Gesù di Nazaret Signore e Cristo. Saggio di cristologia sistematica. Gesù al fondamento della cristologia [Vol. 2] [PDF]

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Zitiervorschau

Marcello Bordoni

,

GESU DI NAZARET SIGNORE E CRISTO

saggio di cristologia sistematica

2. Gesu al fondamento della cristologia

Herder

~

Università Lateranense

In memoria di mia sorella Maria testimone di Cristo tra i piccoli, ai quali il Padre si è degnato rivelare i «Misteri del Regno», dispensatrice della «sapienza dell'Amore» tra coloro che non credevano di poter essere amati.

Con approvazione ecclesiastica

PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA STAMPATO IN ITAUA PRlNTED lN lTALY

GESTISA S.r.l. - Stabilimento Tipografico «Pliniana » Viale F. Nardi, 8 Selci Umbro - Perugia - 1982

INDICE INTRODUZIONE PARTE I CAPITOLO I LA VENUTA DI GESù DI NAZARET NEL QUADRO DELLE ATTESE STORICHE DI ISRAELE I.

LE ATTESE STORICHE DI ISRAELE . .

Il. LE ATTESE DI ISRAELE NEL QUADRO DELLA STORIA UMANA .

Pag.

10

»

JO

CAPITOLO II LE ORIGINI DELLA ESISTENZA STORICA DI GESù l.

38 46

L'ADEMPIMENTO DEL TEMPO ANTICO

II. LE ANTICIPAZIONI DEL VANGELO . CAPITOLO III LA VITA PUBBLICA DI GESÙ: GLI INIZI I.

IL QUADRO GENERALE DELLA VITA PUBBLICA DI GESÙ DI NAZARET

»

56

II. GESÙ ED IL MOVIMENTO PENITENZIALE DEL BATTISTA .

»

61

lii. DESERTO E TENTAZIONI DI GESÙ .

»

69

CAPITOLO IV IL MINISTERO GALILAICO: IL MESSAGGIO DEL REGNO DI DIO NELLA PREDICAZIONE DI GESù l.

LE DIMENSIONI ESSENZIALI DELL'ANNUNCIO . a) L'attualità escatologica di Gesù . . . .

del

Regno

nella

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77

predicazione

78

INDICE

VI

b) La dimensione teologico-cristologica del messaggio del Regno nella predicazione di Gesù . e) Il carattere soteriologico-ecclesiologico del messaggio del Regno . II.

IL MESSAGGIO DEL REGNO NELLE BEATITUDINI E NEULE PARABOLE A. Le «beatitudini» B. La giustizia del Regno C. Il messaggio del Regno nelle parabole -

Il significato del linguaggio delle parabole Il valore storico Il messaggio evangelico del Regno nelle parabole

Pag.

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CAPITOLO V LA VENUTA DEL REGNO NEL COMPORTAMENTO PERSONALE DI GESù: IL MISTERO DELLA SUA PERSONA

I.

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155 165

I SEGNI DELCA M!SERlCORDIA

»

187

a) Il comportamento di Gesù in rapporto alle classi dominanti del giudaismo del suo tempo b) Il comportamento di Gesù verso i poveri ed i piccoli

)} »

192 206

L'AUTORITÀ DI GESÙ (exousia regale) -

II.

Gesù e la Legge .

III. I SEGNI DELLA POTENZA SALVIFICA: I MIRACOLI a) Il problema storico b) Il significato teologico del miracolo

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224

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228 245

CAPITOLO VI IL MISTERO DELLA PERSONA DI GESÙ NELLA SUA IDENTITA FILIALE

I.

GESÙ ED IL PADRE

II. GESÙ E LO SPIRITO -

Il significato del rapporto di Gesù di Nazaret con lo Spirito

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258

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284

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310

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320

CONCLUSIONE DELLA PRIMA PARTE I.

LA QUESTIONE DI GESÙ .

II. IL PERIODO POST-GALILAICO: GESÙ, I DISCEPOLI E LA COMUNITÀ DEL REGNO

VII

INDICE

PARTE II VERSO LA CROCE E LA RESURREZIONE CAPITOLO

I

IL MINISTERO GEROSOLIMITANO E LA CRISTOLOGIA DI GESù

I.

LA CRISTOLOGIA DI GESÙ AL CONFRONTO CON IL GIUDAISMO UFFICIALE:

I

DIBATTITI

GEROSOLIMITANI NEI

SINOTTICI E

Pag. 348

NEL QUARTO EVANGELO

Il.

LA ESCATOLOGIA: DIMENSIONE ESSENZIALE DELLA CRISTOLOGIA DI GESÙ • .

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40.3

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408

ESISTENZA TERRENA DI GESÙ DI NAZARET E DELLA SUA COSCIENZA PROTESA VERSO LA PASSIONE E LA CROCE .

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426

Il.

LE

PROFEZIE

DELLA

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435

III.

LA

CENA

ADDIO

JIJ. I

TITOLI MESSIANICI E LA CRISTOLOGIA DI GESÙ

1. La cristologia di Gesù di Nazaret nei titoli riguardanti la

realtà escatologica del Regno . . . . 2. La cristologia di Gesù di Nazaret nei titoli concernenti la realtà teologica del Regno . 3. La cristologia di Gesù nei titoli riguardanti la realtà soteriologico-ecclesiologica del Regno . CAPITOLO

II

LA CRISTOLOGIA DI GESù DI NAZARET ED IL CAMMINO VERSO LA CROCE (soteriologia)

I.

SGUARDO GENERALE SULL'ORDINAMENTO ESCATOLOGICO DELLA

DI

PASSIONE .

Il significato della soteriologia di Gesù di Nazaret

JV.

))

440

»

451

0

GLI AVVENIMENTI DELLA PASSIONE E DELLA MORTE DI GESÙ

-

Il Getsemani . L'arresto di Gesù I! processo di Gesù La crocefissione

-

LA MORTE DI GESÙ

Conclusione

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458

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464 465

»

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484

»

514

INDICE

VIII

CAPITOLO III DALLA CROCE ALLA RESURREZIONE I.

LA RESURREZIONE DI GESÙ: LO STATO DELLA QUESTIONE

II.

LA REALTÀ DELLA RESURREZIONE DI GESÙ COME EVENTO STORICAMENTE CONOSCIBILE

1. La certezza delln fede e della predicazione apostolica sulla resurrezione di Gesù di Nazaret . 2. I RACCONTI PASQUALI: a) Le apparizioni del b) Il sepolcro vuoto

Risorto

III. LA REALTÀ DELLA RESURREZIONE DI CRISTO NEL SUO SIGNIFICATO RIVELATO DAI LINGUAGGI NEOTESTAMENTARI 1. Resurrezione ed escatologia 2. Resurrezione e vita . 3. Esaltazione e glorificazione . 4. Complementarità dei linguaggi 5. L'ascensione del Signore: avvenimento storico o linguaggio di fede? IV. LA RESURREZIONE DI CRISTO COME COMPIMENTO DELLA CROCE E COME NUOVO EVENTO CRISTOLOGICO-PNEUMATOLOGICO V.

LA RESURREZIONE DEL CRISTO ED IL DONO DELLO SPIRITO .

1. Il Cristo Risorto nascita della fede 2. Il Cristo Risorto nuova creazione 3. La resurrezione di CONCLUSIONE GENERALE

per il dono .. dello Spirito genera la pasquale per il dono dello Spirito inizia la

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Cristo e la pentecoste

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ABBREVIAZIONI (collezioni, dizionari, riviste citati.)

AAS ABI AmCI

AnB B (Bl) BASOR BL BlVc BOr BSFEM BTW BZ CBQ Chr Co!lBr Con e DBS EJ EstB EtB ETL EVB(EV) EvTh ExpT FV FZThP Gr

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ABBREVIAZIONI

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GESU DI NAZARET SIGNORE E CRISTO

INTRODUZIONE In questa sezione di studio della cristologia il nostro compito è quello di risalire alle origini della fede ecclesiale in Gesù come Cristo, Signore, Figlio di Dio, unico Salvatore dell'uomo, compimento della storia. In questo risalire « alle origini » si assolve il primo ruolo « fondatore », per la fede cristologica, da parte della cristologia. La fede cristiana, infatti, non è sospesa ad una rivelazione puramente celeste, ad una conoscenza esoterica di verità puramente atemporali; nè è una fede chiusa in se stessa nel cerchio magico di una autoesperienza comunitaria creatrice di salvezza. La fede cristiana è fede in Dio rivelatosi in Gesù Cristo, nel compimento dei tempi, prima che noi .credessimo (extra nos della salvezza). In Gesù Cristo, nella sua Persona incarnata nella storia, nel suo messaggio, nella sua causa realizzatasi nell'evento pasquale della morte e resurrezione sta il criterio primario della stessa fede ecclesiale, per cui quanto si è compiuto nella storia di Gesù 1 è « parte integrante » e non un semplice presupposto della fede stessa Quanto esporremo quindi in questa seconda sezione sul volto storico di Gesù, sulle vicende della sua vita, sulla sua testimonianza riguardo a se stesso, risalendo attraverso i dati degli evangeli alla realtà originaria dei fatti, non è dettato da un interesse semplicemente biografico e ·storiografico. Il valore del dato originario della storia di Gesù e della sua cristologia sta in una esigenza autocritica della fede stessa, nella verifica, cioè, della sua piena corrispondenza al fatto cristologico delle sue origini, da cui essa attinge la sua più profonda novità, la sua vitalità, la sua efficacia salvifica nel nostro stesso presente storico. Bisogna però richiamare, 1 a come seconda premessa, che l'idea del Gesù storico non deve essere indel?itamente ridotta all'evento prepasquale della sua vita, svuotando di contenuto e di importanza l'evento pasquale (il Cristo Crocifisso e Risorto) per affermare che oltre la morte la causa di Gesù continua. Questo significherebbe voler dare il predominio al passato ed alla funzione della memoria, interpre1 1&

Vedi volume I, c. 1: «Il problema critico della cristologia», p. 19 s. I vi, pp. 66-68.

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GESÙ DI NAZARET, SIGNORE E CRISTO -

Il

tando poi l'era post-pasquale come quella del mero predominio della dimensione soggettiva della fede della Chiesa. Una tale concezione non riuscirebbe a superare in partenza il pernicioso dualismo che .finisce sempre con l'opporre l'oggettivismo della Historie con il soggettiviismo kerigmatico della Geschichte. In realtà, la fede apostolica era già presente nella vita terrena di Gesù durante la quale ha trovato il suo primo inizio, si è andata formando nel suo primo Sitz im Leben, la tradizione apostolica sul detti e sui fatti di Gesù. 1 b Ma d'altra parte, la realtà di Gesù di Nazaret compiutasi nell'evento della morte e della resurrezione, non è rimasta racchiusa in un passato terrestre: il Croci.fisso-Risorto, Vivente ed inviante lo Spirito è, anche se in modo nuovo, realmente presente nella sua Chiesa (Mt 28, 20). Per questa presenza, il Cristo, è oggi e sempre, la guida in avanti verso la sua Parusia finale. È per questa sua presenza quale glorifìcato che Gesù, come Cristo e Signore, costituisce la norma sempre attuale della fede. Il discorso sulla storicità di Cristo non deve dissociare le due dimensioni della sua presenza storica nel mondo: quella nella sua condizione terrestre quale Figlio di Dio umiliato ed obbediente fino alla morte di Croce (condizione di esistenza prepasquale « secondo la carne ») e quella nella condizione celeste di Figlio di Dio in potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione dai morti (Rm 1, 4). A questo duplice momento fondamentale dell'evento di salvezza compiutosi storicamente in Gesù di Nazaret, Crocifisso e Risorto, corrisponde un duplice momento della fede ecclesiale la quale passa dal suo primo Sitz im Leben nella vita prepasquale di Gesù,2 attraverso l'esperienza della pasqua, ad una più completa ed evoluta penetrazione dell'evento cristologico con una fede più interiorizzata e più lucida, caratterizzata dalla particolare opera dello Spirito inviato dal Padre per il Cristo glorificato, che conduce la coscienza della fede apostolica alla verità tutta intera (Gv 16, 13 ). Tra il primo ed il secondo momento, che dopo la gestazione nel Sitz im Leben della vita di fede delle comunità cristiane si completa nel momento redazionale degli evangeli (redaktionsgeschichte ), c'è profonda connessione. 58 s. fase della fede apostolica dei «giorni della carne», nella quale, come abbiamo detto, trova la sua prima origine la tradizione dei detti e dei fatti di Gesù, fede legata essenzialmente alla esperienza storica dell'incontro con Gesù nella vita di comunità con il Maestro (regime del vedere e credere, Gv 20, 8), costituisce un periodo di fondazione per la fede di tutte le generazioni cristiane, inquanto fa corpo con il fatto delle origini ed ha quindi un ruolo unico ed irrepetibile di testimonianza. lb Ivi, p. 2 Questa

INTRODUZIONE

3

In questo passaggio, infatti, dal tempo di Gesù secondo la carne al tempo di Cristo secondo lo spirito, la fede ecclesiale penetrando in profondità i ricordi storici, fa scaturire da essi quel mistero nascosto nella carne stessa che illumina il cammino della Chiesa nel tempo, per cui la storia sboccia in kerigma, ma il kerigma consente di cogliere, nel più intimo segreto dei fatti, il milstero della vita di Cristo. Se i documenti storici, che sono gli evangeli, attraverso i quali solamente è possibile ricostruire i tratti essenziali della vita di Gesù, sono nello stesso tempo documenti nei quali il dato storico documentato è penetrato di luce pasquale e della fede ecclesiale postpaisquale, questa loro peculiarità non va considerata in partenza come una difficoltà. Essa cioè non è un ostacolo da sormontare, per rintracciare, dietro o al di là della posizione di fede, una verità originaria dei fatti stessi che sia indipendente o addirittura estranea alla conoscenza di fede. Questo sarebbe infatti già ricadere nel deprecato dualismo di ·storia e fede. Noi abbiamo veduto 3 come una posizione di fede, intesa come disponibilità ad accogliere dei possibili interventi di Dio nella storia, sia già un necessario presupposto ad una corretta impostazione della indagine storica su Gesù, quale primo presupposto, dall'alto, per una conoscenza « dal basso » della sua vita terrena, della sua missione. Ma se la fede, intesa come generica apertura religiosa ad un Dio presente ed operante nella storia, è solo un presupposto alla corretta utilizzazione dei criteri che consentono di accedere alla conoscenza ~;torica di Gesù di Nazaret, la «fede cristologica» della Chiesa ·postpasquale è un luogo essenziale non per la conoscenza dell'accadimento dei fatti, testimoniato da una memoria fedele, ma pe1· una più profonda ed ,1utentica significazione di quei stessi fatti. La conoscenza degli eventi della vita di Gesù non va intesa alla maniera riduttiva di un positivismo che cura il mero accadimento dei « bmta facta ». La conoscenza storica che per la via dell'attuale criteriologia risale alla esperienza diretta ed originaria dei testimoni, quando è illuminata dalle ulteriori comprensioni ispirate dal loro paisquale dello Spirito, diviene una conoscenza satura di mistero che porta a compimento il valore di « storicità » Geschichtlichkeit di quell'evento stesso. La fede pasquale non allontana quindi dalla « realtà-verità » della storia di Gesù, ma rende ben più vicini ed a contatto con tale « realtà-verità » soprattutto perchè consente di accedere al valore essenziaJmente salvifico « per noi » di questa storia. 3

Vedi Volume I, c. 1: «La Cristologia ed il problema di Dio», p. 95 s.

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GESÙ DI NAZARET, SIGNORE E CRISTO -

Il

Il nostro studio inizierà con la considerazione delle attese che fioriscono nell'ambiente culturale religioso di IMaele, nel cui seno si affaccia il Messo escatologico e divino del Regno di Dio e che illuminano l'esistenza storica di Gesù, la quale si colloca nel contesto di un'antica storia di salvezza che trova appunto in Lui il suo definitivo compimento. Posto al termine di tale storia, l'evento compiutosi in Gesù Cristo, trova il suo 1significato fondamentale di compimento e di superamento delle attese messianiche di Israele, cosl come la verità ·supera gli adombramenti. Dopo quanto abbiamo mostrato nella prima parte del nostro saggio, noi riteniamo che questo approccio al « fatto delle origini» debba costituire il primo momento di ogni discorso di « cristologia dogmatica », perchè esso verifica le ragioni fondamentali del nostro discorso di fede su Cristo. Se Egli, infatti, è annunciato dalla Chiesa come « Cristo, Signore, Figlio di Dio, Logos, Salvatore», se egli è atteso come il « Signore della fine dei tempi», se è professato come «Preesistente ed Incarnato », ciò è dovuto originariamente da quanto già nell'evento prepasquale Gesù stesso, nei fatti e nei detti della sua vicenda storica, ha mostrato ed asserito dì sè. Nelle profondità nascoste di quella storia che i testimoni prescelti hanno esperito e vissuto, in comunione con Lui, •sta il fondamento di realtà oggettivo e di fede apostolica originaria che è alla base di ogni ulteriore sviluppo cristologico ulteriore. Questo mistero della identità originaria di Gesù di Nazaret rivelata negli eventi della sua esistenza terrena, è ampiamente testimoniata dai dati evangelici che pur offrendoci una narrazione avvolta nella luce della resurrezione lascia però intravedere quella autentica realtà dei fatti, che non deve la sua significazione solamente alla loro comprensione pasquale. Nella Pasqua infatti è giunto a compimento quanto Gesù di Nazaret aveva detto e pensato di sè. D'altra parte, la possibilità stessa da parte dei discepoli di riconoscere, negli incontri pasquali, il Risorto, era dovuta proprio alla esperienza storica ed alla comprensione di Lui che essi avevano già avuto, anche se ancora imperfettamente, durante il tempo della comunione di vita con il Maestro. Lo stesso kerigma apostolico riflette tale dato (At 10, 37-40; cfr. At 2, 33): la proclamazione dell'evento della resurrezione è compiuto al termine della storia del singolarissimo profeta galileo, unto di Spirito Santo e di potenza. Se la resurrezione getta una luce nuova sul passato di Gesù, essa non trasforma, né manipola ciò che è accaduto, ma ne fa risaltare la sua intrinseca significazione, mostrando proprio che quanto

INTRODUZIONE

5

in esso è accaduto prima di pasqua e nella sua croci:fìssione e resurrezione non è stato vano. Per questo « la resurrezione non inietta un senso alla vita di Gesù». Tale senso è presente dall'inizio e si è offerto umanamente a conoscere. È vero che la storia di Gesù non è pienamente compresa che in relazione all'evento di pasqua, ma «il reciproco non è meno vero: la Resurrezione non è una esteriorità; essa è immanente al divenire di Gesù: essa non è dunque ·percepita correttamente che per riferimento a ciò che si è dato a vedere in Gesù storico. Il movimento del kerigma presuppone sempre la conoscenza del Gesù storico ». 4 Una tale motivazione ci induce ad 1iniziare il nostro saggio di cri1stologia sistematica partendo anzitutto non già dalla ressurrezione di Cristo, ma dalla storia terrena di Gesù di Nazaret. Il kerigma del Risorto richiede un contesto: l'esperienza del Gesù storico. Privo di tale contesto la morte e la resurrezione di Gesù diverrebbero delle categorie, cessando in qualche modo di essere degli eventi singolari. Il Risorto è lo stesso profeta crocifoso e la sua resurrezione non modifica i suoi tratti storici, il contenuto del suo messaggio, lo stile della sua Persona. È per questo che « l'accesso a Gesù Risorto pas•sa attraverso il Gesù prepasquale. Non per isolare il profeta galileo, in un procedimento critico, dal Risorto vivente nel cuore del mondo, ma per raggiungerlo in tutta la sua realtà, nel segreto che lo costituisce. Questo segreto che fa la persona di Gesù, questo segreto rivelato a Pasqua è presente in Lui fin dal primo momento della sua esistenza terrena » .5 La motivazione di questo nostro punto di partenza caratterizzato dal suo risalire alle « origini» (ermeneutica delle origini) assolve anche a quella « istanza fondamentale » da cui una cristologia odierna non può più prescindere. Essa intende recuperare all'interno dell'orizzonte di fede pasquale il cammino che una volta era compiuto in un trattato diverso: quello propedeutico della apologetica, tendente alla verifica della « verità storica » del « fatto della divina rivelazione, compiutosi in Gesù di Nazaret », quale Messo divino. Oggi però, l'approccio fondamentale è cambiato, considerando le cose sia in rapporto all'interlocutore esterno del dilScorso di fede cristologica, sia all'interno dello stesso ambito della fede. Rispetto all'esterno appare insufficiente una sola dimo:>trazione storica del C. DuQuoc, Christologie. Essai dogmatique, II, Paris 1972, 16. GUJLLET, L'accesso alla Persona di Gesù, in «Problemi e prospettive di teologia fondamentale», Brescia 1980, 270. 4

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J.

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Il

« fatto ». La verità trova la sua credibilità non solo nell'accadimento del fatto, ma nella sua significazione e nella potenza salvifica di un meSISaggio che si impone per le sue intrinseche qualità di valori altamente significativi per la salvezza dell'uomo (il contenuto diviene altrettanto importante del «fatto che»). Di qui l'approccio storico deve evidenziare, con il risalire alle « origini » di Gesù, tutta la portata di rilevanza del messaggio e del ruolo salvifico della sua Persona, onde emerga che di fronte a Cristo, non solo i contemporanei sono stati posti in questione nel significato del loro esistere e si sono sentiti profondamente interpellati, ma l'uomo di ogni tempo, trova in Lui la risposta fondamentale al significato della sua esistenza, il valore della sua vita e della sua morte stessa (GS 22, 41). All'interno del mondo della fede, l'approccio a Gesù di Nazaret consente come abbiamo già detto, quella motivazione critica della fede che mostra la profonda continuità e coerenza tra quanto Gesù di Nazaret ha detto e pensato di sè, con quanto il linguaggio della predicazione pasquale annunzia e proclama di Lui. Per questo, la fede cristologica della Chiesa appare come il fedele rispecchiamento dell'evento oggettivamente compiutosi in Gesù Cristo. In questo suo compito di verifica, il credente coglie meglio quel contenuto di «novità cristiana» che contraddistingue l'assoluta ed irriducibile originalità della fede stessa legata indissociabilmente alla Persona Divina incarnata ed alla storia di Gesù. In questo modo la fede approfondisce le ragioni non 1solo storiche delle sue origini, ma anche le ragioni teologiche della propria identità che ne garantiscono il valore di irrepetibilità ed universalità salvifica. Nel suo approccio alla realtà della immagine storica di Gesù di Nazaret questa prima sezione della cristologia sistematica intende far emergere quindi quel significato originario dell'avvenimento che riluce nel suo contesto storico spazio temporale, in cui esso si è realizzato, anche se nell'intento, sempre presente, di mostrare che quanto è avvenuto allora ha una rilevanza che trascende gli angusti limiti del tempo. Questo secondo aspetto concernente il valore univel1Sale dell'evento cristiano sarà particolarmente presente nella terza parte del nostro saggio concernente il discorso di fede dogmatica della cristologia. Roma 13 maggio 1982 :MARCELLO BORDONI

Pontificia Università Lateranense

PARTE PRIMA

CAPITOLO

I

LA VENUTA DI GESù DI NAZARET NEL QUADRO DELLE ATTESE STORICHE DI ISRAELE

Il cammino storico verso l'immagine di Gesù di Nazaret che per le ragioni sopra indicate occupa il primo momento del nostro saggio di cristologia sistematica, non può essere compiuto senza il confronto con le atte~e fondamentali emergenti nell'ambito del giudaismo del tempo di Gesù. La sua figura si staglia, infatti, sul fondo delle speranze giudaiche in rapporto alle quali egli ha realizzato il senso della sua missione, speranze che egli ha assunto e trasformato interiormente portando a compimento le loro virtualità latenti, superando il piano stesso delle attese. In tal modo è possibile cogliere, con la « continuità», anche la fuggire al giudizio escatologico. Non restava che la penitenza (Le 3. 7-12;

71 R. SCHNACKENBURG, 35·36; l'accettazione del giogo del Regno consisteva in sostanza nell'accettazione del monoteismo e della Torah, strettamente legati l'uno all'altra. Ogni israelita nel recitare mattino e sera lo lema Israel si impegnava ad accettare l'imperativo che esso conteneva circa il giogo del Regno. P. BJLLEl\BECK, Kommentar, I, 176-77. n Il Regno di Dio è nella concezione rabbinica in un certo modo già presente nella storia attraverso il governo universale del mondo da parte di Dio, solo che tale presenza si rivela in certi momenti particolari, come nell'Esodo dall'Egitto, nel dono della Toràh, nei giorni di Gog e Magog, nei giorni del Messia (P. BILLERBECK, Kommentar, III, 833; P. VoLz, Die Eschatologie, 167). I due ultimi momenti appartengono al futuro ed introdurranno la manifestazione futura del Regno. i3 R. SCHNACKENBURG, op. cit., 37. 74 J. DELORME, La pratique du baptéme dans le judalsme contemporain des origines chrétiennes, LmV 26 (1956), 21-60; J. S!NT, Die Eschatologie des Tau/ers, die Taufengruppen und die Polemik der Evangelien, in K. ScmrnEUT, « Von Messias zum Christum », Wien 1964, 55-163; J. BECKER, Johannes des Taufer u11d Jesus von Nazareth, Neukirchen 1972.

30

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Il

Mt 3, 7 - 9. 15-18). Ma la penitenza, è da lui intesa come libero dono di Dio: l'uomo da solo non è in grado di operare la «metanoia»; fare penitenza è farsi cambiare da Dio. Di qui il rito battesimale che Giovanni amministrava (contrariamente alla consuetudine di immergersi da soli), indicava che la metanoia implicando il farsi battezzare da Giovanni, mandato da Dio (Mt 21, 25 par.), voleva dire lascia11si cambiare da lui. Questa concezione della metanoia appariva in contrasto con le tendenze prevalenti nel rabbinismo che non sfuggivano al pericolo di dare alla metanoia il valore di « prova », « opera meritoria », cadendo così nella sopravvalutazione dei fattori umani e nel perseguire orgogliosamente i meriti. 75 Cosl anche se il Regno di Dio si sarebbe rivelato alla fine, dopo i giorni del Messia, per un intervento esclusivo della volontà di Dio, tuttavia si pensava di poter « affrettare » con « le opere » i giorni del Messia manifestando tutte le caratteristiche di una religione della Legge che mediante l'osservanza della Torah aggravava le speranze del Regno di un giogo pesante (Mt 23, 4; 11, 28-30).

Il.

LE ATTESE D'ISRAELE NEL QUADRO DELLA STORIA UMANA.

Le speranze di Israele centrate nell'annuncio escatologico della regalità di Dio rappresentano indubbiamente una particolare visione della storia di natura profondamente religiosa coerente con tutta la cultura d'Israele che non prescinde dal suo formale rapporto con Dio, rapporto che entra nella definizione della concezione stessa dell'esistenza, della vita, della realtà dcl mondo, del suo significato ultimo nel cui quadro s'inserisce il senso dell'uomo e del suo destino, come singolo e come comunità. Questa cultura, permeata di fede, si sviluppa all'int1~rno di una storia ben singolare e particolare, nella quale si intrecciano i problemi umani, le attese e le delusioni di un popolo, insieme agli interventi di Dio che gli aprono elevati orizzonti di speranza (pace, benessere, felicità, libertà, giustizia) e tendono a realizzarli attraverso una storia condotta dal suo singolare disegno sapiente. È a partire da questa storia particolare di salvezza, condotta dal Dio dell'alleanza che Israele, proprio in forza della sua fede in Dio Sal75 S. SJOBHRG, Gott und die Sunder, 144-153; 154-169. I rabbini discutevano se, al tempo fissato, il Regno si sarebbe manifestato in ragione della misericordia di Dio o della condizione in stato di penitenza di Israele.

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vatore, giunge ad una visione sempre più ampia della storia, della vicenda dei popoli e delle nazioni, risalendo da un lato all'alleanza di Dio con Noè, fino alla stessa creazione ed all'inizio della umanità e dall'altro spingendosi al termine della storia stessa in cui il destino di Israele s'incontrerà con quello degli altri popoli in un unico mondo rigenerato e trasformato. È in questo modo che Israele vive storicamente la sua fede religiosa ed insieme realizza religiosamente la sua storia. Ora è importante rilevare come questa speranza religiosa di Israele sia una speranza di profonde risuonanze umane per tutta la storia di salvezza dell'umanità. Nel nostro ambiente occidentale europeo l'idea di regalità non esprime tutta la ricchezza umanizzante del messaggio religioso biblico dell'avvento del Regno di Dio. L'idea stessa di regalità e di regno evocano infatti una determinata struttura socio-politica i cui caratteri si pongono in contrasto con l'attuale comprensione dell'uomo e della •società. Essa appare legata ad un esercizio di potere sull'uomo secondo un modello autoritario o paternalistico in forza del quale il governante detiene la sua autorità immediatamente dall'alto imponendo sugli altri un giogo di servitù, mentre il bene comune richiede la sottomissione di ciascuno a tale potere ed all'ordine stesso gerarchico prestabilito ed irrevocabile. È una concezione che si qualifica nel contesto di una visione « ierarcheologica » del mondo.76 Una tale concezione appare oggi in contrasto con i modelli socio-politici ispirati da un ideale di libertà della persona mediante la partecipazione attiva alla vita sodale (società democratica) intesa prima « come una filosofia, un modo di vivere, una religione e, quasi secondariamente, una forma di governo ».77 Per questo, ai modelli autoritari del passato tendono ad essere sostituite sempre 76 Un esempio classico di questo modello precomprensivo delle strutture gerarchiche della società lo si può trovare nella concezione gerarchica del mondo dello Pseudo Dionigi che molti influssi ha esercitato nel pensiero medioevale. In essa il mondo visibile riproduce nelle sue linee il mondo intelligibile; l'ordine gerarchico, singolarmente autoritario e centralizzato, tende a dare una certa onnipotenza al potere stesso regale come diretto rappresentante di Dio. R. RcQUES, L'univers dionysien. Structure hiérarchiques du mond se/on le Pseudo-Denys, Paris 1954. 77 G. BuRDEAU, La démocratie, Paris 1966, 9; Pro XII, Radiomessaggio (24 XII 1944), AAS 37 (1945), 11-17: la tendenza democratica si diffonde nei popoli ed ottiene largo consenso e suffragio di coloro che aspirano a collaborare più ef!icamente ai destini degli individui e della società. Perciò egli riteneva l'ordine democratico « un sistema di governo più compatibile con la dignità e libertà dei cittadini, un postulato naturale imposto dalla ragione medesima». J. MARITAN, Christianisme et démocratie, New York 1943, 55 ss.

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più forme di partecipazione e regimi di tipo dialogato; il che appare dcl tutto conforme anche agli orientamenti più recenti dello stesso magistero ecclesiastico.78 Per valutare l'importanza attuale dell'antica speranza di Israele circa l'avvento del Regno di Dio, bisogna anzitutto considerare le differenze profonde della concezione biblica della « regalità » dalle forme di « epifania di potere » in voga nell'ambiente culturale greco-romano del tempo, come pure di altre culture successive. Già il contesto stesso culturale dominante fin dal terzo millennio a.C. sia in mesopotamia che in Egitto privilegiava un ideale di « re » il cui compito era essenzialmente quello di difendere i diritti dei deboli, dei poveri, degli oppressi, di tutti coloro che non erano in grado di difendersi da soli. 79 Egli non esercitava un tipo di giustizia egualitaria caratterizzata da una politica di equidistanza, tendente ufficialmente a garantire i diritti di tutti, ma che si risolve di fatto con il proteggere la tranquillità degli oppressori: la giustizia che si attendeva dal re era la difesa del diritto dei deboli, la protezione della vedova e dell'orfano, la condanna di coloro che abusano del potere e della ricchezza facendone strumento di dominio nei confronti dei poveri. La concezione della regalità di Dio nella tradizione di Israele si colloca in questo contesto culturale di una concezione della « giustizia regale >r intesa appunto come «protezione degli indifesi». Gli ideali della regalità nell'ambiente mesopotamico non raggiungono però il livello della concezione della regalità divina in Israele specie negli sviluppi della predicazione profetica. 80 Anche in Israele il « re » è protettore dei deboli e questa sollecitudine appare come attributo della condotta costante di Dio nel governo delle cose del mondo: per lui, fare giustizia, è esercitare un intervento sovrano nella storia, compiere un giudizio (mispaf). Con tale intervento, Dio, fedele all'alleanza, difende il popolo contro i suoi nemici, fa prevalere il di-

78 GIOVANNI XXIII, Pacem in terris, AAS 55 (1963), 263, 271, 278; Mater et Magistra, AAS 53 (1961), 416; Y. CALVEZ, La société démocratique, Paris 1963, 193. 79 J. DUPONT, I protetti del Re. I - Oriente antico (Mesopotamia-Ugarit-Egitto), in «Le Beatitudini», I, Roma 1972, 580-596; H. CAZELLES, La royaulé, son idéologie et ses rites dans l'Ancien Orient, in «Le Messie », 31-52. È in questo contesto che il senso regale del «fare giustizia» è divenuto concretamente una espressione che indica atteggiamento di misericordia, di condono di debiti, di sollevamento di sudditi angariati. so S. MowrNCKEL, He that Cometh, 93.

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ritto degli oppressi contro coloro che li opprimono, schiaccia gli oppressori e compie opera di sollecitudine nei confronti dei deboli.81 Molti salmi proclamano la giustizia regale invocando l'aiuto di Dio e rendendo lode alla sua sollecitudine (Sal 76, 8-10; 68, 6-7; 103, 6-7; 146, 7-10; 9-10). Si deve notare la peculiarità della visione biblica della giustizia regale di Dio, che la differenzia dal contesto socio-culturale mesopotamico: essa è anzitutto un atto di intervento divino dovuto alla « fedeltà di Dio » a se stesso, che con la sua autorità garantisce il diritto di coloro che non possono farlo da se stessi: « il povero e l'orfano devono poter contare su questo intervento di Dio, precisamente perchè non hanno nessuno che possa difenderli contro chi è più forte di loro » .82 La ragione ultima della giustizia regale di Dio, però, non sta tanto in un diritto dell'uomo oppresso, quanto in una regale prerogativa di Dio, come Dio giusto e redentore (go' él): Egli è Colui che riscatta in ultima istanza, quando cioè viene a mancare ogni altra risorsa umana. Cosl nel salmo 72, salmo messianico, si annuncia una regalità ed un re che libererà il povero dal violento ed il misero che non trova aiuto, « avrà pietà del povero e dell'infelice e salverà ai miseri la vita dall'oppressione e dai violenti li riscatterà; il loro sangue sparso sarà prezioso davanti a lui» (vv 12-14). Quindi la giustizia regale divina non deriva tanto da una idealizzazione della povertà, quanto dalla munificenza stessa di Dio che nei messaggi .profetici è proiettata, come sua manifestazione straordinaria, nel futuro escatologico, quando « i poveri » saranno protagonisti nella realizzazione del nuovo mondo, quando il Signore «verrà» (Ez 34, 15-29; Is 35, 2-10; 40, 9-11; 61, 1-11). Jahvè avrà, infatti, con loro un rapporto preferenziale: essi, gli anawim, gli ebyéìnim, saranno i grandi beneficiari del nuovo ordine (Is 29, 19-21).83 La regalità di Dio appare dunque

ai J. DuPONT, I protetti del re. II - Israele: Dio fa giustizia ai poveri, I. cit., I, 596 s. 82 J. DuPONT, ivi, 536; mentre nell'ambiente mesopotamico la cura dei poveri appare anzitutto prerogativa politica del re terreno che diviene poi prerogativa di Dio, per la Bibbia si invertono i termini: la cura dei poveri è anzitutto prerogativa di Dio e, come conseguenza, dei re o di coloro che detengono la potestà di governo in nome di Dio. &.l Per una analisi culturale-religiosa dell'idea dei « poveri » nella concezione semitica, in generale, bisogna aver presente che il semita non vede, come nelle nostre culture, la povertà come una «possessione del poco» (parvi possessio), quanto l'inferiorità sociale che pone le «persone povere» alla mercè dei potenti e dei violenti: il povero è l'uomo senza difesa. A questa connotazione sociale va

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nella Bibbia come una signoria inalienabile di natura liberante, che non asserve, ma esalta l'uomo indifeso e ne fa un protagonista nella storia della salvezza e non un semplice suddito. Essa costituisce come un fermento critico, un ideale che richiama costantemente la speranza di Israele verso un regno « a favore dell'uomo » per la realizzazione degli« interrogativi che gli uomini si pongono sui temi di pace, di libertà, di. giustizia, di vita ». 84 Così la gloria inalienabile della manifestazione storica del Dio Re è tutta a beneficio dell'uomo inquanto garantisce la difesa della vita minacciata, della libertà compromessa, della giustizia calpestata. Se l'instaurazione della regalità di Dio nella storia del mondo risponde, nella concezione biblica, ai più profondi interrogativi umani in materia di pace, libertà, giustizia, nella visione religiosa di Israele la portata di questa risposta assume un valore di pienezza molto più elevato rispetto alle speranze puramente umane. Sta qui soprattutto « la novità » della concezione biblica della regalità divina ri·spetto alle forme culturali di regalità più in voga nell'ambiente mesopotamico. L'intervento escatologico divino regale nel mondo non è solo un'azione di Dio a difesa dei deboli, dei poveri, per la realizzazione della giustizia, della pace, della libertà come beni intrinsecamente umani. 85 Considerando le cose solo da questo punto di vista si potrebbe pensare che le speranze messianiche di Israele non erano molto diverse dai « modelli messianici » periodicamente ricorrenti ed in ascesa nella storia dell'umanità nelle situazioni di malessere socio-politico. 86 Che in certi periodi di decadenza della vera speranza escatologica si sia determinata nelle apocalissi extra-bibliche una fioritura di immagini puramente utopiche e di una mentalità di evasione, non vuol dire che ,si debba discreditare la portata apocalittica della speranza escatologica del regno di Dio nella visione della Bibbia, come mera espressione mitica di questa speranza stessa. In realtà la novità assoluta delle concezioni religiose di Israele sta

aggiunta quella spirituale-religiosa: spesso nella Bibbia « i poveri » sono uomm1 giusti e pii che ripongono in Dio la speranza della loro difesa e protezione. J. DuPONT, Il vocabolario della povertà, I. cit., 522-547. 84 W. KAsPER, Jesus, 85. 65 F. DREYl'US, La doctrine du Reste d'lsrai!l chez le prophète !raie, RSPT 39 (1955), 361-386. 86 H. DESROCHE, Sociologies religieuses, Paris 1968; id. Sociologie de l'espérance, Paris 1973.

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in un intervento di Dio nel mondo che non è solo di natura creativ3, ma « autocomunicativa » per cui attraverso la Parola e lo Spirito, Dio si dona all'uomo in una comunione di amicizia divenendo partecipe « personalmente » della storia umana. Attraverso questa autocomunicazione, gli stessi concetti di pace, giustizia, libertà, vita, vengono non già svuotati del loro contenuto umano, ma arricchiti dell'apporto di Dio; tali ideali umani, infatti, che implicano già di per sè, nel loro valore di assolutezza, una implicita connotazione religiosa, nel quadro della storia di Israele, storia di alleanza con Dio, acquistano una formale dimensione religiosa dialogica: essi non sono veduti principalmente come conquiste umane, bensì come frutto della promessa di Dio che è fedele alla sua Parola e che condurrà il suo popolo verso tali ideali attraverso la sua risposta fedele alla alleanza stipulata con Lui. Per questo rapporto con la fedeltà del Dio dell'alleanza, i beni primari del Regno, speranza di Israele, assumono una risuonanza ben più elevata, una assolutezza di ideali superiori alle fragili utopie umane. Nella loro attuazione, infatti, non è impegnato solo lo sforzo costruttivo dell'uomo, ma l'intervento creatore e santificatore di Dio. Cosl, Dio darà « ai poveri» molto più della sola difesa dei loro diritti umani: Egli darà ai poveri se stesso, l'accesso alla santità della sua vita, alla sua sovrana libertà per cui essi diverranno uomini nuovi e liberi. Quando Dio verrà nel suo Regno, i poveri saranno arricchiti di una nuova esistenza, della nuova ricchezza di vita, mentre i ricchi saranno da compiangere perchè quella che essi credevano ricchezza apparirà come miseria e fonte di alienazione. I poveri saranno invece i promotori del Regno, i veri portatori delle sue autentiche utopie, seme di speranza dell'umanità. L'annuncio del Regno di Dio ci appare così, proprio in forza della sua dimensione religiosa, non l'annuncio dell'avvento di una area o di una struttura di potere teocratico, corrispondente all'esperienza della regalità temporale di Israele, 87 ma quello di un inter-

87 Per quanto la regalità divina nella storia di Israele abbia conosciuto un volto umano di regno destinato a divenire organo di una teocrazia fondata sull'alleanza, supporto temporale ed umano della regalità divina, è pur vero che l'esperienza della monarchia è rimasta ambigua e deludente in Israele: la causa del Regno non ha coinciso con le ambizioni terrestri dei Re, di qui le minacce dei profeti contro i re che trascuravano la causa del Regno (Ger 21, 12; 22, 3; Am 2, 6-7; Is 3, 14-15; 10, 1-2; Sal 82, 2-4). Quanto più deludenti erano le esperienze dei regni politici

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vento salvifico di Dio per cui mediante la sua amicizia e la sua presenza tra gli uomini Egli condurrà la comunità umana attraverso un cammino di rinnovamento e di purificazione alla realizzazione concreta dei ~moi ideali di pace, di giustizia e di libertà. La speranza del Regno è quindi una speranza religiosa, ma anche profondamente umana.

di Israele, tanto più si rafforzava la speranza del Regno escatologico di Dio e la speranza dci poveri si concentrava nella figura del «re ideale» che avrebbe realizzato gli ideali della regalità divina.

CAPITOLO

II

LE ORIGINI DELLA ESISTENZA STORICA DI GESÙ

Che Gesù di Nazaret appartenga non solo alla testimonianza di fede, ma alla databilità storica è una affermazione solidamente stabilita anche se con una certa approssimazione riguardo alla cronologia.1 Specie la fonte lucana ci offre un serio contributo per stabilire un rapporto con la cronologia pagana della nascita di Gesù (Le 2, 1-3), dell'inizio della predicazione di Giovanni (Le 3, 1-3) e dello stesso battesimo di Gesù. 2 Tuttavia, quanto gli evangeli (Mt-Lc) ci dicono sulle origini della vita storica di Gesù, non si ricollega, almeno direttamente, alla testimonianza della predicazione apostolica primitiva, quanto a delle fonti diverse (anch'esse storiche ed autorevoli), le quali possono essere individuate per Matteo negli ambienti giudeo-cristiani di Gerusalemme e per Luca nei circoli fami· liari di Gesù, specie quelli battisti, la stessa fonte mariana e non per ultima quella stessa giovannea. 3 Che la storia dell'infanzia di Gesù

t J. FINEGAN, Handbook of biblica/ Cbronology, Princeton 1964; W. T!!.ILLING, Jésus devant l'bistoire, Paris 1968, 67-81; 85-95; J. BLANK, ]esus von Nazardh. Gescbicbte und Relevanz, Freib.-Basel-Wien 1972; S. DocKx, Chronologie de la vie de ]ésus, in Cbronologies néotestamentaires et vie de l'Eglise primitive, ParisGerobloux 1976, 3-11; R. FENEBERG-W. FENEBERG, Das Leben ]esu im Evangelium, Freib.-Basel-Wien 1980. 2 Per i problemi sulla teologia e la storia nell'opera lucana: W. G. KiiMMEL, Luc dans la théologie contemporaine, in « L'évangile de Luc. Problèmes litteraires et théologiques », Gembloux 1973, 93 s. J Per quanto riguarda Matteo, la probabile presenza dei cc. 1-2 già nel Matteo aramaico primitivo che Marco avrebbe omesso deliberatamente è sostenuta da P. PARKER, The Gospel before Mark, Chicago 1953, 121-122, 180. Anche A. FrnILLET, Jésus et sa Mère d'après /es récits lucaniens de l'enfance et d'après Saint ]ean, Gabalda-Paris 1974, 172. Centrato su Giuseppe originario di Betlemme e della casa di David, Mt 1-2 ha per quadro geografico GerusaJemme e Betlemme riferendoci come negli ambienti giudeo-cristiani si raccontassero le origini di Gesù. Per quanto riguarda Luca va notata la importanza dei parenti di Gesù, del loro posto eccezionale nella comunità primitiva, come pure della fonte mariana per quanto riguarda i fatti delle origini: dr. J. DANIELOU, Les évangiles de l'enfance, Paris 1967, 65-66; A. FEUILLET, L'origine des récits lucaniens de l'enfance, in « Jésus et sa Mère »,

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si sia aggiunta al nucleo più originario dell'evangelo trasmesso dalla predicazione degli apostoli non sminuisce il suo valore storico purchè si tenga conto della particolarità di queste fonti, 4 della mediazione esercitata dalla tradizione giovannea e dall'azione redazionale di Matteo e Luca. Questi, perseguendo un intento storico, inseriscono questo materiale narrativo nell'ambito della loro visione teologica che rilegge gli eventi alla luce della pasqua e della pentecoste, vedendo nei fatti dell'inzio della vita di Gesù da un lato l'adempimento delle attese antiche e dall'altro un prologo dell'evangelo, inquanto in essi emergono per anticipazione i temi fondamentali degli stessi evangeli. Nonostante l'origine e la forma letteraria diversa dei racconti d'infanzia di Mt-Lc 5 ci sono in essi delle convergenze notevoli che appaiono storicamente tanto più apprezzabili provenendo da fonti diverse. Tali convergenze cercheremo di cogliere in questo capitolo considerando il riferimento di queste narrazioni sulle origini storiche di Gesù alla storia dell'AT ed ai temi dell'evangelo propriamente detto.

I.

L'ADEMPIMENTO DEL TEMPO ANTICO.

Le origini della vita di Gesù di Nazaret si richiamano in Mt e

Le all'antica storia di Israele e narrano i fatti in una atmosfera veterotestamentaria che rivela l'origine di una fonte giudaica, animata di speranze, anteriori alle stesse esperienze della pentecoste. In tale atmosfera, le narrazioni mostrano nella venuta di Gesù l'adempimento delle antiche promesse. Così in Matteo 1-2 la narrazione si

79 s. Per la mediazione esercitata dalla tradizione giovannea vedi Io stesso FEUILLET, ivi, 86 s.; J. BLINZLER, Giovanni e i Sinottici, Brescia 1979. 4 Così lo stile delicato della narrazione lucana di molti racconti della infanzia (specie l'annunciazione e la visitazione) sembrano rilevare la fonte femminile mariana dei racconti stessi (G. R. LAGRANGE, ftJangile selon Saint Luc, Paris 1921, 89). Bisogna notare che la stessa narrazione lucana dell'infanzia si muove in un clima di AT da rilevare la sua provenienza da una fonte giudaica diversa da quella del resto del vangelo di Luca. 5 Le diversità sono numerose nello stile e nelle accentuazioni rilevando origini distinte: cosl il racconto di Matteo è più centrato in Giuseppe ed ha per quadro geografico Geru,;alemme e Betlemme, mentre le scene principali. si cristallizzano intorno a citazioni. profetiche (Mt 1, 22-23; 2, 6; 2, 15; 2, 17-18; 2, 23) secondo Io stile generale dcl vangelo. E. RAsco, Matthew J.IJ: Structure, Meaning, Reality, in Studia Evangelica, Berlin 1968, 214-230; R. LAURENTIN, Structure et théologie de Luc 1-2, Paris 1957.

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apre con la genealogia di Gesù (Mt 1, 1-17) introdotta con le parole «libro della genesi» di Gesù Cristo, figlio di David, figlio di Abramo, espressione che si ripete all'inizio dell'annuncio fatto a Giuseppe (Mt 1, 18) e che mostra l'intenzione dell'evangelista di ricollegarsi alla genesi del mondo (Gn 2, 4) ed alla genesi dell'uomo (Gn 5, 1), per indicare che « come Adamo apre il libro delle generazioni umane, cosl Gesù Cristo apre il libro di una nuova genesi » .6 Questa idea sembra rafforzata dalla stessa utilizzazione della concatenazione di tre serie di quattordici generazioni: per esse è possibile pensare che attraverso una divisione tripartita della storia di Israele in settimane di anni, la narrazione tenda a mettere in rilievo che la nascita di Gesù avviene nella pienezza dei tempi, alla fine della storia. 7 Pur senza giungere, come Luca (3, 38), fino ad Adamo, Matteo, alla sua maniera, dice che Gesù è il Nuovo Adamo e dice, con ciò, che in Lui si adempie la storia antica. Per questo nella generazione di Gesù, diversamente dalle genealogie precedenti che si compivano nella posterità e nell'avvenire, il movimento genealogico si inverte: Gesù è colui che si attendeva, Colui che doveva venire; l'avvenire è ormai compiuto, la storia trova in Lui il suo completamento. Riprendendo la parola « genesi » al principio della nascita di Gesù (Mt 1, 18), l'evangelo di Matteo rafforza ulteriormente questa prospettiva universale storica già aperta dalla genealogia: in Matteo 1, 18, infatti, la concezione di Gesù si realizza sotto l'azione dello Spirito divino. Questo dato pneumatologico è particolarmente importante per il significato della «concezione verginale» di Gesù: 8 questa, da un lato appare compiuta sotto la medesima energia creatrice e vivificante di Gen 1, 2, Io Spirito di Dio, che presiedeva la crea-

6 X. LÉoN-DUFOUR, Livre de la genèse de Jérns Christ, in « Études d'Évangile >>, Paris 1965, 60 ss. 7 Per l'ipotesi di un influsso del calendario apocalittico vedi X. LÉON-DUFOUR, cit., 57: !'A. segue però l'ipotesi di una divisione tripartita sulla base di tre versanti tradizionali per la storia di Israele: Abramo-David-esilio, introducendo un numero di generazioni (14) identico alla genealogia di David ripreso da Rut (4, 1822; 1 Cr 2, 10-13). A. VèiGTLE, Die Genealogie Mt 1, 2-16 und die matthoische Kindheitsgeschichte, in BZ 8 (1964), 239-262; 9 (1965), 32-49; P. BONNARD, L'Evangile selon Saint Matthieu, Neuchatel 1963, 13. 8 Per il valore di storicità è notevole il dato che la genealogia di Matteo come pure tutto il suo racconto sulla nascita di Gesù è centrato su Giuseppe che occupa negli episodi dell'infanzia un posto di primo piano: gli accenni a Maria acquistano allora, proprio per questo, un posto di maggiore rilievo storico.

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zione cosmica e la formazione del primo uomo (Gn 2, 7). In tale prospettiva l'origine di Gesù da Maria, per virtù dello Spirito Santo, è come l'inizio, la genesi della nuova umanità, del nuovo Adamo ed inaugura il nuovo popolo di Dio. Dall'altro lato, se la narrazione di Matteo accosta l'origine di Gesù ai primordi della storia della umanità e la lega a questa storia, ciò avviene per sottolineare che l'inizio della nuova umanità nella virtù creatrice e vivificatrice dello Spirito prelude al futuro della nuova era così « nuovamente inaugurata». Mt 1, 20 afferma che «ciò che è generato in essa è dallo Spirito Santo»: usando questa espressione nuova per l'AT,9 Matteo consente di vedere nello Spirito operante in Maria non solo la forza creatrice e vivificatrice di Dio, ma anche la qualità divina di quanto ha origine dallo Spirito (' ciò che è nato dallo Spirito è Spirito ', è da Dio: Gv 3, 5-6). In tal modo viene indicata sia la realtà divina (Mt 1, 23) di Colui che è generato in Maria dallo Spirito Santo, sia la generazione dello stesso nuovo popolo di Dio. 10 La narrazione di Matteo sui primordi delle origini di Gesù, per quanto riveli innegabilmente una illuminazione teologica dell'evento proveniente dalla rivelazione divina e dalla maturazione della coscienza di fede della Chiesa apostolica, con l'evento della pasqua e della pentecoste, non può considerarsi però un racconto che propone una dottrina in forma di storia. Si tratta in verità di un vero racconto imperniato su dei fatti concreti ben documentati negli ambienti del giudeo-cristianesimo, come l'origine davidica di Gesù e la sua concezione verginale da parte di Maria. Non avrebbe senso l'intento apologetico di Matteo in riferimento alle Scritture senza un appoggio di avvenimenti reali: «si ha nettamente l'impressione che i fatti si impongano all'evangelista e che egli si è dato molta preoccupazione per trovare nell'AT dei testi che loro corrispondessero. Talora si potrebbe giudicare l'accostamento come artificiale ».11 È agli avvenimenti, dunque, che già nei vangeli d'infanzia va il primato. È da essi che scaturisce una interpretazione che non va con-

9 Nell'AT lo Spirito interviene nella restaurazione escatologica come creatore di una vita nuova per i cieli, la terra e per Israele (Is 32, 15; 44, 3-5; Ez 37); ma l'espressione «nascere dallo Spirito» sembra del tutto assente nella Bibbia antica, mentre nel NT compare solo in Mt 1, 20 ed in Gv 3, 5-6, 8. R. E. BRDWN· J. FITZMER, in TS 33 (1972), 3-34; 34 (1973), 541-575; 35 (1974), 360-362. 10 S. TOMMASO, III, q. 32, a. 1. Il A. FEUILLET, Jésus, 164.

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cepita come « in-egesi », ma come « ex-egesi » anche se tale lettura viene compiuta per l'ausilio di ulteriori fatti. 12 In Luca 1-2 il legame con la storia antica della salvezza emerge attraverso la sua tipica struttura letteraria. Gli elementi fondamentali della narrazione, infatti, sottolineano la comparazione tra Gesù, che è al centro della prospettiva di Le 1-2 13 ed il Battista. Tale comparazione si snoda in una serie di dittici che comprendono « gli annunci» (Le 1, 5-25: Zaccaria; 1, 26-38: Maria) e« le nascite» (Le 1, 57-80: il Battista; 2, 1-21: Gesù). Come il primo dittico trova il suo complemento nella scena della visitazione (1, 39-56), cosl il secondo si sviluppa come in un terzo dittico comprendente la presentazione di Gesù al tempio (2, 22-40) ed il ritrovamento di Gesù in mezzo ai dottori nel tempio (2, 41-52).H Ora, questa struttura narrativa tende a rilevare da un lato il rapporto della venuta di Gesù alle antiche attese di Israele, mentre dall"altro sottolinea il carattere di adempimento e di superamento dell'era veterotestamentaria. In realtà Le 1-2 si muove come in un clima di AT in cui si dà molto rilievo al tempio di Gerusalemme ed alla sua liturgia, mentre l'universalismo della salvezza più che dalla prospettiva dello stesso evangelo sembra derivare dal deutero-lsaia e dai salmi: «la pietà che si afferma in questi capitoli è quella dei poveri, degli anawim del salterio. Salvo la scena della annunciazione ove . .. lo Spirito Santo giuoca in rapporto alla Vergine un ruolo che è un vero preludio della Pentecoste e della nascita della Chiesa (Le 1, 35 e At 1, 8) lo Spirito Santo interviene in Le 1-2 nel modo con cui interveniva 12 L'affermazione che gli stessi vangeli di infanzia presentano una lettura, come del resto tutto l'evangelo, a partire dalla resurrezione e dalla pentecoste, non infirma questo principio dal momento che tali orizzonù di lettura si costituiscono in forza di «avvenimenti» quali appunto la stessa pasqua e pentecoste. Cfr. O. CuLLMANN, Le salut, 136. 13 Il fatto che in Le 1-2 il racconto sia condotto, per cosl dire, dal punto di vista di Maria e dei suoi ricordi, non irllirrna la struttura cristocentrica della narrazione di questa storia dei primordi di Gesù. È Cristo che è costantemente al centro. Questo cristocentrismo non è solo il frutto di un'opera redazionale, esso promana dalle stesse fonti storiche utilizzate da Luca, specie dalla fonte mariana, come pure giovannea. Il riferimento al Battista può essere un indice dei circoli familiari ai quali abbiamo già accennato: R. LAURENTIN, Structure et théologie; Io., ]ésus au tempie. Mystère de Pfiques et foi de Marie en Le 2, 48-50, Paris 1966; A. FEUILLET, Jésus, 276. A. GEORGE, Le parallèle entre ]ean-Baptiste et ]ésus en Le 1-2, in « ~tudes sur l'oeuvre de Luc », Paris 1978, 43-66. 14 I due episodi della presentazione di Gesù al tempio e del suo ritro•1amento, che sottolineano il suo rapporto al Padre (2, 23; 2, 49) sono come scanditi dai ritornelli della «crescita» (1, 80; 2, 40; 2, 52) e del «ricordo» (1, 66; 2, 19; 2, 51).

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presso i profeti dell' AT. È in effetti per farli « profetizzare » che egli apre la bocca di Zaccaria, di Elisabetta, di Simeone; egli fa loro cantare le meraviglie del piano divino di salvezza e fa ancora annunciare a loro l'avvenire (1, 76-79; 2, 34-35) ». 15 Questo clima di AT trova riscontro nella struttura letteraria dei dittici attrav1erso i quali Le 1-2 mette quasi a confronto le due economie collegandole con un rapporto di preparazione-adempimento ma, insieme, tendendo a mostrare la superiorità dell'era cristiana: la venuta di Gesù porta con sè la pienezza del tempo della storia salvifica. Cosl rtegli annunci delle due nascite in Le 1-2 si nota, in un certo modo, un crescendo: mentre la concezione di Giovanni si compie da una sterile, Gesù è concepito da una Vergine; l'intervento straordinario di Dio che mostra che colui che nasce così è un suo dono, appare ben più notevole nella nascita di Gesù il quale è dono di Dio per eccellenza: Egli, infatti, « sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo» (Le 1, 32), «sarà Santo», chiamato «Figlio di Dio » ( 1, 3 5). Il Battista è indicato come profeta dell'Altissimo che precederà il Signore a preparare le sue vie r(Lc 1, 7 6-77), mentre la venuta di Gesù porta luce a coloro che sono nelle tenebre e nell'ombra di morte (Le 1, 78-79). Mediante la unione e la contrapposizione dei dittici Luca mostra l'importanza unica della origine di Gesù: la venuta del Battista, come tutta la antica economia è in sua funzione, come l'era della legge a quella della grazia. 16 Il legame delle due economie e l'adempimento che si verifica nella nuova che ha inizio con la venuta di Gesù è indicato anche dalla presenza dello Spirito: questo appare presente ed operante in tutto Le 1-2, ma nelle scene dei dittici riguardanti il Battista, come pure nella scena della presentazione, lo Spirito opera nei personaggi appartenenti all'antico Israele come Spirito di profezia dell'AT che riempie il precursore stesso, Elisabetta, Zaccaria, Simeone (Le 1, 15, 17, 41, 6 7; Le 2, 25, 26, 27). Tale Spirito condensa nella storia del precursore tutta la potenza del profetismo antico: fa del Battista un nuovo Elia (Le 1, 15-17), svela ad Elisabetta il mistero di Maria (Le 1, 41-4 3), a Zaccaria la futura missione del Battista e di Gesù (Le 1, 6 779), a Simeone la presenza del Cristo Signore (Le 2, 25-26 ). Quando si tratta, invece, dell'annunciazione, lo Spirito, che è 1s 16

191.

A. P.

FEUII.LET, Jésus, 85. BENDIT, L'enfance de Jean-Baptiste se/on

Luc 1, in NTS 3 (1956/57),

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sempre l'unico Spirito, appare con caratteristiche nuove: anzitutto, come già abbiamo notato per Mt 1, 18-20, ci troviamo di fronte ad un intervento creativo divino. Anche in Luca 1, 35, attraverso il verbo « episkiàsei », si fa allusione all'opera dello Spirito sulle acque della genesi del mondo. Gesù è il punto di partenza della nuova creazione: 17 il raffronto tra l'espressione: « lo Spirito Santo verrà su di te» (1, 35) ed Is 32, 15 (uno dei tre luoghi in cui nella Bibbia lo Spirito di Dio è congiunto al verbo epérchestai) ove si predice appunto la nuova creazione, lo suggerisce. Ma soprattutto il carattere nuovo dell'azione dello Spirito può essere colto nel raffronto di Le 1, 35 ad Atti 1, 8: «riceverete una potenza, quella dello Spirito Santo che verrà su di voi dall'alto ». Lo Spirito è qui, per anticipazione, lo Spirito della pentecoste. È lo Spirito dell'era cristiana, lo Spirito detenuto in pienezza dal Cristo. 18 Il rapporto di Le 1-2 con l'antica ·storia di !Salvezza sotto la luce della promessa-adempimento, oltre che il ruolo centrale di Cristo e l'azione singolare dello Spirito, coinvolge in modo altrettanto singolare, la figura di Maria. Questa, come abbiamo notato, ha un posto particolare in Le 1-2, non solo come fonte di questa notizia storica, ma nella sua persona e nel compito che essa assolve ricapitolando ed adempiendo in sè l'antica storia di Israele. Tale compito appare tanto più notevole se si tiene conto del rapporto della storia d'infanzia lucana con la tradizione giovannea. Maria, infatti, come Luca ci mostra, appartiene da un lato all'antica economia sottomessa alla legge mosaica della purificazione (Le 2, 22); in essa si ricapitola tutta la speranza degli anawim (« essa primeggia tra gli umili ed i poveri del Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da Lui la salvezza» LG VIII, 55); possiamo dire che tutta la speranza più genuina dell'AT trova adempimento in Lei. Ma, insieme, dall'altro lato, Maria, specie nella annunciazione, appare come la Donna predestinata, come l'eletta per eccellenza (kecharitomène Le 1, 28), colei che raccoglie in sè la pienezza dell'agape di Dio,1 9 personificando la nuova Sian, Colei che ha il Signore con sè (Le 1, 28 b).m 17 18 19

A.

A. M.

FEUILLET, Marie et la nouvelle création, in La Vie Sp. 81 (1949), 472. FEUILLET, L'Esprit Saint et la Mère du Christ, BSFEM 25 (1968), 38-64. CAMBE, La charis che:t. Saint Luc. Remarques sur quelques textes, notam-

ment sur le kecharitomenè, in RB 70 (1963), 193-207. 20 R. LAURENTIN, Structure et théologie de Luc 1-2, 45-60; A. FEU!LLET, La Vierge Marie dans le Nouveau Testament, in «Maria, études sur la Sainte Viergc », VI, Paris 1961, 32-33.

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Il

Nel saluto stesso dell'annunciazione appare come Maria, che ha trovato grazia presso Dio (Le 1, 30) è colei che è chiamata mediante la sua straordinaria maternità {Le 1, 31) ad impersonare il ruolo di Sion.21 In Lei si deve realizzare infatti la grande aspirazione escatologica dell'AT che è l'abitazione di Dio in seno al suo popolo (Is 12, 6; Os 11, 9; Mie 3, 11; Ps 46, 6). Il Figlio di Maria, chiamato Gesù, è la presenza stessa di Dio nel seno della Figlia di Sian. Così, nella sua maternità, Maria è il segno cristologico dell'Agape di Dio. Questo dato cristologico oltre che nelle prime parole dell'annuncio dell'angelo risalta in quelle successive di Le 1, 35 che riecheggiano Es 40, 35 (dr. Num 9, 1822) in riferimento alla nube che ricopriva della sua ombra il tabernacolo, segno della gloria di Jahvè, in esso inabitante. 22 Con tale riferimento, Maria, adombrata dalla potenza dell'Altis,simo, è indicata come tabernacolo della Alleanza Nuova ove risiede la gloria di Jahvè, cioè la santità del bambino che ella concepirà. Ma proprio per questo, il ruolo materno di Maria, nei confronti del Figlio dell'Altissimo, ha sempre, nel racoonto lucano, un'ampiezza che coinvolge tutto Israele: l'antico Israele che si protendeva nella speranza verso il parto del messia, salvezza escatologica di Dio, «si compie» nell'opera materna di Maria la quale, come Madre del Salvatore, diviene anche colei che genera il nuovo Israele secondo lo Spirito. Il riferimento di Le 1, 35 (lo Spirito Santo verrà su di te) ad Atti 1, 8, al quale abbiamo sopra accennato, sembra suggerire fortemente l'idea che, nell'annunciazione, Maria, divenendo Madre del Cristo, divenga anche la Madre spirituale di tutta l'umanità. 23 La discesa dello Spirito su Maria nell'annunciazione è come l'anticipazione della futura pentecoste. Questo dato lucano che vede in Maria la personificazione della Sion dei profeti, non appare solo un fatto di predestinazione divina: esso mette in evidenza anche un «ruolo attivo », «personale», di Maria nell'adempiere, secondo il piano divino, l'antica storia di Israele inaugurando la nuova. La scena dell'annunciazione evidenzia, infatti, nella sua narrazione, una sollecitazione personale e libera di Maria: il ~< fiat » è la parola chiave che esprime tale partecipazione personale

R. LAURENTIN, Structure, 152-162. S. LYONNET, Le récit de l'Annoriatio11 et la maternité divine de la Sainte Vierge, AmCl (i6 (1956), 33-48. 23 A. FEUILLET, L'Esprit Saint et la Mère du Christ, 39-64. 21

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alla grazia della divina maternità nella linea della obbedienza del Servo, parola che sottolinea non un fatto momentaneo, ma l'espressione costante della attitudine personale di Maria, quasi un riferimento antitetico alla disobbedienza di Eva (LG VIII, 56). In lei si compie, infatti, non solo l'attesa materna della antica « Figlia di Sion », ma anche la risposta fedele, obbediente, per cui l'infedeltà antica d'Israele nei confronti di Dio si supera e si tramuta nella fedeltà e nella obbedienza assoluta della « Nuova Figlia di Sion », Sposa fedele e perfetta che trova la sua anticipazione peDSonale nell'atteggiamento del « fiat » di Maria. 24 Il legame all'antica economia che come un'atmosfera aleggia nei racconti d'infanzia di Le 1-2 che si snodano con uno stile fortemente semitizzante 25 nei dittici delle annunciazioni e delle nascite, della presentazione e del ritrovamento, rivela indubbiamente la sua origine più antica in una fonte giudaica familiare oltre che nella fonte giovannea. 26 Questo rapporto con coloro che furono testimoni « fìn dall'inizio» (Le 1, 2 b: Gv 15, 27; 1 Gv 1, 1-2) dà al racconto lucano la sua validità storica di narrazione fondata su testimonianze dirette oculari, anche se tale narrazione rileva una penetrazione teologica che tende a vedere nelle origini di Gesù l'evento escatologico che adempie l'antica economia, la pienezza del dono dello Spirito ed il ruolo materno ed ecclesiale di Maria. Ma proprio questa penetrazione dovuta al mistero pasquale, al dono dello Spirito, alla vita vissuta della comunità ecclesiale richiama chiaramente il narrare la storia del quarto evangelo, il quale continuamente richiama ai ricordi (Gv 2, 22; 12, 16) ed alla testimonianza di chi ha visto (Gv 21, 24; 19, 35). Sarebbe un grosso errore pensare che Giovanni sia il seguace di una gnosi o di una metafisica religiosa, indifferente alla realtà dei fatti. Al contrario, è proprio la fedeltà ai fatti, al realismo storico della incarnazione che porta il pensiero cristiano a meditare ed approfondire il loro significato, nella coscienza che il loro valore di « mistero », anzichè sminuirli, ne sottolinea l'importanza radicale, irrepetibile, il valore di adempimento che assolvono una volta per sempre. In Le 1-2 si nota un tale modo di raccontare la storia degli inizi di Gesù: il richiamo, come un ritor-

M. 25 F. 24

BORDONI,

J.

L'eve!ltO Cristo, 43.

CRJBBS, Luke and the iohaflni!le Tradition, JBL 1971, 422-450; A. FEUILLET, La source immédiate de Le 1-2: la Traditiofl ;oha1111ique, in Jesus, 86 s. 26 P. BENOIT, L'enfance de JeancBaptiste selon Luc 1, NTS 3 (1956/57), 169-194.

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nello crrca familiari del precursore e circa la Vergine Maria che «conservava i ricordi» e li penetravano nel loro cuore (Le 1, 66; 2, 19; 2, 51) richiama una lunga riflessione e meditazione sui fatti che senza negarne la sostanza, nè esalta l'importanza decisiva per la storia del mondo.

II.

LE

ANTICIPAZIONI DELL'EVANGELO.

Se è vero che le narrazioni di Mt 1-2 e di Le 1-2 ricordano le origini storiche di Gesù attraverso le utilizzazioni di fonti giudeocristiane, nelle quali i ricordi erano mantenuti fedeli, già penetrati tuttavia dalla meditazione di fede, la redazione definitiva del materiale ha lasciato a sua volta un'impronta nell'indicare, nella scelta e nella presentazione dei tratti narrativi, alcune tematiche proprie di Matteo e di Luca onde queste storie dell'origine di Gesù possono essere anche considerate come prologo dei rispettivi evangeli. 27 Così in Matteo 1-2 l'anticipazione del Vangelo intero si coglie anzitutto attraverso la stessa struttura dei due capitoli dei quali il primo mediante la genealogia ed il racconto della natività mostra la « genesi » di Gesù Cristo richiamandosi da una parte alla genealogia temporale del Messia (Mt 1, 2-17) e dall'altra alla sua origine trascendente (Mt 1, 18-25) concludendosi con la presentazione di Gesù Salvatore spirituale del suo popolo (Mt 1, 25); il secondo capitolo attraverso i quattro episodi dell'infanzia (Mt 2, 1-12; 13-15; 16-18; 19-23) ognuno intorno ad un oracolo profetico 28 tende a mostrare, per anticipazione, la messianità di Gesù nelle vicende della vita del bambino attraverso un metodo apologetico che ricorre in tutto il vangelo. Nelle vicende di questa vita del fanciullo, Matteo vede il ripetersi della « fuga salvatrice del popolo di Dio (Israele) in Egitto e l'esperienza israelitica dell'Esodo »: 29 Gesù appare co-

Il E. KRAFFT, Die Vorgeschichten des Lukas, in « Zeit und Geschichte », Tiibingen 1964, 217-223; A. VoGTLE, Die matthiiische Kindheits Geschichte, in « L'évangile selon Matthieu, rédaction et théologie », Gembloux 1972, 153 ss. 28 Mt 1, 22-23; 2, 5-6; 2, 15; 2, 17; 2, 23; R. H. GUNDRY, The Use of the Old Testamenl in St. Matthew's Gospel, Leiden 1967, 194-195; A. PAUL, L'évangile de i'enfance selon S. Matthieu, Paris 1968, 172. 29 A. VoGTLE, Die Genealogie, 255; Id., Die matthiiische, 155 sottolinea nel c. 1 i temi cristologici: la figliazione divina (Dio con noi), la figliazione davidica (missione ad Israele), figliazione da Abramo (missione di salvezza per i popoli).

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me il « vero Israele», fondatore del nuovo popolo di Dio degli ultimi tempi.30 Inquanto fondatore del nuovo Israele, Gesù, appare anche come il nuovo Mosè. Il parallelo tra la storia di infanzia di Gesù e quella di Mosè risalta in alcuni passi come Mt 2. 19-21 {chiara reminiscenza di Ex 4, 19-20) che evoca i primordi della vita di Mosè e come la storia dell'uccisione dei santi innocenti (Mt 2, 16-18) che rievoca l'ordine del faraone di uccidere i primogeniti di Israele all'epoca della na1Scita di Mosè. Il richiamo alla figura prototipica di Mosè, nel presentare Gesù Salvatore del Nuovo Israele, promulgatore della nuova legge è un. tema ben presente nel vangelo di Matteo 31 per il quale, come Mosè sul Sinai (Ex 34, 28) Gesù passa prima digiunando quaranta giorni nel deserto (Mt 4, 2) riuscendo vittorioso sulle tentazioni storiche di Israele e quindi salendo sulla montagna, come nuovo legislatore, proclama la nuova Torah del Regno (Mt 5, 1 s) e su di un'altra montagna si trasfigura tra Mosè ed Elia (Mt 17, 1 s). Il parallelo di Mosè sottolinea la superiorità di Cristo che non riceve la legge, ma. la fonda lui stesso, con la sua Persona, la sua Vita, la sua Parola. Per alcuni esegeti la struttura stessa delle cinque pericopi narrative di Matteo 1-2 sarebbero a loro volta un'eco del pentateuco ed annuncerebbero le cinque grandi istruzioni che a somiglianza dei cinque libri della Torah costituirebbero le cinque parti dell'opera di Matteo (cc 3-25).32 In rapporto con le osservazioni precedenti si nota in Matteo 1-2 ancora l'anticipazione dei tratti che caratterizzano la teologia del primo evangelo con l'affermazione dell'identità divina della messianità di Cristo, ~sione nei confronti di Israele si oarebbe compiuta nello Spirito Santo (Mc 1, 8; Mt 3, 11; Gv 1, 33; Le 3, 16), però in Matteo e Luca l'associazione al « fuoco » ed alla venuta del più forte, tende a designare la futura missione di Gesù di Nazaret in modo più aderente all'originale messaggio del Battista, come « giudizio escatologico », nel senso di « forza divina », soffio irresistfoile che compirà tale giudizio (Is 11, 4; Enoch 62, 2): 16 « non è lo Spirito Santo, di cui il Battista annuncia l'effusione sul Messia, quanto il soffio violento che fa morire i malvagi di Is 11 » .17 Di fronte alla situazione dell'uomo nella imminenza della manifestazione suprema dell'ira di Dio e della venuta del suo legato escatologico, la predicazione di Giovanni indica la « conversione » (metdnoia) come unica via per evitare il giudizio di Dio (Mc 1, 4; Mt 3, 1 QS II, 4-5; gli inni: 1 QH. P. VAN IMscHooT, Bapteme d'eau et bapteme d'Esprit-Saint, ET,L 13 (19.36), 653-666. Per il fuoco strumento dì giudizio escatologico: Ml .3, 2; Am l, 4; 7, 4. 15

16

17 M. A. CHEVALLIE!\, L'Esprit et le Messie dans le Bas-Judaisme et le NT, Paris 1958; In., Souffie de Dieu, Le Saint-Esprit dans le Nouveau Testament, Paris 1978, 98-99.

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Il

8), il produrre frutti degni di pentimento (Le 3, 8). Ma tali frutti erano nella predicazione di Giovanni legati al battesimo di acqua (Mc 1, 4; Le 3, 3; At 10, 37; 13, 24). Solo tale battesimo offriva la possibilità di sfuggire al fuoco distruttore. In contrasto con le dottrine farisaiche del tardo giudaismo che davano un grande rilievo alle opere della legge per effettuare i giorni del Messia, la predicazione di Giovanni rappresentava la vera preparazione all'avvento escatologico del Regno secondo l'autentica linea profetica di Is 40, 3: « voce di uno che grida nel deserto: preparate le vie del Signore, raddrizzate i suoi sentieri» (Mt 3, 3; Mc i, 2; Le 3, 3-7). La preparazione all'avvento escatologico del giudizio di Dio si compie attraverso una « metanoia » che è intesa, non come conquista dello sforzo etico dell'uomo, ma primariamente, come opera di Dio nell'uomo, come suo libero dono. L'uomo è incapace, da solo, di operare il cambiamento: l'accettare di farsi battezzare da Giovanni in contrasto con altre prassi battesimali di immergersi da soli, voleva dire accettare di « lasciarsi cambiare da Dio ». Per questo il battesimo di Giovanni era un battesimo « dal cielo » (Mt 21, 25). La testimonianza evangelica che già collega (Le 1-2) le due annunciazioni e le due nascite del Battista e di Gesù, collega anche la missione pubblica di Gesù con il movimento penitenziale del Battista. Anche ta:le collegamento ci appare come un dato storicamente certo: la testimonianza della predicazione del Battista nel dato evangelico ed il fatto che Gesù abbia chiesto di essere battezzato da Giovanni è dovuto indubbiamente ad una ragione di fedeltà storica. Infatti il battesimo di Gesù diventava una pietra d'inciampo per i cristiani i quali potevano capirlo nel senso di una certa subordinazione di Gesù a Giovanni Battista. I seguaci di Giovanni avrebbero potuto sostenere di lì che Giovanni stesso era il profeta escatologico decisivo. La tradizione evangelica se tende, sia per l'origine (concezione e nascita), sia per l'inizio della vita pubblica, a porre in evidenza la superiorità della persona di Gesù, del suo messaggio e della sua vita, ciò essa lo fa proprio perchè si sente ancorata fortemente ad un fatto storicamente certo. La fedeltà storica emerge anche in una certa crisi o confronto tra la concezione messianica di Giovanni e quella di Gesù mostrando quella discontinuità che fa risplendere la novità ed originalità del messianismo di Gesù e costituisce un importante criterio di storicità. 18 Il 18

Vedi I volume, pp. 61-62.

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GLI INIZI

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confronto viene da Matteo solo, nel dialogo tra il Battista e Gesù che precede ed introduce il fatto del battesimo. 19 Matteo nota che Gesù veniva dalla Galilea (Mt 3, 13; Mc 1, 9) verso il Giordano, presso Giovanni, per farsi battezzare da lui: con ciò appare come Gesù si colloca nella comunità dei penitenti (cfr. Le 3, 21) e chiede il battesimo di penitenza a Giovanni. Egli mostra così di solidarizzare con i peccatori anticipando un tratto alquanto scandaloso, per le idee dominanti nel giudaismo del tempo, del ISUO comportamento messianico. Egli annuncia la sua identificazione con il Servo (Is 42, 1; Mt 3, 17) che prende su di sè le nostre miserie (Is 53, 4: Mt 8, 17), preludendo così alla passione (Mt 27, 45-56): « se il primo passo di Gesù è di andare a chiedere a Giovanni il battesimo, è senza dubbio perchè un impulso spontaneo ed una infallibile lucidità lo portavano immediatamente là ove la presenza dello Spirito era più attiva, l'attesa di Dio più viva ... solidale con i peccatori, in atto di portare i loro p~ccati, egli lo è già pienamente, ma non lo può ancora dire, perchè non ha ancora vissuto totalmente questo peso del peccato. Per cominciare, si · unisce ai peccatori, là ove Dio lo aspettava e li converte ... ».m Questa concezione del Messia non corrispondeva alla visione di Giovanni, il quale, convinto della messianità di Gesù, la intravedeva però secondo uno stile ed una immagine più vicina agli ambienti qumranici: il Messia giusto e santo, rigoroso contro i peccatori, separato da questi, che avrebbe esercitato il giudizio escatologico con un'azione purificatrice e devastatrice ben indicata dall'ira e dall'immagine del fuoco distruttore. Questo Messia intransigente con i peccatori ed i malvagi non quadrava con quella di un Messia solidale con loro. Un Messia che chiede il battesimo scandalizzava Giovanni che si rifiutava e voleva impedirglielo (Mt 3, 14). Ma Gesù risponde: «lascia, per ora, poichè è conveniente che cosl adempiamo ogni giustizia» (Mt 3, 15).21 Lo adempimento di ogni giustizia va qui nel senso dell'adempimento della Scrittura, della Legge e dei Profeti: il battesimo di Gesù e la teofania battesimale sono un compimento delle Scritture e dei profeti. Tale

19 M. SABBE, Le dialogue entre Jean et Jéms, in «Le Bapteme de Jésus. Études sur les origines littéraires du récit des évangiles synoptiques », in «De Jésus aux Evangiles », 184 ss. 2D J. GUILLET, Jésus devant sa vie et sa mort, Paris 1971, 35; A, FEUILLET, Le baptéme du Jourdain prélude du Calvaire, in «La personnalité de Jésus entrevue a partir de sa soumission au rite de repentance du précurseur », RB 77 (1970), 39 s. 21 M. SABBE, ivi, 184.

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adempimento va, nello stile di Matteo (Mt 6.10.20; 6, 1.33; 21, 32), nella conformità del comportamento dell'uomo al volere di Dio espresso nelle Scritture. Gesù invita il Battista ad uniformare i propri pensieri al beneplacito del Padre: a compiere quella giustizia che è rettitudine nell'agire conforme alla misericordia divina la cui ora sta per scoccare. Qualunque preoccupazione di inferiorità non ha ragione

di essere. La giustizia di Dio come bontà misericordiosa sta chiamando e suscitando il suo Servo (Is 45, 13 ). Ciò si compie già nel battesimo di Gesù, dal quale inizia il tempo propizio della salvezza con la predicazione della giustizia di Dio (Is 45, 19-25). Il richiamo storico all'ambiente delle origini della vita pubblica di Gesù introduce al fatto del battesimo, dato importante della tradizione evangelica per l'inizio della manifestazione pubblica di Gesù. La redazione di Marco pone in evidenza anzitutto il suo « venire da Nazaret » di Galilea con evidenti intenzioni non solo biografiche, ma anche redazionali e teologiche: 21 Giovanni e Gesù operano in luoghi ed in tempi diversi. Gesù deve uscire dalla Galilea per incontrare Giovanni che predica nella regione della giudea e del Giordano, nel deserto (Mc 1, 4). Questo dato della tradizione che collega storicamente Gesù con Nazaret si ritrova anche in Matteo che alla fine del racconto d'infanzia (Mt 2, 22-23), dopo aver con una serie di dati messo in evidenza la nascita di Gesù a Betlemme, in Giudea, conformemente ai testi profetici (Is 7, 14; Mie 5, 1) recupera la tradizione su Gesù Nazareno cerèando nei profeti una risposta alle obiezioni giudaiche sull'origine galilaica di Gesù. Proprio per questa ragione la notizia della provenienza galilaica appare solidamente fondata. Venendo dalla Galilea (Mc-Mt) Gesù fu battezzato da Giovanni nel Giordano (Mc 1, 9). Il dato riferisce un fatto certamente storico attestato da tutti e tre i sinottici, proveniente quindi dall'unanimità delle fonti (criterio della molteplice attestazione). 23 Tuttavia è anche evidente che l'importanza data dagli evangeli al fatto del battesimo di Gesù tende a riferire non solamente un fatto

1l In Marco la predicazione galilaica di Gesù è come un paradigma: Gesù proviene dalla Galilea (I, 9), ritorna in Galilea a proclamare il vangelo (I, 14). È in Galilea che si pone la prima attività di Gesù, la chiamata dei discepoli, i miracoli e la diffusione della sua fama (1, 28). È il luogo ove si ritira per ripararsi dall'odio dei farisei ed erodiani (3, 7) e nel quale si attende il ritorno di Cl'isto. L'importanza data da Marco alla fase galilaica non infirma però la storicità del periodo del ministero. · 23 F. LENrzEN-DEIS, Die Tau/e Jesu nach den Synoptikern, Frankfurt a.M. 1970

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di cronaca, legato all'intento di una informazione biografica. L'avvenimento è storico soprattutto per la portata che esso possiede per la storia della salvezza, come fatto decisivo. Questa dimensione signifìcativa del fatto è rilevata attraverso la « teofania » che si compie nel fatto stesso fino ad esserne inscindibile, connessa nella redazione di Luca con la preghiera di GesÙ. 24 La teofania battesimale, introdotta «dall'apertura dei cieli» (Mc-Mt; Le: del cielo) s'incentra nella voce, proveniente« dai cieli» (Mc 1, 11; Mt 3, 17; Le 3, 22: «dal cielo») che spiega il senso dell'avvenimento e della visione dello Spirito. La parola della teofania porta due riferimenti messianici: Ps 2, 7 ed Is 42, 1.25 Anche in Giovanni 1, 34 la testimonianza del Battista verte sulla messianità divina di Gesù con probabile riferimento ad Is 42, 1.26 Attraverso questi riferimenti profetici, la voce afferma autorevolmente (dai cieli) la dignità divina della persona di Gesù, avente una autorità unica, al di sopra del Battista, una dignità messianica espressa attraverso l'accostamento del termine «Figlio» a quello di « Servo » z:1 in un contesto in cui confluiscono il messianismo regale (Ps 2, 7) e quello profetico (Is 42, 1; 61, 1). 28 La « voce dai cieli » delucida anche la « visione dello Spirito » che discende su Gesù e vi riposa stabilmente (Gv) 29 quale manifesta-

24 La preghiera di Gesù che rappresenta in Luca l'introduzione alh teofania, attraverso la manifestazione dello Spirito Santo sembra richiamare l'idea di una anticipazione della pentecoste: la particolare presenza dello Spirito apre il tempo del ministero pubblico di Gesù così come apre il tempo della missione della Chiesa nel mondo (At 1, 14; 2, 1-5). Cfr. I DE LA PoTTERIE, L'onctz'on du Christ, NRT 80 (1958), 225 ss.; A. GEORGE, La prédication inaugurale de Jérns dam la synagog11e de Nazareth, Bl Ve 59 (1964), 17-29. 25 In Mt 3, 17 la forma indicativa sottolinea probabilmente un influsso maggiore di Is 42, 1 ove la voce è in terza persona, mentre Mc-Le danno rilievo al Salmo 2, 7. 26 Per la questione della lezione « Figlio di Dio » che secondo alcuni esegeti avrebbe rimpiazzato quella più primitiva « Servo di Dio » cfr. F. PoRSCHE, « Soh11 Gottes » oder {< Erwahlten Gottes » in 1, 34? in «Pneuma und Wort », 37 s. n Da notare questo accostamento del significato di « Figlio » con quello di «Servitore» che nei sinottici indica, il più sovente, che l'appannaggio dei Figlio non è tanto la gloria del trionfo, quanto l'umiltà della obbedienza, qualità principale del Servitore (C. MAURER, Knecht Gottes und Sohn Gottes im Passionsbericht des Markusevangeliums, ZTK 50 (1953 ), 12-13; B. M. F. VAN lERSEL, Der Sohn in den synoptischen Jesusworten, Leiden 1964. 28 J. CoPPENs, ]és11s le Serviteur de Dieu, in «Le messianisme et sa relève prophetique », Gembloux 1974, 186; ID., Le messianisme royal, 190-191. 29 Per Gv 1, 32-33 attraverso il « menein » che sottolinea il carattere permanente e pieno della presenza dello Spirito su Gesù sembra alludersi ad Is 11, 2; per tutti gli evangeli l'allusione è per Is 42, l; mentre per Luca è ancora probabile

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zione di pienezza e permanenza che sottolinea l'adempimento delle antiche profezie sullo Spirito ed il Messia, per il tempo escatologico: la storia di Israele sarebbe stata alla fine dei tempi caratterizzata da una sovrabbondante emissione dello Spirito su Israele. Questa sarebbe iniziata con la venuta dell'Unto del Signore, portatore per eccellenza dello Spirito (Is 11, 2; 42, l; 61, 1). Mentre gli antichi re e profeti non portavano così stabilmente e sovrabbondantemente lo Spirito, Gesù Io porta con pienezza; e come il compito di tutti coloro che anticamente agivano sotto l'azione dello Spirito era un compito di edificazione, convocazione, del popolo di Dio, cosl in Gesù, Figlio, Servitore, Cristo, il ruolo dello Spirito è in riferimento alla piena edifìcazione escatologica del Nuovo Israele, comunità perfetta dell'era della grazia. Tale opera riedificatrice era considerata realizzata dal futuro Messia sia attraverso l'opera regale di giustizia (Is 11, 4) sia attraverso la missione profetica di messaggero di pace, di bene (Is 52, 7), di alleanza e luce delle nazioni (Is 42, 6 ), sia attraverso un'opera espiatorio- notare anche i limiti a cui era soggetta la ermeneutica delle parabole di Ji.ilicher per l'ipoteca dei presupposti ideologici per cui le parabole annunciano un umanesimo religioso e non un evento escatologico. 86 G. BoRNKAMM, Gesù di Nazaret, 74. 87 J. DUPON"f, Les paraboles, 1 s.; Io., Il metodo parabolico, 12-13 teniamo particolarmente conto di questo lavoro in tale introduzione. 88 Comportamento esemplare raccomandato (Le 10, 30-37), avvertimento contro un cattivo comportamento (Mt 18, 23-35; servitore spietato; Le 16, 1-8: fattore dùonesto; 12, 16-20: ricco insensato), confronto tra due comportamenti (Le 16, 19-31: il ricco e Lazzaro; Le 18, 9-14: f,iriseo e pubblicano). 89 In genere le parabole non si riferiscono in modo diretto al comportamento di Gesù: egli non racconta parabole per parlare di sè (qualche eccezione in Mc 2,

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tamento di Gesù. Tra queste ultime, che possono considerarsi le più caratteristiche del vangelo si collocano le parabole che parlano espressamente del Regno. 90 Oltre al carattere della « prassi » è importante notare il « valore dialogico » del linguaggio parabolico di Gesù. Mentre i rabbini del tempo mettevano le para:bole a servizio di un insegnamento magisteriale, Gesù le ha usate come strumento di dialogo. 91 Questa caratteristica tende oggi a correggere l'idea abbastanza condivisa che il linguaggio parabolico assolva più che altro una funzione pedagogica, quale strumento didattico in ausilio di genti culturalmente non evolute, tali da non poter recepire un insegnamento in forma di principi ed idee astratte.92 Tale funzione pedagogica era in realtà la caratteristica del ricorso alle parabole, anche se marginale, da parte dell'insegnamento rabbinico. Il linguaggio parabolico di Gesù, più che essere determinato dalla mentalità incolta degli uditori, appare situato meglio storicamente, di solito, in un contesto o situazione di dissenso aperto o velato, legato quest'ultimo ad una mentalità opposta al nuovo spirito evangelico del messaggio di Gesù. Di qui, una discussione diretta ed un annuncio del tutto esplicito, avrebbe portato facilmente a rafforzare le opposizioni. Con il linguaggio parabolico, invece, Gesù narra una storia in cui il punto di dissenso è presente, ma velato, mentre l'attenzione è richiamata dal confronto di due comportamenti dei quali l'uno rappresenta il 17; Mt 12, 11; Le 13, 15). Ciò corrisponde abbastanza al piano della predicazione del periodo galilaico in cui l'accento sulla propria persona è meno diretto. L'accento è messo in modo più diretto sull'opera di Dio e sull'avvento del suCJ Regno. Cosl molte parabole parlano della condotta di Dio senza precisa relazione al comportamento di Gesù. Egli «non ha l'abitudine di raccontare parabole per parlare di se stesso e giustificare semplicemente il proprio comportamento» (J. DuPONT, Il metodo, 22-23). 90 Tra le parabole che parlano del comportamento di Dio in relazione a quello di Gesù sono caratteristiche quelle che si riferiscono alla condotta scandalosa di Gesù a motivo della sua familiarità con i peccatori (Mt 20, 1-15; Le 15, 3-7; 15, 8-10; 15, 11-32; Mt 22, 1-10; Le 14, 16-24). 91 J. DUPONT, Il metodo, 31 s. 92 Ci si potrebbe forse appellare a sostegno di tale idea all'affermazione di Gv 16, 25.29-30: «vi ho detto tutto ciò in parabole, ma viene l'ora in cui ... io vi comunicherò apertamente ciò che concerne il Padre»; cosi pure il detto di Mc 4, 11-12. In realtà in tali passi non si tratta di ragioni pedagogiche: in Gv l'insegnamento in parabole esprime Io stadio presente dell'insegnamento di Gesù ancora nascosto rispetto a quello futuro che attraverso il dono dello Spirito porterà verso la verità tutta intera. Per Mc 4, 11-12 la parola di Gesù va letta nel contesto della cecità ed incredulità di Israele rispetto al ministero di predicazione di Gesù. Essa riflette, come vedremo, la situazione dell'insuccesso di tale missione e del segreto messianico.

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punto di vista dell'interlocutore e l'altro quello di Gesù: nel primo momento, il vantaggio è concesso al primo punto di vista, « Gesù raggiunge il suo interlocutore là ove egli si trova; ma si produce un rovesciamento ed il punto di vista che aveva il vantaggio si trova soppiantato dall'altro. Così l'interlocutore ha fatto un cammino che lo prepara ad accettare il punto di vista di Gesù. Egli si renderà conto che l'accordo concesso al racconto, gli ha fatto adottare questo punto di vista ».9l Questo carattere dialogico delle parabole evangeliche è importante per la loro interpretazione: il significato delle parabole, infatti, può essere colto solamente una volta conosciuta la « questione » che ne ha determinato il racconto ed a cui il racconto stesso vuole essere una risposta. La parabola non è un discorso a se stante (monologo), ma è comprensibile, nella sua verità, in un contesto di dialogo tra la vita di Gesù e l'ambiente del suo tempo. Questa struttura dialogica del genere parabolico di Gesù è importante anche per l'attualizzazione del discorso parabolico nel nostro tempo. In tale prospettiva ci si deve sempre chiedere: in che la questione sollevata al tempo di Gesù sia tutt'ora una questione viva nella nostra situazione culturale sì da consentire una entrata in dialogo con la parola storica di Gesù. Oltre al carattere di appartenenza all'ordine della prassi e quello del dialogo, il linguaggio parabolico di Gesù trae la sua forza persuasiva dalla esperienza: ciò vuol dire che per realizzare il suo intento, che è quello di condurre l'interlocutore dominato da una mentalità diversa o opposta al suo punto di vista, Gesù non si serve, nelle parabole, della forza costringente di una argomentazione astratta, di una logica razionalistica, né della forza di un sentimento o di una autorità riconoscbta (nel caso dei giudei: la Scrittura). Le parabole non fanno appello alla Scrittura, quanto alla forza derivante dalla esperienza, una esperienza legata al comportamento concreto degli uomini (Le 15, 4-7; Mt 7, 9; Le 17, 7-10; 11, 5-7), alla esperienza collettiva che trova la sua concretizzazione in proverbi o massime di saggezza (Mt 6, 24: « non si possono servire due padroni»; Mt 10, 24: «il discepolo non è al di sopra del maestro»; Mc 2, 17: «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati»). Ma nelle parabole evangeliche un ruolo particolare possiede l'appello concreto alla esperienza person,1le di Gesù e la convinzione de9l J. DuPDNT, Les paraboles, 5. Il procèdimento è riscontrato in venticinque casi di parabole.

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rivante da questa esperienza. Si tratta di esperienza derivante dalle sue convinzioni interiori, dal suo modo di vedere il mondo e la storia, il senso della sua missione, della sua esperienza personale del Padre, del suo modo concreto di manifestarlo nei gesti misericordiosi della vita: «Gesù, traduce la maniera con cui Egli comprende il comportamento di Dio, cerca di far comprendere il suo modo di vedere, non lo giustifica, non argomenta, ma cerca di comunicare la sua propria convinzione » .94 Questo appello alla esperienza si concretizza nel linguaggio parabolico in un processo di interrogazione che chiama talora in causa gli ascolta tori e la loro esperienza come argomento di una risposta certamente positiva, 95 ma soprattutto tendente a riconoscere e ad abbracciare l'esperienza privilegiata di Gesù per meglio riconoscere e comprendere il senso della sua missione: « ascoltando le parabole di Gesù, non bisogna solo cercare di comprendere ciò che Gesù vuole dire, ma bisogna cercare di comprendere colui che, parlando, esprime se stesso. Le parabole sono come un mezzo di accesso a Gesù in persona » (J. Dupont). IL VALORE STORICO. Importante per la stessa comprensione delle parabole evangeliche, oltre alla struttura del metodo parabolico, è il contesto nel quale esse vanno collocate e da cui risalta il loro valore di autenticità letteraria e storica. Tale contesto è anzitutto (a) quello letterario: la parabola fa parte di una unità letteraria più ampia che deve essere colta onde ne emerga l'intenzione per cui essa è riportata: ciò può essere detto sia a proposito della fase precedente il momento redazionale, sia la stessa fase redazionale riflettenti il « Sitz im Leben » postpasquale della Chiesa primitiva, la quale applicava le parabole alle circostanze concrete della sua vita, che talora davano ad esse un carattere nuovo. Così si può riconoscere talora in esse il segno di tendenze parenetiche determinate o dalla situazione di persecuzione, di minaccia o dal ritardo della parusia. 96 Quindi (b) il contesto storico concernente la situazione che ha dato origine alla J.

DUPONT, ivi, 8-9. Cosl talora l'interrogazione è posta all'inizio: "chi trn voi»? (Le 11, 5; 12, 25; 14, 5; 14, 28; 15, 4; 17, 7), talora invece è posta alla fine (Mc 12, 9; Le 7, 42; 10, 36; 12, 20; 18, 7; Mt 13, 28; 18, 33; 20, 15; 21, 31), talora emerge poi dalla stessa trama redazionale tendente ad abbandonare la forma interrogativa. 96 J. }EREMIAS, Le Parabole di Gesù, 56 s. 94

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parabola e che le ha dato il suo significato nella situazione del ministero di Gesù. Anche se molte volte appare dif!icile ritrovare la particolare situazione storica iniziale precisa in cui si colloéa la parabola, ci sono però nell'evangelo certi dati che riflettono le caratteristiche del messaggio di Gesù, lo stile del suo comportamento che sono certamente storici e che possono ben costituire il « Sitz im Leben Jesu » nel quale molte parabole trovano l'originario collocamento dal momento che in esse si trovano le linee della primitiva predicazione di Gesù, la sua 'situazione dinanzi agli uditori, il rapporto tra il suo insegnamento e la rivendicazione della sua messianità, ovvero, l'intenzione cristologica già presente nel suo primo messaggio. Il che ci consente di poter affermare che « chi studia le parnbole di Gesù che ci sono state trasmesse nei primi tre evangeli, può essere certo di lavorare su di un fondamento storico particolarmente solido, poiché esse sono un frammento di roccia nella quale s1 è edificata la tradizione ».97

h MESSAGGIO EVANGELICO DEL REGNO NELLE PARABOLE. Tutti gli aspetti del messaggio centrale della predicazione di Gesù si trovano riflessi nelle parabole del Vangelo, attraverso 1a particolarità del loro linguaggio, come pure la situazione storica della vita di Gesù che riluce al fondo dello stesso quadro redazionale. Per un motivo sistematico preferiamo ordinare il contenuto di questo messaggio intorno a tre linee fondamentali: quella del carattere escatologico del Regno quella del suo contenuto teologico-cristologico, quella degli effetti salvifici che il Regno apporta. a)

Il Regno escatologico nelle parabole.

Uno dei tratti arcaici della predicazione di Gesù, come abbiamo già veduto, è la « attualità escatologica » del Regno: esso è già all'opera, la fine dei tempi è anticipata con l'avvento di Gesù, e si va compiendo attraverso una durata, uno sviluppo, una crescita che si compirà nella rivelazione piena della regalità di Dio nel mondo. Il cammino di questo sviluppo-crescita è regolato da Dio che ne stabilisce i tempi nel corso della storia. Tutta una serie di parabole evangeliche, come quella del « seminatore », della « zizzania », del

97 J. JEREM!AS,

ivi, 15.

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granello di senapa, riflettono questo aspetto del Regno di Dio che viene con l'avvento stesso del ministero della vita di Gesù. Tra di esse un posto particolare occupa nella tradizione sinottica quella del «seminatore» (Mt 13, 1-9; Mc 4, 1-9; Le 8, 4-8), 98 la sola che nella collezione delle parabole del Regno non incomincia nel modo consueto: « il Regno di Dio è simile a ... » e che non nomina neppure il Regno stesso. Essa comincia con una storia che si racconta e si apre con il gesto del seminatore. Mentre Luca attrae l'attenzione al « seme »,99 le redazioni di Mt/Mc danno rilievo a colui che semina: non uno qualunque, ma « il seminatore» per eccellenza, colui la cui unica funzione è seminare. Gesù attrae l'attenzione su questo uomo, sul suo gesto, sull'evento da esso determinato: la storia di una semina, le sue vicende secondo i terreni fìno al termine della crescita. La conclusione che costituisce il sommo della parabola e parla del raccolto fruttuoso, sembra alludere al momento della realizzazione finale del Regno nel suo stato di pienezza. La realtà della venuta del Regno è veramente indicata dalla parabola, attraverso il gesto del seminatore che inaugura i tempi escatologici, collegata all'evento stesso della predicazione storica di Gesù ed alle reazioni del suo ambiente: insuccesso da una parte e grande frutto dall'altra. La situazione storica evocata dalla paraboìa sembra riflettere particolarmente l'ultima parte del ministero galilaico di Gesù: una parte del popol~ si era allontanata da lui o era sul punto di farlo; Malgrado l'insuccesso, Gesù annuncia la venuta incontrastabile del Regno: Dio conduce la sua opera al fine nonostante tutto. Il Regno è ormai inaugurato: se questo non è apertamente designato è forse perché ancora esiste allo stato incoativo nella persona del seminatore e nella semenza gettata sulla terra. Cosi il Regno è già lì, nella persona di Gesù, ma ancora in compimento: non è ancora giunto il momento della mietitura. La parabola della zizzania, propria di Matteo (13, 24-.30) 100 riprende questa storia che diviene apertamente la storia del « Regno

98 X. LÉON-DUFOUR, La parabole du semeur, in « Érudes d'évangile >>, Paris 1965, 259-301; K D. WmTE, The Parable of the Sower, in JTS 15 (1964), 300307. 99 Anche nella spiegazione il seminatore scompare; l'interesse è concentrato sul divenire del seme (Le 8, 11 s.). X. LÉON-DUFOUR, ivi, 261. mo M. DE GOEDT, Jésus parie aux foules en paraboles (Mt 13, 24-43), J\ssS, n. 47, 1970, 18-27.

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di Dio », come guella di un dramma in cui ciò che sconcerta è l'atteggiamento del padrone che tollera la crescita della zizzania fino al giorno della mietitura, o fuori metafora, che tollera la crescita dei peccatori in mezzo ai giusti. La parabola sul Regno risponde qui alla quef;tione: perché i malvagi sono ancora nel mondo quando è già arrivato il Regno di Dio ed è in via di compimento con la comunità dei giusti? Tale parabola, unita a quella della rete gettata in mare (Mt 1.3, 47-50), trova la sua situazione nella vita di Gesù: il suo comportamento e la sua predicazione sull'avvento del Regno trovava obiezione da parte di quegli ambienti giudaici che attendevano la « comunità messianica dei puri » criticando la comunità di Gesù come quella che aveva con sé non dei santi, bensì dei peccatori (Mc 2, 16; par; Mt 11, 19; Le 7, 34; 7, 39). Contro le obiezioni dettate dalla nostalgia della comunità dei puri, Gesù richiama l'attenzione verso il futuro escatologico del Regno che ancora deve compiersi (cernita del grano dalla zizzania), mentre il momento presente, della pazienza, sottolinea la venuta del Regno sotto il segno della salvezza aperta a tutti: bisogna lasciare a Dio il compito di giudicare e di separare quando verrà il tempo. 101 Ma intanto, se i fautori del male e dell'oppressione possono continuare ad operare, non devono farsi delle illusioni sulla realtà e potenza del Regno che viene. Il Regno ha già 8desso introdotto nel mondo il seme che non sarà sradicato: la situazione del mondo è cambiata, il male ha i giorni contati. In tal senso va anche la parabola, riportata da Marco, del seme che cresce da solo (Mc 4, 26-29) senza ulteriore intervento del seminatore il quale, gettato il suo seme per terra, dorme e veglia, di notte e di giorno, mentre il seme cresce e germoglia senza che egli sappia come, finché alla mietitura metterà mano alla falce. Contro coloro che esaltavano l'opera umana per lo avvento del Regno, l'insegnamento di Gesù richiama la forza irresistibile di crescita del Regno dovuta all'intervento di Dio che viene, non per il risultato di una evoluzione storica, di una legge immanente, ma per il libero e sovrano intervento di Dio che dispone i tempi conforme al piano della salvezza. È questo che sottolinea la tranquilla certezza di colui che ha seminato e che attende la ere-

101 J. DUPONT, La parabole de la semence qui pousse toute reule (Mc 4, 26· 29) in RSR 55 (1967), 367-392; In., Deux Paraboles du Royaume (Mc 4, 26-34), in AssS n. 42, 1970, 50-59.

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scita del seme. Essa mette quasi in contrasto la passività dell'uomo al tempo della crescita e la sua fretta a mietere quando è l'ora. 102 Le parabole del gi-anello di senapa (Mt 13, 31-32; Mc 4, 30-32; Le 13, 18-19) e del lievito (Mt 13, 33; Le 13, 20-21) sottolineano il contrasto tra le umili e piccole origini del Regno e lo splendore della sua realizzazione fìnale. 103 Nell'avvento del Regno dapprima c'è un inizio insignificante, non appariscente, senza speranza di successo, ma alla fine, la sovranità di Dio si manifesterà in modo clamoroso e si vedrà che tutto è lievitato nel nuovo fermento. In tale messaggio, un'implicita cristologico si può cogliere: « il granello di senape ormai è seminato sulla terra del giardino ed il lievito è messo nella farina e precisamente da Gesù. Ciò che ad opera sua è accaduto una volta nel mondo, non può essere annullato da nessuno. Un inarrestabile sviluppo è stato avviato, quando egli annunciava in Galilea il messaggio del Regno di Dio ». 104 Le due parabole in questione sul Regno, se è vero che sul piano redazionale sono riferite come le altre ad una situazione contemporanea alla Chiesa apostolica, adattata alle sue necessità, alle domande che sorgevano fin dagli inizi circa le umili origini della fede cristiana, lasciano intravedere però anche una situazione abbastanza precisa del ministero galilaico di Gesù. Anche questa sembra rispondere al problema delineatosi al termine di questo grande periodo, al magro bilancio della prima predicazione sul Regno, al piccolo numero dei fedeli in rapporto alle defezioni dei molti ascoltatori della Parola. Il Regno era iniziato proprio come un piccolo seme, come piccola dose di lievito, ma il suo futuro sarà grandioso. Oggi esso, pur essendo piccola cosa è però all'opera e richiede tempo di crescita: le parabole considerate traducono questa realtà, quella del « mistero del Regno» (Mc 4, 10-13) che occultamente irrompe nel mondo in maniera impercettibile, ma vera. Oltre alle parabole della crescita riflettono il carattere escatologico del Regno quella serie di parabole che descrivono il comportamento dell'uomo dinanzi alla prospettiva della instaurazione finale

103 J. DuPONT, Ler paraboler du sénevé et du levain, NRT 89 (1967), 897-913 per la storia della tedaziona matteana e le implicazioni teologiche. ICH F. MusSNER, Il merraggio delle parabole di Gesù, Brescia 1971, 35.

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del Regno esortando alla vigilanza, per la crisi imminente, parabole che alcuni chiamano della « crisi» o del «giudizio ». Si tratta delle parabole dei 1Servi fedeli ed infedeli (Mt 24, 45-51; Le 12, 42-48), dei servi in attesa (Mc 13, 33-37; Le 12, 35-38), del ladro di notte (Mt 24, 43-44; Le 12, 39-40), delle dieci vergini (Mt 25, 1-12), delle mine o dei talenti (Mt 25, 14-30; Le 19, 11-27; Mc 13, 34). 105 La redazione di Matteo che riferisce insieme la maggior parte di questo gruppo, le colloca nel quadro del discorso sulla venuta escatologica del Figlio dell'uomo che sembra appartenere storicamente all'ultima parte del ministero di predicazione di Gesù nella città santa di Gerusalemme. In tale orizzonte le parabole rispondono all'esigenza di vigilare dinanzi alla imprevedibile ora della parusia del Figlio dell'Uomo che instaura la fase definitiva del Regno. Qui « vigilare» significa: non accumulare ricchezze, ma far fronte agli avvenimenti, assumendo le proprie responsabilità durante il tempo dell'attesa del ritorno incalcolabile del Signore. Cosl le parabole si sviluppano in tre tempi: « quello in cui sono affidate le responsabilità: dirigere la casa (Mt 24, 45: parabola dei servi fedeli e infedeli), andare incontro allo sposo (Mt 25, 1-12: parabola delle dieci vergini), fare fruttificare i talenti ricevuti (Mt 25, 14-15). Segue quindi « il tempo dell'attesa » in cui il Signore « ritarda » (Mt 24, 48) o si fa attendere (Mt 25, 5) o verrà dopo lungo tempo (Mt 25, 19). Ed in fine« il tempo del ritorno del Signore» che avviene senza che si conosca l'ora (Mt 24, 43: parabola del ladro di notte), nel giorno che non si spera e nell'ora che si ignora (Mt 24, 50) e nel quale egli giudicherà sulle responsabilità ricevute». Nello stato attuale della redazione matteana tali parabole danno molto rilievo al terzo tempo tanto da dovere essere lette a partire da questo « momento decisivo », discriminatore del comportamento degli uomini nel secondo tempo. Ma questa importanza data all'ora non-conosciuta, al ritardo del Signore, al momento finale (parusiaco) della sua venuta

105 Per l'insieme del gruppo: C. H. Dooo, Le parabole, 145 s.; in partico· lare: M. DrnIER, La parabole du voleur, in Rev. dioc. N:un. 21 (1967), 1-13; lo., La parabole des talents et des mines, in «De Jésns aux Evangiles », II, 248 s.; J. Du" PONT, La parabole du Maitre qui rentre dans la nuit (Mc 13, 34-36), in « Mél. bi. B. RIGAUX, Gembloux 1970; F. M. Du BUIT, Le serviteur e11 chef, in « Les paraboles de !'attente et de la miséricorde. Études synoptiques », III, 72 (1968), 13-18; L. DEISS, La parabole des dix vierges (Mt 25, 1-13), AssS n. 95, 1966, 31-57; ]. D. KrNGSBURY, The Parables o/ Jesus in Matthew 13. A Study in RcdactionCriticism, London 1969.

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sembra riflettere anche, oltre al contesto originario della storia di Gesù, il Sitz im Leben della Chiesa primitiva che viveva nella attesa del ritorno del Signore (1 Ts 5, 2-8) e nella convinzione della esigenza etica del vigilare, dello svegliarsi dal sonno (Ef 5, 8-14) facendo fruttificare i beni del Regno con l'esercizio dell'amore fraterno. Può ben darsi che questo Sitz im Leben abbia dato un'accentuazione escatologica verso la parusia finale a queste parabole che nella situazione della vita di Gesù non avevano. 106 Questo tuttavia non compromette il carattere fondamentalmente escatologico del Regno che tali parabole tendono ad illustrare nella stessa situazione della vita di Gesù. ES"se testimoniano una certa esplicitazione cristologica inquanto l'avvento finale del Regno è descritto attraverso la venuta del Figlio dell'Uomo indicato come il padrone o lo sposo. Il che induce a collocarle, come sopra dicevamo, nell'ultimo periodo della vita pubblica di Gesù, nella prossimità della sua morte. L'insegnamento che tali parabole nella loro forma originaria presentano non pone primariamente l'accento sul ritorno del padrone o dello sposo, quanto sulla fase int1?rmedia, sulla importanza del comportamento fedele nella assenza del padrone. Tale comportamento è quello della « vigilanza » intesa come « essere pronti per ogni evenienza », idea che nella redazione è suggerita dalla atmosfera generale determinata dal fatto che il signore è via e può tornare da un momento all'altro della notte. Tutti i particolari hanno il compito di creare questa atmosfera. Ma quale evenienza? Possiamo trovare la risposta nella situazione creata dalla predicazione del Regno fatta da Gesù: essa ha introdotto nel mondo una crisi per il tempo presente che diviene decisivo per l'ingresso nel Regno. La « crisi » che la predicazione di Gesù aveva provocato nell'ambiente giudaico si andava evolvendo in modo incerto ed inaspettato per i discepoli che avrebbero assistito stupiti allo scandalo del processo e della passione di Gesù. Egli, allora, si preoccupa di preparare i discepoli ai tempi difficili in cui lo sposo sarà loro tolto (Mc 2, 20). Anche la parabola delle dieci vergini (Mt 25, 1-2) unica in Matteo, può essere veduta in questa prospettiva: la necessità di essere pronti nel momento della crisi. In questo conlU6 In tal senso soprattutto C. H. DODD, J. JEREMIAS, L'influsso della situazione della « Le parabole >>, 56 s.

Le parabole, 152, 154; vedi anche Chiesa, il ritardo della Parusia, in

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testo della prova imminente, al di là delle accentuazioni redazionali, non è affatto da escludere, come vorrebbe C. H. Dodd, l'orizzonte del ritorno del Figlio dell'Uomo che determina uno spazio di attesa in cui vengono già affidati i beni messianici perché siano fatti fruttificare fino al momento della instaurazione finale del Regno. Gli annunci profetici di Gesù sulla sua passione prossima portavano, infatti, come vedremo, la componente della sua futura vittoria, del suo trionfo escatologico prossimo. La fedeltà dei suoi servi sarebbe stata valutata già nella sua glorificazione. Nella situazione della Chiesa primitiva in cui la resurrezione rimanda alla Parusia, la prova dei servi e delle vergini è trasposta, nel tempo della Chiesa, tenendo conto sia del protendersi di questo tempo che della speranza del ritorno finale di Cristo. Nella redazione lucana, le parabole dei servi fedeli e infedeli (Le 12, 42-46) e dei servi in attesa (12, .35-.38), del ladro di notte (12, .39-40) 107 sono riportate nel contesto del dodicesimo capitolo la cui prima sezione presenta l'ammonimento contro la paura che i discepoli potrebbero avere nei confronti dei persecutori (vv. 1-12) ammonimento che ha analogia con quello dei vv. 1.3-14 con cui Gesù vuole liberare i discepoli da ogni inquietitudine circa i beni terreni, dal timore di mancare del necessario (parabole del ricco stolto: Le 12, 1.3-21 ). In questa visione non domina l'idea del ritorno parusiaco del Figlio dell'Uomo, anche se essa non è eliminata del tutto (parabola del ladro di notte: Le 12, 40). Luca, infatti, tende a dare rilievo all'avvenimento decisivo che si compie alla fìne della vita cli ogni uomo: in esso, nell'al di là, si realizza già la sorte di ognuno. La prospettiva sopra accennata della situazione della vita di Gesù, del presente che si apre all'imminenza della prova, è veduto da Luca come il tempo della Chiesa, tempo di prova che si prolunga. La condizione del cristiano nel mondo è posta sotto il segno della necessità delle sofferenze, via che conduce alla salvezza. In tale prova, il pensiero dell'avvenire che conforta il credente inquanto capovolge la situazione attuale è veduto in una prospettiva più ravvicinata: quello del momento della morte. Luca sembra rifiutare l'idea di una fine. prossima; egli si rende conto chiaramente

l07 Marco, ciel gruppo di parabole citate, porta solo quella dei servi m attesa (13, 33-37) in un contesto escatologico simile alla redazione di Matteo, ma insistendo sulla vigilanza: esso si allinea con l'insegnamento sul destino del Figlio dell'Uomo (Mc 10, 33-34). J. DuPONT, La parabole du Ma1tre, 89-116.

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che lo sviluppo della storia dopo la venuta di Gesù ha una durata alquanto lunga. D'altro lato però egli non sacrifica neppure la speranza in un avvenire migliore che sostiene la fede nel suo cammino. Trasferendo la speranza cristiana dell'al di là in una prospettiva ravvicinata, più individuale, Luca rende il messaggio del futuro del Regno più accessibile alla mentalità del mondo greco: tale speranza si rivolge quindi, più che agli eventi escatologici finali, all'avvenimento decisivo, per ogni uomo, al termine della wa vita: l'evento della sua morte ed il suo passaggio all'eternità. Possono essere raccolte nell'ambito del tema della irruzione escatologica del Regno, già nel presente, quelle parabole che nel quadro del suo annuncio nelle beatitudini evangeliche presentano la situazione più vantaggiosa dei poveri e dei sofferenti. In questa ottica vengono le parabole con cui Gesù parla della stoltezza del ricco (Le 12, 16-20), dell'amministratore avveduto (Le 16, 1-7) che si pone come antitesi alla prima, dell'uomo ricco e del povero Lazzaro (Le 16, 19-31) parabole tipiche del terzo evangelo. La prima richiama, nella situazione originaria, l'importanza dell'ora escatologica e dell'appello di Gesù ad essere prudenti nell'ultima ora, per cui la rovina minaccia coloro che non accolgono il messaggio del Regno. In tale situazione sfavorevole vengono a trovarsi i ricchi, i sazi, coloro che oggi ridono ed hanno successo (Le 6, 24-26). L'atteggiamento originario di commiserazione da parte di Gesù, verso costoro per la loro condizione sfavorevole all'avvento del Regno è espresso, nella parabola del ricco stolto, nella prospettiva dell'al di là in cui avviene definitivamente il cambiamento della loro sorte, al di là, però, che nella particolare prospettiva lucana indica la situazione della morte. Attraverso tale prospettiva si sottolinea il giudizio sull'atteggiamento etico del ricco stolto espresso chiaramente nella redazione lucana nel v. 21: « così avverrà di colui che accumula tesori per se stesso e non arricchisce davanti a Dio », parole che riecheggiano le sentenze conservate in Matteo 6, 19-21: «non accumulate tesori sulla terra, dove la ruggine e la tignola consumano e dove i ladri sfondano e rubano; ma accumulatevi tesori nel cielo, dove né ruggine né tignola consumano e dove i ladri non sfondano e rubano». La parabola nel contesto lucano assume il tono di una esortazione parenetica a vendere i beni ed a darli in elemosina, a farsi borse che non esauriscono, a farsi tesori indefettibili nei cieli (Le 12, 33), vivendo quaggiù non come i pagani (12, 30) solleciti solo dei beni terrestri (12, 28-30) ma come persone che sono sollecite anzitutto

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del Regno di Dio e della sua giustizia ( 12, 31). Il problema della ricchezza nel suo rapporto al Regno caratterizza ancora il contesto lucano del c. 16 che attraverso il versetto chiave (v. 14) tende ad illustrare l'atteggiamento dell'uomo di fronte ai beni terreni che non gli appartengono veramente, perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene (1 Cor 10, 26 = Sal 24, 1; 50, 12). La ricchezza che non è ingiusta per se stessa, diviene ingiusta (Le 16, 9) nella misura in cui l'uomo se ne appropria «per se stesso» ammassandola a proprio profitto (12, 21) considerandosi padrone assoluto di questa. 108 Vista sotto questa luce, come « idolo » (mammona), la ricchezza si oppone al Regno di Dio e chi ad essa dà il cuore non può veramente servire Dio (Le 16, 13). In questo contesto, la parabola dell'amministratore > •59 In realtà, nel pensiero di Gesù, espresso dal discorso della montagna è l'amore del Padre misericordioso il motivo ispiratore fondamentale della Legge, ma l'amore del Padre non si rivela che nella umanità mite e misericordiosa del suo Figlio Gesù. Amare il Padre vuol dire continuare questo gesto gratuito che in Gesù si riversa nella intera umanità. Solo chi ama come il Padre ama è in grado· di essere suo figlio, solo chi ama come il Cristo ci ha amati (Gv 13, 34) può essere riconosciuto come suo discepolo (Gv 13, 35). Questo vuol dire che solo amando i fratelli come Cristo si è in grado di accogliere veramente in sé l'amore del Padre e quindi di glorificarlo e riamarlo in maniera degna della sua bontà. 60 Nel parlare dell'atteggiamento di Gesù dinanzi alla Legge abbiamo veduto come esso evidenzia, insieme, una continuità ed una novità attraverso quel suo personale adempimento (concentrazione cristologica) per cui il precetto dell'amore, quale rivelazione assoluta della volontà del Padre, trova la sua espressione perfetta nell'amore del Cristo, suo Figlio: «vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche gli uni gli altri. Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete l'amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 34-35). Tutto questo richiede una ulteriore importante puntualizzazione che mostra ancora il « compimento-novità » che Gesù opera rispetto alla Legge antica. Questa, come abbiamo veduto, annunciava l'interiore osservanza del precetto dell'amore per il forestiero (Dt 10, 15-19). Tale interiore osservanza del precetto dell'amore è indicata però come una realtà che si sarebbe compiuta solo nel futuro: la « circoncisione del cuore » si compirà solo ad opera di Jahvè che rinnoverà

59 S. ToMMAso, in Jo 15, 12, 1.2 cita S. Gregorio «la carità è la radice ed il fine di tutti i comandamenti» Om. 27, 1 sugli Evangeli: PL 76, 1205. 60 Poiché l'amore del prossimo scaturisce dall'amore di Dio, tale precetto nella legge cristiana non è riducibile ad un semplice «ideale morale di fraternità» che ridurrebbe tale amore solo ad una virtù morale. In realtà l'amore del prossimo nella concezione cristiana appartiene all'ambito delle virtù teologali e ciò perchè, come dice S. Tommaso: «l'amore di Dio è incluso nell'amore del prossimo come la causa è inclusa nell'effetto in ciò che il prossimo è amato propter Deum »· (in Rm 13, 1.2). Il Dottore angelico rispecchia l'insegnamento di S. Agostino cbe afferma: « amare il prossimo, cioè ogni uomo, come se stesso, chi lo può se non ami Dio e per suo precetto e dono possa compiere l'amore del prossimo? « (Exp. in Ep. ad Gal. 45 (su Gal 5, 15-16): PL 35, 2137.

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l'interiorità del cuore del suo popolo (Dt 30, 6) perchè egli posoa amare il Signore con tutta l'anima. Solo Dio quindi avrebbe realizzate le condizioni per compiere tale precetto della Legge. I profeti annunciano un tale evento come una « nuova alleanza » {Ger 31, 31; Ez 36, 27) per cui la Legge sarebbe stata data nel cuore per l'opera dello Spirito di Jahvè. Dio stesso, alla fine dei tempi, avrebbe istruito il suo popolo e dato la vera sapienza (Sir 24, 19-21). Ora, uno dei dati importanti della testimonianza evangelica, di indubbia autenticità, afferma che la forza dello Spirito accompagna l'opera del Cristo che realizza quel compimento della Legge consistente nel fatto che il credente giunge all'esercizio dell'amore amando come Lui ama. Così si supera ogni giuridismo moralistico che vede nella religione solo una legge esteriore che indica il dovere a cui uniformarci con le sole nostre forze. Il giudaismo vedeva la Legge piuttosto sotto questo aspetto, anche perché il dono della nuova osservanza non era stato concesso. Dio ha rivelato all'uomo la sua volontà e l'uomo con le sue forze deve operare la propria redenzione « atonement ». 61 Il compimento apportato da Gesù, oltre alle ragioni già delucidate, sta nel fatto che se tutta la Legge si riassume nel ;1•ecetto dell'amore di Dio e del prossimo, rivelato concretamente nel modo di amare di Gesù, tale imperativo non è solo una norma, per quanto personificata essa sia: in Gesù ci viene offerta la stessa carità di Dio che nello Spirito Santo si effonde nei nostri cuori (Rm 5, 5). Questo vuol dire che Cristo stesso, la nostra Legge, nello Spirito, ama in noi.62 B) Se l'atteggiamento di Gesù verso la Legge considerata come intervento salutare di Dio e manifestazione della sua volontà è un atteggiamento di consenso, con cui egli porta la Legge stessa al compimento, diverso è il suo atteggiamento verso l'interpretazione creatasi a poco a poco nel giudaismo attraverso la tradizione orale (halaka) che ad opera degli scribi tendeva a tutelare la legge, la spiegava ed applicava ai nuovi tempi e situazioni del popolo. Come abbiamo già visto all'inizio di questo paragrafo, si era andato crean61 SAMUEL SANDMEL, A Jewish Understanding o/ the New Testament, Lon· don 1956, 38. fil Per S. Tommaso la !ex nova è principaliter gratia ed inquanto grazia è Lex non scripta, perciò se inquanto lettera la legge del Vangelo non differisce da quella antica, la supera però apparendo « lex nova » inquanto è Lex a 5 piritu Sane/o data (in Rm 8, 2. S. LYONNET, Amottr du prochain, 14-15).

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do nel giudaismo al tempo di Gesù un « sistema della Legge » che, invece di liberare, imponeva all'uomo dei fardelli pesanti con pre· scrizioni letterali e molto formali. Rispetto a questo « sistema della legge» il comportamento di Gesù è spesso critico: il punto fondamentale di attacco era lo spirito farisaico da cui procedeva tutto uno stile di osiservanza della Legge che aveva materializzato e giurisdizionalizzato ad altranza l'alleanza di Dio con il suo popolo. Il Vangelo documenta alcuni punti con cui Gesù attacca la halaka rabbinica e talora quella stessa parte della legge scritta che contiene gli adattamenti apportati alla legge in epoche posteriori. Per i giudei essa era intangibile e veniva coperta della stessa autorità di Mosè: attaccare la halaka era attaccare la Legge santa, Dio stesso, supremo legislatore. Tra i punti di maggiore contrasto tra Gesù e Ja halaka emergono nel vangelo la questione del sabato, la distinzione circa il puro e l'impuro, la questione del divorzio. Per quanto riguarda la legge sacra sul sabato, legata alla stessa volontà creatrice di Dio, Gesù tende a mostrare come la halaka rabbinica aveva stravolto il significato originale del precetto che era un dono dato da Dio agli uomini.63 Là ove la casistica rabbinica aveva finito per sottomettere l'uomo al sabato, Gesù riporta il valore sacro del sabato al suo significato primo: quello di essere uno spazio spirituale dell'agire di Dio nel tempo, salvezza dell'uomo. 64 Consentendo di compiere ai discepoli quanto non era concesso dalla tradizione, Gesù mostra una autorità superiore ad essa. Nella risposta ai farisei, Gesù richiama il gesto di David che entrò nella casa di Dio e mangiò i pani della proposizione e ne diede a coloro che erano con lui (Mc 2, 25-26 par.; 1 Sam 21, 1-7). In Matteo 12, 5 si aggiunge che i sacerdoti stessi violavano H sabato per assicurare il servizio del tempio. Se David per la sua autorità regale ha potuto infrangere la legge della tradizione senza peccare e se i sacerdoti possono superare

63 E. LoHSE, Jesu Worte uber den Sabbat, in « Judentum-Urchristentum-Kirche », Berlin 1960, 78-89; P. BENOIT, Les épìs arracbés (Mt 12, 1-8 par.), SBF (Jerusalem) 13 (1963), 76-92; A. J. HuLTGREN, Tbe Formation of tbe Sabbat Pericope in Mk 2, 23-28, JBL 91 (1972), 38-43. 64 «Il sabato è il sacro nel tempo ... è più che un giorno, più che un nome dato al settimo giorno della settimana. ~ l'eternità nel tempo, il sottosuolo spirituale della storia». A. ]. HESCHEL, Dieu en quete de l'bomme. Pbilosopbie du Judalsme, Paris 1968, 439-440.

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la stessa tradizione per il culto del tempio, Gesl.1 ha una autorità ben maggiore sia di David che del tempio: «or, io vi dico che qui vi è qualcosa di più grande del tempio» (Mt 12, 6). «Non solo c'è qui (in Matteo) un altro caso di dispensa, ma soprattutto c'è un motivo di valore che lo giustifica: la superiorità del tempio sul sabato. Ora, Gesù stesso è superiore al tempio ». 65 Con l'atteggiamento di Gesù circa la questione del sabato non si pone quindi un caso di conflitto sulla casistica, in esso si esprime qualcosa di ben più fondamentale: la signoria del Figlio dell'Uomo sul sabato (Mc 2, 28) per cui si rivela la sua autorità regale, maggiore di David e del tempio stesso, luogo del culto. Ma con questo comportamento di Gesù ci si può spingere più a fondo: Gesù con la sua venuta, in realtà, non sopprime né la sacralità del tempo (il sabato), né quella dello spazio (il tempio); riportando queste realtà al loro valore più puro ed autentico nel piano di Dio, nella sua Persona e nella sua vita, egli porta a compimento I.a sacralità sia del tempo che dello spazio. Tutta la terra è ormai il tempio di Dio co1t l'avvento del suo Regno e tutto il tempo diviene sabato, ora d~cisiva della storia, kairos di salvezza. La « exousia » di Gesù di Nazaret ci appare qui come ,]'autorità sovrana di colui che abrogando la casistica della halaka porta a compimento il valore sacro della Legge: l'ora della venuta di Gesù è ormai il tempo sabatico per eccellenza, cioè intervento misericordioso e salvifico di Dio nella storia. Cosl a mostrare il suo atteggiamento di compimento del più profondo significato del sabato, Gesù non solo ha consentito ai discepoli di cogliere le spighe, ma soprattutto ha operato frequenti guarigioni da malattie (Mc 3, 1-6 par; Le 13, 10-17; 14, 1-6; Gv 5, 9; 9, 14). Il Figlio dell'Uomo, Signore del sabato, ha fatto di esso il luogo per eccellenza della manifestazione della autorità sovrana di Dio per la salvezza dell'uomo.66 Un altro aspetto caratteristico della autorità di Gesù in contrasto con la 'halaka' è la controversia sul puro e l'impuro che trova un logion fondamentale in Mc 7, 1-8 (Mt 15, 1-9; Le 11, 38-40).

P. BENOIT, Les épis, 239. II motivo più saliente del rifiuto da parte di Gesù della halaka è il mostrare come il « rigore » sia contrario alla volontà di Dio ,, specie là ove esso come indicato da Mc 3, 4 (par) impedisce l'adempimento del precetto dell'amore». J. ]EREMIAS, Teologia, 240. 65

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L'antitesi che portava alla distinzione tra il puro e l'impuro affondava certamente le sue radici in un sistema culuurale abbastanza diffuso che regolava certi moduli e codici di comportamento.67 Ma bisogna notare che nella Legge di Israele già si verificava il superamento del livello di un semplice codice di comportamento culturale. Dinanzi al modo d'agire dei discepoli che « mangiavano il pane con mani impure, cioè non lavate» (Mc 7, 2) i farisei e gli scribi interrogano Gesù sul perché essi non seguano la tradizione degli antichi (Mc 7, 5). La risposta di Gesù attacca direttamente la halaka: «lasciando da parte il comandamento di Dio voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7, 8) e per stabilire la vostra tradizione togliete ogni autorità al comandamento di Dio (Mc 7, 9; Mt 15, .3 ). La motivazione del rifiuto di Gesù della prassi della « tradizione orale » si compendia nel fatto che essa è « opera di uomini» (v. 7) contraria al comandamento di Dio (v. 8) inquanto impone la casistica al di sopra dell'amore e la ipocrisia (Mc 7, 7) al di sopra della verità. Un esempio concreto è quello della pratica del « qorbiìn » consistente nell'offrire per voto i propri beni al tesoro del tempio per rendere intoccabile la propria ricchezza. Si trovava in tal modo, con la tradizione dell'halaka la scappatoia per sottrarsi ad obblighi gravi della legge come quello dell'aiuto del prossimo e quello del dovere della pietà e dell'onore verso i propri genitori (Mc 7, 11-1.3; Mt 15, 5-6). Contro tali ipocrite tradizioni Gesù richiama la necessità del{'unico metro dell'autentica osservanza della Legge, quello che guarda a ciò che tocca il cuore (ls 29, 13). Quando la parola della Legge resta sulle labbra, nella esteriorità, allora essa finisce sempre per divenire una tradizione sterile

67 Per alcuni come F. BELO, Lecture matérialiste de l'évangile de Mare, Paris 1975 in accordo con. G. DHOQUOIS (ivi, 50) lo ritengono un codice dominante della cultura sub-asiatica a cui apparteneva l'Israele antico. C'è tuttavia nell'autore citato la «tendenza ecceJSiva » a ritenere la Legge e la tradizione di Israele un fatto esclusivamente culturale non mettendo in rilievo l'intervento rivelatore e liberatore del Dio della alleanza che operava già nell'AT quel profondo rinnovamento che avrebbe trovato il suo compimento in Gesù Cristo. La posizione di F. BELO sta sul piano di coloro che sottolineano il carattere di « totale rottura » da parte di Gesù con il sistema ideologico dominante. 11 che storicamente non appare esatto inquanto non tiene conto della differenza dei diversi sensi della Thora e della sua differenza dalla halaka con relativa distinzione, come abbiamo veduto, del comportamento di Gesù. In particolare non si mette in chiaro il ruolo di continuità e di compimento che Gesù assolve nei confronti della Legge di Dio antica.

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ed ipocrita, incapace di stabilire gli autentici confini tra il santo e) che raccoglievano i perseguitati, gli infelici, gli afflitti che nell'atteggiamento di fede e di speranza esprimevano a Dio la loro fiducia, quale unico Salvatore, dalla loro oppressione. Questi poveri di Jahvè (Sal 73, 19; 149, 4 s.) costituivano la primizia del popolo umile e modesto, erede delle promesse. 83 a)

Il comportamento di Gesù m rapporto alle classi dominanti del giudaismo suo tempo.

Il comportamento di Gesù nell'ambito della società del suo tempo appare particolarmente importante inguanto pone in evidenza sia la sua autorità sovrana, che la potenza innovatrice e salvifica del Regno che egli annuncia, della Legge che egli insegna. Ciò che colpisce nella figura di Gesù sotto questo profilo è il suo atteggiamento antisegregazioni.S'ta che si colloca costantemente al'

8Z J. JEREMIA::, 83 J. JEREMIAS,

Jerusalem, 337-347. ]erusalem, 258; Id. Teologia, 135.

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di là degli schematismi e delle ripartizioni sociali, dei classismi di ogni tipo. Il suo atteggiamento, ila sua parola e le sue opere, vanno direttamente ' all'uomo ', alla persona ed a ciò che c'è di più intimo in essa: il suo cuore. Egli non disdegna dì frequentare gli stessi farisei (Le 11, 37 s.), ha dei seguaci tra loro (Gv 3, 1-3), riconosce che alcuno tra di esisi ' non è lontano dal Regno di Dio ' (Mc 12, 34 a). Anche tra i ricchi membri distinti del c·;msiglio ci sono uomini buoni e giusti, amici di Gesù {Mc 15, 43-45; Mt 27, 57-58; Le 23, 50-52; Gv 19, 38). Tuttavia la tradizione evangelica registra un atteggiamento molto rigido di Gesù nei confronti di un sistema insieme religioso e socio-politico che aveva finito col nascondere la realtà autentica dell'uomo ed il volto vero di Dio nelle maglie delle sue strutture, come pure nei confronti di tutti coloro che hanno fatto del sistema una difesa dei propri privilegi. Bisogna avere presente però che l'atteggiamento critico di Gesù verso il sistema religioso-politico del suo ambiente è radicalmente diverso dai movimenti critici di allora, come gli esseni e gli stessi zeloti, come pure dalle denunce critiche dei profeti del paissato. Questi movimenti e denunce, infatti, erano fondamentalmente «riformisti», chiedevano una giustizia che fosse conforme al sistema vigente della Legge che ritenevano valido: cercavano solo 'Ima osservanza più pura. L'atteggiamento di Gesù è critico in maniera ben più radicale: esso rivela una autorità unica, quella di chi proclama la fìne di tutto un ordinamento, anzitutto religioso, che comporta riflessi non indifferenti sul piano sociale e politico. Tale proclamazione della fine radicale di un mondo ormai invecchiato e che, se ha avuto la sua importanza, ormai è destinato a scomparire, non si compie né attraverso un segregazionismo, né attraverso uno zelo eversivo. L'errore di questi metodi si rivela nella fede cieca nella iniziativa e nella dficacia unica dell'opera umana, che li rifà cadere fatalmente nel vecchio sistema. La « novità» dell'atteggiamento di Gesù che proclama la fine dell'era giudaica, del vecchio eone, sta nella venuta escatologica del Regno attraverso la sua Persona e la sua opera: è perché in Lui il mondo nuovo comincia, nell'ora di salvezza definitiva, che il mondo che ne è solo preparazione ha ormai esaurito il suo compito e deve mutare. In questa luce si può vedere anzitutto l'atteggiamento critico di Gesù nei confronti della casta sacerdotale e del tempio, centro del suo potere e di tutto l'ordinamento cultuale giudaico. La tra-

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dizione evangelica attesta che Gesù frequenta il tempio come ogni pio israelita e si reca al tempio in occasione dei pellegrinaggi prescritti, per quanto nulla dice di una sua partecipazione al culto del tempio. 1' Egli ne ha rispetto come pure riconosce la casta sacerdotale (Mc 1, 40-44 par.; Le 17, 12-19). 85 Ciò nonostante, la posizione di Gesù verso i sacerdoti non risparmia critiche come nella parabola del samaritano (Le 10, 30 1s.) e nella condanna della prassi del qorban (Mc 7, 9-13). Soprattutto importante è l'atteggiamento di indipendenza di Gesù nei confronti del tempio, il quale non costituisce il centro della sua attività e della sua missione. Egli annunzia un culto non più legato alla materialità dei luoghi, ma « in spirito e verità» (Gv 4, 21-23 ); un culto legato non alla materialità dell'offerta, visto che la riconciliazione con il fratello è più importante dell'adempimento delle norme rituali del sacrificio (Mt 5, 23 s). Ma il fatto più considerevole, sul quale torneremo tra poco, è il potere di Gesù di « rimettere i peccati » (Mc 2, 5) che egli esercita scandalizzando i contemporanei, sia perché esso era riservato solo a Dio (di qui l'accusa di bestemmia), sia perché era riservato al culto espiatorio del tempio, ove solo era possibile ottenere il perdono delle colpe per l'azione di Dio. 86 Con il suo comportamento, Gesù viene ad evacuare l'importanza della istituzione cultuale del tempio giungendo ad affermare che per la sua venuta « c'è qui qualcosa più grande del tempio » (Mt 12, 6). Ma il gesto e la parola più significativa e decisiva esprimente l'atteggiamento di Gesù nei confronti dell'ordinamento cultuale del suo tempo è quelto del!a cacciata dei venditori dal tempio: il fatto ha una solida storicità per l'attestazione concorde di tutta la tradizione evangelica sia da parte sinottica che giovannea (Mc 11, 15b-l 7; Mt 21, 12-13; Le 19, 45-46; Gv 2, 13-17) e per il suo riscontro che trova nel processo di Gesù (Mc 11, 18; 14, 58; 15, 29). 81 Per il rapporto tra Giovanni e sinottici sull'andata di Gesù a Gerusalemme: cronologico, in «Giovanni e i sinottici», 17 s. del lebbroso e dell'invito a presentarsi ai sacerdoti, l'espressione « allinchè serva loro dì tescimonianza » comune ai sinottici (Mc 1, 44; Mt 8, 4; Le 5, 14) va intesa come «testimonianza a carico» con cui si esprime la condanna della loro incredulità e quindi una critica ai rappresentanti del tempio. 86 G. VON RAD, Théologie de l'Ancien Testament, I, Genève 1967 (2), 227 s. 87 J. RoLOFF, Das Kerygma und der irdische Jesu, Gi:ittingen 1969, 89-110; H. W. BARTSCH, Jesus, Prophet u11d Messias aus Galilda, Frankfurt a.M. 1970, 46-48; 34

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BLINZLER, Il quadro topografico e ll5 Nel racconto della guarigione

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L'episodio, quasi certamente unico, è collocato dal quarto evangelo in occasione della mandata di Gesù a Gerusalemme per partecipare alla prima pasqua del suo ministero pubblico, mentre dai sinottici a motivo del piano redazionale di Marco, che presenta una 'Sola andata di Gesù a Gerusalemme, è inserito negli avvenimenti accaduti nell'ultima pasqua. Esso non va interpretato, come avviene spesso, come un gesto a difesa della sacralità del tempio. In verità, la presenza dei venditori delle vittime sacrificali, nell'atrio dei gentili, era perfettamente legale ed in funzione delle esigenze del culto. Gesù con sferza di funicelle caccia i venditori (Gv 2, 14-15), rovescia i tavoli dei cambiavalute, disperdendo il loro denaro. Il gesto di Gesù è veduto nella tradizione evangelica come « profezia in azione». Ma non si tratta dello zelo di un profeta verso la purezza del luogo santo, di quel tempio di pietra, spazio sacro del culto, né, tanto meno, una iniziativa di carattere zelota, quanto il segno di un compimento escatologico. In tale luce vanno gli oracoli che nella tradizione sinottica illuminano il gesto {Is 56, 7; Ger 7, 4-11; Zac 14, 21) essi si riferiscono, infatti, all'era messianica in cui si annuncia l'avvento del « tempio escatologico » che sarà libero da ogni traffico materiale (Zaccaria), dai sacrifici cruenti e dalla vana fiducia nel luogo e nelle pietre materiali (Geremia) e sarà comunità nuova che non avrà mura di cinta, perché aperta a tutti i popoli (Isaia). Secondo questi testi profetici il comportamento di Gesù appare un 'segno ' nei confronti del tempio antico, segno che ne annuncia la fine e, con esso, la fine di tutto un ordinamento cultuale connesso al tempio antico. La cacciata dei venditori rendeva impossioile il culto tradizionale delle vittime animali. In Giovanni, alle parole degli antichi profeti, si aggiunge un detto di Gesù sul tempio la cui storicità trova riscontro in altri passi sinottici e che riguarda la distruzione di quel tempio che è ormai destinato a scomparire, con il suo culto. 88 Il gesto di Gesù H. VAN D:EN BusSCHE, Le signe du tempie à Jérusalem (2, 13-25), in « Jean, commentaire de l'évangile spirituel », Bruges 1967, 151 s. 8B Cosl Mc 13, 2; Mt 24, 2; Le 21, 6 (profezia sulla distruzione del tempio di Gerusalemme). Vedi anche Mc 14, 58 par.; Mc 15, 29 par.; Mc 12, 6 (At 6, 14); Mc 1.ì, 2. In Gv 2, 21 le parole «distruggete questo tempio ed in tre giorni lo riedificherò» possono essere intese in questo contesto: la distruzione del corpo di Gesù da parte del potere religioso della società giudaica sarebbe stata in realtà il principio della distruzione stessa del potere e del culto del tempio di Gerusalemme (Mc 15, 38 par.). Gesù risuscitato (egli parlava del tempio del suo corpo Gv 2, 21) sarebbe stato il «nuovo tempio», quello «non fatto da mani di uomo» (Mc 14, 58) ed il centro della nuova econom·ia di salvezza.

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appare di una densità profetica e di una autorità inaudita: esso non è più il richiamo alla purezza del culto allora vigente, quanto l'annuncio della fine di quel culto legato ai sacrifici materiali di animali e la proclamazione di un culto nuovo della nuova economia, del culto perfetto che si sarebbe realizzato in Gesù stesso, nel suo corpo crocifisso e risuscitato. Nei confronti degli scribi, teologi della società giudaica del suo tempo, Gesù rivolge pesanti accuse che si possono condensare nella loro esagerata fiducia nel loro sapere credendo di avere a propria disposizione e discrezione la volontà divina (Mt 23, 1-13.16-22.2936). Perciò sovraccaricano di pesi insopportabili l'osservanza della Legge, là ove essi non sono un esempio di osservanza (ivi 2-4.13); ambiscono saluti deferenti, titoli onorifici ed i primi posti nelle sinagoghe e nei pranzi, accaparrano per sé la gloria dovuta solo a Dio (vv 5-12); usano la loro sapienza contro gli indifesi (Mc 12, 40) e mentre spingono il popolo a costruire sepolcri per riparare l'uccisione dei profeti compiuta dai loro padri, essi stessi stanno per colmare la misura della iniquità dei loro padri (Mt 23, 29-32). Accanto agli scribi sono associati nella condanna, in Matteo 89 , i farisei, soprattutto per la loro ipocrisia che li porta alla scrupolosa osservanza delle minuzie ed alla trascuratezza della sostanza della Legge sulla giustizia, misericordia e fedeltà (Mt 23, 23 s.). Le loro opere supererogatorie come la elemosina, la preghiera, il digiuno, sono viziate dall'ambizione, dalla adulazione, dalla presunzione (Mt 6, 1-18). Da questo spirito egli mette in guardia i suoi discepoli (Mc 12, 38-40; Mt 23, 1-32). Coinvolti nella critica mossa da Gesù agli scribi ed ai farisei sono i « ricchi», 90 « i beati in questo mondo», le persone acclamate. La loro situazione è considerata molto precaria nei confronti del Regno di Dio (Mc 10, 23-25; Le 18, 24). H contrasto con essi è evidenziato da giudizi su fatti come l'episodio della vedova (Mc 12, 41; Le 21, 1), dalla incorrispondenza alla chiamata dell'uomo ricco (Mc 10, 22) oppure da un certo numero di parabole (Le 12, 1621.45-48) e dalle commiserazioni delle beatitudini (Le 6, 24 ). 89 Le sette denunce di Mt 23 si rivolgono insieme (ad eccezione del v. 26) agli scribi ed ai farisei. La ragione può essere vista nel fatto che all'epoca della redazione di Matteo, gli scribi di tendenza farisaica avevano assunto la guida del popolo; ma la tradizione parallela di Luca comprende due composizioni oratorie distinte, contro i farisei (11, 39-44) e contro gli scribi (11, 46-52; 20, 46 s.). 90 J. DuPONT, La sventura dei ricchi, in «Le Beatitudini>>, II, 301 s.

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Un tale atteggiamento di Gesù non colpisce tanto il fatto della ricchezza: esso non ha di mira direttamente la questione sociale. La critica di Gesù va piuttosto alla radice di ciò che costituisce l'ingiustizia di coloro che sono cosl commiserati da Lui: è la fiducia che si ripone nei molti beni, nella sicurezza che si crede di possedere per essi, nell'atteggiamento di tracotanza e prepotenza verso gli altri e la conseguente insensibilità o incredulità alla Parola di Gesù. Specialmente in Luca ove l'opposizione della situazione dei ricchi rispetto ai poveri non si colloca mai nella prospettiva del conflitto sociale 91 il ruolo dei ricchi appare svolto dai dirigenti di Israele nel loro rifiuto del Vangelo. Ciò che costituisce il punto nevralgico del comportamento critico di Gesù verso queste classi dominanti è la condanna della loro irreligiosità, o di quel tipo di religiosità che li allontana dal Dio vero. Il dio che essi professano non è più ormai il vero Dio di Israele, l'autore della alleanza, ma solo la immagine idolatrica protettrice e gelosa custode del loro merito e dei loro privilegi ociali. Specialmente i farisei sono colpiti dalle ·parole di Gesù proprio in considerazione del fatto che essi rappresentano le persone maggiormente pie, dedite all'obbedienza a1la volontà di Dio, i giusti e puri della società religiosa del suo tempo. Diremmo: il prodotto ritenuto allora migliore di quella società di perfetti. La denuncia di Gesù attacca soprattutto il sistema che ha generato questo tipo ipocrita di santità. La piaga maggiore è l'atteggiamento di presunzione della propria giustizia che rende tali giusti in realtà dei separati e lontani da Dio. Questo grave difetto può essere individuato da un lato nella perdita del senso del peccato: là ove il giudaismo aveva una coscienza molto spiccata e vivace del peccato come rifiuto di fedeltà a Dio, il fariseismo ne aveva soffocato il senso nella casistica; dall'altro poi la considerazione del merito costituiva il contrappeso del peccato fino al punto di poter superare, con i meriti, le trasgressioni sì da creare nell'uomo una ostentata sicurezza, una presunzione di sè, delle proprie opere che si risolveva in definitiva in una autogiustificazione. Ora « l'uomo che presume di se stesso non prende più Dio con la dovuta serietà. Sicuro del giudizio positivo divino nei suoi confronti, si preoccupa solo di quel che gli altri pensano di lui. Tutta la sua pietà è unicamente diretta 0

91

J.

DuPONT,

ivi, 85.

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Il

a far sì che gli uomini lo ritengano giusto. Quindi è portato in tal modo alla ipocrisia (Mt 6, 1-18). Così pure, il presuntuoso, non prende più sul serio nemmeno il fratello; si ritiene migliore e disprezza gli altri» (J. Jeremias). L'atteggiamento di Gesù verso i farisei tende a demolire sia la sterile casistica che soffoca il vero senso del peccato, sia la loro concezione del merito che genera la presunzione di essere giusti di fronte a Dio: 1Sono questi « falsi giusti» ad essere chiamati «razza di vipere» (Mt 12, 34; 23, 33), incapaci di ricevere la giustificazione di Dio, là ove i pubblicani la ottengono (Le 18, 9-14); essi sono lontani da Dio per la loro pietà ipocrita. Ed è proprio perché essi si a1lontanano da Dio per questa loro inautentica religiosità che la loro conversione appare difficile: nulla infatti rende più incapaci di pentimento sincero che una falsa pietà autosufficjente, alimentata dalla •presunzione di essere giusti. Si può dire che proprio questo « peccato » di una empia religiosità è l'unico peccato, secondo Gesù, imperd. Ciò è vero non solo per le narrazioni del quarto evangelo in cui. la concentrazione cristologica risalta in primo piano, ma anche nella narrazione che Marco ci tramanda del primo esorcismo di Gesù. Qui Satana per bocca dell'indemoniato proclama la sua impotenza dinanzi alla misteriosa potenza che promana dalla Persona di Gesù chiamato appunto il « Santo di Dio » (Mc 1, 24 ). « C'è una contrapposizione che Marco fa emergere col grido veemente: «che c'è tra me e te»? (v. 24). Il linguaggio biblico oppone l'impurità alla santità, soprattutto a livello rituale, come testin10nia il Levitico ... (Lv 11-16) ... L'irruzione del Dio Santo nella vita di un uomo gli rivela sua impurità, facendogli percepire l'infinita distanza che li separa. L'insegnamento di Gesù colpisce l'uomo dinanzi e gli fa urlare la propria scoperta ... «Gesù Nazareno, sei venuto per perderci? So chi tu sei, il Santo di Dio ». 200 Attraverso la espressione arcaica « il Santo di Dio» il racconto rivela la portata cristologica del miracolo che richiama il mistero che si cela in colui che opera « autoritativamente» sgridando l'uomo e smascherando lo spirito impuro: «taci ed esci da lui» (Mc 1, 25). Il comando di Gesù risuona imperioso senza preghiere preparatorie o azioni rituali, come si operava negli esorcismi del tempo. Il tono della narrazione rivela lo sttle proprio di una persona che opera con le sue forze. Il risultato è immediato. Di qui la « meraviglia » dei presenti (Mc 1, 26 ). Egli che insegnava « con autorità», operava «con autorità» (v. 27). Episodio altrettanto significativo per l'aspetto cristologico del miracolo è quello della guarigione del paralitico {Mc 2, 5-11; Mt 9, 1-8;

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A.

V6GTLE,

209

J.

RADERMAKERS,

1Vunder (im NT), LThK, X (2), 1965, 1257 s. La bonne nouvelle de ]ésus selon Saint Mare, Bruxelles 19-74; ed. it. Bologna 1975·, 118-119. Vedi caso analogo in Mc 5, 7 (indemoniato di Gerasa) = Mt 8, 29; Le 4, 34; 8, 28·.

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Le 5, 17-26). L'autorità di Gesù emerge soprattutto al v. 10 ove la prima volta in Marco compare il titolo di «Figlio dell'Uomo» come colui che ha autorità di perdonare i peccati suUa terra e comanda con autorità al paralitico: « Io ti dico, sorgi, prendi il tuo letto e vat a casa tua! » (v. 11). Tutti erano fuori di sé e glorificavano Dio dicendo: «non abbiamo mai visto nulla di simile» (v .. 12). Gli esordsmi in modo particolare (vedi anche la pericope di Beelzebul Mc 3, 25-30; Mt 12, 25-32; Le 11, 17-23) manifestano un aspetto chiaro di « segno cristologico»: dinanzi a Gesù la potenza demoniaca smascherata nel suo volto anticristiano proclama, per op· posizione, l'autorità sovrana di Colui che la domina. Perciò i settanta ritornando gioiosi dalla loro missione dicono: « Signore, i demoni stessi ci stanno soggetti in nome tuo » (Le 10, 17 -19). Questo « carattere cristologico » dei miracoli è evidenziato in modo particolare nella tradizione giovannea ove essi sono immediatamente e direttamente « segni della gloria di Gesù » ed obbligano a guardare Colui che li opera. 210 Questa « intenzione interiore » del segno è indicata espressamente nella osservazione dell'evangelo: « ancora molti altri segni compì Gesù in presenza dei suoi discepoli, che non sono scritti in questo libro. Questi invece sono scritti perché crediate ... » (Gv 20, 31). I « segni » devono dunque portare alla fede che Gesù è « il Cristo », il «Figlio di Dio », alla profonda intelligenza del mistero della sua Persona e della sua missione nel mondo: essi sono realtà, fatti miracolosi « veduti » (Gv 2, 23; 6, 2.14) che spingono alla riflessione (Gv 3, 2; 7, 31; 9, 16; 11, 47). L'uomo che li vede, può rimanere, come molti giudei alla loro superficie ed esteriorità (Gv 2, 23-25), e può anche essere spinto dal desiderio di sensazione (Gv 4, 48). In tal caso, i segni restano inefficaci e quando « gli uomini » chie· dono, con tale atteggiamento interiore, un prodigio straordinario (Gv 2, 18) o un «segno» dal cielo (6, 30), cioè un fatto spettacolare, Gesù si rifiuta. Come per i sinottici è necessaria la fede per cogliere il senso del miracolo: in Giovanni, solo la fede può penetrare l'int~mo significato del «segno» (Gv 3, 11; 6, 26; 11, 4.40). Queste osservazioni ci consentono di poter dire che « i segni », nel quarto

210 R. SCHNACKENBURG, Das Johannesevangelium, I, Freib. Br 1965, 344-356 (Die Johanneiscben « Zeichen »); ed. it., Brescia 1973, 476 con relativa bibliografia. X. LfoN-DuFoua, Les miracles de Jésus selon Jearl, 269-288.

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evangelo, tendono a mostrare in colui che è disponibik mediante la fede, la «gloria» di Gesù terreno e cioè: « i segni sono l'espressione dell'attività rivelatrice di Gesù che egli svolge sulla terra come Verbo che si è fatto carne; sotto questo aspetto essi sono sullo stesso piano delle sue parole ... I « segni » sono essi stessi una rivelazione parlante di Gesù e nelle parole autorivelatrici di Gesù sono resi ancor più visibili nel loro carattere di « segno» (Gv 6, 35, 48 .51; 9, 5; 11, 25 s.) » .m Questa «concentrazione cristologica» del segno è ben visibile specie in alcuni miracoli giovannei: così Gv 2, 1-11 che parla dell'inizio dei segni di Gesù in Cana di Galilea e della manifestazione della sua gloria, se si legge alla luce di Gv 1, 51, ci offre quasi la chiave interpretativa di questa rivelazione cristologica: Gesù di Nazaret il Figlio dell'uomo, nella sua vita terrena, manifesta la presenza e l'azione escatologica salvifica di Dio. Tutti i segni si mostrano comprensibili a questa luce: il « segno del tempio» richiama l'attenzione verso la persona di Gesù nell'evento della resurrezione del suo corpo (Gv 2, 21); il «pane del miracolo», che i giudei hanno mangiato (Gv 6, 26) è il « segno del vero pane celeste » dato da Dio, superiore alla manna di Mosè (6, 31-32), cioè Gesù stesso in persona («Io sono il pane della vita »: 6, 3 5) ma nella sua realtà celeste discesa dal cielo (6, 51) ed incarnata: perciò il pane è anche la sua carne data per la vita del mondo (6, 51). La concentrazione cristologica dei segni non astrae la Persona di Cristo dalla rea'ltà umana, dalla vita e dal sacrificio di questa vita. Così la guarigione del cieco nato è introdotta remotamente dal discorso di Gesù: « Io sono la luce del mondo» (8, 12) e prossimamente: «finché sono nel mondo sono la luce del mondo» (9, 5). Il «segno» porta alla domanda di fede: «tu credi nel Figlio dell'Uomo»? (9, 35) ed alla professione di fede del cieco sì che con la missione di Gesù nel mondo « i ciechi vedono e coloro che vedono (con i soli occhi del corpo) divengono ciechi » (9, 3 9). Il miracolo della resurrezione di Lazzaro è un altro grande segno che manifesta insieme la « gloria di Dio » ( 11, 40) e la gloria del« Figlio di Dio» (11, 4). Tale gloria attraverso fl prodigio di resurrezione porta alla manifestazione di Gesù come « Vi. ta e Resurrezione »: « Io sono la Resurrezione e la Vita » ( 11, 2 5). Questa « concentrazione cristologica » per cui i segni giovan-

211

R.

ScHNACKENBURG,

ivi, 483.

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nei sono « manifestazioni della Persona di Gesù come Figlio di Dio e Messia inviato nel mondo per la salvezza dell'uomo», non è a discapito della storicità dei fatti, i quali sono profondamente legati all'economia d'incarnazione e nonostante il loro contenuto simbolico hanno una caratteristica di «materialità», sono fatti veri storicamente, topograficamente localizzati con netti contorni sl che si deve dire che « l'evangelista dà tanto decisivo valore al loro carattere fattuale, quanto ne dà alla loro forza simbolica » (R. Schnackenburg). Il quarto evangelo esalta dunque il valore di storicità dei segni mostrando proprio le profonde dimensioni degli avvenimenti straordinari della vita di Gesù in cui si adempie l'antica storia salvifica dei prodigi dell'esodo e si annunciano le meraviglie future dell'eschaton. Essi sono le manifestazioni tangibili che richiamano l'attenzione del credente sull'ora di Gesù (Gv 2, 4) che è ora terrestre in cui già si rivela, per anticipazione, la potenza salvifica del Figlio di Dio, che si compirà nella consumazione dell'ora di esaltazione della croce. In questa « ora terrena» la gloria che traluce dalla condizione terrestre della carne di Gesù, carne umile (basàr-sarx) ne mostra già adesso la potenza vivificante di vita e di luce. I « segni » intimamente legati all'opera di Gesù terreno, hanno soprattutto il significato di mettere in rilievo la rivelazione già attuale di Gesù: la gloria dell'Unigenito del Padre nel tempo della incarnazione ( 1, 14). Con ciò non si vuole negare che il suo potere salvifico di donare la vita ai credenti (17, 2) si esplichi effettivamente soltanto dopo quell'ora di glorificazione che è la Pasqua (12, 23.32; 13, 31 s.; 17, 1). Si tratta di una cosa che è evidente per Giovanni che scrive dopo la glorificazione di Gesù, in un'epc:·a in cui lo Spirito divino già si riversava sui credenti (secondo 7, 39). Perciò « i segni » sono da lui veduti più che per illuminare il cammino storico-salvifico di Gesù, per risvegliare la fede, per indurre a credere che «Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio» (20, 30), per sottolineare, cioè, il significato salvifico della sua Persona. 212 212 R. ScHNACKENBURG, ivi, 488-89. Ponendo perciò la domanda se i segni gio· vannei che si realizzano durante la vita terrena di Gesù siano nel loro significato principale una prefigurazione dell'opera salvifica del Cristo asceso al cielo o segni della «gloria dell'Incarnato» egli ritiene la domanda stessa mal posta. Certo che i fatti' i:peravigliosi sottolineati da Giovanni, come « segni », sono veduti teologicamente· alla luce di pasqua come indici cristologici che mostrano come nell'Incarnato è già anticipata la gloria dell'Esaltato, cosi come risplende in essi la gloria del Pree· sistente (17, 5).

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Il valore cristologico del miracolo espresso dalla dinamica del segno che in Giovanni occupa la prima parte dell'evangelo (cc. 1-12) è completato dal concetto di « opera» (erga) che sviluppa soprattutto l'idea della unità di essere ed operare tra Dio e Gesù suo Figlio 213 (cfr. 10, 38; 14, 11; 10, 25). Le opere di Gesù che non consistono solo nei miracoli 21 • sono messe in rapporto al volere del Padre ed alla missione del Figlio e fanno parte della missione globale che Egli deve compiere sulla terra che è veduta nell'insieme come «opera» (4, 34; 17, 4). Le «opere», dunque, sono più accentuatamente orientate in senso messianico e culminano nell'opera per eccellenza che Egli deve compiere sulla croce (17, 4; 19, 30). Esse completano il linguaggio sui miracoli, indicando il purito di vista divino sulla vita terrena di Gesù: 215 « segni ed opere » hanno un ruolo fondamentale riguardo alla fede cristologica. Ciò che distingue, come già abbiamo accennato, i racconti giovannei dei miracoli rispetto alla fede è che solo due volte essi menzionano la fede prima del miracolo (4, 47.50; 11, 25), mentre invece la fede i! in essi soprattutto presentata come loro conseguenza. Ciò sembra coerente con la visione stessa cristologica del « miracolo-segno », atto manifestativo della gloria di Gesù, gloria del Verbo Incarnato a cui corrisponde una fede che comporta come sua dimensione intrinseca un «vedere» (vedere e credere), atto che coinvolge tutto l'uomo che entra in rapporto con una rivelazione del Figlio di Dio, mandato dal Padre, in una economia di visibilità e di incarnazione. Più che mai, in Giovanni, i miracoli di Gesù appartengono intrinsecamente alla missione di rivelazione di Gesù, come Cristo, e della fede in Lui come « Figlio di Dio Incarnato » per la nostra salute.

m H. VAN DEN BussCHE, La stmcture de ]ean I-XII, in « L'évangile de Jean '" Bruges 1958, 61-109; lo., La .>.

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L' « abbii » è l'espressione di una coscienza religiosa che traduce umanamente un rapporto personale di« parità >~ con Dio: non un sentimento di infantilità, quanto di familiarità che denota un carattere di parità. Gesù non interpreta il senso personale della sua figliazione in rapporto al Dio-Padre a partire dalle esperienze storiche di Israele del Dio Salvatore-Creatore, anche se questo luogo di anamnesi storica è presente nel suo parlare del « Padre » in rapporto ai discepoli. Piuttosto, possiamo dire, Gesù interpreta il senso storico della paternità di Dio Salvatore-Creatore a partire dal luogo della sua singolarissima personale esperienza religiosa filiale. L'origine «dal Padre » non genera perciò nel linguaggio di Gesù alcun significato di dipendenza creativa come per Israele: il suo essere «dal Padre» è piuttosto in Lui tutto il fondamento della sua straordinaria auto-

rità e potestà (exousia), dimostrata nel suo insegnamento e nel compimento delle opere meravigliose. Nei sinottici il loghion di Mt 11, 27 = Le 1O, 22 è particolarmente espressivo di questo senso del1' « abbii ».Il passo è stato rivendicato nella sua autenticità da J. Jeremias.20 La sua importanza è notevole inquanto esso. appartiene alla preghiera di giubilo in cui due volte Dio è chiamato « Padre » con « abbii » (Mt 11, 25.26). È del Padre di Gesù, che è anche Signore del cielo e della terra, che parlano i versetti successivi, per tre volte, esplicitando uno dei tratti fondamentali dell'idea del Padre, come origine, nel pensiero di Gesù: «tutto mi è stato dato dal Padre. mio» (v. 27). Con tali parole Gesù enuncia il tema del logion: il Padre mio ha dato a me ogni cosa. Il contesto del logion stesso ci porta a comprendere questa « comunicazione » del Padre, come « la conoscenza totale del mistero di Dio». La coscienza religiosa di Gesù ha perciò un accesso totale alla intelligenza del Padre. Gesù viene qui ad esprimere, sotto il velame di una immagine tratta dalla vita quotidiana della famiglia giudaica, questo concetto altamente religioso: come un padre parla con il figlio, come gli insegna le lettere della Thòrii, come lo inizia al segreto gelosamente custodito dalla sua pro· fessione, così Dio, ha partecipato a Gesù la conoscenza di se stesso. È per questo che Gesù può comunicare agli altri questa « conoscenza

20 ]. ]EREMIAS, Abba, 50-54; Teologia, 70-76. Nel suo intento di sottolineare l'autenticità del passo sinottico contro le obiezioni di K. Base che lo qualifica come «un meteorita caduto dal cielo giovanneo», ]. Jeremias ci sembra che tenda troppo a minimizzare la portata teologico-trinitaria del passo in questione.

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di Dio». È proprio quésta conoscenza unica che Gesù ha dal suo rapporto al Padre, per cui « tutto riceve da Lui», che costituisce il cuore stesso del suo messaggio del Regno, « il mistero più intimo del Regno». L'affermazione di Gesù del logion di Mt 11, 27 non è sporadica nel vangelo; essa trova riscontro in molti altri passi in cui appare come Gesù è depositario e mediatore della conoscenza di Dio. 21 Essa trova anche riscontro in molti passi giovannei che sviluppano, come abbiamo detto, piuttosto ampiamente, l'attribuzione di Padre nei confronti cli Dio ed in un contesto di rivelazione, dominante nel IV evangelo. Qui, Gesù, il Figlio, è incessantemente rivolto verso il Padre sua orgine: Egli è all'ascolto del Padre e trasmette la sua Parola: « il mio insegnamento non viene da me, ma da colui che mi ha inviato » (Gv 7, 16 ), « la parola che ascoltate non viene da me, ma dal Padre che mi ha inviato» (Gv 14, 24 ). Tutto l'essere del Figlio è dal Padre: da Lui ha ricevuto la vita stessa (Gv 5, 26), la potestà di giudicare (5, 30), la gloria (7, 18; 5, 41; 8, 50). Il Padre è l'origine di tutta la esistenza di Gesù, la quale appare fondamentalmente qualificata, per ciò, come una esistenza filiale. Ciò che colpisce è però il fatto che per l'intimità e la parità del suo atteggiamento religioso filiale, Gesù non vede nel Padre il suo Signore, non si colloca come Israele al di sotto di Lui, in un atteggiamento di inferiorità e di subordinazione. L'origine dal Padre, come suo proprio Padre, è garanzia invece della verità e della autorità assoluta di tutto il suo essere, della sua missione (Gv 5, 31-46).22 È perché egli è tutto « dal Padre » che il Padre è in Lui e Lui nel Padre (Gv 14, 10; 10, 38) sì da costituire con Lui una cosa sola (Gv 10, 30) rendendo possibile il « vedere il Padre» vedendo Lui (Gv 14, 9). 23

Vedi Mc 4, 11; Mt 11, 25; Le 10, 22 ed altri: J. }EREMIAS, Teologia, 76; des secrets du Royaume, 242. de l'évangile de Jéan, Paris 1976, 111-131. 23 C. TRAETS, Voir ]ésus et le Père en Lui selon l'évangile de Saint ]ean, Rome 1967, pp. 208-225. È importante notare, per gli sviluppi successivi, come, nella esperienza religiosa nuova di Dio che si manifesta nella vita di Gesù di Nazaret, la reciprocità dei rapporti tra Padre e Figlio precede e fonda l'affermazione di unità (dogmaticamente: la ousia). È il modo di vivere e di affermare tale reciprocità nei confronti del Padre che porta ad affermare che tale rapporto interpersonale comporta insieme la identità di natura divina tra la persona di Gesù e quella del Padre. Il pensiero teologico orientale è rimasto, sul piano trinitario, ancorato a questa prospettiva, mentre il pensiero latino ha spostato l'accento verso il piano della ousia 21

L.

CERFAUX, La connaissance 22 A. ]AUBERT, Approches

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b) Urz secondo aspetto dell'atteggiamento filiale di Gesù nei confronti di Dio-Padre, sottolineato nelle preghiere dall'invocazione « abbii » è quello costituito dalla reciprocità dell'amore. :t: un tratto specifico della immagine universale paterna, quello della bontà, della consolazione e sicurezza, aspetto che nella letteratura dell' AT appare non tanto connesso con la struttura del racconto proprio delle « tradizioni storiche » che proclamano gli interventi di Dio, le sue gesta salvifiche di cui il popolo è beneficiario e testimone, ma con la teologia delle « tradizioni profetiche ».24 Soprattutto nei testi profetici antichi Dio è dichiarato Padre con accenti di bontà e tenerezza che richiamano l'immagine parentale della madre (Os 11, 1.3.4.11; Is 1, 2; 49, 15; 66, 13; 63, 16). In modo particolare questa manifestazione di amore si compie nel perdono invocato (Is 63, 15; 64, 8 s.) e donato (Ger 31, 9.20). Con questo linguaggio i profeti intendevano reagire contro la materializzazione e la « commercializzazione » dell'alleanza, compresa come un contratto ordinario, che generava un atteggiamento di orgoglio ed esclusivismo intollerabile: « contro tali tendenze i profeti ed il Deuteronomio sottolineano con una forza straordinaria l'iniziativa dell'amore di Dio e la gratuità assoluta della alleanza ».'15 Il tema del « Dio-Amore » tende così a rilevare l'origine gratuita di una alleanza che non doveva intendersi come rapporto egualitario. Per quanto non manchino nell'AT gli accenti delI'amore paterno di Dio non si può dire però che il linguaggio dell'amore ('ahab) sia così dominante ed il più diffuso per esprimere il rapporto religioso tra Dio ed Israele fondato sulla alleanza: il rapporto di Dio per il suo popolo è piuttosto indicato dal linguaggio comune della « bontà » (}:ésed), fedeltà ('emet), giustizia (sedaqah). 26 Nel NT il linguaggio dell'amore divino diviene veramente dominante e l'amore è il tema fondamentale di tutta la teologia del NT .27 Esso (sostanza-natura) partendo dalla identità sostanziale come priocipio e fondamento della molteplicità personale. Cfr. B. DE MARGERIE, La Trinité chrétienne dans /'histoire, Paris 1975. 24 W. MARCHEL, Dieu-Père, 33; P. RICOEUR, La paternité, 502-503. 25 A. FEUILLET, Le mystère de l'amour divin dans la théologie iohannique, Paris 1972, 204 s. 233. 26 W. E!CHRODT, Theologie des Alten Testaments, I, Berlin 1950, 120-121. Gli esegeti distinguono da una parte il linguaggio della «bontà di Jahvè» (hésed Yahvè) che si manifesta soprattutto nella elezione e nel fatto della alleanza e l'amore divino (ahab) propriamente detto. 21 V. WARNACK, Die Liebe als Grunqmotiv der neutestamentlichen Theologie, Dlisseldorf 1951; C. SPICQ, Agapè dans le Nouveau Testament, III, Paris 1959.

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II

ha in particolar modo privilegiato il linguaggio espresso attraverso il termine agapi1n e filéin con netto predominio del primo sul secondo. L'importanza particolare di questo dato linguistico va ricercata nel fatto che il cristianesimo, essendo in possesso di una concezione originale di « amore», ha legato tale esperienza al verbo « agapan » ed al sostantivo « agape». Negli evangeli il linguaggio dell'amore di Dio è particolarmente diffuso. 28 Quali le caratteristiche di questo amore di Dio testimoniato dal linguaggio evangelico? Il linguaggio del NT non parte da una concezione ideale ed astratta dell'amore: la sua concezione deriva interamente da un luogo concreto e storico di esperienza in cui si è rivelato il senso nuovo dell'amore cristiano. Tale luogo è l'esistenza di Gesù, la sua personale coscienza religiosa di rapporto con Dio Padre improntata appunto all'amore. In questo luogo originale da cui ha avuto inizio l'esperienza nuova dell'agape cristiano ci appaiono due aspetti fondamentali di questo amore divino: quello paterno e quello filiale che qui consideriamo, rimandando un terzo aspetto (quello pneumatologico) al paragrafo successivo sui rapporti di Gesù con lo Spirito. Nella vita storica di Gesù e nella sua coscienza religiosa risplende anzitutto il carattere paterno di « Dio Amore » che si esprime nella gratuità ed iniziativa assoluta, fonte di benevolenza e misericordia per cui anteriormente ad ogni possibile risposta, si manifesta come grazia concessa, come amore che ci precede. Questa manifestazione dell'amore paterno di Dio caratterizza la novità della missione di predicazione del Regno da parte di Gesù e del suo comportamento. Là ove, negli antichi messaggi profetici, l'esercizio della bontà di Dio era legato al ravvedimento dell'uomo, onde era possibile sfuggire all'ira di Dio ed essere accolti dalla sua paterna misericordia attraverso la metanoia, l'annunzio di Gesù e la realtà della sua vita suscitavano lo scandalo perché testimoniavano l'amore paterno di Dio come amore che, prima ancora di ogni ravvedimento dell'uomo peccatore, gli offriva la « grazia » del perdono e della sua amicizia. La metanoia veniva resa possibile veramente e concretamente come conseguenza di questa incredibile offerta. I gesti di miseri-

28 Secondo la cl~ssifica di C. R. BowEN, Love in the Fourth Gospel, JR 13 (1933), 39-49 i termini « filéo », « agapfo » (agapé-agapet6s) compaiono 119 volte in Giovanni (vangelo e lettere), 66 nei sinottici. J. GIBLET, Le lexique chrétien de l'amour, RTL 1 (1970), 333-337.

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cordia di Gesù, i suoi incontri conviviali con i peccatori, le parabole che richiamavano tale storico contesto, attestano un amore di Dio senza limiti. Se in una delle più alte manifestazioni dell'amore di Dio nell'AT si affermava che «come un padre ha compassione dei suoi figli, cosl il Signore ha compassione di quanti lo temono » (Sal 103, 13), nel Vangelo la manifestazione dell'amore paterno di Dio è più grande: non solo estende la sua misericordia su quanti lo temono, ma estende la sua bontà benefica agli stessi ingrati (Le 6, 35), dà cose buone ai suoi figli (Mt 7, 11; Le 11, 13), ma fa levare il sole anche sui cattivi e fa piovere anche sugli ingiusti (Mt 5, 45). La vita di Gesù, il suo messaggio, sono l'espressione tangibile di questo amore senza limiti del Padre. Una tale rivelazione ha la sua radice nell'intima conoscenza del Padre che il Figlio possiede e che solo lui riceve nel suo segreto (Mt 11, 27). Nell'abba, Gesù esprime la coscienza di avere accesso, come Figlio unico, ai segreti di amore del Padre. Per questo egli solo può rivelarli (11, 27). Tutti gli evangeli testimoniano questo dato dell'amore di Dio che totalmente è comunicato a Gesù come Figlio « diletto » (agapetòs) del Padre (Mc 1, 11 par.; Mc 9, 7 s.; 12, 6 par.), ma particolarmente in Giovanni l'affermazione che « il Padre ama il Figlio » è dominante in tutta la prima parte del vangelo (3, 35; 5, 20; 10, 17),29 ed anche, se essa si colloca nel contesto di una teologia trinitaria piuttosto evoluta, affonda però le radici nella vita storica di Gesù, nelle manifestazioni concrete di quei gesti di misericordia che testimoniano la presenza operante in Lui dell'amore assoluto del Padre e nelle manifestazioni di quelle parole di Gesù che rivelavano la sua coscienza intima di essere colui che il Padre ama in modo unico ed assoluto. In realtà è proprio questa l'accentuazione di rilievo nella testimonianza giovannea: i sinottici danno grande rilievo alla misericordia divina verso i peccatori, misericordia che manifesta, nella vita di Gesù, l'amore del Padre verso gli uomini. Certo che anche i sinottici, come abbiamo visto, attestano la singolarità dell'amore del Padre verso Gesù, dalla coscienza che questi ha del suo amore. Ma in Giovanni si sottolinea più nettamente l'anteriorità dell'amore del Padre come tema esplicito che occupa la prima parte del quarto evangelo. È solo perché Gesù è l'Unico

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A.

FEUILLET,

Le mystère, 41 s.

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Figlio amato dal Padre di un amore unico sl da formare con Lui una cosa sola, che in Gesù e nella sua vita è l'amore stesso del Padre che si manifesta e si dona agli uomini. Giovanni mostra con più chiarezza tematica il dato teologico contenuto anche nella narrazione sinottica. L'amore assoluto del Padre non può rendersi presente ed operante in questo mondo peccatore senza la presenza, in questo stesso mondo, di Colui che è in grado di accogliere nel modo più totale ed adeguato questo stesso amore assoluto: Il « Figlio unico di Dio ». È per la sua venuta storica, quindi, che l'amore del Padre si è fatto infinitamente « prossimo » all'uomo peccatore. Ma nella vita storica di Gesù e nella sua coscienza religiosa risplende anche il carattere filiale dell'amore di Dio: possiamo dire che tale carattere si compendia nell'atteggiamento della risposta di un «amore fedele e grato » da parte di colui che avendo tutto ricevuto dal Padre, vive in continuo atteggiamento di lode. In questo carattere filiale dell'amore di Gesù verso il Padre, si adempie e trascende l'atteggiamento fondamentale religioso di Israele come fìglio primogenito nei confronti di Dio. Tale atteggiamento si esprimeva, infatti, nel quadro storico dell'Esodo e della alleanza, come atteggiamento di fiducia in Dio, suscitata dalla memoria sempre viva dell'amore di Yahvè (Sal 136) e della sua fedeltà alle sue promesse. In questo atteggiamento di fiducia era inserita l'apertura alla speranza nei finali ed ulteriori interventi escatologici di Dio. È per questo che l'atteggiamento filiale della fede era fondamentalmente un atto di speranza. Il comportamento di Gesù dinanzi all'amore del Padre mostra la sua novità che trascende l'antico sentimento religioso fìliale di Israele che si esprimeva nella invocazione « abinu » (Padre nostro): tale superamento, non riguarda solo la fedeltà che in Gesù superava la infedeltà dell'antico Israele; esso deriva piuttosto dalla sua coscienza straordinaria di essere dal Padre in tutto il suo essere, la sua vita, la sua potestà. Il senso della :figliazione di Gesù non è più quello di un popolo che, memore dei grandi fatti di salvezza e dell'alleanza, spera ed attende ansiosamente per il futuro le ulteriori grandi manifestazioni dell'amore paterno di Dio. L'atteggiamento filiale di Gesù è piuttosto quello della certezza della « presenza escatologica della manifestazione dell'amore paterno » derivante non da fatti storici esterni alla sua coscienza stessa personale di Figlio. In Lui, infatti, l'amore stesso supremo del Padre si rivela totalmente e Lui stesso è la presenza nel mondo di tale amore. Nella coscienza di Gesù l'atteggia-

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mento religioso fondamentale della fede veterotestamentaria si tramuta in certezza, lode, gratitudine filiale verso il Padre. È la caratte· ristica della preghiera dell'abbà: «ti ringrazio o Padre» (Mt 11, 25; Le 10, 21-22); preghiera di lode e gratitudine dal momento che avendo il Figlio ricevuto ogni cosa dal Padre, la sua volontà è la stessa del Padre: « ti ringrazio, o Padre, perché mi hai esaudito. Ben sapevo che sempre mi esaudi~ci » (Gv 11, 41-42). «Per Gesù, l'incontro con Dio, non si pone solo ed unicamente nella speranza, questa via che conduce al futuro; esso è già realtà presente, nella conoscenza, nella obbedienza, nell'amore. La coscienza che Gesù ha della ·sua figliazione divina non è il prodotto delle sue speranze e delle sue esperienze escatologiche; essa precede viceversa, tutto il messaggio escatologico. Perciò tutta l'escatologia, nella predicazione di Gesù, deve essere compresa partendo dalla coscienza che egli ha di essere Figlio e non viceversa. In realtà, in questa coscienza filiale, le rappresentazioni escatologiche del futuro hanno un ruolo relativo. Gesù non annunzia unicamente il prossimo avvento del Regno, né parla soltanto della futura azione salvi.fica di Dio, ma rivela anche il Padre ».3() È quanto dire che il presupposto del messaggio escatologico del Regno annunziato da Gesù, per essere interpretato nella sua vera luce evangelica, deve essere visto nel quadro del rapporto personale di Gesù con il Padre, rapporto di amore. Anche su questo il quarto evangelo dà rilievo al dato storico della esistenza di Gesù tematizzando l'affermazione: «bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre» (Gv 14, 31), «ho custodito il comandamento del Padre e rimango nel suo amore » presentando tutto il dinamismo di questa esistenza storica, come movimento derivato dall'amore del Padre che tende fì.lialmente « verso il Padre » nel passaggio supremo della sua ora (Gv 16, 28). 31

e) L'essere «dal Padre» e l'essere «per il Padre», nell'amore, che costituisce il cuore della esperienza religiosa di Gesù di Nazaret ci appare nell'evangelo non solo come «-gratitudine riconoscente» perché Egli, come Figlio, ha tutto ricevuto da Lui, ma anche come accettazione, sempre grata, dell'illimitatezza stessa dell'amore paterno di Dio che nella sua manifestazione trabocca sulla realtà del mondo

io H. ScHiiRMANN, Il Padre nostro, 35 (il sottolineato è nostro). A. FEUILLET, Le mystère, 69 s.

11

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e della storia. Amare il Padre, nell'intimo dialogo dell'abbà, non è per Gesù l'idillio del fanciullo che cerca nel proprio padre un amore esclusivo, quella tenerezza e sicurezza che forma il cerchio incantato della sua esistenza protetta. Il rapporto reciproco di amore paterno e filiale che sta nel cuore della esperienza religiosa di Gesù di Nazaret è caratterizzato dalla manifestazione imperiosa e dalla accettazione obbediente del volere del Padre, volere che nei sinottici è veduto più direttamente sul piano storico della vita terrena di Gesù come esigenza concreta di bere il calice della passione e morte, a vantaggio di tutti gli uomini, mentre in Giovanni è veduto in una prospettiva pitt trinitaria come il volere inviolabile di amore del Padre da cui dipende la stessa venuta nel mondo del suo Figlio ( 1 Gv 4, 9-10) per compiere l'opera di amore che il Padre gli ha dato di compiere, cioè l'opera suprema della sua vita, quella dell'ora della passione (Gv 12, 26-27). Un tale « volere sacrificale » che espone ed offre la vita del Figlio per la salvezza degli uomini è accolto, sul piano dell'incarnazione, dalla accettazione obbediente, ma dolorosa: la volontà del Pa~ dre è la legge del Figlio. Essa, nella coscienza umana di Gesù, si impone come comando ineluttabile, per cui il Figlio dell'Uomo «deve>> patire e morire (Mc 8, 31 par.): per tale volontà paterna si determina sul piano della coscienza umana di Gesù il suo disincanto da ogni possibile umano ripiegamento narcisistico. La impeccabilità umana di Gesù di Nazaret deriva proprio da questa assoluta obbedienza ad un volere paterno che apre il suo cuore umano alle ampiezze universali di un amore sacrificale. Il passo di Marco 14, 36, l'unico degli evangeli che riporta esplicitamente il termine « abbà » nella preghiera di agonia di Gesù è decisivo riguardo a questa caratteristica del senso filiale della invocazione in forma di assoluta obbedienza. Qui la volontà del Padre si manifesta chiaramente come volontà di martirio, come esigenza di bere il calice della passione (Mt 26, 39; Le 22, 42); ad essa deve modellarsi il volere umano di Gesù come volere filiale, aprendosi attraverso la croce, agli orizzonti sconfinati dell'amore del Padre « l'attitudine obbediente di Gesù a riguardo del suo Padre ... è la risposta alla attitudine benevolente di Dio a suo riguardo. Cosl Gesù ha la sua origine in Dio in maniera totale e radicale e per ciò stesso, dal più profondo del suo essere, egli si dona a Dio. In tutto ciò che egli è si accoglie da un altro. In tutte le dimensioni della sua esistenza, e dunque anche dal primo inizio, egli è total-

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mente ed assolutamente frutto dell'amore di Dio che comunica se stesso. Egli non è niente fuori di questa comunicazione che Dio fa di se stesso nell'amore ».32 Cosl il rapporto di intimità ed amore filiale si esprime non solo nella gratitudine, ma anche e radicalmente nel sacrificio della obbedienza che abbraccia il volere del Padre come contenuto essenziale del progetto o della causa della propria vita. Anche qui bisogna notare come in questo aspetto della obbedienza al volere del Padre da parte di Gesù, risplende quella qualità filiale che la rende al di sopra del sentimento di una pura soggezione come nel caso del comportamento religioso di Israele verso Dio, suo Signore. In Gesù di Nazaret l'obbedienza, anche se umanamente travagliata, come quell'agire che sente fino in fondo l'angoscia del patire, si esprime tuttavia eminentemente come « dono libero » di se stesso, come vedremo in seguito parlando del cammino di Gesù verso il Calvario. Il « volere del Padre» per Gesù non è l'imposizione esterio1'e di una legge, ma quella norma suprema di un amore sovrabbondante da cui è scaturito il suo essere stesso, la sua missione storica, il senso della sua vita. Vivere in amore obbediente al Padre è vivere fino in fondo, con coerenza, la propria « identità di Figlio Unico di Dio » venuto per la salvezza degli uomini. È qui che possiamo scorgere il nesso intimo tra il senso di « dignità » e di « missione » che evoca il concetto stesso di Figlio nel linguaggio biblico .33 Proprio perché l'essere del Figlio è avere origine dall'amore illimitato del Padre e vivere in un amore reciproco al Padre, la vita terrena di Gesù si esprime temporalmente in una esistenza dinamica di missione, in cui il volere assoluto del Padre è la legge interiore che conduce il volere umano di Gesù ad aprirsi nell'amore per gli uomini, amandoli sino alla fine come il Padre ama il Figlio (G.v 15, 9-10; 17, 22-23 ). La figura del Padre non è legata, nella concezione di Gesù, a nessun predominio di categorie al'cheologiche: il rivolgersi a Lui del Figlio non è una caduta nell'arcaismo, un guardare all'indietro verso la memoria del grande antenato. Dobbiamo dire che, piuttosto, nell'esperienza religiosa di Gesù rivelata dall'abbà, per cui Egli accetta radicalmente il compimento di quel volere che lo « chiama », « l'invia » alla missione, il Padre, 32 W. KAsPER, Wer ist Jesus Christus fiir u1is heute? Zur gegenwiirtigen Diskussion um die Gottessohnschaft Jesu, ThQ 154 (1974), 219. n Vedi in seguito pp. 405-406 s.

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Il

centro di riferimento di tutta la sua vita è insieme il principio di origine ed il termine di tutto il mo movimento come dice Gesù in Gv 16, 28: «sono uscito da Dio e venuto nel mondo, di nuovo lascio il mondo e vado al Padre ». Cosl il Padre appare una figura di portata escatologica: « la paternità si rivela appartenente ad una teologia della speranza, poiché il Padre della invocazione è lo stesso Dio della predicazione del Regno ». 34 d) Il rapporto di Gesù al Padre costituisce ancora il fondamento di una nuova fraternità. Abbiamo già visto come l'esperienza religiosa in Gesù di Nazaret non si spiega a partire dalla esperienza storica collettiva di Israele, anche se quella può considerarsi, nel piano della storia di salvezza, un annuncio della nuova rivelazione escatologica del Padre che si sarebbe compiuta nella venuta di Gesù. L'esperienza religiosa filiale di Gesù espressa dall'abba è talmente « singolare», da essere «unica», legata quindi unicamente ed immediatamente alla coscienza di Gesù della propria identità filiale. Tuttavia, è pur vero che Gesù ha invitato i suoi discepoli a collo·carsi dinanzi a Dio nell'atteggiamento religioso da Lui rivelato, invocando Dio nello stesso modo da Lui usato. Anche se è vero che Gesù nel parlare del Padre ed al Padre non si mette mai sullo stesso piano dei discepoli dicendo « Padre nostro » in senso di « comune » {anzi in Giovanni si nota la tendenza a distinguere nettamente « Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro »: 20, 17) è pur vero che Gesù insegna a pregare ai discepoli « Padre nostro » nello spirito del « Padre mio ». La preghiera evangelica del «Padre nostro» (Mt 6, 9-13; Le 11, 2-4) non è la ripresa dell'uso giudaico dell'abim'.ì, bensl è il prolungamento o l'amplificazione comunitaria dell'abba, del singolare >, pp. 291 s. 48 Mt 13, 39-40; 24, 3; 28, 20; Mc 13, 13 (Mt 24, 13). È vero che a proposito della spiegazione delle parabole citate alcuni esegeti ritengono che sia opera della comunità di Matteo (J. ]EllEMIAS, Le Parabole, 95 s.). Tuttavia va notato che le stesse parabole parlano di « consumazione », nel testo stesso, ed ambedue sono escatologiche perchè parlano del giudizio finale (J. ]EREMIAS, ivi, 267).

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(Le 17, 24.26.30) cioè il giorno del Figlio dell'Uomo. Gesù nella sua missione mostra di avere il potere di giudicare già adesso: il giorno di Yahvè si compie «ora» (Gv 5, 22.24.27.30; 12, 31), ma c'è un « giorno » che è futuro .rispetto al momento presente, in cui l'azione giudiziaria troverà compimento. In Mt 7, 22-23 già si annuncia. In quel giorno, sarà più tollerabile la posizione di Sodoma e Gomorra di quella casa o città che avrà rifiutato l'invito (Mt 10, 15; Le 10, 12). Così subirà il giudizio chi si vergognerà di Cristo dinanzi agli uomini (Mc 8, 38). La scena fondamentale di Matteo 25 riassume in un unico quadro i vari annunci della futura venuta del Figlio dell'Uomo per giudicare le nazioni. 49 Anche se è difficile precisare con esattezza il pur indiscutibile ruolo redazionale di Matteo in questa scena, non si può neanche negare la sua perfetta « coerenza » con i vari annunci di Gesù sulla sua venuta finale come venuta giudiziale. Come attraverso una grande parabola o mashal apocalittico, la scena presenta questa « venuta » del Figlio dell'Uomo attraverso un apparato glorioso del giudizio divino (Zc 14, 5) che rappresenta la opera di Dio come quella del Pastore che seleziona le pecore (Ez 34, 17 -22). Qui il giudizio del Figlio dell'Uomo è il giudizio di Dio stesso e verterà sulla accoglienza o il rifiuto nei confronti dei « fratelli più piccoli » (Mt 25, 40-4 5 ). La parola del giudice che genera stupore farà allora comprendere il mistero della sua presenza nell'uomo, per cui nell'accoglienza o nel rifiuto, si decide il proprio atteggiamento dinanzi a Lui stesso. I fratelli più piccoli, nel contesto di Matteo, designano prima di tutto i discepoli (10, 42; 12, 48-50; 18, 6.10.14). Tuttavia in considerazione dell'appello di Gesù rivolto ad ogni uomo, per cui Gesù stesso si è fatto « piccolo » per sollevare nella speranza coloro che sono travolti dalla sofferenza, l'espressione può anche avere un senso più largo che abbraccia ogni sofferente inquanto segretamente chiamato dall'appello di Cristo. Il giudizio verterà sull'esercizio concreto della sequela del Figlio dell'Uomo venuto a servire (Mc 10, 45). Oltre all'annuncio di Matteo 25, la prospettiva del futuro nella visione di Gesù è legata al « discorso escatologico » che si colloca nel contesto della ultima parte della sua vita ed occupa un posto importante nella tradizione evangelica. Il quadro del discorso è quel49

J.

170, 186;

WrNANDY,

La scène du iugement dernier (Mt 25, 31-46)

in

ScEc 18 (1966),

L. CDPE, Matthew 25, 3146: « The Sheep and the Goats » reinterpreted,

NT 11 (1969), 32-44; 50 (1970), 23-60.

J.

C.

INGELAERE,

La «parabole» du ]ugement dernier, RHPR

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lo del grande rifiuto della « città santa » alla sua ultima offerta di salvezza. L'atteggiamento di Israele, con il suo proposito di eliminare il Cristo di Dio determina la « suprema crisi ». La apocalisse sinottica 50 si presenta con accenti diversi in Mc 13, 1-3 7 (Mt 24, 1-31; Le 21, 5-28) ed in Le 17, 20-37. La prima redazione ci offre un quadro di avvenimenti che richiama l'attenzione ai segni: la fine è ormai prossima, nessuno sa né il tempo, né l'ora. Si può dire solo che prima bisognerà superare il tempo della tribolazione che è presentato come in tre tappe: l'inizio dei dolori (Mc 13, 5-13 ), l'abominazione della desolazione nel tempio ( 14-23 ), il definitivo sconvolgimento che introduce la parusia del Figlio dell'Uomo sul quale si concentra l'annunzio (13, 24-27). Il quadro dell'apocalisse sinottica di Mc 13 pur riferendo elementi certamente storici della predicazione finale di Gesù, presenta però tematiche che riflettono la situazione della Chiesa primitiva,51 mentre il quadro che offre Luca 17, 20-37 e che insiste sulla repentinità della crisi, ci presenta una tematica più antica e probabilmente più vicina al nucleo della pre· dicazione di Gesù. 52 Qui il Regno che Gesù ha già introdotto nel presente inaugurandolo (è « in mezzo a voi »: 1 7, 21) avrà un momento finale che sfugge alla osservazione ed al calcolo. Quando il Figlio dell'Uomo verrà ad instaurare questo momento, la sua venuta sarà improvvisa come la folgore ( 17, 24 ). Allora bisognerà trovarsi non come i contemporanei di Noè e di Lot, in un atteggiamento non curante ed attaccato alle cose ( 17, 27). È importante perciò essere preparati sempre.

J.

JEREMIAS, L'imminenza della catastrofe, in «Teologia», I, 145-166; S. Il discorso escatologico, in «L'escatologia», I, 331-398; J. DuPONT, La ruìne du temple et la fin des temps dans le dìscours de Mare 13, in « Apocalypses et Théologie de l'espérance », 207-269; R. SCHNACKENBURG, Église et Parousie, in «Le message de Jésus et l'interprétation moderne», Paris 1969; K. H. ScHELKE, Escatologia della sinossi, in MySa XI, Brescia 1978, 230-252. 51 Come non si devono negare per principio elementi apocalittici nel pensiero di Gesù, anche se la sua concezione apocalittica è ben diversa da quella del giudaismo del tempo (S. ZEDDA, Il discorso, 343 s.), cosl non si possono ignorare nella apocalisse sinottica riflessi della situazione della Chiesa primitiva. Il confronto tra Mc 13 e 2 Ts 2, 1-12 come pure con l'apocalisse di Giovanni lo dimostra (affinità tematiche e linguistiche tra Mc 13 e l'Apocalisse giovannea sono notate da N. PERRIN, The Kingdom of God, London 1963, 131 s.). Ciò però non intacca la arcaicità del quadro di Mc 13 scritto prima della guerra giudaico-romana (K. H. ScHELKLE, Escatologia della sinossi, 230). 52 La composizione di Luca appare meno sistematica e sottolinea come idea conduttrice la disponibilità alla vigilanza che trova riscontro in molti luoghi evangelici: R. ScHNACKENBURG, Église et Parusie, 26. 50

ZEDDA,

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Per quanto appaiano nell'apocalisse sinottica elementi che si riallacciano alla escatologia profetica ed apocalittica che annunciava la completa salvezza realizzata nel futuro, al di là della rottura totale dell'ordine presente, bisogna notare pure le profonde differenze con l'apocalittica del tempo.53 Tali differenze riguardano non solo il lin· guaggio degli evangeli che è ben più sobrio rispetto alla fantasiosa descrizione della fine e del secolo futuro, propria delle apocalissi giudaiche. Ma soprattutto si deve notare l'assenza dei motivi decisivi della apocalittica giudaica come la guerra santa, il raduno della diaspora, il ripristino di Gerusalemme come capitale del Regno, il dominio sui gentili e lo splendore del tempio. L'annuncio di Gesù parla invece a proposito della città di Gerusalemme e del suo tempio, di una catastrofe che li colpirà, con l'espressione dell'abominio della desolazione (Dn 11, 31; 12, 11), nel luogo santo. Ma la diffe. renza più fondamentale ancora sta nel fatto che tutta la predicazione di Gesù, come abbiamo visto, è incentrata cristologicamente nel ruolo decisivo già assolto dalla. sua persona nella prima venuta come «Figlio dell'Uomo» instaurante il Regno escatologico di Dio: quindi, l'era finale della salvezza non appartiene più solo al futuro, bensì si integra già nel presente. Quale allora il senso di questo annuncio apocalittico? È veramente un messaggio rivolto al futuro? È un messaggio principalmente di giudizio o di speranza? La prospettiva sinottica appare chiaramente orientata a sottolineare nelle parole di Gesù una dimensione futura che, attraverso l'annuncio della fìne di Gerusalemme, si ispinge ad un ulteriore evento parusiaco fì. nale veduto però in un orizzonte di speranza. Così in Luca 19, 42-44 si annuncia chiaramente la distruzione di Gerusalemme perché non ha riconosciuto il momento della sua visita. La sua rovina è predetta come risultato del suo accecamento: le calamità che colpi· ranno Gerusalemme sono un segno di giudizio provocato dalla sua infedeltà (Le 21, 20-21). La distruzione del tempio e di Gerusa· lemme, annunciate con un linguaggio descrittivo che rivela da par· te dell'evangelista una perfetta conoscenza dei fatti avvenuti al tempo della redazione, sono presentate come « giudizio di Dio » che coinvolge un quadro cosmico (Le 21, 25·-26).

53 P. GRELOT, Histoire et eschatologie dans le livre de Daniel, in « Apocalypses et théologie de l'espérance », 91-109. La salvezza sperata sarebbe giunta alla «fine dei giorni» (Mie 4, 1; Is 2, 2) dopo un tempo di tristezza ed umiliazione, con un tempo

  • , 43-44; X. LÉON-DUFOUR, Jésus devant sa mort, in « Jésus aux origines », 141-168; P. BENOIT, Le récit de la Cène dans Le XXII, 15-20, in « Exégèse et Théologie », I, 191 ss.; H. ScHiiRMANN, Le récit de la dernière Cène: Luc 22, 7-38. Une règle de cé/ébration Eucharistique, une règle communautaire, rme règle de vie, Lyon. 1966; In., in « Jesu ureigener », 66-96; R. PESCH, Das Abendmahl und Jesu Todesverstiindnis, in « Der Tod Jesu », Freib. Br. 1976, 137-187; S. DocKX, Les étapes rédactionnelles du récit de la dernière cène chez les synoptiques, in « Chronologies », 208-232. 37

    SOTERIOLOGIA DI GESÙ

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    teraria dei « racconti evangelici » i quali, per quanto appaiono di tipo biografico, in realtà ad una più attenta analisi critica rivelano la loro dipendenza redazionale da due tipi di fattori: la tradizione cultuale cristiana ed i ricordi di ordine storico. Tali fattori hanno agito in modo diverso, determinando due tipi di forme letterarie alle quali è legato il racconto dell'ultimo pasto: cioè la «forma cultuale » e la «forma testamentari a». La prima che trova riscontro in Le 22, 19-20; 1 Cor 11, 23-26 ed in Mc 14, 22-24; Mt 26, 2628 è una forma letteraria tendente a rendere intelligibile l'origine ed il modo dell'azione cultuale della comunità cristiana, origine che trova riscontro nel ricordo dell'agire e delle parole di Gesù nella notte del tradimen.to.38 La seconda è costituita dal racconto dell'ultimo pasto di Gesù, indipendentemente dalle parole della istituzione eucaristica: denominata «forma testamentaria», dallo studio delle forme letterarie di una serie di testamenti biblici nei quali emerge il comportamento esemplare di una persona che prende congedo dai suoi, riunendoli intorno a sé, rivolgendo l'addio, in occasione di un pasto, anzi, talora facendo dell'ultimo pasto un addio in atto. Tale forma letteraria, che dà più accento ai ricordi storici, risalta in maniera più ampia nei discorsi dopo la cena di Gv 14-16, ma anche in Le 22, 1-18 di cui permane un vestigio in Mc 14, 25=Mt 26, 29. Da alcune fondamentali osservazioni si può dedurre che le due forme risalgono ad una tradizione storica preliturgica, per cui allo inizio non si ebbe la liturgia, ma il racconto storico testamentario. 39 Nella stessa forma cultuale 1 Cor 11, 23, ove Paolo dice d'aver ricevuto « dal Signore », la costruzione che indica sia la trasmissione (parà), sia la causa iniziale (apò ), esprime la convinzione che le parole della cena a lui trasmesse risalivano allo stesso Gesù. 40 Oggi, per una conoscenza storica dell'evento e del significato del fatto della cena, lo studio critico non può limitarsi più ai soli dati concernenti le «parole della cena» riferite attraverso la tradizione cultuale,

    38 X. LÉON-DUFOUR, Jésus deva11t, 144 s.; H. PATSCH, Abendmab/ und historischer Jesus, Stuttgart 1972, 104-105; S. DocKX, Le récit du repas pascal: Mare 14, 17"26, in B 46 (1965), 445-463. 39 J. JEREMIAS, Le parole dell'ultima cena, 127-163; In., Teologia, 330; X. LÉON-DUFOUR, ]ésus devant, 150-153. 40 Il che appare confermato dallo stesso stile di Gesù: l'amen prima della affermazione (Mc 14, 25), il passivo divino (Le 22, 22), il giungere del Regno di Dio (Le 22, 18), la predilezione per uso di paragoni e parabole. Vedi J. ]EREMIAS, l, cit.

    442

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    Il

    ma si intende mettere l'accento anzitutto « ai gesti di Gesù » (ipsissima /acta) ovvero alla cena di Gesù come «parola in atto » che riluce nelle azioni poste da Gesù e nell'insieme del suo comportamento.41 È da questa fondazione, del linguaggio dei gesti, che è possibile cogliere il senso autentico della cena di Gesù e delle stesse sue parole, percependo come esse sono orientate nel medesimo senso dei gesti. Il comportamento di Gesù, secondo il racconto evangelico della cena, con la duplice azione sul pane e sul vino non appare riducibile ad alcun contesto culturale estraneo alla tradizione stessa evangelica. Gli studi attuali hanno dimostrato che « la frazione del pane » all'inizio del pasto e la « presentazione della coppa » alla :fine di questo, non possono essere spiegati dipendentemente da un influsso ellenistico, ove non appaiono che raramente e senza alcuna analogia ai gesti evangelici,42 mentre appaiono evidenti i rapporti con i due gesti caratteristici del pasto della festa pasquale giudaica ove le due azioni che avevano una portata simbolica e rituale, accompagnavano la preghiera dell'inizio e della fine del pasto. La stessa formula stereotipata « nello stesso modo, dopo la cena » che tompare nei racconti di istituzione (Le 22, 20 par.; 1 Cor 11, 25) rende tale affermazione abbastanza certa.43 Ma il dato del tutto nuovo rispetto agli usi stessi giudaici, che emerge nella tradizione evangelica della narrazione dell'istituzione della cena è che in essa si tende a riunire ed ll1 privilegiare i due gesti della frazione del pane e dell'azione di grazie sulla coppa che, secondo i costumi palestinesi, erano separati dalla durata del pasto. Questo fatto nuovo è già abbastanza rilevante: esso tende a sottolineare l'importanza data a questi due gesti ed al fatto che essi andavano uniti insieme. 44 Tale importanza è stata 41 La ragione di questa scelta metodologica è dovuta no11 solo al principio della ricerca storica secondo cui il comportamento di Gesù è il quadro vero della sua predicazione e la chiave di introduzione al suo significato, ma anche per le difficoltà che incontra il lavoro critico circa lo stabilire la forma originaria delle parole di Gesù nel loro tenore esatto. Vedi H. ScHiiRMANN, Das Weiterleben der Sache ]esu im nach-iisterlichen Herrenmahl, in « Jesu ureigener Tod », 66, 96; LÉONDuFOUR, ]ésus devant, 153 ss. 42 H. PATSCH, Abendmahl, 23-24. 43 H. PATSCH, ivi, 19-22; H. ScHiiRMANN, Das Weiterleben, 71-72. Lo stesso gesto della «frazione del pane» è tipicamente giudaico: con il pane partecipato si inaugura nei giorni ordinari il pasto fraterno. Sul senso del gesto: H. ScHiiRMANN, Die Gestalt der urchristlichen Eucharistiefeiet, in « Urspruog uod Gestalt », Diisseldorf 1970, 77-79. 44 Vedi la tendenza della tradizione (specie in Marco e Matteo fino a Gv 6, 51b, 53-58, ed ai racconti liturgici dell'istituzione) ad assimilare i due gesti pre-

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    così rilevata, dalla tradizione evangelica, che i due gesti vengono addirittura staccati dal pasto, privilegiandoli, rendendoli indipendenti, tanto da seguire il pasto stesso ordinario come un altro pasto dai riti stilizzati e quasi cultuale. Questo dato della tradizione evangelica è inspiegabile restando solamente nel contesto della prassi liturgica delle prime comunità cristiane, specie palestinesi. Queste, per le quali il pasto liturgico aveva una forte relazione a quello escatologico (Le 22, 15-18; At 2, 46), sarebbero state naturalmente portate a non renderlo un rito quasi accessorio, ma piuttosto ad accentuarlo nella sua stessa realtà di pasto escatologico. La importanza data ai due gesti, presi nella loro unità, non può allora spiegarsi che risalendo alla memoria intangibile del comportamento stesso di Gesù (ipsissimum factum) nell'ultima cena. 45 È stato il suo agire significativo che ha dato all'azione sul pane e sul vino, preesistente nella cena giudaica, una «forma nuova». Ma quale il significato di questi gesti di Gesù? Bisogna ricordare che il gesto della « frazione del pane » e la sua distribuzione ai commensali era, nel pasto giudaico, un gesto di dono. 46 L'eulogia pronunciata, nell'occasione, dal padre di famiglia, come preghiera portatrice di benedizione, consentiva la possibilità di co!Ilprendere il frammento stesso di pane offerto, simbolicamente, come avente un significato salutare. Bisogna infatti avere presente che, nella con_cezione orientale, la comunità conviviale è una comunione religiosa, specie poi per gli ebrei tale è la comunità di tavola a pasqua che avviene proprio col rito della « frazione del pane »: « la .frazione del pane è l'atto di comunione». Quando il padre di famiglia nel pasto quotidiano pronuncia la lode su di un pane (i membri di famiglia si associano a lui con l'amen), spezza il pane e ne porge ad ognuno dei commensali un pezzo da mangiare, il significato dell'atto è che ciascuno dei commensali, mangiando, riceve una parte della sentandoli sotto forma parallela. H. SCHURMANN, Einsetzungsbericht, LThK III (1959)2, 762-765. 45 Cosl nel cuore del cultuale, la memoria di Gesù, con l'evocazione della sua morte salutare, ha predominato sulla prospettiva originaria escatologica che era la dimensione principale del pasto cultuale delle comunità palestinesi. X. LÉoN-DUFOUR, Jésus devant, 156. 46 Non è accettabile la tesi di G. DALMAN per il quale la frazione del pane all'inizio del pasto di festa giudaico consisteva semplicemente nel far partecipare i commensali alla preghiera del pasto. Infatti, nota H. ScHilRMANN, 1. cit. 79 tale consenso era già espresso sufficientemente dall'Amen alla berli.kli.h del padre di fa· miglia.

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    benedizione della tavola ... mangiare il pane spezzato o bere il vino nel calice della benedizione, rende partecipi - lo ripetiamo: in ogni pasto comune - alla benedizione pro~unciata sul pane o sul vino prima della distribuzione ».47 Questo valore salutare trova conferma nel gesto successivo della presentazione da parte cli Gesù dell'unica coppa, la propria, ai commensali perché ne bevano. Anche questo gesto, se contrario all'uso corrente,48 può tuttavia trovare significato nel costume giudaico consistente nell'invito a bere rivolto a qualcuno da parte del capo di famiglia, come espressivo augurio di benedizione. Il bere la ~< coppa dì benedizione » (1 Cor 1O, 16) era considerato come un gesto salutare, un comunicare con la « coppa di salvezza» (Sal 116, 13 ). Così il gesto di Gesù relativo al calice, nel suo pasto di addio, acquista valore di gesto di dono, di benedizione: offrire ai commensali una bevanda salutare e ritemprante. Entrambe le azioni della cena, consistenti nella presentazione del pane e della coppa del vino, appaiono, dunque, «gesti di servizio e cli dono», gesti salutari destinati ai commensali: « il pane e la coppa sono offerti come nutrimento, come alimento salutare e come una bevanda che procura la gioia ». 49 Ora, quale è il senso del dono salulare che Gesù volle offrire ai suoi nel mome-nto del suo addio? Per trovare una risposta soddisfacente bisogna considerare da un lato tutto il contesto del comportamento di Gesù e dell'insieme della sua predicazione e dall'altro la testimonianza concordante delle « parole » che accompagnano le due azioni di offerta. Non è possibile separare la cena di addio di Gesù dalla lunga serie dei pasti quotidiani da lui consumati con i discepoli, ma anche con i peccatori e gli emarginati della società giudaica. Questa comunione conviviale e gioiosa che già di per sé esprime per gli orientali, come ogni comunanza di tavola, una comunione di vita, di fratellanza e di pace, aveva però nella missione di Gesù un significato

    J.

    ]EREMIAS, Le parole, 289-290. Valida difesa di H. ScHiiRMANN, 76 di questo punto di diversità dell'agire di Gesù rispetto all'uso corrente giudaico contro G. DALMAN (Jesus-Jeschua, Leipzig 1922, 140) e J. ]EREMIAS, Le parole, 79-80. D'accordo con H. ScHiiRMANN è X. LÉON-DUFOUR, 156. 49 H. ScHiiRMANN, Jesu ureigener, 81. L'A. nota che l'elemento spesso considerato come decisivo per la significazione dei gesti, come la separazione della forma o la frazione del pane o il gesto di versare il vino o il colore rosso del vino ecc... sono elementi sovrapposti artificialmente a dei gesti che non significano che servizio e dono offerti a qualcuno. 47 48

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    particolare in quanto poteva considerarsi un segno concreto, tangibile, del Regno escatologico in atto. Gesù annunciava l'avvento del Regno di Dio soprattutto come manifestazione escatologica di grazia e di perdono da parte di Dio verso i poveri, i peccatori, i piccoli ed aveva spesso presentato simbolicamente questo Regno che viene con l'immagine corrente del pasto (Mt 8, 11; Le 14, 15-24; Mc 2, 18s). Ma erano soprattutto i suoi incontri reali conviviali con le genti po· vere ed umili della Galilea che significavano il dono, l'offerta decisiva della salvezza a chi è caduto in colpa, la conferma tangibile del perdono di Dio. Di qui il risentimento e la critica spietata dei farisei (Le 15, 2; Mc 2, 15-17; Mt 11, 19) per i quali era inconcepibile Wla comunanza di tavola con i reietti. In realtà, nell'insieme, la predicazione di Gesù sul Regno era come impregnata di segni parabolici, espressi attraverso discorsi e gesti: « le sue azioni, in effetti, dalle guarigioni :fino al suo pasto di addio, passando per la comunità di tavola con i peccatori, richiedono di essere comprese come azioni paraboliche. Azioni paraboliche, non in questo senso che esse sarebbero l'illustrazione di qualcosa, ma nel senso che la realtà del nuovo mondo escatologico che fa irruzione e che viene a noi direttamente, si concretizza attualmente e può essere sperimentata sotto forma simbolica nel cuore stesso di questo mondo ».50 In questo senso si può ritenere che l'agire parabolico di Gesù è un agire profetico che annuncia un compimento escatologico: in esso, quanto i profeti annunciavano come futuro, è offerto come realtà già presente e compiuta, l'avvenire, da loro profetizzato, ormai fa irruzione nell'agire conviviale di Gesù. Se i pasti del Maestro costituivano il tangibile adempimento della comWlione escatologica annWlciata dai profeti, si può pensare che nell'ultimo periodo del suo ministero, dalla confessione di Pietro a Cesarea di Filippo, i suoi pasti andavano sempre più. mettendo l'accento sull'annuncio prolettico, sulla anticipazione del pasto escatologico come caparra, offerta già allora, della sua realtà ancora futura. In questo senso va la domanda dei figli di Zebedeo (Mt 20, 20-28; Mc 10, 35-37) come pure la continuazione dopo la morte di _Gesù della comunanza di tavola: 51 ogni pasto consumato con il Maestro indica con maggiore accentuazione la comunione conviviale del-

    50 F. HAHN, Methodologische Vberlegungen zur Riickfrage nach Jesus, in « Ruckfrage nach Jesus », Freib. Br-Wien 1974, 46. 51

    J.

    ]EREM!As,

    Le parole, 75

    s.

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    la comunità escatologica con Lui. Esso man mano che si avv1clna la sua fine, sottolinea che Gesù mantiene la sua promessa dinanzi alla sua morte. In questo contesto generale, il « pasto di addio» costituisce il momento supremo di espressione e di realizzazione del ministero di Gesù: Egli proclama in esso la grazia escatologica di Dio nonostante la morte, anzi, proprio attraverso la morte, prevista e liberamente accettata. Questa, infatti, come abbiamo già detto, è non solo giudizio di Dio sul mondo, fine della storia, ma anche apertura della storia al mondo escatologico di Dio. I gesti di Gesù proclamano questa speranza escatologica di salvezza dinanzi alla morte, attraverso la quale essa fa irruzione nel mondo peccatore. :È cosl che la « causa di Gesù » continua a vivere, costituendo il centro del pasto cristiano celebrato « fìno a che Egli ritorni ».52 Se il comportamento di Gesù nella cena di addio già rivela il senso profondo dei suoi gesti, letti alla luce di tutta la sua missione di predicazione e di instaurazione del Regno di Dio, esso, mentre fonda storicamente il valore autentico delle «parole della cena »,53 ne viene ulteriormente illuminato, almeno considerando l'insieme delle parole. Infatti, qui bisogna considerare non solo le parole della tradizione cultuale, ma anche quelle della tradizione testamentaria: avendo presente l'insieme di queste due tradizioni e mettendo insieme ciò che esse hanno in comune, noi possiamo cogliere alcuni dati abbastanza solidi, storicamente, che consentono di comprendere più chiaramente e coerentemente il senso dei gesti. In questo accostamento delle due tradizioni, emergono dei temi fondamentali: l'alleanza, il Regno, la comunità e la morte espiatoria. Così la prospettiva escatologica e quella soteriologica esprimono il senso del dono di Gesù indicato dai gesti del pasto di addio. Per quanto riguarda la prima prospettiva, il testo della tradizione testamentaria della cena (Le 22, 15-18=Mc 14, 25=Mt 26, 29) 52 Particolarmente il logion della tradizione testamentaria il cui testo sinottico si ritrova in Mc 14, 25 ( = Mt 26, 29): «in verità ve .Io dico: mai più berrò del frutto della vigna fino a quel giorno in cui lo berrò ( + con voi = Mt) (vino) nuovo del Regno di Dio» (vedi Le: 22, 18) consente di affermare che «Gesù dinanzi alla morte imminente manifesta una confidenza assoluta nel trionfo di Dio. Egli annuncia che se cessa di prendere parte ai pasti di questa terra è per partecipare un giorno al banchetto ultimo quando verrà il Regno di Dio. Ecco una certezza storica di grande valore» X. LÉON-DUFOUR, Jérus /ace à fa mori immi· nenie, in «Pace à la mort, Jésus et Paul », Paris 1979, 105. 53 H. ScHiiRMANN, Jesu Abendmahlsworte im Licble seiner Abendmahlshandlung, in Conc, 4 (1968), 771-776; ed. fr. n. 40, 1968, 103-113; X. LÉON·DUFOUR, Jésus, 157.

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    esprime il desiderio di Gesù di mangiare l'ultima pasqua con i suoi prima della morte (Le 22, 15). Nel corso di questo ultimo pasto Gesù dinanzi alla morte esprime la sua .fiducia radicale nella venuta escatologica del Regno e che egli ormai cessa di prendere parte ai banchetti terrestri (Le 22,16) per partecipare al pasto escatologico, alla nuova celebrazione della pasqua, cioè al bere il frutto della vigna «nel Regno di Dio». Queste parole di Gesù considerate molto arcaiche dalla critica odierna 54 proclamano l'irruzione definitiva dell'eschaton del Regno, con i suoi doni, attraverso il suo pasto storico di addio. Se tutta la tradizione dei pasti di Gesù con i suoi, come abbiamo visto, va letta nel contesto escatologico della sua missione instauratrice del Regno, ciò vale soprattutto di questo ultimo pasto di fronte alla morte e le parole di Gesù lo proclamano: oltre questa comunità storica di mensa c'è quella del Regno definitivo. Questo valore escatologico della parola che accompagna il gesto è indicato particolarmente dalle parole sul calice tramandate dalia tradizione cultuale: in tutte le forme in cui è resa questa tradizione (Le 22, 20; 1Cor11, 25; Mc 14, 24=Mt 26, 28) essa richiama alla « nuova alleanza » la quale introduce in sé fondamentalmente la reai· lizzazione definitiva della comunione escatologica. 55 Ora, tale comunione escatologica, proprio per la concezione biblica della alleanza, come pure del Regno, non può intendersi solo nel senso di comunione con Dio: l'annuncio della alleanza nuova, della comunione escatologica è una realtà che comprenderà la stessa comunione di Gesù con i suoi. In Matteo questa dimensione comunitaria del pasto escatologico è esplicita ( « non berrò più di questo frutto della vigna fino al giorno in cui lo berrò nuovo « con voi » (meth'ymon) nel regno del Padre mio»: Mt 26, 29}, mentre in Luca è annunciato nel desiderio di Gesù di mangiare adesso, per l'ultima volta « con voi ». 56 Si può dunque ritenere attraverso le pa54 H. ScHDRMANN, Der Paschamahlbericht Lk 22, 7-14, 15-18, Miinster (1968) (2), 60 s. Ci sono varie ragioni tJ:a le quali, non ultime, l'assenza di precisione su ciò che Gesù sta per fare e lo sguardo sull'avvenire, certo presente, ma in maniera sfumata, come certezza di trionfo bltre la morte. 55 Anche se qualcuno dubita che l'idea dell'alleanza sia stata presente nelle parole esplicative di Gesù, non si può certamente eliminare l'idea di avvento esca· tologico del Regno a cui si riferisce la coppa, idea che è alla base di quella della alleanza. 56 X. LÉoN-DuFOUR, Jésus devant, 161 nota anche il fatto significativo che Gesù si rivolge al gruppo dei «dodici», vedendo in essi non tanto il resto di Israele, quanto il nucleo del Nuovo Israele ben espresso in Le 22, 30.

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    role della tradizione evangelica, presa nell'insieme (cultuale e testamentaria), la convergenza sul dato storico per cui Gesù dinanzi alla morte ha celebrato il pasto di addio con i suoi, esprimendo con tale celebr~ione la sua convinzione di prendere parte « con essi » al festino escatologico, consistente nel Regno escatologico del Padre, nella «alleanza nuova». Il momento del pasto non è solo per Gesù una occasione per esprimere tale sua coscienza di fronte alla morte, ma appare una « realizzazione anticipatrice » di tale incontro escatologico di mensa.

    La seconda prospettiva del gesto duplice del dono è quella più discussa sulla sua portata soteriologica. Gesù ha con tale gesto espresso la convinzione che la sua morte aveva un signifìcato di salvezza? Se si sostiene che l'ultimo pasto di Gesù fu un pasto pasquale, come tende a provare J. Jeremias,57 allora certamente la risposta alla domanda appare più immediata e positiva. Ma da parte della critica odierna non si ritengono troppo sicuri tutti gli argomenti da lui addotti per dimostrare la natura pasquale del pasto ultimo di Gesù, anteriormente ad ogni introduzione di tale clima da parte della comunità postpasquale. A motivo di tali dubbi, è preferibile con H. Schiirman fondare la risposta sullo strato certamente antico della tradizione di Le 22, 15-18=Mc 14, 25=Mt 26, 29 che altri, come X. Léon-Dufour, chiamato testamentaria, e che trasmette il pasto di Gesù dinanzi alla morte come pasto di addio. Ora, in questa tradizione, che, come abbiamo visto, da rilievo alla prospettiva escatologica, si sottolinea nello stesso tempo la importanza della morte imminente come «l'avvenimento attraverso il quale » si realizza la salvezza escatologica, quale effetto di questa morte. Per questo, si può dire che nell'ultima cena, dinanzi alla certezza della morte, Gesù rinnova ai suoi (al nuovo Israele) la promessa di salvezza escatologica presentando la sua morte come mezzo .per il quale si realizza questa salvezza. Infatti, in tale tradizione, Gesù, alla cena, pronuncia una duplice profezia sulla sua morte: «ormai non mangerò più questa (.pasqua) fino a che essa sia compiuta nel Regno di Dio » (Le 22, 16) ... «ormai non berrò più del frutto della vigna fìno al giorno in cui lo berrò, nuovo, nel Regno di Dio» (Mc 14, 25=Lc). In questa profezia Gesù annuncia l'avvento del Regno, nonostante la morte, ed ha espresso tale promessa con gesti che traducòno il dono 57

    J.

    ]EREMIAS,

    Le parole, 43 s.

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    supremo di sé per la salvezza degli altri. Ora « colui che messo di fronte alla morte, promette ancora la salvezza di Dio in un tale gesto di dono totale, non dona se stesso, in quanto morente per gli altri, in questa offerta che egli fa per i suoi? ». 58 In questo modo, l'intenzione soteriologica dei gesti dell'ultima cena è solidamente fondata dal punto di vista storico: « è permesso di supporre con relativa certezza, dato lo stato attuale della discussione che resta ancora aperta su numerosi punti di dettaglio, che l'ultimo pasto di Gesù fu caratterizzato, da una parte, dall'annuncio che Gesù vi fece della sua morte irruninente e dall'altra parte, dalla promessa di un nuovo pasto comunitario con la venuta del Regno di Dio ... ». 59 Tuttavia dopo quanto abbiamo detto, non possiamo essere d'accordo con l'idea che la scoperta di come si articolano queste due componenti sia stata solo il frutto di una riflessione della comunità post-pasquale sulle attitudini di Gesù che si è comportato come Servitore e l'ha espresso attraverso le parole della istituzione: allora sarebbe apparso chiaramente alla comunità, secondo una tale teoria, che il comportamento di Gesù, nel corso dell'ultima cena, non sarebbe stato che la conseguenza estrema del suo sacrifìcio a salvezza degli altri. Ora, invece, come abbiamo visto, il comportamento stesso di Gesù rivela già una tale connessione ed esso fonda, quindi, la storicità stessa delle parole dell'istituzione delle quali la parola sulla coppa nella tradizione di Luca-Paolo (Le 22,20 par.; 1 Cor 11, 25), considerata oggi privilegiata, annuncia appunto l'alleanza escatologica che si realizza in virtù della morte imminente: «questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue». Anche l'azione sul pane che nella tradizione di Luca-Paolo appare primitiva [ « questo è il mio corpo che (è dato: Le 22, 19b) per voi» 1 Cor 11, 24] 60 richiama l'offerta del Servitore. Così le parole della istituzione appaiono coerenti con la tradizione testamentaria ed anche se introducono. un « hyper » esplicativo che può richiamare una soteriologia pasquale più evoluta, confermano tuttavia l'idea più fondamentale di una comprensione da parte di Gesù della propria morte come fatto salutare, avente una efficacia espiatrice e vicaria. Del resto, questa prospettiva soteriologica della morte ·di Gesù si

    58 H. ScHiiRMANN, Jesu, 88. 59

    J.

    60

    X.

    RoLOFF, Anfange, 63. LÉON-DUFOUR, Jésus

    « Jésus devant sa mort », 161 s.

    a-t-il exprimé le sens sacrificiel de sa mort? in

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    impone per le esigenze stesse escatologiche e cristologiche del Regno che viene. Come è vero che questo Regno che viene ha una profonda relazione personale « con lui » da non potersi minimamente astrarre, nel suo annuncio e nella sua realizzazione defìnitiva escatologica, dalla sua persona e dalla sua opera, .potrà forse astrarsi dal momento capitale della esistenza di Gesù che è la sua morte? Il riferimento intrinseco della missione di instaurazione del Regno, quale evento escatologico di salvezza, con la morte di Gesù, si impone: è per questo riferimento che si può dire che specialmente nella ora della morte, Gesù ha realizzato « la sua causa » in « persona ». Tale morte è stata quindi per lui non solo «l'occasione», ma « il mezzo stesso » che ha reso possibile il portare a compimento defìnitivo quel dono assoluto di sé già espresso nell'orientamento fondamentale della sua vita vissuta « per il Padre » e « per gli altri » in una attitudine « proesistente ». La salvezza escatologica si sarebbe allora realizzata non solo oltre la morte e nonostante !di morte, ma proprio « attraverso » la morte, come un suo frutto. Non si dovrà quindi sostenere che le parole esplicative della cena, nella loro stessa intenzione soteriologica, esprimano esplicitamente, prima di ogni interpretazione successiva di fede, la reale intenzione soteriologica di Gesù contenuta realmente nelle sue stesse azioni simboliche? Cosl l'hyper che nella tradizione sta nel cuore del messaggio soteriologico: «morto per i nostri peccati »,61 , riflette il piano storico della attitudine fondamentale della vita prepasquale di Gesù, la sua stessa concezione della sua morte. Si può dire, allora, che nell'ultimo periodo della vita di Gesù, il suo comportamento e la sua predicazione non solo si sono espressi in termini « cristologici » espliciti, ma anche « soteriologici »: i due poli si illuminano a vicenda. Una piena manifestazione della Persona di Gesù non poteva compiersi che nel momento finale della sua storia: al cospetto della morte, momento supremo di realizzazione della missione della sua vita. È cosl che i titoli cristologici sottolineano la loro imprescindibile funzione soteriologica. Ma è pur vero che è la cristologia, come esprimente la dimensione del «mistero » di una Persona, irri.· ducibile al piano dello storico, che fonda il valore soteriologico della vita e della morte di Gesù. È il suo rapporto singolare ed essenzia-

    6 ' Rm 4, 25; 5, 8; 8, 32; 1 Cor 15, 3-5; Gal 1, 4; Ef 5, 2; 1 Pt 2, 21-24. X. LÉON-DUFOUR, La mort rédemptrice du Christ selon le Nouveau Testament, in « Mort pour nos péchés », Bruxelles 1976, 17-18; J. RoLOFF, Anfiinge, 38-64.

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    le al Padre ed allo Spirito che dà una dimensione nuova ed unica al suo « essere per noi».

    Il significato della soteriologia di Gesù di Nazaret.

    La soteriologia coinvolge tutta l'esistenza storica di Gesù: essa è già esplicita nell'annuncio dell'avvento del Regno di Dio, annuncio che non risuona, come nella stessa predicazione del Battista, in termini di «crisi», di «giudizio escatologico», anche se questo aspetto non è assente dalla predicazione profetica di Gesù, ma anzitutto e direttamente, in termini di signoria di amore e di salvezza.62 L'ora prese11Jte inaugurata dalla venuta del Regno è annw1ciata come «ora di grazia» (Le 4, 18.19) per l'uomo. Ma questa «soteriologia» che è essenziale e gratuita manifestazione del Regno anticipato nel ministero terrestre di Gesù, trova particolare ed espressa tematizzazione di fronte alla morte, la quale, come abbiamo veduto, è proclamata nel NT come l'offrire se stesso (!radere) di Gesù per i nostri peccati (Gal 1, 4) o l'essere dato (traditus) a «causa» dei nostri peccati (Rm 4, 25). Negli evangeli questa soteriologia si manifesta nella volontà stessa di Gesù venuto « per dare la sua vita i.n riscatto per molti» (Mc 10, 45=Mt 20, 28), per effondere il suo sangue in alleanza «per molti» (Mc 14, 24=Mt 26, 28: per la remissione dei peccati),« per voi» (Le 22, 19=1 Cor 11, 24). In tutti questi passi, il « Christus traditus », 63 nel suo radicale e definitivo « essere per » tutti gli uomini, evidenzia nel modo più manifesto il senso soteriologico di tutta la sua missione compiutasi nella sua vita e nella sua morte. Ora questa.soteriologia che fa di Gesù non il profeta della fìne di un'era, quanto il profeta di una nuova era, che inizia appunto nei suoi gesti di misericordia e di perdono, e si consuma nel sacrificio della sua vita e nella sua resurrezione, è anzitutto una soteriologia legata essenzialmente ad una «nuova rivelazione di Dio » che sta nel cuore del messaggio escatologico di Gesù. È; come abbiamo visto, 64 anzitutto la « santità del Padre » il baricentrq teologico della sua esistenza filiale, polo essenziale di riferimento di tutto il suo essere; santità del Padre che si manifesta in 62 Vedi sopra pp. 84; 90-99. 63 64

    W. PoPKES, Cbristus traditus, Ziirich 1967. Vedi sopra pp. 257-284.

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    Gesù stesso, il Figlio, come amore assoluto, principio primo di tutta la sua esistenza personale e della sua vita che si realizza come risposta vivente di amore, per cui il Figlio ama il Padre ( Gv 14, 31 ), rimane nel suo amore (Gv 15, 10) e tende al Padre (Gv 16, 28). Tale « santità del Padre » si manifesta in un amore per il Figlio che non è amore esclusivo, ma « illimitato » e che si esprime nella persona dello Spirito ed in Lui tende alla sua manifestazione gratuita per l'uomo e per il mondo. L'esistenza umana di Gesù, animata dello amore illimitato per il Padre, si manifesta nello stesso tempo come amore illimitato per gli uomini che Gesù ama sino alla fine come il Padre ama il Figlio (Gv 15, 9·10; 17, 22-23). Il volto di Dio che già trovava nell'AT la sua fisionomia di «potenza extatica » come libero aprirsi alla storia ed al mondo nel linguaggio dello Spirito,65 ora appare nel dono illimitato di sé con cui Gesù, il Figlio Unico del Padre, consacra a lui la sua esistenza e diffonde agli uomini il dono sovrano del suo amore assoluto nello Spirito (pro-esistenza). È questo amore del Padre che si manifesta nel comportamento di Gesù, testimoniato dai gesti di grazia e di amorevole accoglimento dei piccoli e dei peccatori e nella gioia per un peccatore che si pente. Questa manifestazione di amore illimitato e gratuito, possiamo dire che trova la sua radice ultima nel cuore del mistero trinitario di Dio da cui promana appunto l'atteggiamento di pro-esistenza di Gesù che si consuma nel dono estremo del sacrificio. È così che la « pro-esistenza di Gesù, manifesta la pro-esistenza di Dio ». Anzitutto, infatti, questo carattere di preesistenza di Gesù esprime un progetto nuovo di vita, che non trova ragione di essere in un orizzonte esclusivamente antropologico-culturale. Qui, infatti, domina la legge della concentrazione dell'io che invade tutta l'esistenza biopsichica dell'uomo e che si traduce nella affermazione radicale di sé, per cui ogni rapporto all'altro è come filtrato a partire dall'io che tende a divenire la legge dell'altro. La legge antica esprimeva questo punto di vista antropologico, per cui a partire da!l1 amore per il proprio io l'uomo doveva aprirsi ad amare il suo prossimo(« come se stesso»). Dinanzi a Gesù, al suo essere totalmente «per il Padre» e per gli uomini, alla sua « proesistenza » rivelata specialmente nell'ora della morte, ci appare un progetto di vita di un uomo sradicato dal proprio « io » per essersi dato totalmente per la salvezza del

    65

    Vedi sopra pp. 299-309.

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    mondo: «in Gesù di Nazaret ci sembra di incontrare un uomo che invece di un cuore umano incentrato in se stesso, ha uno spazio vuoto (Hohlraum): uno spazio libero dal quale si espande a torrenti un amore senza riserve e senza esigenze di reciprocità, per Dio e per il prossimo; ma è cosl perché, attraverso questo spazio libero è l'amore di Dio che si espande nel mondo ».lié Certamente non possiamo intendere questa idea di « spazio libero » come quella di « spazio vuoto » che denoterebbe l'assenza di ogni umanità nel cuore di Gesù. Dobbiamo cogliere invece l'idea di spazio libero come « nuovo carattere di umanità » .in cui il cuore, libero dal predominio di un io egocentrico, dipenda da una nuova pienezza di essere: quella dell'amore che si espande sull'altro liel radicale dono di sé. Ma questo progetto di vita è possibile solo- perché Dio, Amore assoluto, ha fatto irruzione in modo unico e sovrano in Gesù: tale amore ha creato in lui la legge assoluta del dono, della proes1 · stenza, che nella condizione presente della umanità non può realizzarsi che passando attraverso la propria morte. L'egoismo, infatti, è cosl impiantato nel cuore dell'uomo ed esercita un tale peso nel suo comportamento e nelle sue istituzioni sociali che amare nella totale abnegazione di sé vuol dire « morire »: « non c'è proesistenza vera, di impegno a sorpassare se stessi, che là ·ove si accetta di passare per la propria morte. Ora, è in questa morte per gli altri che Gesù ha dato il suo progetto, la sua espressione, alla fine dei conti, più perfetta ». 67 Il nuovo modo di « essere per gli altri » di Gesù di Nazaret, affonda le sue radici nel mistero assoluto di Amore di Dio che supera la concezione del Dio « motore immobile» attraverso quella, tripersonale, dell'amore che dona se stesso e che si rivela nel sacrificio supremo della croce. « Proclamare che Dio è amore, è lo stesso che dire che l'amore è il senso ultimo di tutta la realtà ... questa concezione della realtà apportata dal cristianesimo rappresenta una rivoluzione tale che è difficile immaginarne una più grande. La perfezione suprema ora non è più come nella metafisica greca, quella della sostanza che sta in se stessa e che basta in se stessa, ma l'es-

    66 H. ScHiiRMANN, Der proexistente Christus-Die Mille des G/aubens van morgen? in Diakonia/Der Seelsorger, 1 (1972), 147·160. ID., Jesu, 140; W. KASPER, Wer ist fesus Christus fur uns heule? Zur gegenwiirtigen Diskussìon um die GotteJSohnschaft Jesu, in ThQ 154 (1974), 203-222. 67 H. SCHURMANN, Der proexistente, 142.

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    sere per gli altri e con gli altri. Ne segue una rivoluzione nel modo di comprendere Dio: Dio non è il motore immobile, ma piuttosto Colui che per natura è vita e amore e che, allora, può essere anche il Dio degli uomini ed il Dio della storia ... il Dio che non solo ha compassione per coloro che soffrono, ma che partecipa lui stesso alla loro sofferenza ». 68 Questo amore divino che si manifesta nella venuta storica di Gesù come amore del Padre che invia ed offre suo Figlio, diviene, soprattutto nella morte ed attraverso la morte di Croce, una forza che si espande non solo per il contagio proveniente da un forte esempio o modello morale di vita, ma per la virtù stessa divina dello Spirito che porta a compimento il disegno divino rivelato nel Figlio coinvolgendo, nell'intimo, il cuore dell'uomo a questo grande movimento di verità e di vita dell'Amore assoluto. Ne deriva per l'uomo una nuova comprensione di sé, della propria persona, non pm definita come autonoma sussistenza, ma più profondamente come « sortita da sé inquanto interiorità che si dona e si esprime ». 69 L' autorealizzazione dell'uomo nella sua libertà non è, a questa luce, comprensibile come affermazione solitaria dell'io, della sua autonomia che rende di colpo problematici i rapporti con l'altro, ma come realizzazione « nell'amore » per cui l'altro entra in partenza nella realtà e nella coscienza della persona come apertura al dono ed alla comunione illimitata che incomincia a realizzarsi, già adesso, nell'atteggiamento di «servitore» che assume in sé la responsabi· lità per gli altri (rappresentanza) e vive offrendo se stesso per essi (sacrificio).70

    IV.

    GLI AVVENIMENTI DELLA PASSIONE E DELLA MORTE DI GESÙ DI NAZARET .71

    Gli evangeli, come abbiamo già notato, ci offrono un racconto ampio, coerente e ben articolato delle ultime· ore della vita di Gesù dall'episodio della cena al momento della sua morte. In Marco tale racconto ricopre un terzo di tutta la narrazione. Il dato di tale ampiezza narrativa circa i fatti dolorosi meraviglia pensando alla com68 ffl

    10

    W. KASPER, Wer ist Jesus Christus fur uns heute?, 217. H. U. VON BALTHASAR, Theologie der drei Tage, Einsiede!n 1969, 24. Sviluppi di questa idea, si avranno nel terzo volume.

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    posizione degli evangeli avvenuta dopo la resurrezione, quando tutto avrebbe potuto addurre a sottolineare gli aspetti più esaltanti del trionfo sulla morte, il tempo della gloria del Risorto, le sue apparizioni, la vita nuova della comunità, abbreviando o mettendo nel1'ombra la vicenda sconcertante della passione. Ora, invece, questa insistenza su di essa costituisce già una garanzia di fedeltà storica (principio di discontinuità) da parte dei testimoni, fedeltà riflessa anche dal .fatto che, proprio nella storia della passione, tutti e quattro gli evangeli si accordano tra di loro molto più che in qualunque altra parte (principio della molteplice attestazione). 12 Il valore realistico di questa storia emerge ancora considerando particolarmente la narrazione di Marco, specialmente nel suo racconto di base 73 che appare scevro, nel suo tenore narrativo, di elementi esplicativi, almeno interni; esso pone direttamente e bruscamente il lettore dinanzi agli avvenimenti stessi in tutti i loro contrasti, mostrandosi avaro di spiegazioni. Sono i fatti stessi che parlano. Il che mostra l'importanza data ad una storia positiva, fatta di avvenimenti realmente accaduti, in un particolare quadro topografico e cronologico .74 Tuttavia, questa fedeltà ai ricordi dei fatti non è ancora suffì-

    71 N. A. DAHL, Die Passionsgeschichte bei Matthiius, in NTS 2 (1955/56), 17· 32; X. LÉoN-DuFOUR, Passion, DBS VI (1960), c. 1419-1492; ID., Matthieu et Mare dans les récits de la Passion, in B. 40 (1959), 684-696; ID., Les récits de la Passion dans les évangiles synoptiques, AssS 19 (1971), 38-67; P. BENOIT, Passion et Résurrection du Seigneur, Paris 1960,; H. CoNZELLMANN, Histoire und Theologie in den synoptischen Passionsberichten, in « Zur Bedeutung des Todes Jesu », Giitersloh 1967, 35-53; E. LoHSE, La storia della passione e morte di Gesù Cristo (Giitersloh 19(i7), Brescia 1975; A. VANHOYE, Structure et théologie des récits de la Passion dans les évangiles synoptiques, NRT 89 (1967), 135-163; L. CERFAUX, La Passion, in « Jésus aux origines », 187-209; L. ScHENKE, Studien zur Passionsgeschi-· chte des Markus, Tradition und Redaktion in Mk 14, 1-42, Wiirzburg 1971, 20-36; P. MouRLON BEERNAERT, Structure littéraire et lecture théologique de Mare 14, 1752, in « L'évangile selon Mare. Tradition et Rédaction », Gembloux 1974, 241-267. D. SENIOR, The Passion Narrative in the Gospel of Matthew, in « L'évangile selon Matthieu. Rédaction et théologie », Gembloux 1972, 343-357. 12 E. LoHSE, Storia della passione, 14; A. V ANHOYE, Structure, 137: da notare il confronto tra Giovanni ed i Sinottici: mentre Gv nella narrazione della vita pubblica di Gesù riferisce molti particolari che mancano alla tradizione sinottica ( soggiorno di Gesù a Gerusale=e) quando si giunge alla passione i racconti si accostano in maniera sorprendente. Questo avviene specialmente a partire dall'arresto al Getsemani (Gv 18, 3). 73 A. VANHOYE, Structure, 137; L. CERFAUX, A la recherche du récit archaique, in « Jésus », 189 s. 74 A. VANHOYE, Mare: le choc des faits, in « Structure », 139.

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    11

    dente a rispondere alla questione dell'ampiezza di questa storia documentaria la quale non risponde letterariamente ad un genere di « cronaca » o ad un semplice racconto di tipo « biografico », né ad una narrazione di tipo «parenetico », come proposta di esempio edificante da utilizzare da parte dei credenti per motivi devozionali o pietistici. Infatti, cose di grande rilievo appaiono riferite senza la precisione richiesta da una biografia (vedi la cena, il processo ... ), mentre non pochi particolari, in se stessi marginali (vedi la sorte sulla tunica), hanno un certo rilievo. D'altro canto la narrazione dei fatti appare particolarmente avara di dettagli psicologici, cosl preziosi in un genere biografico e parenetico. Altre ragioni aiutano a comprendere il senso di questa storia ed i motivi della sua ampiezza. Anzitutto si deve aver presente che la storia della passione costituiva un ampio tratto narrativo preesistente alla redazione evangelica, anzi, si può ritenere che essa costituiva « l'unico brano della tradizione che già in tempo molto remoto presentava degli avvenimenti inquadrati in un contesto più ampio »,75 come pure che essa si concludeva con la menzione della resurrezione attraverso il racconto del sepolcro vuoto e delle apparizioni. Il che non deve meravigliare se si considera che il primo nucleo della predicazione cristiana, testimoniato dalla tradizione prepaolina era l'annuncio centrale della morte e della resurrezione di Cristo. 76 Ora, proprio alla luce della resurrezione e del dono dello Spirito i ricordi dolorosi potevano riaffiorare alla memoria credente superando i pregiudizi sia giudaici che umani verso la croce, in una intelligenza dei fatti del tutto nuova per i discepoli, la cui chiave di comprensione poteva ritrovarsi sia nella meditazione delle antiche Scritture, sia. in particolar modo nella parola stessa e nel comportamento prepasquale di Gesù. Così nei confronti del pregiudizio giudaico verso un messia crocifisso, la storia della passione appare rispondente in genere ad una esigenza apologetica, con cui si sottopone a giudizio la iniquità di un mondo incredulo e fallace, evidenziando l'innocenza di Gesù e come egli aveva in realtà liberamente assunto questa morte non costretto dalla necessità degli eventi, ma « offrendosi per noi», conformemente alla volontà del Padre (Le 24, 6-7, 24-27). Tale conformità appare, come abbiamo già ve75 76

    M. H.

    DIBEi.IUS,

    Die Formgeschichte des Evangeliums, Tiibingen 1966 (5), 180. La tradizione preevangelica, in «Gesù Cristo», 44-45.

    ZrMMERMANN,

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    duto negli annunci della passione con il « dei» (oportet) che sottolinea l'atteggiamento di assoluta obbedienza al piano di Dio indicato attraverso alcuni fondamentali riferimenti alle Scritture antiche (cfr. Is 53; Sal 22, 1.8.19; 69, 22; 31, 6 ... ). Cosl la pretesa messianica di Gesù appariva perfettamente legittima, non solo nonostante la croce, ma proprio e mediante la Croce. Anche in Marco, che come abbiamo detto, pone il lettore direttamente dinanzi ai fatti, si rivela però questo principio fondamentale di intelligenza della passione nel suo commento editoriale di 14, 49 invitando a scorgere il parallelismo scritturistico della narrazione intera che nella redazione di Matteo tende ad esplicitarsi ed a moltiplicarsi inserendosi apertamente nella trama stessa della narrazione. 77 D'altra parte non si può neppure esaurire il senso di questa storia nella sua motivazione apologetica: essa si rivela una « storia singolare » inquanto contrasta con i criteri propri del pregiudizio umano per seguire le norme di una comprensione di fede. La tendenza dominante della comprensione carnale dell'uomo determina, infatti, la polarizzazione del genere storiografico verso le gesta dei vincitori, portando ad una evasione dalla realtà cruda del dolore e dell'insuccesso. Specie in un contesto di vittoria della fede cristiana, nel periodo postpasquale, la comprensione puramente umana, avrebbe operato portando a sbiadire e sorvolare la realtà sconcer· tante della passione, a ridurre la consistenza del ricordo. Invece l'evento della resurrezione di Gesù non ha affatto operato in questo senso: le stesse apparizioni del Risorto con i segni della passione sottolineano che il Risorto è il Crocifisso. La resurrezione non ha di· stratta la memoria credente dalla croce, ma ha portato alla sua vera intelligenza, mostrando che la sua realtà non è un semplice « negativo » che l'esaltazione deve superare ed abolire, non è una perdita, per quanto tale era apparsa agli occhi del mondo incredulo, ma è un combattimento vittorioso attraverso il quale Gesù ha liberamente compiuto i disegni del Padre. E la resurrezione è il frutto della passione che adempie e non rinnega il sacrificio di Cristo, ne mostra, con il suo volto doloroso, il mistero di grazia che esso porta con sé. In questa intelligenza della croce la storia della passione rivela anche la profonda coerenza (criterio di conformità) con tutta la

    17

    L.

    CERFAUX,

    Selon les Ecritures, in « Jésus

    >>,

    203-206.

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    II

    missione di Gesù incentrata, nel periodo galilaico soprattutto, nell'annuncio della basileia, apparendo come momento decisivo della instaurazione del Regno in tutte le sue dimensioni teologiche, escatologiche, soteriologiche ed ecclesiologiche. Le diverse redazioni evangeliche hanno diversamente accentuato questi aspetti: così Marco ha posto in rilievo il carattere kerigmatico del racconto tendente, attraverso la crudezza dei fatti, a provocare l'atto di fede al Cristo, Figlio di Dio, come si afferma nella fede del centurione (Mc 15, 39). 78 Matteo ha posto in rilievo il carattere ecclesiale sia del racconto stesso che appare come « racconto di una assemblea di credenti» (A. Vanhoye), sia nelle finalità di questa storia che mostra come l'infedeltà del popolo, rappresentato nei suoi capi, determina il passaggio della eredità del Regno ad un popolo che ne produca i frutti (Mt 21, 43). Luca che pur segue anch'egli la traccia fondamentale del racconto primitivo condotto secondo la intelligenza delle Scritture, persegue con speciale accento personale l'invito al discepolo di seguire il cammino della croce al seguito di Gesù. In fine non si può non rilevare, come vedremo, con la storicità della narrazione, l'apporto giovanneo che penetra il mistero dei fatti mostrando il valore della morte di Gesù nella sua efficacia soteriologica ed ecclesiale, come pure il suo valore teologico in rapporto al compimento dell'ora del passaggio dal mondo al Padre.

    1.

    Il Getsemani. 79

    L'esame critico della tradizione riguardante il Getsemani sottolinea che l'episodio della preghiera di Gesù nella imminenza della morte non appartiene alla struttura originaria della narrazione della

    70 P. LAMARCHE, Révélation de Dieu chez Mare, Paris 1976. 79 T. BoMAN, Der Gebetskampf Jesu, NTS 10 (1964), 261-273; Y. B. TREMEL, L'agonie du Christ, LmVie 68, 1964, 79-103; P. BENOIT, Passion, 22-24; B. GERHARDSON. Jésus livré et abandonné d'après la Passion selon Saint Matthieu, in RB 76 (1969), 206-227; R. S. BARBOUR, Gethsemane in the Tradition o/ the Passion, NTS 16 (1970), 231-251; W. H. KELBER, Mk 14, 32-42: Gethsemane. Passion Christology and Discipleship, ZNW 63 {1972), 166-187; M. GALIZZI, Gesù nel Getsemani, Roma 1972; J. W. HOLLERAN, The Synoptic Gethsemane. A. Criticai Study, Roma 1973; A. FEUILLET, L'agonie de Gethsémani. Enquéte exégètique et théologique, Paris 1977; In., Il significato fondamentale dell'agonia nel Getsemani, in «La Sapienza della Croce», I, Torino 1976, 69-85; X. LÉON-DUFOUR, Au iardin de Gethrémani, in « Face ii la mori», 113-144.

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    passione che incominciava con il suo arresto. Ma questo non è un motivo per negare la storicità del racconto 80 che trasmette il ricordo di una preghiera di Gesù alla vigilia della sua passione, subito dopo l'ultimo pasto, prima dell'inizio della sua storia dolorosa, ricordo legato con precisione ad una indicazione topografica (Mc 14, 32; Mt 26, 36). Tale ricordo testimonia che Gesù non sfugge dinanzi al calice, ma è rimasto fedele al Padre. Il valore della storicità del fatto si impone per diversi motivi: lasciando stare la questione dei testimoni,81 anzitutto la conferma dell'esistenza di questo ricordo al fondo della tradizione neotestamentaria la si ritrova in Gv 12, 27s. ed Ebr 5, 7 ove si possono scorgere elementi comuni con la preghiera del Getsemani,82 come pure in qualche testo sparso come il detto di Gesù ai figli di Zebedeo (Mc 10, 38 =Mt 20, 22s.) e l'allusione al momento dell'arresto (Gv 18, 11). Bisogna quindi considerare che la verità storica del fatto si impone: chi avrebbe potuto inventare che il Signore della gloria avrebbe potuto passare attraverso lo spavento, l'angoscia, la tentazione? L'episodio si collo-

    so Tra i negatori della storicità dell'episodio sono da ricordare M. DrnEL!US, seguito da E. LoHsE, T. BOMAN, R. E. BROWN: per la critica di tali posizioni dr. A. FEUILLET, L'agonie, 50 s. Sl Per un certo tempo la questione della storicità del fatto e della preghiera dell'agonia di Gesù era legata al problema dei testimoni. In questo caso, dei tre discepoli, i quali però erano addormentati. Vedi l'impostazione riflessa ancora in A. FEUILLET, Agonie, 42-50. Oggi la storicità del fatto viene affermata con altri argomenti. B2 Per quanto riguarda Giovanni 12, 27-29 si notano come elementi paralleli alla preghiera del Getsemani oltre alla menzione dell'ora (Mc 14, 41) quella del turbamento (Mc 14, 34 = Mt 26, 38) con richiamo del Sa! 41 (42) e della invo· cazione al Padre (Mc 14, 36) con il «salvami da questa ora» insieme alla sua accettazione ( « perciò sono venuto a questa ora») che richiama l'implorazione sinottica del « passi da me questo calice ». Questo parallelismo ben illustrato da X. LÉON-DUFOUR, Le récit de Jean, in « Au jardin », 136-138, non giustifica però del tutto l'affermazione condivisa da molti che vede in Gv 12, 27-29 il parallelo giovan· neo dell'agonia. Forse si può ritenere con A. FEUILLET, Le prélude au drame de !'agonie en Jean, in «Agonie», 162 ss., che Giovanni, che non ha cercato di fare dimenticare la scena dell'agonia dei sinottici (M. J. LAGRANGE) non la riferisce, quanto la prepara. Per quanto riguarda Ebr 5, 7-8 il passo mostra come tutta l'esistenza storica di Gesù (indicata con l'espressione: «nei giorni della sua carne») si è svolta sotto il segno della tentazione. Tuttavia ciò non toglie che nel quadro globale della sua vita si indichi con più precisione il fatto del Getsemani visto che, come osserva C. SPICQ, L'Epitre aux Hébreux, I, Paris 1952, 194, tale documento contiene ben più riferimenti alla vita storica di Gesù di quanto si creda. Per alcuni l'espressione «preghiere e suppliche » a Colui che poteva salvarlo dalla morte sarebbe l'equivalente dell'abbii di Mc 14, 36: A. FEUILLET, L'évocation de !'agonie de Gethsémani dans l'ép!tre aux Hébreux (5, 7-8), in «Agonie», 176-185.

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    Il

    ca in un contesto estremamente scomodo per una comunità di fede come quella apostolica postpasquale, contesto che rivela lo scandalo di tutti, il rinnegamento di Pietro, la solitudine di Gesù abbandonato dai suoi, solo, al cospetto del Padre. La tradizione primitiva tendeva manifestamente a risparmiare a Gesù tutto ciò che avrebbe potuto velare la sua dignità, come pure a sottovalutare il ruolo dei discepoli. Il riferimento di un tale episodio non può spiegarsi che per una ragione di «fedeltà ai fatti». Tuttavia ciò non impedisce di scorgere nella struttura dei racconti l'indicazione del significato fondamentale del fatto che i sacri testi ci trasmettono e che appartiene non alla sovraimposizione di una lettura teologica, ma alla autentica significazione interiore del fatto stesso. Tale struttura del racconto nella sua forma più antica riferita da Marco (14, 32-42) consente di rilevare in essa l'accostamento di una duplice traccia di tradizione: &J la prima dominata dal tema dell'ora e di carattere cristologico, ci presenta Gesù che giunto al giardino del Getsemani si separa dai discepoli, viene colpito dallo sgomento e dalla angoscia (Mc 14, 33b) cadendo a terra e pregando perché, se possibile, passi lungi da lui l'ora (14, 35). La descrizione si presenta in stile indiretto. Qui il testo riferisce l'attitudine di Gesù che nella preghiera resta fedele al Padre dinanzi alla morte. A tale prospettiva più cristologica fanno eco maggiormente Ebr 5, 7-8 e Gv 12, 23.27-30. La seconda di carattere più parenetico richiama l'attenzione sui discepoli che sono invitati a pregare per non essere travolti nella tentazione. La parola di Gesù si presenta in stile diretto insistendo a tre riprese: «e dice loro: la mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate » (v. 34 );

    si In questo senso vanno diversi studi sulla struttura letteraria del racconto del Getsemani: già P. BENOIT, Passion, 30-31 riteneva di poter cogliere diversi strati di tradizione diverse dell'episodio: uno che insiste sul tema cristologico che concerne Gesù che prega ed accetta l'ora «per noi» e l'altro più parenetico che concerne i cristiani che devono imitare Cristo e che si condensa nel « vegliate e pregate » insistendo sulla angoscia di Gesù e sul soccorso celeste, per mostrare ai fratelli come il Padre non abbandona nella prova. Queste diverse presentazioni, osserva P. Be· noit, lungi dal contraddirsi si arricchiscono reciprocamente. Secondo E. LoHSE, 75 la forma diretta della preghiera del v. 36 sarebbe più recente di quella indiretta del v. 35. Tuttavia, osserva giustamente A. GEORGE, ]hus devant sa mort, 57, n. 47 la presenza dell'abbà nel v. 36 dà una ragione di sicurezza della antichità della preghiera del v. 36 il quale porta a favore l'intera tradizione evangelica (non escluso Gv 12, 27). ~ più facile pensare quindi che la forma indiretta e condizionale sia un ritocco tendèhte ad attenuare la durezza del v. 36. Per la ripresa del discorso delle due tradizioni vedi X. LÉON-DUFDUR, Au iardin de Gethsémani, 121.

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    quindi allontanatosi diceva: « Abba, Padre. Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che vuoi tu» (v. 36). Quindi tornato dai discepoli e trovatili addormentati rivolge loro l'ultimo appello alla vigilanza ed alla preghiera per non cadere in tentazione. Lo spirito infatti è pieno d'ardore, ma la carne è debole (v. 37-38). Il comportamento di Gesù nella preghiera al cospetto della prova appare qui un atteggiamento esemplare per i discepoli. La redazione lucana sottolinea soprattutto questo secondo indirizzo di tradizione, mentre Mc/Mt le uniscono insieme in un unico racconto. Viste le difficoltà di una simile lettura diacronica che tenga conto dell'origine e dello sviluppo delle due tendenze, la migliore chiave di interpretazione del racconto sembra quella che cerca di evidenziare i poli fondamentali che risaltano nello stato attuale del testo delle diverse redazioni (lettura sincronica). 84 Ora, in una tale lettura, si possono rilevare due assi portanti che attraversano en· trambi gli indirizzi della tradizione: uno che lega Gesù ed il Padre e l'altro che unisce Gesù ed i discepoli. Il punto di partenza sembra essere « il calice » che esprime il volere del Padre e che suscita il tremore di Gesù. Il « calice», nei sinottici, ove come abbiamo ora detto, esprime la manifestazione della volontà del Padre, ha un significato più largo che nell'AT: 85 esso, infatti, nelle poche volte che viene usato, indica talora la sorte dolorosa di Gesù e dei discepoli (Mt 20, 22s.; Mc 10, 38s.), talora il sangue dell'alleanza o l'alleanza nel sangue (Mt 26, 27=Mc 14, 24s.; Le 22, 20= 1 Cor 11, 25), esso è segno di benedizione e di grazia. Il « calice» è reso con « ora » in Marco e Giovanni: essa esprime il disegno di Dio che si compie nella sorte del Figlio dell'Uomo che per il volere imperscrutabile del Padre, viene « consegnato » nelle mani dei peccatori (Mc 14, 41; Is 53, 5). È soprattutto dinanzi al Padre che si giuoca questo dramma dell'agonia nel momento supremo dell'ora, in un atteggiamento di confidenza filiale espressa dalla preghiera del-

    X. LÉoN-DUFOUR, Essai de lecture synchronique, 123 s. Nell'AT il senso peggiorativo del «calice» è più presente di quello favorevole: esso si presenta spesso come espressione dell'ira divina verso Gerusalemme e Giuda: Is 51, 17-22; Ger 25, 15-27-31; 49, 12; Ez 23, 31-.34; Sai 11, 6; 60, 5; 75, 9; vedi anche Apoc 14, 10; 15, 7; 16, 17; 18, 16. Negli evangeli il calice è segno di benedizione ed azione di grazie, come nella cena (Mc 14, 23: cfr. Sai 16, 5; 23, 5; 116, 1.3), mà anche giudizio di Dio. 84

    15

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    l'abba e dalla dichiarazione che « tutto è possibile a te », onde, malgrado l'angoscia, la sua petizione viene accolta. La preghiera di Gesù rivela due richieste apparentemente contrarie che alcuni esegeti tendono a spiegare sottolineando nella prima ( « allontana da me questo calice ») una certa tensione o di· stanza (sorprendente dopo la cena!) tra il volere (umano) di Gesù ed il Padre; nella seconda il superamento di ogni resistenza con l'accettazione incondizionata del suo volere. Ma una più approfondita comprensione dell'angoscia e della preghiera di Gesù richiede la posizione dell'accento non tanto sull'atteggiamento di una certa resistenza umana dinanzi all'orrore ed allo spavento della morte, 86 sentimento umano ben comprensibile, ma che potrebbe portare fuori strada nella comprensione autentica del dramma dell'agonia. Bisogna considerare, infatti, la previsione e l'accettazione della propria morte da parte di Gesù, .la sua offerta di sé, nel calice della nuova alleanza, già rilevata a proposito della cena di addio, per escludere che Gesù chieda al Padre l'allontanamento della sua morte. La preghiera invece sembra acquistare il suo vero significato in una prospettiva messianica che coinvolge tutto il senso della agonia. 87 In realtà il senso dell'angoscia che si riversa nell'animo di Gesù richiama altri episodi di tristezza ed angoscia dei profeti come Giona (4, 9=Mc 14, 34) ed Elia (1 R 19, 4=Lc 22, 43). Un tratto comune caratterizza questi episodi biblici: i profeti sono scoraggiati dalla inutilità apparente dei loro sforzi. È la grande prova dei profeti che richiama anche il pianto di Geremia, il grido e tremore del giusto perseguitato (Sal 31, 23; 39, 13), specialmente l'angoscia del Servo sofferente che offre la chiave di interpretazione dell'angoscia di Gesù: « egli mi ha detto: tu sei mio Servitore nel quale mi glorificherò. Mentre io dicevo: mi sono affaticato invano, è per niente che io ho usato le mie forze, in realtà il mio diritto sussisteva presso Yahvè, la mia ricompensa presso il mio Dio» (Is 49, 3-4 ). In questa luce profetica, la prima parte della preghiera di Gesù esprime non già l'angoscia ed il terrore per la morte, quanto la sua ansia per la salvezza del suo popolo, la tristezza per la inu-

    86 In tal senso già M.-J. LAGRANGE, Evangile selon Saint Mare, Parìs 1942, 387 per il quale il motivo della tristezza sarebbe il timore della morte, l'orrore della passione. 87 A. FEurq.ET, L'agonie de Gethsémani, épreuve mersianique, in « L'Agonie »,

    200 s.; 206-213.

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    tilità dei suoi sforzi e l'espressione del suo personale desiderio di porgere una ulteriore occasione di ravvedimento alla città di Gerusalemme: « sembra che Gesù domandi piuttosto una dilazione prima di morire, un prolungamento della sua missione, un nuovo sforzo per tentare di salvare il suo popolo. Egli riconosce nel medesimo tempo che è là il suo ' desiderio ' personale (è la sfumatura del verbo tele!n) che si oppone al desiderio del Padre. In questo con· testo, il desiderio del Padre è che egli accetti 'ora' questo calice ». 88 Non già la paura della morte, ma l'angoscia perché questa morte che è voluta da Gesù come offerta e dono supremo di salvezza, divenga giudizio escatologico che sancisca il rifiuto di Israele, induce Gesù a pregare il Padre perché se possibile si allontani il calice dell'ira divina. Ma ormai «l'ora è venuta» (Mc 14, 41) e Gesù con piem libertà si rimette al volere del Padre. Il dramma dell'agonia del Getsemani che vede, al centro, Gesù nel suo rapporto al Padre, mostra anche il rapporto di Gesù con i discepoli. La coppia Gesù-discepoli si presenta sotto l'aspetto dialettico di una congiunzione-separazione: Gesù viene con i discepoli, poi li lascia, poi torna di nuovo da essi. Questo movimento di riunione e di separazione è collegato ad un insieme di confidenze e preghiere, di esortazioni e di rimproveri. Nei sinottici a questa vicinanza-distanza corrisponde l'altra coppia dialettica di termini: vegliare-dormire. Alla vicinanza e comunione corrisponde il vigilare,. alla distanza-separazione l'addormentarsi dei discepoli, la loro nonpresenza spirituale al dramma della sofferenza di Gesù che invece veglia e prega. Il richiamo alla preghiera ed alla vigilanza è messo in rapporto alla tentazione: al Getsemani, Gesù non è minacciato dalla tentazione perché prega: i discepoli invece sono mipacciati dal potere della tentazione perché non pregano. 89 Il rapporto Gesùdiscepoli possiede una notevole portata parenetica. Nel dramma di Gesù, Figlio di Dio fatto uomo, che soffre dinanzi al Padre ed accetta la prova suprema della derelizione mostrando nella preghiera stessa la sua forza, c'è un forte richiamo esemplare: « Pietro, Giacomo e Giovanni hanno assistito a questo combattimento e l'hanno raccontato. La prima comunità cristiana ha riflettuto ed assimilato questa esperienza: nella sua predicazione ne ha tratto varie lezio-

    88 89

    A. GEORGE, Jésus devant sa mort, 46. X. LÉON·DUFOUR, ]ésus et les disciples, in « Face à la mort », 123-126.

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    GESÙ DI NAZARET, SIGNORE E CRISTO •

    II

    ni, insistendo talora sull'accettazione eroica di Gesù talora sul soccorso divino che a lui non mancava ».9-0 2.

    L'arresto di Gesù. 91

    Apre il primitivo racconto della passione di Gesù che comprendeva, oltre questo episodio, il suo processo e condanna, la sua crocifissione e morte. Il fatto è attestato, anche se con alcune differenze, da tutta la tradizione evangelica, buon indice quindi di sicura storicità.92 In Marco, la descrizione dei fatti viene eseguita nella loro cruda realtà senza spiegazioni: qui non appare alcuna parola di Gesù né a Giuda, né al discepolo che sguaina la spada. La sola parola riferita alla turba armata rende ancor più scioccante la scena mostrando l'ingiustizia degli uomini per il loro triste contributo alla passione. Gesù protesta contro il modo indegno di trattarlo, arrestandolo come un brigante e di nascosto, mentre egli ogni giorno era in mezzo a loro annunciando il messaggio (Mc 14, 48-49).Q3 Tuttavia l'accenno di Marco 14, 49 («tutto questo avviene perché si adempiano le Scritture ») offre la chiave esplicativa del fatto. In Matteo, le delucidazioni crescono con le parole di Gesù che accompagnano l'episodio (Mt 26, 50.52-54.55-56). L'intento di Matteo è quello di sottolineare il cammino di Gesù verso la croce guidato da una piena conoscenza e libertà, da una sovrana padronanza degli avvenimenti, da un definitivo rifiuto sia della violenza che lungi dal salvare gli uomini li asserve in un destino di morte (26, 52) e degli interventi miracolosi della potenza di Dio (26, 53) propria dei sogni di un messianismo terrestre che egli aveva costantemente rifiutato. L'accettazione libera dell'ora della passione, conforme alle Scritture (26, 54-56) cioè al volere del Padre, risplende. Matteo fa così risaltare la prospettiva ecclesiale di lettura dei fatti attraverso il criterio delle Scritture che ne illuminano la portata una volta che il dramma si è concluso nella luce della resurrezione. 90 P. BENOIT, Passion et Résurrection, 32-33. X. LÉON-DUFOUR, Passion, DBS IV (1960), c. 1459-61; A. GEORGE, Jésus devant sa mort, 47; P. B!lNOIT, Passion, 34-59; A. VANHOYE, Les récits, 139-142. 92 Mc 14, 43-52; Mt 26, 47-56; Le 22, 47-53; Gv 18, 1-11; L. CERFAUX, Jésus, 194-195. 93 P. BENOIT, Jésus devant le sanhédrin, in « Exégèse et Théologie », I, Paris 1961, 304-305 nota che tali parole vicine a Gv 18, 20 sarebbero più nel loro contesto nella seduta del processo dinanzi alle autorità giudaiche. 91

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    La redazione di Luca mostra lo stile dello storico con una migliore ordinazione di fatti, pur nella propria visuale. Egli poco insiste sull'episodio dell'arresto, come del resto, nel racconto della passione, sulle scene degli oltraggi (non menziona né flagellazione, né coronazione di spine). La sua attenzione è rivolta soprattutto a far risaltare la dignità e la grandezza morale di Gesù. Questo aspetto maestoso che appare soprattutto nella redazione giovannea (Gv 18, 4-6s) tende a sottolineare la sua padronanza degli eventi che stanno per compiersi. È tipico della redazione giovannea mostrare questa visione di Gesù terreno permeato già dell'alone di gloria che gli viene dal Padre quale anticipazione della sua esaltazione pasquale: « Giovanni esprime in un altro modo ciò che essi (i sinottici) hanno già detto: Gesù compie le Scritture, rifìuta di difendersi, conduce il suo destino. Egli si mostra e dice: 'Io sono ' espressione frequente nel vangelo di Giovanni poiché essa fa sentire con potenza la dignità divina di Gesù. Al Sinai, Yahvè dice: 'Io sono colui che sono ' (Es 3, 14 ). ' Io sono ' è l'essere di Yahvè, è l'essere di Dio ' ». 94 I soldati sono colpiti dalla maestà di Gesù, sono prostrati dinanzi alla gloria del Signore che sovranamente conduce il succedersi degli eventi, lasciandosi liberamente arrestare. 3.

    Il processo di Gesù. 95

    Il processo di Gesù è un avvenimento· particolarmente importante per la narrazione storica della passione, non solo come fatto realmente accaduto nel momento culminante della sua vita, ma per la sua stes~a intrinseca qualità di « fatto pubblico » che mostra cioè la vicenda della missione e della morte di Gesù nel contesto della società religiosa e politica del tempo e delle trame di questa società che ha concorso umanamente alla uccisione di Gesù. La importanza del processo sta nell'evidenziare una componente storica essenziale della croce, la sua modalità di avvenimento di portata

    P. BENOIT, Passion, 58. X. LfoN-DUFOUR, Passion, cc. 1461-1466; 1486-1487; P. BENorT, Le procès de Jésus, « Exégèse et théologie », I, 265-289; Io., ]ésus devant le sanhédrin, in « Passion », 110-132; J. BLINZLER, Le procès de ]ésus, Paris 1962; S. G. F. BRANON, Jesus and the Zea/ots, Manchester 1967, 1-25; W. TRILLING, ]ésus devant l'histoire, 175-188; A. VANHOYE, Les récits, 142-149; P. LAMARCHE, Procès et outrages, in « Revélation de Dieu chez Mare», Paris 1976, 107-118. 94 95

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    sociale, aspetto spesso misconosciuto dalle speculazioni teologiche e dalle sue presentazioni devozionali. Certo che la morte di Gesù, come abbiamo già mostrato precedentemente, è un avvenimento affrontato da lui con libertà con attitudine di offerta suprema di amore per il Padre e per gli uomini, divenuto un momento intrinsecamente determinante per la loro salvezza. Ma questa sostanza teologico-salvifica dell'avvenimento non deve sminuire quella del giuoco degli eventi umani e delle cause umane determinanti la sua realtà cruenta, i giuochi di potere che con i loro strumenti oppressivi (condanna, crocifissione) hanno voluto eliminare lo scomodo profeta di Nazaret. La morte di Gesù non è infatti spiegabile in modo adeguato, nè solamente per volere divino, che farebbe dell'avvenimento il risultato di un destino annullante il giuoco delle libertà storiche, né solamente per la legge universale della morte umana che grava sul mondo della carne peccatrice. Se la morte di Gesù rientra nell'orizzonte della condizione umana soggetta alla consegueza del peccato, in forza del realismo della incarnazione, la « specificità storica » di questa morte sta nel suo essere stata determinata da una ingiusta condanna e da una violenta esecuzione di questa, a motivo della predicazione di Gesù, per cui essa è un « martirio ». Il processo di Gesù è di importanza decisiva per una « comprensione storica » della vicenda della passione e morte e fa risplendere la grandezza della sua dignità, il suo infinito amore e la malvagità degli uomini. Questo fotto, pur così importante per cogliere certi reali e determinanti risvolti umani della vicenda della morte di Gesù è riferito però, nella tradizione evangelica, con una narrazione che non risponde a dei criteri biografici, lasciando, sotto questo profìlo, la questione aperta a molti problemi di difficile soluzione. L'intento vero della narrazione può essere colto avendo presente il duplice registro con cui viene documentato il fatto, il rapporto cioè alle autorità giudaiche ed alle autorità romane. La stretta unità di quei. sti due aspetti del processo, il loro rimando reciproco, danno al fatto, nell'insieme, il valore di una risposta della società giudaica del tempo di Gesù alla sostanza della sua predicazione e della sua missione. Il processo di Gesù non è, perciò, nella testimonianza evangelica, un fatto marginale o casuale, determinato solo da un imprevisto precipitare degli eventi, ma la tappa finale di tutto un processo di reazione provocato dal messaggio evangelico di Gesù sull'avvento del Regno, dal suo comportamento e dall'insieme della

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    sua vita pubblica. La giustizia e l'amore del Regno non potevano risplendere in un mondo di tenebre senza che queste avessero cercato di soffocarne la luce. Per quanto riguarda il primo aspetto del processo dinanzi alle autorità giudaiche, documentato dalla quadruplice redazione evangelica (Mc 14, 53-64; Mt 26, 57-66; Le 22, 66-71; Gv 18, 12-23) esso si impone sostanzialmente come fatto avvenuto: una decisione sulla sorte di Gesù si doveva prendere da parte del sinedrio per portare la questione dinanzi al governatore romano: « per presentargli un motivo valevole era necessaria una seduta come quella, La storicità sostanziale della scena pare dunque solida ».96 I problemi nascono sul significato giuridico di quella seduta nella situazione politica della palestina di allora. Si poteva parlare di un vero processo giudaico? Quale il significato di quella seduta? Ha realmente avuto quel carattere di solennità che le danno i sinottici? Il carattere di un vero e proprio processo giudiziario da parte delle autorità giudaiche appare difficilmente sostenibile sulla base della conoscenza che abbiamo delle procedure giudaiche del tempo.97 Ma questo non è un motivo per negare il valore di procedura officiosa imbastita in una seduta mattutina del sinedrio e conclusasi con una condanna. Non sarebbe stata possibile, infatti, come osserva J. Blinzler, la più antica menzione di Gesù nel Talmud, di una sua condanna ed esecuzione da parte dei giudei, né la testimonianza di 1 Ts 2, 15 sui giudei che uccisero il Signore Gesù, se questi non fosse stato con.· dannato che da un tribunale romano. Del resto, un processo romano non era comprensibile nella palestina di allora senza una istruzione giudaica preparatoria. Una seduta del sinedrio, dunque, avente lo scopo di giungere ad una decisione definitiva sulla sorte di Gesù non può essere seriamente messa in dubbio.98 ·

    P. BENOIT, Passion, 127. Ciò vale considerando che al tempo cli Gesù non era in vigore il diritto fariseo, codificato più tardi nella Mi5na, ma il diritto sadduceo di cui noi sappiamo poco. J. BLINZLER, Le procès, 219-238; ID.,La prédication de Jésus dans l'évangile de Mare, in « Jésus dans !es évangiles », Paris 1971, 86 ss. P. BENOIT, Passion, 130; O. CuLLMANN, Dieu et César, 30 s. 98 Alcuni critici hanno voluto vedere nel processo giudaico il tentativo di opporre, da parte della Chiesa primitiva, una dichiarazione solenne di Gesù sulla sua dignità messianica, alle macchinazioni del giudaismo: N. PERRIN, Mark 14, 62: Tbe End Product of a Christian Pesher Tradition? in NTS 12 (1965-66), 150-155. O. CULLMANN (Dieu et César) tende a dare più importanza al processo romano veduto già iniziato con l'arresto nel Getsemani da parte della coorte romana: non nega però 96

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    Quanto alla consistenza di questa seduta che sembra aver avuto due tempi uno più istruttorio ed uno più formale giuridico, di buon mattino, conclusosi con l'accusa di bestemmia e la decisione di deferire Gesù a Pilato,99 la questione verte sulle divergenze con la redazione del quarto evangelo. Il che ci porta a chiederci se la discussione al sinedrio si sia proprio svolta come i sinottici raccontano, cioè con l'introduzione dei falsi testimoni (Mc 14, 55-59=Mt 26, 59-60), con l'interrogatorio del Sommo Sacerdote (Mc 14, 60-61 = Mt 26, 62-63), 100 l'affermazione solenne di Gesù (Mc 14, 62=Mt 26, 64=Lc 22, 67b-70), la sua condanna per bestemmia (Mc 14, 63-64=Mt 26, 65-66=Lc 22, 71). La redazione del quarto evangelo, infatti, non parla di una seduta nel sinedrio, ma del trasferimento di Gesù dinanzi ad Anna (Gv 18, 13) del suo interrogatorio sopra i suoi discepoli e la sua dottrina ( 18, 19 ). Gesù però si rifiuta di rispondere affermando di aver parlato apertamente dinanzi a tutti i giudei nella sinagoga e nel tempio ove essi si danno convegno. Tutti sanno ciò che egli ha detto (18, 20-21). Di fronte a tale rifiuto segue lo schiaffo del ministrante e la replica di Gesù ( 18, 22.. 23 ), quindi il suo trasferimento a Caifa, che era il sommo sacerdote di quell'anno (18, 13.24). La redazione di Giovanni non solo non riferisce la risposta solenne di Gesù al Sommo Sacerdote (Mc/Mt) o al sinedrio (Le), anzi, mostra che Gesù si rifiuta di rispondere avendo già parlato a tutti apertamente. La questione della differente presentazione dell'interrogatorio e dell'atteggiamento di Gesù da parte dei sinottici e del quarto evanla storicità della istruttoria giudaica. Del tutto inaccettabile è invece la radicalizzazione politica di S. G. BRANDON, The Trial o/ ]est« o/ Nazareth, London 1968, per il quale il primo processo sarebbe stato del tutto inesistente per sostenere il solo carattere di condanna politica di Gesù. Sulla questione storica di questa lettura vedi quanto già abbiamo detto a proposito del rapporto tra Gesù ed i zeloti. 99 Da notare come in Mc/Mt la seduta notturna ha molto rilievo: carattere istruttorio e conclusione con l'accusa di bestemmia, mentre è accennata appena la seduta mattutina (Mc 15, 1; Mt 27, 1) con la decisione di deferire Gesù a Pilato. In Luca, invece, la menzione del primo momento: quello dell'introduzione di Gesù nella essa del Sommo Sacerdote (22, 54) non ha alcun rilievo, mentre importanza assume, dopo il rinnegamento di Pietro e gli oltraggi a Gesù, la seduta del sinedrio avvenuta «quando si fece giorno» (22, 66). La presentazione di Luca appare storicamente più verosimile anche se essa mostra una prospettiva «personale-parenetica » propria del terzo evangelista (A. VANHOYE, Les récits, 145-146). La redazione di. Luca sulle due sedute appare conforme a quella del quarto evangelo che parla di due sedute, una presso Anna, la notte dopo l'arresto (18, 13) e l'altra il mattino presso Caifa (18, 24). 1oo In Luca 22, 66-71 è il sinedrio che rivolge due domande a Gesù e trae le conclusioni .dalle sue risposte.

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    gelo può essere spiegata, con la verosimile ipotesi di P. Benoit, a motivo del piano redazionale diverso dei sinottici e del quarto evangelo: quelli infatti, seguendo il piano di Marco parlano di una sola andata di Gesù a Gerusalemme e non menzionano il ministero di Gesù nella città santa, perciò raccolgono l'insegnamento di Gesù nell'ultima settimana a Gerusalemme e nel confronto :finale con il giudaismo nella seduta dinanzi al Sommo Sacerdote ed al Sinedrio: « essi ne avevano il diritto poiché la scena finale, la seduta del sinedrio ha avuto luogo; ma essi hanno raccolto in modo schematico, la sostanza di più dibattiti, gli argomenti fondamentali del problema: Gesù parla contro il tempio, propone un culto nuovo, pretende essere il Messia, il Cristo, Figlio di Dio ed i giudei non l'accettano ». 101 Giovanni invece con più precisione, racconta il primo ministero di Gesù a Gerusalemme e quello compiuto in occasione delle sue ulteriori andate nella città santa. Ciò gli consente di esporre i temi del dibattito sulla sua dignità messianica con i giudei a più riprese, come abbiamo già accennato parlando della cristologia di Gesù. Co· sì sotto il portico di Salomone, in occasione della festa dei tabernacoli, egli viene attorniato dai giudei che lo interrogano: «se tu sei il Cristo, dillo a noi chiaramente» (Gv 10, 23) e Gesù risponde: «io ve lo ho detto e voi non mi credete» (10, 25: vedi Le 22, 8). Nella festa della dedicazione i giudei lo accusano di bestemmia (Gv 10, 33) e vorrebbero lapidarlo (10, 31; cfr. 8, 59). Il dibattito tra Gesù ed i giudei si sarebbe quindi svolto già sostanzialmente prima della passione, in occasione delle ultime andate di Gesù a Gerusalemme. In tale dibattito, infatti, Gesù ha proclamato « apertamente » dinanzi a tutti i giudei che presenziavano, la sua altissima pretesa messianica, la propria origine ed identità divina (Gv 8, 58; 10, 30) per cui aveva avuto l'accusa di bestemmia e stava per essere lapidato. Bisogna però guardarsi dal ritenere non storico il racconto del processo fatto dai sinottici. Questi riassumono la sostanza dei vari dibattiti di Gesù a Gerusalemme, nel momento cruciale della seduta nel sinedrio, dando ad essa un carattere ancora più solenne e formale, giuridicamente, di quanto forse essa abbia di fatto avuto. In questo modo, essi non hanno tradito la storia perché la verità della dottrina di Gesù è da loro riferita in sintesi, ma fedelmente, ed in occasione di una seduta che realmente si è svolta. Così Marco

    101

    P.

    BENOIT,

    Passion, 129.

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    e Matteo mettono in risalto l'istruttoria notturna condotta con l'intenzione di far morire Gesù (Mc 14, 55; Mt 26, 59): essi presentano la deposizione dei falsi testimoni che discordano tra loro (Mc 14, 56), annotando in particolare l'accusa mossa per le sue parole riguardanti la distruzione del tempio (Mc 14, 57-59; Mt 26, 61). Alla incertezza ed inconsistenza delle accuse dei falsi testimoni succede la domanda del Sommo Sacerdote: ~< sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto? «(Mc 14, 61b). Tale domanda è espressa da Matteo con maggiore solennità (Mt 26, 63 ). Tutta la questione del processo giudaico culmina nella domanda cristologica fondamentale sul· la identità personale di Gesù, la cristologia è al centro del dibattito. Già abbiamo mostrato come l'ultima parte del ministero di Gesù a Gerusalemme sia stata caratterizzata dall'accento cristologico esplicito della sua predicazione. La scena nel sinedrio, stando alla redazione sinottica, costituisce il momento culminante della accentuazione cristologica protesa verso la forma più solenne della rivelazionene della identità di Gesù, del suo messianismo trascendente, del suo ruolo di giudice escatologico. L'asse del processo verte infatti sulla parola« Cristo» (Mc 14, 61=Mt 26, 63; Le 22, 67). Ora, bisogna avere presente che per i giudei l'autoaffermazione della dignità messianica non sarebbe stata cosl scandalosa da meritare l'imputazione di bestemmia se Gesù non avesse avanzato una pretesa messianica inaudita. Egli rivendicava, infatti, « apertamente » (Gv 18, 20) una sua identificazione divina. Il sinedrio ed il sommo sacerdote conoscevano bene tali pretese sostenute da Gesù nel soggiorno gerosolimitano (Gv 8, 58; 10, 30.38). Per questo, per quanto fosse conforme alla mentalità giudaica identificare « Cristo » con Figlio del Benedetto, inteso in senso metaforico 102 tuttavia la domanda del sommo sacerdote nel suo secondo appellativo (Figlio del Benedetto=Figlio di Dio) tende ad assumere un significato più specifico. Con essa, il sommo sacerdote vuole por-

    ioz P. BENorr, Passion, 122 accosta i due termini della domanda del Sommo Sacerdote: « Cristo» e «Figlio del Benedetto o Figlio di Dio» facendo del secondo una semplice apposizione dd primo: «che poteva, infatti, egli dice, significare per un giudeo « Figlio di Dio » se non una relazione generica con Dio, come i giusti, il re d'Israele e quindi lo stesso Messia?». Tuttavia nori si può negare e Benoit lo concede (p. 123 ), che la seconda parte della domanda tende a sottolineare un significato più specifico di vicinanza o identificazione con Dio a motivo del riferimento della domanda stessa alla predicazione gerosolimitana di Gesù, alle dispute con lui sulla sua identità.

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    tare Gesù alla dichiarazione, dinanzi al sinedrio, del senso inaccettabile e scandaloso, per loro, della propria identità messianica consistente in una identità divina. Questo procedimento che conferisce un senso più specifico, all'appellativo « Figlio di Dio » sulle labbra dell'interrogante è ben più marcato dalla redazione lucana nella quale l'interrogativo, svoltosi solo da parte del sinedrio, e nell'unica seduta «quando si fece giorno» (Le 22, 66), si sdoppia in due parti: «se tu sei il Cristo, diccelo» (22, 67) e «Tu dunque sei il Figlio di Dio»? (22, 70). Tra le due parti della domanda intercorre la risposta solenne di Gesù (22, 68-69). Può darsi che questo procedimento redazionale sia ispirato dal riferimento del racconto ai lettori cristiani per i quali il termine «Figlio di Dio» aveva ormai assunto un significato dogmatico, superiore al titolo messianico, corrente nel giudaismo, di « Cristo », 103 ma può anche essere un voler dar rilievo alla reale intenzione storica della domanda del sinedrio, visto che nella sua esposizione generale del processo, la redazione di Luca non abbandona le preoccupazioni storiche. Così si può ritenere che la domanda del Sommo Sacerdote (Mc/Mt) o del Sinedrio (Le) era diretta di proposito a provocare la risposta di Gesù sul senso del suo messianismo. Ora, la risposta di Gesù costituisce il punto culminante della redazione sinottica sul processo giudaico: là ove il processo doveva costituire un luogo di condanna della presunta colpevolezza del profeta galileo, diviene in realtà un luogo della sua suprema rivelazione messianica. ! la risposta di Gesù, infatti, che costituisce il centro di tutta la pericope dell'interrogatorio e che per la sua efficacia rivelativa supera la stessa domanda del Sommo Sacerdote.104 Questa risposta si può suddividere in due parti: nella prima, stando alla redazione di Matteo (26, 64), confermata da quella di Luca (22, 67-68), Gesù replica alquanto evasivamente («tu lo dici ») 105 mostrando di non essere lui ad avere preso l'iniziativa di

    103 Bisogna confrontare questo procedimento letterario che in Luca passa dal termine di « Cristo-Messia » a quello di «Figlio di Dio » con quello che nel terzo evangelo si svolge nell'annunciazione in cui Gesù è presentato successivamente prima come Messia, «Figlio di David » e quindi come «Santo» e «Figlio di Dio» 1, 31-33-35. 104 P. LAMARCHE, La déclaration de Jésus devant le sanhédrin, in « Christ Vivant. Essai sur la christologie du Nouveau Testament », Paris 1966, 150. 105 Il tipo di risposta: « tu lo dici-» in aramaico appare piuttosto evasiva. A. VANHOYE, Les récits, 144. Per D. R. CATGHPOLE, The Answer of Jesus to Caiapbas (Mt 26, 64), NTS 17 (1970-71), 213-226, la risposta è tendenzialmente affermativa,

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    proclamare la sua dignità in una sede in cui nessuno accettava la sua parola, come bene fa intendere Luca (« se ve lo dico, non mi crederete ») (22, 6 7) .106 Il signilicato della risposta evasiva di Gesù può essere compreso considerando che la domanda del Sommo Sacerdote è rivolta non sull'avvenire, ma sul presente: essa domanda chi egli « è », se cioè egli « è » il Messia, il Figlio di Dio. Ma la risposta di Gesù più che insistere sul momento presente, si proietta sul futuro. Egli, infatti, nel presente è già Figlio di Dio e lo aveva « apertamente » dichiarato, ma sulla parola e sui segni non era stato creduto. Ormai la sua risposta non insiste più sulle parole: la sua identità sarà manifestata dai fatti. La sessione alla destra di Dio mostrerà in che senso egli è il Messia, il Figlio di Dio e lo mostrerà non in maniera terrestre, ma celeste. Cosl Gesù resta vago o sorvola sulla condizione presente di Messia {il già adesso), per orientare la sua risposta verso l'immediato futuro, in cui la condizione messianica sarà apertamente manifesta, essendo egli intronizzato come Figlio di Dio in potenza (Rm 1, 4), come Signore e Messia {At 2, 36). Chi Gesù è (Figlio di Dio) sarà rivelato pienamente dalla posizione a cui giungerà presso il Padre.1crr La seconda parte della risposta di Gesù è la più importante e decisiva per cogliere il suo senso rivelativo. Essa è introdotta in Matteo da una particella avversativa (plén) mostrando una certa tensione con le parole evasive precedenti e si sviluppa con l'affermazione solenne: « anzi, io vi dichiaro che d'ora in poi vedrete il Figlio dell'Uomo assiso alla destra della potenza, venire sulle nubi del cielo» (Mt 26, 64; Mc 14, 62). Il primo problema interpretativo che presentano queste parole di Gesù riguarda l'avvenimento futuro a cui alludono. Diversi esegeti odierni vogliono vedere in esso indicata l'immediata condizione di gloria a cui Gesù sarebbe stato ma con riserva. Vedi l'argomento letterario di P. LAMARCHE, Révélation de Dieu chez Mare, 110. 106 In Marco sembra che Gesù risponda più positivamente: «Io lo sono» (14, 62) ponendo cosl una continuità maggiore tra la prima e la seconda parte della risposta di Gesù. Il che apparirebbe più conforme al piano proprio di Marco che tende a mostrare come già nella passione Gesù è rivelato « Figlio di Dio » (P. LAMARCHE, ivi, 127). C'è però anche chi tenta un accordo tra Marco e Matteo sulla base di una variante in cui il testo afferma: «Tu dici che io lo sono» (Vedi J. MERK, NT, 177, n. 62). ICT7 A. VANHDYE, Situation du Christ, Paris 1969, 106·107; P. LAMARCHE, Révélation de Dieu, 110-111.

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    esaltato attraverso la resurrezione: «voi vedrete il Figlio dell'Uomo coronato da Dio, assiso alla sua destra. Gesù annuncia la sua intronizzazione, come Messia glorioso. Il Gran Sacerdote ed i giudei, se vorranno aprire gll occhi, vedranno il Cristo risuscitare, la Chiesa trionfare, il giudaismo scomparire ». 108 Certamente l'indicazione della propria esaltazione pasquale, come avvenimento imminente, non può essere esclusa da queste parole profetiche di Gesù, anzi esso è il fatto indicato come immediatamente prossimo; non si può neanche escludere però, come affermano altri esegeti,11l'J la prospettiva parusiaca: si tratta come dell'annuncio di un evento globale: l'esaltazione alla destra di Dio ed il futuro ritorno di Gesù. La pasqua di glorificazione è infatti l'evento che conclude la storia personale di Gesù e che a sua volta annuncia ed anticipa la sua parusia ancora futura. L'uno e l'altro, per quanto distinti, sono veduti come un unico avvenimento.110

    108 P. BENOIT, Passion, 125. L'A. come altri, scartano l'interpretazione parusiaca delle parole di Gesù in questione. È vero che nel NT per descrivere la venuta finale di Gesù si parla di nubi; ma il luogo danielico a cui Gesù si rifà chiaramente parla del Figlio dell'Uomo che sale sulle nubi per ricevere l'impero eterno dei santi. È questa l'immagine, egli dice, che Gesù riprende: qui Gesù non dice: vedrete il Figlio dell'Uomo venire verso di voi (alla parusia), ma vedrete il trionfo del Fi· glio dell'Uomo «salire» verso Dio, alla sua destra. Nel senso di P. BENOIT dr. già M. J. LAGRANGE, Évangile selon Saint Mare, Paris 1928; T. F. GLASSON, The Second Advent, London 1947; ID., The Reply to Caiaphas, NTS 7 (1960-61), 88 s. 109 H. K. Mc ARTHUR, Mark XIV, 62, NTS 4 (1957-58), 156-158; M. E. BorsMARD, RB 67 (1960), 149; A. FEUILLET, Le triomphe du Fils de l'homme d'après la 4éclaration du Christ aux Sahédrites, in «La venue du Messie », Bruges 1962, 149·171; R. SCHNACKENllURG, Gottes Herrschaft, 119. Per R. ScHNACKENBURG, in Dn 7, 13 s. la manifestazione del Figlio dell'Uomo sulle nubi ed il suo accesso all'antico dei giorni precedono il dono del Regno. Ora nella risposta di Gesù tale ordine non quadra: prima viene infatti la sessione alla destra di Dio (Sal 110, 1) e poi la venuta sulle nubi. Forse però non si deve troppo fare questione di ordine: si tratta infatti di un annuncio unico in cui resurrezione e parusia sono come un fatto unitario. 110 Può darsi che là ove per i primi cristiani ancora non si poneva il problema del ritardo della parusia, la glorificazione di Cristo, nella pasqua, tendesse ad essere veduta come primo atto del dramma finale della storia che si sarebbe compbta di li a poco con il ritorno di Cristo. Quando però, in una conc~zione più precisa della dimensione del tempo della Chiesa, si andava delineando un distanziamento della parusia dall'evento pasquale, Luca avrebbe di proposito soppresso, nella risposta di Gesù il riferimento alle nubi del cielo: «d'ora in poi il Figlio dell'Uomo siederà alla destra della potenza di Dio » (Le 22, 69). Tale tocco redazionale forse dipenderebbe dal terzo evangelista che non avrebbe voluto lasciar credere ai suoi lettori che Gesù dinanzi al Sinedrio avrebbe annunciato la parusia come avvenimento prossimo. P. LAMARCHE, Révélation, 112; P. BENOIT, Passion, 128.

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    Il secondo problema riguarda l'accusa di bestemmia. Non bisogna far leva qui apologeticamente solo sulla mala fede del sinedrio. È importante invece prendere atto dello scandalo giudaico dinanzi alle affermazioni di Gesù, perché questo scandalo è un decisivo riscontro storico della straordinaria pretesa messianica di Gesù di Nazaret. Con le sue parole, veramente, Gesù, dichiarando se stesso Figlio di Dio, aveva pronunciato per i giudei parole lesive della maestà di Dio. A questo proposito, per comprendere l'efficacia della affermazione di Gesù e dello scandalo dei giudei è necessario considerare l'originalità della fusione in essa di due tradizioni del messianismo: quella profetica che si colloca nella linea del messianismo davidico attraverso il Salmo 110, 1 tendente ad accostare sempre più a Dio il futuro Messia 111 e la tradizione apocalittica che attraverso la visione danielica del c. 7 rivelava il mistero del Figlio dell'Uomo (7, 13) che avanza verso l'Antico dei giorni per ricevere il potere divino. Né l'uno, né l'altro testo, preso separatamente, possiede veramente la forza di una proclamazione di divinità in senso reale. Ma la importanza eccezionale della risposta di Gesù viene dalla nuova interpretazione o dalla rilettura originale del messianismo classico in cui si fondono con straordinario vigore i diversi filoni della tradizione antica, profetica ed apocalittica. Questa fusione di tradizioni costituisce una «rivelazione nuova». Essa esclude in effetti il senso metaforico per la sessione di Gesù alla destra di Dio: nel quadro della apparizione danielìca della venuta celeste del Figlio dell'Uomo (Dan 7, 13 ), tale sessione non significa più semplicemente la dignità regale, immagine terrestre del potere divino, bensì questo potere stesso divino che si esercita in un piano celeste. La stessa figura del Figlio dell'Uomo, con il quale Gesù, come abbiamo visto, si era identificato, non è più ormai una apparizione così misteriosa, inguanto la sua identità di uomo vero, discendente di David era lì presente dinanzi a loro. In risposta alla domanda del

    1l1 Tuttavia, se il Salmo 110, 1 invita il Re d'Israele a sedere alla destra di Dio, un tale invito non ha per sè nella tradizione giudaica nessun significato di identificazione con lui: si tratta di una espressione puramente metaforica indicante una partecipazione terrena del Re di Sion alla regalità stessa di Dio ( 1 Cr 28, 5; 29, 23; 2 Cron 9, 8). Se la tradizione messianica tende ad accostare sempre più a Dio il foturo Re Messia (ls 7, 14; 9, 5 s.; 11, 1 s.), essa non giunge mai però ad una identificazione e perciò l'attribuzione della dignità messianica non comporta per sè la possibilità di una accusa di bestemmia.

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    Sommo Sacerdote quindi, Gesù si afferma «Messia divino» in un senso che sorpassa le concezioni correnti del messianismo giudaico ed annuncia che tale sua identità, rifiutata ostinatamente nel suo ambiente, si sarebbe manifestata prossimamente mediante l'esercizio di una autorità giudiziale propriamente divina.m La risposta di Gesù con la quale egli proclama la sua « messianità dìvina » mostra, attraverso il suo movimento, che parte dell'at· teggiamento evasivo sul momento presente per proiettarsi verso l'imminente futuro pasquale e verso la parusia, il « luogo decisivo » della inoppugnabile manifestazione della sua dignità messianica divina. L'evento della resurrezione rivelerà infatti, per la forza stesa dell'evento e non solo mediante la parola, la conoscenza di «chi» è veramente questo Gesù, come Cristo e Signore ed il mistero della sua origine. L'accusa di bestemmia sancisce lo scandalo giudaico, ma anche la verità storica della straordinaria affermazione di Gesù: essa non sarebbe avvenuta se Gesù si fosse solo proclamato messia e non Messia divino.

    Abbiamo detto che l'asse del processo o della seduta del sinedrio, cosl come ci viene presentata dalle redazioni sinottiche, verte sul tema della identità di Gesù come «Cristo», cioè sul senso della sua messianità. Qualcuno potrebbe pensare che le preoccupazioni di questo processo fossero solo dogmatiche e che lo scandalo giudaico dinanzi alle parole di Gesù sia stato dettato unicamente da motivazioni religiose. In realtà, come abbiamo più volte mostrato, la missione di Gesù di predicazione del Regno, il suo comportamento, implicavano un radicale mutamento dell'ordinamento cultuale, sociale, del suo ambiente, dovuto alla caduta di certe posizioni di privilegio le quali venivano messe in crisi proprio dalla nuova rivelazione del volto di Dio che si manifestava nella vita e nell'opera di Gesù di Nazaret. Il rifiuto e lo scandalo non erano solo dettati dalla sua identificazione con Dio, ma anche dalla manifestazione di un Dio inaccettabile. Con il rifiuto della identificazione con Dio di Gesù, il giudaismo ufficiale contemporaneo rifiutava nello stesso tempo il Dio stesso di Gesù Cristo. 113

    112 P. LAMARCHE, Christ vivant, 147-163; Io., Révélation, 113-114; J. GUILLET, ]ésus devant sa vie et sa mort, Paris 1971, 232-234. 113 Vedi il capitolo sul comportamento religioso di Gesù, pp. 197-198.

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    Così il processo condotto per motivi religiosi implicava in realtà risvolti chiaramente politici: il radicale rifiuto della rivelazione divina di Gesù era dovuto ad una ragione di « potere religioso » che vedeva scalzata la propria posizione di privilegio, proprio in nome di Dio. Di qui la decisione di sopprimere Gesù di Nazaret. Le preoccupazioni politiche appaiono ben visibili nelle stesse parole degli scribi e dei farisei riferite da Giovanni (11, 47 ·50) per cui al fondo la questione giudaica era dettata essa stessa dalle suggestioni del potere. Per questo si può parlare non già di un processo religioso ed uno politico, ma di un processo intentato a Gesù dal « potere religioso » e dal « potere politico » con competenze e forse con intenti diversi, ma con risultato identico. Questo carattere politico può anche essere rilevato dalla struttura del linguaggio narrativo topologico che sottolinea i diversi momenti della traslazione di Gesù nello spazio, rappresentato dai due luoghi privilegiati: il palazzo del Sommo Sacerdote e quello del procuratore romano. Questo stesso linguaggio topografico appare fondamentalmente un linguaggio di potere. 114 Le malvage intenzioni del « potere religioso » che mal tollerava un severo giudizio come quello che Gesù aveva pubblicamente apportato contro di esso, proprio in nome di quel Dio di cui tale potere aveva tentato di farsi schermo per coprire le proprie ambizioni, hanno la loro manifestazione nella scena degli oltraggi che in Mt/Mc è indicata subito dopo la seduta del sinedrio (Mc 14, 65; Mt 26, 67·· 68) lasciando intendere che coloro che commissionavano gli oltraggi erano gli stessi membri del sinedrio. Tuttavia Luca (22, 63-65) colloca la scena prima della seduta del sinedrio, compiuta ad opera dei ministranti che forse volevano riempire con questo giuoco infame le ore della notte. La redazione di Luca forse è più vicina alla realtà storica dei fatti. La concordanza sinottica sulla parola «profetizza» (Mc 14, 65; Mt 26, 68; Le 22, 64) consente di penetrare il significato più profondo del fatto: lo scherno ha avuto come tema Gesù profeta 115 e mostra nel modo più acuto la situazione paradossale della fine della vita di Gesù: il sinedrio diviene il luogo della manifestazione suprema della dignità di Gesù e del

    114 G. CRESPY, 1. Le langage topologique, 2. Le langage politique, in « Recherche sur la signification politique de la mort du Christ », LmVie n. 101, 20 (1971), 90-94. 115 P. BENOIT, Les outrages à Jésus prophète (Mc XIV, 65 par.), in « Exégèse et Théologie », III, Pru:is 1968, 251-269.

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    rinnegamento aperto .e pubblico della sua verità. Specialmente Marco fa emergere questo contrasto paradossale dei fatti, lasciandolo senza risposta, mentre Matteo, che nel racconto è abbastanza vicino alla redazione di Marco, aggiungendo il particolare del « prezzo del sangue » ( Mt 27, 3-1 O) 116 tende a mostrare la ragione profonda di questo contrasto. Essa non sta solo nell'iniquo proposito dei giudei di uccidere Gesù, ma nel misterioso disegno divino. Il giudizio di Dio si compie nonostante le trame e le iniquità degli uomini perché nel processo si realizzano le antiche profezie (Zac 11, 12-13; Ger 18, 18-23; 19, 3-5; 32, 6-15). Dopo quanto abbiamo detto ora sulla procedura informale imbastita dal sinedrio contro Gesù, avente come motivazione di pretesto la questione della sua identità messianica (dristo) intesa da Gesù in maniera dogmaticamente inaccettabile per i giudei ( « Figlio di Dio » ), l'orditura politica del processo stesso dinanzi a Pilato appare tutt'altro che come un episodio secondario derivante solo dalle contingenze storiche della impossibilità dell'autorità giudaica di emettere ed eseguire una condanna a morte. Nella testimonianza del NT, specie in Giovanni, il processo dinanzi a Pilato non è un episodio contingente. Esso è un momento culminante della :>ostanza del dibattito e delle trame intentate dal potere giudaico contro Colui che si è manifestato come «Figlio di Dio», e quindi, in esso, scocca l'ora della verità, di una verità il cui peso questo .potere non può sopportare. Negli avvenimenti che accadono presso il pre· torio, infatti, si conclude il grande ~ che avvolge tutta l'esistenza 117 Secondo O. CuLLMANN, Dieu et César, 32 s. tale baratto insieme alla scritta motivante la condanna, costituisce un argomento per sostenere la tesi che Gesù di Nazaret sarebbe stato condannato dal potere romano come «capo zelota"· ID., ]ésus et /es révolutionnaires, 49-51; G. CRESPY, Recherche, 105; L. BoFF, Passione di Cristo, Passione del mondo, Assisi 1978, 58-60. Bisogna tuttavia avere presente quanto abbiamo già detto circa i limiti storici della interpretazione di Cullmann circa lo zelotismo ai tempi di Gesù (vedi sopra pp. 190-192).

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    storica di Gesù: 118 questa è tutto un processo che si svolge sotto un doppio registro: da una parte c'è il tentativo del mondo incredulo che rifiuta di accogliere la luce (Gv 1, 11), la respinge (3, 19), cerca di soffocarla. Questo aspetto del processo che attraversa tutta l'esistenza terrena di Gesù, trova il suo momento saliente nella storia della passione nella quale « i giudei » rappresentano concretamente «il mondo » e sono i veri registi che abilmente manovrano la politica di stato del governatore romano. 119 In tale momento si conclude la disputa decisiva tra costoro e Gesù, disputa che dopo i dibattiti gerosolimitani culmina nella scena del lithostrotos e del Golgota. Dall'altra parte, insieme al tentativo del mondo di sottoporre Gesù al processo, questo si compie veramente nei confronti del mondo e del suo principe. Il giudizio del mondo è infatti compiuto proprio nella passione: « ora è il giudizio (krisis) di questo mondo; ora il principe di questo mondo sarà gettato fuori» (12, 31), perché «ora» è condannato (kekritai) (16, 11). Questa «ora» è l'ora della passione-morte-resurrezione che con il giudizio del mondo realizza il passaggio glorioso di Gesù al Padre. La contemporaneità del duplice aspetto del giudizio è comprensibile per il fatto stesso che là ove il mondo incredulo. rifiuta di accogliere la « verità » di Gesù, che è Gesù stesso, e crede di vincere sopprimendolo, con una morte infamante, esso si autogiudica e si autocondanna. Se quindi dal .punto di vista delle cause storiche, che hanno oJ:idito il processo, Gesù può apparire come l'accusato ed il condannato, l'evangelo di Giovanni ci mostra invece in Gesù il vero Giudice, il Re-Messia, attraverso « il mezzo stilistico della inversione dei ruoli» per cui «in tale situazione, quasi ogni

    118 Sul tema del processo nel quarto evangelo vedi già la trattazione di TH. PREISS, La it1Jtification dans la pensée iohannique, in « Hommage et reconnaissance à Karl Barth », Neuchatel 1946, 100-118 ove il tema è evoluto in prospettiva pneumatologica, per cui dopo il tempo di Gesù il processo prosegue con il testimone per eccellenza che è lo Spirito. Tuttavia Preiss esagera la portata del tema. Più equilibrata la posizione di J. BLANK, Die Krisis swischen Jesus und den ]uden (Ofjenbarungsprozess), in « Krisis. Untersuchungen zur johanneischen Christologie und Eschatologie », Freib. Br 1964, 231-251 e Krisis Israel und Krisis der Welt, ivi, 297-315. I. DE LA PoTTERIE, Gesù Re e Giudice secondo Gv 19, 13, in «Gesù Verità», 156-157. H. SCHLIER, ]ésus et Pilate d'après l'évangile se/on S. Jean, in «Le Temps de l'Eglisc », Paris 1961, 68-84. 11 9 J. BLANK, Die Verhandlung vor Pilatus, ]oh 18, 28 -19, 16 im Lichte ;ohanneischer Theologie, BZ 3 (1959), 64.

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    parola è un paradosso. Ogni azione ha il suo primo piano, ma anche una sua segreta motivazione di fondo ». 1w Il primo piano, quello del fatto, verificabile umanamente e tramandato dalla testimonianza storica, richiama ed invita alla comprensione nascosta del miste.· ro che esso porta in sé e di cui è segno e simbolo ed al cui livello di comprensione si coglie il totale rovesciamento della situazione. Avendo presenti queste osservazioni possiamo cogliere il fatto ed il significato del processo di Gesù dinanzi a Pilato che il quarto evangelo testimonia. Questo è incentrato nel titolo di « Re » (J esusBasileus) che domina tutto il racconto giovanneo della passione da 18, 33 a 19, 22 comparendo ben dodici volte a cominciare dalla domanda iniziale: « sei tu il Re dei giudei »? (18, 3 3) con cui Pilato riprende l'atto dell'accusa giudaica sotto forma di questione politica.121 Nel primo colloquio (18, 33-38a), che può considerarsi la prima fase di questo processo contro Gesù, questi spiega la vera natura della sua regalità che non riceve dal mondo la « vita », la « forza », il « destino »: essa è « nel mondo », ma ha la sua origine in Dio. Il segno della natura profondamente diversa di questo « Regno» sta nel sacrificio volontario del suo Re: egli si è volontariamente «dato» nelle mani dei giudei (18, 36). Il senso di questo Regno è espresso più chiaramente nella risposta alla seconda domanda di Pilato: «quindi tu sei Re»? (18, 37). Come nella prima parte della risposta anche qui Gesù afferma la sua regalità, ma aggiunge che l'esercizio di questa sua sovranità si compie testimoniando la verità come inviato di Dio nel mondo. Nel contesto del quarto evangelo è noto, come gli studi di I. DE LA POTTERIE hanno rivelato,1 22 che anzitutto il termine « verità » deve essere collocato sullo sfondo della tradizione giudaica dell'apocalittica e degli scritti sapienziali, ove la « verità» è comunicazione di «segreti divini», di «misteri », e quindi che bisogna dare ad esso il « rilievo cristologico » che merita, per indicare che questa rivelazione di segreti divini si compie in modo radicale e definitivo

    J.

    BLANK, ivi, 64-65. Giovanni che adopera una sola volta « basileia » nel IV evangelo (3, 3-5) sviluppa il tema nella passione come epifania del Cristo Re, come Regno che viene dall'alto. In Matteo il termine Basileus è usato solo quattro volte ed in Marco sei: 120 121

    J.

    BLANK,

    Die Verhandlung, 60-81.

    I. DE LA POTTERlE, L'arrière-fond du thème johannique de verité, in « Studia evangelica», Berlin 1959, 277-294; Io., Je suis la Vaie, la Verité et la Vie (Jn 14, 6), NRT 88 (1966), 907-942. 122

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    in Gesù Cristo. Là ove il quarto evangelo aveva mostrato in 5, 33 che Giovanni Battista era venuto a rendere testimonianza alla « verità » facendo conoscere la « verità» che è Gesù (5, 34; 3, 26 ), nel processo dinanzi g Pilato Gesù applica a se stesso la parola detta a proposito del Battista: « sono venuto al mondo per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce » (Gv 18, 3 7). Così egli rende testimonianza a se stesso, testimonianza a cui si associa quella del Padre (5, 31-32.37), delle opere (5, 36), dello Spirito di Verità (15, 26). Tutta la sua missione si concentra in questa testimonianza alla Verità che è Lui stesso, inquanto rivelazione del Padre, perché gli uomini vengano a lui. Gesù apporta, dw1que, agli uomini, la verità definitiva di Dio: il suo Regno è perciò il regno della Verità. Ma perché questo Regno si instauri è necessario che gli uomini credano in Lui, lasciandosi penetrare dalla sua verità ed essere così « dalla Verità ». In questa affermazione di Gesù in risposta al quesito di Pilato, sulla sua regalità, bisogna anche notare il valore sacrificale di questa missione di testimonianza alla Verità: una testimonianza a Dio che è una testimonianza a se stesso, in un mondo incredulo, non può essere che una testimonianza sofferta che giunge inevitabilmente al martirio. Dinanzi al tribunale ufficiale « del mondo » l'essere testimone coincide con l'essere martire. Gesù è Re in questo senso che egli rivela, per il dono di se stesso, la realtà celeste della grazia che si dirige a tutti e che impegna il mondo a decidersi in parole, in opere ed in persona, per o contro la regalità della verità. 123 Dinanzi a questa affermazione di testimonianza alla verità, si vede come il proc.esso di Gesù sia veramente il « giudizio del mondo »: il rappresentante politico di questo mondo si vede costretto a dover uscire fuori dalla sua comoda neutralità e porsi la domanda della «verità» (Gv 18, 38), si vede obbligato a scoprire le proprie basi teoriche, svelare la sua « verità ». 124 E qui si scopre la carenza, il vuoto di una neutralità politica che finisce per essere lo strumento del giudaismo incredulo: questi impone ad una sovranità vuota di « verità »

    H. H.

    Jésus et Pilate, 75. it.!i, 75: nella visione dell'evangelista secondo l'A. è inutile chiedersi in quale tono Pilato ponga la questione: se curioso, avido, arrogante o scettico e rutti gli altri che gli esegeti possono scoprirvi. Per l'evangelista solo il contenuto conta, cioè il fatto che Pilato è posto davanti alla verità e se ne allontana perchè egli non la conosce, nè la riconosce. IZJ u4

    SCHLIER, SCHLIER,

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    la sua legge. Di qui la linea paradossale di un processo in cui la autorità riconosce ripetutamente la innocenza di Gesù (Gv 18, 38; 19, 4b.6b.12), ma ad ogni riconoscimento, segue puntuale una punizione ed un oltraggio :fino alla decisione estrema di concederlo in balia degli empi. Il secondo momento del processo è costituito, nella redazione del IV evangelo, dopo il baratto con Barabba (18, 40), dalla scena degli oltraggi (19, 2-3). In essa l'evangelista tralascia i dettagli della narrazione sinottica (Mc 15, 15b-19; Mt 27, 26b-30) per evidenziare quelli che sottolineano la sua dignità regale (coronazione di spine, veste di porpora, parole dei soldati « Ave o Re dei giudei » ! ). Il fatto storico degli oltraggi è veduto sempre in questa luce della inversione dei ruoli, per cui l'oltraggio tende a dare rilievo ad una verità: Gesù, investito ed intronizzato come Re, riceve i primi omaggi.125 Alla scena dei primi oltraggi segue il momento dell'Ecce Homo (Gv 19, 4-7) in cui Gesù è presentato ai giudei rivestito delle insegne regali, con corona e porpora (19, 5). La scena che si concentra nelle parole: «Ecco l'uomo » ha una portata cristologica. Il significato delle parole infatti non si riferisce alla sola realtà umana di Gesù, ma al potere giudiziale trascendente del « Figlio dell'Uomo » danielico. La conferma viene dal parallelo con 19, 14: « ecco il vostro Re». Il giuoco della inversione dei ruoli prosegue: gli oltraggi alla dignità regale di Gesù si trasformano in acclamazioni di verità: 126 la sua umanità umiliata è in verità l'umanità rivestita di poteri eccezionali. All'affermazione dell'Ecce Homo risponde l'odio dei sacerdoti e dei ministri che richiedono la sua crocifissione ( 19, 6), per avere egli usurpato la dignità di Figlio di Dio (19,7).127 L'ultima scena del processo dinanzi a Pilato nel quarto evangelo (19, 1.3-16) ha una portata eccezionale ed è ritenuta giustamente il culmine di tutta la narrazione. È l'episodio del Lithostro'tos

    !2.S J. BLANK, Die Verhandlung, 73; I. DE LA PoTTERIE, Exegeris IV Evangelii: De narratione passionis et mortis Christi. ]oh 18-19 (ad usum privatum), PIB. Romae 1970, 109. Giovanni tralascia di dire, come Matteo, che le parole furono dette per derisione. !lh J. BLANK, ivi, 75; I. DE LA POTTERIE, Exegesis, 112. 127 In questo appare la concordanza tra Giovanni ed i sinottici sulla condanna per bestemmia (Gv 19, 7: Le 23, 18) come pure l'intenzione crescente dei titoli: «Re dei Giudei» o Messia politico (Gv 18, 33-39; 19, 3), poi «Figlio dell'Uomo" o «Uomo» (Gv 19, 5), quindi «Figlio di Dio» (19, 7).

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    (Gabbatha).12B La insistenza del racconto sulla indicazione del luogo, giorno ed ora {19, 13-14), indica che l'episodio riveste agli occhi dell'evangelista un particolare signifìcato. Questo può essere colto in contrapposizione alla sostanza politica del processo di Gesù, conformemente al tema generale del quarto evangelo al quale abbiamo sopra accennato: mentre il mondo infligge un processo a Gesù, chi cade nel processo è in realtà il mondo, che viene giudicato da Gesù Verità. In realtà, in contrapposizione al rifiuto giudaico espresso dalle grida reclamanti la crocifissione di Gesù (19, 15) sta la scena del Lithostrotos che culmina nell'affermazione: « Ecco il vostro Re » ( Gv 19, 14). Questa proclamazione, se si legge nel con testo del v. 13, interpretato esegeticamente con il senso transitivo di « ekàthisen » (fece sedere), Gesù in tribunale nel luogo detto Lithostrotos (19, 13 )129 assume un significato di rivelazione messianica che richiama il titolo della condanna inflittagli dal potere politico (19, 19b)· nella crocilissione. L'episodio del pretorio appare cosl quel momento culminante del processo che anticipa la scena del Calvario: « Gesù è proclamato Re al Lithostrotos, ma conoscerà la sua vera esaltazione sul trono della croce; Gesù assiso sul bema giudica il monào che rifiuta la sua regalità, ma è col rifiuto di accogliere il Messia Crocifisso che il mondo consumerà la propria condanna. Al pretorio si era piuttosto sul piano del « segno »; sulla croce la regalità di Gesù ed il giudizio del mondo diverranno una realtà definitiva ». 130 La lettura teologica giovannea non infirma la verità storica del fatto del processo di Gesù, ben documentato con indicazioni precise di luogo e di tempo che rafforzano la realtà del racconto: essa al contrario tende a rilevare tutta la portata di un fatto che verificatosi nei limiti di un determinato spazio e di un determinato tempo, li trascende, mostrando il profondo significato perenne dell'avvenimento della croce come fatto pubblico, frutto dello scontro tra il potere mondano e la forza vincitrice della verità evangelica che è Gesù stesso. Proprio là ove il mondo, nella sua follia violenta ed

    128 P. BENOJT, Prétoire, Lithostrotos et Gabbatha, RB 59 (1952), 548 ss. Per ulteriore bibliografia e per l'esegesi: I. DE LA PoTTERIE, Exegesis, 120-135; In, Gesù Re e Giudice secondo Gv 19, 13, in «Gesù Verità», 134-157. Per i termini: il greco « lithostrotos » indica luogo lastricato, mentre l'ebraico « gabbatha », dalla radice gab, connota in genere l'idea di luogo eminente, elevato. 129 Argomentazione letteraria e documentazione in L DE LA PoTTERIE, Exegesis, 124. 130 I. DE LA PoTTERIE, Gesù Re, 156.

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    omicida, crede di poter dominare, non lasciando spazio alla verità di Cristo, emerge la sconfitta del mondo e la vittoria di Gesù che trionfa non già « nonostante » il suo processo ed il suo supplizio, ma proprio « nel suo processo » e nel « suo supplizio » che divengono in realtà luogo pubblico di manifestazione della sua Verità. 4.

    La crocefissione. 131

    Il momento ultimo della storia documentaria di Gesù di Nazaret è costituito dall'avvenimento della sua crocifissione e morte in Croce. A noi interessa rilevare la sostanza storica del fatto con i significati che emergono dai fatti stessi e che costituiscono quella verità storica che è al fondamento delle teologizzazioni posteriori. Questa affermazione della storia documentaria al fondamento delle interpretazioni telogiche si impone, onde evitare di fare della « croce » una categoria esplicativa, una cifra ed un simbolo dell'azione di Dio che riconcilia il mondo, ma « la croce, allora, rischia di nascondere il Crocifisso. Essa diviene una categoria teologica avente poco rapporto con la crocifissione di Gesù ». 132 Quando la storia documentaria della passione e morte passa in secondo piano allora ci si mette su di una china che porta al disinteresse del « fatto » crudo della crocifissione di Gesù tra i malfattori, che svaluta l'importanza delle cause reali e delle mediazioni storiche che hanno determinato l'avvenimento per considerarle solo come espressione di un giudizio di Dio che in Gesù condanna i nostri peccati. 133 Su questa linea si giunge ad affermare che non sono stati i giudei o Pilato a condannare Gesù; il processo politico è senza significato, o meglio ha solo il significato di strumento fatalistico della collera di Dio, quella che veramente avrebbe giustiziato Gesù. 134 La croce diviene «cifra» del giudizio divino di condanna, dimenticando la sostanza storica del fatto, addomesticato dalla sua ideologizzazione: staccare la croce

    131 A. VANHOYE, Le calvaire, in « Les récits », 149-163; P. BENOIT, La montée en Croix, in « Passion », 176-262; E. LoHsE, La storia della passione e morte di Gesù Cristo, Brescia 1967, 103-119 (la crocifissione di Gesù); X. LÉON-DUFOUR, Pace à la mort qui est là, ]ésus en croix, in « Face à la mort Jésus et Paul », 145168. I. DE LA PoTTERIE, Exegesis, 135-200 (Crux Christi). 132 C. DuQuoc, Christologie, essai dogmatique, Il, Paris 1972, 31. 133 K. BARTH, Die Kirchliche Dogmatik, IV /1, Ziirich 1960 (2), 241-245. 134 J. CALVIN, L'institution chrétienne, II, Genève 1955, c. 12, p. 225.

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    dalla storia documentaria è toglierle la sua potenza di « memoria pericolosa » che richiama al dramma della sofferenza umana, dell'oppressione dell'uomo sull'uomo e che affonda le sue radici nell'iniquità del peccato. Di qui l'esigenza di dare il dovuto rilievo al quadro narrativo della crocifissione .~ morte di Gesù, allo svolgimento dei fatti, poiché è dal « racconto » e non dal discorso teorico che scaturisce il vero significato di questa storia. In Marco, particolarmente, come abbiamo già notato, sono gli avvenimenti che si raccontano da soli. 135 Qui appare uno stile provocatorio del racconto che con narrazione sobria, scevra da deltL cidazioni, descrive il succedersi repentino dei fatti a partire dal cammino doloroso verso il Calvario, 136 con l'episodio di Simone di Cirene (Mc 15, 21 ), con la somministrazione del vino mirrato ( 15, 23 ), la crocifissione e la spartizione delle vesti ( 15, 24-25), il titolo della condanna ( 15, 26), la crocifissione dei malfattori ( 15, 27-28 ), gli insulti e gli scherni (15, 29-32), per giungere al momento solenne della morte all'ora nona (15, 33-38). La narrazione si snoda in piena verisimiglianza alla situazione del condannato a quel tipo di condanna romana e nulla può indurre a credere ad una invenzione dei fatti così documentati nella loro particolarità storica e così sconcertanti per la stessa predicazione cristiana post pasquale. Anche se alcuni luoghi veterotestamentari, come ad esempio il Salmo 22 sono stati presenti nella descrizione della passione di Gesù, 137 essi non potevano essere la ragione di una creazione di racconto così preciso con citazioni di nomi, come quelli dei due figli di Simone (Mc 15, 21) e di varie donne (Mc 15, 40-41), testimoni suscettibili di essere reperiti ed interrogati. Non si può negare però che questa storia veramente documentaria esprime, pur nel suo crudo realismo, delle angolazioni di lettura particolari proprie di Marco. Notevole è il rilievo dato al contrasto tra la dignità messianica divina di Gesù, tra la sua dignità di Re dei giudei ed i fatti che contraddicono questa dignità: il percorso con la croce, il suo denudamento { 15, 24 ), la sua crocifissione come ribelle tra mal-

    135 E. BENVENISTE, Problèmes de linguistique général, Gallimard 1966, 241; M. CLEVENOT, Il racconto di una prassi, in «Letture materialiste della Bibbia», Roma

    1977, 87-88. 136 137

    Mc 15, 20b. Il luogo è il Golgota, detto luogo del cranio (Mc 15, 22). Documentazione in L. CERFAUX, Selon les Ecritures, in « Jésus », 203-209.

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    fattori (15, 27) a cui si aggiungono gli oltraggi che rievocano i temi del processo giudaico: l'insulto dei presenti che bestemmiano e scuotono il capo (Mc 15, 29; Sal 22, 8; 109, 25; Lam 2,15), che richiamano gli insulti dei falsi testimoni del processo (14, 58) e l'oltraggio dei sommi sacerdoti e degli scribi (Mc 15, 31-32) ed in fine l'insulto dei crocifissi con lui (15, 32b). Il Calvario, così, porta a consumazione il processo: la dignità altissima di Gesù, la veracità delle sue affermazioni, la sua innocenza, risplendono in contrasto stridente con le grida, le bestemmie, i maltrattamenti di cui egli è oggetto. Gesù è riconosciuto Figlio di Dio (Mc 15, 39) nel momento in cui muore, in un contesto di fatti che contraddicono la sua verità. Eppure la narrazione stessa dei fatti sembra indicare un misterioso legame tra questa dignità di Gesù ed i maltrattamenti ricevuti, mediante un livello di lettura che proprio attraverso queste umiliazioni ci porta a cogliere il vero significato della rivelazione di Dio in Gesù Cristo, Servo umiliato e sacrificato per la salvezza degli uomini ( Is 5 3, 10-13 ). « Lungi dal contraddire la predizione solenne di Gesù, il contesto di umiliazioni e di sofferenze che l'accompagnano è il mezzo paradossale scelto da Dio per realizzarne l'adempimento. Perché la sua gloria di Figlio di Dio penetrasse perfettamente la sua natura umana, bisognava che questa natura, ereditata da Adamo, subisse una totale rifusione nel crogiuolo della passione e fosse rinnovata da cima a fondo per l'obbedienza filiale della croce. Ma nulla di ciò appare a prima vista. È una immagine rovesciata, un negativo, che gli avvenimenti danno anzitutto del mistero. La luce non si mette a risplendere che nel momento più nero delle tenebre: quando Gesù è morto, la parola del centurione attesta la sua figliazione divina. Tale è il punto più importante della testimonianza di Marco ». 138 Il racconto, nei suoi contrasti, mostra il nuovo volto del Dio di Gesù Cristo che si manifesta proprio nella umiliazione del Servo Gesù. Possiamo ancora dire con A. Vanhoye che il concatenamento della narrazione di Marco con la « Persona >> di Gesù si rivela pure nella sua opera attraverso il segno della rottura del velo del tempio (15, 3 8) che da un lato esprime come la ripercussione sulla realtà del tempio terrestre di Gerusalemme della rottura, per la passione,

    Ila A. VANHOYE, Le Calvaire, in « Les récits », 154. Ulteriori approfondimenti per la kenosi di Dio in Marco: P. LAMARCHE, Révélation de Dieu, 140-144.

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    del corpo di Cristo 139 e dall'altro appare come annuncio di un altro tempio non fatto da mani di uomo (Mc 14, 58). La parola del cen.· turione può essere veduta come testimonianza di questo nuovo edificio ove anche i pagani esprimono la loro fede ( « casa di preghiera per tutti i popoli» Mc 11, 17; Is 56, 7). 140 La narrazione di Matteo della salita al Calvario si allinea con il racconto di Marco, presenta gli stessi episodi e lo stesso contenuto di rivelazione. Tuttavia si nota nel racconto matteano la tendenza a sottolineare il riferimento (esplicito) alle Scritture e la proclamazione del titolo di Figlio di Dio a più riprese nel racconto (27, 40.43.54) indicando in esso il dato fondamentale da cui dipende tutto il resto: la distruzione e ricostruzione del tempio, la vittoria del Messia Crocifisso, l'intervento di Dio in suo rfavore. Soprattutto come vedremo nel prossimo paragrafo, Matteo ha sottolineato la portata escatologico-universale ed ecclesiale della morte in croce di Gesù. Luca che descrive « il vangelo del discepolo » s1 allontana di più dallo schema di Marco, dando ai fatti reali un rilievo diverso. Cosl l'episodio di Simone di Cirene (23, 26) e quello delle donne (23, 27-31) sono considerati non solo come .fatti che garantiscono una storia documentaria come in Mc e Mt, quanto come esempi che invitano i credenti a seguire Gesù nella sua passione,1 41 attraverso il loro esempio di fede e di compunzione (23, 27.48). Il supremo esempio da imitare, per il discepolo, è offerto da Gesù che perdona

    139 Sul tema del morire di Cristo nel quadro sinottico vedremo tra poco. Qui si può notare il fatto che nella narrazione del processo, Marco, tra i molti falsi testimoni (14, 56) ne documenta in particolare uno solo, quello che afferma « distruggerò questo tempio ... » (14, 58). Tra il corpo mortale di Gesù ed il tempio fatto da mani di uomo esisteva una misteriosa solidarietà. Non si poteva uccidere l'uno senza distruggere l'altro: poichè il tempio, contaminato dal peccato dell'uomo, era votato wa distruzione, l'uomo Gesù ha subito la morte. E reciprocamente, perchè il peccato degli uomini ha portato Gesù alla morte, il tempio terrestre è ormai votato alla distruzione e svuotato della sua sostanza. 140 Interessanti sviluppi del rapporto del segno del tempio con la corrente del messianismo regale in A. VANHOYE, l. cit., 156-157. 141 Per Simone, Luca parla di «prendere la croce» e «portare la croce dietro 1l Gesù» (23, 26; cfr.: 9, 23; 14, 27): Simone di Cirene appare cosl come la immagine di ogni discepolo chiamato a seguire Gesù nella via dolorosa. Per ciò che riguarda le donne va notato come l'attenzione del testo è attratta, non sui nomi che non sono men2ionati, ma sulla loro attitudine di compianto (si battevano il petto ed emettevano lamenti: 23, 27). Le parole loro rivolte da Gesù invitavano alla vera conversione (23, 28-30). A. VANHOYE, Luc: l'ef/icacìté de la croix pour la conversìon, 160.

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    le offese (23, 34), adempiendo il precetto dell'amore per i nem1c1 su cui Luca ha insistito particolarmente (6, 27-36; 17, 3). Nel descrivere gli oltraggi sulla croce Luca segue un ordine proprio che tende a mostrare l'efficacia soteriologica del sacrificio di Gesù: gli insulti vengono inferti contro Gesù a partire dai Capi (23, 35), poi dai soldati (23, 36-37), in ultimo da uno dei malfattori crocifissi con lui (23, 39 ), ma dall'abisso di questa umiliazione scaturisce per uno dei ladri il sentimento di riconoscimento delle proprie colpe e della innocenza di Gesù (Le 23, 40-41) e l'invocazione fiduciosa del perdono (23, 42) a cui risponde la parola di salvezza (23, 43): «oggi sarai con me in paradiso ». Luca dà meno importanza nella sua lettura dei fatti della passione al tema escatologico di Mc-Mt, mentre è più ·attento alle ripercussioni interiori dei fatti ed a tutto ciò che in essi porta all'invito alla sequela personale di Gesù. Alla fine il suo stile di racconto dà rilievo ancora alla attitudine di compunzione e di contemplazione mistica dello spettacolo della morte di Gesù, notando che coloro che vi avevano assistito, considerando le cose avvenute, se ne tornarono percuotendosi il petto ( 2 3, 48), mentre gli amici di Gesù e le donne che l'avevano seguito fino dalla Galilea « stavano pure là a distanza, osservando queste cose » (23, 49): così la crocifissione di Gesù, opera la conversione dei cuori. Il racconto di Gìovanni si muove secondo una documentazione e lettura dei fatti tutta .propria, come tra poco vedremo, parlando del momento del morire di Gesù e che pur tuttavia si ricollega, nel profondo, ai grandi temi comuni della tradizione evangelica. Dopo che Pilato lascia Gesù ai giudei perché lo crocifiggano ( 19, 16), il racconto non dà rilievo all'episodio sinottico di Simone di Cirene, tenendo piuttosto a mostrare che Gesù porta lui stesso la croce (19, 17),1'2 affermazione legata al contesto dei vv. 19-22 ove è que .. stione della scrittura apposta da Pilato sulla regalità di Gesù. Il che suggerisce l'idea che Giovanni tende a mostrare, secondo il noto procedimento stilistico della inversione dei ruoli, già sopra accen-

    14 2 Può darsi che una motivazione teologica spinga il quarto evangelo a non menzionare l'episodio, molto ben attestato dai sinottici, di Simone di Cirene. La attitudine polemica antidoceta ed antignostica del IV evangelo tende a scartare ogni avallo possibile alle teorie secondo cui nella passione di Gesù un altro avrebbe preso il suo posto. Giovanni sottolineerebbe perciò decisamente che « lui stesso » portava la croce. P. BENO!T, Passion, 189-190. Ma una tale spiegazione gnostica del tempo di Ireneo (Adv. Haer. l, 24, 4) si può dire che esistesse già al tempo di Giovanni? Questo tipo di spiegazione resta perciò alquanto incerto.

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    nato, che là ove per gli uomini la croce è strumento di maledizione e di morte, per « lui » ( eautò ), caricato lui stesso della croce, essa è strumento di salvezza, di regalità e di trionfo ( Is 9, 5 ( 6); Sal 96, 10). 143 Nel suo racconto il quarto evangelo oltre all'episodio del cireneo non menziona neppure quello delle donne, sorvola la notizia degli altri due, crocifissi con lui, per dare rilievo invece alla scena che sottolinea l'ultimo dibattito tra Pilato ed i giudei (19, 19-22) con cui si richiama quella del lithostrotos: lì, infatti, alla proclamazione della regalità di Gesù, fatta da Pilato (19, 14) i giudei replicano: «via, via, crocifiggilo » (19, 15) ed al Calvario alla scritta: «Gesù di Nazaret, Re dei giudei» (19, 19) i capi dei giudei si risentono con Pilato dicendogli di non scrivere « Re dei giudei », ma che egli ha detto « Io sono il Re dei giudei » (19, 21). Il parallelo consente di vedere nella scena della crocifissione l'adempimento del segno del Lithostrotos: da un lato il rifiuto definitivo da parte dei giudei di Gesù Re-Messia e dall'altro la definitiva proclamazione della sua regalità messianica.

    5.

    La morte di Gesù.

    Il momento culminante di tutta la storia della passione sta nel morire di Gesù di Nazaret sulla croce. La testimonianza evangelica dà di questo momento una particolare documentazione che, con i fatti accaduti, tende a mostrare il mistero dell'avvenimento di portata straordinaria che in essi si compie. Questa lettura dei fatti, immersa di luce pasquale, non costituisce una sovrapposizione di significati ( in-egesi) sugli avvenimenti che finirebbero con lo sbiadire la realtà stessa che essi documentano. La prospettiva teologica che la narrazione mette in evidenza non è che quella dei fatti stessi, da essi contenuta, per cui in tutta la storia della passione, in particolar modo nella morte di Gesù, predomina il fatto accaduto: è la storia documentaria stessa che porta all'intelligenza della sua signi .. ficazione. Sotto questa luce si può dire che è la storia che predomina e non la teologia. La luce della resurrezione, come abbiamo già notato all'inizio, non ha creato negli apostoli un distanziamento o

    141 Il partlClp!O « bastazon » (baiulans) apporta al verbo "exelten » (exivit), a cui è accostato, la sottolineatura della iniziativa dell'azione dello stesso Gesù che andava volontariamente al Calvario. I. DE LA POTTERIE, Exegesis, 146.

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    un occultamento della vicenda dolorosa della croce, al contrario, nel ricordo vivo degli avvenimenti più sconcertanti ha condotto a quella intelligenza che accresce il valore della loro storicità. Per questo se è vero che il racconto sinottico dà rilievo più ad alcuni che ad altri avvenimenti, rispetto alla redazione di Giovanni, in consonanza alle idee centrali teologiche degli evangeli stessi, tali idee non sono in definitiva che quelle che proprio sono emerse dalla storia stessa di Gesù di Nazaret e dalla sua Passione-morte-resurrezione. C'è una reciproca corrispondenza tra fatto e significato, tra una storia documentaria raccontata sul filo di una comprensione teologica ed una lettura teologica che riluce all'interno dei fatti stessi narrati. Non si può scindere questa storia dal mistero teologico senza privare i fatti stessi del loro straordinario contenuto di salvezza che li rendono unici ed irrepetibili nell'ambito della storia umana. Il racconto dell'avvenimento della morte di Gesù testimoniato dagli evangeli si svolge secondo un quadro narrativo diverso per sinottici e per il quarto evangelo. Il che ci consente di cogliere diversi aspetti di questo momento supremo della vita di Gesù. LA NARRAZIONE SINOTTICA: il significato escatologico de.zt' avvenimento della morte di Gesù. 144 La narrazione sinottica del morire di Gesù coincide in alcuni punti sostanziali con accentuazioni proprie che caratterizzano il particolare punto di vista di ogni singolo evangelista: in questa visione comune si accostano maggiormente le redazioni di Matteo e di Marco. Un insieme di elementi comuni della descrizione sinottica costituiscono uno scenario escatologico nel quale la morte del Cristo appare un .fatto di importanza storica decisiva per la storia del mondo: cosl le tenebre che precedono l'avvenimento dall'ora sesta all'ora nona (Mc 15, 33; Mt 27, 45; Le 23, 44 « essendosi oscurato il sole » ), senza intaccare per principio la verisimiglianza del fatto, richiamano però un elemento abbastanza ricorrente nel tema profetico del « giorno del Signore», giorno

    144 P. BENOIT, La mor de ]ésus, in « Passion », 226-233; A. VANHOYE, Les récits, 151-158; X. LÉON-DUFOUR, Passion, DBS VI, 1429 s.; In., Pace à la mort qui est là: Jésus en croix, in « Face à la mort », 145-167; A. STROBEL, Ver Termin des Todes Jesu, in ZNW 51 (1960), 69-101; In., Vie Veutung des Todes Jesu im ii/tester Evangelium, in « Das Kreuz Jesu », Gi:ittingen 1969, 32-64; H. W. BARTSCH, Vie Bedeutung des Sterbens Jesu nach den Synoptikern, ThZ 20 (1964), 87-102. W. TRILLING, La morte di Gesù, fine del vecchio eone (Mc 15, 33-41), in «L'annuncio di Cristo oggi», Roma-Brescia 1970, 193 s.

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    in cui egli viene a giudicare il mondo, giorno di collera, di tristezza e di desolazione « giorno di oscurità, di fosche nubi e di tenebre » (Sof 1, 15). In esso «il sole si cambierà in tenebre, la luna in sangue» (Gl 3, 3-4; 4, 15-16). Le tenebre escatologiche che esprimono l'avvento del giudizio di Dio sul mondo nel suo grande giorno,145 sono richiamate , 316-339; G. GHJBERTI, I racconti pasquali del c. 20 di Giovanni, Brescia 1972, 97-99; L. DuPONT-C. LASH-G. LEVESQUE, Recherche sur la structure de Jean 20, in B 54 (1973), 487-488; ]. M. GUILLAUME, Le « Sitz im Leben » de ]n 20, 3-10, in « Luc interprète », 62-66. 86 P. BENOIT, Les deux disciples, in « Passion », 285 s.; X. LÉON-DUFOUR, Les disciples, in « Résurrection », 227-228. Le due espressioni: «l'altro discepolo» (18, · 15; 20, 2, .3, 4, 8) ed il «discepolo che Gesù amava» (1.3, 23; 19, 26; 20, 2; 21, 7-20) in riferimento a Pietro evidenziano una stessa persona. Non è da escludere che l'espressione « il discepolo che Gesù amava » oltre ad indicare concretamente l'apostolo Giovanni voglia anche indicare il « discepolo tipo » che segue e conosce Gesù. La denominazione «il discepolo che Gesù amava» in rapporto al discepolo storico lascia emergere forse l'indicazione del gruppo giovanneo di sottolineare l'autorità dell'apostolo, venerato primate dell'oriente, per la sua fede amante. 8 7 Per quanto riguarda Pietro il quarto evangelo non dice nulla: per alcuni va da sè che Pietro credette pure lui. Ma in Le 24, 12 si dice che Pietro ritornando dal sepolcro restò «pieno di stupore». Forse il punto di vista migliore è quello

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    così una prima significazione del «vide e credette» (Gv 20, 8): esso non vuole mettere in rilievo che la fede di Giovanni sia stata suscitata dal vedere (nel senso cioè di: «credette perché vide»). Il « vedere e credere » è infatti, anche essa una coppia con cui il quarto evangelo mostra i due aspetti coesistenti della fede dei primi testimoni, fede legata al regime di una esperienza storica.88 Qui, infatti, si vuol sottolineare l'acume di fede del discepolo che Gesù amava, la forza del suo carisma personale che