1 - Capitolo 1 La Moda [PDF]

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Zitiervorschau

I. LA MODA I.1. LE PRINCIPALI CARATTERISTICHE DELLA MODA La parola “moda” compare per la prima volta in Italia attorno alla metà del Seicento. Si trattava di una traduzione del termine “mode” già in uso in Francia, derivato dal latino “modus” (maniera, scelta) ma esprimeva il concetto di “giusta misura”, pertanto si considera “di moda” ciò che viene percepito come “giusto” in un certo momento storico ed in un determinato contesto. Secondo gli studiosi le funzioni principali dell’abbigliamento sono due: protezione e pudore. La forma di protezione offerta dagli abiti è certamente quella svolta contro il freddo, ci si veste per pudore, ovvero per non provare vergogna mostrando le parti intime del proprio corpo, ma si usa l’abbigliamento anche per decorare il proprio corpo o per esprimere una precisa identità all’interno del proprio contesto sociale. Sino alla fine del Medioevo il modo di vestire delle persone è rimasto pressoché immutato e ciò è avvenuto perché la società era statica ed il passato rappresentava il valore supremo, il modello di riferimento per tutti i comportamenti. Con la disgregazione della cultura medioevale e lo sviluppo del Rinascimento il mutamento è divenuto un valore socialmente ambito e la società ha cominciato a muoversi orientandosi verso il futuro, mentre l’individuo si vede riconosciuto il diritto di modificare le strutture sociali e di compiere scelte personali nel campo dell’estetica.

Figura 1

Lo sviluppo della moda è stato dunque reso possibile dal contemporaneo sviluppo in Occidente della cultura moderna e dei suoi principi democratici. I due aspetti cruciali per il manifestarsi della moda sono stati in primo luogo l’idealizzazione del nuovo con il mito del

progresso sociale, poi la possibilità dell’individuo di svincolarsi dai legami sociali tradizionali e di sentirsi libero di esprimere la propria capacità di scelta. Si spiega così perché la moda non possa fare a meno di mutare costantemente. La legge della variabilità costituisce infatti la sua essenza fondamentale: ridefinisce incessantemente ciò che è di moda e ciò che non lo è, anche attraverso una rapida successione di cicli per un’incessante produzione di forme nuove o che appaiono come tali. Il medico Bernard Bandeville è stato il primo autore a sostenere, all’inizio del Settecento, che la moda si diffonde grazie all’imitazione, cioè al bisogno che gli individui hanno di competere fra loro imitandosi e superandosi a vicenda, pur prendendo come riferimento ciò che si indossa a corte. Un secolo dopo il sociologo Herbert Spencer sostiene analogamente che la moda si caratterizzi su principi imitativi, ma che appartenga all’ambito delle società industriali e che sia determinata dal bisogno di sentirsi uguali agli individui considerati superiori. Georg Simmel individua come la causa della variabilità della moda sia da rintracciare in un continuo confronto fra due spinte contrapposte presenti nell’animo umano: quella che ricerca l’imitazione (o eguaglianza) e quella che muove verso la differenziazione (o mutamento). Egli considera la moda un fenomeno totalmente culturale e condizionato dalle dinamiche attive nel sistema sociale. Essa è il risultato del fatto che al vertice della società c’è una classe superiore che tenta costantemente di differenziarsi da quelle inferiori, manifestando la diversità del proprio status di privilegio e lo fa mostrando di non avere la necessità di lavorare indossando abiti bianchi che si sporcano facilmente, oppure ostentando la propria ricchezza acquistando nuovi beni di consumo di lusso. A loro volta le classi inferiori tentano d’imitare le scelte di consumo della classe agiata, costringendo quest’ultima a ristabilire la sua posizione di privilegio modificando tali scelte, le quali, una volta imitate, si banalizzano e non esprimono più uno status di agiatezza. Ne deriva l’effetto di un continuo procedere delle mode e dei beni di consumo dall’alto verso il basso della società. Nel corso del Novecento John Carl Flugel ha affiancato a un’interpretazione della moda come risultato del conflitto psichico tra modestia e ostentazione un’altra basata sulla competitività di natura sessuale che utilizza come strumento di seduzione , soprattutto per quanto riguarda le donne, i continui spostamenti della zona erogena primaria (di volta in volta la schiena, il seno, le gambe ecc.). Si trova lo stesso tipo di spiegazione naturalistica in Alexander Elster secondo il quale la repressione sociale della poligamia ha impedito il soddisfacimento del bisogno biologico di variazione erotica, cui la moda pertanto ha tentato di sopperire attraverso le variazioni delle fogge degli abiti.

Negli anni cinquanta del Novecento lo studioso statunitense Lloyd Fallers inventa la teoria della diffusione verticale, o diffusione goccia a goccia (trickle down theory). Tale teoria ha messo chiaramente in luce come i cicli della moda si determinino per effetto dell’ingresso sulla scena sociale di un’innovazione, la quale scende dall’alto verso il basso della società, si diffonde e quindi inevitabilmente usura i suoi significati simbolici, determinando la necessità di un’altra innovazione che la sostituisca. Secondo Werner Sombart invece la nascita della moda va spiegata come una vocazione al consumo di beni di lusso che si sviluppa per placare l’angoscioso senso di morte determinato dall’insediarsi della società moderna. Il passaggio traumatico dalla condizione comunitaria a quella che caratterizza la modernità ha fatto perdere all’individuo la rassicurante sensazione di appartenere ad una realtà collettiva che lo trascende e gli sopravvive : ora egli è solo di fronte alla morte e vuole di conseguenza sperimentare nella sua limitata esperienza terrena tutti i piaceri possibili. L’interpretazione della moda è stata radicalmente modificata dal passaggio delle società industriali avanzate ad una nuova struttura organizzativa che è stata definita inizialmente “postindustriale”. La progressiva sostituzione di una struttura sociale piramidale con una struttura che tende a svilupparsi in senso orizzontale, dotata di una classe media sempre più numerosa ed importante, comportò l’iniziare ad analizzare la moda partendo da approcci differenti in grado di tener conto di una nuova spinta alla differenziazione dei modi di vita dei nuovi sottogruppi sociali appartenenti comunque al ceto medio. I beni di consumo, infatti, cominciano a diffondersi in senso orizzontale perché la società non individua più un unico polo di riferimento nella classe agiata, ma anche quelli costituiti dagli individui vicini, dalle famiglie e dai gruppi limitrofi: ciò che stimola i comportamenti di consumo in una società stratificata e fortemente dinamica è l’impulso dell’individuo verso il miglioramento delle proprie condizioni di vita, soddisfatto attraverso l’acquisto di beni che attestino tale miglioramento. A causa dei numerosi mutamenti sociali avvenuti alla fine dell’Ottocento, anche le strategie di tipo ostentativo sono sempre meno indirizzate contro le altre classi e sempre più dirette verso i membri della propria, inoltre non sono più ristrette ad una élite sociale come la classe agiata, ma adottate dalla maggioranza della popolazione. Presso il ceto più abbiente, invece, i meccanismi di ostentazione diventano sempre più complessi, ironici e basati più sull’ostentazione del proprio stile personale che sulla dimostrazione del possesso di una grande ricchezza economica. In un contesto sociale di tipo postindustriale, dunque, non è più possibile accettare l’idea che le mode procedano verticalmente dall’alto verso il basso della stratificazione sociale.

Negli anni sessanta Dwight Robinson parla di diffusione simultanea ed orizzontale della moda nelle diverse classi sociali, mentre Charles King negli stessi anni propone di sostituire la teoria della diffusione “trickle down” delle mode con la sua “trickle across theory”. Nel decennio successivo invece, diversi autori affermano che le mode possono svilupparsi anche attraverso un processo dal basso verso l’alto: possono nascere presso alcune minoranze sociali, come le avanguardie giovanili, che proprio in quegli anni cominciano ad esercitare un ruolo influente nella creazione delle mode. A tale proposito Blumberg propone di sostituire il concetto di “trickle down” con quello di “trickle up” o “bubble up”. In seguito all’allentarsi della struttura gerarchica della società e al progressivo sviluppo della classe media, che ha occupato gran parte del sistema sociale, la moda è diventata sempre più accessibile e democratica e i centri di creazione delle mode si sono moltiplicati. Ma oggi la morale di classe si è notevolmente indebolita ed implica sempre meno il dovere di giudicare gli altrui comportamenti di consumo. Ciò non solo perché è enormemente cresciuta, nella società, la disponibilità personale di reddito, ma anche perché un processo di progressiva omogeneizzazione culturale ha ridotto le differenze esistenti tra le varie classi creando una complessa stratificazione sociale. Pertanto la moda ed il consumo non sono più analizzabili attraverso la sola cultura di classe, ma è necessario fare riferimento all’intero immaginario collettivo odierno, perché il sistema integrato consumo-media modifica in senso interclassista il capitale culturale di classe acquisito nella famiglia e nella scuola. Gilles Lipovetsky ha sostenuto che la società dei consumi è caratterizzata da una progressiva diffusione della “forma-moda”, ovvero da una crescente capacità della moda di inglobare e rimodellare tutto ciò che esiste nella società: la cultura mediatica, la musica, la pubblicità, la politica, ecc. la moda, infatti, ha imposto socialmente i propri criteri centrali del rinnovamento frenetico e della diversificazione dei modelli. Le regole che sono state create nell’Ottocento all’interno del sistema parigino dell’alta moda si sono sempre più diffuse a tutto il sistema dei consumi. Ne consegue che la logica economica spazza via qualunque ideale di durata, l’effimero governa produzione e consumo degli oggetti. Le aziende sono pertanto condannate a produrre innovazioni, e se non lo fanno vengono inesorabilmente emarginate dal mercato. Per questa ragione devono pianificare con accortezza il periodo di obsolescenza dei loro prodotti. Allo stesso tempo, il consumatore deve sviluppare un rapporto di tipo ludico con i prodotti, che devono avere soprattutto carattere di novità, anche se a volte tale carattere è più comunicato che reale, più basato su piccole innovazioni “di faccia” che sostanziali.

Va considerato inoltre che la forma-moda de standardizza i prodotti, moltiplica le scelte, guida le politiche di gamma, che consistono nel proporre una vasta scelta di modelli e versioni, costruite a partire da elementi comuni e che si distinguono soltanto attraverso piccole diversità combinatorie. Dunque, anche questa logica propria della moda basata sulle piccole differenze si diffonde progressivamente nella società. Oggi, però, appare sempre più evidente che la moda sta perdendo sia il suo legame con l’evoluzione sociale, sia la conseguente capacità di comunicare. Ciò è probabilmente determinato dal fatto che la moda ha eccessivamente accelerato i suoi ritmi, anche se tale accelerazione è una conseguenza inevitabile della stessa legge della variabilità, che tende ad avvitare su una spirale viziosa ogni fenomeno comunicativo. La moda, semplicemente, è stata contaminata per prima da questa legge ed oggi ne risente dunque più degli altri sottosistemi sociali. Essa è arrivata così ad essere percepita come puro fenomeno di revival indipendente dalle dinamiche sociali e in difficoltà crescente per quanto riguarda la comunicazione. Se ciò avviene è anche perché il corpo del consumatore tende sempre più a fluire liberamente verso l’esterno, disperdendosi nel sociale. Attraversa infatti lo stadio del “corpo-flusso” che comporta anche una moda che non è più in grado di contare su un nucleo compatto e costante come quello rappresentato dal vero e proprio “corpo narcisistico” che dominava la cultura sociale degli anni ottanta. Oggi, cioè, essa è costretta a ricercare continuamente una combinazione personale con un corpo che viene costantemente modificato a seconda delle necessità. Senza più un punto di riferimento certo, la moda gioca così allo scambio di identità sessuali, sviluppando modelli androgini, ma, soprattutto, rinunciando a ritradurre nei suoi codici universali e astratti le sue forme specifiche e concrete di ciascun corpo. Si fa dunque, essa stessa, pura in distinzione, libera sovrapposizione di stili e materiali. La moda, dunque, si collocherebbe al di là delle categorie razionale/irrazionale, bello/brutto, utile/inutile, per operare come aspetto puramente magico e seduttivo della merce. Nella moda, infatti, i segni non sono tutti equivalenti ed intercambiabili. Quelli che riguardano la differenza sessuale, per esempio, anche se tendono ad omogeneizzarsi, non sono ancora scomparsi e sono inoltre affiancati da alcuni nuovi segni che svolgono la stessa funzione. Così le donne a partire dalla fine dell’Ottocento hanno incominciato ad indossare abiti di foggia maschile (all’incirca dal 1885 la giacca, dal 1910 la camicia, dal 1920 i jeans, ecc.) , ma lo hanno fatto reinterpretandoli e comunque senza rinunciare agli abiti femminili. Gli uomini, invece, anche se si sono avvicinati alle donne nella maggiore attenzione che dedicano, rispetto al passato, alla cura del corpo, hanno ancora delle remore nell’adottare i segni dell’altro sesso.

Resta comunque il fatto che i sessi si vanno inesorabilmente avvicinando nella società e, di conseguenza, anche nella moda. Così come, d’altronde, il mondo dell’abbigliamento è sempre più costituito da un variopinto crogiuolo in cui si mescolano incessantemente stili, culture e tendenze di varia provenienza. In cui, ha perso pertanto di valore il fatto di “essere alla moda”, perché ci si può ormai rifare ad una molteplicità di mode e ciascuno è libero di comporre e creare a proprio piacimento una specifica identità di moda. In questa confusa situazione c’è però un elemento che diventa sempre più importante: il corpo, estremo strumento di ancoraggio dell’identità individuale. Si tratta cioè di quella dimensione della fisicità di cui la cultura sociale contemporanea ci sta rendendo via via consapevoli, mettendoci sempre più di fronte all’evidenza della nostra indivisibilità rispetto al corpo, della nostra condizione fatta inevitabilmente di corpo e indumenti. D’altronde, quello di mostrare il corpo è un obbligo al quale siamo sempre più costretti socialmente. Per sfuggirvi, la pelle viene trasformata in una sorta di “tessuto” recuperando il tatuaggio, il pearcing ed altre pratiche di origine tribale. Così facendo si tenta paradossalmente di riappropriarsi del potere decisionale sul proprio corpo, di restituirgli la libertà, nascondendolo alla vista. Il corpo, però, continua ad essere condannato a trasformarsi in una sorta di spazio pubblico, cioè in un luogo che svolge la funzione di territorio per la libera circolazione dei messaggi nella società.

I.2. IL LINGUAGGIO DELLA MODA Oggi viene generalmente riconosciuto ciò che già Roland Barthes affermava negli anni sessanta e cioè che “indossare un vestito è fondamentalmente un atto di significazione”. Vale a dire che i comportamenti legati all’abbigliamento tendono a costruire sistemi strutturati di segni, sistemi di differenze, opposizioni e contrasti. Come ha messo in luce Umberto Eco, il codice vestimentario evidenzia una debolezza che è dovuta a quella frenetica attività di cambiamento che lo contraddistingue. Un’attività che comporta proprio che l’ambiguità espressiva costituisca un tratto ineliminabile del linguaggio della moda. Ne deriva che prima di attribuire un dato significato ad un capo d’abbigliamento occorre tener conto, tra le altre cose, del contesto storico e sociale, proprio perché lo stesso abito non significherà la stessa cosa quest’anno e l’anno prossimo e soprattutto non significa la stessa cosa per individui appartenenti a società differenti.

Resta il fatto che non si possa negare che la moda sia un linguaggio a tutti gli effetti. Per analizzarla in questa veste, Roland Barthes ha sviluppato alcuni concetti particolarmente utili. Ha ripreso la distinzione operata all’interno del linguaggio tra “lingua”, cioè l’insieme di quelle norme e di quelle forme espressive che vengono stabilite dalla collettività, e “parola”, ovvero quell’atto che consente all’individuo di appropriarsi

della “lingua”, di adattarla alle proprie necessità

comunicative. Per Barthes la prima è il “costume”, la seconda è l’”abbigliamento”. Inoltre, a suo avviso, I fenomeni di costume (di “lingua”), sempre astratti, giustificabili soltanto mediante una descrizione verbale o schematica, comprenderebbero le forme, le sostanze ed i colori ritualizzati, gli usi fissi, i gesti stereotipati, la distribuzione regolata degli elementi accessori (bottoni, tasche, ecc.), i sistemi apparenti, le congruenze e le incompatibilità degli indumenti fra loro, il gioco regolato dagli indumenti interni e di quelli esterni e, per finire, i fenomeni di abbigliamento ricostituiti artificialmente per scopi significativi (costumi di teatro e di cinema) mentre I fenomeni di abbigliamento (di “parola”) comprenderebbero: le dimensioni individuali del vestito, il grado di usura, di disordine o di sporcizia, le carenze parziali di indumenti, le carenze d’uso (bottoni non abbottonati, maniche non infilate, ecc.), i vestiti improvvisati (protezioni di circostanza), la scelta dei colori (salvo i colori ritualizzati: lutto, matrimonio, uniformi, ecc.), le derivazioni circostanziali di impiego di un indumento, i gesti d’uso tipici dell’indossatore1. A tale proposito va tenuto presente che la relazione che esiste tra l’abbigliamento inteso come “lingua” e l’abbigliamento inteso come “parola” è reciproca, perché ciascuno dei due tipi di abbigliamento non ha senso senza l’apporto dell’altro. Barthes ha tentato anche di vedere come funzionano nel campo dell’abbigliamento le due dimensioni che sono state individuate da Sassure e da Hjelmslev e che mettono in relazione gli elementi di ogni processo comunicativo: l’asse sintagmico e quello paradigmatico. Il primo riguarda la composizione degli elementi, mentre il secondo è relativo alla scelta e alla selezione effettuate all’interno del magazzino della memoria. Secondo Ugo Volli ciò si traduce nell’ambito dell’abbigliamento in questo modo: la composizione è il modo in cui si mettono assieme giacca, cravatta e pantaloni per formare un singolo abbigliamento completo; la scelta è il modo in cui si opera nell’ambito di ciascuna tipologia di indumenti, prendendo una cravatta e non un’altra dal guardaroba, comprando una gonna invece che un’altra. 1

(Barthes, 2006, pp.33-4)

Barthes riteneva che una caratteristica specifica del linguaggio della moda fosse di essere dotato di una dimensione sintagmatica piuttosto debole. Gli insiemi formati dai capi d’abbigliamento, analogamente a quelli costituiti da altri tipi di oggetti, possiederebbero una sintassi molto rudimentale se messa a confronto, ad esempio, con quella del linguaggio verbale, perché si tratterebbe di una sintassi basata su una semplice giustapposizione di elementi. Secondo Grant McCracken, questa natura elementare e primitiva del linguaggio dell’abbigliamento porterebbe alla disponibilità di una scarsa libertà combinatoria per gli individui, che si limiterebbero pertanto a costruire messaggi già previsti dal codice. In realtà, la storia ha ampiamente dimostrato che il linguaggio dell’abbigliamento consente una grande libertà espressiva. È stato soprattutto il mondo giovanile a mettere in luce come tale linguaggio possa venire utilizzato “dal basso” per esprimere numerosi significati non previsti. Va inoltre considerato che ogni elemento vestimentario non è equivalente alla parola del linguaggio verbale. È invece paragonabile alla frase e l’abito completo si configura perciò come un vero e proprio testo. Infatti il vestito è dotato di tutta una serie di caratteristiche analoghe a quell’altro sistema sociale che è la lingua. Lo conferma l’analisi condotta da Petr Bogatyrev sui costumi popolari della Slovacchia che ha messo in luce la presenza di una sorta di “grammatica” dell’abbigliamento. Secondo tale analisi, infatti, le persone indossano quattro tipi fondamentali di abito: per tutti i giorni, festivo, solenne (indossato solo per le grandi occasioni), e rituale (ad esempio, l’abito nuziale). Ognuno di questi tipi è in grado di svolgere diverse funzioni (pratica, festiva, solenne, rituale, estetica, magica, di appartenenza regionale, di appartenenza nazionale, di appartenenza ad una classe sociale ecc.), che mette in ordine secondo una precisa gerarchia. Infatti, per l’abbigliamento di tutti i giorni la funzione più importante è quella pratica, seguita alla funzione di appartenenza ad una classe sociale, da quella estetica e da quella di appartenenza regionale. All’estremo opposto, l’abbigliamento rituale privilegia soprattutto la funzione ad esso connessa, che è poi seguita dalle seguenti: festiva, estetica, di appartenenza nazionale o regionale, di appartenenza ad una classe sociale, pratica. È possibile dunque concludere questa rassegna delle più importanti teorie sulla moda affermando che l’abbigliamento, nonostante il carattere ambiguo che lo caratterizza, forse più di qualsiasi altro elemento della cultura dei consumi, è estremamente efficiente nel proclamare al mondo lo status degli individui. Ciò gli consente di svolgere nella società principalmente il ruolo di tipo comunicativo. Attraverso la moda, cioè, come abbiamo già avuto modo di sottolineare, gli

individui e i gruppi sociali nei quali essi si aggregano possono comunicare tra loro e definire, mantenere e trasmettere le rispettive identità sociali.