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Italian Pages 626 Year 1982
Marcello Bordoni
,
GESU DI NAZARET SIGNORE E CRISTO
saggio di cristologia sistematica
2. Gesu al fondamento della cristologia
Herder
~
Università Lateranense
In memoria di mia sorella Maria testimone di Cristo tra i piccoli, ai quali il Padre si è degnato rivelare i «Misteri del Regno», dispensatrice della «sapienza dell'Amore» tra coloro che non credevano di poter essere amati.
Con approvazione ecclesiastica
PROPRIETÀ LETTERARIA RISERVATA STAMPATO IN ITAUA PRlNTED lN lTALY
GESTISA S.r.l. - Stabilimento Tipografico «Pliniana » Viale F. Nardi, 8 Selci Umbro - Perugia - 1982
INDICE INTRODUZIONE PARTE I CAPITOLO I LA VENUTA DI GESù DI NAZARET NEL QUADRO DELLE ATTESE STORICHE DI ISRAELE I.
LE ATTESE STORICHE DI ISRAELE . .
Il. LE ATTESE DI ISRAELE NEL QUADRO DELLA STORIA UMANA .
Pag.
10
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JO
CAPITOLO II LE ORIGINI DELLA ESISTENZA STORICA DI GESù l.
38 46
L'ADEMPIMENTO DEL TEMPO ANTICO
II. LE ANTICIPAZIONI DEL VANGELO . CAPITOLO III LA VITA PUBBLICA DI GESÙ: GLI INIZI I.
IL QUADRO GENERALE DELLA VITA PUBBLICA DI GESÙ DI NAZARET
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56
II. GESÙ ED IL MOVIMENTO PENITENZIALE DEL BATTISTA .
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61
lii. DESERTO E TENTAZIONI DI GESÙ .
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69
CAPITOLO IV IL MINISTERO GALILAICO: IL MESSAGGIO DEL REGNO DI DIO NELLA PREDICAZIONE DI GESù l.
LE DIMENSIONI ESSENZIALI DELL'ANNUNCIO . a) L'attualità escatologica di Gesù . . . .
del
Regno
nella
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77
predicazione
78
INDICE
VI
b) La dimensione teologico-cristologica del messaggio del Regno nella predicazione di Gesù . e) Il carattere soteriologico-ecclesiologico del messaggio del Regno . II.
IL MESSAGGIO DEL REGNO NELLE BEATITUDINI E NEULE PARABOLE A. Le «beatitudini» B. La giustizia del Regno C. Il messaggio del Regno nelle parabole -
Il significato del linguaggio delle parabole Il valore storico Il messaggio evangelico del Regno nelle parabole
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CAPITOLO V LA VENUTA DEL REGNO NEL COMPORTAMENTO PERSONALE DI GESù: IL MISTERO DELLA SUA PERSONA
I.
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155 165
I SEGNI DELCA M!SERlCORDIA
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187
a) Il comportamento di Gesù in rapporto alle classi dominanti del giudaismo del suo tempo b) Il comportamento di Gesù verso i poveri ed i piccoli
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192 206
L'AUTORITÀ DI GESÙ (exousia regale) -
II.
Gesù e la Legge .
III. I SEGNI DELLA POTENZA SALVIFICA: I MIRACOLI a) Il problema storico b) Il significato teologico del miracolo
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228 245
CAPITOLO VI IL MISTERO DELLA PERSONA DI GESÙ NELLA SUA IDENTITA FILIALE
I.
GESÙ ED IL PADRE
II. GESÙ E LO SPIRITO -
Il significato del rapporto di Gesù di Nazaret con lo Spirito
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310
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CONCLUSIONE DELLA PRIMA PARTE I.
LA QUESTIONE DI GESÙ .
II. IL PERIODO POST-GALILAICO: GESÙ, I DISCEPOLI E LA COMUNITÀ DEL REGNO
VII
INDICE
PARTE II VERSO LA CROCE E LA RESURREZIONE CAPITOLO
I
IL MINISTERO GEROSOLIMITANO E LA CRISTOLOGIA DI GESù
I.
LA CRISTOLOGIA DI GESÙ AL CONFRONTO CON IL GIUDAISMO UFFICIALE:
I
DIBATTITI
GEROSOLIMITANI NEI
SINOTTICI E
Pag. 348
NEL QUARTO EVANGELO
Il.
LA ESCATOLOGIA: DIMENSIONE ESSENZIALE DELLA CRISTOLOGIA DI GESÙ • .
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40.3
))
408
ESISTENZA TERRENA DI GESÙ DI NAZARET E DELLA SUA COSCIENZA PROTESA VERSO LA PASSIONE E LA CROCE .
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426
Il.
LE
PROFEZIE
DELLA
))
435
III.
LA
CENA
ADDIO
JIJ. I
TITOLI MESSIANICI E LA CRISTOLOGIA DI GESÙ
1. La cristologia di Gesù di Nazaret nei titoli riguardanti la
realtà escatologica del Regno . . . . 2. La cristologia di Gesù di Nazaret nei titoli concernenti la realtà teologica del Regno . 3. La cristologia di Gesù nei titoli riguardanti la realtà soteriologico-ecclesiologica del Regno . CAPITOLO
II
LA CRISTOLOGIA DI GESù DI NAZARET ED IL CAMMINO VERSO LA CROCE (soteriologia)
I.
SGUARDO GENERALE SULL'ORDINAMENTO ESCATOLOGICO DELLA
DI
PASSIONE .
Il significato della soteriologia di Gesù di Nazaret
JV.
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451
0
GLI AVVENIMENTI DELLA PASSIONE E DELLA MORTE DI GESÙ
-
Il Getsemani . L'arresto di Gesù I! processo di Gesù La crocefissione
-
LA MORTE DI GESÙ
Conclusione
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458
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464 465
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514
INDICE
VIII
CAPITOLO III DALLA CROCE ALLA RESURREZIONE I.
LA RESURREZIONE DI GESÙ: LO STATO DELLA QUESTIONE
II.
LA REALTÀ DELLA RESURREZIONE DI GESÙ COME EVENTO STORICAMENTE CONOSCIBILE
1. La certezza delln fede e della predicazione apostolica sulla resurrezione di Gesù di Nazaret . 2. I RACCONTI PASQUALI: a) Le apparizioni del b) Il sepolcro vuoto
Risorto
III. LA REALTÀ DELLA RESURREZIONE DI CRISTO NEL SUO SIGNIFICATO RIVELATO DAI LINGUAGGI NEOTESTAMENTARI 1. Resurrezione ed escatologia 2. Resurrezione e vita . 3. Esaltazione e glorificazione . 4. Complementarità dei linguaggi 5. L'ascensione del Signore: avvenimento storico o linguaggio di fede? IV. LA RESURREZIONE DI CRISTO COME COMPIMENTO DELLA CROCE E COME NUOVO EVENTO CRISTOLOGICO-PNEUMATOLOGICO V.
LA RESURREZIONE DEL CRISTO ED IL DONO DELLO SPIRITO .
1. Il Cristo Risorto nascita della fede 2. Il Cristo Risorto nuova creazione 3. La resurrezione di CONCLUSIONE GENERALE
per il dono .. dello Spirito genera la pasquale per il dono dello Spirito inizia la
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Cristo e la pentecoste
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ABBREVIAZIONI (collezioni, dizionari, riviste citati.)
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GESU DI NAZARET SIGNORE E CRISTO
INTRODUZIONE In questa sezione di studio della cristologia il nostro compito è quello di risalire alle origini della fede ecclesiale in Gesù come Cristo, Signore, Figlio di Dio, unico Salvatore dell'uomo, compimento della storia. In questo risalire « alle origini » si assolve il primo ruolo « fondatore », per la fede cristologica, da parte della cristologia. La fede cristiana, infatti, non è sospesa ad una rivelazione puramente celeste, ad una conoscenza esoterica di verità puramente atemporali; nè è una fede chiusa in se stessa nel cerchio magico di una autoesperienza comunitaria creatrice di salvezza. La fede cristiana è fede in Dio rivelatosi in Gesù Cristo, nel compimento dei tempi, prima che noi .credessimo (extra nos della salvezza). In Gesù Cristo, nella sua Persona incarnata nella storia, nel suo messaggio, nella sua causa realizzatasi nell'evento pasquale della morte e resurrezione sta il criterio primario della stessa fede ecclesiale, per cui quanto si è compiuto nella storia di Gesù 1 è « parte integrante » e non un semplice presupposto della fede stessa Quanto esporremo quindi in questa seconda sezione sul volto storico di Gesù, sulle vicende della sua vita, sulla sua testimonianza riguardo a se stesso, risalendo attraverso i dati degli evangeli alla realtà originaria dei fatti, non è dettato da un interesse semplicemente biografico e ·storiografico. Il valore del dato originario della storia di Gesù e della sua cristologia sta in una esigenza autocritica della fede stessa, nella verifica, cioè, della sua piena corrispondenza al fatto cristologico delle sue origini, da cui essa attinge la sua più profonda novità, la sua vitalità, la sua efficacia salvifica nel nostro stesso presente storico. Bisogna però richiamare, 1 a come seconda premessa, che l'idea del Gesù storico non deve essere indel?itamente ridotta all'evento prepasquale della sua vita, svuotando di contenuto e di importanza l'evento pasquale (il Cristo Crocifisso e Risorto) per affermare che oltre la morte la causa di Gesù continua. Questo significherebbe voler dare il predominio al passato ed alla funzione della memoria, interpre1 1&
Vedi volume I, c. 1: «Il problema critico della cristologia», p. 19 s. I vi, pp. 66-68.
2
GESÙ DI NAZARET, SIGNORE E CRISTO -
Il
tando poi l'era post-pasquale come quella del mero predominio della dimensione soggettiva della fede della Chiesa. Una tale concezione non riuscirebbe a superare in partenza il pernicioso dualismo che .finisce sempre con l'opporre l'oggettivismo della Historie con il soggettiviismo kerigmatico della Geschichte. In realtà, la fede apostolica era già presente nella vita terrena di Gesù durante la quale ha trovato il suo primo inizio, si è andata formando nel suo primo Sitz im Leben, la tradizione apostolica sul detti e sui fatti di Gesù. 1 b Ma d'altra parte, la realtà di Gesù di Nazaret compiutasi nell'evento della morte e della resurrezione, non è rimasta racchiusa in un passato terrestre: il Croci.fisso-Risorto, Vivente ed inviante lo Spirito è, anche se in modo nuovo, realmente presente nella sua Chiesa (Mt 28, 20). Per questa presenza, il Cristo, è oggi e sempre, la guida in avanti verso la sua Parusia finale. È per questa sua presenza quale glorifìcato che Gesù, come Cristo e Signore, costituisce la norma sempre attuale della fede. Il discorso sulla storicità di Cristo non deve dissociare le due dimensioni della sua presenza storica nel mondo: quella nella sua condizione terrestre quale Figlio di Dio umiliato ed obbediente fino alla morte di Croce (condizione di esistenza prepasquale « secondo la carne ») e quella nella condizione celeste di Figlio di Dio in potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la resurrezione dai morti (Rm 1, 4). A questo duplice momento fondamentale dell'evento di salvezza compiutosi storicamente in Gesù di Nazaret, Crocifisso e Risorto, corrisponde un duplice momento della fede ecclesiale la quale passa dal suo primo Sitz im Leben nella vita prepasquale di Gesù,2 attraverso l'esperienza della pasqua, ad una più completa ed evoluta penetrazione dell'evento cristologico con una fede più interiorizzata e più lucida, caratterizzata dalla particolare opera dello Spirito inviato dal Padre per il Cristo glorificato, che conduce la coscienza della fede apostolica alla verità tutta intera (Gv 16, 13 ). Tra il primo ed il secondo momento, che dopo la gestazione nel Sitz im Leben della vita di fede delle comunità cristiane si completa nel momento redazionale degli evangeli (redaktionsgeschichte ), c'è profonda connessione. 58 s. fase della fede apostolica dei «giorni della carne», nella quale, come abbiamo detto, trova la sua prima origine la tradizione dei detti e dei fatti di Gesù, fede legata essenzialmente alla esperienza storica dell'incontro con Gesù nella vita di comunità con il Maestro (regime del vedere e credere, Gv 20, 8), costituisce un periodo di fondazione per la fede di tutte le generazioni cristiane, inquanto fa corpo con il fatto delle origini ed ha quindi un ruolo unico ed irrepetibile di testimonianza. lb Ivi, p. 2 Questa
INTRODUZIONE
3
In questo passaggio, infatti, dal tempo di Gesù secondo la carne al tempo di Cristo secondo lo spirito, la fede ecclesiale penetrando in profondità i ricordi storici, fa scaturire da essi quel mistero nascosto nella carne stessa che illumina il cammino della Chiesa nel tempo, per cui la storia sboccia in kerigma, ma il kerigma consente di cogliere, nel più intimo segreto dei fatti, il milstero della vita di Cristo. Se i documenti storici, che sono gli evangeli, attraverso i quali solamente è possibile ricostruire i tratti essenziali della vita di Gesù, sono nello stesso tempo documenti nei quali il dato storico documentato è penetrato di luce pasquale e della fede ecclesiale postpaisquale, questa loro peculiarità non va considerata in partenza come una difficoltà. Essa cioè non è un ostacolo da sormontare, per rintracciare, dietro o al di là della posizione di fede, una verità originaria dei fatti stessi che sia indipendente o addirittura estranea alla conoscenza di fede. Questo sarebbe infatti già ricadere nel deprecato dualismo di ·storia e fede. Noi abbiamo veduto 3 come una posizione di fede, intesa come disponibilità ad accogliere dei possibili interventi di Dio nella storia, sia già un necessario presupposto ad una corretta impostazione della indagine storica su Gesù, quale primo presupposto, dall'alto, per una conoscenza « dal basso » della sua vita terrena, della sua missione. Ma se la fede, intesa come generica apertura religiosa ad un Dio presente ed operante nella storia, è solo un presupposto alla corretta utilizzazione dei criteri che consentono di accedere alla conoscenza ~;torica di Gesù di Nazaret, la «fede cristologica» della Chiesa ·postpasquale è un luogo essenziale non per la conoscenza dell'accadimento dei fatti, testimoniato da una memoria fedele, ma pe1· una più profonda ed ,1utentica significazione di quei stessi fatti. La conoscenza degli eventi della vita di Gesù non va intesa alla maniera riduttiva di un positivismo che cura il mero accadimento dei « bmta facta ». La conoscenza storica che per la via dell'attuale criteriologia risale alla esperienza diretta ed originaria dei testimoni, quando è illuminata dalle ulteriori comprensioni ispirate dal loro paisquale dello Spirito, diviene una conoscenza satura di mistero che porta a compimento il valore di « storicità » Geschichtlichkeit di quell'evento stesso. La fede pasquale non allontana quindi dalla « realtà-verità » della storia di Gesù, ma rende ben più vicini ed a contatto con tale « realtà-verità » soprattutto perchè consente di accedere al valore essenziaJmente salvifico « per noi » di questa storia. 3
Vedi Volume I, c. 1: «La Cristologia ed il problema di Dio», p. 95 s.
4
GESÙ DI NAZARET, SIGNORE E CRISTO -
Il
Il nostro studio inizierà con la considerazione delle attese che fioriscono nell'ambiente culturale religioso di IMaele, nel cui seno si affaccia il Messo escatologico e divino del Regno di Dio e che illuminano l'esistenza storica di Gesù, la quale si colloca nel contesto di un'antica storia di salvezza che trova appunto in Lui il suo definitivo compimento. Posto al termine di tale storia, l'evento compiutosi in Gesù Cristo, trova il suo 1significato fondamentale di compimento e di superamento delle attese messianiche di Israele, cosl come la verità ·supera gli adombramenti. Dopo quanto abbiamo mostrato nella prima parte del nostro saggio, noi riteniamo che questo approccio al « fatto delle origini» debba costituire il primo momento di ogni discorso di « cristologia dogmatica », perchè esso verifica le ragioni fondamentali del nostro discorso di fede su Cristo. Se Egli, infatti, è annunciato dalla Chiesa come « Cristo, Signore, Figlio di Dio, Logos, Salvatore», se egli è atteso come il « Signore della fine dei tempi», se è professato come «Preesistente ed Incarnato », ciò è dovuto originariamente da quanto già nell'evento prepasquale Gesù stesso, nei fatti e nei detti della sua vicenda storica, ha mostrato ed asserito dì sè. Nelle profondità nascoste di quella storia che i testimoni prescelti hanno esperito e vissuto, in comunione con Lui, •sta il fondamento di realtà oggettivo e di fede apostolica originaria che è alla base di ogni ulteriore sviluppo cristologico ulteriore. Questo mistero della identità originaria di Gesù di Nazaret rivelata negli eventi della sua esistenza terrena, è ampiamente testimoniata dai dati evangelici che pur offrendoci una narrazione avvolta nella luce della resurrezione lascia però intravedere quella autentica realtà dei fatti, che non deve la sua significazione solamente alla loro comprensione pasquale. Nella Pasqua infatti è giunto a compimento quanto Gesù di Nazaret aveva detto e pensato di sè. D'altra parte, la possibilità stessa da parte dei discepoli di riconoscere, negli incontri pasquali, il Risorto, era dovuta proprio alla esperienza storica ed alla comprensione di Lui che essi avevano già avuto, anche se ancora imperfettamente, durante il tempo della comunione di vita con il Maestro. Lo stesso kerigma apostolico riflette tale dato (At 10, 37-40; cfr. At 2, 33): la proclamazione dell'evento della resurrezione è compiuto al termine della storia del singolarissimo profeta galileo, unto di Spirito Santo e di potenza. Se la resurrezione getta una luce nuova sul passato di Gesù, essa non trasforma, né manipola ciò che è accaduto, ma ne fa risaltare la sua intrinseca significazione, mostrando proprio che quanto
INTRODUZIONE
5
in esso è accaduto prima di pasqua e nella sua croci:fìssione e resurrezione non è stato vano. Per questo « la resurrezione non inietta un senso alla vita di Gesù». Tale senso è presente dall'inizio e si è offerto umanamente a conoscere. È vero che la storia di Gesù non è pienamente compresa che in relazione all'evento di pasqua, ma «il reciproco non è meno vero: la Resurrezione non è una esteriorità; essa è immanente al divenire di Gesù: essa non è dunque ·percepita correttamente che per riferimento a ciò che si è dato a vedere in Gesù storico. Il movimento del kerigma presuppone sempre la conoscenza del Gesù storico ». 4 Una tale motivazione ci induce ad 1iniziare il nostro saggio di cri1stologia sistematica partendo anzitutto non già dalla ressurrezione di Cristo, ma dalla storia terrena di Gesù di Nazaret. Il kerigma del Risorto richiede un contesto: l'esperienza del Gesù storico. Privo di tale contesto la morte e la resurrezione di Gesù diverrebbero delle categorie, cessando in qualche modo di essere degli eventi singolari. Il Risorto è lo stesso profeta crocifoso e la sua resurrezione non modifica i suoi tratti storici, il contenuto del suo messaggio, lo stile della sua Persona. È per questo che « l'accesso a Gesù Risorto pas•sa attraverso il Gesù prepasquale. Non per isolare il profeta galileo, in un procedimento critico, dal Risorto vivente nel cuore del mondo, ma per raggiungerlo in tutta la sua realtà, nel segreto che lo costituisce. Questo segreto che fa la persona di Gesù, questo segreto rivelato a Pasqua è presente in Lui fin dal primo momento della sua esistenza terrena » .5 La motivazione di questo nostro punto di partenza caratterizzato dal suo risalire alle « origini» (ermeneutica delle origini) assolve anche a quella « istanza fondamentale » da cui una cristologia odierna non può più prescindere. Essa intende recuperare all'interno dell'orizzonte di fede pasquale il cammino che una volta era compiuto in un trattato diverso: quello propedeutico della apologetica, tendente alla verifica della « verità storica » del « fatto della divina rivelazione, compiutosi in Gesù di Nazaret », quale Messo divino. Oggi però, l'approccio fondamentale è cambiato, considerando le cose sia in rapporto all'interlocutore esterno del dilScorso di fede cristologica, sia all'interno dello stesso ambito della fede. Rispetto all'esterno appare insufficiente una sola dimo:>trazione storica del C. DuQuoc, Christologie. Essai dogmatique, II, Paris 1972, 16. GUJLLET, L'accesso alla Persona di Gesù, in «Problemi e prospettive di teologia fondamentale», Brescia 1980, 270. 4
5
J.
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GESÙ DI NAZARET, SIGNORE E CRISTO -
Il
« fatto ». La verità trova la sua credibilità non solo nell'accadimento del fatto, ma nella sua significazione e nella potenza salvifica di un meSISaggio che si impone per le sue intrinseche qualità di valori altamente significativi per la salvezza dell'uomo (il contenuto diviene altrettanto importante del «fatto che»). Di qui l'approccio storico deve evidenziare, con il risalire alle « origini » di Gesù, tutta la portata di rilevanza del messaggio e del ruolo salvifico della sua Persona, onde emerga che di fronte a Cristo, non solo i contemporanei sono stati posti in questione nel significato del loro esistere e si sono sentiti profondamente interpellati, ma l'uomo di ogni tempo, trova in Lui la risposta fondamentale al significato della sua esistenza, il valore della sua vita e della sua morte stessa (GS 22, 41). All'interno del mondo della fede, l'approccio a Gesù di Nazaret consente come abbiamo già detto, quella motivazione critica della fede che mostra la profonda continuità e coerenza tra quanto Gesù di Nazaret ha detto e pensato di sè, con quanto il linguaggio della predicazione pasquale annunzia e proclama di Lui. Per questo, la fede cristologica della Chiesa appare come il fedele rispecchiamento dell'evento oggettivamente compiutosi in Gesù Cristo. In questo suo compito di verifica, il credente coglie meglio quel contenuto di «novità cristiana» che contraddistingue l'assoluta ed irriducibile originalità della fede stessa legata indissociabilmente alla Persona Divina incarnata ed alla storia di Gesù. In questo modo la fede approfondisce le ragioni non 1solo storiche delle sue origini, ma anche le ragioni teologiche della propria identità che ne garantiscono il valore di irrepetibilità ed universalità salvifica. Nel suo approccio alla realtà della immagine storica di Gesù di Nazaret questa prima sezione della cristologia sistematica intende far emergere quindi quel significato originario dell'avvenimento che riluce nel suo contesto storico spazio temporale, in cui esso si è realizzato, anche se nell'intento, sempre presente, di mostrare che quanto è avvenuto allora ha una rilevanza che trascende gli angusti limiti del tempo. Questo secondo aspetto concernente il valore univel1Sale dell'evento cristiano sarà particolarmente presente nella terza parte del nostro saggio concernente il discorso di fede dogmatica della cristologia. Roma 13 maggio 1982 :MARCELLO BORDONI
Pontificia Università Lateranense
PARTE PRIMA
CAPITOLO
I
LA VENUTA DI GESù DI NAZARET NEL QUADRO DELLE ATTESE STORICHE DI ISRAELE
Il cammino storico verso l'immagine di Gesù di Nazaret che per le ragioni sopra indicate occupa il primo momento del nostro saggio di cristologia sistematica, non può essere compiuto senza il confronto con le atte~e fondamentali emergenti nell'ambito del giudaismo del tempo di Gesù. La sua figura si staglia, infatti, sul fondo delle speranze giudaiche in rapporto alle quali egli ha realizzato il senso della sua missione, speranze che egli ha assunto e trasformato interiormente portando a compimento le loro virtualità latenti, superando il piano stesso delle attese. In tal modo è possibile cogliere, con la « continuità», anche la fuggire al giudizio escatologico. Non restava che la penitenza (Le 3. 7-12;
71 R. SCHNACKENBURG, 35·36; l'accettazione del giogo del Regno consisteva in sostanza nell'accettazione del monoteismo e della Torah, strettamente legati l'uno all'altra. Ogni israelita nel recitare mattino e sera lo lema Israel si impegnava ad accettare l'imperativo che esso conteneva circa il giogo del Regno. P. BJLLEl\BECK, Kommentar, I, 176-77. n Il Regno di Dio è nella concezione rabbinica in un certo modo già presente nella storia attraverso il governo universale del mondo da parte di Dio, solo che tale presenza si rivela in certi momenti particolari, come nell'Esodo dall'Egitto, nel dono della Toràh, nei giorni di Gog e Magog, nei giorni del Messia (P. BILLERBECK, Kommentar, III, 833; P. VoLz, Die Eschatologie, 167). I due ultimi momenti appartengono al futuro ed introdurranno la manifestazione futura del Regno. i3 R. SCHNACKENBURG, op. cit., 37. 74 J. DELORME, La pratique du baptéme dans le judalsme contemporain des origines chrétiennes, LmV 26 (1956), 21-60; J. S!NT, Die Eschatologie des Tau/ers, die Taufengruppen und die Polemik der Evangelien, in K. ScmrnEUT, « Von Messias zum Christum », Wien 1964, 55-163; J. BECKER, Johannes des Taufer u11d Jesus von Nazareth, Neukirchen 1972.
30
GESÙ DI NAZARET, SIGNORE E CRISTO -
Il
Mt 3, 7 - 9. 15-18). Ma la penitenza, è da lui intesa come libero dono di Dio: l'uomo da solo non è in grado di operare la «metanoia»; fare penitenza è farsi cambiare da Dio. Di qui il rito battesimale che Giovanni amministrava (contrariamente alla consuetudine di immergersi da soli), indicava che la metanoia implicando il farsi battezzare da Giovanni, mandato da Dio (Mt 21, 25 par.), voleva dire lascia11si cambiare da lui. Questa concezione della metanoia appariva in contrasto con le tendenze prevalenti nel rabbinismo che non sfuggivano al pericolo di dare alla metanoia il valore di « prova », « opera meritoria », cadendo così nella sopravvalutazione dei fattori umani e nel perseguire orgogliosamente i meriti. 75 Cosl anche se il Regno di Dio si sarebbe rivelato alla fine, dopo i giorni del Messia, per un intervento esclusivo della volontà di Dio, tuttavia si pensava di poter « affrettare » con « le opere » i giorni del Messia manifestando tutte le caratteristiche di una religione della Legge che mediante l'osservanza della Torah aggravava le speranze del Regno di un giogo pesante (Mt 23, 4; 11, 28-30).
Il.
LE ATTESE D'ISRAELE NEL QUADRO DELLA STORIA UMANA.
Le speranze di Israele centrate nell'annuncio escatologico della regalità di Dio rappresentano indubbiamente una particolare visione della storia di natura profondamente religiosa coerente con tutta la cultura d'Israele che non prescinde dal suo formale rapporto con Dio, rapporto che entra nella definizione della concezione stessa dell'esistenza, della vita, della realtà dcl mondo, del suo significato ultimo nel cui quadro s'inserisce il senso dell'uomo e del suo destino, come singolo e come comunità. Questa cultura, permeata di fede, si sviluppa all'int1~rno di una storia ben singolare e particolare, nella quale si intrecciano i problemi umani, le attese e le delusioni di un popolo, insieme agli interventi di Dio che gli aprono elevati orizzonti di speranza (pace, benessere, felicità, libertà, giustizia) e tendono a realizzarli attraverso una storia condotta dal suo singolare disegno sapiente. È a partire da questa storia particolare di salvezza, condotta dal Dio dell'alleanza che Israele, proprio in forza della sua fede in Dio Sal75 S. SJOBHRG, Gott und die Sunder, 144-153; 154-169. I rabbini discutevano se, al tempo fissato, il Regno si sarebbe manifestato in ragione della misericordia di Dio o della condizione in stato di penitenza di Israele.
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vatore, giunge ad una visione sempre più ampia della storia, della vicenda dei popoli e delle nazioni, risalendo da un lato all'alleanza di Dio con Noè, fino alla stessa creazione ed all'inizio della umanità e dall'altro spingendosi al termine della storia stessa in cui il destino di Israele s'incontrerà con quello degli altri popoli in un unico mondo rigenerato e trasformato. È in questo modo che Israele vive storicamente la sua fede religiosa ed insieme realizza religiosamente la sua storia. Ora è importante rilevare come questa speranza religiosa di Israele sia una speranza di profonde risuonanze umane per tutta la storia di salvezza dell'umanità. Nel nostro ambiente occidentale europeo l'idea di regalità non esprime tutta la ricchezza umanizzante del messaggio religioso biblico dell'avvento del Regno di Dio. L'idea stessa di regalità e di regno evocano infatti una determinata struttura socio-politica i cui caratteri si pongono in contrasto con l'attuale comprensione dell'uomo e della •società. Essa appare legata ad un esercizio di potere sull'uomo secondo un modello autoritario o paternalistico in forza del quale il governante detiene la sua autorità immediatamente dall'alto imponendo sugli altri un giogo di servitù, mentre il bene comune richiede la sottomissione di ciascuno a tale potere ed all'ordine stesso gerarchico prestabilito ed irrevocabile. È una concezione che si qualifica nel contesto di una visione « ierarcheologica » del mondo.76 Una tale concezione appare oggi in contrasto con i modelli socio-politici ispirati da un ideale di libertà della persona mediante la partecipazione attiva alla vita sodale (società democratica) intesa prima « come una filosofia, un modo di vivere, una religione e, quasi secondariamente, una forma di governo ».77 Per questo, ai modelli autoritari del passato tendono ad essere sostituite sempre 76 Un esempio classico di questo modello precomprensivo delle strutture gerarchiche della società lo si può trovare nella concezione gerarchica del mondo dello Pseudo Dionigi che molti influssi ha esercitato nel pensiero medioevale. In essa il mondo visibile riproduce nelle sue linee il mondo intelligibile; l'ordine gerarchico, singolarmente autoritario e centralizzato, tende a dare una certa onnipotenza al potere stesso regale come diretto rappresentante di Dio. R. RcQUES, L'univers dionysien. Structure hiérarchiques du mond se/on le Pseudo-Denys, Paris 1954. 77 G. BuRDEAU, La démocratie, Paris 1966, 9; Pro XII, Radiomessaggio (24 XII 1944), AAS 37 (1945), 11-17: la tendenza democratica si diffonde nei popoli ed ottiene largo consenso e suffragio di coloro che aspirano a collaborare più ef!icamente ai destini degli individui e della società. Perciò egli riteneva l'ordine democratico « un sistema di governo più compatibile con la dignità e libertà dei cittadini, un postulato naturale imposto dalla ragione medesima». J. MARITAN, Christianisme et démocratie, New York 1943, 55 ss.
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più forme di partecipazione e regimi di tipo dialogato; il che appare dcl tutto conforme anche agli orientamenti più recenti dello stesso magistero ecclesiastico.78 Per valutare l'importanza attuale dell'antica speranza di Israele circa l'avvento del Regno di Dio, bisogna anzitutto considerare le differenze profonde della concezione biblica della « regalità » dalle forme di « epifania di potere » in voga nell'ambiente culturale greco-romano del tempo, come pure di altre culture successive. Già il contesto stesso culturale dominante fin dal terzo millennio a.C. sia in mesopotamia che in Egitto privilegiava un ideale di « re » il cui compito era essenzialmente quello di difendere i diritti dei deboli, dei poveri, degli oppressi, di tutti coloro che non erano in grado di difendersi da soli. 79 Egli non esercitava un tipo di giustizia egualitaria caratterizzata da una politica di equidistanza, tendente ufficialmente a garantire i diritti di tutti, ma che si risolve di fatto con il proteggere la tranquillità degli oppressori: la giustizia che si attendeva dal re era la difesa del diritto dei deboli, la protezione della vedova e dell'orfano, la condanna di coloro che abusano del potere e della ricchezza facendone strumento di dominio nei confronti dei poveri. La concezione della regalità di Dio nella tradizione di Israele si colloca in questo contesto culturale di una concezione della « giustizia regale >r intesa appunto come «protezione degli indifesi». Gli ideali della regalità nell'ambiente mesopotamico non raggiungono però il livello della concezione della regalità divina in Israele specie negli sviluppi della predicazione profetica. 80 Anche in Israele il « re » è protettore dei deboli e questa sollecitudine appare come attributo della condotta costante di Dio nel governo delle cose del mondo: per lui, fare giustizia, è esercitare un intervento sovrano nella storia, compiere un giudizio (mispaf). Con tale intervento, Dio, fedele all'alleanza, difende il popolo contro i suoi nemici, fa prevalere il di-
78 GIOVANNI XXIII, Pacem in terris, AAS 55 (1963), 263, 271, 278; Mater et Magistra, AAS 53 (1961), 416; Y. CALVEZ, La société démocratique, Paris 1963, 193. 79 J. DUPONT, I protetti del Re. I - Oriente antico (Mesopotamia-Ugarit-Egitto), in «Le Beatitudini», I, Roma 1972, 580-596; H. CAZELLES, La royaulé, son idéologie et ses rites dans l'Ancien Orient, in «Le Messie », 31-52. È in questo contesto che il senso regale del «fare giustizia» è divenuto concretamente una espressione che indica atteggiamento di misericordia, di condono di debiti, di sollevamento di sudditi angariati. so S. MowrNCKEL, He that Cometh, 93.
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ritto degli oppressi contro coloro che li opprimono, schiaccia gli oppressori e compie opera di sollecitudine nei confronti dei deboli.81 Molti salmi proclamano la giustizia regale invocando l'aiuto di Dio e rendendo lode alla sua sollecitudine (Sal 76, 8-10; 68, 6-7; 103, 6-7; 146, 7-10; 9-10). Si deve notare la peculiarità della visione biblica della giustizia regale di Dio, che la differenzia dal contesto socio-culturale mesopotamico: essa è anzitutto un atto di intervento divino dovuto alla « fedeltà di Dio » a se stesso, che con la sua autorità garantisce il diritto di coloro che non possono farlo da se stessi: « il povero e l'orfano devono poter contare su questo intervento di Dio, precisamente perchè non hanno nessuno che possa difenderli contro chi è più forte di loro » .82 La ragione ultima della giustizia regale di Dio, però, non sta tanto in un diritto dell'uomo oppresso, quanto in una regale prerogativa di Dio, come Dio giusto e redentore (go' él): Egli è Colui che riscatta in ultima istanza, quando cioè viene a mancare ogni altra risorsa umana. Cosl nel salmo 72, salmo messianico, si annuncia una regalità ed un re che libererà il povero dal violento ed il misero che non trova aiuto, « avrà pietà del povero e dell'infelice e salverà ai miseri la vita dall'oppressione e dai violenti li riscatterà; il loro sangue sparso sarà prezioso davanti a lui» (vv 12-14). Quindi la giustizia regale divina non deriva tanto da una idealizzazione della povertà, quanto dalla munificenza stessa di Dio che nei messaggi .profetici è proiettata, come sua manifestazione straordinaria, nel futuro escatologico, quando « i poveri » saranno protagonisti nella realizzazione del nuovo mondo, quando il Signore «verrà» (Ez 34, 15-29; Is 35, 2-10; 40, 9-11; 61, 1-11). Jahvè avrà, infatti, con loro un rapporto preferenziale: essi, gli anawim, gli ebyéìnim, saranno i grandi beneficiari del nuovo ordine (Is 29, 19-21).83 La regalità di Dio appare dunque
ai J. DuPONT, I protetti del re. II - Israele: Dio fa giustizia ai poveri, I. cit., I, 596 s. 82 J. DuPONT, ivi, 536; mentre nell'ambiente mesopotamico la cura dei poveri appare anzitutto prerogativa politica del re terreno che diviene poi prerogativa di Dio, per la Bibbia si invertono i termini: la cura dei poveri è anzitutto prerogativa di Dio e, come conseguenza, dei re o di coloro che detengono la potestà di governo in nome di Dio. &.l Per una analisi culturale-religiosa dell'idea dei « poveri » nella concezione semitica, in generale, bisogna aver presente che il semita non vede, come nelle nostre culture, la povertà come una «possessione del poco» (parvi possessio), quanto l'inferiorità sociale che pone le «persone povere» alla mercè dei potenti e dei violenti: il povero è l'uomo senza difesa. A questa connotazione sociale va
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nella Bibbia come una signoria inalienabile di natura liberante, che non asserve, ma esalta l'uomo indifeso e ne fa un protagonista nella storia della salvezza e non un semplice suddito. Essa costituisce come un fermento critico, un ideale che richiama costantemente la speranza di Israele verso un regno « a favore dell'uomo » per la realizzazione degli« interrogativi che gli uomini si pongono sui temi di pace, di libertà, di. giustizia, di vita ». 84 Così la gloria inalienabile della manifestazione storica del Dio Re è tutta a beneficio dell'uomo inquanto garantisce la difesa della vita minacciata, della libertà compromessa, della giustizia calpestata. Se l'instaurazione della regalità di Dio nella storia del mondo risponde, nella concezione biblica, ai più profondi interrogativi umani in materia di pace, libertà, giustizia, nella visione religiosa di Israele la portata di questa risposta assume un valore di pienezza molto più elevato rispetto alle speranze puramente umane. Sta qui soprattutto « la novità » della concezione biblica della regalità divina ri·spetto alle forme culturali di regalità più in voga nell'ambiente mesopotamico. L'intervento escatologico divino regale nel mondo non è solo un'azione di Dio a difesa dei deboli, dei poveri, per la realizzazione della giustizia, della pace, della libertà come beni intrinsecamente umani. 85 Considerando le cose solo da questo punto di vista si potrebbe pensare che le speranze messianiche di Israele non erano molto diverse dai « modelli messianici » periodicamente ricorrenti ed in ascesa nella storia dell'umanità nelle situazioni di malessere socio-politico. 86 Che in certi periodi di decadenza della vera speranza escatologica si sia determinata nelle apocalissi extra-bibliche una fioritura di immagini puramente utopiche e di una mentalità di evasione, non vuol dire che ,si debba discreditare la portata apocalittica della speranza escatologica del regno di Dio nella visione della Bibbia, come mera espressione mitica di questa speranza stessa. In realtà la novità assoluta delle concezioni religiose di Israele sta
aggiunta quella spirituale-religiosa: spesso nella Bibbia « i poveri » sono uomm1 giusti e pii che ripongono in Dio la speranza della loro difesa e protezione. J. DuPONT, Il vocabolario della povertà, I. cit., 522-547. 84 W. KAsPER, Jesus, 85. 65 F. DREYl'US, La doctrine du Reste d'lsrai!l chez le prophète !raie, RSPT 39 (1955), 361-386. 86 H. DESROCHE, Sociologies religieuses, Paris 1968; id. Sociologie de l'espérance, Paris 1973.
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in un intervento di Dio nel mondo che non è solo di natura creativ3, ma « autocomunicativa » per cui attraverso la Parola e lo Spirito, Dio si dona all'uomo in una comunione di amicizia divenendo partecipe « personalmente » della storia umana. Attraverso questa autocomunicazione, gli stessi concetti di pace, giustizia, libertà, vita, vengono non già svuotati del loro contenuto umano, ma arricchiti dell'apporto di Dio; tali ideali umani, infatti, che implicano già di per sè, nel loro valore di assolutezza, una implicita connotazione religiosa, nel quadro della storia di Israele, storia di alleanza con Dio, acquistano una formale dimensione religiosa dialogica: essi non sono veduti principalmente come conquiste umane, bensì come frutto della promessa di Dio che è fedele alla sua Parola e che condurrà il suo popolo verso tali ideali attraverso la sua risposta fedele alla alleanza stipulata con Lui. Per questo rapporto con la fedeltà del Dio dell'alleanza, i beni primari del Regno, speranza di Israele, assumono una risuonanza ben più elevata, una assolutezza di ideali superiori alle fragili utopie umane. Nella loro attuazione, infatti, non è impegnato solo lo sforzo costruttivo dell'uomo, ma l'intervento creatore e santificatore di Dio. Cosl, Dio darà « ai poveri» molto più della sola difesa dei loro diritti umani: Egli darà ai poveri se stesso, l'accesso alla santità della sua vita, alla sua sovrana libertà per cui essi diverranno uomini nuovi e liberi. Quando Dio verrà nel suo Regno, i poveri saranno arricchiti di una nuova esistenza, della nuova ricchezza di vita, mentre i ricchi saranno da compiangere perchè quella che essi credevano ricchezza apparirà come miseria e fonte di alienazione. I poveri saranno invece i promotori del Regno, i veri portatori delle sue autentiche utopie, seme di speranza dell'umanità. L'annuncio del Regno di Dio ci appare così, proprio in forza della sua dimensione religiosa, non l'annuncio dell'avvento di una area o di una struttura di potere teocratico, corrispondente all'esperienza della regalità temporale di Israele, 87 ma quello di un inter-
87 Per quanto la regalità divina nella storia di Israele abbia conosciuto un volto umano di regno destinato a divenire organo di una teocrazia fondata sull'alleanza, supporto temporale ed umano della regalità divina, è pur vero che l'esperienza della monarchia è rimasta ambigua e deludente in Israele: la causa del Regno non ha coinciso con le ambizioni terrestri dei Re, di qui le minacce dei profeti contro i re che trascuravano la causa del Regno (Ger 21, 12; 22, 3; Am 2, 6-7; Is 3, 14-15; 10, 1-2; Sal 82, 2-4). Quanto più deludenti erano le esperienze dei regni politici
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vento salvifico di Dio per cui mediante la sua amicizia e la sua presenza tra gli uomini Egli condurrà la comunità umana attraverso un cammino di rinnovamento e di purificazione alla realizzazione concreta dei ~moi ideali di pace, di giustizia e di libertà. La speranza del Regno è quindi una speranza religiosa, ma anche profondamente umana.
di Israele, tanto più si rafforzava la speranza del Regno escatologico di Dio e la speranza dci poveri si concentrava nella figura del «re ideale» che avrebbe realizzato gli ideali della regalità divina.
CAPITOLO
II
LE ORIGINI DELLA ESISTENZA STORICA DI GESÙ
Che Gesù di Nazaret appartenga non solo alla testimonianza di fede, ma alla databilità storica è una affermazione solidamente stabilita anche se con una certa approssimazione riguardo alla cronologia.1 Specie la fonte lucana ci offre un serio contributo per stabilire un rapporto con la cronologia pagana della nascita di Gesù (Le 2, 1-3), dell'inizio della predicazione di Giovanni (Le 3, 1-3) e dello stesso battesimo di Gesù. 2 Tuttavia, quanto gli evangeli (Mt-Lc) ci dicono sulle origini della vita storica di Gesù, non si ricollega, almeno direttamente, alla testimonianza della predicazione apostolica primitiva, quanto a delle fonti diverse (anch'esse storiche ed autorevoli), le quali possono essere individuate per Matteo negli ambienti giudeo-cristiani di Gerusalemme e per Luca nei circoli fami· liari di Gesù, specie quelli battisti, la stessa fonte mariana e non per ultima quella stessa giovannea. 3 Che la storia dell'infanzia di Gesù
t J. FINEGAN, Handbook of biblica/ Cbronology, Princeton 1964; W. T!!.ILLING, Jésus devant l'bistoire, Paris 1968, 67-81; 85-95; J. BLANK, ]esus von Nazardh. Gescbicbte und Relevanz, Freib.-Basel-Wien 1972; S. DocKx, Chronologie de la vie de ]ésus, in Cbronologies néotestamentaires et vie de l'Eglise primitive, ParisGerobloux 1976, 3-11; R. FENEBERG-W. FENEBERG, Das Leben ]esu im Evangelium, Freib.-Basel-Wien 1980. 2 Per i problemi sulla teologia e la storia nell'opera lucana: W. G. KiiMMEL, Luc dans la théologie contemporaine, in « L'évangile de Luc. Problèmes litteraires et théologiques », Gembloux 1973, 93 s. J Per quanto riguarda Matteo, la probabile presenza dei cc. 1-2 già nel Matteo aramaico primitivo che Marco avrebbe omesso deliberatamente è sostenuta da P. PARKER, The Gospel before Mark, Chicago 1953, 121-122, 180. Anche A. FrnILLET, Jésus et sa Mère d'après /es récits lucaniens de l'enfance et d'après Saint ]ean, Gabalda-Paris 1974, 172. Centrato su Giuseppe originario di Betlemme e della casa di David, Mt 1-2 ha per quadro geografico GerusaJemme e Betlemme riferendoci come negli ambienti giudeo-cristiani si raccontassero le origini di Gesù. Per quanto riguarda Luca va notata la importanza dei parenti di Gesù, del loro posto eccezionale nella comunità primitiva, come pure della fonte mariana per quanto riguarda i fatti delle origini: dr. J. DANIELOU, Les évangiles de l'enfance, Paris 1967, 65-66; A. FEUILLET, L'origine des récits lucaniens de l'enfance, in « Jésus et sa Mère »,
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si sia aggiunta al nucleo più originario dell'evangelo trasmesso dalla predicazione degli apostoli non sminuisce il suo valore storico purchè si tenga conto della particolarità di queste fonti, 4 della mediazione esercitata dalla tradizione giovannea e dall'azione redazionale di Matteo e Luca. Questi, perseguendo un intento storico, inseriscono questo materiale narrativo nell'ambito della loro visione teologica che rilegge gli eventi alla luce della pasqua e della pentecoste, vedendo nei fatti dell'inzio della vita di Gesù da un lato l'adempimento delle attese antiche e dall'altro un prologo dell'evangelo, inquanto in essi emergono per anticipazione i temi fondamentali degli stessi evangeli. Nonostante l'origine e la forma letteraria diversa dei racconti d'infanzia di Mt-Lc 5 ci sono in essi delle convergenze notevoli che appaiono storicamente tanto più apprezzabili provenendo da fonti diverse. Tali convergenze cercheremo di cogliere in questo capitolo considerando il riferimento di queste narrazioni sulle origini storiche di Gesù alla storia dell'AT ed ai temi dell'evangelo propriamente detto.
I.
L'ADEMPIMENTO DEL TEMPO ANTICO.
Le origini della vita di Gesù di Nazaret si richiamano in Mt e
Le all'antica storia di Israele e narrano i fatti in una atmosfera veterotestamentaria che rivela l'origine di una fonte giudaica, animata di speranze, anteriori alle stesse esperienze della pentecoste. In tale atmosfera, le narrazioni mostrano nella venuta di Gesù l'adempimento delle antiche promesse. Così in Matteo 1-2 la narrazione si
79 s. Per la mediazione esercitata dalla tradizione giovannea vedi Io stesso FEUILLET, ivi, 86 s.; J. BLINZLER, Giovanni e i Sinottici, Brescia 1979. 4 Così lo stile delicato della narrazione lucana di molti racconti della infanzia (specie l'annunciazione e la visitazione) sembrano rilevare la fonte femminile mariana dei racconti stessi (G. R. LAGRANGE, ftJangile selon Saint Luc, Paris 1921, 89). Bisogna notare che la stessa narrazione lucana dell'infanzia si muove in un clima di AT da rilevare la sua provenienza da una fonte giudaica diversa da quella del resto del vangelo di Luca. 5 Le diversità sono numerose nello stile e nelle accentuazioni rilevando origini distinte: cosl il racconto di Matteo è più centrato in Giuseppe ed ha per quadro geografico Geru,;alemme e Betlemme, mentre le scene principali. si cristallizzano intorno a citazioni. profetiche (Mt 1, 22-23; 2, 6; 2, 15; 2, 17-18; 2, 23) secondo Io stile generale dcl vangelo. E. RAsco, Matthew J.IJ: Structure, Meaning, Reality, in Studia Evangelica, Berlin 1968, 214-230; R. LAURENTIN, Structure et théologie de Luc 1-2, Paris 1957.
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apre con la genealogia di Gesù (Mt 1, 1-17) introdotta con le parole «libro della genesi» di Gesù Cristo, figlio di David, figlio di Abramo, espressione che si ripete all'inizio dell'annuncio fatto a Giuseppe (Mt 1, 18) e che mostra l'intenzione dell'evangelista di ricollegarsi alla genesi del mondo (Gn 2, 4) ed alla genesi dell'uomo (Gn 5, 1), per indicare che « come Adamo apre il libro delle generazioni umane, cosl Gesù Cristo apre il libro di una nuova genesi » .6 Questa idea sembra rafforzata dalla stessa utilizzazione della concatenazione di tre serie di quattordici generazioni: per esse è possibile pensare che attraverso una divisione tripartita della storia di Israele in settimane di anni, la narrazione tenda a mettere in rilievo che la nascita di Gesù avviene nella pienezza dei tempi, alla fine della storia. 7 Pur senza giungere, come Luca (3, 38), fino ad Adamo, Matteo, alla sua maniera, dice che Gesù è il Nuovo Adamo e dice, con ciò, che in Lui si adempie la storia antica. Per questo nella generazione di Gesù, diversamente dalle genealogie precedenti che si compivano nella posterità e nell'avvenire, il movimento genealogico si inverte: Gesù è colui che si attendeva, Colui che doveva venire; l'avvenire è ormai compiuto, la storia trova in Lui il suo completamento. Riprendendo la parola « genesi » al principio della nascita di Gesù (Mt 1, 18), l'evangelo di Matteo rafforza ulteriormente questa prospettiva universale storica già aperta dalla genealogia: in Matteo 1, 18, infatti, la concezione di Gesù si realizza sotto l'azione dello Spirito divino. Questo dato pneumatologico è particolarmente importante per il significato della «concezione verginale» di Gesù: 8 questa, da un lato appare compiuta sotto la medesima energia creatrice e vivificante di Gen 1, 2, Io Spirito di Dio, che presiedeva la crea-
6 X. LÉoN-DUFOUR, Livre de la genèse de Jérns Christ, in « Études d'Évangile >>, Paris 1965, 60 ss. 7 Per l'ipotesi di un influsso del calendario apocalittico vedi X. LÉON-DUFOUR, cit., 57: !'A. segue però l'ipotesi di una divisione tripartita sulla base di tre versanti tradizionali per la storia di Israele: Abramo-David-esilio, introducendo un numero di generazioni (14) identico alla genealogia di David ripreso da Rut (4, 1822; 1 Cr 2, 10-13). A. VèiGTLE, Die Genealogie Mt 1, 2-16 und die matthoische Kindheitsgeschichte, in BZ 8 (1964), 239-262; 9 (1965), 32-49; P. BONNARD, L'Evangile selon Saint Matthieu, Neuchatel 1963, 13. 8 Per il valore di storicità è notevole il dato che la genealogia di Matteo come pure tutto il suo racconto sulla nascita di Gesù è centrato su Giuseppe che occupa negli episodi dell'infanzia un posto di primo piano: gli accenni a Maria acquistano allora, proprio per questo, un posto di maggiore rilievo storico.
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zione cosmica e la formazione del primo uomo (Gn 2, 7). In tale prospettiva l'origine di Gesù da Maria, per virtù dello Spirito Santo, è come l'inizio, la genesi della nuova umanità, del nuovo Adamo ed inaugura il nuovo popolo di Dio. Dall'altro lato, se la narrazione di Matteo accosta l'origine di Gesù ai primordi della storia della umanità e la lega a questa storia, ciò avviene per sottolineare che l'inizio della nuova umanità nella virtù creatrice e vivificatrice dello Spirito prelude al futuro della nuova era così « nuovamente inaugurata». Mt 1, 20 afferma che «ciò che è generato in essa è dallo Spirito Santo»: usando questa espressione nuova per l'AT,9 Matteo consente di vedere nello Spirito operante in Maria non solo la forza creatrice e vivificatrice di Dio, ma anche la qualità divina di quanto ha origine dallo Spirito (' ciò che è nato dallo Spirito è Spirito ', è da Dio: Gv 3, 5-6). In tal modo viene indicata sia la realtà divina (Mt 1, 23) di Colui che è generato in Maria dallo Spirito Santo, sia la generazione dello stesso nuovo popolo di Dio. 10 La narrazione di Matteo sui primordi delle origini di Gesù, per quanto riveli innegabilmente una illuminazione teologica dell'evento proveniente dalla rivelazione divina e dalla maturazione della coscienza di fede della Chiesa apostolica, con l'evento della pasqua e della pentecoste, non può considerarsi però un racconto che propone una dottrina in forma di storia. Si tratta in verità di un vero racconto imperniato su dei fatti concreti ben documentati negli ambienti del giudeo-cristianesimo, come l'origine davidica di Gesù e la sua concezione verginale da parte di Maria. Non avrebbe senso l'intento apologetico di Matteo in riferimento alle Scritture senza un appoggio di avvenimenti reali: «si ha nettamente l'impressione che i fatti si impongano all'evangelista e che egli si è dato molta preoccupazione per trovare nell'AT dei testi che loro corrispondessero. Talora si potrebbe giudicare l'accostamento come artificiale ».11 È agli avvenimenti, dunque, che già nei vangeli d'infanzia va il primato. È da essi che scaturisce una interpretazione che non va con-
9 Nell'AT lo Spirito interviene nella restaurazione escatologica come creatore di una vita nuova per i cieli, la terra e per Israele (Is 32, 15; 44, 3-5; Ez 37); ma l'espressione «nascere dallo Spirito» sembra del tutto assente nella Bibbia antica, mentre nel NT compare solo in Mt 1, 20 ed in Gv 3, 5-6, 8. R. E. BRDWN· J. FITZMER, in TS 33 (1972), 3-34; 34 (1973), 541-575; 35 (1974), 360-362. 10 S. TOMMASO, III, q. 32, a. 1. Il A. FEUILLET, Jésus, 164.
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cepita come « in-egesi », ma come « ex-egesi » anche se tale lettura viene compiuta per l'ausilio di ulteriori fatti. 12 In Luca 1-2 il legame con la storia antica della salvezza emerge attraverso la sua tipica struttura letteraria. Gli elementi fondamentali della narrazione, infatti, sottolineano la comparazione tra Gesù, che è al centro della prospettiva di Le 1-2 13 ed il Battista. Tale comparazione si snoda in una serie di dittici che comprendono « gli annunci» (Le 1, 5-25: Zaccaria; 1, 26-38: Maria) e« le nascite» (Le 1, 57-80: il Battista; 2, 1-21: Gesù). Come il primo dittico trova il suo complemento nella scena della visitazione (1, 39-56), cosl il secondo si sviluppa come in un terzo dittico comprendente la presentazione di Gesù al tempio (2, 22-40) ed il ritrovamento di Gesù in mezzo ai dottori nel tempio (2, 41-52).H Ora, questa struttura narrativa tende a rilevare da un lato il rapporto della venuta di Gesù alle antiche attese di Israele, mentre dall"altro sottolinea il carattere di adempimento e di superamento dell'era veterotestamentaria. In realtà Le 1-2 si muove come in un clima di AT in cui si dà molto rilievo al tempio di Gerusalemme ed alla sua liturgia, mentre l'universalismo della salvezza più che dalla prospettiva dello stesso evangelo sembra derivare dal deutero-lsaia e dai salmi: «la pietà che si afferma in questi capitoli è quella dei poveri, degli anawim del salterio. Salvo la scena della annunciazione ove . .. lo Spirito Santo giuoca in rapporto alla Vergine un ruolo che è un vero preludio della Pentecoste e della nascita della Chiesa (Le 1, 35 e At 1, 8) lo Spirito Santo interviene in Le 1-2 nel modo con cui interveniva 12 L'affermazione che gli stessi vangeli di infanzia presentano una lettura, come del resto tutto l'evangelo, a partire dalla resurrezione e dalla pentecoste, non infirma questo principio dal momento che tali orizzonù di lettura si costituiscono in forza di «avvenimenti» quali appunto la stessa pasqua e pentecoste. Cfr. O. CuLLMANN, Le salut, 136. 13 Il fatto che in Le 1-2 il racconto sia condotto, per cosl dire, dal punto di vista di Maria e dei suoi ricordi, non irllirrna la struttura cristocentrica della narrazione di questa storia dei primordi di Gesù. È Cristo che è costantemente al centro. Questo cristocentrismo non è solo il frutto di un'opera redazionale, esso promana dalle stesse fonti storiche utilizzate da Luca, specie dalla fonte mariana, come pure giovannea. Il riferimento al Battista può essere un indice dei circoli familiari ai quali abbiamo già accennato: R. LAURENTIN, Structure et théologie; Io., ]ésus au tempie. Mystère de Pfiques et foi de Marie en Le 2, 48-50, Paris 1966; A. FEUILLET, Jésus, 276. A. GEORGE, Le parallèle entre ]ean-Baptiste et ]ésus en Le 1-2, in « ~tudes sur l'oeuvre de Luc », Paris 1978, 43-66. 14 I due episodi della presentazione di Gesù al tempio e del suo ritro•1amento, che sottolineano il suo rapporto al Padre (2, 23; 2, 49) sono come scanditi dai ritornelli della «crescita» (1, 80; 2, 40; 2, 52) e del «ricordo» (1, 66; 2, 19; 2, 51).
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presso i profeti dell' AT. È in effetti per farli « profetizzare » che egli apre la bocca di Zaccaria, di Elisabetta, di Simeone; egli fa loro cantare le meraviglie del piano divino di salvezza e fa ancora annunciare a loro l'avvenire (1, 76-79; 2, 34-35) ». 15 Questo clima di AT trova riscontro nella struttura letteraria dei dittici attrav1erso i quali Le 1-2 mette quasi a confronto le due economie collegandole con un rapporto di preparazione-adempimento ma, insieme, tendendo a mostrare la superiorità dell'era cristiana: la venuta di Gesù porta con sè la pienezza del tempo della storia salvifica. Cosl rtegli annunci delle due nascite in Le 1-2 si nota, in un certo modo, un crescendo: mentre la concezione di Giovanni si compie da una sterile, Gesù è concepito da una Vergine; l'intervento straordinario di Dio che mostra che colui che nasce così è un suo dono, appare ben più notevole nella nascita di Gesù il quale è dono di Dio per eccellenza: Egli, infatti, « sarà grande e chiamato Figlio dell'Altissimo» (Le 1, 32), «sarà Santo», chiamato «Figlio di Dio » ( 1, 3 5). Il Battista è indicato come profeta dell'Altissimo che precederà il Signore a preparare le sue vie r(Lc 1, 7 6-77), mentre la venuta di Gesù porta luce a coloro che sono nelle tenebre e nell'ombra di morte (Le 1, 78-79). Mediante la unione e la contrapposizione dei dittici Luca mostra l'importanza unica della origine di Gesù: la venuta del Battista, come tutta la antica economia è in sua funzione, come l'era della legge a quella della grazia. 16 Il legame delle due economie e l'adempimento che si verifica nella nuova che ha inizio con la venuta di Gesù è indicato anche dalla presenza dello Spirito: questo appare presente ed operante in tutto Le 1-2, ma nelle scene dei dittici riguardanti il Battista, come pure nella scena della presentazione, lo Spirito opera nei personaggi appartenenti all'antico Israele come Spirito di profezia dell'AT che riempie il precursore stesso, Elisabetta, Zaccaria, Simeone (Le 1, 15, 17, 41, 6 7; Le 2, 25, 26, 27). Tale Spirito condensa nella storia del precursore tutta la potenza del profetismo antico: fa del Battista un nuovo Elia (Le 1, 15-17), svela ad Elisabetta il mistero di Maria (Le 1, 41-4 3), a Zaccaria la futura missione del Battista e di Gesù (Le 1, 6 779), a Simeone la presenza del Cristo Signore (Le 2, 25-26 ). Quando si tratta, invece, dell'annunciazione, lo Spirito, che è 1s 16
191.
A. P.
FEUII.LET, Jésus, 85. BENDIT, L'enfance de Jean-Baptiste se/on
Luc 1, in NTS 3 (1956/57),
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sempre l'unico Spirito, appare con caratteristiche nuove: anzitutto, come già abbiamo notato per Mt 1, 18-20, ci troviamo di fronte ad un intervento creativo divino. Anche in Luca 1, 35, attraverso il verbo « episkiàsei », si fa allusione all'opera dello Spirito sulle acque della genesi del mondo. Gesù è il punto di partenza della nuova creazione: 17 il raffronto tra l'espressione: « lo Spirito Santo verrà su di te» (1, 35) ed Is 32, 15 (uno dei tre luoghi in cui nella Bibbia lo Spirito di Dio è congiunto al verbo epérchestai) ove si predice appunto la nuova creazione, lo suggerisce. Ma soprattutto il carattere nuovo dell'azione dello Spirito può essere colto nel raffronto di Le 1, 35 ad Atti 1, 8: «riceverete una potenza, quella dello Spirito Santo che verrà su di voi dall'alto ». Lo Spirito è qui, per anticipazione, lo Spirito della pentecoste. È lo Spirito dell'era cristiana, lo Spirito detenuto in pienezza dal Cristo. 18 Il rapporto di Le 1-2 con l'antica ·storia di !Salvezza sotto la luce della promessa-adempimento, oltre che il ruolo centrale di Cristo e l'azione singolare dello Spirito, coinvolge in modo altrettanto singolare, la figura di Maria. Questa, come abbiamo notato, ha un posto particolare in Le 1-2, non solo come fonte di questa notizia storica, ma nella sua persona e nel compito che essa assolve ricapitolando ed adempiendo in sè l'antica storia di Israele. Tale compito appare tanto più notevole se si tiene conto del rapporto della storia d'infanzia lucana con la tradizione giovannea. Maria, infatti, come Luca ci mostra, appartiene da un lato all'antica economia sottomessa alla legge mosaica della purificazione (Le 2, 22); in essa si ricapitola tutta la speranza degli anawim (« essa primeggia tra gli umili ed i poveri del Signore, i quali con fiducia attendono e ricevono da Lui la salvezza» LG VIII, 55); possiamo dire che tutta la speranza più genuina dell'AT trova adempimento in Lei. Ma, insieme, dall'altro lato, Maria, specie nella annunciazione, appare come la Donna predestinata, come l'eletta per eccellenza (kecharitomène Le 1, 28), colei che raccoglie in sè la pienezza dell'agape di Dio,1 9 personificando la nuova Sian, Colei che ha il Signore con sè (Le 1, 28 b).m 17 18 19
A.
A. M.
FEUILLET, Marie et la nouvelle création, in La Vie Sp. 81 (1949), 472. FEUILLET, L'Esprit Saint et la Mère du Christ, BSFEM 25 (1968), 38-64. CAMBE, La charis che:t. Saint Luc. Remarques sur quelques textes, notam-
ment sur le kecharitomenè, in RB 70 (1963), 193-207. 20 R. LAURENTIN, Structure et théologie de Luc 1-2, 45-60; A. FEU!LLET, La Vierge Marie dans le Nouveau Testament, in «Maria, études sur la Sainte Viergc », VI, Paris 1961, 32-33.
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Nel saluto stesso dell'annunciazione appare come Maria, che ha trovato grazia presso Dio (Le 1, 30) è colei che è chiamata mediante la sua straordinaria maternità {Le 1, 31) ad impersonare il ruolo di Sion.21 In Lei si deve realizzare infatti la grande aspirazione escatologica dell'AT che è l'abitazione di Dio in seno al suo popolo (Is 12, 6; Os 11, 9; Mie 3, 11; Ps 46, 6). Il Figlio di Maria, chiamato Gesù, è la presenza stessa di Dio nel seno della Figlia di Sian. Così, nella sua maternità, Maria è il segno cristologico dell'Agape di Dio. Questo dato cristologico oltre che nelle prime parole dell'annuncio dell'angelo risalta in quelle successive di Le 1, 35 che riecheggiano Es 40, 35 (dr. Num 9, 1822) in riferimento alla nube che ricopriva della sua ombra il tabernacolo, segno della gloria di Jahvè, in esso inabitante. 22 Con tale riferimento, Maria, adombrata dalla potenza dell'Altis,simo, è indicata come tabernacolo della Alleanza Nuova ove risiede la gloria di Jahvè, cioè la santità del bambino che ella concepirà. Ma proprio per questo, il ruolo materno di Maria, nei confronti del Figlio dell'Altissimo, ha sempre, nel racoonto lucano, un'ampiezza che coinvolge tutto Israele: l'antico Israele che si protendeva nella speranza verso il parto del messia, salvezza escatologica di Dio, «si compie» nell'opera materna di Maria la quale, come Madre del Salvatore, diviene anche colei che genera il nuovo Israele secondo lo Spirito. Il riferimento di Le 1, 35 (lo Spirito Santo verrà su di te) ad Atti 1, 8, al quale abbiamo sopra accennato, sembra suggerire fortemente l'idea che, nell'annunciazione, Maria, divenendo Madre del Cristo, divenga anche la Madre spirituale di tutta l'umanità. 23 La discesa dello Spirito su Maria nell'annunciazione è come l'anticipazione della futura pentecoste. Questo dato lucano che vede in Maria la personificazione della Sion dei profeti, non appare solo un fatto di predestinazione divina: esso mette in evidenza anche un «ruolo attivo », «personale», di Maria nell'adempiere, secondo il piano divino, l'antica storia di Israele inaugurando la nuova. La scena dell'annunciazione evidenzia, infatti, nella sua narrazione, una sollecitazione personale e libera di Maria: il ~< fiat » è la parola chiave che esprime tale partecipazione personale
R. LAURENTIN, Structure, 152-162. S. LYONNET, Le récit de l'Annoriatio11 et la maternité divine de la Sainte Vierge, AmCl (i6 (1956), 33-48. 23 A. FEUILLET, L'Esprit Saint et la Mère du Christ, 39-64. 21
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alla grazia della divina maternità nella linea della obbedienza del Servo, parola che sottolinea non un fatto momentaneo, ma l'espressione costante della attitudine personale di Maria, quasi un riferimento antitetico alla disobbedienza di Eva (LG VIII, 56). In lei si compie, infatti, non solo l'attesa materna della antica « Figlia di Sion », ma anche la risposta fedele, obbediente, per cui l'infedeltà antica d'Israele nei confronti di Dio si supera e si tramuta nella fedeltà e nella obbedienza assoluta della « Nuova Figlia di Sion », Sposa fedele e perfetta che trova la sua anticipazione peDSonale nell'atteggiamento del « fiat » di Maria. 24 Il legame all'antica economia che come un'atmosfera aleggia nei racconti d'infanzia di Le 1-2 che si snodano con uno stile fortemente semitizzante 25 nei dittici delle annunciazioni e delle nascite, della presentazione e del ritrovamento, rivela indubbiamente la sua origine più antica in una fonte giudaica familiare oltre che nella fonte giovannea. 26 Questo rapporto con coloro che furono testimoni « fìn dall'inizio» (Le 1, 2 b: Gv 15, 27; 1 Gv 1, 1-2) dà al racconto lucano la sua validità storica di narrazione fondata su testimonianze dirette oculari, anche se tale narrazione rileva una penetrazione teologica che tende a vedere nelle origini di Gesù l'evento escatologico che adempie l'antica economia, la pienezza del dono dello Spirito ed il ruolo materno ed ecclesiale di Maria. Ma proprio questa penetrazione dovuta al mistero pasquale, al dono dello Spirito, alla vita vissuta della comunità ecclesiale richiama chiaramente il narrare la storia del quarto evangelo, il quale continuamente richiama ai ricordi (Gv 2, 22; 12, 16) ed alla testimonianza di chi ha visto (Gv 21, 24; 19, 35). Sarebbe un grosso errore pensare che Giovanni sia il seguace di una gnosi o di una metafisica religiosa, indifferente alla realtà dei fatti. Al contrario, è proprio la fedeltà ai fatti, al realismo storico della incarnazione che porta il pensiero cristiano a meditare ed approfondire il loro significato, nella coscienza che il loro valore di « mistero », anzichè sminuirli, ne sottolinea l'importanza radicale, irrepetibile, il valore di adempimento che assolvono una volta per sempre. In Le 1-2 si nota un tale modo di raccontare la storia degli inizi di Gesù: il richiamo, come un ritor-
M. 25 F. 24
BORDONI,
J.
L'eve!ltO Cristo, 43.
CRJBBS, Luke and the iohaflni!le Tradition, JBL 1971, 422-450; A. FEUILLET, La source immédiate de Le 1-2: la Traditiofl ;oha1111ique, in Jesus, 86 s. 26 P. BENOIT, L'enfance de JeancBaptiste selon Luc 1, NTS 3 (1956/57), 169-194.
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nello crrca familiari del precursore e circa la Vergine Maria che «conservava i ricordi» e li penetravano nel loro cuore (Le 1, 66; 2, 19; 2, 51) richiama una lunga riflessione e meditazione sui fatti che senza negarne la sostanza, nè esalta l'importanza decisiva per la storia del mondo.
II.
LE
ANTICIPAZIONI DELL'EVANGELO.
Se è vero che le narrazioni di Mt 1-2 e di Le 1-2 ricordano le origini storiche di Gesù attraverso le utilizzazioni di fonti giudeocristiane, nelle quali i ricordi erano mantenuti fedeli, già penetrati tuttavia dalla meditazione di fede, la redazione definitiva del materiale ha lasciato a sua volta un'impronta nell'indicare, nella scelta e nella presentazione dei tratti narrativi, alcune tematiche proprie di Matteo e di Luca onde queste storie dell'origine di Gesù possono essere anche considerate come prologo dei rispettivi evangeli. 27 Così in Matteo 1-2 l'anticipazione del Vangelo intero si coglie anzitutto attraverso la stessa struttura dei due capitoli dei quali il primo mediante la genealogia ed il racconto della natività mostra la « genesi » di Gesù Cristo richiamandosi da una parte alla genealogia temporale del Messia (Mt 1, 2-17) e dall'altra alla sua origine trascendente (Mt 1, 18-25) concludendosi con la presentazione di Gesù Salvatore spirituale del suo popolo (Mt 1, 25); il secondo capitolo attraverso i quattro episodi dell'infanzia (Mt 2, 1-12; 13-15; 16-18; 19-23) ognuno intorno ad un oracolo profetico 28 tende a mostrare, per anticipazione, la messianità di Gesù nelle vicende della vita del bambino attraverso un metodo apologetico che ricorre in tutto il vangelo. Nelle vicende di questa vita del fanciullo, Matteo vede il ripetersi della « fuga salvatrice del popolo di Dio (Israele) in Egitto e l'esperienza israelitica dell'Esodo »: 29 Gesù appare co-
Il E. KRAFFT, Die Vorgeschichten des Lukas, in « Zeit und Geschichte », Tiibingen 1964, 217-223; A. VoGTLE, Die matthiiische Kindheits Geschichte, in « L'évangile selon Matthieu, rédaction et théologie », Gembloux 1972, 153 ss. 28 Mt 1, 22-23; 2, 5-6; 2, 15; 2, 17; 2, 23; R. H. GUNDRY, The Use of the Old Testamenl in St. Matthew's Gospel, Leiden 1967, 194-195; A. PAUL, L'évangile de i'enfance selon S. Matthieu, Paris 1968, 172. 29 A. VoGTLE, Die Genealogie, 255; Id., Die matthiiische, 155 sottolinea nel c. 1 i temi cristologici: la figliazione divina (Dio con noi), la figliazione davidica (missione ad Israele), figliazione da Abramo (missione di salvezza per i popoli).
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me il « vero Israele», fondatore del nuovo popolo di Dio degli ultimi tempi.30 Inquanto fondatore del nuovo Israele, Gesù, appare anche come il nuovo Mosè. Il parallelo tra la storia di infanzia di Gesù e quella di Mosè risalta in alcuni passi come Mt 2. 19-21 {chiara reminiscenza di Ex 4, 19-20) che evoca i primordi della vita di Mosè e come la storia dell'uccisione dei santi innocenti (Mt 2, 16-18) che rievoca l'ordine del faraone di uccidere i primogeniti di Israele all'epoca della na1Scita di Mosè. Il richiamo alla figura prototipica di Mosè, nel presentare Gesù Salvatore del Nuovo Israele, promulgatore della nuova legge è un. tema ben presente nel vangelo di Matteo 31 per il quale, come Mosè sul Sinai (Ex 34, 28) Gesù passa prima digiunando quaranta giorni nel deserto (Mt 4, 2) riuscendo vittorioso sulle tentazioni storiche di Israele e quindi salendo sulla montagna, come nuovo legislatore, proclama la nuova Torah del Regno (Mt 5, 1 s) e su di un'altra montagna si trasfigura tra Mosè ed Elia (Mt 17, 1 s). Il parallelo di Mosè sottolinea la superiorità di Cristo che non riceve la legge, ma. la fonda lui stesso, con la sua Persona, la sua Vita, la sua Parola. Per alcuni esegeti la struttura stessa delle cinque pericopi narrative di Matteo 1-2 sarebbero a loro volta un'eco del pentateuco ed annuncerebbero le cinque grandi istruzioni che a somiglianza dei cinque libri della Torah costituirebbero le cinque parti dell'opera di Matteo (cc 3-25).32 In rapporto con le osservazioni precedenti si nota in Matteo 1-2 ancora l'anticipazione dei tratti che caratterizzano la teologia del primo evangelo con l'affermazione dell'identità divina della messianità di Cristo, ~sione nei confronti di Israele si oarebbe compiuta nello Spirito Santo (Mc 1, 8; Mt 3, 11; Gv 1, 33; Le 3, 16), però in Matteo e Luca l'associazione al « fuoco » ed alla venuta del più forte, tende a designare la futura missione di Gesù di Nazaret in modo più aderente all'originale messaggio del Battista, come « giudizio escatologico », nel senso di « forza divina », soffio irresistfoile che compirà tale giudizio (Is 11, 4; Enoch 62, 2): 16 « non è lo Spirito Santo, di cui il Battista annuncia l'effusione sul Messia, quanto il soffio violento che fa morire i malvagi di Is 11 » .17 Di fronte alla situazione dell'uomo nella imminenza della manifestazione suprema dell'ira di Dio e della venuta del suo legato escatologico, la predicazione di Giovanni indica la « conversione » (metdnoia) come unica via per evitare il giudizio di Dio (Mc 1, 4; Mt 3, 1 QS II, 4-5; gli inni: 1 QH. P. VAN IMscHooT, Bapteme d'eau et bapteme d'Esprit-Saint, ET,L 13 (19.36), 653-666. Per il fuoco strumento dì giudizio escatologico: Ml .3, 2; Am l, 4; 7, 4. 15
16
17 M. A. CHEVALLIE!\, L'Esprit et le Messie dans le Bas-Judaisme et le NT, Paris 1958; In., Souffie de Dieu, Le Saint-Esprit dans le Nouveau Testament, Paris 1978, 98-99.
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8), il produrre frutti degni di pentimento (Le 3, 8). Ma tali frutti erano nella predicazione di Giovanni legati al battesimo di acqua (Mc 1, 4; Le 3, 3; At 10, 37; 13, 24). Solo tale battesimo offriva la possibilità di sfuggire al fuoco distruttore. In contrasto con le dottrine farisaiche del tardo giudaismo che davano un grande rilievo alle opere della legge per effettuare i giorni del Messia, la predicazione di Giovanni rappresentava la vera preparazione all'avvento escatologico del Regno secondo l'autentica linea profetica di Is 40, 3: « voce di uno che grida nel deserto: preparate le vie del Signore, raddrizzate i suoi sentieri» (Mt 3, 3; Mc i, 2; Le 3, 3-7). La preparazione all'avvento escatologico del giudizio di Dio si compie attraverso una « metanoia » che è intesa, non come conquista dello sforzo etico dell'uomo, ma primariamente, come opera di Dio nell'uomo, come suo libero dono. L'uomo è incapace, da solo, di operare il cambiamento: l'accettare di farsi battezzare da Giovanni in contrasto con altre prassi battesimali di immergersi da soli, voleva dire accettare di « lasciarsi cambiare da Dio ». Per questo il battesimo di Giovanni era un battesimo « dal cielo » (Mt 21, 25). La testimonianza evangelica che già collega (Le 1-2) le due annunciazioni e le due nascite del Battista e di Gesù, collega anche la missione pubblica di Gesù con il movimento penitenziale del Battista. Anche ta:le collegamento ci appare come un dato storicamente certo: la testimonianza della predicazione del Battista nel dato evangelico ed il fatto che Gesù abbia chiesto di essere battezzato da Giovanni è dovuto indubbiamente ad una ragione di fedeltà storica. Infatti il battesimo di Gesù diventava una pietra d'inciampo per i cristiani i quali potevano capirlo nel senso di una certa subordinazione di Gesù a Giovanni Battista. I seguaci di Giovanni avrebbero potuto sostenere di lì che Giovanni stesso era il profeta escatologico decisivo. La tradizione evangelica se tende, sia per l'origine (concezione e nascita), sia per l'inizio della vita pubblica, a porre in evidenza la superiorità della persona di Gesù, del suo messaggio e della sua vita, ciò essa lo fa proprio perchè si sente ancorata fortemente ad un fatto storicamente certo. La fedeltà storica emerge anche in una certa crisi o confronto tra la concezione messianica di Giovanni e quella di Gesù mostrando quella discontinuità che fa risplendere la novità ed originalità del messianismo di Gesù e costituisce un importante criterio di storicità. 18 Il 18
Vedi I volume, pp. 61-62.
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confronto viene da Matteo solo, nel dialogo tra il Battista e Gesù che precede ed introduce il fatto del battesimo. 19 Matteo nota che Gesù veniva dalla Galilea (Mt 3, 13; Mc 1, 9) verso il Giordano, presso Giovanni, per farsi battezzare da lui: con ciò appare come Gesù si colloca nella comunità dei penitenti (cfr. Le 3, 21) e chiede il battesimo di penitenza a Giovanni. Egli mostra così di solidarizzare con i peccatori anticipando un tratto alquanto scandaloso, per le idee dominanti nel giudaismo del tempo, del ISUO comportamento messianico. Egli annuncia la sua identificazione con il Servo (Is 42, 1; Mt 3, 17) che prende su di sè le nostre miserie (Is 53, 4: Mt 8, 17), preludendo così alla passione (Mt 27, 45-56): « se il primo passo di Gesù è di andare a chiedere a Giovanni il battesimo, è senza dubbio perchè un impulso spontaneo ed una infallibile lucidità lo portavano immediatamente là ove la presenza dello Spirito era più attiva, l'attesa di Dio più viva ... solidale con i peccatori, in atto di portare i loro p~ccati, egli lo è già pienamente, ma non lo può ancora dire, perchè non ha ancora vissuto totalmente questo peso del peccato. Per cominciare, si · unisce ai peccatori, là ove Dio lo aspettava e li converte ... ».m Questa concezione del Messia non corrispondeva alla visione di Giovanni, il quale, convinto della messianità di Gesù, la intravedeva però secondo uno stile ed una immagine più vicina agli ambienti qumranici: il Messia giusto e santo, rigoroso contro i peccatori, separato da questi, che avrebbe esercitato il giudizio escatologico con un'azione purificatrice e devastatrice ben indicata dall'ira e dall'immagine del fuoco distruttore. Questo Messia intransigente con i peccatori ed i malvagi non quadrava con quella di un Messia solidale con loro. Un Messia che chiede il battesimo scandalizzava Giovanni che si rifiutava e voleva impedirglielo (Mt 3, 14). Ma Gesù risponde: «lascia, per ora, poichè è conveniente che cosl adempiamo ogni giustizia» (Mt 3, 15).21 Lo adempimento di ogni giustizia va qui nel senso dell'adempimento della Scrittura, della Legge e dei Profeti: il battesimo di Gesù e la teofania battesimale sono un compimento delle Scritture e dei profeti. Tale
19 M. SABBE, Le dialogue entre Jean et Jéms, in «Le Bapteme de Jésus. Études sur les origines littéraires du récit des évangiles synoptiques », in «De Jésus aux Evangiles », 184 ss. 2D J. GUILLET, Jésus devant sa vie et sa mort, Paris 1971, 35; A, FEUILLET, Le baptéme du Jourdain prélude du Calvaire, in «La personnalité de Jésus entrevue a partir de sa soumission au rite de repentance du précurseur », RB 77 (1970), 39 s. 21 M. SABBE, ivi, 184.
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adempimento va, nello stile di Matteo (Mt 6.10.20; 6, 1.33; 21, 32), nella conformità del comportamento dell'uomo al volere di Dio espresso nelle Scritture. Gesù invita il Battista ad uniformare i propri pensieri al beneplacito del Padre: a compiere quella giustizia che è rettitudine nell'agire conforme alla misericordia divina la cui ora sta per scoccare. Qualunque preoccupazione di inferiorità non ha ragione
di essere. La giustizia di Dio come bontà misericordiosa sta chiamando e suscitando il suo Servo (Is 45, 13 ). Ciò si compie già nel battesimo di Gesù, dal quale inizia il tempo propizio della salvezza con la predicazione della giustizia di Dio (Is 45, 19-25). Il richiamo storico all'ambiente delle origini della vita pubblica di Gesù introduce al fatto del battesimo, dato importante della tradizione evangelica per l'inizio della manifestazione pubblica di Gesù. La redazione di Marco pone in evidenza anzitutto il suo « venire da Nazaret » di Galilea con evidenti intenzioni non solo biografiche, ma anche redazionali e teologiche: 21 Giovanni e Gesù operano in luoghi ed in tempi diversi. Gesù deve uscire dalla Galilea per incontrare Giovanni che predica nella regione della giudea e del Giordano, nel deserto (Mc 1, 4). Questo dato della tradizione che collega storicamente Gesù con Nazaret si ritrova anche in Matteo che alla fine del racconto d'infanzia (Mt 2, 22-23), dopo aver con una serie di dati messo in evidenza la nascita di Gesù a Betlemme, in Giudea, conformemente ai testi profetici (Is 7, 14; Mie 5, 1) recupera la tradizione su Gesù Nazareno cerèando nei profeti una risposta alle obiezioni giudaiche sull'origine galilaica di Gesù. Proprio per questa ragione la notizia della provenienza galilaica appare solidamente fondata. Venendo dalla Galilea (Mc-Mt) Gesù fu battezzato da Giovanni nel Giordano (Mc 1, 9). Il dato riferisce un fatto certamente storico attestato da tutti e tre i sinottici, proveniente quindi dall'unanimità delle fonti (criterio della molteplice attestazione). 23 Tuttavia è anche evidente che l'importanza data dagli evangeli al fatto del battesimo di Gesù tende a riferire non solamente un fatto
1l In Marco la predicazione galilaica di Gesù è come un paradigma: Gesù proviene dalla Galilea (I, 9), ritorna in Galilea a proclamare il vangelo (I, 14). È in Galilea che si pone la prima attività di Gesù, la chiamata dei discepoli, i miracoli e la diffusione della sua fama (1, 28). È il luogo ove si ritira per ripararsi dall'odio dei farisei ed erodiani (3, 7) e nel quale si attende il ritorno di Cl'isto. L'importanza data da Marco alla fase galilaica non infirma però la storicità del periodo del ministero. · 23 F. LENrzEN-DEIS, Die Tau/e Jesu nach den Synoptikern, Frankfurt a.M. 1970
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di cronaca, legato all'intento di una informazione biografica. L'avvenimento è storico soprattutto per la portata che esso possiede per la storia della salvezza, come fatto decisivo. Questa dimensione signifìcativa del fatto è rilevata attraverso la « teofania » che si compie nel fatto stesso fino ad esserne inscindibile, connessa nella redazione di Luca con la preghiera di GesÙ. 24 La teofania battesimale, introdotta «dall'apertura dei cieli» (Mc-Mt; Le: del cielo) s'incentra nella voce, proveniente« dai cieli» (Mc 1, 11; Mt 3, 17; Le 3, 22: «dal cielo») che spiega il senso dell'avvenimento e della visione dello Spirito. La parola della teofania porta due riferimenti messianici: Ps 2, 7 ed Is 42, 1.25 Anche in Giovanni 1, 34 la testimonianza del Battista verte sulla messianità divina di Gesù con probabile riferimento ad Is 42, 1.26 Attraverso questi riferimenti profetici, la voce afferma autorevolmente (dai cieli) la dignità divina della persona di Gesù, avente una autorità unica, al di sopra del Battista, una dignità messianica espressa attraverso l'accostamento del termine «Figlio» a quello di « Servo » z:1 in un contesto in cui confluiscono il messianismo regale (Ps 2, 7) e quello profetico (Is 42, 1; 61, 1). 28 La « voce dai cieli » delucida anche la « visione dello Spirito » che discende su Gesù e vi riposa stabilmente (Gv) 29 quale manifesta-
24 La preghiera di Gesù che rappresenta in Luca l'introduzione alh teofania, attraverso la manifestazione dello Spirito Santo sembra richiamare l'idea di una anticipazione della pentecoste: la particolare presenza dello Spirito apre il tempo del ministero pubblico di Gesù così come apre il tempo della missione della Chiesa nel mondo (At 1, 14; 2, 1-5). Cfr. I DE LA PoTTERIE, L'onctz'on du Christ, NRT 80 (1958), 225 ss.; A. GEORGE, La prédication inaugurale de Jérns dam la synagog11e de Nazareth, Bl Ve 59 (1964), 17-29. 25 In Mt 3, 17 la forma indicativa sottolinea probabilmente un influsso maggiore di Is 42, 1 ove la voce è in terza persona, mentre Mc-Le danno rilievo al Salmo 2, 7. 26 Per la questione della lezione « Figlio di Dio » che secondo alcuni esegeti avrebbe rimpiazzato quella più primitiva « Servo di Dio » cfr. F. PoRSCHE, « Soh11 Gottes » oder {< Erwahlten Gottes » in 1, 34? in «Pneuma und Wort », 37 s. n Da notare questo accostamento del significato di « Figlio » con quello di «Servitore» che nei sinottici indica, il più sovente, che l'appannaggio dei Figlio non è tanto la gloria del trionfo, quanto l'umiltà della obbedienza, qualità principale del Servitore (C. MAURER, Knecht Gottes und Sohn Gottes im Passionsbericht des Markusevangeliums, ZTK 50 (1953 ), 12-13; B. M. F. VAN lERSEL, Der Sohn in den synoptischen Jesusworten, Leiden 1964. 28 J. CoPPENs, ]és11s le Serviteur de Dieu, in «Le messianisme et sa relève prophetique », Gembloux 1974, 186; ID., Le messianisme royal, 190-191. 29 Per Gv 1, 32-33 attraverso il « menein » che sottolinea il carattere permanente e pieno della presenza dello Spirito su Gesù sembra alludersi ad Is 11, 2; per tutti gli evangeli l'allusione è per Is 42, l; mentre per Luca è ancora probabile
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zione di pienezza e permanenza che sottolinea l'adempimento delle antiche profezie sullo Spirito ed il Messia, per il tempo escatologico: la storia di Israele sarebbe stata alla fine dei tempi caratterizzata da una sovrabbondante emissione dello Spirito su Israele. Questa sarebbe iniziata con la venuta dell'Unto del Signore, portatore per eccellenza dello Spirito (Is 11, 2; 42, l; 61, 1). Mentre gli antichi re e profeti non portavano così stabilmente e sovrabbondantemente lo Spirito, Gesù Io porta con pienezza; e come il compito di tutti coloro che anticamente agivano sotto l'azione dello Spirito era un compito di edificazione, convocazione, del popolo di Dio, cosl in Gesù, Figlio, Servitore, Cristo, il ruolo dello Spirito è in riferimento alla piena edifìcazione escatologica del Nuovo Israele, comunità perfetta dell'era della grazia. Tale opera riedificatrice era considerata realizzata dal futuro Messia sia attraverso l'opera regale di giustizia (Is 11, 4) sia attraverso la missione profetica di messaggero di pace, di bene (Is 52, 7), di alleanza e luce delle nazioni (Is 42, 6 ), sia attraverso un'opera espiatorio- notare anche i limiti a cui era soggetta la ermeneutica delle parabole di Ji.ilicher per l'ipoteca dei presupposti ideologici per cui le parabole annunciano un umanesimo religioso e non un evento escatologico. 86 G. BoRNKAMM, Gesù di Nazaret, 74. 87 J. DUPON"f, Les paraboles, 1 s.; Io., Il metodo parabolico, 12-13 teniamo particolarmente conto di questo lavoro in tale introduzione. 88 Comportamento esemplare raccomandato (Le 10, 30-37), avvertimento contro un cattivo comportamento (Mt 18, 23-35; servitore spietato; Le 16, 1-8: fattore dùonesto; 12, 16-20: ricco insensato), confronto tra due comportamenti (Le 16, 19-31: il ricco e Lazzaro; Le 18, 9-14: f,iriseo e pubblicano). 89 In genere le parabole non si riferiscono in modo diretto al comportamento di Gesù: egli non racconta parabole per parlare di sè (qualche eccezione in Mc 2,
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tamento di Gesù. Tra queste ultime, che possono considerarsi le più caratteristiche del vangelo si collocano le parabole che parlano espressamente del Regno. 90 Oltre al carattere della « prassi » è importante notare il « valore dialogico » del linguaggio parabolico di Gesù. Mentre i rabbini del tempo mettevano le para:bole a servizio di un insegnamento magisteriale, Gesù le ha usate come strumento di dialogo. 91 Questa caratteristica tende oggi a correggere l'idea abbastanza condivisa che il linguaggio parabolico assolva più che altro una funzione pedagogica, quale strumento didattico in ausilio di genti culturalmente non evolute, tali da non poter recepire un insegnamento in forma di principi ed idee astratte.92 Tale funzione pedagogica era in realtà la caratteristica del ricorso alle parabole, anche se marginale, da parte dell'insegnamento rabbinico. Il linguaggio parabolico di Gesù, più che essere determinato dalla mentalità incolta degli uditori, appare situato meglio storicamente, di solito, in un contesto o situazione di dissenso aperto o velato, legato quest'ultimo ad una mentalità opposta al nuovo spirito evangelico del messaggio di Gesù. Di qui, una discussione diretta ed un annuncio del tutto esplicito, avrebbe portato facilmente a rafforzare le opposizioni. Con il linguaggio parabolico, invece, Gesù narra una storia in cui il punto di dissenso è presente, ma velato, mentre l'attenzione è richiamata dal confronto di due comportamenti dei quali l'uno rappresenta il 17; Mt 12, 11; Le 13, 15). Ciò corrisponde abbastanza al piano della predicazione del periodo galilaico in cui l'accento sulla propria persona è meno diretto. L'accento è messo in modo più diretto sull'opera di Dio e sull'avvento del suCJ Regno. Cosl molte parabole parlano della condotta di Dio senza precisa relazione al comportamento di Gesù. Egli «non ha l'abitudine di raccontare parabole per parlare di se stesso e giustificare semplicemente il proprio comportamento» (J. DuPONT, Il metodo, 22-23). 90 Tra le parabole che parlano del comportamento di Dio in relazione a quello di Gesù sono caratteristiche quelle che si riferiscono alla condotta scandalosa di Gesù a motivo della sua familiarità con i peccatori (Mt 20, 1-15; Le 15, 3-7; 15, 8-10; 15, 11-32; Mt 22, 1-10; Le 14, 16-24). 91 J. DUPONT, Il metodo, 31 s. 92 Ci si potrebbe forse appellare a sostegno di tale idea all'affermazione di Gv 16, 25.29-30: «vi ho detto tutto ciò in parabole, ma viene l'ora in cui ... io vi comunicherò apertamente ciò che concerne il Padre»; cosi pure il detto di Mc 4, 11-12. In realtà in tali passi non si tratta di ragioni pedagogiche: in Gv l'insegnamento in parabole esprime Io stadio presente dell'insegnamento di Gesù ancora nascosto rispetto a quello futuro che attraverso il dono dello Spirito porterà verso la verità tutta intera. Per Mc 4, 11-12 la parola di Gesù va letta nel contesto della cecità ed incredulità di Israele rispetto al ministero di predicazione di Gesù. Essa riflette, come vedremo, la situazione dell'insuccesso di tale missione e del segreto messianico.
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punto di vista dell'interlocutore e l'altro quello di Gesù: nel primo momento, il vantaggio è concesso al primo punto di vista, « Gesù raggiunge il suo interlocutore là ove egli si trova; ma si produce un rovesciamento ed il punto di vista che aveva il vantaggio si trova soppiantato dall'altro. Così l'interlocutore ha fatto un cammino che lo prepara ad accettare il punto di vista di Gesù. Egli si renderà conto che l'accordo concesso al racconto, gli ha fatto adottare questo punto di vista ».9l Questo carattere dialogico delle parabole evangeliche è importante per la loro interpretazione: il significato delle parabole, infatti, può essere colto solamente una volta conosciuta la « questione » che ne ha determinato il racconto ed a cui il racconto stesso vuole essere una risposta. La parabola non è un discorso a se stante (monologo), ma è comprensibile, nella sua verità, in un contesto di dialogo tra la vita di Gesù e l'ambiente del suo tempo. Questa struttura dialogica del genere parabolico di Gesù è importante anche per l'attualizzazione del discorso parabolico nel nostro tempo. In tale prospettiva ci si deve sempre chiedere: in che la questione sollevata al tempo di Gesù sia tutt'ora una questione viva nella nostra situazione culturale sì da consentire una entrata in dialogo con la parola storica di Gesù. Oltre al carattere di appartenenza all'ordine della prassi e quello del dialogo, il linguaggio parabolico di Gesù trae la sua forza persuasiva dalla esperienza: ciò vuol dire che per realizzare il suo intento, che è quello di condurre l'interlocutore dominato da una mentalità diversa o opposta al suo punto di vista, Gesù non si serve, nelle parabole, della forza costringente di una argomentazione astratta, di una logica razionalistica, né della forza di un sentimento o di una autorità riconoscbta (nel caso dei giudei: la Scrittura). Le parabole non fanno appello alla Scrittura, quanto alla forza derivante dalla esperienza, una esperienza legata al comportamento concreto degli uomini (Le 15, 4-7; Mt 7, 9; Le 17, 7-10; 11, 5-7), alla esperienza collettiva che trova la sua concretizzazione in proverbi o massime di saggezza (Mt 6, 24: « non si possono servire due padroni»; Mt 10, 24: «il discepolo non è al di sopra del maestro»; Mc 2, 17: «non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati»). Ma nelle parabole evangeliche un ruolo particolare possiede l'appello concreto alla esperienza person,1le di Gesù e la convinzione de9l J. DuPDNT, Les paraboles, 5. Il procèdimento è riscontrato in venticinque casi di parabole.
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rivante da questa esperienza. Si tratta di esperienza derivante dalle sue convinzioni interiori, dal suo modo di vedere il mondo e la storia, il senso della sua missione, della sua esperienza personale del Padre, del suo modo concreto di manifestarlo nei gesti misericordiosi della vita: «Gesù, traduce la maniera con cui Egli comprende il comportamento di Dio, cerca di far comprendere il suo modo di vedere, non lo giustifica, non argomenta, ma cerca di comunicare la sua propria convinzione » .94 Questo appello alla esperienza si concretizza nel linguaggio parabolico in un processo di interrogazione che chiama talora in causa gli ascolta tori e la loro esperienza come argomento di una risposta certamente positiva, 95 ma soprattutto tendente a riconoscere e ad abbracciare l'esperienza privilegiata di Gesù per meglio riconoscere e comprendere il senso della sua missione: « ascoltando le parabole di Gesù, non bisogna solo cercare di comprendere ciò che Gesù vuole dire, ma bisogna cercare di comprendere colui che, parlando, esprime se stesso. Le parabole sono come un mezzo di accesso a Gesù in persona » (J. Dupont). IL VALORE STORICO. Importante per la stessa comprensione delle parabole evangeliche, oltre alla struttura del metodo parabolico, è il contesto nel quale esse vanno collocate e da cui risalta il loro valore di autenticità letteraria e storica. Tale contesto è anzitutto (a) quello letterario: la parabola fa parte di una unità letteraria più ampia che deve essere colta onde ne emerga l'intenzione per cui essa è riportata: ciò può essere detto sia a proposito della fase precedente il momento redazionale, sia la stessa fase redazionale riflettenti il « Sitz im Leben » postpasquale della Chiesa primitiva, la quale applicava le parabole alle circostanze concrete della sua vita, che talora davano ad esse un carattere nuovo. Così si può riconoscere talora in esse il segno di tendenze parenetiche determinate o dalla situazione di persecuzione, di minaccia o dal ritardo della parusia. 96 Quindi (b) il contesto storico concernente la situazione che ha dato origine alla J.
DUPONT, ivi, 8-9. Cosl talora l'interrogazione è posta all'inizio: "chi trn voi»? (Le 11, 5; 12, 25; 14, 5; 14, 28; 15, 4; 17, 7), talora invece è posta alla fine (Mc 12, 9; Le 7, 42; 10, 36; 12, 20; 18, 7; Mt 13, 28; 18, 33; 20, 15; 21, 31), talora emerge poi dalla stessa trama redazionale tendente ad abbandonare la forma interrogativa. 96 J. }EREMIAS, Le Parabole di Gesù, 56 s. 94
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parabola e che le ha dato il suo significato nella situazione del ministero di Gesù. Anche se molte volte appare dif!icile ritrovare la particolare situazione storica iniziale precisa in cui si colloéa la parabola, ci sono però nell'evangelo certi dati che riflettono le caratteristiche del messaggio di Gesù, lo stile del suo comportamento che sono certamente storici e che possono ben costituire il « Sitz im Leben Jesu » nel quale molte parabole trovano l'originario collocamento dal momento che in esse si trovano le linee della primitiva predicazione di Gesù, la sua 'situazione dinanzi agli uditori, il rapporto tra il suo insegnamento e la rivendicazione della sua messianità, ovvero, l'intenzione cristologica già presente nel suo primo messaggio. Il che ci consente di poter affermare che « chi studia le parnbole di Gesù che ci sono state trasmesse nei primi tre evangeli, può essere certo di lavorare su di un fondamento storico particolarmente solido, poiché esse sono un frammento di roccia nella quale s1 è edificata la tradizione ».97
h MESSAGGIO EVANGELICO DEL REGNO NELLE PARABOLE. Tutti gli aspetti del messaggio centrale della predicazione di Gesù si trovano riflessi nelle parabole del Vangelo, attraverso 1a particolarità del loro linguaggio, come pure la situazione storica della vita di Gesù che riluce al fondo dello stesso quadro redazionale. Per un motivo sistematico preferiamo ordinare il contenuto di questo messaggio intorno a tre linee fondamentali: quella del carattere escatologico del Regno quella del suo contenuto teologico-cristologico, quella degli effetti salvifici che il Regno apporta. a)
Il Regno escatologico nelle parabole.
Uno dei tratti arcaici della predicazione di Gesù, come abbiamo già veduto, è la « attualità escatologica » del Regno: esso è già all'opera, la fine dei tempi è anticipata con l'avvento di Gesù, e si va compiendo attraverso una durata, uno sviluppo, una crescita che si compirà nella rivelazione piena della regalità di Dio nel mondo. Il cammino di questo sviluppo-crescita è regolato da Dio che ne stabilisce i tempi nel corso della storia. Tutta una serie di parabole evangeliche, come quella del « seminatore », della « zizzania », del
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ivi, 15.
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granello di senapa, riflettono questo aspetto del Regno di Dio che viene con l'avvento stesso del ministero della vita di Gesù. Tra di esse un posto particolare occupa nella tradizione sinottica quella del «seminatore» (Mt 13, 1-9; Mc 4, 1-9; Le 8, 4-8), 98 la sola che nella collezione delle parabole del Regno non incomincia nel modo consueto: « il Regno di Dio è simile a ... » e che non nomina neppure il Regno stesso. Essa comincia con una storia che si racconta e si apre con il gesto del seminatore. Mentre Luca attrae l'attenzione al « seme »,99 le redazioni di Mt/Mc danno rilievo a colui che semina: non uno qualunque, ma « il seminatore» per eccellenza, colui la cui unica funzione è seminare. Gesù attrae l'attenzione su questo uomo, sul suo gesto, sull'evento da esso determinato: la storia di una semina, le sue vicende secondo i terreni fìno al termine della crescita. La conclusione che costituisce il sommo della parabola e parla del raccolto fruttuoso, sembra alludere al momento della realizzazione finale del Regno nel suo stato di pienezza. La realtà della venuta del Regno è veramente indicata dalla parabola, attraverso il gesto del seminatore che inaugura i tempi escatologici, collegata all'evento stesso della predicazione storica di Gesù ed alle reazioni del suo ambiente: insuccesso da una parte e grande frutto dall'altra. La situazione storica evocata dalla paraboìa sembra riflettere particolarmente l'ultima parte del ministero galilaico di Gesù: una parte del popol~ si era allontanata da lui o era sul punto di farlo; Malgrado l'insuccesso, Gesù annuncia la venuta incontrastabile del Regno: Dio conduce la sua opera al fine nonostante tutto. Il Regno è ormai inaugurato: se questo non è apertamente designato è forse perché ancora esiste allo stato incoativo nella persona del seminatore e nella semenza gettata sulla terra. Cosi il Regno è già lì, nella persona di Gesù, ma ancora in compimento: non è ancora giunto il momento della mietitura. La parabola della zizzania, propria di Matteo (13, 24-.30) 100 riprende questa storia che diviene apertamente la storia del « Regno
98 X. LÉON-DUFOUR, La parabole du semeur, in « Érudes d'évangile >>, Paris 1965, 259-301; K D. WmTE, The Parable of the Sower, in JTS 15 (1964), 300307. 99 Anche nella spiegazione il seminatore scompare; l'interesse è concentrato sul divenire del seme (Le 8, 11 s.). X. LÉON-DUFOUR, ivi, 261. mo M. DE GOEDT, Jésus parie aux foules en paraboles (Mt 13, 24-43), J\ssS, n. 47, 1970, 18-27.
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di Dio », come guella di un dramma in cui ciò che sconcerta è l'atteggiamento del padrone che tollera la crescita della zizzania fino al giorno della mietitura, o fuori metafora, che tollera la crescita dei peccatori in mezzo ai giusti. La parabola sul Regno risponde qui alla quef;tione: perché i malvagi sono ancora nel mondo quando è già arrivato il Regno di Dio ed è in via di compimento con la comunità dei giusti? Tale parabola, unita a quella della rete gettata in mare (Mt 1.3, 47-50), trova la sua situazione nella vita di Gesù: il suo comportamento e la sua predicazione sull'avvento del Regno trovava obiezione da parte di quegli ambienti giudaici che attendevano la « comunità messianica dei puri » criticando la comunità di Gesù come quella che aveva con sé non dei santi, bensì dei peccatori (Mc 2, 16; par; Mt 11, 19; Le 7, 34; 7, 39). Contro le obiezioni dettate dalla nostalgia della comunità dei puri, Gesù richiama l'attenzione verso il futuro escatologico del Regno che ancora deve compiersi (cernita del grano dalla zizzania), mentre il momento presente, della pazienza, sottolinea la venuta del Regno sotto il segno della salvezza aperta a tutti: bisogna lasciare a Dio il compito di giudicare e di separare quando verrà il tempo. 101 Ma intanto, se i fautori del male e dell'oppressione possono continuare ad operare, non devono farsi delle illusioni sulla realtà e potenza del Regno che viene. Il Regno ha già 8desso introdotto nel mondo il seme che non sarà sradicato: la situazione del mondo è cambiata, il male ha i giorni contati. In tal senso va anche la parabola, riportata da Marco, del seme che cresce da solo (Mc 4, 26-29) senza ulteriore intervento del seminatore il quale, gettato il suo seme per terra, dorme e veglia, di notte e di giorno, mentre il seme cresce e germoglia senza che egli sappia come, finché alla mietitura metterà mano alla falce. Contro coloro che esaltavano l'opera umana per lo avvento del Regno, l'insegnamento di Gesù richiama la forza irresistibile di crescita del Regno dovuta all'intervento di Dio che viene, non per il risultato di una evoluzione storica, di una legge immanente, ma per il libero e sovrano intervento di Dio che dispone i tempi conforme al piano della salvezza. È questo che sottolinea la tranquilla certezza di colui che ha seminato e che attende la ere-
101 J. DUPONT, La parabole de la semence qui pousse toute reule (Mc 4, 26· 29) in RSR 55 (1967), 367-392; In., Deux Paraboles du Royaume (Mc 4, 26-34), in AssS n. 42, 1970, 50-59.
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scita del seme. Essa mette quasi in contrasto la passività dell'uomo al tempo della crescita e la sua fretta a mietere quando è l'ora. 102 Le parabole del gi-anello di senapa (Mt 13, 31-32; Mc 4, 30-32; Le 13, 18-19) e del lievito (Mt 13, 33; Le 13, 20-21) sottolineano il contrasto tra le umili e piccole origini del Regno e lo splendore della sua realizzazione fìnale. 103 Nell'avvento del Regno dapprima c'è un inizio insignificante, non appariscente, senza speranza di successo, ma alla fine, la sovranità di Dio si manifesterà in modo clamoroso e si vedrà che tutto è lievitato nel nuovo fermento. In tale messaggio, un'implicita cristologico si può cogliere: « il granello di senape ormai è seminato sulla terra del giardino ed il lievito è messo nella farina e precisamente da Gesù. Ciò che ad opera sua è accaduto una volta nel mondo, non può essere annullato da nessuno. Un inarrestabile sviluppo è stato avviato, quando egli annunciava in Galilea il messaggio del Regno di Dio ». 104 Le due parabole in questione sul Regno, se è vero che sul piano redazionale sono riferite come le altre ad una situazione contemporanea alla Chiesa apostolica, adattata alle sue necessità, alle domande che sorgevano fin dagli inizi circa le umili origini della fede cristiana, lasciano intravedere però anche una situazione abbastanza precisa del ministero galilaico di Gesù. Anche questa sembra rispondere al problema delineatosi al termine di questo grande periodo, al magro bilancio della prima predicazione sul Regno, al piccolo numero dei fedeli in rapporto alle defezioni dei molti ascoltatori della Parola. Il Regno era iniziato proprio come un piccolo seme, come piccola dose di lievito, ma il suo futuro sarà grandioso. Oggi esso, pur essendo piccola cosa è però all'opera e richiede tempo di crescita: le parabole considerate traducono questa realtà, quella del « mistero del Regno» (Mc 4, 10-13) che occultamente irrompe nel mondo in maniera impercettibile, ma vera. Oltre alle parabole della crescita riflettono il carattere escatologico del Regno quella serie di parabole che descrivono il comportamento dell'uomo dinanzi alla prospettiva della instaurazione finale
103 J. DuPONT, Ler paraboler du sénevé et du levain, NRT 89 (1967), 897-913 per la storia della tedaziona matteana e le implicazioni teologiche. ICH F. MusSNER, Il merraggio delle parabole di Gesù, Brescia 1971, 35.
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del Regno esortando alla vigilanza, per la crisi imminente, parabole che alcuni chiamano della « crisi» o del «giudizio ». Si tratta delle parabole dei 1Servi fedeli ed infedeli (Mt 24, 45-51; Le 12, 42-48), dei servi in attesa (Mc 13, 33-37; Le 12, 35-38), del ladro di notte (Mt 24, 43-44; Le 12, 39-40), delle dieci vergini (Mt 25, 1-12), delle mine o dei talenti (Mt 25, 14-30; Le 19, 11-27; Mc 13, 34). 105 La redazione di Matteo che riferisce insieme la maggior parte di questo gruppo, le colloca nel quadro del discorso sulla venuta escatologica del Figlio dell'uomo che sembra appartenere storicamente all'ultima parte del ministero di predicazione di Gesù nella città santa di Gerusalemme. In tale orizzonte le parabole rispondono all'esigenza di vigilare dinanzi alla imprevedibile ora della parusia del Figlio dell'Uomo che instaura la fase definitiva del Regno. Qui « vigilare» significa: non accumulare ricchezze, ma far fronte agli avvenimenti, assumendo le proprie responsabilità durante il tempo dell'attesa del ritorno incalcolabile del Signore. Cosl le parabole si sviluppano in tre tempi: « quello in cui sono affidate le responsabilità: dirigere la casa (Mt 24, 45: parabola dei servi fedeli e infedeli), andare incontro allo sposo (Mt 25, 1-12: parabola delle dieci vergini), fare fruttificare i talenti ricevuti (Mt 25, 14-15). Segue quindi « il tempo dell'attesa » in cui il Signore « ritarda » (Mt 24, 48) o si fa attendere (Mt 25, 5) o verrà dopo lungo tempo (Mt 25, 19). Ed in fine« il tempo del ritorno del Signore» che avviene senza che si conosca l'ora (Mt 24, 43: parabola del ladro di notte), nel giorno che non si spera e nell'ora che si ignora (Mt 24, 50) e nel quale egli giudicherà sulle responsabilità ricevute». Nello stato attuale della redazione matteana tali parabole danno molto rilievo al terzo tempo tanto da dovere essere lette a partire da questo « momento decisivo », discriminatore del comportamento degli uomini nel secondo tempo. Ma questa importanza data all'ora non-conosciuta, al ritardo del Signore, al momento finale (parusiaco) della sua venuta
105 Per l'insieme del gruppo: C. H. Dooo, Le parabole, 145 s.; in partico· lare: M. DrnIER, La parabole du voleur, in Rev. dioc. N:un. 21 (1967), 1-13; lo., La parabole des talents et des mines, in «De Jésns aux Evangiles », II, 248 s.; J. Du" PONT, La parabole du Maitre qui rentre dans la nuit (Mc 13, 34-36), in « Mél. bi. B. RIGAUX, Gembloux 1970; F. M. Du BUIT, Le serviteur e11 chef, in « Les paraboles de !'attente et de la miséricorde. Études synoptiques », III, 72 (1968), 13-18; L. DEISS, La parabole des dix vierges (Mt 25, 1-13), AssS n. 95, 1966, 31-57; ]. D. KrNGSBURY, The Parables o/ Jesus in Matthew 13. A Study in RcdactionCriticism, London 1969.
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sembra riflettere anche, oltre al contesto originario della storia di Gesù, il Sitz im Leben della Chiesa primitiva che viveva nella attesa del ritorno del Signore (1 Ts 5, 2-8) e nella convinzione della esigenza etica del vigilare, dello svegliarsi dal sonno (Ef 5, 8-14) facendo fruttificare i beni del Regno con l'esercizio dell'amore fraterno. Può ben darsi che questo Sitz im Leben abbia dato un'accentuazione escatologica verso la parusia finale a queste parabole che nella situazione della vita di Gesù non avevano. 106 Questo tuttavia non compromette il carattere fondamentalmente escatologico del Regno che tali parabole tendono ad illustrare nella stessa situazione della vita di Gesù. ES"se testimoniano una certa esplicitazione cristologica inquanto l'avvento finale del Regno è descritto attraverso la venuta del Figlio dell'Uomo indicato come il padrone o lo sposo. Il che induce a collocarle, come sopra dicevamo, nell'ultimo periodo della vita pubblica di Gesù, nella prossimità della sua morte. L'insegnamento che tali parabole nella loro forma originaria presentano non pone primariamente l'accento sul ritorno del padrone o dello sposo, quanto sulla fase int1?rmedia, sulla importanza del comportamento fedele nella assenza del padrone. Tale comportamento è quello della « vigilanza » intesa come « essere pronti per ogni evenienza », idea che nella redazione è suggerita dalla atmosfera generale determinata dal fatto che il signore è via e può tornare da un momento all'altro della notte. Tutti i particolari hanno il compito di creare questa atmosfera. Ma quale evenienza? Possiamo trovare la risposta nella situazione creata dalla predicazione del Regno fatta da Gesù: essa ha introdotto nel mondo una crisi per il tempo presente che diviene decisivo per l'ingresso nel Regno. La « crisi » che la predicazione di Gesù aveva provocato nell'ambiente giudaico si andava evolvendo in modo incerto ed inaspettato per i discepoli che avrebbero assistito stupiti allo scandalo del processo e della passione di Gesù. Egli, allora, si preoccupa di preparare i discepoli ai tempi difficili in cui lo sposo sarà loro tolto (Mc 2, 20). Anche la parabola delle dieci vergini (Mt 25, 1-2) unica in Matteo, può essere veduta in questa prospettiva: la necessità di essere pronti nel momento della crisi. In questo conlU6 In tal senso soprattutto C. H. DODD, J. JEREMIAS, L'influsso della situazione della « Le parabole >>, 56 s.
Le parabole, 152, 154; vedi anche Chiesa, il ritardo della Parusia, in
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testo della prova imminente, al di là delle accentuazioni redazionali, non è affatto da escludere, come vorrebbe C. H. Dodd, l'orizzonte del ritorno del Figlio dell'Uomo che determina uno spazio di attesa in cui vengono già affidati i beni messianici perché siano fatti fruttificare fino al momento della instaurazione finale del Regno. Gli annunci profetici di Gesù sulla sua passione prossima portavano, infatti, come vedremo, la componente della sua futura vittoria, del suo trionfo escatologico prossimo. La fedeltà dei suoi servi sarebbe stata valutata già nella sua glorificazione. Nella situazione della Chiesa primitiva in cui la resurrezione rimanda alla Parusia, la prova dei servi e delle vergini è trasposta, nel tempo della Chiesa, tenendo conto sia del protendersi di questo tempo che della speranza del ritorno finale di Cristo. Nella redazione lucana, le parabole dei servi fedeli e infedeli (Le 12, 42-46) e dei servi in attesa (12, .35-.38), del ladro di notte (12, .39-40) 107 sono riportate nel contesto del dodicesimo capitolo la cui prima sezione presenta l'ammonimento contro la paura che i discepoli potrebbero avere nei confronti dei persecutori (vv. 1-12) ammonimento che ha analogia con quello dei vv. 1.3-14 con cui Gesù vuole liberare i discepoli da ogni inquietitudine circa i beni terreni, dal timore di mancare del necessario (parabole del ricco stolto: Le 12, 1.3-21 ). In questa visione non domina l'idea del ritorno parusiaco del Figlio dell'Uomo, anche se essa non è eliminata del tutto (parabola del ladro di notte: Le 12, 40). Luca, infatti, tende a dare rilievo all'avvenimento decisivo che si compie alla fìne della vita cli ogni uomo: in esso, nell'al di là, si realizza già la sorte di ognuno. La prospettiva sopra accennata della situazione della vita di Gesù, del presente che si apre all'imminenza della prova, è veduto da Luca come il tempo della Chiesa, tempo di prova che si prolunga. La condizione del cristiano nel mondo è posta sotto il segno della necessità delle sofferenze, via che conduce alla salvezza. In tale prova, il pensiero dell'avvenire che conforta il credente inquanto capovolge la situazione attuale è veduto in una prospettiva più ravvicinata: quello del momento della morte. Luca sembra rifiutare l'idea di una fine. prossima; egli si rende conto chiaramente
l07 Marco, ciel gruppo di parabole citate, porta solo quella dei servi m attesa (13, 33-37) in un contesto escatologico simile alla redazione di Matteo, ma insistendo sulla vigilanza: esso si allinea con l'insegnamento sul destino del Figlio dell'Uomo (Mc 10, 33-34). J. DuPONT, La parabole du Ma1tre, 89-116.
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che lo sviluppo della storia dopo la venuta di Gesù ha una durata alquanto lunga. D'altro lato però egli non sacrifica neppure la speranza in un avvenire migliore che sostiene la fede nel suo cammino. Trasferendo la speranza cristiana dell'al di là in una prospettiva ravvicinata, più individuale, Luca rende il messaggio del futuro del Regno più accessibile alla mentalità del mondo greco: tale speranza si rivolge quindi, più che agli eventi escatologici finali, all'avvenimento decisivo, per ogni uomo, al termine della wa vita: l'evento della sua morte ed il suo passaggio all'eternità. Possono essere raccolte nell'ambito del tema della irruzione escatologica del Regno, già nel presente, quelle parabole che nel quadro del suo annuncio nelle beatitudini evangeliche presentano la situazione più vantaggiosa dei poveri e dei sofferenti. In questa ottica vengono le parabole con cui Gesù parla della stoltezza del ricco (Le 12, 16-20), dell'amministratore avveduto (Le 16, 1-7) che si pone come antitesi alla prima, dell'uomo ricco e del povero Lazzaro (Le 16, 19-31) parabole tipiche del terzo evangelo. La prima richiama, nella situazione originaria, l'importanza dell'ora escatologica e dell'appello di Gesù ad essere prudenti nell'ultima ora, per cui la rovina minaccia coloro che non accolgono il messaggio del Regno. In tale situazione sfavorevole vengono a trovarsi i ricchi, i sazi, coloro che oggi ridono ed hanno successo (Le 6, 24-26). L'atteggiamento originario di commiserazione da parte di Gesù, verso costoro per la loro condizione sfavorevole all'avvento del Regno è espresso, nella parabola del ricco stolto, nella prospettiva dell'al di là in cui avviene definitivamente il cambiamento della loro sorte, al di là, però, che nella particolare prospettiva lucana indica la situazione della morte. Attraverso tale prospettiva si sottolinea il giudizio sull'atteggiamento etico del ricco stolto espresso chiaramente nella redazione lucana nel v. 21: « così avverrà di colui che accumula tesori per se stesso e non arricchisce davanti a Dio », parole che riecheggiano le sentenze conservate in Matteo 6, 19-21: «non accumulate tesori sulla terra, dove la ruggine e la tignola consumano e dove i ladri sfondano e rubano; ma accumulatevi tesori nel cielo, dove né ruggine né tignola consumano e dove i ladri non sfondano e rubano». La parabola nel contesto lucano assume il tono di una esortazione parenetica a vendere i beni ed a darli in elemosina, a farsi borse che non esauriscono, a farsi tesori indefettibili nei cieli (Le 12, 33), vivendo quaggiù non come i pagani (12, 30) solleciti solo dei beni terrestri (12, 28-30) ma come persone che sono sollecite anzitutto
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del Regno di Dio e della sua giustizia ( 12, 31). Il problema della ricchezza nel suo rapporto al Regno caratterizza ancora il contesto lucano del c. 16 che attraverso il versetto chiave (v. 14) tende ad illustrare l'atteggiamento dell'uomo di fronte ai beni terreni che non gli appartengono veramente, perché del Signore è la terra e tutto ciò che essa contiene (1 Cor 10, 26 = Sal 24, 1; 50, 12). La ricchezza che non è ingiusta per se stessa, diviene ingiusta (Le 16, 9) nella misura in cui l'uomo se ne appropria «per se stesso» ammassandola a proprio profitto (12, 21) considerandosi padrone assoluto di questa. 108 Vista sotto questa luce, come « idolo » (mammona), la ricchezza si oppone al Regno di Dio e chi ad essa dà il cuore non può veramente servire Dio (Le 16, 13). In questo contesto, la parabola dell'amministratore > •59 In realtà, nel pensiero di Gesù, espresso dal discorso della montagna è l'amore del Padre misericordioso il motivo ispiratore fondamentale della Legge, ma l'amore del Padre non si rivela che nella umanità mite e misericordiosa del suo Figlio Gesù. Amare il Padre vuol dire continuare questo gesto gratuito che in Gesù si riversa nella intera umanità. Solo chi ama come il Padre ama è in grado· di essere suo figlio, solo chi ama come il Cristo ci ha amati (Gv 13, 34) può essere riconosciuto come suo discepolo (Gv 13, 35). Questo vuol dire che solo amando i fratelli come Cristo si è in grado di accogliere veramente in sé l'amore del Padre e quindi di glorificarlo e riamarlo in maniera degna della sua bontà. 60 Nel parlare dell'atteggiamento di Gesù dinanzi alla Legge abbiamo veduto come esso evidenzia, insieme, una continuità ed una novità attraverso quel suo personale adempimento (concentrazione cristologica) per cui il precetto dell'amore, quale rivelazione assoluta della volontà del Padre, trova la sua espressione perfetta nell'amore del Cristo, suo Figlio: «vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato, così amatevi anche gli uni gli altri. Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avrete l'amore gli uni per gli altri» (Gv 13, 34-35). Tutto questo richiede una ulteriore importante puntualizzazione che mostra ancora il « compimento-novità » che Gesù opera rispetto alla Legge antica. Questa, come abbiamo veduto, annunciava l'interiore osservanza del precetto dell'amore per il forestiero (Dt 10, 15-19). Tale interiore osservanza del precetto dell'amore è indicata però come una realtà che si sarebbe compiuta solo nel futuro: la « circoncisione del cuore » si compirà solo ad opera di Jahvè che rinnoverà
59 S. ToMMAso, in Jo 15, 12, 1.2 cita S. Gregorio «la carità è la radice ed il fine di tutti i comandamenti» Om. 27, 1 sugli Evangeli: PL 76, 1205. 60 Poiché l'amore del prossimo scaturisce dall'amore di Dio, tale precetto nella legge cristiana non è riducibile ad un semplice «ideale morale di fraternità» che ridurrebbe tale amore solo ad una virtù morale. In realtà l'amore del prossimo nella concezione cristiana appartiene all'ambito delle virtù teologali e ciò perchè, come dice S. Tommaso: «l'amore di Dio è incluso nell'amore del prossimo come la causa è inclusa nell'effetto in ciò che il prossimo è amato propter Deum »· (in Rm 13, 1.2). Il Dottore angelico rispecchia l'insegnamento di S. Agostino cbe afferma: « amare il prossimo, cioè ogni uomo, come se stesso, chi lo può se non ami Dio e per suo precetto e dono possa compiere l'amore del prossimo? « (Exp. in Ep. ad Gal. 45 (su Gal 5, 15-16): PL 35, 2137.
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l'interiorità del cuore del suo popolo (Dt 30, 6) perchè egli posoa amare il Signore con tutta l'anima. Solo Dio quindi avrebbe realizzate le condizioni per compiere tale precetto della Legge. I profeti annunciano un tale evento come una « nuova alleanza » {Ger 31, 31; Ez 36, 27) per cui la Legge sarebbe stata data nel cuore per l'opera dello Spirito di Jahvè. Dio stesso, alla fine dei tempi, avrebbe istruito il suo popolo e dato la vera sapienza (Sir 24, 19-21). Ora, uno dei dati importanti della testimonianza evangelica, di indubbia autenticità, afferma che la forza dello Spirito accompagna l'opera del Cristo che realizza quel compimento della Legge consistente nel fatto che il credente giunge all'esercizio dell'amore amando come Lui ama. Così si supera ogni giuridismo moralistico che vede nella religione solo una legge esteriore che indica il dovere a cui uniformarci con le sole nostre forze. Il giudaismo vedeva la Legge piuttosto sotto questo aspetto, anche perché il dono della nuova osservanza non era stato concesso. Dio ha rivelato all'uomo la sua volontà e l'uomo con le sue forze deve operare la propria redenzione « atonement ». 61 Il compimento apportato da Gesù, oltre alle ragioni già delucidate, sta nel fatto che se tutta la Legge si riassume nel ;1•ecetto dell'amore di Dio e del prossimo, rivelato concretamente nel modo di amare di Gesù, tale imperativo non è solo una norma, per quanto personificata essa sia: in Gesù ci viene offerta la stessa carità di Dio che nello Spirito Santo si effonde nei nostri cuori (Rm 5, 5). Questo vuol dire che Cristo stesso, la nostra Legge, nello Spirito, ama in noi.62 B) Se l'atteggiamento di Gesù verso la Legge considerata come intervento salutare di Dio e manifestazione della sua volontà è un atteggiamento di consenso, con cui egli porta la Legge stessa al compimento, diverso è il suo atteggiamento verso l'interpretazione creatasi a poco a poco nel giudaismo attraverso la tradizione orale (halaka) che ad opera degli scribi tendeva a tutelare la legge, la spiegava ed applicava ai nuovi tempi e situazioni del popolo. Come abbiamo già visto all'inizio di questo paragrafo, si era andato crean61 SAMUEL SANDMEL, A Jewish Understanding o/ the New Testament, Lon· don 1956, 38. fil Per S. Tommaso la !ex nova è principaliter gratia ed inquanto grazia è Lex non scripta, perciò se inquanto lettera la legge del Vangelo non differisce da quella antica, la supera però apparendo « lex nova » inquanto è Lex a 5 piritu Sane/o data (in Rm 8, 2. S. LYONNET, Amottr du prochain, 14-15).
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do nel giudaismo al tempo di Gesù un « sistema della Legge » che, invece di liberare, imponeva all'uomo dei fardelli pesanti con pre· scrizioni letterali e molto formali. Rispetto a questo « sistema della legge» il comportamento di Gesù è spesso critico: il punto fondamentale di attacco era lo spirito farisaico da cui procedeva tutto uno stile di osiservanza della Legge che aveva materializzato e giurisdizionalizzato ad altranza l'alleanza di Dio con il suo popolo. Il Vangelo documenta alcuni punti con cui Gesù attacca la halaka rabbinica e talora quella stessa parte della legge scritta che contiene gli adattamenti apportati alla legge in epoche posteriori. Per i giudei essa era intangibile e veniva coperta della stessa autorità di Mosè: attaccare la halaka era attaccare la Legge santa, Dio stesso, supremo legislatore. Tra i punti di maggiore contrasto tra Gesù e Ja halaka emergono nel vangelo la questione del sabato, la distinzione circa il puro e l'impuro, la questione del divorzio. Per quanto riguarda la legge sacra sul sabato, legata alla stessa volontà creatrice di Dio, Gesù tende a mostrare come la halaka rabbinica aveva stravolto il significato originale del precetto che era un dono dato da Dio agli uomini.63 Là ove la casistica rabbinica aveva finito per sottomettere l'uomo al sabato, Gesù riporta il valore sacro del sabato al suo significato primo: quello di essere uno spazio spirituale dell'agire di Dio nel tempo, salvezza dell'uomo. 64 Consentendo di compiere ai discepoli quanto non era concesso dalla tradizione, Gesù mostra una autorità superiore ad essa. Nella risposta ai farisei, Gesù richiama il gesto di David che entrò nella casa di Dio e mangiò i pani della proposizione e ne diede a coloro che erano con lui (Mc 2, 25-26 par.; 1 Sam 21, 1-7). In Matteo 12, 5 si aggiunge che i sacerdoti stessi violavano H sabato per assicurare il servizio del tempio. Se David per la sua autorità regale ha potuto infrangere la legge della tradizione senza peccare e se i sacerdoti possono superare
63 E. LoHSE, Jesu Worte uber den Sabbat, in « Judentum-Urchristentum-Kirche », Berlin 1960, 78-89; P. BENOIT, Les épìs arracbés (Mt 12, 1-8 par.), SBF (Jerusalem) 13 (1963), 76-92; A. J. HuLTGREN, Tbe Formation of tbe Sabbat Pericope in Mk 2, 23-28, JBL 91 (1972), 38-43. 64 «Il sabato è il sacro nel tempo ... è più che un giorno, più che un nome dato al settimo giorno della settimana. ~ l'eternità nel tempo, il sottosuolo spirituale della storia». A. ]. HESCHEL, Dieu en quete de l'bomme. Pbilosopbie du Judalsme, Paris 1968, 439-440.
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la stessa tradizione per il culto del tempio, Gesl.1 ha una autorità ben maggiore sia di David che del tempio: «or, io vi dico che qui vi è qualcosa di più grande del tempio» (Mt 12, 6). «Non solo c'è qui (in Matteo) un altro caso di dispensa, ma soprattutto c'è un motivo di valore che lo giustifica: la superiorità del tempio sul sabato. Ora, Gesù stesso è superiore al tempio ». 65 Con l'atteggiamento di Gesù circa la questione del sabato non si pone quindi un caso di conflitto sulla casistica, in esso si esprime qualcosa di ben più fondamentale: la signoria del Figlio dell'Uomo sul sabato (Mc 2, 28) per cui si rivela la sua autorità regale, maggiore di David e del tempio stesso, luogo del culto. Ma con questo comportamento di Gesù ci si può spingere più a fondo: Gesù con la sua venuta, in realtà, non sopprime né la sacralità del tempo (il sabato), né quella dello spazio (il tempio); riportando queste realtà al loro valore più puro ed autentico nel piano di Dio, nella sua Persona e nella sua vita, egli porta a compimento I.a sacralità sia del tempo che dello spazio. Tutta la terra è ormai il tempio di Dio co1t l'avvento del suo Regno e tutto il tempo diviene sabato, ora d~cisiva della storia, kairos di salvezza. La « exousia » di Gesù di Nazaret ci appare qui come ,]'autorità sovrana di colui che abrogando la casistica della halaka porta a compimento il valore sacro della Legge: l'ora della venuta di Gesù è ormai il tempo sabatico per eccellenza, cioè intervento misericordioso e salvifico di Dio nella storia. Cosl a mostrare il suo atteggiamento di compimento del più profondo significato del sabato, Gesù non solo ha consentito ai discepoli di cogliere le spighe, ma soprattutto ha operato frequenti guarigioni da malattie (Mc 3, 1-6 par; Le 13, 10-17; 14, 1-6; Gv 5, 9; 9, 14). Il Figlio dell'Uomo, Signore del sabato, ha fatto di esso il luogo per eccellenza della manifestazione della autorità sovrana di Dio per la salvezza dell'uomo.66 Un altro aspetto caratteristico della autorità di Gesù in contrasto con la 'halaka' è la controversia sul puro e l'impuro che trova un logion fondamentale in Mc 7, 1-8 (Mt 15, 1-9; Le 11, 38-40).
P. BENOIT, Les épis, 239. II motivo più saliente del rifiuto da parte di Gesù della halaka è il mostrare come il « rigore » sia contrario alla volontà di Dio ,, specie là ove esso come indicato da Mc 3, 4 (par) impedisce l'adempimento del precetto dell'amore». J. ]EREMIAS, Teologia, 240. 65
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L'antitesi che portava alla distinzione tra il puro e l'impuro affondava certamente le sue radici in un sistema culuurale abbastanza diffuso che regolava certi moduli e codici di comportamento.67 Ma bisogna notare che nella Legge di Israele già si verificava il superamento del livello di un semplice codice di comportamento culturale. Dinanzi al modo d'agire dei discepoli che « mangiavano il pane con mani impure, cioè non lavate» (Mc 7, 2) i farisei e gli scribi interrogano Gesù sul perché essi non seguano la tradizione degli antichi (Mc 7, 5). La risposta di Gesù attacca direttamente la halaka: «lasciando da parte il comandamento di Dio voi osservate la tradizione degli uomini» (Mc 7, 8) e per stabilire la vostra tradizione togliete ogni autorità al comandamento di Dio (Mc 7, 9; Mt 15, .3 ). La motivazione del rifiuto di Gesù della prassi della « tradizione orale » si compendia nel fatto che essa è « opera di uomini» (v. 7) contraria al comandamento di Dio (v. 8) inquanto impone la casistica al di sopra dell'amore e la ipocrisia (Mc 7, 7) al di sopra della verità. Un esempio concreto è quello della pratica del « qorbiìn » consistente nell'offrire per voto i propri beni al tesoro del tempio per rendere intoccabile la propria ricchezza. Si trovava in tal modo, con la tradizione dell'halaka la scappatoia per sottrarsi ad obblighi gravi della legge come quello dell'aiuto del prossimo e quello del dovere della pietà e dell'onore verso i propri genitori (Mc 7, 11-1.3; Mt 15, 5-6). Contro tali ipocrite tradizioni Gesù richiama la necessità del{'unico metro dell'autentica osservanza della Legge, quello che guarda a ciò che tocca il cuore (ls 29, 13). Quando la parola della Legge resta sulle labbra, nella esteriorità, allora essa finisce sempre per divenire una tradizione sterile
67 Per alcuni come F. BELO, Lecture matérialiste de l'évangile de Mare, Paris 1975 in accordo con. G. DHOQUOIS (ivi, 50) lo ritengono un codice dominante della cultura sub-asiatica a cui apparteneva l'Israele antico. C'è tuttavia nell'autore citato la «tendenza ecceJSiva » a ritenere la Legge e la tradizione di Israele un fatto esclusivamente culturale non mettendo in rilievo l'intervento rivelatore e liberatore del Dio della alleanza che operava già nell'AT quel profondo rinnovamento che avrebbe trovato il suo compimento in Gesù Cristo. La posizione di F. BELO sta sul piano di coloro che sottolineano il carattere di « totale rottura » da parte di Gesù con il sistema ideologico dominante. 11 che storicamente non appare esatto inquanto non tiene conto della differenza dei diversi sensi della Thora e della sua differenza dalla halaka con relativa distinzione, come abbiamo veduto, del comportamento di Gesù. In particolare non si mette in chiaro il ruolo di continuità e di compimento che Gesù assolve nei confronti della Legge di Dio antica.
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ed ipocrita, incapace di stabilire gli autentici confini tra il santo e) che raccoglievano i perseguitati, gli infelici, gli afflitti che nell'atteggiamento di fede e di speranza esprimevano a Dio la loro fiducia, quale unico Salvatore, dalla loro oppressione. Questi poveri di Jahvè (Sal 73, 19; 149, 4 s.) costituivano la primizia del popolo umile e modesto, erede delle promesse. 83 a)
Il comportamento di Gesù m rapporto alle classi dominanti del giudaismo suo tempo.
Il comportamento di Gesù nell'ambito della società del suo tempo appare particolarmente importante inguanto pone in evidenza sia la sua autorità sovrana, che la potenza innovatrice e salvifica del Regno che egli annuncia, della Legge che egli insegna. Ciò che colpisce nella figura di Gesù sotto questo profilo è il suo atteggiamento antisegregazioni.S'ta che si colloca costantemente al'
8Z J. JEREMIA::, 83 J. JEREMIAS,
Jerusalem, 337-347. ]erusalem, 258; Id. Teologia, 135.
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di là degli schematismi e delle ripartizioni sociali, dei classismi di ogni tipo. Il suo atteggiamento, ila sua parola e le sue opere, vanno direttamente ' all'uomo ', alla persona ed a ciò che c'è di più intimo in essa: il suo cuore. Egli non disdegna dì frequentare gli stessi farisei (Le 11, 37 s.), ha dei seguaci tra loro (Gv 3, 1-3), riconosce che alcuno tra di esisi ' non è lontano dal Regno di Dio ' (Mc 12, 34 a). Anche tra i ricchi membri distinti del c·;msiglio ci sono uomini buoni e giusti, amici di Gesù {Mc 15, 43-45; Mt 27, 57-58; Le 23, 50-52; Gv 19, 38). Tuttavia la tradizione evangelica registra un atteggiamento molto rigido di Gesù nei confronti di un sistema insieme religioso e socio-politico che aveva finito col nascondere la realtà autentica dell'uomo ed il volto vero di Dio nelle maglie delle sue strutture, come pure nei confronti di tutti coloro che hanno fatto del sistema una difesa dei propri privilegi. Bisogna avere presente però che l'atteggiamento critico di Gesù verso il sistema religioso-politico del suo ambiente è radicalmente diverso dai movimenti critici di allora, come gli esseni e gli stessi zeloti, come pure dalle denunce critiche dei profeti del paissato. Questi movimenti e denunce, infatti, erano fondamentalmente «riformisti», chiedevano una giustizia che fosse conforme al sistema vigente della Legge che ritenevano valido: cercavano solo 'Ima osservanza più pura. L'atteggiamento di Gesù è critico in maniera ben più radicale: esso rivela una autorità unica, quella di chi proclama la fìne di tutto un ordinamento, anzitutto religioso, che comporta riflessi non indifferenti sul piano sociale e politico. Tale proclamazione della fine radicale di un mondo ormai invecchiato e che, se ha avuto la sua importanza, ormai è destinato a scomparire, non si compie né attraverso un segregazionismo, né attraverso uno zelo eversivo. L'errore di questi metodi si rivela nella fede cieca nella iniziativa e nella dficacia unica dell'opera umana, che li rifà cadere fatalmente nel vecchio sistema. La « novità» dell'atteggiamento di Gesù che proclama la fine dell'era giudaica, del vecchio eone, sta nella venuta escatologica del Regno attraverso la sua Persona e la sua opera: è perché in Lui il mondo nuovo comincia, nell'ora di salvezza definitiva, che il mondo che ne è solo preparazione ha ormai esaurito il suo compito e deve mutare. In questa luce si può vedere anzitutto l'atteggiamento critico di Gesù nei confronti della casta sacerdotale e del tempio, centro del suo potere e di tutto l'ordinamento cultuale giudaico. La tra-
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dizione evangelica attesta che Gesù frequenta il tempio come ogni pio israelita e si reca al tempio in occasione dei pellegrinaggi prescritti, per quanto nulla dice di una sua partecipazione al culto del tempio. 1' Egli ne ha rispetto come pure riconosce la casta sacerdotale (Mc 1, 40-44 par.; Le 17, 12-19). 85 Ciò nonostante, la posizione di Gesù verso i sacerdoti non risparmia critiche come nella parabola del samaritano (Le 10, 30 1s.) e nella condanna della prassi del qorban (Mc 7, 9-13). Soprattutto importante è l'atteggiamento di indipendenza di Gesù nei confronti del tempio, il quale non costituisce il centro della sua attività e della sua missione. Egli annunzia un culto non più legato alla materialità dei luoghi, ma « in spirito e verità» (Gv 4, 21-23 ); un culto legato non alla materialità dell'offerta, visto che la riconciliazione con il fratello è più importante dell'adempimento delle norme rituali del sacrificio (Mt 5, 23 s). Ma il fatto più considerevole, sul quale torneremo tra poco, è il potere di Gesù di « rimettere i peccati » (Mc 2, 5) che egli esercita scandalizzando i contemporanei, sia perché esso era riservato solo a Dio (di qui l'accusa di bestemmia), sia perché era riservato al culto espiatorio del tempio, ove solo era possibile ottenere il perdono delle colpe per l'azione di Dio. 86 Con il suo comportamento, Gesù viene ad evacuare l'importanza della istituzione cultuale del tempio giungendo ad affermare che per la sua venuta « c'è qui qualcosa più grande del tempio » (Mt 12, 6). Ma il gesto e la parola più significativa e decisiva esprimente l'atteggiamento di Gesù nei confronti dell'ordinamento cultuale del suo tempo è quelto del!a cacciata dei venditori dal tempio: il fatto ha una solida storicità per l'attestazione concorde di tutta la tradizione evangelica sia da parte sinottica che giovannea (Mc 11, 15b-l 7; Mt 21, 12-13; Le 19, 45-46; Gv 2, 13-17) e per il suo riscontro che trova nel processo di Gesù (Mc 11, 18; 14, 58; 15, 29). 81 Per il rapporto tra Giovanni e sinottici sull'andata di Gesù a Gerusalemme: cronologico, in «Giovanni e i sinottici», 17 s. del lebbroso e dell'invito a presentarsi ai sacerdoti, l'espressione « allinchè serva loro dì tescimonianza » comune ai sinottici (Mc 1, 44; Mt 8, 4; Le 5, 14) va intesa come «testimonianza a carico» con cui si esprime la condanna della loro incredulità e quindi una critica ai rappresentanti del tempio. 86 G. VON RAD, Théologie de l'Ancien Testament, I, Genève 1967 (2), 227 s. 87 J. RoLOFF, Das Kerygma und der irdische Jesu, Gi:ittingen 1969, 89-110; H. W. BARTSCH, Jesus, Prophet u11d Messias aus Galilda, Frankfurt a.M. 1970, 46-48; 34
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L'episodio, quasi certamente unico, è collocato dal quarto evangelo in occasione della mandata di Gesù a Gerusalemme per partecipare alla prima pasqua del suo ministero pubblico, mentre dai sinottici a motivo del piano redazionale di Marco, che presenta una 'Sola andata di Gesù a Gerusalemme, è inserito negli avvenimenti accaduti nell'ultima pasqua. Esso non va interpretato, come avviene spesso, come un gesto a difesa della sacralità del tempio. In verità, la presenza dei venditori delle vittime sacrificali, nell'atrio dei gentili, era perfettamente legale ed in funzione delle esigenze del culto. Gesù con sferza di funicelle caccia i venditori (Gv 2, 14-15), rovescia i tavoli dei cambiavalute, disperdendo il loro denaro. Il gesto di Gesù è veduto nella tradizione evangelica come « profezia in azione». Ma non si tratta dello zelo di un profeta verso la purezza del luogo santo, di quel tempio di pietra, spazio sacro del culto, né, tanto meno, una iniziativa di carattere zelota, quanto il segno di un compimento escatologico. In tale luce vanno gli oracoli che nella tradizione sinottica illuminano il gesto {Is 56, 7; Ger 7, 4-11; Zac 14, 21) essi si riferiscono, infatti, all'era messianica in cui si annuncia l'avvento del « tempio escatologico » che sarà libero da ogni traffico materiale (Zaccaria), dai sacrifici cruenti e dalla vana fiducia nel luogo e nelle pietre materiali (Geremia) e sarà comunità nuova che non avrà mura di cinta, perché aperta a tutti i popoli (Isaia). Secondo questi testi profetici il comportamento di Gesù appare un 'segno ' nei confronti del tempio antico, segno che ne annuncia la fine e, con esso, la fine di tutto un ordinamento cultuale connesso al tempio antico. La cacciata dei venditori rendeva impossioile il culto tradizionale delle vittime animali. In Giovanni, alle parole degli antichi profeti, si aggiunge un detto di Gesù sul tempio la cui storicità trova riscontro in altri passi sinottici e che riguarda la distruzione di quel tempio che è ormai destinato a scomparire, con il suo culto. 88 Il gesto di Gesù H. VAN D:EN BusSCHE, Le signe du tempie à Jérusalem (2, 13-25), in « Jean, commentaire de l'évangile spirituel », Bruges 1967, 151 s. 8B Cosl Mc 13, 2; Mt 24, 2; Le 21, 6 (profezia sulla distruzione del tempio di Gerusalemme). Vedi anche Mc 14, 58 par.; Mc 15, 29 par.; Mc 12, 6 (At 6, 14); Mc 1.ì, 2. In Gv 2, 21 le parole «distruggete questo tempio ed in tre giorni lo riedificherò» possono essere intese in questo contesto: la distruzione del corpo di Gesù da parte del potere religioso della società giudaica sarebbe stata in realtà il principio della distruzione stessa del potere e del culto del tempio di Gerusalemme (Mc 15, 38 par.). Gesù risuscitato (egli parlava del tempio del suo corpo Gv 2, 21) sarebbe stato il «nuovo tempio», quello «non fatto da mani di uomo» (Mc 14, 58) ed il centro della nuova econom·ia di salvezza.
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appare di una densità profetica e di una autorità inaudita: esso non è più il richiamo alla purezza del culto allora vigente, quanto l'annuncio della fine di quel culto legato ai sacrifici materiali di animali e la proclamazione di un culto nuovo della nuova economia, del culto perfetto che si sarebbe realizzato in Gesù stesso, nel suo corpo crocifisso e risuscitato. Nei confronti degli scribi, teologi della società giudaica del suo tempo, Gesù rivolge pesanti accuse che si possono condensare nella loro esagerata fiducia nel loro sapere credendo di avere a propria disposizione e discrezione la volontà divina (Mt 23, 1-13.16-22.2936). Perciò sovraccaricano di pesi insopportabili l'osservanza della Legge, là ove essi non sono un esempio di osservanza (ivi 2-4.13); ambiscono saluti deferenti, titoli onorifici ed i primi posti nelle sinagoghe e nei pranzi, accaparrano per sé la gloria dovuta solo a Dio (vv 5-12); usano la loro sapienza contro gli indifesi (Mc 12, 40) e mentre spingono il popolo a costruire sepolcri per riparare l'uccisione dei profeti compiuta dai loro padri, essi stessi stanno per colmare la misura della iniquità dei loro padri (Mt 23, 29-32). Accanto agli scribi sono associati nella condanna, in Matteo 89 , i farisei, soprattutto per la loro ipocrisia che li porta alla scrupolosa osservanza delle minuzie ed alla trascuratezza della sostanza della Legge sulla giustizia, misericordia e fedeltà (Mt 23, 23 s.). Le loro opere supererogatorie come la elemosina, la preghiera, il digiuno, sono viziate dall'ambizione, dalla adulazione, dalla presunzione (Mt 6, 1-18). Da questo spirito egli mette in guardia i suoi discepoli (Mc 12, 38-40; Mt 23, 1-32). Coinvolti nella critica mossa da Gesù agli scribi ed ai farisei sono i « ricchi», 90 « i beati in questo mondo», le persone acclamate. La loro situazione è considerata molto precaria nei confronti del Regno di Dio (Mc 10, 23-25; Le 18, 24). H contrasto con essi è evidenziato da giudizi su fatti come l'episodio della vedova (Mc 12, 41; Le 21, 1), dalla incorrispondenza alla chiamata dell'uomo ricco (Mc 10, 22) oppure da un certo numero di parabole (Le 12, 1621.45-48) e dalle commiserazioni delle beatitudini (Le 6, 24 ). 89 Le sette denunce di Mt 23 si rivolgono insieme (ad eccezione del v. 26) agli scribi ed ai farisei. La ragione può essere vista nel fatto che all'epoca della redazione di Matteo, gli scribi di tendenza farisaica avevano assunto la guida del popolo; ma la tradizione parallela di Luca comprende due composizioni oratorie distinte, contro i farisei (11, 39-44) e contro gli scribi (11, 46-52; 20, 46 s.). 90 J. DuPONT, La sventura dei ricchi, in «Le Beatitudini>>, II, 301 s.
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Un tale atteggiamento di Gesù non colpisce tanto il fatto della ricchezza: esso non ha di mira direttamente la questione sociale. La critica di Gesù va piuttosto alla radice di ciò che costituisce l'ingiustizia di coloro che sono cosl commiserati da Lui: è la fiducia che si ripone nei molti beni, nella sicurezza che si crede di possedere per essi, nell'atteggiamento di tracotanza e prepotenza verso gli altri e la conseguente insensibilità o incredulità alla Parola di Gesù. Specialmente in Luca ove l'opposizione della situazione dei ricchi rispetto ai poveri non si colloca mai nella prospettiva del conflitto sociale 91 il ruolo dei ricchi appare svolto dai dirigenti di Israele nel loro rifiuto del Vangelo. Ciò che costituisce il punto nevralgico del comportamento critico di Gesù verso queste classi dominanti è la condanna della loro irreligiosità, o di quel tipo di religiosità che li allontana dal Dio vero. Il dio che essi professano non è più ormai il vero Dio di Israele, l'autore della alleanza, ma solo la immagine idolatrica protettrice e gelosa custode del loro merito e dei loro privilegi ociali. Specialmente i farisei sono colpiti dalle ·parole di Gesù proprio in considerazione del fatto che essi rappresentano le persone maggiormente pie, dedite all'obbedienza a1la volontà di Dio, i giusti e puri della società religiosa del suo tempo. Diremmo: il prodotto ritenuto allora migliore di quella società di perfetti. La denuncia di Gesù attacca soprattutto il sistema che ha generato questo tipo ipocrita di santità. La piaga maggiore è l'atteggiamento di presunzione della propria giustizia che rende tali giusti in realtà dei separati e lontani da Dio. Questo grave difetto può essere individuato da un lato nella perdita del senso del peccato: là ove il giudaismo aveva una coscienza molto spiccata e vivace del peccato come rifiuto di fedeltà a Dio, il fariseismo ne aveva soffocato il senso nella casistica; dall'altro poi la considerazione del merito costituiva il contrappeso del peccato fino al punto di poter superare, con i meriti, le trasgressioni sì da creare nell'uomo una ostentata sicurezza, una presunzione di sè, delle proprie opere che si risolveva in definitiva in una autogiustificazione. Ora « l'uomo che presume di se stesso non prende più Dio con la dovuta serietà. Sicuro del giudizio positivo divino nei suoi confronti, si preoccupa solo di quel che gli altri pensano di lui. Tutta la sua pietà è unicamente diretta 0
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J.
DuPONT,
ivi, 85.
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a far sì che gli uomini lo ritengano giusto. Quindi è portato in tal modo alla ipocrisia (Mt 6, 1-18). Così pure, il presuntuoso, non prende più sul serio nemmeno il fratello; si ritiene migliore e disprezza gli altri» (J. Jeremias). L'atteggiamento di Gesù verso i farisei tende a demolire sia la sterile casistica che soffoca il vero senso del peccato, sia la loro concezione del merito che genera la presunzione di essere giusti di fronte a Dio: 1Sono questi « falsi giusti» ad essere chiamati «razza di vipere» (Mt 12, 34; 23, 33), incapaci di ricevere la giustificazione di Dio, là ove i pubblicani la ottengono (Le 18, 9-14); essi sono lontani da Dio per la loro pietà ipocrita. Ed è proprio perché essi si a1lontanano da Dio per questa loro inautentica religiosità che la loro conversione appare difficile: nulla infatti rende più incapaci di pentimento sincero che una falsa pietà autosufficjente, alimentata dalla •presunzione di essere giusti. Si può dire che proprio questo « peccato » di una empia religiosità è l'unico peccato, secondo Gesù, imperd. Ciò è vero non solo per le narrazioni del quarto evangelo in cui. la concentrazione cristologica risalta in primo piano, ma anche nella narrazione che Marco ci tramanda del primo esorcismo di Gesù. Qui Satana per bocca dell'indemoniato proclama la sua impotenza dinanzi alla misteriosa potenza che promana dalla Persona di Gesù chiamato appunto il « Santo di Dio » (Mc 1, 24 ). « C'è una contrapposizione che Marco fa emergere col grido veemente: «che c'è tra me e te»? (v. 24). Il linguaggio biblico oppone l'impurità alla santità, soprattutto a livello rituale, come testin10nia il Levitico ... (Lv 11-16) ... L'irruzione del Dio Santo nella vita di un uomo gli rivela sua impurità, facendogli percepire l'infinita distanza che li separa. L'insegnamento di Gesù colpisce l'uomo dinanzi e gli fa urlare la propria scoperta ... «Gesù Nazareno, sei venuto per perderci? So chi tu sei, il Santo di Dio ». 200 Attraverso la espressione arcaica « il Santo di Dio» il racconto rivela la portata cristologica del miracolo che richiama il mistero che si cela in colui che opera « autoritativamente» sgridando l'uomo e smascherando lo spirito impuro: «taci ed esci da lui» (Mc 1, 25). Il comando di Gesù risuona imperioso senza preghiere preparatorie o azioni rituali, come si operava negli esorcismi del tempo. Il tono della narrazione rivela lo sttle proprio di una persona che opera con le sue forze. Il risultato è immediato. Di qui la « meraviglia » dei presenti (Mc 1, 26 ). Egli che insegnava « con autorità», operava «con autorità» (v. 27). Episodio altrettanto significativo per l'aspetto cristologico del miracolo è quello della guarigione del paralitico {Mc 2, 5-11; Mt 9, 1-8;
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A.
V6GTLE,
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J.
RADERMAKERS,
1Vunder (im NT), LThK, X (2), 1965, 1257 s. La bonne nouvelle de ]ésus selon Saint Mare, Bruxelles 19-74; ed. it. Bologna 1975·, 118-119. Vedi caso analogo in Mc 5, 7 (indemoniato di Gerasa) = Mt 8, 29; Le 4, 34; 8, 28·.
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Le 5, 17-26). L'autorità di Gesù emerge soprattutto al v. 10 ove la prima volta in Marco compare il titolo di «Figlio dell'Uomo» come colui che ha autorità di perdonare i peccati suUa terra e comanda con autorità al paralitico: « Io ti dico, sorgi, prendi il tuo letto e vat a casa tua! » (v. 11). Tutti erano fuori di sé e glorificavano Dio dicendo: «non abbiamo mai visto nulla di simile» (v .. 12). Gli esordsmi in modo particolare (vedi anche la pericope di Beelzebul Mc 3, 25-30; Mt 12, 25-32; Le 11, 17-23) manifestano un aspetto chiaro di « segno cristologico»: dinanzi a Gesù la potenza demoniaca smascherata nel suo volto anticristiano proclama, per op· posizione, l'autorità sovrana di Colui che la domina. Perciò i settanta ritornando gioiosi dalla loro missione dicono: « Signore, i demoni stessi ci stanno soggetti in nome tuo » (Le 10, 17 -19). Questo « carattere cristologico » dei miracoli è evidenziato in modo particolare nella tradizione giovannea ove essi sono immediatamente e direttamente « segni della gloria di Gesù » ed obbligano a guardare Colui che li opera. 210 Questa « intenzione interiore » del segno è indicata espressamente nella osservazione dell'evangelo: « ancora molti altri segni compì Gesù in presenza dei suoi discepoli, che non sono scritti in questo libro. Questi invece sono scritti perché crediate ... » (Gv 20, 31). I « segni » devono dunque portare alla fede che Gesù è « il Cristo », il «Figlio di Dio », alla profonda intelligenza del mistero della sua Persona e della sua missione nel mondo: essi sono realtà, fatti miracolosi « veduti » (Gv 2, 23; 6, 2.14) che spingono alla riflessione (Gv 3, 2; 7, 31; 9, 16; 11, 47). L'uomo che li vede, può rimanere, come molti giudei alla loro superficie ed esteriorità (Gv 2, 23-25), e può anche essere spinto dal desiderio di sensazione (Gv 4, 48). In tal caso, i segni restano inefficaci e quando « gli uomini » chie· dono, con tale atteggiamento interiore, un prodigio straordinario (Gv 2, 18) o un «segno» dal cielo (6, 30), cioè un fatto spettacolare, Gesù si rifiuta. Come per i sinottici è necessaria la fede per cogliere il senso del miracolo: in Giovanni, solo la fede può penetrare l'int~mo significato del «segno» (Gv 3, 11; 6, 26; 11, 4.40). Queste osservazioni ci consentono di poter dire che « i segni », nel quarto
210 R. SCHNACKENBURG, Das Johannesevangelium, I, Freib. Br 1965, 344-356 (Die Johanneiscben « Zeichen »); ed. it., Brescia 1973, 476 con relativa bibliografia. X. LfoN-DuFoua, Les miracles de Jésus selon Jearl, 269-288.
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evangelo, tendono a mostrare in colui che è disponibik mediante la fede, la «gloria» di Gesù terreno e cioè: « i segni sono l'espressione dell'attività rivelatrice di Gesù che egli svolge sulla terra come Verbo che si è fatto carne; sotto questo aspetto essi sono sullo stesso piano delle sue parole ... I « segni » sono essi stessi una rivelazione parlante di Gesù e nelle parole autorivelatrici di Gesù sono resi ancor più visibili nel loro carattere di « segno» (Gv 6, 35, 48 .51; 9, 5; 11, 25 s.) » .m Questa «concentrazione cristologica» del segno è ben visibile specie in alcuni miracoli giovannei: così Gv 2, 1-11 che parla dell'inizio dei segni di Gesù in Cana di Galilea e della manifestazione della sua gloria, se si legge alla luce di Gv 1, 51, ci offre quasi la chiave interpretativa di questa rivelazione cristologica: Gesù di Nazaret il Figlio dell'uomo, nella sua vita terrena, manifesta la presenza e l'azione escatologica salvifica di Dio. Tutti i segni si mostrano comprensibili a questa luce: il « segno del tempio» richiama l'attenzione verso la persona di Gesù nell'evento della resurrezione del suo corpo (Gv 2, 21); il «pane del miracolo», che i giudei hanno mangiato (Gv 6, 26) è il « segno del vero pane celeste » dato da Dio, superiore alla manna di Mosè (6, 31-32), cioè Gesù stesso in persona («Io sono il pane della vita »: 6, 3 5) ma nella sua realtà celeste discesa dal cielo (6, 51) ed incarnata: perciò il pane è anche la sua carne data per la vita del mondo (6, 51). La concentrazione cristologica dei segni non astrae la Persona di Cristo dalla rea'ltà umana, dalla vita e dal sacrificio di questa vita. Così la guarigione del cieco nato è introdotta remotamente dal discorso di Gesù: « Io sono la luce del mondo» (8, 12) e prossimamente: «finché sono nel mondo sono la luce del mondo» (9, 5). Il «segno» porta alla domanda di fede: «tu credi nel Figlio dell'Uomo»? (9, 35) ed alla professione di fede del cieco sì che con la missione di Gesù nel mondo « i ciechi vedono e coloro che vedono (con i soli occhi del corpo) divengono ciechi » (9, 3 9). Il miracolo della resurrezione di Lazzaro è un altro grande segno che manifesta insieme la « gloria di Dio » ( 11, 40) e la gloria del« Figlio di Dio» (11, 4). Tale gloria attraverso fl prodigio di resurrezione porta alla manifestazione di Gesù come « Vi. ta e Resurrezione »: « Io sono la Resurrezione e la Vita » ( 11, 2 5). Questa « concentrazione cristologica » per cui i segni giovan-
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R.
ScHNACKENBURG,
ivi, 483.
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nei sono « manifestazioni della Persona di Gesù come Figlio di Dio e Messia inviato nel mondo per la salvezza dell'uomo», non è a discapito della storicità dei fatti, i quali sono profondamente legati all'economia d'incarnazione e nonostante il loro contenuto simbolico hanno una caratteristica di «materialità», sono fatti veri storicamente, topograficamente localizzati con netti contorni sl che si deve dire che « l'evangelista dà tanto decisivo valore al loro carattere fattuale, quanto ne dà alla loro forza simbolica » (R. Schnackenburg). Il quarto evangelo esalta dunque il valore di storicità dei segni mostrando proprio le profonde dimensioni degli avvenimenti straordinari della vita di Gesù in cui si adempie l'antica storia salvifica dei prodigi dell'esodo e si annunciano le meraviglie future dell'eschaton. Essi sono le manifestazioni tangibili che richiamano l'attenzione del credente sull'ora di Gesù (Gv 2, 4) che è ora terrestre in cui già si rivela, per anticipazione, la potenza salvifica del Figlio di Dio, che si compirà nella consumazione dell'ora di esaltazione della croce. In questa « ora terrena» la gloria che traluce dalla condizione terrestre della carne di Gesù, carne umile (basàr-sarx) ne mostra già adesso la potenza vivificante di vita e di luce. I « segni » intimamente legati all'opera di Gesù terreno, hanno soprattutto il significato di mettere in rilievo la rivelazione già attuale di Gesù: la gloria dell'Unigenito del Padre nel tempo della incarnazione ( 1, 14). Con ciò non si vuole negare che il suo potere salvifico di donare la vita ai credenti (17, 2) si esplichi effettivamente soltanto dopo quell'ora di glorificazione che è la Pasqua (12, 23.32; 13, 31 s.; 17, 1). Si tratta di una cosa che è evidente per Giovanni che scrive dopo la glorificazione di Gesù, in un'epc:·a in cui lo Spirito divino già si riversava sui credenti (secondo 7, 39). Perciò « i segni » sono da lui veduti più che per illuminare il cammino storico-salvifico di Gesù, per risvegliare la fede, per indurre a credere che «Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio» (20, 30), per sottolineare, cioè, il significato salvifico della sua Persona. 212 212 R. ScHNACKENBURG, ivi, 488-89. Ponendo perciò la domanda se i segni gio· vannei che si realizzano durante la vita terrena di Gesù siano nel loro significato principale una prefigurazione dell'opera salvifica del Cristo asceso al cielo o segni della «gloria dell'Incarnato» egli ritiene la domanda stessa mal posta. Certo che i fatti' i:peravigliosi sottolineati da Giovanni, come « segni », sono veduti teologicamente· alla luce di pasqua come indici cristologici che mostrano come nell'Incarnato è già anticipata la gloria dell'Esaltato, cosi come risplende in essi la gloria del Pree· sistente (17, 5).
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Il valore cristologico del miracolo espresso dalla dinamica del segno che in Giovanni occupa la prima parte dell'evangelo (cc. 1-12) è completato dal concetto di « opera» (erga) che sviluppa soprattutto l'idea della unità di essere ed operare tra Dio e Gesù suo Figlio 213 (cfr. 10, 38; 14, 11; 10, 25). Le opere di Gesù che non consistono solo nei miracoli 21 • sono messe in rapporto al volere del Padre ed alla missione del Figlio e fanno parte della missione globale che Egli deve compiere sulla terra che è veduta nell'insieme come «opera» (4, 34; 17, 4). Le «opere», dunque, sono più accentuatamente orientate in senso messianico e culminano nell'opera per eccellenza che Egli deve compiere sulla croce (17, 4; 19, 30). Esse completano il linguaggio sui miracoli, indicando il purito di vista divino sulla vita terrena di Gesù: 215 « segni ed opere » hanno un ruolo fondamentale riguardo alla fede cristologica. Ciò che distingue, come già abbiamo accennato, i racconti giovannei dei miracoli rispetto alla fede è che solo due volte essi menzionano la fede prima del miracolo (4, 47.50; 11, 25), mentre invece la fede i! in essi soprattutto presentata come loro conseguenza. Ciò sembra coerente con la visione stessa cristologica del « miracolo-segno », atto manifestativo della gloria di Gesù, gloria del Verbo Incarnato a cui corrisponde una fede che comporta come sua dimensione intrinseca un «vedere» (vedere e credere), atto che coinvolge tutto l'uomo che entra in rapporto con una rivelazione del Figlio di Dio, mandato dal Padre, in una economia di visibilità e di incarnazione. Più che mai, in Giovanni, i miracoli di Gesù appartengono intrinsecamente alla missione di rivelazione di Gesù, come Cristo, e della fede in Lui come « Figlio di Dio Incarnato » per la nostra salute.
m H. VAN DEN BussCHE, La stmcture de ]ean I-XII, in « L'évangile de Jean '" Bruges 1958, 61-109; lo., La .>.
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L' « abbii » è l'espressione di una coscienza religiosa che traduce umanamente un rapporto personale di« parità >~ con Dio: non un sentimento di infantilità, quanto di familiarità che denota un carattere di parità. Gesù non interpreta il senso personale della sua figliazione in rapporto al Dio-Padre a partire dalle esperienze storiche di Israele del Dio Salvatore-Creatore, anche se questo luogo di anamnesi storica è presente nel suo parlare del « Padre » in rapporto ai discepoli. Piuttosto, possiamo dire, Gesù interpreta il senso storico della paternità di Dio Salvatore-Creatore a partire dal luogo della sua singolarissima personale esperienza religiosa filiale. L'origine «dal Padre » non genera perciò nel linguaggio di Gesù alcun significato di dipendenza creativa come per Israele: il suo essere «dal Padre» è piuttosto in Lui tutto il fondamento della sua straordinaria auto-
rità e potestà (exousia), dimostrata nel suo insegnamento e nel compimento delle opere meravigliose. Nei sinottici il loghion di Mt 11, 27 = Le 1O, 22 è particolarmente espressivo di questo senso del1' « abbii ».Il passo è stato rivendicato nella sua autenticità da J. Jeremias.20 La sua importanza è notevole inquanto esso. appartiene alla preghiera di giubilo in cui due volte Dio è chiamato « Padre » con « abbii » (Mt 11, 25.26). È del Padre di Gesù, che è anche Signore del cielo e della terra, che parlano i versetti successivi, per tre volte, esplicitando uno dei tratti fondamentali dell'idea del Padre, come origine, nel pensiero di Gesù: «tutto mi è stato dato dal Padre. mio» (v. 27). Con tali parole Gesù enuncia il tema del logion: il Padre mio ha dato a me ogni cosa. Il contesto del logion stesso ci porta a comprendere questa « comunicazione » del Padre, come « la conoscenza totale del mistero di Dio». La coscienza religiosa di Gesù ha perciò un accesso totale alla intelligenza del Padre. Gesù viene qui ad esprimere, sotto il velame di una immagine tratta dalla vita quotidiana della famiglia giudaica, questo concetto altamente religioso: come un padre parla con il figlio, come gli insegna le lettere della Thòrii, come lo inizia al segreto gelosamente custodito dalla sua pro· fessione, così Dio, ha partecipato a Gesù la conoscenza di se stesso. È per questo che Gesù può comunicare agli altri questa « conoscenza
20 ]. ]EREMIAS, Abba, 50-54; Teologia, 70-76. Nel suo intento di sottolineare l'autenticità del passo sinottico contro le obiezioni di K. Base che lo qualifica come «un meteorita caduto dal cielo giovanneo», ]. Jeremias ci sembra che tenda troppo a minimizzare la portata teologico-trinitaria del passo in questione.
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di Dio». È proprio quésta conoscenza unica che Gesù ha dal suo rapporto al Padre, per cui « tutto riceve da Lui», che costituisce il cuore stesso del suo messaggio del Regno, « il mistero più intimo del Regno». L'affermazione di Gesù del logion di Mt 11, 27 non è sporadica nel vangelo; essa trova riscontro in molti altri passi in cui appare come Gesù è depositario e mediatore della conoscenza di Dio. 21 Essa trova anche riscontro in molti passi giovannei che sviluppano, come abbiamo detto, piuttosto ampiamente, l'attribuzione di Padre nei confronti cli Dio ed in un contesto di rivelazione, dominante nel IV evangelo. Qui, Gesù, il Figlio, è incessantemente rivolto verso il Padre sua orgine: Egli è all'ascolto del Padre e trasmette la sua Parola: « il mio insegnamento non viene da me, ma da colui che mi ha inviato » (Gv 7, 16 ), « la parola che ascoltate non viene da me, ma dal Padre che mi ha inviato» (Gv 14, 24 ). Tutto l'essere del Figlio è dal Padre: da Lui ha ricevuto la vita stessa (Gv 5, 26), la potestà di giudicare (5, 30), la gloria (7, 18; 5, 41; 8, 50). Il Padre è l'origine di tutta la esistenza di Gesù, la quale appare fondamentalmente qualificata, per ciò, come una esistenza filiale. Ciò che colpisce è però il fatto che per l'intimità e la parità del suo atteggiamento religioso filiale, Gesù non vede nel Padre il suo Signore, non si colloca come Israele al di sotto di Lui, in un atteggiamento di inferiorità e di subordinazione. L'origine dal Padre, come suo proprio Padre, è garanzia invece della verità e della autorità assoluta di tutto il suo essere, della sua missione (Gv 5, 31-46).22 È perché egli è tutto « dal Padre » che il Padre è in Lui e Lui nel Padre (Gv 14, 10; 10, 38) sì da costituire con Lui una cosa sola (Gv 10, 30) rendendo possibile il « vedere il Padre» vedendo Lui (Gv 14, 9). 23
Vedi Mc 4, 11; Mt 11, 25; Le 10, 22 ed altri: J. }EREMIAS, Teologia, 76; des secrets du Royaume, 242. de l'évangile de Jéan, Paris 1976, 111-131. 23 C. TRAETS, Voir ]ésus et le Père en Lui selon l'évangile de Saint ]ean, Rome 1967, pp. 208-225. È importante notare, per gli sviluppi successivi, come, nella esperienza religiosa nuova di Dio che si manifesta nella vita di Gesù di Nazaret, la reciprocità dei rapporti tra Padre e Figlio precede e fonda l'affermazione di unità (dogmaticamente: la ousia). È il modo di vivere e di affermare tale reciprocità nei confronti del Padre che porta ad affermare che tale rapporto interpersonale comporta insieme la identità di natura divina tra la persona di Gesù e quella del Padre. Il pensiero teologico orientale è rimasto, sul piano trinitario, ancorato a questa prospettiva, mentre il pensiero latino ha spostato l'accento verso il piano della ousia 21
L.
CERFAUX, La connaissance 22 A. ]AUBERT, Approches
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b) Urz secondo aspetto dell'atteggiamento filiale di Gesù nei confronti di Dio-Padre, sottolineato nelle preghiere dall'invocazione « abbii » è quello costituito dalla reciprocità dell'amore. :t: un tratto specifico della immagine universale paterna, quello della bontà, della consolazione e sicurezza, aspetto che nella letteratura dell' AT appare non tanto connesso con la struttura del racconto proprio delle « tradizioni storiche » che proclamano gli interventi di Dio, le sue gesta salvifiche di cui il popolo è beneficiario e testimone, ma con la teologia delle « tradizioni profetiche ».24 Soprattutto nei testi profetici antichi Dio è dichiarato Padre con accenti di bontà e tenerezza che richiamano l'immagine parentale della madre (Os 11, 1.3.4.11; Is 1, 2; 49, 15; 66, 13; 63, 16). In modo particolare questa manifestazione di amore si compie nel perdono invocato (Is 63, 15; 64, 8 s.) e donato (Ger 31, 9.20). Con questo linguaggio i profeti intendevano reagire contro la materializzazione e la « commercializzazione » dell'alleanza, compresa come un contratto ordinario, che generava un atteggiamento di orgoglio ed esclusivismo intollerabile: « contro tali tendenze i profeti ed il Deuteronomio sottolineano con una forza straordinaria l'iniziativa dell'amore di Dio e la gratuità assoluta della alleanza ».'15 Il tema del « Dio-Amore » tende così a rilevare l'origine gratuita di una alleanza che non doveva intendersi come rapporto egualitario. Per quanto non manchino nell'AT gli accenti delI'amore paterno di Dio non si può dire però che il linguaggio dell'amore ('ahab) sia così dominante ed il più diffuso per esprimere il rapporto religioso tra Dio ed Israele fondato sulla alleanza: il rapporto di Dio per il suo popolo è piuttosto indicato dal linguaggio comune della « bontà » (}:ésed), fedeltà ('emet), giustizia (sedaqah). 26 Nel NT il linguaggio dell'amore divino diviene veramente dominante e l'amore è il tema fondamentale di tutta la teologia del NT .27 Esso (sostanza-natura) partendo dalla identità sostanziale come priocipio e fondamento della molteplicità personale. Cfr. B. DE MARGERIE, La Trinité chrétienne dans /'histoire, Paris 1975. 24 W. MARCHEL, Dieu-Père, 33; P. RICOEUR, La paternité, 502-503. 25 A. FEUILLET, Le mystère de l'amour divin dans la théologie iohannique, Paris 1972, 204 s. 233. 26 W. E!CHRODT, Theologie des Alten Testaments, I, Berlin 1950, 120-121. Gli esegeti distinguono da una parte il linguaggio della «bontà di Jahvè» (hésed Yahvè) che si manifesta soprattutto nella elezione e nel fatto della alleanza e l'amore divino (ahab) propriamente detto. 21 V. WARNACK, Die Liebe als Grunqmotiv der neutestamentlichen Theologie, Dlisseldorf 1951; C. SPICQ, Agapè dans le Nouveau Testament, III, Paris 1959.
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ha in particolar modo privilegiato il linguaggio espresso attraverso il termine agapi1n e filéin con netto predominio del primo sul secondo. L'importanza particolare di questo dato linguistico va ricercata nel fatto che il cristianesimo, essendo in possesso di una concezione originale di « amore», ha legato tale esperienza al verbo « agapan » ed al sostantivo « agape». Negli evangeli il linguaggio dell'amore di Dio è particolarmente diffuso. 28 Quali le caratteristiche di questo amore di Dio testimoniato dal linguaggio evangelico? Il linguaggio del NT non parte da una concezione ideale ed astratta dell'amore: la sua concezione deriva interamente da un luogo concreto e storico di esperienza in cui si è rivelato il senso nuovo dell'amore cristiano. Tale luogo è l'esistenza di Gesù, la sua personale coscienza religiosa di rapporto con Dio Padre improntata appunto all'amore. In questo luogo originale da cui ha avuto inizio l'esperienza nuova dell'agape cristiano ci appaiono due aspetti fondamentali di questo amore divino: quello paterno e quello filiale che qui consideriamo, rimandando un terzo aspetto (quello pneumatologico) al paragrafo successivo sui rapporti di Gesù con lo Spirito. Nella vita storica di Gesù e nella sua coscienza religiosa risplende anzitutto il carattere paterno di « Dio Amore » che si esprime nella gratuità ed iniziativa assoluta, fonte di benevolenza e misericordia per cui anteriormente ad ogni possibile risposta, si manifesta come grazia concessa, come amore che ci precede. Questa manifestazione dell'amore paterno di Dio caratterizza la novità della missione di predicazione del Regno da parte di Gesù e del suo comportamento. Là ove, negli antichi messaggi profetici, l'esercizio della bontà di Dio era legato al ravvedimento dell'uomo, onde era possibile sfuggire all'ira di Dio ed essere accolti dalla sua paterna misericordia attraverso la metanoia, l'annunzio di Gesù e la realtà della sua vita suscitavano lo scandalo perché testimoniavano l'amore paterno di Dio come amore che, prima ancora di ogni ravvedimento dell'uomo peccatore, gli offriva la « grazia » del perdono e della sua amicizia. La metanoia veniva resa possibile veramente e concretamente come conseguenza di questa incredibile offerta. I gesti di miseri-
28 Secondo la cl~ssifica di C. R. BowEN, Love in the Fourth Gospel, JR 13 (1933), 39-49 i termini « filéo », « agapfo » (agapé-agapet6s) compaiono 119 volte in Giovanni (vangelo e lettere), 66 nei sinottici. J. GIBLET, Le lexique chrétien de l'amour, RTL 1 (1970), 333-337.
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cordia di Gesù, i suoi incontri conviviali con i peccatori, le parabole che richiamavano tale storico contesto, attestano un amore di Dio senza limiti. Se in una delle più alte manifestazioni dell'amore di Dio nell'AT si affermava che «come un padre ha compassione dei suoi figli, cosl il Signore ha compassione di quanti lo temono » (Sal 103, 13), nel Vangelo la manifestazione dell'amore paterno di Dio è più grande: non solo estende la sua misericordia su quanti lo temono, ma estende la sua bontà benefica agli stessi ingrati (Le 6, 35), dà cose buone ai suoi figli (Mt 7, 11; Le 11, 13), ma fa levare il sole anche sui cattivi e fa piovere anche sugli ingiusti (Mt 5, 45). La vita di Gesù, il suo messaggio, sono l'espressione tangibile di questo amore senza limiti del Padre. Una tale rivelazione ha la sua radice nell'intima conoscenza del Padre che il Figlio possiede e che solo lui riceve nel suo segreto (Mt 11, 27). Nell'abba, Gesù esprime la coscienza di avere accesso, come Figlio unico, ai segreti di amore del Padre. Per questo egli solo può rivelarli (11, 27). Tutti gli evangeli testimoniano questo dato dell'amore di Dio che totalmente è comunicato a Gesù come Figlio « diletto » (agapetòs) del Padre (Mc 1, 11 par.; Mc 9, 7 s.; 12, 6 par.), ma particolarmente in Giovanni l'affermazione che « il Padre ama il Figlio » è dominante in tutta la prima parte del vangelo (3, 35; 5, 20; 10, 17),29 ed anche, se essa si colloca nel contesto di una teologia trinitaria piuttosto evoluta, affonda però le radici nella vita storica di Gesù, nelle manifestazioni concrete di quei gesti di misericordia che testimoniano la presenza operante in Lui dell'amore assoluto del Padre e nelle manifestazioni di quelle parole di Gesù che rivelavano la sua coscienza intima di essere colui che il Padre ama in modo unico ed assoluto. In realtà è proprio questa l'accentuazione di rilievo nella testimonianza giovannea: i sinottici danno grande rilievo alla misericordia divina verso i peccatori, misericordia che manifesta, nella vita di Gesù, l'amore del Padre verso gli uomini. Certo che anche i sinottici, come abbiamo visto, attestano la singolarità dell'amore del Padre verso Gesù, dalla coscienza che questi ha del suo amore. Ma in Giovanni si sottolinea più nettamente l'anteriorità dell'amore del Padre come tema esplicito che occupa la prima parte del quarto evangelo. È solo perché Gesù è l'Unico
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A.
FEUILLET,
Le mystère, 41 s.
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Figlio amato dal Padre di un amore unico sl da formare con Lui una cosa sola, che in Gesù e nella sua vita è l'amore stesso del Padre che si manifesta e si dona agli uomini. Giovanni mostra con più chiarezza tematica il dato teologico contenuto anche nella narrazione sinottica. L'amore assoluto del Padre non può rendersi presente ed operante in questo mondo peccatore senza la presenza, in questo stesso mondo, di Colui che è in grado di accogliere nel modo più totale ed adeguato questo stesso amore assoluto: Il « Figlio unico di Dio ». È per la sua venuta storica, quindi, che l'amore del Padre si è fatto infinitamente « prossimo » all'uomo peccatore. Ma nella vita storica di Gesù e nella sua coscienza religiosa risplende anche il carattere filiale dell'amore di Dio: possiamo dire che tale carattere si compendia nell'atteggiamento della risposta di un «amore fedele e grato » da parte di colui che avendo tutto ricevuto dal Padre, vive in continuo atteggiamento di lode. In questo carattere filiale dell'amore di Gesù verso il Padre, si adempie e trascende l'atteggiamento fondamentale religioso di Israele come fìglio primogenito nei confronti di Dio. Tale atteggiamento si esprimeva, infatti, nel quadro storico dell'Esodo e della alleanza, come atteggiamento di fiducia in Dio, suscitata dalla memoria sempre viva dell'amore di Yahvè (Sal 136) e della sua fedeltà alle sue promesse. In questo atteggiamento di fiducia era inserita l'apertura alla speranza nei finali ed ulteriori interventi escatologici di Dio. È per questo che l'atteggiamento filiale della fede era fondamentalmente un atto di speranza. Il comportamento di Gesù dinanzi all'amore del Padre mostra la sua novità che trascende l'antico sentimento religioso fìliale di Israele che si esprimeva nella invocazione « abinu » (Padre nostro): tale superamento, non riguarda solo la fedeltà che in Gesù superava la infedeltà dell'antico Israele; esso deriva piuttosto dalla sua coscienza straordinaria di essere dal Padre in tutto il suo essere, la sua vita, la sua potestà. Il senso della :figliazione di Gesù non è più quello di un popolo che, memore dei grandi fatti di salvezza e dell'alleanza, spera ed attende ansiosamente per il futuro le ulteriori grandi manifestazioni dell'amore paterno di Dio. L'atteggiamento filiale di Gesù è piuttosto quello della certezza della « presenza escatologica della manifestazione dell'amore paterno » derivante non da fatti storici esterni alla sua coscienza stessa personale di Figlio. In Lui, infatti, l'amore stesso supremo del Padre si rivela totalmente e Lui stesso è la presenza nel mondo di tale amore. Nella coscienza di Gesù l'atteggia-
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mento religioso fondamentale della fede veterotestamentaria si tramuta in certezza, lode, gratitudine filiale verso il Padre. È la caratte· ristica della preghiera dell'abbà: «ti ringrazio o Padre» (Mt 11, 25; Le 10, 21-22); preghiera di lode e gratitudine dal momento che avendo il Figlio ricevuto ogni cosa dal Padre, la sua volontà è la stessa del Padre: « ti ringrazio, o Padre, perché mi hai esaudito. Ben sapevo che sempre mi esaudi~ci » (Gv 11, 41-42). «Per Gesù, l'incontro con Dio, non si pone solo ed unicamente nella speranza, questa via che conduce al futuro; esso è già realtà presente, nella conoscenza, nella obbedienza, nell'amore. La coscienza che Gesù ha della ·sua figliazione divina non è il prodotto delle sue speranze e delle sue esperienze escatologiche; essa precede viceversa, tutto il messaggio escatologico. Perciò tutta l'escatologia, nella predicazione di Gesù, deve essere compresa partendo dalla coscienza che egli ha di essere Figlio e non viceversa. In realtà, in questa coscienza filiale, le rappresentazioni escatologiche del futuro hanno un ruolo relativo. Gesù non annunzia unicamente il prossimo avvento del Regno, né parla soltanto della futura azione salvi.fica di Dio, ma rivela anche il Padre ».3() È quanto dire che il presupposto del messaggio escatologico del Regno annunziato da Gesù, per essere interpretato nella sua vera luce evangelica, deve essere visto nel quadro del rapporto personale di Gesù con il Padre, rapporto di amore. Anche su questo il quarto evangelo dà rilievo al dato storico della esistenza di Gesù tematizzando l'affermazione: «bisogna che il mondo sappia che io amo il Padre» (Gv 14, 31), «ho custodito il comandamento del Padre e rimango nel suo amore » presentando tutto il dinamismo di questa esistenza storica, come movimento derivato dall'amore del Padre che tende fì.lialmente « verso il Padre » nel passaggio supremo della sua ora (Gv 16, 28). 31
e) L'essere «dal Padre» e l'essere «per il Padre», nell'amore, che costituisce il cuore della esperienza religiosa di Gesù di Nazaret ci appare nell'evangelo non solo come «-gratitudine riconoscente» perché Egli, come Figlio, ha tutto ricevuto da Lui, ma anche come accettazione, sempre grata, dell'illimitatezza stessa dell'amore paterno di Dio che nella sua manifestazione trabocca sulla realtà del mondo
io H. ScHiiRMANN, Il Padre nostro, 35 (il sottolineato è nostro). A. FEUILLET, Le mystère, 69 s.
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e della storia. Amare il Padre, nell'intimo dialogo dell'abbà, non è per Gesù l'idillio del fanciullo che cerca nel proprio padre un amore esclusivo, quella tenerezza e sicurezza che forma il cerchio incantato della sua esistenza protetta. Il rapporto reciproco di amore paterno e filiale che sta nel cuore della esperienza religiosa di Gesù di Nazaret è caratterizzato dalla manifestazione imperiosa e dalla accettazione obbediente del volere del Padre, volere che nei sinottici è veduto più direttamente sul piano storico della vita terrena di Gesù come esigenza concreta di bere il calice della passione e morte, a vantaggio di tutti gli uomini, mentre in Giovanni è veduto in una prospettiva pitt trinitaria come il volere inviolabile di amore del Padre da cui dipende la stessa venuta nel mondo del suo Figlio ( 1 Gv 4, 9-10) per compiere l'opera di amore che il Padre gli ha dato di compiere, cioè l'opera suprema della sua vita, quella dell'ora della passione (Gv 12, 26-27). Un tale « volere sacrificale » che espone ed offre la vita del Figlio per la salvezza degli uomini è accolto, sul piano dell'incarnazione, dalla accettazione obbediente, ma dolorosa: la volontà del Pa~ dre è la legge del Figlio. Essa, nella coscienza umana di Gesù, si impone come comando ineluttabile, per cui il Figlio dell'Uomo «deve>> patire e morire (Mc 8, 31 par.): per tale volontà paterna si determina sul piano della coscienza umana di Gesù il suo disincanto da ogni possibile umano ripiegamento narcisistico. La impeccabilità umana di Gesù di Nazaret deriva proprio da questa assoluta obbedienza ad un volere paterno che apre il suo cuore umano alle ampiezze universali di un amore sacrificale. Il passo di Marco 14, 36, l'unico degli evangeli che riporta esplicitamente il termine « abbà » nella preghiera di agonia di Gesù è decisivo riguardo a questa caratteristica del senso filiale della invocazione in forma di assoluta obbedienza. Qui la volontà del Padre si manifesta chiaramente come volontà di martirio, come esigenza di bere il calice della passione (Mt 26, 39; Le 22, 42); ad essa deve modellarsi il volere umano di Gesù come volere filiale, aprendosi attraverso la croce, agli orizzonti sconfinati dell'amore del Padre « l'attitudine obbediente di Gesù a riguardo del suo Padre ... è la risposta alla attitudine benevolente di Dio a suo riguardo. Cosl Gesù ha la sua origine in Dio in maniera totale e radicale e per ciò stesso, dal più profondo del suo essere, egli si dona a Dio. In tutto ciò che egli è si accoglie da un altro. In tutte le dimensioni della sua esistenza, e dunque anche dal primo inizio, egli è total-
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mente ed assolutamente frutto dell'amore di Dio che comunica se stesso. Egli non è niente fuori di questa comunicazione che Dio fa di se stesso nell'amore ».32 Cosl il rapporto di intimità ed amore filiale si esprime non solo nella gratitudine, ma anche e radicalmente nel sacrificio della obbedienza che abbraccia il volere del Padre come contenuto essenziale del progetto o della causa della propria vita. Anche qui bisogna notare come in questo aspetto della obbedienza al volere del Padre da parte di Gesù, risplende quella qualità filiale che la rende al di sopra del sentimento di una pura soggezione come nel caso del comportamento religioso di Israele verso Dio, suo Signore. In Gesù di Nazaret l'obbedienza, anche se umanamente travagliata, come quell'agire che sente fino in fondo l'angoscia del patire, si esprime tuttavia eminentemente come « dono libero » di se stesso, come vedremo in seguito parlando del cammino di Gesù verso il Calvario. Il « volere del Padre» per Gesù non è l'imposizione esterio1'e di una legge, ma quella norma suprema di un amore sovrabbondante da cui è scaturito il suo essere stesso, la sua missione storica, il senso della sua vita. Vivere in amore obbediente al Padre è vivere fino in fondo, con coerenza, la propria « identità di Figlio Unico di Dio » venuto per la salvezza degli uomini. È qui che possiamo scorgere il nesso intimo tra il senso di « dignità » e di « missione » che evoca il concetto stesso di Figlio nel linguaggio biblico .33 Proprio perché l'essere del Figlio è avere origine dall'amore illimitato del Padre e vivere in un amore reciproco al Padre, la vita terrena di Gesù si esprime temporalmente in una esistenza dinamica di missione, in cui il volere assoluto del Padre è la legge interiore che conduce il volere umano di Gesù ad aprirsi nell'amore per gli uomini, amandoli sino alla fine come il Padre ama il Figlio (G.v 15, 9-10; 17, 22-23 ). La figura del Padre non è legata, nella concezione di Gesù, a nessun predominio di categorie al'cheologiche: il rivolgersi a Lui del Figlio non è una caduta nell'arcaismo, un guardare all'indietro verso la memoria del grande antenato. Dobbiamo dire che, piuttosto, nell'esperienza religiosa di Gesù rivelata dall'abbà, per cui Egli accetta radicalmente il compimento di quel volere che lo « chiama », « l'invia » alla missione, il Padre, 32 W. KAsPER, Wer ist Jesus Christus fiir u1is heute? Zur gegenwiirtigen Diskussion um die Gottessohnschaft Jesu, ThQ 154 (1974), 219. n Vedi in seguito pp. 405-406 s.
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centro di riferimento di tutta la sua vita è insieme il principio di origine ed il termine di tutto il mo movimento come dice Gesù in Gv 16, 28: «sono uscito da Dio e venuto nel mondo, di nuovo lascio il mondo e vado al Padre ». Cosl il Padre appare una figura di portata escatologica: « la paternità si rivela appartenente ad una teologia della speranza, poiché il Padre della invocazione è lo stesso Dio della predicazione del Regno ». 34 d) Il rapporto di Gesù al Padre costituisce ancora il fondamento di una nuova fraternità. Abbiamo già visto come l'esperienza religiosa in Gesù di Nazaret non si spiega a partire dalla esperienza storica collettiva di Israele, anche se quella può considerarsi, nel piano della storia di salvezza, un annuncio della nuova rivelazione escatologica del Padre che si sarebbe compiuta nella venuta di Gesù. L'esperienza religiosa filiale di Gesù espressa dall'abba è talmente « singolare», da essere «unica», legata quindi unicamente ed immediatamente alla coscienza di Gesù della propria identità filiale. Tuttavia, è pur vero che Gesù ha invitato i suoi discepoli a collo·carsi dinanzi a Dio nell'atteggiamento religioso da Lui rivelato, invocando Dio nello stesso modo da Lui usato. Anche se è vero che Gesù nel parlare del Padre ed al Padre non si mette mai sullo stesso piano dei discepoli dicendo « Padre nostro » in senso di « comune » {anzi in Giovanni si nota la tendenza a distinguere nettamente « Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro »: 20, 17) è pur vero che Gesù insegna a pregare ai discepoli « Padre nostro » nello spirito del « Padre mio ». La preghiera evangelica del «Padre nostro» (Mt 6, 9-13; Le 11, 2-4) non è la ripresa dell'uso giudaico dell'abim'.ì, bensl è il prolungamento o l'amplificazione comunitaria dell'abba, del singolare >, pp. 291 s. 48 Mt 13, 39-40; 24, 3; 28, 20; Mc 13, 13 (Mt 24, 13). È vero che a proposito della spiegazione delle parabole citate alcuni esegeti ritengono che sia opera della comunità di Matteo (J. ]EllEMIAS, Le Parabole, 95 s.). Tuttavia va notato che le stesse parabole parlano di « consumazione », nel testo stesso, ed ambedue sono escatologiche perchè parlano del giudizio finale (J. ]EREMIAS, ivi, 267).
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(Le 17, 24.26.30) cioè il giorno del Figlio dell'Uomo. Gesù nella sua missione mostra di avere il potere di giudicare già adesso: il giorno di Yahvè si compie «ora» (Gv 5, 22.24.27.30; 12, 31), ma c'è un « giorno » che è futuro .rispetto al momento presente, in cui l'azione giudiziaria troverà compimento. In Mt 7, 22-23 già si annuncia. In quel giorno, sarà più tollerabile la posizione di Sodoma e Gomorra di quella casa o città che avrà rifiutato l'invito (Mt 10, 15; Le 10, 12). Così subirà il giudizio chi si vergognerà di Cristo dinanzi agli uomini (Mc 8, 38). La scena fondamentale di Matteo 25 riassume in un unico quadro i vari annunci della futura venuta del Figlio dell'Uomo per giudicare le nazioni. 49 Anche se è difficile precisare con esattezza il pur indiscutibile ruolo redazionale di Matteo in questa scena, non si può neanche negare la sua perfetta « coerenza » con i vari annunci di Gesù sulla sua venuta finale come venuta giudiziale. Come attraverso una grande parabola o mashal apocalittico, la scena presenta questa « venuta » del Figlio dell'Uomo attraverso un apparato glorioso del giudizio divino (Zc 14, 5) che rappresenta la opera di Dio come quella del Pastore che seleziona le pecore (Ez 34, 17 -22). Qui il giudizio del Figlio dell'Uomo è il giudizio di Dio stesso e verterà sulla accoglienza o il rifiuto nei confronti dei « fratelli più piccoli » (Mt 25, 40-4 5 ). La parola del giudice che genera stupore farà allora comprendere il mistero della sua presenza nell'uomo, per cui nell'accoglienza o nel rifiuto, si decide il proprio atteggiamento dinanzi a Lui stesso. I fratelli più piccoli, nel contesto di Matteo, designano prima di tutto i discepoli (10, 42; 12, 48-50; 18, 6.10.14). Tuttavia in considerazione dell'appello di Gesù rivolto ad ogni uomo, per cui Gesù stesso si è fatto « piccolo » per sollevare nella speranza coloro che sono travolti dalla sofferenza, l'espressione può anche avere un senso più largo che abbraccia ogni sofferente inquanto segretamente chiamato dall'appello di Cristo. Il giudizio verterà sull'esercizio concreto della sequela del Figlio dell'Uomo venuto a servire (Mc 10, 45). Oltre all'annuncio di Matteo 25, la prospettiva del futuro nella visione di Gesù è legata al « discorso escatologico » che si colloca nel contesto della ultima parte della sua vita ed occupa un posto importante nella tradizione evangelica. Il quadro del discorso è quel49
J.
170, 186;
WrNANDY,
La scène du iugement dernier (Mt 25, 31-46)
in
ScEc 18 (1966),
L. CDPE, Matthew 25, 3146: « The Sheep and the Goats » reinterpreted,
NT 11 (1969), 32-44; 50 (1970), 23-60.
J.
C.
INGELAERE,
La «parabole» du ]ugement dernier, RHPR
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lo del grande rifiuto della « città santa » alla sua ultima offerta di salvezza. L'atteggiamento di Israele, con il suo proposito di eliminare il Cristo di Dio determina la « suprema crisi ». La apocalisse sinottica 50 si presenta con accenti diversi in Mc 13, 1-3 7 (Mt 24, 1-31; Le 21, 5-28) ed in Le 17, 20-37. La prima redazione ci offre un quadro di avvenimenti che richiama l'attenzione ai segni: la fine è ormai prossima, nessuno sa né il tempo, né l'ora. Si può dire solo che prima bisognerà superare il tempo della tribolazione che è presentato come in tre tappe: l'inizio dei dolori (Mc 13, 5-13 ), l'abominazione della desolazione nel tempio ( 14-23 ), il definitivo sconvolgimento che introduce la parusia del Figlio dell'Uomo sul quale si concentra l'annunzio (13, 24-27). Il quadro dell'apocalisse sinottica di Mc 13 pur riferendo elementi certamente storici della predicazione finale di Gesù, presenta però tematiche che riflettono la situazione della Chiesa primitiva,51 mentre il quadro che offre Luca 17, 20-37 e che insiste sulla repentinità della crisi, ci presenta una tematica più antica e probabilmente più vicina al nucleo della pre· dicazione di Gesù. 52 Qui il Regno che Gesù ha già introdotto nel presente inaugurandolo (è « in mezzo a voi »: 1 7, 21) avrà un momento finale che sfugge alla osservazione ed al calcolo. Quando il Figlio dell'Uomo verrà ad instaurare questo momento, la sua venuta sarà improvvisa come la folgore ( 17, 24 ). Allora bisognerà trovarsi non come i contemporanei di Noè e di Lot, in un atteggiamento non curante ed attaccato alle cose ( 17, 27). È importante perciò essere preparati sempre.
J.
JEREMIAS, L'imminenza della catastrofe, in «Teologia», I, 145-166; S. Il discorso escatologico, in «L'escatologia», I, 331-398; J. DuPONT, La ruìne du temple et la fin des temps dans le dìscours de Mare 13, in « Apocalypses et Théologie de l'espérance », 207-269; R. SCHNACKENBURG, Église et Parousie, in «Le message de Jésus et l'interprétation moderne», Paris 1969; K. H. ScHELKE, Escatologia della sinossi, in MySa XI, Brescia 1978, 230-252. 51 Come non si devono negare per principio elementi apocalittici nel pensiero di Gesù, anche se la sua concezione apocalittica è ben diversa da quella del giudaismo del tempo (S. ZEDDA, Il discorso, 343 s.), cosl non si possono ignorare nella apocalisse sinottica riflessi della situazione della Chiesa primitiva. Il confronto tra Mc 13 e 2 Ts 2, 1-12 come pure con l'apocalisse di Giovanni lo dimostra (affinità tematiche e linguistiche tra Mc 13 e l'Apocalisse giovannea sono notate da N. PERRIN, The Kingdom of God, London 1963, 131 s.). Ciò però non intacca la arcaicità del quadro di Mc 13 scritto prima della guerra giudaico-romana (K. H. ScHELKLE, Escatologia della sinossi, 230). 52 La composizione di Luca appare meno sistematica e sottolinea come idea conduttrice la disponibilità alla vigilanza che trova riscontro in molti luoghi evangelici: R. ScHNACKENBURG, Église et Parusie, 26. 50
ZEDDA,
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Per quanto appaiano nell'apocalisse sinottica elementi che si riallacciano alla escatologia profetica ed apocalittica che annunciava la completa salvezza realizzata nel futuro, al di là della rottura totale dell'ordine presente, bisogna notare pure le profonde differenze con l'apocalittica del tempo.53 Tali differenze riguardano non solo il lin· guaggio degli evangeli che è ben più sobrio rispetto alla fantasiosa descrizione della fine e del secolo futuro, propria delle apocalissi giudaiche. Ma soprattutto si deve notare l'assenza dei motivi decisivi della apocalittica giudaica come la guerra santa, il raduno della diaspora, il ripristino di Gerusalemme come capitale del Regno, il dominio sui gentili e lo splendore del tempio. L'annuncio di Gesù parla invece a proposito della città di Gerusalemme e del suo tempio, di una catastrofe che li colpirà, con l'espressione dell'abominio della desolazione (Dn 11, 31; 12, 11), nel luogo santo. Ma la diffe. renza più fondamentale ancora sta nel fatto che tutta la predicazione di Gesù, come abbiamo visto, è incentrata cristologicamente nel ruolo decisivo già assolto dalla. sua persona nella prima venuta come «Figlio dell'Uomo» instaurante il Regno escatologico di Dio: quindi, l'era finale della salvezza non appartiene più solo al futuro, bensì si integra già nel presente. Quale allora il senso di questo annuncio apocalittico? È veramente un messaggio rivolto al futuro? È un messaggio principalmente di giudizio o di speranza? La prospettiva sinottica appare chiaramente orientata a sottolineare nelle parole di Gesù una dimensione futura che, attraverso l'annuncio della fìne di Gerusalemme, si ispinge ad un ulteriore evento parusiaco fì. nale veduto però in un orizzonte di speranza. Così in Luca 19, 42-44 si annuncia chiaramente la distruzione di Gerusalemme perché non ha riconosciuto il momento della sua visita. La sua rovina è predetta come risultato del suo accecamento: le calamità che colpi· ranno Gerusalemme sono un segno di giudizio provocato dalla sua infedeltà (Le 21, 20-21). La distruzione del tempio e di Gerusa· lemme, annunciate con un linguaggio descrittivo che rivela da par· te dell'evangelista una perfetta conoscenza dei fatti avvenuti al tempo della redazione, sono presentate come « giudizio di Dio » che coinvolge un quadro cosmico (Le 21, 25·-26).
53 P. GRELOT, Histoire et eschatologie dans le livre de Daniel, in « Apocalypses et théologie de l'espérance », 91-109. La salvezza sperata sarebbe giunta alla «fine dei giorni» (Mie 4, 1; Is 2, 2) dopo un tempo di tristezza ed umiliazione, con un tempo