta di alcuni esponenti del Parlamento parigino. Quest’ultimo, nato nel XIII secolo, era al tempo una corte di giustizia, con alcuni poteri amministrativi, che poteva opporsi agli editti regi. Ai “parlamentari” si unirono larghe frange del popolo, che manifestarono la loro rabbia a colpi di “fronda” (la fionda, da cui il nome del movimento) costringendo la corte alla fuga da Parigi. «Per il piccolo Luigi fu un vero trauma», racconta Benedetta Craveri, storica della letteratura francese e studiosa dell’ancien régime. «L’esperienza della fuga si impresse a fuoco nella sua memoria e soprattutto lo convinse della necessità di governare il Paese con il pugno di ferro». Rientrata la corte a Parigi, scoppiò una seconda rivolta della Fronda. In rotta di collisione con Mazarino e il piccolo sovrano furono stavolta i nobili, dei quali Luigi aveva una pessima opinione: “Il difetto della nobiltà è di essere piena di usurpatori […] con titoli ottenuti per denaro e non

A CAVALLO

Ritratto equestre di Re Luigi XIV (1638-1715) di René-Antoine Houasse.

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Il lungo regno di re Luigi

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uigi XIV è considerato un “grande re” anche perché regnò a lungo (61 anni, più la reggenza) e fu protagonista di eventi decisivi per la Francia. Ecco i fatti salienti della sua vita e del regno. 1638 Il 5 settembre a Saint- Germain-en-Laye nasce Luigi di Borbone, primogenito del re di Francia Luigi XIII e di Anna d’Austria. 1643 Luigi XIII muore e il potere passa formalmente nelle mani del figlio: la reggenza è

di fatto assunta dalla madre e il governo è affidato al cardinale Mazarino. 1654 Il 7 giugno, nella Basilica di Saint-Denis, il giovane Luigi è incoronato re. 1660 Sposa Maria Teresa di Spagna. 1661 Morto Mazarino, Luigi prende le redini del regno cominciando subito ad “accentrare” su di sé il potere. 1667 Comincia la guerra contro la Spagna per il controllo delle Fiandre (Guerra di devoluzione).

Ad avere la meglio è, un anno più tardi, l’esercito francese. Luigi vede così ampliati i propri domini sul continente. 1682 Luigi XIV ordina all’intera corte e ai personaggi politici più importanti di trasferirsi dal palazzo del Louvre nella nuova reggia di Versailles, una ventina di chilometri a sud di Parigi. 1683 Muore Maria Teresa di Spagna, moglie di Luigi. Il sovrano si consolerà molto presto con numerose amanti.

per merito”, annoterà nelle sue Memorie. Questa seconda ondata di proteste fu più violenta della prima e portò la corte a un nuovo esilio. Pochi mesi prima del Ballet de la nuit del 1653 era tornata la calma, ma il re fanciullo aveva ormai in mente una sola cosa: prendere in mano le redini del regno e raddrizzarne le sorti. Ma tra il dire e il fare c’era sempre di mezzo l’ingombrante cardinale. Al potere! Il 7 giugno 1654, poco prima del suo sedicesimo compleanno, a Luigi XIV fu finalmente posta la corona in testa. «Ma dovettero trascorrere ancora 7 anni affinché il nuovo re potesse davvero entrare in scena da protagonista», avverte Moro. Facciamo due conti: 1654 più 7 uguale 1661, ovvero l’anno di morte di Mazarino, che si spense il 9 marzo. «Fu solo in quel momento che il Re Sole divenne tale, impossessandosi del regno». Il suo assolutismo si espresse nei settori chiave. Per risanare l’economia di una Francia sull’orlo della bancarotta Luigi ingaggiò l’economista Jean-Baptiste Colbert, nominato nel 1665 Controllore generale delle finanze. Questi aumentò le tariffe doganali per sfavorire le importazioni e incentivare l’esportazione di merci francesi, usando poi il ricavato per finanziare l’industria nazionale, posta sotto il diretto controllo della corona. Poi il sovrano si dedicò all’esercito, affidandone la riorganizzazione a Michel Le Tellier e al figlio, marchese di Louvois. Questi tolsero a nobili e signorotti locali ogni residua competenza sulla direzione delle armate trasferendola direttamente al sovrano, il 76

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Per CONGEDARSI dal re bisognava arretrare pian piano INCHINATI fino all’uscita dalla sala delle UDIENZE

quale fece infuriare ulteriormente la nobiltà francese autorizzando la promozione di tutti quei soldati che si fossero distinti in battaglia anche se privi di titoli nobiliari. Nel suo genere, fu una rivoluzione. «La grande differenza con la politica del passato», spiega Moro, «stava nel fatto che in questo processo di accentramento del potere Luigi (cui non a caso si attribuisce la frase “lo Stato sono io”) era davvero il cuore di tutto: sia Colbert che i Le Tellier erano considerati semplici dipendenti, che mai avrebbero avuto lo stesso margine di azione concesso in passato a Richelieu e Mazarino». Peraltro, da consumato attore qual era, il re si divertiva a favorire ora uno ora l’altro dei suoi

NOZZE COMBINATE

Il matrimonio di Luigi con Maria Teresa degli Asburgo di Spagna, avvenuto il 9 giugno 1660. In alto a sinistra, Luigi XIV in fasce ritratto in braccio alla nutrice, Marie de Longuet. A destra, Luigi XIV in abito da cerimonia.

1700 Il sovrano spagnolo Carlo II muore senza lasciare eredi. Scoppia la Guerra di successione spagnola: i Paesi di mezza Europa tentano con le armi di imporre il proprio candidato. 1713 Luigi esce vittorioso dallo scontro e

il Trattato di Utrecht assegna il Regno di Spagna a Filippo d’Angiò, suo nipote. 1715 Il 1° settembre Luigi XIV muore nella sua camera da letto a Versailles, situata nell’esatto centro del palazzo. Viene sepolto nella Basilica di Saint-Denis.

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1685 A Fontainebleau viene siglato un editto che, annullando le garanzie di libertà religiosa concesse dal precedente Editto di Nantes, costringe quasi 300mila protestanti ugonotti alla fuga.

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Il CERIMONIERE Vatel nel 1671 si tolse la VITA perché il pesce non arrivò in TEMPO per la cena del sovrano

collaboratori, mantenendosi così saldamente al centro del governo. Ma il suo capolavoro assolutista doveva ancora venire. Trasloco di lusso. Come sfondo scelse una piccola tenuta nella campagna parigina, in località Versailles, utilizzata in genere come base per le battute di caccia. «Qui fece costruire una reggia grande quanto una città nella quale il sovrano portò ai massimi livelli la messa in scena del suo potere», racconta la Craveri. L’idea era ribaltare lo schema secondo il quale il re doveva viaggiare attraverso il Paese per tenere sotto controllo la nobiltà locale e mostrarsi ai sudditi. D’altronde, pensò Luigi, se il Sole si trovava al centro dell’universo (così si credeva allora) lui avrebbe dovuto stare al centro del regno, con tutti gli altri “pianeti” (nobili in primis) a orbitargli attorno. All’origine di Versailles c’era un semplice ragionamento: se aristocratici ed esponenti di governo avessero trascorso le proprie giornate sotto lo sguardo vigile del re non avrebbero più avuto occasione di tramare contro di lui. Oltre a ciò, spostarsi fuori da Parigi avrebbe significato per il re lasciarsi alle spalle il pericolo delle rivolte popolari. Due piccioni con una fava, insomma. E così, dal 1682, tutta la nobiltà e l’entourage reale furono costretti a traslocare nell’immensa reggia, tra boschi e giardini all’italiana, ma a stretto contatto con il sovrano. In città rimase il Parlamento, al quale nel 1673 fu tolto il “diritto di rimostranza”, ovvero la facoltà di opporsi agli editti del re, svuotandolo di ogni significato. Per quanto riguarda invece i cortigiani, 78

ad attenderli c’era uno stile di vita privilegiato e lussuoso, cadenzato da feste e innumerevoli occasioni mondane. «Molti di loro cominciarono a fare a gara per vedersi assegnati gli alloggi più esclusivi, ossia il più possibile vicini a quelli del sovrano», riprende Moro. «Pian piano a Versailles si ricreò una socialità urbana, con tanto di botteghe artigiane, strade affollate e curiosi di ogni tipo. Inoltre, per dare ulteriore lustro alla sua immagine, Luigi si circondò di schiere di artisti, tutti pronti a omaggiarlo con dipinti nei quali veniva spesso raffigurato con le sembianze d’una divinità, come gli imperatori ellenistici e romani». Cerimoniosi. La rappresentazione del potere diede però il suo meglio nei cerimoniali che regolavano la vita di corte, la famigerata “etichetta”. «Una delle peculiarità della monarchia francese fu quella di abbattere ogni distinzione tra privato e pubblico, trasformando ogni attività, anche la più intima, in un evento», spiega la Craveri. Per farsene un’idea sarebbe bastato assistere al rituale quotidiano del lever du roi, il risveglio del re. La cosa funzionava così: a dare la sveglia era un valletto che dormiva ai piedi del letto, mentre i migliori cuochi del regno si davano da fare per preparare la colazione e, poiché lo “spettacolo” era pubblico, alcuni paggi facevano entrare nella stanza i membri della corte autorizzati. Tra di loro vi erano il gran ciambellano e il primo cameriere, che portava scarpe e vestiti al sovrano, che a quel punto si alzava in piedi per essere avvicinato dal maestro guardarobiere, il quale, con l’aiuto di un valletto, aveva il compito di

OLTRAGGIO AL SOLE

Gli attori della Commedia dell’Arte cacciati da Parigi per avere ironizzato sull’amante del re. A sinistra, Luigi fece ritrarre anche i suoi cani preferiti: Pompée e Florissant.

E l’Olimpo si trasferì nella reggia di Versailles

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er rendere più efficace la propria “rivoluzione” assolutista, Luigi XIV si affidò anche alla propaganda. Come in seguito (e per la verità anche prima) altri sovrani, si fece ritrarre con la famiglia nei panni delle divinità dell’Olimpo greco-romano.

Travestimenti. Nel dipinto del pittore di corte Jean Nocret, del 1670, i reali di Francia “interpretano” i seguenti ruoli: Anfitrite, ninfa marina (1); Cibele, dea-madre (2); Diana, dea della caccia (3); le tre Grazie (4); Flora, dea della primavera (5); Stella mattutina, assimilata a

Margherita, Elisabetta 4 e Maddalena

Gastone d’Orléans (1608-1660) Maria de’ Medici (1575-1642)

2

Enrico IV (1553-1610)

7

Luigi XIII (1601-1643)

6

Filippo 13 (1668-1671) Maria Teresa 12 (1667-1672)

Luigi XIV (1638-1715)

Anna Elisabetta (1662-1662) 11 Maria Anna (1664-1664) Luigi il 10 Gran Delfino (1661-1711)

Filippo d’Orléans (1640-1701)

Enrichetta 5 Stuart (1644-1670)

Enrichetta 1 Maria di Francia (1609-1669)

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Luigi XIV e la famiglia reale nei panni degli dèi, in un celebre dipinto conservato a Versailles. Nello schema, la corona indica i sovrani, gli anelli i matrimoni.

8 Maria Teresa di Spagna (1638-1683)

Anna Maria Luisa 3 d’Orléans (1627-1693)

Anna d’Austria (1601-1666)

FAMIGLIA DIVINA

Venere e assegnata al fratello del re, considerato effeminato (6); Apollo, dio del Sole (7); Giunone, dea del matrimonio (8); Zefiro, messaggero degli dèi (9); Cupido (10) per il primogenito; quattro amorini per le figlie morte in fasce (11) e per gli altri due figli (12 e 13).

Maria Luisa 9 d’Orléans (1662-1689)

3 4 7

5

6

2

1

8

10

9

13

12 11

Il Re Sole MORÌ di cancrena per la GOTTA di cui soffriva. E pare che alla sua morte il POPOLO abbia esultato

sfilargli la camicia da notte e di vestirlo. «Tutte queste mansioni erano assegnate a nobili, trasformati in questo modo in semplici maggiordomi», spiega Moro. «Il risveglio era solo uno dei tanti momenti della giornata dominati dall’etichetta: ogni gesto del sovrano era infatti accompagnato da un qualche rituale, e prendervi parte era considerato un privilegio». «Tra questi privilegi c’era persino quello di assistere alle funzioni fisiologiche di Luigi», aggiunge la Craveri. «Segno di quanto il sovrano stesso fosse in fondo prigioniero di quest’etichetta implacabile». L’unica consolazione sembrava essere, per il re, la frequentazione delle sue numerose amanti, in particolar modo dopo il 1683, anno di morte della moglie Maria Teresa di Spagna. Grandeur. A Versailles, Luigi XIV espresse la sua idea di potere al meglio, costringendo l’aristocrazia in una prigione dorata e demolendo la concezione del sovrano primus inter pares. Quello che si andava formando era invece il principio del a deo rex, a rege lex (“da Dio viene il re, dal re la legge”). 80

Ma se il potere del sovrano era emanazione diretta della volontà divina, allora avrebbe dovuto affermarsi anche sulla Chiesa. Detto fatto. Il re stabilì che ogni disposizione papale fosse dichiarata nulla se priva del suo consenso. Sotto la bandiera del cattolicesimo affermò la supremazia dello Stato scagliandosi dapprima contro il giansenismo (una corrente dissidente che predicava il ritorno a un comportamento più conforme al messaggio originario dei Vangeli) e quindi contro gli ugonotti (i protestanti d’Oltralpe), ai quali revocò la libertà di culto concessa nel 1598 con l’Editto di Nantes. Conquistatore. «Sgombrato il Paese da ogni opposizione, l’unica cosa che gli rimaneva da fare era riuscire a portare la propria luce oltre i confini francesi», riprende Moro. «Luigi XIV intendeva infatti porre la Francia al centro della politica europea, così come egli stesso era al centro della Francia». Questi sogni di grandeur portarono il Paese a una serie di conflitti che devastarono il morale della popolazione nonché le casse del regno. Quella di Luigi fu

ACCADEMICI

Il ministro Colbert (vestito di nero) presenta a Luigi XIV i membri dell’Accademia reale delle scienze, da lui fondata nel 1666.

Il tocco magico del re taumaturgo

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a fede nel miracolo fu creata dall’idea che doveva esservi un miracolo”. È così che lo storico Marc Bloch ha spiegato il fenomeno dei “re taumaturghi” (dal greco thaûma ed érgon, “miracolo” e “opera”). Erano taumaturghi i re che (dal Medioevo fino al XIX secolo) furono considerati in grado di far guarire i sudditi con l’imposizione delle mani. Guaritori. La storiografia assegna ai Capetingi, antica casata francese, il primato taumaturgico. Fu Roberto II il Pio (9721031), figlio di Ugo Capeto (fondatore della

Matteo Liberti

Luigi IX il Santo guarisce uno scrofoloso, in un dipinto del Seicento.

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un’epoca di guerre e sacrifici per i francesi. Fu però un periodo di grande gloria. «A conti fatti, pur se sul piano internazionale le conquiste furono limitate, Luigi seppe consolidare l’egemonia della Francia sul continente», dice Moro. «Il francese divenne allora la lingua ufficiale di tutta l’élite europea, artisti e letterati transalpini venivano acclamati e imitati ovunque». Alcuni di questi intellettuali furono servi tra i servi, ma altri entrarono nelle sue grazie. Per esempio i drammaturghi Molière e Racine. Ma fu con il compositore di origini italiane Jean-Baptiste Lully che Luigi XIV ebbe i legami più profondi e proficui ai fini della creazione di un’aura assolutista. Era stato proprio lui, quel 23 febbraio del 1653, a insistere perché il giovane re si presentasse sul palco con le sembianze del Sole. Un contributo decisivo a un’immagine regale che sa• rebbe passata alla Storia.

dinastia), il primo a far guarire miracolosamente i francesi. Una dote che sarà poi attribuita ai suoi discendenti, incluso Luigi XIV. E incluso anche Guglielmo il Conquistatore (10281087) che esportò la taumaturgia oltre la Manica. Scrofolosi. La specialità dei re taumaturghi era la scrofola, ovvero l’adenite tubercolare: un’infezione delle ghiandole linfatiche che si manifesta con lesioni cutanee a intermittenza. E i miracoli? Come ha scritto lo storico Jacques Le Goff «i casi in cui il male resisteva al tocco, li si dimenticava presto».

RIVOLUZIONE

Una

FAsenza VOLA LIETO FINE

N



Odiata perché REGINA di Francia ma di origine AUSTRIACA, fu travolta dalla RIVOLUZIONE del 1789, che ne infangò l’immagine. Ma chi fu davvero MARIA ANTONIETTA?

A MORTE LA STRANIERA!

ROGER-VIOLLET/ALINARI

La regina di Francia Maria Antonietta accompagnata al patibolo (16 ottobre 1793). Sopra, la regina con abiti contadini: amava indossarli con le amiche nel “borgo” di Versailles.

on ho bisogno di nulla, è tutto finito per me”. Da sola, singhiozzando, passò la sua ultima notte in cella. Non le concessero l’abito nero da vedova, perciò sotto lo sguardo morboso delle guardie indossò il semplice vestito bianco di tutti i giorni, le calze nere di seta e quel che restava delle pantofoline color prugna con cui era stata portata nella prigione della Conciergerie, la cosiddetta “anticamera della ghigliottina”. Con enormi cesoie il boia le tagliò i radi capelli, ormai completamente bianchi, e con le mani legate dietro la schiena la caricò sul carro che la condusse a Place du Carrousel. Durante la tetra processione i parigini la irridevano: meno di vent’anni prima l’avevano acclamata delfina di Francia. Ora era “l’altezzosa Austriaca gonfia del sangue del popolo”: una regina spogliata del suo ruolo, nuda nella sua vulnerabilità. Pallida e smunta, imperturbabile, scese dal carro e salì i gradini del patibolo, con quel suo passo “scivolato” che nei saloni di Versailles, una vita fa, i cortigiani guardavano estasiati: “La regina ha tanta grazia che quando cammina non tocca terra”, dicevano. Invece quel giorno pestò un piede al boia: “Non l’ho fatto apposta”, si scusò. E alle dodici e quindici del 16 ottobre 1793, la ghigliottina fece il suo pietoso lavoro: il pubblico in delirio applaudì la testa sanguinante della nemica di Francia. Colpevolmente austriaCa. Si era meritata davvero questa fine? Maria Antonietta non fu né la santa della monarchia, né la strega della rivoluzione: ebbe pregi e difetti, ma quel che i francesi non le perdonarono fu che fosse austriaca. Nemica da sempre, l’Austria aveva stretto con la Francia una innaturale alleanza in funzione antiprussiana (1756). Il trattato era solo un atto formale: gli austriaci continuarono a considerare i francesi frivoli e incapaci di fermezza, mentre i francesi continuarono a temere che gli austriaci volessero approfittarsi di loro. All’epoca Maria Antonietta era ancora in fasce. La dolce metà di una “coppia pestilenziale”, come la definirono i rivoluzionari, era la quindicesima “piccola, ma perfettamente sana arciduchessa” d’Austria e di Lorena, nata il 2 novembre 1755 in quello che oggi è il salone ufficiale del presidente della Repubblica austriaca. I suoi genitori, Maria Teresa d’Asburgo e Francesco I imperatore del Sacro romano impero, la chiamarono Maria Antonia Josepha Joanna, ma in famiglia fu sempre Antoine. Nel 1767, quando il vaiolo mandò all’aria i piani dell’imperatrice, portandosi via una figlia e deturpando il viso di un’altra, Maria Teresa non aveva 83

RMN/ALINARI (2)

RUE DES ARCHIVES/MILESTONE

LESBICA

INFEDELE

SPREGIUDICATA

Le origini AUSTRIACHE contribuirono ad alimentare sospetti e MALDICENZE sul conto della regina da parte dei FRANCESI ancora progetti matrimoniali per la pigra e viziata dodicenne. Nel consueto gioco delle coppie cui erano destinate le donne delle case regnanti, il nome di Antoine finì così, inaspettatamente, accanto a quello del delfino di Francia Luigi Augusto. La bambina non era stata preparata ad affrontare una corte straniera: bisognava rimediare nel minor tempo possibile. Sua madre, di gusti più difficili di quelli del giovane Wolfgang Amadeus Mozart, che pare fosse rimasto folgorato dalla bella e bionda coetanea, non era affatto soddisfatta di quel che vedeva: fece raddrizzare i denti della figlia con un sistema di fili di metallo, il “pellicano”, e si rivolse a un noto parrucchiere parigino per nasconderle l’attaccatura irregolare dei capelli. La costrinse a indossare corsetti imbottiti per mascherare la spalla più alta dell’altra, ma solo il tempo avrebbe posto rimedio alla magrezza di Antoine e al suo scarso seno, notato con rammarico dal futuro suocero, il donnaiolo re Luigi XV. Non era consolante sapere che, a cultura, la ragazzina era messa anche peggio. Quando fu promessa in sposa, scriveva con estrema lentezza, leggeva a stento ed era incapace di concentrarsi. E benché il nuovo precettore fosse riuscito a darle l’infarinatura necessaria a non sfigurare, lei non diventò mai un’intellettuale. La deLfina. Pronta o meno che fosse, la piccola austriaca lasciò la sua casa il 21 aprile 1770. Il distacco tra madre e figlia fu innaffiato di lacrime. “Se si considera soltanto la grandezza della tua posizione, sei la più felice delle tue sorelle e di tutte le principesse”, l’aveva consolata Maria Teresa, spedendola nelle mani di quel goffo, insicuro, apatico ragazzone che era il delfino di Francia. «Il 16 maggio, tremante e svogliato, Luigi Augusto infilò la fede al dito della grazio84

sa austriaca dal sorriso radioso. Ma la cerimonia più importante fu la “messa a letto” della giovane coppia», scrive Antonia Fraser, storica inglese, autrice di un saggio su Maria Antonietta. I consuoceri erano sicuri che, sotto le lenzuola, marito e moglie avrebbero portato a termine il loro compito: mettere al mondo un erede. Le speranze, però, erano mal riposte. Lo sposo aveva degnato la delfina di un unico abbraccio, quando si erano incontrati la prima volta: per i successivi sette anni non le avrebbe concesso molto di più. Fedele al ruolo di moglie devota, Antoinette, come la chiamavano a Versailles, faceva buon viso a cattiva sorte: non cercava

LA MACCHINA DEL FANGO

Stampe dell’epoca, di simpatie giacobine, ironizzavano sui presunti vizi della regina. A destra, Maria Antonietta in un ritratto della scuola pittorica austriaca.

“Mangino brioche”: chi l’ha detto?

“N

on hanno il pane? Che mangino le brioches”. Così, nel 1775, mentre imperversava la “guerra della farina”, Maria Antonietta avrebbe liquidato il problema dei parigini. Ma poteva, una frase tanto infelice, appartenere alla sensibile Maria Antonietta, unica fra tutti i componenti della famiglia reale francese a rifiutarsi di passare con la carrozza sopra i campi

di grano per non rovinare i preziosi raccolti? Pare di no. Trascorsi. L’aneddoto era noto da un secolo. Lo conosceva il filosofo Rousseau ben prima che Maria Antonietta nascesse, e nel 1751 la frase era stata affibbiata a una zia di Luigi XVI, Madame Sophie, che l’avrebbe pronunciata quando suo fratello (delfino di Francia che morì prima di salire al trono) fu assalito a Parigi al grido di

“Pane, pane”. Secondo la contessa di Boigne, dama di Maria Antonietta, apparteneva invece a un’altra zia, Victoire. Ma è solo nelle memorie del cognato di Antoinette, il conte di Provenza, che il mistero si chiarisce. Il pâté en croûte gli faceva tornare alla mente una frase della sua antenata, Maria Teresa di Spagna, moglie di Luigi XIV: “Se non c’è pane, che la gente mangi il pâté en croûte”.

2 novembre 1755 Maria Antonietta nasce alla Hofburg di Vienna, in Austria.

4 maggio 1789 Inaugurazione degli Stati generali, ostili alla monarchia.

13 giugno 1769 È dichiarato ufficialmente il fidanzamento di Maria Antonia.

21 giugno 1791 La famiglia reale tenta la fuga, ma è riconosciuta e arrestata.

16 maggio 1770 Sono celebrate le nozze: diventa delfina di Francia.

21 gennaio 1793 A Place de la Concorde il re è giustiziato sulla ghigliottina.

22 ottobre 1781 Nasce l’erede maschio Luigi Giuseppe, che muore giovane.

14 ottobre 1793 Inizia il processo alla regina, accusata di alto tradimento. 16 ottobre 1793 La regina viene giustiziata sulla ghigliottina.

LEEMAGE

La tragica vita di una regina

Ostile a ogni COMPROMESSO con le idee liberali, provò a SALVARE la monarchia assoluta con continui contatti con gli ARISTOCRATICI emigrati na di Francia: a quel punto la nascita di un delfino si fece necessaria. La vita sessuale della regina era sempre stata l’argomento preferito della corte ma, contro ogni pronostico, i crudeli libretti porno sui suoi presunti amori lesbici con le dame di compagnia si inasprirono quando la coppia reale uscì dall’impasse. Solo un amante avrebbe potuto darle dei figli, sostenevano le malelingue. Invece, il 30 agosto 1777, poco più di due anni dopo l’incoronazione, Luigi XVI era diventato un marito a pieno titolo: lo aveva soccorso il fratello maggiore della regina, l’imperatore Giuseppe II, dispensando consigli pratici ai due “perfetti pasticcioni”. E infatti il 19 dicembre dell’anno dopo Maria Antonietta era diventata l’amorevole madre di Maria Teresa Carlotta, seguita dal cagionevole Luigi Giuseppe, da Luigi Carlo e da Sophie Hélène Béatrice. CaprO espiatOriO. Ironia della sorte, tra i presunti giocattoli sessuali di Antoinette, sui libretti non comparve l’unico probabile vero amante: il conte svedese Hans Axel von Fersen. I suoi profondi occhi azzurri, il fisico slanciato, l’aria malinconica da poeta non erano paragonabili all’aspetto del re, definito dal giovane visitatore inglese William Wilberforce “un essere strano (somiglia a un maiale)”. E anche se non esistono prove, non si possono negare gli apprezzamenti espressi dal conte nelle lettere alla famiglia o quel “Non posso stare con l’unica persona che desidero, l’unica persona che mi ama veramente, perciò non voglio stare con nessuno”, confessato alla sorella. O la preoccupazione per il destino della regina: si era accorto della freddezza del popolo nei confronti dell’austriaca.

L’AMANTE SVEDESE

A sinistra, il conte Hans Axel von Fersen: fu il presunto amante della regina Maria Antonietta.

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altrove ciò che il marito non le dava, ma mentre lui si dedicava esclusivamente alla caccia, lei riempiva il vuoto con lo shopping, i divertimenti e le amicizie. Arricchì la sua stilista, Rose Bertin, a corte ribattezzata “ministro della Moda”; affidò le sue imponenti acconciature al famosissimo coiffeur parigino Léonard; dilapidò fortune giocando d’azzardo e non perse mai un ballo o uno spettacolo. Insomma: si adattò in fretta alle consuetudini della corte francese. Oltre le frivOlezze. Per quanto apparisse frivola e senza pensieri, al punto da attirare le critiche del principe di Lignes, convinto che “le grandi regine della storia” non dovessero ridere, la delfina di Francia non era felice. E neppure superficiale. A differenza del resto della nobiltà, si rendeva conto benissimo delle difficili condizioni del popolo francese. Il cosiddetto “terzo stato” – dopo i nobili e il clero – composto da borghesi, contadini e operai, era il più povero e il più affamato, ma anche l’unico a pagare le tasse. Antonietta era generosa con i sudditi, ma chi non aveva neppure il pane per i propri figli poteva tollerare lo scialo sfrenato della corte, in particolare della giovane straniera? Ai crucci politici, la delfina aggiungeva i crucci personali: le critiche della madre, sempre insoddisfatta di lei, dell’ambasciatore austriaco a Versailles, che la considerava una sciocca senza inclinazione per la politica, e persino dei nobili francesi, che giudicavano non consoni i suoi continui atti di pietà nei confronti del popolo. E la situazione peggiorò quando Luigi XV morì di vaiolo. A meno di 19 anni, Antoinette diventò regi-

I falsi delfini di Francia

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ome il fratello maggiore, anche il secondo figlio di Maria Antonietta, Luigi Carlo, ebbe vita breve: probabilmente a minare la sua salute furono le brutali condizioni di vita nel carcere del Tempio, soprattutto dopo la decapitazione della madre. L’8 giugno 1795 spirò,

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ad appena dieci anni, ma la sua morte fu a lungo messa in dubbio e solo una recente indagine sul Dna dei presunti resti ha accertato la verità. Nel frattempo, per tutto il XIX secolo spuntarono almeno una quarantina di “falsi delfini” . Strane storie. Alcuni di loro avevano inventato storie piut-

tosto particolari: il francese Pierre Louis Poiret dichiarò di essere stato allevato da un ciabattino dopo essere fuggito dal carcere. Tanto per rendere credibile la balla, aveva dato ai suoi numerosi discendenti nomi molto “evocativi”: fra gli altri, quelli di Luigi Carlo e Maria Antonietta.

Un altro falso venne registrato nel continente americano, dove un uomo, conosciuto come William l’Indiano, cercò di farsi passare per Luigi XVII. Figlio di tale Eunice Williams e di un nativo, contava sul fatto che non esistessero documenti relativi alla sua nascita. Ma fu scoperto.

Eppure molte delle presunte colpe di Antoinette non erano davvero tali: “pretendeva” di occuparsi personalmente dell’educazione dei propri figli, togliendo quel potere ai cortigiani; aveva semplificato l’etichetta e la moda di Versailles; concedeva privilegi per amicizia e non per calcolo. Anche l’accusa di tramare ai danni della Francia per far contenta l’Austria era infondata. «Maria Antonietta veniva usata come capro espiatorio su cui scaricare i problemi politici del re, dovuti invece all’insostenibile situazione finanziaria della corona. Le voci di feste grandiose erano l’emblema dei risentimenti contro il potere VERSO dominante in generale, ma il loro bersaglio fu la reLA FINE gina», afferma Fraser. Luigi XVI e Maria Antonietta con i loro Grano, farina e GhiGliottina. A Parigi l’aria cobambini, in ostaggio minciò a farsi pesante. Mentre cominciavano i primi nella reggia di tumulti, il 4 giugno 1789 morì il delfino, il piccolo Versailles, nel 1789. Luigi Giuseppe. “Mio figlio è morto e pare che non importi a nessuno!”, scrisse disperata la regina. Ed era vero: al popolo importava solo dei propri figli affamati. «La presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, segna l’apice dei tumulti parigini e della Rivoluzione francese: la grande fortezza-prigione fu presa d’assalto da una folla scalmanata, convinta di trovare armi e pol-

vere da sparo», scrive Fraser. Ma alla fine tutto ciò che uscì dalla Bastiglia furono sette prigionieri. Abbattuto il simbolo dell’oppressione, i parigini appuntarono sui cappelli coccarde tricolore della repubblica. Per i reali fu l’inizio di una lenta agonia. A chi le consigliava di fuggire, la regina rispondeva che non avrebbe mai lasciato il suo re: così persero l’occasione di salvarsi. Il 5 ottobre la marcia delle popolane su Versailles per chiedere grano e farina al sovrano si trasformò in aggressione alla regina. La famiglia reale venne trasferita a Parigi, alle Tuileries, un sontuoso palazzo ormai in rovina, sulla riva destra della Senna. Solo nell’agosto del 1792 l’Assemblea nazionale dichiarò la fine del governo monarchico e il 21 gennaio 1793 il re fu decapitato. Abbandonata dalla nazione di nascita, l’Austria, e da quella d’adozione, la Francia, Maria Antonietta venne processata circa nove mesi dopo. Fu una farsa: la sua sorte era stata decisa mesi prima. Prostrata forse da un tumore all’utero, il 16 ottobre 1793 affrontò la morte a testa alta. E senza sorridere: come ogni grande • regina della Storia. Maria Leonarda Leone

DINASTIE

Sono stati RE D’ITALIA per quasi un SECOLO. Ma che origini

I

n principio fu un Umberto, come alla fine. Nella storia dei Savoia c’è un “fattore U” che sembra destinato a segnarne i momenti chiave. Umberto II fu l’ultimo sovrano sabaudo, il “re di maggio” finito in esilio nel 1946. Ma anche il capostipite del casato si chiamava così: era un conte di 10 secoli fa, che usava firmarsi Umbertus Comes e che ai posteri è noto col soprannome di Biancamano. Come sia finita la storia dei Savoia, compresi gli ingloriosi infortuni giudiziari di pochi anni fa, è noto. Ma come cominciò? Si dice che... Dell’Umberto capostipite si favoleggia molto ma si sa poco. Certo è che nacque alla fine del primo millennio; che morì poco prima del 1050; che fu vassallo dei re di Borgogna; che ebbe quattro figli maschi, due dei quali diventarono vescovi a Lione e a Sion; che controllò diversi territori a nord-ovest delle Alpi, fra cui la Maurianne (una valle oggi francese che dal Moncenisio scende a Chambéry) e lo Chablais (una regione ora svizzera che si stende fra il Gran San Bernardo e il Lago di Ginevra). Il resto è tutto affidato ai “si dice”, compreso il motivo del nomignolo Biancamano, che sarebbe nato per colpa di un distratto scrivano del ’300: mentre copiava un testo che parla-

I PRIMI

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hanno i Savoia, una delle casate più ANTICHE d’Europa?

AVANTI, SAVOIA!

Sotto, il reggimento “Savoia Cavalleria”, nelle divise storiche, festeggia il suo bicentenario (1892). A sinistra, Umberto I Biancamano di Savoia (970-1048). in un’incisione del Settecento.

va di Umbertus blancis moenibus (cioè “dai bianchi castelli”) avrebbe trascritto blancis manibus. Molti “si dice” circondano anche l’origine dei primi feudi sabaudi: il più fantasioso accenna a un premio che il presunto padre di Umberto, tale Beroldo, si sarebbe guadagnato vendicando una storia di corna, in cui era parte lesa l’imperatore Ottone II. Gustosissimo è il racconto che un agiografo del ’400, Jean d’Orville, detto Cabaret, fece dell’“impresa” di Beroldo. Il quale, entrato nella camera dell’imperatrice per cercare un anello perduto nel letto dal sovrano (suo zio), tastò sotto un cuscino, ma invece del gioiello trovò una barba. Il resto seguì a ruota: uccisione del titolare della barba, stessa sorte per la sua nobile amante e premio al giustiziere. Dalla Borgogna. Che cosa c’è di vero in tutto ciò? «Niente», taglia corto Alessandro Barbero, docente di Storia medievale all’Università del Piemonte Orientale. «In realtà», spiega, «dai pochi documenti esistenti possiamo dedurre che i primi Savoia erano funzionari del regno di Borgogna, uno degli Stati in cui si era frantumato l’impero di Carlo Magno. Pian piano, questi funzionari acquistarono autonomia sfruttando la crisi del potere centrale. La leggenda di Beroldo fu inventata a poste-

riori, come altre, per dare lustro alla dinastia vantando lontane ascendenze imperiali». Comunque siano nate le loro fortune, certo è che i “signori della Maurianne” avevano poco in comune coi futuri re d’Italia. Non capivano l’italiano: Umberto Biancamano scriveva in latino e parlava in francese, lingua ufficiale fino a metà ’500. Nessuno di loro, poi, usava come stemma lo scudo crociato sabaudo, adottato solo nel ’200: il primo simbolo araldico della dinastia era un’aquila nera su fondo oro, simile alla bandiera usata secoli dopo dall’Impero austro-ungarico. Nessuno dei primi Savoia poteva immaginare che i suoi eredi avrebbero regnato sulla Penisola. L’unico che allora aspirava a tanto era il marchese Arduino di Ivrea, che nel 1002 si incoronò re d’Italia, ma si attirò le ire sia del papato sia dell’impero, finendo sconfitto. Concreti. Biancamano e parenti avevano ambizioni più terra-terra: stavano arroccati nelle loro valli di montagna, che davano poco lustro ma rendevano molti quattrini, perché chi passava dai valichi del Nord-Ovest doveva pagare congrui pedaggi. Presto però gli interessi di famiglia si allargarono a sud. Artefice della svolta fu una donna, Adelaide di Susa (1015 ca.-1091), che nella storia sabauda

ALINARI

SAVOIA

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In MILLE ANNI hanno avuto 12 AMEDEO, 6 Filiberto, 5 Umberto, 5 Carlo Emanuele, 4 Vittorio Emanuele e un solo EDOARDO

BRIDGEMANART/MONDADORI PORTFOLIO

AMATO E ODIATO

Ritratto equestre di Eugenio di Savoia (1663-1736): era un militare coraggioso ed è più famoso all’estero che in Italia.

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conta più del capostipite: energica e intelligente, due volte vedova, capace di apprezzare la buona musica e di tirar di spada, sposò in terze nozze Oddone, figlio di Biancamano, portando in dote metà Piemonte. E poiché il marito morì in fretta, governò lo Stato di persona, reggente di nome e regnante di fatto. “Tu senza l’aiuto di un re sostieni il peso del regno”, scrisse di lei il contemporaneo Pier Damiani, futuro santo e dottore della Chiesa. In realtà il “regno” non era ancora tale, ma Adelaide fece di tutto perché il feudo sabaudo uscisse dal suo aureo provincialismo per affacciarsi sui grandi scenari d’Europa: diede in sposa sua figlia Berta all’imperatore Enrico IV; poi, quando questi fu scomunicato, mediò col papa perché fosse ricevuto a Canossa (1077). Fu per quell’abile virago che i Savoia cominciarono a diventare italiani: il primo ad abbinare al titolo di conte di Savoia quello di marchese di Torino fu Pietro I (1048 ca.1078), figlio di Adelaide. Ma perché la città piemontese sostituisse la capitale originaria Chambéry, dovevano passare cinque secoli: la staffetta ebbe luogo nel 1562, per volontà di Emanuele Filiberto, celebre condottiero che combattendo per l’imperatore Carlo V si guadagnò gloria, crediti e l’epiteto di “Testa di Ferro”, riferito all’inseparabile elmo. Condottieri. Biancamano, Adelaide ed Emanuele Filiberto sono personaggi-simbolo dei tre principali strumenti (rendite di posizione, matrimoni politici e servizi militari per conto terzi) su cui i Savoia costruirono la loro carriera, che fu lenta ma brillante: conti in origine e marchesi dal 1060, gli eredi del Biancamano diventarono duchi nel 1416 e re nel 1458. A renderli re non fu la Sardegna ma Cipro, effimera dote di un matrimonio; il primo re di Sardegna venne dopo: si chiamava Vittorio Amedeo II (1666-1732) e morì agli arresti, rinchiuso dai parenti nel castello di Moncalieri. Fra i tre strumenti, il più usato fu l’arte militare. Gli annali sabaudi traboccano di condottieri, che spesso si guadagnarono sul campo, oltre a territori e favori di potenti, anche nomignoli bizzarri. Qualche esempio: Amedeo I (morto attorno al 1051), detto “Coda” per la folta scorta che portava sempre con sé; Amedeo VI (1334-1383) alias “Conte Verde”, che combatté per i bizantini; Filippo II detto “il Senza Terra” (1443-1497), prima alleato e poi nemico dei francesi; Filiberto II “il Bello” (14801504), che servì prima la Francia e poi l’Austria; Carlo III “il Buono” (1486-1553), che aiutò i re francesi a conquistare il Milanese. Il soprannome

REDUX/CONTRASTO

deli non siano corrotte dalla vicinanza dei giudei”. Ancor più integralista fu il primo re di Sardegna, Vittorio Amedeo II, che fece massacrare i valdesi (1686-1689). Oltre al potere in terra, la fede procurò alla dinastia anche gli onori degli altari, perché la Chiesa proclamò beati due Savoia: Umberto III (1136-1189) e Amedeo IX (14351472). Nessuna causa di beatificazione fu invece avviata per Carlo Emanuele IV (1751-1819), re piissimo che dopo la Rivoluzione francese rinunciò alla corona e si fece gesuita. Quando, nel 1815, il Congresso di Vienna riportò al potere i re d’Europa, sul trono andò suo fratello Vittorio Emanuele I: iniziava un’altra storia, quella del Risorgimento. • Nino Gorio

LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO

più strano lo meritò Renato (1470 ca.-1525) detto “il Gran Bastardo” perché era un figlio naturale del Senza Terra. Ma nei libri di storia i posti più importanti vanno ad altri: a Emanuele Filiberto (1528-1580), che riconquistò le terre sabaude dopo un periodo di occupazione francese, e a Eugenio (1663-1736), che combatté per gli Asburgo, salvando l’Austria dall’invasione turca e conquistando loro la Lombardia, che per ironia della sorte 150 anni dopo fu la causa di due guerre tra l’Austria e i Savoia. Geniale stratega e militare coraggioso, Eugenio era anche omosessuale dichiarato, tanto che a Vienna si presentò vestito da donna. Perciò passò alla storia con vari soprannomi. “Principe Sole” per i suoi protettori austriaci, “Madame Sodomie” per gli invidiosi francesi, che ne avevano rifiutato i servigi, Eugenio fu più popolare all’estero che in Italia: Gran Bretagna e Germania gli hanno dedicato navi da guerra, l’Ungheria una magnifica statua equestre davanti al palazzo reale di Budapest, e Vienna ne ospita la tomba nel luogo più sacro della città, la cattedrale di Santo Stefano. Politica nuziale. Anche le donne ebbero un ruolo chiave nel creare le fortune di famiglia, perché per secoli casa Savoia fu un autentico “moglificio” per i potenti d’Europa: la dinastia fornì spose, fra gli altri, a due duchi di Milano, a un duca di Sassonia, a un re di Spagna, a un re del Portogallo, a un re di Germania, a quattro re di Francia e a due imperatori. Dove non arrivarono spade e nozze supplì talvolta la fede, intesa come carriera ecclesiastica, altro mezzo di potere. Oltre a diversi vescovi, il curriculum del casato conta un cardinale (Maurizio, 1593-1657) e un antipapa: Amedeo VIII “il Pacifico” (1383-1451), che diventò Felice V e in nome della cristianità dello Stato chiuse i sudditi ebrei nei ghetti “affinché le menti dei fe-

UN ABILE CONDOTTIERO

Emanuele Filiberto duca di Savoia (15281580): riconquistò le terre sabaude dopo l’occupazione francese e portò la capitale a Torino.

UNA CASA PER EUGENIO

Sopra, la residenza costruita nel 1723 a Vienna per il principe Eugenio di Savoia, eroe della guerra contro i Turchi.

ITALIA BORBONICA

Nel 1734, con CARLO III, nasce la dinastia Borbone in Italia. E NAPOLI, grazie a un governo COLTO e lungimirante, divenne una delle più belle CAPITALI d’Europa

ALINARI

Benvenuti al SUD

A sinistra, Carlo III di Borbone (1716-1788), che regnò a Napoli. Sotto, la duchessa di Parma Maria Amalia d’Austria (1746-1804) moglie di Ferdinando I di Borbone-Parma (1751-1802).

SCALA

A NAPOLI E A PARMA

lo un antipasto. L’occasione favorevole arrivò nel 1733, con la guerra di successione polacca dopo la morte di Augusto II: anche la Francia riconobbe a Carlo il ducato di Parma e gli eventuali diritti sulla Toscana. Con Carlo Emanuele di Savoia, poi, la Francia aveva stabilito un’ulteriore ripartizione di pretese dinastiche, che prevedeva l’assegnazione del trono di Napoli alla Spagna. Tra Madrid e Vienna fu guerra e Carlo divenne comandante dell’Armata spagnola in Italia. Aveva da poco compiuto diciotto anni e quello fu l’evento decisivo per soddisfare le ambizioni di Elisabetta nei confronti del figlio. Il giovane marciò alla conquista dell’Italia Meridionale controllata da ventisette anni dagli austriaci, dopo i due secoli di vicereame spagnolo. Scrisse la regina di Spagna al figlio: “Una volta elevate al grado di libero regno, Napoli e la Sicilia saranno tue. Va, dunque, e vinci. La più bella corona d’Italia ti attende”. Il resto avvenne in pochi mesi: la sconfitta degli austriaci, la vittoria definitiva di Carlo a Bitonto il 25 maggio a suggellare la conquista dell’intero regno, l’acclamato ingresso a Napoli e poi a Palermo con l’incoronazione nella cattedrale della capitale siciliana. Ingresso trionfale. Il primo sovrano del regno autonomo di Napoli e Sicilia, fondatore della dinastia Borbone nell’Italia Meridionale, entrò a Napoli il 10 maggio 1734. Nasceva il regno borbonico nel Sud, che sarebbe durato 127 anni. L’ingresso nella capitale fu un trionfo: cominciò da porta Capuana, con il re a precedere i suoi generali. Proseguì per le vie cittadine tra le acclamazioni

MONDADORI PORTFOLIO

N

acque bene, Carlo III di Borbone, e anche fortunato. Il padre era Filippo V re di Spagna e la mamma Elisabetta Farnese, che del sovrano spagnolo era la seconda moglie e aveva ereditato per complessi intrecci familiari le pretese dinastiche sul ducato di Parma e Piacenza. Il figlio primogenito della coppia nacque a Madrid il 20 gennaio del 1716: piccolo, magro, spalle curve, carnagione scura, Carlos fu educato da una severa governante spagnola e da professori religiosi. Imparò il francese e il tedesco, amò lo studio della storia, le scienze, la tattica militare. Elisabetta Farnese desiderava per il suo primo figlio un trono importante. Dopo un ventennio di turbolenti accordi e guerre l’ottenne. Le danze hanno inizio. L’imperatore d’Austria Carlo VI d’Asburgo accettò nel 1731 che il quindicenne principe spagnolo prendesse possesso di Parma e Piacenza, presidiando la Toscana. Alla partenza del futuro re da Siviglia per l’Italia, il padre Filippo V gli fece il segno della croce sulla fronte regalandogli la spada ingioiellata appartenuta a Luigi XIV di Francia, nonno del re di Spagna. Avi illustri e un futuro in ascesa per l’infante Carlo, che mantenne i diritti ereditari sul trono di Madrid. Il ducato di Parma e Piacenza era so-

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SCALA

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Il giovane re CARLO fu subito preso in SIMPATIA dai napoletani. Anche San Gennaro fece subito il suo MIRACOLO

DE AGOSTINI/GETTY IMAGES

della folla in festa, che faceva a gara ad afferrare le monete d’oro e argento lanciate dal tesoriere di corte. Fu un tripudio, con il giovane re preso subito in simpatia dalla gente: da cattolico osservante, si fermò nel monastero di San Francesco di Paola, vicino porta Capuana, per pregare. Poi entrò nel Duomo, dove fu benedetto dal cardinale Pignatelli cui regalò una croce pregiata per il tesoro di San Gennaro. A via Toledo i balconi erano addobbati da lenzuola e copriletto ricamati. Quattro giorni dopo, San Gennaro fece subito il suo miracolo: la liquefazione del sangue avvenne in pochi istanti. Fu considerato un buon auspicio. Arriva la regina. L’intera Italia Meridionale divenne Stato autonomo e indipendente. Carlo era sovrano di Napoli e Sicilia, ma manteneva anche i suoi diritti nella successione sul trono del padre Filippo V. Con decisione sollecitata dal padre per un accordo con l’Austria, stabilì che dal suo successore in poi non si potevano possedere diritti dinastici su entrambi i troni. Dopo la pace di Vienna, arrivò il matrimonio con Maria Amalia di Sassonia che, quando nel 1737 divenne regina, aveva solo 13 anni. Proprio durante i festeggiamenti per il loro primo incontro a Fondi, il re creò il più importante ordine cavalleresco della dinastia Borbone di Napoli: il reale ordine di San Gennaro, quello sim-

SCALA

PERIODO D’ORO

Qui sopra, Ferdinando I di Borbone (17511825), figlio di Carlo III e re delle Due Sicilie dal 1759. A sinistra, l’abdicazione di Carlo a favore del figlio e, in basso, il Teatro San Carlo, costruito nel 1737 in pochi mesi.

boleggiato dal famoso cordone che diventerà tra i più ambiti tra aristocratici e notabili meridionali. I 25 anni di regno di Carlo furono illuminati, in poco tempo vennero realizzate numerose opere pubbliche che cambiarono il volto di Napoli. Come il teatro San Carlo, tempio del melodramma realizzato dall’impresario Angelo Carasale con l’architetto Giovanni Antonio Medrano in soli otto mesi. I lavori iniziarono nel marzo 1737, finirono a ottobre e l’inaugurazione avvenne il 4 novembre,

giorno dell’onomastico del re. In quell’occasione furono rappresentate tre opere del Metastasio, che era all’apice della fama. L’anno dell’apertura del San Carlo fu anche quello del matrimonio del re con Maria Amalia, celebrato per procura a Dresda. La regina era alta, bionda, con occhi azzurri. Parlava l’italiano e il francese e conosceva il latino. Il suo aspetto fu però rovinato dal vaiolo. Rimase una coppia molto unita, anche se l’aspetto fisico dei coniugi non era gradevole, tanto che il poeta Thomas Gray scrisse che i sovrani di Napoli erano “una bruttissima coppia di sposi”. Ma re e regina si fecero amare dal popolo e abbellirono molto la capitale: fu realizzato anche il famoso Real Albergo dei Poveri, progettato nel 1749 dall’architetto Ferdinando Fuga e destinato a ospitare i tanti senzatetto e indigenti della città. Nelle sue decisioni, il re Carlo fu guidato molto da un primo ministro colto, intelligente e abile come Bernardo Tanucci. Il regno ebbe all’inizio un orientamento laico e i beni ecclesiastici furono tassati. Venne riformato il catasto, introducendo come misura imponibile l’oncia che equivaleva a 28,35 grammi. Fu tentata, nel 1738, la limitazione dei poteri feudali abolendo il diritto dei feudatari a esercitare poteri giudiziari sui loro possedimenti. Sei anni dopo, però, i baroni, che condizionavano la vita dello Stato centrale, fecero revocare la riforma. Napoli rifiorisce. Nel primo periodo del regno borbonico lavorarono a Napoli architetti di fama e capacità, come Ferdinando Fuga, Luigi Vanvitelli, Antonio Canevari, Giovanni Antonio Medrano. La regina promosse la scuola delle porcellane di Capodimonte e fu avviata la costruzione della reggia di Caserta destinata a diventare la Versailles dei Borbone di Napoli. Iniziarono anche i lavori della reggia di Capodimonte. “In 25 anni, Napoli fu trasformata diventando una

Parma e Piacenza: il ducato conteso

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u nel 1737 che Filippo V e il figlio Carlo III lasciarono Parma e Piacenza all’imperatore d’Austria Carlo VI d’Asburgo. Al nuovo re di Napoli e Sicilia fu permesso di portare con sé i beni e le proprietà della famiglia Farnese cui apparteneva la madre, che si trovavano a Parma. Carlo fece trasportare a Napoli la collezione di opere d’arte, la biblioteca ducale, gli archivi, i cannoni dei forti

e anche la scalinata di marmo del palazzo. Sulla decisione, al centro di recenti polemiche, ha scritto lo storico Harold Acton: “In definitiva fu un atto vantaggioso per l’Italia, perché altrimenti quei tesori sarebbero stati mandati in Austria”. Con il trattato tra Austria e Spagna, Vienna riconobbe formalmente il diritto dei Borbone a regnare su Napoli e la Sicilia, ma in cambio pretese che mai quel trono

avrebbe potuto coincidere con quello spagnolo. Il ducato di Parma e Piacenza restò agli Asburgo per 11 anni fino alla pace di Aquisgrana (1748), quando tornò ai Borbone. Verso l’annessione. Ne divenne duca prima Filippo I, fratello di Carlo III, fino al 1765, e subito dopo Ferdinando I fino al 1802. Dopo la successiva annessione del ducato alla Francia, ci fu l’affidamento nel 1814 a Maria Luigia d’Austria

(seconda moglie di Napoleone). Infine, il ducato tornò ai Borbone nel 1847. Nel 1854 Carlo III di Borbone-Parma venne ucciso in un attentato. La moglie, Luisa Maria Teresa del ramo Borbone francese, guidò il ducato da reggente per il figlio Roberto che aveva sei anni. Nel 1859, dopo la Seconda guerra d’indipendenza, Parma e Piacenza furono annesse al regno sardo-piemontese.

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I sovrani avviarono la costruzione della reggia di CASERTA, che sarebbe diventata la VERSAILLES dei Borbone di Napoli della Repubblica partenopea influenzarono le scelte politiche del re costretto due volte a rifugiarsi a Palermo con la Sicilia rimasta sotto il controllo della dinastia borbonica. Nel 1816, un anno dopo il congresso di Vienna, Ferdinando unificò i regni di Sicilia e Napoli che divennero anche formalmente l’unico regno delle Due Sicilie. La frattura politica e il giudizio negativo sulla dinastia furono influenzati dalle condanne a morte dei principali artefici della Repubblica del 1799. Giudizio condizionato da Benedetto Croce, che vide in quell’evento la premessa del futuro riscatto risorgimentale. Dopo il breve regno di Francesco I dal 1825 al 1830, salì sul trono Ferdinando II che vi rimase dal 1830 al 1859 favorendo per un ventennio prosperità economica ma, investito dalla bufera dei moti liberali del 1848, avviò politiche repressive. Ferdinando II morì nel 1859, giusto in tempo per non assistere alla fine del suo regno, caduto nel 1861 sotto la pressione della spedizione dei Mille di Garibaldi. Sul trono sedeva l’ultimo re del Regno delle Due • Sicilie, Francesco II di Borbone.

L’ADDIO A NAPOLI

La partenza di Carlo III di Borbone per la Spagna da Napoli, il 7 ottobre 1759, in un quadro di Antonio Joli (1700 -1777). Sul trono italiano salì il figlio di otto anni, Ferdinando IV.

Gigi Di Fiore

ALINARI

delle più belle capitali d’Europa”, scrisse lo storico Harold Acton. All’Università avevano importanti cattedre Celestino Galiani e Antonio Genovesi, allievo di Gianbattista Vico, primo docente universitario di economia politica in Europa. Nel 1742, lo Stato di Napoli spendeva tre volte quello di Torino in opere pubbliche, ma le rendite erano raddoppiate e le tasse diminuite. Arriva Garibaldi. Il 10 agosto 1759 morì Ferdinando VI re di Spagna. Finiva così per Carlo l’avventura italiana. Lasciò il regno di Napoli al figlio terzogenito. Il nuovo re, Ferdinando IV, che aveva solo otto anni, fu affiancato da un consiglio di reggenza dove all’inizio rimase influente ancora Tanucci. Ferdinando regnò per 66 anni e nei primi anni governò sulla scia del padre. Poi arrivò lo tsunami della Rivoluzione francese, nel 1789, e scattò l’allarme in tutte le corti d’Europa. Le riforme avviate e le decisioni illuminate furono bloccate dal terrore dei sanguinosi avvenimenti francesi. L’influenza della regina austriaca Maria Teresa, sorella della ghigliottinata Maria Antonietta di Francia, si fece sentire. Il periodo napoleonico e i sei mesi di parentesi

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SOVRANE L’

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Italia nacque senza regina. La predestinata, Maria Adelaide d’Asburgo-Lorena, morì infatti nel 1855, sfinita dall’ennesimo parto. Al cugino Vittorio Emanuele, sposato nel 1842, aveva dato otto figli. Umberto, primo dei maschi, sarebbe diventato il secondo re d’Italia. Esile, pallida, incline alla malinconia, Maria Adelaide era l’opposto delle donne che piacevano al marito: attrici e popolane, più che dame. Ma lei non interferì mai con le scelte del focoso consorte e passò ai posteri come modello di virtù e fede. La Rosina. Vedovo non inconsolabile, Vittorio Emanuele rifiutò altre proposte di matrimonio. Non riusciva infatti a staccarsi da colei che, a detta del conte di Cavour, lo manteneva “nella crapula e nel disordine” e dalla quale, insisteva lo statista, “è per noi un dovere di coscienza di staccarlo”. Ma nemmeno Cavour poté nulla contro Rosa Vercellana. Il re l’aveva conosciuta nel 1847 durante una battuta di caccia, quando la ragazza aveva solo 14 anni, e lei divenne il porto sicuro nella sua tormentata vita amorosa. Lunghi capelli scuri, forme generose, la “bela Rosin” (così ribattezzata negli invidiosi ambienti aristocratici) era il prototipo della rigogliosa popolana. Originaria di Moncalvo d’Asti, non sapeva leggere né scrivere, si esprimeva in dialetto (come il re, del resto) e ignorava le regole dell’alta società. Ma la Rosina era sempre allegra, comRISERVATA

Elena del Montenegro, regina dal 1900 al 1946. Amava i boa di struzzo, ma non apparire in pubblico.

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fatti e CURIOSITÀ sulle regine (ufficiali e non) dal 1861 al 1946

prensiva, mai gelosa, capace di restare al proprio posto e tutt’altro che sprovveduta. Anche per questo Vittorio Emanuele la ospitò a un tiro di schioppo dalla sua residenza ufficiale, nei castelli di Stupinigi e del parco della Mandria, poco lontano da Torino. E a La Petraia e a Villa Mirafiori, rispettivamente a Firenze e a Roma, quando la capitale fu trasferita. La Rosina condivise con l’amante la buona tavola, le partite a biliardo e la passione per la caccia. E anche una famiglia (Vittoria nacque nel 1848 ed Emanuele nel 1851) che, per quanto “atipica”, rappresentò sempre un punto fermo affettivo per il re. Non accampò pretese al trono, ma ottenne favori per sé e per la sua parentela (nel 1858 divenne contessa di Mirafiori e di Fontanafredda). Nel 1869 il re, gravemente malato, volle sposarla in chiesa con il rito morganatico, che la escludeva dai diritti dinastici ma garantiva l’inviolabilità del vincolo. E nel 1877, tre mesi prima della morte del re, arrivò l’unione civile. L’amata Margherita. Se Rosina dovette combattere per tutta la vita con i detrattori, ben altra sorte toccò alla prima regina “ufficiale”: Margherita di Savoia. “Onde venisti? Quali a noi secoli / sì mite e bella ti tramandarono? [...] / Fulgida e bionda ne l’adamantina / luce del serto tu passi, e il popolo / superbo di te si compiace”, scriveva Giosuè Carducci, repubblicano poi convertitosi alla monarchia, nella più famosa tra le tante poesie a lei dedicate (Ode alla regina, del 1878). Almeno 250 furono i letterati che la AMATA

Margherita di Savoia, sovrana dal 1878 al 1900. Il suo fascino rese familiare agli italiani Casa Savoia.

FARABOLAFOTO

D’ITALIA

FARABOLAFOTO

Vittorio Emanuele III ed ELENA condivisero il LETTO matrimoniale: un fatto INUSUALE per casa Savoia omaggiarono. Scelta dal futuro suocero, Margherita aveva sposato nel 1868 non ancora 17enne il cugino Umberto. E gli aveva dato un erede, Vittorio Emanuele, accettando una convivenza all’insegna dell’indifferenza reciproca. Umberto aveva due passioni: i cavalli e le donne. E anche a Margherita, come a Maria Adelaide, toccò fare i conti con un’amante fissa, la duchessa Eugenia Litta Visconti in Bolognini, detta “la bella Bolognina”. Si dice che nell’estate del 1870, entrando nelle stanze del consorte, lo avesse sorpreso tra le braccia di lei. Fu allora che rinunciò definitivamente al marito per sedurre l’Italia unita. Mondana. Trasferitasi con Umberto a Roma nel 1871 (sarebbero diventati sovrani nel 1878) trasformò il Quirinale in un centro di mondanità, coinvolgendo la nobiltà romana, inizialmente ostile al-

Fra diplomazia e misericordia

“I

o credo a un solo bacillo. Il bacillo della paura”. Questa la replica della regina Elena al medico che la metteva in guardia dal pericolo dei germi, dopo che, durante la Prima guerra mondiale, il Quirinale fu trasformato in

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Ospedale territoriale n° 1, per sua volontà. La suocera non fu da meno: palazzo Margherita divenne l’Ospedale n° 2. Pietose. Margherita, in precedenza, era stata nel 1882 nel Veneto inondato dall’Adige e nel 1884 a Napoli colpita

dal colera. Elena, soprannominata “la pietosa”, accorse nel 1908 tra le macerie di Messina distrutta dal terremoto. E, smussate da Margherita le resistenze della curia romana, nel 1937 fu insignita da Pio XI della Rosa d’oro della cristianità.

la monarchia sabauda. Si fece paladina della cultura, terreno vergine per i maschi di casa Savoia, aprendo il suo salotto agli artisti. Nelle tante visite ufficiali in giro per l’Italia, la folla accorreva per vedere e applaudire la bionda regina (di ascendenze sassoni per parte di madre) e descritta come bellissima. “Questa bella regina”, sentenziò la scrittrice Matilde Serao, “che saluta con tanta amabilità amici e nemici, monarchici e repubblicani, è anche una donna che sente, che pensa, che sa, che ascolta”. Nel 1898 lodò i soldati che avevano sparato sulla folla che manifestava contro il carovita, eppure rimase popolare. Il suo fu il nome più diffuso tra le bambine nate a fine secolo; le furono intitolati scuole e ospedali, ma anche una torta (a base di fecola di patate e uova), una cima nel massiccio del Monte Bianco e un rifugio sul Monte Rosa (era un’appassionata alpinista ed escursionista). Margherita fu il nome della prima rivista italiana di alta moda e di un piatto nazionale, l’omonima pizza (v. riquadro nelle pagine successive). Donna “di razza”. “Ci vuole una bella donna, bruna e forte per rinvigorire la razza, e la Montenegrina lo è”. Fu Francesco Crispi, presidente del Consiglio molto ascoltato dalla regina Margherita, a perorare la causa di Elena del Montenegro per interrompere la tradizione sabauda dei matrimoni tra consanguinei. Nata a Cetinje nel 1873, la sesta figlia del re del Montenegro Nicola I era una giovane sana, robusta, alta; non solo rispondeva a una combinazione di interessi (i Balcani rappresentavano una possibile area di espansione per l’Italia), ma fece anche innamorare l’erede al trono dei Savoia, Vittorio Emanuele III. Le “nozze con i fichi secchi” (come scrisse Edo-

DEA/ALINARI

ALINARI

PERLE INDISCRETE

Margherita di Savoia (qui a destra) amava molto le collane. Si diceva che a ogni scappatella Umberto I le regalasse un giro di perle. Sotto, Maria Adelaide, regina mancata: morì nel 1855.

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LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO

FULGIDA

PADRE E FIGLIO

ISTITUTO LUCE/SCALA

A sinistra, Margherita di Savoia (1851-1926) con il figlio Vittorio Emanuele, futuro re, avuto da Umberto I nel 1869. A destra, Vittorio Emanuele II con l’amante Rosa Vercellana, la “bela Rosin” (1833-1885), e i figli avuti da lei: Emanuele e Vittoria.

A sinistra, “Curtatone e Montanara”, nomignoli del basso Vittorio Emanuele III e della statuaria Elena. Il figlio Umberto II (qui di sopra con Maria José crocerossina) era invece prestante.

Nel piatto delle Loro Maestà

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Gianpaolo Fissore

regina Margherita, capace di annullare la distanza tra corte e sudditi. Durante un pranzo di gala al Quirinale, il consuocero Nicola I aveva difficoltà a disossare il pollo con coltello e forchetta. Margherita, per toglierlo dall’imbarazzo, afferrò il pollo con le mani, imitata dagli altri. Da qui il detto “la regina Margherita mangia il pollo con le dita”. Sempre in onore della regina

fu creata nel 1889, dal cuoco napoletano Raffaele Esposito, la pizza tricolore (rosso pomodoro, bianco mozzarella e verde basilico): la “margherita”. Cibo pesante. Elena, invece, restò sempre fedele alle specialità montenegrine: montone allo spiedo, prosciutto al forno, maiale con riso, cipolle e melanzane. Menù che il real consorte pare non gradisse.

In una pizzeria di fine ’800 vengono servite le prime “margherite”.

FOTOTECA STORICA NAZIONALE ANDO GILARDI

ardo Scarfoglio sul Mattino di Napoli alludendo alla scarsa dote della sposa) furono l’inizio di un’unione coronata dalla nascita di 5 figli. Elena era tutt’altro che una parvenue: aveva studiato a Pietroburgo, conosceva il serbo, il russo e il greco, a tavola amava conversare in francese e discuteva di politica e poesia. Regina dal 1900, dopo l’assassinio di Umberto I, fu meno presenzialista della suocera. Fece un’eccezione il 18 dicembre 1935, quando salì i gradini dell’Altare della patria per donare la fede nuziale, legittimando la “giornata della fede” voluta da Mussolini per fronteggiare le sanzioni internazionali contro l’Italia. Dopo l’8 settembre 1943 seguì il marito in fuga da Roma verso Alessandria d’Egitto. Fu l’inizio di un lungo esilio, nel quale fu presto raggiunta da Maria José del Belgio. Ma se Elena regnò per quasi mezzo secolo, Maria José, moglie di Umberto II dal 1930, dovette aspettare il 9 maggio 1946 per essere incoronata. E dovette accontentarsi di passare alla Storia come “regina di maggio”. Il 12 giugno dello stesso anno lasciò la corona: • l’Italia era ormai una repubblica.

a bela Rosin si teneva stretto il re d’Italia anche sfruttando il suo eterno appetito. Sulla loro tavola abbondavano cacciagione, pollo con cipolle, lumache e piatti della tradizione piemontese, dai tajarin (pasta all’uovo) con tartufi alla bagna cauda (a base di acciughe). Con le dita. Legato al cibo fu anche uno degli episodi che resero familiare la

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CONFRONTI

La vita PRIVATA, lo stile di governo e le idee nelle casate che a metà Ottocento guidavano il Regno di SARDEGNA e il Regno delle DUE SICILIE

ALLE DUE

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SAVOIA

TOP FOTO/ALINARI

LA REGGIA DI VITTORIO EMANUELE... La palazzina di caccia a Stupinigi (Torino). Il re amava anche il castello di Moncalieri.

...E QUELLA DEL RE FERDINANDO La Reggia di Caserta fu eretta per volere di Carlo III di Borbone, utilizzata dal 1780 ma terminata solo nel 1845.

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Costituzione che concesse nel gennaio 1848, giocando d’anticipo sugli altri sovrani italiani, non scaturì da un intimo convincimento, ma fu il frutto di un calcolo opportunistico, volto a prevenire rivolte. E infatti nel giro di pochi mesi quella Carta divenne carta straccia e ogni apertura liberale fu annullata. Ferdinando si guadagnò il nomignolo di Re Bomba dopo il cannoneggiamento ordinato per piegare la resistenza di Messina (3-7 settembre 1848) e iniziare la riconquista della ribelle Sicilia. Cacciati da corte i letterati (detti con disprezzo “pennaruli”) e guardati con diffidenza gli uomini di scienza (“scoscienziati” se di idee liberali), il re finì per circondarsi di ministri perlopiù mediocri. I processi degli anni successivi al 1850 videro alla sbarra molti intellettuali, da Carlo Poerio a Luigi Settembrini, e si conclusero con pene spropositate per reati d’opinione (condanne a morte commutate in alcuni casi con il carcere a vita).

ALAMY/ZPA

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i racconta che il giovane Ferdinando II, re delle Due Sicilie, nel 1832 avesse preferito recarsi a Genova sotto falso nome per sposare Maria Cristina di Savoia. Temeva che i carbonari potessero approfittare della sua assenza da Napoli per tentare un moto rivoluzionario. L’episodio riassume gli intrecci fra Borbone e Savoia: due case regnanti i cui destini finirono per incrociarsi negli anni dell’unificazione italiana, e non solo davanti all’altare. Re bomba. Ferdinando II era salito al trono ventenne nel 1830 e nel primo periodo del suo regno proseguì la modernizzazione avviata nel precedente decennio di dominazione francese. Mantenne a corte civili e militari formatisi sotto Gioacchino Murat e favorì una classe dirigente di grande competenza. Nello stesso tempo, però, fu durissimo nei confronti di chiunque minacciasse il regime assolutista. La

SAVOIA Entrambe le dinastie avevano ORIGINI STRANIERE: francesi i RITRATTO DI FAMIGLIA

Vittorio Emanuele II (anche qui sopra) in famiglia. Dietro di lui, il re del Portogallo, marito di Maria Pia di Savoia.

LA MOGLIE FERTILE...

In realtà non esistono testimonianze sulla natura di quel colloquio e la diceria fu messa in giro da Massimo D’Azeglio, politico al quale il giovane re affidò, non senza riluttanza, il compito di guidare lo Stato sabaudo nel periodo seguito alla sconfitta contro l’Austria. Vittorio Emanuele II mal tollerava la libertà di stampa e le limitazioni imposte al potere del re dalla Camera elettiva. Né mancavano a Torino circoli aristocratici e clericali ansiosi di spingerlo a un colpo di Stato che ripristinasse l’ordine costituito. Ancora meno entusiasti della riforma dello Stato sabaudo erano gli ufficiali di cui il re amava circondarsi. Come interlocutori in grado di arginare i democratici più radicali, Vittorio Emanuele II non scelse però i compagni di caccia conservatori, bensì

BORBONE

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Sotto, Maria Teresa d’Asburgo (18161867), seconda moglie di Ferdinando II di Borbone (in basso), con 3 dei suoi 12 figli.

Presunto galantuomo. La svolta autoritaria scavò un fossato tra la corte e la classe media meridionale, che pure aveva beneficiato dell’iniziale illuminismo. Quasi un migliaio tra i membri di quella fetta progressista del Sud emigrò in Inghilterra, in Francia e soprattutto in Piemonte. Alcuni sarebbero diventati ministri nel futuro Regno d’Italia. Forse credettero al soprannome di Vittorio Emanuele II, Re galantuomo, che però era solo un mito. L’idea che il sovrano fosse fedele prima di tutto alla Costituzione del Regno di Sardegna si fonda sul fatto che Vittorio Emanuele, da poche ore salito al trono, era stato capace, nell’incontro di Vignale del 24 marzo 1849, di tener testa al generale austriaco Radetzky, rifiutandosi di abrogare lo Statuto concesso da suo padre Carlo Alberto.

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Savoia, spagnole i Borbone. Ed entrambe repressero i moti del 1848

SCALA/MIBAC

i liberali moderati. Intendiamoci: non mostrò mai simpatia per D’Azeglio o Cavour, suoi primi ministri nel periodo preunitario. Si limitò ad affidarsi alla loro intelligenza politica, allo scopo di consolidare il ruolo egemone della monarchia sabauda nel processo di unificazione italiana. Una prole nUmerosa. Fin qui la politica. Poi c’erano la vita privata e quella a palazzo. Perno del ménage familiare e della vita di corte dei Borbone, che ruotava attorno alla Reggia di Caserta, dal 1837 era Maria Teresa d’Austria, seconda moglie di Ferdinando. La regina non mostrò una propensione particolare per ricevimenti e banchetti (amati invece dal marito, che era goloso di caponata, mozzarella di bufala, pizze, maccheroni e soprattutto cipolla cruda). Ma fece la “brava regina” mettendo al

mondo una prole numerosa: dodici figli, di cui l’ultimo nato quando lei aveva superato i quarant’anni. La prima moglie di Ferdinando, Maria Cristina di Savoia, devota al limite del bigottismo, era invece morta nel 1836, pochi giorni dopo il parto, lasciando un solo erede (Franceschiello). Fu subito avvolta da un’aura di santità. Le furono attribuiti vari miracoli e, nel 1853, la Chiesa le riconobbe lo status di venerabile. Il re, del resto, era prodigo di favori e donazioni verso le istituzioni ecclesiastiche. E il papa era di casa alla corte borbonica. Pio IX, che aveva trovato ospitalità nel Regno delle Due Sicilie tra 1848 e il 1850 (durante la Repubblica romana), aveva affermato di riconoscere “la mano di nostro Signore” nei successi di Ferdinando “sopra i radicali di Napoli e sui ribelli di Sicilia”.

L’AMATA MARGHERITA

La prima regina del Regno d’Italia fu Margherita (sopra), moglie di Umberto I. A destra, Vittorio Emanuele II a caccia.

...E LA MOGLIE BEATIFICATA

Sotto, Maria Cristina di Savoia (1812-1836), prima moglie di Ferdinando II e madre di Franceschiello. A destra, una battuta di caccia dei Borbone.

SAVOIA

Una giornata con Vittorio Emanuele II

DE A/ALINARI

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e giornate-tipo di Vittorio Emanuele II si svolgevano spesso nel castello reale di Moncalieri. Più che una corte, la residenza sembrava una caserma. Senza orari. Va detto però che Vittorio Emanuele non teneva in alcun conto orari e protocollo. Andava e veniva a suo piacimento e senza preavviso si recava a Torino dai suoi ministri, o, più spesso, si assenta-

va per uscite a cavallo, lunghe battute di caccia o avventure amorose. Oltre alle belle donne, presenze fisse nelle giornate del sovrano erano l’aiutante di campo di Vittorio Emanuele, il conte Della Rocca, e alcuni ufficiali scelti tra i commilitoni del re, poco inclini alle buone maniere. A imitazione del sovrano – che non rispettava neppure le stanze della regina, quando era

in vita – avevano preso l’abitudine di fumare il sigaro dappertutto. La sera si tenevano ricevimenti ufficiali ma il re, riportano le cronache, “ballava come un orso” e durante i pranzi di gala quasi non toccava il cibo, preparato seguendo ricette francesi. Prediligeva selvaggina alla brace, il pollo all’aglio e bagna càuda, piatto piemontese a base di aglio, olio e acciughe.

La VITA delle due corti si somigliava: RICEVIMENTI e banchetti, CENTRO DI POTERE

Sopra, Cavour e Vittorio Emanuele II nel 1853 a Palazzo Madama di Torino, allora sede del parlamento subalpino.

NAPOLI ADDIO

Sotto, Francesco II di Borbone, figlio di Ferdinando II e ultimo re delle Due Sicilie, nel 1861 costretto all’esilio.

Di segno opposto i giudizi papali sui Savoia. Dopo la soppressione in Piemonte di vari ordini religiosi e la confisca dei beni ecclesiatici (nel 1855), il pontefice scomunicò “tutti coloro i quali, nel Regno Subalpino, non esitarono a proporre, approvare, sancire i predetti decreti”. La relazione con la Bela Rosin, amante e (dopo la morte della consorte nel 1855) moglie morganatica di Vittorio Emanuele, ovvero “la pratica immorale che da diversi anni tiene la Maestà Sua con donna triviale e disonorata e con pubblico scandalo” era “un grave ostacolo alla riconciliazione ecclesiastica”. Risultato: nell’organigramma di Casa Savoia diminuirono le caselle occupate dal clero, anche se agli ecclesiastici rimase il compito di tenere in vita le sempre più accidentate ma irrinunciabili relazioni con la Santa Sede.

Le corti delle due Italie, dunque, per motivi diversi avevano una statura politica provinciale.“È un tipo singolarissimo che fa trasalire per il suo aspetto e il suo modo di fare” , scrisse di Vittorio Emanuele la regina Vittoria, dopo averlo conosciuto nel 1855. Cavour non riuscì, in quella come in altre circostanze, a tenere a bada i modi grossolani del suo sovrano. Per cementare l’alleanza con i regni stranieri dovette mettere in campo due figure femminili: alla contessa di Castiglione fu assegnata la missione di sedurre Napoleone III; la timida Maria Clotilde, primogenita di Vittorio Emanuele, fu “sacrificata in moglie”, sedicenne, a Gerolamo Bonaparte, più vecchio di vent’anni. Diplomazia superficiale. Nel 1859, a Napoli, l’erede al trono Francesco sposò invece Maria Sofia

Una giornata con Ferdinando II

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REAL EASY STAR

BORBONE

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veglia in tarda mattinata e poi udienze nel salone al pianoterra. Questo era, grosso modo, il programma giornaliero di Ferdinando II quando si trovava alla Reggia di Caserta, sua residenza preferita. Spesso la giornata comprendeva parate militari: il re amava mostrarsi al popolo e aveva una passione per le uniformi. Ma l’attentato di cui fu bersaglio nel 1856, pro-

prio mentre passava in rassegna le truppe, lo rese negli anni più guardingo. Gabinetto. Ministri, diplomatici, vescovi, intendenti delle province conferivano ogni giorno direttamente con lui. Questi, sentita la segreteria particolare, sceglieva a chi dar udienza e a chi no. Fervente cattolico, ogni giorno re Ferdinando assisteva poi alla Santa Messa. Finiti gli incontri ufficiali, il re amava

passeggiare con i figli lungo i maestosi corridoi della reggia casertana, tappezzati da file di mutande e camiciole stese ad asciugare. Le sue regole. Ferdinando controllava che le sue regole fossero rispettate un po’ ovunque: a corte, per esempio, era permesso il gioco delle carte, ma erano vietate le puntate in denaro. E a tavola faceva sempre lui le porzioni per i familiari.

ALINARI

RIUNIONI diplomatiche o di governo e battute di CACCIA

DE A/SCALA

di Baviera, sorella minore di Sissi, imperatrice d’Austria. Una scelta, visto quello che sarebbe accaduto di lì a poco nel Nord Italia, poco lungimirante. La superficialità con cui Fedinando II affrontava la diplomazia è dimostrata da come accolse nel 1851 le Two letters dell’inglese William Gladstone: “Non voglio vederle, non conosco l’inglese, non mi interessano”. Errore: quel duro atto d’accusa, che definiva il regno borbonico “la negazione di Dio”, fece il giro del mondo accreditando una fama che andava al di là delle colpe di Ferdinando. Un altro duro attacco venne dal Congresso di Parigi del 1856 (seguito alla Guerra di Crimea) dove Cavour denunciò il malgoverno borbonico. Ferdinando replicò nell’unico modo che conosceva, dichiarandosi unico garante della “tranquillità e pro-

sperità” del regno. Il successivo ritiro da Napoli degli ambasciatori di Francia e Inghilterra accentuò l’isolamento del Regno delle Due Sicilie che però, secondo il re, non aveva nulla da temere, protetto com’era “per tre quarti dall’acqua salata e per un quarto dall’acqua santa”. Sul letto di morte Ferdinando fece giurare all’erede, il futuro Francesco II, che avrebbe continuato a non tener conto dell’Europa (“non lo riguardava”). In quei giorni, nel maggio del 1859, le vittorie franco-piemontesi contro l’Austria inauguravano la fase del Risorgimento che avrebbe messo la corona d’Italia sul capo di Vittorio Emanuele II. Il quale – ancora nel 1860 – giurava amicizia a Franceschiello, il cugino napoletano. • Gianpaolo Fissore

AVANTI, SAVOIA!

Un gruppo di ufficiali del Savoia Cavalleria festeggiano, nel 1892, il bicentenario del reggimento.

ARMATE IN PARATA

Soldati borbonici schierati in Piazza Reale (oggi Piazza del Plebiscito) in un dipinto di Achille Vespa.

SAVOIA

Il nonno della COSTITUZIONE

In bilico tra ANCIEN RÉGIME e idee liberali, CARLO ALBERTO di Savoia tentò di fare L’ITALIA. Fallì, ma il suo STATUTO è durato CENT’ANNI

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FOTOTECA GILARDI

il 23 agosto 1823: un corpo di spedizione francese assedia con le truppe realiste spagnole il castello fortificato del Trocadero (presso Cadice, in Spagna) dove i liberali iberici tengono prigioniero re Ferdinando VII per costringerlo a ripristinare la Costituzione. La battaglia infuria e un granatiere in prima linea cade a terra ucciso. Un altro avanza dalle retrovie per occupare la posizione più esposta, ma il militare a fianco del caduto lo arresta: “Camerata”, dice in un tono che non ammette repliche,“questo posto tocca a me”. A battaglia vinta, su quel militare pioveranno elogi e onorificenze da mezza Europa: non era infatti un soldato qualsiasi. Si chiamava Carlo Alberto di Savoia, l’“italo Amleto” per il poeta Carducci, “re Tentenna” per molti patrioti del Risorgimento, indeciso cronico in generazioni di manuali scolastici. Eppure quel sovrano controverso compì passi fondamentali per la modernizzazione di quel Regno di Sardegna che in pochi anni si sarebbe trasformato in Regno d’Italia. A cominciare dal modello della monarchia costituzionale che vi importò, lasciandolo poi in eredità. Ambiguità. Chi era dunque quel sovrano anomalo? Secondo lo storico del Risorgimento Marziano Brignoli, autore del monumentale Carlo Alberto ultimo Re di Sardegna, 1798-1849 (Franco Angeli): «Era un uomo complesso, vissuto a cavallo di due secoli e di due mondi. Un uomo che quando è stato il momento di decidere non ha saputo scegliere né per l’uno né per l’altro». Il suo destino, fin dall’inizio, sembra essere stato quello dell’uomo dei contrasti. Carlo Alberto era sì un Savoia, ma faceva parte del ramo cadetto e “illuminato” dei Savoia-Carignano: informali, mondani, aperti alle nuove idee democratiche. I suoi genitori, Carlo Emanuele e Maria Cristina Albertina di Sassonia-Curlandia, ospitavano nel loro palazzo pensatori e intellettuali, in un ambiente lontano sia dall’atmosfera pesante e parruccona della corte di Torino, sia dalla mentalità del ramo principale della dinastia capeggiata da re Carlo Emanue-

Carlo Alberto (allora ancora principe di Carignano) assalta il Trocadero di Cadice nel 1823, per soccorrere il re di Spagna. Per i liberali piemontesi fu un tradimento. A destra, lo stemma di Carlo Alberto.

BRIDGEMAN/MONDADORI PORTFOLIO

SALVATORE DI RE

le IV (senza eredi, ma affiancato dai fratelli Vittorio Emanuele e Carlo Felice). Nessuno all’epoca avrebbe scommesso un centesimo sui cugini Carignano come possibili continuatori della dinastia. La madre di Carlo Alberto, che dopo la stagione rivoluzionaria inaugurata dal 1789 francese si faceva chiamare “cittadina Albertina”, alla morte del marito si risposò e si trasferì a Parigi, dove il piccolo crebbe tra insicurezze e solitudini, educato tra i precetti di rigidi istitutori alle idee libertarie della capitale francese. La madre, ben introdotta alla corte di Napoleone, gli procurò anche una rendita, il titolo di conte dell’Impero napoleonico e il comando (puramente onorario, vista la giovanissima età) di un reggimento di dragoni. Insieme al titolo, Napoleone assegnò al neo-conte un nuovo stemma: un blasone da parvenu che Carlo Alberto non prese mai in considerazione, continuando a utilizzare le tradizionali insegne sabaude. “Raddrizzato”. La svolta avvenne con la caduta di Napoleone, nel 1815. A Carlo Emanuele era succeduto Vittorio Emanuele I, che aveva quattro figlie, mentre Carlo Felice era senza eredi. Piuttosto che abrogare l’antica legge salica che impediva alle donne Savoia di regnare, la dinastia preferì richiamare a Torino quel giovane sensibile e schivo per dargli un’istruzione da re. Nonostante il trattamento di “normalizzazione”, la corte sabauda continuò a diffidare, dati i suoi trascorsi libertari. Carlo Alberto ricambiò con la stessa moneta, squadrando i dignitari dall’alto in basso. Per mitigare i suoi sentimenti antiaustriaci, nel 1817 gli fu fatta sposare a Firenze una principessa degli Asburgo-Lorena. Tre anni dopo nacque il primogenito Vittorio Emanuele, destinato alla corona del futuro Regno d’Italia. Con i moti del 1821 sbocciò l’amore, corrisposto solo in parte, tra gli insorti a caccia di un redentore d’Italia e quel principe in odore di modernità. Nominato reggente fra l’abdicazione di Vittorio Emanuele I (che non voleva concedere la Costituzione richiesta a gran voce) e l’insediamento del re designato (Carlo Felice), il principe dovette decidere tra vecchio e nuovo, tra le suggestioni della piazza 109

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perché non elaborata dai rappresentanti del popolo, ma “elargita” dal sovrano e “flessibile” – a differenza di quella odierna – perché modificabile con una legge ordinaria. La persona del re vi manteneva la sua natura “sacra e inviolabile”, oltre che alcune prerogative: nominava ministri e giudici e poteva rifiutare le leggi.

Novità. Carlo Alberto stabilì la prassi di sostituire i governi a cui fosse mancata la fiducia del parlamento. I senatori erano nominati a vita dal sovrano, mentre i deputati erano eletti dai cittadini (solo i maschi, e neanche tutti). Tra i princìpi passati dallo Statuto alla Costituzione repubblicana ci sono la libertà di riunione e

di stampa, l’inviolabilità del domicilio, il diritto di proprietà e soprattutto il principio di eguaglianza, sancito dall’articolo 24 dello Statuto: “tutti i regnicoli, qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge”. Per metterlo in pratica il re riconobbe a valdesi ed ebrei diritti civili e politici, definendo però il cattolicesimo religione di Stato.

SCALA

FOTOTECA STORICA NAZIONALE ANDO GILARDI

tto di morte dell’assolutismo in Italia, lo Statuto Albertino ha rappresentato per un secolo (fino al 1948, quando entrò in vigore la Costituzione repubblicana), la Carta fondamentale italiana. Era una costituzione “ottriata”, cioè “concessa” (dal francese octroyée)

DE A GOSTINI/ALINARI

Un’eredità longeva

ROGER VIOLET/ALINARI ALINARI/RMN

Istituì la POLIZIA, il diritto d’autore, il Consiglio di Stato. E ridusse l’ANALFABETISMO VIVA IL PRINCIPE!

Sopra, 1821: i patrioti, dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele I, festeggiano la reggenza di Carlo Alberto in piazza Castello a Torino. A destra, ritratto di Carlo Alberto, detto anche il Magnanimo per aver concesso nel 1848 uno statuto al Regno di Sardegna.

LA CITTÀ BRUCIA

Le Cinque giornate di Milano del 18-22 marzo 1848 in un dipinto del 1855. A lato, il proclama di adesione di Carlo Alberto alla rivolta antiasburgica.

e quelle della dinastia. Seguì una linea spezzata: concesse una prima Carta costituzionale, ma subordinandola all’approvazione di Carlo Felice, che però lo sconfessò intimandogli di ritirarsi in buon ordine se nelle vene aveva, chiosava il messaggio reale, “ancora una goccia di sangue reale sabaudo”. Una strada in salita. Carlo Alberto, 23enne, si trovò a un bivio: obbedire o mettersi alla testa della rivoluzione. Semplicemente non decise. E questo nonostante i congiurati del ’21, non giacobini ma aristocratici fedeli alla corona, come Santorre di Santarosa, nutrissero in lui grandi speranze. Riuscì così a scontentare tutti: per i “costituzionali” si rivelò una delusione, per i monarchici un sovversivo. La strada per la riabilitazione fu tutta in salita. Ciò spiega perché Carlo Alberto, due anni dopo, fosse in prima linea al Trocadero per liberare il reazionario Ferdinando VII: sacrificare gli ideali di gioventù era il prezzo da pagare per riaccreditarsi come erede al trono. Fu spedito in Spagna per “raffreddarsi la testa”, come si disse. Ma fu anche una sorta di test: doveva fare un atto pubblico di ravvedimento. Reazione. Nel ’24 tornò in Piemonte e si stabilì nella residenza di famiglia a Racconigi. Lì, contrariamente agli altri principi di Casa Savoia, tutti guerrieri poco avvezzi alle lettere, studiò molto: storia, diritto, economia. Scrisse anche alcuni trattati, rivelando un’intima natura di intellettuale. Quanto al “ricondizionamento”, funzionò talmente che alla morte di Carlo Felice (1831) i primi anni del regno albertino furono all’insegna del più conservatore ancien régime. Come si spiega il

voltafaccia? Secondo Brignoli, potrebbe essere stata una risposta all’atteggiamento dei liberali: «Forse, paradossalmente, si è sentito abbandonato dai liberali. Sembrò aver sviluppato una sorta di rancore verso di loro». Dal 1840, però, ci fu un ulteriore rovesciamento di posizioni. Senza preavviso, Carlo Alberto avviò una politica riformista che lambì ogni aspetto della società e dello Stato: dal nuovo Codice civile al primo programma ferroviario, dagli ammodernamenti di scuole, carceri e ospedali alla fondazione di musei. Sembrava pervaso da una nuova energia: fu proprio allora che si interessò seriamente alla causa unitaria. Nell’autunno del 1845 ricevette persino, in colloquio segreto, il patriota Massimo D’Azeglio, di ritorno da un viaggio in Romagna per fomentare l’insurrezione. Il sovrano lo invitò alla calma, ma con un impegno: “Presentandosi l’occasione, la mia vita, la vita de’ miei figli, le mie armi, i miei tesori, il mio esercito, tutto sarà speso per la causa italiana”. Cauto il commento di D’Azeglio: “Queste le parole: il cuore lo vede Iddio”. Venti di rivoluzione. A scompaginare tutto venne infine il 1848. Gli ideali di libertà e uguaglianza infiammavano Parigi, Berlino, Vienna, ma per l’Italia era anche l’indipendenza. Ancora una volta Carlo Alberto era diviso. Tra l’ambizione di grandi cose, tipica del Romanticismo, e il mondo (il suo, in fondo) della monarchia assoluta, per diritto divino. Era l’ennesimo rovello. Ne uscì prendendo la decisione di concedere lo Statuto Albertino (v. riquadro nelle altre pagine). Una scelta dettata da un insieme di motivazioni: gli interessi dinastici, ma forse 111

THE ART ARCHIVE/SCALA

IN PRIMA LINEA

Carlo Alberto alla battaglia di Pastrengo, vinta il 30 aprile 1848 contro gli austroungarici. Sotto, moneta del 1847 con il volto di Carlo Alberto.

anche un’intima adesione verso i nuovi ideali della libertà italiana. La scena di questo re che con una firma si gettava alle spalle otto secoli di governo assoluto era epocale. Soprattutto perché, mentre statuti ne concessero, sull’onda del ’48, anche il re di Napoli, il granduca di Toscana e persino il papa, lui fu l’unico a mantenerlo anche dopo. Alla guerra. Il “dopo” furono le campagne antiaustriache del 1848-49, ovvero la Prima guerra d’indipendenza combattuta sotto le insegne del tricolore. Una guerra impari di soldati e volontari, apertasi con vittorie storiche come Pastrengo, Goito e Curtatone e conclusasi – tra disorganizzazione militare e defezioni borboniche e pontificie – con la disfatta di Novara. In battaglia Carlo Alberto, cinquantenne e già malmesso in salute, era quello di sempre: coraggiosissimo, ma di un coraggio “freddo”, non da trascinatore. Non era neppure un grande comandante, pur rimanendo sempre in prima linea a sfidare le pallottole. Questo forse perché, da figlio del Romanticismo, cercava la “bella morte”. Un destino che gli sfuggì. E per assicurare al figlio “patti migliori” con il vincitore austriaco, Carlo Alberto abdicò e uscì di scena. 112

Addio. Sparì nella notte in una carrozza che lo portava verso una terra, il Portogallo, che un secolo dopo anche il suo discendente Umberto II, ultimo re d’Italia, avrebbe scelto per l’esilio. Pochi mesi dopo morì a Oporto di infarto. Aveva solo 51 anni. Se la sua storia l’avesse immaginata un grande scrittore o un pittore romantico, non sarebbe riuscita così bene come se la costruì lui. Ironia del destino, a salutarlo sull’attenti al confine piemontese c’era il conte Teodoro di Santarosa, figlio di Santorre, martire nei moti del 1821: un omaggio che sembrava avere il sapore di una simbolica assoluzione. Come se i fantasmi dei vecchi patrioti facessero pace con la grande delusione di un tempo. Quel gigante malinconico, che si alzava alle quattro del mattino, mangiava come un passero e aveva accettato la corona solo per senso del dovere, non fece forse tutto quel che avrebbe potuto fare, ma se non ci fosse stato lui, chissà… Di certo, senza il suo Statuto oggi la • nostra Costituzione sarebbe un po’ diversa. Adriano Monti Buzzetti Colella

AISA/MONDADORI PORTFOLIO

Per l’ ELEZIONE della Camera dei deputati aveva diritto di VOTO il 4% della POPOLAZIONE maschile

VITTORIO EMANUELE II

Ritratto di Vittorio Emanuele II (1820-1878), figlio di Carlo Alberto e primo re d’Italia.

L

’ultimo re di Sardegna, il primo d’Italia, l’unico ribattezzato “Padre della Patria”: il primogenito di Carlo Alberto di record ne collezionò parecchi. Educato militarmente, a 11 anni era già capitano dei fucilieri. Cavalli, sciabole, cacce le passioni del giovane principe, ben più incline alle fatiche della guerra che a quelle dei libri. Nella Prima guerra d’indipendenza si distinse sul campo di battaglia di Goito. Galantuomo. Salito al trono dopo l’abdicazione del padre, stipulò col maresciallo Radetzky una resa onorevole, ma rifiutò di abolire lo Statuto Albertino: per questa posizione, unica tra i monarchi italiani, fu chiamato “il re galantuomo”. Operò per risanare conti, esercito e istruzione pubblica. Non ebbe però scrupoli con i moti di Genova, repressi a cannonate, né verso un parlamento riottoso a ratificare il trattato di pace con l’Austria: il re lo sciolse due volte, invitando col celebre “proclama di Moncalieri” gli elettori a votare deputati più moderati. Sorgeva intanto l’astro di Cavour, chiamato nel 1852 al governo. I due non si piacquero mai molto, ma Vittorio Emanuele ne sostenne la politica estera a partire dalla Guerra di Crimea, combattuta a fianco degli anglo-francesi contro i russi, che promosse tra le potenze europee la causa italiana. Nel 1858, gli accordi segreti di Plombières sancirono l’alleanza tra la Francia e il Piemonte, che con la Seconda guerra d’indipendenza ottenne Lombardia, Toscana e l’attuale Emilia-Romagna. I timori

di Napoleone III frenarono però la portata dell’offensiva: questo provocò le (effimere) dimissioni di Cavour, che avrebbe voluto anche il Veneto, e una sua memorabile lite con il re. Tutto da solo. Da allora fu Vittorio Emanuele a prendere l’iniziativa, appoggiando all’insaputa del suo primo ministro la spedizione in Sicilia di Garibaldi. Nel 1861 moriva Cavour e nasceva un primo, incompleto Regno d’Italia: il suo sovrano decise comunque di restare per tutti Vittorio Emanuele “secondo”, a sottolineare la continuità tra i vecchi domini sabaudi e l’Italia unita. Nel 1866, con la Terza guerra d’indipendenza, il re continuò a “dribblare” i suoi ministri per accordarsi direttamente con Mazzini e Garibaldi, e tornò anche al fronte. All’Italia fu annesso il Veneto e infine nel 1870 – con la caduta di Napoleone III, difensore del papa – anche lo Stato della Chiesa. Amaro il commento di Vittorio Emanuele: “ora non mi resta che spararmi, per il resto della vita non avrò nient’altro da prendere”. Caccia fatale. Nel 1876 il monarca, che non aveva mai amato i liberali, apriva al “nuovo corso” avallando, con Agostino Depretis, il primo governo di sinistra in Italia. Se ne andò a soli 58 anni, seguendo le sue passioni di cacciatore incallito, per una febbre contratta dopo una notte all’addiaccio nelle campagne laziali. Il figlio Umberto su richiesta del Comune di Roma lo fece seppellire al Pantheon, dove la sua tomba divenne meta di innumerevoli pellegrinaggi dei “nuovi” italiani che aveva contribuito a creare.

LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO

Ma fu il figlio a diventare il primo re d’Italia

LA GUERRA DEL RE

TENUTA MILITARE

ALINARI

Vittorio Emanuele III in una foto del 1935-40. Ricevette un’educazione militare, sul modello prussiano.

L’ULTIMO

ATTO

Fu uno degli episodi più CONTROVERSI del 1943: il frettoloso TRASFERIMENTO di Vittorio Emanuele III nell’Italia del SUD

N

el tardo pomeriggio dell’8 settembre 1943 i vertici del Paese si riunirono al Quirinale (allora sede del re). La tensione era altissima. La mattina avevano assicurato ai tedeschi la fedeltà italiana. E ora il generale americano Eisenhower aveva svelato per radio la firma della resa. Che fare? Sconfessare l’armistizio, come proponevano il generale Giacomo Carboni e l’ammiraglio Raffaele De Courten? Il maggiore Enzo Marchesi scuoteva la testa: ormai era troppo tardi. Il re, nel frattempo, taceva. Forse ripensava a quando, il 25 luglio, aveva proclamato, con la retorica a cui ormai era avvezzo: “Nell’ora solenne che incombe sui destini della patria ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede e di combattimento”. In questo caso il dovere ricadeva su di lui. Gli toccava prendere in mano la situazione e agire in modo risoluto. Il fatto è che Vittorio Emanuele III per un’azione risoluta non aveva la tempra.

IN PUGNO AGLI ALLEATI

SM STUDIO/ANSA (2)

Il re in una vignetta della rivista satirica francese Le rire. In alto, il sovrano sulla corvetta Baionetta alla volta di Brindisi, il 10 settembre 1943.

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ALINARI

SM STUDIO/ANSA

Per alcuni fu un “RE SOCIALISTA”: difese i diritti delle donne, PROMOSSE l’istruzione, introdusse il suffragio universale SUA “BASSEZZA” REALE. Vittorio Emanuele il re neanche voleva farlo. Non aveva il phisique du rôle, alto com’era appena un metro e 53, forse per le conseguenze dell’endogamia (i genitori, Umberto I e Margherita, erano cugini di primo grado). Un fatto che gli era costato una serie di nomignoli irriverenti, come “Re tappo”, o “Sciaboletta” (si diceva che gli fosse stata forgiata una spada particolarmente corta, per evitare che strisciasse sul terreno) o ancora “Curtatone e Montanara” quando si accostava alla statuaria moglie, Elena del Montenegro. Forse per questo – e forse anche per l’educazione militare rigida – lontano dagli affetti familiari, aveva col tempo maturato un carattere schivo, riservato, ombroso. Sembra meditasse di rinunciare al trono, ma poi questo gli era capitato tra capo e collo il 29 luglio del 1900, quando l’anarchico Gaetano Bresci aveva assassinato, nei pressi della Villa reale di Monza, suo padre Umberto. Vittorio Emanuele aveva 31 anni, era in crociera con l’amatissima Elena e l’ultima cosa che avrebbe voluto, senza neanche il tem-

AGLI ANTIPODI

Sotto, lo schivo Vittorio Emanuele III e l’istrionico Mussolini (qui durante una cerimonia ufficiale) non si piacevano. Alla destra del re c’è la regina, Elena del Montenegro. A sinistra, un’altra vignetta che ridicolizza il re italiano, ostaggio degli yankee.

SCALA

A PATTI COL VATICANO

Il re, alla destra della regina Elena, in Vaticano nel 1929 (l’anno dei Patti lateranensi).

po di elaborare il lutto, era prendere in mano le sorti d’Italia. Ma gli toccò farlo. Grane a ripetizione. «Benché la documentazione sia stata epurata, l’impressione è che lui non fosse felice di salire al trono», conferma Paolo Colombo, docente di Storia delle istituzioni politiche all’Università Cattolica di Milano. «Tra l’altro quello di Vittorio Emanuele III non fu affatto un regno facile: si trovò ad affrontare due guerre mondiali, il colonialismo, Hitler...». Di fronte a tali “gatte da pelare”, il re scelse di adottare la strategia di Pilato: non agì mai di testa sua ma lasciò sempre che fosse il governo a prendere le decisioni difficili. «Faceva la sua parte più per dovere che per passione», osserva lo storico. «Pur essendo molto colto – conosceva quattro lingue – non era né un istrione né un gran parlatore: preferiva lasciare i riflettori ad altri». Di sicuro non amava Hitler, né aveva simpatia per Mussolini (che considerava un parvenu), ma segui-

va il vento: lasciò quindi tutto il potere al duce, firmò le “leggi fascistissime” del 1925-26 e, nel 1938, le famigerate leggi razziali. Ciò che lo interessava davvero era ritirarsi nel castello di Racconigi, in Piemonte, e immergersi nella lettura di Shakespeare o arricchire la sua collezione di monete antiche. Nel ’43, in quei giorni fatidici, aveva già 74 anni e aveva da tempo appeso la sciabola al chiodo. Come poteva trasformarsi di punto in bianco nell’uomo forte della situazione? Inaffidabili. Gli eventi a cavallo dell’8 settembre, se si dimenticano per un attimo le conseguenze tragiche, hanno il sapore della commedia all’italiana. Nella notte del 7, quando il generale alleato Maxwell Taylor giunse a Roma per prendere gli ultimi accordi e verificare la disponibilità degli aeroporti (uno dei punti cardine dell’armistizio firmato in segreto a Cassibile, in Sicilia, il 3 settembre, era la “garanzia immediata del libero uso da parte degli Alleati di tutti gli aeroporti e porti navali in territorio italiano” che dovevano “essere protetti dalle forze armate italiane”) restò basito: l’unico preparativo messo in atto per l’arrivo degli americani era un lauto pranzo. Il generale Ambrosio, il principale interlocutore, se ne era andato a Torino (ufficialmente per eliminare carte compromettenti) mentre Marchesi e Carboni (che all’inizio aveva cercato di non farsi trovare) tentarono goffamente di convincerlo a rimandare l’ora X perché le truppe italiane erano a corto di carburante. Taylor, che non credeva alle proprie orecchie, chiese allora di essere condotto da Badoglio, anziano capo del governo: questi lo accolse in pigiama, sorpreso per la visita inattesa, rinnegando tutti gli impegni presi e cercando di prendere tempo. Taylor fu

M

afalda, secondogenita di Vittorio Emanuele III, l’8 settembre si trovava in Bulgaria e fu tenuta all’oscuro di quello che stava accadendo in Italia (forse si temeva che potesse parlare con il marito, il tedesco Filippo d’Assia, agli ordini del Führer). Fatto sta che in quel momento delicato si trovò a rientrare a Roma. Deportata. Durante il viaggio la regina Elena di Romania la avvisò dell’armistizio, ma Ma-

falda volle proseguire: era pur sempre moglie di un ufficiale tedesco. Non bastò. Giunta a Roma il 22 settembre, fu arrestata e deportata nel campo di concentramento di Buchenwald, dove fu rinchiusa nella baracca 15 con il falso nome di frau von Weber. Agonia. Ma il peggio doveva ancora venire. Nell’agosto del 1944 gli angloamericani bombardarono il lager. Contusa e ustionata, la principessa fu portata

nell’infermeria dove le venne amputato un braccio: un intervento lunghissimo (secondo alcuni intenzionalmente) al quale Mafalda non sopravvisse. La sua vicenda dimostra che in effetti anche il re avrebbe rischiato grosso se fosse finito nelle mani dei nazisti. Ma anche che lo spostamento a Brindisi, senza neppure avvisare i familiari, somigliò più a una fuga frettolosa che a un trasferimento strategico.

SCALA

Il tragico destino di Mafalda di Savoia

Mafalda con due dei quattro figli avuti da Filippo d’Assia.

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Il Regno del Sud costituito dal re a Brindisi si CONTRAPPOSE La scelta cadde su Pescara, perché la via Tiburtina sembrava relativamente libera. Fu così che alle 5 del mattino del 9 settembre un furtivo corteo di auto (Vittorio Emanuele III con Elena nella prima vettura, Badoglio nella seconda e il principe Umberto in una terza) partì dal ministero della Guerra alla volta dell’Adriatico, sguarnito di forze germaniche. Ai reparti motocorazzati fu data disposizione di spostarsi su Tivoli, forse per proteggere il re, di fatto lasciando scoperta Roma. Una decisione che diede adito a ipotesi cospiratorie, come quella di un accordo segreto con il comandante tedesco Albert Kesselring che avrebbe previsto la consegna di Roma in cambio della fuga indisturbata del re. Il Regno del Sud. Nel pomeriggio le auto raggiunsero l’aeroporto di Pescara, ma l’accoglienza fu tiepida. Forse anche per il timore di ribellioni lo sparuto gruppo optò per un tragitto via mare. Il giorno dopo partirono da Ortona con la corvetta Baionetta

UMILIATI

Sotto, due vignette sulla capitolazione italiana. Sopra, una inglese, in cui si salva dal naufragio Badoglio. In basso, la bandiera dell’Urss (alleata degli americani) su una nave italiana in una satira filotedesca.

UCCISO DUE VOLTE

A sinistra, il busto di Umberto I colpito da un proiettile l’8 settembre: un tedesco l’aveva preso per quello di Vittorio Emanuele III.

SM STUDIO/ANSA (4)

così costretto ad annullare Giant 2, il piano alleato per occupare Roma il 9 settembre. Eisenhower, spazientito da quegli alleati inaffidabili, decise di bruciare i tempi e alle 18:30 dell’8 settembre, infischiandosene delle esitazioni italiane, diede notizia della resa. Costringendo di fatto l’Italia a fare altrettanto. Solo alle 19:45 il Consiglio della Corona prese finalmente la sua decisione e Badoglio entrò nella sede dell’Eiar (l’antenata della Rai) per annunciare la firma dell’armistizio. Ambiguità. L’annuncio fu volutamente ambiguo. I reparti italiani dovevano “cessare le ostilità contro le forze angloamericane” ma “in nessun caso prendere l’iniziativa delle ostilità contro le truppe germaniche”. E il comportamento del re lo fu ancora di più. Dopo aver camminato nervosamente per i corridoi del Quirinale si ritirò nelle sue stanze a riflettere. E alla fine optò per quella che sarebbe passata alla Storia come una fuga.

allo Stato fantoccio di MUSSOLINI, la Repubblica di Salò

COPPIA AFFIATATA

Giorgio VI (secondo da sinistra) e la regina madre (Elisabetta), genitori dell’attuale sovrana, ispezionano le zone bombardate dai tedeschi a Londra.

alla volta di Brindisi. Fu in questa città che il re costituì il Regno del Sud e si rese disponibile per i rapporti con gli Alleati. Ma la farsa continuò: il generale Mason MacFarlane, giunto in Puglia, trovò uno staff politico impreparato sull’armistizio. Il testo definitivo fu firmato solo il 29 settembre e la guerra alla Germania sarà dichiarata solo il 13 ottobre: oltre un mese dopo l’arrivo a Brindisi. Fu vera fuga? Alcuni storici ritengono che quello del sovrano sabaudo non fu, come giudicano i più, un atto di vigliaccheria. E che ad alimentare quell’idea fu la propaganda della Repubblica di Salò, che per legittimarsi aveva tutto l’interesse a gettare discredito sul re. I filomonarchici sostengono che si sia trattato di un trasferimento necessario per salvare la continuità dello Stato. «Avrebbe potuto abdicare e fermarsi a Roma, lasciando che a trasferirsi fosse il figlio Umberto», osserva Colombo. «Ma soprattutto avrebbe dovu-

to pensare alle truppe, visto che aveva formalmente il comando delle forze armate». Invece la fuga, insieme alla “congiura del silenzio” dei giorni successivi, ebbe effetti disastrosi: diede il tempo ai tedeschi di organizzarsi, prendere il controllo dell’Italia Centro-Settentrionale e liberare Mussolini. Esponendo il Paese a ulteriori 20 durissimi mesi di guerra. La vera passione. Tutto questo fu fatale per il destino della monarchia in Italia. A poco valse l’aver abdicato in favore del figlio Umberto II il 9 maggio 1946, tre settimane prima del referendum istituzionale che avrebbe abolito la monarchia, né l’aver inviato un dono, sempre il 9 maggio, ad Alcide De Gasperi: “Signor presidente”, scrisse il re, “lascio al popolo italiano la collezione di monete che è stata la più grande passione della mia vita”. Subito dopo partì per Alessandria d’Egitto da dove non • tornò mai più. Neanche la sua salma. Marta Erba

SCALA

IL REGNO CONTINUA

Il re a Brindisi, in visita ai reparti italiani, nel settembre del 1943.

Italia e Inghilterra: monarchie a confronto

V

ittorio Emanuele III e Giorgio VI d’Inghilterra si somigliavano. Uomini schivi, poco portati per le luci della ribalta, re loro malgrado e all’improvviso: l’italiano (nel 1900) per l’assassinio del padre; l’inglese (nel 1936) per l’abdicazione del fratello Edoardo, infatuatosi dell’americana Wallis Simpson. Ed entrambi con un handicap che non passava inosservato in un ruolo così istituzionale: il fisico

minuto del primo, imbarazzante nelle cerimonie ufficiali, e la grave balbuzie del secondo, difficile da gestire nei frequenti discorsi via radio al popolo inglese. Ma le analogie finiscono qui. Stili diversi. Allo scoppio della guerra, nel 1939, benché il governo gli avesse suggerito di fuggire in Canada, Giorgio VI non si mosse da Londra e fu sempre in prima linea per mantenere alto il morale

della popolazione. Tenne con sé anche la famiglia, con le bambine Elisabetta e Margaret ancora in tenera età. Al termine del conflitto gli inglesi erano entusiasti di lui. E un film del 2010 (Il discorso del re, vincitore di quattro premi Oscar) ne celebra con affetto lo sforzo oratorio. Al contrario, il Savoia non si distinse mai per azioni o prese di posizione coraggiose. Un po’ di carattere, forse, avrebbe potuto cambiare la Storia.

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L’ASBURGO DI TUTTI

IL MONARCA D’EUROPA

LESSING/CONTRASTO (2)

Nel CINQUECENTO si ritrovò sul capo più di una corona. Così CARLO V unificò mezza Europa in nome di DIO. E arrivò anche OLTREOCEANO

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DA GIOVANE

Una scena di battaglia su uno scudo appartenuto a Carlo V (a sinistra, rappresentato in giovane età in un busto ligneo).

ome primo e saldo fondamento del vostro governo, dovrete sempre riconoscere che ogni vostro bene e la vostra stessa esistenza vengono dall’infinita benevolenza di Dio. E alla sua volontà dovrete sottomettere i vostri desideri e i vostri atti”. Non siamo di fronte all’omelia di un assistente dell’Azione cattolica, diretta a un gruppo di deputati Dc degli Anni ’50: la frase è tratta da una lettera di un padre al proprio figlio. E il “voi” non sottintende destinatari plurimi: è solo una formula di cortesia, un tempo in uso anche fra parenti stretti. Nel caso specifico, “un tempo” vuol dire il 18 gennaio 1548. E il pio papà di cui parliamo era Carlo V (1500-1558), sovrano del Sacro romano impero e detentore di altri titoli “minori”, come re di Spagna, re d’Italia, duca di Borgogna e

arciduca d’Austria. Insomma, parliamo dell’uomo più potente d’Europa. Anzi del mondo, perché i suoi possedimenti spaziavano dall’Asia all’Africa fino all’America (v. riquadro) tanto che poteva dire a buon diritto, come faceva spesso: “Sul mio impero non tramonta mai il Sole”. Potere dall’alto. Ma torniamo alla lettera già citata, per aggiungere che fu spedita da Augusta (Baviera) e che è importante per due motivi. Il primo: il testo rivela che Carlo V, regista del più importante tentativo di unificare l’Europa nei 12 secoli intercorsi fra Carlo Magno (vedi articolo nelle pagine precedenti) e la Ue, riteneva di agire non a nome di se stesso, ma di Dio. Secondo motivo: sapendo di esser meno intramontabile del Sole sulle sue terre, l’imperatore si preoccupava di catechizzare ben bene Filippo II, suo figlio ed erede, perché continuasse l’alleanza con l’Onnipotente. In altre occasioni Carlo era stato ancor più esplicito. Nel 1543, in procinto di muover guerra alla Francia, restìa a integrarsi nell’Europa imperiale, aveva scritto: “La mia partenza da questi regni sta ormai avvicinandosi e ogni giorno di più vedo quanto sia necessaria. Infatti solo così posso sperare di adempiere ai compiti assegnatimi da Dio”. Nel 1548 la Francia era ormai battuta ma Carlo era ancora lontano (appunto in Baviera) dopo aver ricevuto da Dio un nuovo incarico: tenere d’occhio i cristiani tedeschi, tentati da Lutero. Mix genetico. Questo imperatore-messia, che si sentiva investito di tanti “compiti divini”, è spesso definito spagnolo perché aveva la reggia a Madrid; ma in realtà era nato e cresciuto a Gand (nelle Fiandre, oggi Belgio). E nel Dna aveva cromosomi di mezza Europa. Spagnoli erano solo sua madre (Giovanna la Pazza) e i nonni materni, i reyes católicos Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia, sponsor di Colombo. Ma suo padre (Filippo il Bello d’Asburgo) era nato lui pure in Belgio, da un austriaco (Massimiliano I) e da una borgognona (Maria la Ricca). Non è tutto, perché nelle vene di Carlo scorreva anche sangue (blu) di altra origine, ereditato da ascendenti più lontani: polacco (dai Plast), italiano (dai Visconti), francese (dai Valois), inglese (dai Lancaster), tedesco (dagli Hohenstaufen). Insomma, un potpourri genetico, che per molti versi sembrava un’Europa unita fatta persona. Un potpourri di cui l’interessato si vantava ogni due per tre, con 121

Durante la seconda delle GUERRE tra l’imperatore Carlo V e re Francesco I, 35mila MERCENARI imperiali misero a ferro e fuoco Roma, in quanto ALLEATA dei francesi Un combattimento tra mercenari.

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Si annuncia la cattura di Francesco I.

Un francese tenta un guado.

SUL CAMPO

A sinistra, alcuni particolari della battaglia di Pavia (1525) nel ciclo di arazzi al Museo di Capodimonte (Napoli).

NEL NOME DELLA FEDE

Un’armatura cinquecentesca appartenuta a Carlo V, che sostenne di combattere per volere divino.

un tormentone rimasto poi celebre:“Parlo spagnolo con Dio, italiano con le donne, francese con gli uomini e tedesco con il mio cavallo”. In realtà, però, il sovrano di quell’impero senza tramonti era più potente che poliglotta: si esprimeva bene in francese, ma nelle altre lingue era una mezza frana. Dello spagnolo pare che avesse una versione tutta sua, simile a quella di certi turisti nostrani, che da Ibiza all’Avana pretendono di farsi capire aggiungendo una “s” alle parole del dialetto veneto. Del resto, se Carlo era così, una ragione l’aveva: re di Spagna lo era diventato solo da maggiorenne; tutti i suoi anni più verdi si erano dipanati tra Gand e Digione (Francia). Ma si sa: per far carriera spesso gli avi che si vantano contano più delle lingue che si parlano. E, come si è visto, Carlo vantava un pedigree ricco di ascendenti illustri, quindi anche di potenziali blasoni ereditari. L’eredità degli Asburgo, che era già la dinastia più potente d’Europa, gli spettava per linea diretta; invece il resto dell’impero gli capitò per caso, perché i casati di Castiglia, Aragona e Borgogna si estinsero, consegnando i loro domini nelle mani del fortunato nipotino dal cognome mitteleuropeo, loro erede indiretto. Tutto suo. Fu così che Carlo divenne il più grande degli Asburgo. E iniziò la carriera prestissimo, a soli sei anni. Infatti suo padre Filippo morì anzitempo nel 1506 e lui diventò il primo erede al trono (austriaco) di suo nonno Massimi-

liano e a quello (borgognone) che era stato di sua nonna, scomparsa da tempo. Ovvio che un regno non si dà a un bimbo, quindi tutto restò in frigorifero fino alla maggiore età dell’interessato, che comunque fu dichiarata con largo anticipo su quella dei comuni mortali, cioè a circa 14 anni, il giorno dell’Epifania 1515. Sul capo di Carlo adolescente calò subito la prima coroncina, quella da duca di Borgogna. A quel diadema, l’enfant prodige dell’aristocrazia europea aggiunse poi tutti gli altri, con un ritmo impressionante: nel 1516 ereditò dal nonno materno i regni di Aragona e di Napoli; nel 1517 ottenne quello di Castiglia al posto della madre, colpita da turbe psichiche; nel 1519, alla morte del nonno paterno, ereditò il trono austriaco; e infine, qualche mese più tardi, ottenne anche la carica di imperatore, che a quei tempi era ancora (almeno formalmente) elettiva. Così, in pochi anni, mezza Europa si era unificata. E Carlo nel resto della vita coltivò il progetto di unificare anche l’altra metà, cercando di ridurre all’obbedienza chi gli resisteva, cioè l’Impero turco a est e la Francia a ovest. Se il piano fosse riuscito, la storia europea avrebbe preso una piega molto diversa da quella che poi fu: lo storico medievalista Franco Cardini arriva a sostenere che nell’800 non ci sarebbe stata la grande stagione degli Stati nazionali e nel ’900 si sarebbero evitate le due guerre mondiali. Prima Europa? Carlo V fu dunque un precursore dell’Unione europea? Sì e no, ma più no che sì, perché la sua Europa non era di certo un’unione fra Stati liberi e sovrani. «L’unità politica alla quale riferirsi non poteva che essere quella dell’Impero romano, filtrata e trasformata da Carlo Magno nell’esperienza del Sacro romano impero, che

Lotte reali, in cucina

LESSING/CONTRASTO (5)

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e guerre antifrancesi di Carlo V nel Nord Italia hanno lasciato una traccia anche nella storia della cucina. Infatti tradizione vuole che un tipico e semplicissimo piatto delle campagne lombarde, la “zuppa alla pavese” (a base di uova, pane rosolato, formaggio grana e brodo di carne), sia stato inventato durante la battaglia di Pavia (24 febbraio 1525)

combattuta tra l’esercito imperiale e Francesco I, che al culmine dello scontro venne catturato. A dieta. Poco prima o poco dopo la cattura (ci sono due versioni) il sovrano transalpino sarebbe entrato (variante: sarebbe stato portato) in un casolare fuori porta, dove due contadini l’avrebbero rifocillato coi pochi ingredienti che avevano sottomano, ab-

binati in modo casuale. Si narra che il re fu così entusiasta della ricetta che, una volta tornato in patria, la fece inserire nei menù di corte. Subito dopo la zuppa, però, Francesco fu rinchiuso nella fortezza di Pizzighettone (Cr) dove restò tre mesi a pane e acqua prima di essere trasferito in Spagna su ordine di Carlo V e poi liberato dietro riscatto.

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MONDADORI PORTFOLIO/BRIDGEMAN

Una corona sporca di sangue

L IN TESTA

Un elmo cinquecentesco di Carlo V che ne riproduce parzialmente i connotati.

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a ferocia usata in America dai conquistadores di Carlo V nei confronti degli indigeni, mascherata con intenti di evangelizzazione, suscitò la reazione di un vescovo domenicano, Bartolomé de las Casas, che nel 1542 scrisse una Breve relazione sulla distruzione delle Indie, duro j’accuse contro i coloni. Il testo colpì e

Carlo V varò le Leyes nuevas che vietavano la schiavizzazione degli indios e limitavano l’encomienda, cioè la loro riduzione a servi della gleba. Teoria. Spesso però quei provvedimenti restarono sulla carta: in Perù un viceré che voleva applicarli, Blasco Nuñez Vela, fu ucciso; e in Spagna una teoria affermava

che i nativi d’America non avevano l’anima. A sostenerla era Juan Ginés de Sepúlveda, autore del libello La scoperta dei selvaggi. Finì che nel 1550 Carlo V promosse un confronto tra de las Casas e Sepúlveda per dirimere la querelle. Il primo ne uscì vincitore, ma intanto la legge contro l’encomienda era stata abolita.

“Di MEDIOCRE statura, magro al possibile”: così le CRONACHE descrivevano Carlo V. Ma il MARCHIO di fabbrica pare fosse “la BOCCA sempre aperta”

GENERAZIONI

Carlo V e il fratello e successore Ferdinando portati in trionfo in un arazzo del ’600.

GRAN PARATA

CONTRASTO (2)

Tenuta da torneo dell’imperatore. La indossò a Valladolid per la sua prima visita in Spagna.

aveva accolto i valori morali e spirituali del cristianesimo», precisa Cardini. «Tutto ciò era stato espresso da Dante nel De Monarchia e aveva trovato conferma negli scritti di Erasmo da Rotterdam». La tesi di Dante era che “l’autorità del monarca imperiale è versata su di lui senza mediatori dalla fonte dell’autorità universale”, perifrasi che sta per Dio. Carlo V si poneva sulla stessa linea: il suo impero era voluto dall’Onnipotente e doveva includere non solo l’Europa, ma tutto il mondo cristiano, bypassando lo stesso papa. Come quella di Dante, la Monarchia di Carlo aveva la “M” maiuscola, perché fotocopia terrena del “Regno dei cieli”. Su tutti i fronti. Partendo da queste premesse, l’impero dell’Asburgo diventò la più grande teocrazia mai vista in Occidente, con tutte le conseguenze (bifronti) del caso: con Carlo V e suo figlio Filippo II la fede cattolica fu il motore di tutto, dalle esplorazioni (vedi missioni dei Gesuiti in Sud America) alle più bieche repressioni del dissenso (tramite l’Inquisizione), dalla creazione di capolavori d’architettura (come il monastero dell’Escorial di Madrid) ai genocidi dei conquistadores (Hernán Cortés in Messico nel 1519-21 e Francisco Pizarro in Perù nel 1532-33). Va detto che l’Inquisizione spagnola non fu un’invenzione di Carlo V, ma dei suoi nonni materni, Ferdinando e Isabella. Lui si limitò a usarla ed esportarla: in Sicilia, per esempio, fu lui a imporre come grande inquisitore don Bartolomeo Sebastián, il Torquemada dell’isola. Analogamente, i macelli connessi alla conquista dell’America erano iniziati già ai tempi di Colombo; ma fu l’“imperatore senza tramonti” a nominare Pizarro governatore del Perù e a premiare Cortés col titolo di “viceré della Nuova Spagna”, cioè signore del Messico. Originale di Carlo V fu invece l’idea del Con-

cilio di Trento (1545-1563), la lunga assise di vescovi che avviò la Controriforma cattolica, risposta allo scisma protestante (1520). Benché duro con Lutero (che “processò” e tentò di far abiurare) Carlo V capiva che il monaco ribelle non aveva tutti i torti nell’attaccare la Santa Sede; perciò premeva perché la Chiesa si facesse un “esame di coscienza”. Ma papa Clemente VII faceva melina e non si piegò neanche quando (1527) una torma di lanzichenecchi imperiali saccheggiò Roma e lo costrinse a fuggire a Orvieto, travestito con gli abiti del suo maggiordomo. Ma dice un adagio che “le vie del Signore sono infinite”: in questo caso transitarono da un piatto di Amanita phalloides, fungo velenosissimo, che nel 1534 fece passare Clemente VII a miglior vita. Pochi anni dopo il meno rigido successore Paolo III aprì il concilio. Che portò a termine i suoi lavori a singhiozzo, rispettando l’andamento degli impegni bellici dell’imperatore, il quale invocava un “legittimo impedimento” d’epoca: non poteva seguire contemporaneamente le guerre e il “suo” concilio. Nemici giurati. E di guerre Carlo V ne fece molte. Eppure Cardini osserva: «Dai suoi scritti emerge che secondo lui la finalità della monarchia era la pace per tutta la cristianità, considerata fine ultimo dell’attività del sovrano e sua massima aspirazione». Come spiegare la contraddizione? Il diretto interessato nel 1548 rispondeva, candido: “So bene, per esperienza, che evitare la guerra non è sempre nelle possibilità di chi lo desidera, specie per chi ha tanti e tanto grandi Stati, alcuni lontani, come Dio nella sua bontà mi ha dato”. Fra i nemici che l’imperatore era “costretto” a combattere, il più ovvio per un messia benedetto da Dio era l’Impero ottomano. Che nel Mediterraneo era incarnato da un ammiraglio berbero, Khair El-Din detto Barbarossa, contro cui Carlo V battagliò dal 1530 al 1541, con risultati alterni nell’immediato ma con un effetto politico-militare duraturo: il radicamento a Malta dei Cavalieri di San Giovanni, destinati a governare l’isola per secoli e a diventare i gendarmi contro gli “infedeli”. Avversari storici. Aspra fu anche l’inimicizia che oppose Carlo V alla Francia e al suo re Francesco I, che pure non era affatto “infedele”. La rivalità fra i due, causa di ben quattro guerre (tra il 1521 e il 1544), nasceva in parte da rancori personali (Francesco era un ex candidato alla corona imperiale, che Carlo aveva battuto), ma la ruggine tra Francia e impero era più antica: già Massimiliano

MONDADORI PORTFOLIO/BRIDGEMAN AISA/ALINARI

Carlo V si definì DIFENSORE della Chiesa, ma insieme al fratello Ferdinando concesse la LIBERTÀ di CULTO ai luterani: la PACE DI AUGUSTA I, in un testo maccheronico del 1513, aveva definito i francesi “anchiens et naturelz ennemis de notre maison”, cioè “antichi e naturali nemici del nostro casato”. La verità è che dietro le guerre franco-imperiali, formalmente scoppiate per l’egemonia sul Nord Italia, c’era uno scontro fra due culture politiche inconciliabili: da un lato ci si batteva per la prima globalizzazione della storia moderna; dall’altro per la difesa delle autonomie nazionali. Andò a finire che la Francia perse tutte le guerre. E che in un caso il suo re fu addirittura catturato sul campo di battaglia (v. riquadro pagine precedenti). Ma alla lunga Carlo V fu il vero perdente, perché il suo progetto di globalizzazione cattolica si fermò a metà. In ritiro. Ma chi o cosa fu capace di fermare l’imperatore che aveva dalla sua parte Dio? Non Francesco I, non Lutero e tanto meno papa Clemente VII, scomparsi rispettivamente nel 1547, 1546 e 1534. Ad avviare al declino il sovrano-mes126

sia furono un eccesso di sicurezza e un’alleanza improbabile. L’eccesso fu dello stesso Carlo, che nel 1552 partì alla riconquista della Lorena, occupata dai luterani. L’alleanza improbabile fu quella che il nuovo re francese Enrico II strinse con tutti gli altri protagonisti dell’epoca: il papa, i turchi e i protestanti. Arrivò così l’anno nero di Carlo V, il 1552: la spedizione in Lorena finì davanti alle mura di Metz, assediata inutilmente per mesi, e l’alleanza francoturca portò alla perdita della flotta imperiale, distrutta a Ponza. Era un doppio fallimento. Il più grande degli Asburgo ne prese atto e nel 1556 abdicò cedendo tutte le corone al fratello Ferdinando e al figlio Filippo. Poi si ritirò in un convento di Yuste nell’Estremadura (Spagna) dove restò fino alla morte. Narrano che le sue ultime parole si• ano state: “Sto arrivando, Signore!”. Nino Gorio

USCITA DI SCENA

Sopra, una scena dell’abdicazione di Carlo V in un arazzo del Seicento e un elmo con visiera con cui l’imperatore combatté.

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SOVRANI ILLUMINATI

Gettò le basi della GRANDE GERMANIA. Per alcuni, ispirando addirittura il Terzo Reich. Ma CHI ERA davvero Federico II?

MONDADORI PORTFOLIO/AKG

FEDERICO L’UNICO

A

ngelo e demone. Poeta e soldato. Riformista e ribelle. Amante dei lussi, dell’eleganza e della moda, ma anche del rigore militare, della disciplina e dell’austerità. Con un occhio rivolto al futuro – anticipò l’imminente nascita degli Stati nazionali – e uno al passato. In primis alle tradizioni di famiglia che lo volevano generale, prima che esteta e libero pensatore. Per tutta la vita Federico II di Prussia (1712-1786) cercò una sintesi tra le sue due anime. Dal caos creativo di questa personalità contraddittoria nascerà la grande Prussia, madre della grande Germania, con un codice moderno, illuminista, e una sfrenata ambizione imperialista. L’eredità di Federico non è infatti priva di ombre: la più oscura ha il volto di Hitler, che lo ritenne un padre spirituale. Si dice addirittura che nel 1945, con l’Armata Rossa alle porte di Berlino, prima di suicidarsi il dittatore abbia gettato un ultimo sguardo proprio al suo ritratto. Ma si 128

può ridurre una personalità così complessa a quella di un uomo animato solo dalla volontà di potenza? Enfant terrible. Enigmatico, esteta, “dal colorito vivo, le gote infantili e i grandi e lucenti occhi azzurri”, come scrisse Thomas Mann oltre un secolo dopo, Federico II visse negli anni dei filosofi illuministi Voltaire e Kant e del musicista Bach. Morì tre anni prima della presa della Bastiglia: troppo presto per assistere alla Rivoluzione francese, troppo tardi per godersi l’apogeo dell’ancien régime. Anche perché come figlio del re soldato Federico Guglielmo I di Prussia – militarista rozzo, maniaco della disciplina e delle bevute in compagnia – imparò presto che dedicarsi all’eleganza era affare da “damerini”. Essere gay poi, come lui era, un’aggravante da lavare col sangue. Così, quando a 18 anni osò un rocambolesco tentativo di fuga con il suo “amico speciale”, il tenente von Katte, la punizione fu esemplare. Il padre ordinò la morte dell’amante e a Federico fu imposto di

GUERRIERO E FILOSOFO

Sopra, la vittoria di Federico il Grande contro i russi a Zorndorf (1758). A destra, Federico II . Il sovrano, amante delle arti e della filosofia, portò avanti l’opera compiuta dal padre e trasformò la Prussia in una grande potenza militare.

MONDADORI PORTFOLIO/BRIDGEMAN

OLANDA IMPERO RUSSO

OCEANO PACIFICO

LESSING/CONTRASTO

Filippine

Sri Lanka

N. JERAN

Indonesia

SUD AMERICA

OCEANO INDIANO Madagascar

I CO

SVEZIA

MARE DEL NORD GRAN BRETAGNA

A LT

W

Federico II e la coalizione dei suoi nemici nella Germania Orientale, in Slesia, alle frontiere della Boemia e della Polonia (cartina a fianco). Non a caso, a conflitto finito si fecero due trattati distinti, quello di Parigi e quello di Hubertsburg. La Francia fu la nazione che più risentì della sconfitta, perché vide consolidarsi a est una nuova grande potenza continentale, la Prussia appunto, e perse il dominio dei mari e il suo impero a vantaggio dell’Inghilterra.

GIAPPONE

OCEANO ATLANTICO

Deflagrazione mondiale

inston Churchill la definì “la prima guerra mondiale”. E non aveva torto. La Guerra dei sette anni (1756-1763) coinvolse infatti tutte le principali potenze: Gran Bretagna, Prussia, Francia, Austria e Russia. A differenza dei precedenti conflitti legati a successioni dinastiche, si combatté per il controllo di territori. Primato. Alla fine si affermarono la supremazia militare della Prussia in Europa e quella dell’Inghilterra sui mari. La Russia debuttò nella politica internazionale, mentre l’Austria, di fronte alla superiorità della Prussia iniziò il suo declino. La Francia arretrò davanti all’Inghilterra, che subentrò nel dominio di vasti territori extraeuropei (Nord America e India, conquistata definitivamente nel 1818). Conflitti. La guerra si svolse su due fronti paralleli. Tra la Francia e la Gran Bretagna sui mari, nelle colonie e nella Germania Occidentale (v. cartina in alto). E tra

INGHILTERRA FRANCIA PORTOGALLO SPAGNA

NORD AMERICA

RB

ALLEANZA: Austria, Francia, Russia, Svezia, Sassonia, Spagna ALLEANZA: Gran Bretagna, Prussia, Portogallo Aree di conflitto

IMPERO RUSSO

MA

Impero spagnolo Impero portoghese Impero britannico Impero russo Impero francese Impero olandese Aree di conflitto

PRUSSIA

PRUSSIA

OCEANO ATLANTICO FRANCIA

AUSTRIA

UNGHERIA MAR NERO

PORTOGALLO SPAGNA

MAR MEDITERRANEO

GRANGER/ALINARI

Ogni giorno, anche da anziano, ISPEZIONAVA di persona le truppe, come COMANDANTE in capo dell’esercito MUSICA, MAESTRO!

A sinistra, il primo bombardamento di Dresda del 1760 in un quadro di Bernardo Bellotto: la distruzione della città fu ordinata da Federico II. Sopra, il sovrano nelle vesti di flautista nel salone del suo castello di Sans-Souci, a Potsdam, presso Berlino. Nel 1747 Johann Sebastian Bach compose uno dei suoi capolavori, l’Offerta musicale, su un tema improvvisato dall’imperatore.

assistere all’esecuzione. Il futuro re obbedì e, dieci anni dopo, sposatosi controvoglia, ereditò il comando del Paese, gettando le basi per quella che sarebbe diventata la superpotenza tedesca: correva l’anno 1740. Obbedire con amore. “La corona è un cappello che lascia passare l’acqua”, scrisse nelle sue memorie il sovrano con piglio autoironico. Aggiungendo però che “il principe è il primo servitore e il primo magistrato dello Stato”. «In queste due espressioni c’è la sintesi del suo governo», spiega Ronald Car, docente di Storia delle istituzioni politiche all’Università di Macerata. «Il re da un lato smetteva di essere un individuo che viveva tra i lussi della corte e portava avanti solo gli interessi personali o di famiglia. Dall’altra diventava un uomo di Stato pronto a sacrificarsi per il bene comune. Le conseguenze furono enormi, perché il sovrano si trasformava in un modello da seguire. A lui si doveva “obbedire con amore”. Si insinuava insomma nella cultura politica tedesca il principio dell’idealizzazione del capo. Principio che Bismarck e Hitler strumentalizzeranno a loro vantaggio». Come tutti i despoti illuminati del ’700, anche Federico II si circondò di intellettuali, musicisti e pensatori. Ma, essendo figlio di suo padre, puntò tutto il suo potere sull’esercito, portando avanti con successo l’opera di modernizzazione e nazionalizzazione già avviata. Con qualche novità. «Rese importante il ceto nobiliare dell’aristocrazia terriera stanziata nella Prussia Orientale (gli Junker), inserendola nella macchina dello Stato», aggiunge lo storico. «Trasformò i possidenti in ufficiali di carriera, dando loro un

prestigio che aumentava con il successo militare dello Stato: più la Prussia vinceva, più loro diventavano importanti. Non si capirebbero le origini del mito tedesco della nazione militare, senza questa premessa». E che la Prussia fosse diventata un regno di soldati, lo dicono i numeri: all’avvento di Federico il Paese aveva 2.250.000 sudditi e manteneva sotto le armi 81.000 soldati, cioè il 7% della popolazione maschile, mentre la nazione allora più potente d’Europa, la Francia, con 20 milioni di abitanti (nove volte quelli della Prussia) aveva un esercito grande appena il doppio. Occasioni di mostrare i muscoli, agli ufficiali, non mancarono: una delle prime fu combattere per unire le vulnerabili terre prussiane allora ancora sparpagliate qua e là: il regno era infatti un potpourri di possedimenti che dal 1600 in poi si legarono alla dinastia degli Hohenzollern. Protestanti contro cattolici. La prima a pagarne le spese fu Maria Teresa d’Austria (vedi articolo pagine seguenti), da pochissimo a capo del cattolicissimo impero asburgico. Nel dicembre del 1740, senza nemmeno una dichiarazione di guerra, Federico II fece il suo primo capolavoro di realpolitik invadendole, in barba ai trattati, un suo territorio: la ricca regione della Slesia (per metà abitata da protestanti). Poi guardò a est, secondo un antico mantra: «Nel Medioevo per i tedeschi l’est era un po’ come il vecchio west per gli americani: una frontiera, un Paese immenso da colonizzare. È quello che in tedesco si chiama Drang nach Osten, la spinta verso est che fino all’epoca nazista ha continuato a segnare il 131

Uno dei segreti del successo militare prussiano fu la tattica: la fanteria avanzava in formazione compatta con MOSCHETTO e BAIONETTA; la cavalleria invece attaccava con la sciabola, spesso sui lati.

187.000

Erano gli effettivi quando Federico morì. Per metà erano prussiani, gli altri stranieri (tedeschi e no), volontari o coscritti.

rapporto dei tedeschi con le pianure dell’Europa Orientale», scrive infatti Alessandro Barbero nel suo Federico il grande (Sellerio). Entrò infine a gamba tesa nello scacchiere internazionale dando vita alla cosiddetta Guerra dei sette anni (v. riquadro nelle pagine precedenti) tra lo sgomento delle corti internazionali. Divenne epica, per la costruzione del suo mito, la battaglia del dicembre del 1757 a Leuthen, dove sconfisse l’esercito imperiale austriaco. Lo scontro si concluse con la pianura innevata cosparsa di neve e sangue e i superstiti prussiani in ginocchio che cantavano un corale per ringraziare Dio della vittoria. Grazie anche a queste imprese Federico si guadagnò l’epiteto di Unico, poi divenuto il Grande. Con buona pace di Maria Teresa d’Austria, che continuava a chiamarlo “le méchant homme”, l’uomo cattivo. Senza pensieri? Eppure dietro la corazza del demone capace di una politica spregiudicata e aggressiva, c’era uno spirito illuminato, aperto alla tolleranza religiosa e alla poesia. Non solo: Federico II fu anche un riformatore. Semplificò il sistema giudiziario, introdusse nel codice civile nozioni del moderno Stato di diritto, snellì i processi e abolì la tortura. Quando non era sui campi di battaglia il monarca-condottiero si trasformava in un re-filosofo, passando il tempo 132

10.000

Era il numero degli uomini inquadrati nei sette nuovi reggimenti creati dalla riforma dell’esercito voluta dal sovrano prussiano.

UFFICIALI DI CARRIERA

Federico trasformò i latifondisti nobili (Junker) in ufficiali di carriera, vincolando il loro successo alla gloria militare del Paese.

nella sua Versailles, che sorgeva a Potsdam, dal nome evocativo: Sans-Souci (senza pensieri). Qui componeva poemi o suonava il flauto, lasciando riaffiorare un’emotività cinica e disperata che, a dispetto del nome del palazzo, rivelava una natura tutt’altro che spensierata. “Gli uomini non sono fatti per la verità, per me sono come un branco di cervi nel parco di un grande nobile, che non serve a nient’altro se non a riprodursi e a popolare il parco”. Sui tempi nuovi invece non aveva le idee chiarissime: “Questa elettricità, tutti ne parlano, ma è chiaro che è soltanto un giochino!”, scrisse al filosofo D’Alembert. Gli intellettuali, d’altronde, al suo tavolo non mancavano mai. Il preferito era Voltaire, con cui ebbe sempre un rapporto esclusivo. “Io vorrei possedervi”, gli disse Federico; lui, più anziano di 20 anni, si sottrasse alle avances, ma non rinunciò mai alla lusinga di avere un giovane re ai suoi piedi. Anche Johann Sebastian Bach per un certo periodo fece capolino: compose per lui la celebre Offerta musicale, basata su un suo tema, il thema regium appunto. Eredità avvelenata. Complice l’andirivieni di vip, negli ultimi anni “nonno Fritz” – così lo chiamavano i soldati – era ormai una leggenda. Morì nel 1786 a 74 anni e fu sepolto nella chiesa della guarni-

CONDOTTIERO

Sopra, Federico II con le sue truppe in un quadro del XVIII sec. Il monarca era spregiudicato in guerra, illuminato e sensibile nella vita privata.

MONDADORI PORTFOLIO/BRIDGEMAN

L’esercito prussiano in pillole

In alto, Federico II e il filosofo francese Voltaire nei corridoi del castello di SansSouci, a Potsdam. A destra, un dipinto del re negli ultimi anni di vita, quando veniva chiamato “nonno Fritz”.

PER LA GRANDE GERMANIA

Sotto, una stampa riproduce in scala Federico II, Otto von Bismarck e Hitler: tutti e tre fecero dell’imperialismo e del militarismo di Stato un caposaldo del loro governo, pur con diverse modalità.

gione, a Potsdam. Lì Napoleone lo omaggerà, forte della vittoria sui prussiani a Jena: “Signori, toglietevi il cappello perché se lui fosse ancora vivo noi oggi non saremmo qui”. E che “lui” avesse fatto la differenza, trasformando la Prussia in superpotenza, lo sapeva bene il cancelliere Bismarck, che un secolo dopo creò il Secondo Reich. Preludio al ben più tragico Terzo Reich nazista. Tanto bastò per parlare di eredità avvelenata: assolutismo, militarismo e culto fanatico del dovere. E se invece Federico fosse stato solo la leggenda attorno a cui si costruì l’identità germanica? La questione non ha mai smesso di tormentare i tedeschi, nemmeno dopo l’unificazione: una copertina dello Spiegel nel 1991 polemizzava con l’allora cancelliere Kohl, che aveva riportato a Potsdam le spoglie imperiali trasferite altrove durante la Seconda guerra mondiale. Titolando “Il ritorno di Federico”, in un sondaggio chiedeva: Federico fu responsabile di Hitler e Auschwitz? • A voi la sentenza. Giuliana Rotondi

MONDADORI PORTFOLIO/AGK

ROGER VIOLLET/ALINARI

NONNO FRITZ

La GERMANIA nacque dalla dinastia prussiana degli HOHENZOLLERN, che riunì territori popolati da diverse etnie. E dal DECLINO dell’Impero austriaco

SOVRANI ILLUMINATI

L’imperatrice dei LUMI Q

uando provò per la prima volta una corona, fece ridere tutti: quell’ambìto simbolo di potere, creato per teste maschili, era troppo largo per una donna. E le scivolava sulle sopracciglia. Perciò lei, durante il banchetto dell’incoronazione, contro ogni protocollo si levò l’ingombrante diadema e lo depose sulla tavola, tra bicchieri di tokaj e ciotole di gulash. La scena si svolgeva il 25 giugno 1741 a Budapest: la corona era quella di Santo Stefano, che dal ’200 in poi era stata di tutti i re d’Ungheria. Dopo quel primo copricapo regale, Maria Teresa d’Asburgo (1717-1780) ne indossò altri: fu regina di Boemia, di Croazia e di Slavonia; fu arciduchessa d’Austria e di Toscana nonché duchessa di Milano e di Parma-Piacenza; ma soprattutto fu imperatrice, cioè la monarca più potente d’Europa, cui tutti gli altri sovrani dovevano rispetto. E a sorpresa trasformò il suo impero, già roccaforte tradizionalista, in uno dei regimi più avanzati della storia del continente. Tutto ciò fece dell’imperatrice un mito senza se e senza ma, fin da subito. Paolo Frisi, scienziato illuminista lombardo, già nel

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1783 scrisse un Elogio di Maria Teresa imperatrice, in cui si leggeva: “Dagli studi che aveva potuto fare non avea ricavato solo l’eleganza di parlare e di scrivere, l’erudizione, l’intelligenza dei diritti sovrani; ne avea ricavato una vera stima per le scienze, per le lettere, per le belle arti e per quelli che le coltivavano, ne avea sentito l’importanza e l’utilità per lo Stato, ne avea presa una stabile, uniforme e benefica protezione”. Progressista. Dall’Elogio di Frisi sono passati molti anni e nel frattempo il verbo avea ha preso una “v” in più. Ma l’effetto di quella regina illuminata si sente tuttora: senza Maria Teresa, Milano non avrebbe la Scala, l’Italia non conoscerebbe la parola “catasto” e il mondo non saprebbe nulla di pile elettriche e di fecondazione artificiale. Fu infatti l’imperatrice austriaca a commissionare a Giuseppe Piermarini il teatro milanese. Fu lei a sostenere Lazzaro Spallanzani, che per primo fecondò in vitro delle uova (di rospo), e Alessandro Volta, padre della pila. E fu ancora lei a volere che tutte le proprietà della Lombardia (allora austriaca) fossero censite e stimate in un apposito archivio statale, il catasto. Va detto che il lavoro era iniziato con suo padre, ma si era

SIGNORA DI MILANO

Maria Teresa d’Austria (a destra, la sua firma) e, in basso, Milano in una stampa del ’700. L’imperatrice la rimodernò.

SELVA/LEEMAGE/MONDADORI PORTFOLIO

Nel SETTECENTO riformò l’impero austriaco e fece di MILANO una piccola Parigi. E dire che MARIA TERESA nemmeno portava la CORONA

Maria Teresa fece erigere la VILLA REALE di Monza per darla al FIGLIO Ferdinando Quanto alla maxi zuffa, che gli storici chiamano Guerra di successione austriaca, si scatenò alla fine del 1740, quando Carlo VI morì e il suo decreto, da pezzo di carta teorico, diventò un documento di bruciante attualità, che consegnava l’impero asburgico a Maria Teresa. Metà Europa si ribellò all’idea di una corona con pari opportunità. E da ogni angolo spuntarono lontani parenti dell’imperatore defunto, che vantavano diritti ereditari, veri o presunti. In pole position era piazzato il duca di Baviera, Carlo Alberto von Wittelsbach.

SCALA

interrotto per l’ostilità dei latifondisti. Maria Teresa riprese il progetto (1749), lo portò avanti con l’implacabilità di un bulldozer e lo concluse (1760). Era una rivoluzione, che consentiva di applicare tasse eque, ancorate alla ricchezza reale dei contribuenti invece che alle stime degli esattori, limate dalle mazzette. “Velina” mancata. Eppure quel paradigma di buon governo, benché figlia di un imperatore (Carlo VI d’Asburgo) e benché nata e cresciuta in un palazzo simbolo del potere (l’Hofburg di Vienna) non aveva studiato per regnare. Da ragazza aveva espresso piuttosto doti da attrice.Allora Maria Teresa era splendida. Un anonimo testo dell’epoca ce la descrive così: “Elegante e maestosa la statura, nobile il portamento, occhi cenerognoli (grigi, ndr) pieni di espressione e soavità, ondeggianti i capegli”. Poi, men che ventenne, la futura imperatrice aveva sposato un duca francese, Francesco III di Lorena (alias Francesco I del Sacro romano impero), si era messa a far figli a raffica (ben 16 in vent’anni) e aveva dimenticato le velleità teatrali: un po’ perché il palco non si addice a una nobildonna, un po’ perché troppe gravidanze le avevano sfiancato il fisico. Lotta per il trono. Non studiò da imperatrice, si diceva. E se poi andò al potere, non fu grazie a intrighi seduttivi o a quote rosa, ma per via di un virus, di un “decreto legge” e di una maxi zuffa durata otto anni. Il virus fu quello che uccise da bambino suo fratello Leopoldo Giovanni, erede al trono. Il “decreto” (all’epoca chiamato Prammatica sanzione) fu emanato da suo padre, che non riuscendo ad avere altri figli maschi cambiò in corsa le regole del gioco e introdusse l’ereditarietà femminile della corona.

Il castello di Schönbrunn: con Maria Teresa visse il suo massimo splendore.

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furono concepiti per rivaleggiare con Versailles, residenza reale francese e luogo simbolo delle monarchie tradizionali. Manie di grandezza. Per questo i progettisti non badarono a spese: la reggia di Caserta comprende 1.200 stanze e copre 47.310 metri quadrati; Schönbrunn è ancora più grande (1.441 stanze); entrambi gli edifici sono dotati di parchi sontuosi (120 ettari ciascuno). Regina mobile. Interessante

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Regge “illuminate” da Vienna a Caserta

l dispotismo illuminato dedicò molte risorse alle residenze reali: lo dimostrano due esempi, in Austria e in Italia. Il primo è il castello di Schönbrunn, alla periferia di Vienna, fondato nel ’600 ma ridisegnato nel suo aspetto attuale fra il 1743 e il 1749 per volontà di Maria Teresa. Il secondo è la reggia di Caserta, fondata nel 1752 da Carlo III di Borbone su disegno di Luigi Vanvitelli. Entrambi i complessi

VITA DI CORTE

Sopra, il pranzo di nozze tra Maria Teresa e Francesco Stefano di Lorena (a sinistra, in un ritratto ufficiale) secondo Martin van Meytens, pittore della corte viennese.

è notare che quando Maria Teresa andava in viaggio era accompagnata da cortei altrettanto sontuosi, autentiche regge mobili: un convoglio

che la portò a Praga nel 1743 (in tempo di guerra, quindi di austerità) comprendeva 21 carrozze, 11 carri, 20 cavalli da sella e 212 da traino.

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La querelle finì in una guerra che costò carrettate di morti. A morire per Carlo furono bavaresi, prussiani, svedesi, francesi, spagnoli e napoletani. Sull’altro fronte morirono austriaci, inglesi, ungheresi, boemi, russi, olandesi e i tedeschi di Hannover, Assia e Sassonia. Caso a sé fecero sardi e piemontesi, che caddero su entrambi i fronti grazie a un voltafaccia in corso d’opera dei Savoia. Risultato di quella rissa: in una prima fase Carlo prevalse e diventò imperatore, ma presto morì e alla fine Maria Teresa ebbe la meglio. Compromesso storico. Stavolta la corona imperiale non calò sugli occhi della sovrana, come aveva fatto sette anni prima quella di Santo Stefano, ma solo perché un’incoronazione vera non ci fu mai. Infatti la guerra si concluse nel 1748 con un compromesso: l’Austria ottenne che tutta l’Europa riconoscesse la Prammatica sanzione, ma formalmente il titolo di imperatore fu assegnato a un uomo: cioè al marito di Maria Teresa, Francesco III di Lorena. Lei, la donna per cui tanti erano morti, si accontentò di fare l’imperatrice consorte. Va detto che il compromesso era tale più di nome che di fatto, perché poi a comandare fu proprio la consorte: infatti Francesco preferiva usare il suo tempo per andare a caccia, un po’ di cervi e caprioli, un po’ di nobildonne e contadine. E quella sua passione per le corna, vere e metaforiche, portò fortuna

ALINARI

PRIMI PASSI

A destra, Maria Teresa giovanissima in un quadro dell’epoca. Allora ambiva a una “carriera” artistica.

all’Europa, perché con un imperatore così latitante Maria Teresa ebbe le mani libere per attuare il suo progetto politico, che il figlio Giuseppe sintetizzò poi in uno slogan efficacissimo: “Tutto per il popolo ma nulla con il popolo”. Illuminata. Gli storici chiamano quella linea politica “dispotismo illuminato”. Che è poi un ossimoro, una figura retorica che accosta concetti opposti, tipo “convergenze parallele” o “ghiaccio bollente”. Infatti come si può conciliare il dispotismo, versione estrema della monarchia, coi “lumi” suggeriti da filosofi come Montesquieu e Voltaire? Eppure a metà ’700 in Austria, e non solo, si tentò di usare il potere regale (in quanto tale non discutibile) per riformare 137

nia francese, diventò inglese. Esito locale: nessuno, perché la Prussia si tenne la Slesia. Più successi che sul campo di battaglia, Maria Teresa li ottenne in campo culturale. Sotto di lei Vienna divenne approdo per artisti (Martin van Meytens), letterati (Vittorio Alfieri) e musicisti (Joseph Haydn e Wolfgang Amadeus Mozart, oltre al preesistente Metastasio). L’Europa non aveva mai visto nulla del genere dai tempi della Firenze di Lorenzo il Magnifico. Il prestigio che derivò a Vienna da quella corte fece sì che l’esempio austriaco fosse imitato, anche sul piano politico, da vari re coetanei della Prima madre.

MUSICA E ARTE

Sopra, la Scala di Milano, voluta da Maria Teresa nel 1776. Sotto, Gustavo III.

SCALA

la società in senso illuminista, limitando il ruolo del clero e della nobiltà latifondista. Il dispotismo illuminato era un tentativo intelligente di adeguare ai tempi gli Stati dinastici, allontanando il rischio di rivoluzioni. Con le riforme, infatti, il re diventava una sorta di padre, autoritario ma impegnato a garantire il bene dei sudditi-figli e il futuro della famiglia: un capo che il popolo non aveva alcun interesse a eliminare. Con questa filosofia alle spalle, in quarant’anni di regno Maria Teresa (che non a caso si faceva chiamare Prima madre) di riforme ne fece molte. Oltre al catasto, di cui si è già detto, vanno ricordate la progressiva abolizione dei tribunali del Sant’Uffizio, la promulgazione di leggi di tutela del lavoro minorile, la divisione dei poteri statali, la concessione di diritti ai soldati, la chiusura delle scuole dei gesuiti e infine l’avocazione allo Stato del potere di censura, prima affidato al clero. Insomma: un vero terremoto. Non è tutto: una della riforme che più influirono sulla vita delle classi subalterne fu l’introduzione nel 1774 della scuola elementare obbligatoria e gratuita (secondo caso in Europa). Questa era una riforma davvero costosa, quindi fonte potenziale di resistenze. Ma la Prima madre trovò una fonte di finanziamento inattesa: confiscò e vendette tutti i beni dei gesuiti messi al bando. E lo Stato ne uscì rafforzato. Guai in vista. Nei decenni del regno teresiano, l’unico grosso neo fu la Guerra dei sette anni (17561763), un conflitto combattuto per stabilire chi, tra Parigi e Londra, dovesse avere il predominio nelle terre d’Oltremare. Vienna non c’entrava nulla, ma prese le armi come comprimaria, solo per cacciare la Prussia (alleata degli inglesi) dalla Slesia, una regione oggi polacca, che fino al 1740 era stata austriaca. Esito del confronto nel mondo: il Canada, già colo-

ROGER VIOLLET/ALINARI

Durante il REGNO di Maria Teresa, nel 1774, la SCUOLA elementare divenne GRATUITA e OBBLIGATORIA

Il re che fece la rivoluzione dall’alto

S

i può abolire un parlamento in nome della libertà? Si può fare una rivoluzione stando sul trono? Pare che le risposte siano due “sì”. Così la pensava Gustavo III, re di Svezia dal 1771, che superò “a sinistra” la stessa Maria Teresa, azzerando il potere dell’aristocrazia e imponendo dall’alto, e con le armi, un regime

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ispirato alle idee di Voltaire e Montesquieu. Più che un re illuminato, Gustavo III fu un re illuminista: vietò la tortura, dispose l’abolizione quasi totale della pena di morte, favorì il commercio, sancì la libertà di stampa e di culto. Ma per attuare la sua svolta liberale, Gustavo usò metodi autoritari, sfociati nel 1772 in una cruenta

guerra civile. Il re vinse, sciolse il parlamento (che remava contro le riforme) e assunse poteri assoluti. Poi pagò le sue scelte con la vita, ucciso da un sicario durante una festa a corte. Col popolo. Per capire questo re contraddittorio occorre aver presente un’anomalia tutta svedese: Stoccolma si era data un parlamento già

nel 1718, prima che altrove in Europa. Ma la sua Camera (detta non a caso Consiglio degli aristocratici) era un’accozzaglia di lobby, espressione di poche famiglie patrizie. Gustavo, in un suo discorso del 1772, descrisse la situazione così: “La libertà, uno dei diritti fondamentali dell’uomo,

si è trasformata in un indescrivibile dispotismo aristocratico”. Di qui la paradossale lotta contro il parlamento svedese in nome della democrazia. La nobiltà odiò il re, ma

LESSING/CONTRASTO

REGINA TRISTE

Sopra, Maria Teresa, vestita a lutto per la morte del marito, circondata da sei dei suoi figli.

il popolo gli dedicò un inno appassionato, in voga tuttora: Gustafs skål (Alla salute di Gustavo). Lui tirò diritto, creando la monarchia più colta e aperta d’Europa, con due punti di riferimento: la Francia per le idee politiche (anche se poi tentò di fermare i giacobini) e l’Italia per l’arte (tanto da decorare la sua

Sulla stessa linea di Maria Teresa si collocarono, per esempio, Caterina II di Russia (1729-1796), Federico II di Prussia (1712-1786) e Carlo III di Borbone, re di Napoli e di Spagna (1716-1788). La prima, che si definiva “un filosofo sul trono”, riformò il sistema giudiziario ispirandosi a Montesquieu e a Cesare Beccaria. Il secondo, amico di Voltaire, abolì la tortura e fondò la prima scuola dell’obbligo d’Europa. Il terzo vietò all’Inquisizione di operare nel Sud Italia e creò una catena di “alberghi dei poveri”, embrione di ciò che oggi si chiama welfare. Eredità. Il fenomeno del dispotismo illuminato continuò anche nella generazione successiva. A raccogliere l’eredità di Maria Teresa furono almeno

residenza di Drottningholm con colonne in finto marmo di Carrara, in realtà tronchi di abete dipinti). Vendetta. La “rivoluzione dall’alto” di Gustavo III finì tragicamente nel 1792: in una sera di marzo, durante un ballo in costume, il re fu avvicinato da un capitano delle guardie, Jacob Johan Anckar-

ström, che lo apostrofò in francese (“Bonjour beau masque”) e gli sparò un colpo mortale. Ad armare il militare erano state le famiglie che il sovrano aveva escluso dalla stanza dei bottoni. L’attentato ispirò poi il libretto del melodramma Un ballo in maschera, messo in musica nel 1859 da Giuseppe Verdi.

due dei suoi figli: Giuseppe II (1741-1790) che dal 1765 condivise il trono imperiale con la madre e poi le subentrò; e Leopoldo II (1747-1792) che fu prima granduca di Toscana e poi imperatore a sua volta. Giuseppe ridusse drasticamente il potere del clero, tanto da far chiudere 700 conventi. E sotto Leopoldo la Toscana fu il primo Stato europeo ad abolire la pena di morte. Correva l’anno 1786. Fine di un’era. Ma non tutte le corone d’Europa e non tutti i discendenti dell’imperatrice seguirono questa strada. In particolare non la seguì Parigi, che restò un’ostinata roccaforte dell’ancien régime, finché il 14 luglio 1789 una folla inferocita assalì la Bastiglia, dando il via a una rivoluzione destinata a dilagare in tutto il continente. Poi, il 16 ottobre 1793, Maria Antonietta, moglie di Luigi XVI, regina di Francia e figlia di Maria Teresa, che aveva “tradito” le idee riformiste della madre e dei fratelli diventando un simbolo del dispotismo, finì sul patibolo. Quel giorno sulla ghigliottina moriva anche l’idea che si potesse davvero fare “tutto per il popolo ma nulla con il popolo”: l’Europa, per rinascere moderna e per abolire le zavorre che la frenavano da secoli, aveva imboccato tutta un’altra strada, più drastica e cruenta. Il sogno che la metamorfosi del continente potesse avvenire senza traumi, con un’iniziativa dall’alto, aveva generato ottime cose per mezzo secolo, ma era sopravvissuto a Maria Teresa soltan• to 12 anni, 10 mesi e 17 giorni. Nino Gorio 139

ALINARI

AUSTRIA

Specchio specchio delle mie brame

Elisabetta d’Austria era OSSESSIONATA dalla BELLEZZA. Diete, palestra, magrezza estrema e CURE MANIACALI per lei non erano mai abbastanza n gabbiano di Nessundove io sono, nessun lido considero mia patria, nessun luogo, nessun posto a sé mi lega; è di onda in onda invece che io volo”. Così scriveva nel suo Diario poetico l’imperatrice Elisabetta d’Austria, più nota al mondo come Sissi. Bellissima e inquieta, amata e tormentata, Elisabetta era costantemente in fuga dalla rigida corte di Vienna, che opprimeva il suo desiderio di vivere lontana da qualsiasi costrizione o imposizione. Sissi, infatti, non si rassegnò mai al ruolo impostole di imperatrice, moglie e madre, ma continuò a ricercare una dimensione che esprimesse la sua individualità più profonda senza riuscirvi. Il suo grande dramma consistette principalmente nell’impossibilità di potersi realizzare secondo la sua natura, portandola a convivere con una profonda solitudine interiore. Come un pesce fuor d’acqua. I viaggi, la palestra all’interno della Hofburg di Vienna, la rigidissima dieta per avere un vitino di vespa, il suo amore per i classici greci e tante altre piccole manie venivano derise dalla corte viennese. Così Sissi, sentendosi sempre più disprezzata, tese a isolarsi sempre di più. La nuora Stefania, nel suo libro Come non fui imperatrice, descrisse la suocera con queste parole: “L’imperatrice Elisabetta aborriva l’etichetta e fuggiva volentieri nella solitudine, lontano dalle usanze della corte imperiale. […] Odiava il martirio di quella schiavitù, come essa usava definire i doveri della sua posizione. […] Ella riteneva che ognuno avesse diritto alla propria libertà”. Non riuscì a trovare il conforto che desiderava neppure all’interno della vita matrimoniale: suo marito l’imperatore Francesco Giuseppe era molto preso dagli impegni di Stato e aveva una mentalità troppo diversa per comprendere le problematiche della moglie. Elisabetta si ritrovò così in disparte in una corte fredda e ostile, lontana dagli affetti familiari della sua infanzia. La privacy a cui tanto aspirava venne meno e il suo compito, oltre

FASCINO REGALE

Elisabetta d’Austria (1837-1898) ritratta (a sinistra) con vesti sfarzose e il mantello rosso foderato di pelliccia di ermellino. La sua bellezza era leggendaria, come la lunghezza dei suoi capelli (a destra).

SCALA

U



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SCALA (3)

Si nutriva di misture di CHIARE D’UOVO e sale. E l’allacciatura del BUSTO durava anche un’ora

a dare al mondo l’erede maschio, fu quello di entrare il prima possibile nel suo ruolo di imperatrice. Soltanto con il passare degli anni Sissi prese consapevolezza della sua avvenenza e dell’effetto che suscitava nel marito e negli ammiratori: questo la rese più sicura di sé, e perciò per tutta la vita cercò di mantenere la sua bellezza il più a lungo possibile. Il grande ritrattista di teste coronate Franz Xaver Winterhalter immortalò la sua grazia sulla tela, rendendola celebre: il candore della pelle, lo sguardo dolce che sembra posarsi sullo spettatore, il capo adorno di stelle di diamanti e il vaporoso abito bianco che l’avvolge, simile a una nuvola leggera, raffigurano l’imperatrice aerea e soave come una fata delle fiabe. Ma dietro quest’immagine c’erano immani sacrifici. La natura nervosa di Sissi, unita alla paura di invecchiare e di perdere la sua figura snella, portarono l’imperatrice a seguire diete sempre più rigide fino ad arrivare a bere, come riporta sua nipote Maria Luisa Larisch-Wallersee, “un’orribile mistura di cinque o sei chiare d’uovo con sale”. Durante i suoi spostamenti questo regime alimentare rimaneva invariato fin nei minimi particolari. Dal momento che Sissi non voleva rinunciare al latte fresco neanche 142

nel corso di lunghi spostamenti sui vascelli, la sua capra e le sue mucche preferite venivano imbarcate anch’esse. Il caso poi voleva che queste povere bestie soffrissero ogni tanto il mal di mare, e che perciò non fossero in grado di esaudire costantemente i capricci dell’imperatrice. Il peso della chioma. Consapevole dell’effetto suscitato dal suo aspetto sottile e slanciato, Elisabetta cercò di sottolineare ancora di più la sua figura e, temendo che i vestiti non fossero abbastanza aderenti e tendessero a formare pieghe sgradite, pretese che le fossero cuciti direttamente addosso. Dal momento che era costretta a cambiarsi d’abito di frequente, questo procedimento poteva ripetersi più volte nel corso della stessa giornata, e la semplice allacciatura del busto poteva durare anche un’ora. Più avanti negli anni, per mantenere i fianchi snelli, dormiva stretta in panni bagnati. E faceva immersioni nell’olio d’oliva per conservare la pelle morbida. Oltre al corpo magro, Sissi aveva una vera e propria ossessione per i suoi capelli. Dotata, in effetti, di una lunghissima chioma fluente e resistente, una rarità per l’epoca, trascorreva molte ore in compagnia

CAVALLI , CHE PASSIONE!

Elisabetta in una fotografia del 1855 (a 18 anni); a destra, nel 1863 a cavallo. Sissi era una perfetta amazzone e amava moltissimo cavalcare, anche per mantenere la linea.

GRUPPO IMPERIALE

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Ritratto familiare degli Asburgo: a sinistra si nota Francesco Giuseppe, al centro la madre Sofia e accanto a lei Sissi con la figlia Gisella e il figlio Rodolfo in grembo.

Le tappe della sua vita 1837 Elisabetta Eugenia Amalia di Wittelsbach, duchessa di Baviera, nasce a Monaco il 24 dicembre, quarta figlia del duca Massimiliano Giuseppe e di Ludovica di Wittelsbach. 1854 Il 24 aprile va sposa all’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe, 24 anni e 52 milioni di sudditi. 1855 Nasce la figlia Sofia, che morirà piccolissima durante un viaggio ufficiale della coppia imperiale in Ungheria. 1856 Nasce Gisella. 1858 Nasce Rodolfo, l’erede al trono. 1859 Scoppia la Seconda guerra d’indipendenza e iniziano anni difficili per l’Impero austriaco, che perde la Lombardia ma conserva il Veneto. La salute di Sissi peggiora e la tubercolosi la spinge a Madera e Corfù per curare i polmoni e la depressione. 1866 La Prussia minaccia l’Austria e riesce

a estrometterla dalla Confederazione tedesca, facendole perdere i territori del Nord e alcuni ducati tedeschi. Sissi, che aveva cercato l’alleanza con il cugino Ludwig di Baviera, è costretta a lasciare Vienna e a rifugiarsi a Budapest con i figli. 1867 È incoronata regina di Ungheria. 1868 A Budapest nasce l’ultima figlia, Maria Valeria. 1889 Il figlio Rodolfo si suicida con l’amante, la baronessa Maria Vetsera. 1898 Mentre passeggia lungo il lago di Ginevra in attesa di prendere un battello, Sissi è aggredita a stilettate da un anarchico italiano, Luigi Lucheni. Le sue vesti sono così strette che il sangue non esce e l’imperatrice riprende a camminare; ma muore 20 minuti dopo per un’emorragia interna. È sepolta a Vienna, nella cripta della chiesa dei Cappuccini, accanto al marito e al figlio.

A VITA STRETTA

L’ imperatrice a 19 anni, vestita da sera, in una litografia colorata realizzata nel 1856 in cui risalta il suo celebre vitino di vespa.

Faceva PASSEGGIATE di sette, otto ore al giorno. LE DAME di compagnia la seguivano in CARRETTO A BUDAPEST

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Ritratto di Elisabetta della pittrice ungherese Gyula Benczur. Sissi era anche imperatrice degli ungheresi, che Vienna giudicava “ribelli“, ma che lei amava (ricambiata).

della sua parrucchiera, Fanny Angerer, per curarla e acconciarla in modo magistrale. Il lavaggio veniva effettuato ogni tre settimane e durava una giornata intera, mentre la cura quotidiana esigeva tre ore. Nella sua biografia sull’imperatrice, la storica tedesca Brigitte Hamann scrive: «Quella massa di capelli era così pesante da far venire talvolta il mal di testa ad Elisabetta. In questi casi restava seduta al mattino per ore nel suo appartamento, con i capelli trattenuti in alto da nastri. Così risultava diminuito il peso dei capelli e la testa dolente riceveva un po’ d’aria». Per mantenersi sempre in forma, l’imperatrice aveva fatto installare alcune piccole palestre nei palazzi in cui alloggiava. Ce n’era una persino nel complesso dell’Hofburg, il palazzo imperiale viennese. Vi erano attrezzi di tutti i tipi, tra i quali una coppia di anelli. Il lettore di greco dell’imperatrice, Costantin Christomanos, trascrisse questa deliziosa scena: “Sono arrivato proprio mentre si sollevava reggendosi agli anelli. Indossava un abito di seta nera con un lungo strascico orlato di magnifiche piume di struzzo. Non l’avevo mai vista in un abbigliamento così sfarzoso. Appesa agli anelli, faceva un’impressione fantastica: come una creatura per metà serpente e per metà uccello”. E poi annotava ammirato: “Finito l’esercizio Sissi esclamò: ‘Se le arciduchesse sapessero […] che ho fatto ginnastica con questo vestito, rimarrebbero di stucco, ma l’ho fatto solo en passant. Di solito sbrigo questa faccenda la mattina presto o la sera. Conosco gli obblighi del mio rango’”. A piedi e a cavallo. Il suo sport preferito era sicuramente l’equitazione. Amava cavalcare ed era un’amazzone provetta. Ebbe diversi istruttori famosi per l’epoca e alcuni appartenenti ai circhi più

Sissi al ballo in maschera

N

el febbraio del 1874, la sera del martedì grasso, si tenne un gran ballo in maschera nella sede del Musikverein di Vienna. Friedrich Pacher von Theinburg, un funzionario del governo di 26 anni, decise di parteciparvi. E conversò per tutta la sera con una dama misteriosa, che era l’imperatrice Elisabetta d’Austria, vestita di un domino di

broccato giallo che non faceva intravedere né viso né capelli. Per lettera. La donna disse solo di chiamarsi Gabriella. Friedrich capì subito di trovarsi al cospetto di una gran dama, ma ebbe un’illuminazione solo quando Gabriella gli chiese quali fossero i suoi sentimenti verso l’imperatrice d’Austria. Al momento di congedarsi il ragazzo tentò di alzare almeno

un poco la maschera della donna, ma senza successo. Qualche tempo dopo ricevette una lettera da Monaco che ricordava il loro incontro al ballo, e due missive da Londra. Dal Brasile. Undici anni dopo, ormai sposato e con prole, Pacher ebbe un’altra lettera dalla sconosciuta, che gli chiedeva di inviare una fotografia. L’uomo rispose descrivendo la sua fa-

miglia ma non allegò nulla. E a ulteriori insistenze si spazientì. Gabriella/Elisabetta sparì per altri due anni finché non arrivò un’ultima lettera anonima, dal Brasile, che iniziava così: “La canzone del domino giallo / tanto, tanto tempo fa / ricordi ancora la notte nella sala luminosa? / È passato tanto, tanto tempo, / quando due anime si sono incontrate”.

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IL DRAMMA FINALE

In alto, la scena dell’assassinio di Elisabetta sul lago Lemano, per mano dell’anarchico italiano Luigi Lucheni nel 1898. A destra, l’arresto del colpevole e il corpo di Sissi portato alla stazione di Ginevra.

noti. Sissi era profondamente affascinata dall’attività circense e dalle varie acrobazie. In diverse occasioni prese parte alla caccia alla volpe in Inghilterra, divertendosi e rimanendo costantemente al centro dell’attenzione. E quando l’età la costrinse a scendere da cavallo, iniziò a percorrere lunghe distanze a piedi per mantenersi in linea. In realtà queste passeggiate divennero vere e proprie prove di forza che potevano durare anche sette, otto ore consecutive. Le dame che accompagnavano Sissi non resistevano così a lungo e spesso, assai doloranti, erano costrette a seguirla sedute su un carretto. Quando l’età impediva loro di sostenere un tale ritmo, venivano sostituite con dame più giovani e più resistenti. Questa passione si acuì così tanto che Elisabetta eliminò gran parte delle sedie e poltrone presenti nei suoi appartamenti, preferendo rimanere in piedi e camminare anche all’interno delle stesse stanze. Diario in versi. Un’altra grande passione di Elisabetta fu la poesia. Ispirandosi al suo poeta preferito Heinrich Heine che definiva “maestro”, scrisse un Diario poetico in cui raccolse i suoi pensieri. Come poetessa si sentì finalmente libera di poter esprimere se stessa e in quelle pagine confidò i suoi sentimenti più intimi. Alcuni versi della poesia Alle

anime del futuro, scritta a Bad Ischl nel 1887, tracciano il ritratto emotivo dell’imperatrice intorno ai cinquant’anni d’età che, ormai disillusa, abbandona ogni speranza di essere compresa. Leggendoli ci si riesce a fare un’idea precisa della sua solitudine e della sua vita familiare: “Solitaria vago in questo mondo, alla gioia, alla vita da tempo ho voltato le spalle; con nessuno condivido la mia vita, mai vi fu alcuno che mi abbia capito. […] Sono circondata dai parenti, ma soltanto al corpo e al sangue sono vicini; dieci volte è sprangata la mia interiorità e ben chiuso è ogni accesso”. Ventaglio e vesti nere. Gli ultimi anni furono molto tristi: dopo il suicidio del figlio Rodolfo, una morte avvenuta in circostanze ancora mai del tutto chiarite, Elisabetta perse ogni interesse per la vita. Vestita sempre di nero, prese a viaggiare su e giù per l’Europa senza trovare mai requie. La bellezza ormai svanita fu celata da un ventaglio nero pronto ad aprirsi all’improvviso, per coprire quel volto ormai stanco e sofferente. La morte inaspettata, per mano di un anarchico, la liberò da un male di vivere precursore di tante storie si• mili della nostra epoca. Ilaria Faraci 145

LETTURE

A cura di Matteo Liberti

Elisabetta II regina

Francesco De Leo (Rubbettino) La lunghissima vita politica di una delle maggiori protagoniste della storia britannica: la regina Elisabetta II, sovrana che detiene il record di permanenza sul trono. Il saggio, corredato da fotografie e documenti, riporta anche una conversazione sulla regina con Giorgio Napolitano.

Sovrani a metà. Monarchia e legittimazione in Europa tra Otto e Novecento

a cura di Giulia Guazzaloca (Rubbettino) Raccolta di saggi che ricostruiscono le vicende delle più importanti monarchie europee tra XIX e XX secolo, dalla Gran Bretagna alla Francia, dalla Germania alla Russia, dall’Italia alla Spagna. Si analizzano le molteplici trasformazioni vissute dall’istituto monarchico e il nuovo ruolo assunto dai sovrani.

I Savoia. Novecento anni di una dinastia

Gianni Oliva (Mondadori) In rassegna una ricca sequela di eventi pubblici e trame private, dalla quale si ricostruisce la lunga storia dei Savoia. La dinastia è tra le più antiche d’Europa e si sviluppa dal Medioevo alla metà del XX secolo, legandosi strettamente alle sorti della penisola italiana.

Un regno che è stato grande. La storia negata dei Borboni di Napoli e Sicilia

Gianni Oliva (Mondadori) Dalla costruzione a Caserta di una reggia da far invidia a quella di Versailles all’inaugurazione della prima linea ferroviaria italiana, la Napoli-Portici, il libro ripercorre i fervori economici e culturali che animarono il Sud

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Italia al tempo dei Borboni, sovrani troppo spesso “maltrattati” dalla storiografia.

Lo Stato assoluto. Origini e sviluppo delle monarchie assolute europee

Perry Anderson (Il Saggiatore) Saggio sulle origini dello Stato moderno formatosi in Europa tra XV e XVIII secolo. La prima parte analizza le grandi monarchie dal Rinascimento in avanti; la seconda mette a confronto gli Stati assoluti dell’Europa Orientale con quelli occidentali.

Carlo V

Karl Brandi (Einaudi) Basandosi su un’eccezionale quantità di fonti, il volume ricostruisce la vita dell’imperatore Carlo V d’Asburgo, svelando gli aspetti intimi e pubblici di una figura complessa, al centro di un mondo in trasformazione, tra sanguinose battaglie e aspre discussioni teologiche.

Maria Teresa d’Austria. Vita di un’imperatrice

Edward Crankshaw (Mursia) Particolareggiata biografia – e nel contempo affresco di un’epoca – di Maria Teresa d’Austria, sovrana dalla personalità multiforme che, seppur cattolica e conservatrice, limitò i privilegi ecclesiastici e introdusse importanti riforme, facendo inoltre di Vienna la capitale culturale d’Europa.

Carlo Magno. Primo europeo o ultimo romano Georges Minois (Salerno) Districandosi tra le innumerevoli ricostruzioni storiche che nel corso dei secoli sono state fatte circa la vita di Carlo Magno, il saggio ricostruisce la biografia dell’imperatore, depurandola da ogni mitizzazione.

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Codice ISSN: 2280-1456

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Tutto quello che c’è da sapere sui Greci d’Italia: misteri ed eredità delle colonie della Magna Grecia, la vita dei Sibariti, il Sud culla del pensiero greco, la guerra contro Atene, il tiranno di Siracusa, i tesori che ci hanno lasciato. In più: quando mangiavamo interiora di pesce e ghiri arrosto, l’eroina che scalò il Monte Bianco nel 1838, le sviste che hanno cambiato il corso degli eventi, il secolo d’oro dell’Olanda...

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