Dalle nove alle nove
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Zitiervorschau

Biblioteca Adelphi 447 LEO PERUTZ

Dalle nove alle nove

Che cosa nasconde il bizzarro e concitato comportamento di Stanislaus Demba nel­ le dodici ore di una fatale giornata di ini­ zio Novecento? Quale colpa, quale paura 10 mette in fuga attraverso le stazioni di un itinerario tormentoso e funambolico per le strade di Vienna? E perché tutti quegli a­ crobatismi con le mani? Chiunque raccon­ ti questo romanzo a chi non lo ha letto do­ vrebbe impegnarsi, per puro fa ir play, a non dare subito la risposta. Ma potrà tran­ quillamente assicurare al suo ascoltatore che di rado la tensione è stata così palpa­ bile in un libro. Bottegai, affittacamere, frequentatori di caffè, agiati borghesi della cui prole è il precettore, universitari che imbecca con dispense brillanti: a tutti Demba si rivolge, sempre più solo, disperato - e la girando­ la dei vani tentativi di raggiungere il suo scopo lo rende enigmatico, affatto incom­ prensibile allo sguardo altrui. Dalle nove alle nove: in questo tempo febbrile, vertigi­ noso, simile a uno spazio sigillato, si consu­ mano le peripezie dell’uomo braccato, il suo angoscioso dibattersi nel labirinto del­ la città e delle proprie paure. Un uomo provvisto della capacità di sdoppiarsi, dive­ dersi agire e di commentare lucidamente ogni evento, e che assiste sempre più im­ potente al vanificarsi di amore, amicizie e identità personale. E impossibile resistere al ritmo della nar­ razione, che ora fornisce indizi ora spiazza 11 nostro coinvolgimento investigativo. E so­ prattutto è impossibile non essere cattura­ ti da quella tensione che influenzò Hitch­ cock (nel Pensionante, del 1926) e stregò Murnau fino a fargli desiderare di trarre un film dal romanzo. Di Leo Perutz (Praga 1882 - Bad Ischi 1957) sono apparsi presso Adelphi II marchese di Bollbar (1987), Il cavaliere svedese (1991), Tempo di spettri (1992), Turlupin (2000). Dalle nove alle nove è stato pubblicato per la prima volta nel 1918.

«Lei, signore!». Stanislaus Demba trasalì. Si sentì come se avesse ricevuto un colpo in pieno petto, lì, nel punto dove batte il cuore. Le ginoc­ chia presero a tremargli. Solo lentamente riuscì a calmarsi... Dio, com’è facile spa­ ventarsi. Ridicolo. La guardia non ce l’a­ veva mica con me. «Lei, signore!» ha chia­ mato, e io ho subito creduto che si riferis­ se a me. Lo sa il cielo a chi era indirizzato. Probabilmente... «Lei, signore!» gridò la guardia di nuovo. Demba si fermò, d ’improvviso e con uno scossone, quasi fosse impietrito. Il sangue gli defluì dal volto, i denti presero a batte­ re, il cuore picchiava all’impazzata... No. Non era possibile sbagliare. Il grido era in­ dirizzato a lui. A nessun altro. E ora la guar­ dia gli si stava avvicinando lentamente, molto lentamente... Incapace di muoversi, cinereo in viso, Sta­ nislaus Demba attendeva la fine della pro­ pria libertà.

In copertina: Anton Ràderscheidt, La casa n. 9 (1921). Collezione privata. © A N T O N R À D E R S C H E I D T by S IA E 2003

Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

BIBLIOTECA ADELPHI 447

MKI.I.O STKSSO AUTORI'

// cavaliere svedese Il marchese di Balibar Tempo di spettri Turlupin

LEO PERUTZ

Dalle nove alle nove

ADELPHI EDIZIONI

t it o lo o r ig in a le :

Zwischen ne,un und neun

Traduzione di Marco Consolati

Prima edizione: settembre 2003 Seconda edizione: gennaio 2004

© 1978 P A U L

Z S O T N A Y V ER I.A G G E S E I.L S C H A F T W IE N -H A M BU R G

©2003 A D E E P H I

E D I Z I O N I S .P .A . M IL A N O

w w w . a d e l p h i .i t

IS B N 88-459-1803-3

DALLE NOVE ALLE NOVE

1

La pizzicagnola della Wiesengasse, Frau Johanna Pùchl, quella mattina verso le sette e mezzo si affac­ ciò in strada dalla bottega. Non era una bella gior­ nata. L’aria umida e fredda, il cielo coperto. Il tem­ po migliore per concedersi un goccetto. Ma la botti­ glia di slivoviz di Frau Pùchl, che si trovava nell’ar­ madio, era quasi vuota, e la pizzicagnola decise di ri­ sparmiare per lo « spuntino delle dieci » il poco che ne rimaneva, appena sufficiente a riempire un bic­ chierino. Per precauzione mise la bottiglia sotto chiave nella credenza, poiché suo marito, che nel cortile a lucernario stava aggiustando il loro carret­ to sfasciato, concordava con lei nell’apprezzare un buon goccetto. Prima delle otto vennero solo pochi clienti abi­ tuali: il garzone del barbiere al quale lei tutte le mat­ tine preparava la colazione, pane imburrato con er­ ba cipollina e un mazzetto di ravanelli. Due scola­ ri che comprarono dodici centesimi di «caramelle agli agrumi ». La cuoca del signor ispettore, quello al primo piano del numero undici, che se ne andò con 9

un piccolo cespo di insalata e due chili di patate, e il signore del ministero del Lavoro che ogni gior­ no, da anni, acquistava nella bottega di Frau Püchl dell’«affettato scelto» per la seconda colazione. A partire dalle otto la bottega si animò e verso le otto e mezzo Frau Püchl aveva un gran daffare. Po­ co dopo le nove apparve, per una lunga chiacchie­ rata, l’anziana Frau Schimek, la proprietaria della tabaccheria all’angolo della Karl-Denk-Gasse. Parla­ vano del guaio capitato a Frau Püchl con una parti­ ta di formaggio di pecora proveniente dall’Unghe­ ria. Nel bel mezzo furono interrotte dalla comparsa di Stanislaus Demba, proprio di quel signor Stanislaus Demba, il cui strano comportamento avrebbe offerto alle due donne, per settimane ancora, ricca materia di conversazione. Prima di decidersi a entrare, Demba era passato tre volte davanti al negozio e, ogni volta, aveva get­ tato uno sguardo timoroso all’interno. Dava l’im­ pressione di cercare qualcuno. Anche il suo modo di entrare fu bizzarro: non abbassò la maniglia con la mano, ma col gomito sinistro, cercando contem­ poraneamente di aprire la porta col ginocchio de­ stro: il che gli riuscì solo dopo vari tentativi. Infine si ritrovò nella bottega. Era un uomo alto, largo di spalle, con un paio di corti baffi rossicci su un viso altrimenti ben rasato. Portava il soprabito marrone chiaro avvolto intorno alle mani a mo’ di manicotto e ve le teneva nascoste. Sembrava aver fatto molta strada, gli stivali erano sporchi, i panta­ loni inzaccherati di fango fino al ginocchio. «Un panino imburrato, per favore! ». Frau Püchl mise mano al coltello, ma lì per lì non pensò certo d’interrompere la sua chiacchierata con la tabaccaia. «Dunque, già questa non m’è andata giù: come arriva la cassetta, pesa settantaquattro chili, ma io, di formaggio di pecora, ne avevo ordinati settanta10

cinque chili. E poi, appena tolgo il coperchio... be’, le dico, il formaggio aveva un aspetto, si poteva mandarlo subito in villeggiatura a tirarsi un po’ su. Tutto molle, tutto squagliato. Cosa le do, signore? ». Stanislaus Demba, nella sua impazienza, aveva scalciato più volte contro il bancone. «Un panino imburrato, per favore, ma subito. Ho fretta». La pizzicagnola tuttavia non si lasciò distogliere così facilmente da quell’importante argomento di conversazione. « Scusi, la signora è venuta prima di lei» disse al signor Demba. «La dovrò pur servire prima». Il «servirla prima» significò solo che prose­ guì la storia del suo formaggio di pecora senza ab­ breviarla. «Allora, io naturalmente ho subito reclamato e, cosa crede mi abbia risposto quell’individuo? Lui ha» - estrasse dalla tasca del grembiule una lettera sgual­ cita e bisunta e si mise a cercare il passo - « ecco qui: “...ho imballato il formaggio regolarmente, e non so­ no tenuto a dar conto deU’insignificante calo di peso che la merce subisce durante il trasporto”. Dell’“insignificante calo di peso”! Pensavo mi venisse un acci­ dente come ho letto questa roba». «Eh, di solito dicono tutti così» replicò la tabac­ caia. «Ah, con me però ha proprio sbagliato indirizzo. Crede che mi lasci trattare così? Sarei proprio la sce­ ma del villaggio ». « Certo che questa gente non ha imparato nean­ che un po’ di educazione! ». «Ma può essere solo un delinquente uno che si esprime così! » gridò Frau Pòchi al colmo dell’ira. A questo punto fu interrotta per la terza volta dal signor Stanislaus Demba, che non sembrava pro­ penso ad aspettare ancora a lungo il suo pane im­ burrato. «Forse,» disse in un miscuglio di impazienza, sar­ casmo e rabbia trattenuta a stento «quando la sua 11

giusta collera si sarà un poco calmata, potrò final­ mente avere il mio pane imburrato». «Lo sto preparando, solo un pochettino di pa­ zienza. Ma ne ha di fretta, signore! ». «Sì» disse Stanislaus Demba brevemente. «Non si ferma ancora?» Frau Püchl urlò alla ta­ baccaia che si stava allontanando. «Vado a dare un’occhiata al mio negozio. Co­ munque, faccio un salto più tardi». « Il signore probabilmente ha un impiego fisso da qualche parte; in un ufficio o in una cancelleria?» chiese la pizzicagnola al suo nuovo cliente. «Dico così per dire, visto che il signore ha una tale fretta». «In ogni caso il mio tempo non l’ho rubato» ri­ spose sgarbatamente Demba. «E pronto». Frau Püchl spinse verso di lui, attra­ verso il bancone, il pane imburrato. «Ventiquattro centesimi». Il signor Demba fece un brusco movimento verso il pane. Ma non lo prese. Si passò un paio di volte, lentamente, la lingua sulle labbra, corrugò la fronte dando l’impressione che alFimprowiso gli fossero sorti dei seri ripensamenti. « Forse devo tagliarglielo? » chiese la pizzicagnola. «Sì, certo, lo tagli». La donna tagliò in più pezzi la fetta di pane e li mise davanti al cliente. Demba non li toccò. Tamburellò con la punta del piede sul pavimento e fece schioccare la lingua, co­ me chi aspetti, impaziente, un avvenimento che non vuole accadere. Da dietro il pince-nez di corno, i suoi occhi vagavano per la bottega quasi in cerca di aiuto. « Il signore desidera ancora qualcosa? » domandò Frau Püchl. « Come? Sì. Ha del salame di Cracovia per caso? ». «Di Cracovia no. Di salame ne abbiamo all’aglio, stagionato, rosa oppure c’è della soppressa». 12

«Salame all’aglio, allora». « Quanto? ». « Ottanta grammi. O un etto ». «Un etto. Come vuole». La donna avvolse il sala­ me in un foglio di carta e depose il pacchetto vicino al pane imburrato. «Fanno sessantaquattro centesi­ mi in tutto». Demba non prese né l’uno né l’altro. Di colpo sembrò avere un sacco di tempo e dimostrò un sor­ prendente interesse per i piccoli particolari dell’ar­ redamento di una pizzicheria. Tentò di decifrare l’etichetta di una bottiglia di aceto e si dedicò poi al­ lo studio di svariate réclame di latta, appese alle pa­ reti e sopra il bancone. «Rivendita del famoso pane di segale Hasenmayer». - «Chwojka sapone in polvere, le mani fa risplendere » lesse con grande attenzione, mentre le labbra si muovevano in silenzio. « Questo è il famoso pane di segale Hasenmayer, vero? » chiese poi e si chinò a esaminare il pane im­ burrato, sul quale nel frattempo si erano posate due mosche. «No, viene dal panificio Heureka». «Ah! Per la verità avrei preferito del pane di sega­ le Hasenmayer». «Hanno comunque lo stesso sapore, l’uno e l’al­ tro, e non è che costi di meno» ribattè la pizzicagnola. «Allora va bene». Il comportamento di Demba divenne sempre più misterioso. Si mise a guardare il soffitto della bottega con viso stravolto e si morse fu­ riosamente le labbra. «Non potrebbe mandarmi questa roba a casa?» chiese d’un tratto, mentre una piccola goccia di su­ dore gli scendeva lungo la fronte. «Il mio nome è Stanislaus Demba». « Mandare la roba a casa? Quale roba? ». 13

«Questa qua». Demba indicò con gli occhi il pa­ ne imburrato e il pacchetto di salame all’aglio. «Il salame?». La bottegaia fissò il signor Demba attonita. Nessuno aveva mai preteso da lei una simi­ le assurdità. «Non è possibile? Pensavo così perché sbrigherò ancora parecchie commissioni prima di rincasare e non volevo portarmelo in giro... Non si può? Be’, non fa niente. Fischiettò piano tra sé, osservò le mosche che scorrazzavano sul pane, quindi ispezionò con sguar­ do indagatore una cassetta di legno, che conteneva prugne secche. «Chissà come andrà quest’anno il raccolto delle ciliegie? » chiese poi. «Mah, da una parte bene, dall’altra meno bene, dipende dal tempo che ha fatto» disse Frau Püchl prendendo il suo lavoro a maglia. «Costeranno meno dell’anno scorso?». «Credo di no». La conversazione languì nuovamente. La pizzicagnola lavorava alla sua calza, mentre l’interesse di Demba fu catturato da un barattolo di sardine sot­ t’olio. Entrarono due nuovi clienti. Una bambina, che chiese dei cetrioli salati, e un fiaccheraio, che com­ prò un salsicciotto. Anche dopo che i due ebbero la­ sciato la bottega, Demba rimase. « Potrei forse avere un bicchiere di latte? » chiese a quel punto. «Latte non ne tengo». «Allora un bicchierino di acquavite?». «Acquavite non ne tengo. Forse che il signore non si sente bene? ». Stanislaus Demba sollevò lo sguardo. «Come di­ ce? Sì. Certo. Non mi sento bene. Ho mal di stoma­ co, fin da quando sono entrato. Non se n’è accorta subito?». 14

« Un goccetto di slivoviz ce l’avrei ancora di là, in casa. Forse la fa star meglio » concluse la pizzicagnola. Il volto del signor Demba si illuminò di colpo. «Sì, la prego. Cara signora, mi porti lo slivoviz! Pare sia la cosa migliore contro il mal di denti». Katherl, la figlia maggiore della signora Pòchi, stava saltando con la corda in salotto. Era una bam­ bina grossa, impacciata, e solo raramente le riusciva di portare a termine senza errori la filastrocca, al cui ritmo saltava. Aveva appena ricominciato: Il signor da Orso abita là, mi manda qua, forse il caffè è pronto già... «Kathi,» disse la pizzicagnola «va’ di là, che ci sia qualcuno in bottega. Sai per caso dove ho messo le chiavi?». « Sono nel cassetto » disse Katherl e riprese a sal­ tare. Domani alle otto sarà già cotto, domani alle nove di mattina vieni a fare una visitina... Frau Pòchi aprì la credenza. Ma mentre stava riempiendo il bicchierino, le balenò improvvisa­ mente un pensiero che la colmò di apprensione. Quell’uomo si era comportato in maniera così stra­ na. Prima aveva avuto una fretta del diavolo, poi non c’era piò stato verso di farlo uscire dalla botte­ ga. Si era guardato intorno e aveva curiosato come un matto, ma alla fine era il cassetto dei soldi che lo interessava. Quattordici corone c’erano dentro, e la collana di corallo, poi due anelli con turchesi, il li­ bretto di risparmio e due santini di Mariazell! Col bicchierino di slivoviz in mano, Frau Pòchi, pallida da far spavento, si precipitò di là. Certo! La bottega era deserta! Il distinto signore 15

aveva tagliato la corda. Lo sapevo! Quattordici coro­ ne! Quei bei soldi! Frau Pùchl, col fiato grosso, si la­ sciò cadere su una sedia e aprì rabbiosamente il cas­ setto. Ma era tutto nel più bell’ordine! Qui la ciotola con le monete d’argento, lì vicino i due anelli, la collana di corallo, il libretto postale di risparmio e i due santini. Grazie a Dio! Non mancava nulla. Aveva preso il volo solo col pane imburrato e il salame. In com­ penso, però, lei aveva salvato lo slivoviz per lo «spuntino delle dieci». Questo fatto la dispose in uno stato d’animo conciliante. Quel povero diavo­ lo! Di certo non aveva i soldi per pagare il pane e il salame. Be’, lei glieli avrebbe anche regalati, se lo avesse chiesto. Si è pur tutti esseri umani e tutti si ha un cuore. Dopo lo spavento provato, Frau Pùchl vuotò velo­ cemente il bicchierino di slivoviz. Poi uscì in strada, in cerca del fuggitivo. Ma Stanislaus Demba non si vedeva già più. Solo quando rientrò, lo sguardo le cadde su alcu­ ne monete di nichel e di rame che giacevano sul bancone. Tre monete da venti centesimi e due da due. Sessantaquattro centesimi. Stanislaus Demba aveva coscienziosamente conta­ to i soldi sul bancone, poi era sgattaiolato via col pa­ ne imburrato, come l’avesse rubato.

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Il consigliere aulico Elementi stava facendo, co­ me ogni mattina, una passeggiata nel Liechtensteinpark con il suo amico, il professor Ritter von Truxa, e il suo cane Cyrus. Il consigliere Elementi, diretto­ re della collezione di arte antica e orientale del Mu­ seo di Storia dell’Arte, e temporaneamente incari­ cato anche di soprintendere al settore etnograficoantropologico, non ha certo bisogno di presentazio­ ni. Con la sua fondamentale opera, sovvenzionata dall’Accademia delle Scienze, sulla Formazione dei nomi propri degli antichi Assiri, si è assicurato una po­ sizione di prestigio fra gli studiosi, mentre le sue acute analisi sui Motivi delle maioliche indiane e loro in­ flusso sull’arte ornamentale dei tappeti persiani ne han­ no fatto conoscere il nome anche ad artisti, appas­ sionati d’arte e collezionisti. Il professor Ritter von Truxa, membro dell’Acca­ demia delle Scienze (sezione storico-filosofica) e do­ cente all’Accademia Consolare, non è meno noto. Fra i suoi numerosi lavori in campo linguistico, va citato innanzitutto l’eccellente dizionario calmuc17

co-tedesco. Altre opere, come per esempio lo studio sulla frequenza delle semivocali r ed 1 nei dialetti cimrici e il voluminoso saggio Dell’etnografia e della lingua delle tribù somale, si sono affermate anche al­ l’estero ottenendo riconoscimenti da parte dei loca­ li ambiti accademici. Tuttavia l’attività scientifica di questi due signori non ha, nella nostra storia, un ruolo di grande im­ portanza, e quindi solo di sfuggita ricordiamo che il professor Ritter von Truxa era appena tornato da un soggiorno di studio di diversi mesi nei territori settentrionali dell’Auran e che attualmente, assie­ me al consigliere aulico Elementi, era occupato a elaborare e pubblicare il resoconto scientifico di quel viaggio, una serie di testimonianze linguistiche ittite e fenicie più o meno ben conservate. Per quanto riguarda il cane del consigliere, Cyrus, non si può stabilire con assoluta certezza a che razza appartenga. Non ci si allontana tuttavia trop­ po dal vero se lo si considera - in linea di massima - un rappresentante della famiglia dei volpini. Sa­ peva riportare, porgere la zampa e « chiedere », ave­ va il pelo a chiazze marroni e un temperamento sfrontato. Il consigliere aulico Elementi camminava lenta­ mente e inoltre aveva l’abitudine di fermarsi più vol­ te durante la conversazione, di preferenza nel bel mezzo di strade molto affollate; sembrava sentirsi bene e a proprio agio solo come intralcio al traffico. Nemmeno l’indignazione, espressa con un violento tirar-di-guinzaglio, del suo Cyrus, che per il resto ti­ ranneggiava spietatamente l’anziano signore impo­ nendogli in tutto la propria volontà, poteva nulla contro questa debolezza dello studioso, e il profes­ sor Truxa aveva il suo bel daffare, mentre attraversa­ vano la Porzellangasse, a trarre l’amico in salvo, lon­ tano dalla zona di pericolo dei tram. Il Liechtensteinpark a quell’ora - dovevano esse18

ic circa le nove e mezzo - era già piuttosto affollato, bambine e ragazzini correvano sul vialetto coperto di ghiaia con cerchi e palle di gomma, bambinaie e balie spingevano innanzi a sé chiacchierando le lo­ ro carrozzine, liceali si ripetevano reciprocamente le lezioni con aria solenne. I due studiosi si diresse­ ro verso un punto isolato del parco, dove li aspetta­ va una panchina, ombreggiata da vecchie acacie e nascosta agli sguardi degli altri visitatori da folti ce­ spugli. In quell’angolino, inosservati e poco infasti­ diti dal vociare tutt’attorno, avevano l’abitudine di dedicare una o due ore ogni mattina alla revisione dei loro manoscritti e delle bozze. Per il momento però i signori erano assorti in una discussione sulle origini dell’uso dell’hascisch. Il pro­ fessor Truxa sosteneva che il consumo di questo al­ lucinogeno fosse inizialmente limitato all’Oriente, un’affermazione che costrinse il consigliere a obiet­ tare con vivacità. «Certo le è noto che nelle tombe preistoriche della Francia meridionale sono state trovate delle piccole pipe di terracotta che contenevano dei resti di Cannabis satina. I nostri antenati hanno senza dubbio fumato canapa, ed essa era nota anche agli antichi Greci. Ricorderà certo quel passo dell’Odis­ sea nel quale viene nominata la bevanda nepente, che “lenisce il dispiacere e il ricordo di ogni dolo­ re”. E la Gelotophyllis, la pianta dell’ilarità degli anti­ chi Sciti, di cui parla Plinio». « Io comunque preferisco restare su un terreno si­ curo, scientifico» replicò il professor Truxa. «Wirth di Monaco, anzi, si spinge molto più in là di lei, sen­ za peraltro fornire nemmeno l’ombra di un’argo­ mentazione seria a sostegno delle proprie teorie. Stando alle sue affermazioni, le grandi psicosi di massa del passato, il flagellantismo nonché certe singolari epidemie di danza, sarebbero la conse­ il

guenza di un abuso di hascisch o di un narcotico da­ gli effetti analoghi». «Naturalmente non posso condividere queste u­ scite del professor Wirth, che peraltro nel suo cam­ po specifico ha prodotto dei risultati notevoli. Ho solo affermato che anche in Europa sono stati sco­ perti al di là d’ogni dubbio dei singoli casi di uso di hascisch nei secoli scorsi. Beninteso: singoli casi! Tra parentesi, quali sintomi metterebbe in evidenza, professore?». «Riconosco immediatamente i fumatori di ha­ scisch dalla fulminea mutevolezza delle loro inclina­ zioni e degli stati d’animo, e dalla forza di immagi­ nazione accresciuta a dismisura. Un venditore di li­ monate di Aleppo, che ebbi modo di osservare mentre era sotto l’effetto della droga, si credeva l’arcangelo Gabriele. Un postino arabo a Waran si faceva passare per una cavalletta e provò ripetuta­ mente a volare gettandosi dalle mura della città, finché non si spezzò una gamba. Alle volte si riscon­ trano anche atti di brutalità in caratteri normalmen­ te molto calmi e pacifici. Io stesso ho visto a Dama­ sco un guardiano notturno dare, senza alcuna ra­ gione, un tale calcio allo stomaco a un innocuo pas­ sante, che il povero diavolo dovette senza indugio essere portato all’ospedale». «L’effetto della droga dovrebbe manifestarsi in maniera diversa a seconda della razza, vero? » chiese il consigliere. «Andrei addirittura oltre. A prescindere da singo­ li sintomi, che compaiono sempre e dovunque, di­ rei che ogni individuo reagisce in modo particolare all’uso dell’hascisch». Nella foga della discussione i signori si erano fer­ mati. Ma sarebbe sbagliato credere che fossero tal­ mente assorti nella conversazione da perdere il con­ tatto con tutto quanto accadeva loro intorno nel parco gremito di gente. E vero il contrario. Una pal20

la, che un ragazzino aveva strappato dalle mani del suo compagno, rotolando si era fermata davanti ai piedi del consigliere. Lo studioso la raccolse, la guardò pensieroso, tentò quindi di infilarsela nella tasca della giacca, evidentemente convinto che la palla fosse appena sfuggita di mano proprio a lui. Il professor Truxa sorrise indulgente e con delicatezza tolse il giocattolo dalle mani dell’amico, stando ben attento a non disturbare il consigliere nel corso dei suoi pensieri. Subito dopo però dimenticò egli me­ desimo in che modo era venuto in possesso della palla, e confuso se la rigirò tra le mani, senza sapere cosa farne. L’infelice proprietario del giocattolo si era avvicinato e, a pochi passi di distanza, osservava sospettoso, sempre pronto alla fuga, i successivi svi­ luppi della situazione. «Ha sperimentato l’effetto dell’hascisch anche sulla propria persona? » chiese il consigliere. « Sì. Ma solo una volta. Vidi svariati arabeschi di natura erotica ed ebbi disturbi di stomaco». Il pro­ fessor Truxa era pervenuto a una decisione nei ri­ guardi della palla. Con la manica della giacca la ri­ pulì accuratamente dalle tracce di fango e sabbia, soffiò via alcuni granelli di polvere e la depose poi con cautela sul vialetto coperto di ghiaia. Il piccolo si gettò subito sulla sua proprietà e sparì con un ulu­ lato di trionfo. I due studiosi proseguirono nel loro cammino. Erano giunti nella zona meno affollata del parco. Il vialetto, ridotto a un sentiero dalla fitta vegetazione su entrambi i lati, li condusse al loro posticino prefe­ rito, una panchina nascosta dietro un gruppo di are­ naria - dei putti barocchi con un piccolo capriolo e alcuni cespugli, e ombreggiata da due acacie. Sulla panchina però era seduto Stanislaus Demba. Stava facendo colazione. Sedeva piegato in avanti, il capo sorretto dalle mani, e masticava. Quanto ri­ maneva del pane imburrato e alcune fette di salame 21

giacevano vicino a lui sulla panchina. Il soprabito marrone chiaro sembrava servirgli ora da tovaglio­ lo. Gli scendeva dal collo, come il sipario di un tea­ tro, e nascondeva petto, mani, braccia e gambe sot­ to il proprio drappeggio. Le maniche lunghe e vuo­ te si agitavano al vento. Il consigliere e il professore fecero i loro prepara­ tivi. La panchina era bagnata e non troppo pulita. Il professor Truxa si cercò in tasca qualcosa da sten­ dervi sopra e, non trovando subito niente di adat­ to, decise, con la prontezza che contraddistingueva questo studioso nelle piccole come nelle grandi co­ se, di adibire a quell’uso le bozze e i manoscritti, al­ la cui revisione erano destinate quelle ore mattuti­ ne. Bisogna esser grati alla presenza di spirito del consigliere, che all’ultimo momento strappò le pre­ ziose carte all’amico, se fu evitato un danno irrepa­ rabile. Cyrus fu legato col guinzaglio allo schienale della panchina e in compenso liberato della museruola. Poi i signori si accomodarono. Stanislaus Demba sembrò considerare l’arrivo dei due studiosi come un fastidioso disturbo. Smise di mangiare, sollevò il capo e si morse le labbra infasti­ dito. Parve deluso quando vide che venivano avviati preparativi per una permanenza assai lunga, si alzò e fece per andarsene. Ma lo sguardo gli cadde sul pane imburrato. Tentennò, per un momento rima­ se in piedi indeciso, quindi, rassegnato, si lasciò ri­ cadere sulla panchina. Il consigliere Elementi e il professor Truxa aveva­ no ordinato e sistemato i manoscritti, prendevano appunti e si scambiavano osservazioni a mezza voce. Passarono alcuni minuti, poi furono interrotti nel loro lavoro. «Vorrebbe avere la cortesia di richiamare il suo cane?» disse Demba, con un sorriso storto, al pro­ fessore che gli stava seduto accanto. 22

Il professor Truxa sollevò il capo. Cyrus proprio in quel momento stava divorando due fette del sala­ me all’aglio di Demba. «Mi dà fastidio. Non sopporto i cani». La voce di Demba era incrinata dall’ira. «Signor consigliere, ma guardi cos’ha combinato il suo cane! » gridò il professore confuso. « Le chiedo mille volte scusa! » mormorò il consi­ gliere, assai imbarazzato per il comportamento del cane. «Le devo sinceramente chiedere scusa. Cyrus! Qui, da me! ». Non è noto in quale lingua il consigliere Elemen­ ti comunicasse normalmente col cane. Forse Cyrus, dopo una convivenza di lunghi anni col padrone, aveva acquisito alcune nozioni di aramaico e di ara­ bo volgare. Il tedesco non sembrava assolutamente capirlo. Rinnovò l’attacco al salame, e il tentativo del con­ sigliere di tirarlo indietro per le orecchie sorti l’uni­ co effetto che Cyrus si incattivì, ringhiò e tentò di addentargli la mano. Demba seguiva in preoccupata attesa ogni movi­ mento del cane, ma non mosse un dito per scacciar­ lo o per mettere al sicuro il proprio salame. «Non potrebbe spostare la sua colazione dall’al­ tra parte della panchina? Lì il cane non ci arriva di sicuro» pregò il consigliere. «Dall’altra parte? ». Demba non vedeva alcun mo­ tivo per spostare le sue cose dall’altra parte. Non vi era obbligato, osservò. E d’altro canto, di là c’era il sole e il salame al sole si sarebbe sicuramente gua­ stato, questo il signore doveva pur ammetterlo. Il consigliere naturalmente lo ammise, benché il cielo fosse coperto e non vi fosse traccia di sole. «D ’altronde,» continuò Demba «a dir il vero il salame già adesso non è più buono da mangiare. Non è più fresco, lo si può tranquillamente dare al cane. Pane non ne mangia probabilmente. Il pane 23

infatti voglio mangiarlo io. È il famoso pane di se­ gale Hasenmayer, imburrato col migliore burro da­ nese». «Non vuole ugualmente toglierlo da qui?» pregò il consigliere. Cyrus aveva finito il salame e si stava ora avventan­ do senza ritegno sul pane imburrato. Stanislaus Demba deglutì nervosamente, divorò con avidità il pane imburrato con gli occhi, ma non fece nulla per metterlo al sicuro. «B e’! » sibilò furioso. «Il suo cane sembra proprio morto di fame. Neanche un pezzetto ne avanza, neanche il più piccolo pezzetto». «Ma perché non l’ha messo via? » chiese il profes­ sor Truxa. « Il pane è vecchio, sa, e del burro, quando fa cal­ do, ho letteralmente disgusto. Non ne avrei comun­ que toccato neanche un po’». I due studiosi tornarono a dedicarsi al loro lavo­ ro. Ma per Demba la questione non sembrava anco­ ra conclusa. I signori avevano forse qualcosa in con­ trario, fu la sua domanda in tono di sfida, se lui da­ va da mangiare al cane il suo pane imburrato? Era davvero ben strano che certa gente non concedesse al proprio cane quel po’ di cibo che gli spetta, persi­ no quando non viene a costare nulla. II professor Truxa chiese all’amico se non ritenes­ se consigliabile andare in cerca di un’altra panchi­ na. Quel giovane voleva attaccare briga. Per non far­ si capire da Demba, il professor Truxa si servì dell’i­ dioma dei popoli Tuareg del Nord, e precisamente - per maggiore sicurezza - del dialetto di una tribù già estinta da parecchio tempo. Stanislaus Demba sembrava fermamente inten­ zionato a impedire agli studiosi di procedere nel la­ voro. Forse il signore trovava strano che a lui fosse venuto in mente di donare la propria colazione a un cane sconosciuto, volle sapere Demba, investen24

r do il professore con tono irritato. Che c’era di tanto strano? Pane e salame. Per sessantaquattro centesi­ mi li si poteva avere in ogni pizzicheria. O forse il si­ gnore credeva che si dovessero usare particolari trucchi o accorgimenti o sotterfugi per entrare in possesso di pane e salame? «No. Naturalmente no» disse il professore stupi­ to con gentilezza, opinando che il signore fosse, evi­ dentemente, un grande amico degli animali. «Ma tu sei proprio un caro cagnolino!» esclamò Stanislaus Demba con un improvviso moto di entu­ siasmo. «Tu sei un bellissimo cagnolino». Forse i si­ gnori erano disposti a venderlo?, si informò. «No? Peccato! ». Il cane sarebbe stato bene con lui. Stanis­ laus Demba - se gli era concesso presentarsi ai si­ gnori. Demba, laureando in lettere classiche... Già da tempo era alla ricerca di un cane così. « E da chi mai questo cagnolino ha avuto un così bel fiocchet­ to rosso? Ma tu sei veramente un cane carino! Su, dai, vieni qui da me! Vuoi dello zucchero? ». «Va’, Cyrus!» disse il consigliere. «Porgi la zam­ petta al signore!». Cyrus innocente andò vicinissi­ mo a Demba e alzò una delle zampe anteriori. Sembrò che lo studente non avesse aspettato al­ tro. L’infelice bestia invece dello zucchero ricevette una potente pedata e cadde mugolando sul dorso. Dopo di che Demba saltò su e scappò via senza sa­ lutare. L’estremità inferiore del soprabito gli finì sotto i piedi e lo fece quasi incespicare. Si potè udi­ re un leggero tintinnio metallico, simile al risuona­ re di un mazzo di chiavi. Ma Demba mantenne l’e­ quilibrio, arraffò il soprabito e sparì dietro la curva del viottolo. Solo a poco a poco il professor Truxa si riprese dal raccapriccio. «Che individuo brutale! » disse in­ dignato al consigliere. Il consigliere era rimasto stranamente calmo. 25

«Professore!» disse piano senza preoccuparsi del piagnucolante Cyrus. «Ma ha visto? ». «Certo! Un individuo brutale!». «E oltre a questo non ha notato niente in quel­ l’uomo?» bisbigliò misteriosamente il consigliere aulico Elementi. «Io l’ho osservato per tutto questo tempo. Ma ci pensi: quell’improvviso mutamento di umore! Quell’iniziale fame da lupo, che di colpo si trasforma in disgusto per qualsiasi tipo di cibo. Que­ sta esplosione di violenza, questa brutalità contro un innocuo animale, cui poco prima dava da man­ giare con tanto amore. Professore! Ma non capi­ sce? ». «Vuol dire...?» chiese il professor Truxa. «Hascisch! » gridò il consigliere. «Un fumatore di hascisch, cos’altro?». Il professor Truxa si alzò lentamente e guardò il consigliere. «Può darsi che lei abbia ragione, signor consiglie­ re » disse. «Certo che ho ragione! » esultò questi. «A me è sembrato strano il suo modo di portare il soprabito » disse il professore pensieroso. « Come se sotto tenesse qualcosa di prezioso da nascondere agli occhi della gente. I fumatori di hascisch, lei lo sa meglio di me, alle volte sono convinti di portare con sé qualche misterioso tesoro». «Venga, professore,» gridò il consigliere «presto! Forse riusciamo ancora a raggiungerlo, non dobbia­ mo perderlo di vista! ». Rincorsero lo studente talmente eccitati da di­ menticarsi di Cyrus che, legato alla panchina dal guinzaglio, tentava invano di ricordare loro, con la­ trati e mugolìi, la propria esistenza. Ma quando i due studiosi giunsero al limitare del parco, il fumatore di hascisch era già sparito da tem­ po in mezzo alla confusione dei bambini che gioca­ vano. 26

3

La signorina sapeva benissimo quanto le donasse al viso la nuova camicetta di seta con i due fermagli liberty incrociati di color rosso. Quando sedeva su una panchina del parco leggendo un libro, mentre il ragazzino e la bambina, che doveva portare a pas­ seggio, giocavano con la loro piccola autobotte op­ pure riempivano di sabbia tutta una serie di stampi e di formine, succedeva assai di rado che restasse sola a lungo. Ben presto uno o due giovanotti si se­ devano vicino a lei (di solito ne preferiva due, per­ ché era tanto divertente osservare come l’uno in­ tralciasse l’altro); all’inizio facevano finta di nien­ te, come se avessero scelto quella panchina per pu­ ro caso o perché il posto era ben ombreggiato e di­ mostravano un innaturale interesse per ogni possi­ bile inezia: per i passeri e i piccioni, per la gente che passava, per le punte dei propri stivali - finché finalmente attaccavano discorso: «La signorina di certo sta leggendo qualcosa di interessante!». Op­ pure: « Due bambini deliziosi le hanno affidato, co­ me ti chiami, piccola?». O più audaci: «Si rovinerà 27

quei begli occhi azzurri, signorina, a furia di leg­ gere». Da questi esordi non nascevano quasi mai delle conoscenze più approfondite, poiché il più delle volte già al secondo incontro i giovanotti saltavano fuori con proposte, desideri e richieste che andava­ no ben al di là di quello che a una ragazza di buona famiglia - prego, il padre della signorina era stato ispettore capo alla posta e uno zio della madre era tuttora consigliere di sezione al ministero per il Commercio -, che a una ragazza di buona famiglia, si diceva, si può eventualmente chiedere, se è il ca­ so, dopo una più lunga conoscenza. Con certi si­ gnori, anzi, bisognava troncare già dopo due minu­ ti, per il genere di discorsi che facevano. Bisognava saltare su: «Willi! Greti! E ora di tornare a casa!» e piantare in asso lo sfrontato senza troppi compli­ menti. Questo succedeva abbastanza spesso, nono­ stante la signorina non fosse affatto prude, anzi, al contrario, provasse un certo divertimento per i di­ scorsi cautamente allusivi a temi piccanti. La soluzione migliore era che una simile inutile conoscenza si convertisse in uno scambio di cartoli­ ne illustrate. Alla signorina piaceva un mondo farsi spedire cartoline. La posta che arrivava al mattino era per lei il momento culminante della giornata. Spesso, anzi il più delle volte, erano cartoline di qualcuno che ormai le era indifferente o che addi­ rittura aveva dimenticato, l’ultima eco di una mez­ z’ora spesa a chiacchierare. Ma era così divertente quando la signora entrava contrariata in camera e, alla domanda del marito, se il postino fosse già pas­ sato, rispondeva infastidita: «Sì, ma per noi non c’e­ ra niente, solo due cartoline per la signorina». Vicino alla signorina, quest’oggi, non era seduto un giovanotto, ma Frau Buresch, una donna di mez­ za età, che ogni giorno veniva al parco con i suoi due ragazzi. Si conoscevano. I bambini giocavano 28

assieme, tutti e quattro; Frau Buresch e la signorina si scambiavano impressioni sul tempo. « Si è rasserenato, alla fine » disse la signorina. «Io preferirei che piovesse, almeno si saprebbe che tempo fa» considerò pessimista Frau Buresch, tirando fuori il lavoro a uncinetto. «Quando stamattina ho guardato dalla finestra, avrei giurato che sarebbe piovuto tutto il giorno. Adesso invece s’è messo di nuovo al bello. Strano». L’argomento tempo era esaurito, la signorina sfo­ gliò il suo libro, Frau Buresch lavorava. « Nel Votivpark pare che quest’anno mettano del­ le sedie, al posto delle panchine » raccontò la signo­ rina. «Quattro centesimi a testa». «Tutto diventa ogni giorno più caro. Le dico, si­ gnorina mia, è sempre più grigia la vita. Cosa crede che costi quest’anno un chilo di normalissimo... ». Inghiottì tutto il chilo di normalissimo strutto che aveva sulla punta della lingua e ammutolì. Un giova­ notto si era seduto tra lei e la signorina. E quando un giovanotto si sedeva accanto alla signorina, Frau Buresch, per l’amor di Dio, non voleva disturbare. Scivolò educatamente fino all’estremità della pan­ china e si concentrò sul proprio lavoro. Stanislaus Demba portava il soprabito marrone chiaro buttato sulle spalle e abbottonato approssi­ mativamente sul davanti. Le maniche vuote pende­ vano flosce. Demba si era seduto sulla panchina esausto, come chi ha percorso un lungo cammino ed è contento di poter riposare qualche minuto. Solo dopo un po’ di tempo parve rendersi conto che la sua vicina era una ragazza oltremodo grazio­ sa. Si sistemò meglio e la fissò attentamente in volto. Ne fu soddisfatto. Poi lo sguardo gli cadde sul libro. Alla signorina non era sfuggita l’impressione che aveva suscitato. Furtivamente anche lei aveva osser­ vato il giovanotto senza sollevare gli occhi dal libro. 29

Quel giovane non Ir di.spiairva, Cerio, nemmeno con unta la più buona volontà lo si poteva definire elegante, e lei, per la verità, preferiva gli uomini ben vestiti. Ma costui sembrava essere diverso dalla gen­ te che frequentava abitualmente. Forse appartiene alla bohème, pensò. Ne ha tutto l’aspetto. Ha occhi vivaci e dà l’impressione di una persona energica e intelligente. A rifletterci bene, era difficile immagi­ nare quel corpo goffo e massiccio in un abito ele­ gante e di buona fattura. Lui si vestiva come voleva la sua natura, stabilì la signorina. Avrebbe, è vero, potuto dare una spazzolata ai pantaloni, tutti schiz­ zati di fango, prima di sedersi accanto a lei. Non im­ porta! Qualcosa in quel giovane l’awinceva. Decise di favorirne i tentativi di approccio che, lo sapeva bene, non sarebbero mancati. Stanislaus Demba attaccò discorso in modo non proprio originale, informandosi della sua lettura: «E un libro di Ibsen, vero?». La signorina era molto pratica nel trasalire, quan­ do qualcuno le rivolgeva la parola, e nel presentare all’interlocutore un’espressione sgomenta, confusa e leggermente indignata. Stanislaus Demba si sentì subito in imbarazzo. «L ’ho disturbata?» domandò. «Non la volevo di­ sturbare». «Oh no» disse la signorina e abbassò gli occhi, fingendo di continuare a leggere. «Volevo solo sapere se questo libro non era per caso un dramma di Ibsen ». «Sì. Hedda Gabier». Stanislaus Demba annuì col capo, non sapendo più cosa dire. Pausa. La signorina guardava il libro, senza però leggere. Aspettava. Ma Stanislaus Demba taceva. Un po’ lento, pensò la signorina. Gli venne in aiu­ to. « Conosce questo lavoro? » chiese. Quindi abbas30

sù il libro, per far capire che non le importava poi molto continuare a leggere. «Sì, certo che lo conosco» disse Demba. E tac­ que. Alla signorina non restò che voltare pagina e pro­ seguire nella lettura. Era dunque così impacciato? Non sapeva cos’altro dire? S’era forse pentito di averle rivolto la parola? O magari non gli piacevano le due piccole cicatrici che lei aveva sulla guancia si­ nistra? Poco probabile. Tutti trovavano graziose e insolite proprio quelle piccole imperfezioni. No. E­ ra solo timidezza. Decise di concedergli un’ultima possibilità. Lasciò cadere l’ombrello. In un caso simile ogni giovanotto, anche il più sciocco e maldestro, si precipiterà a raccogliere l’ombrello riconsegnandolo alla signora con un in­ chino e alcune parole gentili. La signora ringra­ zierà di cuore e, in men che non si dica, il discorso sarà avviato. Ma questa volta successe qualcosa di mai visto. Qualcosa che nella storia di tutti i parchi pubblici del mondo non era mai accaduto prima: Demba la­ sciò l’ombrello dov’era. Non scattò in piedi, non cercò di afferrarlo. No. Non si mosse, anzi lasciò che fosse la signorina stessa a raccoglierlo. Ma stranamente lei non si offese. Per niente. Per­ ché proprio questo la impressionava in Stanislaus Demba, che fosse così diverso dagli altri. Egli disde­ gnava i logori mezzucci coi quali gli uomini qualsia­ si cercavano di fare colpo sulle donne. Non voleva apparire galante, detestava il vacuo gesto di cavalle­ ria a buon mercato. L’interesse della signorina per Demba crebbe. E forse avrebbe, sul momento, attac­ cato discorso addirittura lei stessa - Frau Buresch era immersa nel suo uncinetto -, non fosse stato per Demba, che di colpo cominciò a parlare. «Fossi suo padre, signorina,» disse «le proibirei di leggere Ibsen». 31

«Veramente? E perché? Forse non è indicato per le giovani? ». «Né per gli adulti né per le giovani» spiegò Demba. «Dà un’immagine distorta del mondo. E la Marlitt1del Nord». «Ma questo dovrà pur dimostrarlo». La signorina conosceva bene il modo di fare di certi giovanotti, che non avevano scrupoli a demolire dei grandi no­ mi, se, grazie ad ardite affermazioni letterarie, riu­ scivano a rendersi interessanti. «L’annoierebbe. Annoia anche me» disse Demba. « Dovrei spiegarle innanzitutto quanto poco e quan­ ta banalità si celino dietro ai suoi simboli. Come tut­ ti i suoi personaggi si inebrino al vuoto suono delle proprie parole... Ma lasciamo stare, i discorsi lettera­ ri mi annoiano. Solo un’ultima cosa: non se n’è an­ cora accorta? Tutti i suoi personaggi sono asessuati». «Ah cosi? Asessuati? ». La signorina non aveva let­ to molto di Ibsen. Santo cielo, era così difficile tro­ vare un attimo di tranquillità per un buon libro. Ol­ tre a Hedda Gabier conosceva solo Spettri. Ma sapeva fare tesoro delle proprie conoscenze e dare l’im­ pressione di una grande cultura e di una padronan­ za pressoché completa della narrativa più recente. «E Osvaldo?» chiese. «Ritiene che anche lui sia asessuato? ». «Osvaldo? Uno studente di teologia mascherato. E non creda al suo bacio nella stanza accanto! ». Stanislaus Demba tentò una battuta. « Infatti è tutto un imbroglio: è un operaio del teatro che nella stanza accanto bacia Regina, o un macchinista, o magari il direttore di scena, ma non Osvaldo». La signorina rise. «Del resto,» proseguì Demba avvicinandosi a lei 1. Marlitt Eugenie (1825-1887), pseudonimo di Eugenie John, scrittrice tedesca, molto nota alla fine dell’Ottocento, autrice di una serie di romanzi sentimentali [N.d.T.].

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«il bacio è una truffa ai danni della natura. Una scappatoia, escogitata dalle donne, per defraudare gli uomini del loro diritto ». «Lei però è esagerato. Non le pare di andare un po’ troppo al sodo?» osservò la signorina. «Baciarsi, accarezzarsi, stringersi l’uno all’altro,» predicò Stanislaus Demba «il tutto solo per distrar­ ci da quell’unica cosa di cui siamo debitori alla na­ tura». La signorina rifletté se non fosse meglio alzarsi e porre termine a una conversazione che minacciava di diventare troppo esplicita. Ma per il momento il suo vicino stava facendo un discorso puramente ac­ cademico, tutta mera teoria, e a dire la verità l’argo­ mento non le dispiaceva. Sbirciò verso Frau Buresch: stava lì seduta con il suo uncinetto e non aveva inte­ so una sola parola, mentre i bambini giocavano a di­ stanza rassicurante. Ma Demba stesso a quel punto cambiò argomento. «Ho fame» disse. «Davvero? ». «Sì. Pensi un po’, è da ieri a mezzogiorno che non mangio». «Lì c’è quella che vende i brezel, la chiami allora e si compri qualcosa». « Lei fa presto a parlare, ma non è così semplice » disse Demba pensoso. « Che ore sono, a proposito? ». « Il mio orologio fa le nove e mezzo passate. Qua­ si i tre quarti » rispose la signorina. «Santo cielo, allora devo proprio andare!» e Demba scattò in piedi. «Veramente? Peccato. E così noioso stare qui se­ duta da sola». «Mi sono perso in chiacchiere» disse lui. «Ho molto da fare. In realtà non avrei nemmeno dovuto sedermi. Ma ero stanco morto e mi dolevano i piedi. E inoltre » - Demba si elevò fino alla più alta vetta di gentilezza di cui fosse capace - « non potevo sempli33

cernente passare davanti a lei signorina. Dovevo a ogni costo conoscerla». « E davvero un peccato che non si possa continua­ re a chiacchierare». La signorina fece dondolare leggermente la punta del piede, lasciando intrave­ dere una caviglia delicata e indovinare una gamba snella e ben disegnata. Disarmato, Stanislaus Demba le fissò il piede e si rimise a sedere. «Avrei piacere di rivederla» disse. «Vado spesso a passeggio con i bambini verso quest’ora. Certo non sempre in questo parco». «E dove va di solito?». «Non c’è una regola. Dipende tutto dalla mia si­ gnora. Io sono bambinaia». «Allora tornerò qui un’altra volta». «Se vuole affidarsi al caso... ma può sempre scri­ vermi » disse la signorina. «Bene. Allora vuol dire che le scriverò». «D ’accordo, si annoti il mio indirizzo: Alice Leitner, presso il signor consigliere imperiale Adalbert Fùchsel, nono distretto, Maria-TheresienstraBe, 18... Perché non lo scrive? ». «Me lo ricordo anche così». « Impossibile. Non si può ricordare a memoria un indirizzo così lungo. Provi un po’ a ripeterlo». Stanislaus Demba ricordava solo Alice e consigliere imperiale Fùchsel. Tutto il resto l’aveva dimenticato. « Ma dunque se lo scriva! » ordinò lei. « Non ho né carta né penna » disse Demba e con­ trasse il volto, adirato. La signorina trasse una matita dalla borsetta e strappò un foglio dal proprio taccuino. « Ecco. Se lo segni». « Non posso » assicurò Demba. « Non può? » chiese meravigliata la signorina. «No. Sono analfabeta. Non so scrivere». «Ma non mi prenda in giro! ». 34

«Non la sto prendendo in giro. È statisticamen­ te noto che lo 0,001 per mille della popolazione di Vienna è costituito da analfabeti. Questo zero virgo­ la zero zero uno per mille sono io». « E dovrei crederle? ». « Certo, signorina! Oggi ha avuto l’onore... ». Stanislaus Demba ammutolì. Un colpo di vento gli aveva strappato dalla testa il cappello e lo aveva fatto volare sul prato, dall’altra parte del vialetto coperto di ghiaia. Stanislaus Demba balzò in piedi e fece al­ cuni passi per rincorrerlo, ma si fermò aH’improwiso, si girò lentamente e tornò al proprio posto. «Sta lì» borbottò «e io non posso prenderlo». « Lei è strano, » rise la signorina « ha forse paura del custode? ». «Se non mi aiuta lei, rimane lì dov’è». «Sì, ma perché?». Stanislaus trasse un profondo sospiro. « Perché sono mutilato » rispose con voce spenta. «Doveva saltar fuori prima o poi. Sono senza brac­ cia». La ragazza lo guardò inorridita senza riuscire a proferire parola. « Sì, » disse Stanislaus Demba « ho perduto tutte e due le braccia». Senza aprir bocca la signorina andò nel prato e prese il cappello. «Per favore, me lo metta... purtroppo, dipendo completamente dall’aiuto degli altri... così, grazie». «Facevo l’ingegnere» raccontò Demba, tornando a sedersi sulla panchina. « Demba, ingegnere presso la ditta Heureka. Sono stato talmente villano da non essermi presentato subito. Conosce la ditta Heu­ reka? No? Produzione di pane. Il famoso pane di se­ gale Hasenmayer. Non ne ha mai sentito parlare? ». «No» sussurrò la signorina e chiuse gli occhi. Adesso cominciava a capire molte cose del compor­ tamento del proprio vicino. Comprese perché poco 35

prima non le avesse raccolto da terra l’ombrello, il poveretto. E perché si fosse rifiutato di prendere no­ ta del suo indirizzo. « E successo nella macina. Sono finito con tutte e due le braccia negli ingranaggi della macchina. Era di... no, non era neanche di venerdì. Era un norma­ lissimo giovedì; il dodici di ottobre». D’un tratto la signorina fu presa dal folle timore che a lui venisse in mente di mostrarle le braccia amputate. Due corti, lividi moncherini... No! Non voleva nemmeno pensarci. Un freddo brivido le sce­ se lungo la schiena. «Purtroppo adesso devo andare» disse piano e in tono colpevole. « Willi! Greti! È ora di tornare a casa». Lanciò un timido sguardo verso il vicino. Che or­ rore, quelle vuote maniche penzolanti! E l’abito li­ so... Quel vecchio soprabito di stoffa a buon merca­ to! Quanto prima le era apparso originalità orgo­ gliosamente esibita, ricercata ineleganza da bohé­ mien, tutto questo adesso lo riconosceva per quello che in effetti era: miseria nascosta con grande fatica. E non aveva ammesso lui stesso di avere fame? «Lavora ancora in fabbrica? » chiese. «Dove? In fabbrica?... ah, nella ditta Heureka... No, che vuole che se ne facciano di un mutilato» disse Demba. Sì, le cose stavano come lei aveva sospettato. Se la passava male... La signorina non aveva molto dena­ ro con sé. Trovò una corona nel borsellino, e una moneta da dieci centesimi. Di nascosto le posò sulla panchina, vicino a Stanislaus Demba. Poi si alzò. Per un momento fu tentata di porgere la mano a quell’infelice. Giusto in tempo riconobbe tutta l’assurdità di un simile proposito. Fece un cenno col capo, si accomiatò dalla signo­ ra Buresch, quindi, prendendo per mano il più pic­ colo dei bambini, si allontanò. Quando giunse all’uscita del parco, le venne in 36

mente che il poveretto non era neanche in grado di prendere i soldi. Ma pensò che qualcuno di certo l’a­ vrebbe aiutato. Forse un passante, o Frau Buresch. Costei, alla quale non era sfuggita una sola parola della conversazione, nonostante avesse dato a cre­ dere di essere concentrata solo sul lavoro a uncinet­ to, fu testimone del momento in cui Stanislaus Demba scoprì il denaro. Ne osservò il volto defor­ marsi in una smorfia di sconcerto, disgusto e delu­ sione, e con stupore vide sbucare da sotto il soprabi­ to le punte di due dita, che con gesto irritato getta­ rono a terra le monete.

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Nell’ufficio della ditta Oskar Klebinder, tessuti all’ingrosso per gilè, non regnava assolutamente un’at­ tività frenetica. Al mattino il capo era stato lì, come tutti i giorni, aveva brontolato un po’ con il perso­ nale e in particolare aveva minacciato di licenziare, il primo del mese successivo, il dipendente Neuhàusl, che era comparso con una buona mezz’ora di ritardo. Aveva poi avuto, nel chiuso della sua stanza, una violenta discussione con il commesso viaggiato­ re Zerkowitz. «Andare a spasso per Vienna, non è per questo che la pago! Non ci penso nemmeno! » lo si era sentito sbraitare. Finalmente, in un conti­ nuo tossire e schiarirsi la voce, aveva dettato due let­ tere alla signorina Postelberg, imprecando al con­ tempo contro l’aria mefitica nelle carrozze della so­ praelevata. Poi però se n’era andato, osservando che probabilmente di lì a un’ora sarebbe stato di ri­ torno; ma questo avvertimento non fece alcuna im­ pressione ai suoi impiegati. Tutti sapevano che vole­ va partire col treno delle dieci per Kottingbrunn, dove quel pomeriggio c’erano le corse. 38

In simili giornate le ore di ufficio nella ditta Oskar Klebinder, tessuti all’ingrosso per gilè, tra­ scorrevano per lo più in cordialità e allegria. Infatti il contabile Braun, che doveva sostituire il capo as­ sente - Mister Brown lo chiamavano le tre signori­ ne, nonostante fosse originario di Mâhrisch-Trübau e non sapesse una parola d’inglese -, ebbene, Mister Brown non era un guastafeste. Lui per la ve­ rità continuava scrupoloso a lavorare al proprio scrittoio, sommava instancabile colonne di numeri, chiudeva conti e ne apriva altri, ma non era mini­ mamente interessato a quanto gli succedeva intor­ no. Colleghi e colleghe potevano trascorrere le no­ ve ore di ufficio come meglio credevano. Solo quan­ do c’era troppo chiasso scuoteva la testa in segno di disapprovazione. Quella volta non c’era troppo chiasso. Ticchettava un’unica macchina da scrivere. Era di Fràulein Hart­ mann, che il giorno dopo voleva andare in ferie e quindi aveva fretta di terminare il lavoro arretra­ to. Fràulein Springer leggeva le notizie sportive sul «Tagblatt». Fràulein Postelberg aveva sistemato due specchi sulla scrivania e dava gli ultimi ritocchi alla nuova pettinatura. Il signor Neuhàusl era intento a maltrattare il suo orologio da tasca, al quale imputa­ va il ritardo di quella mattina. Il praticante Josef, con una matita blu in mano, riempiva trasognato un fo­ glio di carta da cancelleria con prove della propria firma, talmente svolazzante che avrebbe potuto sen­ z’altro essere nominato governatore della Osterreichisch-Ungarische Bank. Dal magazzino proveniva la voce del commesso viaggiatore Zerkowitz che se la prendeva con qualcuno perché il campionario non era ancora stato preparato. « Come mi sta, Ethel? » chiese ora Fràulein Postel­ berg, che aveva appena finito di pettinarsi. «Fatti vedere! Veramente stupenda, Claire » escla­ mò Fràulein Springer. 39

«Claire» ed «Ethel» non sono precisamente no­ mi comuni per delle impiegate di una ditta lungo il Franz-Josefs-Kai. Nessuna delle due signorine avreb­ be potuto legittimamente usare tale nome in base al certificato di battesimo, di nascita o altro docu­ mento. Ma a Fràulein Postelberg non si poteva contestare il diritto di farsi chiamare «Claire». Per quanto un destino avverso l’avesse fatta venire alla luce a Vienna, secondo distretto, come semplice Klara Postelberg, ciò nondimeno era nota presso il personale maschile di tutte le ditte con cui la Oskar Klebinder intratteneva rapporti d’affari, per avere qualcosa di « francese » o di « autenticamente pari­ gino», o, come si esprimeva il commesso viaggiato­ re Zerkowitz, grande esperto di donne, per avere «quel certo non so che». Riceveva lo «Chic pari­ sien » in seconda lettura, era solita leggere romanzi in francese lungo il tragitto da e per l’ufficio, e l’an­ no prima, nel corso di una serata sociale, aveva otte­ nuto uno straordinario successo con l’esecuzione di una chanson francese. Fràulein Springer invece, la corrispondente ungherese, da quando aveva vinto il secondo premio in una gara di nuoto al Dianabad, si faceva passare per una perfetta sportgirl. Infonde­ va paura e spavento grazie alla poderosa stretta di mano, mediante la quale soleva maltrattare al massi­ mo amici e conoscenti, e in ufficio aveva ottenuto con metodi terroristici che il suo nome Etelka fosse abbreviato nel più musicale Ethel. Teneva di prefe­ renza discorsi sull’educazione delle ragazze ameri­ cane, sulla condizione della «donna d’oltreoceano», e riusciva a mascherare il lieve accento unghe­ rese con degli all tight e dei never mind, opportuna­ mente distribuiti. Sonja Hartmann si chiamava veramente Sonja. Si alzò, abbassò il coperchio sulla macchina da scrivere e la chiuse. «Ecco. Finito» disse. «Adesso per dodici giorni 40

non tocco più una penna. Se non per scrivervi car­ toline da Venezia ». L’imminente viaggio di piacere di Sonja Hart­ mann da due giorni era al centro dei commenti di tutti. Il giorno prima, l’esito della sua richiesta al ca­ po - dodici giorni le aveva concesso - era stato atte­ so con ansia e discusso a fondo. Alla definizione del­ l’itinerario aveva contribuito con fervore e solerzia tutto l’ufficio; per gli acquisti necessari e gli altri preparativi aveva dato il suo esperto consiglio il si­ gnor Zerkowitz, uomo di mondo e commesso viag­ giatore. In meno di ventiquattro ore sarebbe partito il treno che avrebbe portato via Sonja, dalla Stazio­ ne Sud verso un mondo di favola. E dire che ancora tre giorni prima nessuno aveva il minimo sentore della fortuna che l’attendeva. Ma ieri l’altro Georg Weiner, il suo innamorato, aveva ricevuto del tutto inaspettatamente dal padre trecento corone, quale premio per un esame superato con buoni voti. No­ vanta corone le aveva lei stessa, depositate alla Cassa di Risparmio, e con esse avrebbe contribuito alla cassa comune per il viaggio. E con quasi quattrocen­ to corone si poteva vedere un bel pezzetto di mon­ do. Certo, il biglietto circolare di seconda classe, Vienna-Trieste-Venezia-Vienna (già ieri in ufficio era passato di mano in mano e debitamente ammi­ rato) , era piuttosto sottile, senza un gran numero di fogli. Ma proprio come nei comunicati ufficiali sugli incontri dei monarchi e le sedute dei ministri le conclusioni più importanti non si trovano nel testo, bensì celate tra le righe, così i veri piaceri di quel viaggio bisognava cercarli non sui fogli perforati del biglietto, ma fra i medesimi. Già sul Semmering vo­ levano interrompere il viaggio per qualche ora e in­ traprendere la salita sul Sonnwendstein. Per visita­ re Lubiana - Graz, Sonja Hartmann la conosceva già - e le grotte di Postumia avevano previsto due pomeriggi. Da Trieste avrebbero fatto escursioni più 41

o meno lunghe a Pirano, Capodistria e Grado, e la permanenza di svariati giorni a Venezia sarebbe sta­ ta interrotta da una puntata a Padova. Perché Pado­ va - aveva dichiarato Georg Weiner - non era pro­ prio una meta mondiale come Venezia, ma si trova­ va fuori dalla corrente dei globetrotter e già nel cuore dell’Italia. Chi era stato a Venezia conosceva solo i lembi di quel paese, ma chi era stato a Padova ne conosceva anche l’interno, lo aveva ribadito il si­ gnor Zerkowitz. Dunque pure Padova compariva fra le mete del viaggio, anche se Sonja avrebbe preferi­ to un soggiorno più lungo al Lido. Da Padova poi sarebbe partito quel telegramma, diretto al capo di Sonja, il signor Klebinder, a causa del quale il gior­ no prima era quasi sorta una lite tra Sonja e Georg Weiner. Sonja voleva a ogni costo un testo irruente, in un tono cioè che sin dal principio non permet­ tesse l’insorgere di una qualche obiezione. Georg Weiner aveva proposto una stesura più diplomatica, e alla fine ci si era accordati sulla seguente sintesi: «Ritorno posticipato causa malessere, rientro ve­ nerdì ». Venerdì significava due interi giorni di ferie in più, che sarebbero serviti, se bastava il denaro, a compiere sulla via del ritorno una gita a piedi attra­ verso la romantica valle della Enn. Sonja accese una sigaretta e si appoggiò allo schienale della sedia, quasi fosse già sul vagone del treno e passasse sferragliando per Mùrzzuschlag, Sankt Peter e Opicina. « Mi scriverete tutti a Venezia? » chiese lasciando fluttuare una nuvola di fumo verso il soffitto. «Ve­ nezia, posta centrale. Anche lei, Mister Brown?». «Ma cosa vuole che le scriva?» domandò Mister Brown senza alzare gli occhi dal registro. « Quel che c’è di nuovo in ufficio ». « Che ci sarà mai di nuovo? » disse il contabile spro­ fondandosi tra due pile di fatture. «Che Koloman Steiner di GroU-Kikinda offra il sei per cento in più 42

probabilmente non le interesserà molto. Beata lei, che non sentirà parlare di noi per qualche giorno». «Ci penserà bene la Postelberg alla varietà» il si­ gnor Neuhàusl si intromise nella discussione. «A­ desso porta i capelli rosso ciliegia, dopo il primo del mese sarà la volta del verde prato, l’ho saputo da fonte attendibile». « Lei con tutta probabilità non ci sarà comunque per vederlo, signor Neuhàusl» si difese la criticata alludendo indelicatamente alla minaccia del capo. « Quindi non occorre che se ne preoccupi. Tra l’al­ tro, per lei sono ancora Fràulein Postelberg, se lo ri­ cordi». «Ragazzi, non litigate in continuazione!» am­ monì Etelka Springer. «Piuttosto, Sonja, cosa dirà Stanie, quando saprà che sei partita con Georg?». «Quello?». Sonja si strinse nelle spalle, sprezzan­ te. «Può dire quel che gli pare. Abbiamo chiuso definitivamente, noi due». «In te è tutto solo egoismo e calcolo» affermò Fràulein Postelberg. «Come fai a dirlo?» saltò su Sonja. «E poi, per fa­ vore, non immischiarti sempre nelle mie faccende private». Tirò fuori dalla borsetta la fotografia del suo innamorato e la mise davanti agli occhi del con­ tabile. «Questo è Georg Weiner. Non è bello, Mister Brown? Non è bello?». Mister Brown si trovava proprio nel bel mezzo di un’addizione e non aveva tempo di sollevare lo sguardo dal registro. «Come un gattino di angora» disse però a ogni buon conto. « Diciassette - ventisei - trentadue. Come un beccofrusone». Dai lunghi anni passati a lavorare nel ramo della seta gli restava il vago ricordo che il beccofrusone fosse un animale dal piumaggio setoso e cangiante. «Seriamente, Mister Brown» lo sollecitò Sonja. «Mi dica, non lo trova proprio un bell’uomo? ». 43

« Cinquantuno - cinquantanove - sessantaquattro. Come un cervo dei Carpazi ». Sonja offesa gli voltò le spalle e depose la foto­ grafia sulla scrivania. «A me dispiace per Stanie» disse Fràulein Postelberg. «Non so perché, ma continuo a pensare a quel ragazzo. Se dessi retta a me, lasceresti Venezia dov’è e Weiner pure, e te ne andresti a Budweis da tua zia come l’anno scorso». Sonja storse la bocca e ritenne non valesse nean­ che la pena di rispondere. « Come un uccello del paradiso » si udì da dietro 10 scrittoio Mister Brown che, mentre sommava numeri, continuava meccanicamente a cercare l’e­ spressione giusta per descrivere la virile avvenenza di Georg Weiner. «Tu non hai problemi. Naturale,» proseguì Klara Postelberg « domani sarai già chissà dove, quando lui verrà e ci farà una scenata. E noi dovremo stare qui a sentirci i suoi rimproveri. Come la settimana scorsa, quando sei andata a teatro con Weiner. Era comple­ tamente fuori dalla grazia di Dio, perché non c’eri. Si è comportato come un matto, peccato non fossi presente, urlava come...». « Come un orso siberiano » aggiunse Mister Brown che si muoveva ancora tra immagini zoologi­ che e non sapeva bene di cosa si stesse parlando in quel momento. «Non ha motivo di agitarsi tanto» disse Sonja tranquillamente. «Gliel’ho già detto e ripetuto che tra me e lui è finita, una volta per tutte. Tra l’altro voi potete dirgli davvero che sono andata a Budweis da mia zia». Il signor Neuhàusl depose il temperino, mediante 11 quale aveva apportato un’importante miglioria agli ingranaggi del suo orologio da tasca. «Se lei s’illude» disse a Sonja «che il suo ex non sappia esattamente quali sono le sue intenzioni...». 44

« Ebbene, che lo sappia » disse lei. « Tanto meglio. Non ho nessun motivo per giocare a nascondino con lui. Dove l’ha incontrato? ». « Ieri sera si è seduto vicino a me al caffè Sistiana » disse il signor Neuhâusl, facendo scattare il coper­ chio dell’orologio e rimettendolo nel taschino del gilè. «Volevo leggere in pace il giornale, ma non ci sono riuscito. Senza interruzioni fino alle nove ho dovuto sorbirmi la storia delle sue pene d’amore, dalle nove in poi i suoi piani di vendetta. E stato mol­ to interessante» concluse ironicamente il signor Neuhâusl. «Com’era? Molto agitato?» domandò Fràulein Postelberg curiosa. « All’inizio sì, ma alla fine gli è venuta un’idea e si è calmato. Ha parlato di seicento corone che vuole pro­ curarsi per andare a Parigi in compagnia della signo­ rina Hartmann, così ha detto, oppure in Riviera». A Sonja Hartmann questa novità non fece alcuna impressione, Fràulein Postelberg al contrario andò in estasi al solo sentir nominare Parigi. «Sonja! » gridò entusiasta, alzando la testa e guar­ dando il soffitto trasognata. «Parigi! I boulevard! Il Père Lachaise! Montmartre! ». «Eau de Cologne» la scimmiottò il signor Neu­ hâusl con una smorfia. «Chapeau claque! Voilà tout!». Poi si alzò e si rivolse al contabile con un bisbiglio insistente. Mister Brown non sembrava ascoltarlo, instanca­ bile scriveva e faceva i suoi calcoli. Solo dopo alcuni minuti depose la penna, dette un’occhiata all’orolo­ gio a muro e si batté la mano sulla fronte. « Sono già le dieci meno un quarto? E possibile? » domandò. « Che ore fa, signor Neuhâusl? Anche lei le dieci meno un quarto? Allora ho già fatto aspetta­ re un quarto d’ora il titolare della Fratelli Goldstein... Una discussione d’affari, signor Neuhâusl, può veni­ re anche lei, così impara come bisogna trattare la 45

clientela. Dovesse tornare il capo, mi chiami al caffè Sistiana, signorina Springer, il cameriere mi cono­ sce. Il numero è 17836 ». «All right, Mister Brown » disse Etelka Springer. « Ha forse qualcosa in contrario, signorina Postelberg? » chiese Mister Brown all’impiegata, che stava scambiando muti sguardi di divertita intesa col pra­ ticante Josef. «Ma cosa va a pensare?» si offese Fràulein Postelberg. «Lo so bene: Les affaires sont les affaires». «Sono pronta a scommettere» disse dopo che i due ebbero lasciato l’ufficio «che adesso va a gioca­ re a carambola con Neuhàusl. Tutte le volte che il capo va alle corse, lui ha delle discussioni d’affari al caffè Sistiana e, guarda caso, porta sempre con sé proprio Neuhàusl». « Fa bene » disse Etelka Springer. Klara Postelberg andò a sedersi accanto a Sonja. «Cos’hai contro Stanie?». «Niente» rispose Sonja. «Assolutamente niente. Solo non gli voglio più bene ». «Ma perché? Da quando?». «Da quando?... Veramente non gli ho mai voluto bene. O forse solo il giorno in cui l’ho incontrato. Da allora ho sempre avuto paura di lui; è scontroso e imprevedibile; quando stavamo in mezzo alla gen­ te, tremavo sempre al pensiero che si mettesse a liti­ gare con qualcuno». «Ma è molto intelligente» replicò Klara Postel­ berg. « E sa assolutamente tutto. Si intende di tutto. Non molto tempo fa mi ha spiegato perché le verduraie stanno proprio al Bauernmarkt, tutte quan­ te, mentre quelle che vendono i fiori vanno sul pro­ lungamento della KàrntnerstraBe. Io l’ho già di­ menticato, ma era interessante. E poi, è alto, è un bell’uomo, non come GeorgWeiner, che...». S’interruppe. Stava suonando il telefono. Balzò in 46

¥ piedi e corse nell’ufficio del capo a rispondere. Po­ co dopo tornò. «Sonja, è per te». «Georg...?». «Sì, credo di sì». Sonja andò al telefono. Klara Postelberg prese il giornale e, cominciando dall’ultima pagina, si mise a leggere gli annunci. Dapprima quelli frivoli che, con balbettanti invocazioni d’amore, tentavano di sedurre «quella graziosa signorina» in bianco, in rosa o azzurro, poi le rispettabili proposte di posati signori in possesso di un modesto, discreto o addi­ rittura considerevole patrimonio. Il praticante Jo­ sef, con l’aiuto di due monete di rame, si divertiva in un eccitante gioco d’azzardo di sua invenzione. Etelka Springer scriveva una cartolina. Solo il fru­ sciare del giornale e il ticchettio dell’orologio a mu­ ro rompevano il silenzio. Improvvisamente Klara Postelberg gettò via il giornale. « Ethel, ascolta un po’! Mi pare stia tornando il ca­ po». La scala di legno, che dal deposito portava al­ l’ufficio, scricchiolava sotto un passo pesante. Due macchine da scrivere cominciarono a pic­ chiettare furiosamente, due teste si piegarono sui fogli inseriti nei rulli. Il naso del praticante prese a muoversi nervosamente di qua e di là tra le pagine di un copiafatture spalancato in gran fretta. Ma non era il capo, il signor Klebinder, che saliva le scale, bensì Stanislaus Demba. Sulla soglia si fermò e, socchiudendo gli occhi, esplorò la stanza. Portava il soprabito marrone chia­ ro gettato sulle spalle. Lo teneva chiuso sul petto con le mani. «Sonja non c’è?» domandò. Aveva l’aria di chi non ha dormito e sembrava affaticato per aver corso e salito le scale. 47

Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

«Ah, è lei signor Demba? Buon giorno! » esclamò Klara Postelberg. «Sonja è di là, nell’ufficio del ca­ po. Sarà subito qui». Tacque prudentemente sul fat­ to che Sonja in quel momento stava parlando al te­ lefono con Georg Weiner. «Aspetterò» replicò Demba. «Allora però, si tolga il cappello, Stanie, per pia­ cere. Qui da noi si usa così» disse Etelka Springer. Stanislaus Demba se ne stava lì, a gambe larghe, impacciato, col cappello in testa, e osservava con spavento Etelka Springer. Una goccia di sudore gli scendeva dalla fronte. Non l’asciugò, ma contrasse solo nervosamente i muscoli della faccia, quasi vo­ lesse scacciare un insetto fastidioso. Ma il cappello 10 tenne. «Vedi, Claire, come si fa» disse Etelka Springer e con rapida mossa glielo tolse. Demba trasalì, ma la­ sciò fare. Etelka Springer sospinse verso di lui una se­ dia. «Ecco, adesso può sedersi. Sonja verrà subito». Stanislaus Demba guardò con odio Etelka Sprin­ ger, e poi, con un’espressione di grande sconcerto, 11 proprio cappello a tesa larga, che lei aveva appeso all’attaccapanni sulla parete. Infine, con una scrol­ lata di spalle, si sedette. «A me però potrebbe ben dare la mano. Io non le ho mica fatto niente » disse Klara Postelberg. Demba sembrò notare solo a quel punto la mano tesa verso di lui, e di colpo divenne loquace. «Ma che manine deliziose ha, signorina Klara. Mai in vita mia ho visto delle mani così nobilmente aristocratiche. Cosa non darei per poter baciare una sola volta questa mano! ». «Ma prego! » lo incoraggiò Fràulein Postelberg e gli porse anche l’altra. «Purtroppo ha delle macchie di inchiostro sulle dita. E questo toglie tutta la poesia » disse Demba. «Oggi è insopportabile, signor Demba». Profon­ damente offesa Klara Postelberg si avvicinò al lava48

bo, che stava tra la finestra e il copialettere, e co­ minciò a strofinar le dita con la pietra pomice. Demba le guardava le mani pensieroso. «Chwoyka, sapone in polvere!» disse d’un tratto. «Le mani fa risplendere». « Ma lei oggi è proprio insopportabile ». «Oggi? E sempre insopportabile» spiegò Etelka Springer. «Non è vero, Stanie? Eppure potrebbe lo stesso stringere la mano a una vecchia amica. Io non ho macchie d’inchiostro sulle dita». Etelka Springer e Stanislaus Demba si conosceva­ no da tempo. In cambio di un invito a pranzo lui ave­ va dato lezioni al fratello minore di lei, riuscendo a fargli superare le quattro classi della scuola media. Grazie a Etelka Springer aveva conosciuto Sonja. Ciò nonostante neppure lei fu ritenuta degna di una stretta di mano. «A lei? » disse Demba storcendo le labbra. « Ma lei spezza il braccio alle persone». «Lei è un villano!» disse Etelka Springer. «Sonja ha proprio ragione, se... » e si interruppe. «Che cos’ha Sonja?». «Niente». «Che cos’ha Sonja?» gridò Stanislaus Demba, e scattò in piedi, pallido come un cencio. «Che cos’ha Sonja?». «Non urli così! Niente» disse Etelka Springer. «Voglio sapere cosa stava per dire di Sonja!» ruggì Demba fuori di sé. « Non stavo per dire niente. Mi lasci fuori da que­ sta storia, per cortesia». Etelka gli girò le spalle. Con uno schianto i pugni di Stanislaus Demba si abbatterono sul piano del tavolo. Si udì un suono, come se la lastra di una specchiera fosse andata in frantumi. Il praticante, che nel suo cantuccio si era appisolato, saltò su e si stropicciò gli occhi. Klara Postelberg ed Etelka Springer si voltarono e videro Demba appoggiato alla scrivania, ansimante, evi49

dentemente spaventato lui stesso per quella esplo­ sione di rabbia. Le mani erano di nuovo sparite sot­ to il soprabito marrone chiaro. «E impazzito, Stanie?» gridò Etelka Springer. « Ha rotto il mio calamaio ». Ma il calamaio era intatto sulla scrivania. Ne era schizzato solo un po’ d’inchiostro, che ora stava for­ mando due piccole isole sul piano del tavolo. «Eppure deve aver rotto qualcosa. Un vetro o qualcosa del genere. Ho sentito chiaramente un tin­ tinnio!». Invano Etelka Springer cercò dei fram­ menti di vetro sul pavimento. «Che cos’ha Sonja?» chiese Stanislaus Demba, ora calmissimo. «Eccola. Glielo chieda lei stesso» fece Fràulein Springer, indicando Sonja Hartmann, che entrava nella stanza richiamata dal frastuono. La visita di Stanislaus Demba non fu una sorpresa per lei. Dacché aveva appreso dei suoi progetti di viaggio - sapeva il cielo chi potesse avergliene parla­ to - c’era da scommettere che sarebbe venuto e avrebbe tentato di trattenerla. La discussione che l’attendeva era inevitabile. Era una delle piccole av­ versità da superare prima di poter intraprendere il viaggio. Anzi, faceva parte di quel viaggio come l’im­ pegnativa preparazione dei bagagli, la gravosa ri­ chiesta al capo, la resistenza alle domande importu­ ne dei suoi invadenti padroni di casa. Sonja abitava presso una famiglia che, oltre a farsi lautamente pa­ gare la camera miseramente arredata e i pasti più che modesti, si sentiva in diritto di esercitare una sorta di sorveglianza sulla vita privata della giovane. Tutte quelle seccature erano state felicemente su­ perate, ora si trattava solo di sopportare quest’ultima discussione con Stanislaus Demba. Sonja era pronta. «Ah, sei tu» disse, atteggiando il viso a un’espres50

sione di timido imbarazzo. «Ti avevo pur chiesto di non venirmi più a trovare in ufficio. Sai, il capo... ». Il tono di voce infastidito fece il suo effetto. Stanislaus Demba infatti si confuse e si trovò sin dall’ini­ zio della discussione nella parte di chi deve difen­ dersi. «Scusami, ti prego, se ti disturbo» disse. «Ma ti dovevo parlare». «E devi farlo proprio adesso?» chiese lei con l’a­ ria più indifferente che le riuscì. « Sì ». «Se è assolutamente necessario, be’, prego, siedi­ ti». Demba si sedette. «Ebbene? Sentiamo» disse Sonja. Per un momento Demba tacque. «Forse però sa­ rebbe meglio, se si potesse... a quattr’occhi...». «Vieni, Claire» disse Etelka Springer. «Non vo­ gliamo disturbare». «No, no! Restate pure. Vi prego, restate. Quanto abbiamo da dirci, il signor Demba e io, lo possono sentire tutti» disse Sonja in fretta. Le piaceva l’idea di rendere le due colleghe testimoni della disfatta di Demba. Ma Etelka Springer non volle rimanere. «No,» disse «è meglio se vi lasciamo soli. Vieni, Claire». «Enfin seul» non potè trattenersi dall’osservare Klara Postelberg, lasciando la stanza dietro a Etelka Springer. Il praticante restò nel proprio angolo, vici­ no al copialettere. Sapeva solo poche parole di tede­ sco - era arrivato a Vienna dal suo paesotto boemo da tre settimane appena -, quindi non si dovevano temere indiscrezioni da parte sua. Oltretutto si era addormentato. «Allora?» chiese Sonja, appena furono soli. Demba si alzò. «Dove sei stata questa notte? ». « Che te ne importa? » saltò su Sonja come una fu51

ria. «Comunque ero da mia zia, che è ammalata e non voleva restare sola durante la notte ». «Dove abita questa tua zia? Nella LiechtensteinstraBe, forse? ». Sonja arrossì. «No, a Mariahilf. Come ti salta in mente la LiechtensteinstraBe? ». «Mi è venuta in mente per caso. Tra l’altro, tua zia non sembra molto grave, altrimenti ben difficil­ mente andresti in viaggio con Weiner». « E questo che si mormora? ». «Sì, proprio questo». « Prego, scusami se ho dimenticato di chiederti il permesso » fece Sonja beffarda. «Tu non partirai! » gridò Demba. «Invece sì, domani alle nove». «Non voglio! » urlò Demba furioso. « Ma io voglio » rispose Sonja molto tranquilla. «Non credo ci sia più bisogno di dirti che in que­ sto caso tra noi sarà finita per sempre ». « E io non credo ci sia più bisogno di dirti che per me è già finita da tre mesi ». «Ah bene,» disse lui «dunque tutto è finito. Solo una cosa volevo ancora ricordarti, che mi avevi giu­ rato che non avresti mai amato un altro uomo all’infuori di me». Demba si aspettava molto dalla rievocazione di quell’episodio, ma Sonja si mise a ridere. « Davvero? » chiese. «Sì,» rispose lui «l’autunno scorso, nella baita Rohrer. Dopo cena andammo nel parco, e tu...». «E magari ti ho giurato anche che non avrei mai più avuto fame? Avrei potuto giurare anche questo. Non immaginavo davvero che fossi così infantile, Stanie». «Vorresti negarlo? ». « No » rispose Sonja. « Ma allora ero una ragazzi­ na, con la quale potevi fare quello che volevi, men­ tre adesso sono una persona che pensa con la pro52

pria testa. È molto semplice». Fece spallucce. «A­ desso per l’appunto tutto è diverso». Demba che, menzionando quella sera, era convin­ to di possedere un mezzo infallibile per far cambiare idea a Sonja, s’imbrogliò completamente. Non era preparato a una simile replica, che «adesso per l’ap­ punto tutto è diverso». Guardò l’orologio e pestò il piede con rabbia. «Ero convinto di poterti ricondurre alla ragione in pochi minuti. Se solo riuscissi a farti capire, quan­ to oggi sia importante per me ogni quarto d’ora! Ho così tanto da fare, e invece devo stare qui a per­ dere il mio tempo per la tua testardaggine ». « Penso anch’io che tu stia perdendo inutilmente il tuo tempo » disse Sonja. «Non c’è altra soluzione» disse Demba deciso. «Non me ne andrò di qui prima che le cose tra noi non siano state del tutto chiarite. Fosse anche la mia rovina. E credo proprio» - guardò l’orologio, sospi­ rando piano - « che sarà la mia rovina». Sonja si fece più attenta. Quelle parole significa­ vano qualcosa? Demba voleva forse incuterle paura? Ma con che cosa? Notò che sembrava nascondere qualcosa sotto il soprabito. Chissà quale ultima carta si preparava a giocare. «Non pensare» disse lui a quel punto «che io provi invidia per questo tuo viaggio. Solo che lo fa­ rai con me. Oggi pomeriggio mi procuro il denaro e mi occupo di tutto il necessario, e domani mattina potremo partire». «Ma davvero?» lo derise Sonja. «Troppo buono, troppo gentile da parte tua». «A Weiner scriverai una lettera di disdetta. Te la detterò io stesso » disse Demba con fermezza. «Adesso finiscila una buona volta di dire assur­ dità. Ne ho fin sopra i capelli. Lo sai bene anche tu, che da te non mi farei mai dettare delle lettere per i 53

miei amici. Per la tua salute mentale sarà meglio se non ci vedremo per qualche settimana». Lentamente Demba si rese conto di non poter nulla contro la fredda, meditata calma di Sonja. Si affaticava da una mezz’ora e non faceva alcun pro­ gresso. Capì di essere impotente di fronte all’ostina­ ta risolutezza di lei e, non conoscendo altri mezzi per tentare di influenzarla, vide persa la partita. E perse la testa. Lo sguardo gli cadde sulla fotografìa di Georg Weiner, che se ne stava sempre sulla scrivania. La vi­ sione del rivale fortunato lo fece andare in bestia, così cominciò a inveire contro di lui. «Quel pallone gonfiato! Quello scimmione da circo! Ma proprio di una zucca vuota come quella dovevi innamorarti! ». Sonja per la prima volta si fece tagliente. « Se adesso cominci a offendere i miei amici, non abbiamo più niente da dirci. Questo tuo comporta­ mento è solo un’ulteriore dimostrazione che noi due non siamo fatti l’uno per l’altra». «Molto bene» disse Stanislaus Demba. Con Sonja era comunque tutto perduto, ma voleva vendicarsi almeno dell’avversario, anche se poteva distrugger­ lo solo in effigie. Scelse un modo stranamente complicato per ve­ nire in possesso dell’immagine. La punta di un dito sbucò da sotto l’orlo del soprabito, si avvicinò alla fotografìa e, presa la mira, la scaraventò giù dal ta­ volo. Essa cadde vicino alla stufa. Subito Demba le fu sopra e si piegò. Ma Sonja, che voleva proteggere l’immagine del suo Georg da ogni maltrattamento, fu veloce quanto lui. Tutte e due cercavano di affer­ rare la fotografia, e fu a quel punto che Sonja toccò la mano di Stanislaus Demba. Emise un grido sommesso e indietreggiò di due passi. Aveva sentito contro la pelle qualcosa di gelido, di 54

duro, per una frazione di secondo aveva avuto la vi­ sione di un oggetto scintillante, dalla lucentezza metallica. Comprese immediatamente: sotto il soprabito Stanislaus Demba teneva nascosta un’arma. Non c’era stato abbastanza tempo per poter distinguere se si trattava di una pistola, di un coltello o di una spranga. Sonja sapeva soltanto che la sua vita era in gravissimo pericolo. Rifletté fulmineamente. A fuggire neanche pen­ sarci. Demba si trovava tra lei e la porta. Dal prati­ cante non c’era da aspettarsi alcun aiuto. Fare bac­ cano avrebbe solo spinto Demba a mettere subito in atto il suo proposito omicida. Decise allora di com­ portarsi come non si fosse accorta di nulla, e di fare tutto ciò che quel pazzo avrebbe preteso da lei. Di lasciar perdere tutto quanto avrebbe potuto irritar­ lo. Solo così poteva sperare di salvarsi. Si rifugiò dietro una delle scrivanie. In quel mo­ mento Demba si rialzò. La fotografia giaceva per terra strappata. Lui la cacciò in un angolo con un piede. Poi si rivolse a Sonja. Le mani con l’arma erano di nuovo sparite sotto il soprabito marrone chiaro. Demba non si accorse che Sonja tremava in tutto il corpo ed era costretta a tenersi con le mani alla scrivania per non cadere a terra. «Ecco,» disse lui «e adesso te lo chiedo per l’ulti­ ma volta: sei sempre dell’idea di partire con Weiner? ». La domanda era puramente retorica, poiché Sta­ nislaus Demba non si aspettava alcuna risposta, avendo ormai perso ogni speranza di farle cambiare idea. Ma lei rispose sottovoce: «Non lo so ancora». Demba, meravigliato, alzò lo sguardo. Il tono era serissimo e non più beffardo come ogni replica di 55

Sonja. Ma non si diede la pena di cercare una spie­ gazione a tale mutamento. «Non hai ancora deciso?» domandò. «Ci devo ancora riflettere». Un unico pensiero si agitava nella mente di Sonja: guadagnare tempo! Solo guadagnare tempo! Lui aveva un’arma tra le mani, era un tipo irascibile, e si trovava ad appena sei passi da lei... «Cosa c’è poi tanto da pensare, Sonja? Gli darai il benservito, e partirai con me. Di’ di sì, Sonja». «Forse» sussurrò lei, intimorita. «Se... » e si bloccò. Cos’altro doveva dire adesso, per tenerlo buono e non provocarlo? « Se mi procuro il denaro che ci serve, non è ve­ ro?». Le si avvicinò. Lei indietreggiò atterrita, ma lui non se ne accorse, era soddisfatto di questa mu­ tata disposizione d’animo di Sonja. « Entro questa sera mi sarò procurato il denaro » disse. «Aspetto il compenso per quel mediocre ro­ manzo d’appendice che ho tradotto in polacco, inoltre posso chiedere un anticipo ad alcune fami­ glie presso le quali do lezioni private. Per stasera avrò i soldi». Lei non ascoltava quanto lui andava dicendo, lo fissava con occhi sbarrati e pensava solo allo stru­ mento di morte nascosto sotto il suo soprabito. Fino a due minuti prima non avrebbe saputo descriverlo; ora, invece, era convinta di aver visto con precisione la pistola, una pistola che il terrore le dipingeva din­ nanzi agli occhi: una Browning, la cui forma ricor­ dava la massiccia chiave di un portone e che, asseta­ ta di sangue, la fissava dalla sua bocca scura. «Per questa sera avrò messo assieme i soldi» ri­ petè Demba, dando un’occhiata all’orologio. «Già le dieci e mezzo! » esclamò. «Al diavolo, ho perso un sacco di tempo. Devo affrettarmi». Adesso se ne andrà, pensò Sonja. Oh, se solo fos­ se già lontano! 56

«Dunque mi prometti che domani partirai con me? » insistette Demba. « Sì » rispose Sonja in un soffio. «Ammesso che... ». Cercava una qualche scusa. «Ammesso che io abbia i soldi. E naturale» la in­ terruppe Demba. «Non dovrai rinunciare a questo viaggio. Se questa sera non ti metto i soldi sul tavolo, allora, per quanto mi riguarda, parti pure con Weiner ». Si accinse ad andarsene, ma si fermò di nuovo e le fece un cenno col capo: « Lo sapevo che ci saremmo accordati, non appe­ na avessimo discusso la cosa ragionevolmente. Ven­ go da te stasera, dopo il lavoro. Per intanto stammi bene. Devo andare, non ho tempo da perdere». Si guardò attorno nella stanza, quasi cercasse an­ cora qualcosa, quindi si morse le labbra e alzando le spalle si diresse verso la porta. Prima di arrivarci, colto da un improvviso impeto d’ira, spinse violen­ temente da parte una sedia, che si era trovato tra i piedi. Subito dopo i suoi passi rimbombarono giù per le scale. Quando Etelka Springer e Klara Postelberg rien­ trarono nella stanza, trovarono Sonja che singhioz­ zava, il viso nascosto fra le mani. « Cos’è successo? » gridò Klara. «Voleva spararmi. Voleva spararmi con una rivol­ tella». Etelka Springer scosse il capo. «Sciocchezze! » disse. «Conosco Stanie troppo be­ ne. Di certo la rivoltella non era carica, ma tu ti sei lasciata intimorire ». «No! » affermò Sonja. «Non l’ha neanche mostra­ ta. Per tutto il tempo l’ha tenuta nascosta sotto il so­ prabito. Solo per un caso sono riuscita a vederla». Ricominciò a singhiozzare. «Perché mi avete lascia57

la sola con lui? Eppure vi avevo chiesto di rimane­ re... Mai prima d’ora sono stata in simile pericolo». Tremava ancora in tutto il corpo. Etelka Springer si fece pensierosa. «E violento, questo è vero,» disse «e molto irrita­ bile. Ma...» si interruppe. «In ogni caso devi avverti­ re Weiner». « Torna a Vienna solo questa sera. Poco fa, al te­ lefono, m’ha detto che andava dai suoi genitori a Módling». «Dobbiamo togliere la rivoltella a Stanie. Con le buone o, se non c’è altro mezzo, con la forza» di­ chiarò Etelka. «Dov’è adesso?». «Non lo so, se n’è andato». « Ma no, se lì c’è ancora il suo cappello ». Era vero, il cappello di feltro a tesa larga di Stanislaus Demba era ancora appeso all’attaccapanni. Senza cappello se n’era scappato via, alla furiosa ricerca di denaro.

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5

Oskar Miksch si stiracchiò, si stropicciò gli occhi sba­ digliando, e si sollevò per metà sul letto. Che ore fos­ sero non lo sapeva, ma di certo non era ancora tardi. Non poteva aver dormito a lungo. Non si era svegliato spontaneamente. Un tintinnio l’aveva destato, come di piatti, coltelli e forchette che si urtano tra loro. Ricordò che i resti della sua colazione, qualche sorso di tè e del pane sbocconcellato con la mar­ mellata, erano rimasti sul tavolo, e cominciò a im­ precare, interiormente ma con intensità, contro la padrona di casa, Frau Pomeisl, che una volta di più riordinava il tavolo mentre lui stava ancora dormen­ do, facendo rumore senza necessità. Ma appena i suoi occhi si furono abituati alla pe­ nombra della stanza - prima di andare a letto, al mattino, aveva l’abitudine di chiudere le imposte, per non essere disturbato dalla luce del giorno -, si rese conto di aver fatto un grave torto alla rispetta­ bile matrona. Non era lei ad avere sulla coscienza il suo sonno interrotto, ma il compagno di stanza, Stanislaus Demba, di solito tanto silenzioso. 59

Stava chino sopra il tavolo e, Miksch lo intravede­ va confusamente, divorava il pane e marmellata in maniera comica e grave: lo alzava in alto e lo porta­ va alla bocca con entrambe le mani, dando l’im­ pressione di celebrare solennemente una cerimonia sacra. E ogni volta che abbassava le braccia, il piatto tintinnava per qualche misterioso motivo, e proprio quel suono aveva destato Miksch. Sulla sedia vicino alla porta poi, era seduta un’al­ tra figura, che a un’osservazione più attenta si rivelò il soprabito marrone chiaro di Demba, ingrandito dalla sua stessa ombra. Miksch si meravigliò di vedere Demba a quell’ora. In genere non si incontravano per giorni e giorni. Miksch faceva il ferroviere e il più delle volte rien­ trava dal lavoro verso le nove di mattina; per quel­ l’ora Demba di solito aveva già lasciato l’apparta­ mento; durante il giorno compariva solo di rado e la sera, quando Miksch ritornava al lavoro, spesso non era ancora rincasato. Dividevano la stessa stanza or­ mai da quasi sei mesi, ma si erano parlati appena una dozzina di volte. Le cose d’una certa importan­ za avevano cura di comunicarsele l’un l’altro me­ diante messaggi lasciati in bella vista. Delle vicissitu­ dini di Demba, Miksch era assai informato, sapeva esattamente quando era a corto di soldi, se era in ansia per gli esami o aveva mal di denti, se era impe­ golato in avventure amorose o si dibatteva fra pro­ blemi di guardaroba. Lo studente infatti aveva l’abi­ tudine di lasciare in giro lettere, libri e quaderni di appunti, e la propensione di Frau Pomeisl a raccon­ tare sempre tutto dell’uno all’altro faceva il resto. Di tanto in tanto, con i messaggi i due si chiede­ vano vicendevolmente un favore, per esempio pren­ devano a prestito dei vecchi pantaloni da frac, un colletto fresco di bucato, o una somma di denaro per un ammontare massimo di cinque corone. 60

«Buon giorno! E buon appetito! » esclamò Oskar Miksch rivolto allo studente. Stanislaus Demba trasalì e guardò verso il letto per un attimo. Evidentemente solo ora si accorgeva che Miksch si era svegliato. Il piatto tintinnò di nuovo e subito dopo Demba scomparve dietro il tavolo, così repentinamente come se ne fosse stato inghiottito. « Che c’è, Demba? Le è caduto qualcosa? Che sta cercando? Aspetti, faccio luce». Miksch balzò dal letto e si avvicinò alla finestra per aprire le imposte. Ma appena un timido raggio di sole penetrò nella stanza, Demba si mise a urlare, colpito dalla luce come da una pugnalata: «Al diavolo, cosa le salta in mente di aprire le im­ poste? Non sopporto la luce, mi fanno male gli oc­ chi». «Le fanno male gli occhi?». Miksch richiuse im­ mediatamente le persiane e nella stanza fu di nuovo buio pesto. « Sì, ho dei fortissimi dolori agli occhi. Prima o poi dovrò decidermi ad andare da uno specialista». Dem­ ba era riemerso da dietro il tavolo e sembrava voler ac­ coltellare la pagnotta che vi era poggiata sopra. «Dannazione, non ci riesco» imprecò. «Su, mi ta­ gli una fetta di pane, Miksch». «Così non ci riuscirà di sicuro» disse quello. « Guardi, bisogna prendere il pane con una mano e il coltello con l’altra». «Vada al diavolo! » ruggì Demba con uno scatto d’ira del tutto inspiegabile. «Non stia a darmi consi­ gli, mi tagli un pezzo di pane, piuttosto». «E solo pigrizia la sua» rispose l’altro tranquillo, allungandosi sopra il tavolo verso la pagnotta e il coltello. «Mica le dispiace farsi servire di tanto in tanto, eh? Eccole la sua fetta di pane. Per spalmarla però dovrà arrangiarsi da solo». Demba mangiò, usando di nuovo entrambe le mani per portare il pane alla bocca. Nella stanza 61

buia sembrava un sollevatore di pesi che, con tutte e due le mani, alzasse faticosamente cinquanta chili. Nell’oscurità, Miksch cercò brancolando i panta­ loni e le ciabatte, quindi cominciò a vestirsi. «Veramente sto mangiando la sua colazione» dis­ se Demba. «Ma no. Sono sazio». «Avevo fame. Ero quasi disperato per la fame. Non ho mangiato niente da ieri a mezzogiorno e questa mattina un cane mi ha portato via la colazione ». «Un cane?». «Sì, un maledetto bastardino a chiazze marroni. E io ho dovuto semplicemente stare a guardare». «Perché ha dovuto?». « Casualmente in quel momento non avevo le ma­ ni libere. Ma a lei che importa? Talvolta ci sono del­ le situazioni in cui uno non può usare le mani. Ma io la sto distogliendo dal sonno». « Non sono stanco. Posso dormire ancora qualche ora nel pomeriggio. Oltretutto, ci vediamo così di rado... Come mai a casa oggi? Niente università? Nessuna lezione privata? ». « Sono venuto per farmi imprestare una mantella da Frau Pomeisl. Il mio soprabito è strappato, e lei ha in casa gli abiti di suo figlio che è militare ». «Il suo soprabito è strappato?». «Sì, ha un buco. Il cane, sa, ha cercato di adden­ tarlo». «Può prendere il mio. Mi serve solo questa sera. Nel frattempo, Frau Pomeisl avrà rammendato il suo». «No, grazie. Il suo mi va troppo stretto». «Ma se abbiamo la stessa taglia». «No, la ringrazio davvero. Metterò la mantella che il figlio ha lasciato a Frau Pomeisl ». «Come vuole. Per il resto, niente di nuovo?». «Di nuovo? Niente. Sonja vuole andare a Venezia con Georg Weiner». 62

« Georg Weiner. Chi è? ». «Un idiota. Un fesso da circolo del tennis. Uno che non parla mai d’altro che di qualche nuovo ve­ stito che ha ordinato». « Gli dia la sua benedizione ». « Ma non dica stupidaggini. Lei forse sarebbe di­ sposto a farsi derubare? » gridò Demba furioso. «E chi la sta derubando?». «Perché, non è un furto, se uno mi porta via Sonja?». «No, è libera. Non è legata a lei. Può fare quello che vuole». «Ebbene. Lei ha un posto presso la ferrovia. E un protettore al ministero. Se ora qualcuno la volesse soppiantare nei favori del consigliere di sezione, che pure è “libero” e può fare quello che vuole, per prendere il suo posto - lei lo permetterebbe? Io do­ vrei stare a guardare, mentre un altro mi porta via Sonja? Se un poveraccio ruba un pezzo di pane, vie­ ne messo in prigione, ma contro questi predoni del­ l’amore non c’è nessuna legge? ». «Ha intenzione di sposare quella ragazza?». «No».

«Vede! L’avrebbe lasciata fra qualche settimana. La perdita non è quindi così grave ». «Fra qualche settimana. Può darsi. Ma per ora non ho ancora finito». «Che significa: “non ho ancora finito”? Pochi giorni o settimane non potranno avere tutta questa importanza». «No, ma non è ancora finita, non lo capisce? Co­ me posso spiegarglielo? Stia a sentire: lei mangia un salatino. O una pera. Poi mette da parte l’ultimo pezzetto, lo conserva in qualche posto, più tardi lo cerca, e non lo trova più. Per tutto il giorno avrà fa­ me di quel pezzetto. Potrà mangiare altre cose, quante ne vuole, cose cento volte più buone: sentirà sempre la mancanza di quel pezzetto di pera. Per 63

tutto il giorno avrà l’inconscio, ardente desiderio, nel palato e sulla lingua, di quella pera, solo perché non ne ha mangiato l’ultimo pezzetto». «Be’, allora?». «Così succede con Sonja Hartmann. Forse l’avrei dimenticata in poche settimane. Esistono altre perso­ ne, anche molto più meritevoli di Sonja Hartmann. Ma poiché ieri lei ha chiuso con me, oggi non posso vivere senza di lei. L’ultimo boccone... Non capisce? Miksch, deve procurarmi del denaro». «Sei corone gliele posso dare subito». «Sei corone? Me ne servono duecento». « Duecento corone? Buon Dio, e io dovrei procu­ rargliele?». Miksch si mise a ridere di tutto cuore. «Ache le servono tutti quei soldi?». «Voglio andare a Venezia con Sonja ». «Dovevo immaginarlo. Pensa di poter risolvere tutto coi soldi? Anche se la ragazza preferisce l’al­ tro! ». « Se ho il denaro, lei viene con me ». «Crede davvero?». « Io non credo niente. Lo so » disse Demba. « So­ no stato da lei mezz’ora fa e me lo ha promesso. A tal punto sono riuscito a riportarla alla ragione. Con un po’ di diplomazia e di conoscenza dell’animo umano si ottiene tutto. Lei ha da sempre l’indoma­ bile anelito a vedere il mondo. Deve fare questo viag­ gio, e per lei è secondario chi l’aiuti. Se per questa sera mi procuro il denaro, Weiner è sistemato». « Con la sua conoscenza dell’animo umano non si è mai combinato un granché, caro Demba» disse Miksch scettico. Demba non lo ascoltava. « E dire che questa mattina per poco non riuscivo ad avere le duecento corone che mi servono. Se so­ lo avessi allungato le mani in tempo! Ma ho aspetta­ to troppo e, da allora, l’allungare le mani mi risulta 64

decisamente più difficile. Vorrei prendermi a sber­ le, se... ». « Se? ». « Se potessi farlo. Ma anche questo non è più così semplice». Scoppiò in una breve risata. «Bastai Dunque lei non ha soldi da darmi. Allora dovrò ve­ dere di procurarmeli da un’altra parte. Mi stia be­ ne... Sì, giusto: la mantella! Signora Pomeisl! ». Dalla stanza a fianco giunse un ciabattio. La pa­ drona di casa infilò la testa nell’apertura della porta. «Ha chiamato, signor Miksch? Maria Vergine, che buio qua dentro. Non si vede neanche la propria mano». «Signora Pomeisl,» la pregò Demba «potreb­ be imprestarmi per oggi la mantella, che una volta portava sempre suo figlio? Il mio soprabito si è strappato». «Vuole la mantella del mio Anton? Ma perché no! Solo le sembrerà troppo malconcia, signor Miksch, pensi che il mio Anton gli ultimi tempi, prima di an­ dare militare, non ci voleva neanche più uscire, con quella mantella. Aspetti, vado subito a tirargliela fuori». Frau Pomeisl sparì nella camera accanto e di lì a poco tornò con la mantella. « Ecco, eccola qua, signor Miksch. Insomma, puz­ za un po’ di naftalina». «Non fa niente. Dia pure qua» disse Demba. «E proprio comoda, una mantella così. Te la butti sem­ plicemente addosso e la abbottoni sul davanti, senza doverti prima tormentare a infilare le braccia in quelle maledette guaine, che il diavolo se le porti... ». «In quali guaine?» chiese Miksch. «Nelle maniche. Non sopporto le maniche. Apra le persiane, Miksch». « Non ha più dolori? ». «Dolori? Che dolori?». «Dolori agli occhi». 65

«No, per tutti i diavoli! Non mi faccia perder tem­ po con le sue domande e apra le persiane ». La chiara luce del giorno inondò la stanza. Demba andò davanti allo specchio, che formava la porta dell’armadio ed era il pezzo forte del mo­ desto arredamento della camera. Osservò la propria immagine riflessa e annui col capo. La mantella sembrò avere la sua approvazione. «Maria Vergine, ma è lei, signor Demba!» gridò Frau Pomeisl, che l’aveva riconosciuto solo adesso. « Se avessi saputo che era in casa! Pensavo fosse fuo­ ri. Un momento fa l’ha cercata il postino dei va­ glia». «Il postino dei vaglia? E andato via? Non l’avrà mica lasciato andar via? » gridò Demba. «No, è salito al quarto. Dovrebbe tornare giù su­ bito. Ha un vaglia per lei». «Bene. Allora andrò fuori e lo fermerò». Stanislaus Demba si volse verso Miksch, ridendo. « E il si­ gnor Weiner sarebbe sistemato. Sono i soldi di quel­ l’editore da strapazzo per il quale ho tradotto un ro­ manzo in polacco. Un mediocre romanzo d’appen­ dice per servette, quattrocento numeri a venti cen­ tesimi l’uno, in ogni numero un omicidio a scopo di rapina o un incendio doloso o un’esecuzione capi­ tale o uno scambio di bambini - ce n’è per tutti i gu­ sti. Per la verità, me ne dovrei vergognare, ma lei sa com’è, Miksch: non olet. E oltretutto non mi fa aspet­ tare troppo i miei soldi. Questi selvaggi, alla fine, so­ no migliori di quanto sembrino». «E guarda caso, i soldi arrivano proprio oggi. Ha davvero fortuna, Demba». «Fortuna? Ho una maledetta, miserabile sfortuna, invece! » esclamò Demba. «Perché non potevano ar­ rivare ieri? Buon Dio, se solo fossero arrivati ieri! ». «Be’, dove starebbe la differenza? ». « Che forse avrei dinnanzi a me una giornata più 66

tranquilla, nient’altro» rispose Demba, fissando il pavimento. Poi si riscosse: « Devo andar fuori, altrimenti mi scappa il posti­ llo ». Dopo pochi minuti fu di ritorno. Aprì l’armadio senza dire una parola e sprofondò tra vecchi panta­ loni, gonne, panciotti. Quando riemerse, aveva in testa un vecchissimo cappellaccio, bisunto e lucido, con gli orli sfilacciati, un mostruoso matusalemme di cappello che Miksch già da anni aveva messo a meritato riposo. «Per l’amor di Dio! Non vorrà mica andare in mez­ zo alla gente con quel cappello? » esclamò Miksch. «Non ne ho altri». «E il suo dove l’ha messo?». «L’ho lasciato da qualche parte». «Ma come si fa a essere così sbadati?». «Non è stato per sbadataggine, ho dovuto lasciar­ lo». «Dovuto? Perché dovuto?». Demba perse la pazienza. «Non continui a fare domande. Non se lo può immaginare? Finirà col farmi arrabbiare con la sua dannata mancanza di fantasia. Bisogna proprio spie­ garle tutto, per filo e per segno. Dunque: tira vento. Il cappello mi vola sui binari del tram. Io gli corro dietro e sto per prenderlo... quand’ecco che arriva il tram. Alle volte è meglio non allungare la mano, se non si vuole finire sotto le ruote, Miksch». «Deve subito comprare un cappello nuovo, Dem­ ba. Adesso li ha i soldi». «No, i soldi non li ho». « Non è venuto il postino? ». « Oh sì » disse Demba. «E magari alla fine i soldi non erano nemmeno destinati a lei?». « Sì invece. Erano per me. Ma... ». Fu preso da un impeto d’ira. Come un matto 67

colpì la poltrona di felpa rossa di Frau Pomeisl, poi guardò insistentemente attorno in cerca di qualcosa da fare a pezzi. Il parafuoco finemente cesellato, sul quale era raffigurata la leggenda di santa Genoveffa, ebbe la sfortuna di attirare su di sé l’attenzione di Demba. Ricevette un calcio, cadde a terra gemendo e morì della morte del martire. Questo sembrò cal­ mare Demba quel tanto da permettergli di conti­ nuare il racconto. «Non ha voluto darmi il denaro! » smaniò. «Solo dopo una firma! Voleva costringermi a prendere in mano la sua schifosa matita copiativa, il suo libro ap­ piccicaticcio, e a scrivere il mio nome su una sudicia riga. Altrimenti non poteva darmi i soldi, ha detto. I miei soldi, ha sentito, Miksch? I miei soldi! ». «E allora?». « Io non mi faccio ricattare » disse Demba. « Non ho firmato».

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«Steffi?... Sì?... Finalmente! Grazie a Dio! Era un quarto d’ora che non riuscivo a prendere la linea. So­ no Stanislaus Demba... Sì... Salve, Steffi, ascolta: ti de­ vo parlare. Subito, se possibile. Non puoi? Buon Dio, solo a mezzogiorno? Adesso è proprio impossibile, forse il tuo capo ti lascia... No? Signore, devono an­ darmi storte tutte, oggi? Allora a mezzogiorno, in no­ me di Dio. Potremo almeno stare soli? Indisturbati? Bene, verrò... Non te lo posso dire al telefono. Sì, cer­ to che te lo racconterò, è ben per quello che vengo da te. No, non posso proprio per telefono. Fuori c’è uno che sente ogni parola ed è già spazientito perché gli tocca aspettare così a lungo. Allora, alle dodici... Dopo le dodici... Bene... Bene... Salve, Steffi! ». Demba uscì dalla cabina telefonica e fece acco­ modare un piccolo signore grasso, che lo guardava furioso, borbottando incomprensibili vituperi. Do­ po pochi passi, qualcuno lo chiamò dall’altra parte della via. «Buon dì, Demba! Dove va di bello? Aspetti, l’ac­ compagno un po’». 69

Demba aspettò che Willy Eisner attraversasse. Poi gli fece un rapido cenno col capo. «Cos’ha combinato? Non lavora più alla banca che può andarsene a spasso la mattina?». Willy Eisner diede un tiro alla sigaretta ed espirò il fumo. « Oh sì, » rispose « crede che la banca mi lascerebbe andar via? No, vengo dalla Borsa, avevo da fare lì ». A Willy Eisner piaceva raccontar fandonie. Era un modesto impiegato della Zentralbank, reparto ri­ scontri. Con le operazioni in Borsa della banca non aveva nulla a che fare. Era semplicemente stato inca­ ricato di accompagnare un commesso che portava con sé un notevole quantitativo di denaro, e dopo il disbrigo di quella faccenda non aveva saputo resiste­ re alla tentazione di passeggiare un po’ sulla RingstraBe - i guanti glacé nella mano destra, il bastonci­ no nella sinistra. Willy Eisner non si sentiva al posto giusto in un ufficio. Invidiava tutti quelli che svolge­ vano una libera professione e non erano quindi le­ gati a precisi orari: avvocati, artisti, agenti di cambio. Come vita ideale immaginava l’esistenza di chi la mattina legge tranquillamente la posta, poi va al caffè e, allungato in un’accogliente poltrona, la siga­ retta in bocca, un bicchierino di liquore sul tavolino di marmo davanti a sé, osserva il viavai lungo la stra­ da; di chi verso mezzogiorno, ora del passeggio, gi­ ronzola per il Graben quel tanto che gli garba, vede conoscenti e ne è visto, scambia con gli amici an­ noiate osservazioni sulle signore eleganti, poi pranza senza fretta e infine, il pomeriggio, seduto alla pro­ pria scrivania, conclude affari di estrema importan­ za. Willy Eisner, invece, dalle otto alle dodici e mez­ zo, e dalle due alle cinque e mezzo, era costretto a dividere l’ufficio con otto colleghi, a confrontare ininterrottamente conti e numeri e a spuntare gli importi esatti con un segnetto a matita. 70

Parlava lentamente, con frasi ricercate, e dopo al­ cune parole inseriva una piccola pausa per conferi­ re loro maggiore efficacia; insomma, era convinto che tutto il mondo lo ascoltasse a bocca aperta non appena riteneva opportuno lasciar cadere un’osser­ vazione. «Ho dovuto abbandonare il mio appartamento. Veramente un bell’appartamento. Ma era diventato un po’ troppo stretto per me... avevo bisogno di una stanza in più per la biblioteca... ». « Mi scusi, » disse Stanislaus Demba « deve cammi­ nare un pochino più in fretta, ho poco tempo». «Mi dispiace per l’appartamento» proseguì Eisner, mettendosi al trotto. «Vi ho trascorso molte ore piacevoli. Quante ragazze carine sono state lì a tro­ varmi, ragazze davvero carine...». « Io adesso vado nella Kolingasse » lo interruppe Demba. «Non è nella sua direzione, vero?». «Nella Kolingasse? Allora posso accompagnarla solo per un breve tratto. Ho troppo da fare in ban­ ca. Proprio troppo da fare. Deve sapere che io deli­ bero, rappresento, tratto, combino affari...». «Ah» fece Stanislaus Demba distrattamente. «Ieri il barone Reifflingen mi chiede - conosce Reifflingen? Qualche volta mangio con lui all’Imperial - allora ieri mi chiede: “Che ne pensa della Gleisbacher Union, ha una buona opinione di quei tito­ li?”. E io gli dico: “Caro barone, lei sa, segreto pro­ fessionale! Purtroppo ho le mani legate, ma...”». Stanislaus Demba si fermò e aggrottando la fronte guardò l’altro. «Che sta dicendo? Le mani legate?». «Sì, perché infatti...». «Ah così, ha le mani legate. Deve essere fastidio­ so». « Cosa intende dire? ». « Deve essere fastidioso » ripete Demba con sguar­ do ironico. «Le mani legate! Immagino le punte delle dita che si gonfiano a causa del ristagno di san71

gue, tanto da dare l’impressione di scoppiare. Poi il dolore, che sale su fino alle spalle...». «Di che sta parlando?». « Mi figuravo soltanto come deve sentirsi ad anda­ re in giro con le mani legate». «Ma io volevo solo dire: le mani legate, perché, sa, gli interessi della banca... ». «Basta adesso» gridò Demba. «Perché parla di cose di cui non sa nulla, delle quali non pensa nulla e per le quali non prova nulla? Le parole che dice nascono già morte e puzzano di carogna non appe­ na escono dalla sua bocca». « Che le salta in mente di fare un baccano simile! In mezzo alla strada. Gliel’ho pur data alla fine l’informazione. Gli ho detto: “Vede, barone, non la voglio certo sconsigliare, io stesso ho comprato, ma è stato per l’appunto un salto nel vuoto. Se io...”». «Cosa dice? Un salto nel vuoto? Molto bene! Per­ fetto. Di sicuro sarà già saltato una volta. Nel vuoto. No? ». Stanislaus Demba cercava a fatica di reprime­ re uno dei suoi impeti d’ira e si sforzava di parlare con la massima calma. «Non è vero? Si guarda giù e all’inizio non si ha paura, si pensa: Deve succedere. La paura, una paura terribile, viene solo nell’istante in cui si perde l’appiglio e si comincia a cadere. So­ lo allora, in quell’istante. Si vede con molta più chiarezza quanto succede attorno a noi. Si sentono le gocce di sudore sulla fronte. E dopo - ebbene, che succede dopo? Be’?». « Non so cosa lei voglia da me » disse Willy Eisner, stupito. « Come? » urlò Stanislaus Demba. « Non lo sa? E si permette di dire: “Salto nel vuoto”? Io, se lo dico, comincio a sudare freddo e mi tremano le ginoc­ chia. Ma lei, lei lo dice cosi, a cuor leggero e non prova nulla». «Ogni uomo è, per l’appunto, diverso dall’altro, 72

caro Demba» disse Eisner. «Non tutti possono avere la sua fantasia. Io, tra l’altro... ». «Lei ha le mani legate, lo so. In lei, tutto quello che per altri è stata una sofferta esperienza, degene­ ra a stridulo modo di dire. Ma provi un po’ a imma­ ginare cosa significhi, mani legate. Una volta ho so­ gnato che dovevo colpire un disgustoso idiota in pieno grugno, e non potevo! Avevo le mani legate, le mani veramente legate, e non da segreto profes­ sionale, bensì da catene ai polsi, una mano legata al­ l’altra...». «Fa sempre dei sogni così movimentati?» chiese Willy Eisner, che cominciava a sentirsi a disagio. «Adesso la devo lasciare. Il lavoro mi attende. Arri­ vederci». «E questa cos’è?» chiese Demba, piegandosi so­ pra la mano tesa di Eisner. «Voglio darle la mano, nonostante il comporta­ mento, devo ben dire, singolare, che lei... qui, in mezzo alla strada... ma pare, che lei... ». Alzò le spal­ le e fece per andarsene. « Molto bene » disse Demba. « Ma dica, carissimo, come si fa a dare la mano a qualcuno quando si hanno le mani legate? Non me lo vuol dire?».

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Tra le undici e mezzo e le dodici, all’awicinarsi dell’ora di pranzo, al caffè Hibemia di fronte alla Borsa regnava di solito una gran calma. La schiera degli agenti di cambio, imprenditori e speculatori che nelle ore mattutine affollavano il lo­ cale in un chiassoso andirivieni, vi consumavano la colazione, concludevano affari, discutevano di con­ giunture, sbrigavano la corrispondenza e nel frat­ tempo sfogliavano e studiavano i giornali, oppure li mutilavano strappando via i listini, si era dispersa in tutte le direzioni. Il traffico pomeridiano del caffè, quando vi sfilavano i giocatori di domino, di biliar­ do, di tarocchi e di scacchi, cominciava solo dopo l’una. Franz il cameriere, cui a quell’ora spettava an­ che di fare il conto ai clienti - il capocameriere era a pranzo -, stava appoggiato a un tavolo da biliardo e a occhi socchiusi, con indolenza, seguiva le mosse di due avventori, due commessi viaggiatori, che non avevano ancora terminato la loro partita a carte. La signorina alla cassa mangiucchiava dal vassoio le bri­ ciole di una Linzertorte già tagliata. 74

Entrò Stanislaus Demba. Tenne il cappello in te­ sta, ma questo, in un caffè situato in mezzo al quar­ tiere degli affari, nel quale i clienti spesso entravano solo per pochi minuti, e dove tutti avevano fretta o facevano credere di averla, non diede poi tanto nel­ l’occhio. Demba si guardò attorno, misurò il terreno con sguardo da condottiero, rifiutò un tavolo vicino alla cassa perché inadatto ai suoi scopi, respinse senza dire una parola l’offerta del cameriere che, con ge­ sto teatralmente invitante, aveva richiamato la sua attenzione su una serie di ottimi posti, e finalmente si decise per un angolo del locale, tra due attacca­ panni. Il cameriere si avvicinò con un inchino. «Il signore ordina?». «Voglio mangiare qualcosa» rispose Stanislaus Dem­ ba. « Cosa avete? ». «Del salame, forse. Ci sarebbe del bel roastbeef freddo». Demba sembrò riflettere. «Ham and eggs, se il signore desidera prendere un piatto caldo» consigliò Franz, nel solenne lin­ guaggio dei camerieri di Vienna, che si taglierebbe­ ro la lingua piuttosto che trovare il coraggio di ri­ volgersi direttamente a un avventore come a un co­ mune mortale. « Ham and eggs, una porzione di salame, una por­ zione di roastbeef, due uova da bere... » ricapitolò. «Mi porti,» ordinò Demba dopo una lunga rifles­ sione «mi porti l’indirizzario Lehmann». « Primo, secondo volume, prego? » chiese sbalor­ dito Franz, che s’era aspettato un’ordinazione di maggiore sostanza nutritiva. «Tutti e due». Il cameriere andò a prendere i due grossi volumi dall’armadio dei libri, li depose sul tavolo e restò in attesa di un’altra richiesta. 75

Che non si fece attendere molto. «Avete un dizionario?». «Come, prego?». «Un dizionario enciclopedico». « Sissignore. Il Kleiner Brockhaus ». «Allora mi porti il Kleiner Brockhaus ». «Quale volume comanda il signore? ». «Dall’A alla K» ordinò Demba. Il cameriere portò tre volumi. «A dir la verità mi servono anche le lettere N, R, e V. Mi porti anche gli altri volumi» disse Demba. Il cameriere recò gli altri cinque tomi. Ora tutto il Kleiner Brockhaus si trovava sul tavolo. «C ’è tutto? Non manca alcuna lettera?» s’infor­ mò Demba. «No. L’ultimo volume rimasto è un aggiornamen­ to». « Perché non lo porta? » esclamò spazientito Dem­ ba. « Ho bisogno di conoscere i risultati dei più re­ centi studi scientifici per le mie ricerche». E il cameriere portò l’aggiornamento, poi si ritirò rispettosamente. Avvicinatosi al tavolo dei due gio­ catori, si coprì la bocca con la mano e bisbigliò con fare misterioso: «E uno del giornale! Viene qui a scrivere il suo articolo». « Cameriere! » gridò a quel punto Stanislaus Demba. «Il signore ordina?». «Magari avete anche il Manuale dell’ingegnere}». « Spiacente di non poter servire... ». «Allora mi porti il Prontuario delle forze armate e VAnnuario dell’esercito e della flotta e quant’altro avete in fatto di manuali militari». Uno dei due commessi viaggiatori depose le carte. « Ce l’ha con le alte sfere militari » disse lanciando un’occhiata in direzione di Demba. «Ha sentito? Il Prontuario delleforze armate! Fa bene, gliene canti pu­ re quattro! A chi tocca? ». 76

«Chi le dice che sia contro i militari? Allo stesso modo potrebbe anche scrivere a favore dei militari. Forse secondo l’opinione del signor redattore co­ struiamo troppo poche dreadnoughts » affermò il com­ pagno di gioco. «Avete anche il Gotha? » Demba intanto interro­ gava il cameriere. «Sissignore». «Mi porti tutti i volumi dell’Almanacco genealogico di Gotha». « Cosa non gli serve per un articolo » esclamò uno dei commessi viaggiatori. « E poi dicono sempre che i giornalisti non sono scrupolosi». «Il Gotha» meditò l’altro. «Quello scrive qualcosa contro il ministro degli Esteri. Infatti è un conte». «Può anche darsi che ce l’abbia col ministro della Guerra. Che è un barone». Il cameriere depose tutti i volumi dell’Almanacco ge­ nealogico di Gotha e del Compendio Comitale sul tavolo di Demba. «Ma questi non sono tutti» lo investì quest’ulti­ mo. « Mi porti anche gli altri volumi. O forse devo sapere a memoria se il barone Christoph Heribert Apollinarius von Reifflingen è un discendente del ramo più antico, quello Sebastiano, o di quello ci­ priano più recente? ». Al cameriere cominciò a girare la testa. Andò a prendere il Compendio delle dinastie baronali e anche un Annuario dell’associazione degli ex speculatori di Bor­ sa, che s’era trovato tra le mani. Tutta la scienza e il sapere del mondo si erano ac­ cumulati sul tavolo di Stanislaus Demba in un’alta muraglia, dietro la quale lo studente era compietamente sparito. Solo il cappello, bisunto e lucido, era ancora visibile. Ma tutto questo sembrava non basta­ re al signor Demba. Ordinò anche il Calendario regio­ nale della Bassa Austria, il Lunario municipale viennese e YAlmanacco dei funzionari della monarchia austro-un77

garica, dei primi due anche l’edizione dell’anno precedente. «Cameriere,» gridò, quando li ebbe tutti «cos’è quel libro, lì nell’armadio? Lì, quello grande, nero? ». «Il dizionario delle parole straniere, prego». «Me lo porti subito! Ne ho assoluto bisogno. De­ vo vedere a ogni costo come si dice in buon tedesco leptoprosopia. Leptoprosopia! O forse me lo può dire lei? ». « Spiacente di non poter più servire » balbettò il cameriere, che ormai aveva una gran confusione in testa. A quel punto Demba sembrò finalmente avere tutti i libri che gli servivano per il suo lavoro. I due commessi viaggiatori ricominciarono a giocare e il cameriere si avvicinò al loro tavolo per osservarli. «Cameriere!» urlò Stanislaus Demba di nuovo, così forte che la signorina della cassa lasciò cadere la fetta di Linzertorte che teneva in mano. « Camerieereee! ». «Subito, prego!» rispose Franz, gettando un’oc­ chiata all’armadio dei libri; ma ormai era vuoto. Per­ ciò prese dal buffet il calamaio di vetro, macchiato d’inchiostro e la scatola di cartone, nella quale era conservata la carta da lettera, poiché credeva di aver indovinato il nuovo desiderio del cliente. «Cameriere! Dove s’è cacciato?» gridò Demba. « Sono qua. Il signore ordina carta, penna e cala­ maio?». « No, mi porti una porzione di salame, due uova da bere, pane e una bottiglia di birra». Il cameriere portò quanto richiesto, e per un po’ di Stanislaus Demba non si vide altro se non il cap­ pello, che dietro al vallo di libri si muoveva su e giù al ritmo della masticazione. Ora appariva, ora spa­ riva. Uno dei commessi viaggiatori aveva mal di denti e ordinò al cameriere di accertarsi che tutte le fine78

sire del caffè fossero ben chiuse. Dopo aver eseguito l’ordine, Franz si sentì in dovere di fare un po’ di compagnia al signor Demba e di intrattenerlo du­ rante il pasto. «Certi signori sono talmente schizzinosi da non sopportare un filo di aria» cominciò, accennando ai commessi viaggiatori. Stanislaus Demba aveva immediatamente smesso di mangiare all’avvicinarsi del cameriere. Lasciò ca­ dere tintinnando il coltello e la forchetta sul piano del tavolo, alzò la testa e, attraverso le lenti degli oc­ chiali, fissò furiosamente Franz oltre il volume da «Ghiandola surrenale» a «Mestolone». «Che vuole?». «Purtroppo ho dovuto chiudere le finestre, per­ ché il signore lì... ». Non riuscì ad andare avanti. «Le chiuda o le lasci aperte, cosa vuole che me ne importi? » urlò Demba. « Ma non mi disturbi mentre sto mangiando». Franz sparì in fretta dietro il buffet e tornò fuori solo quando Stanislaus Demba gridò: «Il conto! ». «Prego, il signore ha mangiato? Una porzione di salame, due uova da bere, una bottiglia di birra... Pane? Due pezzi? Tre? ». Demba sedeva stranamente rigido sulla sedia. «Tre». «Una corona e ottanta, due e sessanta, tre e trentasei, tre corone e quarantadue, prego... ». Demba indicò con gli occhi il piano del tavolo. C’erano tre corone e alcune monete di nichel. Poi si alzò e andò verso la porta. Prizha di uscire, vol­ se il capo e con espressione seccata disse al cameriere: «Qui, a dire il vero, avrei voluto scrivere la mia importante tesi sullo stato della conoscenza umana agli inizi del ventesimo secolo, ma per i miei gusti c’è un po’ troppo chiasso in questo locale».

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Quando Steffi Prokop giunse a casa, vi trovò già Stanislaus Demba, che l’aspettava impaziente in sog­ giorno. « Salve! » disse. «E da tanto che sei qui? ». « E dalle dodici che aspetto » rispose lui. « Non è colpa mia se ho fatto tardi. Non mi lascia­ no uscire dall’ufficio neanche un minuto prima di mezzogiorno. Poi mi ci vogliono ancora dieci minu­ ti, per “tirar via” dalle mani le macchie del nastro impregnato d’inchiostro. Adesso però sono libera fin quasi alle tre ». Depose velocemente cappello e giacca, e anche il crespo grigio di cui si velava sempre uscendo di ca­ sa. Poi si mise il grembiule e tolse dal tavolo il cap­ pello di Demba. «Allora? Non ti vuoi togliere...? » domandò. Dem­ ba aveva ancora addosso la mantella. Scosse il capo. «No! Lasciamela. Ho freddo». «Freddo? Ma va’. Oggi non fa mica freddo, oggi si può di nuovo sedersi all’aperto». 80

«Sto gelando» disse Demba. «Sono ammalato, penso di avere la febbre ». «Povero Stanie! » esclamò Steffi in quel tono di la­ mentosa commiserazione col quale si compatiscono e si consolano i bambini che sono caduti mentre giocavano e si sono «fatti male». «Povero Stanie, è ammalato, ha la febbre. Povero Stanie». Poi cambiò tono e chiese: «Mangi con noi, vero?». Demba scosse di nuovo il capo. Lei aprì la porta della stanza accanto e gridò: « Mamma, il signor Demba mangia con noi! ». «No! » si difese lui, con una vivacità vicina all’agi­ tazione. «Cosa ti viene in mente?». «Abbiamo Dukatenbuchtel1 oggi» lo incoraggiò Steffi Prokop. «No grazie, non posso davvero» disse Demba. «Allora devi essere proprio ammalato, adesso ti credo, Stanie» rise Steffi. «Di solito hai sempre ap­ petito. Aspetta, ora controllo». Cercò sotto la mantella la mano di Demba, per ta­ stargli il polso. Ma non la trovò subito, e un istante dopo ricevette una tale spinta che barcollò all’indietro di un paio di passi e dovette tenersi forte al cas­ settone per non cadere. Demba era balzato in piedi e stava ritto davanti a lei, pallido come un morto e completamente fuori di sé. «Come fai a sapere...?» sibilò, lanciandole un’oc­ chiata ostile. « Chi ti ha rivelato che...? ». « Che cosa? Perché mi hai dato quella spinta? Ma che hai Stanie?». Demba scrutò la ragazza con sguardo insicuro e ansimò senza dire una parola. «Volevo tastarti il polso» disse Steffi tristemente. «Come?». 1. Dolce di origine boema, fatto con pasta lievitata e un ripieno di marmellata, della grandezza di un ducato [N.d.T.].

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«Volevo sentirti il polso. E tu mi dai una spinta! ». «Ah, il polso? ». Stanislaus Demba si sedette lenta­ mente. «Allora va bene. Io pensavo... ». «A cosa? Cos’è che pensavi? ». «Niente... Lo vedi bene che sono ammalato». Demba fissò in silenzio il piano del tavolo. Dalla stanza accanto giungeva un rumore di piatti e posa­ te. La madre di Steffi stava apparecchiando per il pranzo. Steffi Prokop poggiò delicatamente l’esile braccio da bambina sulla spalla di Demba. «Che ti succede, Stanie? Dimmelo». «Niente, Steffi. Niente di serio, per lo meno. Do­ mani sarà passato... in un modo o nell’altro». « Dimmelo. A me lo puoi dire ». «Non è niente, veramente». « Ma non dovevi raccontarmi qualcosa? Qualcosa di importante, che non potevi dirmi al telefono». «Non ha più alcuna importanza, adesso». «Ma cos’era, Stanie?». «Oh, niente... che domani parto». « Davvero? E per dove? ». « Questo non lo so ancora. Dove vuole Sonja. In montagna forse, o a Venezia». «Parti con Sonja Hartmann?». « Sì ». « Starai via molto? ». « Fino a quando ha tempo Sonja. Due o tre setti­ mane, penso». «Siete di nuovo assieme allora? Avevate litigato, no?». «E tutto a posto». «Tre settimane. Allora avrai senz’altro ricevuto il denaro per quel divertente romanzo che hai tradot­ to in polacco. Ti ricordi quel punto dove si leggeva: “Sua figlia, signora contessa, ha ancora sei ore di vi­ ta, forse anche di meno”. Ho riso tanto quella vol82

ta... Ti hanno finalmente mandato il denaro, eh?... Ma rispondi! A che pensavi adesso, Stanie?». Demba alzò gli occhi distratto. «Dov’eri col pensiero? Già a Venezia? ». «No. Da te ». « Su, non mentirmi così. So benissimo che non sai che fartene di me. Per te sono troppo giovane, trop­ po sciocca, troppo...». Steffi Prokop lanciò un’oc­ chiata allo specchio. La sua guancia destra era un’u­ nica, rossa cicatrice da ustione. Anni prima, quando era ancora una bambina, sua madre aveva gettato della benzina sui carboni del focolare, per attizzare il fuoco. Aveva la bimba in braccio, e quando il fuo­ co le raggiunse i vestiti, anche Steffi si portò via un ricordo per tutta la vita. Quella cicatrice la sfigurava, lei lo sapeva benissimo. Non usciva mai di casa sen­ za il crespo. «E adesso voglio sapere cos’hai. Non continuare a guardare per aria a quel modo». «Non ho niente, piccola. Ora devo andare. Vole­ vo solo vedere come stavi ». «Va’! Va’! Va’!» disse Steffi Prokop adirata. «Ve­ dere come sto! Come se ti interessasse! E poi, non chiamarmi sempre: “piccola”. Ho sedici anni ormai. A me puoi raccontare tutto. Io lo so, qualcosa ti op­ prime. Oh, ti conosco, Stanie, nessuno ti conosce quanto me. Quando non stai bene, vieni da me e guardi per aria. Quando sei giù di corda, quando sei arrabbiato o hai avuto qualche contrarietà, vieni sempre da me. Appena Sonja ti ha scritto quella let­ tera, sei venuto da me. Anche prima, quando anco­ ra abitavi qui da noi, venivi da me se faceva troppo freddo nel tuo stanzino. Qui, in questa stanza, qui era sempre riscaldato. E andavi avanti e indietro, studiando o declamando uno di quegli antichi gre­ ci, Integer vitae... com’è che va avanti?». «Integer vitae scelerìsquepurus... » rispose Demba so­ prappensiero. 83

«Sì... lerisque purus. Così diceva. E io sedevo nel­ l’angolo e facevo i miei compiti, contabilità, mate­ matica, merceologia. Che stai sognando, Stanie? Non mi stai nemmeno a sentire. Perché fissi così il tavolo? Che stai sognando, dimmelo! ». « Sì, forse sto sognando » disse Demba sottovoce. «Sicuramente è solo un sogno. Giaccio dilaniato e con le ossa rotte da qualche parte, in un letto d’o­ spedale, e tu e la tua voce e questa stanza siete sola­ mente il delirio degli ultimi minuti». «Stanie! Che vuoi dire? Cosa stai dicendo?». «Forse in questo momento un’ambulanza mi sta trasportando attraverso la città, o forse sono ancora in giardino, disteso per terra, sotto il noce, la mia schiena è spezzata, non posso alzarmi, e questi sono gli ultimi volti, le ultime visioni... ». «Stanie, per l’amor di Dio, vuoi farmi paura? Cos’è successo?». «Integer vitae scelerisquepurus... » disse Demba piano. « Ho paura! » gemette Steffi. « Cos’è successo? Adesso me lo devi dire! ». « Zitta! Sta arrivando qualcuno » esclamò Demba improvvisamente. La signora Prokop infilò la testa nella fessura del­ la porta. «Disturbo?» chiese scherzando. «Come va, si­ gnor Demba? Sempre bene, no? Steffi, volevo solo dirti che la minestra si sta freddando. Signor Dem­ ba, non mangia un boccone con noi?». « La ringrazio, gentile signora, ma ho già mangia­ to». «Mamma!» disse Steffi. «Su, tienimela da parte. Vengo dopo. Il signor Demba e io abbiamo ancora qualcosa da discutere ». « E adesso parla! » ordinò Steffi, appena la madre fu uscita e la porta richiusa. «Non ho più molto tempo, fra un’ora devo essere nuovamente in ufficio». 84

Demba rise imbarazzato. « Non so cosa mi abbia preso poco fa. Nemmeno questa mattina, per la verità, ero del miglior umore, ma neanche per un istante ho abbassato la testa e perso il coraggio, nonostante mi sia andato storto praticamente tutto quello cui ho messo mano. “Mes­ so mano”, è buono». Demba fece una risata, breve e roca. «Alle volte il linguaggio è proprio spiritoso. “Metter mano” infatti non è la parola più esatta. Al­ lora diciamo: toccato... no, afferrato, neanche! Al­ l’inferno, tutto quello che ho intrapreso - così va bene! Dunque, tutto quello che ho intrapreso mi è scivolato tra le dita... stavo quasi per dire, di nuovo. La mia stessa lingua si prende gioco di me. Tutto quello cui ho messo mano mi è scivolato tra le dita. Perfetto. Veramente perfetto! Amaro umorismo lin­ guistico. Ma non era nemmeno così, volevo dire: in tutto quello che ho intrapreso questa mattina ho fatto fiasco». «Non ti capisco, Stanie». «Ma è molto semplice. Oggi tutto mi è andato storto. Tuttavia, non ho perso il coraggio, era solo questo che volevo dire. Però poco fa mi sono sentito sopraffatto. Sono diventato quasi sentimentale, non è vero? Ti voglio confessare: c’è mancato poco che ti mettessi il capo in grembo e scoppiassi a piangere, tanto stavo male. E in realtà senza un motivo. Vera­ mente. La cosa non è poi così tragica». Guardò in viso la ragazza incerto, tossì un paio di volte nervosamente, poi proseguì: «Tu sei l’unica persona, Steffi, di cui mi fidi. Sei assennata, coraggiosa e discreta. Tu mi aiuterai. Prima sono stato alquanto strano, vero? Ma è stp.'to solo un momento di debolezza, adesso è passato. Non devi credere che mi importi poi tanto della faccenda». «Allora dimmi finalmente cos’è successo, Stanie» lo pregò la ragazza impaurita. 85

Demba aveva il respiro pesante. «Io sono... ebbene, in poche parole: ho la polizia alle calcagna». «La polizia! » saltò su Steffi. «Non gridare così! Metti in allarme tutta la casa» l’ammonì Demba. Lei si dominò e ridusse la voce a un lieve, leggero bisbiglio. « Cos’hai fatto? ». «Ho commesso un crimine, piccola» rispose Stanislaus Demba in tono indifferente. « Non lo posso negare. Ma non riesco a vergognarmene. Ne pos­ so parlare in tutta tranquillità. La mia ragione e la mia logica mi giustificano. Solo la polizia non è pro­ prio d’accordo». «Un crimine?». «Sì, piccola mia. Ho venduto tre libri della biblio­ teca universitaria a un antiquario. O meglio, ne ho venduti solo due. Il terzo l’ho dato via per niente, questa mattina. Non guardarmi così esterrefatta. Adesso naturalmente mi disprezzerai. Quindi non ha alcun senso che continui a raccontare». «Perché lo hai fatto, Stanie? ». «Dio del cielo! Perché! Ho scritto un saggio sugli idilli di Calpurnio Siculo e i suoi hapax legomena. Un lavoro su certi termini tecnici del mondo agricolo, usati da questo Calpurnio, il cui significato è con­ troverso e dei quali non si trova traccia nella restan­ te letteratura romana. Perciò avevo bisogno di con­ sultare alcune fonti. Le trovai alla biblioteca univer­ sitaria. Ma il conservatore non mi permise di pren­ dere a prestito tre antiche, preziose edizioni. Io pe­ rò ne avevo bisogno, così me le portai a casa sotto il cappotto». «E ora la polizia è... ». «Per quello? Oddio, no. Ormai è passato più di un anno. E nessuno alla biblioteca universitaria s’è agitato per l’assenza dei libri. Forse, se qualcuno do­ sò

vesse nuovamente richiederli, forse allora ne scopri­ rebbero la mancanza. Ma da dieci anni a questa par­ te sono stato il primo a domandarli, me l’ha detto un bibliotecario. Dunque porto via questi tre libri. Il lavoro finisce di lì a tre mesi. Lo pubblico su un’im­ portante rivista specializzata, e desta una discreta at­ tenzione. Si fa un gran discutere su una parola per la quale ho individuato una nuova interpretazione. Mi lodano e mi attaccano. Mi mandano lettere. I professori Haase di Erlangen e Mayer di Graz difen­ dono il mio punto di vista, e il famoso Riemenschmidt di Gottinga definisce acuta la mia analisi. A essere sincero, non è stata una questione di acutez­ za, se ho trovato la soluzione giusta. Si trattava di ter­ mini dell’antica lingua dei contadini. E i miei genito­ ri e progenitori erano per l’appunto contadini, per cui ci vedo chiaro in certe cose. Il lavoro mi fu paga­ to in modo che risultarono coperte le spese per in­ chiostro, penna e carta, e forse addirittura per le si­ garette fumate scrivendo. Quel romanzo per servet­ te che ho tradotto mi renderà esattamente dodici volte tanto. Per questo ho tenuto i libri. A chi li ho rubati? Giacevano inutili e polverosi in un angolo scuro della biblioteca dell’università, e solo il catalo­ go sapeva della loro esistenza». «Ma la polizia, Stanie! La polizia!» si disperò Steffi Prokop. «Oh cielo, la polizia. Non fosse che per quella, non mi preoccuperei, non sarei venuto da te. No, non è questo. La questione non è così semplice. Vo­ glio raccontarti tutto. Adesso tutto è più facile. Ascolta». Ma non continuò a parlare, al contrario si avvi­ cinò alla finestra e guardò fuori fischiettando piano tra sé. «Allora?» chiese Steffi Prokop. / Lui si voltò. «Sì. Dunque, dov’ero rimasto? I tre libri, giusto. I 87

primi due li ho venduti sei mesi fa. Avevo debiti. Por­ tai i libri in alcune botteghe di antiquariato della Johannesgasse e della Weihburggasse. Ma lì non vo­ levano pagarmeli niente. La gente non capisce nul­ la. Investe malvolentieri il proprio denaro in vecchie edizioni. Uno addirittura voleva comprarle a peso. « Scoprii per caso il nome di un appassionato di li­ bri di Heiligenstadt, un tipo originale, mezzo rigat­ tiere, mezzo collezionista. Andai da lui. Se ne inten­ deva veramente. Per il primo mi pagò cinquanta co­ rone; il mese successivo, quando ebbi di nuovo biso­ gno di soldi, me ne diede quarantacinque per il se­ condo. I libri valevano di più, specie il secondo, tut­ tavia i prezzi erano accettabili. « Il terzo libro non lo volevo vendere. Era un’edi­ zione magnifica, diciassettesimo secolo, un Calpurnius Siculus della stamperia Enschede & Figli di Am­ sterdam, con interpolazioni, glosse e note a margine, e sul frontespizio un’incisione in rame di Aart van Geldern. La rilegatura era ornata con quattro pietre preziose e un intarsio d’avorio, di un certo valore. « Quel libro volevo tenerlo. Infatti in tutto questo tempo non l’ho ceduto per quanto grandi fossero le mie difficoltà economiche. E in difficoltà lo ero quasi sempre. Una volta, in gennaio, mi trovavo in tali ristrettezze che nel freddo più rigido dovetti portare il cappotto al monte di pietà. Ciò nonostan­ te il libro non l’ho venduto. « Finché ieri ho sentito di Sonja. Devo raccontarti anche questo. Ti racconto tutto. Sono così stanco, Steffi, e mi fa bene raccontare tutto. Che ultima­ mente abbiamo litigato spesso, Sonja e io, lo sai. Non era più come una volta. Ma io non vi attribuivo alcuna importanza, sapevo che Sonja ogni tanto ha le sue lune. Anche Weiner le permettevo di fre­ quentare tranquillamente. Da parte mia era una specie di presunzione. Questo Weiner può portarmi davvero via qualcosa?, pensavo. Questo Weiner, a 88

me? È un pallone gonfiato. Non l’ho mai sentito pronunciare una parola o esprimere un pensiero su cui valesse la pena di soffermarsi. Inoltre è vigliacco e insidioso, ed egoista. Pensavo: lo capisca da sola quanto poco vale quell’individuo. «Dunque, ieri sera sono andato nell’appartamen­ to di Sonja. Lei non era in casa. Ma sul tavolo c’era­ no due borse da viaggio già preparate. Interrogo l’affittacamere: “Si, la signorina è di partenza”. “Ah,” dico “e per dove?”. No, questo non lo sapeva. Ero molto sorpreso. E troppo presto per andare in ferie, penso. Oltretutto mi avrebbe pur detto qualcosa. E mentre mi guardo attorno nella stanza, noto un cas­ setto della scrivania aperto e dentro, sopra tutto il re­ sto, una gran busta della ditta Cook 8c Son. «La prendo, l’apro. Contiene due biglietti da viaggio. Uno a nome di Sonja, l’altro di Georg Weiner, studente di giurisprudenza. «Rimasi di sasso. Credo ci si senta così, se si viene investiti o si subisce uno shock nervoso. Come sia riu­ scito ad andarmene daU’appartamento e a scendere le scale, non so dirlo nemmeno io. Per una mezz’ora ho vagabondato per le strade attorno all’abitazione di Sonja come un estraneo, senza potermi orientare, no­ nostante conosca quel quartiere come le mie tasche. « Poi mi sono calmato un po’ e mi sono messo a cercare Sonja. Prima al caffè. Infatti va quasi tutti i giorni al caffè, e questa è un’abitudine che non mi è mai piaciuta in lei. Gliel’ho detto spesso: “Una don­ na non dovrebbe frequentare i caffè”. Per incontra­ re una donna, uno deve salire quattro rampe di sca­ le e suonare col batticuore alla sua porta. Inoltre non dovrà trovarla in casa, dovrà essere venuto per niente. Quando poi, deluso, ridiscenderà, si ren­ derà conto di amarla. Ma la donna che, ogni qual­ volta si abbia desiderio di vederla, si fa trovare al caffè, immancabile come il “Simplizissimus” o il “Tagblatt”, perde di valore e diventa consuetudine. 89

«Ci sono quattro caffè che Sonja frequenta. Tra le nove e le dieci, il più delle volte, è al caffè Kobra, dove incontra pittori e architetti. Ieri sera però non era in nessuno dei quattro locali. Ma ho visto un suo collega d’ufficio, anche lui era già al corrente del viaggio. Mi ha confermato che vuole andare a Vene­ zia con Weiner. «Alle dieci ero nuovamente da lei, a casa sua, ma non era ancora rientrata. Fino all’una sono andato su e giù davanti a quella casa. Ma lei non arrivava e allora mi sono reso conto che non aveva senso star­ sene ancora lì. Weiner ha un pied-à-terre nella LiechtensteinstraBe, lì avrei dovuto aspettarla. «Comunque avevo avuto abbastanza tempo per riflettere tranquillamente sulla faccenda. Sulle mo­ tivazioni di Sonja. In Georg Weiner non poteva tro­ vare niente, questo è chiaro. Assolutamente niente. Appartiene a una specie umana inferiore. Giocare talvolta a poker è l’unico moto spirituale che io ab­ bia mai notato in lui, e anche lì il più delle volte per­ de. Tu non lo conosci, ma a me ogni volta che lo in­ contravo, prima, molto prima di sapere chi fosse, ve­ niva sempre in mente senza volere questo pensiero: Per essere un mandrillo, ha un’andatura molto si­ mile a quella umana. Sai, non era per astio, mi me­ ravigliavo veramente che fosse in grado di cammi­ nare così ben eretto, e pensavo: Chissà che fatica gli costa, perché si tormenta tanto e non cammina sem­ plicemente a quattro zampe? E ora il mandrillo vuo­ le portarmi via Sonja. E decisamente ridicolo. Eppu­ re lei va via con lui. Può essere solo in vista del viag­ gio. Viaggiare è la grande passione di Sonja. Lei vuole vedere il mondo, come e con chi le è indiffe­ rente, andrebbe su una nave come steward, se la prendessero, pure su un treno come macchinista e, se non ci fosse altro mezzo, anche come bagaglio a mano. E del tutto infantile in queste cose. Prima mi chiedeva spesso di fare un viaggio con lei, ma io non 90

avevo mai quelle tre o quattrocento corone per pa­ garlo. Georg Weiner li ha i soldi. Suo padre è un mercante di pellami nella Leopoldstadt. E questo mi fu subito chiaro: se oggi fossi riuscito a procurarmi trecento corone, Sonja avrebbe lasciato Weiner e sa­ rebbe venuta via con me ». «Stanie!» disse Steffi Prokop. «Non lo penserai sul serio?». «Certo». « Come puoi pensare una cosa simile di lei? Come puoi credere che per lei sia solo una questione di soldi o di un viaggio o di qualcos’altro? Lei gli vuole bene. Vuole restare sola con lui». Stanislaus Demba rise. « Con lui? Con Georg Weiner? Si vede che non lo hai mai visto». «Stanie, tu sei così intelligente, eppure ragioni come un bambino. Le donne sono diverse da voi uomini. A voi ripugna se una è brutta. Ma una don­ na può voler bene a un uomo anche se è gobbo, deforme o stupido. Proprio perché è tanto stupido, una donna può voler bene a un uomo. E tu non lo capisci. Mai Sonja verrà via con te, nemmeno se avessi il portafoglio pieno di banconote da mille». «Ah,» disse Demba «tu naturalmente sai tutto. E io ti dico che verrà con me. Sono stato da lei e ab­ biamo parlato». Si appoggiò all’indietro, godendo del proprio trionfo. « Davvero? Te lo ha detto lei? ». « Sissignora». «Allora mi dispiace per lei» disse piano Steffi Prokop avvilita. «Va’ avanti». «Sì... dunque, mentre penso dove trovare il dena­ ro, mi viene in mente il libro. Vale molto quel libro, seicento, forse ottocento corone. « Sono andato a casa, ma non mi sono messo a let­ to. Sono rimasto alzato tutta la notte a leggere il li­ bro. Ho preso commiato anche dalla più piccola xi91

lografia. Ero affezionato a quel libro. E questa mat­ tina, di buonora, l’ho portato a Heiligenstadt. «Il mercante vive nella Klettengasse, al numero sei. Per andarci fai la HeiligenstàdterstraBe e scendi alla terza fermata del tram, svolti nella prima traver­ sa a sinistra e devi camminare ancora quattro o cin­ que minuti. Il mercante abita in una piccola casa di periferia a due piani, con una strettissima facciata di due finestre. Nonostante fossi già stato lì in prece­ denza, non la trovai subito, ma solo quando vi passai davanti per la terza volta. Nelle vicinanze, da qual­ che parte, deve esserci una fabbrica di birra, poiché tutta la via è satura di quello sgradevole, stantio odo­ re di malto che non sopporto. Mi manda in bestia. « Salii al primo piano, turandomi il naso con le di­ ta, perché l’odore di malto mi inseguiva anche den­ tro la casa e su per le scale. «Suonai, dovetti attendere un momento, suonai di nuovo, quindi sentii dei passi e una voce: “Sì, sì, arrivo”. Poi il vecchio stesso aprì la porta un pochettino e guardò attraverso la fessura. Mi riconobbe e tolse la catena. Quando fui entrato, mi condusse nella sua stanza da lavoro. « Questa stanza è il locale più curioso che io abbia mai visto. Allo stesso tempo camera da letto, ufficio, museo, magazzino e a quanto pare anche atelier quel tipo restaura anche quadri. Il mobilio più raffinato vi è mescolato al peggior ciarpame. Per esempio, c’è un armadio in noce, primo barocco, con meravigliose colonnine scure, ma i vestiti il vec­ chio non li tiene in quell’armadio, bensì in una cesta da biancheria mezzo sfasciata e priva di coperchio. Un bel letto, con intagliati dei viticci e uno stemma nobiliare, un tempo sicuramente indorato, troneg­ gia nella stanza, ma il suo proprietario dorme su uno sporco materasso rosso, posto in un angolo, sul nu­ do pavimento. Ci sarebbe una scrivania di Boulle, in­ tarsiata con legno di rosa, ma il vecchio lavora a un 92

(avolo traballante, sul quale tiene un brutto cala­ maio di vetro, la sua lente, un mucchio di scartoffie e il registro dove annota acquisti e vendite. E, in ogni angolo della stanza, candelabri d’argento “vecchia Vienna”, stampe antiche, cristalleria e porcellane. In un cantuccio giace anche una “Deposizione” di eba­ no e madreperla. Deve averla comprata per poco e probabilmente la vuole rivendere in fretta, poiché, essendo un ebreo della Galizia, forse non ha un vero interesse per una “Deposizione”. «Ecco, così si presenta la sua stanza da lavoro. Si comprende quanto sia giusto e al contempo inutile tutto il collezionare. Ci sono i pezzi più belli e più preziosi, eppure quella camera è di una tale desola­ zione che la topaia di un operaio pagato a giornata, con una famiglia di sette persone e due pensionanti per la notte, sembra avere più stile. «Dunque mi fa entrare, e senza fare troppe do­ mande mi toglie subito il libro di mano. Lo sfoglia, annuisce col capo, lo studia con la lente e chiede: “Dove lo ha preso?”. E io: “A un’asta pubblica”. Fa di nuovo un cenno col capo, si siede e riprende a esa­ minare il libro. Poi domanda: “Perché vuole vender­ lo? Solo perché ha bisogno di soldi?”. Velocemente rifletto, mi offrirà di più se non sto lì davanti a lui come un poveraccio, per questo dico: “No. Le vec­ chie edizioni non mi interessano più. Adesso mi so­ no buttato completamente sulla ceramica. Maioli­ che, sa?”. «Non so perché mi siano venute in mente pro­ prio le maioliche. Avrei potuto dire benissimo smal­ ti di Limoges o vasi di Satsuma o altri oggetti, che conosco solo da musei e mostre. «Lui fa cenno col capo, si avvicina alla cesta da biancheria e si mette a rovistare tra i vecchi abiti. Poi tira fuori un’antica mattonella persiana: un cac­ ciatore su un cavallo bianco, con un gran turbante blu in testa e un falco in pugno. Cavalca sopra un 93

prato di tulipani e il cavallo alza le zampe in alto, quasi sapesse di non dover calpestare neanche un fiore. «“Quanto vuole per questa?” chiedo. Ma lui com­ pie solo un gesto di rifiuto con la mano e ripone la mattonella nella cesta della biancheria. Non si è la­ sciato ingannare. Ha capito subito che sono un po­ veraccio che ha bisogno di soldi. « Sfoglia di nuovo il libro e chiede: “Quanto vuole per questo?”. «“Lo deve sapere lei quanto vale” dico io. « Il vecchio scosse il capo, socchiuse gli occhi e ri­ prese a sfogliare il volume. Aveva un pizzetto bian­ co, ma si vedeva ugualmente che era privo di men­ to. Lo sai pure tu: a certe persone manca il mento. Sotto la bocca, il viso passa subito al collo. Sembra­ no tutti dei polli. Anche Weiner appartiene a quella categoria. Alle volte portano una barba folta, e allo­ ra lo si nota poco, ma quando sono rasati a puntino hanno un’aria da babbei. Penso sia una questione atavica. Pare che tra la seconda e la terza Era glacia­ le gli uomini avessero un aspetto simile... No, non è uno scherzo, l’ho letto veramente una volta in un saggio sugli uomini preistorici. Mi danno molto fa­ stidio le persone senza mento. E mentre guardo il vecchio, mi viene l’idea folle che forse esista, tra tut­ ti questi senza-mento, un patto segreto contro il re­ sto del mondo, che siano uniti e che il vecchio rigat­ tiere sia d’accordo con Georg Weiner e che mi pa­ gherà il libro un’inezia per impedirmi di andare in Italia con Sonja. «Tu adesso mi credi pazzo, perché ti ho detto questo. Naturalmente sapevo benissimo che era un’assurdità, ma per l’appunto era solo un’idea. Pe­ raltro fui subito smentito in senso favorevole. Mi of­ frì duecentotrenta corone e ci accordammo per duecentoquaranta. Era più di quanto mi fossi aspet­ tato. Perché, devi sapere, le antiche edizioni vengo94

no pagate malissimo, dato che ai collezionisti inte­ ressano meno di altri oggetti di antiquariato. Duecentoquaranta corone era un prezzo ragionevole e io ero soddisfatto. «Andò nell’altra stanza a prendere il denaro, ma ne tornò subito e si mise a cercare dappertutto ner­ vosamente. Spostò le sedie dal loro posto, rovistò nel cassetto della tavola e frugò nella cesta della bian­ cheria. Poi disse che non trovava la chiave della cas­ setta nella quale teneva i soldi. Non restava altro da fare che chiamare un fabbro. Io avrei dovuto aspet­ tare un po’, oppure potevo andarmene e tornare di lì a una mezz’ora. Dissi che preferivo aspettare, che facesse presto. «Uscì di nuovo, lo sentii parlottare con qualcuno e subito dopo rientrò con suo nipote, un giovanotto magro coi riccioli a cavatappi che, a quanto sembra­ va, doveva andare a cercare il fabbro. Sono stato un pazzo ad accettare. Se avessi detto di non poter at­ tendere oltre e avessi insistito per avere i soldi subi­ to, probabilmente le cose sarebbero andate in mo­ do diverso. « Ma rimasi, e il vecchio nel frattempo mi mostrò alcuni suoi pezzi: un vaso per la senape di rame smaltato, una figura lignea dipinta a colori vivaci, un vaso di Delft con dei paesaggi, un bel nécessaire dei tempi antichi per signora, un nécessaire conte­ nente forbicine, spilloni e un vasto assortimento per la cosmesi, e stranamente anche un compasso, e ri­ cordo che mi sono scervellato a lungo sul perché una ragazza alla moda del diciottesimo secolo por­ tasse con sé un compasso. Dovetti aspettare piutto­ sto a lungo ma non mi insospettii. Questo perché mai, nemmeno per un minuto, avevo avuto la sensa­ zione di commettere un crimine. Quello che avevo fatto era diventato un crimine un po’ alla volta, del tutto impercettibilmente. Avevo portato a casa il li­ bro dalla biblioteca dell’università. Ma non l’avévo 95

mai considerato un furto, piuttosto uno scherzo ai danni di quello stupido conservatore, e l’avevo fatto col proposito di riportare il libro, appena non mi fosse più servito. Poi era rimasto a lungo a casa mia, e i libri presi in prestito raramente si restituiscono; i libri sono, per così dire, liberi come l’aria. Il pro­ prietario li richiederà una mezza dozzina di volte, poi smetterà o perché la cosa gli sembrerà troppo sciocca, o perché se ne dimenticherà. Gente di re­ gola molto retta e onesta in questo modo si fa una biblioteca. E a me nessuno l’ha richiesto, il libro era sempre nella mia stanza, lo prendevo in mano ogni giorno, e d’improvviso, inavvertitamente, era diven­ tato di mia proprietà. Con la migliore coscienza del mondo l’avevo portato al rigattiere. Il timbro della biblioteca l’avevo rimosso da tempo; neppure con intenti fraudolenti, ma più che altro come si allon­ tana l’ex libris di un precedente proprietario, per­ ché non piace. Ma il vecchio deve aver comunque trovato qualche traccia del timbro con la lente. Può anche darsi che avesse subodorato qualcosa già col libro che gli avevo venduto alcuni mesi prima. Per farla breve suonarono alla porta, lui andò ad aprire e rientrò con due uomini. “È lui” disse indicando­ mi, e uno dei due mi posò la mano sulla spalla e di­ chiarò: “In nome della legge”. « In quel momento di terrore non riuscii assoluta­ mente a capacitarmi di quel che mi stava succeden­ do. Avevo solo un’impressione molto vaga che il vecchio ebreo mi avesse gabbato. La sua faccia senza mento mi fece improvvisamente impazzire di rabbia e con tutte e due le mani cercai di afferrargli la bar­ ba. Subito i poliziotti mi si gettarono addosso e mi tirarono indietro. Uno di loro disse... «Per l’amor di Dio, non fare quella faccia così sconvolta, Steffi! Se sono così calmo io, perché non puoi restare calma anche tu? In fin dei conti è suc96

cesso a me, e non a te... Vuoi che smetta di raccon­ tare?... Bene. «Dov’ero rimasto? Sì... Uno dei poliziotti disse: “Ehi, lei, non esageri e venga con noi”. E l’altro: “Mi sa che ha bisogno delle manette”... Così mi lasciai portar via. « Mentre stavamo uscendo in anticamera attraver­ so la porta a vetri, mi voltai e vidi il rigattiere, sedu­ to imperturbabile al tavolo, che continuava a scrive­ re. Quanto mi stava succedendo non lo preoccupa­ va per nulla. QueH’indifferenza mi fece nuovamen­ te diventare una furia. Tentai di nuovo di gettarmi su di lui, ma i due poliziotti mi trattennero. Ne nac­ que una zuffa, due sedie si rovesciarono e la vetrata della porta andò in frantumi. Ma in due natural­ mente erano più forti di me e alla fine ebbero la meglio. « Mi fecero prendere il soprabito e mi condussero giù per le scale, uno davanti e l’altro dietro. La scala era stretta e tortuosa e bisognava scendere con cau­ tela, gradino dopo gradino, poiché la vecchia casa era assai buia. Improvvisamente quello dietro a me scivolò e cadde. Nell’istante successivo diedi all’al­ tro una tal spinta nella schiena da farlo rotolare giù per sette o otto scalini. Poi mi precipitai su per la scala. Non so come avvenne, ma fui subito in van­ taggio di un intero piano. Continuai a correre, fino al secondo piano, verso la soffitta. Non avevo assolu­ tamente nessuna strategia di fuga, nessuna vera in­ tenzione, nessun proposito preciso. Era solo istinto. Volevo essere libero, affrancarmi da quei due uomi­ ni, non avevo altro pensiero. « La porta della soffitta era semiaperta. Entrai, tol­ si la chiave e la richiusi dall’interno. «Era un locale angusto, con due porte, ognuna delle quali dava su uno stanzino altrettanto stretto. Tutti e tre i locali erano ingombri di cianfrusaglie. Dappertutto mobili rotti, assi, sacchi di paglia. Cer97

cai un nascondiglio. Ce n 'erano parecchi ma, ovun­ que mi fossi nascosto, mi avrebbero trovato in pochi minuti. Non vidi alcuna possibilità di uscire di lì, e i due poliziotti stavano già armeggiando con la porta. « Solo in quel momento mi prese la disperazione. Fino ad allora ero stato incapace di pensare. Ma adesso ebbi la consapevolezza di quel che mi atten­ deva. Mi vedevo rinchiuso in una cella. Io vengo dal­ la campagna, lo sai. Già la città mi va troppo stretta. In una cella poi non riuscirei neanche a respirare. E ora: mi ascolteranno e mi spieranno. Dovrò alzarmi quando mi diranno di farlo. Camminare quando mi si ordinerà di camminare, dovrò parlare e dare ri­ sposte quando me lo chiederanno. Mangiare, dor­ mire e lavorare quando ad altri farà piacere lasciar­ mi mangiare, dormire o lavorare. Sarebbe insoppor­ tabile! E ieri ero ancora libero, potevo fare quel che mi pareva, intraprendere qualsiasi azione. In quel­ l’istante mi balenarono in testa progetti che per an­ ni m’ero tenuto dentro e che mai avevo realizzati. Cose senza senso né importanza: il non avere anco­ ra mai bevuto un bicchiere di birra con una cannuc­ cia mi apparve come un grave peccato; dicono che ci si ubriaca, e io non l’avevo mai provato. Oppure, un’idea che avevo in mente da tempo, seguire passo dopo passo uno sconosciuto per vedere che combi­ na, come si guadagna il pane e come trascorre la giornata. Oggi avrei potuto sedermi su una panchi­ na dello Stadtpark, in cerca di qualche avventura o spaventare una ragazza con una folle storia inventa­ ta... tutto questo mi passò per la testa, tutto questo ieri avrei ancora potuto farlo, cose insignificanti, certo, ridicole, ma era la libertà. E mi resi conto di quanto, nonostante tutta la mia povertà, fossi ricco, perché ero padrone del mio tempo. Compresi chia­ ramente, come mai prima d’allora, cosa significasse “libertà”. Ora ero prigioniero, ero un carcerato, i passi che facevo in mezzo alle cianfrusaglie dell’an98

gusta soffitta erano i miei ultimi passi da uomo libe­ ro. Mi girava la testa, nelle orecchie mi martellava solo: libertà! libertà! libertà! Il cuore voleva scoppia­ re per un unico desiderio: libertà! Ancora un gior­ no solo di libertà, ancora dodici ore di libertà! Do­ dici ore!... e intanto sentivo i poliziotti armeggiare con la serratura, fra poco sarebbero stati dentro, non c’era salvezza, allora decisi di non farmi pren­ dere, di morire piuttosto... Stai calma, Steffi, i rim­ proveri adesso non hanno più alcun senso. «Mi avvicinai alla finestra. Sotto c’era un giardi­ no. Un po’ d’erba, cespugli di lillà in fiore, un’aiuo­ la circolare con delle fucsie, forse, o viole del pen­ siero, oppure garofani. E un albero. Da una finestra aperta si diffondeva la musica di un grammofono: “Principe Eugenio, nobil cavaliere”. « Quella canzone mi diede coraggio. Mi decisi per le parole: “Città e rocca di Belgrado”, a “Belgrado” volevo... volevo saltare. Chiusi gli occhi, e “Belgra­ do” venne troppo presto, così rimandai fino a “pon­ te”, “fe’ gettar un ponte”. E un momento dopo ri­ mandai di nuovo fino a “per passar alla sponda di fronte”, “di fronte”, sì, decisi per quella parola, era come un ordine. Mi sporsi molto in fuori, il sole mi colpiva il capo, assaporai gli ultimi secondi con pia­ cere, e poi venne “passar... di fronte”. Mi diedi una spinta, lasciai la presa, sentii ancora la campana, che dal campanile cominciava a suonare le nove, e poi... ». «E poi?» gridò Steffi Prokop. Aveva afferrato Demba per una spalla e lo fissava a occhi sbarrati. «Niente,» rispose Demba «ho perso conoscen­ za». « Subito hai perso conoscenza? » chiese la ragazza in un soffio, pallida per il terrore. «No. Non subito. Scivolai lungo il tetto di ardesia, quello lo so ancora. Poi due rondini sfrecciarono fuori dal loro nido, accanto all’abbaino. Ebbi l’im99

Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

pressione di sentire un urlo e, nello stesso istante, provai uno strano astio, sopito da decenni, contro mia madre. Una volta infatti, quando ero molto pic­ colo, mia madre mi lasciò cadere per terra. E io, al­ lora, provai un sentimento a metà fra la paura di far­ mi male e la rabbia infantile, perché lei gridava a quel modo. Lo stesso sentimento lo avvertivo anche ora. Ma subito dopo persi conoscenza. Probabil­ mente avevo battuto la testa da qualche parte, con­ tro il muro della casa, o forse contro la grondaia. « Quando rinvenni non sapevo cosa fosse succes­ so. Mi sforzai di pensare. Non ci riuscivo. Non pote­ vo formulare alcun pensiero. Era atroce. Ma poi ci riuscii di nuovo. Chi sono?, si chiedeva la mia testa. Non così chiaramente, non con le parole con cui lo dico adesso; era piuttosto un tormentoso brancola­ re e tastare, in un terribile vuoto, alla ricerca di un punto fermo. Poi seppi di nuovo chi ero, e mi do­ mandavo solo: Dove mi trovo? E giunsero risposte: A casa, nel mio letto, Miksch - è il mio compagno di stanza - sarà subito di ritorno. Sveglia! E ancora: Nell’àula della quinta, seduto al mio posto nel pe­ nultimo banco. No, come può accadere di addor­ mentarsi in pieno giorno al caffè! Tutt’a un tratto però fui in grado di riconoscere quanto stava attorno a me, i cespugli, l’albero, le case giravano in circolo, mi ricordai del vecchio rigattiere, del vaso per la se­ nape di rame smaltato e dei due poliziotti, e d’im­ provviso seppi esattamente cos’era successo e dove mi trovavo. « Il grammofono suonava ancora, e ancora ripete­ va “passar... di fronte”. Dal campanile echeggiavano i rintocchi: le nove. Tutto, la caduta, lo svenimento e il risveglio, era durato non più di due secondi. «La testa mi doleva terribilmente. Tentai di alzar­ mi lo stesso. Ci riuscii. Vicino a me giacevano due rametti spezzati. Ero precipitato tra i rami del noce e questo aveva attenuato la violenza della caduta. 100

Provai a camminare. Anche le gambe ora facevano un po’ male. Evidentemente mi ero procurato qual­ che escoriazione. «Mi guardai attorno. Non c’era anima viva. Nes­ suno mi aveva visto. Solo un gatto attraversò di corsa il giardino in fuga precipitosa. I due poliziotti pro­ babilmente stavano ancora armeggiando con la ser­ ratura della soffitta. «I dolori alla testa scomparvero. Il mio soprabito e il cappello erano a terra, accanto a me. Li raccolsi tutti e due. Anche gli occhiali, che stranamente non s’erano rotti. Vidi che ero caduto su un mucchio di sabbia, e mi spazzolai la giacca e i pantaloni, come meglio potei. Poi attraversai l’ingresso, varcai il por­ tone aperto, senza incontrare nessuno, svoltai nel vicolo ed ero libero! ». Stanislaus Demba si alzò, poi tornò a sedersi len­ tamente. Guardò per terra pensieroso e disse: «Aparte le manette».

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«Sì,» disse Demba «a parte le manette. Te l’ho pur detto che me le avevano messe, dopo che per la seconda volta avevo tentato di gettarmi sul vecchio. Su nella sua stanza, vicino alla porta a vetri. Quando mi ritrovai nel giardino, inizialmente non vi badai nemmeno. Non mi resi davvero conto di essere am­ manettato, neanche quando mi spazzolai la giacca. Ero libero. Potevo andare, veloce quanto volevo e dove volevo. Potevo sparire. Solo a questo pensavo. « La Klettengasse era deserta. Non considerai nep­ pure l’ipotesi di nascondere le mani, tanto ero im­ prudente, sconsiderato. Tanto poco valutavo la di­ sgrazia che mi aveva colpito, e il pericolo che in­ combeva su di me a causa delle manette. «Avvertii nuovamente il disgustoso odore di mal­ to e mi tappai il naso con le mani. Passai davanti a una finestra al pianterreno e una vecchia guardò in strada attraverso i vetri chiusi. D’un tratto il suo vol­ to assunse un’espressione atterrita, e lei impietrì dallo spavento. Rimase a fissarmi a bocca aperta, non riusciva nemmeno a urlare. Allora mi spaventai 102

per quella faccia sconvolta e per me stesso, e nasco­ si le mani sotto il soprabito che portavo piegato sul braccio. Poi girai l’angolo. «Camminai attraverso un dedalo di stretti vicoli, cambiai spesso direzione e presto fui sicuro che i due poliziotti non avrebbero più potuto trovarmi, se pro­ prio non li avesse aiutati il caso. Tentai quindi di al­ lontanarmi velocemente da Heiligenstadt. Quando mi capitò di passare davanti a un vecchio mendican­ te mi fermai per dargli del denaro. Cinquanta cente­ simi, pensai, come ringraziamento alla Divina Provvi­ denza perché ero di nuovo libero. Ma all’ultimo istan­ te, mi venne in mente: Non posso mica. Mi tradirei, se ora mettessi le mani in tasca. Lasciai perdere il mendicante. Aveva già cominciato a recitare benedi­ zioni e parole di gratitudine, e di certo a quel punto rimase deluso. Ma non potevo aiutarlo, così gli restai debitore dell’anticipato “Dio gliene renda merito, giovane signore”. Solo in quel momento, proseguen­ do il cammino, compresi per la prima volta che le ma­ nette erano ben più di un piccolo, fastidioso contrat­ tempo, anche se ancora non avevo idea di quel che si­ gnificavano in realtà: un peso terribile, da togliere il respiro, un peso che mi avrebbe trascinato a terra senza pietà, come nelle Mille e una notte quel vecchio accovacciato sulla schiena di Simbad il Marinaio. «Sentii lo scampanellio di un tram, accelerai il passo e giunsi in una piazza con un piccolo parco. Alla fermata era in attesa una vettura. Ma non appe­ na fui salito, pensai: Buon Dio, non posso assoluta­ mente pagare, ammanettato come sono. Per fortu­ na la vettura era gremita di gente e il bigliettaio an­ cora abbastanza lontano da me. Quando poi, dopo un bel tratto di strada, mi si avvicinò, io scesi come fossi arrivato a destinazione, e andai a piedi alla fer­ mata successiva. Feci così tre o quattro volte. Il siste­ ma era buono e ben presto arrivai in tutt’altra zona, e fui al sicuro». 103

«E non possono trovarti, vero, Stanie?» chiese Steffi Prokop preoccupata. «Non darti pensiero per questo, piccola. Vienna è grande. E se anche, per un destino avverso, doves­ si imbattermi nei due poliziotti, loro non mi ricono­ scerebbero di certo. Mi hanno visto solo per pochis­ simo tempo e solo nella penombra di una vecchia casa. Inoltre adesso porto un altro cappello e un al­ tro soprabito: la mantella, credo, è stata inventata apposta per gente che voglia nascondere le mani. E infine mi sono fatto tagliare i baffi all’inglese. Non ho forse un aspetto completamente diverso dal soli­ to, oggi?». «Sì. Un po’ diverso». «E allora, vedi» disse Demba soddisfatto. «Tra l’altro non è stato neanche tanto semplice farmi ra­ dere. E andata bene, ma avrei potuto facilmente tro­ varmi in grave imbarazzo. Infatti avevo preso le mie precauzioni e, prima di entrare nella bottega, mi ero nascosto in un portone per cavar di tasca i soldi. Mentre venivo rasato, tenevo i cinquanta centesimi in mano. Poi mi alzai e, intanto che il garzone mi spazzolava, lasciai cadere, apparentemente per sba­ dataggine, i soldi per terra. Il ragazzo li raccolse, io mi rallegrai per quella buona idea e stavo per uscire quando lui disse: «“Ancora dieci centesimi, prego”. «“Ma come?” chiedo. «“Fanno quaranta centesimi” risponde il garzone. «“Ebbene? A me ne sono caduti cinquanta”. «“No, erano solo trenta” dice lui e mi mostra la mano aperta: c’erano effettivamente solo trenta centesimi. Una moneta da venti si era persa sul pavi­ mento. Dico: “Il ventino dev’essere per terra da qualche parte”. Si china. Mentre cercava senza ba­ dare a me, volevo cavare di tasca venti centesimi e metterli sul tavolo. Ma per disgrazia, proprio in quel momento si apre la porta ed entra un signore... so104

no riuscito appena in tempo a far sparire le mani. Il ragazzo, stufo di cercare, dice: “Qui non c’è niente, il signore dev’essersi sbagliato”. «“Ma deve esserci. Sono sicuro, continui a cerca­ re” gli rispondo. «Ma non voleva continuare. “Trenta centesimi le sono caduti, signore, l’ho visto bene”. «Ero disperato. “Erano cinquanta” ripeto. “Cer­ chi ancora, vedrà che li trova”. Ma ecco che si immi­ schia anche il signore, e chiede brontolando perché mai debba aspettare a causa di quei miserabili spic­ cioli, pur avendo una gran fretta. Non sapevo più che fare e, nell’imbarazzo, per guadagnare tempo, dico: “Ha già guardato sotto l’armadio? Sono finiti lì”. Il barbiere guarda e, davvero, pensa il caso, il de­ naro era... veramente lì. Quindi me ne andai via alla svelta, ma mi sentivo come uno che per poco non fosse stato investito da un’automobile. Prima non avevo mai pensato che si usassero tanto spesso le mani in un giorno. Molto più spesso del cervello, questo me lo puoi credere, Steffi». « Che farai adesso? ». « Sai, » disse Demba « adesso ho un doppio compi­ to. Innanzitutto devo procurarmi duecento corone. Per questo non ho bisogno di te, Steffi, posso farlo da solo. Ma devo liberarmi delle manette ed è qui che dovresti aiutarmi». Steffi Prokop tacque, pensierosa. «Ti ho detto tutto, Steffi. A te sola ho detto tutto. Tu sola deciderai se sono colpevole o non colpevo­ le. Ti ho raccontato ogni cosa. Le ragioni, tutto. Mi assolvi?». La ragazza scosse la testa. «No».

Demba si morse le labbra. «Allora non vuoi aiutarmi? ». « Oh, sì che voglio aiutarti. Fammi vedere le ma­ nette! ». 105

«No,» disse Demba «se pensi che ho torto, non mi serve il tuo aiuto. Perché vuoi aiutarmi, se mi condanni?». «Te l’ho detto prima, Stanie,» disse Steffi piano, in tono supplichevole « una donna può voler bene a un uomo, anche se è brutto e sciocco. E anche se è cattivo, Stanie. Fa’ vedere le manette». «No» rifiutò Demba, scostandosi da lei con la se­ dia. «Ache prò?». «Ma dovrò pur vederle prima, Stanie, se ti devo aiutare». Stanislaus Demba scrutò nervosamente la porta. «Verrà qualcuno». «No, stanno ancora mangiando» disse Steffi Prokop. «Solo alla fine del pranzo, viene mio padre e si sdraia sul sofà. Fa’ vedere, su». Lentamente e con esitazione Stanislaus Demba tirò fuori le mani da sotto la mantella. «In realtà m’è indifferente che tu mi creda un cri­ minale o no. Riconosco solo me come giudice di me stesso» affermò guardando la ragazza con un’oc­ chiata timorosa, che smentiva quelle parole tanto si­ cure. « Così dunque sono fatte le manette! » disse Steffi Prokop sottovoce. « Te le immaginavi diverse? » chiese lui e nascose di nuovo le mani sotto la mantella. «Due polsini d’acciaio e una sottile catena. Manette! Suona così diverso da come appaiono. Così innocuo. Quando sentivo questa parola, pensavo sempre a una corsa con la slitta, d’inverno, oppure al costume di un buffone di corte. Suona bene: manette. Eppure è peggio che se avessi alle mani la lebbra del generale Abner».1 1. Probabilmente l’Autore confonde Abner, generale di David, con Naaman, altro condottiero biblico, che ad un certo punto aveva contratto la lebbra [N.d. 7?].

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«È una catena piuttosto sottile» constatò Steffi. «Non può essere poi tanto diffìcile segarla». Si al­ zò. « Papà ha un cesto per gli attrezzi. Aspetta, vado a prendere una lima». Tornò con due lime, una grande, l’altra più pic­ cola. «Adesso devi tenere la catena il più possibile tesa. Così va bene. Facciamo in fretta». Cominciò a limare. « E cosa ti succederebbe, Stanie, se ti trovassero? » chiese. «Devi tener ferme le mani, altrimenti non va». « Due anni di prigione » rispose Demba. «Due anni?». Spaventata Steffi Prokop alzò lo sguardo dal lavoro. . «Sì, più o meno. Forse un po’ meno di due anni di prigione ». Lei non disse nulla, ma si affannò a limare la ca­ tena, senza fermarsi né stancarsi. « Sì, » disse Demba « è questo il lato terribile della faccenda. Questa sproporzione tra colpa e castigo. Due anni di supplizio! Due anni di ininterrotta tor­ tura». «Zitto!» ammonì Steffi. «Non così ad alta voce. Di là possono sentire ogni parola». «Due anni di supplizio! » riprese Demba sommes­ samente. « Bisogna chiamare la cosa con il suo vero nome. La prigione è l’ultimo rimasuglio della tortu­ ra, e il più terribile. Le piccole torture, il cavalletto e il serrapollici, sono state abolite, ma la peggiore di tutte, la prigione, l’abbiamo mantenuta. Essere rin­ chiusi giorno e notte in una stretta cella, come un animale in gabbia - non è un supplizio questo? ». «Devi stare fermo, Stanie, altrimenti non riesco a lavorare». « Sì, e la gente lo sa, eppure se ne va a passeggio e a teatro, e mangia e dorme. A nessuno toglie l’appe­ tito, a nessuno il piacere, a nessuno il sonno il fatto che nello stesso istante mille altri debbano soffrire 107

la tortura del carcere! Se gli uomini fossero in grado di comprendere sino in fondo queste parole “due anni di prigione”, di ponderarle fino alla fine, do­ vrebbero gridare al cielo per l’orrore e il raccapric­ cio. Ma hanno i sensi ottusi, e la Bastiglia è stata pre­ sa d’assalto una sola volta». «Ma ci deve pur essere un castigo». « Davvero? Certo. Dev’esserci un castigo. Ascolta, Steffi, ti voglio confidare un segreto, ma non spa­ ventarti: non dev’esserci proprio nessun castigo». Demba respirò a fondo. Rosso per l’eccitazione, balbettando con voce roca e fanatica, proseguì: « Non deve esserci nessun castigo. Il castigo è fol­ lia. E l’uscita di sicurezza a cui gli uomini danno l’assalto quando si diffonde il panico. E il castigo ad avere la colpa di ogni crimine che viene o che verrà commesso». «Non ti capisco, Stanie». « Che l’umanità abbia il potere di castigare, è que­ sta la causa di tutta l’arretratezza spirituale. Non ci fossero castighi, si sarebbero già da tempo trovati i mezzi per rendere i crimini impossibili, superflui e inutili. Quanto saremmo più progrediti in tutto se non avessimo più né galere né patiboli! Avremmo case che non prendono fuoco e non ci sarebbero in­ cendiari, non avremmo più armi, e non ci sarebbe­ ro assassini a tradimento. Ciascuno avrebbe quanto gli serve e quanto desidera, e non ci sarebbero ladri. Alle volte penso: Che fortuna che la malattia non sia un crimine. Altrimenti non avremmo medici, ma soltanto giudici». «Ma stai fermo, Stanie, se no non va». «Sempre mi viene in mente la bimbetta della donna che abita accanto a me. Anche la piccola, un giorno, ebbe un incontro con Temi castigatrice. Sua madre saltò dal tram con lei, e cadde. La bimba finì sotto il cacciapietre della vettura successiva, ne ebbe una gamba maciullata e gliela amputarono. Si po108

irebbe credere che tutte e due, madre e figlia, ades­ so siano misere e infelici abbastanza. Invece no! Non ancora. Deve arrivare la Giustizia, a castigare. La donna viene accusata di negligenza. E condan­ nata a una multa di cento corone. E vedova di un impiegato postale. Ma cento corone le ha. Le aveva messe da parte per la sua bambina. E la bambina, che è storpia, adesso dovrà anche vivere in miseria, perché questo ha voluto la Giustizia. Deve patire la fame. Vedi, ecco come vanno le cose quando casti­ gano i giudici di questa terra. E io avrei dovuto con­ segnarmi nelle mani di questi giudici, con la loro abietta, folle idea di “castigo”?... Hai finito, Steffi, finalmente?». «No! Non va! La catena è troppo resistente. Non va, Stanie!» singhiozzò Steffi, guardando affranta e disperata le povere mani di Stanislaus Demba.

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«Cosa c’è, scimmietta? Mi sembra proprio che tu stia piangendo! Che ti è successo?». Il signor Stephan Prokop era entrato nella stanza così aH’improvviso che Demba non aveva avuto il tempo di ritirare le mani sotto la mantella. Lo stu­ dente rimase rigidamente seduto sulla sedia e, per il momento, trovò sotto il piano del tavolo un rifugio d’emergenza per le mani. «C ’è stato qualcosa tra voi? » il signor Prokop s’in­ formò presso Demba. «Non c’è stato niente» disse Demba brusco. «Steffi sta piangendo, perché il mio cagnolino è stato in­ vestito; è questo che l’ha sconvolta tanto». Con gran­ de disagio vide il signor Prokop avvicinarsi al sofà, da dove si poteva vedere sotto il piano del tavolo. « Investito? » disse Prokop. «Sì, dal carro di un macellaio». Le mani di Dem­ ba cercarono riparo dietro lo schienale di una sedia ma, allorché il signor Prokop interruppe d ’un tratto il giro della stanza fermandosi davanti a Demba stes­ so, dovettero ritirarsi in fretta sotto il tavolo. 110

«Non sapevo neanche che lei avesse un cane, si­ gnor Demba. Quando ancora abitava da noi, lo ri­ cordo con precisione, non li poteva davvero soffrire i cani! ». Il signor Prokop si sdraiò sul sofà. « E stato lui ad adottarmi » replicò Demba. Il rifu­ gio sotto il piano del tavolo si rivelò di dubbia effica­ cia. «Che aspetto aveva?» volle sapere il signor Pro­ kop. «Era un piccolo volpino, a chiazze marroni. Ma non si ricorda? Eppure l’ho portato una volta» rac­ contò Demba, tentando di frapporre tra sé e il si­ gnor Prokop l’ampio schienale di una sedia. « Mi pare, sì. Ora ricordo ». Il signor Prokop soffiò in aria una nuvola di fumo dalla pipa. « Com’è che si chiamava?». « Cyrus » disse Demba, cui sul momento non ven­ ne in mente altro nome se non quello del suo nemi­ co a quattro zampe della mattina. Il signor Prokop sbattè la pipa per vuotarla, e di questa circostan-' za bisognava approfittare. «Cyrus. E vero» disse il signor Prokop. «Strano nome per un cane. Così ha beatamente reso l’ani­ ma a Dio? Be’, le mie condoglianze. Scimmietta, adesso smettila di piangere. Va’ di là, il tuo pranzo si sarà già freddato». Sbadigliò. Dopo mangiato gli ve­ niva sempre sonno. «E poi, non devi tornare in ufficio oggi pomeriggio?». Steffi si alzò, lisciò il grembiule e gettò uno sguar­ do furtivo alle mani di Demba, che, come volpi nel­ la loro tana, erano in procinto di scomparire sotto la mantella. Quindi andò nell’altra stanza. La porta rimase aperta e si diffuse un odore di carne di man­ zo lessa e di burro fuso. Si alzò anche Demba, e si mise a esaminare la rac­ colta di soprammobili posti sul cassettone. Lo gno­ mo con la candida barba da patriarca, che usava a mo’ di ombrello un rosso ovolo malefico, la famiglia 111

di gatti di porcellana e la tenda araba con una pal­ ma dattilifera, opera d’arte creata dal padre di Steffi con dei pezzi di sughero. Il vecchio Prokop amava dedicarsi a lavori di tal genere. C’era anche una cas­ setta da cucito costruita con scatole di fiammiferi vuote, mentre alla parete era appeso un ritratto del­ l’Imperatore fatto con francobolli usati. « Scimmietta, sii gentile, portami la mia birra! » pregò in quel momento il signor Prokop. « L’ho la­ sciata sul tavolo». Steffi portò la birra. Prokop vuotò il bicchiere e depose la pipa. Si girò con la faccia verso il muro e dopo pochi minuti era addormentato. Allora Steffi scivolò in punta di piedi vicino a Stanislaus Demba. «Stanie! Che facciamo adesso? Per l’amor di Dio, che facciamo adesso? ». «Me la sono cavata niente male con le bugie, ve­ ro? La mia novantaseiesima bugia da questa matti­ na» considerò Demba. Steffi Prokop ricominciò a piangere. «Che disgrazia! Che disgrazia!». «Su, non piangere!» disse rudemente Demba. «Non ha alcun senso. Dobbiamo provare un’altra volta » « Non va. Non può andare. Ho limato e limato fin­ ché non ce l’ho più fatta, ma la catena è rimasta com’era. Non si riesce a tagliare con la lima. Dev’es­ sere fatta di un acciaio speciale. Che facciamo ades­ so, Stanie?». «Ma non piangere! E smettila. Finirai per sveglia­ re tuo padre». Impacciato, Stanislaus Demba tentò di accarezzare i capelli di Steffi. Era al tempo stesso penoso e ridicolo vedere quelle due mani, aggioga­ te assieme come due cavalli da tiro o due muli. Si­ mile a un muto e noioso accompagnatore, che ti se­ gue caparbio senza che tu possa scrollartelo di dos­ so, era la mano sinistra di Stanislaus Demba. 112

Lo studente abbassò le braccia, Steffi smise di piangere e improvvisamente disse: « Ma questi aggeggi hanno delle toppe. Si dovran­ no pur poter aprire». «Certo». «Abbiamo un mucchio di piccole chiavi in casa. In corridoio è appeso un armadietto, dentro ce ne saranno venti o trenta. Una andrà bene! Dobbiamo provarle». Portò una manciata di piccole chiavi e, senza far rumore, le depose l’una accanto all’altra sul davan­ zale della finestra. Tentò con la prima. « Questa è della pendola che sta in sala da pranzo. Non serve a niente, è troppo grande». Afferrò la seconda. «Ecco la chiave dell’astuccio del mio violino. Troppo grande anche questa. Non entra nemmeno. Aspetta un momento, forse quest’altra. E del cofa­ netto nel quale mia madre conserva gli orecchini e i suoi due biglietti della lotteria... Neanche». L’una dopo l’altra, provò tutte le chiavi. Nessuna andava bene. Una sola entrava nella toppa, ma la serratura non volle aprirsi. La ragazza rimase pensierosa per un istante, esi­ tando infilò una mano nella tasca del grembiule e ne estrasse una piccola chiave. « Questa è del mio diario. Sai, il mio diario ha dei fermagli, che si possono chiudere a chiave. Penso che vada bene ». «Ma lascia stare. Di sicuro non andrà neanche quella». «Invece sì! Fammi provare prima, per lo meno. Vedi... no! Neanche questa, è troppo piccola! ». Guardò Stanislaus Demba sconsolata. «Stanie! E troppo piccola! Cosa facciamo?». «Della chiave abbiamo bisogno» disse Demba. « Dobbiamo chiedere a un fabbro di forgiarla. Fac­ ili

ciamo un calco di cera... dove possiamo trovare del­ la cera?». « Cera ne ho io, qui in casa». «E come mai?». « Dipingo, no? Lo sai bene: fiori e uccelli e motivi ornamentali su carta velina e nastri. C’è una tecnica particolare, per la quale serve la cera. Su certi punti, che non devono venire in contatto col colore, si ver­ sa della cera liquida. Ne ho ancora un bel pezzo. Aspetta, vado a prenderlo». Tornò col pezzo di cera e fece il calco di tutte e due le serrature. « Porta i calchi da un fabbro » disse Demba. « Ma devi stare attenta e pensare bene a quello che dici, perché non si insospettisca». «No. Non vado da nessun fabbro. Di fronte a noi abita una famiglia, e il figlio maggiore è apprendista in una grande officina. E molto abile. Già altre volte ci ha aggiustato delle serrature. Adesso, a mezzogior­ no, sarà di sicuro a casa. Gli dirò che ho perso la chiave del mio diario, ma che non glielo posso por­ tare perché ci sono scritte delle cose che lui non de­ ve leggere. Per questo ho fatto lo stampo di cera, gli dirò. Così non potrà sorgergli alcun sospetto... allo­ ra, aspetta, vado subito di là». Passarono cinque minuti prima che fosse di ritor­ no. Ma era rossa in viso per la gioia e l’eccitazione. «E andato tutto benissimo. Prima voleva il diario, gli serviva assolutamente, ha detto. Sai, mi fa una corte spietata e gli piacerebbe sapere se c’è scritto qualcosa su di lui. Per questo lo voleva. Ma io l’ho dissuaso. Alle otto, quando torna dal lavoro, mi por­ ta la chiave». «Solo alle otto?». « Sì, alle otto. Prima non è possibile. Sino ad allo­ ra dovrai aspettare. Ma sai una cosa? Resti in casa, ti chiudi dentro e non fai entrare nessuno nella tua camera. E alle otto vengo lì da te, e ti porto la chia114

ve. Dovrai aprirmi tu stesso, quando suonerò. Non mi vedrà nessuno? ». «No».

«Sarai solo? Non abiti assieme a un altro signo­ re? ». « Miksch? Quello la sera è già tornato al lavoro ». «Sono curiosa di vedere che aspetto ha la tua stanza. Non sono mai stata nel tuo appartamento. Di sicuro ci sarà una gran confusione. Farò un po’ d’ordine. Prima, quando abitavi da noi, Dio solo sa quante volte ho messo in ordine la tua scrivania. Adesso andrai a casa e aspetterai, finché vengo io. Non devi uscire, Stanie! Altrimenti ti tradirai. Pro­ mettimelo, Stanie». Ma il cervello di Stanislaus Demba era compietamente dominato dal pensiero di soppiantare col de­ naro il rivale. Dimenticò quindi ogni ragionevolezza e ogni prudenza. «Così non va» disse. «Non posso tornare a casa adesso. Adesso c’è ancora Miksch, a casa. Esce solo la sera. E poi ho anche da fare, te l’ho detto. Devo procurarmi il denaro». «Per Sonja, lo so » disse Steffi, e annuì col capo. Demba si mise il cappello in maniera complicata, con un grottesco movimento parallelo delle mani, che ricordava le figure di certi affreschi funerari egi­ zi. Poi si alzò. «Stanie!» supplicò Steffi Prokop. «Stanie, dovre­ sti ugualmente rinchiuderti da qualche parte e non farti vedere da nessuno. Dammi retta. Sei in perico­ lo, se qualcuno scopre...». Si interruppe. Di là, sul sofà, il vecchio Prokop si era mosso. Tutti e due rimasero in ascolto. « Ha sentito qualcosa? » sussurrò Demba. « No, » rispose lei a bassa voce « non si è nemme­ no svegliato. Stanie, dammi retta! Se qualcuno vede che tu... ». «Piccola! Ma è proprio questo che mi attira» dis­ ili

se piano Demba. «Vedi, con queste manette sono estraneo al mondo. Me ne sto tutto solo contro mi­ lioni di altri uomini. Chiunque getti anche un solo sguardo sulle mie mani legate, da quel momento sarà mio nemico, e io il suo, anche se prima poteva essere la persona più pacifica del mondo. Non chie­ derà chi sono, non chiederà cos’ho fatto, mi darà la caccia, e se d’improvviso attraversasse di corsa la stra­ da un cinghiale o una volpe o un capriolo, la caccia non potrebbe essere più spietata e crudele che se mi cadesse a terra la mantella e si vedessero le mie mani». « Capisci ora? » disse Steffì. « Era questo che vole­ vo dire ». «Ma questo mi seduce, Steffì. Questo mi attira. Cammino tranquillo e sicuro in mezzo a milioni di nemici che non mi riconoscono, e mi prendo gioco di loro. Questa mattina avrei forse ancora potuto tradirmi. Ero un principiante. Ma ora... non hai un’idea della pratica che ho acquistato nel non mo­ strare le mani. Quasi quasi mi dispiace che il gioco duri solo fino a stasera. Stasera alle otto, non è vero? E adesso, stammi bene». Steffi lo accompagnò alla porta. « Dove vai? » chiese. «Al lavoro! » disse Demba scendendo le scale.

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Frau Hirsch, la moglie del dottor Hirsch della EBlinggasse, awocato di corte suprema, entrò nello studio del marito respirando con affanno. Si lasciò subito andare nella poltrona di cuoio, destinata ai clienti e posta a fianco della scrivania dell’avvocato, emise un sospiro asmatico e sventolò alcune banco­ note sotto il naso del consorte. «Dimmi, Robert, cosa devo farci con queste ot­ tanta corone? ». « Ho proprio qui, davanti a me, le pratiche relati­ ve all’asta giudiziaria della Villa Elfriede di Neuwaldegg. Dodici stanze, camera per la servitù, garage, un parco stupendo, a due minuti dal tram... va’ lì e fa’ un’offerta! ». «No. Non scherzare. Mi trovo in imbarazzo. Non so se devo tenere i soldi oppure no. E la paga men­ sile del precettore di Georg ed Erich, il signor Demba. E quel Demba, pensa, non la vuole pren­ dere ». «Paga mensile? Non è mica .il primo giorno del mese oggi». 117

« No. Ma mi ha chiesto se potevo pagarlo già og­ gi». «E non vuole i soldi?». L’avvocato fece cadere la cenere dal sigaro. «No. Voglio raccontarti cos’è successo. Allora ascolta. Un quarto d’ora fa suonano alla porta, en­ tra l’Anna: “Signora, c’è il signor Demba”. Mi mera­ viglio e penso: Che vorrà mai adesso, dopo le due, i ragazzi sono a scuola fino alle quattro, e questo lui lo sa bene. Stavo proprio facendo i conti con la cuo­ ca, così gli ho mandato a dire di aspettarmi in salot­ to, io lo avrei raggiunto subito, intanto si accomo­ dasse. E appena finito con la cuoca, eccomi da lui». Frau Hirsch fece una piccola pausa per prendere fiato ed emise un leggero sospiro, che doveva indi­ care quanto fosse stremata dalle molteplici incom­ benze della vita quotidiana. Proseguì: «Allora, come entro lui scatta in piedi e ha lo stes­ so aspetto della cameriera quando la sorprendo col barattolo dello zucchero. Lo sai, per il resto è piut­ tosto brava, Anna, ma di spilluzzicare zucchero non sa fare a meno. Dunque, anche il signor Demba sembra aver commesso qualcosa di proibito, è del tutto confuso. Io dico: “Resti pure comodo, signor Demba!”. E penso anche: Chissà perché è così im­ barazzato? Mai e poi mai avrei pensato al sigaro». «A quale sigaro?» chiese l’avvocato. «Aspetta. Sentirai subito. Lui si siede e io doman­ do: “Allora, signor Demba? Quali nuove mi porta?”. Lui dice. “Gentile signora, volevo solo comunicarle che devo partire per quindici giorni”. “Ma è molto seccante,” dico io “nel bel mezzo dell’anno scolasti­ co. E prima dello scrutinio. Georg non avrà bisogno di lei? Cosa c’è di tanto urgente?”. “Importanti im­ pegni familiari” risponde lui. “Georg nelle prossime due settimane non avrà alcun bisogno di aiuto, Erich men che meno. Sono messi bene ambedue in tutte le materie, Georg certo è un po’ debole in matema118

lica, ma il prossimo compito in classe è comunque fissato solo fra quattro settimane”. «“Prego,” dico “se è convinto che i ragazzi possa­ no fare a meno di lei... eventualmente potrebbe mandarmi un collega a sostituirla”. «“Non sarà necessario,” risponde “ma vorrei do­ mandare alla gentile signora...”, insomma, in poche parole mi chiede se non posso dargli già oggi il de­ naro per tutto il mese. Ebbene, lo sai, non mi va mi­ ca molto di pagare in anticipo il precettore, ma ho detto ugualmente: “Certo, molto volentieri”, visto che i soldi gli servono per il viaggio. Afferro il bor­ sellino e ne prendo ottanta corone. In realtà la som­ ma sarebbe più bassa, perché le ore del periodo du­ rante il quale è in viaggio non devo certo pagarglie­ le. Mi sono detta: Ha aiutato Georg in matematica, non è più arrivata a casa una sola nota di biasimo da quando questo Demba dà ripetizioni ai ragazzi, e quell’uomo conta su ogni centesimo, perché allora dovrei detrargli pochi fiorini, non ne vale la pena. Non ho ragione? ». «Certo, piccola mia» disse l’avvocato. «Allora, prendo le ottanta corone dal borsellino, e come lo rimetto via... d’un tratto avverto uno stra­ no odore di bruciaticcio, mi guardo attorno e chie­ do a Demba: “Signor Demba, non sente niente?”. Anche lui annusa e dice: “No, gentile signora, non sento niente”. «“Ma da qualche parte sta bruciando qualcosa, in questa stanza” dico, e nello stesso istante vedo il fu­ mo e il buco che il sigaro gli ha fatto nella mantella. Si era acceso un sigaro, mentre aspettava, e lo ha na­ scosto in tutta fretta sotto la mantella appena mi ha sentita arrivare, perché, non lo so. Da principio ho pensato che avesse preso uno dei tuoi Virginia dal portasigari - lo lasci sempre in giro aperto, Robert, quante volte ti ho detto, non lasciare in giro il por­ tasigari aperto, Anna ha un pompiere e di sicuro 119

ogni sera, quando esce con lui, ne fa sparire due o tre pezzi, ma a te non si può dire niente! Non ho ra­ gione?». «Sì, piccola mia» disse l’avvocato. «Allora penso, probabilmente ha preso uno dei tuoi Virginia e l’ha voluto nascondere sotto la man­ tella, e per questo era così imbarazzato quando so­ no entrata nella stanza. Insomma, io grido: “Signor Demba, si è bruciato la mantella”. Demba balza in piedi, lasciando cadere a terra il sigaro. Ma non era un Virginia, era un sigaro corto e grosso, di quelli tu non ne fumi, doveva averlo portato con sé. Ma allo­ ra perché l’ha tenuto nascosto? Non capisco. Per farla breve, lascia cadere il sigaro e quello giace fu­ migante sul tappeto, su quel piccolo tappeto, sai, che ci ha dato zia Regine per sdebitarsi dopo che, due anni fa, tu l’hai difesa nel processo per oltrag­ gio contro il suo padrone di casa. Dunque, il sigaro acceso cade su quel tappeto. Io mi sono spaventata a morte, ma il Demba se ne sta lì imperturbabile, co­ me se la cosa non lo riguardasse minimamente, os­ serva il sigaro che mi sta facendo un buco nel tap­ peto, e non muove un dito per raccoglierlo. « Esclamo: “Signor Demba, non vuole raccogliere il suo sigaro? Non vede che mi sta sciupando il tap­ peto?”. Il Demba arrossisce violentemente e si confonde del tutto, tossisce, balbetta, non riesce a spiccicare parola, ma finalmente dice: “Mi scusi, gentile signora, ma non devo piegarmi, il medico l’ha proibito. Mi viene subito un’emorragia se mi piego, ha detto il medico”. Hai mai sentito una cosa simile? Che ne dici?». L’avvocato disse «hmm». «Cos’altro mi restava da fare, ho raccolto io stessa il sigaro, visto che il signor Demba proprio non po­ teva piegarsi» disse Frau Hirsch con amara ironia, sospirando. All’asmatica e corpulenta signora stret­ tamente incorsettata si leggeva in volto che il racco120

gliere da terra il sigaro aveva costituito una presta­ zione ginnica di prima grandezza, congiunta a note­ voli difficoltà. « Ma il tappeto era ormai irrimediabilmente rovi­ nato» proseguì dopo un po’ «e presentava una grossa bruciatura nera. Naturalmente non ero più nella disposizione d’animo migliore per intrattener­ mi oltre col signor Demba, questo lo capirai. Quin­ di gli conto i soldi sul tavolo. E adesso viene il bello. Cosa pensi che succeda: il signor Demba non pren­ de i soldi. Li lascia dove sono. Io dico: “Prego, ecco le ottanta corone!”. Lui scuote la testa, con una fac­ cia così infelice e disperata che per poco non mi fa di nuovo pena. “Ma signor Demba,” insisto “non vorrà mica pagarmi il tappeto, siamo assicurati an­ che contro l’incendio”. Lui fissa il denaro, senza prenderlo. “Su, ma è ridicolo, prenda questi soldi” dico. “No, purtroppo non posso prenderli” rispon­ de di nuovo rosso in volto. Ebbene, penso io, se pro­ prio non vuole, non starò certo a litigare con lui. Di sicuro non lo costringerò ad accettare le ottanta co­ rone, ho ragione? Allora gli dico: “Signor Demba, se lei mi vuole assolutamente risarcire del danno, in realtà è un’assurdità da parte sua, ma in fin dei con­ ti...” e sto per rimettere via il denaro. Ma non appe­ na lo prendo in mano, mi guarda furioso con un’in­ credibile cattiveria, come se volesse farmi a pezzi coi denti. Mi sono proprio spaventata, mi guardava in un modo!, e ho lasciato lì i soldi. Che vorrà mai que­ st’uomo?, ho pensato, lo vuole o non lo vuole, il de­ naro? D’un tratto dice: “Gentile signora! Perché dobbiamo star qui a scervellarci? Non ha in casa un esperto di diritto? Per favore, lasci qui il denaro, e vada di là dal suo signor consorte e gli sottoponga questo intricato caso giuridico. Se lui dovesse essere dell’idea che non sono obbligato a risarcire il dan­ no arrecato al tappeto, allora prenderò il denaro senz’altro”. 121

«“Bene” dico io, prendo i soldi e li rimetto via. Sai, non mi andava di lasciare i soldi lì sul tavolo, la servitù passa di continuo per la stanza, e che biso­ gno ha Anna di sapere quale compenso riceve Demba? Ho ragione?». «Certo, piccola mia» disse l’avvocato. «Allora, che ne pensi? Devo davvero farmi pagare le ottanta corone da Demba? ». «Naturalmente è l’assicurazione che deve risar­ circi il danno, non l’insegnante privato» dichiarò l’avvocato lisciandosi la barba. «Ma questo signor Demba comincia a interessarmi. E strano il senso della legge che talvolta si riscontra soprattutto tra i non giuristi. Parlerò io stesso con Demba». Allorché l’avvocato entrò in salotto, scoprì che il si­ gnor Demba, cui evidentemente il colloquio era par­ so troppo lungo, non c’era più. La stanza era vuota. L’avvocato osservò il tappeto danneggiato. «Sai,» disse «di per sé il danno materiale non è tanto grave, con ottanta corone è strapagato. Que­ sto tappeto, infatti, è prodotto in serie e non vale granché. Te la puoi immaginare tua zia Regine spendere più di trenta corone per un regalo? ». «Robert! E questo cos’è?» gridò d’improvviso la signora Hirsch, indicando costernata un mucchietto di frammenti di porcellana, sparsi per terra sotto la mensola del caminetto. Era la statuetta di un postino, sulla quale Demba, furibondo per non essere riuscito a restare da solo col denaro, aveva sfogato il suo disappunto. E quel povero postino non aveva commesso altra colpa se non quella di porgere all’osservatore, con un sorri­ so invitante, un grande vaglia di porcellana!

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« Signor von Gegenbauer! » chiamò la governan­ te. « Signor von Gegenbauer, si svegli, su! Fuori c’è un signore che vuole parlarle». Fritz Gegenbauer si alzò insonnolito dal divano, ma fu subito ben desto appena sentì che un signore voleva parlargli. Quella notte aveva avuto un diver­ bio con un pubblico ufficiale, e ora attendeva la visi­ ta di quei due noti signori, coi pantaloni dalla riga impeccabile. «Un signore o due?». « Uno » disse la governante. « In divisa o in borghese? ». « In borghese ». « Che aspetto ha? E elegante? ». «Noo... no, di certo» rispose la governante, nel tono della più sincera convinzione. Fritz Gegenbauer si avvicinò al lavamano e cacciò la testa sotto l’acqua fredda. Poi si asciugò in fretta e si spazzolò energicamente i capelli. «Ecco. Adesso può far entrare il signore». Si appoggiò con fare indolente al tavolino da fu123

mo, posandovi una mano sopra, e con un’occhiata allo specchio si procurò la certezza di apparire co­ me un uomo che, con superiorità e tiepida indiffe­ renza, attenda lo svolgersi degli avvenimenti. Ma tutti questi bellicosi preparativi non servirono a nulla. Era solo Stanislaus Demba che la governan­ te introdusse nella stanza. «Ah, è lei, Demba?» esclamò Fritz Gegenbauer. «Aspettavo un’altra visita, assai meno piacevole». «Forse disturbo?» chiese Demba. «Neanche per sogno. Sono contento di vederla. Ma si sieda, vecchio amico». Demba si sedette. «Ebbene? S’è finalmente consolato della nostra sfortuna? » disse Gegenbauer. « La nostra sfortuna » consisteva nel fatto che Ge­ genbauer, tre mesi prima, era stato bocciato all’esa­ me di laurea. Un tale esito non lo aveva certo mera­ vigliato, ne aveva sempre avuto sentore, e lui attri­ buiva grande importanza ai presentimenti, che però nell’ora della prova l’avevano miseramente piantato in asso, poiché in quel frangente non aveva avuto al­ cun sentore di cosa in realtà si volesse sapere da lui. Ma Demba, che lo aveva preparato all’esame, s’era voluto addossare la maggior parte della colpa e per parecchio tempo l’aveva ostinatamente evitato. «Perché non prende una sigaretta, Demba» Ge­ genbauer incoraggiò il collega. «Ne ho qui di una qualità nuovissima: Phàdra. La provi. E del monopolio algerino. Me l’ha portata mia cugina Bessy da Biskra. Rischiando la vita ha contrabbandato i pacchetti oltre il confine. Ne pro­ vi una! ». « No, grazie » disse Demba. «Dia solo un tiro. Mi interessa sapere cosa pensa di questa marca. Lei è un intenditore». «Grazie, ma non fumo più». 124

« Come? E da quando? Ma se ne ha sempre ridot­ te in cenere quaranta al giorno». «Sono raffreddato» spiegò Demba e immediata­ mente fu preso da un feroce attacco di tosse, e sen­ za dubbio sarebbe soffocato, se il campanello della porta di casa non avesse interrotto quella sua virtuo­ sa interpretazione dell’ultima ora di un tisico. «Adesso sono arrivati» disse Gegenbauer cupo. «Arrivati chi?» chiese Demba. « Due signori, che eccezionalmente non vengono da me per giocare ai tarocchi». «Ah» comprese Demba. «Cos’ha combinato di nuovo, questa notte?». «Non so che farci. In primavera divento sempre intrattabile. La gente ormai dovrebbe saperlo e fare un po’ d’attenzione». Ma neanche questa volta erano i due austeri si­ gnori, ma solo il postino che consegnò una lettera e una cartolina. «Lei permette, vero» disse Gegenbauer comin­ ciando a leggere. Prima di suonare alla porta di Gegenbauer, Dem­ ba aveva elaborato un suo piano strategico. Non vo­ leva semplicemente chiedere dei soldi in prestito. Per nessuna ragione al mondo avrebbe formulato una simile richiesta. No, Gegenbauer doveva offrigli il denaro, e costringerlo ad accettarlo. Qualche tem­ po prima Demba gli aveva prestato dei quaderni di appunti, lezioni che aveva meticolosamente steno­ grafato in aula e che a casa, con pazienza certosina, aveva ricopiato in bella scrittura. Possedevano un certo valore e Demba sperava fiducioso che Gegen­ bauer li avesse ormai perduti o gettati via come inu­ tili. Perché Gegenbauer non era mai stato in grado di custodire oggetti avuti in prestito, ma allo stesso tempo era sempre disposto a risarcire in modo ge­ neroso il danno che arrecava. E su questo Demba aveva basato il proprio piano. 125

« In realtà sono venuto... » cominciò dopo che Gegenbauer ebbe gettato la lettera sul tavolo « sono ve­ nuto solo per chiedere se ha ancora bisogno dei quaderni che le ho imprestato a dicembre ». « Quali quaderni? ». «Le lezioni di Steinbrück sull’epica romana...». Gegenbauer ci pensò su. « Quattro quaderni mar­ roni e uno senza copertina? ». «Sì, proprio così». « Li deve avere per forza? ». «Sì, ne ho assolutamente bisogno. Ho un nuovo studente, infatti». « Questo è un guaio, » disse Gegenbauer « perché i quaderni li ho bruciati». Demba gioì interiormente ma, nel tono di voce più lamentoso di cui fu capace, gridò: «Come? Bruciati?». «Sì» annuì Gegenbauer, senza alcuna ombra di contrizione. «Non è possibile» esclamò Demba. « Ho bruciato tutto quello che in qualche manie­ ra avrebbe potuto ricordarmi la bocciatura all’esa­ me di laurea. Ho dato alle fiamme addirittura il ci­ lindro che portavo quel giorno». «Buon Dio, e adesso? » si lamentò Demba. «Lei è iellato» accertò Gegenbauer. «Non ne ha un secondo esemplare?». «No». «Non fa nulla» disse Gegenbauer. «Vorrà dire che sarà bocciato anche l’altro». « Chi? ». «Il suo nuovo studente». A quella dimostrazione di cinismo, Demba riten­ ne giunto il momento di avanzare delle proposte più pratiche. «Anche Mùller ne ha un esemplare» disse pensieroso. « Chi? ». 126

« Un certo Egon Müller. Ma quello non lo impre­ sta. Lo vuole vendere ». « Quanto chiede? ». « Settanta corone ». «Ma allora è tutto perfettamente in ordine. Per­ ché non l’ha detto subito, sventurato lei?» Gegenbauer estrasse il portafoglio. «No, grazie. Soldi non ne voglio» disse Demba in fretta. Gegenbauer gli teneva quattro banconote a una distanza allettante. «La prego, non stia a fare difficoltà, non posso farle riavere i quaderni per magia. Quindi, prenda questi soldi». «In nessun caso». «Perché no?». «Non faccio affari coi miei quaderni di appunti». «Ma questo non è mica un affare. Le rimborso so­ lo il danno subito ». « La prego, parli lei stesso con questo Müller e poi mi faccia avere i quaderni. Abita in PâzmânitenstraBe, al numero undici». Demba tremava al solo pensiero che Gegenbauer accettasse quella propo­ sta e rimettesse via il denaro. «Non lo conosco nemmeno. Se la sbrighi lei» ri­ spose Gegenbauer. A Demba cadde un peso dal cuore. Ma scosse il capo. Qualcuno suonò alla porta. « Sono loro » disse Gegenbauer. « Sa, Demba, tan­ to di cappello per la sua sensibilità, ma adesso non posso stare a fare tante storie». Prese una busta dalla scrivania, e infilatevi le ban­ conote, la cacciò nell’invitante tasca aperta della mantella di Demba. «Bene,» disse «i soldi glieli ho dati. Li usi come meglio crede». Era questo che Demba aveva voluto. Il denaro si 127

trovava nella sua tasca e non era stato costretto a ti­ rare fuori le mani per prenderlo in consegna. Si trattava ora di pensare a una dignitosa ritirata. « Ci sono fuori due signori » esclamò la governan­ te, posando sul tavolo i due biglietti da visita. «Wladimir Ritter von Teltsch. Dottor Heinrich Ebenhòch, sottotenente della Riserva» lesse Gegenbauer. «Faccia accomodare i signori». «Ebbene, io adesso me la svigno» disse veloce­ mente Demba. «La ringrazio di cuore, la faccenda è del tutto sistemata». «Salve! Salve!» lo salutò distrattamente Gegenbauer con voce nasale. «Torni a trovarmi, qualche volta ». E Demba, col bottino in tasca, lasciò l’apparta­ mento passando davanti a due scontrosi signori in finanziera che aspettavano in anticamera fissando il pavimento con tetra ostinazione. Demba esultò e cantò vittoria tra sé e sé. Ce l’ave­ va fatta. E senza alcuna fatica, quasi del tutto secon­ do i programmi. Il primo passo era compiuto. Set­ tanta corone! Mentre camminava, a ogni passo sen­ tiva frusciare, nella tasca della mantella, la busta contenente il tesoro. Settanta corone! Per la verità, era solo una parte di quello di cui aveva bisogno. Ma aveva dimostrato che le mani non erano indi­ spensabili per entrare in possesso di denaro. Non è facile, pensò Demba, ma funziona. Funziona! Gli venne da pensare a un uomo, un rappresentante di alcolici, che una volta aveva sentito vantarsi: « Oggi, senza alzare un dito, ho guadagnato cinquanta co­ rone! ». Senza alzare un dito! Che sfacciata esagera­ zione! Di sicuro avrà preso i soldi, tratto di tasca il portafoglio, piegato le banconote per riporle. Poi avrà firmato la ricevuta e stretto la mano al suo cliente. E tutto questo, quell’uomo lo chiamava: «Senza alzare un dito». Ridicolo. Se quello avesse avuto idea di quanto in realtà sia difficile ottenere 128

del denaro senza usare le mani! No. Decisamente non è un gioco da ragazzi. Bisogna costringere le persone con l’astuzia, con la superiorità spirituale, la forza di volontà, il potere dello sguardo, perché si applichino a fare quanto ci si aspetta da loro. Come adesso che ho costretto Gegenbauer a farmi accetta­ re per forza il denaro che io non ero in grado di prendere. Demba osservò la gente che gli passava accanto e rise silenziosamente tra sé. Se solo una di tutte queste persone avesse la pos­ sibilità di vedere attraverso la mia mantella! Questa anziana signora con l’elegante ombrellino di seta, per esempio. No, non sarebbe pericolosa. Si rifugerebbe discretamente in un portone, e per lo spaven­ to non riuscirebbe a proferire parola per dieci mi­ nuti. Ma quel signore lì, sembra un tipo energico. Come un capitano in pensione. Quello mi si gette­ rebbe subito addosso. Io tenterei di sparire in fretta dalla sua vista. Ma lui griderebbe: «Fermatelo! Fer­ matelo! ». E come cambierebbe in fretta, a quel punto, la scena stradale. Che tumulto! Li avrei tutti dietro. Nessuno fuggirebbe. Se sono in molti hanno corag­ gio. Tanto più per andare contro uno con le mani legate. Il vetturino di quella carrozzella salterebbe giù di serpa e verrebbe all’attacco con la frusta. E l’uomo all’interno, un forestiero probabilmente, vorrà esserci anche lui, non si può lasciarsi sfuggire un’occasione simile. Il garzone del fornaio cercherà di colpirmi con la sua cesta vuota, e lo studente di conservatorio con l’astuccio del violino, e quel fac­ chino là mi farà lo sgambetto quando passerò di corsa davanti a lui; l’intero mondo sarebbe unito contro di me, se solo mi vedesse con le manette ai polsi. Ho una sola persona dalla mia parte, un’unica alleata: Steffi. No, anche una seconda: l’apprendista fabbro. Quel babbeo mi sta aiutando senza saperlo. 129

Forse proprio adesso, mentre penso a lui, sta for­ giando la chiave che questa sera aprirà le mie cate­ ne. E ho ancora una terza alleata. La migliore: la vecchia, cara mantella. Mi protegge. Mi nasconde come una cappa magica, capace di rendere invisibi­ li. Nessuno vede le mie mani. La guardia, là. Come sembra bonariamente scioc­ ca. Non sospetta di nulla e bada solo al traffico. Che nessuna vettura urti con il tram e nessun fiacre con un furgone che trasporta mobili. Se potesse vedere dentro di me, no, se avesse anche solo un minimo sospetto - sarei perduto. Ma non sospetta di nulla. Non può sospettare di qualcosa. Per scherzo gli pas­ serò vicinissimo. Così! Se potesse leggere nel pen­ siero! Dovrebbero usare come guardie solo persone in grado di leggere nel pensiero e chiaroveggenti. Nei varietà se ne trovano a sufficienza. Una buona idea, davvero. Qualcuno dovrebbe avanzare questa proposta presso il Consiglio Imperiale, senza biso­ gno di presentare un’interpellanza: E disposta Sua Eccellenza, a far inviare all’alto comando di Polizia la direttiva, secondo la quale in avvenire, opportu­ namente...». «Lei, signore! ». Stanislaus Demba trasalì. Si sentì come se avesse ricevuto un colpo in pieno petto, lì, nel punto dove batte il cuore. Le ginocchia presero a tremargli. So­ lo lentamente riuscì a calmarsi... Dio, com’è facile spaventarsi. Ridicolo. La guardia non ce l’aveva mi­ ca con me. «Lei, signore! » ha chiamato, e io ho su­ bito creduto che si riferisse a me. Lo sa il cielo a chi era indirizzato. Probabilmente... «Lei, signore! » gridò la guardia di nuovo. Demba si fermò, d’improvviso e con uno scosso­ ne, quasi fosse impietrito. Il sangue gli defluì dal volto, i denti presero a battere, il cuore picchiava al­ l’impazzata... No. Non era possibile sbagliare. Il gri­ do era indirizzato a lui. A nessun altro. E ora la 130

guardia gli si stava avvicinando lentamente, molto lentamente... Incapace di muoversi, cinereo in viso, Stanislaus Demba attendeva la fine della propria libertà. Ora la guardia stava davanti a lui, lo misurava con gli occhi, e per un secondo non disse una parola, come se si preparasse a colpire. Demba sapeva che nell’istante successivo sarebbe crollato a terra. Ades­ so, adesso ci siamo. « Ha perduto qualcosa, signore » disse cortesemen­ te la guardia. Demba non comprese subito. «Non ha perduto niente?» ripetè la guardia. Lentamente Demba tornò alla vita. Non riusciva a parlare, scosse solo il capo. «Non le è caduto niente di tasca?» chiese ancora la guardia. Demba vide una busta bianca nelle mani del poli­ ziotto, ma non riuscì a connettervi un pensiero. Sentì solamente che poteva di nuovo respirare, e in­ spirò a pieni polmoni. Un grosso peso si staccò e si allontanò dalla zona del cuore. In quel mentre Demba si rese conto che la busta nelle mani del po­ liziotto conteneva il denaro, il suo denaro, che ave­ va perduto, e che doveva riavere. «Certo, è mia» voleva dire, ma nello stesso istante fece una tremenda considerazione. Poteva prenderla. Senza dubbio. Con abilità e di­ sinvoltura poteva afferrare la busta con la punta del­ le dita, forse la guardia non ci avrebbe neanche fat­ to caso. Ma la cosa non sarebbe mica finita lì. Per amor di Dio, poi avrebbe dovuto andare al commis­ sariato, dire il proprio nome, fornire spiegazioni, firmare qualche documento, e forse sul tavolo del commissario di polizia c’era già la sua descrizione. Il rapporto di quella mattina: giovane uomo di circa venticinque anni, apparentemente di buona estra­ zione sociale, alto, robusto, baffi rossicci... e il com­ ic i

missario mi squadra, dà un’occhiata alla descrizio­ ne, mi guarda di nuovo... Stanislaus Demba prese la sua decisione. Rinnegò il proprio denaro. «Non è roba mia» disse al poliziotto, facendo uno sforzo per evitare che la voce gli tremasse troppo. «Ma questa busta non è caduta di tasca a lei?» chiese stupita la guardia. «Non a me» rispose Stanislaus Demba. Scuotendo la testa, la guardia esaminò la busta. «Allora può averla persa solo quel signore lì, dall’al­ tra parte». Si diresse verso un passante che aveva attraversato la strada poco prima di Demba e che ora era fermo davanti alla vetrina di un negozio di cravatte. La guardia salutò e il signore dinnanzi alla vetrina si levò educatamente il cappello rigido. La guardia gli tese la busta, disse qualche parola e lo sconosciu­ to stette ad ascoltare con attenzione. Poi Demba vi­ de l’elegante signore appendersi al braccio la canna dall’impugnatura d’argento, togliere la busta di ma­ no alla guardia e contare le banconote. Quindi trar­ re di tasca un taccuino rilegato in pelle, riporvele con cura e rimettere il libretto nel taschino. Poi lo osservò alzare il cappello in segno di rin­ graziamento e allontanarsi con passo misurato.

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Il signor Kallisthenes Skuludis entrò nel grande negozio di moda maschile sul Graben e si fece mo­ strare delle cravatte da una commessa. Esaminò con cura e competenza i singoli articoli che gli venivano presentati, lasciò cadere l’osservazione che si era aspettato una maggiore scelta, che ormai non si riu­ sciva più a trovare qualcosa di nuovo e allo stesso tempo di buon gusto, e si decise infine per una cra­ vatta arancione, di pesante seta dai riflessi cangianti, che assieme alle altre due, acquistate precedente­ mente in altri negozi, si fece avvolgere in un foglio di carta velina. Non completamente soddisfatto dell’acquisto, u­ scì in strada. Era il terzo negozio di quel tipo che, in uno stesso pomeriggio, il signor Skuludis onorava di una sua visita. Ma non si pensi che avesse una neces­ sità particolarmente urgente di quel capo. Oh no, il signor Skuludis possedeva una collezione poco me­ no che completa: quasi seicento cravatte di ogni foggia e colore, in cui erano presenti tutti i modelli possibili, dalla semplice farfalla da frac fino a esem133

plari la cui fiammeggiante magnificenza cromatica imitava quella del colibrì topazio. Ma una debolez­ za, che lo faceva soccombere inerme di fronte alle tentazioni di una vetrina ben allestita, lo spingeva di continuo a nuovi acquisti. Quando fu in strada e si accese una Figaro potè notare come la sua elegante apparizione e il suo portamento distinto provocassero un giustificato scalpore. Un’impressione particolarmente profon­ da, tuttavia, gli parve di suscitarla su un giovanotto che, fermo sul marciapiede non lontano da lui, lo osservava con sguardi di non celata ammirazione. Simili mute ovazioni non erano una novità per il si­ gnor Kallisthenes Skuludis, anche se non sempre si manifestavano in forma tanto ingenua. Era avvezzo al fatto che il suo modo pigramente affascinante di piegare il braccio quando salutava, o di tenere il ba­ stone tra le dita, già dopo poco tempo - dappertut­ to il signor Kallisthenes Skuludis si fermava solo per poco tempo, questo era dovuto alla sua professione - venisse imitato dagli elegantoni della città, e che il gesto aristocraticamente distratto con cui estraeva la sigaretta dall’astuccio e la accendeva venisse preso ad esempio nei salotti del bel mondo. Ma Kallisthenes Skuludis era dominato da un for­ te senso delle differenze sociali, e quel giovanotto non sembrava, dall’aspetto, appartenere o essere vi­ cino agli ambienti frequentati dal signor Skuludis, che proseguì di conseguenza nella passeggiata, sen­ za badare oltre a Stanislaus Demba, poiché tra le qualità che gli avevano immediatamente conquista­ to le simpatie della buona società di Parigi, Pietro­ burgo, Bucarest e II Cairo, la signorile riservatezza era una delle più spiccate. S’immerse nello studio della vetrina d’un negozio di fiori, in una pasticceria sorseggiò una bevanda rinfrescante, quindi attraversò la strada per salutare una signora che conosceva, non sapeva più bene do134

ve l’aveva incontrata, probabilmente in una crociera nel Mediterraneo. Mentre conversava con lei, notò di nuovo Stanislaus Demba che a qualche passo di distanza, appoggiato a un lampione a gas, lo fissava senza posa. Il signor Skuludis era un ottimo fisiono­ mista - lo esigeva la sua professione - e riconobbe subito il giovane che gli aveva reso silenziosamente omaggio davanti al negozio di cravatte. Si accomiatò dalla signora ed entrò in una barbe­ ria. Dopo un quarto d’ora, rasato e con una nuova scriminatura, uscì e la prima persona che vide fu an­ cora una volta Stanislaus Demba. Il signor Kallisthenes Skuludis era portato a dif­ fidare degli sconosciuti. Pensava sempre subito a un detective - era una conseguenza della sua professio­ ne. Ora, di un detective Stanislaus Demba non ave­ va certo l’aspetto. Ciò nonostante il signor Skuludis non gradiva molto l’interesse nei suoi confronti che Stanislaus Demba così ostinatamente dimostrava. Trovò che Vienna, in fondo, non fosse che una città di provincia, un villaggio africano, nel quale ogni straniero vestito appena appena decentemente ve­ niva osservato come un mostro marino, e terminò anzitempo la passeggiata, sedendosi a un tavolo nel giardinetto di un caffè. Subito dopo entrò Stanislaus Demba. Si fermò esitando e parve riflettere. Nell’istante successivo si avvicinò al tavolo del signor Skuludis e chiese il permesso di potersi sedere. Il signor Skuludis rimase visibilmente urtato da tale richiesta. C’erano non pochi tavoli liberi, e lui ci teneva molto a bere il proprio tè in beata solitudi­ ne. Aveva cura di fare nuove conoscenze solo nelle stazioni, alle fermate dei tram o in altri posti affolla­ ti - e anche questo esclusivamente perché lo richie­ deva la sua professione. «Mi scusi, aspetto compagnia» disse perciò a Stanislaus Demba. 135

«Aspetta compagnia? Allora sarà bene non ri­ mandare oltre la soluzione della nostra faccenda» disse Demba sedendosi. Il signor Skuludis lo fissò oltremodo sorpreso. «Trovo che dovremmo sistemare prima il nostro piccolo affare » ripetè Demba. La parola « affare » aveva un suono familiare per il signor Skuludis, così si mise a osservare meglio l’uo­ mo che aveva di fronte. « Posso sapere a quali delle mie molteplici attività si interessa? » domandò. «Lo saprà subito» disse Demba. «L’ho seguita fin qui. Solo ora mi è possibile parlarle con discrezione e a quattr’occhi». Queste due espressioni - « con discrezione » e « a quattr’occhi» - impressionarono favorevolmente il signor Skuludis. Indicavano che l’uomo che aveva di fronte era una persona discreta, e la discrezione, per lui, veniva prima d’ogni altra cosa - faceva parte dell’essenza della sua professione. «Lei era nella PraterstraBe circa un’ora fa? » chie­ se Demba. «Ah ecco» disse Skuludis, annuendo. Adesso co­ minciava a capire. Un’ora prima, nella PraterstraBe, aveva avuto un colloquio di natura molto riservata con un mercan­ te di preziosi suo amico, al quale aveva offerto in vendita quel genere di gioielli, che solo malvolentie­ ri si mostrano alla viva luce del giorno. Le trattative erano però disgraziatamente andate in fumo, e Sku­ ludis si era allontanato non senza commentare con amarezza l’egoismo e la sete di guadagno del mer­ cante. E ora si scopriva che l’uomo aveva affidato a uno dei suoi gregari il compito di non perderlo di vista e, all’occasione, di riallacciare i contatti. «Lei è al corrente di tutto?» chiese il signor Sku­ ludis. 136

«Certo,» rispose Demba «sono stato testimone oculare». « E lei crede che la questione non sia ancora del tutto risolta? ». «In effetti sono proprio di questo parere» disse Demba con rabbia. «Ebbene, per me adesso la cosa non è affatto ur­ gente » considerò il signor Skuludis. «Ma per me lo è a maggior ragione» replicò Demba con impeto. «Un’ora fa ero in uno stato di necessità. Avevo bi­ sogno di denaro e di questo si voleva approfittare. Ora la situazione è migliorata e non ho più bisogno del suo denaro». « Questo semplifica enormemente le cose » si ral­ legrò Demba. «A questo punto posso aspettare qualche giorno e attendere offerte più vantaggiose» spiegò Skulu­ dis. «Non la capisco». Il signor Skuludis trasse di tasca il taccuino rilega­ to in pelle e, con il gesto elegante della mano che gli era tipico, depose sul tavolo del caffè una busta bianca, di carta sottile, attraverso la quale si intrave­ devano delle banconote. « In questa busta ci sono ottocento corone. Un af­ fare facile. Vede, lo stato di bisogno, di cui il suo ca­ po voleva approfittare, è stato solo momentaneo» commentò con orgoglio. Stanislaus Demba non aveva idea di quale capo, di quale stato di bisogno e di quale affare quello stesse parlando. Desiderava solo ardentemente la busta e osservava di lato il signor Skuludis. Che adesso nella busta ci fossero ottocento corone lo riempì di stupore. «Ottocento corone. Un affare facile» ripetè il si­ gnor Skuludis. «Ottocento corone?» gridò Demba. «In quella 137

busta ci sono settanta corone. Non una di più e non una di meno». Questa volta fu il signor Skuludis a meravigliarsi oltremodo. Era superstizioso, sì, ma che il gregario di un ricettatore della PraterstraBe avesse dei poteri di chiaroveggenza - questa scoperta fece vacillare il suo equilibrio interiore. « Ci sono ottocento corone » disse in tono alquan­ to incerto. «Tre biglietti da venti e uno da dieci, dovrò pur saperlo,» Demba sibilò oltre il tavolo «e adesso vorrà avere la bontà di restituirmi quel denaro ». « Non la capisco » disse Skuludis. «Non mi capisce?» scattò Demba. «Bene, mi ca­ pirà subito. Lei ha preso questo denaro, che non le apparteneva, da una guardia che per sbaglio aveva pensato che lo avesse perduto lei. Mi capisce ades­ so?». Il signor Kallisthenes Skuludis possedeva in som­ mo grado il dono di capire le cose al volo. Fulmi­ neamente si ritrovò nella nuova situazione. Con spa­ vento riconobbe di essere quasi stato sul punto di accettare che un intruso gettasse sguardi indesidera­ ti nei suoi affari, ma allo stesso tempo constatò con soddisfazione di esser stato abbastanza prudente da non far nomi, e infatti aveva menzionato le proprie attività solo con frasi assolutamente generiche. Que­ sto gli restituì la sicurezza. Si trattava innanzitutto di stabilire se chi aveva di fronte non fosse alla fin fine veramente un detective, un’esca mandata a tender­ gli una trappola. Doveva avere questa certezza, pri­ ma di decidere la mossa successiva. « Perché piuttosto non giochiamo a carte scoper­ te?» chiese con un confidenziale cenno del capo. «Mi esibisca il tesserino e avremo chiarito la situa­ zione». « Cos’è che devo farle vedere? » chiese Demba. Invece di rispondere, il signor Kallisthenes Skulu138

dis si piegò oltre il tavolo e, con un sorriso di supe­ riorità, cominciò a sbottonare la mantella di Demba. Cercava il taschino nel quale presumeva fosse il documento blu dei detective. Demba si spaventò. « Lasci stare la mia mantella! » gridò minaccioso. «Allora la apra lei stesso. Cosa stiamo a perder tempo? » disse il signor Skuludis, dandosi da fare col primo bottone della mantella di Demba. « Vorrei che lasciasse perdere i suoi scherzi » disse Demba, e si allontanò dal signor Skuludis. Questi perse di nuovo la sicurezza. Non era così che si comportava un agente di polizia. « Si può sapere che vuole da me? » domandò. «Voglio i miei soldi, di cui lei si è appropriato. La seguo da un’ora, passo dopo passo, per riavere i miei soldi. O credeva che mi interessasse sapere do­ ve fa i suoi acquisti, dove si fa radere, e con quali donnine va a letto? ». Adesso Skuludis ci vide chiaro. Un piccolo, mise­ ro imbroglione che per caso era stato testimone di quell’episodio e che voleva sfruttarlo per ottenere una parte del bottino. Skuludis meditò su come li­ berarsi di quell’uomo. « Lei dunque afferma che sono entrato in posses­ so di questo denaro in maniera illegale? » chiese in tono brusco. Demba non si lasciò intimorire. « Sissignore, lo af­ fermo » rispose altrettanto bruscamente. «E lei afferma anche che il denaro è suo». «Sissignore, è mio». «Allora non ci resta altro da fare che sottoporre quest’oscuro caso alla guardia più vicina» disse il si­ gnor Skuludis con un amabile sorriso e si alzò, fa­ cendo intendere che la trattativa era giunta a un punto morto. « Sarà la cosa migliore » disse Demba nient’affatto convinto. 139

Dunque, un detective davvero, pensò il signor Skuludis. La sua minaccia non era assolutamente stata seria. A dire il vero, non ci teneva troppo a chiamare in causa la pubblica sicurezza in funzione di arbitro. Aveva alcune buone conoscenze tra i fun­ zionari di polizia - era uno degli aspetti della sua professione -, per i quali la sua presenza a Vienna doveva per il momento rimanere un segreto gelosa­ mente custodito. Tra l’altro nella tasca della giacca aveva due orologi d’oro, un medaglione, due fermacravatte e quattro anelli con brillanti - piccoli frutti del suo ultimo viaggio nel vagone ristorante del di­ retto Vienna-Budapest -, il cui realizzo gli stava mol­ to a cuore. La partecipazione della polizia alla tran­ sazione sarebbe risultata del tutto inopportuna. «Il conto!» gridò il signor Skuludis, e maligna­ mente lo saldò con una delle banconote della busta sulla quale Demba avanzava delle pretese. Tale ge­ sto, come prevedibile, fece una pessima impressio­ ne su Demba e lo mandò in bestia. « Questo denaro sembra veramente tornarle uti­ le » osservò mordace. A questa indelicata osservazione il signor Skulu­ dis notò con rammarico che Demba non possedeva le buone maniere del gran mondo. Ma calma e pa­ dronanza di sé facevano parte del suo lavoro, e si ac­ contentò di squadrare l’avversario con uno sguardo sprezzante. Di fronte all’Opera c’era un poliziotto. Ma en­ trambi i signori scelsero automaticamente una dire­ zione nella quale nessuna guardia fosse visibile nel raggio di mille passi. Ed entrambi si guardarono at­ torno, ciascuno per proprio conto, in cerca dell’oc­ casione per imprimere una svolta a quell’intricata congiuntura. Il signor Skuludis studiava attenta­ mente le molteplici possibilità offerte dal traffico viennese, mentre Demba, onde assicurarsi una buo140

na uscita di scena, considerava i vantaggi di una sparizione-dietro-l’angolo non prevista dall'avversario. Fu il signor Skuludis anche questa volta a dimo­ strare risolutezza e talento nel prendere decisioni rapide. Prima che Demba potesse rendersene con­ to, Skuludis era balzato su un tram in corsa. Si tro­ vava già a una certa distanza, quando Demba notò la sua scomparsa. Solo per un secondo Demba rimase allibito. Poi capì: il signor Skuludis si dava per vinto, e quella fuga significava la disfatta morale dell’avversario. La prospettiva di riavere le settanta corone aumen­ tava. Immediatamente Demba si mise a inseguire il tram. Una beffarda smorfia di trionfo, alla quale il signor Skuludis si era sconsideratamente lasciato andare, spronò Demba, i cui sentimenti erano feriti nel più profondo, al massimo sforzo. Furioso an­ simò dietro la vettura e le si avvicinò, arrivò alla di­ stanza di un braccio da essa, si scontrò con due pas­ santi, continuando a correre raggiunse il vagone e mantenne il passo per qualche secondo, poi, quan­ do il tram in curva rallentò, con un balzo audace saltò sul predellino, stanco, boccheggiante, il respi­ ro ridotto a un fischio, ma vittorioso e trionfante. Si aspettava di trovare l’avversario contrito, spez­ zato, umiliato e in sommo imbarazzo. Ma adesso che gli stava di fronte notò che il viso dell’altro ave­ va assunto un’espressione singolare. Non vi si pote­ va riconoscere né paura né rabbia né contrizione. I tratti del signor Skuludis manifestavano uno smisu­ rato stupore, una sconcertata incredulità. Guardava Demba a bocca aperta e, paralizzato dalla meravi­ glia, indicava col braccio teso, immobile come un Apollo di pietra, le mani di Demba. Le mani! Le mani di Demba! Infatti la mantella di Demba si era impigliata in uno dei sostegni del tram e ora le sue mani erano vi141

sibili a tutti, la sua infamia in balia di ogni sguardo, il suo terribile segreto svelato. Ma solo per un istante. E di tutte le persone, che pigiate tra loro affollavano la vettura, solo il signor Skuludis le aveva viste. Nell’istante successivo entrambi, Demba e Skulu­ dis, erano saltati dalla carrozza. Demba per primo. Adesso era lui l’inseguito. Qualcuno conosceva il suo segreto e a costui ora si trattava di fuggire. Demba correva per la sua vita, cieco e disperato, senza voltarsi. Il signor Skuludis dietro a lui, chia­ mando con un gran gesticolare. Poi Demba riuscì a sottrarsi all’inseguimento sal­ tando su un autobus. Il signor Skuludis si fermò e lo seguì con lo sguar­ do, scuotendo il capo dispiaciuto. Non poteva met­ tersi a gareggiare in velocità con l’autobus. Biasimò quella fuga precipitosa, irragionevole e dissennata. L’iniziale avversione nei confronti di Demba aveva lasciato il posto a una grande simpatia. Ogni astio era sparito dal suo animo. Con quale piacere avreb­ be assistito quello sconosciuto con le parole e con i fatti. Perché in Demba aveva riconosciuto un giova­ ne dotato apprendista nel suo stesso ramo che, Dio solo sapeva in che modo, si era cacciato in una si­ tuazione incresciosa.

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Stanislaus Demba scese dall’autobus e camminò lentamente lungo la MariahilferstraBe. Pensava. Gli Steinbüchler? No. Niente da fare. Dagli Steinbüchler do lezioni da appena tre mesi. Non posso mica chiedere un anticipo già adesso. Inoltre è gente me­ schina, il signor Steinbüchler esattamente come sua moglie. Sul compenso che ho chiesto - erano co­ munque solo cinquantacinque corone per sei ore la settimana - hanno preteso lo sconto di cinque. Se una lezione salta per un giorno di festa, o perché il ragazzo è ammalato, me la detraggono. Eppure so­ no benestanti. Lui è titolare di una fabbrica di om­ brelli e lei possiede un negozio di abbigliamento. Ma dopo il primo del mese devo sempre insistere tre o quattro volte prima che, verso il sei, tirino fuo­ ri i soldi. Anche la loro cameriera aspetta ancora la paga. No, con gli Steinbüchler niente da fare. Resta il dottor Becker. Lì mi danno i soldi senza problemi. E gente perbene, basta che dica una sola parola, che faccia un solo accenno, e ottengo il de­ naro. Certo, se dirò che mancherò per quindici 143

giorni non ne saranno contenti. Il ragazzo è messo malissimo in geografia e in fisica. Dovrò fornire una spiegazione plausibile per la mia assenza, una spie­ gazione che li convinca subito. Bene, qualcosa mi inventerò pure, ho ancora cinque minuti di strada. Il dottor Becker abitava lungo il Kohlmarkt, al quarto piano di una casa nuova. Vicino al portone, sopra il campanello, era fissata una targa: Prof. Dott. R. Becker. Orario divisita: 15-17. Stanislaus Demba non si servì dell’ascensore, ma salì lentamente le scale. Arrivato al secondo piano si fermò. Gli era venuta un’idea. Si guardò attorno. Le scale erano deserte, non c’era anima viva. Allora Demba infilò le mani nella tasca della giac­ ca e ne estrasse un fazzoletto. Nel farlo gli cadde a terra la chiave di casa e si chinò irritato a raccoglier­ la. In quel momento l’ascensore passò silenzioso da­ vanti a lui, salendo. Immediatamente le mani di Demba scomparvero sotto la mantella. Spaventato seguì l’ascensore con lo sguardo. Ma la porta era di vetro opaco, notò con soddisfazione. In nessun caso l’occupante aveva po­ tuto vedere le manette. Al piano superiore qualcuno adesso suonava. L’a­ scensore ridiscese vuoto. Demba aspettò che la porta del terzo piano venisse aperta e poi nuovamente ri­ chiusa. Non si può mai essere prudenti abbastanza. Al diavolo! Proprio adesso qualcuno doveva scen­ dere le scale. Di nuovo Demba nascose le mani. E come andava piano! Era un’anziana signora, appog­ giata al braccio della cameriera. E proprio all’altez­ za di Demba si fermò a riposare... Ora proseguiva. Finalmente. Ma ecco un altro salire. La donna dei giornali che portava l’«Abendblatt». Ne depose una copia davanti alla porta del secondo piano, poi salì al terzo. Prima che sia tornata dabbasso non posso fare 144

nulla, se non semplicemente aspettare, pensò Demba. Annoiato volse lo sguardo al giornale che giace­ va sullo zerbino ai suoi piedi, e vi lesse con indiffe­ renza un titolo stampato a caratteri cubitali: « Dimis­ sioni del presidente del consiglio ungherese», e im­ provvisamente gli passò per la testa che magari già... Che fare, se nei giornali della sera c’è già scritto qualcosa sulla mia fuga dalla finestra? Forse c’è già un lungo, dettagliato resoconto, «il colpevole si è sottratto all’arresto grazie a un audace salto dalla finestra della soffitta giù nel cortile», forse sta scrit­ to, e «a quanto sembra è rimasto incolume, la poli­ zia è sulle tracce del fuggitivo». O forse addirittura: «I sospetti sono indirizzati su un certo Stanislaus D., studente universitario. Il suo arresto è imminente». Pieno d’impazienza e al culmine dell’agitazione Demba attese che la donna dei giornali se ne fosse andata. Solo allora potè raccogliere da terra il fo­ glio. Diede una rapida scorsa al contenuto. Notizie locali. Dove stanno le notizie locali? Do­ vrebbe essere tra quelle. Eccole. Piccola cronaca. L’occhio di Demba scorse la colonna. Concerto della banda militare. Raduno generale della Federazione cacciatori della Bassa Austria posticipato a martedì 21. Morto l’ispettore capo Hlawatschek. Uno strano giubileo. Tentato suici­ dio... ferma. Questo cos’è? «La moglie del professo­ re Ernest W., la signora Kamilla W., ingerendo del Veronal, ha tentato ieri, nel proprio appartamento, situato nella BabenbergerstraBe... niente! Avanti. Incidente nell’officina centrale dei tram cittadini. Atto di coraggio di una madre. - Fine. Sul giornale non c’era ancora niente. Chiaro. Avrei potuto immaginarlo subito. Se la polizia fa una brutta figura, non si affretta a comunicarlo. Di­ vertente. Demba ripiegò il giornale e cautamente lo rimise davanti alla porta. Poi aprì il fazzoletto. Dopo averlo lisciato, lo 145

piegò in modo da farlo assomigliare a una benda e lo avvolse quattro volte attorno alla mano destra, la­ sciando visibili solo le punte delle dita. Nella man­ tella trovò due spille di sicurezza con le quali fissò quella fasciatura d’emergenza, un lavoro per niente semplice, con i polsi ammanettati. Ecco, adesso ave­ va finito. Un’ottima idea questa fasciatura, una trovata me­ ravigliosa. Demba se ne congratulò. «Davvero un’i­ dea perfetta» disse. Andò davanti al vetro di una finestra e cominciò a fare inchini alla propria im­ magine riflessa. « I miei complimenti! Permette che le stringa la mano? Come? Preferisce di no? Devo fa­ re attenzione? Teme che la medicazione possa spo­ starsi? Certo! Certo! Peccato! Le avrei stretto la ma­ no volentieri, per l’ottima idea! ». Demba s’inchinò nuovamente, ridendo tra sé e sé. Un fattorino, che saliva le scale di corsa con un telegramma in pugno, si fermò e lo guardò allibito. Due piccioni con una fava, pensò Demba e ripre­ se a salire. Adesso chiunque vede subito che non posso usare le mani. Finalmente adesso ho un po’ di pace. E allo stesso tempo una giustificazione, se non mi faccio vedere per qualche giorno. Con gravi ustioni alle mani, non posso dare ripetizioni. Nessu­ no può pretenderlo da me. La moglie di un medico sarà la prima a capirlo, si suppone. Ma ora avanti! Non perdiamo tempo! Giunto al quarto piano Demba suonò. Venne ad aprire la domestica. « E in casa la signora? ». «No».

« E il professore? ». «Sta visitando». Demba gettò uno sguardo nella sala d’attesa. C’erano due signore e un uomo e leggevano del­ le riviste. «Quando torna la signora?». 146

«Chiederò alla signorina, lo saprà di certo». La domestica entrò nella stanza di Elly Becker. Demba udì le note di un valzer e squillanti voci di ragazze che ridevano. Subito dopo apparve Elly Becker. Era miope e squadrò Demba attraverso l’occhialino. « Buon giorno, signor Demba! Cerca la mamma? E in città a fare acquisti ». «Questo è un guaio» disse Demba. «Avevo urgen­ za di parlarle. La sua signora mamma resterà fuori molto? ». « Piove? » s’informò Elly. « Sì ». «Allora per come la conosco, sarà subito di ritor­ no. Intanto non vuole venire da noi? ». «Lei ha ospiti, signorina Elly». « Solo due amiche. La presenterò ». «Non sono assolutamente vestito per l’occasio­ ne ». «Niente storie! » Elly aprì la porta della camera. « Un’altra visita! » gridò verso l’interno. «Un ballerino?» chiese una delle due ragazze. « Purtroppo no » disse Demba sulla porta. «Ballerino non lo è. Ma ci declamerà qualcosa» disse Elly facendo le presentazioni. « Il dottor Stanislaus Demba... la mia amica Vicky, la mia amica Anny». Né la signorina Vicky né la signorina Anny sem­ brarono entusiaste di conoscere Stanislaus Demba, il quale nella vecchia mantella fradicia di pioggia, che non si era tolto, aveva un aspetto effettivamente impossibile. Vicky, una giovane spilungona dai corti capelli biondi, con la scriminatura nel mezzo, fece solo un negligente cenno di saluto col capo. Anny, una ragazza piccola e magra, con le lentiggini e gli occhiali, non smise nemmeno di suonare il pia­ noforte. Demba si accomodò sul sofà e parve non 147

badare al comportamento così poco affabile delle due giovinette. La padroncina di casa, invece, sentiva la necessità di migliorare l’atmosfera nei confronti di Demba. A questo scopo diede una gomitata all’amica Vicky e le bisbigliò: « Quando declama gesticola con tutte e due le braccia, sta’ attenta, sarà uno spasso». Demba le sentì bisbigliare e si inquietò. Il suo di­ sagio crebbe allorché la cameriera depose dinnanzi a lui sandwich, pasticcini e una tazza di tè. Guardava ora il tè ora il piatto senza saper bene che fare. Ol­ tretutto Elly lo stava incoraggiando a prendere qual­ cosa. «Prego, si serva pure, signor Demba. Ma perché non si toglie la mantella?». A questo punto Demba decise di fare la prima prova della validità della sua meravigliosa trovata. «Preferisco non togliermela, signorina Elly. Per lei non sarebbe uno spettacolo piacevole». «Perché? ». « Le mie braccia sono fasciate fino alle spalle. Ho delle ustioni e sono costretto a portare una giacca senza maniche». «Dio del cielo! Ma che le è successo?». «Il mio compagno di stanza, ieri sera, si è avvici­ nato troppo con la candela alla tenda della finestra, e la stoffa ha subito preso fuoco. Con le mani abbia­ mo strappato via i brandelli in fiamme, così mi sono procurato queste ustioni. Guardi! ». Prudentemente allungò da sotto la mantella la mano fasciata con il fazzoletto. « Lasci stare la mano! Non la muova! » esclamò El­ ly preoccupata. «Aspetti, la servo io. Ma resti cal­ mo». Prese uno dei panini farciti, lo tenne davanti alla bocca di Demba e gli fece dare un morso. Demba, che in tutto il giorno solo due volte aveva avuto occasione di mangiare qualcosa, e anche allo­ ns

w ra in tutta fretta, depresso e impedito dalla sensazio­ ne di essere osservato, ora mangiò con appetito, provando viva soddisfazione per l’esito del suo espe­ rimento. Quando poi la signorina gli mise una siga­ retta in bocca, si sentì decisamente bene. Per tutto il giorno, gran fumatore, aveva dolorosamente rinun­ ciato al consueto piacere. « Le fa male? » domandò Elly. «Oh, sì» disse lui. Le ossa dei polsi gli facevano davvero male. Dovevano essere piagate dallo sfrega­ mento degli anelli d’acciaio. Anche le dita gonfie bruciavano e pungevano, come se cento spilli gli ro­ vistassero nella carne. Un indistinto dolore al brac­ cio si diffondeva fino alle spalle. Anny e Vicky si erano avvicinate e osservavano Demba con interesse. Anche la cameriera, mentre sparecchiava la tavola, guardava con compassione la mano fasciata. Anny esaminò da vicino la fasciatura, con gli oc­ chiali. « Queste non sono ustioni » disse d’improvviso. Demba lasciò cadere la sigaretta di bocca e storse la faccia, come se gli fosse entrato un moscerino in un occhio. «A me non la dà a intendere» continuò Anny, si­ stemandosi gli occhiali. Demba gettò uno sguardo verso la porta e calcolò che, in caso di bisogno, avrebbe potuto schizzar via con due salti. « Lei ha fatto un duello » dichiarò Anny con sicu­ rezza. «Ah» disse Demba con visibile sollievo. «Ho ragione o no?» proseguì Anny. «A me non deve raccontare storie. Mio fratello infatti è dell’as­ sociazione goliardica degli Alemanni». « Ma lei si sbaglia. Davvero, sono solo ustioni » as­ sicurò Demba. 149

«Può darsi che sia rimasto scottato» commentò Vicky ironica. «Di prima o di terza?» chiese Elly con l’espressio­ ne esperta di un maestro di scherma. « Di sesta » dichiarò Demba. «Allora confessi! » gridarono tutte e tre a una voce. «Ma no!» si difese Demba. «Sono solo ustioni. Sono vittima della sbadataggine del mio compagno di stanza». « E bionda o bruna? » volle sapere Vicky. «Ma chi? Miksch?». «La sbadataggine del suo compagno di stanza». Tutte e tre si misero a ridere. « E vecchia o giovane, questa sbadataggine? » do­ mandò Elly. «Ma non hai sentito? » esclamò Vicky. «La “giova­ nile sbadataggine” ha detto». «Allora, com’è stato?» incitò Elly. «Racconti! Cominci, su, l’ascoltiamo tutte. Dun­ que: io ero fermo così, quando alzai la lama... ». Demba trovò che ci si stava occupando della sua persona più del dovuto. Tentò di sviare il discorso sul duello in generale. Vicky dichiarò che il duello, considerato dal punto di vista di una persona del ventesimo secolo, era un’istituzione del tutto, ma proprio del tutto priva di senso. Elly fu d’accordo, disse però che bisognava considerare i duelli come uno sport, e che in quel caso adempivano al loro scopo. Anny raccontò una lunga storia di un cono­ scente che a suo dire aveva spedito nell’aldilà tre av­ versari in un sol giorno, e lasciò intendere di esser­ ne stata lei l’incolpevole causa. Fece il nome del­ l’audace combattente e volle sapere se Demba lo co­ noscesse. Demba non aveva ascoltato. Con l’aiuto di Elly aveva ripulito il vassoio dei sandwich e mangiato infine un panino con della carne molto speziata. Ora aveva una sete terribile. Approfittando di un 150

momento in cui l’attenzione di tutte e tre le ragazze era rivolta a un ventaglio con innumerevoli firme, dediche e versi, che Elly Becker stava facendo vede­ re, tentò prudentemente di raggiungere con le ma­ ni un bicchiere d’acqua, allorché si spalancò la por­ ta e trottò nella stanza un sanbernardo tutto inzup­ pato di pioggia che si scrollò vigorosamente e fu ac­ colto con entusiasmo da Anny, Vicky ed Elly. Subito dopo venne la domestica e comunicò al signor Demba che la signora era rientrata. La signora Becker era una persona con uno spic­ cato senso della beneficenza. Era presidentessa, tal­ volta semplice socia, di svariati circoli assistenziali, più volte al mese riceveva un certo numero di signo­ re per riunioni di commissione, sedute preliminari e assemblee di comitato, e aveva l’abitudine di por­ tarsi a casa dopo ogni passeggiata piccoli venditori ambulanti e bambini trovati a mendicare che prima venivano terrorizzati con un energico lavaggio e poi parzialmente risarciti con caffè, frutta e panini. An­ che quel giorno in anticamera, vicino alla porta, c’e­ rano due ragazzini dalla faccia impaurita. Tenevano ancora tra le mani le stringhe di cuoio e i cerotti che vendevano porta a porta. Un terzo bambino lo stavano evidentemente ripulendo proprio in quel­ l’attimo, poiché dalla cucina giungevano grida acu­ te e i sonori rimproveri della cuoca. La signora Becker si era appena cambiata d’abito e sedeva nella propria stanza a sorseggiare il tè, quando entrò Demba. «Ma che mi tocca sentire!» gridò la piccola ner­ vosa signora rivolta a Demba. « La domestica mi ha già raccontato... ma cos’è successo? ». «Un piccolo incidente, nient’altro, gentile signo­ ra». Demba raccontò la storiella della candela e del­ la tenda in fiamme, inventò ancora alcuni vetri scoppiati a causa del calore e fornì l’esatta descrizio­ ne di una sedia di paglia che parimenti aveva preso 151

fuoco. Pensò di aggiungervi un canarino che lui, ri­ schiando la vita, avrebbe portato in salvo con la sua gabbietta, lontano dalle fiamme, ma poi desistette per non dare al racconto un tono troppo sentimen­ tale e romantico. « Ma si può essere così imprudenti? » commentò la signora Becker. «Può veramente ringraziare Dio di essersela cavata così. Faccia un po’ vedere la ma­ no». Questo a Demba non piacque. Diffidente fece sporgere per metà la mano da sotto la mantella. La moglie del dottore congiunse le mani inorri­ dita. « E questa sarebbe una fasciatura! » esclamò. « E impossibile che gliel’abbia fatta un medico». « E stato il mio compagno di stanza a medicarmi. È studente di medicina». A malincuore Demba rico­ nobbe che l’idea di inventarsi delle ferite alle mani non era stata assolutamente delle migliori. Ora tutti si occupavano delle sue mani, alle quali invece avreb­ be voluto procurare un po’ di quiete e di silenzioso isolamento. « Le dirò una cosa. Lei adesso va di là, da mio ma­ rito, e si fa fare una fasciatura come si deve » decise la signora Becker. Demba impallidì. «Non posso,» balbettò «non posso mica...». « Non pensa che mio marito la sappia fare meglio del suo signor collega?». Demba si rigirò sulla sedia. «Questo sì, » disse «solo non vorrei... il tempo del signor Professore... ». «Ah, sciocchezze!» lo interruppe la moglie del dottore. «Mio marito ci metterà un minuto. La farà entrare subito». Afferrò la cornetta dell’interfono che collegava la sua stanza con l’ambulatorio del marito e con la cu­ cina. 152

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«Rudolf! » disse. «Ti mando il signor Demba. Per favore, ricevilo immediatamente. Si è ustionato le mani... sì... allora, arriva subito». Depose la cornetta. «Ecco, signor Demba». «Per la verità ero venuto solo...» Demba deglutì, cercando le parole giuste. « Le volevo chiedere, gen­ tile signora, se fosse possibile... la mia paga mensile già oggi, anche se non è ancora il primo del mese, perché, ecco... ». S’interruppe imbarazzato. La signora Becker ci pensò su un momento, poi prese di nuovo la cor­ netta. « Rudolf! Per favore, quando viene, da’ al signor Demba il suo compenso mensile. Ottanta corone. Vuoi essere così gentile. Non ho il portamonete a portata di mano». Battuto su tutta la linea, Demba lasciò la stanza. In anticamera c’erano ancora due dei bambini. Uno aveva appena superato la tortura del lavaggio, e teneva pane e burro in una mano, una mela nel­ l’altra. Il piccolo vicino a lui ascoltava inquieto i ru­ mori provenienti dalla cucina. Evidentemente ades­ so sarebbe toccato a lui. D’un tratto raccattò dal pa­ vimento i due mazzi di stringhe di cuoio, aprì velo­ cemente la porta, e sparì. Dietro a lui anche Demba scivolò fuori senza far rumore. Tutti e due si precipitarono giù per le scale. Al primo piano Demba si fermò, strappò il fazzoletto dalla mano e tentò di cacciarselo in tasca. Giacché non gli riuscì subito, lo gettò a terra imprecando.

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Il dottor Rübsam era arrivato per primo. Non ave­ va dovuto attendere a lungo. Fuori pioveva a dirot­ to, e prima del solito comparvero anche gli altri per la partita a domino della sera. Nella saletta riservata del caffè Turf, alla quale si accedeva attraverso una porta accuratamente nascosta da una tenda e sorve­ gliata da un aiutocameriere, sedevano quel giorno undici persone. Ecco di nuovo l’impiegato postale dai capelli ros­ si che il giorno prima aveva giurato che non si sa­ rebbe mai più seduto al tavolo con quella banda di imbroglioni. Poi il viaggiatore di commercio che di­ sponeva sempre di denaro, pur non avendo un lavo­ ro da due anni. Il cameriere dell’osteria del Prater che veniva a giocarsi, nella serata libera, tutte le mance ricevute durante la settimana. La signora Suschitzky, un tempo sensale di matrimoni, nota ovun­ que nella zona tra il ponte dell’Augarten e il rondò del Prater, che ora si dedicava alla locazione di tran­ quilli pied-à-terre, senza peraltro avere nulla in con­ trario ad agevolare fuggevoli incontri. L’agente im154

mobiliare, che veniva chiamato «Altezza serenissi­ ma » - senza ragione evidente per la verità, poiché pagava i debiti di gioco con un contegno non certo da principe. Il maresciallo contabile, che imprecava volgarmente in ceco, quando vinceva qualcun altro. Il «signor redattore» che, alla domanda per quale giornale lavorasse, rispondeva sempre con gesto sprezzante: «Per tutti». L’impiegato della Cassa di Risparmio che arrivava col cane e la fidanzata, al ca­ ne faceva portare daH’aiutocameriere delle pelli di salame, alla fidanzata un paio di riviste consunte dall’uso, per poi dimenticarsi completamente di en­ trambi nel fervore del gioco; e infine Hùbel, ozioso studente di medicina che dottore non lo era ancora, e il dottor Rùbsam, che già da molto tempo non lo era più. Il dottor Rùbsam teneva il banco, e naturalmente vinceva ancora una volta. All’inizio del gioco aveva tolto dal portafoglio tre sgualcite banconote da die­ ci corone e le aveva posate davanti a sé sul tavolo co­ me capitale iniziale, una somma ridicolmente mo­ desta per una partita in cui avrebbe dovuto paga­ re al vincitore il triplo della posta. « Con questi sol­ di oggi voglio vincere seicento corone» aveva det­ to con irritante franchezza all’inizio della partita. «Non ci sto per meno. Esattamente quello che ho perso ieri alle corse. Devo farlo tornare in cassa». E ora, durante il gioco, ogni volta che intascava le puntate degli altri, chiedeva: «Vi ho già detto che oggi voglio vincere seicento corone? Pùntino, signo­ ri miei! Pùntino! Pùntino! Di questo passo non riu­ scirò ad arrivare ai miei soldi! ». L’impiegato postale, il maresciallo e la Suschitzky friggevano di rabbia, poiché il dottor Rùbsam vince­ va davvero. Dinnanzi a lui già si ammucchiava il de­ naro. Di tanto in tanto prendeva delle banconote dal tavolo e se le metteva in tasca, al sicuro. Sulla se­ dia accanto c’erano la sua cartella, un paio di logori 155

polsini, che s’era tolto per comodità, un sigaro e un orologio d’oro, al quale talvolta lanciava un’occhia­ ta. Fino alle venti avrebbe giocato, non un minuto di più. Alle venti doveva andare «alla riunione», aveva detto. Il dottor Rùbsam non mancava mai di prefissarsi un simile termine. Così sfuggiva alle ri­ chieste di una rivincita, nel corso della quale avreb­ be dovuto, in modo superfluo e del tutto inutile, ri­ mettere in gioco il denaro vinto, e al contempo si sottraeva agli accorati sospiri della signora Suschitzky che dopo ogni partita tentava con compas­ sionevoli lamenti di alleggerirlo di una parte del bottino. Alla «riunione», naturalmente, non credeva nes­ suno. Fin dai tempi della sua condanna, che gli era costata il titolo di dottore e il diritto all’esercizio del­ l’avvocatura - aveva estorto del denaro a uno dei suoi clienti -, viveva grazie alle entrate proprie e al­ trui, e portava in giro con sé la cartella solo per vec­ chia abitudine. Alle spese del suo mantenimento contribuivano in molteplici modi stato e società: l’impiegato della Cassa di Risparmio gli consegnava puntualmente gli anticipi sullo stipendio; gli aiuti che il viaggiatore di commercio riceveva dalla ma­ dre di sua moglie finivano anch’essi, passando per il buki, una variante del domino, nelle tasche del dot­ tor Rùbsam, esattamente come i numerosi introiti secondari del maresciallo contabile e i balzelli che la signora Suschitzky imponeva alla godereccia jeu­ nesse dorée della Leopoldstadt. Stato ed erario, com­ mercio e mondanità contribuivano dunque in ar­ monia a consentire al dottor Rùbsam un tenore di vita adeguato al suo rango. Le tessere del domino sbattevano urtandosi, i fiorini d’argento scagliati rabbiosamente sul tavolo tintinnavano, fuori la pioggia picchiava sui vetri, e da soprabiti e ombrelli, lungo la parete, l’acqua scendeva in rivoli sottili che si raccoglievano sul pa156

vimento in piccole pozze. Nonostante il tumulto de­ gli elementi, il dottor Rübsam aveva un’espressione estremamente soddisfatta. L’atteggiamento degli al­ tri nei suoi confronti era sempre più irritato, ma al­ le seicento corone non mancava molto e sempre più spesso lui guardava l’orologio d’oro. L’aiutocameriere infilò la testa nell’apertura del­ la porta. «Il signor dottore è desiderato». «Chi? Io?». Al dottore, che proprio in quel mo­ mento stava distribuendo le tessere, non erano af­ fatto gradite interruzioni durante le ore di lavoro. «No. Il dottor Hùbel». L’eterno studente si alzò. Aveva una banconota da dieci corone tra le dita, e stava appunto meditan­ do se fosse il caso di arrischiare per intero quell’ul­ timo resto di contante che gli rimaneva. « Qualcuno vuol parlare con me? » chiese distrat­ tamente. « Sì. Il signore aspetta di fùori ». « Gli dica che sono appena andato via» decise per ogni evenienza. « Gli ho già detto che il signor dottore è quii ». «Imbecille!» esclamò Hùbel uscendo pieno di cattivi presentimenti. A ragione. C’era Stanislaus Demba. «Salve, Demba» lo salutò Hùbel, senza entusia­ smo. « Come hai saputo che ero qui? ». « Sono stato a casa tua, ma tu eri uscito. Ho capito che ti avrei sorpreso qui». «La tua perspicacia è invidiabile. Ma, per l’amor di Dio, non farti troppe illusioni». Mostrò la banco­ nota da dieci corone sgualcita. «Vedi, così son ridot­ to. È tutto quello che ho». Demba impallidì: «Ma mi avevi promesso i soldi per oggi! ». «Avresti dovuto venire un’ora fa, prima che mi se­ dessi a giocare. Adesso sono già stato in cura dal 157

dottor Rübsam. È tutta colpa della tua mancanza di puntualità» spiegò Hùbel con un debole tentativo di buttare la cosa in scherzo. «Ci contavo su quel denaro! » disse Demba, men­ tre il suo sguardo si faceva fisso. «Quant’è che ti dovevo, a proposito?» chiese Hù­ bel contrito. « Quaranta corone » rispose Demba. «Mi dispiace!» disse Hùbel. «Ho avuto sfortuna. In ogni caso, prendi queste dieci corone, altrimenti se le mangia il dottor Rübsam, quel maledetto gra­ nato, o un altro dei galleristi là dentro». Demba conosceva il gergo dei giocatori di buki ab­ bastanza da sapere che per « granato » si doveva in­ tendere strozzino, e per «galleristi» dei patiti del gioco di professione. Annuì col capo, senza però prendere i soldi. « Co­ sa me ne faccio di dieci corone?» disse tristemente. «Dieci corone! Me ne servono molte di più! ». Hùbel non sapeva che dire. «Non puoi farti prestare qualcosa dai tuoi ami­ ci? » chiese Demba, con un’occhiata alla porta. « Da quelli? » Hùbel fece un gesto di diniego con la mano. «Allora quella gente la conosci poco. Qui nessuno fa credito a nessuno». «E adesso? » fece Demba sgomento. «Sai cosa? » esclamò Hùbel. «Prova un po’ col buki. Forse hai più fortuna di me ». Demba scosse violentemente il capo. «A buki è tutto solo questione di fortuna» assi­ curò Hùbel. «Dieci corone fanno presto a diventare cento o anche di più». «No,» disse Demba «carte non ne tocco». «Ma non sono mica carte. A buki si gioca con le tessere del domino, ignorante! ». «Ma se non conosco neanche il gioco» affermò Demba. «Non c’è niente da capire» gli spiegò Hùbel con 158

r passione. «Semplice domino, lo conosci, no? Solo che si può puntare sui quattro giocatori, come su dei cavalli da corsa. Non devi nemmeno giocare, de­ vi solo puntare». Demba era indeciso. «Ieri la Suschitzky ha vinto cento corone senza muovere un dito » raccontò Hùbel. Senza muovere un dito. Questo fu decisivo. «Per la verità, è un po’ che volevo dare un’oc­ chiata una volta a un gioco del genere » considerò Demba. «Allora vieni! » disse Hùbel spingendolo oltre la porta. Inizialmente l’apparizione di Demba non destò particolare attenzione. In realtà, le facce nuove al buki erano viste decisamente malvolentieri, ma poi­ ché Demba veniva introdotto da Hübel, non ci furo­ no difficoltà. Le formalità di accettazione erano semplicissime e andarono lisce: « Ha grana? » s’informò il dottor Rùbsam. Con un gesto della mano, quasi soppesandolo, Hùbel fece intendere che Demba aveva denaro in quantità. «Come merda» aggiunse. «Allora va bene » disse il dottor Rùbsam e la cosa fu sistemata. « Iella! Iella! Maledetta, porca iella! » gridò in quel momento l’impiegato postale che per la quarta volta aveva perso la sua puntata e ora, non avendo più denaro, si trovava estromesso dal gioco. «Questa è musica per le mie orecchie» disse il dottor Rùbsam divertito, e intascò il denaro. « Pùntino, signori miei, pùntino, pùntino! Il gioco è fiac­ co». Si fregò le mani, e ammiccando chiese a Dem­ ba: «Ha già messo della carne al fuoco, giovanot­ to?». Demba lo guardò e si accorse con disagio che l’indice e il medio della mano pelosa del dottore erano deformi. 159

« Demba, il signor dottore vuole sapere se hai già puntato» spiegò Hùbel. «Su chi devo puntare?». «Su chi vuoi» rispose Demba, continuando a guardare le dita del dottore che lo impaurivano e lo sgomentavano. «Tutto in un sol colpo? ». «Sì, punta tutto in un sol colpo». Sul tavolo c’erano quattro file di tessere da domi­ no. Ogni fila rappresentava uno dei giocatori. Hù­ bel infilò la banconota da dieci corone nello spazio tra la seconda e la terza fila, scommettendo in que­ sto modo sulla vittoria di «Briciole di pane», il ca­ meriere, che doveva questo nomignolo a un’infinità di piccoli foruncoli giallognoli. Il gioco ebbe inizio e, nella tensione generale, il « signor redattore » de­ pose la prima tessera. Demba si voltò dall’altra parte. Non voleva sapere cosa succedeva al suo denaro. Per non dover vedere e non dover sentire, cercò qualcosa da leggere, un giornale o una rivista illustrata. Ma alla parete era appeso solo un numero del « Notiziario delle caffet­ terie austriache». E quello Demba cominciò a leg­ gere. Annunci. Subito in prima pagina. Centocinquan­ ta sedie verdi per il giardino di un ristorante, offri­ va un tizio. Liquori di prima qualità, voleva fornire un altro. Un terzo ancora dava in affitto un’orche­ strina. Centomila tovaglioli di carta! Accendisigari! Pratico! Moderno! echeggiava da quelle colonne. Tutti volevano guadagnare soldi, tutto gridava, o­ gnuno si faceva avanti, il mondo era un grande ta­ volo rotondo ricoperto di panno verde, macchiato dai liquori, sporco di cenere di sigari, l’argento tin­ tinnava, le banconote svolazzavano, dietro a ogni fiorino che rotolava per il mondo c’erano mille ma­ ni avide, mani pelose dalle dita deformi, in grado tuttavia di arraffare come il tentacolo di un polipo - e in tutta questa furiosa confusione di traffici, se160

te di guadagno, usura e imbroglio lui, Demba, ave­ va osato allungare timidamente le mani verso la propria quota, verso una misera manciata di soldi, per i quali si accapigliavano altri mille pugni serra­ ti, che lo cacciavano via e lo spingevano da parte. E Demba improvvisamente si perse d’animo e di co­ raggio, rinunciò, e vergognoso per quel suo misere­ vole tentativo, volle sgattaiolare di nascosto fuori dalla porta. Ma d’un tratto giunsero dal tavolo chiasso e gri­ da. La Suschitzky chiamò volgare imbroglione uno dei giocatori, che secondo lei, aveva dato una « drit­ ta» al dottor Rübsam. Il redattore gridò: «Adesso capisco tutto! ». « Briciole di pane » strillava senza so­ sta: «Voglio riavere i miei soldi! ». Vicino a Demba ora c’era lo studente di medicina che, tenendo del denaro in mano, diceva: «Vedi, Demba? Cosa t’avevo detto. Hai vinto». « Quanto? » chiese Demba, senza alzare gli occhi. «Trenta corone. Il triplo». Demba tacque. « E ora? » chiese Hübel. « Punta ancora » disse Demba. «Tutto?». «Signori, calma» urlava adesso il dottor Rübsam. « Calma! » gli fece eco Hübel. Il chiasso si spense a poco a poco, solo la signora Suschitzky si dilungò ancora in accuse e sospetti, ma il gioco riprese. Di nuovo Demba si sforzò di non guardare. Fissa­ va il giornale, leggendo parole e righe senza com­ prenderle, e ascoltava quanto succedeva al tavolo da gioco. Le tessere sbatacchiavano, il viaggiatore di commercio sorbiva rumorosamente il suo caffè ne­ ro quando la signora Suschitzky, con la serietà e la solennità di una preghiera, improvvisamente disse: « Hallum-Drallum ». «Come Hallum-Drallum?» protestò l’impiegato 161

postale. «L’otto è forse su tutti e due i lati? C’è il set­ te a destra! ». Chi è Hallum-Drallum?, si chiese Deruba, strana­ mente eccitato. Chi è Hallum-Drallum?, la doman­ da gli si conficcò dolorosamente nel cervello. E d’improvviso lo seppe: il dio della guerra dei Tarta­ ri. E davanti ai suoi occhi si formò l’immagine di un piccolo uomo dalla gran pancia, di un uomo dal vi­ so smorto, cosparso di foruncoli gialli, con labbra tumide e occhi sbarrati. Se ne stava lì, drappeggiato di stracci multicolori, con mani pelose, una grossa treccia gli scendeva sulla nuca... Hallum-Drallum, il dio della guerra dei Tartari, no! Era il dio del dena­ ro, che tutti quelli pregavano. Era lì, quel dio, lo guardava sogghignando e berciava: Tu vorresti i miei soldi, pazzo che non sei altro? Cos’hai da offri­ re? Sedie da giardino? Tovaglioli di carta? Niente? Proprio niente? Allora inchinati dinnanzi a me, nanerottolo! Più giù! Più giù! E Stanislaus Demba per amore del denaro si in­ chinò obbediente, in basso e con umiltà, davanti al­ la parete vuota sulla quale non c’era nient’altro da vedere se non la sua stessa ombra e un brandello di tappezzeria giallognola tutta strappata. «Io ho finito! » esclamò il cameriere in quel mo­ mento, e subito scoppiò il finimondo, tutti sbraita­ vano contemporaneamente, la Suschitzky gridò con voce stridula: «Non è possibile! Non tocca a lei! ». «E un imbroglio!» urlò l’impiegato postale, pic­ chiando un pugno sul tavolo. «Ma il dottore aveva pur detto “avanti”» si la­ mentò il cameriere. «Inganno! Inganno! » strillò l’impiegato postale. «Silenzio!» gridò il dottor Rùbsam, ancora più forte di lui. « Chi è che parla di inganno? Li sto pur perdendo anch’io, i miei soldi! ». Di nuovo Hùbel era vicino a Demba e, tirandolo per una manica, disse: 162

« Hai vinto per la seconda volta». «Ah ». Demba non era né meravigliato né stupito. «Novanta corone. Devo continuare a puntare?». « Sì » annuì Demba. « Quanto? ». «Tutto». « Sei impazzito? » chiese Hùbel. « Sì ». «Così rischi grosso! ». « Oggi è già tutto il giorno che lo faccio ». «Per me va bene. Ma per tre volte di seguito non riuscirai a vincere ». Si avvicinò al tavolo da gioco. L’orgia di rabbia e delusione era sbollita. Era iniziato un nuovo giro, furono fatte nuove puntate, e il dottor Rùbsam si passò nervosamente la mano sulla testa pelata: nel­ l’ultima partita aveva perso più della metà del suo contante. « E quello? » domandò, accennando al denaro di Demba. «Resta dov’è» disse Demba. «Dunque, soldi su soldi! » disse il dottor Rübsam. «E abbia la cortesia di parlare in tedesco! ». « Sì, soldi su soldi » confermò Hùbel. «Così va bene» disse l’ex avvocato. «Volevo solo sapere...». Depose una tessera in mezzo al tavolo, e il gioco ebbe inizio. «Continuiamo nella rovina» disse la Suschitzky, accostando la propria tessera. « Io sono pronto » dichiarò il redattore, con riferi­ mento alla sua scorta di tessere da domino. Il gioco proseguì. Questa volta Demba osservava, tutto teso ed eccitato. Lì c’erano le sue novanta corone, infilate tra due file di tessere. E se vinceva adesso, avrebbe possedu­ to duecentosettanta corone. Carta logora e sgualci­ ta, passata attraverso cento mani sporche, eppure denaro di Proteo! - capace di apparire a quanti sta­ lli

vano lì, chini sul tavolo, e voracemente la divorava­ no con gli occhi, in una forma seducente sempre di­ versa. Per qualcuno era una notte trascorsa in diver­ timenti e gozzoviglie, per un altro costituiva l’affitto di casa, ormai scaduto da tempo. Per quello lì si­ gnificava mangiare a sazietà *per tutto un mese. Il ti­ zio di fronte, notte dopo notte, porterà il denaro nei vicoli delle prostitute, questo qui lo perderà gio­ cando alle corse o in borsa, la donna lo seppellirà sotto il pagliericcio del letto - e per lui, per Demba, cos’era per lui? Faceva fatica a immaginarselo. A­ vrebbe voluto pensare a torri ingrigite dal tempo, a portali di chiese, a marmorei angeli suonatori di viola o di liuto, a strette, tortuose viuzze di una città italiana, dove passeggiare a braccetto di Sonja. Ma strano: nessuna di quelle immagini voleva prendere forma. Non la città, non le torri, non gli angeli mu­ sicanti. Tutto restava incolore e sbiadito, e defluiva nel nulla. Ma vennero altre visioni - nel suo cervello presero forma gli spettri dei desideri, delle brame, delle speranze di tutti gli altri. Al suono di una mu­ sica tzigana, il dottor Rùbsam sedeva ridendo con due donne grasse davanti a delle bottiglie di spu­ mante. Improvvisamente ecco una stanza vuota, non aveva mobili ma solo un letto, un letto enorme, nel quale c’era posto per le voglie di tutta la città; furtivamente la Suschitzky cavava del denaro da sot­ to il materasso e cominciava ad accarezzarlo. L’im­ piegato postale aveva davanti a sé, su un tavolo non apparecchiato, piatti di terraglia con pane, salame e formaggio che, pezzo dopo pezzo, divorava a piena bocca e con occhi famelici. Ma quanto più agli oc­ chi di Demba acquistavano vivida luce i desideri e le brame degli altri, e non i suoi, tanto più egli trema­ va e trepidava per i soldi, ed ebbe la triste certezza che fossero perduti e che in quell’istante ormai non appartenessero più a lui, bensì al dottor Rùbsam o alla Suschitzky. 164

«Chiuso! » esclamò d’un tratto il redattore, e nel­ lo stesso momento la Suschitzky emise un grido di sofferenza: «Chiuso! Adesso me ne sto qua, bloccata con an­ cora tre tessere ». « Chiuso? E chi l’ha detto? » gridò il cameriere, ac­ costando le sue due tessere, l’una a destra e l’altra a sinistra. « Questa per domenica e questa per lunedì! Finito! ». «Caspita! Che fortuna! Hai vinto di nuovo. Duecentosettanta corone! » urlò Hùbel alle orecchie di Demba. L’ex avvocato si alzò. Nel locale si fece silenzio. «Prego. Pago tutti» disse con voce impastata, e mise mano alla tasca. «A me deve sessanta corone» esclamò il mare­ sciallo. «A me quarantacinque» gridò l’agente immobi­ liare. «Anche a me quarantacinque. Bello sarebbe aver­ le già» disse il viaggiatore di commercio. « Pago tutti » urlò il dottor Rùbsam, passandosi la mano sulla testa pelata. « Ma poi il banco dovrà te­ nerlo qualcun altro, io non posso più. Sono com­ pletamente al verde ». Trasse il portafoglio e cominciò a pagare le vincite. «Un altro adesso dovrà tenere il banco. I miei sol­ di li ho finiti. A meno che uno dei signori non sia tanto gentile da imprestarmi cento corone». Una generale risata di scherno fu la risposta a quella pretesa. «Vi prego, sono coperto. Il mio orologio» disse agitato il dottor Rùbsam che voleva continuare a giocare a ogni costo. «Il mio orologio è tra fratel­ li... ». Volle prendere l’orologio, ma sulla sedia, sulla quale l’aveva appoggiato, non lo trovò. «Dov’è il mio orologio?» chiese, cercando nervo165

samente in tutte le tasche e spostando la sedia da un lato. «Signori miei! Questo non mi piace» disse poi e tentava a fatica di nascondere la propria agitazione. «Con il mio orologio, per favore, niente scherzi». Si guardò intorno, osservando irrequieto prima l’uno poi l’altro. «Allora qui finisce tutto il divertimento» gridò, poiché non aveva ottenuto risposta. « Non ammetto burle. Voglio subito riavere il mio orologio». «Io non ce l’ho» assicurò l’impiegato postale. «Neanch’io. Non faccio scherzi simili» dichiarò il redattore. «Io non sapevo nemmeno che lei avesse un oro­ logio» esclamò il maresciallo. «Dov’era, l’ultima volta? » chiese Briciole di pane. «Cerchi nelle sue tasche, dottore. L’avrà messo via» consigliò l’agente immobiliare. Il dottor Riibsam, completamente giallo in volto, si frugò un’altra volta in tasca, poi con un fiammife­ ro fece luce sotto il tavolo, ma nemmeno lì c’era qualcosa, e abbandonò le ricerche. «E uno scandalo! » esclamò la Suschitzky. Il dottor Rùbsam allora si mise davanti alla porta e dichiarò: «Nessuno uscirà da questa porta, prima che sia saltato fuori il mio orologio. Voglio proprio vedere, se è possibile che in pieno giorno... ». « Io non mi sono alzato dal mio posto » gridò il re­ dattore. «L’ha pur visto, dottore! ». «Io non ho visto niente! » urlò il dottor Rùbsam furibondo. «Adesso nessuno esce da questa stanza». «Ma alle venti devo essere in redazione». «Questo non mi interessa affatto. Tutti restano qui, finché non si trova il mio orologio». «Vorrebbe dire che gliel’ho rubato?» protestò l’impiegato della Cassa di Risparmio. « Signori miei! Ho una proposta! » gridò Hùbel. 166

« Sta a cuore a tutti accertare che tra noi non ci sia un ladro. Propongo quindi di farci perquisire l’uno dopo l’altro dal dottor Rùbsam. Vi prego, » urlò for­ te nella confusione di voci contrarie «questa non dev’essere un’offesa per nessuno. Voglio comincia­ re io stesso». Si tolse la giacca e si rovesciò le tasche. Il dottor Rübsam lo perquisì. Non troppo accuratamente. Aveva un sospetto ben preciso: la Suschitzky a un certo punto, durante il gioco, era rimasta a lungo dietro di lui. A quanto succedeva nella stanza Demba non ave­ va prestato attenzione né orecchio. Sul tavolo da gioco, là dove prima stava la sua puntata, si trovava­ no ora una miriade di banconote sparse qua e là e al­ cune monete d’argento, duecentosettanta corone che appartenevano a lui. Come un gatto Demba sci­ volò attorno al tavolo. Come fare perché quel denaro finisse nelle sue mani e nella sua tasca? Attendere il momento più favorevole e afferrarlo fulmineamente - sembrava così facile, eppure! Demba non osò. Adesso era il turno dell’impiegato della Cassa di Risparmio, e l’ispezione delle sue tasche portò alla luce un temperino, un portasigarette di aragonite di Karlsbad, un paio di ben noti articoli di gomma e un opuscoletto: L ’arte di conversare e di tentare un ap­ proccio. Poi fu la volta di Briciole di pane, ma furono rinvenute solo una mezza dozzina di fotografie for­ mato tessera che lo ritraevano a braccetto con una signora di una certa età dallo sguardo molto inna­ morato. Quindi il dottor Rübsam si rivolse a Stanislaus Demba. «Potrei pregarla...» chiese gentilmente. Demba trasalì. « Cosa vuole? ». «Solo una formalità, naturalmente» disse il dot­ tor Rùbsam. «Ovviamente sono del tutto convinto... ma...». «Cos’è che vuole?» chiese Demba, irritato per il 167

contrattempo. Proprio in quel momento gli era ve­ nuto in mente un modo per portare il denaro al si­ curo. Avrebbe pregato Hùbel di prendere provviso­ riamente i soldi e il resto si sarebbe poi risolto con facilità. « La pregherei allora di togliersi forse innanzitut­ to la mantella» disse il dottor Rübsam. «Ripeto, lun­ gi da me in qualche modo... ma... ». Demba lo fissò, credendo di aver sentito male. «Che sta dicendo? Che va blaterando della mia mantella...?». « Sì. La prego di toglierla». Il dottor Rübsam stava diventando impaziente. « Escluso » disse Demba. «Che vuol dire?» chiese il dottor Rübsam. «Lei non vuole?». «Fesserie» affermò Demba. «Mi lasci in pace». «Molto sospetto! » gridò l’impiegato postale. «Aha! » si fece sentire la signora Suschitzky. «Veramente molto strano» trovò il viaggiatore di commercio. « Ecco come stanno le cose » disse il dottor Rüb­ sam. «Demba! » gridò Hùbel. «Per caso ce l’hai tu l’o­ rologio?». « Quale orologio? » domandò Demba, confuso. «L’orologio del signor dottore». « Non crederà mica che io abbia preso il suo oro­ logio? » esclamò Demba indignato. « Non è così? » chiese il dottor Rübsam stupito e in tono non troppo convinto. «Uno scherzo forse, pensavo... ». «Ma è assurdo! » affermò Demba. «Allora perché non si lascia perquisire? ». « No » esplose Demba. « Ma Demba! E solo una formalità. Tutti i signori si... ». 168

«No! » urlò Demba guardando lo studente di me­ dicina in cerca di aiuto. «Bene» disse il dottor Rùbsam. «Lei non vuole? Allora so cosa devo fare ». Volse le spalle a Demba e si avvicinò al tavolo. « Non starò a litigare » disse calmissimo. « Per qua­ le motivo, del resto?». E con un gesto improvviso si impossessò del dena­ ro che c’era sul tavolo. Demba divenne pallido come un cencio, quando vide i soldi nelle mani del dottor Rübsam. Lo pervase una furia disperata. No. Non doveva succedere! Non poteva essere che quel tizio si tenesse i soldi. Ora saltargli addosso, liberare le mani, strappare i soldi a Rübsam! Le catene dovevano essere spezzate! Nem­ meno il ferro è invincibile, anche l’acciaio si può rompere. E con uno sforzo enorme si ribellò contro le catene, i muscoli si gonfiarono, le vene si dilataro­ no, nell’estremo bisogno le sue mani divennero due giganti che insorgevano, la catena stridette... Ma il ferro non si spezzò. «Dovrò pur riavere il mio orologio. Costi quel che costi » disse il dottor Rùbsam, cacciandosi in ta­ sca, con la coscienza non troppo pulita, i soldi di Demba. « Non posso fare altrimenti. Il bisogno spez­ za anche il ferro».

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E ora Demba era in strada, preso in giro, fallito, truffato del denaro e defraudato deH’ultima spe­ ranza. Pioveva. Demba avvertì una sete bruciante. Le mani gli facevano male, le ossa dei polsi soprattutto e le dita. Era scoraggiato e così stanco da non avere altro desiderio se non di essere finalmente a casa, nascondere il capo sotto la coperta, non pensare a nulla, dormire. Per amore del denaro, a dispetto delle mani lega­ te, s’era azzardato nel turbine della vita quotidiana. Ma il giorno, ormai folle, lo aveva braccato, ora do­ po ora, senza misericordia lo aveva sbattuto di qua e di là come un fragile guscio di noce. Ora Stanislaus Demba era stanco, abbandonava il combattimento e voleva dormire. « Se questa sera non ti metto i soldi sul tavolo, al­ lora, in nome di Dio, parti pure con Georg Weiner » aveva detto al mattino. E adesso era a quel punto. Non aveva il denaro e non voleva più fare alcun ten­ tativo per ottenerlo.

no

« Che parta » disse a se stesso camminando, e alzò le spalle. «Non la tratterrò. Fino a questa sera alle otto è tenuta ad aspettarmi. Ma non più a lungo. Fair play. Io mi sono sforzato quanto potevo, ma non ho avuto successo. Un fitto susseguirsi di coinciden­ ze insidiose era contro di me, un muro di eventi malvagi. Adesso Sonja è libera. Così abbiamo con­ cordato, e io mantengo la mia parola. Fair play». Un senso di compiacimento si impadronì di Demba alle parole fair play, e mentre camminava assunse la posa di un socio del Jockey Club che, senza batte­ re ciglio, si appresta a saldare dei debiti d’onore di notevole entità. «Per fortuna non sono più interessato agli ulte­ riori sviluppi della vicenda» disse sottovoce, accele­ rando i passi. «Del tutto disinteressato». La parola gli piacque, e la usò ancora. «Con la presente di­ chiaro il mio disinteressamento» affermò con l’e­ spressione di un astuto diplomatico che rilascia una dichiarazione importante e di ampia risonanza. Si fermò e con un leggero inchino rivelò a un invisibi­ le avversario che era del tutto disinteressato al suc­ cessivo corso degli avvenimenti. «Sissignore. Assolutamente disinteressato» ripetè ancora, poiché non riusciva a staccarsi da quella pa­ rola che sembrava possedere la singolare capacità di far apparire tutto sotto una luce consolante e tranquillizzatrice. Addirittura riuscì quasi a pensare, senza ombra d’odio, ira e dolore, che Sonja l’indo­ mani sarebbe partita con l’altro, e lui sarebbe rima­ sto solo. « Non ho potuto mantenere la mia parola, e ora si tratta appunto di subirne le conseguenze » spiegò a se stesso. Si fermò davanti a una vetrina per osserva­ re la sua immagine riflessa, poiché voleva a ogni co­ sto vedersi mentre freddo, immobile, deciso a tutto subiva le conseguenze. «Non c’è più niente da fare. Così avevano con171

cordato » disse, cercando di convincersi della natura costrittiva delle circostanze. E il facchino all’angolo della strada, il commesso che abbassava la saracine­ sca, la domestica ferma sul portone di casa con un boccale pieno di birra, tutti guardarono stupiti quella strana figura che camminava in fretta, a capo chino, facendo spallucce e parlando appassionata­ mente fra sé e sé. « E ora, a casa! » disse Demba fermandosi. « Ma dove sto andando? E ora di tornare a casa! Miksch sarà già uscito. Sono le sette e mezzo. Presto verrà Steffi e sarò finalmente libero dalle manette». Svoltò nella LiechtensteinstraBe, poiché davvero non capiva cosa avrebbe potuto trattenerlo - non certo il signor Weiner - dall’andare a casa per la via più breve. Che quel signor Weiner abitasse proprio nella LiechtensteinstraBe, non doveva essere un motivo per allungare la strada. Ogni minuto era prezioso. La pioggia s’era infittita. Demba s’awolse stretto nella mantella. Imbruniva, e le tremolanti fiammel­ le a gas si specchiavano nelle pozzanghere. «Mi sono davvero impegnato un po’ troppo in questa faccenda» si raccontò Demba, mettendo il piede soprappensiero in una pozza d’acqua. « E ve­ nuto il momento di revocare il mio impegno ». E an­ che questo modo di dire, curiosamente, gli fece be­ ne. Aveva un suono così freddo e oggettivo, così bu­ rocratico e calcolatore, e smentiva i sentimenti in agguato, malcelati dietro quelle altisonanti parole: dolore, gelosia e ardente desiderio. Dinnanzi alla casa dove Georg Weiner abitava si fermò, e notò che la finestra del secondo piano, vi­ cino al balcone, era illuminata. « Ebbene » disse Demba, senza proseguire « è in casa, e lei è da lui. Che c’è di strano? Non c’è alcuna ragione di fermarsi e di perdere tempo. Non m’im­ porta; ho ben altre preoccupazioni». 172

Scansione a cura di Natjus, Ladri di Biblioteche

Sospirò e per un attimo sentì divampare un’ira impotente, poi un dolore sommesso ma tormento­ so. Con occhi fissi guardò su, verso la finestra illu­ minata. Ma superò quel momento e si rifugiò sotto l’ala protettrice delle belle parole che avrebbero narcotizzato il suo dolore. « La questione verrà sistemata in maniera del tut­ to amichevole » borbottò. « Ci lasceremo in perfetto accordo». Proseguì nel cammino, ma ben presto si arrestò di nuovo. «Certo,» disse «Weiner vive proprio comoda­ mente. Sole di mattina, vista sul Liechtensteinpark. Questo è tutto quello che si può dire sul caso. Per il resto non c’è mica niente da segnalare... Allons!». Demba però non andò, ma rimase a guardare su, verso la finestra. «Tra l’altro ho tempo. Non sono ancora le sette e mezzo. Steffi non può essere già arrivata. Che io stia seduto a casa, o rimanga qui ancora un po’, è del tutto irrilevante. Irrilevante» ripetè con vigore, e il suono di quella parola gli conferì l’aria di un freddo giudice, capace di osservare gli eventi con l’occhio di chi non è coinvolto. «E da lui, che altro? Se mi importasse, non sarebbe molto diverso che guarda­ re quanto succede sul palco di un teatro. Una fac­ cenda tra sconosciuti. Può essere piacevole oppure noioso... in nessun caso è molto importante. Si po­ trebbe quasi...». Trasalì. Il suo cuore si fermò un attimo, poi prese a battere furiosamente, all’impazzata. Le orecchie fischiarono e rintronarono, e uno spavento gli serrò la gola e gli tolse il respiro. Lassù, d’un tratto, s’era spenta la luce. Nella stanza di Georg Weiner si era spenta la luce. Il palco di fredda indifferenza, costruito con tan­ ta fatica, andò in frantumi. Lassù, in quella stanza, ora Sonja giaceva tra le 173

braccia di Georg Weiner. Era stata lei a spegnere la luce. Adesso per quei due lassù cominciava un’ora di cui il mondo non doveva sapere nulla. Muto ac­ cordo, abbandono e appagamento. E Demba se ne stava giù, dolorosamente piantato in asso dalle belle parole con le quali si era difeso dal dolore e dalla rabbia, e che ora cadevano a terra come foglie ap­ passite. Disperato, profondamente infelice, treman­ te di pena e odio, scosso dall’invidia e ormai vicino al pianto, Demba se ne stava in mezzo alla strada. Ma i due non dovevano rimanere soli! Sonja non doveva giacere nelle braccia di Weiner! Non credes­ sero, quei due, di potersi nascondere a Demba e a tutto il mondo. Demba doveva salire. Non sapeva cosa avrebbe fatto o detto una volta arrivato su. Voleva spalancare la porta e apparire nella stanza all’improvviso come un rimprovero, come un’accusa, una minaccia, un grido d’allarme. E s’incamminò col respiro affannoso, i pugni ser­ rati e tuttavia col cuore colmo di paura - s’incam­ minò verso il portone di casa. Ma ecco che d’un tratto un giovane uscì in strada. Era Georg Weiner, ed era solo. Andò al limitare del marciapiede, scrutò a destra e a sinistra, su e giù per la strada, e con un cenno chiamò un fiacre. Per un istante Demba guardò il rivale con sommo stupore. Poi trasse un profondo sospiro di sollievo. Georg Weiner era in casa completamente solo. No, Sonja non era con lui. Non si erano abbracciati e non si erano baciati nel buio. Solo perché voleva uscire, Weiner aveva spento la luce. Che fosse stata da lui ieri, che sarebbe tornata l’indomani, non gli importava. Ma che Sonja non fosse su adesso, proprio adesso che lui aveva fissato la finestra con rabbia impotente, questo rese Dem­ ba felice. Che l’improvviso spegnersi della luce non 174

r significasse altro se non che Georg Weiner lasciava l’appartamento, rese Demba grato e gioioso. E ora che aveva ritrovato la calma, tentò di nuovo di rifugiarsi dietro l’impalcatura dei bei modi di di­ re. Ma le belle parole avevano perso la loro forza consolante e illusoria. No. Non serviva a niente. Non poteva andare a ca­ sa adesso. Doveva vedere Sonja ancora una volta pri­ ma che partisse. Sedere ancora una volta di fronte a lei, guardarla, sentirla parlare e ridere, e accomia­ tarsi in silenzio da lei. Georg Weiner aveva fermato un fiacre, e ora vi stava salendo. Pareva andare di fretta. Probabilmente va da lei, pensò Demba. E ora do­ vrà dirmi dove si trova. « Buona sera, signor collega! » disse, emergendo dal buio. Georg Weiner si voltò. «Buona sera, Demba! » rispose tiepido. «Dove va?» chiese Demba col cuore che batteva forte. «Al Residenzkeller! » disse Weiner. «Al Residenzkeller? Si mangia bene lì, vero? ». « Passabilmente ». « In maniera eccellente si mangia, al Residenzkel­ ler!» affermò Demba con impeto. «Può darsi che venga lì anch’io».

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Stanislaus Demba era alquanto irritato, allorché socchiuse la porta. Nell’atrio buio, che si doveva at­ traversare per giungere nella saletta riservata, aveva dolorosamente battuto lo stinco contro una sedia. Non entrò subito, ma si fermò sulla porta, seminasco­ sto da un attaccapanni carico di cappelli e soprabiti. Il piccolo locale era surriscaldato. La luce lo ab­ bagliava, tuttavia Demba vide subito che Sonja non c’era. Ma sedevano là i suoi amici e amiche, le per­ sone che aveva frequentato nelle ultime settimane. Le due ragazze erano studentesse di recitazione. Di fronte alla porta sedeva il dottor Fuhrmann, un uo­ mo tarchiato, con la faccia da bulldog scontento e una cicatrice sulla guancia sinistra. Aveva una voce potente, acuta, squillante come la tromba di un’au­ tomobile, e non appena cominciava a parlare si era tentati di allontanarsi di colpo con un salto. Al lato opposto del tavolo, di fronte a Georg Weiner, avvol­ to in una nube di fumo di sigarette e con sulle lab­ bra il suo eterno, inespressivo sorrisetto, sedeva con grande rabbia di Demba Emil Horvath. 176

Demba diventava furioso al solo pensiero di Horvath. Alle volte, quando faceva lezione dai Becker, Horvath, che frequentava la casa, entrava nella stanza senza salutare, stava ad ascoltare, sorri­ dendo condiscendente, mentre Demba spiegava i verbi irregolari ai ragazzi, quindi se ne tornava fuori con un sorriso di superiorità. Impudente! Entrava senza degnare Demba di uno sguardo, salutava i ra­ gazzi, tirava un orecchio all’uno, dava uno scappel­ lotto all’altro, chiedeva se «Ella» fosse in casa... «El­ la!». Semplicemente «Ella» chiamava la signorina Becker. Ma al precettore... un signor Horvath non darà mica la mano a quello! Il precettore faceva par­ te della servitù, settanta corone al mese più la me­ renda, era meno dell’aria per il signor Horvath. E il signor Horvath, cos’è poi di tanto speciale? Rappre­ sentante. Rappresentante dell’Industria Oli S.p.A., nient’altro. Niente studi universitari, niente esame di Stato. E non mi stringe la mano, macché! Sareb­ be indegno di lui! Demba s’accorse che per la rab­ bia il sangue gli stava andando alla testa. No, no! Solo restare calmo. Essere amabile, genti­ le, premuroso, non far trasparire nulla. Che gli im­ portava di Horvath? Niente. Demba aveva preparato il suo piano. Si sarebbe seduto vicino a quei giovani, comportandosi come se sedesse con loro tutti i gior­ ni. Intendeva prender parte alla conversazione, rac­ contare aneddoti divertenti, essere piacevole, dire delle spiritose gentilezze alle ragazze; e quando poi fosse venuta Sonja, avrebbe dovuto trovarlo mentre conversava animatamente, come ospite ben accetto nella cerchia dei suoi amici. Spalancò la porta, emerse da dietro l’attaccapan­ ni e fece inchini in tutte le direzioni. «Buona sera, signori! Bacio la mano alle signo­ re! ». Si avvicinò al tavolo con il portamento di un na­ vigato uomo di mondo, di un irresistibile charmeur. I tre signori interruppero la loro conversazione e 177

meravigliati fissarono Demba, in mezzo al locale, coi pantaloni inzaccherati e la mantella fradicia, grondante di pioggia. Era di disturbo. Non erano più tra amici. Le due signore alzarono lo sguardo dal menù e osservarono Demba con occhi curiosi. «Buona sera!» disse Horvath infine. «Com’è che è venuto qui? ». « Sono uscito un momento a cercare un po’ di sva­ go» disse Demba, con noncuranza. «Un po’ di com­ pagnia, dopo il lavoro giornaliero. E permesso pren­ dere posto o forse disturbo? ». « Prego » rispose Georg Weiner molto tiepidamen­ te e Demba, dopo essersi guardato attorno indeciso per qualche istante, si accomodò, timido e impac­ ciato, al tavolo vicino. Il dottor Fuhrmann tossì, si schiarì la voce, quindi si girò rumorosamente con la sedia verso Georg Weiner. «Dimmi, ma chi è quell’uomo?» chiese con disin­ voltura. «Uno degli impossibili conoscenti di Sonja» ri­ spose Weiner sottovoce. «Ne ha tutto l’aspetto» disse il dottor Fuhrmann. Demba aveva sentito i due bisbigliare e arrossì vio­ lentemente. Sapeva con esattezza quel che si erano appena detti. Che correva dietro a Sonja e che lei non voleva saperne di lui, aveva naturalmente con­ fidato Weiner all’altro, e di questo ora ridevano en­ trambi. No, non doveva assolutamente lasciar sorge­ re l’idea che fosse venuto lì a causa di Sonja. A que­ sta affermazione menzognera bisognava opporsi nel­ la maniera più decisa. A causa di Sonja? Ridicolo. Neanche parlarne. Un caso, egregio signor Weiner! Un puro caso, caro Horvath. Tra l’altro, sono con­ tento di trovarla qui, caro Horvath... Demba si alzò. « Mi rallegro di aver trovato compagnia. Di questo ristorante ho sentito parlare molto, si dice abbia ima cucina prelibata» disse rivolto a Georg Weiner con 178

quelle locuzioni ben tornite di cui usava servirsi quan­ do parlava con i genitori dei suoi allievi. « Sono infatti costretto a mangiare sovente fuori casa. Sissignori, co­ stretto per ragioni di lavoro » dichiarò con forza, guar­ dando battagliero Horvath, quasi temesse obiezioni da parte sua. « La cucina e la cantina di questo établis­ sement riscuotono lode generale. Effettivamente gode di un’ottima renommée» assicurò al dottor Fuhrmann. Il dottor Fuhrmann guardò dapprima i suoi due amici, poi Demba, scosse il capo e alzando le spalle si sprofondò nella lettura del giornale della sera. Weiner e Horvath non seppero cosa rispondere a quel profluvio di parole e sorrisero impacciati. Le aspiranti attrici ridacchiavano abbassando gli occhi sul piatto. Ma Demba si era messo in testa di convincere i presenti di non essere affatto venuto per Sonja, ben­ sì solo a causa della cucina rinomata. Si ostinò a chiarire la cosa a tutti e continuò caparbiamente a parlare. «La superba qualità dei piatti che l’oste mette in tavola da settimane costituisce l’argomento del gior­ no. Ovunque si sentono solo lodi su... ». S’interruppe di colpo. Davanti a lui c’era il came­ riere che gli porgeva il menù. «Il signore gradisce mangiare?». «Più tardi! Più tardi!» balbettò Demba oltremo­ do imbarazzato, e lanciò un’occhiata spaventata in direzione di Georg Weiner. «Venga più tardi. Non consumo mai la cena prima delle nove... ». Guardò fisso per aria, pensando con intensità a quanto fosse urgente l’invenzione di una gru elettri­ ca in grado di portare il cibo, con totale esclusione delle mani, direttamente dal piatto alla bocca. « Il signore gradisce da bere? Birra o vino? » chie­ se il cameriere. Bere! Sì, per Dio, doveva bere prima o poi. Aveva la lingua appiccicata al palato e la gola gli bruciava 179

come fuoco. Dio mio, solo un sorso di birra, solo un unico, piccolo sorso! Ma non era possibile, tutti lo stavano guardando. Gli tornò in mente un giocolie­ re che aveva visto una volta in un varietà. Aveva affer­ rato con i denti un bicchiere pieno di birra, l’aveva sollevato e poi vuotato senza versarne una sola goc­ cia. Demba si vedeva chiaramente quell’uomo da­ vanti agli occhi e ricordò perfino l’applauso. Batti­ mani da tutte le parti, bravo, bravo! E se anche lui avesse tentato in quel modo? Forse spacciandolo per uno scherzo, una scommessa... «Permettano, lor si­ gnori, che presenti un piccolo pezzo di bravura, un pezzo di bravura con un bicchiere pieno di birra osservino signori: così! ». Bravo, bravo! Applausi. No. Non poteva andare. Non si azzardò a farlo. E la sete era insopportabile. Demba si guardò attorno, in cerca di aiuto. Il dottor Fuhrmann, là, proprio in quel momento portava il bicchiere alla bocca. Lo vuotò in un sol sorso. Quanto gli piaceva la birra. Da buon goliardo. E lui, Demba, doveva star lì seduto a guardare, con la gola riarsa. Di colpo si illuminò. Perché non gli era venuto in mente prima? Un’i­ dea così semplice! E pensare che per tutto il giorno s’era fatto straziare dalla sete! «Cameriere!» gridò Demba. «Mi porti un bic­ chiere di birra con una cannuccia». « Come prego? ». «Un bicchiere di birra con una cannuccia den­ tro!» esclamò Demba, irritandosi molto perché il cameriere non capiva subito cosa volesse. «Vada, e lo porti una buona volta! Se ne sta lì proprio come se mai nessuno prima d’ora avesse ordinato un bic­ chiere di birra con una cannuccia! ». Quello scuotendo la testa andò e portò la birra con l’espressione rassegnata di un uomo abituato ai più strani capricci dei propri simili e che niente può più meravigliare. 180

Demba vide la birra dinnanzi a sé, si sistemò so­ lennemente e cominciò a sorbire dalla cannuccia. Funzionava! La birra saliva e gli bagnava la gola. Bevve con piccoli sorsi nervosi, smise, poi bevve di nuovo. Bravo, bravo! Nel suo intimo applaudì se stesso, quasi fosse il giocoliere del varietà e al con­ tempo il pubblico. «Mi porti subito un’altra birra! » ordinò al came­ riere, rauco per la sete e l’eccitazione. Dall’altra parte, al tavolo di Weiner, l’insolito mo­ do di bere di Demba aveva destato l’attenzione. Le due ragazze bisbigliavano tra loro, ridacchiavano, davano di gomito ai loro vicini e indicavano di na­ scosto lo strano bevitore. Horvath strinse il monocolo nell’occhio, osservò Demba sorridendo beffardo e chiese: «Demba! Che sta combinando?». «Molto originale! Molto originale!» disse il dot­ tor Fuhrmann con ironia. Demba lasciò cadere la cannuccia dalla bocca. Era giunto il momento della coerenza. Si alzò in piedi. Aveva della schiuma sulle labbra che però non poteva pulire. «Prego» disse in tono deciso. «Non c’è proprio niente di originale. I signori non l’hanno mai vedu­ to? Allora devo supporre che nessuno dei signori sia mai stato a Parigi». Contrasse il viso altezzoso e sde­ gnato, poiché evidentemente aveva a che fare con persone che non erano ancora mai state a Parigi. «Oho! » protestò Horvath. «Ho vissuto due anni a Parigi, eppure non ho mai visto bere birra con una cannuccia». Demba pensò bene di spostare al più presto il luogo d’origine di quell’insolita usanza. «A Pietroburgo! » esclamò con vigore. « Una bella figura farebbero, se tentassero di bere la loro birra senza cannuccia. Sarebbe addirittura un’offesa al 181

bon ton, accostare direttamente il bicchiere alle lab­ bra! ». Tuttavia Pietroburgo non gli sembrò ancora abba­ stanza lontana. Qualcuno di loro poteva benissimo es­ serci stato. Una delle ragazze, con quei capelli corti, pareva quasi una russa. Con repentina decisione tra­ sferì il bizzarro cerimoniale della cannuccia un po’ più in là e questa vòlta in una regione posta sicura­ mente fuori dalla portata di un eventuale controllo. «In realtà l’uso proviene da Baghdad» spiegò. «A Baghdad e a Damasco i signori possono vedere, a ogni angolo di strada e davanti alle moschee, dozzi­ ne di arabi bere la loro birra con la cannuccia». In quel momento era del tutto compenetrato dal­ la veridicità della propria affermazione. Bellicoso guardava ora l’uno ora l’altro, pronto ad attaccare briga con chiunque avesse osato esprimere qualche perplessità. Nella sua mente vedeva davvero un tur­ co, accovacciato nella bottega tra balle di merce, in­ tento ad aspirare beatamente, invece che da un nar­ ghilè, da una cannuccia. «Gli arabi dunque bevono birra? Molto bene!» disse Horvàth ridendo. «Etnografia: insufficiente». Questa allusione al suo lavoro di precettore mandò Demba oltremodo in bestia. Con gli occhi ridotti a due fessure osservò Horvàth con ostilità e disse vele­ noso: «A proposito, si saluta quando si entra in una stanza altrui. Capito? Se lo ricordi». «Come? Che intende dire?» chiese Horvàth me­ ravigliato. Demba si spaventò. Quale sciocchezza aveva di nuovo combinato? Eppure s’era ripromesso di esse­ re mite, cortese e gentile, per conquistarsi le simpa­ tie dei presenti. E ora aveva fatto arrabbiare Horvàth sicché, quando Sonja fosse giunta, l’avrebbe trovato in lite con tutti, sospinto in un angolo ed escluso da qualsiasi conversazione. No. Doveva rimediare alla 182

propria sconsideratezza, doveva alzarsi, chiedere scusa. Si alzò. « Le chiedo perdono, signor Horvath, devo chie­ derle scusa. La mia osservazione infatti non era ri­ volta a lei. Era indirizzata al cameriere». Demba tacque, leggermente confuso dal sorrisetto di sufficienza di Horvath. Il calore nell’ambiente ristretto s’era fatto insopportabile. Il gas delle fiam­ melle sibilava. Il fumo delle sigarette irritava e face­ va tossire. Demba si guardò attorno agitato, in cerca del cameriere; ma quello non c’era già più. « E incredibile che razza di maniere abbia questo cameriere!» si infervorò Demba. «Mi stupisce che lei tolleri un simile comportamento! Non saluta mai quando entra in questa stanza. Dov’è, anzi? Era qui appena un minuto fa». La birra, che Demba aveva sorbito con la cannuc­ cia, cominciava a fare effetto. Il sangue gli pulsava alle tempie, inoltre provava una leggera vertigine, un ronzio nelle orecchie e un senso di malessere al­ lo stomaco. Dovette sedersi. Horvath taceva sempre e sorrideva. Demba, nella sua confusione, continuava a parlare senza sosta. « Spero non si sia sentito toccato da quel rimpro­ vero, signor Horvath. Un malinteso. Non era rivolto a lei. Lungi da me...». «Va tutto bene» disse Horvath finalmente, e subi­ to Demba ammutolì. « Quello è matto » disse il dottor Fuhrmann ad al­ ta voce, battendosi la tempia con l’indice. « E ubriaco » spiegò Georg Weiner. «Non vogliamo andare?» chiese impaurita una delle due ragazze. «Dobbiamo aspettare Sonja» rispose Georg Wei­ ner. «Dov’è finita Sonja, che ancora non si vede? » do­ mandò Horvath. 183

«Sarà qui da un momento all’altro» disse Weiner. Demba tese le orecchie. Certo! Questa era di nuo­ vo diretta a lui. « Sarà qui da un momento all’altro » aveva detto Weiner e intanto lo guardava. Che m’importa, quando viene Sonja? Sono qui per lei? Molto bene! Sarà qui da un momento all’altro. Una piccola frecciata, vero? Rivolta a me, no? Ma lei è in errore, signor Weiner. Lei sta commettendo un gra­ ve errore. Tutt’altri motivi mi hanno condotto qui. Validi motivi. Tutta una serie di validi motivi. Devo pur dire ai signori quali importanti motivi... Demba si schiarì la voce. « E davvero un caso che i signori mi trovino qui » disse. « Normalmente vengo qui di rado. Dovrà senz’altro sembrare loro strano che io oggi sia qui». Il dottor Fuhrmann alzò gli occhi dal giornale. Weiner si tolse il sigaro di bocca e osservò Demba. Horvath sorrideva. « Bene, la cosa è semplicissima da spiegare. Avevo particolari motivi per venire qui proprio oggi. Moti­ vi importanti. Tutta una serie di motivi molto im­ portanti». «Ah » disse il dottor Fuhrmann riprendendo a leg­ gere. «Motivi di varia natura» disse Demba, tossì, per guadagnare tempo, e rifletté. Ma, nel suo imbaraz­ zo, nemmeno uno dei motivi di varia natura voleva venirgli in mente. « Il fatto è che un altro locale non poteva proprio essere preso in considerazione. Questo, per così di­ re, si raccomandava da sé, già per la sua posizione estremamente favorevole. Facile da raggiungere per tutti gli interessati». Demba trasse un sospiro di sol­ lievo. Alla fine gli era pur venuto in mente qualcosa. «Infatti sto aspettando due signori per una fac­ cenda molto delicata» sussurrò con fare misterioso. «Una questione d’onore, l’avranno di certo già in­ dovinato. Una cosa molto seria. Maledettamente se184

ria! Veramente i signori dovrebbero già essere qui. Ufficiali del 21° Cacciatori». Si alzò e con passo incerto andò alla porta. «Cameriere!» urlò. «Non hanno chiesto di me due signori? Del signor Demba. Stanislaus Demba? Un sottotenente e un tenente dalle mostrine verdi». Il cameriere non ne sapeva nulla. «Non ancora?» chiese Demba autenticamente stupito, deluso e seccato che i signori non fossero ancora arrivati. « Questo mi meraviglia. Gli ufficiali hanno l’abitudine di essere puntuali in questo ge­ nere di circostanze». Cominciò a spazientirsi, guardò in direzione della porta e pestò il piede sul pavimento. I due ufficiali non venivano. Demba decise di consigliarsi col dot­ tor Fuhrmann riguardo alla delicata situazione. « In realtà quanto sono tenuto ad aspettarli questi signori? » domandò. «Mi lasci in pace!» disse sgarbato il dottor Fuhr­ mann, proseguendo nella lettura del giornale. « Che vorrebbe dire? » chiese Demba in tono bru­ sco. Ora che, all’improvviso e del tutto inaspettata­ mente, si vedeva al centro di una questione d’ono­ re, non era disposto a sopportare la benché minima offesa. Si avvicinò al dottor Fuhrmann, lo fissò e gliene chiese ragione: « Mi vedo costretto a pretendere da lei un imme­ diato chiarimento». «Vada a casa e smaltisca la sbornia! » lo investì il dottor Fuhrmann. « Non si accorge di essere ubria­ co! Vorrei vederlo quell’idiota che l’ha nominata suo padrino ». Annichilito Demba si ritirò al proprio posto. Fra­ stornato, stanco e con la testa pesante rimuginava tra sé. Ubriaco. Quell’individuo lo riteneva ubriaco. Glie­ lo aveva detto dritto in faccia. Demba rise amara­ mente. Mi guarda appena e dice che sono ubriaco. 185

Non ha nemmeno alzato gli occhi dal giornale e di­ ce semplicemente che sono ubriaco. Dovrebbe pri­ ma dimostrarlo, egregio signore. Se posso dire la mia, se molto cortesemente mi è consentito esprime­ re un’opinione in questa faccenda... nel nome di Dio, mai stato più sobrio di adesso. So tutto quello che succede, vedo tutto esattamente, nulla mi sfug­ ge. E glielo dimostrerò subito. Una mosca si è posata sul suo piatto, egregio signore. Vede, nulla mi sfugge. Osservo tutto con la massima precisione. Quello lì è il soprabito di Weiner, dalla tasca sporge il giornale, piegato due volte... vedo tutto. Signor Horvath, a lei piace lasciare slacciato l’ultimo bottone del panciotto - non è decoroso, in compagnia di signore... vedo tutto. Ubriaco! Veramente dovrebbe prima dimo­ strarlo. Devo proprio chiarire le idee a questi signori. Ubriaco! Per una volta dirò la mia opinione senza ri­ serve. Cosa crede, egregio signore? Che va dicendo, egregio signore? Ubriaco! Allora davvero dovrò... Demba si alzò e andò verso il tavolo vicino. Prese accuratamente la mira, con precisione mise un pie­ de davanti all’altro, e in effetti approdò senza inci­ denti vicino al dottor Fuhrmann. «La prego di scusarmi se la disturbo durante la lettura» iniziò, chinandosi verso il dottor Fuhr­ mann. «Sul giornale comunque non c’è niente. Ra­ duno generale della Federazione cacciatori. Con­ certo della banda militare. Uno strano giubileo. Un suicidio nella Babenbergerstrafie... So tutto. Non ho neanche bisogno di guardarlo. Eppure sul giornale non c’è scritto proprio tutto ». Di buon umore Dem­ ba rise tra. sé e sé. Il pensiero che sul giornale non fosse scritto proprio sempre tutto lo divertiva assai. « Che vuole ancora? » chiese il dottor Fuhrmann. «Volevo solo dirle...» spiegò Demba. Si schiarì la voce e riprese da capo. «Tengo a precisare...». Il malessere allo stomaco si fece sentire di nuovo. Av­ vertì un ronzio nelle orecchie, un peso sulle tempie 186

e le lampade a gas ondeggiavano in maniera pauro­ sa sopra la sua testa. Si accorse di non riuscire a sta­ re in piedi con la necessaria sicurezza. Allora si ap­ poggiò pesantemente con la schiena a una sedia. Ecco. Adesso si sentiva meglio. «Volevo solo os-osservare... » riprese Demba, ma in quel momento la sedia cedette e si rovesciò. La borsetta deH’attrice cadde a terra, e cento piccoli oggetti, monete, un taccuino, un rocchetto di filo, un piccolo specchio, sigarette, un pettine di tartaru­ ga, due matite e un orsacchiotto si disseminarono sul pavimento. Demba riuscì a mantenere l’equilibrio. Si appog­ giò al massiccio piano del tavolo. Ubriaco? Scioc­ chezze. Vedeva tutto, osservava tutto. Lì c’era il tac­ cuino. La moneta da cinque corone era rotolata die­ tro l’attaccapanni. « Imbecille! » urlò Weiner. « Finirà per distruggere il locale». «Vada a casa, e smaltisca la sbornia, le ho detto! » gridò il dottor Fuhrmann. «Lo specchio si è rotto» si lamentò l’attrice. Weiner e Horvath erano balzati in piedi, e comin­ ciarono a raccogliere gli oggetti dal pavimento. Demba non prese parte a quell’opera di recupero. Ma osservava, con attenzione e interesse, e contri­ buiva senza posa con utili indicazioni. «La moneta da cinque corone è rotolata dietro l’attaccapanni» disse. «E lì c’è la matita. A destra! A destra, signor Weiner!». Ubriaco? Ridicolo. Aveva visto tutto, niente gli era sfuggito. Horvath si rialzò e osservò Demba sconcertato. « Ma questa è proprio la più incredibile sfacciatag­ gine » gridò furioso. « Prima butta tutto per terra, poi sta lì tranquillo a guardare, mentre io mi affanno». Si avvicinò minaccioso a Demba. « Forse avrà la bontà di raccogliere quanto ha but­ tato sul pavimento. Ma di corsa! ». 187

Demba si chinò verso l’orsacchiotto, ma dopo averci pensato si rialzò. «Allora, si decide o no?» gridò Horvath. Demba scosse il capo. «No» disse. «Meglio di no». Trovava oltremodo ingiusto che si pretendesse una cosa simile da lui. A quel punto si immischiò anche il dottor Fuhrmann. «Ma questo è proprio... ma questo oltrepassa pro­ prio ogni limite. Emil, cosa aspetti? Perché non gli tiri in testa il bicchiere? ». Demba arrossì e guardò il dottor Fuhrmann con aria di rimprovero. Weiner sorrideva divertito. «Lei! Adesso voglio dirle una cosa» disse Horvàth. «Noi non ci lasciamo provocare. Adesso con­ terò fino a tre. Se al tre non avrà raccolto ogni cosa, allora... Il seguito lo vedrà». «Ma lasci stare, Emil. Me le raccolgo anche da me » pregò impaurita la ragazza cui appartenevano gli oggetti caduti. «Uno» disse Horvath. Demba corrugò la fronte, si girò e con passo in­ certo tornò al proprio tavolo. «Due» contò Horvath. « Che diavolo vuole da me! » esclamò Demba. « Mi lasci in pace». «Tre!» gridò Horvath. Ormai aveva perso la pa­ zienza. Afferrò il proprio bicchiere di vino e ne sca­ gliò il contenuto in faccia a Demba. «Ecco, questo è per lei». Le ragazze si misero a strillare. Demba balzò in piedi. Era pallido come un mor­ to, il vino gli scorreva sulla faccia e lo accecava. Ave­ va un aspetto misero, ridicolo e terribile al tempo stesso. Il liquido freddo lo aveva reso d’un tratto sobrio. Vedeva tutto con la massima chiarezza. Una bruciante 188

vergogna s’impadronì di lui. Che aveva mai fatto e blaterato? Che gli era preso? Come aveva potuto di fronte a loro fare la parte del pazzo e del buffone per l’intera serata? Lo avevano deriso, offeso, trattato co­ me un cane. Lui l’aveva sopportato per poter vedere Sonja, e adesso era lì, tra le risate generali. Ma ora basta. L’astio, la rabbia, la delusione che durante l’intera giornata aveva ingoiato in silenzio tutto questo venne a galla. Adesso voleva saltare al collo di quei tre. Ridevano! Ridevano di lui! Tutti ridevano! Ora avrebbero provato i suoi pugni. Weiner per primo, col suo muso privo di mento. Poi queU’altro, con la sua faccia da bulldog, infine Horvath. Demba stava per scagliarsi contro di loro, senza riuscire a parlare per la rabbia, la vergogna e il ri­ morso, e aveva un unico pensiero: strangolarli tutti e tre con le nude mani. Ma d’improvviso si fermò e serrò i denti gemen­ do. Le sue mani erano ammanettate! Non le poteva usare. Le sue mani dovevano rimanere nascoste. E disperatamente implorò Dio di concedergli un’arma. Dio gliela concesse. Demba stava davanti ai tre, ansimando d’ira, tre­ mando per la sete di vendetta, fremendo dalla vo­ glia di uccidere e tuttavia inerme, debole, lo zimbel­ lo di tutti. Ridevano di lui, ridevano a crepapelle, si scuotevano dal gran ridere per la sua rabbia impo­ tente. E Weiner, per non essere da meno, aveva afferra­ to il suo bicchiere di vino e gridava: « Gradisce un altro bicchiere? Per rinfrescarsi! ». Ma ecco che dalla porta si fece udire la chiara vo­ ce di Sonja: «Per l’amor di Dio! Georg! Sta’ attento! Ha una rivoltella in mano! ». 189

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Nell’istante successivo scoppiò il panico. L’ubria­ co aveva una rivoltella. In un precipitoso fuggi fuggi tutti schizzarono via, ma tale fu lo spavento, tale la confusione che nessuno trovò la porta. Weiner la­ sciò cadere il bicchiere, che si ruppe, e il vino si ver­ sò sul pavimento. Horvath, nella sua corsa impazzi­ ta, finì addosso a Sonja, inciampò e rovesciò una se­ dia. Allorché lo sguardo di Demba si posò su di lui, si fermò come paralizzato, rinunciando a ogni ten­ tativo di svignarsela. Le due ragazze si erano rifugia­ te nella nicchia della finestra e, strette l’una all’al­ tra, da dietro le pieghe della tenda fissavano inorri­ dite Demba, fermo in mezzo alla stanza, muto, mi­ naccioso e deciso a qualcosa di terribile. «Stanie! Che vuoi fare?» gridò Sonja ansiosa. Tre­ mava per la vita di Weiner. Demba non diede risposta e il suo silenzio lo rese ancora più terribile. Ma in realtà sbirciava, con un misto di stupore e perplessità, quella confusione che non comprendeva. Perché Sonja gridava? E tut­ ti gli altri che combinavano? Volevano divertirsi alle 190

sue spalle? Era tutto prestabilito? Continuavano a prendersi gioco di lui? Stava ritto, senza muoversi, e aspettava. « Stanie! Ma è una follia! Metti via la rivoltella! » lo pregò Sonja, col viso sconvolto. La rivoltella? Come diavolo le era venuta in men­ te l’idea che lui avesse una rivoltella? Diceva sul se­ rio? Doveva verificarlo. Il dottor Fuhrmann era l’unico a non aver perso del tutto la testa. Fingeva di non vedere il pericolo. Mostrandosi assolutamente ignaro e disinvolto vuo­ tò placidamente il suo bicchiere di vino e afferrò il cappello. «Allora andiamo, signori miei!» propose in tono indifferente. «Che aspettiamo ancora? Possiamo pa­ gare anche fuori». E si diresse alla porta. «Indietro! » gridò Demba. Lo gridò molto timida­ mente e solo dopo qualche esitazione. Perché, natu­ ralmente, ora lo scherzo finirà, ora cominceranno tutti a ridere e a urlare, come prima. Demba si pentì di aver gridato «indietro». Ma no! Nessuno ride. E - guarda che strano quell’uomo obbedisce. Si ferma. Indietreggia, passo dopo passo, come un cane cui si mostri la frusta. Sì, effettivamente ha paura dell’arma, della rivoltella carica. No, stanno solo recitando una commedia, ben pensata, ordita con astuzia, per potersi di nuovo prendere gioco di me, e deridermi. O forse no? Le ragazze, lì, nella nicchia della finestra, hanno occhi talmente spaventati, quella non può essere finzione. E quest’uomo trema, sì, le mani gli tremano. La sorprendente constatazione che il dottor Fuhr­ mann tremasse dinnanzi a lui, confuse Demba an­ cora più dell’ubriachezza e dell’odio. Si accanì e si invischiò nel pensiero di avere tra le mani un’arma pronta a far fuoco, e sperimentò, dapprima tituban­ ti

te e timoroso, il potere che grazie a quella aveva su­ gli altri. Si rivolse a Horvath e col piede colpì il pettine di tartaruga e lo specchio infranto, che ancora giaceva­ no a terra e gli davano noia. «Vuole raccoglierli una buona volta? O adesso de­ vo contare io fino a tre? ». Sia Horvath sia Weiner saltarono su nello stesso istante e si affrettarono a raccogliere gli oggetti spar­ si sul pavimento. Anche il dottor Fuhrmann ritenne consigliabile accorrere in loro aiuto. Demba era ubriaco e aveva una rivoltella. Erano nelle sue mani. Bisognava fare tutto quello che pretendeva, fosse anche la cosa più folle. E aspettare che si presentas­ se l’occasione per renderlo inoffensivo. Demba si rallegrò per quello zelo. Ora aveva soddisfazione, piena soddisfazione dell’ignominio­ so trattamento che gli era stato riservato. Come si inchinavano davanti a lui, sottomessi, e cercavano di nascondersi! La consapevolezza del suo potere gli andò alla testa e sconvolse i suoi pensieri. Sì. Agli altri due avrebbe fatto dono della vita. Li gra­ ziava. Ma Weiner, che gli aveva rubato Sonja, non sarebbe sfuggito alla sua arma, non gli sarebbe val­ so nessun inchino, nessun atto di sottomissione, ora toccava a lui. «Weiner! » gridò Demba, con una voce che non prometteva nulla di buono. Weiner finse di non aver sentito e continuò a cer­ care monete di rame e matite sul pavimento. «Weiner! » urlò Demba e gli venne un accesso d’i­ ra quando vide che Weiner non voleva sentire. Sgomento Weiner si rialzò e fissò Demba con oc­ chi sbarrati. Con orrore vide muoversi, sotto la man­ tella, l’arma assetata di sangue e pronta a compiere la sua opera di morte. Weiner stava lì e aspettava, co­ me il condannato aspetta il boia che deve prelevarlo dalla cella. 192

Sonja fece un cauto tentativo di venire in aiuto al suo innamorato. «Cameriere!» gridò forte tutto d’un tratto. «Ca­ meriere! ». Ma già Demba era davanti a lei. «Silenzio!» ordinò. «Non una parola, altrimen­ ti... ». Sonja ammutolì. Demba si voltò e si diresse verso Weiner. « Che vuole da me? » strillò questi terrorizzato, fa­ cendo un passo indietro. «Mi lasci uscire di qui!». « Sa benissimo cosa voglio da lei » disse Demba. «Da me? Se la conosco appena! » invocò Weiner. «Dov’era la notte scorsa con Sonja?» esplose Demba. La sua faccia era stravolta; furore, gelosia e dolore gli avevano offuscato il cervello. «Dov’era la notte scorsa con Sonja, voglio saperlo! ». E Weiner, che sentiva la bocca della rivoltella pun­ tata contro il proprio corpo - bastava solo un sussul­ to del dito e la pallottola gli si sarebbe conficcata nel petto -, Weiner, che in quel momento vedeva la propria vita nelle mani di un pazzo, per salvarsi sca­ ricò tutta la colpa su Sonja, l’accusò e senza esitare la sacrificò alla folle sete di vendetta di Demba. «E tutto merito tuo, grazie Sonja!» esclamò. «Sei tu la sola responsabile. Cento volte ti ho detto... ». S’interruppe e si rivolse a Demba. «Mi stia a sentire, le giuro, fino a ieri notte non sapevo assolutamente quali fossero i vostri rapporti. Non ne avevo idea, lei non mi aveva detto niente. E vero o no, Sonja?». Sonja non rispose. Ma Weiner, temendo che Demba non avrebbe prestato fede alle sue afferma­ zioni, continuò a parlare senza posa. «Non mi sono mai curato di lei. Ma lei mi telefo­ nava dieci volte al giorno. Mi scriveva lettere e car­ ia i

toline, una volta una lettera di dodici pagine. Sì. È la pura verità, questa». Sonja arrossì, serrò le labbra e guardò per terra. Con occhi paurosi e inquieti Weiner guardava ora lei, ora Demba. Ma il volto di Demba aveva assunto un’espressione spietata e crudele. Erano montati in lui disgusto e disprezzo, e aveva deciso di abbattere quel vigliacco, per quanto andava dicendo. « Non è vero forse? » gridò Weiner, che avvertiva la vicinanza del pericolo. «Non mi hai forse tor­ mentato giorno dopo giorno, affinché venissi da te, per suonare il pianoforte a quattro mani? Non ti sei forse presentata all’università quando io ero a lezio­ ne? E tutto solo merito tuo, ti ringrazio». «Basta!» esclamò Demba. Improvvisamente pro­ vava compassione per Sonja, che se ne stava lì in si­ lenzio a sopportare i rimproveri di Weiner. Ma Weiner non si poteva fermare. «Non è forse vero? Non mi hai seguito ovunque, passo dopo passo?...». «Sì, è vero» disse Sonja. «E adesso è finita tra noi». «Sissignora. Adesso è finita. Sissignora. Finita,» strillò Weiner incattivito e la sua voce si fece stridula «e ora...». «E ora... eccoti indietro i tuoi soldi». Sonja spa­ lancò la borsetta verde di coccodrillo e gettò in fac­ cia a Weiner un sottile blocchetto rosso. «Eccotelo indietro! » gridò. «Vigliacco! Vigliacco! Puah, vigliacco! ». Il biglietto circolare per il viaggio a Venezia cadde a terra. E in quel momento, per Demba, fu come se qualcosa di pesante, di opprimente gli si staccasse dal cuore. Per un intero giorno la brama di avere tra le mani quel blocchetto, in modo da strapparlo in pezzi e scagliarli lontano, l’aveva sospinto e spronato. Per tutto un giorno l’aveva oppresso la paura di arrivare 194

troppo tardi, l’angoscia che quel biglietto potesse rapirgli Sonja. Per un intero giorno aveva rincorso con affanno il denaro che l’avrebbe aiutato a con­ quistare quel blocchetto e a distruggerlo. Ma il de­ naro gli si era astutamente e malvagiamente nasco­ sto, per tutto il giorno. E ora, a sera, quando si era spinto fin lì strisciando, ormai scoraggiato e a mani vuote, battuto e sconfitto, ora quel blocchetto, che aveva odiato e temuto, giaceva per terra, era carta senza alcun valore, da spingere via con un piede. Il suo trionfo era arrivato così, da solo; lui aveva otte­ nuto quanto per tutto il giorno aveva desiderato; l’a­ veva ottenuto senza fatica, senza lotta, solo per aver nascosto le mani sotto la mantella. E ora, a rendere più completa la sua vittoria, Sonja si avvicinò a lui. Poiché, indecisa nel proprio animo tra i due, era di nuovo attratta da lui, che non aveva vilmente inseguito, come Werner, la pro­ pria salvezza, bensì, a causa sua, era diventato pazzo e pronto a commettere un omicidio. «Vieni, Stanie! Andiamo» disse sottovoce. «Sì, avevi ragione: non vale niente. Vieni, lascia stare quel vigliacco! Su, ri­ pulisciti un po’». Prese un tovagliolo dal tavolo e gli deterse il vino dal viso. Demba guardò Sonja e si meravigliò oltre misura. Quale frenesia l’aveva spinto, per amore di questa ragazza, a sfrecciare come impazzito attraverso il giorno, a mentire, rubare e mendicare per amor suo? L’aveva davanti, ma non vide in lei nulla che potesse renderlo allegro o triste, era sua, ma lui non provava nulla, non orgoglio, non l’inquietudine del possesso, non la paura di perderla. Ne aveva abbastanza di lei. Cosa cercava ancora in quel posto? Che si aspetta­ va ancora? Si apprestò ad andar via, eppure non po­ teva. L’amore era finito, non si poteva dire che fosse morto, oh no, era crepato come una bestia brutta e malata. Ma l’odio viveva, quello non si lasciava sot195

terrare, quello era grande e potente e lo costringeva a compiere la sua vendetta. L’arma, che credeva di tenere in mano, l’aveva re­ so schiavo. L’ubriacatura di potere l’aveva soggioga­ to, la voglia di uccidere lo teneva stretto e non lo la­ sciava libero. Doveva andarsene e concedere la gra­ zia a quelli là? Perché loro, una volta che lui fosse uscito, potessero deriderlo e schernirlo come pri­ ma? No, non avrebbero riso. Nessuno avrebbe la­ sciato vivo la stanza. Nessuno. E si vide avanzare con la rivoltella puntata verso i tre, e sparare, colpo do­ po colpo, contro facce mortalmente pallide. Si piegò oltre il tavolo. « Mancano cinque minuti alle otto e mezzo. Con­ cedo ai signori cinque minuti» disse, e la sua voce suonò gelida e così spietatamente decisa che a lui stesso, in quell’attimo spaventoso, corse un brivido lungo la schiena. « Impieghino questo tempo a loro piacimento». « Demba! Ma è diventato matto? Che ha in men­ te? » gridò Horvath. « Non ho davvero più tempo, mi dispiace, sono at­ teso » disse Demba e subito si arrabbiò, contrariato del fatto che si abusasse in modo così sconveniente del suo tempo. «No. Uscire non potete. Indietro!» ordinò. «Altrimenti sparo! ». I tre ristettero, fissi e immobili. L’ubriaco faceva sul serio. Non c’era scampo dalla rivoltella. Rimase­ ro fermi, senza osare muoversi. Solo il gas delle fiammelle cantava e l’orologio ticchettava, mentre le sue lancette procedevano lente ma senza miseri­ cordia verso la meta. Demba guardò ora l’uno ora l’altro, meditando a chi puntare per primo. Era tempo, l’orologio avreb­ be battuto subito, e decise per Horvath. Horvath. Sì. Lui sarebbe stato il primo. Non l’ave­ va mai potuto sopportare. Nel proprio intimo co­ minciò per l’ultima volta a dire a Horvath il fatto 196

suo. Quel presuntuoso cafone! È in casa Ella? No, Ella non è in casa, ma ci sono io, buon giorno, si­ gnor Horvath, forse non mi aveva ancora notato? Ecco e adesso... le otto e mezzo... Un fruscio fece tendere l’orecchio a Demba. Si udirono dei passi, il cameriere era entrato nel­ la stanza. Demba si voltò. « Lo prenda! » gridò il dottor Fuhrmann e saltò al collo di Demba.

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«L ’ho preso! ». « Lo tenga fermo! ». «Le mani! Gli afferri le mani!» gridò Weiner al cameriere. «Lasciatemi! » ruggì Demba difendendosi furiosa­ mente contro le braccia che lo stringevano. « Stia attento! Spara! ». « Ha una rivoltella! ». «Il braccio! Weiner, prendigli il braccio! ». «Attenzione! ». Demba era riuscito a liberarsi. Distribuiva colpi e calci in tutte le direzioni e, nella sua furia, come un toro si lanciò a testa bassa contro il cameriere. «Fermatelo! Fermatelo!». «L’ho preso! ». «Dottore! Lo afferri per le gambe! ». « Lasciatemi! » si agitò Demba scalciando col piede. «Mi ha colpito! » ululò Weiner e cadde su una sedia. Le due studentesse di recitazione strillavano forte coprendosi la faccia con le mani. Sonja era accorsa da Weiner. 198

« Georg! Che ti è successo? » gridò ansiosa. «Mi ha colpito! Aiuto! » gemette Weiner. «Dove? Per l’amor di Dio! ». Tutta l’inimicizia era dimenticata e Sonja, pallida come un cencio, si af­ fannava attorno al piagnucolante Weiner. « Lasciatemi! Soffoco! » ansimò Demba. Il came­ riere gli stava stringendo la gola con le mani. « La rivoltella! » ordinò il dottor Fuhrmann. «Ce l’ho! Gli ho preso le mani!» gridò Horvath trionfante. «Mi lasci! Mi spezza il braccio!» gorgogliò Dem­ ba, cianotico in volto. «Ho preso la rivoltella». « Piano ! E carica ». «Attenzione! Parte un colpo!». Ancora pochi, brevi istanti di lotta disperata. Poi Demba cacciò un urlo. Horvath gli aveva af­ ferrato le mani torcendogli i legamenti. «Eccola». Esultante, Horvath trasse le mani di Demba da sotto la mantella, due infelici, indifese, povere mani, miseramente ammanettate l’una al­ l’altra. Per un attimo tutto restò immobile. Poi Demba riuscì a liberarsi. Si guardò attorno furente, emise un debole gemi­ to, prese fiato e si precipitò fuori dalla porta. Per qualche secondo lo si sentì urtare contro se­ die, tavoli e attaccapanni vuoti. Poi una porta si chiuse di schianto e tutto fu di nuovo tranquillo. Il dottor Fuhrmann fu il primo a riaversi. « Cos’è stato? » chiese ancora senza respiro. «L’avete visto...?» ansimò Horvath, esausto per la fatica del combattimento. «Quello dev’essere scappato da qualche posto» disse il cameriere scuotendo il capo. «Dobbiamo inseguirlo» esclamò il dottor Fuhr­ mann. 199

«Alla polizia! Alla polizia! » gridò Weiner, massag­ giandosi lo stinco. L’idea di essersi fatti ingannare e terrorizzare da un’ombra, da una menzogna, dal fantasma di un’ar­ ma, li mandava in bestia. Weiner raccolse il biglietto circolare da terra e ne ripulì con cura i fogli dalla polvere. « La cosa migliore è andare al più vicino commis­ sariato» disse con decisione il dottor Fuhrmann. «Forse qualcuno sa dove abita quell’individuo?». «Io» disse Sonja con voce dura, accettando il sor­ riso beffardo, le occhiate di scherno e di disprezzo di tutti, per tradire Demba. «Io so dove abita».

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Stanislaus Demba saliva lentamente le scale. Da­ vanti alla porta di casa Steffi Prokop lo aspettava al buio. « Stanie? » lo chiamò sottovoce. « Sei arrivato final­ mente! Era ora! Era ora! Sono quasi le nove. Così tardi!». «E molto che aspetti?». «Da un’ora. E stato qui un fattorino, la tua padro­ na di casa gli ha aperto la porta. Mi sono nascosta nel vano della finestra e lei non mi ha vista. Ha por­ tato una lettera, credo, per te». «Ah» disse Demba. Non aspettava più alcuna no­ tizia dal mondo là fuori. «Non andiamo dentro?» pregò Steffi. « Sì. Prendi la chiave dalla tasca destra della mia giacca e apri. Ma fa’ piano... piano! Nessuno deve sapere che sono tornato». Entrarono nella stanza. Demba serrò la porta e tolse la chiave. «Allora è qui che abiti? » disse Steffi a bassa voce. 201

« Dov’è il tuo amico? Non è qui? Aspetta, faccio lu­ ce». «No! Se c’è luce in camera viene subito la padro­ na di casa. Lì, la candela sul comodino, quella puoi accenderla. Hai la chiave?». «Sì... credo». «Credi? Che vuoi dire?». «Ho la chiave. Certo che ho la chiave» rispose Steffi. «Dammi qua le mani. Guarda, lì c’è la lette­ ra». Demba lacerò la busta. La lettera era di Hübel. Comunicava che l’orologio d’oro del dottor Rùbsam era stato trovato. Addosso alla Suschitzky. Il dot­ tor Rübsam presentava le proprie scuse e restituiva il denaro, duecentosettanta corone. Delle quali lui, Hübel, si era permesso di prenderne in prestito cin­ quanta. Con i migliori ringraziamenti e, senza alcun dubbio, al primo del mese prossimo... Demba gettò sul tavolo la lettera e le banconote. Quale significato poteva ormai avere per lui il dena­ ro? Brandelli di carta colorata, null’altro. Arrivava troppo tardi. « Stanie, non ho molto tempo, devo tornare a ca­ sa» esortò Steffi Prokop. «Dammi qua le mani, vo­ glio provare se la chiave funziona». « Provare? » chiese Demba. «Naturale, deve funzionare, questo è chiaro» ri­ spose Steffi, afferrando la chiave. «Mi serve più lu­ ce». Avvicinò la candela al bordo del tavolo. Il suo sguardo le cadde sulle banconote. «Quanti soldi!» esclamò cercando il buco della serratura. «Che farai con tutti quei soldi?». «Niente. Non mi servono più. Sono arrivati trop­ po tardi». «Troppo tardi? Perché?». « Non ha importanza perché » disse Demba stan­ camente. «La chiave viene a proposito. Voglia Dio che abbia le mani libere al momento giusto». 202

Steffi alzò gli occhi inquieta. «Al momento giusto?» chiese. « Mi stanno di nuovo cercando » disse Demba. «Ma chi, Stanie, chi?». «Credo che stiano per arrivare». «Ma chi, Stanie? La polizia?». «Sì. Ma non fa nulla. Non temere. Senza le ma­ nette non ho paura della polizia. Devo avere le ma­ ni libere. Bisogna togliere le manette». « Sì. Bisogna togliere le manette » balbettò Steffi. «Bisogna toglierle! Bisogna liberarsene! Stanie, non entra! E troppo grande». «Come? La chiave?». Demba balzò in piedi spa­ ventato. «Lo immaginavo. L’ho sempre temuto». Si lasciò cadere le mani in grembo e guardò Demba sconso­ lata. «Com’è possibile?» scoppiò Demba. «Io non ne ho colpa» singhiozzò Steffi, imploran­ do perdono con gli occhi. «Quello stupido! ». «Ma cos’è successo?». «Quello stupido! Pensa: nel pomeriggio, mentre ero in ufficio, è andato da mia madre l’apprendista fabbro, sai, quel ragazzo che abita accanto a noi. Ha detto di aver perso il calco di cera e che mia madre gli doveva dare il mio diario. Stanie, questa chiave non apre le manette. Ha fatto una chiave per il mio diario». «Va bene» disse Demba, sottovoce, a se stesso. «Stanie! Che faremo?». « Io so cosa farò » rispose Demba con un sospiro. «Stanie!» cominciò Steffi. «Devi darmi retta, io voglio il tuo bene. Guarda, non sarebbe meglio se tu andassi dalla polizia e raccontassi tutto? Di sicuro ti darebbero solo una pena leggerissima, qualche set­ timana, forse solo due o tre settimane. E poi saresti libero, mi ascolti, Stanie, saresti libero, Stanie...». « A parte le manette » disse Stanislaus Demba. 203

«A parte le manette? ». « Sì. Quelle le porterò per tutta la vita. Le porta chiunque esca dal carcere. Non lo sapevi, Steffi? La Giustizia infligge sempre le pene a vita. Chi esce dal carcere deve nascondere le mani, perché sono diso­ norate per sempre. Non potrà più porgere libera­ mente e apertamente la mano a nessuno, dovrà stri­ sciare attraverso la vita, intimorito e con le mani na­ scoste, proprio come me, che oggi per dodici ore, con le mani sotto la mantella... ascolta! Sono già qui». Qualcuno aveva suonato. Steffi saltò su e gettò le braccia al collo di Demba. «Non devono entrare! Troveranno te e me, Sta­ me, troveranno anche me! ». Suonarono di nuovo. La porta di casa venne aper­ ta. Passi d’uomo, due forti colpi alla porta della stanza. «In nome della legge, apra! ». «Troveranno te e me» gemette Steffi. Demba sospirò. Un soffio di vento dalla finestra spense la candela. Ma non divenne buio, non si fece notte, regnava nella stanza un cupo, freddo crepu­ scolo. « Questa mattina, » disse Demba « quando stavo in soffitta davanti alla finestra, ho pensato a te, Steffi. Ho pensato a te, ero preoccupato per te, volevo ve­ derti ancora una volta. Ho desiderato che mi fossi accanto quando sarei morto. E ora sei qui, ma io non sono contento, perché ti ho trascinata nella mia rovina. Adesso vorrei che tu fossi molto lontana da qui». La pressione delle braccia si allentò. L’immagine di Steffi, quasi avesse aspettato queste parole, si af­ flosciò su se stessa, divenne una nube di nebbia, si dissolse e svanì nel nulla. Non battevano e non picchiavano più. Duri at­ trezzi erano al lavoro sul pannello della porta. 204

«Ci sono persone» disse Demba «che la libertà non rende felici, Steffi. Solo stanche». Non giunse risposta. «Io ho desiderato la libertà. Con ogni fibra del mio corpo, Steffi. Ma le forze mi hanno abbandona­ to e ora voglio soltanto una cosa: riposare ». Nessuna risposta. «Dove sei, Steffi?». Silenzio. Solamente il legno della porta scricchiolava e cre­ pitava. Demba si alzò. Picchiò la testa contro una trave della soffitta. Fece due passi avanti, inciampò in un tappeto arrotolato, urtò una corda da bucato e cad­ de su un sacco di paglia. L’aria satura di polvere del­ l’angusto locale gli si depositò, pesante, in gola. Si rialzò e si avvicinò all’abbaino. Maledizione! L’odore di malto! Da dove viene que­ sto ripugnante odore di malto? L’orologio di un cam­ panile batte. Nove volte. Mattina? Sera? Dove sono? Dov’ero? Da quanto tempo sto qui e sento battere l’o­ rologio del campanile? Dodici ore? Dodici secondi? La porta si apre di colpo. Un grammofono in lon­ tananza suona «Principe Eugenio». Il tetto di ardesia risplende allegramente nel sole del mattino... due rondini sfrecciano spaventate fuori dal loro nido. Allorché i due poliziotti - poco dopo le nove di mattina - entrarono nel cortile del rigattiere, nella Klettengasse, Stanislaus Demba era ancora in vita. Si piegarono su di lui. Egli si spaventò e tentò di alzarsi. Voleva allontanarsi, svoltare velocemente ol­ tre l’angolo, verso la libertà. Ricadde subito indie­ tro. Aveva le membra fracassate e da una ferita die­ tro la testa usciva del sangue. Solo i suoi occhi si muovevano. I suoi occhi vive­ vano. Quegli occhi erravano senza sosta per le stra205

de della città, vagavano sopra giardini e piazze, si immergevano nel fragoroso tumulto dell’esistenza, si precipitavano su e giù per scalinate, scivolavano attraverso stanze e spelonche, si aggrappavano an­ cora una volta all’instancabile vita del giorno mai fermo, giocavano, mendicavano, lottavano per de­ naro e per amore, assaporavano per l’ultima volta la felicità e il dolore, l’esultanza e la delusione, furono infine vinti dalla stanchezza e si chiusero. Per la violenza della caduta le manette si erano spezzate. E le mani di Demba, quelle mani che nella paura si erano nascoste, nel rancore erano insorte, nella rabbia si erano strette a pugno e nel lamento impennate, che mute avevano tremato nel loro na­ scondiglio, disperate avevano lottato con il destino e sfidato caparbie le catene - le mani di Stanislaus Demba finalmente erano libere.

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