Gesù di Nazaret Signore e Cristo. Saggio di cristologia sistematica. Problemi di metodo [Vol. 1] [PDF]

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Zitiervorschau

Marcello Bordoni

t

GESU DI NAZARET SIGNORE E CRISTO

saggìo di crìstologia sìstematìca

1. Problemi di metodo

Herder

~

Università Lateranense

INDICE

INTRODUZIONE

A. ASPETTI CRITICI DELL'ATTUALE SITUAZIONE DI FEDE DEI CRE· DENTI B. LA QUESTIONE DELDA « IDENTITÀ CRISTIANA » ED I COMPITI ATTUALI DELLA CRISTOLOGIA .

Pag.

1

))

9

CAPITOLO I IL PROBLEMA CRITICO DELLA CRISTOLOGIA SISTEMATICA: « GESù DI NAZARET AGLI INIZI DELLA CRISTOLOGIA » .

1.

LA CRISTOLOGIA ODIERNA E L'ISTANZA STORICA DELLA FEDE .

»

23

2. LA CRISTOLOGIA SISTEMATICA DINANZI ALLE RIDUZION[ POSI• TIVISTICHE E SOGGETIIVISTICHE DEL RAPPORTO TRA LA STORIA E LA FEDE CRISTOLOGICA .

»

36

3.

IL RECUPERO DELLA DIMENSIONE STORICA DA PARTE DELLA CRISTOLOGIA

»

45

4.

STORIA E FEDE NEI MODELLI CRISTOLOGICI «DALL'ALTO» E «DAL BASSO» .

))

69

5.

STORIA PREPASQUALE ED EVENTO PASQUALE NEL DISEGNO AT· TUALE DELLA CRISTOLOGIA SISTEMATICA •

))

77

CAPITOLO

II

LA CRISTOLOGIA ED IL PROBLEMA

DI

DIO

1. PRECOMPRENSIONE DI Oro E CRISTOLOGIA: LA RISPOSTA DELLE

2.

TEOLOGIE DELLA PAROLA

»

96

L'INTERROGAZIONE DI DIO ED IL PROBLEMA DELL'UOMO .

))

107

»

117

3. lL

PROBLEMA DELL'UOMO ED ORIZZONTE STORICO .

IL MISTERO

DI

Dro

IN

UN

VIII

INDICE

Pag. 126

4.

STORIA UNIVERSALE E STORIA DI SALVEZZA

5.

IL DIO DELLA RIVELAZIONE BIBLICA .

»

138

6.

LA CRISTOLOGIA ED IL NUOVO VOLTO DI DIO ·

»

144

»

169

»

170

»

173

»

179

UMANA

»

186

A. Cristologia e antropologia

»

186

1. L'antropologia media la cristologia

»

188

2. La cristologia media l'antropologia a) Gesù Cristo come risposta trascendentale di Dio alla domanda dell'uomo . b) Gesù Cristo come risposta critica alla domanda dell'uomo c) Gesù Cristo come proposta di novità di vita . d) Proposta cristiana e mediazioni culturali .

»

192

»

194

a)

Il mistero di Dio nella esistenza storica di Gesù di Nazaret

b) Il mistero di Dio e la fede cristologica del Nuovo Testamento e) La portata soteriologica della rivelazione di Dio in Gesù Cristo

CAPITOLO

III

I COMPITI DELLA CRISTOLOGIA IN UNA PROSPETTIVA UNIVERSALE 1. L'AVVENIMENTO CRISTOLOGICO NELLA SUA INTRINSECA UNIVERSALITÀ

A. La riduzione del valore soteriologico universale al soggettivismo della fede B. Il fondamento cristologico del valore universale soteriologico dell'evento cristiano (cristologia e soteriologia) . C. Il fondamento trinitario del valore soteriologico universale della cristologia (cristologia e pneumatologia)

2.

L'EVENTO

CRISTOLOGICO

E

LA

SUA

RILEVANZA

UNIVERSALE

»

207

»

213

))

219

»

229

1. L'importanza della comunità di fede per il compimento dell'evento cristologico .

))

2.35

2. La comunità di fede sotto la norma di Cristo .

))

240

3. La comunità ecclesiale e le mediazioni culturali .

»

245

B. Cristologia ed ecclesiologia

ABBREVIAZIONI (testi, collezioni, studi e riviste citati)

Acta Apostolicae Sedis Anglican Theological Review Bibel und Leben Biblische Kommentar Bulletin de Théologie Biblique (Rome) Biblische Zeitschrift (Freib. Br-Paderborn) The Catholic Biblical Quarterly (Washington) Communio (Milano) Commissione Teologica Internazionale CTI Civiltà Cattolica CvC Dizionario di Teologia Fondamentale DTF Etudes Et Ephemerides Theologicae Lovanienses ETL Exegetische Versuche und Besinnungen (E. Kasemann) EVB Evangelii Nuntiandi EvNu Expository Times ExpT Poi et Vie FV Gr Gregorianum GV Glauben und Verstehen (R. Bultmann) HK Herder Korrespondenz HTG Handbuch Theologischer Grundbegriffe IKZ Internationale Katholische Zeitschrift Interpretation (Richmond) Intr Kerygma und Dogma KD Lat n. s. Lateranum (nova series) LmVie Lumière et Vie LTK(LThK) Lexikon fi.ir Theologie und Kirche Mysterium Salutis MySa NDT Nuovo Dizionario Teologico NTS New Testament Studies (Cambridge-Washington) PCB Pontificia Commissione Biblica AAS ATR BìLB BK BTB BZ CBQ Com

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ve WisWeis ZTK

ABBREVIAZIONI

Revue Biblique Revue des Sciences Philosophiques et Théologiques Recherches de Science Religieuse Studia Moralia Theologie und Glaube Theologische Quartalschrift Theologische Studien Texte und Untersuchungen zur Geschichte der altchristlichen Literatur Tijdschrift voor filosofie Verburn Caro (Neuchatel) Wissenschaft und Weisheit Zeitschrift fiir Theologie und Kirche

GESU DI NAZARET SIGNORE E CRISTO

INTRODUZIONE

La cristologia va assolvendo sempre più, nell'ambito della vita pastorale della Chiesa, un ruolo decisivo per la crescita del credente nella sua identità cristiana. Essa, infatti, non solo tende, come ogni altro discorso teologico, a sviluppare le dimensioni « noetico-sapienziali » della fede, portando così il credente alla sua maturità, ma per il suo oggetto ed il suo metodo, viene ad assumere sempre più una importanza centrale in considerazione della particolare situazione in cui si trova oggi il cristiano nella vita della Chiesa e nella sua missione di testimonianza di fronte al mondo. In realtà la cristologia non può fare a meno di confrontarsi continuamente con la «fenomenologia della fede in Cristo; quale essa viene professata, vissuta, annunciata dalle Chiese cristiane ».1 Questo confronto con il luogo attuale della fede, nel rispetto dei luoghi perenni che regolano il metodo del discorso teologico, appare determinante sia per la sua finalità pastorale all'interno della comunità ecclesiale, sia per la sua credibilità nell'ambito della società odierna.2 Per questo inizieremo con una breve analisi fenomenologica di alcuni aspetti critici della fede vissuta dai credenti nel tempo presente, per vedere come il cammino del discorso cristologico odierno debba non solo rispettare le esigenze essenziali dell'identità di questa fede, ma anche rispondere alle esigenze pastorali che si impongono in questa situazione. A.

ASPETTI CRITICI DELL'ATTUALE CREDENTI.

SITUAZIONE

DI

FEDE

DEI

Diversi aspetti della condizione del credente nel nostro tempo ci consentono di cogliere come « questione fondamentale » quella 1 W. KAsPER, Jesus der Christus, Mainz 1974, 30; K. R.AHNER-W. Christologie-systematircb und exegetisch, Freib.-Basel-Wien 1972, 18.

THi.iSING,

2 Per uno sviluppo del metodo teologico in questa linea: W. KAsPER, Per un rinnovamento del metodo teologico, Brescia 1969; Z. ALSZEGHY-M. FL!CK, Come si fa teologia, Roma 1974; C. VAGAGGINI, Il travaglio odierno della teologia alla ricerca di un nuovo modello, in «Teologia», NDT, Alba 1977, 1632.

2

GESÙ DI NAZARET, SIGNORE E CRISTO •

J

della sua identità cristiana,3 del suo « essere cristiano » a cui egli è continuamente richiamato per le sue stesse esigenze di dialogo con un mondo per il quale e dinanzi al quale egli deve testimoniare le ragioni della speranza che porta in sé (1 Pt 3, 15). 1. Un primo aspetto che caratterizza la situazione del cristiano del nostro tempo è quello del suo rapporto, senza precedenti storici, con una realtà « caratterizzata dalla diversità, essendo costituita da popoli con visioni, principii etici e sistemi socio-politici differentissimi »,4 come pure dalla secolarità ed emancipazione. Egli viene a trovarsi in una situazione di pluralismo culturale e religioso che lo sottopone a sollecitazioni e problemi gravi per ciò che riguarda l'identità della sua fede come, per esempio, quella che J. Moltmann chiama la «crisi di rilevanza »,5 consistente nel timore di perdere, ed in diverse circostanze di avere già smarrito, il contatto con il mondo, con le sfere della sua realtà scientifica, sociale, politica. Una tale preoccupazione di presenza nel mondo reale ha condotto non pochi operatori di ipastorale e teologi ad una « svendita dei contenuti cristiani», ad una autoalienazione della teologia nel segno del razionalismo, della attualità, della interdisciplinarietà, delle scienze umane e classiche.6 La stessa preoccupazione da parte delle chiese cristiane di sconfiggere la propria immagine stereotipata, propagandata dalla cultura secolaristica, di struttura retrogada rispetto ai tempi, di natura fondamentalmente conservatrice, sempre indietro rispetto al progresso della società,7 le induce talora alla ricerca ansiosa di una propria immagine progressista di chiesa rivoluzionaria e liberatrice in opposizione a quella di « chiesa oppressiva ed apatica » fino al punto di

3 AA.vv., L'identité chrétienne, in LmVie 23 (1974); Y. CoNGAR, Le chrétien, son présent, son avenir et son passé, in LmVie 21 (1972), 72-82; H. KONG, Essere uomini ed essere cristiani, in «Essere cristiani >>, Milano 1976, 602-630. 4 La catechesi nel nostro tempo, « messaggio della quarta assemblea generale del sinodo sulla catechesi», Roma 1977, n. 15. s J. MoLTMANN, La crisi di rilevanza della vita cristiana, in «Il Dio Crocifisso», Brescia 1973, 16. 6 H. KONG, Essere cristiani, 20. Egli si esprime in termini interrogativi e non affermativi. A noi interessa qui sottolineare il senso problematico di una situazione. 7 G. E. RuscoNI, L'immagine della Chiesa e le me tensioni, in «Giovani e secolarizzazione>>, Firenze 1969, 92-149; AA.vv., Chiesa e sovrastruttura in una società in mutamento, Bologna 1971; N. TADDEI, L'immagine della Chiesa, in « Massmedia, evangelizzazione e promozione umana», Roma 1976, 45.

INTRODUZIONE

3

porre in giuoco « non solo l'identità del cristiano singolo, ma anche quello della comunità cristiana, della sua fede e del suo ethos ». 8 Se la crisi di rilevanza manifesta questi suoi aspetti negativi che si risolvono di fatto in « crisi di identità » è pur vero che il problema della identità cristiana è comunque suscitato nel credente e nella comunità cristiana dalle esigenze più che legittime di dialogo e di missione derivanti dalla universalità stessa della fede. Molti recenti documenti del magistero ecclesiale sottolineano con insistenza l'importanza del « dialogo » 9 con il mondo contemporaneo oltre all'importanza dell'annuncio kerigmatico,1° per cui il credente è chiamato a radicare il messaggio cristiano nelle culture umane, ad « assumerle e trasformarle » attraverso quella osmosi tra fede e cultura per cui «la vera incarnazione della fede ... suppone non solo il processo del ' dare', ma anche quello del 'ricevere' ». 11 Di qui l'esigenza e la gravità del problema dell'adattamento della predicazione della Parola rivelata, ai concetti, alle lingue dei diversi popoli, alle loro categorie di pensiero riflesse e spontanee per rendere accessibile, quanto conviene, il vangelo alle capacità di tutti.12 In questo compito di dialogo, mentre da un lato il credente è portato a testimoniare tutto il valore umanizzante della visione cristiana dell'uomo e del mondo di fronte al materialismo, al secolarismo, all'ateismo o a certe forme di umanesimo radicale che soffocano il senso umano della persona, attraverso un confronto critico che mette in luce la sua credibilità,13 dall'altro è indotto ad assu-

8 W. KRATZ, Wege und Grenzen christlichen Salidarietiit, in « Christliche Freiheit im Dienst am Menschen », Miinchen 1972, 199-202. 9 Cane. Vaticano II, NA 2-3; AG 11; GE 8; GS 3, 43, 78, 92; PAOLO VI, Lett. Enc. « Ecclesiam suam » AAS 56 (1964), 650 s.; GrOVANNI PAOLO II, «Redemptor Hominis », AAS 7i (1979), nn. 2-4. 10 Per il rapporto tra « dialogo » ed « annuncio kerigmatico » cf. J. RATZINGER, Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971, 316, su cui ritorneremo in seguito. 11 La catechesi, 5. 12 Dichiarazione dei Padri sinodali, 9: in «L'evangelizzazione nel mondo» (III ass. generale sinodo episcopale) la comunicazione del vangelo deve adattarsi agli ascoltatori « alle loro esigenze e desideri, al modo di parlare, di sentire, di pensare, di giudicare e di entrare in contatto con gli altri. Tutte queste condizioni molto diverse tra loro secondo la varietà dei luoghi e dei tempi, spingono Jc chiese particolari ad una appropriata traduzione del messaggio evangelico e, secondo il principio dell'incarnazione, ad escogitare sempre nuovi, ma fedeli «modi di radicarsi». Vedi Paolo VI, Esortaz. Ap. « Evangelii nuntiandi » (EvNu), AAS 68 (1976), 63. 13 La catechesi, 16.

4

GESÙ DI NAZARET, SIGNORE E CRISTO -

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mere «un atteggiamento di rispetto verso tutti gli uotnllll », di « presenza e di solidarietà », stringendo rapporti di stima con essi « dimostrandosi membro vivo di quel gruppo umano in mezzo al quale vive», prendendo parte, « attraverso il complesso delle relazioni e degli affari dell'umana esistenza, alla vita culturale e sociale ». 14 Questo atteggiamento che vale per tutti gli uomini senza distinzione è in particolar modo indicato verso gli appartenenti alle altre religioni, per le quali, il credente è chiamato a « sviluppare una attitudine di ascolto e di discernimento dei semina Verbi in esse latenti » .15 Il dialogo ed il rapporto di solidarietà compiuti nel « segno della carità » in un mondo caratterizzato dal pluralismo culturale e religioso riporta il credente alla questione della sua « identità cristiana » nella misura stessa in cui egli è coinvolto nella sfera di estraneità di questo mondo in cui vive e testimonia la fede nell'evento «unico», «nuovo», «insuperabile» del Salvatore Gesù Cristo. 16 La cultura secolare, con le sue correnti umanistiche che radicalizzano la posizione dell'uomo come norma assoluta della realtà del mondo, difficilmente consente all'accettazione di avvenimenti del tutto nuovi e così decisivi, da giustificare la credibilità della assolutezza della fede cristiana nell'unico Mediatore Gesù Cristo. Essa, partendo dal principio della commensurabilità orizzontale di tutti i fatti umani, porta a negare sia una storia specifica di salvezza, sia l'esistenza di qualcosa di veramente nuovo sotto il sole. Tutto viene a ricadere sotto il primato dell'universale ed ogni avvenimento singolare è ridotto a veicolo, cifra, simbolo, una variabile, un caso di un significato universale.17 Di qui il credente potrebbe essere sollecitato a considerare la rivelazione di Dio in Gesù Cristo non come qualcosa di categorialmente diverso dalle rivelazioni extra-bibliche 18 per cui il fatto stesso cristiano verrebbe ad essere relativizzato e compreso come una realtà che non trascende la semplice funzione « esplicativo-pedagogica »

14 15

AG 11; PAOLO VI, EvNu, 51. La catechesi, 15.

16 «L'identità può essere decisa solo nella sfera della non-identità dell'alienazione negli altri e nella solidarietà con gli altri ... si cerca la patria qu;ndo si cammina in suolo straniero ... »: J. MoLTMANN, Il Dio Crocifisso, 28-29. i7 W. KAsPER, Jesus, 55. 18 H. HALBFAS, Linguaggio ed esperienza nell'insegnamento della religione. Una nuova linea per la catechesi, Brescia 1970, 202-220.

INTRODUZIONE

5

dell'autocomprensione dell'uomo.19 Esso potrebbe ancora essere tentato di vedere l'alterità della sua posizione di· fede solo come questione di grado rispetto alle altre fedi religiose, come solo una risposta più adeguata alle esigenze religiose dell'uomo. Così si potrebbe perdere quella identità di fede, consistente proprio nella sua originalità ed irriducibilità, per cui l'evento di Gesù Cristo realizza ogni nostra aspirazione oltre le nostre stesse domande ed attese.20 Il grave rischio che affronta il credente in una situazione di dialogo e di annunzio del kerigma è in sostanza proprio quella di essere attratto nella sfera della influenza del mondo pluralista proprio in forza del pur necessario incontro, sì da far dimenticare che la solidarietà con gli altri perde il suo carattere creativo quando non si è disposti anche ad essere «altri con gli altri»: «il tanto conclamato ' essere per gli altri ' (Bonhoeffer) perde ogni significato, quando non si è altri dagli altri, ma soltanto loro compagni di viaggio. Solo chi trova il coraggio di essere diverso dagli altri può, in definitiva, essere ' per gli altri ', in caso diverso, egli è semplicemente un simile accanto ai propri simili, i quali ne trarranno ben poco vantaggio ».21 Il problema della propria irriducibile identità intesa come diversità nella solidarietà e partecipazione, diviene dunque per il cristiano del nostro tempo un problema critico non solo per la difesa della novità della propria fede, ma anche per il successo del suo dialogo e della sua missione. 2. Un secondo aspetto critico della situazione odierna della fede è quello derivante dalla crescita soggettiva del credente come singolo e come comunità. Tale crescita si compie sotto il segno del superamento di un regime di fede ecclesiale in cui la condizione del credente, regolata unicamente da uno statuto di nascita, si evolveva «pacificamente», protetta dai sostegni sociologici (istituzioni, costumi, tradizioni popolari) di un ambiente cristianizzato, ove erano praticamente assenti i problemi riguardanti la genesi psicologica della fede e la dinamica evangelizzatrice, in quanto la vita pastorale era

D. SèiLLE, Rappresentanza, Brescia 1970, 137. « Il pericolo esiste di acculturarsi al mondo nuovo e cli consegnarsi ad esso in maniera tale che i suoi dati prendono il posto di quelli che ci sono stati tra· smessi una volta per sempre, cioè del soprannaturale e dello specifico cristiano » Y. CòNGAR, Le chrétien, 81. 21 J. MoLTMANN, Dio Crocifisso, 26. 19

2, Miinchen 1951, 18. 52 È vero che R. BULTMANN non nega un rapporto tra il kerigma ed il Gesù terrestre e croci.fisso, anzi sostiene energicamente il «che» (Das) dell'evento Gesù: « ma come si può sostenere che nella storia ci sia un puro Das senza un ' che cosa ' C~as) e com; un tale '~?e' (Das) non appartiene ad un 'chl ', 'come', 'quando' e che cosa ? »: W. KUNNETH, Glauben an Jesus? Die Begegnrmg der Christologie mit modernen Existem:, Hamburg 1962, 98.

«GESÙ DI NAZARET AGLI INIZI DELLA CRISTOLOGIA»

45

positivista inconcludente al soggettivismo di fede, altrettanto sterile, in cui il credente e la comunità si ripiegano in se stessi, nel proprio cerchio creativo, in cui il dialogo della rivelazione si esaurisce nel monologo dell'autointerpretazione.

3.

IL RECUPERO DELLA DIMENSIONE STORICA DA PARTE DELLA CRISTOLOGIA.

a) Dopo la svolta kerigmatica operata da R. Bultmann, la importanza della dimensione storica del contenuto oggettivo della fede cristologica (fi,des quae creditur) ha ripreso vigore determinando una terza fase di sviluppo del problema del Gesù storico. Essa ha avuto inizio da una analisi autocritica compiutasi nella stessa scuola bultmaniana ad opera dei discepoli. Già nel 19 5 2 E. Kasemann scriveva che « tutto il Nuovo Testamento afferma che a Pasqua gli apostoli non riconoscevano un essere celeste, ancor meno un dato astratto, come delle tesi dogmatiche, ma Gesù stesso. Il Cristo creduto e predicato dopo Pasqua è dunque in continuità con quello che si chiama il Gesù storico, senza il quale, secondo il pensiero della cristianità primitiva, la fede e la predicazione sarebbero prive di senso ... ».53 Tali parole con cui si inaugura l'era postbultmaniana preludono la nota conferenza di Marburgo ( 195 3) sul problema del Gesù storico. In essa si è verificato un cambio di direzione nel ritorno allo studio del Gesù storico.54 Tale ritorno però non è affatto il ripristinare la vecchia impostazione di ricerca di tipo illuministico o della liberale Leben-Jesu-Forschung. La pretesa di legittimare il kerigma e la fede con la critica storica è ormai del tutto scartata come blasfema ed assurda. La nuova ricerca sul Gesù storico non nasce infatti da un bisogno carnale di sicurezza umana o da una esigenza razionale della fede, ma dal cuore stesso della fede che annuncia un evento reale nel tempo: il fatto Gesù. La nuova ricerca tiene conto delle affermazioni di Bultmann e cioè che la tradizione neotestamentaria ha il suo Sitz im Leben nella comunità

53 E. KAsEMANN, Probleme neutestamentlicher Arbeit in Deutschland, in « Die Freiheit des Evangeliums und die Ordnung der Gesellschaft », Géittingen 1952. 54 E. KAsEMANN, Das Problem des historischen Jesus, in ZTK 51 (1954), 125· 153, riedito in « Exegetische Versuche und Besinnungen » (EVB), I, Géittingen 19602, 19706. Precisazioni da parte dell'autore in Sackgassen im Streit und den bistorischen ]esus, in EVB, II, Gottingen 1964, 31-68; 19703, 67.

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l

apostolica ed esprime la fede dei primi cristiani a Gesù come Cristo, per cui tutto ciò che è tramandato dalle parole e dalle azioni di Gesù è riferito partendo dall'esperienza della resurrezione e si pone alla luce della fede pasquale. La centralità del mistero pasquale nella testimonianza apostolica è un fatto difficilmente contestabile: la resurrezione di Gesù Cristo costituisce il diaframma ermeneutico che regola, nella comprensione apostolica, ogni altra conoscenza di situazioni vissute, di azioni e parole di Gesù di Nazaret anteriori alla Pasqua. Con ciò la. testimonianza apostolica non è stata un ripetitorio mnemonico, un tramandare materialmente i detti di Gesù, ma un interpretare autenticamente quei detti a partire dalla luce di Pasqua. Di qui una certa discontinuità tra la materialità dei fatti e detti prepasquali e la predicazione pasquale di tali fatti e detti. È l'eredità di Bultmann che Kasemann ritiene, sostenendo che il punto di partenza della fede cristiana va definito in rapporto al Kyrios annunciato dalla Chiesa, per cui il messaggio cristiano riposa sulla fede di Pasqua. Ma, a parte tale affermazione, che lo trova consenziente con Bultmann,55 Kiisemann prende le distanze da lui per il fatto che questi ritiene che il Gesù storico è solo un presupposto della fede cristologica, la quale, come fede al Kyrios Risorto, non comprende in sé il Gesù storico come « realtà costitutiva ».56 Per Kiisemann, invece, è necessario ammettere che il Gesù terrestre è incluso costitutivamente nella fede al Cristo pasquale e che la ricerca storica concernente Gesù, scaturisce dalle esigenze della fede stessa cristo· logica. Questo vuol dire che la dimensione storica della vita prepasquale di Gesù possiede una rilevanza teologica inquanto in essa il cristianesimo primitivo vede « il rifiuto del mito » e la fede di Pasqua non è fede in un essere celeste atemporale: «se non si può comprendere il Gesù terreno che a partire da Pasqua, e dunque, nella sua dignità di Signore della comunità ... », è pur vero che inversamente « non si può comprendere adeguatamente Pasqua se si fa astrazione dal Gesù terrestre » .51 55 Su ciò E. Kiisemann mostra in « Sackgassen,, (cf. n. 56) il suo disaccordo çon la sopravvivenza della metodologia della teologia liberale di J. Jeremias il quale, secondo Kiisemann, tenderebbe troppo a subordinare la fede alla ricerca storica ed ai suoi risultati: il Gesù al quale egli dice di credere, non sarebbe allora il Cristo della predicazione apostolica, ma solo il Gesù ricostruito attraverso la critica storica.

56 E. KASEMANN, EVB, I, 188. 57 E. KAsEMANN, EVB, I, 196.

«GESÙ DI NAZARET AGLI INIZI DELLA CRISTOLOGIA»

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La fede cristiana, fede pasquale, esige quindi, come dimensione essenziale appartenente alla sua stessa intima struttura, la storia prepasquale di Gesù. Alla discontinuità tra la realtà del fatto storico prepasquale e l'evento storico del kerigma pasquale va ag· giunta perciò una reale continuità, non solo materiale (del fatto: das), ma formale, concernente cioè il come {was). Con tale continuità tra il Gesù terreno ed il Cristo della fede ecclesiale si afferma il convincimento della identità tra il terrestre ed il glorificato, tra la predicazione di Gesù e la predicazione della Chiesa. Tale affermazione trova il suo riscontro nel fatto che nel Nuovo Testamento ci sono «gli Evangeli »: se in tutto il resto del NT, specie in Paolo, tutta la predicazione si concentra nella morte e resurrezione di Cristo tanto da ridurre a niente, quasi, ogni altro riferimento alla vita storica di Gesù, c'è però nel Nuovo Testamento la presenza degli Evangeli che non solo annunciano, ma «raccontano», «presentano il kerigma di Cristo nel quadro della vita terrestre di Gesù. Raccontano ed interpretano il passato in rapporto a Pasqua, ma si interessano tuttavia della storia prepasquale di Gesù e la fanno conoscere. Anche il testimonio preferito di Bultmann, quello che egli cita continuamente, S. Giovanni, per il quale la storia è talmente ristretta da non apparire più come « proiezione del presente nel passato », considera manifestamente la forma dei vangeli come la forma letteraria che conviene alla sua intenzione teologica e, per conseguenza, egli scrive la storia del Gesù glorificato come la storia del Gesù terrestre. La forma letteraria degli evangeli ha un valore teologico: essa significa il «rifiuto del mito ». 58 L'importanza teologica del dato storico narrativo che negli evangeli non va inteso come un quadro esteriore al messaggio, ma costituisce una dimensione costitutiva del kerigma, non si deve unicamente, in senso negativo, al rifiuto del mito, ma anche positivamente, alla convinzione della fede che « prima che noi credessimo Dio ha operato per noi» onde si deve respingere ogni concezione puramente attualistica della salvezza. L'extra nos della salvezza, come realtà antecedente alla fede (qua creditur), esprime il suo carat-

58 H. ZAHRNT, Die Sache mit Gott. Die protestantische Theologie im zwam:igsten Jah1"bundert, Miinchen 1966; ed. fr. Paris 1969, 345-346; G. BonNKAMM, Jesus van Nazaret, Stuttgart 1956; ed. it. Torino 1968 (citeremo questa edizione in se• guito), 19.

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GESÙ DI NAZARET, SIGNORE E CRISTO •

l

tere indisponibile, il prae di Cristo, antecedente a coloro che in Lui credono, l'extra nos del messaggio, la necessità dei credenti di uscire da se stessi. 59 Nel periodo post-bultmaniano vengono cosl riuniti il dato storico e la dimensione teologica che nel periodo precedente della « Leben-Jesu-Forschung » erano stati separati. Ora si tende ad evolvere la storia come dimensione intrinseca del kerigma: questo vuol dire che la ricerca storica non si compie più passando accanto al cristologico, ma solo attraverso il cristologico.11) In questa fase la nuova ricerca stor.ica su Gesù, partendo dalla testimonianza di fede della Chiesa apostolica trasmessa dal Nuovo Testamento, intende rimanere sempre nel kerigma: è partendo da questo e restando in questo che essa si spinge senza mai uscirne, verso quei dati criticamente certi del Gesù storico che ci consentono di ricostruire la sua autentica figura. In tal modo, la critica storica, posta al servizio del kerigma stesso, può condurre a un ampliamento del das bultmaniano mostrando come storia oggettiva e kerigma, cioè narrazione di Gesù e predicazione su di Lui, sono uniti negli evangeli,61 sì da poter parlare di una « unità differenziata » nel senso che è possibile distinguere i due piani (quello del Gesù terrestre e del kerigma), ma non di separarli. Allora lo scetticismo non ha più ragione di essere: gli evangeli, anche se sotto forma diversa da quella delle cronache e delle biografie, ci offrono però la vera figura storica di Gesù, il suo messaggio, la sua vita, la sua morte con tutta la forza derivante dal contatto diretto, con autenticità e freschezza, con quella singolarità che la fede pasquale non ha fatto scomparire. 62 Questo procedimento metodologico « dal kerigma » alla figura storica di Gesù non intende legittimare il kerigma stesso, quanto fondare storicamente il modo cristiano di parlare di lui: « se negli anni passati interpretavamo Gesù servendoci del kerigma del cristianesimo primitivo, oggi noi interpretiamo questo kerigma con l'aiuto del Gesù storico: le due direttrici di questa interpretazione si integrano » .63 E. KXSEMANN, Sackgassen, 67. W. MAR.XEN, Anfangsprobleme der Christologie, Gi.itersloh 1960, 18. Lo stesso R. BULTMANN riconosce che mentre nel periodo della cosl detta teologia liberale si dava importanza alla constatazione della diversità che separava Gesù dal kerigma, oggi le cose vanno al contrario: l'interesse è portato all'elaborazione dell'unità tra Gesù storico e Cristo del kerigma (Das Verhiiltnis, 20). 62 G. BOllNKAMM, Gesù di Na:;;aret, 20-21; E. KAsEMANN, Das Problem des historischen Jesus, 213. 63 E. FucHs, Zur Frage nach dem historischen Jerns, Ti.ibingen 19652, VIL 59

60 61

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b) Una volta posto in evidenza il principio fondamentale della posizione post-bultmaniana circa la rilevanza teologica del dato storico su Gesù di Nazaret e l'esigenza di evolvere la dimensione storica del kerigma su Cristo, possiamo richiamare in sintesi l'itinerario percorso dalla metodologia protestante di questo periodo: E. Kasemann ha un posto notevole in questo cammino con il suo sottolineare il criterio della discontinuità che cerca di applicare in modo rigoroso, liberando, nel materiale evangelico, la statura eccezionale di autorità (exousia) di Cristo, che si staglia sullo sfondo dell'ambiente giudaico del suo tempo sia per il modo d'insegnare, sia per il comportamento che non ha paralleli nel giudaismo. 64 Ciò perché il messaggio di Gesù non è solo una dottrina morale o religiosa, ma un evento escatologico e per conseguenza, in Gesù stesso, non è solo unapredicazione,ma un comportamento. È proprio a questo comportamento di Gesù che E. Fuchs dà un grande rilievo: egli ritiene che se noi vogliamo giungere allo stadio più originario del piano di vita terrestre di Gesù storico, dobbiamo risalire al suo comportamento che costituisce la chiave del messaggio inquanto è come la nota dominante di fondo che dà luce a tutte le sue parole.65 Mentre infatti le stesse parole (ipsissima verba) trasmesse dalla tradizione evangelica sono poche ed isolate, il comportamento di Gesù le unifica nella sua autotestimonianza, per cui Egli si presenta ai contemporanei non come un filosofo o un profeta, ma come uno che avanza la straordinaria pretesa di agire come Dio, di attrarre a sé i peccatori che dovrebbero fuggire dinanzi a Dio. Le parole di Gesù, specie le parabole, testimoniano un tale comportamento; sono quindi le parole che s'inquadrano nel contesto della vita esistenziale vissuta e non viceversa. È in questo suo comportamento, nei suoi gesti di carità che egli anticipa quanto è riportato nelle parabole, che la vita stessa rende concrete le parole e se la parola è di « amore» ciò dipende dal fatto che tale è la sua vita. Questa linea che sviluppa, nella ricerca del Gesù terreno, l'importanza del comportamento di Gesù è ulteriormente approfondita da G. Ebeling che considera tale comportamento come il linguaggio dei fatti. È la realtà, sono i fatti stessi della vita di Gesù, che

KXsEMANN, Das Problem des historischen Jesus, 213. E. Furns, Zur Frage, 152; In., Glaube und Geschichte im Blick auf die Frage nach dem historischen JesuJ, ivi, 168; In., Glaube und Erfahrung. Zum christologischen Problem im Neuen Testament, Tiibingen 1965. 64

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E.

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parlano storicamente costituendo un interpellare che s1 impone ai contemporanei ed a noi stessi come parola. L'espressione verbale (linguaggio in parole) del linguaggio-realtà è solo un momento successivo di ciò che Gesù è realmente. Ora, quale è questa realtà del fatto che sta al fondo della parola? La testimonianza di fede: Gesù è il testimone per eccellenza che suscita la fede con la sua stessa presenza vissuta. Sta qui la straordinarietà del fatto Gesù: là ove si affaccia storicamente, Gesù, testimone della fede, suscita la fede stessa. In questo modo, la fede esplicita il contenuto di ciò che Gesù « è » e colui che crede è vicino al Gesù storico inquanto risponde essenzialmente al dono della fede che Gesù suscita: « se Gesù non fosse mai esistito o la fede in Lui si mostrasse come un malinteso su qualcosa che riguardava il Gesù storico, la fede cristiana sarebbe privata evidentemente di un terreno su cui poggiare. Perdendo il suo fondamento sul Gesù storico essa non sarebbe forse semplicemente priva di oggetto, ma risulterebbe staccata dall'oggetto che l'annuncio cristiano ha sempre proclamato come l'oggetto centrale della fede ».66 L'origine della fede cristiana è pertanto il Gesù storico. Ma allora, che ruolo ha l'evento della resurrezione per ciò che riguarda l'origine della fede stessa? Per G. Ebeling, nella resurrezione, si compie la piena manifestazione di quanto è contenuto nel comportamento di Gesù, testimone della fede, e cioè: «l'intelligenza esatta del Gesù prepasquale », così si stabilisce la perfetta « continuità » tra Gesù e ~ credenti in Lui: credere a Gesù è credete al Risorto secondo Ebr 12, 2 (Gesù iniziatore e consumatore della fede). Non si discosta dalla linea postbultmaniana G. Bornkamm nel suo lavoro su Gesù di Nazaret che a tanti anni da quello di Bultmann propone uno studio su Gesù storico in cui egli nota la comprensione della storia di Gesù da parte della fine della storia stessa (l'ora inaugurata attraverso la croce e la resurrezione) volgendosi a ritroso, da un lato, protendendosi in avanti dall'altro. Ogni tradizione raccolta dagli evangeli, secondo Bornkamm, porta una tale comprensione.67 Come si stabilisce l'unità tra il Gesù terrestre ed il

66 G. EBELING, ]esus und Glaube, ZTK 55 (1958), 68; In., Die Frage nach dem historischen ]esus und das Prob/ém der Christologie, in « Wort und Glaube », Tiibingen 1960; Io., Das Wesen des christlichen Glaube Ti.ibingen 1961 · In., Theologie und Verkundigung, Tubingen 1963. ' ' 67 G. BoRNKAMM, Gesù, 10-11.

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Cristo della fede? La tradizione evangelica, egli dice, ci presenta questa unità nella distinzione dei tempi attraverso un duplice carattere: « una indiscutibile fedeltà ed aderenza alle parole di Gesù ed al tempo stesso uno stupefacente grado di libertà di fronte alla esatta riproduzione delle singole parole « storiche». La parola di Gesù è conservata, ma non custodita con cura archivistica, né tramandata alla maniera dei detti rabbinici famosi con il complemento di note esplicative. Si può dire perfino che la tradizione non è in realtà la ripetizione e la trasmissione della parola di Gesù pronunciata una volta per sempre, ma è la sua parola oggi. Solo a partire da qui si possono capire le molteplici trasformazioni delle sue parole nella tradizione ».68 Tuttavia la tradizione evangelica consente di cogliere i tratti della figura terrena di Gesù, la quale non fa della sua dignità un tema particolare della sua predicazione, ne s1 attribuisce alcun titolo cristologico, quale Figlio dell'Uomo o Figlio di Dio. Il periodo postbultmaniano tende, come si vede, a sottolineare il rapporto di unità e continuità tra Gesù storico ed il Cristo della fede pasquale, raggiungendo, attraverso il kerigma, la sua figura terrena 'Servendosi dei criteri storici tra cui quello privilegiato della «discontinuità». Tale figura è costituita dal dato storico anteriormente ad ogni esplicita affermazione e tematizzazione. Ogni affermazione esplicita cristologica è considerata dalla corrente postbultmaniana come opera della fede pasquale la quale manifesta quanto a livello di puro fatto (comportamento) è affermato. L'immagine di Gesù appare così come quella del Messia escatologico che è tale per il suo atteggiamento di esistenza senza avere la pretesa di sostenerlo con le parole esplicite. La figura storica di Gesù si colloca tra il contesto giudaico pre-cristiano (posizione bultmaniana) e le affermazioni kerigmatiche esplicite della comunità apostolica. Si può parlare, allora, di cristologia a livello storico del Gesù terreno? Gli esponenti maggiori del movimento post-bultmaniano tendono a ritenere che a tale livello si possa parlare solo di una cristologia implicita o indiretta o in compimento: con ciò si vuol dire che per quanto Gesù di Nazaret non abbia espresso in parole (titoli, discorsi) la propria autocoscienza, egli però «ha fatto», ha « agito », mostrando che quanto c'era in lui di messianico apparteneva alla for-

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G. BoRNKAMM, Gesù, 13.

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ma diretta della manifestazione storica.69 È quanto basta per i postbultmaniani per poter affermare che la cristologia esplicita e diretta della predicazione apostolica post-pasquale (kerigma cristologico) non è sospesa in aria, ma si fonda sulla storia di Gesù, onde la relazione al Gesù storico è costitutiva di ogni- affermazione cristologica esplicita. La continuità nella diversità è sufficiente per poter dire che all'inizio del cristianesimo non sta un mito o un'idea, ma una Persona ed il suo destino: «la fede cristiana cominciò con Gesù di Nazaret ».70 II che consente di affermare con G. Ebeling: «non si può affermare nulla circa Gesù, in prospettiva cristologica, che non sia fondato sul Gesù storico stesso e non si limiti ad affermare chi è il Gesù storico »,71 ovvero: «nel problema del Gesù storico si trova la chiave ermeneutica per elaborare la cristologia » 72 e quindi ogni cristologia propriamente detta non ha altro compito che di portare ad espressione linguistica, cioè di trasmetterlo interpretandolo, ciò che storicamente è realtà in Gesù di Nazaret, nella sua vita e nel suo destino. 13 Il Gesù storico (terrestre)\ diviene quindi la chiave ermeneutica o il criterio primario della cristologia. Con l'epoca post-bultmaniana la ricerca sul rapporto della fede cristiana al Gesù storico ha indubbiamente fatto dei passi avanti ponendo in evidenza l'esigenza di continuità, pur nella distinzione, tra quanto è avvenuto in Gesù e quanto è annunciato nel kerigma. Ma restano aperte ancora delle grosse questioni: come avviene, infatti, il passaggio dallo stadio di cristologia implicita a quello di cristologia esplicita e soprattutto quale ruolo il mistero pasquale ha in tale passaggio? Le posizioni dei discepoli di R. Bultmann nel rispondere alla questione divergono: per E. Kasemann, dall'epoca della conferenza di Marburgo ( 19 5 3) alle più recenti posizioni,74 si ribadisce come costante punto di vista quello secondo cui l'evento pasquale non costituisce l'unico fondamento del kerigma neotestamentario, in quanto il Gesù storico possiede per la fede stessa pa-

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G. BoRNKAMM, ivi., 193-204.

H.

ZAHRNT, Es began mit Jesus van Nazaret. Die Frage nach dem historischen Jesus, Stuttgart-Berlin 1964; ed. it. Brescia 1972 (citeremo questa edizione). 71 G. EBELING, Die Frage, 311. 72 G. EBELING, Theologie und Verkundigung, 52. 73 G. EBELING, Die Frage, 318 . . 74 E. KASEMANN, Die neue Jesus Frage, in "Jésus aux origines de la christologie'" 47-57. 70

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squale un valore costitutivo.75 Pur tuttavia il punto di partenza adeguato della cristologia è l'evento pasquale e la fede al kerigma annunciato dalla Chiesa. Non si tratta qui, per Kasemann, di voler sostituire il Gesù storico al Cristo del kerigma, quanto di capire che il Gesù terrestre è incluso nella fede al Cristo, per cui la ricerca storica concernente Gesù appartiene intrinsecamente alla fede cristologica e si svolge come nel suo interno. Per questo egli ribadisce che « il messaggio cristiano poggia sulla fede di Pasqua » e che il Gesù terreno, anche se per la fede ha un significato costitutivo, non è però l'unico criterio del kerigma cristiano.76 Ciò vuol dire ancora che per Kasemann accanto al Gesù terreno, ci sono altri f attori esistenti nella Pasqua che non entrano nella storia terrena di Gesù, per cui la ricerca non si deve muovere in un senso solo: dal Gesù storico al kerigma, ma anche dal kerigma al Gesù storico. In realtà la chiesa primitiva mostra che « non si può comprendere il Gesù terreno che a partire da Pasqua e dunque nella sua dignità di Signore della comunità, ma inversamente non si può comprendere adeguatamente Pasqua se si fa astrazione dal Gesù terreno ».77 Attraverso questa impostazione, data da Kasemann, si giunge alle dimensioni cosmiche della redenzione per cui Dio in Gesù Cristo Risorto, vivente nella comunità, instaura la sua signoria nel cosmo; l'apocalittica giudaica alla luce del vangelo acquista una dimensione cosmica e nuova, diventando la madre di ogni teologia cristiana.78 Diverso è il punto di vista di G. Ebeling e E. Fuchs: per essi il Gesù storico è la chiave ermeneutica della cristologia, ovvero, il criterio primario della cristologia, per quanto, non escludano il processo che va dal kerigma al Gesù storico. Oggi, però, essi ritengono che bisogna principalmente attendere ad interpretare il kerigma a partire da Gesù.79 Il kerigma, infatti, non esprimerebbe ciò che era in Gesù stesso. L'accettazione di questo criterio ermeneu-

Vedi sopra nota 56. E. Kii.SEMANN, Sackgassen, 56: «la riduzione dell'evangelo al Gesù storico è lontana dalla mia intenzione quando io entro in discussione con il mio maestro. Io riterrei ciò una ricaduta nel giudeo-cristianesimo di tendenza ebionita ». 75 76

77

E. E.

Kii.SEMANN,

EVB, I, 196; 203.

Neutestamentlicbe Fragen von beute, in EVB, II, 23. «Se noi prima interpretavamo il Gesù storico mediante il kerigma cristiano primitivo, noi interpretiamo oggi questo kerigma mediante il Gesù storico: le due direzioni dell'interpretazione si completano»: E. fUCHS, Zur Frage nacb dem bistoriscben Jesus, prefazione. 78 79

Kii.sEMANN,

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tico del Gesù storico implica allora per la cristologia una costante « verifica » per confrontare quanto è predicato dalla fede e dal dogma ecclesiale su Gesù come Cristo e quanto « storicamente >> possiamo affermare di Lui.80 In questa posizione, nell'evento pasquale non avviene nulla di nuovo che fondi una qualsiasi discontinuità rispetto alla realtà storica anteriore (prepasquale). Ma se il Gesù prepasquale è l'unico criterio del kerigma cristiano ciò porta a ritenere che l'unica realtà della Pasqua sta nell'essere un evento di comprensione della fede, consistente cioè nell'intelligenza esatta di quanto era già prima avvenuto in Gesù di Nazaret come fatto. Il kerigma pasquale annuncerebbe l'intelligenza di tale Gesù che determina nell'uomo la comprensione nuova di sé nella fede. Così H. Zahrnt, G. Bornkamm, H. Conzellmann, come E. Fuchs ed Ebeling ritengono che la Pasqua è un « evento totale » nel senso che racchiude la totalità della fede cristiana nel suo passaggio decisivo da Gesù stesso alla predicazione della Chiesa su Cristo: « con la Pasqua Gesù entra nella predicazione della comunità e diviene il suo contenuto». Ma, ·allora, la Pasqua «non fa che manifestare (ovviamente solo per i credenti è manifestazione} ciò che Gesù era prima. Abbiamo detto intenzionalmente « manifestare » e non « sviluppare » poiché temiamo sempre che, con l'espressione « sviluppare » si possa insinuare qualcosa di estraneo che non appartiene a Gesù, qualcosa di « sub-cristiano » o più esattamente di «meta-cristiano », ma proprio per questo, in fondo in fondo, di «non-cristiano ». 81 Per escludere un tale rischio è necessario ammettere, dice H. Zahrnt, che « dopo la Pasqua, Gesù non è se non colui che era prima della Pasqua con la differenza unica che tutto ciò che era presente in lui indirettamente e nascostamente ora si manifesta in una luce nuova, splendente». Di qui si giunge alla affermazione di G. Ebeling: « la fede post-pasquale in Gesù non significa altro che la retta comprensione del Gesù prepasquale ».82 In tal modo, H. Zahrnt crede

G. EBELING, Die Frage, 304. H. ZAHRNT, Cominciò, 136-137. H. ZAHRNT, ivi, 138; cl. le affermazioni di K. BARTH, Kirchliche Dogmatik IV /2, 1, 136 s: la resurrezione cli Gesù non è un fatto nuovo che ha un suo valore decisivo e proprio, ma la « rivelazione » della sua storia co~clusa sulla croce. Nella seconda edizione cli Romerbrief (1922) aveva affermato ancora più decisamente: «la resurrezione cli Gesù non è un evento cli portata storica a lato cli altri avvenimenti della sua vita· e della sua morte, ma essa è la relazione non storica di tutta la sua vita storica con la sua origine in Dio» (p. 175). 80 81 82

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di poter superare la prova « critico-storica » per cui il kerigma non è sospeso in aria, ma si fonda nella « storia>> stessa di Gesù. C'è però da chiedersi se la prova critico-storica sia veramente superata in tale posizione: in realtà, se la pasqua diviene solo un evento della comprensione del Gesù prepasquale (evento ermeneutico), cosa sarà di essa come evento compiuto in Gesù Cristo stesso? Riducendo la Pasqua ad evento di comprensione, appartenente al mondo della fede in Cristo non si fa di essa soltanto un evento retrospettivo? Non si rischia di chiuderlo nell'ambito della soggettività della comunità credente a cui Gesù di Nazaret si manifesterebbe come Cristo? Allora, in forza di quale principio avviene questa comprensione della fede? Solo per un principio soggettivo? Come può allora l'evento di comprensione pasquale garantirsi dal rischio di una fede creatrice e di una concentrazione antropologica? Camminando su questa linea si può giungere alle posizioni di H. Braun che ritiene che nella Pasqua, attraverso le confessioni ed i titoli cristologici, come attraverso delle cifre significative, viene manifestato il « significato costante e generale » che costituisce il « nucleo » che risale a Gesù, che si ripropone in tutte le situazioni della sua vita e della sua morte, della sua predicazione e che « determina l'intelligenza di sé nella fede »,83 come unità tra l'io posso e l'io devo, tra «grazia radicale» ed «esigenza radicale ».84 Cosl, in definitiva, l'antropologia diviene la costante di una variabile cristologica.85 Ma è pur vero che in tal modo Gesù di Nazaret scompare dietro il suo significato: egli non è più che « un brano del passato » 86 che «vive solo per il contenuto ... di cui è portatore ». 87 La corrente della cultura teologica post-bultmaniana non è riuscita a superare l'« empasse »del rapporto tra la storia ed il kerigma: da un lato essa sostiene, giustamente, l'unità e continuità tra il Gesù predicante ed il Cristo predicato, unità che non viene intesa come ripetizione « letterale » ed « eco » puramente materiale dei detti e fatti di Gesù; di qui il ruolo esplicativo e comprensivo del Gesù storico pre-pasquale assolto dall'evento della resurrezione. Ma dal-

83

H.

BRAUN,

Der Sin11 der neutestamentlichen Christologie, in ZTK 54 (1957),

84

H.

BRAUN,

Jesus. Der Mann aus Nazareth und seine Zeit, Stuttgart 19702,

85 H.

BRAUN, BRAUN, BnAUN,

Der Sinn, .368. ]esus, 11. ivi, 147.

344. 66.140. 86

87

H. H.

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l'altro, rimane aperta la questione: la Pasqua è solo un avvenimento esplicitativo del passato di Gesù, della cristologia implicita di questo passato? In essa, non si compie proprio nulla di nuovo? Se tale è l'opinione di Fuchs, Ebeling Zahrnt, Conzellmann, diversamente ritengono altri teologi protestanti come E. Kasemann, per il quale nella Pasqua c'è qualcosa di nuovo che non entra simpliciter nella storia terrena di Gesù. Ma ancora più vigorosamente reagiscono contro l'idea che la Pasqua sia solo un avvenimento di svelamento (di ciò che Gesù di Nazaret è già stato) W. Pannenbetg e J. Moltmann: in tal caso si annullerebbe infatti la « novità » che la resurrezione stessa di Cristo apporta inquanto anticipo dell'eschaton. Per il cristianesimo primitivo, tutto ciò che si poteva dire di Gesù ha ricevuto dalla resurrezione, e da questa sola, una luce nuova e la sua vera luce, sì che qualora la storia terrena di Gesù e la sua crocifissione fossero state l'ultima parola di Gesù, questi avrebbe fallito la sua missione. 88 Perciò bisogna eliminare, dice J. Moltmann, «l'espressione di ' svelamento ' per indicare la rivelazione, ed intendere invece la rivelazione come evento che si realizza nella promessa e nell'adempimento ». 89 Questo vuol dire che la resurrezione non va compresa solo come uno svelamento, ma anche come un avvenimento che adempie il passato di Gesù di Nazaret e che a sua volta anticipa nella sua novità, come promessa e prolessi, il futuro ulteriore. c) Mentre nella teologia protestante si cerca una via d'uscita che non sminuisca il valore della storia terrena di Gesù di Nazaret ed insieme l'importanza dell'evento pasquale, nel!'ambito della teologia cattolica bisogna registrare i progressi compiuti nel settore di questa ricerca. La posizione cattolica nella sua costante difesa della storicità degli evangeli e nel suo rifiuto dei presupposti soggettivistici della « Formgeschlchte », ha preso atto però, negli ultimi anni, dell'importanza del problema suscitato dal dibattito della teologia protestante sul rapporto tra la storia e la fede, della necessità di perfezionare i metodi di ricerca storica e di analisi delle strutture letterarie del NT. Così, mentre essa ribadisce l'affermazione della

88 W. PANNENBERG, Grundziige der Christologie, Giitcrsloh 1964; ed. fr. Paris 1961 (citeremo sempre questa edizione), 132-133. 89 J. MoLTMANN, Teologia della speranza, Brescia 1970, 232-233.

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storicità degli evangeli,90 e la vera unità e profonda continuità tra il Gesù storico ed il Cristo della fede e del kerigma, rafforzata dallo studio della « tradizione dei detti » nelle usanze della tradizione giudaica e nella cristianità primitiva,91 non soggiace però all'idea che la tradizione cristiana dei detti e dei fatti sia del tutto analoga ai metodi rabbinici. La tradizione cristiana non è affatto una ripetizione meccanica, ma realizza la fedeltà attraverso l'evento pasquale e la luce dello Spirito per cui la storia di Gesù si adempie e si illumina di piena luce e le parole di Gesù acquistano il loro pieno significato in seno alla stessa tradizione. Di qui l'esigenza di tener conto, « ove convenga», per l'esegeta, « di esaminare gli eventuali elementi positivi offerti dal ' metodo della storia delle forme ' per servirsene debitamente per una più larga intelligenza dei vangeli » ,92 superando le insufficienze della vecchia posizione di approccio alla loro storicità fondata solo sulla loro autenticità letteraria.93 Lo studio storico degli evangeli tende cosl, anche nell'ambito cattolico a non limitarsi allo studio dello stato attuale del testo, ma a risalire, nella ricerca, alle piccole unità letterarie già esistenti in circolazione, nella tradizione orale, scorgendo le situazioni concrete della vita delle comunità cristiane primitive che si riflettono in tali unità e che si esprimono in forme letterarie più o meno stereotipate. È lo studio del « Sitz im Leben » dei racconti e dei logia degli evangeli, studio per il quale le chiese apostoliche appaiono come questo « Sitz im Leben » ed ogni evangelo come una testimonianza della tradizione ecclesiale, un libro della Chiesa.94 La posizione cattolica, mentre da un lato coglie, anche se con cautela, quella parte di verità messa in luce dalla Formgeschichte,

90 Conc. Vat. Il, DV 19; Pont. Com. Bibl. (in seguito PCB), Inrtructio de historìca Evangeliorum veritate, AAS 56 (1964), 712-718. 91 H. RrnsENFELD, The Gospel Tradition and its Beginnings, TU 73 (1959), 43-65; B. GERHARDSSON, Memory and Manuscript. Oral Tradition and Written Trasmisrion in Rabbinic Judaism and early Christianity, Upsala 1961; In., Préhistoire des évangiles, Paris 1978. 92 PCB, ivi. Il documento, però, avverte che il cattolico dovrà fare tale studio con cautela a motivo dei presupposti filosofici e teologici che viziano spesso sia il metodo che le conclusioni. 93 I. DE LA POTTERIE, Come impostare oggi il problema del Gesù storico? in «Atti XX sett. bibl. », Brescia 1970, 414. 94 Per una documentazione completa degli apporti della ricerca cattolica su questo tema rimandiamo a F. LAMBrAsr, L'autenticità storica degli evangeli, Bologna 1976; P. GRECH, Il problema cristologico e l'ermeneutica, 15.

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dall'altro non solo respinge i presupposti filosofico-teologici del metodo stesso, ma anche i suoi esclusivismi sul piano letterario che mostrano le sue gravi carenze su due fronti: anzitutto quello concernente l'importanza del momento della Redaktionsgeschichte della Tradizione evangelica stessa, per cui gli evangelisti non sono stati dei semplici compilatori, ma dei ver.i autori, sia per il modo di scrivere, sia di organizzare i dati del materiale evangelico, sia per la loro visione teologica. 95 Di qui la necessità di distinguere i due momenti della Formgeschichte e della Redaktionsgeschichte. Ma soprattutto, per ciò che riguarda il problema del Gesù storico, la posizione cattolica denuncia quella carenza del metodo della storia delle forme per ciò che riguarda l'origine storica della tradizione evangelica, la quale non è affatto creata o interamente trasformata dalla comunità primitiva. Per comprendere gli evangeli come documenti storici bisogna infatti risalire fino a Gesù stesso ed alla comunità dei discepoli viventi con Lui, come principio e fondamento della tradizione evangelica stessa. La tradizione delle « parole » e dei «fatti» di Gesù prese forma, infatti, già prima di Pasqua, sì che la tradizione evangelica ha il suo primo « Sitz ìm Leben » nella vita stessa terrena di Gesù e nella sua comunità di vita con i discepoli. Ne consegue che da ·parte cattolica si tende a sottolineare la triplice fase di « tradizione » del materiale evangelico « bisognerà interpretare le parole ed i fatti riportati dai nostri evangeli nei tre stadi successivi della tradizione .. . si coglierà anzitutto il signilicato storico che essi avevano per i discepoli e gli uditori di Gesù durante la sua vita pubblica; in un secondo tempo si sottolineerà il significato di essi nella vita concreta e pluriforme della comunità primitiva dopo Pasqua; in fine, e soprattutto, si stabilirà il valore permanente del messaggio di Gesù, come viene presentato da ciascun evangelista, alla luce dello Spirito, nella Chiesa. Ma questo non sarà ancor tutto. L'esegeta deve ancora tentare di dimostrare che tra queste tre tappe della tradizione, Gesù, la comunità pasquale, gli evangelisti, esiste una continuità reale e vivente, sebbene la comunità primitiva ed i vari redattori abbiano regolarmente dedotto dal materiale evangelico nuove applicazioni ». 90 Questo pas95 X. LÉoN-DuFOuR, Bulletin d'exégèse du Nouveau Testament: Formgeschichte et Redaktionsgeschichte des Evangiles synoptiques, RSR 46 (1958), 237-169. 96 I. DE LA POTTERIE, Préface in «De Jésus aux Évangiles. Tradition et Rédaction dans Jes Évangiles synoptiques », II, Gembloux 1967, XII.

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saggio della tradizione evangelica, attraverso le tre fasi, è ormai acquisito nell'ambito cattolico, come indica la dichiarazione della Pont Commissione Biblica nella sua istruzione sulla storicità degli evangeli invitando a « badare con diligenza ai tre momenti attraversati dall'insegnamento e dalla vita di Gesù prima di giungere a noi ». 97 Di qui il compito della esegesi critica di rifare il cammino della Tradizione risalendo dal testo attuale agli stadi primitivi.98 In questo modo, mentre si verifica criticamente l'unità e continuità tra la storia prepasquale di Gesù Cristo, la sua esistenza gloriosa e la presenza attuale nella Chiesa, si tiene conto però anche della varietà e della differenza dei tempi della Tradizione, realtà vivente che non rimane chiusa al passato di Gesù Cristo, ma vive nella storia della chiesa pur non separandosi mai dal suo indimenticabile ed insuperabile inizio. Attraverso quale metodo si realizza questo cammino dello studio della Traditionsgeschichte? Esso è rivolto anzitutto alla elaborazione dei « criteri » che consentono un cammino storicamente solido, attraverso i vari strati della tradizione, verso il volto originario di Gesù di Nazaret. Lo studio della criteriologia tende, specie da parte cattolica, a mediare storia e fede, cercando di prendere le distanze sia dallo storicismo positivista della Leben-Jesu-Forschung, sia dal « fideismo soggettivista» del kerigmaticismo teologico. In questa linea si tende a distinguere diversi livelli di storicità: un livello di storicità globale che concerne l'affermazione di autenticità d'insieme dei documenti evangelici, ed una storicità particolare che concerne ampie sezioni narrative o didattiche degli stessi evangeli, come pure una storicità specifica che riguarda particolari parole o singoli elementi di un racconto. 99 Per il nostro studio, la prospettiva di « storicità globale » circa l'autenticità del materiale evangelico preso nell'insieme attraverso 97 PCB, AAS, 716; PAOLO VI, Discorso alla PCB, AAS 66 (1974), 235-241. 98 L. CERFAUX, La vie de Jésus devant l'histoire, in «Ree. L. CERFAUX », III, Gembloux 1962, 175-182; In., Jésus aux origines de la tradition: matériaux pour l'histoire évangelique, Bruges 1968; X. LÉON-DUFOUR, Les évangiles et l'histoire de Jésus, Paris 1963; J. DELORME, Pour une approche méthodique des évangiles, FV 4 (1968), 3-71; I. DE LA PoTTERIE, Come impostare oggi, I. cit.; R. LATOURELLF.., Critères d'authenticité historique des évangiles, Gr 55 (1974), 609-637; F. LENTZEN-DErs, Kriterien fiir die historische Beurteilung der Jesusuberlieferung in den Evangelien, in « Riickfrage nach Jesus », Freib. Br. 1974, 78-117; F. MussNER, Methodologie der Frage nach dem historischen Jesus, ivi, 118-147. 99 F. LAMBIASI, L'autenticità, 196-201.

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l'utilizzazione dei « criteri>> soprattutto esterni, che si desumono dalle tappe di formazione degli evangeli è da presupporre. Essa costituisce il presupposto necessario per un ulteriore approfondimento e verifica del metodo di studio sul piano della storicità particolare e coinvolge, oltre al lavoro critico, un insieme di atteggiamenti spirituali dell'uomo che vanno dalla onestà morale alla « reale apertura esistenziale al mistero del Dio Amore » 100 costituendo quell'elemento di fiducia previa (presunzione storica) che è condizione necessaria per un retto procedimento critico. 101 Sul piano particolare, la ricerca sulla figura storica di Gesù punta la sua attenzione su di una serie di criteri e di indici di carattere interno che cercano di cogliere al di là del pregiudizio sistematico di sospetto (dubbio scettico-sistematico), con ragionevole fiducia, il nucleo più antico del materiale evangelico. Ci limitiamo qui a richiamare alcuni tra i criteri più riconosciuti che sono in grado di avallare maggiormente la certezza storica di autenticità di un determinato dato evangelico: 102 1. criterio della testimonianza molteplice o della molteplice attestazione: già seguito nei tempi passati e consistente nel considerare come storicamente certo quanto è testimoniato in tutte le fonti comuni dei vangeli. 10l È un criterio che, per quanto poco seguito dalla critica bultmaniana in quanto troppo legato alla critica letteraria delle fonti scritte, ignorando la Formgeschichte della Tradizione orale anteriore, è tuttavia valido specie quando rivela la esistenza di parole e di azioni di Gesù in tradizioni letterariamente indipendenti, anzi, talvolta in « forme diverse della stessa tradizione» (in parabole, in catechesi, in testi liturgici). 104 Il criterio in questione indica per lo meno l'antichità di una tradizione ed

VI, Discorso alla PCB, 240. Dopo gli studi sulla autenticità storica è ormai da abbandonare la posizione del pregiudizio sistematico di sospetto con il principio più positivo dell' « in dubiis stat traditio ». Il peso della prova sta su chi nega l'autenticità. R. LATOURELLE, Critères, 636-637. l02 Per 1'analisi· degli « indici » di probabilità e dei « motivi di verisimiglianza » vedi F. LAMBIASI, 183-195. !ID H. K. McARTHUR, A Survey of Recent Gospel Research, Int. 18 (1964), 48; N. PERRIN, Rediscovering the Teaching of Jesus, London 1967, 46; I. DE LA POTTERIE, Come impostare oggi, 456; R. LATOURELLE, Critères, 619. 104 H. K. McARTHUR, A Survey, 48 porta l'esempio della familiarità di Gesù con pubblicani e peccatori: trad. di Mc (2, 17); trad. Q (Le 15, 4-10 par); fonti proprie di Le (7, 36-47; 15, 11-32; 19, 1·10); fonte propria di Mt (10, 6); N. PERRIN, Rediscovering, ivi. lOO PAOLO

IO!

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offre certamente un attestato di presumibile autenticità 105 consentendo di cogliere le caratteristiche generali dell'insegnamento di Gesù. 106 Usato isolatamente, però, il criterio resta problematico e va completato con altri. 107 2. Criterio della discontinuità o della dissimiglianza: è il criterio più riconosciuto da parte protestante e cattolica, ritenuto più decisivo e radicale e praticato quasi unilateralmente nella ricerca critica della corrente postbultmaniana. E. Kasemann lo formula cosl: «non c'è che un solo caso in cui noi ci troviamo su di un terreno abbastanza sicuro: quando non è possibile, per qualsiasi ragione, far derivare la tradizione dal giudaismo o attribuirla alla cristianità primitiva ». 108 Questo vale specie quando la tradizione giudeo-cristiana posteriore ha addolcito o modificato in senso nuovamente giudaico taluni detti apparentemente troppo audaci. 109 Quindi tutto ciò che negli evangeli non è derivabile dall'ambiente giudaico del tempo di Gesù, né da quello della comunità cristiana primitiva, possiede il segno irrevocabile di una derivazione dall 'ambiente proprio del Gesù prepasquale. È il criterio più rigoroso che ha il merito di porre in piena luce tutto ciò che in Gesù di Nazaret, nella sua parola e nella sua esistenza è profondamente originale, nuovo, unico, irrepetibile. Questa realtà nuova ed unica di Gesù che « si rivela allo storico come uno spirito religioso originale ed eminente » 110 dà già agli evangeli stessi, presi nell'insieme, quella

105 G. GARRAGHAN, A Guide to Historical Method, Chicago 19513, 308, presenta ragioni psicologiche e filosofiche: due o più persone, indipendentemente, non inventano o non svisano nello stesso modo uno stesso fatto. Per questo, per mettere in dubbio la storicità di un dato ben attestato nelle molteplici fonti, bisognerebbe dimostrare la sua origine comunitaria (l'onere della prova spetta a chi nega l'autenticità). I. DE LA PaTTERIE, 546; R. LATOURELLE, 621. l06 Per questo esso non va posposto agli altri, ma preposto, almeno sul piano del procedimento: H. K. Mc-ARTHUR, The Burden of Proof in Historical Jesus Research, ExpT 82 (1970/71), 116-119. 1o7 Scettico sulla valutazione dei criteri: F. Y. DOWNING, The Church and Jesus, London 1968, 103 ss.; W. O. WALKER, The Quest far the Historical Jerns, ATR 51 (1969), 41-50; N. J. Mc-ELENEY, Authenticating Criteria and Mark 7, 1-23, CBQ 34 (1972), 431-460. Per la necessità del completamento I. DE LA PoTTERIE,

456. 108 E. KASEMANN, Das Problem, 205; J. JEREMIAS, The Centrai Message of the New Testament, London 1965; N. PERRIN, Rediscovering, 39-40; H. K. McA.RTHUR, A Survey, 50; X. LÉON DuFOUR, Les évangiles, 323; B. RrGAUX, L'historicité de Jésus devant l'exégèse récente, RB 65 (1958), 518. 109 J. DE LA POTTERIE, 423. 110 L. CERFAUX, Jésus aux origines, 54.

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« discontinuità globale » che caratterizza sia il loro genere letterario, sia il loro contenuto, 111 nella quale discontinuità si inserisce quella particolare di parole ed atteggiamenti di Gesù. Ma quale la reale portata di questo criterio? Mentre nell'ambito delle posizioni bultmaniane e post-bultmaniane è ritenuto l'unico e fondamentale criterio di storicità,m da parte cattolica si assume verso di esso un atteggiamento più cauto. In realtà esso appare un criterio eccessivamente radicale e minimalista se applicato da solo al materiale evangelico, in quanto garantisce solo un minimo nucleo storico: solo una piccola parte del materiale evangelico viene così garantita. Ora, non si può considerare come non-autentico tutto ciò che in qualche modo ha rapporto con il pensiero giudaico e cristiano per dare rilievo soltanto ai punti di rottura con tali ambienti. «Ne verrebbe fuori una immagine deformata di Gesù,113 « tutto altro», che non avrebbe assolutamente alcun contatto con l'ambiente giudaico a cui apparteneva (il che è inquietante dal punto di vista psichico) e che non avrebbe originato assolutamente alcun movimento storico (il che è del tutto incredibile dal punto di vista storico). Allora è del tutto inverosimile che la comunità postpasquale non sia stata segnata, in maniera decisiva, dal comportamento e dalle parole di Gesù ». 114 Usare in maniera esclusiva un tale criterio significherebbe strappare la realtà storica di Gesù dal suo ambiente giudaico, il che è in contrasto sia con le leggi stesse sociologiche dell'influsso dell'ambiente, sia con il principio della significanza stessa del fatto storico che, isolato dal suo contesto umano, finirebbe con il divenire inintelligibile, determinando una frattura insanabile tra il cristianesimo ed il suo fondatore, aprendo la via alla posizione

111

F.

LAMBIASI,

155-56.

R. BuLTMANN, Die Geschichte der S)'noptischen Tradition, Gottingen 1971, 9-12; E. KAsEMANN, Das Problem, 205. m Notevoli sono in proposito le osservazioni di M. D. HoDKER, Christolog)' and Methodolog)', in NTS 17 (1972), 481-483: esse tendono a mostrare l'equivoco del criterio in questione, almeno se usato in modo alternativo ed unilaterale. Infatti, per un tale criterio si vorrebbe raggiungere ciò che è «distintivo» dell'insegnamento di Gesù. Ma con questo termine si può intendere ciò che è « unico» o ciò che è « caratteristico». Spesso nelle ricerche condotte con tale criterio il senso del «distintivo» è ridotto a quello di «unico», irri.ducibile all'ambiente, ma poi si finisce, guadagnando questo minimo, col perdere proprio il vero nucleo del messaggio di Gesù, cioè la sua « caratteristica ». 11 4 H. ScHi.iRMANN, Eine methodenkritische Besinming, in « Orientierung an Jesus. Zur Theologie der Synoptiker », Freib. Br. 1973, 325-363. Ili

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bultmaniana. Di qui l'atteggiamento di grave riserva da parte di M. D. Hooker, mentre da parte cattolica si tende a mediare le posizioni di eccessiva valutazione e di eccessivo scetticismo, sottolineando l'esigenza di equilibrare il minimalismo del criterio di dissimiglianza con quello di conformità o coerenza.m 3. Criterio della conformità o coerenza: tende a considerare come autentico tutto ciò che nei dati evangelici appare « conforme » (esternamente) con la situazione ambientale della vita di Gesù e cioè con il mondo palestinese del suo tempo, 116 come pure (internamente) con le caratteristiche fondamentali del suo messaggio e con quelle delle sue parole ed azioni, 117 e cioè il suo stile. 118 Anzitutto si deve notare come, per alcuni critici, un tale criterio andrebbe applicato solo posteriormente a quello della discontinuità: una volta stabilito, mediante quest'ultimo, alcuni elementi autentici (minimo nucleo storico), si tenta di allargare tale nucleo riconoscendo come ancora autentico tutto ciò che appare con esso conforme. 119 Per la maggioranza dei critici cattolici si tende però, piuttosto, a considerare il criterio di conformità non subordinato, ma valevole in se stesso, veduto in rapporto di complementarità rispetto al primo. Esso suppone evidentemente che « l'espressione di una personalità o di un insegnamento, provenga da un centro unico, totalizzante gli elementi diversi che possono essere constatati. Se ' per altra via ' io 11s Per evitare l'uso alternativo dei due criteri alcuni parlano di un « unico metodo comparativo» che tende a riunirli in un unico procedimento storico-critico: F. LAMBIASI, 155. 116 Per alcuni (C. MARTIN!, Introduzione ai vangeli sinottici, in « II Messaggio della salvezza», Torino 1967, 140-143) la coerenza esterna viene verificata attraverso la « sezione longitudinale » che tende a mostrare la continuità della vita di Gesù con il quadro storico-politico, geografico, linguistico-culturale e religioso e la «sezione trasversale » per cui si mostra la discontinuità rispetto al sistema legislativo giudaico, alle attese messianiche e si sottolinea la trascendenza della persona di Gesù. 117 L. CERFAUX, Jésus aux origines, 270; H. ScHURMANN, Die Sprache des Christus, in BZ 2 (1958), 54-84; I. DE LA PoTTERIE, Come impostare, 426-29. 118 Per ciò che concerne uno stile puramente linguistico ci sono forti obiezioni (N. A. DAHL, Der historische Jcsus, 116; N. ]. McELENEY, Authenticating, 439-440). Se per stile si intende il modo di parlare di Gesù e di «agire», in cui traspare l'impronta tipica della sua petsonaiità, le caratteristiche del suo messaggio (stile vitale) (H. ScaiiRMANN, Die Sprache, 54-56) allora si può perfino ritenere che esso valga come criterio {interno) di carattere convergente per dimostrare l'autenticità di un detto o di un fatto. 119 H. K. McARTHUR, A Survey, 50.; N. PERRIN, Rediscovering, 39-40; F. LENTZEN-DEis, Kriterium der Historizitiit, in « Die Wurder Jesu », TP 43 (1968), 400-402.

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sono convinto che tale parola di Gesù è autentica o che tale dato neotestamentario è certo, io posso fare agire questa certezza nei dati che sono, analiticamente parlando, meno sicuri. Certo, la conoscenza detta ' globale ' è necessariamente segnata dalla soggettività dello stesso esegeta (e così è di ogni sintesi) ma essa sola apre ad una comprensione della personalità di Gesù ». 120 Si tratta, dunque, di un criterio complementare al primo, ma sempre essenziale: se il primo ha il privilegio dell'analisi e della esclusività, mettendo l'accento sugli elementi nuovi ed irriducibili della .figura terrena di Gesù, il secondo ha il vantaggio della sintesi, del collocamento del fatto nel tempo e nell'ambiente storico, consentendone una comprensione storica più adeguata. Possiamo dire che mediante il metodo comparativo dei due criteri ultimi è possibile oggi raggiungere non solo la realtà autenticamente storica di Gesù come « fatto », ma anche «nel suo proprio significato » facendone emergere la dimensione teologica che in esso riluce, il senso del mistero della sua stessa Persona. Per questo, possiamo affermare che, mediante una verifica storica, è possibile cogliere già il nucleo del mistero personale di Gesù, la straordinaria autorità che si manifesta nello stile vitale del suo agire, del suo parlare. La prima cristologia fondamentale risale così con certezza (storica) alla autointerpretazione da parte di Gesù della propria esistenza. d) Proprio quest'ultimo compito interessa particolarmente l'inda" gine del pensiero cattolico intorno a Gesù di Nazaret: esso non si limita a risalire dal kerigma cristologico, al primo stadio della tradizione, esso tende anche a verificare « l'unità » tra il Cristo in cui crede la fede cristiana e che essa annunzia ed il Gesù realmente esistito, nella autointerpretazione della sua vita e nella testimonianza del suo «comportamento». Per questo compito ci appare di essenziale importanza procedere da Gesù di Nazaret al kerigma e dal kerigma a Gesù di Nazaret. Con questa articolazione nei due sensi si tende ad evolvere in organica unità la storia di Gesù terreno e le dimensioni gloriose del Cristo Risorto ed annunziato dalla Chiesa. Così, partendo dal punto di vista esegetico, I. DE LA PoTTERIE afferma: « solo questa unità tra la storia evangelica e la sua prima

120 X. LÉON DUFOUR, Comment ]ésus a-t-il compris sa propre mort? in « Mort pour nos péchés >>, Bruxelles 1976, 29-30.

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interpretazione cristiana consegnata nei vangeli costituisce il fondamento della fede. La rivelazione cristiana, di fatti, non è contenuta solo nel messaggio storico di Gesù, proclamato verso gli anni 30 (J. Jeremias), né solo nel kerigma della comunità cristiana (R. Bultmann}; esso si trova nell'opera e nelle parole di Gesù Cristo, presentate ed interpretate dalla Chiesa apostolica e dagli evangelisti, sotto l'influsso dello Spirito di verità. Per questo motivo gli evangeli sono per noi la Parola di Dio ». 121 Partendo da un punto di vista più sistematico A. L. DESCAMPS ritiene che proprio la struttura della fede cristiana in cui il sapere ed il credere sono inseparabilmente congiunti, pur essendo distinti, impone il duplice approccio sopradetto tra storia e fede: 122 il credente può, infatti, partire nel suo cammino verso Cristo da una fede in Lui pacificamente posseduta accedendo attraverso la critica storica al fatto Gesù, non portato da motivi di veriiìca, bensl da una esigenza intrinseca alla fede stessa, la quale poggia su eventi storici oggettivi anteriori al kerigma e che ne costituiscono il criterio. In tal senso procede, come abbiamo visto, la teologia protestante post-bultmaniana la quale sottolinea che la ricerca del Gesù storico non deve « fondare la fede su basi storiche» (il che sarebbe una pretesa carnale}, ma piuttosto vuole separare criticamente «il retto annuncio cristiano da quello falso ». 123 Recuperando la « storia oggettiva » all'interno della prospettiva di fede, la teologia allora non fa che sottolineare « l'identità della fede cristiana che la differenzia da ogni gnosi e mitologia». Ma è anche possibile per il credente un approccio diverso, che parte non dalla fede pacificamente posseduta, ma dalla scienza storica, non solo in ragione dei criteri storici, ma anche dell'autonomia stessa di tale scienza. Così facendo, « il teologo ha la convinzione, non solo di definire meglio la sua cristologia, anche di giustificarla meglio, di attestarne meglio la sua solidità ». 124 In questa fase di ricerca sto121 I. DE LA POTTERIE, Come impostare, 432; M. BORDONI, Studio introduttivo, in «Gesù Cristo, nella storia e nella fede», Assisi 1980, 9-36. 122 A.-L. DESCAMPS, Portée christologique de la recherche historique sur Jésus, 23 s. 123 E. KA.SEMANN, Sackgassen, 55. 124 A.-L. DESCAMPS, 28 . Se è vero infatti che la fede non deriva dal sapere scientifico, sperimentale e storico, è pur vero che bisogna « sapere» per « credere» e che la fede non è un grido di disperazione dinanzi al fallimento della ragione, né una sorta di « eureka» intuitivo, ma è « radicaliter » un atto cli intelligenza che implica la lucidità. Per questo, dice ancora Descamps, « la conoscenza precede la fede e vi dispone; bisogna sapere prima di credere e per credere» (ivi, 26).

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rica, il credente dialoga con due interlocutori all'interno del suo discorso: lo storico razionalista ed agnostico ed il teologo chiuso alla ricerca storica. I due approcci al mistero di Cristo ai quali abbiamo accennato, non sono da considerare come alternativi, ma complementari: 125 da un lato si parte dalla fede attuale della Chiesa e la si pone a confronto con Gesù, dall'altro, partendo da Gesù lo si interpreta alla luce della fede ecclesiale. È necessario a questo punto approfondire il rapporto « storiafede », Gesù storico - Cristo del kerigma vedendo come nell'ambito della teologia cattolica si tenda a superare l'empasse della riflessione postbultmaniana circa il ruolo della resurrezione di Gesù nel passaggio dalla fase terrena della sua vita storica a quella della sua condizione gloriosa. Giustamente W. Kasper 126 osserva che quando si parla di « Gesù storico » si tira in campo, spesso, un concetto di storia piuttosto ambiguo. Si può infatti intendere per Gesù storico: quel Gesù quale in realtà è stato e come visse in carne ed ossa, oppure, quel Gesù storico al quale noi giungiamo a partire dalla predicazione e testimonianza apostolica, risalendo il processo mediante i suddetti «criteri di storicità». Ora, in questa problematica non si tende troppo ad identificare la categoria dello storico con la realtà oggettiva in sé del passato e con i metodi di ricerca di tale realtà? Non viene neppure in mente che nella storia possa verificarsi qualcosa di « nuovo » di indeducibile, non circoscrivibile nel solo passato, ma addotto dal futuro? 121 Se si parte come spesso avviene, in modo acritico, da questi presupposti, allora nella questione del « Gesù storico » si fa in realtà solo questione del « Gesù terreno », identificandolo con il momento prepasquale. 128 Cosi si rimane impi125 Il secondo aspetto appare tanto più importante nella misura in cui «la storia», luogo di realizzazione del piano divino, è una realtà anche visibile, controllabile, verificabile, almeno in parte, anche dal non-credente. l26 W. KAsPER, Die theologische Relevanz des Historischen, in « Jesus der Christus », 40. 127 W. KAsPER, ivi. In tal modo si è sempre succubi del punto di vista moderno della soggettività. per cui tutto viene livellato dalla comprensione dell'uomo sotto il primato dell'universale, rendendo tutti gli avvenimenti omogenei ed eliminando 1~ categoria dell'uni:O, singolare, nuovo ed indeducibile, pensando al futuro a part:tre dal passato. Ivz. E. TP.OELTSCH, Ober bistoriscbe und dogmatiscbe Metbode in der Tbeolagie, Ges. Schriften, II, Tiibingen 1913, 729-753. l2B Vedi E. SCHILLE:BEECKX, Gesù la storia di un vivente Brescia 1976 61 sulla riduzione del « Gesù ·storico » a ciò che è storicamente ~erificabile di Gesù di Nazaret, ossia «il Gesù terreno », quale riduzione tipica del positivismo liberale.

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gliati ancora nel dualismo oggetto-soggetto, storia-oggettiva identificata con il passato e fede-soggettiva identificata con il tempo presente e futuro della predicazione cristiana post-pasquale. Il « Gesù storico», veramente esistito, sarebbe allora il Gesù del passato, nella sua esistenza terrestre, mentre il « Cristo del kerigma » sarebbe il Cristo come la fede apostolica lo ha inteso ed annunciato dopo la esperienza della Pasqua. Come si vede, il concetto di storico è qui abbastanza riduttivo, mentre quello di fede è pericolosamente soggettivo. Ciò che sfugge a tale divisione acriticamente condivisa dalla stessa ricerca post-bultmaniana è « la realtà (oggettiva) del Cristo glorificato » e quindi dell'evento stesso di Pasqua. Abbiamo già veduto l'inconcludenza della posizione post-bultmaniana per cui la resurrezione è collocata interamente dalla parte della comprensione della fede, mentre il Gesù storico è identificato al Gesù terreno. Allora nella resurrezione si realizzerebbe l'intelligenza esatta del Gesù prepasquale ed in essa non si aggiungerbbe nulla, sul piano dell'evento oggettivo, alla storia terrena di Gesù. Essa (la resurrezione) sarebbe solo un diaframma ermeneutico del passato. Ora, se la resurrezione di Cristo non costituisce sul piano degli eventi un momento reale oggettivo (anche se di natura diversa dai momenti reali anteriori appartenenti alla storia terrestre) di passaggio dalla condizione terrena a quella glorificata, allora certamente, l'unico criterio della fede in Cristo sarebbe il Gesù storico (inteso riduttivamente come il Gesù terreno). Ma se, al contrario, la resurrezione non riveste solo un significato di conferma, bensì rappresenta un evento salvifico in cui oggettivamente si adempie tutta la storia terrena di Gesù, con un suo proprio contenuto ed un qualcosa di nuovo nei confronti del tempo pre-pasquale, allora non si potrà più ridurre in modo unidimensionale il Gesù storico, nel senso di terreno, a criterio primario della fede in Cristo, proprio perché l'unico criterio primario di questa fede cristologica dovrà essere insieme sia il Gesù terreno che il Cristo risuscitato ed elevato al cielo. Quando si parla del Gesù storico, allora, bisognerà guardarsi da una concezione riduttiva della storia intendendo con tale termine solo ciò che si è compiuto nel passato ed è attingibile con i metodi di ricerca di questo passato. « Storico » ha un valore più ampio: esso abbraccia anche le dimensioni del nostro presente reale e del futuro: La piena dimensione di storicità di Gesù Cristo si compie nella unità tra il suo « passato » ed il suo « pre-

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sente vivo», come Risorto ed Esaltato nel tempo della Chiesa, nel suo futuro come Signore della fine dei tempi. La storia e la fede non sono due momenti cronologicamente successivi per cui prima esiste il Gesù storico e poi la fede in questo Gesù come Cristo. In realtà, come Gesù di Nazaret è esistito in maniera terrestre ed ora esiste in maniera celeste, così la fede stessa in Lui accompagnava già la sua vita terrena nella comunità dei discepoli, anche se ancora in maniera imperfetta (primo « Sitz im Leben » della tradizione evangelica) e si è espressa poi pienamente dopo la Pasqua. Da ciò consegue una considerazione piuttosto importante: quando si parla del kerigma cristologico post-pasquale non lo si deve intendere come messaggio costituito da una testimonianza solamente ecclesiale e quindi unicamente come l'espressione della fede apostolica al Cristo. In realtà questa fede e testimonianza è suscitata nel

tempo post-pasquale dal Cristo glorioso attraverso l'azione del suo Spirito, per cui, nel kerigma apostolico, Gesù Glorioso ancora, annuncia se stesso e conduce la Chiesa verso la verità tutta intera (Gv 16, 13). Così il processo della rivelazione si compie in due fasi: quella terrestre in cui Gesù di Nazaret annuncia la sua Parola di Verità, compiendo nella Pasqua tale rivelazione una volta per sempre e quella post-pasquale in cui Gesù, costituito nella condizione di Signore, presiede per il suo Spirito all'assimilazione, nella fede, della sua Verità ed alla sua testimonianza kerigmatica. Gesù di Nazaret, Signore e Cristo è così la norma della fede nella sua vita terrena e glorificata.

Ne consegue che una piena comprensione del Gesù storico non può essere limitata alla sola ricerca storica dell'ipsissima verba e degli ipsissima f acta rintracciabili nel fondo della tradizione evangelica:

la fede ed il kerigma neotestamentario aprono infatti alla conoscenza del fatto stesso « Gesù » le dimensioni di mistero che rendono il fatto stesso così unico, irrepetibile, insuperabile come non potrebbe essere colto ·restando al solo piano di una verifica storica. Allora, se è necessario dare spazio all'indagine sul volto terrestre di Gesù di Nazaret, onde evitare la caduta in quel monofisismo che sopravvive fino ai nostri giorni, è pur necessario non fare l'economia della prospettiva di fede che sola porta alla conoscenza di tutte le dimensioni, specialmente eterne, di quanto si è compiuto nella storia terrena e nella glorificazione di questo stesso Gesù. Non è possibile

ridurre, pertanto, al solo Gesù terreno il contenuto intero e normativo della fede in Cristo. L'errore di R. Bultmann è stato quello di

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separare la fede dalla storia oggettiva dando rilievo solamente al kerigma ed assorbendo la storicità alla sola sfera del soggetto credente; la posizione dei suoi discepoli ha voluto recuperare il valore della storia documentaria di Gesù di Nazaret non dando però il dovuto rilievo alla realtà oggettiva del Cristo Risorto riducendo il kerigma pasquale alla sola intelligenza del Gesù prepasquale (norma fondamentale della fede). La ricerca della teologia cattolica tende a superare il divario ancora esistente salvaguardando da un lato il valore della esistenza terrena di Gesù (memoria di Gesù) ed il valore del momento pasquale e del kerigma come annuncio non solo manifestativo del prepasquale, ma dello stesso Cristo glorificato, presente e vivo nella Chiesa, come Colui che nello Spirito continua la sua rivelazione portando questa Chiesa ad una sempre più profonda assimilazione della Verità che Egli ha rivelato una volta per sempre.

4.

STORIA E FEDE NEI MODELLI CRISTOLOGICI «DALL'ALTO» E «DAL BASSO».

Intimamente congiunta con il rapporto « storia-fede » nella metodologia della cristologia sistematica sta la questione dibattuta circa il modello « dall'alto » della cristologia o « dal basso ». 129 Cerchiamo anzitutto di delineare brevemente le caratteristiche dei due modelli: a) La cristologia dall'alto, in genere, è un procedimento di discorso cristologico che illustra il mistero di Cristo a partire non solo dalla fede in Dio, presupposto in ogni caso necessario, come vedremo, ma più precisamente dalla fede trinitaria, dagli « enunciati protologici » riguardanti cioè la preesistenza del Logos espressa attra-

W. PANNENBERG, La méthode de la christologie, in « Esquisse », 30-35; Eine terminologische Unterscheidung: Deszendenz-und Aszendenz Christologie, in « Christologie », 3.51-3.62; A GRILLMEIER, Cristologia, in « Sacramentum Mundi», I, Brescia 1974; W. KASPER, Ch,.istologie van tmten? Kritik und Neuensatz gegenwartiger Christologie, in « Grundfragen der Christologie heute », Freib. Br. 1975, 142 ss.; B. SESBUÉ, Christologie « d'en bas » et « christologie d'en baut », in « Esquisse d'un panorama de la recherche christologique contemporaine », in «Le Christ, hier, aujourd'hui et demain », Quebec 1976, 15 ss.; M. BORDONI, Cristologia dal basso e cristologia dall'alto, in «Cristologia», NDT, 235-237. 129

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verso i grandi titoli cristologici, le confessioni, gli mni liturgici che testimoniano la fede del NT in Cristo come Figlio Unigenito di Dio esistente presso il Padre prima della creazione del mondo (Gv 1, 1; 1, 18; 17, 5) ed operante già in questa creazione (Gv 1, 3; Col 1, 15-16; Ef 1, 10). È a partire da questa prospettiva sovrastorica, che diviene come la categoria precomprensiva di fede di tutto il discorso, che un tale indirizzo cristologico riflette sulla incarnazione stessa. Una prospettiva « dall'alto » è manifestamente essenziale alla visione cristiana della fede ed è interiore, come vedremo, a tutto il Nuovo Testamento; specialmente però essa emerge in maniera del tutto esplicita verso la fìne della letteratura neotestamentaria, per rafforzarsi poi nella tradizione patrìstica e nel dogma della Chiesa antica. Bisogna però anche aggiungere che sia nel Nuovo Testamento che nella cristologia patristica e dogmatica la prospettiva « dall'alto » si impone non come visione a se stante, ma come « motivata dal basso» ed in rapporto alla storia della salvezza. In realtà le affermazioni « protologiche » della fede cristiana si evolvono geneticamente, nell'ordine della conoscenza di fede, a partire dalla esistenza storica di Gesù, dall'evento della sua resurrezione, come pure dalla esperienza della sovrabbondanza della redenzione riversata dal Cristo glorificato nella Chiesa apostolica. Il grado di gloria a cui Gesù di Nazaret era pervenuto mediante la sua esaltazione appariva, infatti, tanto elevato che nessuno, che fosse semplicemente un uomo adottato, avrebbe potuto raggiungerlo: solo chi « era già» Figlio di Dio poteva arrivare a tali altezze, alla destra del Padre nei cieli. Cosl pure l'esperienza sovrabbondante della salvezza e l'esercizio universale della mediazione salvifica, esercitato dal Cristo glorificato, non era possibile se non ad un mediatore che fosse già presente all'opera della prima creazione. Quindi originariamente, nell'autentico pensiero cristiano neotestamentario, patristico e dogmatico, la prospettiva dall'alto appare postulata geneticamente, nella conoscenza di fede, «dal basso», ed appare ontologicamente in rapporto essenziale ad essa inquanto fornisce il sostegno e la garanzia di verità di questa ultima. Si tratta dunque di un unico dinamismo di pensiero che costantemente integra questi due aspetti essenziali della fede. Negli sviluppi post-biblici, la prospettiva dall'alto della cristologia si è evoluta mettendo a fuoco sempre più, come elemento dogmatico, l'unità reale tra il divino e l'umano in Gesù Cristo,

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nell'unica Persona del Figlio. L'idea della incarnazione di Dio viene a trovare il suo fondamento nella seconda Persona Divina, soggetto· (hypostasis) dell'unità, e cosl, mediante la dottrina della unione ipostatica, si fonda « trinitariamente dall'alto » l'unità ontologica di Cristo. 130 La dottrina trinitaria diviene sempre più il presupposto della cristologia: poiché Dio è in sé Trino la natura umana ha la possibilità di essere assunta «senza confusione e senza divisione». Abbiamo detto che originariamente la prospettiva dall'alto della cristologia è, sul piano della conoscenza di fede, raggiunta a partire dal basso, da una motivazione soteriologica, con cui è in intimo rapporto di fondazione. Qui dobbiamo ancora aggiungere che la visione « dall'alto » si è ampiamente affermata in un quadro di comprensione della realtà in cui non Dio, ma l'uomo è un problema: l'uomo, infatti, come peccatore e soggetto alla morte, non può trovare salvezza in se stesso, ma solo quando pone in Dio il fondamento ed il sostegno e quando in ultimo, vive in comunione con Dio, cioè, viene divinizzato (theopoiesis). Cosl la questione soteriologica dell'uomo trova proprio nella « cristologia dall'alto » la sua soluzione e fondazione. La cristologia « dall'alto » potrebbe però distaccarsi dal movimento ad essa connaturale all'interno del pensiero di fede neotestamentario, patristico e dogmatico, diventando un modello cristologico· a se stante avulso, in modo più o meno radicale, dai presupposti e dalle istanze che esso porta con sé. Allora, divenuta « modello di pensiero » che dirige il discorso a senso unico, in maniera discendente, la cristoìogia dall'alto finisce con l'evolversi in maniera puramente deduttiva ed argomentativa, 131 non dando rilievo in maniera adeguata alla vicenda storica di Gesù, alla « narrazione dolorosa di tale· vicenda », alla particolarità di questa storia, al suo aspetto egualmente essenziale di « ascesa e di ritorno ». Assorbita interamente nella funzione di mediazione discendente, l'umanità di Gesù lascia sbiadire i suoi contorni storici e le proprietà intrinsecamente umane per assumere sempre più proprietà puramente celesti, sì da ridursi ad un semplice rivestimento, ad una cifra umana del divino. L'Incarnato finisce allora con l'accostarsi più all'idea gnostica di un es-

W. KAsPER, Christologie van unten?, 113. RATZINGER, Die Christologie im Spannungsfeld van altkirchlicher Exegese und moderner Bibelauslegung, in « Urbild und Abglanz », Regensburg 1972, 361: parla di «sintesi ontologico-verticale» nell'illustrazione del mistero di Cristo. BO 131

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sere celeste rivestito solo esteriormente di una carne visibile, che non all'idea veramente giovannea del suo « farsi carne » nel senso di entrare realmente nella condizione umana, attraversando in pieno il tempo della fragilità carnale, della soggezione al dolore, alla morte (kenosi), tranne il peccato. 132 Il rischio di un «modello dall'alto» come esclusivo modo di riflessione cristologica condotta in maniera unilaterale ed esclusiva è quello di ridurre tutto il discorso ad un « mythologoumeno », struttura di pensiero imparentata col mito. 133 A questo modello viene a mancare la portata veramente storica dell'evento della incarnazione come fatto realmente accaduto in connessione con gli altri avvenimenti umani,_ avente una sua verificabilità e tangibilità umana, una sua intrinseca storicità. Ad esso difetta ancora «il senso della genesi» della fede cristologica, secondo quanto abbiamo già indicato sopra 134 per cui la conoscenza di « chi è » il Cristo esaltato e «chi era prima che il mondo fosse » richiede l'aver conosciuto « chi Gesù è stato storicamente » nella sua « singolarità », nelle sue parole ed azioni, in cui Egli ha posto i fondamenti indimenticabili di un suo riconoscimento. Per questo, per testimoniare il Cristo Risorto, bisogna non solo averlo veduto nelle apparizioni, ma anche aver vissuto con Lui nella sua vita terrestre (At 1, 21-22). Di qui l'esigenza per una cristologia di evolvere quel « minimum historicum » essenziale per lo stesso discorso di fede. 132 Cosi ci si può chiedere se « una cristologia che si pone in questo modo « sopra» possa giungere ancora veramente « sotto », cioè nella storia di Gesù cli Nazaret e non ultimamente nella sua «desolazione sulla croce», se essa possa veramente prendere sul serio la individualità umana di Gesù, il suo sviluppo storico, le sue limitatezze, il suo soffrire e morire» K. RErNHARDT, La singolarità della Persona di Gesù Cristo. Nuove prospettive nella discussione teologica contemporanea, in Com., n. 9 (1973), 21. 133 K. RAHNER-W. THiisING, Christologie, 27. Un tipico esempio cli un «modello » di riflessione cristologica « dall'alto » lo abbiamo nel pensiero barthiano della « Kirchliche Dogmatik » ove la concentrazione cristologica, che lo caratterizza, non prende come punto di partenza la storia dell'incarnazione, negli avvenimenti cli questa storia, ma la preesistenza ovvero, ciò che è avvenuto prima nei cieli. Riflettendo su Gesù Cristo, egli non segue tanto l'indicazione di Lutero di « guardare in basso», «verso la carne», quanto « in alto » verso il Figlio cli Dio esistente nel seno del Padre. L'incarnazione cosi non è un avvenimento veramente nuovo, quanto un « rivestimento nuovo» cli ciò che era ancor prima. Per cui « il Verbo si è fatto carne», vuol dire «il Verbo ha preso carne». Tutto ciò che avviene nel tempo della carne non è che quello che « prima » si è compiuto in Dio, nel monologo che Dio compie in sé, nel seno della Trinità. Nel tempo non si compie che la manifestazione o riproduzione del modello eterno. 134 Vedi sopra pp. 32-35.

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b) In contrasto con il « modello dall'alto » si oppongono oggi insistentemente i modelli cristologici dal basso che intendono costruire il discorso della cristologia a partire dalla realtà singolare storica ed umana di Gesù Cristo, tenendo anche conto della stessa genesi storica della fede cristiana. La terminologia « dal basso » è intesa in maniere molto diverse che vanno dal problema del punto di partenza, al problema più di fondo concernente la struttura stessa di tutto il metodo della cristologia. Bisogna anzitutto avere presente che una componente « dal basso » è presente già nell'insieme dei dati cristologici del NT a partire dal messianismo antico regale-profetico che accanto alla prospettiva sapienziale, dall'alto, annunziava un messia che avrebbe avuto origine dalla stirpe di David. 135 La cristologia sinottica, come pure l'antica cristologia dell'esaltazione, sottolineano una essenziale componente « dal basso » della cristologia neotestamentaria non assente neanche nella cristologia del quarto evangelo. Una tale cristologia dal basso fonda, come già abbiamo visto, sul piano soggettivo della genesi della fede apostolica, la stessa prospettiva dall'alto. Anche nel periodo post-biblico una « cristologia dal basso» trova riscontro nell'ambito patristico 136 ed in alcuni orientamenti della riflessione medioevale. 137 Nella prima metà del nostro secolo degli indirizzi di un orientamento dal basso sono stati ripresi nell'ambito degli studi concernenti il problema della coscienza di Cristo da un gruppo di teologi tendenti a sottolineare la realtà ed autonomia umana della vita psicologica di Gesù.138 Tuttavia il « modello dal basso » a cui insistentemente si riferiscono i progetti attuali di cristologia, possiamo dire che trova le sue radici fondamentali nel radicale cambiamento di cultura che m Vedi secondo volume, c. 1. L. SEILLER, Homo Assumptus bei den Kirchenviitern, Auserwiihlti Texte,

136

in WiWei 14 (1951), 84-160; Ilario parla spesso di «uomo assunto» o dell'assunzione del Figlio dell'Uomo (in Ps 2, 25: PL 9, 276 A; De Trin. 7, 25: PL 10, 222 B-C); vedi anche Ambrogio (Ep 48, 4: PL 16, 1153), Agostino (Ep. 170, 9: PL .3.3, 751; Enchir. 36, 11: PL 40, 250). Cf. P. GALTIER, De Incarnatione, Parisis 1947, 102-105. 137 Cf. P. GALTIER, L'Unité du Christ, Paris 1939, 177; vedi la prima delle tre opinioni teologiche elencate da Pietro Lombardo (III Sent. d. 6), che vedeva la incarnazione in termini di homo susceptus, assumptus. JJB Per una sintesi del pensiero e per la bibliografia dei teologi in questione quali D. de Basly, P. L. Seiller, P. Galtier rimandiamo all'articolo di A. GRILLMAIER, L'image du Cbrist dans la théologie d'aujourd'hui, in « Questions théologiques aujourd'hui », Paris 1965, 116 ss.

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investe l'attuale concezione della realtà e l' autocomprensione dell'uomo: 139 se nella visione generale della Scrittura e della tradizione teologica della Chiesa è l'uomo e non Dio che costituisce un problema, nella attuale situazione culturale « l'uomo non è un problema, ma Dio è in molti aspetti problematico ». 140 Per tale motivo si tende in queste cristologie ad invertire la prospettiva del modello di riflessione rncominciando da ciò che è più noto all'uomo: gli enunciati sul glorificato e sul preesistente devono trovare la loro mi·sura nella :figura storica del Gesù terreno. Ma soprattutto, tale inversione del modello non avviene in riferimento agli indirizzi di una cristologia « dal basso » già presenti nel NT o nella teologia patristica, bensì avviene conformemente ai presupposti culturali del nostro tempo per rendere la fede a Gesù Cristo credibile secondo tali presupposti. Per capire la nuova impostazione dei « modelli dal basso» bisogna ritornare allora alla questione di fondo: è la «persona umana » di Gesù che ci rivela Dio come Persona o è la seconda Persona della SS.ma Trinità che si autorivela nella umanità di Gesù? I modelli cristologici « dal basso » tendono ad interpretare l'identità divina di Gesù a partire dal rapporto storico vissuto dall'uomo Gesù con il Padre, quindi, non a partire da Dio, come nelle cristologie classiche o dal concetto generale di Dio della « teologia naturale », ma a partire « dall'uomo concreto Gesù di Nazaret ». 141 Questa attitudine tende a scartare ogni « plus valore » dogmatico di un discorso che costruisce i suoi dati troppo facilmente a partire da Dio.142 Cosl chiedendosi « che cosa è oggi Cristo per l'uomo » H. Kung riassume nei seguenti termini l'idea di un progetto «dal basso»: « questo Cristo diventa oggi realmente comprensibile quando ci si appella con semplicistico dogmatismo ad una indiscussa dottrina trinitaria? Quando ci si limita a presupporre la divinità di Gesù, una preesistenza del Figlio, per poi domandarsi soltanto come questo Figlio di Dio abbia potuto annettere a sé, assumere una natura umana? Non sarebbe più corrispondente alle testimonianze neotestamentarie e più adeguato al pensiero prevalentemente storico dell'uomo odierno comportarsi come i primi discepoli, i quali partirono

139 140 141 142

293.

R. W.

SLENCZKA, Der christologische Ansatz, in KAsPER, Christologie von unten?, 143. PANNENBERG, Esquisse, 34.

« Geschichtlichkeit >>, 309.

W. B. SEsBi.iÉ, Une problématique nouvelle en christologie, in Et, 343 (1975),

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da Gesù uomo reale, dal suo messaggio e dalla sua apparizione sto· rica, dalla sua vita e dal suo destino, dalla sua realtà e dalla sua incidenza storica, per indagare il rapporto di questo uomo Gesù con Dio, la sua unità col Padre? In sintesi, non tanto una cristologia alla maniera classica, che operi speculativamente e dogmaticamente « dall'alto )>, quanto una cristologia storica, maggiormente conforme all'uomo odierno, che, pur senza contestare la legittimità della cristologia tradizionale, muove « dal basso », cioè dal Gesù storicamente concreto? ».143 Un « movimento cristologico dal basso » ha certamente il suo valore nella misura in cui evidenzia l'importanza capitale ,per la stessa fede cristologica, della realtà singolare concreta e storica di Gesù di Nazaret, della sua vita terrestre, del suo straordinario rapporto con il Padre, come pure l'importanza dello sviluppo storico della fede dei testimoni 144 e della situazione odierna culturale dell'uomo. Ma il grosso limite che compromette la validità di un progetto dal basso sta nella misura in cui esso si pone come « modello cristologico esclusivo » ed « alternativo » rispetto ad un « modello dall'alto » con la pretesa di essere in se stesso sufficiente e completo. 145 Vediamo alcune principali motivazioni che giustificano una tale riserva: anzitutto si deve notare che lo stesso linguaggio (( dal basso » è un linguaggio relativo e complementare a quello «dall'alto»: esso come linguaggio, si giustifica in un legame dialettico ed in solidarietà con l'altro: «dal basso» vorrebbe dire in verità « dal basso verso l'alto » (Sesbi.ié). Senza questa tensione alla prospettiva « dall'alto » si dovrebbe più propriamente parlare di « cristologia orizzontalistica » che riproporrebbe un discorso riduttivo di , Paris 1974, 420-427.

CAPITOLO

II

LA CRISTOLOGIA ED IL PROBLEMA DI DIO

Parlando di un punto di partenza « dal basso » della cristologia, abbiamo già sottolineato che esso non può essere semplicemente « agnostico» nei confronti di Dio, in quanto, una ipoteca di tal genere comprometterebbe l'accesso storico stesso alla realtà di Gesù di Nazaret. 1 L'incontro di Gesù di Nazaret da parte dei primi discepoli, avvenuto nel quadro delle loro attese messianiche (Gv 1, 41.45) è stato possibile storicamente proprio per l'atteggiamento religioso della comunità d'Israele, aperta, nella fede, all'intervento salvifico di Dio nella storia. Tale atteggiamento di fede era un presupposto importante perché nell'orizzonte di questa visione di fede del mondo e della storia, aperta all'opera trascendente di Dio, la missione terrena di Gesù potesse essere colta come quella di Colui che « doveva venire », l'instauratore escatologico del Regno stesso. Questa « precomprensione religiosa » che condiziona la stessa esperienza storica di Gesù da parte dei discepoli, non è affatto un elemento contingente, appartenente cioè unicamente al loro passato: esso è un presupposto necessario per ogni possibile indagine storicocritica sul Gesù terreno. Esso implica anzitutto, remotamente, da parte di colui che compie la ricerca storica su Gesù di Nazaret, un atteggiamento spirituale di apertura al mistero di Dio e quindi, più immediatamente, l'apertura al mistero di Dio « provvidente », operante concretamente nella storia, ovvero, ad una visione della storia del mondo in cui siano visibili i segni di questa presenza salvifica del mistero di Dio (storia di salvezza). La mancanza di una tale precomprensione religiosa compromette la possibilità di un approccio storico a Gesù, non solo per il corretto uso degli stessi « criteri storici », che non possono certo essere usati storicisticamente e positivisticamente senza viziare alla radice tutto il processo di analisi 1 B. WELTE, Jesus Christus. und die Theologie, in « Wer ist Jesus Christus », Freib. Br. 1977, 151 ss. Vedi sopra p. 60.

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critica, ma anche perché non è possibile comprendere storicamente la venuta di Gesù di Nazaret, in se stessa, distaccandola dal quadro universale di un avvento di Dio nel mondo. Perciò osserva giustamente Thi.ising: « se si vuole comprendere la cristologia neotestamentaria che si basi, naturalmente, nel pensiero del Nuovo Testamento e debba confrontarsi con il problema: come la fede in Cristo sia conciliabile con il monoteismo, merita la precedenza quel modo di fare cristologia, nel quale, l'idea di Dio è usata come filo conduttore ... dalle prospettive del Nuovo Testamento la cristologia non può dunque venire presentata senza questo punto di riferimento «Dio » ... in realtà l'idea di Dio rimane la premessa senza la quale la cristologia non avrebbe alcun senso ».2 Non solo, infatti, un Cristo senza Dio non sarebbe il vero Gesù della storia, ma neppure l'uomo sarebbe capace di riconoscere Dio, in Gesù Cristo, se non disponesse di una precomprensione di Dio. Fin dall'inizio dell'era cristiana l'errore gnostico affermava un ingresso verticale di Dio nel mondo e nella storia totalmente vuota di lui fino a quel momento, ma proprio per questo, la sua caduta verticale, non riusciva a penetrarne veramente il tessuto.3 Come Gesù di Nazaret potrebbe essere il Rivelatore di Dio se nell'uomo, nella sua esperienza del mondo, non ci fosse nulla della sua presenza e del suo mistero( Per questo uno dei compiti essenziali di una cristologia che intenda iniziare il suo cammino dalla particolarità della storia di Gesù « deve essere quello di situare Cristo esattamente nella storia umana totale che per l'uomo è in primo luogo la storia della sua ricerca di Dio ed in quella particolare del popolo di Israele nel quale egli è nato, che può essere descritta come la storia di Dio alla ricerca dell'uomo » .4 1.

PRECOMPRENSIONE DI Dro E CRISTOLOGIA: LA RISPOSTA DELLE TEOLOGIE DELLA p AROLA.

Se non è possibile un autentico incontro storico con Gesù di Nazaret senza una «premessa religiosa», ci si chiede come sia pos2 W. THUSING-K. RAHNER, Christologie, 134-135; R. ScHAFFER, Jesus und der Gottesglaube. Ein christologischer Entwurf, Tiibingen 1970, 30 s., 93 s.; questo mostra come il solo metodo di andare da Gesù a Dio è insufficiente, in quanto Gesù non è comprensibile che a partire da Dio. K. REINHARDT, Die Einzigartigkeit der Person Jesu Christi. Neue Entwurfe, in IKZ 2 (1973), 223. 3 W. THilsING, ivi, 245-246. 4 L. BOUYER, Le Fils éternel, Paris 1974; (ed. it. Roma 1976), 13.

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sibile una cristologia in una situazione culturale come quella odierna che per la pesante ipoteca illuminista eredita la profonda scissione tra la fede e l'esperienza umana: il problema di Dio appare infatti coinvolto nel radicale cambiamento di cultura in cui il processo di emancipazione razionale, da una minorità, porta l'uomo a ricercare solamente in sé la misura ed il criterio di ogni considerazione e riferimento della realtà (svolta antropologica). 5 La conseguenza di un tale processo è la ominizzazione e la secolarizzazione del mondo in cui sempre più sembrano appannarsi le tracce di Dio.6 Si aggiungano le posizioni delle scuole linguistiche con le loro affermazioni sulla non significanza dello stesso linguaggio religioso, che sfociano nell'ateismo semantico.7 Questa situazione religiosa rende, come dicevamo, problematico ed ambiguo il punto di partenza storico della cristologia qualora esso tentasse acriticamente di passare oltre il problema non risolto della frattura tra senso religioso ed esperienza culturale umana. Si può tentare, infatti, di superare questa situazione sottolineando la rottura e la differenza qualitativa tra l'ordine della cultura umana e della storia come realtà nelle quali è impossibile accedere al mistero di Dio, in cui non è possibile raggiungere alcuna immagine e senso accettabile di Lui e della religiosità, per tentare poi di recuperare ogni senso religioso a partire da una pura fede generata da una caduta verticale dall'alto della Parola divina di rivelazione. Cosl si può raggiungere la tematica protestante della radicale sfiducia verso la conoscenza naturale di Dio e verso ogni sua precomprensione religiosa in rapporto al discorso di fede. K. Barth tematizza chiaramente questo contrasto tipicamente luterano tra «religione» e «fede »: 8 1à religione, infatti, per lui è « l'anticipazione insolente » di ciò che non può venire che dal Dio inconosciuto, è il punto culminante, il superlativo del peccato dell'uomo. Per salvaguardare le distanze e cosl difendere l'autorità di Dio, della sua Parola, contro le vane pretese razionalistico-emancipatorie della cultura illuministica che avevano contaminato anche gli am-

5 G. ROHRMOSER, Emanzipation und Freiheit, Miinchen 1970, 9-29; ]. B. METz, Redenzione ed emancipazione, Brescia 1975, 153 s. 6 F. GOGARTEN, Destina e speranza dell'epoca moderna, Brescia 1972. 7 D. ANTISERI, Filosofia analitica e semantica del linguaggio religioso, Brescia 1976; In., Filosofia del linguaggio, Brescia 1973. 8 K. BARTH, Der Romerbrief, Ziirich 1954, 25 s., 112, 145-152, 217, 222.

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bienti cristiani e la Chiesa stessa,9 con la pretesa di ricavare Dio dalla storia, dalla psicologia, dal sentimento religioso, K. Barth ha radicalizzato, nell'epoca della Romerbrief, la trascendenza e la differenza qualitativa infinita che impedisce ogni confusione.10 Nell'intento di demolire i « falsi dei » eretti dall'uomo, egli sottolinea la «rottura», la «contraddizione», la «crisi»: ogni rapporto tra l'uomo, il suo mondo e Dio, non si colloca che all'interno della fede, ma in modo da sottolineare la totale alterità di Dio che entra in contatto con lui in un tocco tangenziale con il quale viene ribadita soltanto la nullità del mondo vecchio della carne. Attraverso il nò dell'ira di Dio, si rivela il sì della sua misericordia che consiste nella totale alterità del nuovo mondo, dono dello Spirito.li In una visione, come questa, in cui ogni tentativo di assumere qualcosa di umano per sollevarsi a Dio è considerato sterile e vano e si risolve in una ricerca di noi stessi, ogni possibilità di incontro tra l'esperienza umana e la conoscenza di Dio è semplicemente bandita. Tutto ciò che noi possiamo sapere di Dio e dell'uomo non lo conosciamo che nella rivelazione di Gesù Cristo. 12 Questo proposito anche se con stile diverso non muta nella Kirchliche Dogmatik pur mitigando le affermazioni troppo negative del primo periodo. Qui si afferma l'esigenza di concentrare gli sguardi ed i pensieri in un sol punto, nel nome di Gesù Cristo, operando una radicale « concentrazione cristologica » .13

9 K. BARTH, ivi, 316 s.; In., Anfiinge der dialektischen Theologie, I, Miinchen 1962, 51 s. 10 K. BARTH, ivi, XVI. li Si può dire che nel periodo della Rèimerbrief il nò dell'ira di Dio è più forte del sì: H. U. VON BALTHASAR, Karl Barth. Darstellung und Deutung seiner Theologie, Koln 1951, 91; B. WruEMS, Karl Barth. Een inleiding in zijn denken,

Tielt 1963. 12 Anche questa conoscenza di Dio all'interno della rivelazione di Gesù Cristo è presentata da K. Barth nel periodo della Riimerbrief nella linea della differenza qualitativa, del tocco tangenziale, per cui nella vita di Gesù non si conosce veramente la realtà di Dio, che resta nascosta, piuttosto si sottolineano «i punti di impatto»: l'esistenza di Gesù si spiega solo nella morte di croce, nel «passaggio dal mondo», nell'allontanamento e nella partenza. Dio in Cristo si nasconde di più di quanto non si riveli. IJ Va notato che la 'concentrazione cristologica' di K. Barth non vuol dire richiamo all'incarnazione, agli eventi storici della vita terrena di Gesù, alla particolarità dei,' mysteria carnis ', bensl ad una 'concentrazione nella preesistenza', verso ciò che e avvenuto nel 'tempo intemporale ', nell'eternità, nei cieli: è una concentrazione dunque nell'eterno, nel trinitario. Va notata qui la differenza tra l'approccio cristologico di Barth da quello di Lutero.

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Rimane perciò il programma barthiano di sbarazzarsi di tutto ciò che possiamo comprendere e dire intorno a Dio procedendo da una comprensione previa derivante dalle realtà umane, per concentrare del tutto ogni nostro « sapere e dire » intorno a Dio nell'unica realtà di Gesù Cristo e rimane inoltre la correlativa idea che tutto ciò che possiamo dire dell'uomo lo sappiamo solo in Gesù Cristo. Non solo ogni previo discorso naturale di Dio è precluso, ma anche ogni previa antropologia. Contro il vano tentativo di farsi uomo da se stesso, dell'uomo moderno, K. Barth annunzia \(l'umanità di Dio » che in Gesù Cristo diviene la fonte e la norma dei diritti dell'uomo e della dignità umana. 14 Ogni pretesa autocomprensione è preclusa: dell'uomo non si può dire nulla di vero che a partire dal punto di vista eterno, misconoscendo cosl non solo il problema del rapporto tra esperienza umana e conoscenza di Dio, ma anche quello del rapporto tra l'esperienza umana ed il linguaggio della stessa rivelazione di Dio in Gesù Cristo. La teologia barthiana ha finito con l'accentuare il loro divario; ha mostrato una totale disattenzione all'esistenza concreta dell'uomo, visto che essa non ha una parola da dire nei confronti di Dio. Conseguentemente appare pre· elusa ogni correlazione tra interrogazione umana e risposta divina; dimenticandosi dell'uomo concreto K. Barth « non fa che ' ripetere ' le parole della Sacra Scrittura e proiettarle con uno slancio entusiastico nel presente, ma egli non le fa passare veramente nel nostro presente» (H. Zahrnt). Mentre la scissione operata nell'epoca moderna tra l'esperienza dell'uomo e l'affermazione di Dio viene acutizzata, come abbiamo detto dalla posizione barthiana, potrebbe apparire, invece, un lodevole tentativo di recupero quello compiuto da R. Bultmann con il suo programma di demitizzazione. Ora, invece, tale recupero è semplicemente apparente. R. Bultmann, infatti, che ha partecipato come K. Barth al grande tornante della teologia protestante della Parola operatosi dopo la prima guerra mondiale, ha condiviso i presupposti di un pensiero teologico nel quale non c'è continuità tra natura e grazia, ragione e fede, esperienza dell'uomo ed affermazione di Dio. La speculazione filosofica e la ricerca storica non possono fondare la fede, né preparare alla Rivelazione. Tutto quel che di Dio sappiamo viene, per lui, solo dalla rivelazione e dalla fede attraverso l'aécettazione incondizionata della sua Parola. Tuttavia, per Bultt4

K.

BARTH,

Humanismus, TS 28, Ziirkh 1950, 5.6.8. s.

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mann, è importante sottolineare che la fede è « un sl intelligente »: credere alla Parola è andare al suo incontro in maniera da « comprenderla »: « credere e comprendere » è il programma essenziale della teologia bultmaniana. Ma bisogna fare attenzione che questo « comprendere » non vuol dire affatto ricercare una « spiegazione razionale » della parola evangelica conformemente alle pretese razionalistiche, per rendere tale parola « accettabile » all'uomo moderno: l'opera di comprensione consiste piuttosto, per lui, nel rimuovere gli scandali apparenti e falsi, per fare emergere lo scandalo reale ed autentico della fede: « il solo paradosso di cui si possa legittimamente porre questione, in teologia, non è costituito da idee incomprensibili ed assurde, da affermazioni irrazionali: esso costituisce un avvenimento, esso è l'azione di Dio che perdona, in Cristo, il peccato. Non c'è qui assolutamente nulla di scandaloso, né di paradossale, poiché chiunque può comprendere, se lo vuole, ciò che è il perdono. Ma che Dio abbia effettivamente accordato il perdono, ecco ciò che non si può assolutamente mai constatare, ma solamente credere ».15 Ora, l'uomo non può pervenire alla fede che se ha realmente compreso il messaggio cristiano: cosl urta nello scandalo. L'intento di rendere comprensibile lo scandalo della fede nella sua realtà genuina, porta R. Bultmann ad utilizzare le categorie del pensiero moderno, ma questo avviene non per ragioni apologetiche: se egli si rivolge all'uomo concreto nella sua cultura ciò avviene non per permettere al pensiero moderno di far valere i suoi diritti. « Si tratta di bel altra cosa. È la fede cristiana stessa che reclama i suoi diritti; è per essa che bisogna condurre la lotta ». 16 È in questa chiave che egli porta avanti il programma della « demitologizzazione »: esso si ·propone di portare alla luce per l'uomo, soggetto oggi alle categorie di un pensiero storico, la verità della Parola, nascosta, nel linguaggio biblico, dalle categorie di una concezione mitologica del mondo. Perciò egli si chiede quale sia, nella Scrittura, il legame tra « l'evangelo ed il mito ». Esclude, in questa risposta, la posizione della teologia liberale che con la sua critica positivistica riduce il messaggio evangelico a delle idee religiose e morali, ad una etica idealistica. Il NT non parla di dottrine o di ideologie, ma di 15 R. BuLTMANN, Glauben und Verstehen, I, 91; ID., Kerygma und Mythos, II, Hamburg 1952, 188-190 (abbreviazioni successive KM). 16 F. GoGARTEN, Entmythologisierung und Kirche, Stuttg~rt 1953, 9.

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« eventi » compiuti in Gesù Cristo. L'unica via possibile da battere è, per lui, la demitizzazione: essa, contrariamente ai procedimenti riduttivi della critica positivistica liberale, non è affatto un processo negativo di riduzione o di eliminazione che avrebbe lo scopo di denudare il puro nucleo del messaggio dalle sovrastrutture mitologiche. Non si tratta di eliminare, ma di reinterpretare. 17 Infatti, il pensiero mitologico è per se stesso portatore di contenuti ineliminabili ed essenziali della stessa Parola: esso (il mito) scopre all'uomo un mondo pieno di enigmi, di misteri, nel quale l'uomo si sente soggetto a potenze che regnano oltre la sfera del « verificabile », del « controllabile » dalla sua esperienza. Esse gli impongono dei limiti, per cui egli sente di non aver ragione d'essere in se stesso e che la sua causa ed i suoi confini si trovano fuori di quanto noi conosciamo ed è alla nostra portata, mentre la sfera soggetta alle nostre verifiche è dominata da forze sinistre: « con ciò, quindi, il mito esprime la convinzione che l'uomo non è padrone di se stesso, che egli non solo è condizionato all'interno del mondo conosciuto, ma che anche ed anzitutto è dipendente da quelle forze egemoni che stanno al di là del conosciuto e che proprio in tale dipendenza può trovare la libertà dalle forze a lui note ». 18 Ora, proprio questo contenuto del mito non è affatto eliminabile. La cosa inaccettabile del linguaggio mitologico è il modo con cui esso parla di questo contenuto, attraverso cioè le ~< forme oggettivanti » che mescolano ciò che non è del mondo, ma che lo trascende, con ciò che invece è mondano; per cui esso esprime in termini «cosmologici» e «mondani» il divino. F: qui che, per R. Bultmann, si impone · la reinterpretazione del mito in termini antropologico-esistenziali onde esso possa esprimere in modo comprensibile, per l'uomo d'oggi, il messaggio dell'Evento-Parola comunicato dal linguaggio biblico. Oltre che dalla natura stessa del mito, la demitologizzazione è infatti proposta dallo stesso NT nel quale corrono continuamente due dati: uno più cosmologico, per cui l'uomo è concepito come essere cosmico dominato da potenze esteriori, come il peccato, che si abbatte dall'esterno su di lui, ed uno più antropologico per cui l'uomo è concepito come essere « autonomo e libero » ed il peccato appare come

17 R. BuLTMANN, Neues Testament und Mythologie, in KM, I; ed. it., Brescia 1970, 119-120. lS R. BULTMANN, ivi, 120; ID., Zum Problem der Entmythologisierung, in KM, II, 207.

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sua colpa personale. Dinanzi a questo fatto s'impone l'esigenza di non-eliminare il mitologico con l'idea di raggiungere un resto cristiano, un evangelium purum, ma si tratta di portare in evidenza la interpretazione di sé che il NT scopre all'uomo. 19 Così l'intento della demitologizzazione è solo quello di portare la Parola alla comprensione dell'uomo odierno. Per compiere questo processo reinterpretativo R. Bultmann ricorre alla analisi esistenziale di M. Heidegger, analisi che è da lui assunta con compito solo formale, cioè in quanto serve ad evidenziare la struttura della esistenza umana, restando neutra rispetto ai contenuti (cos1 crede Bultmann). Ora, tale analisi fenomenologica dell'esistenza, considerata come struttura valida sia per il credente che per il non-credente, tende a pensare l'uomo non come un « essere cosa » gettato nel mondo a vivere tra gli oggetti a cui egli si aggrappa per realizzare la propria sicurezza mondana. Tale modo di essere, infatti, è uno stato di inautenticità dell'essere uomo, da cui egli si deve liberare, prendendo in mano la propria esistenza, vivendola esistenzialmente, storicamente, attraverso la decisione con cui egli responsabilmente passa alla autenticità (Eigentlichkeit). L'analisi strutturale dell'esistenza rivela il problema fondamentale dell'uomo: egli sa ad ogni momento che non è ancora se stesso, perciò è proteso verso l'avvenire, è in cammino verso il suo essere autentico che gli è dinanzi. L'esistenza dell'uomo, nella sua autenticità, si riassume nella questione della sua verità. Ora, per Bultmann, questa questione che tocca il profondo dinamismo dell'uomo, quello del suo senso, della proprietà della sua esistenza, proiettata verso la meta della «autenticità» è una questione religiosa: «la questione di Dio e la questione di me stesso sono identiche »; 20 quando l'uomo è inquieto per il problema della sua esistenza, che egli lo sappia o no, è di fatto inquietato dal problema di Dio. È cosl che l'analisi esistenziale consente di poter porre in evidenza, nell'uomo proiettato verso la propria autenticità, il punto di attacco della rivelazione.21 Esso

19

R.

BuLTMANN,

KM, II, 185; ID., Zum Problem der Entmythologisierung,·

220. 20 R. BuLTMANN, ]esus Cbristus Frage der naturlichen O/fenbarung, , GV). 21 R. BuLTMANN, Anknupfung Die Frage, ivi, 86 s; vedi su questo sch im Widerspruch, Ziirich 1937.

und Mytbologie, Hamburg 1958, 60; Io., Die in « Glauben und Verstehen », II, 86 (abbr. und Widerspruch, in GV, II, 119-121; Io., punto la posizione di E, BRUNNER, Der Men-

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consente di poter affermare che preesiste nell'uomo una precomprensione religiosa, una relazione intima a Dio senza di cui Egli non potrebbe mai riconoscere Dio come Dio, nella stessa sua rivelazione. 22 In questo la posizione di R. Bultmann appare più positiva di quella di K. Barth in cui non emerge alcuna possibilità di aggancio alla rivelazione a partire dal basso della esperienza dell'uomo. Ma non bisogna essere troppo ottimisti dinanzi alla posizione bultmaniana: questa, infatti, tende a sottolineare che la questione della autenticità, come struttura dell'esistenza umana, è legata a dci contenuti concreti, a delle forme determinate, quali nozioni su Dio, religioni, morali o filosofie, visioni globali del mondo. Queste forme contenutistiche sono per Bultmann, illusioni ed errori, proprio perché esse costituiscono una espressione storica della pretesa dell'uomo di rispondere da sé alla sua interrogazione su Dio, di risolvere da sé il problema della sua autenticità.23 Questa pretesa è un peccato dell'uomo e così si ritorna alla mttura radicale, al contrasto ed opposizione tra religione e fede, concetto naturale di Dio e rivelazione di fede del suo mistero: per Bultmann il punto di inserimento della rivelazione di Dio è l'opposizione dell'uomo a Dio. L'unica differenza con K. Barth sta nel fatto che l'uomo proprio per questa sua opposizione mostra di trovarsi già in una vitale relazione con Lui, relazione, che rimane vera finché inespressa. Così R. Bultman tenta di salvaguardare la trascendenza della rivelazione, la sua gratuità, pur affermando una certa continuità tra il senso dell'uomo e quello della rivelazione. Il senso dell'uomo si esprime nel problema della sua autenticità ed emerge solo nei suoi fallimenti e persino nella dannazione. Bultmann ci tiene anch'egli a sottolineare questo « fallimento » dell'uomo, per dare rilievo al solo fatto della rivelazione compiuta da Dio in Gesù .Cristo. La precomprensione che spinge

22 R. BuLTMANN cita il noto luogo agostiniano: « fecisti nos ad te, et cor nostrum inquietum est, donec requiescat in te». Cosl, egli dice, prima della rivelazione di Dio, l'uomo possiede già una relazione con lui. Non è possibile infatti giungere al Dio della rivelazione senza quella ' relazione vitale ' per cui l'uomo soggetto, possiede già una 'precomprensione' (vorverstandnis) della sua realtà: Cf. R. BuLTMANN, Das Problem der Hermeneutik, in GV, Il, 232; In., Jesus Christus, 59 s. . 23 Queste ' oggettivazioni ' di Dio della ragione umana sono, per Bultmann, conformi alla pretesa del pensiero mitico che vuole ' disporre ' di Dio parlando dell'al di là con categorie dell'al di qua. Ogni linguaggio oggettivo su Dio, per Bultmann è cosl necessariamente ' idolatrico '.

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l'uomo verso Dio e che « naturalmente » in modo inevitabile si esprime in maniera fallace, riesce invece ad esprimersi nella fede (attraverso la critica negativa della insufficienza umana di fronte al problema dell'uomo e di Dio) in forma positiva e compiuta. La demitologizzazione procede, dunque, in R. Bultmann, attraverso l'uso formale dello strumento dell'analisi heideggeriana, ad evidenziare il punto critico del problema dell'uomo che tende alla propria autenticità e la risposta della Parola della fede a questo problema: il NT, egli dice, ci presenta due tipi di esistenza umana che rientrano nella struttura esistenziale comune proiettata verso l'avvenire alla ricerca della sua autenticità. Il primo tipo è l'uomo non credente: egli rivolge la sua vita al presente, alle cose « mondane » cercando in esse la propria sicurezza. Ma così facendo, attaccandosi alle realtà tangibili, disponibili, effimere, egli lega la sua vita alla caducità: la vanifica. L'uomo non credente, in questo modo, cade nella servitù del timore, nel peccato dell'autosufficienza: egli si « autoglorifìca ». Nel messaggio mitologizzato del NT ciò è espresso attraverso il linguaggio dell'uomo «schiavo del mondo e delle potenze»: «questo mondo», regno del male e della morte, causato dal peccato dell'uomo, che ha così forgiato le proprie catene {Rm 6, 23; 1 Cor 15, 56) è il mondo della carne che indica la sfera del sensibile, del disponibile. L'uomo non-credente traduce erroneamente il suo desiderio di autenticità nella pretesa di appagarlo con i propri mezzi: è il peccato dell'uomo che pretende farsi Dio.24 Il secondo tipo è l'uomo credente e riscattato: egli tende invece alla autenticità in modo radicalmente diverso: rinunciando alle sicurezze che vengono da lui o dagli oggetti intramondani, vive «nell'abbandono radicale a Dio » (vita secondo lo Spirito) per cui tutto attende da Dio e nulla da sé. Il credente è perciò libero da sé e da tutto ciò di cui dispone nel mondo (è demondanizzato), libero da tutto, egli è al servizio di tutti ( 1 Cor 9, 12-13 ). Questa vita autentica nella libertà non è però possibile che per la grazia (del perdono) e per la fede, cioè per il dono dell'invisibile ed indisponibile Dio che offre a lui una vita nuova, un nuovo essere (2 Cor 5, 17). Così « esistere nella fede » è un « esistere escatologicamente perché per esso il credente porta a termine il suo essere soggetto al mondo: ma questo comprendere se stesso come essere nuovo, libero da sè, deriva

24

R.

BULTMANN,

KM, I, 28 s; ID., Geschichte und Eschatologie, 129.

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a lui da Dio, dal suo amore che si rivela a lui in Cristo e gli consente l'abbandono della fede. 25 Come si vede, nella teologia di R. Bultmann, attraverso il processo della demitizzazione, si tende a rendere comprensibile all'uoma la Parola della rivelazione che gli viene rivolta nell'evento salvifico di Dio in Gesù Cristo. Per lui, il parlare di Dio non è possibile senza il parlare dell'uomo, della sua situazione: « io presento la teologia come antropologia, ciò vuol dire soltanto che io concepisco le affermazioni teologiche come delle affermazioni che concernono l'esistenza e che rientrano nell'esistenza » .26 Di Dio dunque, non si può dire assolutamente nulla, per Bultmann, che sia un discorso vero, se non nel discorso della fede, ma tale discorso non è possibile se non come discorso sull'uomo, sulla sua esistenza. Dio, così non è· conoscibile, per lui, fuori della fede; ma anche nella fede « noi non possiamo dire ciò che Dio è in se stesso, ma solo ciò che egli fa per noi ».ri Questo ci consente di vedere il grosso rischio della impresa di demitologizzazione intrapresa da R. Bultmann: egli per rendere parlante il messaggio cristiano e la rivelazione di Dio in tale messaggio, ha assunto l'analisi heideggeriana con l'intento di usarla come semplice «strumento formale», ma con il risultato, di fatto, che essa è assunta come postulato di principio. In questo modo, tutto il senso della rivelazione di Dio si trasferisce nell'esistenza dell'uomo, compiendo una concentrazione antropologica. L'idea stessa che là ove l'uomo non può operare, Dio ha operato, si riduce in Bultmann, al quadro angusto della esistenza storica dell'uomo, concepita non già con un esistere fondato nella priorità ontologica della realtà, ma nella «storicità umana della esistenza», che diviene la misura della realtà e della storia universale. 28 Tutto ruota intorno alla comprensione di sé dell'uomo e ad una comprensione esistenziale di sé concentrata nel « soggetto individuale » in cui l'uomo si attua senza

25 Solo colui che è già stato amato può amare; la storia di Gesù nel NT significa che là ove l'uomo non può agire, Dio ha operato per lui. R. BULTMANN, KM. I, 39. 26 R. BULTMANN, GV, I, 26; KM, II, 196. TI R. BULTMANN, KM, II, 184 s. 28 Si ha cosl una emancipazione della 'storicità dell'uomo ' dalla ' storia ', un rifiuto di guardare alla storia universale per concentrarsi nella propria storia personale: Io., Geschichte und Eschatologie, 184.

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mondo, senza storia oggettiva,29 mostrando come il princ1p10 della soggettività moderna sia profondamente assunto nell'analisi bultmaniana. Ma questo pone allora seriamente la domanda se nella demitologizza:r.ione di R. Bultmann l'uomo odierno sia veramente dinan:r.i al Dio della fede o non piuttosto dinanzi ad un nuovo mito; il mito stesso dell'uomo.3{) Chi ha portato fino in fondo il programma bultmaniano della demitizzazione è stato H. Braun per il quale la rivelazione di Dio in Gesù Cristo non è più che la manifestazione del]'intelligenza di sé dell'uomo, nella fede, con la conseguente dissoluzione della teologia in « umanesimo » che poi non si distingue dagli altri umanesimi se non per le basi filosofi.che e la terminologia diversa.31 Del messaggio cristiano non resta veramente che una « idea dell'uomo » mentre gli autori neotestamentari non sarebbero che iniziatori ed inventori di una certa possibilità di esperienza umana. Sia la posizione della teologia barthiana che quella bultmaniana, non riescono a superare la rottura tra l'esperienza dell'uomo moderno e l'affermazione di Dio. Il primo acutizza l'incapacità dell'uomo di affermare alcunché sulla realtà di Dio al di fuori del discorso di fede, mentre il secondo nell'intento di rendere comprensibile all'uomo moderno lo scandalo della fede, arriva ad ammettere solo una « vitale relazione» dell'uomo con Dio, incapace però di oggettivarsi, di tradursi in esplicita affermazione della sua realtà. Ma « nel momento in cui l'esistenzialismo teologico non osa più « oggettivare » Dio per salvaguardare il suo carattere indicibile, non equivale ciò a ridurre Dio al 'Senso che Egli ha per l'uomo? Così la teologia esistenziale ... per meglio rispettare l'originalità propria del Dio della fede testimonierebbe di fatto l'orientamento antropologico della teologia dell'era moderna. Si assisterebbe al completamento della esistenzializzazione e della interiorizzazione della fede che comincia con Lutero ed in cui Feuerbach vedeva un tornante antropocentrico ». 32 :?9 Giustamente osserva H. ZAHRNT, Cominciò con Gesù di Na;zaret, 90, che storia significa sempre qualcosa che ci sta di fronte, un orizzonte fisso e permanente. Alla storia appartiene sempre anche l'effettualità storica, senza di cui non c'è nè realtà storica, nè esistenza storica. P. ALTHAUS, Das sogenannte Kerygma und der historische Jesus, Giitersloh 1958, 23: «la storicità non esiste senza la cronaca (das Historische) ». 30 W. !CASPER, Jesus der Christus, 55-56. 31 H. GoLLWITZER, Die Existenz Gottes im Bekenntnis des Glaubens, Miinchen 1963, 39. Per H. BRAUN, vedi sopra p. 55. 32 C. GEFPRÈ, Le procès de l'obiectivité de Dieu, in « Un nouvel age de la théologie », Paris 1972, 77; K. Lowrra, De Hegel à Nietzsche, c. 5, le problème du Christianisme.

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2.

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L'INTERROGAZIONE DI DIO ED IL PROBLEMA DELL'UOMO.

L'esigenza della fondazione di un discorso sensato e responsabile su Dio come necessaria premessa religiosa ad un discorso cristologico appare in tutta urgenza nel nostro tempo. Il fallimento di questo programma nelle teologie protestanti della « Parola » dovuto al mancato superamento critico del problema latente nella cultura odierna, non deve sminuire l'importanza delle istanze legittime emergenti dalla struttura antropocentrica del pensiero umano, per cui ogni interrogazione ed affermazione su Dio deve tener conto della interrogazione correlativa sull'uomo. In un'epoca culturale in cui la comprensione della realtà, le determinazioni dell'essere, erano regolate dall'immagine guida dell'oggettivismo cosmico, l'uomo stesso era compreso sotto questo modello di rappresentazione dell'essere e costituiva un caso, il più rilevante, in un orizzonte di pensiero orientato verso le cose: allora il problema di Dio era il problema del cosmo e del completamento del suo ordine. 33 In una cultura « antropocentrica » in cui il modello comprensivo della realtà è la soggettività dell'uomo, per cui l'essere del mondo nella sua gobalità è veduto attraverso questo diaframma, il problema dell'essere è anzitutto « problema dell'uomo », caratterizzato dalla interrogazione su se stesso, 34 mentre il mondo tende a divenire lo spazio orninizzato in cui l'uomo proietta se stesso e realizza « con gli altri » il senso della vita.15 In questo contesto culturale in cui il problema della realtà è fondamentalmente il problema dell'uomo alla ricerca della propria significazione, l'interrogazione di Dio non trova collocamento possibile che nella misura in cui essa può iscriversi nella stessa interrogazione sull'uomo. Il problema di Dio tende cosl sempre più a divenire quello del >, 10, VI, 1941. 67 Io., Apparition, 330. 68 Io., Apparition, 215. 69 Il futuro dell'evoluzione termina, secondo Teilhard, in una coscienza suprema; ma questa coscienza, per essere suprema, dovrà racchiudersi in sè nel mas· simo grado. Questo ripiegamento illuminatore dell'essere non è una chiusura al mondo, ma la via ad una totale apertura «è solo orientandosi verso una superriflessione, cioè verso un~ super-personalizzazione che il pensiero può estrapolarsi» (Le phénomène, 316). 10 TE!U!ARD DE CHARDIN, ·Le phénomène, 316.

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anche se non semplicemente identici. Si tratta di una prospettiva panreligiosa in cui si uniscono inseparabilmente « avvento » e « futuro», avvenire divino e processo pancosmico di evoluzione, senso del divino e senso dell'umano. La venuta di Dio è in stretto legame con il divenire del mondo. Dio è, per Teilhard, Colui che diviene e Colui che viene, insieme, l'immanente ed il trascendente. Il progresso del mondo e dell'uomo non si compie né nella pretesa di salire a Dio, Trascendente, mettendo da parte il cammino verso il futuro terrestre, né nella pretesa di giungere al futuro del mondo mettendo da parte l'avvenire di Dio: «la vecchia opposizione terra-cielo» scompare (o si corregge) nella formula nuova: « al cielo per il perfezionamento della terra ».71 Teilhard ci presenta una visione della realtà in termini di progresso, in cui il senso dell'uomo si esprime e realizza nella struttura evoluzionistica del mondo che tutto trascina come un vortice verso la pienezza della coscienza, della personalizzazione, della reciprocità perfetta, verso il mistero di Dio stesso. In essa « il male » è un sottoprodotto dell'evoluzione, « ombra della creazione », rovescio della medaglia, da cui l'evoluzione stessa progressivamente si libera. Cosl il processo della storia in cui si compie il senso dell'uomo, nell'avvenire di Dio, è insieme « creativo » e «redentivo ». Non pochi aspetti rimangono assai discutibili in questo tipo di pensiero: oltre che la visione globale della storia in chiave unitaria di rigido e fatale progresso verso la perfezione (fino al punto di identificare la fede nel progresso con la fede in Dio) rimane inaccettabile l'identificazione piatta tra processo creativo e redentivo, come pure resta gravemente compromessa la libertà umana ed il particolarismo della storia stessa, come tra poco diremo. L'interpretazione teilhardiana ha avuto un certo influsso nella cultura teologica europea ed extraeuropea.72 Nell'ambito del protestantesimo attuale W. Pannenberg adotta come Teilhard una prospettiva « panreligiosa » della realtà storica in cui « apertura » umana al mondo è insieme « apertura a Dio ». E come il senso del mondo si coglie « storicamente » insieme al senso dell'uomo, quando il loro avvenire eq il loro compimento entrano nell'ambito di una visione della realtà di Dio, cosl Dio stesso non diviene Dio in tutta In., Oeuvres, V, 344. S. M. DAECKE, Teilhard de Chardin et la théologie de l'avenir, in «Le Christ cosmique de Teilhard de Chardin », Paris 1969, 269-302. 11

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la sua pienezza che quando la sua divinità si manifesta nell'avvenire del mondo. 73 La proiezione dell'uomo verso il futuro, in quanto tale proiezione implica l'apertura al mistero di Dio, porta dunque, come correlazione, l'immagine nuova di Dio inteso, più che come trascendente verso l'alto, come «Trascendente in avanti», orizzontalmente, nella linea della storia. Dio è allora « potenza dell'avvenire» e «l'avvenire» è «il modo d'essere di Dio ».74 Il problema dell'uomo aperto sul mondo ed il mistero di Dio tendono correlativamente, in un orizzonte di comprensione storica della realtà, ad essere espressi intermini di futuro e di avvenire. Pannenberg dà, come T eilhard, grande importanza all'incontro tra futuro ed avvenire, tra proiezione « autotrascendente dell'uomo nel mondo » e «venuta del Dio trascendente nella storia». Per questo l'attesa di Dio da parte dell'uomo, espressa attivamente nel suo proiettarsi al futuro, è già un segno realistico del fatto che Dio « storicamente viene». È questo « dato » che consente alla storia umana universale di avere un significato, là ove, lasciata a se stessa, essa resterebbe contingenza priva di senso e di successo, pura questione senza risposta.75 Perciò secondo Pannenberg, il problema dell'uomo ed il senso di Dio si collocano in un orizzonte di storia universale in quanto « tutte le questioni e le risposte teologiche non hanno senso che nel quadro della storia che Dio realizza nell'umanità e per essa con tutta la creazione, per giungere ad un avvenire che è ancora nascosto per il mondo, ma già rivelato in Gesù Cristo ». 76 La storia universale, come orizzonte in cui si incontrano l'oggettività cosmica del mondo, la soggettività personalistica dell'uomo e l'opera di Dio, è una storia «aperta a chiunque ha occhi per vedere», in cui, sia l'incontro di mediazione tra l'uomo e la natura, sia la venuta stessa di Dio può essere colta nel linguaggio dei fatti. 77 In questo modo 73 W. PANNENBERG, Was ist der Mansch? Die Anthropologie der Gegenwart im Lichte der Theologie, Gottingen 1962, 9 ss.; Grundziige der Christologie, Giitersloh

1964, 328-403. Nella concezione della storia Pannenberg mette maggiormente in luce «la storia universale» come «storia dei popoli», «storia di uomini», la antropogenesi e la noogenesi: storia biologica e spirituale insieme. 74 W. PANNENBERG, Der Gott der Hofjnung, in « Ernst Bloch su ehren », Frankfurt a. M. 1965, 209-225. 75 I. BERTEN, Histoire, révélation et foi. Dialogue avec Pannenberg, Bruxelles 1969, 45. 76 W. PANNENBERG, Heilsgesqhehen und Geschichte, in KD 5 (1959), 218. 77 W. PANNENBERG, ivi, 287; Io.,Offenbarung und Geschichte, Gottingen 1961, 98; lo., Hermeneutik und Universalgeschichte, in ZTK 60 (1963), 116. In tal modo Pan·

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appare il paradosso del pensiero di W. Pannenberg in cui da un lato si afferma il valore universale della storia come orizzonte necessario precomprensivo di ogni discorso su Dio e sull'uomo sl che il senso dell'uomo e la venuta stessa di Dio trovano nella storia universale la loro « verificabilità », ma dall'altro, il senso stesso universale della storia e della venuta di Dio non può essere colto che nella rivelazione dì Gesù Cristo, per cui di fatto si entra in una prospettiva di fede, mentre il presupposto precomprensivo della storia come totalità universale resta soggetta al sospetto di un « hegelianismo cristi ano ». Un tentativo dei più notevoli nell'ambito del protestantesimo attuale, di illustrare il senso dell'uomo e la sua apertura al mistero di Dio in un orizzonte storico è quello compiuto da J. Moltmann con la sua visione di una storia elaborata a partire dalla prospettiva del futuro. Per troppo tempo, egli dice, la fede in Dio è rimasta inceppata nella paura di fronte al futuro, per cui la fede senza speranza ha generato una speranza senza fede. 78 Se i cristiani credono in un Dio senza futuro, coloro che desiderano un futuro per la terra non hanno alternativa di ricercare un futuro senza Dio. È lo scisma dell'età moderna: « la separazione della fede dalla speranza terrestre ».79 Di qui l'esigenza di dare vigore alla dimensione escatologica della fede avendo presente la situazione culturale dell'uomo del nostro tempo. Oggi ci troviamo di fronte ad una svolta della cultura che porta ad una « scoperta della storia » e della « realtà » come storia per la quale il futuro è la categoria dominante: « la vera categoria della storia non è più il passato ed il passeggero, ma l'avvenire. La percezione e l'interpretazione della storia passata non è più allora archeologica, ma escatologica e futura ». 80 Ma questo senso del futuro deve superare ogni schizofrenia della speranza evitando di cadere in una concezione disincarnata della menenberg cerca di sfuggire al dilemma di una storia compresa in termtm puramente esistenziali ed una «storia di salvezza» intesa in modo sovrastorìco. Egli vuole partire da una storia universale realizzata di fatto, richiamando la priorità della realtà storica esistente prima di ogni fede e comprensione dell'uomo. Di qui l'importanza data al linguaggio dei fatti. 78 ]. MOLTMANN, Religion, Revolution and the Future, New York 1969; ed. it. Brescia 1971, 19 s. 79 ]. MoLTMANN, Theologie der Hofjnung, Miinchen 1966; ed. it. Brescia 1970, 27 ss. &I Ivi, 269-270.

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desima, evidenziando il suo carattere assoluto e trascendente, come pure in una concezione di futuro solamente « intramondano », disponibile e fattibile. 81 Bisogna, invece, parlare del futuro in termini di «ciò che viene» e di «ciò che diviene». Il « ciò che diviene» è il frutto alla portata delle capacità calcolatrici e produttrici dell'uomo (il futuro disponibile) che attraverso la futurologia tende ad estrapolare il futuro prossimo dalle possibilità del presente. In tal modo il futuro è inteso come «evoluzione», «crescita», «progresso»: attraverso la « prognosi », la programmazione, la futurologia tende a proiettare il futuro dal presente.82 Ma oggi l'uomo non spera tanto in ciò che diviene, bensl in «ciò che viene» (adventus, ad-venire), nella venuta di un tutto nuovo che non può ricavarsi solamente dalla storia, bensl è oggetto di « anticipazione », nella speranza.83 Cosl il futuro « non è una dimensione del processo evolutivo della storia, al contrario è la storia l'elemento di questo futuro » .84 Bisogna mantenere congiunte, immanenti reciprocamente, queste due dimensioni di « ciò che viene » e di « ciò che diviene » perché si acceda al vero significato della storia: in essa si incontra il senso dell'uomo con la sua nuova immagine di Dio. Ormai, il problema dell'uomo non può più prescindere dalla sua collocazione sociale, politica e storica: « l'uomo ed il mondo sono oggi mediati nel regno della storia, e precisamente della storia sociale, politica e tecnologica. Senza umanizzazione del mondo, l'uomo non può trovare la sua identità interiore ». 85 Ma nello stesso tempo il giuoco della storia è reale in quanto « anticipazione», nella speranza, di un futuro che «viene», «nuovo», «indisponibile», «non programmabile». L'identità stessa dell'uomo aperto sul mondo è proiettata in avanti, nell'anticipazione della speranza storica. In questo orizzonte si colloca il nuovo senso di Dio che « posto sul terreno della esperienza storica e definito in termini temporali, si muta nel problema della sua venuta. 86 La sua immagine passa da quella del « Dio-sopradi noi » a quella del « Dio-in-avanti », come « avvenire assoluto », come il trascendente che « ad-viene», consentendo all'uomo di proiet-

J.

Ende der Schonzeit fur Theo/ogen, ET (1966), 672. Religion, 121. 83 MotTMANN, Antwort auf die Kritik der Theologie der Hofjnung, in « Diskussion iiber 'Theologie der Hoffnung '», Miinchen 1967, 217. 84 J. MotTMANN, Religion, 122. 85 Ivi, 192 s. 86 Ivi, 193. BI 82

J. J.

MoLTMANN, MotTMANN,

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tarsi « nella speranza » e non nella prognosi ,oltre le frontiere del presente o del futuro che diviene. Bisogna vedere i due aspetti del futuro come realtà intramondana e dell'avvenire di Dio, congiuntamente, per una adeguata visione del rapporto tra Dio e l'uomo: « da un lato Dio è il nostro avvenire nella misura in· cui appartiene a se stesso, in cui è fondamento di se stesso e non semplicemente correlativo ai nostri propri desideri ed aspirazioni ... è solo un avvenire che sia più del prolungamento delle nostre possibilità patenti o latenti quello di chiamarci veramente a trascendere noi stessi ». Ma d'altro lato, il Dio che trascende il nostro futuro non deve suscitare l'idea di una escatologia passiva « per la quale il mondo ed il tempo appaiono come una specie di sala d'aspetto prefabbricata ... l'escatologia cristiana, piuttosto, deve comprendersi come una escatologia produttiva e combattiva. Fede escatologica ed entrata in un giuoco terrestre non si escludono, ma si implicano ».87 Cosl il proiettarsi dell'uomo alla ricerca di sé nel divenire del mondo, verso « il futuro stesso che diviene » va considerato insieme all'avvento di Dio, essendo quest'ultimo il nerbo interiore di una speranza che comprende in sé estrapolazione ed anticipazione, futuro ed avvento. La questione dell'uomo ed il senso di Dio che s'incontrano nella nostra cultura sul piano della storia e di una storia dominata dalla legge del futuro, nel senso sopra detto, superano l'ambito della problematica ideologica propria di una filosofia trascendentale di tipo bultmaniano (teologia della soggettività trascendentale dell'uomo) o di tipo barthiano (teologia della soggettività trascendentale di Dio): 88 esse si collocano piuttosto sul terreno della « prassi storica » caratterizzata da una esperienza della realtà « nei conflitti » e « nel rischio » .89 Così nella prassi storica, afferma ]. Moltmann, l'uomo condotto dal pungolo della speranza, si trova a dover porre in questione se stesso in un perenne iconoclastismo contro tutte le proprie immagini che pretendono di consolidarlo e fissarlo definitivamente, assaporando non il senso ed il gusto dell'infinito ,quanto l'amarezza della crisi.90 Per la speranza, Dio opera come « critica dell'uomo » dissuadendolo dalle false idolatrie umane per aprirsi ad una autorealizzazione oltre la situazione presente di inumanità in cui si

87 88

89 90

J. J. J. J.

MoLTMANN, MOLTMANN,

MoLTMANN, MDLTMANN,

Antwort, 217. Theologie der Hoffnung, 47-55. Religion, 157. Mensch, Stuttgart 1971; ed. it. Brescia 1972, 175 s.

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trova; ma, in tal modo, la « crisi » e « l'offerta » di una realtà nuova, appartengono interamente ad un orizzonte di verità in cui all'interrogativo storico dell'uomo risponde la «venuta storica >~ di Dio. Così J. Moltmann opta non per la totalità della storia, ma per «l'avvenire», non per una teologia sotto il segno del Logos, ma della prassi, aprendo il campo al giuoco della storia. Nell'ambito della riflessione teologica cattolica, oltre a Teilhard de Chardin, K. Rahner ha tentato di integrare il senso dell'uomo come apertura trascendentale al mistero di Dio, nel quadro di un orizzonte storico, cercando così di superare il rischio di una permanenza della sua riflessione nell'ambito della soggettività trascendentale dell'uomo.91 L'uomo, infatti, è per K. Rahner l'essere in cui la tendenza fondamentale della materia a ritrovare se stessa nello spirito, perviene, mediante l'autotrascendimento, alla fioritura, così che l'essenza dell'uomo può venire considerata come inclusa nella struttura fondamentale e complessiva del mondo in cambiamento. Il divenire cosmico egli dice, è un divenire come « incremento » raggiunto per via attiva {autotrascendimento) verso una maggiore pienezza d'essere. Preso sul serio, questo divenire del mondo, espresso in forma di trascendenza attiva, non può essere compreso che « come avvenimento che si opera in forza della assoluta pienezza dell'essere». È così che « l'autotrascendenza » può compiersi in qualcosa di entitativamente superiore, nuovo, attraverso non un processo semplicemente «estatico», ma anche «creativo». Se nella storia si verifica questo movimento di crescita della realtà, e ciò, egli dice, è un fatto constatabile, allora l'uomo nel segno costante del processo evolutivo della storia verso il totalmente nuovo, scopre non solo le proprie speranze, ma anche la «risposta reale», « concreta », alle sue attese, la verifica del loro carattere sensato che consente di sperare in un significato ed adempimento definitivo. È quanto dire che la storia consente all'uomo non solo di coltivare la speranza della salvezza, come possibile dono di Dio, ma testimonia all'uomo che la salvezza di Dio, realmente viene, e che la storia come l'uomo, ha _un senso universalmente positivo.

91 K. RAHNER, Christologie. im Rahmen des modernen Selbst-und Weltverstiindnis, in « Schriften », IX, Einsiedéln 1970, 227-241; Io., Die Christologie innerhalb einer evolutiven · Weltanschauung·, « Schriften », V, Einsiedeln 1962, 183-222; K. RAHNER-P. OvERHAGE, Das Problem der Hominisation, Freib. 1961.

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La storia tende così, oggi, sempre più, a costituire l'orizzonte comprensivo più adeguato per porre la questione del « senso dell'uomo », della sua aspirazione verso una sua umanizzazione, che si apre nel cuore della sua condizione presente di inumanità, per cui la sua esistenza appare insieme come « dono e compito», «essere e sfida >~. Ma tale questione di senso, in un orizzonte storico, si traduce in definitiva nella questione del « futuro » del mondo. Ora, proprio la comprensione odierna della storia, nella prospettiva del futuro, mostra, come abbiamo visto, l'esigenza di concepìre il futuro come l'orizzonte in cui si proietta, da un lato, l'autotrascendimento umano, l'impegno costruttivo dell'uomo attraverso l'estrapolazione e dall'altro si apre, nella speranza, l'attesa di un avvenire, di un futuro « cbe viene» come dono, come realtà nuova che sfugge al potere umano di pianificazione e di deduzione. Il senso di Dio, si affaccia, così, come la fonte dell'avvenire dell'uomo che dà un significato ultimo al futuro stesso della storia. Il senso di Dio, quello che costituisce il necessario presupposto di un inizio del discorso cristologico nel suo momento di fondazione storica è dunque, nella comprensione odierna, l'idea di un « Dio che viene», il Dio del futuro inteso come avvenfre del mondo e dell'uomo. Siamo culturalmente in un orizzonte escatologico, vicino all'ambiente di Gesù, che ha consentito ai contemporanei di cogliere in lui, storicamente, la venuta di Dio nella storia, ma che supera, nella sua venuta, le possibilità e le stesse attese umane. Siamo di fronte ad una concezione dei rapporti tra Dio e l'uomo nell'ambito di una storia in cui si giuoca il destino dell'uomo ed in cui si compie l'avvento originale ed improgrammabile di un misterioso disegno divino. E necessario però precisare il senso stesso della storia.

4.

STORIA UNIVERSALE E STORIA DI SALVEZZA.

Nei tentativi considerati nel paragrafo precedente si nota una tendenza ad esprimere il significato dell'uomo nel contesto di una significazione totale della storia stessa, la quale è concepita come una totalità costretta nel sistema di un rigido evoluzionismo (Teilhard de Chardin) o come globalità aperta in avanti verso la realizzazione di un significato ultimo (W. Pannenberg). Ma una tale visione di un processo universale della storia in senso teleologico, oltre a suonare teologicamente sospetto, non trova neppure riscontro

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nella sfera dei dati realistici dei fenomeni umani. Circa la storia, come acutamente ha sottolineato P. Ricoeur ,92 ci si trova spesso dinanzi a due pregiudizi caratterizzati da due modelli-limite: il primo è il « modello di tipo hegeliano » (modello di identità) caratterizzato da una concezione della storia come sistema unitario in cui la sua realtà è assorbita nella razionalità ed attraverso la categoria della totalità tende ad evidenziare il « senso di questa storia come realtà universale». L'altro è il «modello pluralistico » per cui la storia universale appare solo come astrazione inesistente, mentre tutto si dissolve in una molteplicità di storie particolari, isolate e dispersive. Procedendo unilateralmente su questa linea si rischia di giungere all'affermazione del «non-senso » della storia. Per questo va spinta più a fondo la questione della realtà e della significazione della storia. I due modelli opposti tendono unilateralmente a sottolineare da un lato l'esistenza di senso onde non dissolvere la storia nella fattualità pura o nelle significazioni puramente parziali, mentre dall'altro lato l'esigenza di salvaguardare la fattualità della storia come realtà indeducibile ed irriducibile ad un logos razionale. 93 Per superare l'alternativa dei due modelli è necessario partire anzitutto da una posizione, non preconcetta, regolata da postulati (come quello dell'idea razionalistica-universale della storia), ma da una posizione realistica che eviti gli ottimismi troppo facili dei trionfi della storia e della posizione dominante delle gesta dei vincitori, dei successi umani: c'è, infatti, nella storia, un insieme di fatti non quadrabili in un sistema, c'è un insieme di rifiuti, che sono essi stessi storia.94 C'è del non-senso caratterizzato sia da quello che possiamo chiamare la « storia dei vinti », dominata dalle violenze, oppressioni, abuso di poteri, dominata da una spirale demoniaca di colpa per cui « la storia è non solo storia del progresso, ma anche storia della sofferenza, come una grande via dolorosa del-

92 P. RxcoEUR, Histoire et vérité, Paris 1955, 66·80; E. $CHILLEBEECKX, Il problema della «storia universale», in «Gesù», 651; W. KASPER, Linee fondamentali di una teologia della stoi·ia, in «Fede e storia», 62·96. . 93 Anche la visione di K. RAHNER nella sua pretesa di accostarsi alla storia universale attraverso il rapporto e la distinzione tra trascendentale intenzionale e categoriale storico, rischia di ridurre troppo la storia ad una comprensione categoriale della libertà trascendentale umana che condiziona sempre lo stesso divenire della storia ed in tal modo rischia di non superare le maglie della filosofia idealistica dell'identità (W. Kasper). 94 P. R1cOEUR, Histoire, 69.

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l'umanità )>.95 Essa costituisce la storia delle alienazioni derivanti sia dai limiti ontologici che costituiscono la finitezza strutturale dell'uomo, come la soggezione al fallimento dei suoi scopi, al dolore, alla morte e che compromettono tutte le utopie intra-storiche, sia dai limiti etici quali la colpa, il male morale, da cui derivano molte forme di oppressione dell'uomo sull'uomo. Tutto questo ci deve indurre ad assumere un atteggiamento pill cauto e realistico dinanzi alla storia: esso pone in questione l'idea di una storia universale dominata da una luce razionale, da una globalità di senso, per mostrarci come «la storia», in realtà, sia un «campo di ambiguità» che impone onestamente l'impossibilità di una sua razionalizzazione globale e di dover affermare che « il senso della storia è inaccessibile alla storia », che la domanda sul suo senso rimane razionalmente insolubile. Pur tuttavia, nonostante i limiti irrazionali, i rifiuti non quadrabili in un sistema ideologico, la storia umana non è irrazionalità pura, nè polverizzazione di processi puramente parziali. Se umanamente e storicamente non è possibile fare un discorso sul « senso globale della storia » è però possibile fare un discorso di senso e di valore che si compie « nella storia ».96 In realtà, la considerazione della sofferenza e della sconfitta, dell'oppressione dell'uomo attraverso l'uomo, determina pure, nella storia, l'esperienza di contrasto per cui queste realtà di male non possono essere l'ultima parola della storia senza una radicale caduta nel « non-senso » dello stesso essere umano e la distruzione di ogni sua significanza. La sofferenza dell'uomo derivante dalle sue alienazioni storiche e dai limiti creaturali 97 che Io coartano nei suoi slanci, ne compromettono le utopie, testimonia, nella stessa miseria, la grandezza dell'uomo. Non sarebbe infatti, possibile soffrire e « fare esperienza », di questa miseria, se l'uomo non avesse an-

95 W. KASPER, Linee fondamentali, 44; ]. B. METz, La storia della passione come storia dei vinti e l'ideologia emancipativa del progresso, in «La Fede, nella storia», 127-132. 96 P. RrcoEuR, Histoire et Vérité, 77. La questione del senso della storia è sollevata non solo dalla mente umana, ma dalla stessa «realtà» della storia. 97 Nella sua esperienza della finitezza l'uomo esperimenta di essere sempre al di sopra della realtà; di trascenderla, per la sua libertà, per la sua conoscenza, per cui egli si distanzia dal mondo, creando uno spazio per la sua libertà stessa, e pure è vincolato dalla realtà che lo circonda e Jo penetra nella « fattualità » vincolandolo nelle strutture di un mondo che lo sovrasta e condiziona. W. KASPER, Das Absolute in der Gescbicbte, Mainz 1965; Io., Gebeimnis Menscb, Mainz 1973; J. GEVAERT, Il problema dell'uomo, Torino 1973, 151 s.

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che una qualche esperienza della sua grandezza, di un positivo nel negativo, che gli consente di poter esperire la sua finitudine. Dei suoi insuccessi e dei suoi limiti l'uomo non solo soffre, ma protesta e lotta storicamente per il loro superamento. La storia è non solo « storia di passione », ma anche storia della « lotta per la liberazione» e promozione dell'uomo. Anche se questa lotta urta costantemente contro limiti ed insuccessi aggravando il gemito dell'uomo, « essa testimonia però, come esperienza di contrasto, un impulso implicito di felicità, un impulso alla salvezza o integrità, e come esperienza di ingiustizia suppone quanto meno una vaga coscienza di ciò che ... integrità umana dovrebbe significare positivamente. In altri termini, come esperienza di contrasti implica indirettamente una consapevolezza della vocazione positiva dell' humanum ed all'humanum » (W. Kasper). È così che la storia stessa della sofferenza umana possiede una forza conoscitiva critica che fa appello ad una prassi di apertura al futuro: le esperienze contrastanti del dolore consentono una presa di coscienza negativa e dialettica di un desiderio, di un senso futuro di libertà, di salvezza. Dinanzi alla storia umana non sono possibili né facili posizioni di ottimismo, né di totale negazione di senso. L'uomo che si dibatte in essa nei suoi limiti, nelle sue oppressioni, nei suoi stessi fallimenti, sperimenta insieme la dimensione di mistero, la ricerca di significato, il desiderio di trascendere la sua condizione e l'impossibilità di raggiungere la sua meta. Così l'uomo nella storia resta una questione aperta. E tuttavia, l'irrinunciabile speranza di un futuro migliore e nuovo, altrettanto tenace della ripetuta esperienza del fallimento, è un indice reale di una possibilità aperta di un futuro nuovo qualitativamente, non deducibile o estrapolabile dalle condizioni presenti di vita, al di là delle sue pianificazioni e pretese di dominio, non oggettivabile né enunciabile, ma solo rappresentabile nel modo e nell'atteggiamento della speranza. Il senso dell'uomo « nella storia » è legato quindi ad una esperienza della trascendenza di un mistero dinanzi al quale egli non può, per se stesso, che porsi in attesa, sperando nella sua possibile offerta, come dono, per via di gratuità, da cui dipende il suo essere salvo. La storia umana non è, per sé, portatrice di soluzioni: essa è il campo in cui senso e nonsenso, potenza ed impotenza, bene e male, speranza e delusioni si combattono con alterne vicende. In essa si rispecchia l'identità dell'uomo la sua profonda aspirazione di significato in mezzo alla incapacità di autorealizzarsi, la 'Sua sete di salvezza nella impossibilità

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di autosalvarsi. In tal senso, la storia universale è portatrice di una precomprensione del bisogno di salvezza dell'uomo, della sua apertura al mistero di Dio, come il Dio della storia, che in modo solo trascendente e libero può rispondere alla sua speranza. Ma la prospettiva di una storia universale come storia portatrice di dolori e di speranze, di non-significanze e di significati, non solo è importante come test rivelatore di una domanda umana di salvezza: essa è in grado, per «chi ha occhi per vedere», di testimoniare anche che le speranze dell'uomo non sono vane; che le sue attese sono accolte, che la realtà del tutto nuova « viene » nel mondo come offerta di grazia per salvare l'uomo. La storia umana, come storia dei popoli, aperta alla constatazione di tutti coloro che sono onestamente disposti ad una lettura oggettiva e non preconcetta della realtà, offre « dei segni » di tale salvezza che viene, segni di cui è pervaso il mondo delle stesse religioni e delle culture dell'umanità.98 Tali segni, però, trovano più adeguato riscontro nella storia di Israele adempiuta nell'avvento di Gesù di Nazaret. È la storia particolàre di salvezza che non costituisce tanto una storia parallela « alla storia », ma una serie di indici concreti, di fatti « storicamente osservabili » {e non discernibili solo dalla fede teologica) che indicano all'uomo i segni reali di una risposta concreta di Dio, di una sua venuta nell'unica storia. La storia di Israele può essere considerata, nelle grandiose gesta di Dio, quella particolare storia di salvezza, portatrice del dono di Dio, che risponde alle speranze universali dei popoli. In particolar modo, questa storia di salvezza possiede un rapporto preferenziale con i vinti, gli oppressi, coloro che possono essere denominati «i rifiuti della storia». Il Dio che viene a favore dell'uomo è il Dio difensore dei loro diritti, il Dio che presta attenzione alle sofferenze umane, per contestarle e portare alla vera libertà gli oppressi. È cosl che Egli appare veramente il Signore della storia, Colui che viene non solo come il garante dei valori positivi delle conquiste umane, passando sopra i cadaveri dei poveri dimenticando la sofferenza dei vinti e degli umiliati. Al contrario, i segni storici della venuta di Dio nel mondo sono segni che

98 Negli attuali movimenti verso l'emancipazione dei poveri, verso la difesa dei diritti dell'uomo, si possono ravvisare degli indici non solo di una aspirazione di salvezza, ma anche di un concreto cammino della storia verso la pace e la libertà. Quindi di una certa risposta agli interrogativi dell'uomo.

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alimentano concretamente le speranze umane proprio perchè sono segni di una storia di salvezza in cui il Dio che viene è Colui che sta dalla parte degli indifesi, dei piccoli, di coloro che umanamente non contano e porta costoro all'autentica libertà, facendo di essi i testimoni di una speranza per il mondo. È così che si può cogliere il profondo rapporto tra la storia umana universale e la storia di salvezza: mentre la prospettiva umana della storia, come storia universale, non può essere ricondotta, come abbiamo detto, ad un sistema unitario, essendo portatrice di luci e di ombre, speranze e delusioni, « regno dell'inesatto », dell'incalcolabile, essa lascia però trasparire nel suo regno dei segni di salvezza, che compongono il ristretto segmento della « storia sacra >>, storia nella quale i giudei ed i cristiani hanno ravvisato un intervento sovrano di Dio. La storia di salvezza non è una storia a lato della storia, ma si devolve « nella storia », ed in questo senso essa le appartiene. 99 Essa nella sua « struttura particolare » appare come una storia costituita da eventi successivi nel tempo, ma discontinui, come pilastri isolati: la Scrittura ci presenta una storia che procede a sbalzi, che salta dei periodi interi, fa selezione di fatti, li accosta tra loro, stabilendo un legame. Quale la legge di un tale accostamento? Giustamente, osserva O. Cullmann, un tale accostamento non deriva da un sistema filosofico interpretativo della realtà, ma dai fatti stessi e dalla loro lettura profetica: 100 « tutta la storia biblica di salvezza riposa su di una condizione tacita, quella che la scelta degli eventi è stata fatta da Dio e che il loro accostamento risale al suo piano ». 101 La lettura profetica svela questo loro misterioso legame col piano divino. 102 La «storia di salvezza», dunque,

99 O. CULLMANN, Le salut, 154; A. DARLAP, Geschichtlichkeit, LThK IV, 1960, 780-783; ID, Ciò che hanno in comune i concetti di storia della salvezza e di storia, in «Il concetto di storia di salvezza», MySa, I, Brescia 1967, 78 s.; W. KAsPER, Linee fondamentali, 62 s. 100 Egli però spinge ad oltranza questo principio rifiutando categoricamente ogni principio esplicativo trascendentale che metta in opera una qualsiasi precomprensione umana. Se la fede implica, cosa che non nega O. Cullmann, una nuova comprensione dell'esistenza, ciò non è che una conseguenza e non una premessa che finirebbe col fare dipendere l'interpretazione dall'ordine filosofico. Vedi O. CuLLMANN, Christ et le temps, 123. 101 O. CuLLMANN, Le salut, 154. 102 Anche il principio di lettura profetica è sostenuto da O. Cullmann cosl radicalmente da non consentire quasi più uno storico discernimento dei fatti salvifici come tali, per cui giunge ad affermare che dal punto di vista della storia universale «profana », la storia biblica (che è la storia della rivelazione divina) non

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si colloca all'interno dell'unica storia umana universale, come una « storia particolare » costituita dalla elezione di Israele, dalle vicende di liberazione di questo popolo, dalle sue attese escatologiche dell'avvento del Regno di Dio 6.no all'adempimento della speranza nella venuta di Gesù di Nazaret, nella sua vita, morte e resurrezione, nella costituzione e nelle vicende del nuovo popolo di Dio radunato da Cristo e dalla potenza del suo Spirito. Tale storia è come una piccola traccia, un segmento, nella grande storia delle vicende umane. Quale l'importanza di questa presenza della storia di salvezza per la storia universale? Quale la sua effettiva discernibilità e verifìcabilità? Per ciò che concerne la prima questione, possiamo affermare che la ragione della particolarità della storia della salvezza, come storia di un popolo singolare nel quadro di una pluralità umana di popoli, presenta una «portata teologica»: la storia particolare di salvezza, infatti, manifesta nell'ambito delle vicende umane la libera iniziativa divina, il libero ed insindacabile modo di intervenire di Dio, la sua sovranità sul tempo per cui non è condizionato dalla stessa storia dell'umanità, dalle sue vicende di passione o cli successo, dalle attese e dalle proiezioni del cammino dell'evoluzione. Nell'ambito della comunità umana, Dio sceglie un popolo tra i meno prestanti, tra i più poveri e ne fa un partner della sua alleanza, manifestando la sua iniziativa assoluta per cui Egli crea, con questo popolo, un movimento liberatorio di salvezza. L'emergenza della iniziativa divina può essere chiamata principio di elezione o principio di concentrazione nel senso che nell'ambito di una molteplicità Dio sceglie alcuni, tra questi un resto di pochi, fino a giungere ad uno solo, l'unico. Attraverso questa « elezione», Dio usa interamente la sua libertà non solo nella scelta di uno tra i molti, ma anche nella composizione della trama o della struttura di questa storia, della vicenda della sua serie dei fatti che non sono legati tra loro tanto dalla mediazione stessa della storia umana universale, quanto dal segreto proposito divino elettivo che ne regola la successione ed il rapporto reciproco. Così la « storia particolare di salvezza » è condotta da un principio strettamente teologisignifica niente e rappresenta tutt'al più un curioso ammasso di fatti diversi e di avvenimenti di importanza locale. Mentre, al contrario, questa storia biblica stessa avanza la pretesa di essere da un lato, una parte della storia universale, e dall'altro, la norma stessa che dà senso alla storia universale. ID., La necessité et la fonction de l'exégèse philologique et historique de la Bible, in VC 3 (1949), 3 ss.

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co anche se nell'ordine dei fatti è pur intimamente legata alle vicende umane generali. 103 Secondo O. Cullmann la « riduzione» della storia umana ad un solo popolo e ad un resto, sarebbe la risposta di Dio al peccato dell'uomo,104 ma forse, sempre consi-derando le contingenze derivanti dalla infedeltà umana, possiamo meglio dire che la « particolarizzazione » della storia salvifica nella storia singolare di Israele, proprio in quanto trae motivazione dal principio sovrano della elezione divina, ha il compito piuttosto di « rappresentare storicamente l'esclusività e la sovranità delle esigenze dell'unico Dio, che dà la sua grazia in assoluta libertà a chi vuole e, fra tutti i popoli dell'umanità peccatrice e di per sé perduta, sceglie a socio del patto chi vuole ».105 Nel principio di elezione, dunque, si trova la ragione formale teologica della particolarità della storia di salvezza come storia distinta, ma non separabile, dalla storia del mondo. Se si restasse però solo a questa prospettiva, si potrebbe cadere in un estrinsecismo storicistico che sradicherebbe la speranza che domina la storia sacra dal cuore della storia universale, cadendo in una visione settaristica della stessa storia salvifica. Il rapporto tra « storia particolare di salvezza » e « storia umana universale » è, da una parte, quello di una storia della «venuta di Dio» con la quale egli, liberamente, viene incontro alla domanda di salvezza dell'uomo travagliato nella vicenda drammatica di una esistenza fatta di delusioni e di speranze. Sotto questo aspetto, la storia umana come « storia di passione » è come una precomprensione, nell'ordine della prassi storica, del senso della salvezza realizzata nella storia sacra. Ma d'altra parte la storia particolare di salvezza diviene a sua volta un nuovo principio di lettura della storia umana universale in quanto essa è portatrice degli interventi divini rivolti all'universalità. Qui appare l'importanza, dopo il principio della « elezione-concentrazione », del principio di « rappresentanza » per cui Dio se elegge un popolo particolare tra la molteplicità dei popoli umani, lo fa in vista lOJ Sul principio di elezione o di concentrazione vedi O. CuLLMANN, Christ, 81; In., Le salut, 154-161; In., Vrai et faux oecuménisme, 47. Anche qui bisogna guardarsi dalla riduzione cullmaniana della storia umana a « intermezzo provvisorio » per cui essa non sembra possedere un suo « valore proprio », ma solo qualcosa di «non-suo », di « non-profano»; cosi la Weltgeschichte è assorbita dalla Heilsgeschichte. Vedi L. BINI, L'intervento di O. Cullmann nella discussione bultmaniana, Roma 1961, 266. 104 O. CuLMANN, Le salut, 161. 105 J. FEINER, Kirche und Heilsgeschichte, in « Gott in Welt », II, Freib. Br 1964; ed. it. Roma 1967, 384.

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di tutti. 106 Il motivo dell'elezione non esprime solo la libera sovranità di Dio, ma anche l'illimitatezza del suo amore che ha come intento la salvezza di tutti. Se Dio sceglie una minoranza, lo fa per una maggioranza: Egli si pronuncia a favore di un popolo, di un resto, di un singolo, per salvare l'umanità intera. Così ogni elezione è in rapporto agli altri. L'integrazione tra storia particolare cli salvezza e storia universale dell'umanità va quindi regolata conformemente al duplice principio enunciato: «elezione» e « rappresentanza ». Trascurare il secondo vorrebbe dire cadere in un settarismo giudaizzante estraneo allo spirito della Bibbia, ma trascurare il primo vorrebbe dire cadere in un sincretismo altrettanto deleterio. 107 Nella sua prospettiva universalistica, la storia particolare di salvezza di Israele, espressa, come vedremo, nella speranza dell'avvento del Regno di Dio, assolve un ruolo interpretativo sul piano globale della storia umana la quale può, da questo punto di vista, essere colta nella sua stessa universalità, come storia di salvezza. Se infatti la storia umana, considerata in se stessa, può difficilmente uscire dall'ambiguità per cui essa è questione aperta a molti possibili sbocchi, la storia particolare di salvezza può costituire, nel suo ruolo di rappresentanza universale, quel criterio di lettura che consente di cogliere, in chiave salvifica, tutta la storia umana. Gli eventi che Dio ha compiuto « nella storia» e che costituiscono la « particolare storia salvifica » sono una risposta, libera e trascendente, ma sul piano dell'unica storia, da parte di Dio, alle attese che in essa si manifestano. Letti alla luce della storia salvifica particolare, gli ideali verso cui si proietta la storia dei popoli (libertà, pace, giustizia, diritti della persona ... ) non appaiono estranei alla storia di salvezza di Dio, ma appaiono parte integrante del suo disegno universale di amore. È così che «Dio non fa distinzione di persone» (At. 10, 34), ma vuole la salvezza di tutti, per cui « ogni uomo che lo teme ed opera la giustizia è a lui accetto » (ivi), appartiene quindi al piano salvifico di Dio. Ma la funzione della storia particolare di salvezza realizzata in Israele, attraverso le speranze del Regno, non si limita al solo aspet-

106 O. CuLLMANN, Christ, 81; Io., Le salut, 155; J. R.ATZ!NGER, Stellvertretung, in HTG II, Miinchen 1963, 566-575; J. FE!NER, op. cit., 380. 107 Interessante l'applicazione del duplice principio fatta da O. CuJ.LMANN ai decreti del Cane. Vaticano II, in « Vrai et faux oecuménisme », Neuchatel-Paris. 1971.

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to « interpretativo » nei confronti della storia universale: essa possiede un carattere concreto di testimonianza, di garanzia di presenza ed efficacia, nel mondo e per tutti gli uomini, dell'opera salvifica di Dio, per cui si può concretamente sperare che il cammino della storia verso un esito positivo, non solo rientra nei piani dì Dio, ma è anche perseguito dagli interventi di Dio stesso. La storia particolare di salvezza ,storia aperta alla speranza di un futuro tutto nuovo, costituisce la ragione di speranza per tutta l'umanità. In realtà ogni speranza, nel mondo, deve fare i conti con la miseria dell'uomo: è solo attraverso l'assunzione della sofferenza, di ciò che razionalmente costituisce il non-senso della storia, che la speranza sarà una autentica speranza per il mondo. È cosl che «la più piccola traccia di sofferenza senza senso nel mondo sperimentabile, smentisce tutta l'ontologia affermativa e tutte le menzogne delle teleologie e le smaschera come mitologia della modernità » .108 I negativi della storia sono infatti suoi momenti intrinseci; ora, appunto, l'avvento del Regno di Dio nel mondo, proprio considerando questo mondo come luogo storico della libertà, è una speranza che non solo annunzia l'avvento degli ideali di giustizia e di pace sottolineando l'aspetto teleologico del trionfo positivo della storia: essa è anche speranza per i vinti per cui viene dato un senso alle loro sofferenze ed alle loro sconfitte. L'avvento del Regno di Dio non emargina le speranze dei poveri, come nelle concezioni ideologiche di una lettura della storia fatta dal punto di vista trionfalistico, ma al contrario, fa di essi i veri portatori della speranza. Così dal « resto » dei poveri di Jahvè al Servo escatologico, la sofferenza dell'umanità non è solo il prezzo pagato per il progresso verso i suoi ideali (il sottoprodotto dell'evoluzione), ma al contrario, diviene la forza stessa portatrice della speranza umana, la forza critica e trasformatrice della storia. Data l'importanza che la storia particolare di salvezza di Israele, culminante nella speranza del Regno, possiede nei confronti della storia umana universale, ci chiediamo se tale storia abbia un carattere discernibile a livello di verifica storica. Con ciò non chiediamo soltanto se « i fatti » che compongono la storia salvifica siano discernibili storicamente nella loro sostanza di avvenimenti reali umani, ma se essi siano discernibili storicamente nella loro qualità di fatti

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MoLTMANN, Teologia della speranza, 15.

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salvifici derivanti dall'interpretazione della parola esplicativa.109 Secondo O. Cullmann la storia di salvezza, in quanto storia interpretata che trae da se stessa i propri criteri di lettura, escludendo ogni precomprensione naturale dell'uomo, non può essere colta, come tale, da parte di un osservatore puramente profano: il suo disegno che si evolve nel tempo e l'immagine che essa dà degli eventi (interpretazione) dipende, infatti, dall'atto di rivelazione di Dio stesso, in quanto azione salutare, integrata nella storia. 110 Da questa prospettiva consegue che, se gli eventi particolari della storia salvifica, in quanto eventi della storia di un popolo legato a quella di altri popoli della stessa area culturale erano eventi discernibili, dal punto di vista della lettura universale profana della storia, tali fatti apparivano un curioso ammasso di avvenimenti diversi di importanza puramente locale. Per questo essi passavano inosservati, insignificanti agli occhi di coloro che a quell'epoca facevano storia. Essi erano avvenimenti di cui nel nostro tempo si direbbe: «non hanno avuto l'onore della prima pagina », ma appartengono alla rubrica delle « piccole notizie ». m Così la verificabilità storica della storia salvifica, in quanto tale, è esclusa da O. Cullmann. 112 Ma in questo modo, spingendo ad oltranza il soprannaturalismo della storia sacra, eliminando ogni sua possibile cognizione naturale, non si finisce in un dualismo delle due storie? :B vero che i fatti salvifici, in quanto regolati e determinati da un positivo intervento di Dio, secondo il suo imperscrutabile piano, non possono essere verificati in un modo puramente umano, è pur vero, però, che gli stessi eventi salvifici, nella loro storicità di fatti umani, hanno anche un valore di « segno » dell'intervento trascendente di Dio nella storia e proprio in questa loro « struttura semiologica » possono essere « storicamente discernibili » da tutti coloro che possiedono nella loro indagine storica una precomprensione religiosa del mondo per cui sono aperti all'accettazione di un possibile intervento di Dio nella storia. Solo così è possibile superare il dualismo tra la concezione di una storia di salvezza reale, ma del tutto invisibile, inaccessibile come tale

A. DARLAP' 1. cit., 83-87. O. CULLMANN, Le salut, 153-157. m I vi, 157. 109

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112 Con ciò, ripetiamo, egli non nega la verificabilità dei fatti storici salvifici nella loro sostanza di fatti umani concatenati con le altre vicende.

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se non alla sola fede e la concezione di una storia umana profana ed universale in cui in nessun modo si affacci la realtà del trascendente. L'intervento rivelatore di Dio nella storia, in quanto, per lo stesso p1'incipio di elezione è diretto all'umanità intera, deve essere « discernibile » e « credibile » a chiunque ha occhi per vedere. 113 È solo attraverso questi « segni di salvezza » offerti alla conoscenza di tutti che ogni uomo, onesto ed attento osservatore della storia, può rilevare che le speranze umane di giustizia, di pace e di libertà non sono semplici utopie immaginarie, ma speranze reali che trovano la loro garanzia di realizzazione oltre ogni umana possibilità nell'intervento sov·rano di Dio nella storia. 114 È allora proprio mediante questa discernibìlità umana che la storia particolare di salvezza può costituire, per il mondo, quel segno concreto che consente una speranza di portata universale.

CONCLUSIONE.

Una precomprensione religiosa dell'uomo e del mondo è una condizione necessaria per un approccio al volto storico di Gesù. Senza una tale precomprensione religiosa consistente nell'apertura dell'uomo al senso della Trascendenza divina ed alla sua presenza operante nella storia, non sarebbe possibile cogliere storicamente la singolarità della figura di Gesù di Nazaret, il suo singolare ed unico rapporto con Dio, che lo caratterizza. Allora sarebbero compromessi in partenza i risultati della ricerca. Bisogna abbandonare ormai il criterio positivistico della imparzialità e presunta neutralità dello storico dinanzi ai fenomeni storici. 115 Un simile criterio di neutralità applicato alla realtà di Gesù di Nazaret implicherebbe, con l'atteg-

ll3 W. PANNENBERG, Hermeneutik und Universa/geschichte, 116; fo., 0/fenbarimg als Geschichte, Giittingen 1961, 98 s.; 112 s. 114 La presenza di Dio nella storia, infatti, per quanto presenza trascendente è però, nella presente economia salvifica, anche una presenza immanente: «se Dio fosse realmente l'assolutamente Altro, senza immanenza riconoscibile nel nostro mondo, il modo migliore di venerarlo sarebbe il silenzio. D'altro lato, senza questa presenza riconoscibile all'interno del mondo, non sarebbe esprimibile nemmeno nel linguaggio di fede una storia divina di salvezza. Ne consegue che ' nella stessa storia ' devono esserci tracce che rendono possibile e lecito parlare fonda· tamente il linguaggio di fede dell'azione salvifica di Dio nella storia » E. SCHILLEBEECKX, Gesù, la storia, 666-67. 115 Vedi su questa affermazione quanto già detto sopra: p. 60.

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giamento agnostico nei confronti di Dio, l'incapacità di cogliere proprio ciò che caratterizza la singolarità di questa figura storica. La situazione culturale dell'uomo odierno, per quanto comporti in sé delle pesanti ipoteche razionalistiche e positivistiche che minacciano di stravolgere il senso religioso dell'uomo una volta che esse siano accettate acriticamente, non appare però del tutto negativa. La ricerca ansiosa da parte dell'uomo del significato della sua vita, la sua apertura alla storia del mondo, ad un senso della storia proiettata verso il futuro, alla ricerca di una risposta alle proprie attese e speranze, costituisce una situazione spirituale degna di attenzione. Essa infatti è aperta alla speranza di una salvezza « nella storia » per l'intervento di Dio, per cui al movimento dell'uomo alla ricerca di Dio viene a corrispondere la venuta di Dio alla ricerca dell'uomo, venuta che suscita nel mondo i « segni » visibili di questo suo avvento, dei suoi nascosti e gratuiti disegni, ispirati dal suo singolare ed universale amore.

5.

lL Dro

DELLA RIVELAZIONE BIBLICA.

La precomprensione religiosa di Dio e della sua presenza operante nel mondo che presuppone la cristologia nel suo stesso momento di ricerca storica è quella che trova riscontro nella rivelazione biblica veterotestamentaria. Rimandando a studi specifici sulla concezione veterotestamentaria di Dio per una adeguata esposizione del tema, 116 noi ci limitiamo qui ad alcuni aspetti di questa sua figura che preludono alla novità della rivelazione cristiana. Nell'area

116 Per l'approfondimento dell'idea veterotestamentaria di Dio: A. ALT, Der Gott der Viiter, in « Kleine Schriften », I, Mi.inchen 1953; H. CAZELLES, Le Dieu d11 Yahviste et de l'Elohiste ou le Dieu du Patriarche et de Mo/se et de David avant les prophètes, in «La notion biblique de Dieu. Le Dieu de la Bible et le Dieu des philosophes » (par ]. CoPPENS), Gembloux 1976, J. CoPPENS, La notion vétérotestamentaire de Dieu. Position du problème, in «La notion biblique », 63-76; a cura dello stesso: La notion biblique de Dieu, Gembloux 1976; A. DEISSLEK, Il Dio dell'Antico Testamento, in «Saggi sul problema di Dio» (a cura di ]. RATZINGER, Freib. Brescia 1975, 51-68; J. PLASTARAS, The God of Exodus, New York 1975; G. VON RAo, La révélation du nom de Yahvè, in « Théologie de l'Ancien Testarnent », I, Genève 1967, 159-165; W. ZrMMERLI, Gott in der Verki.indigung der Propheten, in «La notion biblique », 127-143. Vedi su questo paragrafo il nostro esposto: «Il Dio della rivelazione biblica», in « Diz. di Teologia fondamentale» (a cura di P. RUGGIERI), Torino (Marietti), di prossima edizione.

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1.39

dei popoli nomadi, con i quali nei suoi inizi appare culturalmente congiunto, il senso religioso di Israele lo differenzia anzitutto da quello delle nazioni agricole che venerano un Dio vincolato ai luoghi, ad un orizzonte cosmologico, soggetto al ciclo delle stagioni: « il nomade non vive nel ciclo della semina e del raccolto, ma nel mondo della migrazione ». 117 Cosl il Dio dei nomadi è trasmigrante, non legato alla terra, ma alla tribù stessa: è il Dio che viaggia con loro ed è in un certo modo lui stesso in cammino. Questa prospettiva culturale ci mostra quanto l'esperienza •religiosa di un popolo, che vive in una esistenza protesa nella distensione del tempo, sia legata essenzialmente ad un orizzonte storico: Dio diviene Colui che conduce e determina la storia del popolo stesso. Ma la figura di Dio in Israele, mentre sotto certi aspetti lo assosia al senso religioso dei popoli nomadi, dall'altro lo differemia profondamente dalla loro area culturale. La rivelazione jahvista porta sempre più Israele a sottolineare l'esigenza di lasciare che Dio sia Dio, Colui che non si può comprendere e di cui non si può disporre. Sta qui l'importante affermazione della assoluta unità e trascendenza di Dio, la sua alterità e libertà rispetto all'uomo ed al suo mondo, il Deus semper maior e semper alter. La prima e fondamentale qualità della concezione veterotestamentaria di Dio è infatti proprio il « monoteismo », affermato agli inizi non in modo dogmatico e formale, guanto in maniera vissuta: così all'epoca dei patriarchi,u8 lo stretto legame di Dio con la loro stirpe sèminomade, loro difensore e protettore, lo porta ad essere sentito e venerato « praticamente » come l'unico. È attraverso uno sviluppo di questo rapporto unico tra Israele ed il suo Dio che scaturisce sempre più l'idea di un monoteismo assoluto. Decisivo è a tale proposito l'apporto della rivelazione profetica la quale in diversi modi è giunta alle affermazioni teoretiche e dogmatiche del monoteismo assoluto con l'affermazione che «solo Jahvè è Dio» (1 Re 18, 39) sovrano di tutti gli imperi della terra e delle loro rispettive divinità (Is 2, 8.18; 10, 10; 19, 3) e« non c'è Dio

117 V. MAAG, « Malkut Jhwh », in « Congress Volume Oxford 1959 », VII, Leyde 1960, 137; Th. C. VRIEZEN, The Religion of Ancien Israel, London 1967; R. DE VAux, Histoire ancienne d'Israel. Des origines à l'installation en Canaan, in « Études bibliques », Paris 1971. 118 D. ALT, Der Gott, 1-78; H. CAZELLES, Der Gott der Patriarchen, in BiLb 2 (1961), 29-49.

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J

fuori di me, Dio giusto e salvatore non c'è fuori di me» (Is 43, 11;

45, 22). Per comprendere il valore di « novità » di questo monoteismo jahvista bisogna considerare che esso non va ridotto ad un fatto numerico o quantitativo che come tale trova un certo riscontro anche in altre religioni, come nel culto egiziano del dio sole. 119 La differenza profonda sta nel fatto che il monoteismo pagano è sempre fondamentalmente idolatrico in quanto si rivolge ad un dio così immanente nel mondo da identificarsi con una grandezza del mondo stesso (un pezzo di mondo prolungato: D. Bonhoeffer). La radice della affermazione monoteistica della fede d'Israele sta invece proprio nella assoluta e sovrana trascendenza di Dio rispetto al mondo, che viene sempre sdivinizzato. Ma questa trascendenza assoluta di Dio non si traduce mai in assenza ed estraneità: anzi, proprio la trascendenza assoluta consente la sua presenza operante nel mondo pur lasciandolo nella sua propria mondanità. Fin dall'era dei patriarchi Dio appare come Colui che cammina con loro, si rende presente nei luoghi e nelle tappe del loro cammino, per cui i santuari di Bethel, di Hebron, di Bersabea non sono luoghi di sosta, ma luoghi di apparizione del Dio dei Padri. Egli però non è soggetto ai luoghi ed ai tempi. :i:: il Dio che dispone della terra di Canaan e la dà al suo popolo. Tutta la potenza dello spazio terrestre è a Lui soggetta; la stessa abitazione di Sion all'epoca di David non è una regionalizzazione e localizzazione di Dio, come viene affermato nella celebre visione di Isaia (63; cf. 1 Re 8, 27). Jahvè è il Signore degli spazi e del tempo, proprio perché non contenibile cosmologicamente da nessuna grandezza del mondo. Particolarmente ciò emerge a proposito del tempo, dimensione così importante nella esperienza culturale dei popoli nomadi. Israele fin dagli inizi prende le distanze da ogni temporalizzazione di Dio: « Tu sei di eternità in eternità » (Sal 8 9, 2), al cui cospetto « mille anni sono come il giorno di ieri quando se ne è andato » (Sai 89, 4). Ora, per la fede jahvista questa assolutezza divina, questa trascendenza, per cui Dio è Dio al di là di ogni possibile comprensione, al di -là dell'immensità degli spazi, dei cieli, del tempo, trova la sua radice ultima nel suo essere « il Vivente »: « dal momento che Jahvè appare, egli è un Dio maggiore di cui si può affermare

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H.

GREESSMANN,

Altorientalische Texte zum AT, Berlin 1926.

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l'eternità (Sal 89, 2; 138, 16), ma la nozione di eternità è secondaria rispetto a quella di vita; non è perché egli è eterno che è il vivente. L'israelita ha sentito Dio come forza attiva prima di porlo come principio eterno ... come la vita è una realtà misteriosa che non si può che constatare, Dio è una forza che s'impone all'uo· mo e non viene meno al suo incontro senza che questi vi sia sempre preparato ». 120 Per questo l'affermazione della trascendenza di Dio è quella della sua trascendenza come vita: Israele giura per il «Dio Vivo» (1 Sam. 14, 45; 2 Sam. 2, 27) e Jahvè giura per la sua vita (Num 14, 21.28; Dt 32, 40; Ger 46, 18). Questo mistero assoluto di vita non è qualcosa di neutro, un Es, come nelle religioni orientali, un « vuoto », un « nulla assoluto », bensl un essere personale che è in se stesso, che si autopossiede e si esprime come Io assoluto. Spesso gli oracoli contengono questa affermazione enfatica: « Io, Io sl! » o «sono Io» (ani hu), come nel Deuteroisaia. 121 Tale affermazione monoteistica è affermazione di forte ed assoluta personalità, della sua indipendenza rispetto al mondo ed al tempo, di potere illimitato di disporre di sè, di libertà sovrana, mistero di vita che si esprime anche in volontà salvifica per l'uomo. Così nella rivelazione dell'Esodo (3, 14) Dio rivela se stesso come mistero di presenza viva ed operante a vantaggio del suo popolo. Considerando che nelle concezioni ebraiche l'esistenza è un fatto collettivo (essere con gli altri) ed efficace (essere in azione), l'affermazione dell'essere di Dio è un essere là in maniera concreta ed evidente, è un essere come realizzazione ed accadere: « Io sarò là con voi con la mia potenza» o con le parole di Isaia: « allora il mio popolo conoscerà il mio nome e comprenderà in quel giorno che ' sono Io ' che dico: 'eccomi qua'» (Is 52, 6). Nel contesto generale dell'Esodo in cui il Dio dei Padri viene ad identificarsi con il liberatore di Israele (Es 3, 15; 20, 2; Dt 5, 6) si può dire che il nome di Jahvè unisce la assoluta trascendenza di Dio con la sua presenza storica operativa: è un nome di alleanza per cui Dio, in maniera assolutamente libera e personale, rivolge il suo sguardo agli uomini stabilendo con loro un rapporto personale di amicizia. Nel nome di Jahvè, Israele incontra di continuo il Dio dell'elezione e dell'alleanza: « Io sono Jahvè, tuo Dio, che ti ho tratto fuori dall'Egitto, dalla casa di schiavitù » (Es 20, 2; Dt 5, 6). 120 E. ]ACOB, Théologie de l'Ancien Testament, Neuchatel 1968, 29. rn Per la documentazione rimandiamo al secondo volume c. V.

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La teologia profetica approfondisce il senso del nome di Jahvè, come Dio Salvatore, testimoniando il suo amoroso volgersi verso il suo popolo. Mentre in genere nei tempi antichi l'esperienza di Dio da parte di Israele, espressa nel quadro della alleanza, non ricorreva al vocabolario dell'amore per descrivere la condotta di Dio verso il suo popolo,1 22 i profeti ed il Deuteronomio esprimono il rapporto di alleanza in termini di amore. Con questo linguaggio essi reagiscono contro ogni sua materializzazione e commercializzazione, ogni sua riduzione a contratto. Il vocabolario dell'amore di Dio sottolinea la sua «iniziativa gratuita» assoluta: esso si esprime talora con gli accenti dell'amore coniugale (Os 2, 21; Ger 2, 2; 3, 7; Ez 16; Is 50, l; 54, 5), talora con l'accento dell'amore paterno (Os 11, 1-4; Is 1, 2; 63, 16; 64, 7; Ger 3, 14, 22; 31, 20; Dt 14, 1; 32, 5) talora con quello dell'amore materno (Os 11, 3s; Is 49, 15; 66, 13; Ger 31, 20). 123 In questa rivelazione dell'amore come anima dell'alleanza culmina quella visione di Dio che pur rivelando la sua assoluta trascendenza rispetto al mondo ed alla storia si manifesta però nello stesso tempo intimamente « presente » e sollecita nella sua cura pastorale «verso» il suo popolo (Ez 34; Mi 4, 6; Sof 3, 19; Ger 31, 9). Il lasciare che Dio sia Dio, nella visione monoteistica, non vuol dire avventurarsi in una realtà della storia senza di Lui, ma collocarsi nel vero atteggiamento di fede che è capace di accogliere la sua venuta nel tempo. Questa appare nel linguaggio profetico come una presenza « patetica » di Dio, un suo agire passionale nella storia: 124 mentre rl Dio dei filosofi « è come l'anankè greca, sconosciuto ed indifferente all'uomo; pensa ma non parla; è consapevole di se stesso, ma dimentico del mondo; il Dio di Israele è al contrario un Dio che ama, un Dio conosciuto dal-

122 Il ricorso preferenziale era riservato ai termini di « bontà » (hésed), fedeltà (émeth) e giustizia (sedaqah): W. E!CHRODT, Theologie des AJten Testaments, I, (Gott und Volk), Leipzig 1933, 120-121. 123 Da notare come il verbo «aver pietà» (radice rhm) evoca il seno materno e l'attitudine della madre nei confronti del suo bambino bisognoso di tutto; per quanto riguarda Osea che nel vocabolario dell'amore sembra preludere la teologia giovannea: Ch. HAURET, Amos et Osée, Paris 1970, 16.5-167; J. F. CRAGHAN, Le Livre d'Osée et la recherche récente, BTB 1 (1971) 87-103. 124 A. HESCHEL, The Prophets, New York; ed. it. Roma 1981, 9 (la teologia del pathos); In., Dieu en quete de l'homme. Philosophie du Judaisme, Paris 1968; A. GESCHÈ, Le Dieu de la Bible et la théologie spéculative, in «Le Dieu de la Bible », 401-430.

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l'uomo, che si occupa di lui. Egli non solo governa il mondo con la maestà del suo potere e della sua sapienza, intimamente reagisce agli eventi della storia. Egli non giudica le azioni degli uomini con imparzialità e distacco; il suo giudizio è pervaso dall'atteggiamento di colui al quale quelle azioni stanno intimamente a cuore. Dio non se ne sta fuori dal raggio della sofferenza e del dolore umano ». 125 Dinanzi a questo Dio che nella sua trascendenza si rende cosl immanente da lasciarsi personalmente coinvolgere nella storia, in una appassionata ed « eterna premura per l'uomo» (A. Heschel) ci si rende conto come Colui che è il remoto, l'inafferrabile, l'ineffabile è insieme il coinvolto, il vicino, l'interessato: il suo pathos è punto focale dell'eternità e della storia inquanto indica, nella libera premura e compassìone dì Dìo, ìl luogo d'incontro tra Lui, il Vivente e l'Eterno e l'uomo. Questo « pathos » o « antropopatia » di Dio nella storia si manifesta nel linguaggio antropomorfico della Bibbia e si proietta particolarmente verso il futuro. Già il passo di Is 63, 14 esprime quel senso di premura di Dio che guarda in avanti ( « Io sarò con Te»: Es 3, 12). La letteratura profetica ha sottolineato questo senso della presenza storica di Dio che realizzerà alla fine dei tempi una nuova alleanza (Ger 31, 31), un nuovo rapporto patetico di amicizia con il suo popolo. Allora avverrà la grande rivelazione di Dio su tutte le potenze ostili e la salvezza definitiva tra i fedeli di Jahvè (Giol 3-4; Zac 14). Per una più adeguata visione della presenza storica di Dio nel mondo è importante notare come nella teologia veterotestamentaria essa è legata a due modi principali di azione: lo Spirito e la Parola, modi di azione profondamente complementari. Da un capo all'altro Dio opera come parola e come spirito, manifestazioni correlative del suo rendersi presente nella storia del mondo. Dal principio della creazione lo «Spirito» si librava sulle acque (Gen 1, 2) e Dio «disse» (Gen. 1, 3 ). «Per la sua Parola sono stati fatt: i cieli e per il soffio della sua bocca tutto il loro ornato» (Sal 32, 6; 146, 18) e se talora la Parola è menzionata sola (Sir 42, 15; Is 40, 26; 48, 13 ), ciò è pur vero dello Spirito (Sal 103, 29-30). Parola e Spirito sono i due poli della presenza provvidente di Dio nel mon-

125 A. HEsCHEL, The Prophets, 10 s. Il pathos di Dio non va confuso con emozione irragionevole, ma è carico di « ethos », non è semplicemente stato psicologico, ma espressione, attraverso un linguaggio antropomorfico dei coinvolgimento di Dio nella storia. '

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do, nella prima e nella nuova creazione (Ez. 37, 4-10). Nella nuova creazione, infatti, la Parola è non solo opera fattiva, ma anche espressione personale di intelligenza che illumina e chiama in causa la persona umana. Anche lo Spirito però è una manifestazione personale di Dio diretta alla persona: specie nel periodo profetico e postesilico lo Spirito agisce sempre più nell'interiorità della .persona e della comunità. Così lo Spirito sarà nel profeta escatologico ed egli annunzierà la buona novella ai poveri (Is 61, 1; Le 4, 18-19). Lo Spirito e la Parola sono congiunti nell'opera profetica (Is 59, 21; Zac 7, 12). La presenza di Dio nel mondo attraverso l'opera creatrice e rivelatrice, si compie dunque attraverso l'azione con cui alla Parola si associa lo Spirito. 126 Attraverso di essi Dio, l'Assoluto trascendente e l'Unico, si rivela come Colui che è coinvolto e conduce la storia alla realizzazione dei suoi disegni di salvezza.

6.

LA CRISTOLOGIA ED IL NUOVO VOLTO DI

DIO.

Se la cristologia presuppone nel suo stesso momento di ricerca storica una precomprensione religiosa di Dio e della sua presenza nel mondo e più particolarmente l'immagine di Dio rivelata nell'AT essa porta però verso una nuova conoscenza di Dio, quella che Gesù stesso ci ha mostrato come Figlio Unico (Gv. 1, 18) attraverso la sua Persona, la sua predicazione, la sua vita e la sua morte e resurrezione. Gesù di Nazaret non ci mostra un Dio diverso dal Dio Creatore e dal Dio dell'Antico Testamento, ma ci porta «verso una nuova conoscenza di quello stesso Dio » attraverso una certa crisi e superamento del nostro modo puramente umano di rappresentarcelo, anche se tale novità cristiana dell'immagine di Dio non si debba considerare come una totale rottura di ogni idea precomprensiva di Lui. È il problema del rapporto tra cristologia e teologia che per W. Pannenberg è il fine stesso sia della teologia che della cristologia.127 In realtà l'immagine di Dio che ci rivela Gesù Cristo non si può separare o contrapporre a quella, già rivelata di Lui, nell'antica economia, cosl come la fede in Gesù Cristo non è complicazione, ma compimento del monoteismo veterotestamentario: «sarebbe trarre una conclusione errata voler estromettere dalla cristologia l'idea 126 127

P.

w.

BENOIT,

Exégèse et Théologie, III, Paris 1968, 306-307. Esquisse, 49-52.

PANNENBERG,

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di Dio; in realtà l'idea di Dio rimane la premessa senza la quale la cristologia non avrebbe alcun senso. Oggi non si può fare della cristologia se non la si confronta costantemente con la questione di Dio ». 128 Ci troviamo, per cosl dire, di fronte a un «circolo ermeneutico»: da un lato l'attesa storica di Dio, la sua presenza ope-

rante nel mondo (storia salvifica) sono un presupposto necessario per una cristologia che veda in Gesù di Nazaret l'evento in cui Dio pienamente si dona a noi. Ma d'altro lato, nella figura storica di Gesù, le nostre anteriori aspettative, le nostre precedenti immagini e concezioni vengono purificate e trascese in un volto nuovo di Dio che questo Gesù ci rivela. La stessa immagine veterotestamentaria di Dio trova il suo compimento rivelativo nella missione di Gesù. In realtà la nuova immagine di Dio è una radicalizzazione ed approfondimento della rivelazione autentica di Dio della religione di Israele, un suo adempimento. 129 Essa però può essere colta solo a partire dal « luogo originario » di tale rivelazione: la vita e la parola di Gesù di Nazaret. Una fondazione cristologica dell'immagine neotestamentaria di Dio è necessaria non solo per evitare il rischio di cadere in un discorso docetokerigmatico che cerca di cogliere il senso di una tale immagine procedendo solo ad una analisi interpretativa delle asserzioni di fede neotestamentarie,130 ma anche perché il significato della nuova rivelazione di Dio è indissociabile dalla storia, dal comportamento e dalla predicazione di Gesù di Nazaret, dalla sua morte e resurreziope, luogo proprio di questa rivelazione: « come c'è una ' topologia dell'essere ' ossia un luogo proprio in cui si rivela la verità dell'essere, così c'è una ' topologia di Dio ' ossia un luogo proprio in cui la verità originaria della rivelazione si manifesta e questo luogc è la

128 \Y/. THtisIN>, 133 s; M. BORDONI, Il Dio di Gesù Cristo, in DTF (P. RUGGIERI). 130 W. MAIER, Jesus, Lehrer der Gottesherrscha/t, Wiirzburg 1965, 9-13. Gli agiografi del NT non devono essere considerati, infatti, come immediati portatori di rivelazione dipendenti unicamente dallo Spirito, ma « servi della Parola » (Le. 1, 2) e cioè del messaggio di Gesù, interpreti ed espositori di una tradizione che ha in Gesù il suo fondamento storico e teologico.

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vita di Gesù nella sua fase terrena e pasquale ». 131 Allora è soltanto a partire dalla Persona e dalla vicenda di Gesù che si può cogliere il vero significato del volto cristiano di Dio, evitando i rischi di soggiacere al predominio di immagini precomprensive di Lui, dipendenti da categorie puramente teistiche. Questo compito di fondazione cristologica ci consente di poter affermare che esso costituisce la « questione della teologia cristologica del NT ».132 Esso può evolversi in due momenti: il mistero di Dio nella esistenza storica di Gesù e quindi il mistero di Dio nella fede cristologica del NT e della Chiesa postapostolica. a) Il mistero di Dio nella esistenza storica di Gesù di Nazaret. - Nella sua vita storica Gesù non appare come un teologo che propone una nuova dottrina su Dio, con un discorso con contenuti dottrinali alla maniera dei dottori e dei reologi del tempo. Neanche egli introduce dei nuovi vocaboli o nomi per indicare Dio: il linguaggio di Gesù su Dio è caratterizzato piuttosto da una certa semplificazione, ed a prima vista, da un certo impoverimento nozionistico rispetto alle formule delle Scritture antiche.IJJ Nel suo linguaggio, infatti, tende a predominare l'appellativo fondamentale di « Padre », appellativo tutt'altro che sconosciuto in Israele, anche se esso rientrava nella esperienza storica di Dio come Signore, Adonai e nell'ambito dell'alleanza tra Dio ed il suo popolo. Il senso nuovo del parlare di Gesù a proposito di Dio non può essere colto che considerando il senso stesso della sua missione rivelato dal suo messaggio e dal suo comportamento, in particolare dalla sua preghiera. Oggi gli studi sulla fisionomia storica di Gesù convengono nel ritenere che la « regalità di Dio » sia non solo il nucleo della sua predicazione e del suo comportamento, ma il quadro stesso di tutta la sua vita fino alla sua morte e resurrezione. Cosi la « escatologia » che caratterizza questa concezione del Regno, nell'ultimo periodo dell'era veterotestamentaria, costituisce essa stessa un polo fondamentale di questa sua esistenza, da indurre certe correnti del pen-

131 C. GEFFRÈ, Le lieu propre de la vérité révelée, in « Procès de l'objectivité de Dieu », Paris 1969, 255. 132 W. THiisING, L'immagine di Dio nel NT, in «Saggi sul Problema di Dio,., 69. 133 J. GraLET, La révélation, 23.3c34.

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siero protestante ad affermare che la predicazione di Gesù ha un carattere così radicalmente escatologico da dover essere, nella sua esistenza e nel suo messaggio, tutto ricondotto e letto a partire dalla escatologia (panescatologismo).IJ 4 Ma intanto va notato, come vedremo parlando del Regno di Dio nella predicazione di Gesù, che la proprietà caratteristica del suo linguaggio escatologico è quella della « attualità» o della >considerata assoluta, ma non semplicemente trascendente la storia, bensì appartenente al suo piano: la storia universale si trova così sottomessa alt' assoluto giudizio di una storia particolare. Questo scandalo della fede, nel nostro tempo, è divenuto particolarmente acuto: il cristianesimo, in un certo periodo storico, per la sua diffusione geografica che aveva raggiunto i confini del mondo fino allora conosciuto, per il suo permeare le società civili, finendo· per combaciare con esse, si trovava in una situazione di fatto che attutiva questo scandalo originario della fede. L'essere cristiano combaciava con l'essere cittadino del mondo, la sua fede stessa lo collocava abitualmente in una « situazione di maggioranza » nell'ambito di molte società civili. Ma oggi le cose sono profondamente cambiate: lo sviluppo dell'autonomia e secolarità del mondo, della società, dei valori molteplid della cultura, la pluralità delle stesse religioni non-cristiane considerate con maggiore rispetto che nel passato, pongono il singolo e la comunità cristiana molto spesso in una condizione di minoranza nel giuoco pluralistico della mondanità, sì da rendere problematica e nuovamente scandalosa la pretesa assolutezza della fede: « il cristianesimo vive oggi di nuovo come in una sua. dimensione particolare; sempre più si vede ridotto ad una situazione di minorità, nella quale la sua pretesa universale ed assoluta appare di nuovo nella sua completa scandalosità ». 2 Si potrebbe allora soggiacere alla tentazione di attenuare lo scandalo o attraverso una critica della pretesa di mediazione universale del Cristo che finisca con il relativizzare il fatto singolare, la sua « unicità », facendone « un caso » fra i tanti avvenimenti che incarnano la pluralità della esperienza religiosa umana, o svuotando la sua portata di « novità » facendo di esso semplicemente una « cifra rivelatrice » di un significato religioso universale con l'evidente rischio di ridurne il suo significato religioso ad ideologia.3 Questa tentazione è oggi tanto più

2 W. KAsPER, Einmaligkeit und Univmalitiit Jesu Christi, TG 17 (1974) 1-12. H. HALBFAS, Fundamentalkatechetik, Stuttgart 1968, 223; per l'indirizzo· della cristologia dello spirito nella teologia protestante liberale: ]. TERNUS, Chalkedon und die Entwicklung der protestantischen Theologie, in A. GRILLMEIERH. BACHT, Chalkedon, III, Wiirzburg 1954, 544 ss. In un'epoca in cui la società occidentale è piccola e pretenziosa parte del mondo intero appare sempre più paradossale, osserva E. SCHILLEBEECKX (Gesù la storia, 18, 625), la pretese, del cristianesimo: «in nessun altro c'è salvezza» e si scontra con una opposizione crescente. Di qui l'esigenza di una riflessione critica sul problema. 3

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notevole in quanto l'eredità illuministica che ancora pesa sulla nostra cultura europea porta a pensare che l'uomo storico può solo rilevare o portare valori assoluti, mai però incarnarli in se stesso; di qui la perdita del nesso essenziale propci.o del cristianesimo tra la « Persona di Gesù » ed il suo messaggio. Da questa problematica emerge l'esigenza di non attutire, ma di rispettare e di dare ragione al paradosso della particolarità e della universalità dell'evento salvifico compiutosi in Gesù Cristo. Tale paradosso rivela nel modo più palese e porta a compimento una legge fondamentale di tutta la storia di salvezza: quella secondo cui ogni rivelazione storica di Dio che si compie in un particolare fatto, o popolo, o resto, o singola persona, conformemente al suo segreto disegno (principio di elezione), tende per sua natura, a realizzarsi in vista di una maggioranza, in rapporto ai molti o a tutti (principio di rappresentanza). Per cui la «storia particolare» di salvezza possiede per natura un riferimento essenziale alla « storia di salvezza universale ».4 La cristologia odierna per rispettare insieme la particolarità ed universalità dell'evento storico di salvezza compiutosi una volta per tutte in Gesù Cristo, nella sua vita morte e resurrezione, deve anzitutto evolvere le dimensioni di questa universalità che appartengono propriamente aU'evento stesso, mostrando le ragioni soteriologiche, cristologiche, teologico-trinitarie che costituiscono il fondamento della sua pretesa unicità ed universalità, evitando nel contempo di cadere in quel soggettivismo religioso che riduce la universalità ,al piano della mera funzionalità e che dissolve l'evento oggettivo della salvezza nella esperienza di fede del soggetto. Da questa problematica emerge ancora l'esigenza che il valore dell'universalità dell'evento compiutosi in Gesù Cristo non appaia solo a partire dalle componenti interiori dell'evento stesso, compiutosi, come proclama il kerigma, per tutti, ma anche a partire da quella verifica critica che si assolve nel riscontro della credibilità del messaggio di fede cristiana e nella sua efficacia salvifica universale nel mondo. La cristologia non può infatti ignorare le angosce e le speranze, le delusioni degli uomini, né affrontare um. discorso su Gesù, fondamento della fede ecclesiale che non faccia posto, con la elucidazione della sua pretesa univer5ale, -alle motivazioni di tale pretesa sul p~ano

4 O. CULLMANN, Le salut, 151; A. DARLAP, Il concetto di salvezza, 78 s; In., Geschichtlichkeit, LThK, IV 1960, 780-783.

LA CRISTOLOGIA IN PROSPETTIVA UNIVERSALE

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dell'incontro storico tra messaggio cristiano ed attese ed istanze degli uomini. La cristologia sotto tale profilo deve mostrare fino a che punto la confessione cristiana su Gesù è vera anche « all'esterno » ed illustrare « la professione della fede in Cristo nella rilevanza che questa assume per l'odierna concezione del mondo e nell'attuale disputa circa la verità di Dio e la giustizia dell'uomo e del mondo. Infatti, con la titolatura del Cristo, la fede cristiana non ha soltanto detto chi sia il Cristo in persona, ma ha anche espresso la sua signoria, il suo futuro, il suo significato per Iddio, per gli uomini, per il mondo ». 5 Per rispondere a questa esigenza la cristologia odierna deve impegnarsi anche in quel compito per cui essa risponde alle esigenze antropologiche dell'uomo odierno, alle sue istanze di autonomia, di libertà, di socialità, di giustizia; deve mostrare l'efficacia della fede nel Cristo per il processo in atto della promozione dell'uomo. In questo capitolo metodologico vogliamo perciò indicare anzitutto le dimensioni intrinseche di universalità dell'evento cristologico in rapporto al suo significato soteriologico, al suo fondamento cristologico e protologico e quindi alcune linee di metodo per l'approccio antropologico culturale.

1.

L'AVVENIMENTO CRISTOLOGICO

NELLA

SUA

INTRINSECA

UNI·

VERSALITÀ.

Abbiamo già notato fin dall'inizio di questa prima parte del nostro saggio come l'evento· compiutosi in Gesù Cristo sia compreso nella visione del NT come fatto « unico e centrale » di tutta la storia veduta come «storia di salvezza »,6 nel quale si adempiono le promesse escatologiche di Dio una volta per sempre. Già da queste affermazioni emerge la portata universale salvifica di questo fatto, per cui, quanto in esso si è realizzato, specie nella morte e nella resurrezione di Gesù di Nazaret, si è compiuto « per noi », eia·~ « per tutti »: la sua realtà storica singolare ha una portata universale. Questo carattere « soteriologico-universale » occupa un posto di primo piano nel Nuovo Testamento in una quantità dì confessioni di fede, di formule kerigmatiche nelle quali si professa o si annuncia che lo s J. MOLTMANN, Interrogativi su Gesù, in «Il Dio NENBERG, La seigneurie de Jésus-Christ, in « Esquisse », 6

Vedi sopra pp. 19-23.

Crocifisso», 102; W. 469-511.

PAN·

170

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l

evento cristologico è compiuto « hypèr », « perl: », « anti », c10e a favore di, in rapporto a tutti e non solo a causa (dia) dei peccati di tutti. 7 Queste determinazioni « storico-universali » non esprimono solo la qualità di un momento dell'esistenza di Gesù di Nazaret «consegnato per noi» (Le 22, 19 s.), «per molti» (Mc 14, 24) nella sua passione, per quanto ad esso siano sempre collegate,8 ma indicano più ampiamente la qualità, la struttura stessa di tutta la sua vita, del suo stesso esistere, per cui si può dire che questa storia dell'essere per noi dimostra il senso della venuta di Gesù. 9 Ora, a chi risale questa interpretazione della morte e della vita di Gesù, questa sua «pretesa universale» che coinvolge la storia del mondo? È essa una qualità inerente al fatto stesso prepasquale della sua vita terre· na e della sua morte, qualità che affonda le radici nella sua Persona stessa oppure è il frutto di una interpretazione esclusivamente teologica « post-pasquale » per cui, attraverso un processo ermeneutico, la fede cristiana avrebbe nella esperienza della Resurrezione e della Pentecoste sviluppato il « significato salvifico universale » della croce? Il problema verte sulle origini ed il fondamento della carat~ teristica soteriologico-universale della storia singolare di Gesù.

A.

La riduzione del valore soteriologico universale al soggettivismo della fede.

Un forte impulso verso il « valore soteriologico » dell'evento cristologico è stato dato, nella storia della teologia, dal pensiero lu7 H. ScHLIER, Die Anfiinge des christologischen Credo, 13-18. Le forme più arcaiche del credo cristologico incentrato nella resurrezione (Rm 10, 9; 1 Cor 6, 14; 1 Ts 1, 10; At 13, 30) a cui si aggiunge la menzione della morte (1 Ts 4, 14) si evolvono soteriologicamente sottolineando il ' per noi ' che emerge esplicitamente in molte formule del NT (Gal 1, 4; Rm 4, 25; 5, 8; 8, 32; Ef 5, 2; 1 Cor 15, 3; 1 Pt 2, 21-24). Vedi X. LÉoN DUFOUR, La mori rédemptrice du Christ selon le NT, in « mort pour nos péchés », Bruxelles 1976, 17 s; K. KERTELGE, Das Verstiindnis des Todes Jesu bei Paulus, in « Der Tod Jesu-Deutungen im Neuen Testament ». Freib-Basel-Wien 1976, 114 s.: per la predicazione prepaolina (ivi 116 ss.). 8 In realtà per l'esperienza di fede apostolica, l'intenzione intima (ipsissima intentio) che animava tutta la vita di Gesù, non poteva essere colta chiaramente che a partire dal suo comportamento dinanzi alla morte: H. ScHiiRMANN, Jesu ureigener Tod, Freib. Basel-Wien 1975, 11-12; W. PoPKES, Christus traditus, Eine Untersuchung zum Begriff der Dahingabe im Neuen Testament, Ziirich-Stuttgart 1967; J. RoLOFF, Anfiinge der soteriologischen Deutung des Todes Jesu, in NTS 19 (1972/73) 38-64. 9 H. SCHLIER, Die Anfiinge, 46-48; vedi anche J. RATZINGER, Ein/uhrung in dar Christentum, Milnchen 1968, 163 (ed. it. Brescia 1969, 178); W. KASPER, Die Sache ]esu, 188.

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171

terano. 10 Lutero sottolinea con insistenza il «pro me» come espressione essenziale del dogma della Chiesa antica, partendo dalla correlazione tra rivelazione di Dio in Gesù Cristo e l'uomo nella sua fede e nella sua incredulità.II Ma ciò non vuol dire, per Lutero, il dissolvere la realtà di Dio e di Cristo negli effetti che essa produce nello uomo. Lutero intende il pro me salvaguardando la realtà oggettiva della fede: nel suo rivelarsi in Cristo, infatti, Dio sta di fronte all'uomo e gli viene incontro come «dal di fuori ». 12 Tuttavia solo per la fede Egli si fa « vero Dio » o comincia ad essere, per il credente, «Dio »: i due aspetti «soggettivo ed oggettivo » si integrano pur restando distinti. 13 In Lutero non si può dire che il pro me sia divenuto un « principio metodologico » che applicato a tutta la teologia tenda a soggettivizzare radicalmente il valore soteriologico della fede, per cui è soltanto in essa che si può parlare di universalità dell'evento cristologico. In Lutero l'in sé del Cristo è il presupposto del pro me anche se il primo è inseparabile dal secondo. 14 Il passaggio all'applicazione del «pro me » come «principia metodologico » è avvenuto nella teologia neo-protestante non tanto per l'eredità luterana, quanto kantiana, in seguito alla dissociazione dell'essere in sé dal fenomeno, per cui la realtà « in sé » tende sempre più a divenire una noziione-limite ina-cçessibile, mentre la sfera del fenomeno diviene dominante ed autonoma. Cosl la cristologia di F. Schleiermacher, seguita da A. Ritschl, R. Bultmann e P. Tillich segue la via del « pro me » metodologico attraverso una correlazione così radicale da dissolvere il cristologico nel soteriologico e cos':ruendosi interamente rin modo retrospettivo a partire dalla esperienza della redenzione. 15 La concezione soteriologica della fede nel 10

B. A.

WrLLEMs-R.VEIER,

Soteriologie. Von der Reformation bis zur Gegen-

warl in « Handbuch der Dogmengeschichte », III/2, Freib. Br. 1972. 11

12 13

172 ss.

M. M. G.

LUTERO, LUTERO, EBELlNG,

WA, 37, 576. WA, 8, 126. Die Anfiinge von Luthers Hermeneutik, in ZThK 48 (1951)

!4 È fondata perciò l'obiezione critica di H. J. IwAND, Wider das «pro me» als methodisches Prinzip, EvTh 14 (1954), 120 s. contro R. RrTSCHL che si richiama a Lutero per fondare il principio metodologico del pro me: non ci si può appellare a Lutero, egli dice, muovendo dalle umane esigenze, facendo di Dio un funzionario dell'uomo e dissolvendo la realtà di Gesù Cristo, che è il ' Tu ' che resiste e sostiene, in una mera soggettività che è data accogliere solo nell'uomo. In tal senso vedi anche W. PANNENBERG, Esquisse, 50; H. DEMBDWSKI, Problemi fondamentali di cristologia, Bologna 1973, 273-74. 15 F. SCHLEIERMACHER, Der christliche Glaube, II, Berlin 1960; P. TrLLICH, SJ>stematische Theologie, Stuttgart 1958, 103 ss.; 118-132.

172

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l

neoprotestantesimo, scindendo l'essere dal significato, mostra di lasciarsi condurre verso il destino culturale dell'età moderna per il quale con l'estraneazione del soggetto dall'oggetto «la fede si ritira nella sfera della pura soggettività ed interiorità. Si giunge cosl ad una contrapposizione tra contenuto di fede (fides quae creditur) ed attuazione di fede (fides qua creditur) ». 16 Le conseguenze di tale soggettivismo imperante si scorgono in R. Bultmann il quale afferma che confessare Cristo come Dio non vuol dire esprimere Dio nel suo « in sé », la sua essenza obiettiva e metafisica, ma solo il suo « essere per noi »: « noi, infatti, non possiamo dire ciò che Dio è in se stesso, ma solo ciò che Egli fa 'per noi' ». 17 Cosl i titoli cristologici esprimono il Christus pro me ed ogni enunciato cristologico è unicamente un enunciato che si riferisce alla esperienza di fede dello uomo. In definitiva: «Cristo non mi aiuta perché è Figlio di Dio, ma è Figlio di Dio perché mi aiuta ». 18 Su questa via la cristologia tende a divenire una « variabile della soteriologia » e della « antropologia religiosa » .19 La svolta antropologica manifesta qui il suo predominio: nel « pro me » metodologico è proprio « il me » che diviene normativo, il linguaggio e le rappresentazioni della cristologia divengono proiezioni dei bisogni e dei desideri umani di redenzione e di divinizzazione. Il peso delle categorie kantiane distorce il giusto valore soteriologico della fede cristiana ed il significato universale di questa fede. Camminando su questa via si può dire che è ancora di Gesù Cristo che si tratta? «Non si tratta piuttosto di proiezioni delle aspirazioni umane alla liberazione ed alla divinizzazione, dello sforzo umano per divenire simili a Dio, del dovere umano di soddisfare per il peccato commesso, dell'esperienza dell'uomo di essere sempre nello scacco, nel riconoscimento della propria colpevolezza ... non S'i tratta di proiezioni dell'ideale di religiosità perfetta, di moralità perfetta, di personalità pura, di confidenza totale, nella Persona di Gesù? Le aspirazioni degli uomini non sono poi trasportate semplicemente in Gesù, personificate in Lui? Kant ha detto esplicitamente che Gesù era un esempio per l'idea di perfezione morale. Questa affermazione

W. KASPER, Jesus der Christus, 25. R. BULTMANN, Kerygma und Mythos, II, Hamburg 1952, 184. R. BULTMANN, Das christologiscbe Bekenntnis des Okumeniscben Tubingen 1968', 246-48, 252. 19 Vedi sopra p. 55. 16

17 18

Rates,

LA CRISTOLOGIA IN PROSPETTIVA UNIVERSALE

173

non è lontana dalla tesi di Feurbach che vede in tutte le concezioni religiose la semplice proiezione di bisogni e di desideri umani in una sfera ultramondana immaginaria ».]JJ Come si vede, la riduzione del valore « soteriologico-universale » del fatto cristologico al soggettivismo della fede si risolve in una dissoluzione della particolarità e singolarità della storia di Gesù, della tragedia della sua crocifissione, ad un « significato universale» che guadagna in universalità a prezzo della perdita della sua realtà oggettivo-personale, evadendo nella sfera della ideologizzazione ed antropologizzazione. Erede della stessa matrice culturale, la « cristologia secolare » ha fatto dell'uomo Gesù un uomo universale per il suo «ruolo tipico», « esemplare» nell'umanità. Cosl la sua «Persona concreta», la sua « storia particolare» passa dietro al significato, al suo messaggio, che sarebbe, in senso proprio e solamente, universale. Gesù scompare a profitto di ciò che suscita, di ciò che egli proclama « per me ». È quanto afferma D. Bonhoeffer quando parla di Gesù come « tiomo per gli altri » 21 e quanto, al suo seguito, afferma Von Buren quando dice che Gesù è l'uomo universale a Pasqua, in virtù del contagio della sua libertà storica, per cui egli diviene il promotore o agente contagioso di liberazione. 22 Gesù di Nazaret non può essere così « uomo universale », l'uomo per tutti, che a prezzo della perdita della sua individualità storica, la quale è sottovalutata a profitto del suo stile o della sua idea: « Egli è universale nella misura in cui si supera: divenendo l'uomo per gli altri, cessa di essere per sé. La kenosi l'at· tinge nella sua personalità ».23

B. Il fondamento cristologico del valore universale soteriologico dell'evento cristiano (cristologia e soteriologia).

Certamente l'esperienza della universalità salvifica della fede cristiana è stata soprattutto una esperienza post-pasquale, come rilevano molteplici formule con cui il kerigma, le omologie, il culto, che zo

W.

PANNENBERG,

21

E.

FEIL,

Esquisre, 49. Die Theologie Dietrich Bonhoelfers. Hermeneutik-Christologie1Veltverstiindnis, Miinchen-Mainz 1971', 209-213; ]. RoBINSON, Dieu sans Dieu (Honest to God), Paris 1964, 86 ss. 22 VAN BuREN, The Secular Meaning o/ the Gospel, New York 1966', 109-173. 2J C. Duouoc, Christologie, Essai dogmatique, I, Paris 1968, 257: penetrante l'analisi critica della cristologia secolare; meno convincente ed incerta la soluzione positiva del paradosso ' singolarità-universalità '. La problematica è però ben delineata.

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!

l'esprimono nel « per noi », « per molti », « per tutti ». Tale esperienza è legata al fatto che gli apostoli con la resurrezione di Cristo ed il dono dello Spirito hanno constatato che « dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia » (Rm 5, 20 ); essi hanno sperimentato l'adempiersi delle promesse escatologiche (Gl 3, 1-5) del diffondersi dello Spirito su ogni carne negli ultimi tempi {At 2, 17) e che questo dono in pienezza dello Spirito era ricevuto in seguito alla esaltazione di Gesù di Nazaret dalla destra del Padre (At 2, 33), sì che lo Spirito attualizza la potenza di irradiazione universale del Cristo esaltato. Gli apostoli hanno ancora sperimentato la potenza diffusiva del kerigma che in virtù dello Spirito faceva aumentare il numero dei credenti (At 9, 31) giungendo fino alla rottura delle barriere dei confini del giudaismo per diffondersi nel mondo dei pagani (At 10; 13, 2; 16, 6 s.; Rm 15, 19). La salvezza donata dal Cristo non prevedeva limiti di persone, era realtà universale in espansione, tendente verso una totale riconciliazione del mondo e quando sarebbe giunto il tempo della restaurazione (At 3, 21), con il genere umano, il mondo intero sarebbe stato salvato in Cristo (Ef 1, 10; Col. 1, 20; 2 Pt 3, 10-13) (LG 48a). Cosl l'esperienza della universalità della salvezza è l'esperienza di una « pienezza già presente » nel mondo per l'opera del Cristo glorioso, donatore dello Spirito e di una «pienezza in espansione» verso l'eschaton dei nuovi cieli e della nuova terra (2 Pt 3, 13) verso cui tendono tutte le creature nel loro gemito e travaglio (Rm 8, 19-22). Questa esperienza della universalità salvifica non può essere ridotta alla sfera di un soggettivismo di fede senza grave pregiudizio della fede stessa. Il che vuol dire che la soteriologia non può distaccarsi dalla realtà in sé del Cristo, dalla singolarità della sua Persona considerata nella sua vita, morte e resurrezione, nel suo donare lo Pneuma. La soteriologia, in altri termini, « deve derivare dalla cristologia, non può essere l'inverso. Altrimenti la fede stessa della salvezza perderebbe ogni suo fondamento ». 24 Ma parlare di una « fondazione cristologica » della soteriologia non vuol dire affatto ritornare ad una metodologia di studio del « Cristo in sé » come « analisi ontologico-statica» della struttura dell'evento dell'incarnazione e come studio premesso e talora addirittura separato da quello sullo agire redentivo del Cristo, con una prima parte facente capo ad una

14

w.

PANNENBERG,

Esquisse, 50.

LA CRISTOLOGIA IN PROSPETTIVA UNIVERSALE

175

« teologia dell'incarnazione » (parte cristologica) ed una seconda facente parte di una « teologia della redenzione » (parte soteriologica).25 In realtà una tale distinzione, per quanto teoreticamente chiara, ha il difetto di non tener conto del carattere soteriologico dell'evento stesso della incarnazione, nella concezione cristiana, e della genesi della fede cristologica stessa, la quale è legata alla manifestazione storica dell'evento di tiivelazione compiutosi in Cristo, 26 apparendo piuttosto motivata dal predominio di categorie ontologiche sul linguaggio di fede. 27 La cristologia non può non tenere conto che solo partendo dalla dimensione storico-salvifica della realtà terrena e dell'opera pasquale del Cristo è possibile cogliere l'identità del cristologico in se stesso. Il pensiero cristiano, specie negli sviluppi postneotestamentari della cristologia patristica e nelle definizioni conciliari è giunto alle grandi affermazioni di fede sull'in sé del Cristo, propl'io a partire dalla esperienza della sovrabbondanza e della universalità della salvezza offerta da Lui. Ciò che Egli ha fatto « per noi» ha rivelato « chi Egli è in sé». Il discorso cristologico sull'in sé del Cristo non può quindi distaccarsi in nessun momento dal luogo soteriologico a cui è essenzialmente legato per la conoscenza di fede. La cristologia non può evolversi quindi che soteriologicamente avendo presente però che «il soteriologico» si fonda sul «cristologico»: essa non può separare le due dimensioni dell'unico possibile procedimento. Essa, da un lato, deve superare la rottura kantiana tra « fatto e significato » mostrando che Gesù, il Cristo, ha un significato « per noi » nella misura in cui tale significato si connette a lui stesso, alla sua storia, alla Persona che si rivela in questa storia, per cui il suo evento stesso è portatore e fonte di « nuove significazioni » per l'uomo. Solo

M. BORDONI, Prospettive metodologiche della cristologia dogmatica, in NDT, 1976, 226; K. RAHNER, Problemi di cristologia oggi, in « Saggi di cristologia mariologia>>, Roma 1967, 3-91; A. GRILLMEIER, Cristologia, SM, Brescia Y. CoNGAR, Le Christ dans l'économie salùtaire et dans nos traités dogmatiin e n. 11, 1965, 11-26. 26 Già nel NT non è possibile affrontare la domanda sull 'in sè del Cristo se non nel quadro del suo agire salvifico in cui tale essere si manifesta: non è possibile parlare della sua Persona astrattamente dal mistero della vita terrena, della sua morte e resurrezione. 27 J. GALOT, Dynamisme de l'incarnation, au-delà de la formule de Chalcédoine, in NRT 93 (1971), 228; M. BORDONI, Tentativi inadeguati di metodologie cristologiche, in «Orientamenti metodologici dell'attuale cristologia dogmatica», in Lt n. s. 40/41 (1974), 204. 25

Alba e di 1974; ques,

176

GESÙ DI NAZARET, SIGNORE E CRISTO •

l

così il « pro me » è veramente soteriologico, è un incontro innovatore che rompe i'l cerchio della soggettività chiusa in una sterile auto. esperienza religiosa. Ma, dall'altro lato, la cristologia deve porre attenzione al fatto che « l'essere del Cristo in sé » si manifesta e si coglie, proprio nella sua novità, nel suo « essere per noi», nel suo morire e risorgere per noi, come l'essere di un Io divino non caratterizzato da un assolutismo egocentrico, ma dalla totale « relatività di se stesso per l'Altro (il Padre) e per gli altri». È in questa caratteristica unica che si fonda l'unità inseparabile di cristologia e di soteriologia, come unità tra essere ed agire, tra Persona ed opera, per cui la Persona stessa, non riserba nulla per sé, ma si trasfonde interamente nella sua opera.28 Questa unità mostra come in Cristo « l'agire penetra fino alla estrema radice del suo essere, formando un tutto unico con esso. Ed è precisamente in questa inscindibile unità fra essere ed agire che sta proprio la sua peculiarità ». 29 Così in Cristo non è possibile scindere il significato o la funzione della sua missione della sua singolarità personale; la sua è una «personalissima funzione salvifica». Fin dal primo momento del suo cammino, quindi, la cristologia deve svilupparsi a partire dalla prospettiva soteriologica evidenziando però, nello stesso tempo, che tale realtà è derivante dall'in sé, del mistero di Cristo. Quando si dice che il « valore universale soteriologico » è intrinsecamente legato all'in sè « cristologico », ciò va inteso sia a riguardo del momento terrestre della vita prepasquale di Gesù, sia a riguardo del momento della esaltazione pasquale. Il tempo prepasquale della vita terrena di Gesù è quello in cui si manifesta il primo fondamento cristologico del suo « essere per », del suo « offrire se stesso per » o del suo « morire per molti », « per tutti », testimoniato, nel tempo postpasquale, dalla formula hyper. Tutta l'esistenza terrena di Gesù, in modo speciale la sua morte, è stata vissuta in questa attitudine autentica del « dono di sé » (pro-esistenza), del tutto personale ed unico, con cui egli si è offerto pienamente al Padre per la salvezza del mondo, attitudine che non trova altra possibile espressione concreta nel mondo puramente umano.30 In questo J.

Ein/uhrung (ed. it. 177-178). ivi; W. KAsPER, Die Sache Jesu, 188: «ciò che è caratteristico del Gesù della storia è che egli non separa mai la sua Persona dalla sua causa ... Egli è dunque la sua causa in Persona. Persona e causa combaciano in lui perfettamente». 30 H. ScHiiRMANN, Jesu ureigener Tod. Exegetische Besinnungen und Ausblick, Freiburg Br. 1975, 12. 28

RATZINGER,

79 ]. RATZINGER,

LA CRISTOLOGIA IN PROSPETTIVA UNIVERSALE

177

modo, non solo è dato di verificare come« l'interpretazione dell'hyper postpasquale » trovi la sua ragione oggettiva, la sua chiave comprensiva, nell'ipsissima intentio della esistenza terrena di Gesù,3 1 ma di più è anche dato di cogliere come questa stessa intenzione trovi il suo fondamento ultimo nell'identità di quell'essere personale di Gesù che nella sua esistenza umana si realizza nel dono totale di sé consumato nella sua morte: «in quanto morte del Figlio offerto dal Padre (Rm 8, 32; Gv 3, 16), del Figlio che offre se stesso (Gal 2, 20; Ef 5,2.25 passim) la morte di Gesù fu in maniera eccezionale una morte salutare e la più personale che sia ».32 Tuttavia nella condizione di esistenza terrestre, che già porta con sé l'intenzione interiore ed espressa della universalità soteriologica, Gesù di Nazaret si trova ancora in una fase di vita « secondo la carne >~ (katà sarka) che in un certo modo condiziona, la piena espansione, sul piano umano, di questa tensione universale di tutta la sua esistenza, caratterizzandola soprattutto come « esistenza singola », « individuale », « particolare ». 33 In questo periodo terreno,· l'intenzione soteriologica universale si realizza già nell'operare salvifico del Cristo in quelle molteplici dimensioni che sono indicate nel NT e nella teologia patristica attraverso le categorie del « merito », della «redenzione » dalla schiavitù delle potenze, della « espiazione », del « sacrificio » e soprattutto dell'amore, della somma carità con cui Cristo ha sofferto offrendosi sulla croce « per noi » a Dio come vittima senza macchia (Ebr. 10, 57 b). Questo infinito valore per tutti gli uomini, per cui l'opera più

li G. DELUNG, Der Kreu:r.estod Jesu in der urchristlicher Verkundigung, Berlin 1971, 73; J. RoLOFF, Das Kerygma und der irdische ]esus, Gottingen 1969, 273. Il Documento della « Commissione Teologica Internazionale» su alcune questioni riguardanti la cristologia (ed. CvC, CXXXI (1980), 272) osserva come «morendo Gesù esprime la sua volontà di servire e di donare la propria vita (Mc 10, 45): questo è l'effetto e la continuazione dell'atteggiamento di tutta la sua vita (Le 22,27). Entrambi questi aspetti emanavano da un atteggiamento fondamentale tendente a vivere ed a morire per Dio e per gli uomini. È ciò che alcuni chiamano una esistenza per-gli-altri, una pro·esistenza. A motivo di questa disposizione Gesù era ordinato, in forza della sua stessa 'essenza ', ad essere il Salvatore escatologico che procura la 'nostra' salvezza (1 Cor. 15, 3; Le 22, 19-20b), la salvezza di «Israele» (Gv 11, 50), come quella dei gentili (Gv 11, 51). Questa salvezza è per la moltitudine (Mc 14, 24; 10, 45), per tutti gli uomini (2 Cor 5, 14 s.; 1 Tm 2, 6), per il «mondo» (Gv 6, 51). 32 H. SCHURMANN, ]esu, 12. 33 H. U. voN BALTHASAR, Le Chrìst, norme de l'histoire, in «La théologie de l'histoire », Paris 1955, 89 s.

178

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personale del merito può essere acquisita per gli altri, viene attribuita nel pensiero patristico e nella teologia di S. Tommaso alla pienezza di santità esistente nel Cristo per cui egli è costituito da Dio già nel tempo della carne, Capo della Chiesa ed al vertice del mondo. 34 Ma nell'ora della croce in cui la proesistenza per il Padre e per gli uomini si realizza nell'offerta totale e rompe il tessuto della carnalità o della condizione di vita katà sarka, realizzando il passaggio ad una nuova esistenza « secondo lo Spirito » (katà pneuma), il Risorto, che è lo stesso Crocifisso innalzato, attrae tutto e tutti verso di sé (Gv 12, 32) costituendo efficacemente il centro della nuova realtà, il luogo « personale » della universalità intesa come piena riconciliazione del mondo e dell'uomo con Dio (Ef 1, 10; Col 1, 20; 2 Pt 3, 1O-13). Egli è così costituito, nella resurrezione, efficacemente ed effettivamente come Nuovo Adamo, l'ultimo (eschatos), che è Spirito vivificante (1 Cor 15, 45), Uomo universale, in quanto superate le restrizioni di un modo di esistenza carnale, esiste ormai nel modo di esistenza spirituale consistente in una esistenza comunicativa della pienezza dell'agape, una esistenza di perfetta comunione universale.34' :t: quanto affermano i dati neotestamentari sul ruolo soteriologico del Cristo Capo del Corpo ecclesiale (1 Cor 12, 12-20; Rm 12, 4-5; 1 Cor 10, 16-17), principio della nuova creazione, suo pleroma, Signore della storia (Ef 1, 22; Col 1, 18-20). L'esperienza della potenza salvifica universale che gli apostoli hanno vissuto nel

34 Come vedremo nel terzo volume di questo saggio di cristologia, S. Tommaso che già nelle sue prime opere vedeva nella pienezza di grazia del Cristo una ragione del suo meritare «per noi» (III Sent., d. 18, a. 6, q. 1, 2 m) sottolinea sempre di più questa ragione formale di comunione di meriti e soddisfazione. Nella « Summa Theologica » egli dichiara che Cristo è « Caput omnium hominum quantum ad gratiam » (III, q. 19, a. 4, 1 m) e questo ruolo della grazia, come grazia del Capo, assurge a primo piano. È un concetto che riassume in sè una idea profondamente soteriologica: la grazia di Capo è il concentrarsi in Cristo di tutto il disegno salvifico divino nei confronti della intera umanità, per cui il suo concetto stesso è universale. Nell'ultimo periodo del suo pensiero teologico S. Tommaso non dice più che l'irraggiamento della grazia è fondamento del suo essere Capo; le ragioni si invertono: la grazia è data a Cristo in quanto Capo e per questo essa può irraggiare sulle membra (III q. 48, a. 1, c.), ed è per questa unità di grazia che si costituisce l'unità tra Cristo e noi, unità di una « persona mistica», onde i frutti della redenzione dei misteri di Cristo si diffondono a tutti gli uomini (III, q. 48, a. 2, ad 1 m). M. BORDONI, Il significalo ecclesiologico del concetto tomista di incarnazione nella Summa Theologica, in «Prospettive Teologiche Moderne » (Atti VIII Cogr. Tom. Int.), IV, Città del Vaticano 1981, 320-326. 34 • M. BORDONI, Il ruolo dello Spirito nell'ora pasquale di Gesù di Nazaret, in «Cristologia e Pneumatologia», Lt n.s. 47 (1981) 435-444.

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tempo post-pasquale è la realtà di questo dono proveniente dal Cristo esaltato che è divenuto appunto nella sua esaltazione principio efficace di unificazione cosmica e di santificazione interiore ad opera dello Spirito. Il cristologico è sempre alla radice del soteriologico, questo però, nella sua dimensione di efficacia rinnovatrice (efficienza) è essenzialmente legato alla fase di esistenza katà pneuma del Cristo glorificato. In essa, mentre egli appare come il « Salvatore escatologico » che già anticipa la fine dei tempi (1 Cor 10, 11) si intensifica anche la tensione escatologica che porta la creazione, nel travaglio e nel gemito (Rm 8, 19-22), verso i nuovi cieli e la nuova terra (2 Pt 3, 13} (LG 48 b).

C.

Il fondamento t1·initario del valore soteriologico universale della cristologia (cristologia e pneumatologia).

La necessità di fondare « cristologicamente » il ruolo soteriologico universale dell'evento compiutosi in Gesù Cristo, onde Egli appaia il « Mediatore Universale », fondazione che si compie nella esistenza prepasquale di Gesù di Nazaret e si rivela in tutta la sua efficacia e si tematizza apertamente nel periodo post-pasquale, ci fa risalire ancora più all'interno del mistero divino che sta alla radice di questa soteriologia. È, infatti, proprio la presenza in Gesù di Nazaret della pienezza del mistero di Dio che fonda la ragione ultima del suo essere per: l'in sé divino si rivela in esso come Amore senza limiti che è al principio (Agape paterno) del dono di sé che Gesù Cristo realizza nella sua vita terrena e nella sua morte (Agape filiale) e che nella sua resurrezione si espande nel mondo (Agape pneumatico) realizzando pienamente la universalità dell'evento di salvezza. La Trinità di Dio come Agape è il fondamento ultimo della cristologia e soteriologia in chiave universale: « nell'atto di ' donare', per amore, Colui che dona se stesso per amore, Dio, si definisce come amore (1 Gv 4, 8); questo dono identico (del Padre e del Figlio) può essere designato come 'lo Spirito' ». 35 Ora, già la vita terrena di Gesù ha questa caratteristica singo-

35 H. ScHiiRMANN, Jesu ureigener Tod, 12-13; H. MiiHLEN, Das Pneuma als Wesen des Wesens Gott, in « Die Veranderlichkeit Gottes », 23 s.; per la fondazione pneumatologica della universalità salvifica vedi: M. BORDONI, Istanze pneumatologiche di una cristologia in chiave universale, in « Parola e. Spirito», Brescia 1982, pp.; Io., Il dono dello Spirito da parte del Cristo glorificato, in « Cristologia e pneumatologia », 444-492.

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lare ed unica di essere l'espressione concreta e tangibile di questo amore trinitario che si manifesta nella persona del Figlio e si espande come dono nello Spirito. Di qui il paradosso di una esistenza terrena particolare, « umanamente » individuale, che possiede però una illimitata potenza di universalità, un radicale « essere per » (proesistenza), una intenzione soteriologica univers_ale. Questa intenzione non è un fatto solamente morale, di coscienza, ma è anche un fatto ontico legato alla unzione della umanità di Gesù. Questa unzione ad opera dello Spirito che si rivela apertamente nel battesimo di Gesù, sottolinea la forza della sua missione che si compirà come «un battesimo nello Spirito (Mt 3, 11; Mc 1, 8; Le 3, 16; Gv 1, 33), e cioè, come un'azione soteriologica dalla portata universale compiuta proprio in forza di questo Spirito. Ma è soprattutto nella sua condizione gloriosa, come già abbiamo detto, che 1il Cristo esercita la efficace realizzazione di questa intenzione e di questa potenza pneumatica già in Lui presente nella sua esistenza secondo la carne. Nel momento della croce, infatti, Gesù ha compiuto la sua oblazione in virtù dello Spirito (Ebr 9, 14 ), e nella resurrezione, costituito in condizione di potenza per lo Spirito di santificazione (Rm 1, 4; 8, 11; 1 Tm 3, 16) fino a divenire egli stesso «spirito vivificante» (1 Cor 15, 45; 2 Cor 3, 17), ha donato lo Spirito in pienezza per la fondazione della fede pasquale (Gv 20 ,23) e per la missione universale nel mondo (At 1, 8; 2, 1-5). È per lo Spirito dunque che l'evento cristologico, evento dell'amore del Padre e del Figlio, concretamente manifestato attraverso la esistenza storica di GesL1, viene a trascendere la particolarità storica del suo vivere e morire per assumere valore universale « per noi)> e per effondersi universalmente nel mondo. La

importanza di questa « effusione» non va pensata solamente attraverso la forza della esemplarità o della suggestione di un esempio che trascina o contagia (van Buren), ma come un agire efficace interiore, che si compie nell'uomo. Per questo agire interiore (testimonianza interiore) gli apostoli divengono testimoni autorevoli della Parola di Cristo (Gv 15, 26-27). L'opera del Cristo glorificato compiuta mediante lo Spirito non è solo realizzata per una efficace azione interiore: essa tende a trasformare l'apostolo in testimone universale del Cristo: «riceverete la virtù dello Spirito che verrà su di voi e sarete miei testimoni in Gerusalemme, in tutta la Giudea e Samaria sino ai confini della terra )> (At I, 8). È per l'azione dello Pneuma quindi che l'evento compiutosi in Gesù Cristo tende ad effondersi, ad essere assimilato interior-

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mente, ed a permeare la totalità del mondo come linfa vitale della nuova creazione. Lo Pneuma, dono del Pa:dre e del Figlio è, infatti, la dillusione sovrabbondante del loro stesso Amore negli uomini, per cui l'opera del Cristo giunge a compimento. È così che « la promessa restaurazione che aspettiamo, è già cominciata in Cristo, è portata avanti con l'invio dello Spirito Santo e per mezzo di lui continua nella Chiesa ... Già dunque è arrivata a noi l'ultima fase dei tempi ( 1 Cor 1 O, 11) e la rinnovazione del mondo è irrevocabilmente fissata ed in un certo modo reale anticipata in questo mondo « mentre tutte le creature sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e sospirano la manifestazione dei figli di Dio » (Rm 8, 19-22) (LG 48 b). La potenza universalizzante dello Spirito Santo 36 è anche una potenza anticipatrice della fine della storia per cui l'opera di universalizzazione è opera di escatologizzazione: in realtà questa universalità in atto è un movimento di espansione che dirige il cammino della storia verso l'adempimento finale del piano di Amore del Padre. Così è « nello Spirito » che si realizza il compimento totale della storia ed il cammino verso tale compimento (tensione escatologica). Egli è la potenza universalizzante del futuro escatologie in quanto potenza dell'Amore divino che si autotrascende in una sempre nuova feconda realizzazione: « il dono dello Spirito crea per il credente spazi aperti ... l'amore dischiude spazi, dove non v'erano, traccia strade, dona energie. Lo può perché in esso alberga sempre una promessa. Sopravvenendo, crea futuro, e non vuoto, ma ricolmantesi sempre più e, nel colmarsi, munifico di promesse nuove. L'amore è essenzialmente creativo ».37 In questo creare, in modo nuovo, lo spazio del futuro, nel suo anticipare nel tempo della Chiesa la fine della storia universale, lo Spirito, essendo « Spirito di Cristo» (Rm 8, 9; Fil 1, 19) e «del Figlio» (Gal 4, 6), non procede al di fuori della sua norma. Compito dello Spirito è infatti la universalizzazione della « verità del Cristo », il guidare i credenti verso la « verità totale», lo svelare ad essi «le cose che verranno» (Gv 16, 12-15), seguendo un compito salvifico che si richiama costantemente

36 H. U. VON BALTHASAR, Le Christ norme, 80: «l'universalizzazione è espressamente un'azione dello Spirito Santo ... Lo Spirito Santo mette in rilievo una particella della storia per conferirle una portata universale»; In., Sullo Spirito Santo e sul futuro, in « Spiritus Crea tor», Brescia 1972, 117-147. 37 H. U. VON BALTHASAR, Spiritus Creator, 143.

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all'opera del Padre e del Figlio: « egli non parlerà da se stesso, ma tutto quello che ascolterà, lo dirà» (Gv 16, 13 b-14) tutto quello cioè che ha appreso dal Figlio e dal Padre (Gv 16, 13 b-15 a). L'esperienza della potenza espansiva universale dell'amore salvifico del Padre offerto nel sacrificio del Figlio per la sovrabbondanza dello Spirito, «caparra» del pieno adempimento dell'eschaton, porta il pensiero cristiano di fede « agli inizi » del mistero stesso di Dio, « in se stes·so », al principio della sua stessa elezione gratuita creatrice e ricreatrice dell'uomo e del mondo (protologia). Dalle dimensioni trinitarie dejll'economia salvifica riv~latasi nell'opera di Gesù di Nazaret, esso risale alla Trinità in sé. È nell'intimo di questo mistero eterno che l'universalità salvifica dell'opera del Cristo, del suo evento, trova la ragione prima. Bisogna però anche qui procedere ad un più profondo accostamento della realtà « in sé », dell'essere di Dio Trino (Trinità immanente) e della sua realtà «per noi» (Trinità economica) evitando di parlare della prima astrattamente dalla seconda. Il primo e più immediato incontro tra la comunità cristiana ed il mistero trinitario di Dio si realizza infatti proprio sul piano soteriologico e nel luogo cristologico. Infatti, il mistero della Trinità economica si rivela incentrato nella Persona e nell'evento della Pasqua del Cristo. È Lui che ci ha dato la prima e fondamentale rivelazione del Padre e della realtà dello Spirito, è Lui che nel mistero della sua Croce e della sua Resurrezione ha portato alla sua pienezza tale rivelazione e soprattutto inviandoci lo Spirito ci ha manifestato la ragione trinitaria della potenza universale della salvezza. Dal piano cristologico-soteriologico è possibile risalire ad una visione del mistero trinitario di Dio in sé considerato, in cui il Padre ed il Figlio non si esauriscono nel loro reciproco amore, ma fondano la potenza effusiva di questo amore che nella sua sovrabbondanza ed eccedenza termina alla Persona dello Spirito.38 In Lui, l'es-

38 Nell'ambito della teologia cattolica contemporanea, come si nota per esempio in W. KASPER, Jesus, 297, in H. MliHLEN, De,. Heilige Geist als Person, Miinster 1963; Io., Una Mystica Persona, Paderborn 1967; F. MALMBERG, Ein Leib-ein Geist, Freib. Br. 1960, 115-223; 315 s. si tende a partire da una considerazione più storico-salvifica della Trinità e da un forte ravvicinamento alla teologia trinitaria greca (cf. P. EunOKIMOV, Lo Spirito Santo nella tradizione ortodossa, Roma 1971) per cui nello Spirito non si tende a vedere semplicemente il chiudersi della vita trinitaria immanente (M. SCHMAUS, Die psychologische Trinitiitslehere des hl. Augustinus, Mi.inster 1927) secondo il modello del cerchio,

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sere trinitario di Dio si manifesta come quello che non si chiude in una immanenza esclusiva, ma si apre in una continua effusione e comunicazione che al di fuori di Dio (ad extra) si realizza, con assoluta libertà e gratuità, nell'ambito della creazione e della storia. Per cui si può anche dire che « nello Spirito, la più profonda essenza di Dio, la sua libertà nell'amore, spinge verso l'esterno. In Lui, in quanto libertà nell'amore, Dio ha pure la possibilità di produrre 'un esterno ', cioè una creatura per reintrodurla nella sfera del suo amore senza menomarla nella sua integrità creaturale ».39 L'esperienza storica della sovrabbondanza ed universalità dell'amore salvifico congiunta sul piano soteriologico con l'esperienza del dono dello Spirito ha portato verso la realtà trinitaria di questo stesso Spirito considerato in se stesso come il fondamento, da parte di Dio, della sua possibilità di autocomunicazione libera nella storia. Così, se « all'interno della Trinità » lo Spirito, come « libertà di Dio che preme verso l'esterno nel suo amore comunicativo di se stesso, è logicamente posteriore alla generazione del Figlio, nella prospettiva storicosalVlifica Egli è la premessa ed il fondamento della possibilità ... il precursore dell'incarnazione del Logos ».4-0 Questa prospettiva del ministero trinitario di Dio come aperto ad una libera autocomunicazione storica, nello Spirito ,consente una più adeguata visione del ruolo della preesistenza di Cristo come principio di una storia universale di salvezza, costituendo il presupposto creativo della stessa espansione universale della sua opera salvifica nel mondo. Abbiamo già notato come il risalire del pensiero cristiano verso la « protologia », la preistoria di Gesù di Nazaret, porta ad una esistenza celeste « ante saecufa » presso il Padre, considerata però non

onde Io Spirito appare come il lato più profondo e nascosto di Dio, mentre le « operazioni ad extra » sono rigorosamente vedute come opere della comune essenza di Dio, solo « appropriate» alle divine persone. Nella visione orientale, in· cui la considerazione trinitaria di Dio parte dalla prospettiva delle persone e dal loro manifestarsi nella storia salvifica, lo spirito è come il « trabocco >>, la « sovrabbondanza dell'amore che si manifesta nel Figlio»: nello Spirito, l'amore manifestato nel Figlio tende a dilatarsi verso l'esterno ad una più ampia manifestazione di Dio. Qui «lo Spirito è il lato più esterno di Dio» (W. KASPER, Jesus, 308). Egli, allora, come è la personale comunione tra il Padre ed il Figlio, cosl è come il principio di comunione tra Dio e la storia: in Lui, Dio si autotrascende nella piena libertà, nella creazione e salvezza. Le due posizioni (occidentale e orientale) non vanno però contrapposte: esse appaiono piuttosto complementari. 39 W. KASPER, Jesus, 297. 4-0 W. KASPER, Spirito-Cristo-Chiesa, in «L'esperienza dello Spirito», Brescia 1974, 77; Iv. G. SAUTER, Kircbe-Ort des Geistes, Freib. Br. 1976, 26 ss.

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isolatamente dal piano storico-sa'lvifìco 41 bensì sempre in tale prospettiva. Cosl il « Cristo-Logos », proprio perché preesistente può essere presente all'opera creativa (Gv 1, 1-5; Col 1, 15-16) e con ciò può fondare già, nell'opera stessa creativa, quella intenzione comunicativa di Dio all'uomo per cui tutta l'opera stessa creatrice è già un primo atto della storia di salvezza condotta sotto il segno di Cristo. La storia umana vive perciò, temporalmente, nell'attesa della sua venuta, nell'incarnazione e nel suo avvento parusiaco. Ora, noi possiamo completare trinitariamente questo discorso, in quanto, la prospettiva di una libera autocomunicazione « ad extra » del Logos, non va considerata indipendentemente dall'opera propria dello Pneuma: l'Amore creativo del Padre si comunica «nel Figlio», nell'ambito della storia salvifica, attraverso lo Spirito. Lo Spirito che è già, nella Trinità immanente, la sovrabbondanza personalizzata dell'Amore del Padre e del Figlio, è colui, attraverso il quale, cominciano, per così dire, le libere opere di Dio ad extra. Cosl, nell'opera di Dio, nella prima creazione e nella seconda creazione, lo Spirito è un principio operante insieme alla Parola come ampiamente documentano sia l'AT che il NT. 42 L'azione creatrice di Dio mediante la Parola e lo Spirito non costituisce solo una fondazione entitativa della realtà, ma anche una fondazione storico-salvifica di questa realtà, nel senso che, per la Parola e lo Spirito, Dio conduce la storia secondo i suoi piani, raccogliendo Israele e facendone un partner di dialogo con lui in vista del suo dialogo con tutta l'umanità. A misura che la storia si evolve, la Parola e lo Spirito presiedono questo cammino in modo efficace e creativo, ne mostrano il signi:ficato recondito, dando intelligenza e forza, conoscenza di Dio e delle sue vie (Is. 11, 3). Da un capo all'altro il Logos e lo Pneuma operano insieme « se il profeta rende testimonianza alla Parola è perché lo Spirito lo ha afferrato; se il Servo può portare alle nazioni la Parola di salvezza è perché lo Spi-

Vedi sopra pp. 86-87. Non sono molti i testi che presentano l'accoppiamento insieme della Parola e dello Spirito nell'opera creativa, ma moltissimi sono quelli in cui, anche se separatamente, si parla del ruolo creativo della Parola e dello Spirito. Esempio di presenza insieme dei due termini: Sa! 33, 6; 147, 18; Gdt 16, 14). Cf.: J. GurLLET, Le soufjle de Jahweh, in « Thèmes Bibliques », Paris 1954, 208-255; H. CAZELLES, L'Esprit de Dieu dans l'AT, in « Le mystère de l'Esprit-Saint», Paris 1968, 21-43; E. JACOB, Les moyens d'action de Dieu, L'Esprit, la Parole, in « Théologie de l'AT >>, Neuchatel 1968, 98-103. 41

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rito riposa su di lui; se Israele è capace di aderire un giorno in cuor suo a questa Parola, ciò sarà soltanto nello Spirito ».43 Specie nella letteratura sapienziale emerge la stretta unione tra la Parola e lo Spirito.44 La Sapienza personificata che prelude letterariamente l'interpretazione cristologica paolina e giovannea con l'idea della preesistenza creatrice del « Cristo-Logos » (Gv 1, 1-5), « Primogenito della creazione» (Col 1, 15), appare quasi identificarsi con lo stesso Spirito che riempie e contiene l'universo ,45 partecipando al1'opera creativa di Dio (Sap 8, 6; 14, 2) 46 soprattutto nell'uomo. Lo Spirito-Sapienza è uno Spimto amico dell'uomo (Sap 1, 6; 7, 22) presente nel recondito della sua coscienza, principio di santità, di inte'lligenza, che abita nei santi e che rende runici di Dio (Sap 7, 28). Questa spiritualizzazione della sapienza creatrice consente di cogliere nella prospettiva neotestamentaria l'opera universale del Cristo preesistente e già presente alla prima creazione come opera congiunta anche allo Pneuma, il quale nel momento escatologico porterà ancora a compimento la nuova creazione realizzata nel « Cristo glorificato» facendo di Lui il «pleroma del mondo» (Col. 1, 19), principio universale di vivificazione cosmica (1 Cor 15, 45). La presenza della Parola e dello Spirito nella prima creazione è di notevole importanza in quanto non solo rivela che già la prima creazione è ordinata alla seconda in cui sarà all'opera in modo straordinario lo Spirito per l'incarnazione della Parola e per la sua interiorizzazione nei credenti, ma anche per la portata universale dell'opera stessa« soteriologica» di Cristo. Questa è universale non solo perché porta con sé la pienezza dello Spirito, forza universalizzante dell'Agape divino, ma anche perché già, nello Spirito, è operante a'll'iinizio dell'opera creativa del mondo e dell'uomo. Una visione della storia J. GurLLET,

Le souffle, 254. Se nei libri profetici lo Spirito manifesta qualità sapienziali, nei libri sapienziali è la Sapienza che mostra qualità pneumatiche: P. VAN IMSCHOOT, Sagesse et Esprit dans l'AT, in RB 47 (1938), 23-49; D. LYs, « Rudch », le Souffle dans l'AT, Paris 1962, 194-195. 4s Per i contatti tra Sap. 6-9 e Prov. 1-9 vedi: C. LARCHER, Études sur le livre de la Sagesse, Paris 1969, 97-99; 332-333; 388-389; 403-404; E. HAULOTTE, L'Esprit de ]ahvé dans l'AT, in « L'Ho=e devant Dieu », I, Paris, 1963, 25-26: h ipostatizzazione della Sapienza, in cui la Sap. è l'equivalente dello Spirito divino, porta alla stessa ipostatizzazione dello Spirito (P. IMSCHOOT, 37; H. CAZELI.l'azione dello Spirito, ma non senza il contributo della storia e della cultura dei popoli. È nella Chiesa, però, che avviene l'incontro più autentico tra la Parola di Cristo, la sua realtà vivente ed il mondo, nella sua varietà di linguaggio e di culture. In questo ruolo di mediazione per cui si assolve la missione della Chiesa nel mondo e che non è altro che il suo stesso cammino nella storia, si impone la duplice esigenza ·sopra delineata della condizione «sotto la norma di Cristo». La Chiesa potrebbe, infatti, preoccupata di salvaguardare la fedeltà alla Parola storica di Gesù ed all'annuncio kerigmatico rinchiudersi in questo rapporto respingendo un vero dialogo con il mondo. 190 Risponde a questa preoccupazione l'idea di evangelizzazione intesa in maniera puramente kerigmatica, per la quale la missione nel mondo è veduta so-

188 Noi possiamo parlare di molti aspetti, di titoli, di confessioni cristologiche· del NT in quanto «l'unità e la pluralità nell'espressione della fede hanno il loro. fondamento nel mistero stesso di Cristo che « pur essendo mistero di ricapitola-· zione e di riconciliazione universale (Ef 2, 11-22) sorpassa le possibilità di espressione di qualsiasi epoca della storia, sottraendosi con ciò stesso ad ogni siste-matizzazione esaustiva » CTI, Pluralismo, unità della fede e pluralismo teologico,. tesi n. 1, Bologna 1974, 15. 189 J. D. G. DUNN, Unity and Diversity in the New Testament, London 1977; P. GRECH, Metodologia per uno studio della teologia del Nuovo Testamento, Torino 1978, 23-46. 190 Qualora ciò avvenisse il linguaggio della Chiesa nel tempo diverrebbe « monologico » e sempre più incomprensibile, rendendo inefficace lo stesso scandalo del messaggio della croce la cui forza di rottura esige che essa si eserciti all'interno dell'universo mentale e culturale dell'uomo.

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prattutto sotto il profilo del « dare »: dare ad un mondo e ad una storia del tutto vuoti di salvezza, una Parola ed una Dottrina che derivano dall'unico ed irrepetibile avvenimento del passato di Gesù Cristo e resa presente dalla Chiesa. La evangelizzazione è intesa allora, soprattutto come la comunicazione di questa Parola compiuta e pronunciata una volta per sempre, Parola che deve tutto plasmare e rinnovare nella coscienza dei popoli: è una idea di evangelizzazione dominata soprattutto dalla « prima venuta di Cristo » tendente a fare di essa la sola « norma della fede » che ,sempre e sola si confronta con il ,suo passato (memoria ]esu). Nel Sinodo episcopale del 197 4 una tale idea di evangelizzazione testimoniava la preoccupazione di non minimizzare il mistero della Parola di Dio come parola ultima in Gesù Cristo. 191 Ma noi abbiamo veduto come « l'essere sotto la norma di Cristo » che implica in modo assoluto la fedeltà all'evento della incarnazione, non va solo determinato dalla memoria del Gesù terreno e dalla norma scritta del Nuovo Testamento, esso dice anche rapporto al Cristo Glorificato che nella potenza dello Spirito conduce la Chiesa alla verità tutta intera (Gv 16, 13) e la precede nel cammino della storia verso la futura Parusia. 192 Questo richiede da parte della Chiesa, oltre all'atteggiamento di fedeltà verso la Parola, che la fonda nella fede, quello di attenzione per la decifrazione dei segni dei tempi « come segni che indicano la presenza operante di Cristo, per il suo Spirito, nel mondo umano storico, nelle culture e nelle vicende dei popoli, verso l'avvento finale dell'eschaton ». 193 « Fiduciosi nell'azione dello Spirito Santo, che si estende oltre i confini delle comunità cristiane, vogliamo portare avanti il dialogo con le altre religioni non-cristiane, per riuscire 191 Le due concezioni diverse della evangelizzazione, che però non sono affatto incompatibili, bensì devono integrarsi reciprocamente e non vanno prese ìn senso esclusivo, sono state ben rilevate da Mgr ETCHEGARAY nel rapporto scritto pubblicato in DC n. 1664, 1974, 985; R. LAURENTIN, L'évangélisation aprèr le quatrième Synode, Paris 1975, 142 ss. l92 Il cammino della Tradizione di fede non deve essere ridotto ad un fenomeno sociologico di «acculturazione» o «inculturazione»: esso costituisce, invece, un autentico progresso nell'approfondimento interiore dell'unica Parola storica rivelataci da Dio in Gesù Cristo, anche se non esclude l'importanza dell'apporto delle istanze culturali provenienti dalle epoche storiche e dagli ambienti diversi del mondo. 19J R. LAURENTIN, L'évangélisation, ivi; L. BoFF, Die Kirche, 513-517; S. DrANICH, La missione della Chiesa nella teologia recente, in « Coscienza e missione della Chiesa», Assisi 1977, 176 ss.

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a comprendere più profondamente la novità del Vangelo e lr pienezza della rivelazione ». 194 Una tale visione della missione della Chiesa richiede un atteggiamento di evangelizzazione sensibile ad un vero dialogo in cui si realizza con il « dare » anche il processo « dell'apprendimento» da parte della stessa comunità ecclesiale nei confronti delle culture umane 195 e delle situazioni storiche concrete alle quali frequentemente si rifanno documenti pontifici ed episcopali 196 richiamando i cristiani alla necessità di una « doverosa » attenzione al momento storico, ai fenomeni che lo caratterizzano, ai segni che lo rivelano; nasce qui anche la possibile pluralità delle ·scelte e dei metodi. 197 Una tale importanza che si dà alla situazione culturale ed alla mediazione delle scienze umane che ne approfondiscono il fenomeno, da un lato preserva la missione della Chiesa dai pericoli integristi che pretendono derivare immediatamente dal Vangelo le norme di prassi in una determinata situazione culturale storica, ma dall'altra non pregiudica il compito kerigmatico della Chiesa testimone dell'unica Parola di Cristo. « Il messaggio di Gesù Cristo come Salvatore e Redentore, non può essere come tale fatto oggetto dalla Chiesa di trattativa dialogica, ma in ultima analisi deve sempre essere semplicemente annunciato. Il kerigma resta in questo senso la autentica forma di discorso della Chiesa di cui essa si fa debitrice agli altri ... Essa non può fare oggetto di trattativa ciò che le è proprio, ma lo può solo offrire alla decisione della fede ». 198 Questo indiscusso aspetto del compito kerigmatico della Chiesa rischia tuttavia di rimanere inefficace senza il momento del dialogo che tende a rilevare il profondo rapporto tra lannuncio· della Parola evangelica ed un determinato contesto culturale: « il messaggio cristiano si può intendere e si può quindi esperire nella sua autenticità solo dove si sia offerta ~n precedenza la domanda dell'essere umano appunto come domanda. La vitalità della rispoDichiarazione dei Padri sinodali, n. 11. C. NIGRO, La dialogicità del rapporto rivelazione-cultura, Lt n.s. 44 (1978) 535 .. 196 In tal senso vanno i documenti pontifici: « Evangelii Nuntiandi » (AAS 68 (1976); « Octogesima Adveniens » AAS 63 (1971), 3.4; le relazioni sulla Chiesa. nei cinque continenti in «L'evangelizzazione nel mondo»: i documenti principali della J• assemblea generale del Sinodo dei vescovi (27 sett-26 ottobre 1974), To-· rino 1976, 34-94. 197 Octogesima adveniens, 4; EvNu 38.55. 198 J. RATZINGER, L'idea del dialogo, in «Il nuovo popolo di Dio», Brescia 1971, 317-318. 194

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sta cristiana ... esige quindi fondamentalmente la vitale esperienza della domanda; l'annuncio cristiano può sempre solo ricevere da questa domanda la sua vita e la sua realtà nella umanità. Per questo motivo, si deve da un lato destare la domanda, mentre dall'altro lato, il messaggio cristiano si deve continuamente lasciare ridestare dall'effettivo domandare degli uomm1, partendo dall'ascolto di queste domande, per plasmare ogni volta in modo nuovo la sua risposta. Il ' dialogo ' sarà sempre anzitutto e sostanzialmente, un prendere sul serio la ricchezza e la profondità del domandare umano, quel partecipare alla totalità della passio humana, quel divenire 'tutto a tutti' (1 Cor 9, 22) che è infinitamente più di un accorgimento pedagogico ». 199 È •solo questo partecipare della Chiesa alla « passio humana », all'interrogativo proveniente dal mondo umano. considerato nel suo stesso evolversi storico, l'accogliere in sé con attento discernimento « i gemiti della creazione e della umanità intera » suggeriti dallo stesso Spirito di Cristo (Rm 8, 22-24) che la Chiesa può divenire il luogo in cui il messaggio di salvezza si realizza come Parola viva, kerigma formale, risposta sempre attuale alle angosce umane. In questa prospettiva acquistano sempre maggiore importanza le « chiese particolari o locali » quali rea.Jizzazioni della Chiesa in un luogo, caratterizzate da una cultura e civiltà,200 chiese che divengono luoghi di evangelizzazione inquanto in esse si vive concretamente « il processo dinamico della comunicazione del V angelo » determinato dalla « Parola, opera e vita, intimamente connesse tra loro », ma anche «da vari elementi quasi costitutivi degli stessi ascoltatori della Parola di Dio: cioè le loro esigenze e desideri, il modo di parlare, di sentire, di pensare, di giudicare e di entrare in contatto con gli altri. Tutte queste condizioni molto divel'Se tra loro secondo la varietà dei luoghi e dei tempi, spingono le chiese particolari ad una appropriata « traduzione » del messaggio evangelico, e secondo il principio di incarnazione, ad escogitare sempre

199

J.

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È questo il senso di « chiese locali» emergente in alcuni passi del Con-

lù.TZINGER,

iui, 318.

cilio Vaticano II (LG 23; UR 14) e nel sinodo episcopale del 1974, n. 9 (R. LAURENTIN, 94), come pure nella EvNu n. 62: «la Chiesa universale si incarna di fatto in chiese particolari, costituite dall'una o dall'altra concreta porzione di umamta, che parlano una data lingua, che sono tributarie di un loro retaggio culturale, di un determinato sustrato di umanità ».

LA CRISTOLOGIA IN PROSPETTIVA UNIVERSALE

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nuovi, ma fedeli « modi di radicarsi ». 201 Ancora più concretamente e particolarmente le « comunità ecclesiali di base » 202 rappresentano « un luogo di evangelizzazione » in cui si può operare felicemente la mediazione tra messaggio cristiano ed istanze culturali del tempo, una volta che tali comunità, dice Paolo VI, non si lascino dominare solo dalla polarizzazione politica, dalle ideologie di moda, dalle contestazioni sistematiche, ma cerchino di vivere alimentandosi alla Parola di Dio, nella comunione con la Chiesa ed i suoi pastori.ro3

CONCLUSIONE.

Posta nel cuore dell'odierna teologia sistematica, la cristologia risponde alle esigenze di un discorso di fede che tenga conto che ogni nostro parlare ~u Dio e sull'uomo trova in Gesù Cristo il suo fondamento. Ma essa assolve pure un compito essenziale per la crescita della fede stessa nella sua novità e nella sua dimensione di rilevanza universale. In questa prima parte del ·nostro cammino abbiamo posto in evidenza i vari problemi del dibattito cristologico raggruppandoli intorno ad un triplice filone portante: a) quello che concerne l'esigenza della fede cristologica di risalire alle sue origini (Gesù agli inizi della cristologia) con il duplice intento di mostrare come in Gesù di Nazaret, nella sua storia prepasquale, nella sua morte e resurrezione, si colloca la pietra angolare della fede in Lui, il suo « criterio primario » con il quale essa deve costantemente confrontarsi ed essere un fedele rispecchiamento e come nella verità ·storica dell'evento compiutosi in Gesù Cristo la fede cristologica porta con sè le sue profonde ragioni di credi-

201 Dichiarazione dei Padri sinodali, 1974, n. 9; Paolo VI, EvNu nn. 62-63 nota il compito delle «chiese particolari» amalgamate con le aspirazioni, ricchezze, limiti, modi di pregare, di amare, di considerare la vita ed il mondo che contrassegnano un determinato ambito umano, di promuovere senza alterazione una trasposizione di linguaggio dei popoli, linguaggio inteso meno nel senso semantico o letterario che in quello che si può chiamare « antropologico-culturale». 202 L'EvNu rifiuta l'appellativo di «comunità ecclesiali» a quelle comunità di base che si pongono « contro la Chiesa >>, ma accetta il valore di « comunità ecclesiali di base» per quelle che corrispondono ai requisiti sottolineati. Cf. M. ZAGO,' Comunità ed evangelizzazione. Orientamenti dei Sinodi del 1974•1977 e prospettive comunitarie, « Lateranum », ns 45 (1979), 107 sgg. 201 EvNu, ivi.

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bilità; b) Un secondo compito essenziale della cristologia è quello che concerne il rapporto singolare ed unico di Gesù con Dio, per cui nell'evento cristiano non solo appare un volto di Dio pienamente coinvolto nella storia dell'uomo, ma un volto tripersonale di Dio Amore che risplende nella grazia del perdono che il Padre offre in Gesù Cristo, nella oblazione sacrificale che questi, quale Figlio, compie nella offerta di sè, nella potenza illimitata i.miversale dell'amore diffusivo dello Spirito. :E: in questo mistero di Dio che nella Persona e nell'opera di Gesù di Nazaret si rivela offrendosi a noi, la ragione primaria non solo del profondo rinnovamento interiore dell'uomo, ma dello stesso suo rapporto con gli altri e con il mondo; e) Una terza esigenza essenziale dell'odierna cristologia è quella di dare rilievo alla potenza di irraggiamento universale della s-alvezza compiutasi in Gesù Cristo (soteriologia). Questa comporta non solo l'evidenziare le ragioni intr.inseche per cui quanto è accaduto in Lui ·riguarda tutta l'umanità, ma anche nel mostrare la sua efficacia salvifica nel suo rispondere alle istanze fondamentali dell'uomo. In questo rispondere della cristologia a queste istanze si dà piena ragione alle affermazioni di fede secondo cui Gesù Cristo è il Salvatore di tutti, il Mediatore universale dell'opera salvifica di Dio nella ·storia. Colui nel quale solamente è possibile essere ·salvati. Nelle parti successive del nostro saggio sistematico noi cercheremo di procedere mettendo in atto tali esigenze e compiti in due momenti: il primo dedicato al tiisalire verso Gesù di Nazaret, alla. sua storia prepasquale, momento fondatore della cristologia, culminante nella pasqua, ed il secondo dedicato agli sviluppi della cristologia postpasquale, delle dimensioni dogmatiche della fede cmstologica ecclesiale e della sua portata universale salvifica.