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Zitiervorschau

Dispensa della materia: ASPETTI PSICO-RELAZIONALI ED INTERVENTI ASSISTENZIALI IN RAPPORTO ALLA SPECIFICITA’ DELL’UTENZA Corso per Operatore Socio Sanitario anno 2017 presso I.M.A.M Larino

Le dispense sono a cura della dott.ssa Angela Benigni, docente del seguente modulo.

1 LA FIGURA DELL’OPERATORE SOCIO-SANITARIO (OSS) 1.1 Cambiamenti storici Il cambiamento sociale e scientifico degli ultimi decenni è una delle motivazioni alla base del cambiamento di tendenza che ultimamente ha portato all’introduzione di due nuovi operatori nell’ambito dell’assistenza sanitaria, sia ospedaliera che domiciliare: l’ Operatore Socio Sanitario (OSS) ed all’Operatore Socio Sanitario con Formazione Complementare. Nella seconda metà degli anni ’70, con l’abolizione della formazione dell’Infermiere Generico e negli anni ’80 con l’abolizione della formazione complementare per gli Infermieri, si era passati ad una erogazione dell’assistenza basata su di un operatore unico che, in teoria, avrebbe dovuto essere capace di intervenire in tutte le situazioni assistenziali: l’Infermiere Professionale. Nel 1990 (DPR 384) è stata istituita una nuova figura nel campo dell’assistenza: l’OTA od Operatore Tecnico addetto all’Assistenza; tale figura nasceva per rispondere ad un’esigenza che era andata sempre più delineandosi, negli ultimi anni, per la rarefazione di operatori intermedi e la necessità di disporre di professionisti particolarmente formati in alcuni ambiti come l’area critica: l’OTA rappresentava così un compromesso che avrebbe permesso di rispondere a due opposte esigenze: quella di aver un operatore economico e versatile che togliesse all’infermiere, unico “titolare” dell’assistenza, tutta una serie di compiti prettamente tecnici o di base e l’altra, che risultava come conseguenza della prima, ovvero un minor numero di personale infermieristico nei reparti ed elevazione dei compiti di quest’ultimi verso attività per le quali fossero necessarie conoscenze approfondite. L’OTA, che aveva una connotazione prettamente ospedaliera, lasciava tuttavia scoperte tutte le necessità che giungevano dall’Assistenza Territoriale, sia per quanto concerneva l’aspetto sanitario che quello sociale. Venne così istituita la figura di un operatore di supporto per il settore sociale, che avesse una preparazione specifica per soddisfare i bisogni di base delle persone che restavano all’interno del proprio contesto abitativo o comunque in residenze assistite. Tutto questo portò alla formazione di uno stuolo di figure “locali” che frammentarono il panorama italiano degli operatori “socio-assistenziali”. Questo continuo aumento di operatori sanitari contribuì, con gli altri fattori più sopra analizzati, a rendere necessario un riordino generale, per quanto concerneva le figure impiegate nell’assistenza a livello nazionale, che mettesse ordine in questa materia per certi aspetti complessa e delicata. Il lavoro di riorganizzazione portò quindi all’istituzione di un nuovo operatore che racchiudesse in sé la possibilità di svolgere i compiti dell’OTA e dell’OSA (Operatore Socio Assistenziale), oltre a nuove attività che gli avrebbero permesso, ancorché con gradualità, di inserirsi, a pieno titolo, nell’attività ospedaliera ed in quella territoriale con competenze ben più ampie di quelle degli operatori da cui derivava. 1.2 Chi è l’OSS? L'Operatore Socio Sanitario aiuta le persone a soddisfare i propri bisogni fondamentali. Favorisce il benessere e l'autonomia di coloro che vivono una condizione di difficoltà a casa, in ospedale o nelle strutture residenziali dove vivono. Per questo collabora con altri operatori professionali che lavorano in servizi che si occupano di assistenza sanitaria e sociale. Cosa fa? L'Operatore Socio Sanitario deve saper capire le necessità della persona con cui lavora, valutare cosa le serve e dare delle risposte adeguate.

Le sue attività sono quindi rivolte alla persona e al suo ambiente di vita. Deve soprattutto saper svolgere attività di aiuto attraverso interventi igienico-sanitari e di carattere sociale, quindi: • lavora con il personale sanitario e sociale e contribuisce al progetto assistenziale rivolto alla persona; • osserva e collabora alla rilevazione dei bisogni e delle condizioni che possono danneggiare ulteriormente la persona in difficoltà; • aiuta la persona e la sua famiglia ascoltandoli, osservandoli e comunicando; • assiste ed aiuta la persona nelle attività quotidiane di igiene personale e di governo della casa; • realizza attività semplici in aiuto alle attività infermieristiche e tecnico-sanitarie; • si occupa di favorire le relazioni tra le persone e nei gruppi, anche attraverso attività di animazione. Il lavoro professionale dell'Operatore Socio Sanitario all'interno dei servizi di aiuto alla persona richiede anche: - la collaborazione alla verifica della qualità del servizio; - la trasmissione della propria esperienza alla persona ed alla sua famiglia; - il proprio aggiornamento professionale. Con chi lavora? Lavora con persone che vivono in una condizione di disagio sociale o che sono malate : anziani con problemi sociali e sanitari, famiglie, bambini e ragazzi problematici, persone disabili, adulti in difficoltà o con problemi psichiatrici, degenti in ospedale. Collabora con altri operatori di differente professionalità, ma che hanno le stesse finalità (medici, psicologi, assistenti sociale, educatori, fisioterapisti, con famiglie degli assistiti e le associazioni di volontariato). Dove lavora? L'Operatore Socio Sanitario svolge il proprio lavoro nei settori sanitari e sociali. Può quindi lavorare in ospedale e negli altri servizi sanitari, nei servizi sociali (comunità alloggio, residenze per anziani, centri diurni, ecc.) o a casa della persona. Gli ambiti di assistenza Le persone di cui si prende cura l'OSS sono: · persone adulte con handicap gravi o con sofferenza psichica e/o precedente di malattia mentale · persone anziane · nuclei familiari con persone a rischio o con portatori di handicap fisici e/o psichici; minori allontanati dalla famiglia e collocati in strutture residenziali (comunità- alloggio; istituti ecc.)

1.3 PROFILO OPERATORE SOCIO-SANITARIO Accordo Conferenza Stato-Regioni del 22 febbraio 2001 L’Operatore Socio-Sanitario: svolge la sua attività sia nel settore SOCIALE che in quello SANITARIO in servizi di tipo socio-assistenziali e socio-sanitari residenziali e non residenziali, in ambiente ospedaliero e al domicilio dell’utente. Svolge la sua attività su INDICAZIONE , ciascuno secondo le proprie competenze,

degli operatori professionali preposti all’assistenza sanitaria e a quella sociale, ed in collaborazione con gli altri operatori, secondo il criterio del lavoro multi-professionale. Le attività dell’Operatore Socio-Sanitario sono rivolte alla persona e al suo ambiente di vita, al fine di fornire: 1)Assistenza diretta e di supporto alla gestione dell’ambiente di vita; 2)Intervento igienico sanitario e di carattere sociale; 3) Supporto gestionale, organizzativo e formativo Allegato A: ELENCO DELLE PRINCIPALI ATTIVITÀ PREVISTE PER L'OPERATORE SOCIO SANITARIO

1) Assistenza diretta ed aiuto domestico alberghiero: assiste la persona, in particolare non autosufficiente o allettata, nelle attività quotidiane e di igiene personale; realizza attività semplici di supporto diagnostico e terapeutico; collabora ad attività finalizzate al mantenimento delle capacità psico-fisiche residue, alla rieducazione, riattivazione, recupero funzionale; realizza attività di animazione e socializzazione di singoli e gruppi; coadiuva il personale sanitario e sociale nell'assistenza al malato anche terminale e morente; aiuta la gestione dell'utente nel suo ambito di vita; cura la pulizia e l'igiene ambientale. 2) Intervento igienico sanitario e di carattere sociale: osserva e collabora alla rilevazione dei bisogni e delle condizioni di rischio-danno dell'utente; collabora alla attuazione degli interventi assistenziali; valuta, per quanto di competenza, gli interventi più appropriati da proporre; collabora alla attuazione di sistemi di verifica degli interventi; riconosce ed utilizza linguaggi e sistemi di comunicazione/relazione appropriati in relazione alle condizioni operative; mette in atto relazionicomunicazioni di aiuto con l'utente e la famiglia, per l'integrazione sociale ed il mantenimento e recupero della identità personale. 3) Supporto gestionale, organizzativo e formativo: utilizza strumenti informativi di uso comune per la registrazione di quanto rilevato durante il servizio; collabora alla verifica della qualità del servizio; concorre, rispetto agli operatori dello stesso profilo, alla realizzazione dei tirocini ed alla loro valutazione; collabora alla definizione dei propri bisogni di formazione e frequenta corsi di aggiornamento; collabora, anche nei servizi assistenziali non di ricovero, alla realizzazione di attività semplici. COMPETENZE RELAZIONALI -

sa lavorare in equipe; si avvicina e si rapporta con l'utente e con la famiglia, comunicando in modo partecipativo in tutte le attività quotidiane di assistenza; sa rispondere esaurientemente, coinvolgendo e stimolando al dialogo; è in grado di interagire, in collaborazione con il personale sanitario, con il malato morente; sa coinvolgere le reti informali, sa rapportarsi con le strutture sociali, ricreative, culturali dei territori; sa sollecitare ed organizzare momenti di socializzazione, fornendo sostegno alla partecipazione ad iniziative culturali e ricreative sia sul territorio che in ambito residenziale;

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è in grado di partecipare all'accoglimento dell'utente per assicurare una puntuale informazione sul servizio e sulle risorse; è in grado di gestire la propria attività con la dovuta riservatezza ed eticità; affiancandosi ai tirocinanti, sa trasmettere i propri contenuti operativi. 2 ELEMENTI DI PSICOLOGIA E COMUNICAZIONE 2.1 ALLARGARE GLI ORIZZONTI: CONSAPEVOLEZZA E APERTURA MENTALE Uno dei requisiti caratteriali che deve avere l’operatore che si occupa di assistenza è l’apertura mentale, intesa come la capacità di entrare in rapporto con gli utenti senza pregiudizi e con una visione libera ed ampia degli eventi. Per arrivare a questo bisogna senz’altro lavorare su di sé perché ognuno di noi, a causa delle proprie esperienze personali, ha delle limitazioni in questo senso. Oltre alla nostra storia passata, anche le nostre convinzioni e i nostri valori potrebbero interferire nei rapporti con gli assistiti. E’ importante quindi controllare, per quanto possibile, l’influenza dei giudizi legati alle proprie convinzioni, quando questi possono diventare un ostacolo all’accoglimento dell’altro. Un ulteriore problema nasce quando siamo talmente abituati a seguire regole e norme, che non riusciamo più a distinguere le situazioni in cui è opportuno sottostare a tali regole da quelle in cui avremmo un buon margine di libertà, così siamo prigionieri di norme che nessuno ci impone. Apertura mentale significa quindi allargare i propri orizzonti e guardare alle scelte, nostre e dei pazienti, con più ampio respiro. 2.2 FEEDBACK E SISTEMA CHE SI AUTOCORREGGE Per entrare efficacemente nelle relazioni è importante imparare a leggere la realtà circostante. Ciò è possibile sviluppando una particolare sensibilità a cogliere tutti i segnali, soprattutto non verbali, che ci arrivano dalle persone e dagli ambienti con cui entriamo in relazione. Qualunque nostra azione o verbalizzazione ha un effetto sulla situazione in cui siamo inseriti. L’ambiente ci rimanda un segnale che ci dà importanti informazioni su ciò che si sta verificando; questo segnale si chiama feedback ed è un’informazione di ritorno che ci segnala quale effetto ha avuto sull’ambiente la nostra azione. L’utilità del feedback sta nel fatto che ci consente di capire se l’interazione sta procedendo correttamente o meno: se il feedback ci dice che tutto procede come desiderato ci dà la conferma a proseguire, se ci dice che qualcosa non sta funzionando, dobbiamo essere capaci di modificare qualche elemento dell’interazione. Nelle relazioni dobbiamo imparare a funzionare come un sistema che si auto- corregge, in base ai feedback ricevuti, in vista dell’obiettivo prefissato; non sapendo leggere il feedback che consente di correggere i successivi interventi, si rischia di procedere nell’interazione nonostante l’inefficacia della strategia utilizzata.

2.3 I PROCESSI ATTRIBUZIONALI E’ importante rendersi conto che, quando attribuiamo significato agli eventi, siamo soggetti ad una serie di distorsioni dovute alle nostre conoscenze pregresse, alle nostre esperienze, alle nostre abitudini, anche quando siamo convinti di essere obiettivi. Il processo attribuzionale è quella serie di operazioni mentali con cui siamo soliti attribuire significato agli eventi esterni; tale processo può essere influenzato da fattori situazionali o disposizionali. L’ attribuzione interna (o disposizionale) è un processo di assegnazione delle cause del comportamento, nostro o altrui, a fattori interni o disposizionali (ad esempio, il paziente si lamenta spesso perché ha un pessimo carattere, ha bisogno di attirare l’attenzione). L’ attribuzione esterna (o situazionale) avviene quando le cause del comportamento, nostro o altrui, vengono attribuite a fattori esterni o ambientali (ad esempio, il paziente si lamenta spesso perché sta in una posizione scomoda, la stanza è rumorosa). L’attribuzione avviene in maniera molto veloce e spesso inconsapevole e questo può portare a degli errori sistematici di attribuzione: la discrepanza attore-osservatore è la tendenza ad attribuire i propri comportamenti a cause esterne e i comportamenti degli altri a cause interne, i motivi per cui questo avviene potrebbero essere i seguenti: - distorsione percettiva: quando stiamo valutando gli altri la nostra attenzione è focalizzata su di loro, mentre quando valutiamo le nostre azioni , l’attenzione è rivolta all’esterno, alla situazione in cui ci troviamo. - asimmetria dell’informazione: abbiamo una conoscenza maggiore del nostro comportamento e quindi sappiamo che è influenzato da fattori situazionali, dato che ci comportiamo in modi differenti a seconda del contesto. 2.4 EFFETTO ALONE E PROFEZIA CHE SI AUTO-AVVERA L’effetto alone è quel meccanismo che ci fa attribuire, ad una persona o ad una situazione, delle caratteristiche presunte, sulla base di caratteristiche effettivamente visibili (ad esempio, esempio: conosco una persona carina, ordinata, gentile e desumo che si tratta di una persona buona e generosa. La bontà e la generosità non hanno nulla a che fare con le caratteristiche osservate ma il cervello aggiunge automaticamente queste caratteristiche che si suppone, per logica, che siano associate. Si tratta si un meccanismo inconscio, per cui non sono consapevole della differenza tra caratteristiche osservate e quelle presunte; entrambe entrano a far parte degli elementi che credo di avere a disposizione per farmi un’idea della situazione. Il secondo meccanismo preso in considerazione è la profezia che si auto- avvera: si tratta di quel processo mentale attraverso il quale, se siamo convinti mentalmente di qualcosa, mettiamo in atto dei comportamenti che, proprio a causa della convinzione iniziale, porteranno la situazione a verificarsi. Alcuni esempi: se pensiamo “quella persona è fredda e ostile” , ci comportiamo di conseguenza in modo poco cordiale, questo può portare quella persona ad essere fredda e ostile e quindi a confermare la nostra previsione; oppure in previsione di un esame pensiamo “ non supererò mai l’esame”, questa convinzione può comportare poco impegno nello

studio, insicurezza e timore in sede d’esame, con l’effetto che l’esame non viene superato e la nostra convinzione si è avverata e rafforzata. Fortunatamente questo meccanismo funziona anche in senso positivo, per cui più una persona crede in se stessa e nella buona sorte, maggiori saranno le possibilità di riuscita. Un famoso esperimento sulla profezia che si autoavvera è quello di Robert Rosenthal (1974) anche noto come "effetto Pigmalione". Egli propose a delle maestre di una scuola elementare di effettuare una serie di test preliminari all’inizio dell’anno scolastico agli alunni del primo anno. Consegnò quindi loro dei falsi risultati in cui assegnò causalmente metà studenti al gruppo X e metà al gruppo Y. Alle insegnanti fu detto che i bambini del primo gruppo erano più intelligenti e più diligenti nello studio, favorendo l’insorgere di specifiche aspettative nei loro confronti. Alla conclusione dell’anno scolastico le votazioni del gruppo X furono effettivamente migliori. Rosenthal concluse che le aspettative delle insegnanti si riflettevano in un diverso atteggiamento che favorì l’avverarsi della profezia.

3 SALUTE E MALATTIA

3.1 EVOLUZIONE DEL CONCETTO DI SALUTE Fino al 1948 il concetto di salute era semplice, facilmente comprensibile, basato su un’affermazione negativa: nell’assenza di malattie. E’ sano chi non è ammalato, chi ha malattie non è sano. La salute è assenza di malattie. Con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (New York, 1948), scaturì un nuovo concetto di salute. Nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che è l’agenzia tecnica dell’ONU, deputata ai problemi riguardanti la salute pubblica in contatto con i Ministeri della Sanità pubblica dei vari Paesi membri dell’organizzazione, fu scritto che: la salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non soltanto assenza di malattie o di infermità. Il godimento del più alto standard di salute raggiungibile è uno dei diritti fondamentali di ogni essere umano senza distinzione di razze, religione, credo politico, condizione economica o sociale. La salute di tutti i popoli è fondamentale per il raggiungimento della pace e sicurezza e dipende dalla più ampia cooperazione degli individui e degli Stati. L’impegno di ogni Stato nella promozione e protezione della salute è utile a tutti. Lo sviluppo diseguale tra i Paesi nella promozione della salute e controllo delle malattie trasmissibili, rappresenta un pericolo per tutti. L’impatto della nuova concezione è stato enorme nel campo della cultura, delle scienze e delle politiche sanitarie. L’affermazione positiva della salute come benessere fisico, mentale e sociale della persona, rispetto al concetto negativo tradizionale di salute come assenza di malattia, provocò una sorta di terremoto, si può dire, nel campo della medicina che – impegnata da secoli quasi esclusivamente, salvo rare eccezioni, nello studio e nella lotta contro le malattie per diagnosticarle, per curarle, per prevenirle e per prolungare la vita ai malati – si trovò impreparata di fronte alla nuova prospettiva di tutelare e promuovere la salute.

La nuova concezione allarga decisamente l’area della salute umana dalla sfera del corpo a quella della mente e a quella delle relazioni sociali, sollevando motivi di crisi nella Sanità Pubblica perché estende il campo di azione alle scienze psicologiche e alle scienze sociali e successivamente anche alle scienze economiche. Si presenta anche la necessità di dare una nuova impostazione ai servizi sanitari e socioassistenziali: col nuovo concetto di salute la Sanità dovrà impegnarsi anche della tutela e della promozione della salute nella popolazione. La prevenzione, la diagnosi e la cura di malattie si basano, ovviamente, sulle conoscenze riguardanti la loro “patogenesi”, mentre la promozione della salute intesa come benessere fisico, mentale e sociale non può che basarsi sulle conoscenze riguardanti i fattori che generano salute, cioè la “salutogenesi”. E’ opportuno considerare che nel periodo storico coincidente e successivo a quello in cui si affermò il nuovo concetto pluridimensionale di salute (seconda metà del XX secolo) si verificò una complessa e rapida transizione epidemiologica nei vari Paesi, compresa l’Italia, rispetto alla quale il nuovo concetto di salute apparve adeguato. Le caratteristiche della transizione riguardavano non soltanto la patologia, ma anche altre importanti caratteristiche sociali e demografiche che possono essere così schematicamente indicate: passaggio da epidemie di malattie infettive, curabili e guaribili (broncopolmoniti, enteriti, difterite, tifo, ecc.) a epidemie di malattie cronico-degenerative (neoplasie, cardiopatie, artropatie, diabete, demenze, ecc.) con aumento delle sofferenze prolungate; invecchiamento esplosivo della popolazione che si intreccia inestricabilmente con il cambiamento anzidetto della patologia in una serie di rapporti reciproci di causa ed effetto; cambiamenti rapidi degli stili di vita e dei comportamenti (sedentarietà, alimentazione, guida spericolata di automezzi, fumo, alcol, droghe, ecc.) con relativo aumento delle malattie comportamentali; rapido aumento della patologia mentale (depressioni, ansie, angosce, anoressie, bulimie, crisi di panico, ecc.) e del disagio sociale sia giovanile che degli anziani, sempre più soli,ingombranti e consapevoli del loro tramonto. La nuova concezione multidimensionale della salute suggerì un nuovo modello alla medicina, denominato “bio-psico-sociale”, che calzava bene alle nuove realtà, ma cozzava contro altri modelli medici tradizionali. Dopo la prima Conferenza mondiale sulla promozione della salute, che si tenne ad Ottawa nel 1986, si cominciò a prendere in considerazione un’altra dimensione della salute, quella spirituale, che crebbe via via di importanza (La persona è un complesso inscindibile di corpo, mente e spirito, profondamente inserita in un contesto familiare, lavorativo e sociale). Molte persone promuovono la spiritualità attraverso la religione oppure attraverso una relazione personale con il divino, mentre molte altre possono promuoverla attraverso un rapporto con la natura, con la musica e le arti, o attraverso una serie di valori e di principi, oppure attraverso la ricerca delle verità scientifiche. In questi ultimi anni il concetto di salute e la transizione epidemiologica si sono profondamente modificati e diventano sempre più complessi. Gli studi hanno dimostrato che i fattori esogeni, cioè esterni all’individuo, che influiscono sulla salute umana sono numerosissimi. Tali fattori appartengono a tutte le componenti dell’ambiente totale, cioè dell’ambiente fisico, chimico, biologico, sociale, economico e interagiscono continuamente fra di loro formando un sistema assai complesso di relazioni e di equilibri instabili difficilmente analizzabile. Un altrettanto sistema complesso di relazioni e di equilibri instabili che influiscono sulla salute dipende da fattori endogeni, cioè interni all’individuo, a loro volta dipendenti in parte da influenze genetiche e pure difficilmente controllabile.

In breve tempo si è imposta la visione sistemica dei problemi di salute e di patologia: una tale visione ha portato o meglio riportato in primo piano la necessità di adottare nei confronti dei problemi dell’uomo l’approccio “olistico”, cioè unitario e globale. Il modello culturale e operativo medico dovrebbe evolvere verso una dimensione olistica/sistemica/multidimensionale/ecologica/sociale/comunitaria della medicina che viene suggerita da un lato dall’epidemiologia contemporanea e, dall’altro, dalle teorie moderne riguardanti l’approccio bio-psico-sociale dell’uomo, inserito nelle sue comunità di appartenenza: la comunità famiglia, la comunità del lavoro, del tempo libero, del quartiere, ecc.. Il nuovo concetto di salute indica il bisogno di more care than cure, cioè più assistenza che cura, mediante servizi sanitari e sociali integrati ma gli ostacoli culturali che si oppongono alla realizzazione di una nuova Sanità Pubblica, ispirata a tali principi, restano notevoli.

nuova concezione multidimensionale della salute modello “Bio-psico-sociale” SALUTE

risultato derivante dall’interazione dell’uomo con l’ambiente -Non più solo benessere

derivante dal buon funzionamento dell’organismo

RIASSUMENDO: La salute è uno stato di completo benessere psichico , fisico e sociale dell'uomo dinamicamente integrato nel suo ambiente naturale e sociale e non la sola assenza di malattia. -Essere sano: forza e robustezza ed avere riserve da mobilitare per far fronte allo stress, alla fatica, alle malattie. -Stare bene: aspetti positivi legati all'umore, alle sensazioni, all'equilibrio personale.

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Un concetto globale di salute: Dimensione fisica: buon funzionamento fisiologico del nostro organismo; Dimensione psichica: capacità di pensiero, di astrazione, di coerenza; Dimensione emotiva: capacità di riconoscere ed esprimere in modo appropriato le nostre emozioni, riuscendo a controllare il nostro equilibrio quotidiano. Dimensione sociale/relazionale: capacità di avere e mantenere relazioni positive con i propri coetanei, con il proprio gruppo di appartenenza; Dimensione spirituale: libertà di praticare il proprio credo religioso e il proprio sistema di valori e di scelte comportamentali; LA SALUTE E' UN DIRITTO DOVERE Ogni persona ha il diritto di usufruire dei mezzi più idonei per conservare la salute e migliorarla, per recuperarla in caso di malattia, per eliminare le

eventuali conseguenze della malattia. Allo stesso tempo ogni individuo deve possedere e adottare uno stile di vita sano, ed in particolare deve conoscere le principali norme igieniche, le strategie di prevenzione, seguire accuratamente le prescrizioni di cura.

3.2 LA MALATTIA La malattia intesa coma ‘modello medico’ è caratterizzata da un processo patologico, da una deviazione da una norma biologica. Intrinseca in questa definizione vi è una oggettività che permette ai medici di vedere, toccare, misurare il processo patologico. Di solito è accompagnata dalla malattia come esperienza soggettiva, ma non necessariamente. I testi di patologia generale, cioè della scienza che studia i “fenomeni morbosi”, ossia le alterazioni delle equilibrio biologico, che sono alla base della malattia, danno delle definizioni simili su tre punti: - la malattia equivale ad un'alterazione della normalità; -la malattia corrisponde ad una perdita transitoria o permanente della omeostasi (perdita dell'equilibrio funzionale, alterazione delle condizioni interne ed esterne); - si ha malattia quando le capacità di difesa del nostro organismo non sono più in grado di controllare i danni prodotti dagli agenti patogeni. La malattia è un rischio naturale che può colpire tutti: compito della sicurezza sociale è quello di proteggere (curando e spesso risarcendo) contro tale rischio. La malattia è un disordine che turba il normale equilibrio dell'organismo; il disordine è indotto dall'ambiente, dalle condizioni e dallo stile di vita, dai batteri, da virus ecc. La salute è uno stato di equilibrio molto delicato che può essere minacciato dall'azione di molti numerosi fattori di rischiosi; i fattori di rischio si possono classificare nella maniera seguente:

3.2.1 FATTORI DI RISCHIO La salute è uno stato di equilibrio molto delicato che può essere minacciato dall'azione di numerosi fattori di rischio che possono essere così suddivisi: 1. FATTORI DI RISCHIO INDIVIDUALI: * Ereditarietà e familiarità; * Personalità; * Condizioni sociali.

2. FATTORI DI RISCHIO COMPORTAMENTALI (O DELLO STILE DI VITA), costituiti da una seria di scelte effettuate dal singolo individuo all'interno di condizionamenti derivanti dall'ambiente: * Alimentazione ipercalorica e/o sbilanciata; * Sedentarietà;

* Scarsa igiene personale; * Guida spericolata; * Fumo di tabacco; * Abuso di farmaci ; * Abuso di alcool; * Abuso di droghe illegali. 3. FATTORI DI RISCHIO SOCIOCULTURALI ED ECONOMICI (che influenzano i fattori comportamentali) legati a: * L'organizzazione sociale ed economica (es. limitate libertà individuali; problemi economici e disoccupazione; stress; scadente organizzazione sociosanitaria.) * Le influenze culturali (es. modelli culturali del fumatore e del bevitore; cultura del vino nei paesi mediterranei e della canapa indiana nei paesi orientali).

4. FATTORI DI RISCHIO AMBIENTALI, legati al clima, alla collocazione geografica e all'inquinamento ambientale;

5. FATTORI BIOLOGICI (es. batteri, protozoi, miceti, virus, parassiti.);

6. FATTORI FISICI (es. clima, localizzazione geografica, calamità naturali, radiazioni ionizzanti, raggi ultravioletti, elettricità, calore, rumore, umidità);

7. FATTORI CHIMICI (es. scarichi industriali ed urbani, scarichi delle auto; pesticidi e fertilizzanti, additivi alimentari). 3.3 LE REAZIONI PSICOLOGICHE ALLA MALATTIA La malattia è un evento molto stressante che determina una crisi nell’individuo. La persona di fronte ad una malattia deve affrontare non solo il dolore fisico ma anche la perdita di autonomia (a partire dalla necessità di delegare ad altri la gestione del proprio corpo), il disorientamento derivante dal trovarsi in una situazione nuova e in un luogo, l’ospedale, in cui si faticano a comprendere le regole. La capacità di una persona di affrontare una malattia dipende da numerosi fattori: Tipo di patologia: -patologia cronica (si cura ma non guarisce: tumori, diabete, cardiopatia…) -patologia acuta (dolore acuto ma transitorio) -patologia traumatica (generata da eventi improvvisi ed inaspettati con esito non sempre certo) Esperienze passate (esperienze pregresse di malattia) Fattori culturali e religiosi Supporto sociale (atteggiamento del personale curante) e familiare Caratteristiche psicologiche del paziente (grado di maturazione psicologica, capacità introspettiva, disturbi di natura psicologica) Quando subentra una malattia nella vita di una persona, essa può scatenare una moltitudine di stati emotivi diversi che sono influenzati dalla natura della malattia, dalla personalità della persona e dal contesto fisico e sociale; i più comuni stati emotivi sono: minaccia e paura, frustrazione, ansia, depressione, aggressività, regressione, isolamento.

Da alcune ricerche, che hanno analizzato l’andamento dell’ansia e della depressione come reazioni alla malattia, è emerso che nelle prime fasi di malattia c’è un alto livello di ansia mentre la depressione è molto bassa, invece, con l’avanzare della malattia e la sua cronicizzazione, l’ansia iniziale diminuisce e subentra uno stato di depressione. Il modo di affrontare una malattia incide anche sui fattori prognostici ossia sui tempi di guarigione, sulla riduzione dei sintomi, sulla qualità di vita e sulla sopravvivenza. La malattia sconvolge l’equilibrio psico-fisico della persona, per cui le reazioni alla malattia riguardano diversi aspetti: -reazioni emozionali (collera, incredulità, terrore, irritabilità, senso di impotenza, senso di colpa, perdita di piacere nelle attività), - reazioni cognitive (difficoltà di concentrazione, confusione, pensieri intrusivi, calo di autostima e auto-efficacia); - reazioni biologiche (fatica, insonnia, incubi, iperattivazione, lamentele somatiche) - reazioni psicosociali (ritiro sociale, alienazione, ridotta capacità lavorativa) La malattia costituisce una minaccia alla vita, all’integrità somatica e psichica, all’equilibrio emotivo, ai ruoli sociali, agli impegni quotidiani e ai progetti futuri. L’individuo reagisce a questa minaccia con delle difese che il cervello mette in atto, queste difese vengono chiamate meccanismi di difesa. 3.3.1 I MECCANISMI DI DIFESA Per superare la situazione di stress, le persone malate possono utilizzare dei meccanismi di difesa che operano a livello inconscio e negano, falsificano, travisano la realtà in modo da proteggere l’individuo per non farlo precipitare nel completo disequilibrio. Anche in condizioni di sanità tutti utilizziamo in certa misura alcuni di questi meccanismi di difesa, e ciò non è necessariamente un sintomo patologico. I meccanismi di difesa più comunemente utilizzati per far fronte ad una malattia sono: -La regressione: il paziente sembra quasi regredire a una fase infantile, ad esempio dorme tutto il giorno, vuol mangiare continuamente, continua a lamentarsi del vitto, fa i capricci, o chiede continuamente di essere gratificato affettivamente dal medico, dagli infermieri e dagli amici che lo vengono a trovare. In una certa misura è normale perché il paziente è obbligato a dipendere dagli altri in quanto malato, ma se prolungata, risulta dannosa finendo per ostacolare il processo di riacquisizione dell’autonomia. - La formazione reattiva: nasce dal senso di persecuzione provocata in alcune persone dalla malattia e possono subentrare reazioni aggressive rivolte alle persone circostanti. Il malato in questo caso non è mai contento delle cure, è esigente, polemico, difficile da affrontare, accusa il mondo intero delle sue sventure e non potendo ammettere di essere lui stesso aggressivo, scarica quest’accusa sugli altri. - La proiezione consiste nell’attribuire ad altri i propri pensieri, desideri o paure. Questi malati sostengono di non avere sintomi gravi ma di essere stati costretti dalle paure esagerate degli altri a farsi visitare, o che attribuiscono i loro sintomi ad altri (modalità persecutoria di reagire alla malattia). - La negazione consiste nel negare alcuni aspetti della malattia, come la presenza di determinati sintomi, o addirittura della malattia stessa. In questo caso le persone non mettono in atto le strategie necessarie per affrontare la malattia. - L’isolamento consiste in quel meccanismo in cui l’aspetto emotivo ed affettivo è scorporato dalla

dimensione cognitiva; diventa così possibile riferire o discutere di fatti dolorosi apparentemente senza emozioni. Il paziente si distanzia dal suo disturbo, parla di sé come di un “caso”, discute delle sue condizioni con il medico e con l’infermiere senza coinvolgimento, come se parlasse di una terza persona. È come se, a livello cognitivo, sapesse di essere malato, ma a livello emotivo evitasse questa consapevolezza. In linea generale le reazioni del paziente devono essere comprese e non giudicate. L’operatore deve cercare di capire il significato sotteso alla reazione dell’individuo, le sue ragioni, e soprattutto accettare che in quel momento, in quelle condizioni, è l’unica risposta trovata dal paziente per far fronte all’angoscia e all’ansia. Non si può ritenere di avere di fronte a sé un paziente generico, ma risulta fondamentale operare tenendo conto di tutti i fattori in modo da trattare tutti nel modo più adeguato in relazione alle loro esigenze e stati d’animo, poiché l’unico modo per curare tutti allo stesso modo è quello di curare ciascuno individualmente, considerando le sue problematiche, le sue differenze e le sue eguaglianze con gli altri. 3.4 LE REAZIONI PSICOLOGICHE DEI FAMILIARI ALLA MALATTIA

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La malattia rappresenta una grave interruzione del normale equilibrio psicologico e sociale non solo dell’individuo malato ma dell’intero nucleo familiare. Al pari della persona malata, la famiglia viene investita massicciamente dalla malattia del proprio congiunto con ripercussioni notevoli sulle relazioni tra i suoi membri e in generale sull’equilibrio della struttura familiare. La famiglia infatti funziona in maniera unitaria e i singoli membri sono interdipendenti tra loro, quando un membro si ammala, avvengono notevoli cambiamenti: il malato perde il suo ruolo indipendente per cui i familiari devono assumersi nuove responsabilità sia per quanto riguarda la cura del malato sia per quanto riguarda i compiti a cui lui era delegato; ogni membro della famiglia sarà chiamato a modificare le proprie abitudini, le proprie responsabilità e a fare a meno del malato nella gestione della vita familiare; avvengono delle modificazioni di vita e del ritmo di lavoro non solo del malato ma anche dei familiari che devono organizzarsi per assistere il proprio caro; possono subentrare difficoltà economiche a causa delle ulteriori spese mediche, di viaggi e di assistenza specialistica che la condizione del malato richiede. 3.4.1 Le reazioni emotive della famiglia La famiglia presenta reazioni psicologiche simili a quelle del malato e influenza le reazioni del malato seguendo un’interazione circolare. Nei casi di malattie gravi, ad una prima fase di shock e di angoscia, fa seguito una fase di negazione-rifiuto di quanto sta accadendo e successivamente una di disperazione con sentimenti di ineluttabilità, perdita e separazione per il familiare malato. Ha inizio una costante alternanza fra speranza e delusione: è costantemente presente uno stato di stress ed ansia e le reazioni sono molto varie: molti mettono in secondo piano le proprie esigenze ed aiutano attivamente nella cura del malato, altri non sopportano la tensione, avvertono un senso di solitudine e si vergognano dei loro sentimenti.

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Con l’avanzare della malattia, le famiglie percepiscono quotidianamente una diminuzione della speranza, della capacità "di essere per l'altro", di mettersi in relazione con il malato. Di solito si assiste poi alla presa in carica del malato, da parte di una sola persona all’ interno della famiglia, solitamente quella più in grado di gestire lo stress. Si struttura poi una fase rielaborativa a cui può seguire una fase di accettazione nella quale le difficoltà possono essere affrontate e superate e le dinamiche intrafamiliari possono raggiungere un nuovo equilibrio. In alcuni casi, tuttavia, la famiglia non riesce ad adattarsi alla nuova situazione e a raggiungere quel grado di ristrutturazione necessario per superare gli eventi e va incontro alla disgregazione con il manifestarsi di relazioni estremamente disturbate al suo interno e l’eventuale insorgenza di disturbi psicopatologici. In linea generale, si possono individuare alcune modalità principali di reazione della famiglia alla malattia: fiducia realistica: la famiglia ha una visione realistica del problema, collabora ed è disponibile nei confronti degli operatori sanitari. Sanno che il malato è in buone mani. incapacità di accettare la realtà: rifiuto della realtà che porta a non collaborare con i sanitari e a rendere il malato incerto ed ansioso sul suo futuro. sfiducia di fondo: questo atteggiamento è evidente quando si passa da un medico all'altro richiedendo informazioni o diagnosi che la famiglia reputerà inattendibili e inesatte. Di qui l’aggressività verso i sanitari e di riflesso verso il malato. vittimismo: la famiglia si sente vittima, colpevolizza il malato, il quale dovrà spendere molte energie per rassicurare i congiunti. reazioni di sconforto: sono reazioni ,a volte eccessive, attraverso le quali i familiari anticipano gli esiti negativi, come la morte. Questo è un atteggiamento molto distruttivo per il malato sofferente. Possiamo considerare i risvolti psicologici della malattia nel tessuto familiare secondo vari modelli: Modello lineare: la malattia scatena reazioni simili nel malato e nella famiglia. Familiari ansiosi o angosciati diventano iperprotettivi nei confronti del malato, oppure negano la malattia e sono incapaci di accettare la realtà; alcuni familiari reagiscono aggressivamente verso medici e personale mostrando di non fidarsi delle loro competenze; l’aggressività può essere scaricata anche sull’ammalato a cui viene attribuita la colpa della sua malattia. Ci sono gruppi familiari che si chiudono e si isolano dal contesto sociale, questa reazione espone la famiglia al rischio di non saper più gestire le proprie emozioni. Alcune famiglie hanno reazioni depressive, sconforto e persino disperazione, facendo trasparire messaggi svalutativi del tipo "non ce la farà", "non tornerà più come prima", veri e propri anticipi nella fantasia della morte del loro caro. Ci sono anche famiglie psicologicamente più forti che facilitano nel malato una percezione realistica della malattia con i suoi lati negativi e le sue residue possibilità, la speranza di un buon esito e la fiducia nelle cure e nel personale sanitario. Modello circolare: emozioni e comportamenti si contagiano. Gli atteggiamenti che il malato sviluppa ed esprime in questa situazione sono condizionati dagli atteggiamenti che i familiari sviluppano nei confronti della malattia.

Un atteggiamento di fiducia nella famiglia crea un clima che si riflette positivamente sul malato, al contrario, l'ansia del familiare rende ansioso il malato stesso e gli impedisce di guardare alla realtà più oggettivamente e riorganizzare autonomamente il proprio stile di vita; lo sconforto del familiare diviene per il malato un messaggio particolarmente distruttivo. Modello sistemico: la malattia come crisi totale. La malattia è una crisi non solo per il malato, ma per tutta la famiglia: ciò accade poiché la famiglia è un corpo unico, in cui le parti risentono di tutto ciò che succede alle altre. La malattia, in quanto evento nuovo e stressante, rappresenta, innanzi tutto, la rottura di questo equilibrio. La malattia sconvolge la vita individuale e spezza i modelli di interazione usati dalla famiglia ed implica, a volte, il capovolgimento dei ruoli e la modificazione delle regole dell'organizzazione familiare. In conclusione: anche i familiari soffrono e anch'essi hanno bisogno di comprensione e aiuto. Uno dei fattori più importanti per essi è quello di riconoscere e condividere i propri sentimenti: essi devono avere l'onestà di riconoscere l'ambiguità dei loro sentimenti verso il malato. Se ci aspettiamo che l'amore sia la sola dimensione nell'assistenza ad un malato avremo una delusione e, per di più, non sapremo affrontare in modo adeguato il sorgere dei sentimenti sopra elencati. 3.5 LE REAZIONI DELL’OPERATORE ALLA MALATTIA Il confronto con la malattia, la sofferenza, la morte possono bruciare le energie psicologiche di chi si prende cura del malato, si sviluppa in chi assiste il malato un particolare miscuglio di sintomi fisici, di vissuti psichici e reazioni comportamentali. Le reazioni dell’operatore di fronte alla sofferenza del paziente possono collocarsi su due poli opposti: coinvolgimento eccessivo o distanza eccessiva 1. Coinvolgimento eccessivo: l’operatore si identifica con il malato e con i suoi vissuti, senza la capacità di tenere sotto controllo (cognitivo, emotivo e relazionale) la situazione. Le emozioni del malato (paura, angoscia, rabbia, tristezza…) diventano contagiose e oltrepassano qualsiasi tipo di comunicazione. Tutto si complica perché la relazione col malato implica, in realtà, anche la relazione coi suoi familiari ed amici (e con i loro vissuti). Molta sofferenza, in chi lavora accanto al malato, sta nel sentirsi sconfitto, nella sensazione di perdere continuamente la partita, nel vedere continuamente infrangersi l’immagine di “guaritore onnipotente”. 2. Distanza eccessiva: per difendersi dal contatto continuo con emozioni forti, l’operatore riduce al minimo indispensabile i contatti con i malati e spersonalizza i rapporti. Medici, infermieri, volontari, operatori sanitari (ma anche i familiari), nel loro rapporto con chi soffre, sono continuamente esposti al problema della propria mortalità. Rivivono a volte esperienze personali e sono investiti da sentimenti di rabbia, impotenza e colpa ma contemporaneamente non possono ritirarsi dalla relazione.

La risposta che l’operatore attua nei confronti della sofferenza condiziona il modo di porsi in relazione con gli assistiti (vicinanza o lontananza) e con se stessi (equilibrio emotivo o difficoltà a tollerare i pesi emotivi). Il problema non sono le situazioni dolorose in se’ ma come noi rispondiamo al dolore: affrontare il dolore significa dargli un senso e considerarlo come una delle possibili situazioni della vita. Sono le relazioni interpersonali la fonte principale di stress: con il malato, con i suoi familiari e con i colleghi; per questo bisogna saperle gestire e controllare, imparando a dialogare con gli altri senza identificarsi con loro ma anche senza rinunciare a coinvolgere nelle relazioni le proprie ricchezze emotive e spirituali. 4 LA RELAZIONE D’AIUTO La relazione di aiuto è un tipo particolare di relazione in cui uno dei partecipanti alla relazione cerca di favorire nell’altro: una valorizzazione maggiore delle risorse personali, una maggiore possibilità di espressione. Si tratta di una relazione non simmetrica in cui un soggetto ha bisogno e l’altro offre aiuto. Nella relazione di aiuto diventa importante il rapporto umano che si crea tra chi soffre e chi cerca di aiutare: il rapporto tra l’operatore e l’utente è la condizione essenziale perché possa iniziare un lavoro di cura. La relazione di aiuto è innanzitutto “faccia a faccia” tra due persone che vivono la dimensione del bisogno: quando una persona porta il suo bisogno, attende di essere riconosciuta nella sua globalità e chiede agli altri di essere attenti al suo dramma. All’operatore è richiesta prima di tutto una “competenza umana” che lo porti alla conoscenza dettagliata del problema e alla ricerca di tutti gli strumenti e le tecniche utili a favorire il miglioramento della situazione di crisi. E’ con il modo di ascoltare, di comprendere e di agire che noi “accogliamo” l’altro. L’instaurazione di una relazione di aiuto implica l’instaurazione di un rapporto di fiducia; solo dopo aver creato un rapporto di fiducia si può concretamente progettare l’intervento (cioè decidere cosa fare, come fare, ecc..), sempre concordando con l’utente che, non dimentichiamo, è il protagonista del suo intervento d’aiuto.

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La qualità dell’incontro interpersonale è l’elemento più significativo messo in atto dall’operatore per stabilire un’efficace relazione e viene definito approccio centrato sulla persona (C. Rogers). Secondo Rogers “sono gli atteggiamenti ed i sentimenti ad essere importanti in una relazione terapeutica”, che sono rappresentati da: empatia: capacità di comprendere profondamente i sentimenti e lo stato d’animo dell’altra persona; considerazione positiva: il paziente non viene giudicato; accettazione incondizionata: accettare non significa subire o accondiscendere ma semplicemente interagire con ciò che l’altro è, senza giudicare e fiduciosi delle altrui risorse; comprensione. Una delle principali richieste che la persona assistita fa è quella di essere compresa; tale richiesta di comprensione diventa poi fondamentale per l’instaurarsi di tutto il processo relazionale . Ci sono diversi livelli di comprensione: 1. comprensione verbale che si traduce nel porre precise domande al paziente; 2. comprensione logica comporta l’esigenza di spiegare ciò che accade; 3. comprensione psicologica : si tenta di fare un’analisi profonda della situazione e del comportamento del paziente; 4. comprensione empatica comprende la capacità di immedesimarsi nell’altro per comprendere il suo punto di vista.

L’operatore che si serve dell’empatia diventa un mezzo per sondare la vita dell’altro, per aiutarlo a capire ciò che gli succede, senza però interferire con i suoi sentimenti, con le sue emozioni. L’operatore entra ed esce dalla vita del soggetto senza mai lasciare traccia di sé, egli vi entra a scopo terapeutico, per fluidificare la comunicazione senza lasciare le proprie convinzioni ed i propri valori. La relazione diventa vero aiuto solo quando emergono sopra ogni altra cosa, gli aspetti legati all’umanità, prima ancora che alla professionalità. Il processo di aiuto è un’operazione complessa che richiede di particolare attenzione da parte di chi lo eroga, ricordiamoci sempre di avere a che fare con “persone” fragili che necessitano di cure ma anche di essere trattati con serietà: - nelle pratiche di igiene o manovre: veniamo a contatto con la sfera intima della persona, quello spazio che la persona aveva sperato di continuare a gestire in proprio; - l’eccessiva confidenza, quando non richiesta, provoca senz’altro qualche disagio, una battuta di spirito che potrebbe passare inosservata da parte di una persona sana, può scatenare nella persona malata un grave senso di disagio. L’ammalato deve potersi porre in maniera attiva nei confronti della sua malattia, questo lo si può ottenere se l’operatore impronta il rapporto su atteggiamenti autentici e trasparenti che possono suscitare la fiducia del paziente. Egli durante la malattia vive una situazione ed una esperienza che lo coinvolge profondamente dal punto di vista sia fisico che psichico; gli operatori svolgono un ruolo importantissimo nel recupero del processo di maturazione della persona malata, in modo che egli possa accettare la malattia come momento diverso della vita. Il paziente si trova spesso in una situazione di inferiorità fisica e, a volte, psichica, queste condizioni possono determinare l’instaurarsi di una poco corretta relazione interpersonale. E’ evidente quanto sia importante nella relazione umana la sfera delle emozioni e dei sentimenti: ogni paziente è sicuramente portatore di più emozioni, ma spesso non è invitato ad esprimerle, a raccontarle. La parte razionale ha quasi sempre il sopravvento: bisogna prima capire, comprendere, riflettere, circostanziare, saper spiegare; l’emozione invece non ha bisogno di avere legami ma di trovare spazi idonei e progetti per potersi rivelare. Solo in questo condizioni la comunicazione legata all’emozione diventa completa e può produrre un cambiamento nelle persone: pensate ad un paziente che sta per affrontare un intervento chirurgico del quale ha paura, all’operatore socio sanitario compete l’accoglienza di questa paura e la sua contestualizzazione, al fine di ricondurla ad una dimensione umana, che non può risolversi solo in atteggiamenti tranquillizzanti generici ma, deve concretizzarsi nel comunicare al paziente l’assoluto rispetto per la sua paura, invitandolo al tempo stesso a non bloccare eventuali reazioni di pianto e così via. Il rapporto tra operatore e paziente deve basarsi sul nutrimento relazionale attraverso tre semplici azioni (Felliozat, 1998): 1) dare: si riferisce all’operatore e lo invita a utilizzare tutta la gamma dei sentimenti positivi, attraverso i gesti che più li rappresentano: la carezza, l’attenzione, il sorriso, l’ascolto, la parola tenera, la dolcezza, la comprensione, il farsi carico, l’esprimere interesse e così via. 2) ricevere si riferisce all’utente, ma è ovvio che l’operatore ha una certa responsabilità se si è impegnato nel dare. 3) chiedere vale per entrambi, ma l’operatore può far molto se attua un programma di aiuti e di interventi diretti sulla persona, centrati sul chiedere al paziente le sue emozioni: cosa ha provato, come si sente e come si sentiva prima e dopo l’intervento, quali sentimenti prevalgono durante la relazione utente/operatore. E’ importantissimo che l’operatore chieda all’utente cosa prova in determinati momenti: non un interrogatorio, ma una condivisione,

una relazione sui sentimenti provati, senza espressione di giudizio, senza valutazione, ma tanta comprensione empatica. Sul piano dinamico temporale della relazione si possono identificare tre fasi: 1. La fase di apertura: si sviluppa al momento del contatto tra paziente-operatore nell’ambiente destinato ad accoglierlo. Il linguaggio non verbale è cruciale e definisce la qualità dell’accoglienza: l’operatore deve mostrare un atteggiamento disponibile all’ascolto. 2. Nella fase operativa l’efficacia della comunicazione e l’efficacia del processo assistenziale sono due obiettivi interconnessi ed interdipendenti. Le funzioni essenziali di questa fase sono: - l’orientamento dell’assistito; - il coinvolgimento dell’assistito che si traduce in un “fare con lui” che implica un “contratto” con la persona per aiutarla a riprogettarsi. Il ruolo dell’operatore sarà di intermediazione e traduzione di aspetti tecnici. 3. La fase del distacco: conclusione della relazione assistenziale; l’operatore programma anticipatamente questa fase e dà indicazioni al paziente su come dovrà gestirsi autonomamente (informazione ed educazione sanitaria) o su come si svolgerà il processo terapeutico successivo. 4.1 IL RAPPORTO DELL’OSS CON I FAMILIARI Quando in un sistema familiare si presenta lo stato di malattia di un congiunto, è inevitabile che ciò comporti e crei un clima di grande tensione per i familiari. Queste situazioni possono ingenerare in loro l’assunzione di comportamenti irritanti, al punto da diventare da intralcio per l’assistenza quotidiana. Di fronte a questa manifestata invadenza, l’operatore socio sanitario deve dimostrarsi fermo nell’impedire che, questi comportamenti si traducano in un danno collettivo, non dovrà dimenticare di esercitare la sua pazienza, accompagnata da umana comprensione. Non si esclude comunque la possibilità che l’operatore abbia ad opporsi con grande fermezza, qualora dovesse trovarsi a contrastare comportamenti incivili,nocivi anche per la serenità degli altri ammalati. E’ buona norma contenere anche l’invadenza e la scorrettezza dei parenti, che per ottenere delle prestazioni di riguardo per il loro congiunto, elargiscono regalie. Nel rapporto operatore- parente si incontrano o si scontrano due modi di essere: il familiare con il suo bagaglio di bisogni che desidera vengano soddisfatti, l’operatore con il suo ruolo professionale non sempre privo di pregiudizi e a volte condizionato da norme che creano difficoltà alla libertà dei rapporti. Per capire la dinamica dei rapporti è importante comprendere prima di tutto se stessi, il proprio modo di essere, perché l’etica delle relazioni umane è basata sul contributo che ognuno può dare alla relazione. In linea generale, l’OSS ha un triplice ruolo nei confronti dei familiari: 1) Accoglienza e disponibilità: quando un nuovo assistito entra in un contesto di cura, l’Oss deve mostrarsi disponibile a fornire informazioni sulla struttura e sul servizio offerto; accoglienza e disponibilità sono il primo passo per la creazione di un clima di fiducia (il familiare viene rassicurato perché sente che il proprio caro è in buone mani) 2) Assistenza: l’operatore fornisce assistenza alla famiglia tenendola informata sulla varie fasi del processo di cura (problematicità, progressi, interventi che vengono attuati nei confronti dell’assistito) questo permette ai familiari di essere partecipi e di elaborare di volta in volta l’evolversi degli eventi. 3) Contenimento: quando i familiari sono agitati, invadenti, non collaboranti, è bene che l’Oss ridisponga i confini ricordando le regole della struttura, il motivo per cui il loro caro è lì e il proprio

ruolo professionale; nel fare ciò è importante mostrare l’intenzione di voler aiutare e chiedere la collaborazione ai familiari.

4.2 DAL CURARE AL PRENDERSI CURA Curare in senso medico significa mettere in atto una terapia atta a debellare una malattia, per il personale di assistenza significa attuare prestazioni corrette, applicando un trattamento terapeutico puntuale e scrupoloso. Prendersi cura vuol dire occuparsi di qualcuno con assiduità e premura prendendosi carico non solo della malattia ma della persona. Il prendersi cura comporta di stabilire un contatto umano supportivo con il paziente, riconoscere la persona non solo l’organo che fa male, con un’attenzione particolare al dolore fisico ma anche al disagio psicologico, ascoltare e comprendere, essere attenti e accoglienti. Il processo del “prendersi cura” può essere suddiviso in diverse fasi: 1. mostrare disponibilità: viene data attenzione alla persona indipendentemente dal suo comportamento. Senza imporre condizioni , il paziente viene rassicurato circa l’importanza che ha per noi come persona cercando così di rendere possibile la sua partecipazione al processo d’aiuto. 2. Rispondere ai bisogni: adeguare i propri comportamenti ai bisogni dell’altro affinchè l’assistito si senta accolto e capito. Queste prime due fasi hanno lo scopo di permettere di instaurare una relazione di fiducia, necessaria per passare alle fasi successive. 3. Indirizzare la cambiamento: l’operatore dovrà promuovere comportamenti autonomi, facendo fare all’assistito, un po’ alla volta, le cose che fino a quel momento ha fatto per lui (compatibilmente con l’età e la patologia). E’ importante che l’operatore sappia calibrare di volta in volta il suo intervento , in vista dell’obiettivo che desidera raggiungere. Preoccuparsi e attivarsi a favore di una sana relazione d’aiuto non significa soltanto curare la persona in questione, ma soprattutto prendersi cura di lei. Il solo agire tecnico consente di curare invece l’attenzione alla relazione e al rapporto umano consentono di considerare l’assistito come soggetto e non oggetto delle terapie e permettono un’evoluzione continua del rapporto con l’altro. 5 LA COMUNICAZIONE Comunicare vuol dire rendere comune, far partecipi gli altri di qualcosa. Il linguista R.Jakobson durante lo studio dei fenomeni comunicativi, ha definito la struttura universale dei processi comunicativi:

Per comunicazione si intende la trasmissione di un messaggio da una fonte (emittente) ad un destinatario (ricevente) attraverso un mezzo (canale di comunicazione). Affinchè si possa parlare di comunicazione è necessario avere due importanti caratteristiche: l'intenzionalità e l'aspetto processuale. L'intenzionalità è la caratteristica propria dell'emittente, cioè di colui che è chiamato a codificare il messaggio, in relazione ad uno o più riceventi. L'aspetto processuale punta la sua attenzione sull'interazione e relazione tra gli interlocutori, visti come soggetti attivi, che possiedono particolari capacità dette competenze comunicative. La competenza comunicativa è l'abilita di ogni membro della comunità sociolinguistica di capire e produrre messaggi. Si riferisce a tutte le predisposizioni, le conoscenze (acquisite durante tutto l'arco della vita) e le regole che rendono possibile uno scambio comunicativo. Tutto ciò avviene all'interno di un contesto, che è rappresentato dal luogo e situazione, in cui la comunicazione si svolge, ma anche da quello che viene detto nelle diverse circostanze. Da ciò si deduce che il contesto non è unico. Abbiamo quello culturale, che è proprio di ogni individuo e si rifà all'ambiente di provenienza degli interlocutori e, quello fisico, il luogo in cui si svolge la comunicazione stessa. Affinchè il messaggio compia il suo passaggio da emittente a destinatario ha necessità di un canale, cioè di un mezzo fisico, ambientale o comportamentale attraverso il quale passa il messaggio. Questo può essere di tipo naturale (vista, olfatto, tatto, udito) o artificiale (radio, televisione, telefono, Internet). Il messaggio, affinché, venga trasmesso da un individuo ad un altro, ha bisogno di appartenere ad un insieme di regole e di segni che sono propri di una determinata cultura, delineando cosi uno strumento convenzionale diversificato chiamato codice (ad esempio è un codice la grammatica della lingua italiana). Il codice, per essere compreso, deve essere condiviso da entrambi gli interlocutori i quali devono attuare dei processi di codifica e di decodifica dei messaggi e, tenere in considerazione tutti quei fattori che potrebbero disturbare la comprensione, come ad esempio gli stati emozionali, l'umore del momento,la cultura di appartenenza, le esperienze passate, le conoscenze e lo status sociale, meglio definiti come repertorio.

Più i repertori dei due interlocutori sono sovrapposti e più i soggetti saranno in grado di produrre, capire e ricevere informazioni; più saranno lontani e più sarà difficile la comunicazione se non assente. 5.1 COMUNICAZIONE VERBALE, NON VERBALE E PARA-VERBALE Il canale di comunicazione utilizzato nella trasmissione di un messaggio può assumere diverse forme: verbale, paraverbale, non verbale; Queste forme di comunicazione si sovrappongono: si pensi ad una persona che comunica la propria felicità , con un tono vivace e sereno, un’espressione sorridente ed una postura distesa: ogni segnale rinforza la veridicità dei precedenti. Nei casi in cui i segnali siano in contraddizione, è probabile che siano il linguaggio paraverbale e quello non verbale ad esprimere l’emozione reale dell’interlocutore. Secondo lo psicologo americano Meharabian, la componente non verbale è non solo non fondamentale ma predominante nella comunicazione: il 7% della comunicazione è costituito da parole (verbale), il 38% è dato dal volume, tono, ritmo (paraverbale) mentre il 55% comprende il non verbale soprattutto le espressioni facciali e i movimenti del corpo. La comunicazione non verbale svolge nella relazione una funzione elettiva: esprime in modo adeguato stati d’animo ed emozioni nel segnalare atteggiamenti (superiorità/inferiorità, amicizia/ostilità) e nell’influenzare il tipo di relazione che si stabilisce con l’altro. Della comunicazione non verbale fanno parte: -

le espressioni facciali (ad esempio, aggrottare le sopracciglia, spalancare gli occhi, storcere il naso o la bocca, ecc.) il contatto visivo (lo sguardo, l’abbassare gli occhi, il fissare negli occhi, ecc.) contatto corporeo (ad esempio, prendere sottobraccio l’altro) la postura e l’orientazione del corpo (ad esempio, lo stare in piedi con le braccia conserte) i gesti la distanza tra i soggetti comunicanti. E’ possibile disporre gli elementi della CNV secondo una scala che procede dall’alto verso il basso, dai segnali più manifesti e più facilmente percepibili dall’interlocutore, a quelli meno evidenti e più mutevoli (Bonaiuto, Maricchiolo, 2012). Tale scala si può così riassumere: 1. ASPETTO ESTERIORE (Conformazione fisica, Abbigliamento) 2. COMPORTAMENTO SPAZIALE (Distanza interpersonale, Contatto corporeo, Orientazione, Postura) 3. COMPORTAMENTO CINESICO (Movimenti di busto e gambe, Gesti delle mani, Movimenti del capo) 4. VOLTO (Sguardo e contatto visivo, Espressione del volto) 5. SEGNALI VOCALI (Segnali vocali verbali, Segnali vocali non verbali) La comunicazione non verbale svolge un ruolo fondamentale per la comprensione di quello che si vuole o non si vuole comunicare all'esterno: una delle sue funzioni principali è quella di comunicare le emozioni, le quali costituiscono una componente basilare dell'essere umano, lo accompagnano nell'arco della sua vita, lo condizionano, lo caratterizzano agli occhi degli altri, ma sono soprattutto il "carro trainante" dei suoi comportamenti nei rapporti sociali. La comunicazione para-verbale riguarda il corretto utilizzo della voce ovvero il timbro, il tono, il volume e le pause.

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timbro: è l’insieme delle caratteristiche individuali della voce gutturale, nasale, soffocata; è il colore della voce. Il tono è principalmente un indicatore dell’intenzione e del senso che si da alla comunicazione e può esprimere entusiasmo, disappunto, interesse, noia, coinvolgimento, apatia, apprezzamento o disgusto. Il volume riguarda l’intensità sonora, il modo di calibrare la voce in base alla distanza dall’interlocutore, e in base all’importanza dell’argomento trattato. Il tempo cioè le pause, la lentezza o velocità assolute possono servire come fattori che sottolineano, accentuano o sfumano il significato delle parole. (Le pause danno il tempo alle persone per riprendere quello che stavano dicendo, consentono di pensare e formarsi un’opinione su ciò che è stato detto, creano attesa verso ciò che si sta per dire). La comunicazione verbale ha l’obiettivo di trasmettere informazioni, convogliare un messaggio tramite le parole o un testo scritto. Questo tipo di comunicazione è esclusiva della specie umana e affinchè sia efficace è necessario che tutti i soggetti coinvolti nell’interazione usino il medesimo codice comunicativo. La comunicazione verbale ha successo se: - I discorsi si succedono regolarmente nel rispetto dell’alternanza dei turni: si deve parlare uno per volta, senza sovrapporsi e senza interrompere chi sta conducendo un discorso; - si ascolta e si presta attenzione a ciò che dice l’interlocutore; - ci si attiene all’argomento di cui si parla.

5.2 GLI ASSIOMI DELLA COMUNICAZIONE Gli psicologi della scuola di Palo Alto (California), di cui uno dei maggiori esponenti fu Paul Watzlawick, si dedicarono allo studio della pragmatica della comunicazione, il termine pragmatica in questo contesto indica la comunicazione intesa nel suo aspetto pratico, cioè le influenze della comunicazione – nella fattispecie, della comunicazione interpersonale – sul comportamento delle persone. All’interno di questo contesto furono elaborati i cinque assiomi della comunicazione; “Assioma” = “principio essenziale”. Con questo termine si indicano quelle proprietà semplici della comunicazione interpersonale, sarebbe a dire quelle caratteristiche che si riscontrano in generale nella vita di relazione tra gli esseri umani. 1. Non si può non comunicare: qualsiasi comportamento, le parole, ma anche i silenzi, l’attività o l’inattività hanno tutti valori comunicativo e influenzano gli altri interlocutori. In sostanza, non si può evitare di comunicare: il nostro comportamento è già di per sé un messaggio. Per esempio: chi accoglie una persona in silenzio non può evitare di comunicare una sensazione di freddezza; 2. Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e uno di relazione. Non si trasmettono cioè solo messaggi, ma anche le chiavi per comprenderli. Per esempio il messaggio “fai attenzione” viene compreso, a seconda del tono e dei gesti, come minaccia, o preghiera o ordine oppure raccomandazione. L’aspetto di contenuto e l’aspetto di relazione sono indirettamente proporzionali: più una relazione è spontanea, sana e più l’aspetto relazionale della comunicazione rimane sullo sfondo(più importante ciò che si dice e non come lo si dice).

Al contrario, più una relazione è disturbata più è caratterizzata da conflitti continui per definire la natura della relazione e l’aspetto di contenuto diventa sempre meno importante (più importante il modo in cui si dicono le cose rispetto al contenuto).

3. La natura di una relazione dipende dalla punteggiatura della sequenza di eventi La comunicazione avviene all’interno di un’interazione che si caratterizza come processo circolare in cui ogni atto comunicativo è collegato al precedente e al successivo: si verifica così una sequenza di eventi che coinvolge alternativamente prima l’uno e poi l’altro parlante Questo terzo assioma spiega la tendenza di ogni parlante a porre l’accento sempre e solo su un aspetto della relazione: se lo stesso punto di vista rimbalza senza modifiche fra due persone si realizza una condizione di comunicazione problematica in cui ognuno rimane sulle sue posizioni. Ad esempio: un insegnante accusa un allievo di non saper leggere in modo fluido e lo rimprovera aspramente. L’allievo dice che i rimproveri dell’insegnante lo mettono in tensione e quindi sbaglia perché è nervoso, e la situazione si ripete in modo circolare. Per cui, persone mosse da emozioni, aspettative, desideri diversi, segmentano diversamente la comunicazione fra di loro, ognuno interpreta il proprio comportamento come una risposta a quello dell’altro. L’unico modo per uscire da questo circolo è parlare del loro modo di rapportarsi l’uno all’altro, di come comunicano (meta-comunicazione)

4. Gli esseri umani comunicano sia col modulo numerico ( = le parole) sia con quello analogico ( = gesti, espressioni del viso, inflessioni della voce, sequenza, ritmo e cadenza delle parole); La comunicazione numerica esprime il contenuto del messaggio: il linguaggio serve a scambiare informazioni sugli oggetti, a nominarli e trasmettere la conoscenza di epoca in epoca. La comunicazione analogica riguarda l’aspetto relazionale del messaggio (gesti, posizione del corpo, espressioni del viso, inflessioni della voce) ed è molto più arcaica di quella analogica. 5.Tutti gli aspetti di comunicazione sono simmetrici o complementari a seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza” . Si ha un’interazione simmetrica quando il comportamento di un individuo tende a rispecchiare quello dell’altro: se viene comunicato un comportamento di sfida, le stesse caratteristiche saranno messe in evidenza dal partner, nel tentativo di minimizzare le differenze. Nelle relazioni complementari il comportamento di un individuo completa il comportamento di un altro individuo: un partner assume una posizione superiore o dominante (one-up) e l’altro occupa la posizione secondaria (one-down). In molti casi, le relazioni asimmetriche non vengono imposte in modo esplicito, ma ciascun soggetto si comporta in modo da presupporre il comportamento dell’altro, offrendoli al tempo stesso le ragioni perché tale asimmetria esista e perduri nel tempo.

In sintesi:l'impossibilità di non comunicare rende comunicativa qualsiasi situazione interpersonale. La comunicazione che ne risulta avviene a un duplice livello: di contenuto e di relazione; e con un duplice linguaggio: numerico e analogico che deve essere continuamente tradotto. Durante

l'interazione, che può essere caratterizzata dall'uguaglianza o dalla differenza, i partecipanti avranno l'impressione di reagire alle azioni dell'altro e/o di provocarle. 5.3 L’ASCOLTO In una relazione d’aiuto è necessario il valore aggiunto dell’ascolto. Ascoltare significa mettersi al servizio dell’altro, per dimostrargli che siamo ben disposti verso di lui e di ciò che dice. Ascoltare significa anche capire più in profondità le motivazioni che spingono l’altro ad aprirsi nei nostri confronti, gli danno la prova che siamo in perfetta sintonia comunicativa con lui; perciò è bene controllare i nostri comportamenti non verbali. Ascoltare significa non tentare di guarire l'altro dalle sue emozioni né fornirgli vaghe consolazioni, ma comprendere emozionalmente e contenere. La capacità di ascoltare, infatti, permette di stabilire dei rapporti costruttivi; attraverso l’ascolto si comunica al paziente che anziché esprimere giudizi su ciò che egli dice o su ciò che egli è, stiamo cercando di capirlo. E' fondamentale la capacità di ascolto, che va intesa come attenzione non solo alla comunicazione verbale dell'utente, ma anche alla sua espressività non verbale. Un atteggiamento reale di ascolto implica attenzione e interesse, tolleranza, comprensione e accettazione dell’altro, presupposti indispensabili per lo stabilirsi di un rapporto aperto, all’interno del quale è più facile per il paziente esprimersi e portare informazioni su di sé, il che a sua volta aumenta la possibilità di comprensione per l’operatore. Il paziente trae giovamento dal trovare una persona che sia in grado di contenere le sue emozioni, che le tolleri, che non ne sia spaventato. L'origine della sua rabbia e della sua angoscia non spariranno per il solo fatto di aver trovato ascolto, ma neppure s’imbatterà nei frustranti inviti a fare ricorso al buon senso o in sbrigative rassicurazioni del tipo "vedrai che passerà” oppure "ogni problema ha la sua soluzione" le quali il più delle volte generano frustrazione: la comprensione e l'ascolto, invece, possono restituire fiducia e speranza poiché riducono il senso di solitudine. Una persona che si sente compresa è disposta a collaborare, perciò il tempo impiegato nell’ascolto si recupera quando è il momento di chiedere al paziente di impegnarsi e agire. Si possono individuare una serie di fasi nell’ascolto che possono essere utilizzate per creare un clima accogliente e di fiducia: 1) Ascolto passivo: momento iniziale dell’interazione in cui si ascolta l’altro in silenzio, prestando la massima attenzione, senza interromperlo. Nell'ascolto passivo, i canali di comunicazione non verbale che entrano in gioco più degli altri sono il contatto oculare (lo sguardo) e la postura aperta e leggermente inclinata in avanti, perché questi due elementi testimoniano attenzione all’interlocutore. Altro elemento importante che entra in gioco nell'ascolto passivo è il silenzio (esprime interesse e accettazione verso l’altro). 2) Messaggi di accoglimento: brevi messaggi verbali (ok, capisco…) e non verbali (sorriso, cenni con il capo, sguardo attento…) che fanno sentire l’altro ascoltato 3) Inviti calorosi: messaggi verbali non giudicanti che stimolano il soggetto a continuare, ad approfondire ciò che sta dicendo (dimmi, raccontami meglio…) 4) Ascolto attivo: il ricevente (operatore), rimanda con altre parole, il contenuto del messaggio verbale che l’emittente (assistito) ha espresso. Questo permette innanzitutto di verificare se il messaggio è stato compreso, inoltre viene posta l’attenzione sul contenuto emotivo della comunicazione. La riflessione del sentimento consiste nell’abilità di cogliere il vissuto emotivo dell’assistito e rimandarglielo verbalizzandolo; ad esempio: il paziente dice “sono stanco di prendere questi

medicinali, tanto non cambia nulla”, l’operatore risponde “mi sembra che lei si senta molto sfiduciato, mi rendo conto che non è semplice affrontare questa situazione”. La riflessione vuol dire “riflettere” come uno specchio il vissuto emotivo che il paziente ci sta comunicando. L'atteggiamento empatico determina nell'altro una condizione di abbassamento delle difese dall’ansia del confronto con l’altro, proprio perché la persona non si sente giudicata e si autoesplora più facilmente. L’ascolto attivo crea un clima di fiducia. In questo clima di fiducia è possibile poi confrontarsi con l'altro, dire il proprio punto di vista, attraverso l'uso del messaggio in prima persona (“secondo me, io penso che…” e non “si fa così, è così”). Indicazioni utili per l’ascolto: -

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utilizzare in primo luogo la propria competenza umana piuttosto che affidarsi ai tecnicismi; resistere alla tentazione di fare comunque qualcosa a tutti i costi (in molte circostanze agire rappresenta più una difesa rispetto alle angosce d’impotenza al contatto con il dolore, che non un effettivo bisogno; naturalmente da questo discorso vanno tenute distinte tutte quelle situazioni che al contrario richiedono interventi tempestivi e direttivi); se non si sa cosa dire non dite niente; astenersi dal dare consigli affrettati, saper aspettare (questo comporta la capacità di tollerare l’ansia, l’incertezza e il dolore del contatto con la sofferenza, ponendosi in una posizione di contenimento anziché di reattività alle emozioni in gioco); prestare attenzione agli aspetti non verbali della comunicazione che veicolano maggiormente i significati emotivi e relazionali profondi (gesti, postura, mimica); concentrare l’attenzione sul paziente e riportare le sue comunicazioni al “qui ed ora”; riconoscere in ogni paziente un individuo unico con caratteristiche sue proprie (generalizzazioni e stereotipi non solo non aiutano, ma addirittura rischiano di produrre un’immagine distorta delle caratteristiche del paziente vanificando ogni possibile relazione d’aiuto); sforzarsi di mantenere l’attenzione sull’altro senza distrarsi anche nel caso si tratti di temi spiacevoli o dolorosi; ascoltare attivamente, parafrasare, riassumere, porre domande, per evitare fraintendimenti e comunicare all’altro che ci si sforza di capirlo, in talune circostante è bene esplicitare gli stati d’animo che sono stati colti con frasi del tipo “mi sembra che questo la faccia soffrire molto”, “mi rendo conto di quanto sia difficile per lei questo momento”.

5.4 L’OSSERVAZIONE Osservare un fenomeno o un comportamento non significa semplicemente vederlo o percepirlo sensorialmente, ma, più specificatamente, guardarlo e descriverlo nel modo più fedele possibile per poterlo comprendere e quindi per possederlo. Vediamo in primo luogo cosa vuol dire “osservare”, considerando questo verbo in relazione con altri simili: diversamente da “vedere”, un verbo di percezione che non implica intenzione, “osservare” è un atto intenzionale.

“Osservare” è più di “guardare”. Con il “guardare” condivide l’intenzionalità, ma diversamente dal “guardare” cerca anche di registrare quanto visto: osservare è un guardare mirato, per mettere a fuoco ciò che si ritiene significativo e rilevante, ed è insieme un registrare ciò che è rilevante per uno specifico obiettivo. Saper osservare implica dunque assai più di quanto la parola non suggerisca: significa imparare a guardare intenzionalmente in modo da poter conservare i dati osservati, per poterci tornare sopra e riflettere. Per fare questo occorre saper descrivere e nominare ciò che si osserva, essere perspicui, evitando la generalizzazione e evitare di interpretare troppo presto, ma osservare lungamente da più punti di vista. In quanto condotta da una persona che ha sue proprie convinzioni e valori, l’osservazione può essere “oggettiva”? L’osservatore, che ne sia consapevole o no, è uno specchio deformato e deformante: - lo sguardo dell’osservatore è “colorato” dalle sue convinzioni e valori; - l’osservazione di un aspetto puntuale di una situazione complessa impedisce di cogliere le relazioni con quanto avvenuto prima: ciò che succede non ha infatti valore in sé, ma all’interno del contesto, per cui molte sono le cose che rischiano di non essere colte dall’osservatore esterno. Nell’osservazione, come nell’ascolto, infatti, il rischio è di vedere (e capire) ciò che ognuno vuole vedere (e capire). Il metodo dell’osservazione è la tecnica principale per la raccolta di dati nel comportamento non verbale, per la comprensione delle dinamiche e dei significati dell’interazione. L’osservazione permette di scoprire i significati che stanno dietro il comportamento di una persona ed è utile tutte le volte che si desideri un quadro completo ed approfondito di un comportamento in un ambiente, anche in un lungo periodo di tempo. Nell’osservazione partecipata, l’osservatore prende regolarmente parte alle attività di chi è osservato ed ha un ruolo definito all’interno del gruppo (questo è il caso dell’OSS). Una classificazione di cosa osservare potrebbe essere la seguente: -

contesto fisico (dove avviene l’osservazione, spazio, luci, rumori, ecc.) contesto sociale (siamo in R.S.A o in casa, chi è presente e con quale ruolo?) le interazioni familiari (chi parla, chi ascolta, chi gestisce la comunicazione) le interazioni informali (come si atteggiano le persone, come sono gli sguardi, le espressioni, ecc.) le interpretazioni (come le persone vivono il momento e i messaggi, ecc.). L’osservazione, come l’ascolto, comporta alcuni problemi fondamentali:

-

la soggettività (ciò che osservo potrebbe non corrispondere alla verità, è solo quello che le mie capacità di osservazione permettono di acquisire); la non generalizzabilità (una cosa non vale per tutti né per sempre; può succedere che il livello di aggressività di una persona sia tale solo in un certo momento e solo con certe persone) la non standardizzazione delle procedure (non si possono ottenere gli stessi risultati con persone diverse, ad es. cambiando OSS le dinamiche osservabili nella famiglia di un anziano potrebbero essere diverse).

5.4.1 L’ANALISI FUNZIONALE DEL COMPORTAMENTO

L’analisi delle cause relative alla messa in atto di determinati comportamenti problematici richiede un lavoro molto attento, dettagliato e preciso, basato sull’Analisi funzionale (modello ABC) dei vari comportamenti da prendere in esame, come ben ci suggeriscono i vari approcci basati sull’Applied Behavior Analysis. Questa tecnica ci permette infatti, di osservare e valutare la circolarità delle interazioni, delle comunicazioni e delle azioni-reazioni che coinvolgono il comportamento della persona, quello degli altri e il livello di stimolazioni che il soggetto produce. Nell’Analisi funzionale si è soliti ricercare il ruolo delle condizioni antecedenti sul comportamento problema e il ruolo delle conseguenze prodotte dal comportamento stesso. Confrontando sistematicamente queste due categorie di informazioni, raccolte attraverso numerose osservazioni, si potrà formulare un’ipotesi delle funzioni svolte dal comportamento problematico. L’analisi funzionale consta di due momenti: 1.

Osservazione funzionale. Consiste nel considerare gli antecedenti e il contesto. Bisogna costruire un’alleanza educativa fra tutti gli operatori e mettersi d’accordo su cosa e quali sono gli antecedenti da esaminare. Dall’antecedente si passerà all’osservazione del comportamento conseguente. Sarà a questo punto che sorgerà il problema di come lo si deve interpretare (Ianes suggerisce la tecnica del post-it). 2. Interpretazione funzionale. In un comportamento vi è sempre una funzione comunicativa ed una funzione auto regolativa. Capire il perché di un comportamento permette di pensare e proporre valide alternative al comportamento problematico, e di trovare la giusta alleanza per il cambiamento, che consentirà di correggere la “forma”, non la “funzione”, che ha un suo valore e va presa in considerazione e rispettata! L’interpretazione funzionale permetterà pertanto, di superare pian piano le difficoltà dopo aver compreso la funzione di un dato comportamento, senza andare alla cieca. La “forma” indica solo qualcosa del comportamento (metafora dell’iceberg). Sotto la superficie c’è la persona con le sue caratteristiche:

La persona interagisce con il mondo esterno e da ciò derivano i suoi comportamenti. Il comportamento, infatti, ha una funzione di comunicazione. L’intervento deve affrontare le variabili che mantengono il comportamento e i risultati vanno valutati dal punto di vista funzionale. Cosa si deve fare allora, perché la persona raggiunga il suo scopo, la sua funzione, senza che metta in atto un comportamento problematico? Occorre insegnare comportamenti alternativi, equivalenti e a lungo termine.

La scheda ABC si rivela piuttosto utile per rilevare, quantificare e contestualizzare i momenti in cui si presenta (e non si presenta) un dato comportamento problematico, e chiarire quindi, gli elementi che lo favoriscono o non lo favoriscono. A

B

EVENTI ANTECEDENTI

COMPORTAMENTO PROBLEMATICO

C CONSEGUENZE

I fattori predisponenti possono essere di varia natura: cause biologiche, sociali o fisiche. Gli eventi stimolo potrebbero avere la funzione di fuga, attenzione sociale, oggetti concreti, feedback sensoriali… E, ancora, dobbiamo domandarci se il comportamento problematico è teso ad ottenere o evitare.

RINFORZO POSITIVO Ottenere qualcosa

RINFORZI RINFORZO NEGATIVO Evitare qualcosa

Si può intervenire sugli eventi antecedenti, direttamente sul comportamento problema, o sulle conseguenze, ma la strategie più importante e a lungo termine è senz’altro quella educativa, l’intervento sostitutivo, che modifica e rimpiazza il comportamento con un altro più appropriato e in modo più duraturo. 6. L’ASSISTENZA L’assistenza al paziente varia in base alla sua complessità e la complessità assistenziale è subordinata al livello di dipendenza dell’assistito. Per stabilire la complessità assistenziale è necessario fare una stima del tempo necessario da dedicare ai pazienti, la quantità di professionisti e operatori di supporto, stimare le competenze necessarie e dare la risposta assistenziale “appropriata” al paziente. - La persona è autonoma o indipendente quando è in gradi di assolvere, soddisfare le sue necessità quotidiane; perciò l’assistenza mira a promuovere e mantenere la salute (prevenzione) perché tale autonomia sia la più elevata e migliore possibile. -L’auto-assistenza è il contributo di un adulto alla propria esistenza, alla propria salute e al proprio benessere. Quando un cambiamento nello stato di salute determina una dipendenza dagli altri, la persona passa da agente dell’auto- assistenza ad assistito. In questo caso, la partecipazione alla cura medica, l’essere in grado di applicare delle conoscenze mediche alla propria cura si definiscono azioni di auto assistenza. Si possono distinguere tre livelli di dipendenza: -

livello 1: la persona presenta una dipendenza moderata nel soddisfacimento delle necessità a causa di: scarsa forza di volontà, conoscenza, ragioni psicologiche e/o ambiente sfavorevole. L’assistenza, in questo caso, mira a mantenere o ristabilire l’indipendenza e l’autonomia (l’assistito necessita di sprono, incoraggiamento ed educazione sanitaria)

-

livello 2: la persona presenta una dipendenza maggiore nel soddisfacimento delle necessità, a causa di uno o più fattori di difficoltà. L’assistenza, anche in questo caso, mira a ristabilire l’indipendenza (l’assistito necessita di un aiuto maggiore). - livello 3: la persona presenta una dipendenza totale nel soddisfacimento delle necessità; l’assistenza mira a ridurre la dipendenza (l’assistito necessita di una supplenza totale per il soddisfacimento dei suoi bisogni).

6.1 IL BISOGNO L’assistenza ha l’obiettivo di aiutare l’individuo nella soddisfazione dei bisogni fondamentali, laddove egli non sia più in grado di assolvervi autonomamente. Il termine bisogno definisce: -

l’esigenza di un bene necessario agli scopi della vita, che si manifesta abitualmente come sofferenza per una mancanza (Jervis); ciò che è necessario per mantenere il benessere fisico e psichico; la condizione in cui una persona avverte la carenza di un bene a cui ha assegnato un valore.

Il bisogno spesso viene confuso con il desiderio (emozione verso uno scopo in cui non è presente una sofferenza ma un’insoddisfazione) . 6.1.2

LA TEORIA DEI BISOGNI DI MASLOW

Lo psicologo americano Abraham Maslow ha elaborato una teoria dei bisogni, rilevando cinque gruppi di bisogni fondamentali dell’uomo che, se soddisfatti, portano l’essere umano a svilupparsi pienamente. Tali bisogni vengono rappresentati come una scala gerarchica di tipo evolutivo: la soddisfazione del primo gruppo di bisogni è condizione necessaria per il formarsi di quelli del secondo gruppo e così fino al livello più alto.

Questa scala di bisogni è suddivisa in cinque differenti livelli, dai più elementari (necessari alla sopravvivenza dell'individuo) ai più complessi (di carattere sociale). L'individuo si realizza passando per i vari stadi, i quali devono essere soddisfatti in modo progressivo. I livelli di bisogno concepiti sono: 1. Bisogni fisiologici (fame, sete, sonno, termoregolazione, ecc.) Nella scala delle priorità i bisogni fisiologici sono i primi a dovere essere soddisfatti in quanto alla base di tali bisogni vi è l’istinto di sopravvivenza, il più potente e universale motore dei comportamenti sia negli uomini che negli animali. Inutile aggiungere quanto oltre alla soddisfazione o meno di questi bisogni sia importante anche la qualità di tale soddisfazione: respirare aria pulita, mangiare cibo sano e genuino, dormire bene, in un ambiente confortevole e senza stress. 2. Bisogni di salvezza, sicurezza, protezione, tranquillità, soppressione preoccupazioni e ansie.

Devono garantire all'individuo protezione e tranquillità. Riguardano la capacità di mantenere il corpo in salute, di mantenerlo in una buona forma fisica, l’esigenza di trovare un riparo, una casa, un ambiente che protegga dalle intemperie, dai nemici e dai pericoli e che consenta il riposo e l’intimità con i propri cari. A questo livello troviamo anche il bisogno della sicurezza economica e dell’autonomia, quindi di un lavoro stabile e adeguatamente retribuito. 3. Bisogni di appartenenza (affetto, identificazione): essere amato e amare, far parte di un gruppo, cooperare, partecipare, ecc.. Questa categoria rappresenta l'aspirazione di ognuno di noi a essere un elemento della comunità. Questi bisogni sono i bisogni sociali, di relazione, di cooperazione, di intimità, di affetto. Appartenenza e amore sono bisogni legati alla relazione con i genitori e con la famiglia di origine. Attraverso il legame con i genitori il figlio sviluppa la coscienza della dimensione affettiva e relazionale, la nascita dai genitori sancisce l’appartenenza di un figlio alla stirpe, diritto biologicamente irrinunciabile. L’esclusione o la separazione dal gruppo familiare o sociale è una ingiustizia intollerabile che crea un profondo dolore. 4. Bisogni di stima, di prestigio, di successo; essere rispettato, approvato, riconosciuto, ecc. L'individuo vuole sentirsi competente e produttivo. L’autostima, il riconoscimento altrui, la soddisfazione di sè, la consapevolezza delle proprie capacità e competenze e il riconoscimento dei propri talenti: è il livello del rispetto di sè che nasce dal successo, dalla capacità di conseguire i risultati prefissi, dall’autocontrollo. 5. Bisogni di realizzazione di sé (realizzando la propria identità e le proprie aspettative e occupando una posizione soddisfacente nel gruppo sociale). Si tratta dell'aspirazione individuale a essere ciò che si vuole essere sfruttando le nostre facoltà mentali e fisiche. L’autorealizzazione è l’appagamento ultimo e nel contempo la spinta primaria e la ragion d’essere della specie umana. Si tratta del bisogno di creatività, di libertà di espressione profonda del proprio sè; è l’accettazione profonda di sè stessi, realizzata personalmente ed espressa e riconosciuta dagli altri.

Maslow asserisce che gli individui soddisfano i loro bisogni in senso ascendente e che i bisogni di ogni livello devono essere soddisfatti, quantomeno parzialmente, affinché i bisogni di livello superiore possano manifestarsi. Mentre i primi quattro riguardano ambiti di mancanza e la soddisfazione ha a che fare con la riduzione della tensione, il bisogno di autorealizzazione concerne la crescita personale e comporta un aumento della tensione, intesa però come attivazione positiva e stimolo per raggiungere qualcosa di meglio per sé.

Le critiche mosse alla teoria di Maslow riguardano la non generalizzabilità dei bisogni da lui individuati: la successione dei livelli potrebbe non corrispondere ad uno stato oggettivo condivisibile per tutti i soggetti. Il lavoro degli O.s.s non consiste solo nell’aiutare le persone nella soddisfazione dei bisogni fisiologici, ma anche di quelli ai livelli superiori della piramide di Maslow: -

l’operatore deve prestare attenzione ai tre bisogni centrali della scala, cioè di sicurezza, appartenenza/affetto, stima, attivandosi durante i momenti di assistenza attraverso i piccoli gesti quotidiani a favore della loro realizzazione.

-

Per i malati affetti da patologie cronico degenerative invalidanti, sarà necessario tener presente il bisogno di autorealizzazione: queste persone, oltre che di assistenza e aiuto per gli altri bisogni, hanno bisogno di essere stimolati e rinforzati nel riconoscere le loro parti sane e auto-realizzarsi negli ambiti delle loro capacità residue. 6.1.3

I BISOGNI DEL PAZIENTE - HENDERSON

Virginia Henderson ha sviluppato la sua teoria partendo dalla scala gerarchica dei bisogni di Maslow ed ha individuato 15 bisogni riferibili al paziente: 1 2

Respirare normalmente; Mangiare e bere in modo adeguato alle sue condizioni di salute;

3

Provvedere alle proprie funzioni di eliminazione;

4

Muoversi e mantenersi in una posizione idonea;

5

Riposare e dormire;

6

Scegliere gli indumenti appropriati;

7

Vestirsi e svestirsi;

8

Mantenere normale la temperatura corporea secondo un vestiario adatto ad eventuali modifiche dell’ambiente;

9

Provvedere all’igiene e alla cura del corpo;

10 Proteggersi dai pericoli dell’ambiente; 11 Comunicare con gli altri, esprimere i propri sentimenti, bisogni, timori, opinioni; 12 Praticare la propria religione; 13 Svolgere un’attività che dia un senso di compiutezza; 14 Partecipare a forme di svago di vario tipo; 15 Apprendere, scoprire o soddisfare le curiosità che conducono ad uno sviluppo adeguato, alla salute e all’utilizzazione delle risorse sanitarie.

L'unica differenza sostanziale che riconosciamo nei due gruppi è che la Henderson ha sviluppato i bisogni non in una scala gerarchica, come invece ha fatto Ma slow; ma in una sequenza di bisogni che nella loro totalità portano all'indipendenza. Infatti è proprio la Henderson che indica che se uno di questi bisogni non viene soddisfatto, l'individuo non è completo e indipendente. 6.2 IL PROCESSO ASSISTENZIALE l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) intende il processo assistenziale come un sistema di particolari attività assistenziali finalizzate alla salute della persona, della sua famiglia e/o di una comunità. Un modello di organizzazione dell’assistenza dovrebbe rispettare alcuni principi -

la centralità dell’utente; la presa in carico dell’utente; la continuità dell’assistenza; la partecipazione attiva della famiglia e dell’utente al progetto terapeutico.

Nel piano di assistenza l’OSS svolge attività indirizzata a: 1. soddisfare i bisogni primari della persona nell’ambito delle proprie aree di competenza in un contesto sia sociale che sanitario; 2. realizzare attività semplici di supporto diagnostico e terapeutico; 3. collaborare all’attuazione degli interventi assistenziali. Quando un operatore si trova ad assistere una persona in condizione di bisogno, si trova di fronte ad una persona che ha perso la sua autonomia magari così duramente conquistata. Non basta quindi saper svolgere in modo ottimale le operazioni tecniche richieste dalla mansione, ma occorre continuamente tener conto del senso di frustrazione e di rabbia che può invadere una persone costretta a chiedere aiuto agli altri per la soddisfazione dei propri bisogni, a volte anche i più elementari. Ovviamente il livello di frustrazione dipende dalla gravità della menomazione e dalla possibilità o meno di guarigione o recupero.

6.2.1 ASSISTENZA RESIDENZIALE E SEMIRESIDENZIALE Le forme di assistenza residenziale e semiresidenziale,si riferiscono al "complesso integrato di interventi, procedure ed attività sanitarie e socio-sanitarie erogate a persone non autosufficienti e non assistibili a domicilio, all’interno di idonei "nuclei accreditati" per la specifica funzione". -

L’assistenza residenziale:

Si tratta di un'attività assistenziale che si rivolge a cittadini non autosufficienti o parzialmente non autosufficienti e che si realizza in Strutture Residenziali con differenti livelli di specializzazione, dalle RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali) fino a Centri specializzati in Alzheimer o altre patologie.

L'Assistenza Residenziale offre servizi di assistenza medica, infermieristica, riabilitativa e "alberghiera", erogati in base alla specifica natura di bisogno assistenziale rilevato per l'utente. Per il ricovero in strutture socio-assistenziali è normalmente necessaria la valutazione di una Unità di Valutazione. I ricoveri presso le strutture residenziali possono essere di due tipi: definitivo o temporaneo (es. "Letto di sollievo",Continuità Assistenziale"ecc.). Una parte dei costi di tali servizi viene addebitata all'assistito o alla sua famiglia secondo criteri differenti per prestazione erogata e territorio oltre che variabili nel tempo. -

L’assistenza semi-residenziale:

Si tratta di un'attività assistenziale che si svolge in un "Centro Diurno" (il nome differisce nei vari territori), una struttura che si pone il duplice obiettivo di supportare i nuclei familiari che si occupano quotidianamente dell'individuo e, al tempo stesso, si propone come soluzione alternativa al ricovero. La struttura Semiresidenziale ha lo scopo di favorire il recupero o il mantenimento delle capacità psicofisiche residue dell'assistito, al fine di consentirne la permanenza al proprio domicilio e, contemporaneamente, offrendo un importante sostegno al nucleo familiare. I Centri Diurni effettuano interventi differenziati, di natura socio-assistenziale, sanitaria, di animazione e di socializzazione. L'inserimento di un assistito nei Centri Diurni e la determinazione della natura e della frequenza delle prestazioni da effettuarsi, sono normalmente definite a cura di una Unità di Valutazione. Una parte dei costi di tali servizi viene addebitata all'assistito o alla sua famiglia secondo criteri differenti per prestazione erogata e territorio oltre che variabili nel tempo. 6.2.2 L’ASSISTENZA DOMICILIARE Le cure domiciliari sono erogate con modalità diverse, in base all’organizzazione dei servizi territoriali della ASL; tuttavia, sono generalmente gestite e coordinate direttamente dal Distretto sociosanitario (DSS) delle Aziende Sanitarie Locali (ASL), in collaborazione con i Comuni. Per le prestazioni sociali il cittadino deve fare riferimento al Comune di residenza. In relazione al bisogno di salute dell’assistito ed al livello di intensità, complessità e durata dell’intervento assistenziale, si distinguono alcune tipologie di cure domiciliari: Assistenza domiciliare programmata (ADP) Assistenza domiciliare integrata (ADI) Ospedalizzazione domiciliare L’erogazione di prestazioni a regime domiciliare avviene in base a valutazioni di: - Adeguatezza - Appropriatezza - Economicità Il sistema è rivolto a soggetti in condizione di non autosufficienza o ridotta autosufficienza temporanea o protratta derivante da condizioni personali critiche imputabili a patologie croniche a medio o lungo decorso e da patologie acute trattabili a domicilio che necessitano di un’assistenza da parte di un equipe multiprofessionale . Gli obiettivi dell’assistenza domiciliare sono:

Miglioramento della qualità di vita dell’utente e della sua famiglia; Evitare l’ospedalizzazione impropria o il ricovero in strutture residenziali; Anticipare le dimissioni tutte le volte che le condizioni sanitarie e socio-ambientali lo permettano (il ricovero ospedaliero deve essere sempre più riservato a condizioni patologiche non curabili a domicilio) L’accettazione ad un programma di assistenza domiciliare integrata, come pure il ricovero in RSA, viene decisa da un gruppo di specialisti (Unità Valutativa) cui viene attribuita la funzione di filtro alle domande. -

6.2.3 LA RELAZIONE D’AIUTO NELL’ASSISTENZA DOMICILIARE La peculiarità della cura domiciliare è la casa, al cui interno la persona è protagonista degli avvenimenti e delle relazioni e quindi in questo caso, a differenza della struttura residenziale, l’operatore è l’ospite. - Perché l’assistenza domiciliare si possa realizzare è indispensabile l’accettazione, da parte dell’utente, di operatori che gli offrono il loro aiuto. - L’appartenenza ad un’èquipe è un sostegno efficace per l’Operatore Socio Sanitario, perché questo lo aiuta a sottoporre al vaglio ed al confronto gli eventi critici, e dunque ricevere conforto ed indicazioni sui modi più idonei da utilizzare nell’affrontarli. - L’OSS a sua volta dovrà costantemente riferire tutte le notizie o i rilievi importanti per una corretta assistenza, eventualmente anche per modificare il progetto assistenziale. - L’O.S.S. verificherà che l’assistito segua scrupolosamente le terapie prescritte, segnalando immediatamente qualsiasi dubbio di effetto collaterale e qualsiasi variazione dei parametri della salute eventualmente riscontrati; - egli cercherà il più possibile di coinvolgere attivamente l’assistito, salvaguardandone e sviluppandone l’autonomia residua e sarà particolarmente attento alle esigenze di socializzazione. - Accudire il malato nella sua casa, provvedendo ogni giorno alla pulizia del suo corpo, alla preparazione dei pasti, alla pulizia degli ambienti, porta a sviluppare grande confidenza e fa dunque crescere un legame affettivo. 6.2.4 LA CONDIZIONE DELL’UTENTE OSPEDALIZZATO Per quanto grave sia la patologia, la prospettiva dell’utente ospedalizzato è la guarigione parziale o totale (ad eccezione del malato terminale) e il ritorno nella propria abitazione con la ripresa delle proprie abitudini. L’OSS deve dare all’utente una grossa spinta nel pensare che presto l’ospedalizzazione resterà solo un ricordo del passato e supportarlo, insieme alla famiglia e agli altri operatori, affinchè si attivi in lui la voglia di guarire. L’OSS dovrà tener conto naturalmente di possibili momenti di sconforto e continuare a sostenere il morale dell’utente.

Ecco perché si parla di relazione empatica con l’utente, cioè una relazione che supera la freddezza e l’anonimato che per tanti anni hanno connotato le relazioni all’interno degli ospedali. Gli utenti vanno aiutati a trovare la via più congeniale alla propria situazione: • Un utente con possibilità di guarigione va orientato verso il recupero, facendo leva sulle prospettive legate al futuro. • Un utente con poche o nessuna prospettiva di guarigione va aiutato ad accettare la propria condizione, riorganizzando la sua vita in base alle nuove necessità e ricercando quegli aspetti positivi che, seppur minimi, ogni condizione di vita può offrire.

6.3 I SOGGETTI DELL’ASSISTENZA Diamo un breve cenno a quelli che sono i diversi tipi di utenza con cui l’operatore socio sanitario dovrà interagire. Bisogna ricordare sempre che ogni utente è diverso dall’altro: esistono informazioni teoriche che possono orientare l’operatore, ma la relazione va costruita soggetto per soggetto sulla base della relazione. 6.3.1 L’ASSISTENZA ALL’ANZIANO Attualmente si assiste ad un aumento della popolazione anziana dovuto principalmente ad una riduzione della mortalità,al miglioramento delle condizioni igieniche e dello stile alimentare, alle nuove scoperte in campo medico; in Italia aspettative di vita sono di 80,3 anni per le donne e 73,9 per gli uomini. Convenzionalmente si è stabilito l’inizio della terza età al 65° anno di vita, questa fase della vita è stata suddivisa in quattro stadi differenti: 1) young old: dai 65 ai 74 anni 2) old old: dai 75 agli 84 anni 3) oldest old: dagli 85 ai 100 anni 4) over century: oltre i 100 anni Con l’avanzare dell’età diminuiscono funzioni quali la memoria e la capacità di concentrazione, frequentemente compaiono alterazioni dello stato emozionale (la depressione è il disturbo più frequente in età senile); inoltre si assiste ad una riduzione delle capacità percettive (in particolare vista e udito)e all’ l’indebolimento del sistema immunitario che porta ad una maggiore esposizione alla contrazione di patologie sia acute che cronico-degenerative. La popolazione anziana è a forte rischio di isolamento sociale (dovuto a diversi fattori tra cui: morte coniuge, cattivi rapporti familiari, istituzionalizzazione, basso status socio-economico). Risorse importanti sono le relazioni sociali e affettive (gli anziani invecchiano con una qualità di vita migliore se hanno intorno un clima affettivamente caldo); altre importanti risorse sono la motivazione e il tenersi impegnati in attività stimolanti da un punto di vista cognitivo e sociale.

Nel prendersi cura dell’anziano l’OSS dovrà considerare alcuni aspetti psicologici e relazionali sottostanti: - Aspetto preventivo: una buona prevenzione ha il compito di proteggere e mantenere le capacità psico-fisiche, quindi di limitare i bisogni di trattamento e riabilitativi, per cui è opportuno stimolare i rapporti dell’anziano con l’esterno; - Aspetto terapeutico: spesso gli anziani assumono una notevole quantità di farmaci, molti studi dimostrano che migliorando le esperienze affettive, sociali e cognitive degli anziani c’è una notevole riduzione nell’uso di farmaci.

6.3.2 LA PERSONA AFFETTA DA DEMENZA La demenza è tra le patologie più frequenti nella popolazione anziana, si tratta di una malattia cerebrale che solitamente esordisce in modo subdolo e ha un andamento progressivo. La prevalenza in Italia tra gli ultrasessantacinquenni è di 6,4 casi per 100 abitanti (circa 900.000), nel mondo 24 milioni di persone sono affette da demenza, destinate ad aumentare a 42 milioni nel 2020 La demenza causa una compromissione delle funzioni cognitive (come la memoria, il ragionamento, il linguaggio, la capacità di orientarsi e di svolgere compiti complessi) che è in grado di pregiudicare la possibilità di vivere in modo autonomo; oltre ai sintomi cognitivi compaiono anche alterazioni della personalità e del comportamento come ansia, depressione, ideazione delirante, allucinazioni visive, facile irritabilità, aggressività, insonnia, apatia, tendenza a comportamenti ripetitivi e senza scopo, alterazioni dell’appetito e talvolta modificazioni del comportamento sessuale. La forma di demenza più frequente (oltre il 50% dei casi)è la malattia di Alzheimer, seguita dalla demenza vascolare (cioè una demenza secondaria ad un ictus) e dalle forme miste, che insieme costituiscono il 30-35% delle demenze. Nelle fasi iniziali il deterioramento coinvolge le funzioni più complesse: la capacità di gestire il denaro, la casa, assumere i farmaci, utilizzare i mezzi di trasporto. Con la progressione della malattia viene successivamente persa anche la capacità di svolgere attività più semplici come curare l’igiene personale,vestirsi, lavarsi o muoversi e pertanto il paziente diventa disabile e dipendente dall’aiuto di altre persone. 6.3.3 LA DEMENZA DI ALZHEIMER La malattia di Alzheimer è una malattia degenerativa che distrugge lentamente e progressivamente le cellule del cervello e provoca un deterioramento irreversibile di tutte le funzioni cognitive superiori, come la memoria, il ragionamento e il linguaggio, fino a compromettere l'autonomia funzionale e la capacità di compiere le normali attività quotidiane.

L'inizio è generalmente insidioso e graduale e il decorso lento, con una durata media di 8-10 anni dalla comparsa dei sintomi. Le cause  Il 99% dei casi è sporadico  Solo l’ 1% è ereditario La maggior parte delle forme ereditarie esordiscono in età relativamente giovanile (prima dei 65-70 anni)  CAUSE GENETICHE: alterazione del metabolismo di una proteina, detta APP (proteina pecursore di beta amiloide)  FATTORI DI RISCHIO AMBIENTALI: traumi o esposizione a sostanze tossiche (alluminio, idrocarburi)  FATTORI PROTETTIVI: Un alto grado di istruzione e un'occupazione che richieda un elevato livello di attività cognitiva sembra avere un effetto protettivo sull'insorgenza della demenza, in quanto aumenta l'efficienza dei circuiti neuronali I problemi più frequenti associati alla malattia di Alzheimer La malattia colpisce la memoria e le funzioni mentali: si ripercuote sulla capacità di parlare e di pensare ma può causare anche altri problemi fra cui stati di confusione, cambiamenti di umore e disorientamento spazio-temporale. Disturbi del linguaggio: con l'aggravarsi della malattia il linguaggio si impoverisce e la capacità di intrattenere attivamente una conversazione viene meno, soprattutto per la difficoltà a tenere a mente ciò che è stato detto e comprendere il senso anche di semplici frasi. I sintomi autoriferiti: il paziente che inizia a prendere coscienza della riduzione delle sua capacità di memoria e di quanto ciò influisca sulla sua normale efficienza nel gestirsi la vita, può avere reazioni emotive diverse.

La negazione: una delle modalità più tipiche adottate nei confronti della condizione di malattia dai pazienti che iniziano a soffrire di demenza è la negazione dei loro deficit.

Attaccamento patologico: il senso di insicurezza che si accompagna all'aggressione della malattia può portare il paziente alla sensazione di una totale incapacità a gestire la propria vita e questo può indurlo a una totale dipendenza dai familiari, anche per le cose più semplici che ha sempre fatto e che ancora saprebbe fare autonomamente.

Problemi gestionali: anche se la persona malata ha la necessità di essere accudita attraverso un’assistenza esterna, molto spesso oppone forte resistenza ad accettare che degli estranei invadano il suo spazio fisico gestito da anni in modo indipendente. Gli stadi della malattia Demenza lieve (durata media 2-4 anni): è caratterizzata da disturbi di memoria, come dimenticare i nomi e i numeri di telefono. La perdita progressiva della memoria, soprattutto quella recente, può interferire con il normale svolgimento degli impegni quotidiani. Il soggetto ha difficoltà ad orientarsi nello spazio e nel tempo, per esempio può avere problemi a ritrovare la strada di casa. Anche il linguaggio comincia ad essere compromesso: compaiono difficoltà a produrre frasi adeguate a supportare il pensiero, vengono utilizzate pause frequenti per incapacità a "trovare la parola giusta". L’umore diviene più depresso a seguito della consapevolezza della propria progressiva disabilità, oppure la reazione può essere caratterizzata da manifestazioni aggressive e ansiose. 2. Demenza moderata (durata media 2-10 anni): è la fase temporalmente più duratura in genere, ed è caratterizzata da un aggravamento dei sintomi presentati nella fase precedente. Le dimenticanze sono sempre più significative; aumenta l’incapacità di ricordare i nomi dei familiari con la possibilità di confonderli, cosi come aumenta il disorientamento spaziale e temporale. In questo stadio la necessità di supervisione e assistenza nelle attività quotidiane si fa più urgente, il paziente tende a trascurare il proprio aspetto, la propria dieta e le attività quotidiane; le turbe dell'umore e del comportamento divengono più rilevanti. 3. Demenza grave (durata media 3 anni): è la fase terminale della malattia durante la quale la persona malata è completamente dipendente e richiede assistenza continua e totale per mantenersi in vita. E' caratterizzata da una perdita totale della capacità di parlare e capire, può però essere mantenuta fino a questa fase la capacità di esprimere emozioni attraverso il viso. Il soggetto diviene totalmente incapace di riconoscere i propri familiari, di compiere gli atti quotidiani della vita come vestirsi, mangiare, lavarsi, riconoscere i propri oggetti personali e la propria casa. Il movimento è ormai totalmente compromesso fino all'allettamento, non vi è più alcun controllo sfinterico.

6.3.4 ASSISTENZA AL DEMENTE I DISTURBI DEL COMPORTAMENTO Aggressività

Può manifestarsi sia come aggressività verbale (insulti, parolacce,bestemmie, linguaggio scurrile) che, più raramente, sotto forma di aggressività fisica (graffi, sberle, morsi, lancio di oggetti). Queste manifestazioni, anche se compaiono improvvisamente e non sembrano apparentemente causate da eventi specifici, costituiscono molto spesso una vera e propria reazione difensiva del malato verso qualcosa che viene interpretato come una minaccia. Non va dimenticato che chi è demente non è in grado di capire pienamente ciò che accade intorno a lui o ciò che gli si richiede. Che cosa fare? • Non sgridate il malato, non capirebbe: in realtà la sua rabbia non è rivolta contro di voi ma è una manifestazione del suo disagio o della sua paura; • Riducete al minimo le situazioni che possono essere vissute come minacciose dal malato; cercate di non contraddirlo in quanto la sua tolleranza alle frustrazioni è molto ridotta • Proponete le cose con calma e/o aspettate un momento adeguato .

Il vagabondaggio (wandering) consiste sostanzialmente in un’attività motoria incessante del malato che tende a camminare senza una meta e uno scopo precisi, spesso di notte. L’affaccendamento afinalistico indica invece tutti quei gesti e comportamenti ripetitivi svolti dal paziente senza alcun fine apparente. Che cosa fare? • In caso di vagabondaggio provate ad assecondare questo impulso irrefrenabile permettendogli di camminare in un ambiente “protetto”,in modo da limitare al massimo i rischi e i pericoli a cui il paziente può andare incontro. Può essere utile accompagnarlo, anche seguendolo a distanza, facendo attenzione al tipo di calzature che indossa ed evitando l’uso di ciabatte. • In caso di affaccendamento è utile lasciarlo fare, assicurandosi che utilizzi (o eventualmente fornendogli) dei materiali che possono essere manipolati senza pericolo. Provate a tenerlo occupato in attività utili e gradevoli (es. parti di attività domestiche semplici). Agitazione psicomotoria Il malato non riesce a stare fermo, oppure continua a fare domande in maniera incessante. Che cosa fare? • Domandatevi se la causa di questo comportamento proviene da dentro il malato oppure viene dall’ambiente esterno (vi è qualche stimolo che è irritante per lui?) • Chiedete al Medico Curante se qualcuno dei farmaci che ha assunto può essere la causa di questo disturbo • Avvicinatevi al paziente con calma, cercando di orientarlo nel tempo e nello spazio Deliri In questo caso il malato è assolutamente convinto che stiano accadendo delle cose che in realtà non sono vere (per es. crede che qualcuno lo stia derubando o che qualcuno voglia fargli del male o che il partner lo tradisca). Che cosa fare?

• Non deridete né sgridate il malato, ma cercate piuttosto di assecondarlo nei limiti del possibile e di calmarlo • Individuate ed eventualmente eliminate possibili fonti ambientali di disturbo Allucinazioni Il malato vede (o più raramente sente) cose che in realtà non esistono (es.animali, persone, voci). Tale disturbo può derivare da fenomeni di illusione(cioè il malato percepisce in modo errato immagini o suoni reali) oppure può comparire in corso di febbre o disidratazione ed essere pertanto la spia di una malattia acuta. Che cosa fare? • Non deridete né sgridate il malato • Individuate ed eventualmente eliminate possibili fonti ambientali di disturbo (es. luci, rumori) • Correggete eventuali difetti di vista e/o di udito.  IGIENE E SICUREZZA NELL’AMBIENTE DOMESTICO L’adozione di interventi ambientali può anche avere una valenza terapeutica nella demenza: l’ambiente può compensare in parte le conseguenze del deficit cognitivo e pertanto può condizionare sia lo stato funzionale che il comportamento del paziente. E’fondamentale che la casa sia sicura per evitare incidenti :il malato di demenza perde infatti la capacità di distinguere ciò che è pericoloso da ciò che non lo è.  Alcuni accorgimenti importanti: 1. Adattare la casa alle condizioni del paziente attraverso una pianificazione graduale. E’ bene compiere le modifiche in maniera progressiva: infatti tutti i cambiamenti improvvisi vengono vissuti dal malato in modo molto stressante. 2. La disposizione del letto e dei mobili deve essere semplice e funzionale ai deficit del malato; evitare però frequenti sconvolgimenti dell’assetto degli arredi. Gli oggetti di uso quotidiano vanno sempre riposti nello stesso luogo per facilitarne il ritrovamento. 3.Eliminare le potenziali fonti di pericolo - rimuovere i tappeti perchè spesso causano cadute; - eliminare tavoli bassi e sgabelli o arredi instabili in quanto aumentano il rischio di cadute. - riporre i coltelli e i prodotti detergenti in un luogo sicuro non direttamente accessibile al malato; - rendere inaccessibile l’accesso ai medicinali e agli alcolici; -Semplificare l’abbigliamento: favorire abiti con apertura del collo ampia,con allacciatura anteriore o meglio senza allacciatura. Preferire abiti con chiusura a cerniera o con velcro; utilizzare scarpe comode con suola di gomma e chiusura con velcro.  L’ALIMENTAZIONE NEL PAZIENTE DEMENTE

A causa dei disturbi della memoria il malato può dimenticare di aver già mangiato, può avere difficoltà a distinguere i cibi e ad identificarne la commestibilità. Ricordare che la malattia può associarsi sia a dimagrimento che a incremento ponderale. 1. Accertarsi personalmente della temperatura e della consistenza del cibo prima di proporlo al malato: - sono da preferire cibi freddi (gelati alla frutta, ghiaccioli) in quanto favoriscono la deglutizione. -Il cibo deve essere omogeneo (non pezzi all’interno) -evitare le minestre calde; -mantenere le abitudini del malato (orario di pranzo e cena, ambiente,modalità del pasto e tipo di cibo). - Per permettergli di mangiare liberamente ed autonomamente è possibile usare posate con manici grossi, scodelle al posto di piatti fondi, bicchieri di plastica dura. - Presentare un solo cibo per volta può essere utile, magari già tagliato e con la posata più opportuna - Assicurarsi vi sia un’adeguata idratazione: almeno 1-1.5 litro di liquidi al giorno; se necessario usare tè, camomilla, spremute, ghiaccioli.  LA COMUNICAZIONE CON IL PAZIENTE DEMENTE 1. Parlare chiaramente e lentamente, ponendosi di fronte al paziente e guardandolo negli occhi. Non parlare da lontano o da dietro; usare un tono di voce adeguato, ma senza urlare. 2. Mostrare affetto con il contatto fisico (toccare il paziente) può essere utile, sempre se questo viene gradito. 3. Fare attenzione al linguaggio del corpo: il paziente infatti si può esprimere anche attraverso messaggi non verbali (il linguaggio corporeo può esprimere ansia, paura, dolore) 4. Evitare di sottolineare i suoi insuccessi e mantenere la calma: può solo peggiorare la situazione. Se talvolta le cose non vanno per il verso giusto, questo avviene a causa della malattia, non del malato. 5. Il malato mantiene emozioni e sentimenti :l’umorismo può essere un buon modo per ridurre lo stress: ridere con il malato, ma evitare di ridere di lui, potrebbe non capire. 6.3.5

L’ASSISTENZA A BAMBINI E ADOLESCENTI

Il bambino che necessita di assistenza vive una condizione di disagio. Si può trattare di: - una situazione provvisoria (ricovero in ospedale); - bambini costretti a vivere lunghi periodi in comunità alloggio e quindi bambini che non hanno una solida struttura di base, che hanno sofferto di qualche forma di deprivazione. In tal caso potrebbero attuare comportamenti basati tanto su una richiesta affettiva totalizzante o al contrario un totale rifiuto ad interagire con l’operatore. E’ importante Conoscere I BISOGNI nelle fasi evolutive dei bambini:  Nel primo anno di vita: - Ambiente sereno - Nutrizione idonea

  -

Sviluppare relazioni affettive positive Sicurezza In età scolare: Sviluppare relazioni positive con i pari Sviluppare l’indipendenza Supporto delle figure parentali In età adolescenziale: Buona relazione con i genitori e con le figure significative; Aiuto nel cercare la propria identità personale; Guida e sostegno nelle scelte di vita

Inoltre, bisogna creare una relazione col bambino utilizzando le modalità comunicative più adatte:  Utilizzo di fiabe metaforiche: possono essere utilizzate per cercare di convincere il bambino a fare qualcosa che non vuole fare - Viene raccontata al bambino una storiella attraverso la quale il piccolo si potrà identificare con il protagonista andando così a sbloccare la situazione senza sforzi.  Gioco: la varietà è molto ampia, si possono fare attività giocose per rendere più piacevole al bambino le pratiche d’assistenza  L’ASSISTENZA AGLI ADOLESCENTI L’adolescenza è una fase di cambiamento del ciclo vitale umano; tale cambiamento investe diverse aree:  Somatica  Dello sviluppo cognitivo  Delle emozioni e dei sentimenti  Dell’acquisizione dell’identità I giovani pur apparentemente “simili” non sono, da un punto di vista sociale una categoria omogenea. Per essere d’aiuto agli adolescenti, si possono seguire tre principi generali: 1. Informare -su ciò che loro vogliono sapere -esprimere sempre la nostra opinione e soprattutto i nostri sentimenti ma lasciare che poi ci sia il tempo di riflettere ( non forzarli ad ingoiare senza masticare) -essere onesti e autentici e cercare di spiegare il percorso attraverso il quale si è arrivati a certe convinzioni o conoscenze 2.Incoraggiare -ascoltare e prestare attenzione ai loro sentimenti -non accumulare microesperienze negative -aiutare i ragazzi a incoraggiarsi da soli ( spesso sono ipercritici verso se stessi) 3.Riconoscere -evidenziare i comportamenti positivi ed esprimere apprezzamento personale

-non vuol dire adulare o lodare I compiti e le funzioni degli educatori sono fondamentali; essi dovrebbero sforzarsi a : -Essere presenti soprattutto nei momenti difficili ( tenere la porta aperta ) -Essere pazienti e lungimiranti -Sviluppare le capacità di ascolto autentico -Seminare attraverso l’esempio personale -Nutrire fiducia e speranza ( evitando le paure e le ansie eccessive) -Essere autorevoli ( e non autoritari ) -Condividere emozioni e sentimenti 6.3.6

L’ASSISTENZA AL MALATO TERMINALE

La fase terminale della vita costituisce un momento specifico in cui diventano importanti una serie di interventi terapeutici ed assistenziali definiti cure palliative: sono tutte quelle cure destinate a migliorare la qualità di vita e non orientate a controllare il processo evolutivo della malattia. Le strutture dedicate all’assistenza palliativa o di supporto:  Hospice  Assistenza domiciliare integrata (ADI) Il malato terminale è diverso da ogni altro paziente perché sperimenta una sofferenza continua e ingravescente definita dolore totale che consiste nell’insieme di sofferenza fisica, psichica, spirituale. Assistere il malato terminare vuol dire introdurre il tempo del morire nella relazione: abitarlo con la parola e la presenza per aiutare la persona a vivere in maniera degna, capire i suoi bisogni, proporzionare le cure. L’OSS con il malato terminale dovrebbe prefiggersi di: -

Saper ascoltare scelte, desideri, confidenze, scoppi emotivi; Saper informare il paziente riguardo agli interventi assistenziali che effettua nei suoi confronti; Assecondare i tempi ed i ritmi del paziente (cure igieniche, alimentazione…) Porre particolare attenzione ai segnali non verbali Avere come obiettivo la qualità della vita, non la quantità; - Restare vicino alla persona, dandole la possibilità di esprimere i suoi sentimenti (deve essere il paziente a guidare; non si deve negare con frasi tipo: “non faccia così…non è vero”; la persona ha diritto di piangere se lascia la propria vita e i propri cari - Passare dal guarire al prendersi cura (non abbandonare, accompagnare, offrire assistenza intensa, contatto umano).

6.3.7

L’ASSISTENZA NELLA “DIVERSITA’”

COSA E’ LA DIVERSITA’? E’ la constatazione di una particolare situazione esistenziale che pone la persona in condizioni di svantaggio e, a volte, nell’impossibilità di condurre un’esistenza autonoma.  Le principali fonti di diversità che possono interessare un OSS riguardano:  Disabilità e malattie invalidanti;  Condotte devianti (tossicodipendenza, alcolismo) Gli handicap: “il portatore di handicap è colui che presenta una minorazione fisica, psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di emarginazione“  I deficit che portano all’handicap possono essere di tre tipi: 1 Area sensoriale/ricettiva - cecità, sordità 2 Area motoria - paralisi (tetraplegia, paraplegia, emiplegia), distrofie muscolari 3 Area neuropsichica - ritardi mentali, deficit intellettivi, insufficienza mentali (sono diverse dalle malattie mentali), autismo infantile precoce, sindrome di Down. In molti popoli il portatore di handicap ha avuto un trattamento inumano, incivile, inadeguato. Ora invece si riconosce il diritto ad una vita normale anche per queste persone. La società ha il dovere di prestare aiuti per favorire l’autonomia e l’inserimento sociale dei diversamente abili.  L’assistenza ai diversamente abili È impossibile poter aiutare i diversamente abili se non c’è un rapporto personale. Ci sono 4 fasi importanti: 1. osservazione - contatto personale- emotivo, attenzione ai particolari; 2. cartelle - raccogliere i dati secondo le diverse aree (motoria, sensoriale e psichica); 3. progetto individualizzato - attraverso i dati e l’osservazione si individuano i bisogni e gli obiettivi da raggiungere costruendo un piano assistenziale individualizzato o piano educativo individualizzato; 4. programmazione - si organizzano in concreto gli interventi (igiene personale, abbigliamento, alimentazione, sonno, salute, riabilitazione, attività di relazione). Condotte devianti La devianza è la condotta di chi viola le regole giuridiche, religiose, morali o sociali della comunità in cui vive; spesso vengono etichettati come devianti anche i comportamenti diversi da quelli accettati dalla maggioranza. Al concetto di devianza è legato quello di controllo sociale: la devianza è percepita come una minaccia per la collettività e per neutralizzarla vengono messi in atto meccanismi di prevenzione, repressione e punizione. Le principali condotte devianti: • •

Delinquenza Tossicodipendendenza

• Alcolismo Sono condizioni da cui ci si può riabilitare; le cause principali sono da ricercare nella storia di vita e nell’ambiente in cui il soggetto è cresciuto Per aiutare queste persone è necessario: abbandonare tutti i possibili giudizi morali sulle scelte di vita e accompagnare l’assistito nel difficile cammino della riabilitazione, sostenendolo nei momenti di ricaduta e di debolezza. 7

IL BURNOUT

Il termine burnout può essere tradotto con “bruciato, esaurito” ed esprime metaforicamente il bruciarsi dell’operatore dal punto di vista psico-fisico; il lavoratore non riesce più a portare a termine la sua attività come ha sempre fatto e lentamente si “brucia” nel cercare di adattarsi alle difficoltà presenti quotidianamente nell’ambiente di lavoro; esegue le proprie mansioni svogliatamente, con grande fatica, senza entusiasmo o con eccessivo coinvolgimento. Il burnout colpisce soprattutto le professioni di aiuto e quelle socio-sanitarie: la relazione diretta tra operatore e paziente e quindi l’esposizione continuativa alla sofferenza e alla morte, possono generare un pesante carico emotivo; inoltre la disorganizzazione spesso presente nelle istituzioni nelle quali si lavora alimenta lo stress sperimentato. Nel burnout la persona sperimenta tre condizioni: 1. Esaurimento psico-fisico: al risveglio al mattino è più stanca del giorno precedente, si sente senza energia e senza motivazione anche nell’affrontare gli impegni più semplici; 2. Inefficienza: essendo esaurita e facendo fatica ad attivarsi, si sente soggettivamente inefficiente; 3. Cinismo: diventa distaccata nei confronti del lavoro e delle altre persone; questo è un tentativo di proteggersi dal malessere che vive nell’ambiente lavorativo Per cui, se ci si trova in un tale stato di insoddisfazione non è corretto stringere i denti e andare avanti, ma è necessario fermarsi ed analizzare la propria situazione per individuare le possibili cause e quindi la strada per la risoluzione dei problemi. Il soggetto colpito da burn-out manifesta sintomi specifici (irrequietezza, senso di stanchezza ed esaurimento, apatia, nervosismo, insonnia), sintomi somatici con insorgenza di vere e proprie patologie (ulcere, cefalee, aumento o diminuzione ponderale, disturbi cardiovascolari, difficoltà sessuali ecc.), sintomi psicologici (depressione, bassa stima di se, senso di colpa, sensazione di fallimento, rabbia, risentimento, irritabilità, aggressività, alta resistenza ad andare al lavoro ogni giorno, indifferenza, negativismo, isolamento, sensazione di immobilismo, sospetto e paranoia, rigidità di pensiero e resistenza al cambiamento, difficoltà nelle relazioni con gli utenti, cinismo, atteggiamento colpevolizzante nei confronti degli utenti e critico nei confronti dei colleghi). Tale situazione di disagio molto spesso induce il soggetto ad abuso di alcool, di psicofarmaci o fumo. L'insorgenza della sindrome negli operatori sociali e sanitari segue generalmente quattro fasi: 1. La prima fase (entusiasmo idealistico) è caratterizzata dalle motivazioni che

hanno indotto gli operatori a scegliere un lavoro di tipo assistenziale, ovvero motivazioni consapevoli (migliorare il mondo e se stessi, sicurezza di impiego, svolgere un lavoro meno manuale e di maggior prestigio)e motivazioni inconsce(desiderio di approfondire la conoscenza di se e di esercitare una forma di potere o di controllo sugli altri); tali motivazioni sono spesso accompagnate da aspettative di "onnipotenza",di soluzioni semplici, di successo generalizzato e immediato, di apprezzamento, di miglioramento del proprio status e altre ancora. C’è in tutto questo quasi una difficoltà a leggere in modo adeguato il dato di "realtà": infatti, esiste una logica secondo la quale il venire a capo di una situazione difficile non dipende dalla natura della situazione, ma essenzialmente dalle proprie capacità e dai propri sforzi; se dunque il problema non viene risolto, ciò sta a significare che non si è stati all'altezza. 2. Nella seconda fase (stagnazione) l'operatore continua a lavorare ma si accorge che il lavoro non soddisfa del tutto i suoi bisogni. I risultati del forte impegno iniziale sono via via sempre più inconsistenti. Si passa così da un superinvestimento iniziale ad un graduale disimpegno dove il sentimento di profonda delusione avanza determinando nell'operatore una chiusura verso l'ambiente di lavoro ed i colleghi. 3. La fase più critica del burn-out è la terza fase (frustrazione). Il pensiero dominante dell'operatore è di non essere più in grado di aiutare nessuno, con profonda sensazione di inutilità è di non rispondenza del servizio ai reali bisogni dell'utenza. Il vissuto dell'operatore è un vissuto di perdita, di svuotamento,di crisi di emozioni creative e di valori considerati fondamentali fino a quel momento. Come fattori di frustrazione aggiuntivi intervengono lo scarso apprezzamento sia da parte dei superiori sia da parte degli utenti, nonchè la convinzione di una inadeguata formazione per il tipo di lavoro svolto. Il soggetto frustrato può assumere atteggiamenti aggressivi (verso se stesso o verso gli altri) e spesso mette in atto comportamenti di fuga (quali allontanamenti ingiustificati dal reparto, pause prolungate, frequenti assenze per malattia). 4. Il graduale disimpegno emozionale conseguente alla frustrazione, con passaggio dalla empatia all'apatia, costituisce la quarta fase, durante la quale spesso si assiste a una vera e propria morte professionale. C'è da dire inoltre che il burn-out non è affatto un problema personale che riguarda solo chi ne è affetto, ma è una "malattia" contagiosa che si propaga in maniera altalenante dall'utenza all'equipe, da un membro dell' equipe all'altro e dall' equipe agli utenti e riguarda quindi l'intera organizzazione dei servizi, degli utenti della comunità oltre che il singolo individuo. Di seguito vengono riportate alcune strategie per la prevenzione del burnout: Sviluppo dello staff: - Distribuire tra i membri dello staff i compiti più difficili e meno gratificanti ed esigere dallo staff che lavori in più di un ruolo e programma; -Pianificare ogni giorno in modo che le attività gratificanti e quelle non siano alternate; RISPOSTE FOCALIZZATE SUL PROBLEMA: analizzare le condizioni fonte di stress e cercare di fare tentativi per migliorare la situazione METODI DI RILASSAMENTO. Ritagliare spazi dedicati a se stessi. Fare ad esempio un corso di training autogeno o di yoga ESERCIZIO FISICO. E’ un ottima valvola si sfogo e scarico delle tensioni DIALOGO INTERNO. Si tratta di discorsi da fare a se stessi per affrontare al meglio la situazione di difficoltà (ad esempio: devo stare calmo e rilassarmi, non devo prenderla troppo seriamente, non vale

la pena arrabbiarsi, questa persona sta aspettando solo che io mi arrabbi ma io mi allontano e penso ad altro, respiro profondamente e mi rilasso…) 8

IL LAVORO DI GRUPPO

Il gruppo è :un insieme di persone che interagiscono tra loro facendo riferimento a modelli comuni di comportamento che si ritengono parte del gruppo inteso come un insieme omogeneo. È importante per il lavoro del gruppo stesso: -il clima che si respira, le norme effettive, la sua coesione interna, la possibilità che i diversi componenti possano risolvere costruttivamente eventuali conflitti o contrasti che insorgono tra di loro. All’interno di ogni gruppo ci sono degli individui che assumono sia spontaneamente, sia per nomina, il ruolo di guida(leadership): questi hanno il compito di indirizzare gli altri al raggiungimento degli obiettivi, essendo egli capace di richiamare gli altri al riconoscimento e condivisione delle regole. 8.1 L’EQUIPE Cos’è l’equipe? Lavorare in equipe implica che non è una sola figura professionale che si occupa del paziente, né che molte figure se ne occupano indipendentemente l’una dall’altra, in maniera separata ma significa che la cura viene effettuata da un gruppo “integrato”, cioè persone che lavorano in modo armonico tra loro e condizionano il proprio lavoro attraverso una continua correlazione con gli altri, fatta di scambi, confronti, suggerimenti. L’équipe assistenziale è formata da figure che collaborano fra di loro per raggiungere insieme un obiettivo comune che consiste nel rispondere in modo soddisfacente al bisogno dell’utente (anziano, handicappato, disabile psichico, ecc..). La persona esce quindi dal ruolo di oggetto passivo dell’assistenza e si pone al centro del gruppo, quale componente principale del team e al tempo stesso destinatario delle cure. Il lavoro d’équipe è indispensabile per offrire un’assistenza che corrisponda sempre più all’esigenze del paziente in quanto la multidisciplinarietà del gruppo fa sì che l’individuo venga considerato non limitatamente alla sua patologia, al suo schema di terapia o all’intervento assistenziale necessario, ma in modo globale perché l’uomo deve essere valutato come entità unica anche se manifesta problemi e bisogni differenti fra loro. Le figure dell’equipe assistenziale sono: 1) Medico 2) Psicologo 3) Assistente Sociale 4) Infermiere Professionale 5) Fisioterapista 6) Operatore Assistenziale (OSS, OSA, OTA)

7) Animatore 8) Educatore Professionale ( nel caso l’utente sia un disabile psichico)