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Italian Pages 549 Year 2011
cop_VOL2_Tempidel pensiero.FH11 10-11-2011 17:11 Pagina 1 C
Età antica e medievale
Età moderna
Età contemporanea
ISBN 978-88-421-0989-1
ISBN 978-88-421-0990-7
ISBN 978-88-421-0991-4
Giuseppe Cambiano Massimo Mori
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Giuseppe Cambiano Massimo Mori
Tempi del pensiero
Tempi delpensiero Storia e antologia della filosofia
2 Sul sito www.laterzalibropiuinternet.it • un’ampia antologia di brani filosofici presentati e commentati da Giuseppe Cambiano e Massimo Mori • una serie di percorsi tematici per uno studio diacronico di singoli problemi filosofici • il Dizionario di termini e concetti della filosofia
Editori Laterza
RI O RO - M SIE O EN za AN P ter BI L a M I DE ri L 90 CA MP dito 09 TE E
2 Colori compositi
Questo volume, sprovvisto del talloncino a fronte (o opportunamente punzonato o altrimenti contrassegnato), è da considerarsi copia di SAGGIO-CAMPIONE GRATUITO, fuori commercio (vendita e altri atti di disposizione vietati: art. 17, c.2 l. 433/1941). Esente da I.V.A. (D.P.R. 26-10-1972, n. 633, art. 2, lett. d). Esente da bolla di accompagnamento (D.P.R. 6-10-1978, n. 627, art. 4, n.6).
Euro 23,50 (i.i.)
Editori Laterza
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Giuseppe Cambiano Massimo Mori
Tempi del pensiero Storia e antologia della filosofia 2. Età moderna
Editori Laterza
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Pagina ii
© 2012, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari Prima edizione 2012 L’Editore Gius. Laterza & Figli si impegna a mantenere invariato il contenuto dell’opera per un quinquennio, come disposto dall’art. 5, Legge 169/2008.
L’editing è stato curato da Gianluca Valle.
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected], sito web: www.aidro.org.
Copertina, progetto grafico e servizi editoriali a cura di Pagina, soc. coop., Bari.
Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council. Finito di stampare nel gennaio 2012 da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-421-0990-7
Editori Laterza Piazza Umberto I, 54 70121 Bari e-mail: [email protected] http://www.laterza.it
Questo prodotto è stato realizzato nel rispetto delle regole stabilite dal Sistema di gestione qualità conforme ai requisiti ISO 9001:2008 valutato da DAS e coperto dal certificato numero IT03-043
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Pagina iii
indice del volume 1. la filosofia del quattrocento 1. Umanesimo e Rinascimento
4
approfondimento L’umanesimo civile e i nuovi intellettuali, p. 5
2. Nicola Cusano 3. Il neoplatonismo fiorentino: Marsilio Ficino 4. Il neoplatonismo fiorentino: Pico della Mirandola
in poche... parole, p. 12
i testi 6
t1 Cusano/Dio è ineffabile
14
[Cusano La caccia della sapienza, XII]
9
t2 Ficino/La gerarchia dell’essere
15
[Ficino Teologia platonica, III, 1]
10
esercizi, p. 19
Cusano/Conoscenza e dotta ignoranza • Cusano/Complicazione, esplicazione, contrazione • Ficino/La dottrina dell’amore • Pico della Mirandola/La capacità di autodeterminazione
alef
dell’uomo
2. la filosofia del cinquecento 1. 2. 3. 4. 5.
La nuova cultura e l’Europa Pietro Pomponazzi Bernardino Telesio Giordano Bruno Tommaso Campanella
22 24 26 28 31
in poche... parole, p. 33
i testi t3 Tommaso Moro/L’isola che non c’è
36
[Tommaso Moro L’Utopia o la migliore forma di repubblica, libro II]
t4 Pomponazzi/Libertà e fato
38
[Pomponazzi Il fato, il libero arbitrio e la predestinazione, II, 6-7]
t5 Bruno/Il principio animatore della natura
39
[Bruno De la causa, principio et uno, II]
esercizi, p. 43 Telesio/L’oggettività della natura • Telesio/La conoscenza sensibile • Bruno/L’infinito • Bruno/L’uno e il tutto • Campanella/L’apparenza del molteplice
alef
3. riforma e politica nel cinquecento 1. La crisi della Chiesa e della teologia 2. Lutero 3. Zwingli e Calvino
46 47 48
approfondimento Riforma e pensiero politico, p. 49
4. Il pensiero politico in Italia 5. Bodin in poche... parole, p. 54
i testi t6 Lutero/La fede e la Scrittura
56
[Lutero Della libertà del Cristiano, artt. VII-X]
t7 Machiavelli/La tecnica della politica [Machiavelli Il principe, capp. XV, XVII-XVIII, XXV]
57
50 53 esercizi, p. 61
Calvino/La predestinazione divina • Lutero/L’autorità civile • Bodin/La sovranità
indice del volume
alef iii
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Pagina iv
4. il pensiero scientifico nel cinquecento e nel seicento 1. I caratteri generali della «rivoluzione scientifica» 2. Copernico 3. Brahe 4. Keplero 5. Galilei: vita e opere 6. Galilei: scienza e Scrittura 7. Galilei: la struttura matematica dell’universo 8. Galilei: i caratteri della scienza moderna 9. Galilei: il metodo sperimentale 10. Galilei: la fisica 11. Galilei: l’astronomia
64 65 67 68 69 70 71 72 73 74 75
12. Bacone: la nuova concezione della scienza 13. Bacone: metodi e scopi del sapere tecnico-scientifico
77 79
in poche... parole, p. 81
i testi t8 Galilei/Filosofia e Scrittura
84
[Galilei Lettera a Cristina di Lorena]
t9 Galilei/Le qualità soggettive e oggettive
86
[Galilei Il Saggiatore, § 48]
t10 Bacone/La teoria degli idoli
87
[Bacone Novum Organum, I, aforismi 38-44]
esercizi, p. 89
Galilei/Il cannocchiale • Bacone/L’induzione • Bacone/La forma delle cose
alef
5. cartesio 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10.
Vita e opere Ragione e sapere Il metodo della conoscenza Dal dubbio al cogito ergo sum Dall’esistenza dell’io all’esistenza di Dio Dio come garante della verità La sostanza Il mondo fisico Il corpo umano La morale
i testi
92 93 94 95
t11 Cartesio/La ragione, ovvero il buon senso
108
[Cartesio Discorso sul metodo, parte I]
t12 Cartesio/Le regole del metodo
109
[Cartesio Discorso sul metodo, parte II]
t13 Cartesio/Dal dubbio alla certezza del cogito 111
97 99
[Cartesio Discorso sul metodo, parte IV]
t14 Cartesio/Sostanza divina e sostanze create
100 100 102 103
[Cartesio I princìpi della filosofia, parte I, §§ 51-54]
t15 Cartesio/La morale provvisoria [Cartesio Discorso sul metodo, parte III]
t16 Cartesio/Verso una morale definitiva [Cartesio Lettera alla principessa Elisabetta, 4 agosto 1645]
in poche... parole, p. 104
113 114 116
esercizi, p. 118 Cartesio/Tre tipi di idee • Cartesio/Le dimostrazioni dell’esistenza di Dio • Cartesio/La macchina del mondo • Cartesio/La macchina del corpo • Cartesio/Le funzioni dell’anima • Cartesio/La ghiandola pineale
alef
6. cartesianesimo e giansenismo 1. La discussione sulla filosofia cartesiana 2. Gassendi 3. L’occasionalismo iv
indice del volume
122 122 124
4. Arnauld e la logica di Port-Royal 5. Pascal: la ragione e il cuore
126 126
approfondimento Il giansenismo, p. 128
6. Pascal: l’uomo e Dio
129
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approfondimento Il libertinismo, p. 130
135
[Pascal Pensieri, n. 223]
t19 Pascal/Scommettere su Dio
138
[Pascal Pensieri, n. 164]
i testi [Pascal Pensieri, n. 1]
Pagina v
t18 Pascal/Tra il tutto e il nulla
in poche... parole, p. 131
t17 Pascal/I due «spiriti»
10:07
134
esercizi, p. 141
Gassendi/Il pensiero dipende dal corpo • Geulincx/Lo spirito non è causa dei movimenti del corpo • Malebranche/Le verità eterne • Pascal/Grazia sufficiente e grazia efficace • Pascal/Dio di Gesù Cristo • Cyrano de Bergerac/Una voce contro la fede
alef
7. hobbes 1. Vita e opere
144
approfondimento Politica e religione nell’Inghilterra di Hobbes, p. 144
2. 3. 4. 5. 6.
La dottrina della conoscenza Il linguaggio Ragione e filosofia La filosofia naturale e l’etica Dallo stato di natura al patto sociale 7. Il sovrano assoluto
145 146 147 148
in poche... parole, p. 153
i testi t20 Hobbes/La ragione come calcolo
155
[Hobbes Leviatano, cap. V]
t21 Hobbes/Dallo stato di natura alla società civile
157
[Hobbes Leviatano, capp. XIV e XVII]
150 151 esercizi, p. 161
approfondimento Il giusnaturalismo, p. 152
Hobbes/Dalla sensazione al pensiero • Hobbes/Dimostrazioni a priori e a posteriori • Hobbes/Lo stato di natura
alef
8. spinoza 1. 2. 3. 4. 5. 6.
Vita e opere La filosofia come ricerca di Dio Metodo e oggetto della filosofia Le proprietà della sostanza Dio come natura Pensiero ed estensione
164 165 166 167 168 170
confronti Mente e corpo in Cartesio e Spinoza, p. 171
7. 8. 9. 10.
La teoria della conoscenza La teoria degli affetti Fede e filosofia Stato e libertà in poche... parole, p. 178
173 174 176 177
i testi t22 Spinoza/La sostanza infinita e i suoi attributi [Spinoza Ethica, parte I, Definizioni e Proposizioni VII-VIII; parte II, Proposizioni I-II]
t23 Spinoza/Natura naturante e natura naturata
181
183
[Spinoza Ethica, parte I, Proposizioni XXV, XXIX, XXXIII]
t24 Spinoza/Ordine delle cose e ordine delle idee
184
[Spinoza Ethica, parte II, Proposizione VII]
t25 Spinoza/Fede e filosofia
185
[Spinoza Tractatus theologico-politicus, cap. XIV]
esercizi, p. 189
Spinoza/Dio è la sostanza infinita • Spinoza/Contro il finalismo • Spinoza/La conoscenza intellettuale • Spinoza/La libertà di pensiero e lo Stato
indice del volume
alef v
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Pagina vi
9. locke 1. Vita e opere 2. Le fonti della conoscenza
192 193
approfondimento Locke tra empirismo e razionalismo, p. 194
3. 4. 5. 6. 7. 8.
La classificazione delle idee Il linguaggio La teoria della conoscenza Diritti naturali e patto sociale Potere politico e liberalismo Religione e tolleranza in poche... parole, p. 205
i testi t26 Locke/L’esperienza come limite del conoscere
208
[Locke Saggio sull’intelligenza umana, libro II, cap. I]
195 197 198 200 201 202
t27 Locke/La critica della sostanza [Locke Saggio sull’intelligenza umana, libro II, cap. XXIII, §§ 1-3]
t28 Locke/Stato di natura e stato di guerra [Locke Secondo trattato sul governo, capp. II-III, §§ 4, 6-8, 16, 19-21]
209 211
esercizi, p. 215
Locke/La critica dell’innatismo • Locke/Idee semplici e idee complesse • Locke/Intuizione e dimostrazione • Locke/Il potere legislativo • Locke/Stato e Chiesa
alef
10. leibniz 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9.
Vita e opere La logica La conoscenza vera Logica e metafisica: la sostanza individuale Metafisica e fisica: il concetto di forza La monadologia La gerarchia delle monadi Piccole percezioni e conoscenza La dottrina dell’armonia prestabilita
218 219 220 221 223 224 225 227
10. Il problema del male
229
in poche... parole, p. 230
i testi t29 Leibniz/La sostanza individuale [Leibniz Discorso di metafisica, capp. VIII, IX]
t30 Leibniz/Le monadi [Leibniz Monadologia, §§ 1-19]
t31 Leibniz/L’anima non è una tabula rasa [Leibniz Nuovi saggi sull’intelletto umano, Proemio]
228
233 235 238
esercizi, p. 241
Leibniz/Le verità di ragione • Leibniz/Le sostanze si corrispondono armonicamente • Leibniz/Le piccole percezioni • Leibniz/Dio crea il migliore dei mondi possibili
alef
11. vico 1. Vita e opere
244
approfondimento La formazione intellettuale di Vico, p. 244
2. Le critiche a Cartesio 3. Storia, filologia, filosofia vi
indice del volume
245 246
4. 5. 6. 7.
Mente umana e storia ideale Storia e provvidenza divina Le tre età La sapienza poetica in poche... parole, p. 254
247 249 250 252
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i testi t32 Vico/Il «vero» e il «fatto» [Vico De antiquissima Italorum sapientia, cap. I, §§ 1-2]
256
Pagina vii
t33 Vico/La storia come opera degli uomini e della provvidenza
258
[Vico Scienza nuova seconda, libro I, sezz. III-IV]
esercizi, p. 261
alef
Vico/La «storia ideale eterna» • Vico/Il corso delle nazioni
12. la filosofia inglese nel settecento 1. Caratteri generali 2. Newton
264 265
confronti La questione del metodo in Galilei, Cartesio e Newton, p. 267
3. Pro o contro il deismo 4. Berkeley: la teoria della conoscenza 5. Berkeley: religione e politica
i testi t34 Newton/Esperienza e metodo induttivo [Newton Princìpi matematici della filosofia naturale, libro III e Scolio generale]
269 271 275
t35 Berkeley/Essere è essere percepiti [Berkeley Trattato sui princìpi della conoscenza umana, parte I, §§ 1-3]
279 282
approfondimento I moralisti inglesi, p. 276
in poche... parole, p. 277
esercizi, p. 285
Newton/Dio è l’architetto del mondo • Toland/La ragione e il mistero • Berkeley/La critica delle idee astratte • Shaftesbury/La socievolezza naturale • Shaftesbury/Armonia universale e senso morale • Mandeville/Vizi privati, pubblici benefici
alef
13. hume 1. 2. 3. 4. 5.
Vita e opere La scienza dell’uomo La teoria della conoscenza La critica all’idea di causa La critica all’idea di sostanza
288 289 289 292 293
approfondimento Empirismo e scetticismo in Hume, p. 294
6. La teoria delle passioni e della società 7. La religione 8. Adam Smith e l’economia politica
in poche... parole, p. 299
i testi t36 Hume/La causalità come abitudine [Hume Estratto del Trattato sulla natura umana]
t37 Hume/La credenza [Hume Trattato sulla natura umana, libro I, parte III, sez. VII]
294 297 298
302 305
esercizi, p. 307
Hume/Gli erramenti della metafisica • Hume/Impressioni e idee • Hume/I fondamenti della morale: ragione o sentimento? • Hume/I limiti della ragione in ambito morale • Smith/Interessi particolari e vantaggi generali
indice del volume
alef
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Pagina viii
14. l’età dei lumi 1. Caratteri generali
310
approfondimento L’Illuminismo nasce in Inghilterra o in Francia?, p. 311
326
approfondimento Lessing tra filosofia e religione, p. 330
9. L’Illuminismo italiano
approfondimento Pierre Bayle: un precursore dell’Illuminismo, p. 312
2. Voltaire 3. Montesquieu 4. L’Enciclopedia di d’Alembert e Diderot 5. Sensismo e materialismo: Condillac, La Mettrie, Helvétius, Holbach 6. Rousseau: l’uomo tra stato di natura e società civile 7. Rousseau: il patto sociale e l’educazione dell’uomo
8. L’Illuminismo tedesco
312 314 316
330
in poche... parole, p. 332
i testi t38 Voltaire/Perché bisogna essere tolleranti
335
[Voltaire Trattato sulla tolleranza, cap. XII]
t39 d’Alembert/Per un sapere enciclopedico
318 321
337
[d’Alembert Enciclopedia, Discorso preliminare]
t40 Rousseau/Il contratto sociale [Rousseau Contratto sociale, libro I, capp. VI-VIII; libro II, capp. I-III]
339
323
approfondimento Sulla nozione di progresso, p. 325
esercizi, p. 345
Bayle/La critica delle fonti • Voltaire/Le illusioni dell’ottimismo • Montesquieu/I princìpi dei tre governi • Condillac/L’attività psichica nasce dalle sensazioni • La Mettrie/L’uomomacchina • Rousseau/Le radici dell’ineguaglianza • Rousseau/L’educazione della natura • Condorcet/Il progresso storico • Lessing/Educazione e rivelazione
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15. kant 1. Vita e opere
348
approfondimento Il periodo precritico, p. 350
2. Il programma della filosofia critica
351
approfondimento La Dissertazione del 1770, p. 352
3. I giudizi scientifici
353
355 356 359 361 363
approfondimento I princìpi puri dell’intelletto, p. 366
9. La Dialettica trascendentale viii
indice del volume
370 373 375 378
in poche... parole, p. 379
i testi
confronti Il problema della conoscenza in Hume e Kant, p. 355
4. La «rivoluzione copernicana» 5. L’Estetica trascendentale 6. L’Analitica trascendentale dei concetti 7. La deduzione trascendentale 8. L’Analitica trascendentale dei princìpi
10. Il problema morale 11. I postulati della ragion pratica 12. La Critica del giudizio 13. Cultura, diritto, pace perpetua
367
t41 Kant/Che cosa posso sapere? [Kant Critica della ragion pura, Introduzione]
t42 Kant/Lo spazio e il tempo [Kant Critica della ragion pura, Estetica trascendentale, §§ 2, 3, 6]
t43 Kant/Le categorie [Kant Critica della ragion pura, Analitica trascendentale, § 10]
t44 Kant/La ragione universalmente legislatrice [Kant Fondazione della metafisica dei costumi, sez. II]
385 388 392
394
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t45 Kant/Che cos’è il bello [Kant Critica del giudizio, Analitica del giudizio estetico, §§ 5-6, 9-11, 18, 22]
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396
Pagina ix
t46 Kant/Sapere aude
399
[Kant Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo?]
esercizi, p. 401 Kant/La sensibilità • Kant/L’intelletto • Kant/Leggi della natura e leggi del pensiero • Kant/La critica della metafisica • Kant/Le idee della ragione • Kant/Il sommo bene e l’esistenza di Dio • Kant/La costituzione civile • Kant/La pace perpetua
alef
16. l’età del romanticismo in germania 1. Caratteri generali
404
approfondimento Lo Sturm und Drang, p. 406
2. 3. 4. 5. 6. 7.
La filosofia della fede di Jacobi Herder Il classicismo di Goethe e Schiller Hölderlin I circoli romantici Schleiermacher
407 408 409 411 412 415
in poche... parole, p. 417
i testi t47 Schiller/L’ingenuo e il sentimentale
419
[Schiller Della poesia ingenua e sentimentale]
421
t48 Hölderlin/L’Uno-tutto [Hölderlin Iperione, libro I, seconda lettera di Iperione a Bellarmino]
esercizi, p. 423
Goethe/La natura vivente • Novalis/La poesia • Schleiermacher/La religione dell’infinito
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17. l’idealismo di fichte e di schelling 1. La discussione post-kantiana sul criticismo 2. Fichte: vita e opere 3. Fichte: la dottrina della scienza 4. Fichte: la morale e il pensiero politico
426 427 429 432
approfondimento Fichte: dall’idealismo soggettivo alla filosofia dell’Assoluto, p. 435
5. Schelling: vita e opere 6. Schelling: la filosofia della natura 7. Schelling: l’idealismo trascendentale 8. Schelling: la filosofia dell’identità approfondimento Le ultime fasi del pensiero di Schelling, p. 443
in poche... parole, p. 445
i testi t49 Fichte/I princìpi della filosofia
448
[Fichte Fondamenti dell’intera dottrina della scienza, parte I, §§ 1-3]
t50 Fichte/L’etica come attività infinita
453
[Fichte Il sistema della dottrina morale, Introduzione, §§ 6-7; libro II, §§ 12-13]
t51 Fichte/La nazione e la lingua
436 438 440 442
[Fichte Discorsi alla Nazione tedesca, IV Discorso]
t52 Schelling/La natura come organismo, spirito, finalità [Schelling Idee per una filosofia della natura, Introduzione]
t53 Schelling/L’unità indifferenziata [Schelling Esposizione del mio sistema filosofico, §§ 1-2, 4-6]
456 460 464
esercizi, p. 467
Fichte/Dall’Assoluto trascendentale all’Assoluto etico • Fichte/La fede e la vita • Fichte/L’Assoluto, il Sapere, la Natura • Schelling/L’opera d’arte • Schelling/Fondamento ed esistenza di Dio • Schelling/Il concetto di rivelazione
indice del volume
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Pagina x
18. hegel 1. Vita e opere
470
approfondimento Tra Berna e Francoforte: gli Scritti teologici giovanili, p. 471
2. Il periodo di Jena: i primi scritti 3. La Fenomenologia dello spirito: caratteri generali 4. La Fenomenologia dello spirito: le «figure» del processo conoscitivo 5. Dalla Fenomenologia dello spirito al sistema 6. La Scienza della logica La filosofia della natura La filosofia dello spirito soggettivo La filosofia dello spirito oggettivo Le forme dell’eticità Lo spirito nella storia
473
i testi
475
t54 Hegel/La negazione dialettica
476
t55 Hegel/L’identità di razionale e di reale
481 485 488 490 492 493 495
[Hegel Scienza della logica, Introduzione]
[Hegel Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione]
t56 Hegel/Lo Stato come sostanza etica
bibliografia
520
le fonti
532
indice dei nomi
534
indice del volume
504 505 509
[Hegel Lineamenti di filosofia del diritto, §§ 257-60, 271-73, 321-22, 330, 333-34, 340-42, 344-45, 347]
t57 Hegel/La storia e gli eroi [Hegel Lezioni sulla filosofia della storia, vol. I, parte II, cap. 2, §§ c), d)]
514
esercizi, p. 518
Hegel/Il processo dello spirito • Hegel/Logica e metafisica • Hegel/Arte e spirito assoluto • Hegel/Religione e filosofia
x
496
in poche... parole, p. 499
confronti La conoscenza e il rapporto intelletto/ragione in Kant e Hegel, p. 487
7. 8. 9. 10. 11.
12. La filosofia dello spirito assoluto
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età moderna
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una nuova visione del mondo
Il carattere fondamentale dell’umanesimo, destinato a improntare di sé l’intero Rinascimento, è l’antropocentrismo: in opposizione alla concezione esclusivamente teocentrica del Medioevo, l’uomo viene ora posto al centro del mondo e considerato l’artefice della propria realtà. cusano e i limiti della conoscenza umana
1. la filosofia del quattrocento
i contenuti umanesimo e rinascimento
Nel suo significato oggi più diffuso, il termine Rinascimento indica un movimento culturale sviluppatosi in Italia sin dai primi anni del Quattrocento. Il suo obiettivo fondamentale era la «rinascita» della cultura classica e della concezione dell’uomo a essa legata, dopo la decadenza e l’imbarbarimento del periodo medievale. La prima fase del Rinascimento coincide con l’umanesimo, ossia con un indirizzo inteso a privilegiare lo studio delle
2
humanae litterae rispetto alla teologia che aveva dominato la cultura medievale. il metodo storico-filologico
L’esigenza di restituire alla loro originaria purezza i documenti della sapienza classica comporta, da un lato, l’acquisizione di una nuova coscienza storica, consapevole della distanza che separa lo studioso dalle opere che analizza e, dall’altro, l’elaborazione di rigorosi strumenti filologici per l’analisi dei testi. Questa tendenza è favorita anche dalla diffusione della conoscenza della lingua greca.
1. la filosofia del quattrocento
Il riferimento alla tradizione platonica caratterizza la filosofia di Nicola Cusano. A suo avviso, l’uomo può conoscere solo ciò che fa lui stesso e non ciò che è opera di Dio. La limitatezza della conoscenza umana è evidente soprattutto quando essa si applica a Dio: in questo caso, la sproporzione tra la finitezza umana e l’infinità divina appare incolmabile. cusano: la ricerca della verità
Essendo al di là della quantità, Dio è massimo e minimo nello stesso tempo: in lui si realizza il paradosso della coincidenza degli opposti. Anziché cercare di conoscerlo, l’uomo può ammettere soltanto la propria ignoranza, che, attraverso questa consapevolezza, diventa però dotta ignoranza. cusano: dio e il mondo
Un altro punto fondamentale del pensiero di Cusano riguarda il problema platonico del rapporto tra l’uno e i molti, e quindi tra Dio e le creature. Cusano concilia i due aspetti sostenendo che Dio è la complicazione delle cose create (nel senso che egli le ricomprende in se stesso) e che le cose rappresentano l’esplicazione dell’unità divina, ossia la manifestazione di Dio in molteplici forme. l’accademia platonica di firenze
Sebbene i modelli forniti dalle filosofie di Platone e di Aristotele
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siano entrambi presenti nella cultura italiana del Quattrocento, a Firenze – il principale centro di irradiazione della cultura rinascimentale – prevale la tradizione platonica nelle figure di Marsilio Ficino e di Pico della
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Mirandola. L’antropocentrismo in Ficino si esprime soprattutto attraverso la dottrina dell’anima umana, vista come elemento centrale di una gerarchia dell’essere che va dalla materia a Dio. Pico, invece, insiste sulle
capacità di autodeterminazione dell’uomo che, partecipe della natura di tutte le cose create, è libero di scegliere se tendere alle cose divine o degenerare in quelle più basse.
gli strumenti in poche… parole coincidenza degli opposti / dotta ignoranza / contrazione / amore / astrologia / magia
approfondimento L’umanesimo civile e i nuovi intellettuali
i testi a. nel manuale t1 Cusano/Dio è ineffabile t2 Ficino/La gerarchia dell’essere
b. on-line Cusano/Conoscenza e dotta ignoranza Cusano/Complicazione, esplicazione, contrazione Ficino/La dottrina dell’amore Pico della Mirandola/ La capacità di autodeterminazione dell’uomo
esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?
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1. Umanesimo e Rinascimento la «rinascita» del mondo classico
In conseguenza della crisi della Scolastica, nel Quattrocento si sviluppa un movimento culturale che presenta un rinnovato interesse per il mondo classico greco-romano. Nel Quattrocento, infatti, il mondo classico è considerato come fonte e modello di civiltà, in contrapposizione alla cultura medievale, giudicata come un periodo di decadenza e di imbarbarimento. Si assiste pertanto al programmatico tentativo di fare, per così dire, «rinascere» in nuove forme il mondo classico, inteso come un ideale di vita e di cultura. Per questo motivo si suole designare tale epoca storica come Rinascimento.
i luoghi del rinascimento
Questo fenomeno è particolarmente evidente nelle città italiane. Queste ultime, una volta acquisita la propria autonomia, per un verso si arricchiscono economicamente con le attività manifatturiere e commerciali, per l’altro sviluppano un crescente patrimonio culturale. Nella civiltà comunale confluiscono molti aspetti dell’eredità classica: il libero comune tende a riprodurre la città stato della Grecia antica e, nello stesso tempo, assume come modello le istituzioni della Roma repubblicana. Un tipico esempio di questo rinnovamento è fornito dalla città di Firenze, destinata a rivestire – almeno per tutto il secolo – un ruolo egemone sia in campo politico sia in campo culturale. Il particolare rilievo che la nuova fioritura economica e culturale assume in Italia non deve, tuttavia, far dimenticare che fenomeni analoghi si sviluppano anche in altre aree europee, ad esempio nelle Fiandre e nei Paesi Bassi.
dall’università alle scuole
Per realizzare la rinascita occorre recuperare il patrimonio letterario che la classicità aveva accumulato e, di conseguenza, operare un radicale rinnovamento degli studi. Innanzi tutto, essi non sono più prerogativa quasi esclusiva della gerarchia ecclesiastica, ma vengono ampiamente coltivati dai ceti laici. Parallelamente si assiste alla moltiplicazione e alla differenziazione dei centri culturali: in precedenza, essi coincidevano con i monasteri e le scuole cattedrali, poi con le università. Ora, invece, anche se le università continuano a svolgere la loro funzione, si sviluppano scuole di grammatica e di retorica, scuole di latino e di greco, cenacoli privati in cui si conducono dibattiti filosofici (primo nucleo delle future accademie).
il primato delle humanae litterae
La perdita del monopolio culturale da parte degli ecclesiastici segna anche la fine dell’egemonia della cultura teologica tipica dell’età medievale. Il termine umanesimo, con il quale si indica uno degli aspetti salienti dell’epoca rinascimentale, serve a designare un orientamento di studi che si fonda sulle humanae litterae, in implicita opposizione a quelle divinae. Esso, infatti, si basa sull’esame dei monumenti di quella classicità che più di ogni altra epoca ha realizzato i valori e le potenzialità dell’humanitas. Recuperando la nozione greca di paidèia («educazione»), l’umanesimo intende sottolineare la specificità dell’essere umano.
il recupero dei testi antichi
La rinascita della cultura classica trova il suo presupposto fondamentale in un’instancabile attività di ricerca, di recupero e di riesame dei manoscritti
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risalenti all’antichità: testi letterari e poetici, documenti storici, filosofici e scientifici. Inoltre, l’atteggiamento dell’umanista rinascimentale di fronte al testo classico è completamente diverso da quello dello studioso medievale. Nel Medioevo i pochi testi antichi di cui si poteva avere conoscenza venivano sì tramandati in varie traduzioni, ma senza alcuna preoccupazione per la ricostruzione del testo nella sua autenticità formale e concettuale. Al clerico medievale, infatti, non interessava il recupero storico del documento, ma soltanto l’utilizzabilità dei suoi contenuti ai fini della dimostrazione delle verità teologiche che gli stavano a cuore. In conseguenza di ciò, egli spesso utilizzava testi alterati, o li alterava egli stesso, per adattarli alle esigenze proprie e del proprio tempo. A differenza della cultura medioevale, la cultura umanistica è permeata dalla preoccupazione di ripristinare l’originalità del testo servendosi di un metodo filologico. Per questo motivo la ricerca dei documenti del passato si accompagna sempre a un rigoroso studio della lingua greca e latina. L’umanesimo non si risolve, tuttavia, nei soli aspetti letterari e filologici. Il pensiero del Quattrocento si presenta come una nuova concezione della realtà che trova nell’antropocentrismo il suo carattere fondamentale. Il declino degli studi teologici si accompagna a un nuovo interesse per l’uomo, posto al centro del mondo e analizzato in termini di libertà, volontà, attività. Secondo questa prospettiva, l’uomo non è soltanto una parte integrante del reale, ma ne è soprattutto l’artefice.
APPROFONDIMENTO
l’uomo artefice del proprio destino
L’umanesimo civile e i nuovi intellettuali
Il convincimento che l’uomo sia artefice del proprio destino porta molti intellettuali a integrare gli studi letterari con l’impegno politico, dando origine al fenomeno dell’umanesimo civile. Letterati che sono al tempo stesso politici, giuristi, trattatisti morali trovano nella celebrazione letteraria dell’antichità greco-romana lo strumento per difendere il valore dell’impegno civile nella realtà in cui vivono. Tra i maggiori rappresentanti dell’umanesimo civile ricordiamo Coluccio Salutati (1331-1406) e Leonardo Bruni (1374-1444). È significativo il fatto che entrambi ricoprirono la carica di cancelliere della signoria di Firenze e furono esponenti di primo piano della vita politica del tempo. Salutati – in un epistolario di grande valore
letterario – celebra la superiorità della vita attiva rispetto a quella contemplativa e, analogamente, nel trattato De nobilitate legum et medicinae (1400) sostiene il primato della volontà sull’intelletto. Parimenti, Bruni affianca a un’intensissima attività di traduzione di testi platonici e aristotelici dal greco in latino una celebrazione della filosofia morale, vista come elemento fondamentale della cultura dell’epoca nuova. Anche in questo caso, l’uomo e le sue relazioni costituiscono il centro di principale interesse. La stessa ricerca filologica – che, come abbiamo ricordato, costituisce la componente essenziale del Rinascimento – non si esaurisce nello studio dei codici e nella ricostruzione dei testi antichi, ma si dimostra attenta verso altre di-
mensioni della cultura umanistica. Ne è buon esempio l’opera di Poggio Bracciolini (1380-1459). Dalle biblioteche monastiche italiane e tedesche, attraverso una lunga serie di viaggi, egli riporta alla luce le opere di autori quali Quintiliano, Vitruvio, Lucrezio, Stazio, Ammiano Marcellino, nonché molti testi ciceroniani. Inoltre, con il costante confronto tra differenti redazioni, attraverso tecniche filologiche raffinate, i testi vengono ricostruiti e restituiti alla loro forma originaria. Bracciolini, tuttavia, rivela anche buone doti di letterato. I suoi viaggi e le sue scoperte sono vivacemente descritti nelle lettere, nelle quali l’esaltazione dei classici si congiunge all’esaltazione delle virtù umane dell’impegno civile. Il suo epistolario costituisce una delle
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migliori produzioni della letteratura latina del Quattrocento: del resto l’«epistola», sempre richiamandosi a un modello classico, acquisisce nuovamente la dignità di genere letterario, venendo spesso concepita e composta in vista della pubblicazione. Pur dedicando buona parte della propria vita alle ricerche nelle biblioteche, Bracciolini non ha come ideale la figura dell’erudito che si isola in mezzo ai libri. Al contrario, egli celebra le virtù umane che si rafforzano nel rapporto costante tra uomo e uomo e sottolinea con forza la dimensione sociale dell’individuo. Modernissima è inoltre, nel suo dialogo De avaritia (1429), la valorizzazione del denaro come fondamento della società: se ciascuno si rinchiudesse in un’economia rivolta esclusivamente al soddisfacimento dei bisogni individuali, la società si disgregherebbe; viceversa, l’accumulazione di denaro fornisce linfa vitale allo Stato. In tal senso, l’«avarizia» può essere considerata il fondamento delle istituzioni politiche.
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In relazione agli sviluppi degli studi filologici deve essere ricordata anche la figura di Lorenzo Valla (1407-1457). Nelle Elegantiae linguae latinae (1444) egli celebra il latino come fattore di coesione culturale e politica, come segno di una sovranità spirituale detenuta dall’impero romano anche quando la sovranità politica venne alienata a vantaggio della Chiesa. Attraverso gli strumenti della filologia, inoltre, Valla si impegna a dimostrare la falsità dei documenti che dovrebbero comprovare la cosiddetta donazione costantiniana, cioè l’atto con cui l’imperatore Costantino avrebbe alienato al papa Silvestro la giurisdizione sulla città di Roma. Ma anche in Valla, come in Bracciolini, occorre notare la coesistenza di interessi letterari e di istanze filosofiche. Nel De vero bono (1432), ad esempio, il piacere viene posto a fondamento dell’agire dell’uomo: le stesse leggi che reggono lo Stato hanno come fine l’utile, il conseguimento del quale genera piacere. Un altro esempio di interdiscipli-
narità rinascimentale è fornito da Leon Battista Alberti (1404-1472), la cui principale attività fu l’architettura (S. Maria Novella e Palazzo Rucellai a Firenze, Tempio Malatestiano a Rimini). L’opera teorica di Alberti riguarda in parte lo studio delle arti figurative, in parte la discussione filosofica. A quest’ultima sono dedicate opere come Della tranquillità dell’animo e Della famiglia. Il tema fondamentale della filosofia di Alberti è la virtù, intesa come capacità di dominare la fortuna e come operosità all’interno della famiglia. In questo modo, egli recupera nell’ambito dell’umanesimo italiano la tradizione della filosofia stoica, così come Valla – attraverso la rivalutazione del piacere – aveva ridato vita a quella epicurea. In Alberti, inoltre, la celebrazione della virtù si colora di accenti tipicamente umanistici, traducendosi nell’esaltazione della dignità ed eccellenza dell’uomo. Per mezzo della virtù, infatti, l’uomo – l’unico animale eretto, capace di guardare sopra di sé e davanti a sé – può progettare autonomamente il proprio futuro.
2. Nicola Cusano
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la vita
La ricerca di un punto di incontro tra le differenti fedi religiose costituisce un notevole centro di interesse per Nicola Cusano (1401-1464): questi elaborò uno dei più complessi e articolati sistemi di pensiero del Quattrocento, in cui confluiscono – in sintesi originale – disparati elementi delle precedenti tradizioni. Nato a Kues – onde il nome di Cusanus – nel 1401, studiò diritto a Heidelberg e Padova, nonché filosofia e teologia a Colonia. Temperamento speculativo di prim’ordine, egli non fu tuttavia un teorico puro: percorse la carriera ecclesiastica fino a diventare cardinale e si trovò impegnato in alcune delle più significative vicende della Chiesa del suo tempo. Ad esempio, partecipò al Concilio di Basilea, convocato nel 1432 per fare chiarezza sui fermenti che agitavano la vita della Chiesa dopo la risoluzione dello scisma d’Occidente.
religione e politica ecclesiastica
Le preoccupazioni di Cusano per la pacificazione religiosa dell’umanità sono evidenti nello scritto La pace della fede, composto nel 1453 in occasione della caduta di Costantinopoli. Pur mostrando un occhio di riguardo per il 1. la filosofia del quattrocento
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cristianesimo, l’autore suggerisce la possibilità di individuare un’unica religione al di là della varietà dei riti. Infatti, mentre «la religione» è unica per tutti gli uomini, «le religioni» altro non sono che «riti», ossia espressioni esteriori del comune sentimento religioso. Se in quest’opera Cusano affronta le divisioni religiose che lacerano l’umanità, in precedenza aveva affrontato le divisioni che travagliavano il mondo cristiano. All’epoca del Concilio di Basilea, Cusano era fautore di una posizione conciliarista, che negava la supremazia del pontefice nei confronti del Concilio. Nel Trattato sul potere presidenziale (1434) egli sosteneva che la Chiesa è realmente rappresentata solo dal Concilio. Per questo motivo il ruolo del papa nel Concilio è paragonabile a quello di un coordinatore di dibattiti o di un esecutore di delibere. Il potere di presiedere il Concilio è, invece, attribuibile unicamente a Cristo, personalmente presente nella Chiesa riunita in Concilio.
la chiesa è rappresentata dal concilio
Successivamente Cusano ribalta queste posizioni, schierandosi a favore della supremazia del pontefice, riconosciuto come effettivo vicario di Cristo. Per chiarire i rapporti tra l’unità della persona del papa e la pluralità delle persone che costituiscono la Chiesa, Cusano ricorre ai concetti di complicazione e di esplicazione. Il pontefice – e non più il Concilio – rappresenta realmente, anzi è la Chiesa, in quanto la «complica» in sé: egli riassume e condensa nell’unità della propria persona la molteplicità dei membri del corpo ecclesiale. La Chiesa, viceversa, costituisce una sorta di esplicazione, cioè un’estrinsecazione visibile, dell’unità originaria di Cristo nella molteplicità dei fedeli.
la supremazia del papa
Nel De docta ignorantia (1440) Cusano indica l’atteggiamento che l’uomo deve assumere di fronte a Dio, dopo aver riconosciuto l’impossibilità di conoscerlo adeguatamente. La conoscenza umana, infatti, procede secondo un modello matematico, stabilendo una proporzione tra ciò che ha già acquisito e ciò che ancora rimane ignoto. Ora, è possibile stabilire rapporti proporzionali solamente quando si ha a che fare con un materiale «finito» (cioè limitato). Dio, invece, è l’infinito: di fronte a lui i processi conoscitivi si trovano in una situazione di scacco. Nella conoscenza, l’uomo deve paragonare il più grande al meno grande. Ma Dio – essendo al di là della quantità – è massimo e minimo nello stesso tempo e in lui si realizza la coincidenza degli opposti (coincidentia oppositorum). Questo paradosso è razionalmente incomprensibile. Per esso, infatti, non vale il principio aristotelico di non contraddizione, secondo il quale è escluso che gli opposti possano coincidere. Di fronte al paradosso della coincidenza degli opposti la ragione deve, dunque, riconoscere la propria ignoranza, sebbene si tratti di una dotta ignoranza , ossia di un’ignoranza consapevole di sé .
l’uomo ha una conoscenza inadeguata di dio
Se il De docta ignorantia sottolinea l’incommensurabilità tra uomo e Dio, e quindi l’impossibilità di attingere una conoscenza positiva delle cose divine, il De conjecturis (1440-1445) mostra i limiti della conoscenza umana anche quando essa si rivolge alla realtà naturale e finita. A differenza di Dio, infatti, l’uomo non è in grado di avere una conoscenza assoluta delle cose create. L’essere umano può, invece, conoscere più adeguatamente gli enti di ra-
l’uomo ha una conoscenza limitata della natura
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gione che egli stesso crea – come avviene ad esempio nella matematica – imitando in ciò l’opera creatrice di Dio. Anche in questo caso, tuttavia, l’uomo deve essere consapevole che l’oggetto della sua conoscenza, da lui creato, ha soltanto un rapporto di analogia con la realtà creata da Dio, rimanendo diverso da essa. A questo sapere mondano – che non può attingere perfettamente la vera realtà, ma esprime soltanto il modo umano di rappresentare le cose – Cusano attribuisce il nome di congettura. A questo proposito, Cusano paragona la verità alla figura geometrica del cerchio e sostiene che l’uomo può solo avvicinarsi infinitamente ad essa. L’intelletto umano, infatti, può tentare di comprenderla, comparandola ad un poligono che – per quanti lati abbia – non sarà mai identico al cerchio: L’intelletto finito non può intendere in modo preciso la verità delle cose per via di somiglianza. La verità non è né un più né un meno, consiste in qualcosa di indivisibile e non può con precisione misurarla tutto ciò che esiste come diverso dal vero: così come il circolo, il cui essere consiste in qualcosa di indivisibile, non può misurare il non-circolo. L’intelletto, dunque, che non è la verità, non comprende mai la verità in modo così preciso da non poterla comprendere più precisamente ancora all’infinito, perché sta alla verità come il poligono sta al cerchio. Quanti più angoli avrà il poligono inscritto, tanto più sarà simile al cerchio: tuttavia non sarà mai uguale, anche se avremo moltiplicato i suoi angoli all’infinito, a meno che non si risolva nell’identità con il circolo (La dotta ignoranza, I, 3).
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dio e il mondo
Nel De docta ignorantia, Cusano riprende i concetti di complicazione ed esplicazione, usandoli non più in chiave politico-religiosa, bensì metafisicoteologica. Attraverso queste due nozioni egli intende, infatti, spiegare i rapporti tra Dio e il mondo. In quanto infinito, Dio è la complicazione di tutto ciò che è. In altre parole, egli è l’essere di tutte le cose, considerate non nella loro pluralità individuale, ma nella loro originaria unità indifferenziata. D’altro canto, il mondo è l’esplicazione della unità divina in una molteplicità di enti particolari. Il rapporto tra Dio e il mondo può quindi essere espresso attraverso la nozione di contrazione , che indica la determinazione dell’unità divina nella molteplice realtà mondana, divisa e individualizzata nello spazio e nel tempo. Poiché Dio concentra in sé, almeno in forma virtuale, tutte le realtà che nell’universo si esplicano individualmente, egli può essere concepito come l’unità contratta nella molteplicità del mondo . Questa concezione non mancò di attirare su Cusano sospetti e accuse di panteismo.
le matrici della teologia di cusano
In base alle nozioni di esplicazione e di contrazione, l’essere del mondo risulta originariamente implicito in quello di Dio e, nel proprio attuarsi, partecipa di esso. In tal senso, il mondo e Dio appaiono come due differenti modalità della stessa sostanza. In queste speculazioni di Cusano sono percepibili, da una parte, l’influenza del principio tomistico dell’analogicità dell’essere e, dall’altra, quella del concetto platonico di partecipazione. La rielaborazione di temi riconducibili ad antecedenti scuole di pensiero è un dato costante in Cusano. Ciò è particolarmente evidente quando – in armo1. la filosofia del quattrocento
Cusano Complicazione, esplicazione, contrazione
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nia con la concezione della dotta ignoranza – riprende motivi neoplatonici per sviluppare una teologia negativa. In base a essa, Cusano nega la possibilità di una conoscenza razionale di Dio e sostiene che si può sapere non già ciò che Dio è, ma soltanto ciò che Dio non è [t1].
3. Il neoplatonismo fiorentino: Marsilio Ficino Mentre Cusano è esponente di una cultura filosofica legata all’ambiente ecclesiastico internazionale, in Italia si assiste a una rinascita degli studi filosofici – in particolare del platonismo – strettamente connessa alle specifiche realtà cittadine. Infatti, quando le istituzioni comunali si trasformano nella signoria e nasce una cultura di corte, la figura dell’intellettuale poliedrico, impegnato nel contesto civile, perde il suo significato. Una volta sopite le passioni politiche a causa dell’accentrarsi del potere, l’intellettuale militante si trasforma progressivamente nello studioso contemplativo. Il prevalere dell’ideale di vita contemplativa su quello della vita attiva trova espressione nella personalità del filosofo «professionale», finanziato dalla corte a cui si aggrega. L’esempio più caratteristico di questo tipo di intellettuale è Marsilio Ficino (1433-1499). Le sue idee ebbero una straordinaria risonanza su scala europea, anche se la sua attività si svolse tutta entro l’ambito fiorentino. Assunti i voti sacerdotali nel 1473, fu sempre in stretto rapporto con la famiglia Medici. Grazie all’appoggio di essa, Ficino diede vita a un’Accademia platonica, punto di riferimento per intellettuali, letterati e poeti, e centro di diffusione di un rinnovato interesse per la tradizione platonica e neoplatonica rivisitata in senso cristiano.
un filosofo «professionista»
La fama di Ficino e la sua influenza sulla cultura del tempo si fondarono prevalentemente su due fattori: 1) la sua vasta attività di traduttore di Platone, di Plotino e del Corpo Ermetico, una raccolta di scritti devozionali e iniziatici risalenti al I-II secolo d.C., che Ficino riteneva opera autentica di Ermete Trismegisto (il leggendario iniziatore dell’antica sapienza egizia); 2) la fittissima rete di corrispondenza che egli intrattenne con intellettuali europei. L’obiettivo principale di Ficino consiste nel tentativo di armonizzare la religione con la filosofia, condotto in base all’idea di una rivelazione perenne. Questa si è espressa di volta in volta in linguaggio devozionale o in linguaggio filosofico e ha accompagnato il cammino dell’umanità attraverso tappe successive: dal sorgere della sapienza ermetica nell’antico Egitto al pensiero di Platone prima e di Plotino poi nella cultura greca, ai libri mosaici nel mondo israelitico, fino al culmine del messaggio evangelico.
dalla sapienza ermetica al vangelo
Ficino affida la summa del suo pensiero al testo della Teologia platonica (1482). L’anima umana assume una posizione centrale nella visione che egli ha del cosmo. Essa si pone nel mezzo di una gerarchia ontologica che va dalla materia a Dio ed esercita una funzione unificatrice. La sua capacità di ascendere e discendere continuamente attraverso i gradi della gerarchia attesta la sua facoltà di muoversi all’infinito e, con ciò stesso, prova la sua immortalità. Per Ficino, la centralità dell’anima sta a significare la centralità
l’anima «intermediaria di tutte le cose»
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dell’uomo, in quanto l’essere dell’uomo si risolve nell’essere della sua anima. Come si può notare, l’umanesimo di Ficino è fortemente antropocentrico: in esso, infatti, l’uomo rappresenta il principio fondamentale dell’ordine e dell’unità del cosmo [t2]. l’amore per dio e l’amore di dio
A queste riflessioni sull’anima umana, Ficino congiunge una dottrina dell’ amore , che troviamo esposta sia nella Teologia platonica sia nel commento al Simposio di Platone. L’amore è, platonicamente, ciò che consente all’anima di mettere in pratica la propria funzione di mediatrice del cosmo. In virtù dell’amore, infatti, l’anima unifica i differenti gradi della gerarchia ontologica, fino al suo termine supremo, ossia Dio. Nello stesso tempo, tuttavia, esiste una reciprocità tra l’amore dell’uomo e del mondo per Dio e l’amore di Dio per le sue creature. Anzi, se Dio non le amasse, in esse non si accenderebbe l’amore per lui .
4. Il neoplatonismo fiorentino: Pico della Mirandola la polemica con ermolao barbaro
Giovanni Pico della Mirandola (1463-1494) inizia i propri studi filosofici nelle università di Bologna, Ferrara e Padova. Qui egli si convince della validità della tradizione scolastica e della sua conciliabilità con gli orientamenti filosofici successivi. Ciò lo conduce al dissenso nei confronti di alcune tendenze artificiosamente esasperate della filologia umanistica. È il caso della polemica con Ermolao Barbaro (1453-1493), duramente critico verso i filosofi della tarda Scolastica a causa del loro linguaggio astrusamente tecnico, che considera una degenerazione del latino classico. All’umanista veneto Pico ribatte che, al di là della forma, occorre guardare ai contenuti del discorso filosofico, validi indipendentemente dall’espressione letteraria e non attaccabili dalla critica filologica.
la ricerca di una sintesi del sapere
L’idea della conciliabilità e della continuità tra i diversi orientamenti di pensiero matura ulteriormente in Pico dopo un periodo di studi a Parigi. Nasce così l’intento di realizzare una concordia filosofica, all’interno della quale ciascuna tradizione speculativa può essere considerata come depositaria di una parte di verità. Il grande progetto culturale di Pico avrebbe dovuto concretarsi in una sorta di «congresso» nel quale intellettuali di ogni formazione e provenienza si sarebbero confrontati in un dibattito su novecento tesi – cioè brevi proposizioni riassuntive – che egli stesso aveva catalogato desumendole dalle filosofie di cui era a conoscenza. Il progetto non ebbe realizzazione pratica, anche perché su alcune proposizioni gravavano forti sospetti di eresia. Pico comunque sviluppò autonomamente gli argomenti proposti nelle novecento tesi, ma i risultati di questo lavoro videro la luce soltanto nelle Conclusiones apparse dopo la sua morte.
pace filosofica e superiorità dell’uomo
Durante la vita di Pico – il quale, dopo l’esperienza parigina, si trasferì definitivamente a Firenze, dove si mantenne in stretto contatto con l’Accademia platonica – fu invece pubblicata l’Orazione sulla dignità dell’uomo, che avrebbe dovuto fungere da introduzione al dibattito progettato. In essa vengono ce-
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lebrate le capacità di autodeterminazione dell’uomo, ovvero le facoltà intellettuali che lo conducono a scegliere liberamente tra generi di vita più o meno nobili . Del resto, il progetto di sintesi filosofica di Pico della Mirandola vuol essere un’esaltazione della potenza intellettuale umana, considerata nel dispiegarsi delle sue manifestazioni storiche. Mentre Ficino aveva tracciato le linee di una storia del progresso intellettuale garantita dal concorso di rivelazione e filosofia, Pico intende porre in rilievo come l’avanzamento culturale dell’umanità sia reso possibile dal continuo succedersi di scuole di pensiero che, nelle loro differenze, non si contraddicono, ma si integrano l’una con l’altra. Su questo fondamento – che nulla toglie al valore della rivelazione – si realizza la pace filosofica alla quale l’umanità deve aspirare. Nel pensiero rinascimentale – ad esempio, in Ficino – l’ astrologia e la magia sono considerate non già manifestazioni di superstizione, ma tecniche pienamente legittime con cui si studia l’ordine naturale (nel caso dell’astrologia) o si realizza il dominio dell’uomo sulla natura (nel caso della magia). Pico della Mirandola opera, invece, una netta distinzione tra l’astrologia e la magia. Egli, infatti, considera l’astrologia una dottrina che limita pericolosamente la libertà dell’uomo, ricercando le cause del suo agire in fattori indipendenti dalla volontà umana. Al contrario, la magia, intesa tradizionalmente come capacità di controllo della natura da parte dell’uomo, non annulla le capacità di autodeterminazione dell’essere umano e può quindi essere pienamente giustificata. Pico, inoltre, ritiene che anche la cabala sia una tecnica legittima per indagare il significato recondito della Sacra Scrittura. A suo parere, infatti, l’antica dottrina esoterica ebraica – stabilendo una corrispondenza tra lettere e numeri – consentirebbe di passare da una composizione in lettere di un testo scritturale a una composizione numerica, e poi da questa a una nuova composizione in lettere nella quale risiederebbe il significato occulto.
la differenza tra astrologia e magia
Pico della Mirandola si differenzia da Marsilio Ficino anche perché riserva una grande attenzione all’oggettività della ricostruzione storico-filosofica. Il rigore filologico era, infatti, del tutto assente dalla trattazione ficiniana, che mirava a dimostrare la tesi della conciliabilità tra platonismo e filosofia più che a restituire la verità dei testi. Una più precisa consapevolezza storica e una più fedele analisi della dottrina platonica rivelano, invece, a Pico l’impossibilità di essere un vero platonico rimanendo nel contempo un buon cristiano.
l’inconciliabilità di filosofia platonica e religione cristiana
Questo atteggiamento di Pico si manifesta chiaramente nel diverso modo in cui concepisce la dottrina platonica dell’amore. Nel Commento alla Canzone d’amore di Girolamo Benivieni Pico contesta la pretesa di parlare «platonicamente» del Dio cristiano. Se si vuole essere fedeli a Platone occorre concepire l’amore come desiderio di bellezza, ovvero come desiderio di ciò di cui si avverte la mancanza. Ora, la divinità – se può essere oggetto d’amore – non può esserne soggetto, poiché non è manchevole di nulla: viene così a cadere la reciprocità amorosa tra Creatore e creatura ammessa da Ficino. Inoltre, secondo Pico, non è possibile riferire alla divinità l’attributo della bellezza: la bellezza, infatti, è l’armonia che risulta dalla consonanza di più
l’amore secondo platone e i cristiani
a Ficino La dottrina dell’amore b Pico della Mirandola La capacità di autodeterminazione dell’uomo
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parti differenti. Un cristiano non può né riconoscere una manchevolezza nel suo Dio, né attribuirgli una natura composta di parti: non è, dunque, possibile essere insieme cristiani e platonici. Se la conciliazione e l’integrazione tra filosofia (platonica) e religione costituivano uno dei nuclei fondamentali del pensiero di Ficino, per Pico della Mirandola un Platone cristianizzato è un Platone travisato e un cristianesimo platonizzante è un cristianesimo contraddittorio. Mentre è possibile realizzare la concordia tra le diverse filosofie, non è invece superabile il divario tra filosofia e religione.
in poche... parole Nel Quattrocento, in conseguenza della crisi della cultura teologica medievale, si sviluppò un movimento denominato Rinascimento. Esso ebbe inizio nelle città italiane (comuni e signorie), investendo progressivamente tutti i campi del sapere (il pensiero filosofico e scientifico, le arti e l’architettura, la politica e il dirittto, la vita religiosa), e si diffuse rapidamente negli altri paesi europei in un arco cronologico solitamente individuato dagli studiosi tra il 1400 e il 1550. Tale movimento è caratterizzato da un rinnovato interesse per il mondo classico greco e romano, che viene considerato come fonte e modello di civiltà, dopo il periodo di decadenza rappresentato dal Medioevo. Con il termine «umanesimo» si è soliti indicare un aspetto saliente dell’epoca rinascimentale, e cioè un orientamento di studi che si fonda sulle humanae litterae, in implicita opposizione a quelle divinae. Solo attraverso lo studio dei grandi della classicità l’uomo rinascimentale può riappropriarsi del valore e delle potenzialità insite nella propria humanitas. Lo studio dei testi classici, basato sui 12
princìpi della distanza storica e del rigore filologico, permette all’uomo rinascimentale di recuperare la sua vera natura, in costante confronto con le opere del passato, al fine di porsi come protagonista della propria realtà. Tra gli esponenti più significativi della cultura quattrocentesca – oltre ai cosiddetti umanisti civili che hanno profondamente innovato gli studi in campo filologico-letterario (Lorenzo Valla), giuridico (Coluccio Salutati e Leonardo Bruni) e architettonico (Leon Battista Alberti) – dobbiamo annoverare tre grandi filosofi italiani: Cusano, Ficino e Pico della Mirandola. Essi furono i principali artefici della nuova concezione dell’uomo, nonché del suo rapporto con Dio e con il mondo.
coincidenza degli opposti Con questa espressione Nicola Cusano, nel De docta ignorantia (1440), intende indicare la peculiare natura di Dio, nel quale coesistono gli opposti: egli è contemporaneamente massimo e minimo, unità e molteplicità, luce e tenebre, ecc. Con la nozione di coincidentia oppositorum, Cusano vuole mettere in evi-
1. la filosofia del quattrocento
denza i limiti della conoscenza umana, che può progredire solo stabilendo una proporzione tra ciò che è noto e ciò che è ancora ignoto, e quindi può avere a che fare soltanto con un materiale finito. Dio, invece, è l’infinito e per questo motivo i tentativi umani di conoscerne l’essenza sono destinati allo scacco. A questo riguardo, Cusano afferma: «Il giudizio conoscitivo è facile quando ciò che si indaga si può mettere a confronto con ciò che è certo mediante una riduzione proporzionale approssimativa. [...] Ogni ricerca consiste in una proporzione comparativa, facile o difficile; perciò l’infinito come infinito sfugge a ogni proporzione, è ignoto». Ciò non toglie, tuttavia, che l’uomo possa formarsi un’idea approssimativa di Dio: se nell’ambito del finito vale il principio aristotelico di non contraddizione, per cui gli opposti si escludono, in Dio – che è al di là della quantità – gli opposti devono coincidere, altrimenti qualcosa resterebbe al di fuori di esso. Di fronte al paradosso della coincidenza degli opposti, la ragione umana deve ammettere la propria ignoranza e accettare di poter de-
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finire non già ciò che Dio è, ma ciò che Dio non è.
dotta ignoranza L’espressione è
diffusa soprattutto da Nicola Cusano e applicata primariamente alla conoscenza di Dio: la ragione umana, infatti, si trova in una condizione di scacco quando cerca di penetrare la natura di Dio, perché non può confrontarla con qualcosa di finito che già conosce. Dio, come si è visto, non è soltanto qualcosa di più grande a cui si può pervenire mettendolo a confronto con qualcosa di più piccolo, ma è al di là della quantità stessa, e cioè la coincidenza di massimo e di minimo. Più in generale, la dotta ignoranza indica la consapevolezza delle limitate possibilità della conoscenza umana come condizione preliminare per il conseguimento della verità. Nel De conjecturis (1440-1445), infatti, Cusano mostra i limiti della conoscenza umana applicata alla realtà naturale e finita: «ogni asserzione positiva riguardo al vero, fatta dall’uomo, è congettura», dichiara in apertura al testo. L’uomo non può avere una conoscenza assoluta delle cose create da Dio, perché non ne è l’artefice, mentre può conoscere più adeguatamente solo gli enti di ragione da lui stesso fabbricati, come ad esempio la matematica. In relazione al mondo naturale l’uomo può soltanto formulare delle congetture: esse non colgono perfettamente la vera realtà, ma esprimono soltanto il modo umano di rappresentare le cose.
contrazione Termine con il qua-
le Cusano indica il determinarsi e l’individualizzarsi dell’infinità divina nella molteplicità delle singole cose finite. Cusano perviene a questa nozione rielaborando in modo originale il principio platonico di partecipazione (o metessi), la dottrina tomistica dell’analogicità dell’essere, la teoria dell’ecceità di Duns Scoto, secondo la quale la natura comune delle cose si con-
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trae dando origine alla loro irriducibile individualità reale. A suo avviso, Dio è la complicazione di tutto ciò che è, ovvero è l’origine di tutte le cose nella loro unità indifferenziata; il mondo, d’altra parte, è l’esplicazione dell’unità divina nella molteplicità degli enti particolari. In altri termini, l’essere di Dio è presente nell’essere di tutte le cose e tutte le cose partecipano dell’essere di Dio: quest’ultimo può, dunque, essere concepito come l’unità contratta di tutte le realtà che nell’universo si esplicano individualmente. Questa concezione non mancò di attirare su Cusano accuse di panteismo.
amore Dal latino amor, corrispondente al greco èros. Nel pensiero del Rinascimento il termine conserva la valenza metafisica che gli era stata attribuita dalla tradizione platonica e neoplatonica. Per Ficino – nella Teologia platonica (1482) e nel commento al Simposio di Platone – l’amore è la forza che lega tutti gli aspetti della realtà, conferendo loro unità e armonia: attraverso di esso, l’anima riesce a realizzare pienamente la sua funzione di «copula del mondo», unificando i differenti gradi della gerarchia ontologica – e quindi le diverse parti della creazione – compresi tra Dio e il mondo materiale. Per Ficino, inoltre, sussiste una reciprocità tra l’amore dell’uomo per Dio e quello di Dio per le sue creature: è proprio perché Dio le ama che in esse si accende l’amore per lui. Pico della Mirandola, invece, nel suo Commento alla Canzone d’amore di Girolamo Benvieni (1486) fornisce una diversa concezione dell’amore, dichiarando di volersi attenere più fedelmente al Simposio platonico: per Pico, infatti, come per Platone, l’amore è anzitutto desiderio di bellezza, ovvero desiderio di ciò di cui si sente la mancanza. Ciò comporta l’impossibilità di parlare «platonicamente» del Dio cristiano e di sostenere, come aveva fat-
to Ficino, la tesi della reciprocità amorosa tra Dio e le sue creature. Dio, secondo Pico, non può essere soggetto d’amore, né ha senso attribuirgli la proprietà della bellezza, intesa come confluenza armoniosa di parti differenti: Dio, infatti, non è manchevole di nulla e la sua natura non può risultare composta di parti. Mentre per Ficino, dunque, era possibile integrare filosofia platonica e religione cristiana, per Pico è profondamente errato tentare di cristianizzare Platone o di platonizzare il cristianesimo.
astrologia Studio degli astri fondato sulla credenza che la loro posizione e i loro movimenti esercitino un influsso sulle vicende della Terra e degli uomini. In base all’individuazione della configurazione astrale al momento della nascita, sarebbe possibile prevedere il destino futuro dei singoli. Per Ficino, l’astrologia non ha nulla a che fare con la superstizione, ma è una tecnica pienamente legittima con cui studiare l’ordine naturale. Per Pico della Mirandola, invece, l’astrologia limita gravemente la libertà dell’uomo, compromettendone la dignità, perché ricerca le cause delle sue azioni in fattori indipendenti dalla sua volontà. magia Insieme di pratiche volte a dominare la natura, utilizzando procedure e oggetti che si ritiene siano dotati di forze particolari. Grazie a essi ci si mette in contatto con forze naturali sconosciute, sfruttandole a proprio vantaggio. Per Ficino, la magia – come anche l’astrologia – non ha nulla a che vedere con la superstizione, ma rappresenta una tecnica con la quale l’uomo cerca di realizzare il proprio dominio sugli eventi naturali. Anche per Pico della Mirandola la magia può essere legittimamente praticata perché – a differenza dell’astrologia – non limita la capacità di autodeterminazione dell’uomo.
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i testi t1 Cusano / Dio è ineffabile Cusano
La caccia della sapienza
XII
La caccia della sapienza è uno degli ultimi scritti di Cusano (1463). In esso l’autore paragona l’attività del filosofo a una «caccia» le cui prede sono rappresentate dalle varie forme del sapere. Una preda che però sfugge sempre è la conoscenza di Dio, al quale ci si può accostare soltanto per via negativa. Si tratta di un concetto analogo a quello di «dotta ignoranza».
Quanto meglio uno saprà che non si può saperlo1, tanto più sarà dotto. Infatti se, a proposito della grandezza dello splendore del sole, egli è più dotto quando nega che essa è comprensibile con la vista che quando lo afferma; e a proposito della grandezza del mare quando nega, più che quando afferma, che possa essere misurata dalla misura valida per i liquidi; lo sarà ancor di più quando nega, che quando afferma, che la grandezza assoluta non contratta, completamente senza termine e infinita (paragonata allo splendore del sole o all’estensione del mare o di un’altra cosa) sia misurabile da quella misura della mente, che è contratta rispetto alla mente2. Ho spiegato, come ho potuto, questa dottrina nei libri della Dotta ignoranza. Osserva questo: l’intelletto desidera sempre. Tuttavia il desiderio naturale non lo spinge a conoscere la quiddità3 di un Dio a lui affine, 1. Si riferisce all’incomprensibilità della derivazione degli esseri finiti dalla prima causa infinita. 2. Per «misura della mente, che è contratta rispetto alla mente» si intende qualsiasi concetto espresso dalla mente umana: esso sfugge a ogni paragone rispetto alla grandezza assoluta che è Dio.
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ma a conoscere un Dio così grande che non c’è nessun termine alla sua grandezza. Per questo Dio è più grande di ogni concetto e di ogni scibile. L’intelletto non sarebbe contento di se stesso se avesse una immagine del suo creatore così piccola e imperfetta da poter essere sempre più grande e più perfetta. Il creatore è certamente sempre più grande di ogni cosa comprensibile e conoscibile anche se questa avesse una perfezione infinita e incomprensibile. [...] Adesso osserva come Dio, eccedendo il poter essere fatto, è prima di tutto ciò che può essere fatto4. Non c’è niente che possa essere fatto più perfetto che egli non preceda. Egli è, dunque, tutto ciò che ogni perfettibile e ogni perfetto può essere. Pertanto è quel perfetto che è anche la perfezione di tutti i perfetti e di tutti i perfettibili5. L’intelletto si rallegra di possedere questo cibo inesauribile di perfe-
3. Cioè l’essenza, o la sostanza: il termine quidittas deriva dalle traduzioni latine di Aristotele del secolo XII. 4. Dio «eccede», cioè è maggiore in grandezza e anteriore nel tempo, rispetto a tutto ciò che può essere fatto, a tutto ciò che può essere prodotto, cioè rispetto a qualsiasi creatura.
1. la filosofia del quattrocento
5. Dio rappresenta l’ideale termine di paragone per tutte le creature che tendono alla perfezione, che sono cioè perfettibili. Ovviamente nessuna creatura, per quanto proceda sulla via della perfezione, potrà adeguarsi alla perfezione di Dio.
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zione con il quale sa di nutrirsi in modo immortale e perpetuo, di vivere in modo dilettevole, di progredire sempre in sapienza e di poter crescere e migliorarsi. Così chi trova che il suo tesoro è infinito, non numerabile, incomprensibile e inesauribile, gode più di chi lo trova finito, numerabile, comprensibile. Papa Leone Magno, avendolo compreso, ha detto in un sermone dove loda l’ineffabilità di Dio: «Sentiamo che in noi c’è il bene perché ne siamo vinti. Nessuno si avvicina di più alla conoscenza della verità di chi comprende, nelle cose divine, che ciò che egli cerca lo sopravanza sempre, anche se fa molti progressi». Ormai vedi che i filosofi cacciatori, sforzando-
si di cacciare la quiddità delle cose, ignorando la quiddità di Dio, e di rendere nota la quiddità di Dio che rimane sempre ignota, hanno faticato inutilmente, perché non sono entrati nel campo della dotta ignoranza.
GUIDA ALLA LETTURA 1. Perché la mente dell’uomo non può formarsi un concetto di Dio? 2. Da che cosa trae maggiormente gioia l’intelletto?
t2 Ficino / La gerarchia dell’essere Ficino
Teologia platonica
III, 1
Ficino suddivide il reale in cinque gradi. Al livello più basso troviamo ciò che egli chiama corpo, cioè la materia non propriamente informe, ma determinata soltanto dalla spazialità tridimensionale. Al secondo livello si pone la qualità, intesa come «forma divisa in un corpo»: si tratta, in altri termini, delle molteplici affezioni che possono caratterizzare la materia in un modo o in un altro e quindi, appunto, «qualificarla». A metà della gerarchia dell’essere (terzo livello) vi è la «terza essenza», l’anima umana; al di sopra di essa (al quarto e quinto grado) si pongono l’intelligenza angelica e Dio. La posizione centrale attribuita all’anima rappresenta nel pensiero di Ficino lo sviluppo di un altro tema assai comune nella filosofia di questo periodo, cioè la concezione dell’uomo – e per Ficino l’uomo si risolve nella propria anima – come essere che nel cosmo gode di una situazione di assoluto privilegio e che nei confronti del cosmo stesso assolve un compito ben preciso. Per Ficino l’anima è la copula mundi («il legame del mondo»), è il nesso che lega tra loro gli altri gradi dell’essere, altrimenti eterogenei. La sua situazione di centralità non va infatti intesa come una condizione statica: essa è centrale nel senso che può ascendere e discendere lungo la scala dell’essere e svolgere così nei suoi confronti una funzione unificante. All’anima è coessenziale un’inesauribile dinamicità che costituisce prova della sua immortalità: ed è a questa prova che l’autore aveva finalizzato la sua Teologia platonica.
I pitagorici chiamano il corpo una molteplicità, la qualità una molteplicità ed unità, l’anima unità e molteplicità, l’angelo unità molte-
plice, e Dio, infine, unità. Ciò in quanto il corpo è indeterminato come possibilità di determinarsi in qualsivoglia specie e per sua nai testi
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tura divisibile all’infinito, e la sua materia – secondo i pitagorici – è soggetta a fluire all’infinito a meno che non intervenga una forma ad arrestarne il flusso costituendo un’unità. La qualità concorre a determinare il flusso costituendo un’unità. La qualità concorre a determinare la materia sotto il rispetto della specie ed è in certo senso per se stessa indivisibile, ma partecipa della divisibilità come conseguenza della sua unione con il corpo. L’anima, dal canto suo, determina la materia tramite la specie e non è divisibile né per se stessa né come conseguenza della inquinazione corporea, bensì è molteplicità mobile. L’angelo, poi, è il ricettacolo delle specie ed è quindi molteplicità immobile. Dio infine è immobile unità al di sopra delle specie1. Sostengono poi che Dio è per se stesso assolutamente indissolubile, poiché si identifica con l’unità e la stabilità stessa, mentre i corpi, risultando composti da molteplici elementi, sono per conseguenza dissolubili, in quanto in essi, da un lato, la molteplicità prevale sull’unità, dall’altro, il movimento sulla stabilità. Ma dicono che gli angeli, le anime, le sfere celesti e le stelle appaiono, sì, soggette a dissoluzioni in quanto contengono delle singole parti, ma che sono indissolubili in quanto, nel loro ambito, l’unità e la stabilità prevalgono sulla molteplicità e la mobilità. E questo è appunto quel divino legame tramite il quale Dio 1. Molto spesso Ficino sviluppa le pro-
prie argomentazioni appoggiandosi ad autorità del passato che appaiono mitizzate, più che storicamente identificate. Qui per «pitagorici» si devono intendere i neoplatonici posteriori a Plotino e i testi del Corpo Ermetico. Il senso del brano si può riassumere come segue. Il corpo è molteplicità perché è divisibile; inoltre il corpo in generale non è altro che materia estesa nelle tre dimensioni: perché sussista un certo corpo particolare occorre l’intervento di una forma che determini in un certo modo la materia stessa. La qualità concorre a specificare la materia attribuendole affezioni e, benché di per sé abbia carattere unitario, essa diventa divisibile in quanto unita al corpo che è divisibile. L’anima, invece,
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– come sostiene Timeo – conserva sempre indissoluti questi enti che sarebbero per se stessi soggetti a dissoluzione2. Tanto potente è la forza dell’unità e della stabilità che viene superata dai suoi contrari solo sul piano dell’infimo grado della scala gerarchica dell’universo, e tuttavia anche lì riesce a superare per certi aspetti i suoi contrari, se è vero che sempre mantiene permanente nell’unità della sostanza e dell’ordine la materia stessa, soggetta, per sua natura, ad infinita molteplicità e mutazione. [...] Inoltre se proprio del corpo è lo stato di inerzia passiva, mentre proprio della natura incorporea è quello dell’attività che imprime nel corporeo ciò di cui quello è il ricettacolo, nella natura corporea si dice essere presente una potenza, ma intendendo per potenza quella che i teologi3 definiscono potenza suscettiva e passiva, mentre nella natura incorporea si dice essere l’atto cioè l’efficacia all’azione4. Pertanto la qualità, dato che è per se stessa in certo qual modo incorporea, possiede una qualche possibilità d’azione, onde la si chiama anche atto, mentre, dato che viene ricevuta e si divide nella materia, onde diviene in certo qual senso corporea, sotto questo rispetto non è puro atto bensì atto inquinato dalla passività del corporeo. Pertanto la qualità consiste di atto e di potenza5. L’anima, invece, quantunque sia separabile
non diventa divisibile neppure in conseguenza della sua unione con il corpo; tuttavia è molteplice e mobile perché molteplici e mutevoli sono le sue affezioni. L’intelligenza angelica contiene in sé le molteplici specie o idee delle cose e ciò la rende a sua volta molteplice: tuttavia quelle idee sono immutabili e per questo l’intelligenza angelica è detta immobile. Dio è unità immutabile che trascende la molteplicità delle specie o idee. 2. Così come è impreciso il riferimento ai «pitagorici», altrettanto vago è questo riferimento a Timeo di Locri, al quale Platone intitola un dialogo, ma del quale è perfino dubitabile l’esistenza storica. Ficino vuole dire che angeli, anime e corpi celesti sono teoricamente dissolubili perché implicano la mol-
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teplicità e la composizione: gli angeli in quanto hanno in sé molteplici idee, le anime in quanto molteplici sono le loro affezioni, i corpi celesti in quanto sono composti di parti in senso fisico. Tuttavia la perenne assistenza di Dio fa sì che essi non si dissolvano. 3. Qui Ficino allude alla Scolastica medievale. 4. Ciò che è corporeo è pura potenzialità, è passività suscettibile di ricevere una forma, mentre ciò che è incorporeo è atto, così come, in termini aristotelici, l’anima è forma e atto del corpo. 5. La qualità, considerata astrattamente in sé e per sé, è incorporea e quindi è atto, ma in quanto si unisce alla materia per determinarla diviene anch’essa corporea e quindi è nello stesso tempo potenza.
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dalla materia, e per questo la si definisca atto, e sia anche aliena dalla passività del corporeo, tuttavia neppur essa è ancor puro atto, in quanto è mobile; e se qualcosa si muove, tramite il movimento raggiunge ciò di cui prima era priva, per cui, dato che era priva di qualche cosa, ciò che è mobile ha in sé quella potenza che noi definiamo suscettiva e, per così dire, passiva. Ma dato che anche muovendosi compie qualche cosa, essa è atto e, nello stesso tempo in cui acquista qualcosa, realizza anche la sua natura di atto. L’anima risulta dunque un composto di potenza e di atto6. [...] D’altra parte deve esserci un ente medio fra l’angelo e le qualità corporee, affinché l’angelo assolutamente immobile non sia in rapporto immediato con la qualità, che è assolutamente mobile. Onde l’anima deve essere in parte immobile e in parte mobile. Fissa sarà la sua sostanza, che non muterà né crescendo, né diminuendo, né trasferendosi nello spazio; mentre sarà soggetto a flusso il suo operare che attuerà ora una cosa ora un’altra, questa in un modo e quella in un altro. La qualità, a sua volta, si trova ad un grado inferiore a quello dell’anima essendo mutevole sia sotto il rispetto dell’essenza sia sotto quello dell’operare. Su un grado poi inferiore a quello della qualità si trova il corpo, in quanto se la qualità viene mossa e muove – dato che muove i corpi – il corpo, per contro, quantunque mosso, non muove nulla7. [...] L’anima [...] non deriva da se stessa l’essere una sostanza ed un atto stabile sotto il rispetto della sua essenza, ma deriva queste caratteristiche da Dio, atto unico e stabilissimo; laddove possiede per sua natura particolare – in 6. L’anima è di per sé incorporea e
quindi è atto. Non si tratta però di un atto definito una volta per tutte. Infatti, l’anima è mobile nel senso che continuamente acquisisce e realizza qualcosa di cui precedentemente era priva. Essa quindi passa continuamente da una potenzialità a un atto, all’infinito (questa, del resto, è per Ficino una prova della sua immortalità): per questo può definirsi un composto di potenza e atto.
quanto si trova in un grado inferiore a Dio – la molteplicità e la passività. La mobilità poi, ancora le procede da se stessa, in quanto si trova in un grado inferiore a quello dell’angelo. Come dunque naturale è in Dio l’unità e nell’angelo la molteplicità, così naturale è nell’anima il movimento8 [...]. Il corpo riceve il suo movimento solo dall’esterno non essendo in grado per sua natura di compiere azione alcuna; la qualità muove ciò che le è inferiore ed è a sua volta mossa da ciò che le è superiore; l’anima muove ciò che le è sottoposto, ma si muove da se stessa; l’angelo muove le altre cose – cioè agisce su ciò che è a lui esterno – ma è in se stesso stabile (pur non derivando questa stabilità da se stesso bensì dalla divina unità: che altro significa infatti essere stabili se non permanere nell’unità della propria natura?) e muove tramite Dio, se è vero che tutti gli enti attivi agiscono sempre per virtù dell’atto primo; Dio agisce e muove ogni cosa per se stesso, per se stesso stabile. Ed è logico, in quanto tutto ciò che è ciò che è per opera di qualche cosa di altro, da esso va ricondotto ad un primo che sia per se stesso quale è, onde tutto ciò che è stabile e che determina in altro da sé il movimento tramite altro da sé, noi l’abbiamo ricondotto a Dio per se stesso stabile e per se stesso motore di tutte le altre cose. Ancora: tutto ciò che deriva il suo movimento da altro, come per esempio i corpi e le qualità, l’abbiamo ricondotto all’anima, che è per se stessa mobile, per se stessa, ripeto, poiché chi percorra logicamente i gradi discendenti da Dio tramite il grado dell’angelo, si accorgerà che sia Dio sia l’angelo sono caratterizzati dall’im-
7. L’armonia dell’universo, che si realizza nella gradualità, richiede che non si passi immediatamente dall’immobilità, cioè dall’immutabilità, rappresentata dall’intelligenza angelica, alla mobilità, cioè alla mutabilità, rappresentata dalla qualità. Quindi tra questi due termini vi sarà un termine medio, l’anima, che è immutabile e dunque immobile per quanto riguarda la propria essenza, ma è mobile, cioè mutevole, per quanto riguarda le proprie multiformi attivi-
tà. Ai due opposti estremi della gerarchia ontologica vi saranno Dio, che è immobile ma muove tutto perché è causa di tutto, e il corpo, che può essere mosso ma non muove nulla in quanto è pura passività. 8. Secondo Ficino la natura dell’anima si attua nel procedere ininterrotto da una realizzazione all’altra (cfr. n. 6): per questo egli afferma che per l’anima è naturale il movimento.
i testi
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mobilità, laddove il primo grado che apparirà caratterizzato dal movimento sarà proprio quello dell’anima9.
9. Tutto ciò che esiste dipende (tranne Dio) da altro. Analogamente tutto ciò che si muove deriva il proprio movimento da altro, tranne l’anima, che è l’unico ente al quale il movimento sia connaturato.
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GUIDA ALLA LETTURA 1. Quanti e quali sono i gradi gerarchici in cui la realtà risulta suddivisa? 2. In questo testo vengono utilizzati tre concetti fondamentali dell’aristotelismo scolastico: sostanza, atto e potenza. Ricavane le definizioni, poi rispondi alla seguente domanda: hanno in questo contesto lo stesso valore attribuito loro dalla Scolastica? 3. Come si configura il rapporto uno-molti nei differenti gradi dell’essere secondo Ficino?
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esercizi/1 CHE COSA SO?
9. Perché Cusano sostiene che la conoscenza matematica è «certa»?
Guida allo studio del manuale
10. Quale valore assegnano gli umanisti alla magia e all’astrologia?
1. Evidenzia le condizioni politiche ed economiche che hanno permesso il fiorire della cultura rinascimentale. 2. Evidenzia le caratteristiche culturali dell’umanesimo e del Rinascimento. 3. Evidenzia quali sono le influenze neoplatoniche sul pensiero di Cusano. 4. Evidenzia le caratteristiche dell’anima formulate da Marsilio Ficino.
11. Quale valore assegna Pico della Mirandola alle diverse filosofie? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 12. Illustra i motivi che stanno alla base del «conciliarismo» e le ragioni per cui Cusano teorizza questa posizione.
5. Evidenzia in che termini Pico della Mirandola concepisce il rapporto tra astrologia e magia.
13. Illustra, evidenziandone le implicazioni filosofiche e teologiche, il concetto di «anima umana» di Ficino.
Dizionario filosofico
14. Illustra le differenti dottrine dell’amore di Marsilio Ficino e di Pico della Mirandola.
6. Definisci i seguenti termini: Rinascimento • umanesimo • antropocentrismo • complicazione/esplicazione (Cusano) • congettura (Cusano) • amore (Ficino)
15. Perché, secondo Cusano, la conoscenza non è altro che «dotta ignoranza»? 16. Qual è il ruolo che Ficino assegna all’anima e come essa esplica la propria funzione?
CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 7. Qual è il modello dello studioso umanista? 8. Cosa intende Cusano con «religione» e «rito»?
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promuovendo un ritorno ai testi originali di Aristotele, specialmente quelli di fisica e di storia naturale. In particolare, Pietro Pomponazzi, da un lato, utilizzando il De anima di Aristotele, difende la tesi della mortalità dell’anima e, dall’altro, sostiene un rigoroso determinismo astrologico. Il problema dell’eterodossia di queste tesi viene risolto con la dottrina della doppia verità: in base a essa, la verità filosofica e la verità religiosa sono diverse e indipendenti. telesio e i princìpi della natura
2. la filosofia del cinquecento
i contenuti la nuova cultura e l’europa
A partire dalla fine del Quattrocento l’umanesimo si estende dall’Italia all’Europa. In Olanda, Erasmo da Rotterdam diffonde i princìpi umanistici sia con un ritorno allo studio dei testi antichi sia utilizzando i classici in funzione critica rispetto alla società del suo tempo. Attraverso lo studio dei Padri della Chiesa e l’analisi filologica del Vangelo, egli mostra la necessità di un rinnovamento religioso nel senso del cristianesimo originario. In
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Inghilterra Tommaso Moro, amico di Erasmo, formula l’utopia di una società ideale fondata sulla comunione dei beni, sull’armonia sociale e su una corretta ripartizione del tempo tra lavoro e studio. In Francia, Michel de Montaigne mette in crisi il modello stoico di una ragione assoluta, riproponendo un atteggiamento improntato allo scetticismo in tema di conoscenza, di etica e di religione. pomponazzi e l’aristotelismo italiano
Nel corso del Cinquecento, la tradizione aristotelica cerca di rinnovarsi al di là delle interpretazioni della Scolastica,
2. la filosofia del cinquecento
L’opera di Bernardino Telesio è incentrata sulla convinzione che la natura operi autonomamente, secondo tre princìpi fondamentali che le sono propri: il caldo e il freddo (princìpi attivi) e la materia (principio passivo). L’unità indissolubile dei tre princìpi costituisce la sostanza. La natura gode di una sensibilità universale, poiché i princìpi attivi sono in grado di percepire e di essere percepiti. L’uomo, che appartiene alla natura, partecipa della sensibilità universale e trova nella sensazione la forma fondamentale della conoscenza. Il solo elemento di distinzione dell’uomo dai princìpi naturali è la presenza in lui di un’anima spirituale, infusa direttamente da Dio. bruno e l’infinità dell’universo
Se Telesio continua a ritrovare in Aristotele il modello filosofico fondamentale, Giordano Bruno ha come sfondo culturale la tradizione neoplatonica dell’infinita emanazione dell’Uno. Sviluppando in chiave metafisica l’ipotesi eliocentrica di Copernico, egli giunge a sostenere l’infinità dell’universo, effetto infinito di una causa divina infinita. il panteismo di bruno
L’essere è quindi essenzialmente uno. La molteplicità delle cose del mondo dipende, invece, dalla varietà di forme in cui si manifesta un’unica materia. Ne consegue la
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negazione di ogni trascendenza: Dio è il principio immanente alla natura che anima ogni cosa. Sul piano morale, la sostanziale unità tra la natura e la divinità implica che l’uomo deve tornare a riunirsi con Dio attraverso un’ascesi affidata all’eroico furore, secondo il modello platonico dell’èros. campanella e le primalità dell’essere
Tommaso Campanella riprende da Telesio il principio della sensibilità
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universale. Sul piano individuale, ciò significa che conoscere consiste nell’avere conoscenza di sé: il soggetto non conosce direttamente le cose che lo modificano, ma conosce se stesso in quanto viene modificato dagli oggetti esterni. Anche nel caso di Campanella, il principio della sensibilità universale garantisce l’unità della natura, nella quale operano tre princìpi fondamentali (o primalità dell’essere): la potenza, la sapienza e l’amore. Questi princìpi si trovano nella loro
pienezza in Dio e in forma limitata nella natura. l’utopia politica di campanella
Nello scritto utopico Città del sole, Campanella espone il suo ideale di una società teocratica, fondata sul lavoro e sulla comunanza dei beni e delle donne. La «città del sole» è retta da un sommo sacerdote, coadiuvato da tre ministri che impersonano le tre primalità dell’essere.
gli strumenti in poche… parole utopia / iuxta propria principia / infinità dell’universo / panteismo / eroico furore / tre primalità dell’essere
esercizi
i testi a. nel manuale t3 Tommaso Moro/L’isola che non c’è t4 Pomponazzi/Libertà e fato t5 Bruno/Il principio animatore della natura
b. on-line Telesio/L’oggettività della natura Telesio/La conoscenza sensibile Bruno/L’infinito Bruno/L’uno e il tutto Campanella/L’apparenza del molteplice
Che cosa so? / Che cosa ho capito?
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1. La nuova cultura e l’Europa la diffusione europea dell’umanesimo
L’umanesimo – pur essendo nato in Italia e avendo qui avuto le sue più appariscenti manifestazioni – non è un fenomeno soltanto italiano. A partire dal tardo Quattrocento, infatti, anche nel resto d’Europa il clima culturale va mutando: nuove scuole e nuove istituzioni si affiancano alle già fiorenti università, mentre la diffusione della stampa promuove la nascita di nuove biblioteche. Analogamente a ciò che avviene in Italia, si diffonde lo studio degli autori classici, condotto direttamente sugli originali con correttezza filologica ed esattezza storica. La persona colta si deve formare sotto la guida di validi maestri, che la indirizzino alla lettura degli autori antichi attraverso lo studio delle lingue classiche.
erasmo e il ritorno alle origini
È questo il senso del De ratione studii (1511) di Erasmo da Rotterdam (14661536), l’influenza del quale è decisiva per le nuove tendenze educative e culturali europee. Per Erasmo, la conoscenza delle lingue classiche è lo strumento principale per recuperare i valori umani insiti nell’antichità. Erasmo, però, come dimostra il dialogo Ciceronianus, è ostile alla «pedanteria» tipica di chi si sofferma soltanto sugli aspetti formali del discorso. Da questo punto di vista, egli addita il pericolo di una degenerazione degli studi umanistici verso un’imitazione esteriore dei classici, i cui insegnamenti devono invece essere intimamente rivissuti. Il ritorno alle origini invocato da Erasmo non riguarda soltanto la cultura letteraria. Consapevole delle deformazioni di cui si era resa colpevole la Chiesa rispetto all’autentico messaggio del Vangelo, Erasmo predica un ritorno al cristianesimo delle origini. Lo strumento per operare tale ritorno è, però, sempre quello dell’umanista: lo studio dei Padri della Chiesa e l’analisi filologica del Nuovo Testamento. Anche in questo caso, tuttavia, non si tratta soltanto di rispolverare testi offuscati dal tempo, ma di rivivere lo spirito in cui essi furono scritti, ritrovando la semplicità e la purezza di costumi delle prime comunità cristiane.
l’elogio della pazzia
L’opera più nota di Erasmo è l’Elogio della pazzia, dedicato all’amico Tommaso Moro. Si tratta di un brioso scritto in cui si mescolano satira e paradosso. La tesi – ovviamente paradossale – è che nel mondo domina la «pazzia», la quale è alla base di tutte le azioni, grandi e piccole, degli uomini. Facendo parlare la pazzia, di cui tesse l’elogio, Erasmo ha così modo di mettere a nudo le debolezze e gli errori degli uomini in generale e del suo tempo in particolare. Nello stesso tempo, in modo ironico e ammiccante, egli espone le sue verità morali e religiose, sempre improntate all’esigenza del rinnovamento della cultura e delle condizioni sociali dell’Europa contemporanea.
l’utopia politica e sociale di moro
Le idee di Erasmo trovano eco in Inghilterra in quelle di Thomas More, latinizzato in Tommaso Moro (1480-1535). Con Moro, gli ideali umanistici si diffondono in Inghilterra con gli stessi caratteri che avevano avuto in Italia nel Quattrocento: gli studi letterari non devono mettere capo a un’oziosa erudizione, ma promuovere un concreto impegno nella realtà civile. Questo impegno fu testimoniato da Moro con la vita: cancelliere del regno, egli
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Centri di diffusione del Rinascimento in Europa e in Italia
fu condannato a morte da Enrico VIII per essere rimasto fedele alla Chiesa cattolica. Il re, infatti, per risposarsi, chiese al papa l’annullamento del precedente matrimonio, senza ottenerlo. Anche l’opera più nota di Moro, Utopia (1517), ha un carattere fortemente politico. In essa Moro delinea il suo ideale di convivenza sociale, che immagina realizzato in un’isola chiamata appunto Utopia , cioè il «luogo che non esiste». Di qui l’uso del termine per indicare ogni progetto socio-politico che abbia un valore soltanto ideale, non trovando concreta realizzazione da nessuna parte del mondo. Alla base della sua costituzione ideale Moro pone il rifiuto della proprietà privata, che è principio di egoismo e di conflitto. Gli abitanti di Utopia, del resto, non lavorano a scopo di lucro, ma soltanto per provvedere ai beni necessari alla propria esistenza [t3]. In questo modo, dal momento che tutti esercitano un lavoro manuale (anche le donne), le ore di attività possono essere ridotte a sei al giorno. Rimane così molto tempo per l’educazione: particolare attenzione viene riposta nello studio delle scienze naturali e della filosofia morale, mentre sono trascurate discipline astratte come la logica e la metafisica. Dal punto di vista politico-amministrativo, i cittadini dell’isola sono divisi in 54 comunità cittadine, rette da funzionari eletti democraticamente. Nei casi di decisioni gravi viene convocata l’assemblea dell’intera popolazione. Critiche simili a quelle che Erasmo aveva rivolto alle degenerazioni pedantesche della cultura letteraria si ritrovano negli scritti di Michel de Montaigne (1533-1592), il maggior esponente dell’umanesimo francese. I suoi Sag2. la filosofia del cinquecento
montaigne e il rifiuto dell’erudizione
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gi (1580-1588) sono costituiti da una raccolta di riflessioni autonome e rappresentano una novità tra i generi letterari dell’epoca. Essi, infatti, si presentano come un’autobiografia filosofica. Per quanto riguarda l’atteggiamento nei confronti dei classici, Montaigne sostiene che non si deve privilegiare la dimestichezza con i libri rispetto a quella con gli uomini. Al rapporto con gli uomini non si deve anteporre lo studio delle lingue antiche, qualora esso distolga dalla «civile conversazione» con chi – senza essere erudito in greco e in latino – rappresenta il nostro prossimo nello spazio e nel tempo. l’umanesimo scettico
Dal punto di vista filosofico, i Saggi di Montaigne sono espressione di scetticismo. Testimone della crisi della cultura scientifica e filosofica tradizionale e delle guerre di religione che travagliano la Francia, egli assume un atteggiamento critico nei confronti della concezione stoica della ragione, intesa come espressione di un’immutabile natura umana. Al contrario, la mutevolezza è accettata da Montaigne come una caratteristica costante del vivere umano. Del resto, dopo la scoperta dell’America – che rivelava l’esistenza di costumi e regole morali ben diversi da quelli europei – e la caduta dell’ipotesi geocentrica, cominciavano a essere messe in dubbio tanto la centralità della cultura europea nel mondo quanto quella dell’uomo nell’universo. Anche in tema di religione Montaigne si lascia alle spalle le certezze della teologia razionale per affidarsi a una morale del tutto mondana, che tenga conto del ridimensionamento a cui è sottoposto il valore dell’uomo. In questo modo, il suo umanesimo abbandona il tema – tanto caro agli umanisti italiani – della centralità e della dignità dell’uomo per accostarsi a una considerazione della natura umana ormai prossima alla mentalità del Seicento.
2. Pietro Pomponazzi l’aristotelismo italiano
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Nel corso del Cinquecento, la tradizione aristotelica mantiene una propria indiscutibile vitalità e cerca di rinnovarsi, realizzando una lettura fedele dei testi di Aristotele, al di là delle interpretazioni della Scolastica. L’aristotelismo – che per il suo carattere sistematico risponde pienamente alle esigenze dell’insegnamento filosofico – rimane legato alle istituzioni che tradizionalmente sono finalizzate all’insegnamento, cioè alle università. A fianco delle forze innovatrici dell’umanesimo, anche questi istituti culturali tradizionali sono particolarmente forti in Italia. Le università di Padova e Bologna si pongono in primo piano come centri di cultura che garantiscono la continuità della tradizione aristotelica. Anche la produzione letteraria dei professori che in quelle sedi svolgono la loro opera riproduce schemi già collaudati: il trattato sistematico si accompagna alla raccolta di quaestiones, cioè di «quesiti» per i quali vengono addotte e discusse varie possibili soluzioni, fino alla scelta di una conclusione in base agli argomenti pro e contro enunciati per esteso. 2. la filosofia del cinquecento
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Una delle figure dominanti dell’aristotelismo rinascimentale italiano è Pietro Pomponazzi (1462-1524). Nel Trattato sull’immortalità dell’anima (1516) egli si propone al lettore come fedele espositore della dottrina aristotelica. In quello scritto – basandosi sulle asserzioni di Aristotele contenute nel De anima – Pomponazzi dichiara che l’anima umana non può esercitare la propria funzione più elevata, quella intellettiva, se è privata dei dati sensibili che le provengono dagli organi corporei. Da questo punto di vista, l’esistenza dell’anima stessa appare come un non senso quando si prescinda dalla sua connessione con il corpo. Secondo Pomponazzi, infatti, la tesi dell’immortalità appare ammissibile per fede, ma indimostrabile dal punto di vista filosofico.
l’unione dell’anima e del corpo
Per quanto riguarda l’anima umana, la filosofia di Pomponazzi mette capo a esiti di tipo materialistico. Ciononostante, egli non nega né Dio, né la sua azione nei confronti del creato, testimoniata dall’ordine razionale e naturale del mondo. L’opera postuma intitolata De naturalium effectuum admirandorum causis, sive de incantationibus si propone infatti di dimostrare che ogni fenomeno naturale, per quanto straordinario, dipende da una causa razionalmente indagabile. Perfino i cosiddetti incantesimi e i prodigi magici non sono illusori, ma sono spiegabili razionalmente. Secondo Pomponazzi, la loro causa – come la causa di tutto ciò che avviene nel mondo – è Dio. Questi, infatti, si serve degli astri e dei loro movimenti come di strumenti intermedi per esercitare la propria azione sul mondo, il cui ordine è regolare perché regolari sono quei movimenti.
dio è causa di tutto ciò che accade
La razionalizzazione della magia e dei miracoli dei quali parla la tradizione religiosa discende dalla razionale accettazione dell’astrologia. Gli astri sono strumento di Dio e non mentono; tutto è prevedibile e spiegabile:
l’astrologia prevede il futuro
Pur potendo addurre infiniti esempi a sostegno della nostra ipotesi, mi accontenterò di pochi, per poi passare ad altro. Gli esempi dimostrano che i corpi celesti sono cause assolute o parziali, necessitanti o predisponenti, delle nostre azioni. [...] Vedrai certamente che queste profezie non avrebbero potuto essere formulate con tanta sicurezza senza l’astrologia e così capirai che gli dèi non operano nulla nel mondo sublunare senza la mediazione dei corpi celesti. Ma questi non soltanto dirigono gli uomini, bensì anche inviano loro chiari presagi degli eventi futuri. [...] Dall’astrologia si può desumere la conoscenza non soltanto del futuro, ma anche quella del presente e del passato. Se ne conclude che ogni avvenimento del mondo sublunare, di per sé o accidentalmente, può essere ricondotto all’influenza celeste e che l’osservazione degli astri permette di conoscere e di profetizzare cose mirabili e stupefacenti (Gli incantesimi, X).
Ciò significa che al determinismo astrologico non sono soggetti soltanto i fenomeni naturali, ma anche le azioni umane. Nel pensiero di Pomponazzi il «fato» – ovvero la provvidenza di Dio – sembra prevalere sul libero arbitrio dell’uomo. L’uomo, infatti, nella sua limitatezza può anche scambiare per ingiustizia la giustizia intrinseca che, invece, regna nel mondo [t4].
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3. Bernardino Telesio la prospettiva naturalistica
Alla visione magica della natura si contrappone la prospettiva del naturalismo. In base a essa, la natura va interpretata come una realtà autonoma, fornita di una finalità intrinseca. Nella prospettiva naturalistica, infatti, il mondo naturale può essere oggetto specifico di una ricerca filosofica che indaghi i princìpi interni al suo sviluppo, senza tentare di proiettare su di esso valori umani che non gli sono propri. Nella seconda metà del Cinquecento, il maggiore esempio di una filosofia naturalistica non finalizzata all’uomo è offerto dal pensiero di Bernardino Telesio (1509-1588). Nato a Cosenza, egli studiò e si addottorò a Padova. La sua opera principale, De rerum natura iuxta propria principia (1565-1585), in molti luoghi assume l’aspetto di un commentario alla Fisica di Aristotele, pur contenendo molti spunti di critica nei confronti del filosofo greco.
la natura secondo i propri princìpi
Il titolo dell’opera fondamentale di Telesio è programmatico: la natura deve essere studiata secondo i princìpi a essa propri, senza fare ricorso a modelli precostituiti ed estrinseci. L’autonomia della natura dal mondo umano trova così un’esplicita sanzione, comportando il rifiuto sia delle concezioni antropomorfiche sia delle categorie logiche o metafisiche con cui è stata fino a ora interpretata. Secondo Telesio, i filosofi che lo hanno preceduto non si sono accontentati di osservare correttamente le cose come sono in realtà, ma hanno proiettato su di esse caratteristiche e proprietà che erano reali soltanto nel loro pensiero. Lungi dall’essere oggettivamente fondata, pertanto, la loro concezione della natura era una fittizia creazione intellettuale.
i princìpi attivi e passivi
I princìpi che regolano dall’interno la vita della natura sono tre. Nell’universo operano, infatti, due princìpi agenti – il caldo e il freddo – che sono in grado di percepire e di essere percepiti. Ma il caldo e il freddo necessitano di un terzo principio – questa volta passivo – su cui esercitare la loro azione: si tratta della massa corporea, ovvero della materia. Né le nature agenti né la massa corporea sono sostanza, in quanto né le une né l’altra possono sussistere di per sé (ed è questo il significato etimologico del termine sostanza). Da un lato, i princìpi agenti possono operare solo sulla materia: nessun principio incorporeo (caldo, freddo) può, infatti, produrre un effetto senza infondersi in qualcosa di materiale. D’altro lato, la massa corporea – di per sé inerte e informe – è stata creata da Dio per essere continuamente trasformata dalle due nature agenti. Ecco come Telesio introduce la trattazione dei princìpi nella sua opera principale: Tanto il calore quanto il freddo sono incorporei, poiché il calore che emana dal sole – o anche dal nostro fuoco – e il freddo che emana dalla terra evidentemente non si propagano per mezzo di alcuna cosa corporea. Entrambi penetrano in profondità in tutte le cose, anche nelle più dense e nelle più profonde, e si introducono uniformemente in qualsiasi parte e in qualsiasi punto di esse, cosicché non rimane alcun loro punto che non sia completamente e uni-
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formemente occupato dal calore e dal freddo sopraggiungenti. [...] E poiché in nessun luogo si percepisce alcuna azione del calore o del freddo che possa essere prodotta dal puro calore o dal puro freddo senza che essi ineriscano ad una massa corporea, sicuramente deve essere aggiunta anche la massa corporea alla costituzione degli enti di natura, dei quali ricerchiamo i princìpi e le essenze costitutive. Quindi bisogna porre tre princìpi di tali enti: due nature agenti, cioè il calore e il freddo, e una massa corporea. E questa è ugualmente conforme e conveniente a entrambe le nature: atta a espandersi, a dilatarsi, a condensarsi, a contrarsi, a ricevere quella particolare disposizione dalla quale o il calore o il freddo sono favoriti (De rerum natura, Proemio, I, 6).
I tre princìpi – caldo, freddo e massa corporea – non sono mai separati. Le nature agenti sono tutt’uno con la massa corporea alla quale ineriscono e non ci sarà mai nessuna parte di nessun essere che sia soltanto corpo o soltanto principio attivo. Qualunque particella di qualunque ente, infatti, risulta composta di tutti e tre i princìpi in una indissolubile unità. La sostanza, secondo Telesio, consiste proprio in questa unità dell’essere e possiede un carattere dinamico. Essa dà, infatti, origine a una continua vicenda di generazione, di corruzione e di rigenerazione, nella quale pullula il divenire degli esseri particolari. In altri termini, la sostanza è il dispiegarsi della vita della natura .
la vita dinamica della sostanza
L’unico limite che Telesio pone all’autonomia della natura e dei suoi princìpi sta nel fatto che il mondo naturale è opera di Dio. Malgrado ciò, tuttavia, la divinità – dopo l’atto creativo – non interferisce nello sviluppo dei fenomeni naturali, ma si limita a garantire la regolarità delle leggi a cui essi obbediscono. In questo senso, Telesio rimprovera ad Aristotele di aver limitato l’azione di Dio, facendone il motore del cielo. Secondo Telesio, invece, sarebbe stato più giusto estendere l’attività divina a ogni aspetto dell’universo, sebbene essa si manifesti grazie alla mediazione dei princìpi intrinseci alla natura. In questo modo, il rigoroso naturalismo di Telesio si concilia con una forma di provvidenzialismo teologico.
dio agisce nella natura tramite i tre princìpi
Ma qual è il posto dell’uomo nella natura così descritta da Telesio? Per distinguerlo dalle altre creature naturali, Dio infonde nell’uomo l’anima spirituale, cioè una sostanza divina e immortale, che ne fa un soggetto di vita religiosa. A parte ciò, tuttavia, l’uomo è simile agli altri esseri viventi per la presenza in lui di uno spirito corporeo, che non è forma del corpo come l’anima aristotelica, ma una realtà sussistente di per sé. In altri termini, lo spirito corporeo è un principio fisiologico autonomo, «prodotto dal seme» e quindi di natura materiale, che guida i processi della vita organica. L’unità della sostanza che, come si è visto sopra, determina la vicenda dei fenomeni naturali si riflette dunque sull’unità dello spirito che presiede alla vita del singolo individuo.
l’uomo è dotato di un’anima spirituale
Lo spirito corporeo è all’origine della sensibilità dell’uomo. La sensazione consiste, infatti, nella percezione simultanea dell’azione che gli oggetti esterni esercitano sul soggetto e della modificazione soggettiva che essa produce nello spirito corporeo. Telesio attribuisce una preminenza assoluta
sensibilità e conoscenza
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alla conoscenza sensibile rispetto all’intellezione e al ragionamento. In virtù della sua immediatezza, infatti, essa sola consente di stabilire un rapporto diretto con l’oggetto di conoscenza. L’intellezione si origina invece dal ricordo di una sensazione, mentre il ragionamento è un procedimento attraverso il quale ci si accosta per «similitudine» a ciò che momentaneamente non è percepibile con i sensi. Per Telesio, infine, la sensibilità non è una prerogativa solo dell’uomo e degli esseri animati, ma è propria della natura in generale. Questa sensibilità universale garantisce l’omogeneità tra uomo e natura, rendendo così possibile una fondata conoscenza del mondo naturale da parte dell’essere umano. In altri termini, l’uomo può conoscere con certezza i processi naturali perché partecipa alle trasformazioni con cui i princìpi del caldo e del freddo si congiungono – in forme diverse – con la massa corporea .
4. Giordano Bruno Nella seconda metà del Cinquecento si fa sempre più strada la concezione della natura come realtà perennemente vivente e generante, caratterizzata da un indefinito processo di trasformazione e da un eterno avvicendamento di vita e di morte. Le idee di una natura in continuo divenire e di un universo senza confini trovano una delle loro espressioni più caratteristiche nel pensiero di Giordano Bruno.
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la vita
Filippo Bruno – questo era il suo nome: assunse quello di Giordano entrando nell’ordine domenicano – nacque a Nola nel 1548 e studiò a Napoli, ricevendo una prima formazione di stampo aristotelico. Pronunciò i voti assai giovane, ma ben presto i suoi dubbi sulla dottrina trinitaria e su quella dell’incarnazione lo misero in contrasto con gli ambienti ecclesiastici. Allontanatosi da Napoli nel 1576, iniziò a peregrinare per l’Europa: prima a Ginevra, poi a Tolosa e a Parigi, dove ebbe inizio la sua produzione filosofica. Dopo Parigi, si recò in Inghilterra, dove insegnò a Oxford. Il periodo inglese fu particolarmente proficuo per la stesura dei dialoghi «italiani» – cosiddetti perché scritti in questa lingua – e di alcune opere latine. Ritornato a Parigi, nuovi contrasti con gli ambienti universitari legati alla tradizione aristotelica lo costrinsero a trasferirsi in Germania, dove insegnò a Marburgo, Wittenberg e Francoforte e completò le opere latine. Accettata l’ospitalità del nobile veneziano Giovanni Mocenigo, nel 1592 fu da questi denunciato all’Inquisizione e fatto arrestare per avere sostenuto tesi contrastanti con la dottrina della Chiesa. In un primo tempo, riuscì a evitare la condanna con una parziale ritrattazione. Ciononostante, nel 1593 fu trasferito all’Inquisizione di Roma e, dopo sette anni di carcerazione, fu condannato al rogo nel 1600.
il mondo è l’effetto infinito di dio
La filosofia della natura di Bruno prende avvio dalla dottrina cosmologica formulata da Copernico [cfr. 4.2]. A differenza di altri, tuttavia, Bruno non le attribuì il valore di semplice ipotesi matematico-astronomica, bensì la considerò come una verità metafisica suscettibile di ulteriori sviluppi. Il più 2. la filosofia del cinquecento
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importante di questi è l’affermazione dell’ infinità dell’universo . Una volta crollata la fede nella centralità della Terra, l’universo – per Copernico ancora finito – appare a Bruno composto di infiniti mondi, rispetto ai quali il nostro pianeta perde ogni priorità. L’infinità del mondo è giustificata da Bruno più con argomenti metafisici che con dimostrazioni scientifiche . A suo avviso, infatti, l’universo è l’effetto infinito – nello spazio e nel tempo – di un’unica causa infinita (Dio). L’infinito dell’universo è diverso da quello divino solo in quanto in esso si distinguono parti finite (anche se appartengono tutte a un’unica totalità). Dio, invece, è l’assoluto in cui – come aveva insegnato Cusano – gli opposti coincidono e le differenze svaniscono. La tesi di Bruno, quindi, se da un lato rifiuta la tradizione aristotelica del geocentrismo, dall’altro si riconnette al filone neoplatonico, che vedeva nell’Uno la causa di un’infinita emanazione. Non solo l’infinità, infatti, ma anche l’unità dell’essere è un tema dominante della filosofia di Bruno:
la materia è una e viva
È dunque l’universo uno, infinito, immobile. Una, dico, è la possibilità assoluta, uno l’atto, una la forma o anima, una la materia o corpo, una la cosa, uno lo ente, uno il massimo ed ottimo; il quale non deve essere compreso; e però infinibile e interminabile, e per tanto infinito e interminato, e per conseguenza immobile. Questo non si muove localmente, perché non ha cosa fuor di sé ove si trasporte, atteso che sia il tutto. Non si genera; perché non è altro essere, che lui possa desiderare o aspettare, atteso che abbia tutto lo essere. Non si corrompe; perché non è altra cosa in cui si cange, atteso che lui sia ogni cosa. Non può sminuire o crescere, atteso che è infinito; a cui come non si può aggiongere, cossì è da cui non si può suttrarre, per ciò che lo infinito non ha parte proporzionabili. Non è alterabile in altra disposizione, perché non ha esterno, da cui patisca e per cui venga in qualche affezione. Oltre che, per comprender tutte contrarietadi nell’esser suo in unità e convenienza, e nessuna inclinazione possa avere ad altro e novo essere, o pur ad altro e altro modo di essere, non può esser soggetto di mutazione secondo qualità alcuna, né può aver contrario o diverso, che lo alteri, perché in lui è ogni cosa concorde (De la causa, principio et uno, V).
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Nel mondo si dà un’unica materia, sebbene essa si presenti sotto diverse specie. Allo stesso modo, la molteplicità delle forme che plasmano la materia è riconducibile a unità, essendo unico il sostrato materiale a cui esse si applicano. L’unità della forma è dunque un’unità di origine, identificabile con la materia stessa, che produce e riassorbe in sé le forme in un processo continuo. La tesi dell’unità del mondo è, del resto, ribadita da Bruno anche in chiave puramente fisica: ogni parte dell’universo ricerca il contatto con le altre, in modo da escludere la stessa possibilità del vuoto. La materia che conferisce unità all’essere è dunque una materia attiva, dalla quale zampilla la vita degli esseri – o delle forme particolari – che poi a lei ritornano. Si tratta di una materia vivente, la cui vita è la stessa che anima ogni parte della natura .
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l’anima del mondo: dio è in tutto
Ma questa vita non differisce dalla divinità da cui deriva: Dio non trascende il mondo, non è una causa distinta dal proprio effetto, bensì il principio che inerisce all’effetto. Sul punto di vista di Bruno influisce evidentemente la nozione, tipica della tradizione neoplatonica, di anima del mondo: in ogni parte dell’universo vi sono anima e vita, e dunque vi è Dio. A questo proposito occorre ricordare che l’infinità e l’unità dell’universo sono dovute all’onnipresenza di Dio: se la divinità è infinita, infinito dev’essere l’universo in cui essa si manifesta. La nozione di un principio divino onnipresente assimilabile a un’anima del mondo implica che non si possa propriamente parlare di esseri inanimati. Tutto vive e l’anima è forma di tutte le cose, rimanendo intera in ogni parte così come una voce è udibile in ogni parte della sala nella quale risuona [t5].
tutto è dio
Nella filosofia di Bruno, tuttavia, l’onnipresenza del divino tende via via a trasformarsi in un’identificazione tra Dio e ogni altro ente. L’infinita potenza di Dio è potenza di essere qualsiasi cosa, ma poiché una potenza che non si traduca in atto è potenza di essere nulla, potenza e atto devono coincidere. Per questa ragione, Dio «è tutto quel che può essere, e lui medesimo non sarebbe tutto se non potesse essere tutto». Visti i caratteri di vitalità e di attività della materia per Bruno, inoltre, non si può escludere la possibilità che quel «tutto» – ovvero Dio – altro non sia che materia. In conseguenza delle sue affermazioni su Dio e sulla natura, le dottrine di Bruno sono state considerate non a torto 1) come una forma di panteismo , in base al quale la divinità coincide con la natura o sostanza del mondo, o per lo meno 2) come una forma di panenteismo, in base al quale Dio è in ogni cosa, pur non esaurendo la sua essenza nella natura di tutte le cose.
il ritorno dell’uomo a dio
La filosofia della natura e la metafisica di Bruno stanno anche a fondamento della sua morale. Se Dio è il tutto o in tutto, ogni essere – compreso l’uomo – deve ritornare a Dio e confondersi con lui. La «contemplazione» con la quale i neoplatonici intendevano «farsi uno con l’Uno» assume in Bruno il carattere di un eroico furore , una sorta di èros platonico, che tende a farsi uno con Dio. Per illustrare questo processo Bruno ricorre al linguaggio mitologico. Egli, infatti, recupera e reinterpreta con le proprie categorie filosofiche la leggenda del cacciatore Atteone che scorge l’immagine della dea Diana riflessa nell’acqua e viene per questo trasformato da cacciatore in preda e sbranato dai suoi stessi cani. Fuori di metafora, il principio divino (Diana) si riflette nello specchio, ossia in quella similitudine di sé che sono le cose del mondo (l’acqua). Lo sbranamento di Atteone da parte dei suoi cani simboleggia invece il ritorno dell’uomo alla natura (ovvero, il che è lo stesso, il riconoscimento della sua unità con essa) dopo aver scorto il principio divino che la anima.
morale e religione
Ma dal mito di Atteone traspare anche che la morale di Bruno si fonda sul principio della necessità ed esclude ogni forma di libero arbitrio. In realtà, la vera libertà consiste nell’agire come è richiesto dalla necessità della natura. L’etica di Bruno, dunque, né appoggia la religione né trova appoggio in essa, mancando di alcun riferimento alla dimensione della trascendenza. Al più, la
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religione riveste una limitata funzione di edificazione morale e di controllo sociale nei confronti del popolo rozzo e riottoso. In questa concezione limitativa della religione – oltreché nella sua concezione della divinità – si deve probabilmente vedere uno dei motivi che portarono alla condanna di Bruno.
5. Tommaso Campanella Al pensiero di Telesio si ispira direttamente, almeno all’inizio della propria attività filosofica, Tommaso Campanella. Alcune sue vicende ricordano quelle di Bruno. Nato a Stilo (Calabria) nel 1568, Gian Domenico Campanella entrò molto giovane nell’ordine domenicano a Napoli assumendo il nome di Tommaso. Ben presto le sue idee filosofiche gli procurarono una serie di processi per eresia e di imprigionamenti. Ritornato nel 1598 nella città natale, Campanella tentò di realizzare il suo ideale politico di una repubblica universale a carattere teocratico, il cui modello utopico è descritto nella Città del sole (1602). I piani per l’insurrezione ventilata da Campanella per rovesciare la dominazione spagnola nell’Italia meridionale furono però scoperti ed egli fu condannato a una carcerazione durata ventisette anni. Durante questa prigionia, egli scrisse le sue opere principali, tra cui una monumentale Teologia e una Metafisica. Nel 1626 il governo spagnolo lo liberò. Sebbene fosse stato affidato alla custodia del Sant’Uffizio di Roma, Campanella cominciò a rivolgere alla monarchia francese le stesse speranze politiche rivolte in precedenza alla corona spagnola. Quando a Napoli si scoprì una nuova congiura antispagnola organizzata da un suo discepolo, Campanella si rifugiò a Parigi, dove visse fino al 1639, curando la pubblicazione dei propri scritti.
la vita e le opere
Il pensiero di Campanella ha in comune con quello di Telesio il principio della sensibilità universale: ogni manifestazione della natura è dotata della consapevolezza del proprio sentire. In Campanella, tuttavia, questo assunto si trasforma – più esplicitamente che in Telesio – nel principio dell’universale animazione della natura. Secondo Campanella, infatti, il mondo naturale è permeato da una forza di attrazione che spinge tutti i corpi a ricercare il contatto vicendevole e a godere di esso, in modo da riempire ogni porzione dello spazio ed eliminare il vuoto. Gli esseri si trovano, pertanto, in un rapporto di universale interazione reciproca: studiando tale connessione e le proprietà naturali degli enti, l’uomo può intervenire sulla natura per mezzo della magia. Diversamente da Telesio, dunque, nel pensiero di Campanella la magia trova piena legittimazione come strumento di indagine e di operatività. Per Campanella la nozione di un’universale interazione delle cose si fonda sul principio dell’unità della natura. Ciò è testimoniato dal fatto che dall’assoluta unità di Dio non può derivare nulla di sostanzialmente molteplice. Per questa ragione, la molteplicità è mera apparenza: in tal senso, i singoli esseri finiti sono distinguibili non sul piano reale, ma solo su quello logico e formale .
l’interazione universale di tutti i viventi
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Campanella L’apparenza del molteplice
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le tre primalità in dio e nel mondo
Nella natura Campanella vede operare tre princìpi fondamentali a cui dà il nome di primalità dell’essere . La prima è la potenza, in virtù della quale gli enti possono essere e agire. La seconda è la sapienza, intesa come un senso di sé che permette agli enti di conoscere se stessi e i propri contrari. La terza è l’amore, inteso – oltreché come principio di unificazione – come tendenza alla conservazione di sé e della propria specie. Nel mondo le primalità si trovano in forma impura, frammiste con i rispettivi predicati negativi dell’impotenza, dell’insipienza e dell’odio. Nell’ente supremo, invece, esse si trovano allo stato puro e definiscono i tre predicati essenziali della divinità. Il rapporto tra le primalità allo stato puro e le loro manifestazioni impure definisce il rapporto di immanenza e di trascendenza che intercorre tra Dio e il mondo. Pur essendo «a tutte cose interno», principio vivificatore e animatore della natura, Dio non si risolve né nelle singole manifestazioni di essa né nella loro somma quantitativa.
la dottrina della conoscenza
La teoria della conoscenza di Campanella – come quella di Telesio – mostra di privilegiare la sensibilità su ogni altra forma di sapere. Malgrado ciò, la gnoseologia di Campanella presenta un’articolazione più complessa di quella telesiana. Essa è strettamente connessa con la dottrina metafisica delle primalità dell’essere, appena esaminata. Ciascuna delle tre primalità, infatti, può esplicare se stessa soltanto in virtù di un originario riferimento al soggetto. Così la prima primalità è potenza di agire e di patire soltanto in quanto è potenza di essere un soggetto che agisce e che patisce. La primalità dell’amore induce gli enti a permanere nel loro stato, in quanto ciascuno di essi ama il proprio essere (come soggetto) e fonda su ciò il proprio rapporto con gli oggetti esterni. Ad esempio, amiamo il cibo che ci nutre in quanto amiamo noi stessi nutriti; amiamo la luce che ci illumina in quanto amiamo noi stessi illuminati. La primalità della sapienza, a sua volta, è conoscenza della realtà in quanto è anzitutto conoscenza di sé e solo conseguentemente conoscenza delle modificazioni che gli oggetti esterni imprimono sul soggetto. In altre parole, non si conoscono direttamente le cose, ma si conosce se stessi modificati dalle cose. Per Campanella, la relazione tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto si fonda su un originario rapporto del soggetto con se stesso. Nella prospettiva delineata da Campanella, dunque, il conoscere implica un parziale permanere nel proprio stato originale e un parziale mutarsi. Ciò significa, in certa misura, «divenire altro», cioè morire in parte a se stessi. In tal senso, la conoscenza è una perdita parziale di essere, un aspetto del continuo divenire proprio degli enti creati.
il pensiero pedagogico: il ruolo dell’esperienza
Il mondo della natura viene da Campanella investito di sacralità. Esso è, da un lato, un libro scritto dalla mano di Dio e, dall’altro, il tempio vivente di Dio stesso. Il libro del mondo rappresenta il testo originale al quale rivolgersi, perché sommo è il suo autore. I libri dei filosofi, invece, sono solamente inesatte trascrizioni di esso. Campanella si pone, quindi, in aperta polemica con la cultura libresca. Rispetto a essa, l’appello alla natura ha la funzione di un richiamo all’importanza dell’esperienza diretta. L’esigenza dell’istruzione è costantemente proclamata da Campanella. Essa
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va intesa, da un lato, come nuova formazione dell’intellettuale, sollecitato a sottrarsi ai condizionamenti della cultura tradizionale, e, dall’altro, come vera e propria istruzione popolare. Nella Città del sole Campanella mostra una grande attenzione per l’educazione dei fanciulli, sviluppata secondo criteri rigorosamente collettivistici e fondata sul richiamo all’esperienza diretta dell’allievo. Il programma pedagogico è essenziale al sistema filosofico di Campanella. L’obiettivo principale della filosofia di Campanella consiste, infatti, nel promuovere la totale rigenerazione del mondo umano. Questa non potrà realizzarsi, se non si provvederà a eliminare l’ignoranza: da essa, infatti, dipendono i tre grandi mali del mondo. Essi sono la tirannide, cioè il degenerare del potere politico in un arbitrio umano che ha smarrito il rapporto con l’autorità divina; i sofismi, cioè il degenerare della cultura in un verbalismo che ha perso il rapporto con la realtà; l’ipocrisia, cioè il degenerare di una religiosità che ha dimenticato il rapporto con l’interiorità, unica garanzia dell’unione tra divino e umano. Il vero filosofo, secondo Campanella, persegue e realizza il fine ultimo dell’universo contemplando Dio in tutte le cose.
l’eliminazione dell’ignoranza e i tre mali del mondo
Non solo il pensiero pedagogico di Campanella, ma anche quello politico appare strettamente connesso all’esigenza di rinnovamento. Nella Città del sole, egli illustra il suo progetto di una costituzione politica teocratica, retta da un sommo sacerdote, Sol, dedito al culto del sole. Ministri di Sol sono Pon, Sin e Mor – personificazioni delle tre primalità (potenza, sapienza, amore) – ai quali spetta il controllo della guerra (Pon), delle scienze e delle arti (Sin), della salute e della riproduzione (Mor). Nella Città del sole, inoltre, vige una rigorosa comunione dei beni e delle donne: i congiungimenti sono regolati dal potere pubblico in modo da facilitare il progresso genetico della stirpe. Elemento importante della vita pubblica è il lavoro, che è considerato l’unico fattore di differenziazione dei cittadini in base alle loro capacità.
rinnovamento dell’uomo e progetto politico
L’utopia di Campanella è sinceramente animata dalla duplice esigenza di realizzare la giustizia sociale e di educare gli uomini ai più genuini valori e alla vera religiosità. Gli strumenti che egli propone per realizzare questo progetto, tuttavia, non lasciano quasi nessuno spazio alla libertà e all’autodeterminazione individuale e rendono la sua utopia assai meno moderna di quella formulata – quasi un secolo prima – da Tommaso Moro [cfr. 2.1].
l’utopia di campanella e di moro
in poche... parole L’umanesimo non fu un fenomeno soltanto italiano, ma a partire dal tardo Quattrocento si diffuse in tutta Europa. Fra gli esponenti più illustri dell’umanesimo europeo, bisogna citare Erasmo da Rotterdam (1466-1536), per avere predicato lo studio delle lin-
gue classiche, evitando di cadere in forme di sterile erudizione, ed il ritorno al cristianesimo delle origini; Tommaso Moro (14801535), per avere delineato un modello di società ideale, basata sull’uguaglianza e sull’educazione di tutti i suoi cittadini; Michel
de Montaigne (1533-1592), per avere messo in luce la mutevolezza della natura umana e i limiti della teologia tradizionale. Nel corso del Cinquecento, in Italia, anche in conseguenza di una lettura più fedele e libera da ipoteche teologiche dei testi aristoteli-
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ci, realizzata nelle università, si assiste ad una ripresa delle ricerche sulla natura. In questo quadro, si distingue la figura di Pietro Pomponazzi (1462-1524), che non solo reputa indimostrabile sul piano filosofico la tesi dell’immortalità dell’anima, ma anche sostiene l’esistenza di un ordine razionale della natura, in cui tutto ciò che avviene è causato da Dio attraverso la mediazione degli astri. Dal canto suo, Bernardino Telesio (1509-1588) rifiuta le concezioni antropomorfiche della natura, individuando tre princìpi fondamentali alla base di essa: il caldo, il freddo e la massa corporea. Inoltre, Telesio sostiene che l’uomo può conoscere la natura perché partecipa alla sua vita dinamica e perché sono entrambi caratterizzati da una sensibilità universale. Giordano Bruno (1548-1600) elabora in modo del tutto originale la dottrina eliocentrica di Copernico, la dottrina sulla coincidenza degli opposti di Cusano e l’emanazionismo di matrice neoplatonica, sostenendo la tesi dell’infinità dell’universo (e dei mondi) e l’identificazione della materia vivente con Dio stesso (pantesimo). Portando alle estreme conseguenze la concezione di Telesio sulla sensibilità universale, Campanella (1568-1639) vede operare nella natura tre princìpi fondamentali, denominati primalità dell’essere (potenza, sapienza, amore). Nella Città del sole (1602), inoltre, egli delinea il progetto di una costituzione politica teocratica, grazie alla quale diviene possibile eliminare i grandi mali del mondo e dare vita ad un’umanità nuova, fondata sugli ideali della giustizia sociale e dell’educazione universale.
utopia È il titolo di una celebre opera di Tommaso Moro e insieme il nome dell’isola di cui in essa si parla. Deriva dal greco ou, «non» e tòpos, «luogo» (anche se il ter34
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mine è coniato in latino), e significa quindi «ciò che non ha luogo reale». Da allora il termine designa qualsiasi progetto politico, sociale o pedagogico che si prefigga la realizzazione di condizioni ideali che ancora non trovano – o non potranno mai trovare – riscontro nella realtà.
iuxta propria principia L’opera principale di Telesio si intitola De rerum natura iuxta propria principia (1565-1585): con essa, il filosofo cosentino si proponeva di studiare la natura secondo i princìpi ad essa propri, rifiutando le interpretazioni antropomorfiche e le categorie logiche o metafisiche con le quali era stata fino a quel momento indagata. Secondo Telesio, i princìpi che operano all’interno dell’universo sono tre: il caldo, il freddo e la massa corporea. Il caldo e il freddo sono considerati come dei princìpi attivi che esercitano la loro azione sulla massa corporea, considerata invece come un principio passivo. Il caldo e il freddo, infatti, non potrebbero produrre nessun effetto se non agissero su qualcosa di materiale e di corporeo; la massa corporea, d’altra parte, assume una forma determinata e si trasforma continuamente grazie all’azione del caldo e del freddo. In natura, questi tre princìpi non sussistono mai l’uno indipendentemente dall’altro, ma formano un’indissolubile unità, che Telesio chiama sostanza: essa ha un carattere dinamico, in quanto si genera, si corrompe e si rigenera continuamente, dando vita al divenire degli esseri particolari. La natura è opera di Dio, che però non interviene direttamente nello sviluppo dei fenomeni naturali, limitandosi a garantire la regolarità delle leggi a cui essi obbediscono. L’attività divina, dunque, si estende ad ogni aspetto dell’universo e si manifesta attraverso i tre princìpi intrinseci alla natura.
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infinità dell’universo Si tratta della tesi più innovativa di Giordano Bruno, per il quale l’universo appare costituito di infiniti mondi. Bruno perviene a questa convinzione, rifiutando la tradizione aristotelica del geocentrismo e portando alle estreme conseguenze la dottrina cosmologica di Copernico. Mentre per quest’ultimo il cosmo era finito e l’eliocentrismo era solo un’ipotesi matematico-astronomica, per Bruno la Terra non gode di alcuna priorità rispetto agli infiniti mondi di cui risulta composto l’universo. Bruno giustifica l’infinità del mondo con argomenti metafisici, piuttosto che scientifici: recuperando la concezione neoplatonica, che vedeva nell’Uno la causa di un’infinita emanazione, sostiene che l’universo è l’effetto infinito – nello spazio e nel tempo – di un’unica causa infinita, e cioè Dio. Occorre, tuttavia, distinguere tra l’infinità di Dio – intesa, cusanianamente, come coincidenza degli opposti, in cui svaniscono le differenze – e l’infinità dell’universo, in cui è comunque possibile distinguere delle parti finite. La tesi dell’infinità dell’universo è strettamente connessa con quella dell’unità dell’essere e dell’onnipresenza di Dio. Secondo Bruno, infatti, il mondo è costituito da un’unica materia vivente che può assumere diverse forme particolari e a cui tutti gli esseri ritornano. La vita che anima ogni aspetto della natura coincide con Dio, che pertanto è presente ovunque. Dio non trascende il mondo, nel senso che non è una causa distinta dal proprio effetto, ma un principio immanente all’effetto. panteismo Dal greco pan, «tutto», e theòs, «dio», è termine co-
niato in Età moderna per indicare la concezione che identifica Dio e il mondo. Bruno giustifica la sua concezione panteistica della natura con argomenti di carattere metafisico: Dio e ogni altro ente sono identici, perché Dio – potendo es-
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sere qualsiasi cosa – non sarebbe pienamente se stesso, se non fosse tutto. In altri termini, utilizzando le categorie aristoteliche, in Dio atto e potenza coincidono: finché Dio può essere qualcosa, senza esserlo in atto, vi è qualcosa che Dio non è, ma una potenza che non si traduca in atto è potenza di essere nulla: necessariamente, dunque, Dio «è tutto quel che può essere», e cioè non può essere diverso dal mondo, da tutti gli esseri e i processi che in esso accadono. Alla nozione di panteismo è strettamente connessa quella di panenteismo: si tratta di un termine coniato nell’Ottocento, con cui si vuole indicare come Dio – pur essendo in tutte le cose – non coincida pienamente con esse, essendo la causa inesauribile del mondo e rimanendo distinto da esso. Con questa espressione, Bruno descrive l’aspirazione di ogni essere – compreso l’uomo – a confondersi con la natura e con Dio. Tale aspirazione non viene perseguita nei termini della contemplazione estatica, di cui parlavano Plotino e i neoplatonici, ma nei termini dell’èros platonico: l’amore per la natura e il desiderio di confondersi con essa si esprimono anzitutto attraverso la fatica e l’ingegnosità del lavoro con cui l’uomo continua lo slancio creatore della vita universale. Per illustrare questo processo, nell’opera intitolata De gli eroici furori (1585), Bru-
eroico furore
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no ricorre al mito del cacciatore Atteone: questi, dopo avere scorto l’immagine nuda della dea Diana, riflessa nell’acqua, viene trasformato in cervo e sbranato come preda dai suoi stessi cani. Il mito, riletto da Bruno alla luce della sua concezione panteistica, spiega come l’uomo – dopo avere riconosciuto la presenza di un principio divino nella natura – divenga tutt’uno con essa. In questo quadro, la morale attivistica di Bruno rivela due caratteri fondamentali: a) esclude il libero arbitrio, facendo coincidere la libertà con l’accettazione della necessità della natura; b) l’immedesimazione con la vitalità infinita della natura – e quindi con Dio – comporta un livello di consapevolezza che non è di tutti. In relazione a quest’ultimo punto, Bruno sembra oscillare tra due posizioni opposte: da un lato, sostiene che soltanto pochi – ovvero coloro che accedono al sapere filosofico – possono identificarsi con la divina forza creatrice che anima l’universo; dall’altro, afferma che chiunque – lottando contro il torpore, l’ozio e l’accidia – può riscoprire la vitalità della natura e divenire uno con essa.
tre primalità dell’essere Tommaso Campanella parte dal presupposto, condiviso con Telesio, che nella natura vi sia una universale interazione di tutte le cose: tutti i corpi sono, infatti, caratterizzati dalla sensibilità e da una
forza di attrazione che li spinge a ricercare un vicendevole contatto, riempiendo così ogni porzione dello spazio ed eliminando il vuoto. Secondo Campanella, le tre primalità dell’essere sono i princìpi fondamentali che operano nella natura: a) la potenza, in virtù della quale ogni cosa è e può agire; b) la sapienza, in virtù della quale ogni cosa sente (ovvero conosce) se stessa e i propri contrari; c) l’amore, in virtù della quale ogni cosa tende alla conservazione di sé e alla simpatetica unificazione con tutte le altre cose. Nel mondo delle cose finite, le tre primalità dell’essere si trovano mescolate con quelle del non essere, ovvero l’impotenza, l’insipienza e l’odio. Nell’ente supremo, invece, esse si trovano allo stato puro e rappresentano i predicati essenziali della divinità. Secondo Campanella, Dio è ad un tempo immanente e trascendente rispetto al mondo: immanente, in quanto principio vivificatore della natura; trascendente, in quanto non si risolve nelle singole manifestazioni di essa né è esaurito dalla loro somma quantitativa. Dalle tre primalità di Dio dipende il governo del mondo: a) dalla potenza di Dio deriva la necessità con cui i fenomeni naturali accadono; b) dalla sapienza di Dio deriva il fato, e cioè la catena delle cause e degli effetti; c) dall’amore di Dio deriva l’armonia che spinge tutte le cose verso il loro fine ultimo.
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i testi t3 Tommaso Moro / L’isola che non c’è Tommaso Moro
L’Utopia o la migliore forma di repubblica
libro II
La prima edizione dell’Utopia apparve a Lovanio nel dicembre 1516, forse per essere regalata agli amici come strenna natalizia. La seconda edizione, quella definitiva, fu invece pubblicata a Parigi nel 1517. L’opera è divisa in due parti. Nella prima la definizione dell’ideale politico di Moro avviene sotto forma di dialogo tra un personaggio immaginario, Raffaele Itlodeo, che espone la sua teoria «sull’ottima forma dello stato», e Moro stesso. La seconda parte invece contiene la descrizione dell’isola di Utopia, con la costruzione del progetto utopico vero e proprio. Di questa seconda parte riproduciamo parzialmente il capitoletto dedicato alle occupazioni degli Utopiani.
Arti e mestieri C’è un’occupazione comune a tutti indistintamente, uomini e donne, l’agricoltura, e nessuno n’è eccettuato1. In questa sono ammaestrati tutti dalla fanciullezza, un po’ imparandone le regole a scuola, un po’ condotti come per isvago nelle campagne più vicine alle città, dove non stanno a guardare soltanto, ma vi metton mano, ad ogni occasione di esercitare i muscoli. Ma oltre all’agricoltura che, come ho detto, è comune a tutti, ognuno apprende un mestiere, un’arte qualsiasi, come sua particolare: in genere o la lavorazione della lana, o si occupano a tessere il lino, o l’arte di muratore, di fabbro, di falegname; non vi sono lì altri lavori che occupino un numero di uomini notevole2. Poiché le vesti, la cui forma è unica per tutta l’isola, salvo che si distingue alla foggia il sesso come anche un celibe da un ammogliato, ed è identica sempre per tutta la vita, ma non manca di grazia a vedersi e segue bene i movimenti 1. Viene qui espresso un duplice prin-
cipio. Da un lato si afferma che l’agricoltura è l’attività produttiva fondamentale, che sta alla base del sostentamento della nazione e precede qualsiasi attività manifatturiera: per questo tutti devono esserne esperti. Dall’altro si sancisce l’uguaglianza tra i sessi nella partecipazione al lavoro. Se qualche distinzione è mantenuta nelle attività manifatturiere, dove le donne
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del corpo ed è adatta per l’estate e per l’inverno; le vesti, dico, ogni famiglia se le fa da sé3. Ma delle altre arti anzidette ognuno ne apprende qualcuna, e non solo gli uomini, ma anche le donne: queste del resto, come più deboli, fanno cose più leggere, lavorano in genere la lana e il lino; agli uomini sono affidati gli altri mestieri più pesanti. Nella maggior parte dei casi ognuno è educato nell’arte paterna, cui i più sono naturalmente inclinati; ma se qualcuno per temperamento è portato ad altro, passa per adozione in una famiglia che fa il mestiere per cui egli ha passione, e non solo il padre, ma anche i magistrati s’adoprano acciocché entri a servizio di un padre di famiglia serio e galantuomo. Anzi, se qualcuno, già padrone di un mestiere, ne vuole apprendere in seguito un altro, gli è concesso allo stesso modo: quando avrà conseguito l’uno e l’altro, eserciterà quello che più gli piace, a meno che la città non abbia bisogno di uno dei due4.
svolgono soltanto i lavori meno pesanti, nessuna differenza ci deve essere almeno nell’agricoltura. Più sotto, in un passo non riportato in questo testo, Moro lamenta che nella realtà le donne, cioè la metà del genere umano, non siano impegnate nel lavoro produttivo. 2. Sono dunque escluse attività che non siano rivolte alla produzione di beni strettamente necessari alla vita. È un primo accenno di polemica contro il lusso.
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3. L’uniformità dell’abito ha la duplice
funzione di non concedere nulla al lusso e di non solleticare la vanità degli uomini, garantendone invece l’uguaglianza sociale. Entrambi gli aspetti sono sottolineati anche dal carattere autarchico della produzione dei vestiti. 4. La concezione del lavoro come servizio sociale – si è visto che le professioni sono limitate alle attività produttive necessarie – si concilia con
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La principale e quasi unica occupazione dei sifogranti5 è di aver cura e badare che nessuno se ne stia senza far nulla, in braccio alla pigrizia, ma attenda ognuno al suo mestiere con sollecitudine, senza però stancarsi, come una bestia da soma, a lavorare ininterrottamente dalla mattina per tempo fino a sera tardi, ché sarebbe una pena che nemmeno uno schiavo sopporterebbe. Tale però più o meno è la vita degli operai in ogni paese tranne che in Utopia6. Qui dividono il giorno in 24 ore eguali, compresavi la notte, e non danno più che 6 ore al lavoro, 3 prima di mezzodì, dopo le quali vanno a colazione, e quando, dopo tavola, han riposato 2 ore pomeridiane, ne danno ancora 3 altre al lavoro, chiudendo col pasto principale. Segnando l’una da mezzogiorno, vanno a letto verso le otto e il sonno richiede 8 ore: tutto il tempo che passa fra il lavoro e il sonno o i pasti è lasciato al piacere di ognuno, non già perché lo sciupi in lascivie o nell’infingardaggine, ma perché quanto è libero da lavoro manuale lo spenda bene, secondo i suoi gusti, in qualche occupazione prediletta. Questi intervalli i più li impiegano in studi letterari; c’è l’uso infatti di tenere ogni giorno lezioni pubbliche, prima di far giorno, cui sono costretti a intervenire soltanto quelli espressamente prescelti per gli studi; ma vi affluiscono uomini e insieme donne di ogni condizione, in gran folla, ad udire questa e quella lezione, secondo le loro inclinazioni. Tuttavia uno, se preferisce consumare perfino questo tempo nel suo mestiere, come avviene comunemente
l’esigenza di assecondare i talenti individuali e di accordare a ciascuno la facoltà di fare il mestiere che più gli aggrada. 5. Sono i magistrati civili eletti ogni anno in base al numero delle famiglie che compongono la città. 6. È netta la condanna delle condizioni di lavoro dell’Inghilterra del tempo (come delle altre nazioni europee). Il lavoro non deve essere una maledizione né la finalità unica della vita. L’orario di la-
di molti, il cui animo non si solleva ad alcuna speculazione scientifica, nulla glielo vieta, anzi viene anche lodato, come utile allo Stato7. Dopo il secondo pasto passano un’ora a svagarsi, d’estate nei giardini e d’inverno in quelle sale comuni dove mangiano, e quivi fanno musica o si distraggono conversando. I dadi non sono nemmeno conosciuti e così tutti i giochi di tal fatta, insipidi e rischiosi; del resto praticano due giochi, non dissimili dai nostri scacchi: il primo è la battaglia dei numeri, in cui il numero rapisce l’altro, nel secondo le virtù contendono contro i vizi, facendo avanzar le loro truppe. In quest’ultimo bellamente si mostra l’anarchia che regna tra i vizi e il loro accordo contro le virtù; ugualmente qual vizio sia opposto a ognuna delle virtù, con quali forze i vizi attacchino allo scoperto, con quali macchinazioni assalgono di fianco e con quali scorte le virtù spezzino le forze dei vizi, con quali arti sfuggano ai loro tentativi, infine in qual modo l’una delle due parti s’impadronisca della vittoria8.
GUIDA ALLA LETTURA 1. Individua la tesi centrale di questo testo e riformulala con parole tue. 2. Nel brano riportato Moro descrive il modello di vita abituale in «Utopia» ed esalta il ruolo del lavoro: a. Quali funzioni assume il lavoro nello Stato utopico di Moro? b. Perché tutti vestono allo stesso modo?
voro limitato consente agli Utopiani non solo di riposarsi debitamente, ma anche di dedicarsi ad attività dilettevoli o formative. 7. Ritorna con insistenza il tema del dovere universale del lavoro produttivo. Poiché anche i magistrati rinunciano al loro diritto di esenzione, gli unici a non praticare il lavoro manuale sono coloro che si dedicano agli studi. Ma il fatto che tutti, purché meritevoli, possano accedere a questa condizione e che, vicever-
sa, essa non sia garantita definitivamente anche in mancanza di meriti, riduce il carattere di privilegio che essa riveste. 8. Come in tutti i progetti politici connotati eticamente, insieme al lusso vengono banditi i divertimenti sconvenienti (come il gioco d’azzardo). Qui il gioco stesso ha finalità educativa, perché familiarizza i giocatori con la matematica oppure, ancor meglio, acuisce la loro sensibilità morale.
i testi
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t4 Pomponazzi / Libertà e fato Pomponazzi
Il fato, il libero arbitrio e la predestinazione
II, 6-7
Secondo Pomponazzi ogni accadimento dipende dall’ordine naturale. Tutti i fenomeni sono infatti determinati necessariamente dalle congiunzioni e dai movimenti degli astri, dei quali Dio si serve come di strumenti intermedi per esercitare la propria azione sul mondo. Nell’universo esiste dunque un ordine regolare, perché regolari sono i moti astrali; ma se tutti gli eventi del mondo – comprese le azioni umane – sono deterministicamente regolati da un piano che li trascende, resta da chiarire quale spazio rimanga alla libertà dell’uomo. Pomponazzi risolve il problema ricorrendo all’argomentazione – mutuata dalla tradizione stoica, che sostituisce su questo punto il suo costante riferimento all’aristotelismo – secondo cui il libero arbitrio si identifica con la spontanea partecipazione all’ordine prestabilito: la libertà può pertanto coesistere con la provvidenza divina, concepita come ordine razionale che governa il mondo e quindi, in termini stoici, come fato.
Resta da esaminare l’opinione degli Stoici. Secondo tale opinione tutto è soggetto al fato, cosicché tutto è previsto e preordinato da Dio, e poiché tutto è stato così preordinato, così sarà, e non vi è nulla, né eterno né nuovo, né in universale né in particolare, che sfugga a tale provvidenza. Da ciò deriva il fatto che nulla, rispetto alla divina provvidenza, è casuale o imprevisto, e in noi non vi è nulla che discenda da noi, ma tutto dipende esclusivamente da Dio che dispone e preordina in tal modo. Infatti la nostra volontà non muove se stessa se non perché è mossa in tal modo da Dio, in quanto essa è uno strumento di Dio. [...] Questa dottrina afferma che Dio fa tutto con determinazione e nulla può essere senza tale movente, e ogni cosa è strumento di Dio; tutto è diretto da Dio e tutto agisce conformemente al modo in cui è diretto. [...] Vediamo che anche le età si differenziano a seconda della diversità degli astri: una è detta età aurea perché in quel momento dominano stelle favorevoli; la successiva è detta età dell’argento perché dominano stelle meno favorevoli, e così via degradando fino all’età del ferro1. E poi di nuovo si rinnovano le età
1. Si tratta di una commistione fra la
tradizionale dottrina della successione delle età e la dottrina astrologica, cosicché i differenti caratteri delle epoche storiche che si succedono l’una all’altra
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dell’oro, dell’argento, del bronzo e del ferro, secondo la loro successione e secondo l’interminabile gioco degli dèi. E non bisogna credere, come il volgo ignavo, che, quando gli uomini sono buoni o cattivi, per questo dominano influssi buoni o cattivi: infatti il superiore non è retto dall’inferiore, bensì l’inferiore è retto dal superiore. I costumi sono cattivi perché gli astri sono nefasti, e non sono nefasti gli astri perché i costumi sono cattivi. Possiamo constatarlo generalmente in ogni fatto particolare: nei periodi non bene equilibrati tutto è disarmonico. Quindi è mal regolata anche l’alimentazione e per questo gli uomini sono mal disposti quanto alla vita e ai costumi. Quindi avvengono necessariamente e inevitabilmente le guerre, le epidemie, i diluvi di fuoco e di acqua con i quali il mondo si rinnova. E non lo dicono soltanto gli stoici, ma anche i peripatetici affermano questo riguardo alla necessità. Secondo Aristotele, infatti, non si rinnovano soltanto le civiltà, i mari e i fiumi, ma anche gli uomini e le loro opinioni. Secondo la sua dottrina tali opinioni si sono susseguite all’infinito, e all’infinito si sono rinnovate la filosofia e ogni arte. Quindi, poiché
vengono fatti dipendere dai differenti influssi astrali. A differenza di Esiodo, che ne presenta cinque, e di Platone, che ne presenta tre, Pomponazzi parla di quattro età. Anche per lui, comun-
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que, la loro successione rappresenta un processo di decadenza dei costumi: tuttavia, dopo la degenerazione, la perfezione originaria viene restaurata e il processo ricomincia.
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ciò è sempre stato così di per sé, ha di per sé una causa, la quale non può essere che la rivoluzione dei corpi celesti. Perciò, come abbiamo detto, secondo la dottrina di Aristotele appare inevitabile il fato, per quanto Aristotele sembri fare discorsi che si contraddicono tra loro. Non si vede infatti come possa essere insieme vero che tutto secondo la specie è necessario e che tuttavia in noi risieda il libero arbitrio. Quindi gli stoici sembrano rispondere nel modo più appropriato. E così mi pare
che si debba parlare seguendo la dottrina degli stoici.
GUIDA ALLA LETTURA 1. Se ogni evento è «previsto e preordinato da Dio» in che modo l’uomo può essere considerato «libero»?
2. Quali sono le età dell’umanità in rapporto all’andamento degli astri?
t5 Bruno / Il principio animatore della natura Bruno
De la causa, principio et uno
II
Il dialogo costituisce il genere letterario di gran lunga preferito dai moralisti, specialmente italiani, del Cinquecento. Bruno lo utilizza tuttavia anche per la trattazione di argomenti di ordine metafisico: è il caso del De la causa, principio et uno (1584). Lo scritto si trova tra i cosiddetti Dialoghi italiani, classificati in «metafisici» e «morali». Si tratta di scritti composti durante il soggiorno dell’autore in Inghilterra e l’uso dell’italiano è dovuto anche a una certa moda, vigente all’epoca a Londra, favorevole a questa lingua. Nei passi che seguono il personaggio di Teofilo rappresenta lo stesso Bruno, che espone il proprio pensiero, mentre Dicsono è Alexander Dicson, autore di uno scritto sulle tecniche della memoria ispirato da Bruno. Lo scrittore inglese ha nel dialogo soltanto la funzione di «stimolo» per lo sviluppo dei discorsi dell’autore. La discussione verte sulle nozioni di principio e di causa, di materia e di forma, mettendo capo al riconoscimento di un principio immanente che conferisce la vita a tutta la natura.
TEOFILO Or, per venire a li principii constitutivi de le cose, prima raggionarò de la forma per esser medesma in certo modo con la già detta causa efficiente; per che l’intelletto
1. Nelle precedenti battute del dialogo
Teofilo ha definito l’intelletto come precipua facoltà dell’anima del mondo: come l’intelletto umano produce idee, co-
che è una potenza de l’anima del mondo, è stato detto efficiente prossimo di tutte cose naturali1. DICSONO Ma come il medesmo soggetto può
sì questo intelletto produce gli enti naturali. In questo modo l’anima del mondo, che è forma del mondo, è nello stesso tempo causa efficiente degli enti
naturali per il tramite dell’intelletto, che li produce direttamente («efficiente prossimo»).
i testi
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essere principio e causa di cose naturali? Come può aver raggione di parte intrinseca, e non di parte estrinseca?2 TEOFILO Dico che questo non è inconveniente, considerando che l’anima è nel corpo come nocchiero nella nave. Il qual nocchiero, in quanto vien mosso insieme con la nave, è parte di quella; considerato in quanto che la governa e muove, non se intende parte, ma come distinto efficiente. Cossì l’anima de l’universo, in quanto che anima e informa, viene ad esser parte intrinseca e formale di quello; ma, come drizza e governa, non è parte, non ha raggione di principio, ma di causa3. [...] Mi par che detraano alla divina bontà e all’eccellenza di questo grande animale4 e simulacro del primo principio quelli che non vogliono intendere né affirmare il mondo con gli suoi membri essere animato, come Dio avesse invidia alla sua imagine, come l’architetto non amasse l’opra sua singulare; di cui dice Platone, che si compiacque nell’opificio suo, per la sua similitudine che remirò in quello. E certo che cosa può più bella di questo universo presentarsi agli occhi della divinità? ed essendo che quello consta di sue parti, a quali di esse si deve più attribuire che al principio formale? Lascio a meglio e più particolar discorso mille raggioni naturali oltre questa topicale o logica5. DICSONO Non mi curo che vi sforziate in ciò, 2. Dicson richiede ulteriori chiarimenti circa una distinzione stabilita in precedenza da Teofilo. Ciò che produce qualche cosa può essere inteso o come principio o come causa di ciò che viene prodotto: il principio è intrinseco, immanente al proprio effetto, mentre la causa è estrinseca, trascendente, esterna all’effetto. Ora Dicson chiede come l’anima del mondo possa comportarsi in questo modo nei confronti degli enti naturali: come possa essere loro principio e loro causa nello stesso tempo, oppure come possa essere intrinseca e non estrinseca a essi. 3. Teofilo risponde con una similitudine. L’anima del mondo è paragonabile al timoniere di una nave: in quanto il timoniere si muove insieme alla nave fa parte di essa (le è intrinseco),
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atteso6 non è filosofo di qualche riputazione, anco tra’ peripatetici, che non voglia il mondo e le sue sfere essere in qualche modo animate. Vorei ora intendere, con che modo volete da questa forma venga ad insinuarsi alla materia de l’universo7. TEOFILO Se gli gionge di maniera che la natura del corpo, la quale secondo sé non è bella, per quanto è capace viene a farsi partecipe di bellezza, atteso che non è bellezza se non consiste in qualche specie o forma, non è forma alcuna che non sia prodotta da l’anima8. DICSONO Mi par udir cosa molto nova: volete forse che non solo la forma de l’universo, ma tutte quante le forme di cose naturali siano anima? TEOFILO Sì. DICSONO Sono dunque tutte le cose animate? TEOFILO Sì. DICSONO Or chi vi accordarà questo? TEOFILO Or chi potrà riprovarlo con raggione? DICSONO È comune senso che non tutte le cose vivono. TEOFILO Il senso più comune non è il più vero. DICSONO Credo facilmente che questo si può difendere. Ma non bastarà a far una cosa vera perché la si possa difendere, atteso che bisogna che si possa anco provare. [...]
ma in quanto la dirige agisce dall’esterno su di essa, come una causa efficiente. Analogamente l’anima del mondo, in quanto è forma degli enti naturali, è intrinseca a essi e quindi è principio, mentre in quanto ne regola la vita è causa efficiente ed è estrinseca. 4. Per animale si intende un essere animato: vuole dire che l’universo deve essere concepito come un grande essere animato. 5. L’universo è immagine (simulacro) di Dio (primo principio). Chi nega che esso sia animato sembra affermare che Dio abbia voluto sminuire la propria immagine, quasi per invidia di essa. La bellezza dell’universo risiede in ciò che più lo rende simile a Dio, cioè nella sua animazione e quindi nella sua forma,
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che è l’anima del mondo. Molti argomenti desunti dall’osservazione della natura possono suffragare questo argomento logico, che Bruno definisce anche topico, equiparando l’intera logica a quella sua parte specifica che è la topica (cioè la ricerca degli argomenti). 6. Sta per «atteso che»: poiché, dal momento che. 7. Dicson chiede in quale modo la forma dell’universo, cioè l’anima del mondo, si unisca alla materia dell’universo. 8. La materia si unisce alla forma così come il corpo, che di per sé non è bello, si unisce alla bellezza e partecipa di essa, divenendo bello (la bellezza stessa è forma); e tutte le forme sono prodotte dall’anima del mondo.
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TEOFILO Or quali son queste cose, che non sono animate, o non son parte di cose animate? DICSONO Vi par che ne abbiamo poche avanti gli occhi? Tutte le cose che non hanno vita. TEOFILO E quali son le cose che non hanno vita, almeno principio vitale? DICSONO Per conchiuderla, volete voi che non sia cosa che non abbia anima, e che non abbia principio vitale? TEOFILO Questo è quel ch’io voglio al fine. [...] Dico dunque, che la tavola come tavola non è animata, né la veste, né il cuoio come cuoio, né il vetro come vetro; ma, come cose naturali e composte, hanno in sé parte di sustanza spirituale; la quale, se trova il soggetto disposto, si stende ad esser pianta, ad esser animale, e riceve membri di qualsivoglia corpo che comunemente se dice animato: perché spirto si trova in tutte le cose, e non è minimo corpuscolo che non contegna cotal porzione in sé che non inanimi9. [...] Se dunque il spirto, la anima, la vita si ritrova in tutte le cose e, secondo certi gradi, empie tutta la materia; viene certamente ad essere il vero atto e la vera forma de tutte le cose. L’anima, dunque, del mondo è il principio formale constitutivo de l’universo e di ciò che in quello si contiene. Dico che, se la vita si trova in tutte le cose, l’anima viene ad esser forma di tutte le cose: quella per tutto è presidente alla materia e signoreggia nelli composti, effettua la composizione e consistenzia de le parti10. E però la persistenza non meno par che si convegna a
9. Gli oggetti materiali di per se stessi non sono animati, ma in quanto sono composti di materia e forma hanno in sé l’anima (che è la forma). Quindi ogni ente naturale, che è così composto, ha in sé, in misura maggiore o minore, un principio spirituale che, se incontra una materia opportunamente disposta, dà origine a un vegetale o a un essere animato in senso proprio. 10. Se la vita è presente ovunque, l’anima del mondo è insieme forma dell’universo e dei singoli enti, regolan-
cotal forma, che a la materia11. Questa intendo essere una di tutte le cose; la qual però, secondo la diversità delle disposizioni della materia e secondo la facultà de’ principii materiali attivi e passivi, viene a produr diverse figurazioni, ed effettuar diverse facultadi, alle volte mostrando effetto di vita senza senso, talvolta effetto di vita e senso senza intelletto, talvolta par ch’abbia tutte le facultadi suppresse e reprimute o dalla imbecillità o da altra raggione de la materia. Cossì, mutando questa forma sedie e vicissitudine, è impossibile che se annulle, perché non è meno subsistente la sustanza spirituale che la materiale. Dunque le formi esteriori sole si cangiano e si annullano ancora, perché non sono cose ma de le cose, non sono sustanze, ma de le sustanze sono accidenti e circostanze12. [...] Dunque abbiamo un principio intrinseco formale, eterno e subsistente, incomparabilmente megliore di quello ch’han finto gli sofisti che versano13 circa gli accidenti, ignoranti della sustanza de le cose, e che vengono a ponere le sustanze corrottibili, perché quello chiamano massimamente, primamente e principalmente sustanza, che resulta da la composizione; il che non è altro ch’uno accidente, che non contiene in sé nulla stabilità e verità, e se risolve in nulla. Dicono quello esser veramente omo che resulta dalla composizione; quello essere veramente anima che è o perfezione ed atto di corpo vivente, o pur cosa che resulta da certa simmetria di complessione e membri. Onde non è maraviglia se fanno tanto e prendono tanto spavento per la morte e dissoluzione, come quelli a’ quali è imminente la iattura
do la materia nell’unirsi a essa per dare origine ai corpi composti. 11. L’eterno perdurare è proprio sia della forma (anima del mondo) sia della materia. 12. Così come è unica la forma (l’anima del mondo che produce tutte le forme possibili), allo stesso modo è unica la materia. Essa può però assumere disposizioni differenti e dare origine, nella sua unione con la forma, a enti differenti: enti dotati di vita e non di sensibilità (le piante), enti dotati di vita
e di sensibilità ma non di intelletto (le bestie), enti apparentemente privi di tutte le facoltà e tuttavia vitali, come è stato detto in precedenza a proposito dei minerali. La materia cambia il proprio aspetto esteriore, cioè modifica i propri accidenti, ma poiché è sostanza allo stesso titolo della sostanza spirituale (la forma o anima del mondo), di per sé è immutabile ed eterna. 13. Si affaticano intorno agli accidenti, prestano attenzione soltanto agli accidenti trascurando la sostanza.
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de l’essere. Contra la qual pazzia crida ad alte voci la natura, assicurandoci che non gli corpi né l’anima deve temer la morte, perché tanto la materia quanto la forma sono principii constantissimi14.
GUIDA ALLA LETTURA 1. Qual è il significato della similitudine fatta da Dicson tra l’anima del mondo e il timoniere di una nave?
2. A che cosa viene paragonato l’universo e perché? 3. Quali sono le caratteristiche della materia? 4. Chi sono i «sofisti» per Bruno e in che cosa si differenziano da lui?
14. Ancora una volta Bruno si rivolge contro i seguaci di Aristotele definiti sofisti. Essi considerano sostanza il singolo ente individuale composto di materia e forma, ma il singolo individuo è per Bruno un accidente, una manifestazione transitoria e dissolubile dell’esse-
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re: per questo egli dice che i sofisti parlano di sostanze corruttibili, il che è per lui un’assurdità. Bruno vede invece la sostanza, unica e incorruttibile, più che nell’unione, nell’identità di materia e di forma. I sofisti possono temere la morte perché, così come concepiscono
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l’unione, possono concepire la separazione di materia e forma; Bruno invece, al di là della transitorietà delle singole manifestazioni dell’essere, vede l’eternità della vita nell’indissolubilità della materia e della forma, che sono entrambe eterne.
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esercizi/2 CHE COSA SO?
CHE COSA HO CAPITO?
Completamento
Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe)
1. Completa il testo con le espressioni riportate di seguito in ordine alfabetico. Fai attenzione perché il numero delle parole proposte è superiore a quello necessario: agenti • analogamente • autonomia • caldo • essere percepiti • freddo • in funzione • internamente • materia • necessariamente • opera • percepire • princìpi • propria azione • regolarità • sentire Telesio sostiene che la natura deve essere studiata mediante …....................................... che ne regolano .......................................... i processi. Fra questi princìpi distingue quelli ....................................................., il ........................................ e il ..................................., che sono in grado di .............................................. e di ................................................. Il terzo, la ................... ..........................., rappresenta solo il principio su cui i primi due esercitano la ................................................ Dobbiamo presupporre ......................................... che la natura sia governata da tali princìpi perché essa non è ........................................ dell’uomo, come sostenevano i filosofi aristotelici, ma ha una ............................................ che deriva dal suo essere .......................................... diretta di Dio che, creato il mondo, garantisce la .......................................... delle leggi che determinano l’azione dei princìpi fondamentali della natura. Dizionario filosofico 2. Definisci i seguenti concetti: sostanza (Telesio) • infinito (Bruno) • anima del mondo (Bruno) • eroico furore (Bruno) • unità della natura (Campanella) • primalità dell’essere (Campanella)
esercizi/2
3. Quali caratteri deve avere, secondo Erasmo, la conoscenza del mondo antico? 4. Quale tesi sostiene Tommaso Moro in Utopia? 5. In che cosa consiste lo scetticismo di Montaigne? 6. In che senso, secondo Pomponazzi, Dio è causa di tutto ciò che avviene? 7. Come avviene, secondo Telesio, il processo della conoscenza? 8. Perché la filosofia della natura di Bruno può essere intesa come una forma di panteismo e di panenteismo? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 9. Illustra analogie e differenze tra la tesi dell’unità della sostanza, secondo Telesio, e dell’unità dell’essere, secondo Bruno. 10. Dio, secondo Bruno, è presente nell’intero universo. Quali sono le conseguenze di questa affermazione? Da quale tradizione di pensiero egli ricava questa concezione dell’universo? 11. Qual è il significato del mito di Diana e Atteone, raccontato da Bruno per spiegare la dottrina dell’eroico furore? 12. Illustra le caratteristiche della Città del sole immaginata da Campanella. Perché in essa emancipazione politica e programma pedagogico vanno di pari passo?
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tesi contro le indulgenze. Lutero è soprattutto autore di opere teoriche in cui pone i fondamenti della nuova fede riformata. Sviluppando il pensiero di Agostino, egli sostiene che il peccato originale ha reso l’uomo incapace di compiere il bene. Il solo mezzo che l’uomo ha per salvarsi è la fede in Cristo (dottrina della giustificazione per fede). Tanto le opere buone quanto i sacramenti sono inefficaci a produrre un effetto salvifico. Corrotto nella ragione oltreché nel cuore, l’uomo non può conoscere Dio con i propri mezzi, ma deve affidarsi alla lettura individuale della Scrittura, unico veicolo della rivelazione divina. la riforma in svizzera: zwingli e calvino
3. riforma e politica nel cinquecento i contenuti la crisi della chiesa
Nel corso del Quattrocento si assiste in Europa a una profonda crisi religiosa. La causa principale di essa è il comportamento della Chiesa che, allontanandosi sempre più dai precetti evangelici, pecca di lassismo morale e di venalità (basti pensare alla vendita delle indulgenze). Ciò provoca un movimento di rivolta contro la Chiesa di Roma, particolarmente violento in Germania. Mentre la Francia e l’Inghilterra avevano dato
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vita a potenti Chiese nazionali, la costituzionale debolezza politica del Sacro Romano impero germanico esponeva i territori tedeschi all’influenza e alla rapacità di Roma. Questo movimento prende il nome di Riforma, per indicare l’esigenza di rinnovamento della Chiesa da cui è ispirato. la riforma in germania: lutero
La Riforma protestante è avviata da Martin Lutero nel 1517 con le 95
3. riforma e politica nel cinquecento
Un altro importante centro di diffusione della Riforma fu la Svizzera, soprattutto a Zurigo, dove operò Ulrich Zwingli, e a Ginevra, patria di Giovanni Calvino. Rispetto a Lutero, Calvino sviluppò gli aspetti predeterministici del protestantesimo, radicalizzandoli nella dottrina della doppia predestinazione. In base a essa, un’imperscrutabile decisione di Dio ha destinato alcuni alla salvezza, altri alla dannazione. Per Calvino – come per Zwingli – le opere buone, inefficaci per modificare la predestinazione divina, sono tuttavia segni distintivi della fede. Ciò porta a una rivalutazione delle attività professionali, che la nascente borghesia urbana interpreta come un segno della benedizione divina. il pensiero politico in italia e in francia
Il Cinquecento vede la formulazione di alcune tra le più importanti dottrine politiche dell’Età moderna. In Italia, dove il principato aveva ormai preso il posto della signoria, Niccolò Machiavelli nel Principe affermava l’autonomia della politica rispetto alla morale e alla religione. Il fine fondamentale del principe deve essere la conservazione dello Stato, da attuarsi attraverso valutazioni di
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convenienza tra mezzi e fini (realismo politico). In Francia, dove si stava consolidando la monarchia nazionale, Jean Bodin perfezionava la concezione moderna della
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sovranità dello Stato, intesa come indipendenza da qualsiasi potere superiore, con le sole eccezioni della legge divina e della legge naturale. Solo il sovrano, inoltre, può considerarsi esonerato (in
latino ab-solutus significa «sciolto») dall’obbedienza alle leggi civili e religiose. La nozione di sovranità starà alla base di tutte le concezioni moderne dello Stato.
gli strumenti in poche… parole arbitrio / giustificazione / predestinazione / virtù e fortuna / ragion di Stato / sovranità
i testi a. nel manuale t6 Lutero/La fede e la Scrittura t7 Machiavelli/La tecnica della politica
b. on-line Calvino/La predestinazione divina Lutero/L’autorità civile Bodin/La sovranità
approfondimento Riforma e pensiero politico
esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?
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1. La crisi della Chiesa e della teologia dispute teologiche e lassismo della chiesa romana
Nell’arco del Quattrocento si assiste in Europa a una profonda crisi della teologia scolastica. Le dispute tra le scuole – tomisti, scotisti, occamisti – oltre a frammentare l’unità del pensiero teologico europeo, gli conferiscono un carattere sempre più accademico e scolastico. Per questa ragione, i temi di discussione e le categorie concettuali con cui vengono affrontati appaiono lontani dalla vita religiosa concreta. La frattura tra comuni fedeli, da un lato, e uomini di chiesa e teologi, dall’altro, è del resto resa più acuta dal lassismo morale dilagante nel clero. Le conseguenze più vistose di questa situazione sono la degenerazione dei costumi all’interno della Chiesa e lo sfruttamento da parte della gerarchia ecclesiastica del potere spirituale a fini di lucro. Le tasse che la Chiesa di Roma impone a mezza Europa e la scandalosa vendita delle indulgenze sono i fenomeni più appariscenti di questa crisi.
il ritorno al cristianesimo delle origini
In molte parti d’Europa si fa strada l’esigenza di un radicale rinnovamento dei costumi morali e religiosi della Chiesa, ossia di una riforma che riconduca il mondo cristiano alla purezza delle sue origini. Già si è visto come Erasmo da Rotterdam avesse promosso un ritorno alle origini del cristianesimo [cfr. 2.1], ricorrendo agli strumenti offerti dalla filologia. Erasmo intendeva, infatti, recuperare il significato originale delle Scritture e, nello stesso tempo, rivalutare l’ideale di semplicità, di sincerità e di carità che aveva animato le prime comunità cristiane. Nella direzione indicata da Erasmo, si muove negli stessi anni il movimento della devotio moderna, nel quale si leggeva direttamente la Bibbia e si tentava di applicare alla vita quotidiana i princìpi in essa contenuti. Uno degli esempi più celebri di questo nuovo atteggiamento è contenuto nel libro l’Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis. Si tratta di un libro di meditazione evangelica ed edificazione personale che, anche nei secoli successivi, costituirà un termine di riferimento fondamentale per la vita interiore del devoto.
la riforma nasce in germania
L’esigenza di rinnovamento e, insieme, l’insofferenza per la Chiesa di Roma erano particolarmente forti nell’area tedesca. Infatti, l’Inghilterra e la Francia, divenute grandi Stati nazionali, avevano dato vita – seppure in forme diverse – a Chiese nazionali capaci di difendere i propri fedeli dall’avidità del clero romano. La Germania, invece, più delle altre nazioni settentrionali, era oggetto di pressioni da parte della Chiesa di Roma a causa dell’ormai secolare debolezza politica dell’impero romano-germanico. Dal punto di vista spirituale, inoltre, l’inaridimento della teologia e l’esteriorità della politica religiosa della Chiesa lasciavano inappagata la tendenza alla religiosità interiore propria dei tedeschi. In Germania, dunque, più che altrove, il terreno era fertile per la nascita di una radicale riforma del cristianesimo.
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2. Lutero In Germania la Riforma protestante fu avviata da Martin Lutero (14831546), un monaco agostiniano formatosi attraverso la lettura di Agostino, di san Paolo e dei mistici del XIV secolo. Nel 1517 affisse sulla porta del duomo di Wittenberg le famose 95 tesi contro le indulgenze, che rappresentano l’inizio della sua ribellione alla Chiesa di Roma. Tra le sue opere, scritte parte in tedesco, parte in latino, occorre ricordare: la Lezione sull’Epistola ai Romani (1515), Delle buone opere (1520), De Captivitate babylonica Ecclesiae preludium (1520), De libertate christiana (1520), De servo arbitrio (1525), scritto in polemica con il De libero arbitrio di Erasmo (1524). In conformità con il diritto al libero esame della Scrittura da lui teorizzato, Lutero tradusse la Bibbia in tedesco.
la vita e le opere
Il presupposto fondamentale del pensiero religioso di Lutero è la radicale peccaminosità dell’uomo. A suo avviso, l’uomo dopo avere commesso il peccato originale non è più in grado di compiere il bene: anche le azioni che esteriormente sembrano buone sono in realtà motivate da ipocrisia, calcolo, oppure orgoglio. Ispirandosi a un passo dell’Epistola ai Romani – in cui Paolo dice che «il giusto vivrà per fede» – Lutero sostiene che la fede è il solo mezzo a disposizione dell’uomo per salvarsi. L’ingresso nella fede coincide, per Lutero, con la venuta di Cristo in noi. Soltanto credendo in Cristo, infatti, si può ottenere che egli assuma su di sé i nostri peccati e «ci rivesta» della sua giustizia. In tal senso possiamo apparire «giusti» a Dio, non perché siamo noi stessi giusti, ma perché Dio attribuisce a noi la giustizia di Cristo. In questo processo di giustificazione, quindi, tutto viene da Cristo: l’uomo non ha meriti. Essendo irrimediabilmente peccatore, infatti, l’uomo non può uscire dal suo stato di peccato. A differenza degli umanisti in generale – e di Erasmo da Rotterdam, in particolare – Lutero avanza la tesi del servo arbitrio contro quella del libero arbitrio. In base a essa, la volontà umana è necessariamente «serva» del peccato.
il peccato originale e il servo arbitrio
Dalla concezione della fede avanzata da Lutero deriva l’idea che le opere non possono condurre alla salvezza. Esse, d’altra parte, non sono del tutto inutili: se non può essere giusto davanti a Dio, l’uomo è comunque tenuto a esserlo dinanzi agli uomini. Per Lutero, non solo le opere ma anche i sacramenti sono inefficaci in vista della salvezza. A questo proposito, è importante ricordare come egli svaluti il sacramento principale – l’Eucarestia – negando la reale transustanziazione del pane e del vino nel corpo e nel sangue di Cristo. L’unica vera presenza di Cristo in noi è data dall’atto con cui egli ci «afferra» e ci «abbraccia» attraverso la fede. La giustificazione per mezzo della fede (e quindi di Cristo) è, per Lutero, l’inizio di un processo di santificazione che conduce alla salvezza eterna. Nessun individuo, però, può sapere se in lui sia in atto questo processo di giustificazione-santificazione. Nessuno, infatti, può sapere se le opere buone che compie siano il frutto della presenza di Cristo in lui, o invece una manifestazione di orgoglio, un frutto del peccato originario. Con la dottrina della predestinazione , Lutero vuol sottolineare che la salvezza dell’uo-
la fede in cristo ci rende giusti
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mo non dipende dai suoi comportamenti meritori, ma è il risultato di un’imperscrutabile decisione di Dio. il libero esame delle scritture
Come la natura umana – corrotta dal peccato – è incapace di compiere il bene, così la ragione dell’uomo – oscurata dall’errore – non è in grado di conoscere la verità. A essa spetta soltanto una funzione pratica, di orientamento nel mondo. Lutero nega, quindi, ogni valore alla teologia razionale e ritiene che la verità consista esclusivamente nella rivelazione attraverso la Scrittura. Per Lutero, la Bibbia è chiara di per sé e non ha bisogno di alcun interprete ufficiale per essere intesa. In tal senso, ciascuno ha diritto al libero esame della parola di Dio, senza la mediazione della Chiesa. Ma quali sono gli effetti del principio del libero esame? Secondo Lutero, il diritto al libero esame svincola il fedele dall’autorità della Chiesa, ma non comporta né un riconoscimento delle sue capacità razionali, né una rivalutazione dell’individuo. Il principio dell’esame individuale non significa, infatti, che ciascuno è legittimato a interpretare il testo sacro come vuole, ma solamente che la Scrittura si rivela da sé. Ancora una volta, l’atteggiamento dell’uomo dev’essere semplicemente ricettivo: egli può soltanto aprirsi alla Scrittura, così come deve aprirsi a Cristo e alla fede [t6].
3. Zwingli e Calvino In Svizzera, la riforma luterana fu ripresa con alcune correzioni da Zwingli e da Calvino. la salvezza dipende da dio
Ulrich Zwingli (1484-1531) fu attivo soprattutto a Zurigo. Egli condivide con Lutero il convincimento che l’uomo non ha alcuna parte attiva nel processo di salvazione. Ciò significa che la salvezza viene soltanto da Dio e che l’uomo dipende interamente da lui. Vicino all’ambiente umanistico, Zwingli si serve della dottrina neoplatonica dell’unicità dell’essere – esposta nel De ente et uno di Pico della Mirandola – per spiegare questa convinzione. In base a essa, Dio è l’Uno-Tutto, da cui tutto dipende. Rispetto a Lutero, quindi, Zwingli accentua ancora di più l’elemento della predestinazione. Diversamente da quanto sosteneva Lutero, invece, Zwingli ritiene che Dio si riveli all’uomo sia attraverso la Scrittura sia per mezzo della ragione umana. La Scrittura perde così il monopolio dell’azione rivelatrice di Dio e viene accostata all’illuminazione diretta dell’uomo da parte di Dio. In tal modo, anche il processo che conduce alla salvezza non avviene esclusivamente attraverso la Scrittura, ma è opera diretta di Dio. La fede donata da Dio si traduce nelle buone opere, che ne sono un segno distintivo.
la doppia predestinazione
Giovanni Calvino (1509-1564) opera nell’ambiente ginevrino. È autore di una vasta opera teologica intitolata Instauratio religionis christianae (1536). Da Lutero Calvino mutua soprattutto due princìpi: quello della giustificazione per fede e quello della funzione esclusiva della Scrittura nel processo di giustificazione. Come Zwingli, inoltre, egli ribadisce la centralità della predestinazione, rispetto alla quale Lutero aveva assunto un atteggiamento più moderato.
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Ma in che cosa consiste, per Calvino, la predestinazione? Egli recupera la dottrina luterana della predestinazione degli eletti e la trasforma nella dottrina della doppia predestinazione. In base a essa, Dio ha da sempre destinato alcuni alla salvezza, altri alla dannazione. La Scrittura può, infatti, operare in due modi: o può essere semplicemente ascoltata dall’uomo, senza produrre una reale redenzione, oppure può essere guidata dallo Spirito Santo e diventare principio di salvezza per colui che la riceve. Che ruolo abbia la Scrittura per ciascun individuo, tuttavia, è stato deciso in eterno dalla volontà divina: Non saremo mai così chiaramente persuasi come è richiesto che la fonte della nostra salvezza è la misericordia gratuita di Dio, finché la sua elezione eterna non ci sia anch’essa chiara; poiché essa è come un termine di paragone per valutare la grazia di Dio, in quanto egli non adotta indifferentemente tutti nella speranza della salvezza, ma dà agli uni quel che nega agli altri. Ognuno è in grado di vedere quanto l’ignorare questa verità sminuisca la gloria di Dio, e quanto allontani dalla vera umiltà il non porre tutta la causa della nostra salvezza in Dio soltanto. [...] Il Signore dunque sceglie per figli suoi quelli che elegge, e decide di essere un padre per loro; chiamandoli li introduce nella sua famiglia, e si congiunge ed unisce ad essi, perché diventino come una sola persona. Ora la Scrittura, congiungendo in tal modo la vocazione con l’elezione, dimostra che non bisogna cercare ad essa altra spiegazione all’infuori della misericordia gratuita di Dio. Se chiediamo chi egli chiama e per quale motivo, essa risponde: coloro che ha scelti (Calvino, Istituzione della religione cristiana, libro III, cap. XXI).
Sebbene a nessuno sia concesso conoscere in anticipo la decisione di Dio, Calvino – d’accordo con Zwingli – ritiene che le opere buone possano essere un indizio dell’elezione divina. In altri termini, le opere buone – anche se non conducono alla salvezza l’uomo che le fa – indicano che egli è stato scelto da Dio per svolgere un determinato compito nel mondo . Da questa dottrina di Calvino trasse origine una profonda rivalutazione dell’attività professionale dell’uomo. Infatti, l’allora nascente borghesia applicò il principio del valore indiziario delle opere alle diverse attività economiche, vedendo nel successo a cui esse conducevano un segno della benedizione divina.
APPROFONDIMENTO
Riforma e pensiero politico
I pensatori che aderiscono alla Riforma mostrano una forte attenzione non soltanto verso gli aspetti religiosi della vita umana, ma anche verso quelli politici. La radicale peccaminosità dell’uomo – conseguenza del peccato originale – rende difficile la convivenza tra gli uomini e richiede l’esistenza di un’autorità secolare che
alef
il valore indiziario delle opere buone
Calvino La predestinazione divina
costringa gli individui alla pace e all’ordine. Soltanto un’autorità di questo tipo, infatti, può garantire all’umanità le condizioni di vivibilità che le permettono di arrivare al giorno del giudizio universale, punto focale della concezione religiosa protestante. L’apprezzamento dell’ordine civile
in funzione dell’escatologia – comune a molti pensatori riformati – risente della riflessione eticopolitica di Agostino. Infatti, Agostino ritiene che l’impero romano sia lo strumento di cui Dio si serve per permettere la «peregrinazione» dell’umanità fino alla seconda venuta di Cristo. Secondo questa prospettiva, il potere poli-
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tico è un «male necessario» per ottenere le finalità della religione e trova la propria legittimazione nella Bibbia e nella volontà di Dio. Il pensiero politico dei Riformatori – seppure in maniere differenti – affronta altri due problemi: da un lato, quello del rapporto tra potere spirituale e potere temporale e, dall’altro, quello del rapporto tra sovrano e sudditi. Nel luteranesimo il potere politico – anche se opera in accordo con le finalità religiose – acquista una sostanziale autonomia rispetto a quello religioso. La sua funzione, infatti, è completamente diversa da quella del potere spirituale, che riguarda la predicazione della parola di Dio. Per i luterani, tuttavia, questo processo di autonomizzazione del potere politico da quello religioso è accom-
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pagnato dal riconoscimento dell’origine divina dell’autorità politica. Il rafforzamento del potere politico avviene, pertanto, in due modi: da un lato, i governi tedeschi che si ispirano ai princìpi di Lutero tendono sempre più all’assolutismo; dall’altro, i sudditi perdono qualsiasi diritto di ribellione e di resistenza al sovrano. L’obbedienza all’autorità – assoluta perché deriva da Dio – è uno dei doveri del buon cristiano: questi deve essere, al tempo stesso, suddito fedele (come vuole il comandamento divino) e promotore della Bibbia. È quindi legittimo, da parte del sovrano, reprimere con la violenza ogni tentativo insurrezionale . Di segno opposto è la posizione politica del calvinismo. Per Calvino, infatti, la funzione repressiva del potere politico riceve la sua
legittimazione dalla religione. Per questa ragione, il potere politico deve essere sottoposto all’autorità spirituale. Sotto l’influenza di Calvino, l’organizzazione politica di Ginevra assume la forma di una teocrazia, improntata alla più rigida intolleranza religiosa. Se per Lutero il potere politico deve semplicemente mantenere l’ordine e la pace interna ed esterna, per Calvino il principe deve instaurare l’ordine politico e sociale che meglio si adegua alla volontà divina. D’altra parte, la negazione dell’indipendenza del potere politico da quello religioso porta con sé un’importante conseguenza. In base a essa, infatti, i sudditi possono legittimamente ribellarsi al sovrano se egli esercita arbitrariamente il potere e non ne fa il braccio secolare della volontà di Dio.
4. Il pensiero politico in Italia
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dai comuni ai principati
La riflessione politica nel Cinquecento conobbe un grande sviluppo, anche indipendentemente dalla Riforma, soprattutto in Italia e in Francia. La condizione politica che, in Italia, fa da sfondo a questo sviluppo è la trasformazione della signoria in principato tra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento. Rispetto al comune, la signoria era caratterizzata dalla concentrazione del potere nelle mani di una sola persona o di un unico gruppo di persone. Al pari del comune da cui nasceva, invece, la signoria era un fenomeno cittadino: anche quando il signore estendeva il suo potere su più città, l’unione di queste ultime in un unico insieme aveva carattere puramente personale. A differenza della signoria, il principato segna il riconoscimento del potere esercitato da uno solo, o da pochi, su un intero territorio. Questo può coincidere con la regione circostante la città o l’area geografica che unisce le diverse città su cui si estende il potere personale del principe. Nasce così la nozione moderna di Stato, che Machiavelli è tra i primi a usare in questo senso. Con tale nozione si vuole indicare un territorio sul quale viene esercitato un potere sovrano – ovvero non dipendente da altri, come prevedeva invece lo schema gerarchico feudale – concentrato nelle mani di una sola autorità politica.
la «verità effettuale» di machiavelli
Ma quali dovevano essere le regole per reggere lo Stato e per conservarlo? L’illustrazione di tali regole è quanto si propone il De principatibus (1513) di Machiavelli, meglio noto come Il principe (titolo del resto linguisticamente 3. riforma e politica nel cinquecento
Lutero L’autorità civile
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più appropriato, visto che l’opera è scritta in italiano). Niccolò Machiavelli (1469-1527) ebbe una formazione di tipo umanistico, ma si dedicò soprattutto all’attività politica, svolgendo la funzione di segretario della Cancelleria della Repubblica fiorentina. Il fine fondamentale del principe è, secondo Machiavelli, la conservazione dello Stato e del proprio potere. Per ottenere questo scopo egli deve servirsi dei mezzi più opportuni, ricorrendo anche alle «medicine forti» – quali lo spergiuro, la violenza e l’uccisione – quando esse si rendano necessarie. Il presupposto teorico fondamentale di Machiavelli è, infatti, il realismo politico: egli si prefigge di cogliere la «verità effettuale» delle cose e di trarne le dovute decisioni in vista della conservazione dello Stato. Machiavelli considera lo Stato come un organismo naturale: la sua buona o cattiva salute dipende in gran parte dal rispetto o meno delle regole inscritte nella sua stessa natura. Conseguenza di questo presupposto è l’affermazione dell’autonomia della politica dalla morale e dalla teologia: quando si tratta di conservare lo Stato o di guarirlo dalle sue malattie politiche, non serve né essere buoni né confidare in Dio, ma occorre scegliere i mezzi più adatti per conseguire lo scopo voluto. La virtù che Machiavelli richiede al principe – o a cui vuole educarlo – non è la virtù morale, ma il valore (virtus in latino) di chi sa destreggiarsi in frangenti mutevoli, sapendo piegarli all’unico scopo della conservazione dello Stato e del proprio potere. Per Machiavelli, la realtà politica in cui il principe agisce è retta dalla fortuna , ovvero dal caso. La virtù e la fortuna si dividono a metà il campo dell’azione politica: con la prima l’uomo non può far fronte completamente alla seconda, ma può prevenirne le avversità adeguandosi nel miglior modo possibile al corso degli eventi [t7].
la virtù del principe e la fortuna
Non solo la virtù e la fortuna entrano in gioco nell’azione politica del principe, ma anche un terzo elemento: si tratta della necessità con cui gli Stati – come organismi naturali – obbediscono alle leggi che determinano il loro benessere e la loro decadenza. Tale elemento, se ben sfruttato, diventa uno strumento della virtù; se sottovalutato, può trasformarsi in fortuna avversa e portare lo Stato alla rovina.
la storia degli stati
L’elemento della necessità naturale ritorna anche nell’altra opera di Machiavelli, I discorsi sulla prima deca di Tito Livio, scritta – sembra – in parte prima e in parte dopo Il principe. Il suo oggetto di studio non è più il principato, ma la repubblica. Dopo il fallimento della Repubblica fiorentina e il ritorno dei Medici, Machiavelli si interroga sulla natura di questa istituzione e su quale sia il migliore ordinamento politico. Per far questo egli risale alle origini delle società politiche e vede scorrere le diverse forme di governo – monarchia, aristocrazia, democrazia – in un ciclo necessario. In base a questa concezione, derivata dagli storici antichi (in particolare, da Polibio), a ciascuna forma di governo segue la propria degenerazione – tirannide, oligarchia, oclocrazia – per ricominciare poi con il ciclo successivo. Per uscire da questa successione circolare Machiavelli propone il modello di costituzione mista realizzato dalla Repubblica romana. In essa sono rappresentati insieme tutti e tre gli
l’ordinamento politico migliore
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ordini che nelle forme pure della monarchia, della aristocrazia e della democrazia compaiono separatamente: il principe, gli ottimati e il popolo. historia magistra vitae
Nell’opera menzionata, dunque, Machiavelli mostra di attribuire una grande importanza allo studio della storia; chiunque si cimenti nell’attività politica non può fare a meno di conoscerla approfonditamente, altrimenti corre il rischio di compiere delle scelte sbagliate, incappando negli stessi errori del passato: Le leggi civili non sono altro che sentenzie date dagli antichi iureconsulti, le quali, ridotte in ordine, a’ presenti nostri iureconsulti giudicare insegnano; né ancora la medicina è altro che esperienza fatta dagli antichi medici, sopra la quale fondano i medici presenti i loro giudicii. Nondimeno nello ordinare le repubbliche, nel mantenere gli stati, nel governare i regni, nello ordinare la milizia e nel amministrare le guerre, nel giudicare i sudditi, nello accrescere lo imperio, non si truova principe né repubblica né capitano né cittadino che agli exempli degli antichi ricorra. Il che mi persuado che nasca non tanto da la deboleza nella quale la presente educazione ha condotto il mondo, o da quel male che uno ambizioso ozio ha fatto a molte provincie e città cristiane, quanto da non avere vera cognizione de le istorie; per non trarne, leggendole, quel senso né gustare di loro quel sapore che le hanno in sé (Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, Proemio).
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guicciardini e l’attenzione per il particolare
Atteggiamento diverso assume, invece, Francesco Guicciardini (1483-1540). Storico di professione oltreché uomo politico, se non fu originale come Machiavelli nella teoria politica, ebbe invece un più profondo senso della storia. Nei suoi Ricordi politici e civili (1527-1530), egli mette in guardia dall’usare il passato come modello per il presente. A suo parere, infatti, ogni situazione è storicamente condizionata e non può essere imitata al di fuori del contesto in cui è sorta. Al carattere ciclico della concezione storica di Machiavelli egli oppone, pertanto, la necessità di prendere in considerazione il carattere particolare di ciascuna realtà storica.
botero e la nozione di «ragion di stato»
Avversario e insieme seguace di Machiavelli è invece il gesuita piemontese Giovanni Botero (1544-1617), la cui opera fondamentale è Della ragion di Stato (1589). Contro il fiorentino, Botero sostiene che la politica non è indipendente dalla morale. Quando tra di esse nasce un conflitto occorre, secondo Botero, trovare una mediazione che lo componga: è questa la ragion di Stato. D’accordo con Machiavelli, tuttavia, egli afferma che l’obiettivo fondamentale dello Stato è la sicurezza. Schietto sapore machiavelliano hanno i mezzi che egli indica per conseguire questo scopo: virtù politica, fortificazioni del territorio, intrighi contro i nemici, economia fiorente, guerra condotta con decisione. Forse per questo l’espressione «ragion di Stato» verrà conservata nel vocabolario politico posteriore con un significato opposto a quello attribuitole da Botero. Essa indicherà infatti le ragioni che lo Stato fa valere in vista della propria conservazione e affermazione, spesso in contrasto con le esigenze della morale.
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5. Bodin Mentre in Italia tra Quattro e Cinquecento si assiste alla formazione di piccoli Stati territoriali (o principati), in Francia esisteva già un governo monarchico che si estendeva su tutto il territorio nazionale. Con gli ultimi Valois, tuttavia, la solidità della monarchia francese era stata fortemente compromessa, soprattutto a causa delle divisioni tra cattolici e protestanti. Nel Cinquecento Enrico IV di Borbone procedette a una vasta opera di consolidamento dell’istituto monarchico. Egli, infatti, si preoccupò di rafforzare l’autorità del re contro le pretese degli Stati Generali, della nobiltà o delle forze democratico-repubblicane di ispirazione calvinista. Durante il regno di Enrico IV, la Francia fu il teatro dell’affermazione di una potente monarchia assoluta.
la francia nel cinquecento
Gli sviluppi assolutistici della monarchia francese trovarono il consenso di alcuni scrittori di formazione giuridica. Il più rilevante di essi, dal punto di vista concettuale, è sicuramente Jean Bodin (1530-1596), autore di un famoso trattato – Sei libri sullo Stato (1576) – poi diffuso anche in latino (1586). L’opera si apre con una celebre definizione dello Stato (ma Bodin usa ancora l’espressione république, nel senso latino di res publica): «Per Stato si intende il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune tra loro». Il nucleo fondamentale dello Stato è dunque la famiglia, a capo della quale vi è il pater familias. La patria potestas esercitata da quest’ultimo è il modello dell’autorità politica che risiede nel capo dello Stato. Accanto alla famiglia, vi sono i cittadini (citoyens). Essi sono dei «liberi sudditi» caratterizzati dall’obbedienza assoluta alla legge e, al tempo stesso, dal diritto di conservare la libertà personale e la proprietà (in opposizione allo schiavo).
bodin e la definizione dello stato
L’elemento più nuovo di questa definizione dello Stato è il concetto di sovranità , attraverso il quale Bodin influì notevolmente sul pensiero politico successivo. La sovranità è definita da due elementi fondamentali. In primo luogo, essa è perpetua, ovvero non può essere limitata nel tempo, come avviene per le deleghe di potere che possono sempre essere ritirate dal delegante. In secondo luogo, essa è assoluta, ovvero non sottoposta ad alcun potere superiore eccetto quello divino (si tratta del principio del superiorem non recognoscens). Le sole leggi che vincolano l’autorità del sovrano sono quella divina e quella naturale, espressione anch’essa della volontà di Dio. Il sovrano, invece, non è tenuto ad alcuna obbedienza verso le leggi civili: può disattenderle o modificarle sia nel caso che siano promulgate da lui stesso sia nel caso che vengano ereditate dai suoi predecessori. La sovranità si estende ovviamente anche alla materia religiosa. Secondo Bodin, infatti, solo sottomettendole all’autorità politica unitaria da cui dipendono, è possibile rappacificare le diverse confessioni religiose .
i caratteri essenziali della sovranità
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Bodin La sovranità
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in poche... parole A partire dalla seconda metà del Quattrocento si assiste in Europa non solo ad una profonda crisi della teologia scolastica, dovuta alle continue dispute dottrinali tra i discepoli di Tommaso, di Duns Scoto e di Ockham, ma anche ad un crollo di consenso nei confronti delle istituzioni ecclesiastiche romane, sempre più lontane dai fedeli perché intente a gestire il loro potere spirituale a fini di lucro. Il lassismo e la corruzione della Chiesa provocarono in Germania e in Svizzera la nascita della Riforma protestante, i cui principali fautori furono Lutero, Zwingli e Calvino. Pur nella diversità di alcune loro posizioni specifiche, essi perseguirono il ritorno alla purezza del cristianesimo delle origini, proseguendo sulla strada già indicata dall’umanista Erasmo da Rotterdam. I presupposti fondamentali del loro pensiero religioso sono: a) il peso assai rilevante attribuito al peccato originale (che avrebbe indebolito una volta per tutte la capacità dell’uomo di fare il bene); b) la dottrina della giustificazione per fede (e non tramite i sacramenti amministrati dal sacerdote o le opere buone compiute dal fedele); c) la credenza nella predestinazione; d) la rivelazione attraverso la Bibbia e il diritto al libero esame delle Sacre Scritture.
arbitrio Dal latino arbitrium, «giudizio arbitrale», indica ciò che decide nelle situazioni controverse, che presentano un’alternativa. Il «libero arbitrio» è la capacità di scegliere liberamente tra due o più azioni possibili. A esso viene contrapposto da Lutero il «servo arbitrio», sulla base dell’assunto che gli uomini sono completamente determinati nelle loro azioni dalla loro natura corrotta. La possibilità di compiere il bene, dunque, può venire solo dalla grazia divina. 54
giustificazione In senso teologico, è l’atto con il quale Dio – concedendo all’uomo la sua grazia – lo rende giusto dinanzi a sé. In altre parole, la giustificazione è l’atto con il quale l’uomo passa dalla condizione di peccatore a quella di «giusto» o santo. È un concetto fondamentale del protestantesimo. predestinazione Nella tradizione cristiana indica la decisione in virtù della quale Dio determina liberamente dall’eternità chi sarà eletto, ossia prescelto per la salvezza eterna. Nella tradizione protestante (soprattutto in Calvino) si parla di doppia predestinazione: non solo alla salvezza, ma anche alla dannazione. Nel Cinquecento, anche indipendentemente dalla Riforma protestante, la riflessione politica conobbe un grande sviluppo, specialmente in Italia e in Francia. In Italia, si assiste alla transizione dalle signorie ai principati: si tratta di una nuova forma di potere politico – non soggetto ad altre autorità – esercitato da uno solo, o da pochi, su un intero territorio. A gettare le basi per lo studio della nascente nozione di Stato moderno e a fornire delle riflessioni rilevanti sulle caratteristiche e sulla conservazione del potere politico furono Machiavelli, Guicciardini e Botero. Il primo teorizza l’autonomia della politica dalla morale e, dopo il fallimento della Repubblica fiorentina, indica nell’antica Repubblica romana – caratterizzata da una costituzione mista – la forma di governo ideale. Il secondo ribadisce la necessità di prendere in considerazione il carattere particolare di ogni realtà storica, contro la concezione ciclica della storia e delle forme politiche formulata da Machia-
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velli. Il terzo, in polemica con Machiavelli, elabora la nozione di «ragion di Stato», intesa come necessaria mediazione tra le esigenze della politica e della morale. Mentre in Italia si assiste alla formazione dei principati, la Francia era già da tempo una monarchia nazionale e unitaria, sebbene scossa dai contrasti tra cattolici e protestanti. Sotto il regno di Enrico IV, fautore di un rafforzamento del potere monarchico in senso assolutistico, si fa strada la riflessione del giurista Jean Bodin, noto per avere cercato di definire i concetti di Stato e di sovranità.
virtù e fortuna Secondo Niccolò Machiavelli, la virtù è la dote più importante richiesta al principe: essa consiste nella capacità di non subire passivamente la fortuna, ma di dominarla. Il termine virtù è adottato da Machiavelli nel senso di virtus («valore»): è la capacità di mettere in atto il proprio volere, indipendentemente da fini morali o religiosi, con l’unico scopo di conservare lo Stato e il potere. La fortuna corrisponde al caso, ovvero all’insieme di condizioni oggettive e di frangenti mutevoli in cui l’uomo si trova ad operare. Attraverso la virtù, il principe non può certo neutralizzare la fortuna, ma può prevenirne le avversità, adeguandosi al corso degli eventi. L’azione politica del principe deve scaturire pertanto da una sapiente mediazione tra la virtù e la fortuna, e deve tenere conto anche di un terzo elemento: la necessità storica con cui gli Stati – quasi fossero degli organismi viventi – nascono, fioriscono e decadono. La conoscenza dei cicli storici può essere messa al servizio della virtù del principe e divenire un prezioso strumento di controllo della fortuna; al contrario, la loro ignoranza può tradursi in una sorte avversa e determinare la rovina dello Stato.
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ragion di Stato Nella sua opera più famosa, intitolata Della ragion di Stato (1589), Giovanni Botero intende indicare la norma assoluta a cui deve sottostare l’azione del principe, stabilendo – in disaccordo con Machiavelli – la dipendenza della politica dalla morale. Botero, infatti, indica nei precetti della religione e nella «giurisdizione della coscienza» i limiti morali che devono ispirare la condotta del principe. Allo stesso tempo, tuttavia, sostiene che l’obiettivo fondamentale dello Stato è la sicurezza e che il principe è legittimato a perseguire questo scopo anche con i mezzi più spregiudicati: la virtù politica, le fortificazioni del territorio, gli intrighi contro i nemici, l’economia fiorente, la guerra. La nozione di «ragion di Stato» viene, pertanto, originariamente intesa da Botero come la mediazione attuata con prudenza dal principe tra le esigenze della politica e della morale con il solo scopo di conservare lo Stato, ma finisce per essere
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ricordata nel vocabolario politico posteriore con un significato opposto. Con essa, infatti, si è soliti indicare le ragioni e le azioni che lo Stato fa valere in vista della propria affermazione e del proprio ampliamento, spesso legittimando l’uso della forza e il perseguimento del proprio interesse, indipendentemente dai limiti imposti della morale.
sovranità Nei Sei libri sullo Stato
(1576), il giurista francese Jean Bodin offre una celebre definizione dello Stato (che chiama ancora république, nel senso latino di res publica): «Per Stato si intende il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune tra loro». Il potere del sovrano riguarda ciò che le famiglie hanno messo in comune ed è concepito in analogia con quello del pater familias; esso non si estende, pertanto, a ciò che costituisce il possesso privato dei «liberi sud-
diti» (chiamati da Bodin «cittadini»). Questi ultimi, da una parte, sono tenuti al rispetto assoluto della legge; dall’altra, hanno il diritto di conservare la libertà personale e la proprietà. Come si vede, la definizione dello Stato è direttamente connessa con la nozione di sovranità, intesa da Bodin come «quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato». La sovranità è perpetua, in quanto non è limitata nel tempo; è assoluta, in quanto non è sottoposta a nessun’altra autorità, eccetto quella di Dio. Per Bodin, la sovranità consiste anzitutto nel potere di fare le leggi, in quanto esso comprende tutte le altre prerogative del sovrano (ad esempio, decidere la pace e la guerra, imporre le tasse, ecc.). Essendone egli stesso il fautore, il sovrano non è vincolato dalle leggi civili, che può modificare e sospendere in qualunque momento, ma solo dalla legge divina e naturale, espressione anch’essa della volontà divina.
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i testi t6 Lutero / La fede e la Scrittura Lutero
Della libertà del Cristiano
artt. VII-X
Della libertà del Cristiano venne composta nel 1520, quando si stava ormai consumando la scissione con la Chiesa di Roma: la Bolla papale contro Lutero arrivò a Wittenberg il 3 ottobre dello stesso anno. Nello scritto sono esposti con chiarezza alcuni concetti fondamentali del luteranesimo: la giustificazione per sola fede, la funzione salvifica della Scrittura, il rapporto tra fede, Cristo e la Scrittura. Dei trenta articoli di cui si compone l’opera, sono qui riportati quelli che si riferiscono al problema del rapporto fra fede e opere.
VII. Dunque è cosa retta per ogni cristiano, nelle opere e nell’attività, che esso si conformi alla Parola di Dio ed a Cristo ed eserciti e fortifichi in sé tale sua fede1. Infatti nessun’altra opera può compiere il cristiano, come disse Cristo agli Ebrei (Joh. VI, 28 sgg.) quando l’interrogavano su quali opere compiere onde far opera divina e cristiana: «Questa è l’unica opera divina, che voi crediate in coloro che Dio vi ha mandato». E costoro Iddio Padre soltanto per ciò li ha eletti2. […] VIII. Ma come può avvenire che la sola fede renda giusti e pii e, senza bisogno di tutte le opere, conceda una sovrabbondante ricchezza, mentre tanti comandamenti, leggi, opere e modi di vivere ci sono prescritti nella S. Scrittura? È necessario qui osservare con cura e ritenere con fermez1. La salvezza dell’uomo può avvenire
per Lutero soltanto attraverso la fede (sola fide). Ciò significa che essa può venire soltanto dalla grazia divina (sola gratia) e in virtù dell’opera redentrice di Cristo che prende il posto del singolo peccatore (solo Christo). Ma il mezzo concreto attraverso cui Dio comunica la sua grazia, Cristo «abbraccia» il peccatore e quest’ultimo si apre alla fede, è la Scrittura. Contrariamente a Zwingli, che parlerà di illuminazione interiore da parte di Dio, Lutero ritiene che la fede possa sopraggiungere solo dall’esterno, attraverso la oggettiva mediazione dei testi sacri. Ecco perché la Scrittura appare come il cardine della vita del fedele. Essa non è soltanto un libro sapienziale o rivelativo, che dice
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za che la sola fede, senza le opere, ci rende pii, giusti e beati, come per l’innanzi sentiremo. Ed è necessario sapere che tutta la S. Scrittura può venir divisa in due insegnamenti che sono: comandamento o legge di Dio, e promessa o impegno3. I comandamenti ci insegnano e ci pongono dinanzi ogni sorta di buone opere, ma non per questo esse si realizzano. Essi additano bensì, ma non aiutano; ammaestrano su quel che si deve compiere, ma non concedono le forze a ciò necessarie. Per la qual cosa sono preordinati solamente affinché l’uomo riconosca da essi la propria impotenza al bene e da essi impari a disperare di se stesso. Perciò appunto son chiamati Vecchio Testamento, ed al Vecchio Testamento appartengono, perché il comandamento: «Non desiderare il male» (Ex. XX, 17) dimostra
agli uomini che cosa Dio si attende da loro. È lo strumento concreto della redenzione: in essa vi è realmente Cristo, che deve assumere su di sé i peccati del singolo uomo. 2. In conseguenza della sua peccaminosità, l’uomo può operare solo il male, anche se le sue azioni possono avere l’apparenza del bene. Viene quindi esclusa l’efficacia salvifica delle opere. L’unica opera buona è la fede, la quale tuttavia non dipende dall’uomo, ma è un dono della grazia divina. 3. La Scrittura si compone di due parti, che hanno due funzioni diverse. Da un lato, vi è la legge, contenuta nell’Antico Testamento, che comanda all’uomo non perché questi, ubbidendo a essa, possa salvarsi, ma soltanto perché, ve-
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dendo la sua incapacità di ottemperarla adeguatamente, egli conosca la sua miseria e il suo peccato. Il luteranesimo è sotto questo aspetto una prospettiva religiosa profondamente pessimistica. D’altro lato, vi è il Vangelo, la Buona Novella annunciata dal Nuovo Testamento, la possibilità della redenzione operata da Cristo. Ma per Lutero questa redenzione non è universale, non cancella e nemmeno attenua le conseguenze del peccato originale per tutti gli uomini, ma opera solo negli individui che hanno fede, perché l’hanno ricevuta gratuitamente da Dio. Il correttivo evangelico del pessimismo implicato dalla legge ha quindi esso stesso un carattere solo molto limitatamente ottimistico.
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che noi tutti siamo peccatori, e che nessun uomo può esser privo di desideri malvagi, qualunque cosa faccia; però da quel comandamento impara a disperare di se stesso ed a cercare aiuto altrove4, per liberarsi dai desideri malvagi e adempiere così al comandamento con l’aiuto d’un altro, poiché da se medesimo non ne ha il potere; perciò dunque tutti i comandamenti sono per noi impossibili ad adempiersi. IX. Dopo che l’uomo ha appreso e sentito per mezzo dei comandamenti la sua impotenza, viene colto dall’angoscia5 pensando come adempiere bastevolmente ad essi; essi infatti debbono venire adempiuti: diversamente egli sarà dannato; egli allora è fieramente sconfortato ed è divenuto un niente ai propri occhi, perché nulla trova in sé per cui farsi pio. È allora che subentra l’altra Parola, la promessa divina, e dice: Se vuoi adempiere ai comandamenti ed esser libero dai desideri malvagi e dal peccato, come impongono ed esigono i comandamenti, ecco, credi in Cristo, nel quale io ti prometto ogni grazia, giustizia, pace e libertà, e se credi le otterrai, e se non credi non le otterrai. Ciò che non ti è concesso con tutte le opere della legge, che sono molte e tuttavia a nulla ti giovano, ti sarà invece facile ed immediato con la fede6. Infatti io ho riposto tutto nella fede, cosicché chi la possiede possiederà 4. Presso Dio, presso Cristo. 5. Nel luteranesimo, come già prima
nella tradizione agostiniana, l’angoscia non è soltanto una componente psicologica, ma una vera e propria dimensione religiosa, indispensabile per avere piena coscienza del proprio peccato. 6. Questo passo sembra riservare all’uomo la possibilità di salvare se stesso, decidendo di credere. Ma questa decisione è impossibile: la fede vera, quella che comporta l’essere «afferra-
tutte le cose e sarà beato, ma chi non la possiede non avrà niente. Dunque la promessa divina concede tutto ciò che i comandamenti esigono, e adempie a ciò che in essi è scritto, perché ambedue provengono da Dio, e comandamento e esecuzione, ed Egli solo può comandare, ed Egli solo può adempiere. Per questo la promessa di Dio è la Parola del Nuovo Testamento e ad esso appartiene. X. [...] Vediamo dunque che per un cristiano è sufficiente la fede e non necessitano più le opere buone per essere pio; e se non abbisogna più di buone opere è senza dubbio dispensato e sciolto da tutti i comandamenti e le leggi; e se ne è sciolto, egli è libero7. Questa è dunque la libertà del cristiano, la nostra fede, la quale fa non che viviamo oziosi o commettiamo il male, bensì che non abbisognamo di buone opere per raggiungere la pietà e la beatitudine. GUIDA ALLA LETTURA 1. Questo testo ruota attorno ad alcune parolechiave: «fede», «salvezza», «libertà». Quale senso assumono nel discorso di Lutero? 2. L’osservanza dei comandamenti può, secondo Lutero, condurre a un miglioramento della natura umana? 3. Che cosa permette all’uomo di raggiungere la pietà e la beatitudine?
ti» da Cristo e l’essere giustificati per i propri peccati in virtù della sua giustizia, può venire solo da Dio che predestina coloro che saranno eletti e coloro che saranno dannati. La dottrina della predestinazione, tuttavia, in Lutero non è così accentuata come sarà in Calvino. 7. Si noti come nella prospettiva luterana della «libertà del cristiano» non si dia mai la volontaria esecuzione della legge da parte dell’uomo. Se l’uomo non è salvato dalla fede, non può ot-
temperare alla legge, poiché la sua volontà è corrotta. Se egli invece è giustificato da Cristo e dalla fede, non ha più bisogno della legge, perché in lui si attua ormai la realizzazione spontanea di essa (per cui non è più legge). La funzione della legge, quindi, come si è visto prima, è solo quella di mostrare all’uomo la sua incapacità morale di eseguirla.
t7 Machiavelli / La tecnica della politica Machiavelli
Il principe
capp. XV, XVII-XVIII, XXV
«Se Il principe non è per niente affatto un trattato di morale o pedagogico, non ne segue che, per questa ragione, sia un libro immorale. Entrambi i giudizi sarebbero egualmente errati. Il principe non è né un libro morale, né un libro immorale: è semplicemente un libro tecnico. In un libro tecnico non andiamo certo a cercare norme
i testi
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di condotta etica, del bene e del male. Basta che ci venga detto ciò che è utile o inutile. Ogni parola del Principe dev’essere letta e interpretata in questo modo». Tale giudizio di Ernst Cassirer ci può dare la misura per valutare i consigli che Machiavelli dà al principe nella sua opera più nota. Di tali consigli ne riportiamo alcuni relativi a come «debbano essere e’ modi e governi di uno principe con sudditi o con gli amici», e altri pertinenti a come egli si debba comportare per far fronte alla fortuna.
Di quelle cose per le quali li uomini, e specialmente i principi, sono laudati o vituperati Resta ora a vedere quali debbano essere e’ modi e governi di uno principe con sudditi o con gli amici. E perché io so che molti di questo hanno scritto, dubito, scrivendone ancora io, non esser tenuto prosuntuoso, partendomi massime, nel disputare questa materia, dagli ordini degli altri1. Ma sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono imaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero; perché egli è tanto discosto2 da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare impara piuttosto la ruina che la preservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene rovini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la necessità. Lasciando, adunque, indrieto le cose circa uno principe imaginate, e discorrendo quelle che sono vere, dico che tutti gli uomini, quando se ne parla, e massime e’ principi, per essere posti più alti, sono notati3 di alcune di queste qualità che arrecano loro o biasimo o laude. E questo è che alcuno è tenuto liberale, alcuno misero (usando uno termine toscano, perché avaro in nostra lingua è ancora colui che per 1. Machiavelli, che si riferisce qui pole-
micamente alla letteratura medievale e umanistica, nella quale prevaleva la dimensione morale dell’educazione del principe, è consapevole di battere vie nuove con la sua precettistica pura-
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rapina desidera di avere, misero chiamiamo noi quello che si astiene troppo di usare il suo); alcuno è tenuto donatore, alcuno rapace; alcuno crudele, alcuno pietoso; l’uno fedifrago, l’altro fedele; l’uno effeminato e pusillanime, l’altro feroce e animoso; l’uno umano, l’altro superbo; l’uno lascivo, l’altro casto; l’uno intero, l’altro astuto; l’uno duro, l’altro facile; l’uno grave, l’altro leggieri; l’uno religioso, l’altro incredulo, e simili. E io so che ciascuno confesserà che sarebbe laudabilissima cosa in uno principe trovarsi, di tutte le soprascritte qualità, quelle che sono tenute buone; ma perché le non si possono avere né internamente osservare, per le condizioni umane che non lo consentono, gli è necessario essere tanto prudente che sappia fuggire l’infamia4 di quelli vizii che li torrebbano lo stato, e da quelli che non gnene tolgano, guardarsi, se egli è possibile; ma, non possendo, vi si può con meno respetto5 lasciare andare. Et etiam non si curi di incorrere nella infamia di quelli vizii sanza quali e’ possa difficilmente salvare lo stato; perché, se si considerrà bene tutto, si troverrà qualche cosa che parrà virtù, e, seguendola, sarebbe la ruina sua; e qualcuna altra che parrà vizio, e, seguendola, ne riesce la securtà e il bene essere suo. [...] Della crudeltà e pietà e s’elli è meglio esser amato che temuto, o più tosto temuto che amato Scendendo appresso alle altre preallegate qualità6, dico che ciascuno principe debbe deside-
mente utilitaristica e funzionale alla «verità effettuale». 2. Egli è tanto discosto: c’è molta diversità. 3. Notati: giudicati. 4. Infamia: cattiva fama.
3. riforma e politica nel cinquecento
5. Meno respetto: senza darvi eccessi-
va importanza.
6. Quelle elencate nella parte prece-
dente del brano. Per esigenze di brevità abbiamo omesso il capitolo dedicato alla liberalità e alla parsimonia.
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rare di essere tenuto pietoso e non crudele: nondimanco debbe avvertire di non usare male questa pietà7. Era tenuto Cesare Borgia crudele; nondimanco quella sua crudeltà aveva racconcia la Romagna, unitola, ridottola in pace e in fede. Il che se si considerrà bene, si vedrà quello essere stato molto più pietoso che il populo fiorentino, il quale, per fuggire el nome del crudele, lasciò destruggere Pistoia8. Debbe pertanto, uno principe non si curare della infamia di crudele, per tenere li sudditi suoi uniti e in fede; perché, con pochissimi esempli, sarà più pietoso che quelli e’ quali, per troppa pietà, lasciono seguire e’ disordini, di che ne nasca occisioni o rapine; perché queste sogliono offendere una universalità intera, e quelle esecuzioni che vengono dal principe offendono uno particulare. E intra tutti e’ principi, al principe nuovo è impossibile fuggire el nome del crudele, per essere li stati nuovi pieni di periculi. [...] Nondimanco, debbe esser grave al credere9 e al muoversi, né si fare paura da se stesso; e procedere in modo temperato con prudenzia e umanità, che la troppa confidenzia non lo facci incauto e la troppa diffidenzia non lo renda intollerabile. Nasce da questo una disputa: s’egli è meglio essere amato che temuto, o e converso. Rispondesi che si vorrebbe essere l’uno e l’altro; ma perché egli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbia a mancare dell’uno de’ dua. Perché degli uomini si può dire questo generalmente: che siano ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori, fuggitori de’ pericoli, cupidi di 7. Il modo di procedere di Machiavelli
è ricorrente. Certo è meglio aver fama di avere le qualità che generalmente si ritengono positive (qui la pietà, altrove la liberalità, ecc.). Ma se queste divengono pericolose per la sicurezza propria e dello Stato, allora è meglio rivelare quelle che generalmente vengono dette negative (la crudeltà, l’avarizia). Alla luce dei risultati lo stesso giudizio altrui si capovolgerà, e ciò che prima appariva crudeltà (o avarizia, ecc.) si rivelerà essere, nella sostanza, pietà (o liberalità), e viceversa. 8. I fiorentini erano intervenuti per se-
guadagno; e mentre fai loro bene, sono tutti tua, òfferonti el sangue, la roba, la vita, e’ figliuoli, come di sopra dissi, quando il bisogno è discosto; ma, quando ti si appressa, e’ si rivoltano10. E quel principe che si è tutto fondato in sulle parole loro, trovandosi nudo di altre preparazioni, rovina; perché le amicizie che si acquistano col prezzo, e non con grandezza e nobiltà di animo, si meritano, ma le non si hanno, e a’ tempi non si possono spendere11. E gli uomini hanno meno l’amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere gli uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto; ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai12. [...] In che modo e’ principi abbino a mantenere la fede Quanto sia laudabile in uno principe mantenere la fede e vivere con integrità e non con astuzia, ciascuno lo intende; nondimanco si vede, per esperienza ne’ nostri tempi, quelli principi avere fatto gran cose, che della fede hanno tenuto poco conto, e che hanno saputo con l’astuzia aggirare e’ cervelli degli uomini; e alla fine hanno superato quelli che si sono fondati in sulla lealtà. Dovete, adunque, sapere come sono dua generazioni13 di combattere: l’uno con le leggi, l’altro con la forza: quel primo è proprio dello uomo, quel secondo è delle bestie: ma perché el primo molte volte non basta, conviene ricorrere al secondo. Pertanto, a uno principe è necessario sapere bene usare la bestia e l’uomo14. Questa parte è suta insegnata a’ principi copertamene dagli antichi scrittori; li quali scrivono come Achille e molti altri di quelli principi an-
dare le lotte fra fazioni a Pistoia, tentando una conciliazione amichevole, che fallì. In seguito, essi furono pertanto costretti ad arrestare i capi delle fazioni, provocando nuovi tumulti. 9. Essere grave al credere: non credere troppo facilmente, non essere ingenuo. 10. Ritorna sempre il pessimismo di Machiavelli sulla natura umana. Cfr. anche Discorsi, I, 3: «è necessario a chi dispone una repubblica ed ordina leggi in quella, presupporre tutti gli huomini rei, e che li abbino sempre a usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione».
11. Cioè: le amicizie fondate su un interesse venale si possono acquistare (si meritano), ma non costituiscono uno stabile possesso, per cui nel momento del bisogno vengono meno. 12. L’amore è un’obbligazione morale (vinculo di obligo), che non è rispettata dagli uomini, per natura malvagi (tristi); il timore, viceversa, si fonda sulla paura di una punizione certa e non viene meno. 13. Generazioni: generi, modi. 14. Usare il modo di combattere della bestia (la forza) e quello dell’uomo (le leggi).
i testi
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tichi furono dati a nutrire a Chirone centauro, che sotto la sua disciplina li custodissi. Il che non vuol dire altro, avere per precettore uno mezzo bestia e mezzo uomo, se non che bisogna a uno principe sapere usare l’una e l’altra natura; e l’una sanza l’altra non è durabile. Sendo, dunque, uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione; perché il lione non si difende da’ lacci15, la golpe non si difende da’ lupi. Bisogna, adunque, essere golpe a conoscere e’ lacci, e lione a sbigottire e’ lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. Non può, pertanto, uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale osservanza li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono promettere. E, se gli uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono; ma perché sono tristi, e non la osservarebbono a te, tu etiam non l’hai ad osservare a loro. Né mai a uno principe mancarono cagioni legittime di colorire la inosservanzia. Di questo se ne potrebbe dare infiniti esempli moderni e mostrare quante paci, quante promesse sono state fatte irrite e vane per la infidelità de’ principi: e quello che ha saputo meglio usare la golpe, è meglio capitato. Ma è necessario questa natura saperla bene colorire, ed essere gran simulatore e dissimulatore: e sono tanto semplici gli uomini, e tanto obediscano alle necessità presenti, che colui che inganna, troverrà sempre chi si lascerà ingannare. [...] Quanto possa la Fortuna nelle cose umane, et in che modo se li abbia a resistere E’ non mi è incognito come molti hanno avuto e hanno opinione che le cose del mondo sieno in modo governate dalla fortuna e da Dio, che gli uomini con la prudenzia loro non possino correggerle, anzi non vi abbino remedio alcuno; e per questo potrebbono iudicare che non fussi da insudare molto nelle cose16, ma lasciar15. Lacci: trappole (le insidie dell’astu-
zia).
16. Cioè: che non bisogna darsi troppo da fare nelle cose. 17. Nei Discorsi Machiavelli fa nettamente prevalere la forza della fortuna,
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si governare alla sorte. Questa opinione è suta più creduta ne’ nostri tempi, per la variazione grande delle cose che si sono viste e veggonsi ogni dì, fuora di ogni umana coniettura. A che pensando, io, qualche volta, mi sono in qualche parte inclinato nella opinione loro. Nondimanco, perché il nostro libero arbitrio non sia spento, iudico potere essere vero che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che etiam lei ne lasci governare l’altra metà, o presso, a noi. E assomiglio quella a uno di questi fiumi rovinosi, che, quando s’adirano, allagano e’ piani, ruinano gli alberi e gli edifizii, lievono da questa parte terreno, pongono da quell’altra; ciascuno fugge loro dinanzi, ognuno cede allo impeto loro, sanza potervi in alcuna parte obstare. E benché sieno così fatti, non resta però che gli uomini, quando sono tempi quieti, non vi potessino fare provvedimenti, e con ripari e argini, in modo che, crescendo poi, o egli andrebbano per uno canale, o l’impeto loro non sarebbe né sì licenzioso né sì dannoso. Similmente interviene della fortuna; la quale dimostra la sua potenzia dove non è ordinata virtù a resisterle; e quivi volta li sua impeti dove la sa che non sono fatti gli argini e li ripari a tenerla17. E se voi considerrete l’Italia, che è la sedia18 di queste variazioni e quella che ha dato loro il moto, vedrete essere una campagna sanza argini e sanza alcuno riparo: ché, s’ella fussi reparata da conveniente virtù, come la Magna19, la Spagna e la Francia, o questa piena non arebbe fatte le variazioni grandi che ha, o la non ci sarebbe venuta. GUIDA ALLA LETTURA 1. Per rispondere a quali esigenze Machiavelli ha scritto il Principe? 2. Evidenzia le espressioni del testo che motivano l’idea dell’autonomia della politica dalla morale. 3. Che rapporto c’è, secondo Machiavelli, tra virtù e fortuna?
limitando all’assecondamento di questa la libertà d’azione umana: «gli uomini possono secondare la fortuna e non opporsegli, possono tessere gli orditi suoi e non romperli». 18. La sedia: la sede in cui i rivolgi-
3. riforma e politica nel cinquecento
menti della fortuna si sono manifestati in maniera più evidente. Subito dopo spiega il perché: l’Italia non ha avuto una virtù sufficiente ad arginare la fortuna. 19. La Magna: l’Alemagna, la Germania.
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esercizi/3 CHE COSA SO?
8. Perché, secondo Calvino, la predestinazione dell’uomo è duplice?
Guida allo studio del manuale
9. Con quali tesi Machiavelli sostiene che la politica è autonoma dalla morale?
1. Evidenzia perché la riforma del cristianesimo trova un terreno fertile in Germania. 2. Evidenzia la posizione di Lutero nei confronti dell’autorità della Chiesa. 3. Evidenzia i modi in cui, secondo Zwingli, Dio si rivela all’uomo. 4. Evidenzia le caratteristiche della nozione moderna di Stato, che Machiavelli è tra i primi ad usare. 5. Evidenzia la definizione di Stato formulata da Bodin. Dizionario filosofico
10. Qual è la forma di governo migliore, secondo Machiavelli? 11. Perché, secondo Bodin, lo Stato è «sovrano»? E quali conseguenze ne ricava? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 12. Illustra la concezione calvinista della predestinazione evidenziando i motivi per cui essa può presentarsi come rivalutazione dell’attività professionale dell’uomo.
6. Definisci i seguenti concetti:
13. Illustra che cosa intende Lutero per rivelazione attraverso la Scrittura e diritto al libero esame.
giustificazione per fede (Lutero) • servo arbitrio (Lutero) • realismo politico (Machiavelli) • ragion di Stato (Botero) • sovranità (Bodin)
14. Illustra gli elementi che entrano in gioco nell’azione politica del principe, secondo Machiavelli.
CHE COSA HO CAPITO?
15. Che rapporto deve intercorrere tra potere spirituale e potere temporale secondo coloro che seguono gli insegnamenti di Lutero e di Calvino? E tra il sovrano e i sudditi?
Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe)
16. Ricostruisci l’argomentazione con cui Bodin sostiene la tesi che l’uomo è «libero suddito» nello Stato.
7. Perché, secondo Lutero, la fede è il solo mezzo di salvezza per l’uomo?
esercizi/3
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dei pianeti non sono sfere cristalline fatte di etere, ma traiettorie ideali e immateriali; Keplero formula le tre leggi che riguardano la forma ellittica delle orbite dei pianeti e la loro velocità di rivoluzione attorno al Sole; Galileo – attraverso l’esplorazione del cielo – cerca le evidenze osservative con cui sostenere il copernicanesimo e mette in crisi il principio aristotelico della differenza di natura tra il mondo sublunare e quello sopralunare. galilei: il rapporto tra fede e scienza
4. il pensiero scientifico nel cinquecento e nel seicento i contenuti la nascita della scienza moderna
Tra Cinquecento e Seicento si attua una grande rivoluzione scientifica grazie alla quale la scienza afferma la propria autonomia dalla tradizione filosofica aristotelicoscolastica. Abbandonando completamente il tentativo aristotelico di individuare le «forme» della realtà, la scienza moderna si propone di determinare quantitativamente i fenomeni naturali attraverso il calcolo matematico. Rifiutando ogni spiegazione di tipo finalistico, essa connette i fenomeni in base al
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rapporto causa-effetto, che richiede di essere confermato per mezzo dell’esperimento. i protagonisti della rivoluzione astronomica
La rivoluzione scientifica prende avvio con la rivoluzione astronomica, che rappresenta uno degli avvenimenti culturali più importanti di questo periodo. Il passaggio dalla cosmologia aristotelico-tolemaica alla nuova immagine dell’universo si deve a numerosi scienziati e astronomi: Copernico recupera la tesi dell’eliocentrismo, sebbene come mera ipotesi matematica per semplificare il calcolo dei moti celesti; Brahe sostiene che le orbite
4. il pensiero scientifico nel cinquecento e nel seicento
Galileo Galilei è lo scienziato che, più di ogni altro, ha contribuito alla riformulazione delle basi metodologiche della scienza moderna. Le sue innovazioni non interessano soltanto l’ambito tecnico-scientifico, ma hanno anche importanti risvolti filosofici. Galilei, infatti, ridimensiona notevolmente l’influenza del pensiero aristotelico sulla filosofia moderna e, allo stesso tempo, definisce in modo nuovo il rapporto tra filosofia e scienza, da un lato, e filosofia e religione, dall’altro. In particolare, contro l’autorità della Scrittura, egli sostiene che la natura e i testi sacri sono due fonti diverse di rivelazione divina. Nella Scrittura Dio si rivolge a tutti gli uomini, servendosi del loro linguaggio per impartire gli insegnamenti necessari alla loro salvezza. La natura è, invece, un libro scritto da Dio nel linguaggio della matematica. il metodo scientifico
L’analisi matematica deve essere utilizzata per determinare le connessioni causali che spiegano i rapporti tra i fenomeni. Per far ciò, secondo Galilei, bisogna ricorrere al metodo sperimentale, articolato nelle fasi dell’osservazione della natura, della formulazione dell’ipotesi e della sperimentazione. le scoperte fisiche
Applicando questo metodo, Galilei giunge alla scoperta delle due
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prime leggi della dinamica: 1) il principio di inerzia, in base al quale un corpo in movimento tende a conservare la direzione di moto e la velocità; 2) la legge della caduta dei gravi, in base a cui la velocità di caduta è proporzionale non alla massa dei corpi, ma al tempo di caduta. le scoperte astronomiche
Utilizzando il cannocchiale, Galilei scopre le macchie solari e le irregolarità della superficie lunare e mette in crisi la distinzione aristotelica tra le sostanze terrestri, soggette a mutamento e corruttibili, e una sostanza celeste immutabile e incorruttibile. Nello stesso tempo, egli si esprime a favore dell’ipotesi eliocentrica copernicana, considerata come descrizione della reale costituzione dell’universo, dimostrando l’esistenza di differenti fasi di Venere e tentando, seppure in modo inadeguato, una verifica sperimentale della sua teoria delle maree. La scoperta della Via Lattea, infine, mette in discussione l’esistenza del cielo delle stelle fisse, posto da Aristotele come ultimo cielo che segna i confini
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dell’universo. Al sostegno della tesi copernicana sono in gran parte legate le vicissitudini personali di Galilei, costretto all’abiura per difendersi dalla condanna dell’Inquisizione. bacone: il rapporto tra scienza e tecnica
Con Bacone, il modello di spiegazione delle cose in base alle loro qualità formali riprende il sopravvento su un’analisi esclusivamente matematicoquantitativa. Malgrado ciò, egli dà un importante contributo allo sviluppo della scienza moderna, proponendo un modello di sapere scientifico finalizzato al dominio della natura e quindi inseparabile dalla tecnica. Nello scritto La nuova Atlantide, Bacone disegna l’utopia di una società nella quale il potere politico sia detenuto da un gruppo di scienziati, che collaborano reciprocamente in vista del progresso scientifico e del bene dell’umanità.
tradizionali. In primo luogo, egli si sbarazza dei pregiudizi (fantasmi, idola) che impediscono la nuova prospettiva scientifica. Questi pregiudizi possono essere comuni a tutti gli uomini (idola tribus) o dipendere da elementi individuali (idola specus), oppure essere radicati nelle forme linguistiche (idola fori) o nelle tradizioni filosofiche (idola theatri). induzione ed esperimento
Bacone procede a una radicale riformulazione del metodo induttivo che consente di passare progressivamente dall’osservazione del particolare alla formulazione di verità universali. Le forme delle cose sono catalogabili secondo «tavole» che indicano le condizioni di presenza, di assenza o di variazione dei fenomeni. In base a questa raccolta di informazioni, è possibile procedere a una prima ipotesi che dovrà essere confermata con un esperimento (experimentum crucis).
l’eliminazione dei pregiudizi
Bacone procede a una radicale revisione dei metodi scientifici
gli strumenti in poche… parole scienza / meccanicismo / qualità oggettive e soggettive / ipotesi / esperimento / tecnica / deduzione / induzione
i testi a. nel manuale t8 Galilei/Filosofia e Scrittura t9 Galilei/Le qualità soggettive e oggettive t10 Bacone/La teoria degli idoli
b. on-line Galilei/Il cannocchiale Bacone/L’induzione Bacone/La forma delle cose
esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?
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1. I caratteri generali della «rivoluzione scientifica» dalla scienza degli antichi alla scienza dei moderni
Tra Cinquecento e Seicento si assiste in Europa a un rapido progresso delle scienze, che riguarda non soltanto l’acquisizione di singole conoscenze, ma anche lo stesso metodo scientifico. Da una scienza fortemente asservita alla tradizione filosofica aristotelico-scolastica si passa alla scienza moderna. Quest’ultima afferma progressivamente la propria autonomia dalla filosofia e dalla teologia ed elabora procedure metodologiche che la caratterizzano in maniera specifica. A questa grande trasformazione si suole dare il nome di rivoluzione scientifica. Ciò che soprattutto distingue la scienza moderna dall’attività scientifica esercitata nell’Antichità e nel Medioevo è il suo carattere quantitativo. La precedente tradizione scientifica, infatti, si proponeva – in accordo con la filosofia aristotelica – di cogliere la «forma» dei fenomeni e si esauriva pertanto in un’analisi qualitativa. Il nuovo metodo scientifico poggia, invece, sul presupposto che l’essenza delle cose non è conoscibile. La finalità della scienza moderna consiste, dunque, nell’indagare i rapporti tra le cose ed esprimerli attraverso una misurazione oggettiva e universalmente comunicabile. Per questo motivo, nella «nuova scienza» diventa indispensabile l’uso della matematica.
la misurazione matematica del mondo
Il riconoscimento dell’importanza della matematica non è certamente una novità dell’Età moderna. Nel mondo antico e medievale, tuttavia, questa disciplina era stata studiata soprattutto come scienza astratta e non veniva impiegata nell’analisi dei fenomeni naturali. In quei contesti culturali, essa serviva soprattutto a descrivere rapporti puramente ideali (come nella musica) o il comportamento di una sostanza incorruttibile e dotata di movimenti uniformi (come nell’astronomia aristotelica). Quando veniva applicata alla natura – come nelle scuole pitagorica e platonica – la matematica aveva la funzione di evidenziare la struttura soprasensibile del fenomeno naturale. Nella scienza moderna la matematica – anche grazie agli sviluppi dell’algebra – diventa, invece, uno strumento per quantificare i fenomeni naturali come oggetti specifici della ricerca scientifica, anche se l’uso della matematica da parte dei primi scienziati moderni – Galilei e soprattutto Keplero – presenta ancora residui di impostazione pitagorico-platonica.
la ricerca dei nessi di causa ed effetto
Nella tradizione aristotelica, l’analisi qualitativa della natura era strettamente connessa con la prospettiva finalistica. Il tramonto dell’una comporta, dunque, anche il declino dell’altra. Anziché in termini di «cause finali», la nuova scienza interpreta le connessioni tra i fenomeni come «cause efficienti» e meccaniche. Il meccanicismo naturale è, dunque, l’immediata conseguenza della quantificazione della scienza. In altri termini, la connessione necessaria con cui – in matematica – le diverse proposizioni geometriche, o le diverse operazioni algebriche, derivano le une dalle altre si riflette – in fisica – nella necessità con cui la causa è connessa con l’effetto.
la verifica sperimentale delle ipotesi
Nella scienza moderna, d’altra parte, la connessione tra causa ed effetto non viene determinata soltanto dallo strumento matematico, ma è sottoposta anche a verifica empirica. Accanto alla matematica, infatti, la sperimen-
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tazione è l’altro mezzo a cui i nuovi scienziati ricorrono metodicamente. L’esperimento – ossia la riproduzione artificiale di processi naturali – deve servirsi di strumenti di indagine e di misurazione (ad es. orologi, cannocchiali, telescopi, barometri) che consentano la massima osservabilità. Un’altra caratteristica della rivoluzione scientifica è che si stabilisce una stretta connessione tra scienza e tecnica. Ciò comporta due ordini di conseguenze: 1) il progresso scientifico dipende sempre più dal progresso tecnologico che mette a disposizione gli strumenti necessari alla ricerca; 2) aumenta la consapevolezza delle potenzialità pratiche del sapere scientifico, destinato a permettere un dominio sulla natura sempre più ampio.
la scienza, la tecnica e il controllo dei fenomeni naturali
2. Copernico La rivoluzione scientifica prende avvio con la «rivoluzione astronomica» attuatasi tra Cinquecento e Seicento: quest’ultima non consiste soltanto nell’applicazione del metodo matematico allo studio degli astri. I rapporti tra astronomia e matematica sono strettissimi sin dai tempi antichi: la concezione cosmologica di Aristotele – così a lungo tenuta per vera – si basava sul modello geometrico delle sfere omocentriche elaborato da Eudosso di Cnido (391-338 a.C.). La rivoluzione astronomica – tra i cui fautori occorre citare scienziati come Copernico, Keplero, Galileo, ma anche filosofi come Giordano Bruno – ha contribuito in modo determinante al passaggio dall’età antico-medievale a quella moderna, proprio perché ha portato al progressivo abbandono di alcune ipotesi sulla configurazione dell’universo per secoli considerate intoccabili, discostandosi nettamente dal comune modo di vedere o contestando l’autorità delle Scritture. Al polacco Nikolaus Koppernigk – latinizzato in Copernico (1473-1543) – spetta il merito di aver confutato, nel trattato De revolutionibus orbium coelestium (1534), la più importante di queste ipotesi: la centralità della Terra nell’universo.
la rivoluzione astronomica
Per comprendere la portata della cosiddetta «rivoluzione copernicana», occorre ricordare che le rappresentazioni astronomiche dell’universo formulate dall’Antichità al Rinascimento avevano avuto come modello il sistema tolemaico. Come abbiamo già visto [cfr. vol. I, p. 294], Claudio Tolomeo – vissuto nel II secolo d.C. – aveva fatto proprio il modello fisico aristotelico e raffigurato l’universo come un sistema finito, limitato dal cielo delle stelle fisse e avente al centro la Terra immobile. Nella sua concezione, i pianeti ruotano in orbite circolari attorno alla Terra con moti precisamente determinati. Per spiegare le irregolarità di alcuni moti celesti – ad esempio, il fatto che alcuni astri sembrano rallentare la loro corsa – Tolomeo era stato costretto a servirsi di correzioni matematico-astronomiche assai complicate, come le teorie degli «eccentrici», degli «epicicli», degli «equanti».
la cosmologia aristotelicotolemaica
La variazione più importante che Copernico apporta al sistema tolemaico è l’eliocentrismo. In base a esso, al centro dell’universo non vi è la Terra, ma il Sole. La Terra, dunque, gira attorno al Sole (con un moto di rivoluzione
l’eliocentrismo è un’ipotesi matematica
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che dura un anno) oltre a girare su se stessa (con un moto di rotazione che dura un giorno). La ragione per cui Copernico introduce la nuova teoria è, secondo la sua stessa affermazione, puramente metodologica. A suo avviso, infatti, l’ipotesi eliocentrica è molto più semplice dell’ipotesi tolemaica ed elimina non solo alcune difficoltà teoriche, ma anche i contrasti che esse suscitano tra i matematici. L’ipotesi eliocentrica, inoltre, rende superflue le complesse teorie degli epicicli e degli equanti. aspetti in comune con la cosmologia tradizionale
Da quanto si è detto, dunque, emerge che l’obiettivo di Copernico non è quello di contrapporsi al sistema tolemaico, ma soltanto di semplificarlo. Nella sua teoria, infatti, egli conferma alcuni importanti aspetti della tradizione astronomica aristotelica: 1) l’universo gli appare come finito e chiuso nella sfera delle stelle fisse; 2) i movimenti dei corpi celesti sono circolari – il movimento circolare è, per Aristotele, il moto perfetto – e costanti nella velocità; 3) le sfere cristalline, da cui dipende il movimento degli astri, non sono soltanto orbite ideali, ma enti reali.
copernico e bruno
La teoria astronomica di Copernico fu alla base di importanti sviluppi filosofici. Lo spostamento della Terra da una posizione centrale a una condizione di parità con gli altri pianeti apriva la strada a nuove considerazioni sul valore dell’uomo e sul suo significato nell’economia universale. L’abbandono del geocentrismo, infatti, preludeva alla futura rinuncia all’antropocentrismo, proclamato di lì a qualche decennio da Bruno [cfr. 2.4]. Quest’ultimo, come abbiamo visto, giunse perfino ad abbattere la convinzione – ancora incrollabile per Copernico – della finitezza dell’universo.
La rappresentazione del sistema copernicano (dal De revolutionibus orbium coelestium). 1. Il cerchio esterno rappresenta la sfera delle stelle fisse «che contiene se stessa e tutte le altre cose ed è perciò immobile; senza dubbio è il luogo dell’universo a cui si rapporta il movimento e la posizione di tutte le altre stelle»; 2. Saturno che compie la sua rivoluzione in 30 anni; 3. Giove che compie la sua rivoluzione in 12 anni; 4. Marte che compie la sua rivoluzione in 2 anni; 5. Terra che compie la sua rivoluzione in un anno e ha l’orbe lunare come epiciclo; 6. Venere che compie la sua rivoluzione in 9 mesi; 7. Mercurio che compie la sua rivoluzione in 80 giorni. In mezzo a tutti sta il Sole.
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3. Brahe Il danese Tycho Brahe (1546-1601), autore del De mundi aetherei recentioribus phaenomenis (1588), propone una soluzione intermedia tra il sistema tolemaico e quello copernicano. Per lui, infatti, la Terra rimane al centro dell’universo, e attorno a essa ruotano il Sole, la Luna e il cielo delle stelle fisse. Attorno al Sole, invece, girano i cinque pianeti. Il sistema ipotizzato da Brahe, dunque, ottiene gli stessi risultati di Copernico sul piano della semplificazione matematica e, nello stesso tempo, si mantiene fedele al geocentrismo, rimanendo conforme alla Scrittura e all’astronomia aristotelico-scolastica.
una soluzione di compromesso
Malgrado ciò, le teorie astronomiche di Brahe infliggono dure smentite al sistema aristotelico-tolemaico. In primo luogo, la combinazione dei sistemi tolemaico e copernicano comporta l’intersecazione di alcune orbite celesti e rende impossibile considerarle come reali sfere cristalline. Brahe, infatti, dovette abbandonare questo presupposto aristotelico, considerando le orbite come traiettorie ideali e immateriali.
l’abolizione delle sfere cristalline
In secondo luogo, Brahe – grazie all’osservazione di una cometa apparsa nel 1577 – dimostrò non solo che la sua orbita intersecava quella dei pianeti, ma anche che essa aveva un andamento ellittico. Sulla base dei dati osservati, Brahe dovette giungere alla conclusione che le sfere celesti erano immateriali e che i moti degli astri non erano moti circolari «perfetti», come invece aveva asserito Aristotele.
le orbite dei corpi celesti
Venere Mercurio Marte Giove Saturno
Sole Terra Luna
Il sistema ticonico dell’universo è una soluzione «intermedia» fra la proposta tolemaica e quella copernicana: la Terra è al centro dell’universo e il Sole ruota attorno alla Terra, ma i cinque pianeti del sistema solare ruotano attorno al Sole. La proposta di Tycho contribuisce ad abbandonare l’idea delle «sfere» cristalline tipiche della cosmologia tradizionale tolemaica e a sostituire il concetto di «orbe» o sfera dotata di una sua consistenza materiale col concetto di «orbita», una traiettoria circolare attorno alla quale si svolge il moto di rivoluzione degli astri. Come si vede dalla figura le orbite dei pianeti si intersecano in più punti; la cosa non sarebbe possibile se il pianeta fosse posto su una «sfera materiale» lungo cui muoversi.
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4. Keplero Rispetto agli astronomi che lo hanno preceduto, Johannes Kepler (15711630) stabilisce una connessione tra matematica e astronomia ancora più stretta. Con lui, infatti, la matematica non fornisce più soltanto lo schema geometrico per la costruzione del sistema astronomico, ma anche gli strumenti necessari per definire le leggi che regolano i moti celesti. l’armonia geometrica dell’universo
In una prima fase del suo pensiero – esposta nel Mysterium cosmographicum (1597) – Keplero fa uso della matematica ancora secondo categorie filosofiche di stampo pitagorico-platonico. Egli utilizza, infatti, il modello geometrico dei cinque solidi platonici – cubo, tetraedro, dodecaedro, icosaedro e ottaedro – per elaborare una dottrina matematica che dimostri l’unità sistematica del sistema solare. Secondo la sua teoria, i cinque solidi potevano essere inseriti alternatamente tra le sfere dei pianeti secondo la sequenza una sfera-un solido, una sfera-un solido, ecc. In tal modo, ciascun solido inscriveva la sfera immediatamente interna a esso e, nello stesso tempo, era circoscritto dalla sfera immediatamente esterna.
A B
La figura B rappresenta l’applicazione dei cinque solidi platonici – il cubo, il tetraedro, il dodecaedro, l’icosaedro e l’ottaedro – rappresentati nella figura A. In questo modo Keplero giustifica le dimensioni delle sfere planetarie in un ordine che va dal pianeta più esterno a quello interno seguendo quello del sistema copernicano: la sfera di Saturno, la più esterna, è circoscritta al cubo, la sfera di Giove, che viene immediatamente dopo ed è più interna, è inscritta al cubo, il tetraedro è inscritto alla sfera di Giove, il dodecaedro è inscritto alla sfera di Marte e così via.
le leggi sui moti dei pianeti
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Keplero stesso si accorse ben presto dei limiti di questa ipotesi, ma non abbandonò il tentativo di ricondurre a unità il sistema solare attraverso la matematica. Anche a causa dell’influenza esercitata su di lui da Tycho Brahe, egli si sforzò di determinare matematicamente le leggi astronomiche che regolano i rapporti tra i pianeti, le loro distanze e le loro velocità. Attraverso queste leggi, Keplero rappresenta l’universo come un sistema dotato di un 4. il pensiero scientifico nel cinquecento e nel seicento
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ordine matematico, in cui si riflette la perfezione del suo divino autore. Le prime due leggi sono formulate nell’opera Astronomia nova (1609). La prima legge sostiene che «le orbite dei pianeti sono ellissi di cui il Sole occupa uno dei due fuochi». Keplero pervenne a questa conclusione osservando come il movimento di Marte sia irriducibile a un’orbita circolare. In altri termini, la dottrina aristotelica della circolarità dei moti celesti subisce un altro colpo, anche se continua a sopravvivere (sarà ancora condivisa da Galilei). Quella che per Brahe era soltanto un’ipotesi viene confermata da Keplero con una legge.
le orbite dei pianeti sono ellittiche
La seconda legge dichiara che «la velocità orbitale di ciascun pianeta varia in modo tale che una retta congiungente il Sole e il pianeta percorre, in eguali intervalli di tempo, eguali porzioni di superficie dell’ellisse». Ciò significa che un pianeta – quando è più vicino al Sole – procede più velocemente, percorrendo un arco di ellissi più lungo. Quando invece è più lontano dal Sole, ha una velocità inferiore e percorre un arco di ellissi più breve. Se la prima legge rifiutava il presupposto aristotelico del moto circolare, questa seconda liquida la tesi – connessa a quel presupposto – della velocità uniforme dei pianeti. Nel far ciò, tuttavia, essa non rinuncia all’esigenza fondamentale di riconoscere la perfetta regolarità dei moti celesti. La sola differenza è che questa regolarità assume ora forme diverse (la figura ellittica e la variazione di velocità).
il moto dei pianeti non è uniforme
La terza legge – esposta negli Harmonices mundi (Armonia del mondo) del 1619 – afferma che «i quadrati dei periodi di rivoluzione dei pianeti sono nello stesso rapporto dei cubi delle rispettive distanze dal Sole». Essa determina con una misurazione matematica – la proporzione tra la seconda e la terza potenza – il rapporto intercorrente tra il tempo impiegato da un pianeta per compiere l’intero giro attorno al Sole e la sua distanza da esso.
orbite e velocità dei pianeti sono regolari
5. Galilei: vita e opere Nato a Pisa nel 1564, Galileo Galilei vi studia matematica sotto la guida di Ostilio Ricci. Nel 1589 è nominato lettore di Matematica presso lo Studio (l’università) di Pisa. Dal 1592 insegna matematica a Padova, dove rimarrà fino al 1610. In una lettera posteriore ricorderà questi diciotto anni come i migliori della sua vita. A Padova redige alcune opere di architettura militare e di fisica, tra cui il trattato Le meccaniche. Risale a questi anni la costruzione del cannocchiale. Certamente Galilei non lo inventa, ma utilizza informazioni che gli erano pervenute dall’Olanda. È suo merito, tuttavia, averlo perfezionato tecnicamente, trasformandolo in un vero e proprio strumento scientifico. Servendosi del cannocchiale, infatti, egli realizza le sue importanti scoperte astronomiche. Pubblicate da Galilei nel Sidereus Nuncius del 1610, esse lo resero famoso in tutto il mondo .
la formazione e le prime scoperte astronomiche
Forte di questa fama, sempre nel 1610, Galilei è chiamato a Pisa con la nomina di «matematico e filosofo primario» del granduca di Toscana, nonché
tra pisa e firenze
alef
Galilei Il cannocchiale
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«matematico primario» dello Studio pisano senza l’obbligo di insegnamento. L’elevato stipendio e la libertà da ogni impegno didattico (egli vive, difatti, a Firenze) gli consentono di concentrarsi esclusivamente sulla ricerca. A questo periodo risalgono alcune opere importanti: il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua (1612), l’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari (1613), il Discorso sul flusso e sul riflusso del mare (1616), in cui si tenta di dimostrare la teoria copernicana attraverso il fenomeno delle maree. l’ammonizione del 1616
Avendo sostenuto le dottrine copernicane, Galilei viene denunciato al Sant’Uffizio. Per difendersi dall’accusa egli scrive una famosa lettera a Cristina di Lorena, madre del granduca, in cui sostiene – vedremo tra poco – che la Bibbia si occupa non di problemi scientifici, ma di questioni morali e religiose. Nel febbraio 1616 il Sant’Uffizio condanna la teoria copernicana e Galilei viene ammonito a non difenderla con i suoi scritti. Egli si astiene pertanto dall’occuparsi pubblicamente della questione copernicana e studia invece il fenomeno delle comete, da lui erroneamente ritenute – nel Saggiatore (1623) – un semplice effetto di rifrazione ottica.
il processo del 1633
L’ascesa al soglio pontificio dell’amico cardinale Maffeo Barberini, con il nome di Urbano VIII, incoraggia Galilei a scrivere nuovamente sulla questione proibita. Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano (1632) egli considera la dottrina copernicana come una semplice ipotesi matematica – mentre prima ne aveva sostenuto la verità reale – ed evita di pronunciarsi a favore di una delle due alternative. In ogni caso, le preferenze di Galilei per la teoria copernicana sono così manifeste, che non è difficile per i suoi avversari denunciarlo nuovamente all’Inquisizione. Nell’ottobre del 1632 a Galileo fu intimato di trasferirsi a Roma e di mettersi a disposizione del Sant’Uffizio. Dopo aver cercato di prendere tempo, adducendo motivi di salute, Galileo dovette recarsi a Roma e nell’aprile del 1633 costituirsi come prigioniero presso il Sant’Uffizio. Durante il processo, gli fu rivolta l’accusa di non aver rispettato l’ammonizione del 1616 e di avere appoggiato la dottrina copernicana nel Dialogo.
l’abiura e il confino ad arcetri
A conclusione del processo, Galilei – costretto a riconoscere la propria colpevolezza – fu condannato all’abiura. L’abiura è accompagnata dalla condanna al carcere a vita, che viene tuttavia trasformata negli arresti domiciliari. In tal modo, egli può trascorrere il resto della vita nella sua casa di Arcetri, nei pressi di Firenze, assistito dalla figlia, aiutato nelle ricerche dagli allievi e venerato da coloro che venivano a incontrarlo anche da molto lontano. Nel 1638 scrive i Discorsi e dimostrazioni matematiche sopra due nuove scienze. Muore nel 1642.
6. Galilei: scienza e Scrittura le «lettere copernicane»
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Da quando, il 2 novembre 1612, il domenicano Niccolò Lorini condanna dal pulpito della chiesa di San Marco in Firenze l’«eresia» copernicana, Galilei si trova impegnato nella difesa dell’autonomia della ricerca scientifica 4. il pensiero scientifico nel cinquecento e nel seicento
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dalla teologia e dall’autorità scritturale. Gli interventi galileiani sono contenuti in una serie di lettere indirizzate a Benedetto Castelli, un domenicano che fu suo allievo e seguace; al vescovo Piero Dini, già console dell’Accademia fiorentina e protettore di Galilei; alla granduchessa Cristina di Lorena. La presa di posizione di Galilei ha dapprima un carattere impersonale, in quanto egli si inserisce semplicemente nella polemica che segue alla predica di Lorini. In seguito, quando viene da quest’ultimo denunciato al Sant’Uffizio per via della lettera al Castelli, la sua difesa dei diritti della scienza diventa anche una difesa di se stesso. L’argomento fondamentale con cui i domenicani condannavano il copernicanesimo era molto semplice: la teoria eliocentrica è in contraddizione con il testo biblico, in cui si dice – ad esempio – che Giosuè fermò il Sole. Ma come si difende Galilei da queste gravissime accuse? La sua replica è condotta su un duplice registro.
le finalità della bibbia e della scienza
1. Da un lato, egli conferma la comune origine divina di natura e Scrittura: ciò significa che nella natura si ritrova la legge impressa al mondo da Dio, mentre nella Scrittura si ascolta – attraverso lo Spirito Santo – l’insegnamento che egli impartisce agli uomini. 2. Dall’altro lato, Galilei sostiene che Dio si manifesta secondo finalità e forme espressive diverse nella natura e nella Bibbia. Secondo Galilei, infatti, lo scopo principale della Bibbia è quello di istruire gli uomini su come essi devono comportarsi per conseguire la salvezza eterna: i suoi insegnamenti sono, dunque, di carattere etico-pratico. La Scrittura, inoltre, si esprime con il linguaggio degli uomini ai quali è destinato il suo messaggio etico e religioso. Il linguaggio della natura, invece, è di tipo matematico e può essere decifrato dagli scienziati soltanto con procedure sperimentali («sensate esperienze») e dimostrazioni matematiche («dimostrazioni necessarie») [t8]. L’autorità contro cui Galilei doveva combattere non era solo quella ecclesiastica. Quasi sempre, infatti, la teologia tradizionale aveva tentato di rafforzare la religione con la tradizione aristotelica. Se Galilei – che in coscienza si sente un buon cattolico – è conciliante nei confronti dell’autorità scritturale, sostenendo la comune origine di natura e Scrittura, il suo rifiuto dell’autorità aristotelica è invece radicale. La critica dei fondamenti aristotelico-scolastici della concezione medievale della natura e dell’universo viene attuato da Galilei sul terreno concreto della ricerca scientifica, applicando nuovi strumenti di indagine e mostrando l’inconsistenza di singoli presupposti e di singole teorie.
contro il dogmatismo degli aristotelici
7. Galilei: la struttura matematica dell’universo Sin dai suoi primi scritti, Galilei considera la matematica come una scienza dotata di validità oggettiva, indispensabile alla descrizione e alla spiegazione della natura. Alla matematica egli era stato introdotto dallo stesso ambiente familiare – il padre Vincenzo era cultore di matematica e di musica – 4. il pensiero scientifico nel cinquecento e nel seicento
la matematica è oggettiva
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e su questa scienza si concentrarono i suoi interessi negli anni della formazione. Per Galilei, la validità assoluta della matematica si fonda non solo su presupposti di ordine scientifico e metodologico, ma anche su esplicite convinzioni metafisiche. Egli ritiene, infatti, che la natura sia paragonabile a un libro scritto in lingua matematica, «e i caratteri son triangoli, cerchi e altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola» (Il Saggiatore, § 6). la natura è un ordine misurabile
Nella concezione della matematica propria di Galilei sono senz’altro presenti influenze pitagoriche e platoniche (si pensi al Timeo), ma la sua posizione non è riducibile a una tardiva ripetizione delle posizioni filosofiche antiche. Egli esprime, infatti, l’idea – ampiamente diffusa nel mondo moderno – che la realtà naturale è stratificata su due livelli: 1) l’aspetto più superficiale è quello dell’esperienza così come essa si presenta alla sensibilità soggettiva; 2) il livello più profondo della natura è, invece, costituito da una struttura di rapporti matematici misurabili e calcolabili con precisione. In tal senso, la scienza della natura è una conoscenza assoluta solo se diventa matematica.
la conoscenza matematica del mondo
Nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Galilei cerca di mostrare la validità oggettiva della matematica ricorrendo a un ulteriore argomento. In quell’opera, infatti, egli sostiene che l’intelletto umano – quando conosce matematicamente – è uguale a quello divino. Ma che cosa intende dire con ciò, più esattamente? L’estensione del sapere matematico di Dio è infinitamente superiore a quella dell’uomo: Dio, infatti, conosce tutte le proposizioni matematiche, mentre l’uomo ne penetra soltanto alcune. Sul piano dell’intensità, tuttavia, la conoscenza umana è uguale a quella divina: le singole proposizioni matematiche sono vere, infatti, tanto per l’uomo quanto per Dio.
8. Galilei: i caratteri della scienza moderna Come abbiamo visto, la convinzione che l’universo sia costituito da una struttura matematica rappresenta una verità necessaria, da cui dipende Dio non meno che l’uomo. Con questa dottrina, Galilei garantiva la completa autonomia della scienza non solo da qualsiasi forma di autorità umana o rivelata, ma anche dalla teologia. la distinzione tra qualità oggettive e soggettive
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Al matematismo galileiano si deve, tuttavia, un’altra distinzione che – come vedremo – avrà importanti effetti nella storia del pensiero seicentesco (da Cartesio a Hobbes, da Locke a Hume). Si tratta di quella tra qualità oggettive e soggettive o – secondo una terminologia introdotta più tardi – tra qualità primarie e secondarie. In base a essa, le prime sono riducibili a rapporti matematici e oggettivamente misurabili, le seconde invece dipendono dalla percezione soggettiva dell’uomo e non dalla natura reale dell’oggetto – ad esempio, il colore, l’odore, il suono, il sapore, ecc. [t9]. 4. il pensiero scientifico nel cinquecento e nel seicento
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La distinzione tra qualità oggettive e soggettive ha un’ulteriore conseguenza di estrema rilevanza teorica. Essa comporta il fatto che la scienza della natura, per avere validità necessaria, deve occuparsi soltanto delle qualità oggettive. In questo modo, si realizza una radicale cesura con la scienza naturale aristotelica, che considerava le qualità sensibili come manifestazioni della forma sostanziale delle cose. La scienza galileiana, infatti, intende fondarsi esclusivamente sugli aspetti quantitativi della realtà, escludendo come non-scientifica l’analisi qualitativa di essa praticata nella tradizione aristotelico-scolastica. Secondo la prospettiva inaugurata da Galilei, la realtà naturale deve essere considerata non più in termini di sostanze o essenze, bensì di quantità misurabili. Egli, infatti, sostiene espressamente che non è possibile conoscere l’«essenza vera e intrinseca delle sostanze naturali» e che ci si deve limitare a cercare alcune «affezioni» della sostanza, come «il luogo, la figura, la grandezza, il movimento».
la scienza non è ricerca delle essenze
Da ciò discende che anche la considerazione finalistica della natura deve essere abbandonata. Le cause finali, infatti, sono «forme» dipendenti dall’essenza sostanziale e, pertanto, cadono al di fuori dell’analisi quantitativa dei fenomeni. La prospettiva finalistica della natura viene sostituita da una concezione nella quale i fenomeni sono connessi in maniera causale e meccanica: in questo modo il legame tra la causa e l’effetto può essere espresso attraverso rapporti puramente matematici.
il rifiuto del finalismo
9. Galilei: il metodo sperimentale Pur rispecchiando la struttura stessa della realtà, la matematica non è l’unica componente del metodo galileiano. I rapporti matematici – quando servono a determinare le strutture della realtà fisica – possono essere scoperti soltanto mediante l’esperienza. Per usare le parole di Galilei, quando il rapporto matematico di antecedente e conseguente si traduce nel rapporto meccanico di causa ed effetto, alle «certe dimostrazioni» della matematica si devono aggiungere «sensate esperienze».
matematica e ruolo dell’esperienza
Per condurre a risultati apprezzabili, l’esperienza non può essere lasciata al caso, ma deve essere guidata da un preciso metodo sperimentale. Galilei lo applica costantemente nella sua attività di ricerca, ma senza teorizzarlo mai in forma compiuta. Il metodo galileiano appare costituito da due momenti fondamentali: 1) il primo consiste nella formulazione di un’ ipotesi , relativa a una determinata connessione tra causa ed effetto; 2) il secondo consiste nell’ esperimento : attraverso di esso, si cerca di provare artificialmente se da una determinata causa scaturisca o non scaturisca l’effetto che nell’ipotesi è connesso a essa. In caso affermativo, si ha la verifica dell’ipotesi; in caso contrario, occorre ripartire da zero, formulando altre ipotesi, finché una di esse non venga confermata dall’esperimento.
i due momenti del metodo
L’esperimento ha, dunque, lo scopo di riprodurre i procedimenti naturali in condizioni di migliore osservabilità. Ciò avviene a) isolando il nesso causale studiato da tutte le connessioni che non interessano e b) riducendo al
le «sensate esperienze»
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minimo i fattori di disturbo – ad esempio, l’attrito – che limitano la verificabilità dell’ipotesi. La realizzazione dell’esperimento, inoltre, esige l’uso di strumenti appositamente costruiti per rendere l’osservazione il più oggettiva possibile. Solo grazie a essi, infatti, si riescono a superare i limiti della sensibilità soggettiva dell’osservatore.
10. Galilei: la fisica gli studi fisici
La fisica galileiana è una fisica matematica che si avvale della misurazione – oltreché dell’esperimento – come strumento indispensabile di accertamento. Tra le maggiori conquiste scientifiche di Galilei, ottenute attraverso l’applicazione del metodo sopra descritto, vanno ricordate quelle che, in seguito, furono chiamate le prime due leggi della dinamica.
il moto uniforme dei corpi
La prima di esse consiste nel principio di inerzia, che ricevette tuttavia una formulazione adeguata solo da Cartesio. Osservando la rotazione di una sfera di bronzo su un piano orizzontale, Galilei si accorge che essa tende a conservare un «moto uniforme» e una velocità costante per un tempo inversamente proporzionale alla resistenza che trova. Presupponendo di eliminare qualsiasi resistenza, dunque, la sfera dovrebbe continuare a muoversi indefinitamente. Ovviamente, Galilei non poté realizzare un esperimento in cui ogni resistenza fosse eliminata. Ciononostante, occorre notare come egli tentò di eliminare o immaginò di eliminare ogni condizionamento contingente per dimostrare la validità del principio di inerzia: la sfericità della biglia doveva essere la più perfetta possibile; il piano, oltreché perfettamente orizzontale, doveva essere perfettamente liscio (in modo da rappresentare un piano idealmente incorporeo); bisognava poi supporre che il movimento avvenisse nel vuoto, che fosse eliminabile ogni resistenza, ecc.
inerzia dei corpi e fisica aristotelica
Ma quali conseguenze comportava l’accettazione del principio di inerzia? La prima di esse consisteva nel mettere a tacere l’esperienza quotidiana, secondo la quale a un certo momento la sfera si ferma. Su questo tipo di esperienza si fondava, infatti, la dottrina aristotelica – esattamente opposta al principio d’inerzia – per cui la quiete è lo stato naturale dei corpi, e ogni movimento o è naturale (e fa sì che il corpo ritorni alla sua normale condizione di quiete, come la pietra che cade sul terreno) o è violento (e presuppone l’applicazione di una forza esterna, come la mano che getta la pietra in alto). In ogni caso, secondo Aristotele, l’esperienza quotidiana insegnava che il movimento (naturale o violento) è una situazione provvisoria che tende naturalmente a concludersi nella quiete. Al contrario, l’osservazione sperimentale di Galilei comincia a dimostrare la possibilità che esso sia una proprietà interna al corpo che si muove.
la velocità è proporzionale allo spazio percorso
Una dimostrazione completa riceve, invece, quella che sarà la seconda legge della dinamica: la legge della caduta dei gravi. La tradizione aristotelicoscolastica insegnava che la velocità di caduta è direttamente proporzionale
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alla quantità di materia (la massa) di un corpo. In base a essa, i corpi cadrebbero tanto più in fretta quanto più sono pesanti. Galilei (insieme ad altri scienziati) aveva invece già osservato che gravi con peso diverso, se iniziano contemporaneamente la loro caduta, arrivano al suolo nello stesso tempo. Egli suppose, dunque, che la velocità di caduta fosse proporzionale allo spazio percorso dai gravi nella caduta e non alla loro massa. Per dimostrare la sua supposizione, Galilei costruì un piano inclinato: lungo una scanalatura (la più liscia possibile) tracciata su di esso, fece scendere una biglia di bronzo (della massima sfericità possibile). Misurando poi con precisione gli spazi percorsi e i tempi impiegati a percorrerli, verificò l’ipotesi di partenza.
Con l’esperimento del piano inclinato Galilei modifica l’idea aristotelica del moto, concentrando la sua attenzione sull’accelerazione: lo spazio percorso dalla biglia in caduta è sempre proporzionale al quadrato del tempo impiegato a percorrerlo. q
11. Galilei: l’astronomia Grazie all’uso del cannocchiale e del telescopio, Galilei riuscì a compiere alcune scoperte astronomiche che modificarono radicalmente le conoscenze scientifiche del tempo ed eliminarono importanti presupposti della concezione aristotelico-scolastica dell’universo. Per Galilei, la «certezza che è data dagli occhi» deve sostituirsi all’astratta riflessione filosofica e al rifugio nell’autorità dei classici.
una nuova descrizione dell’universo
Con l’aiuto dei suoi strumenti di osservazione, Galilei scopre le macchie solari e l’irregolarità della superficie della Luna, la quale presenta catene montuose, valli e crateri simili a quelli terrestri. Grazie a queste scoperte cade definitivamente la tesi aristotelica della radicale differenza di natura tra le sostanze terrestri, soggette al cambiamento e corruttibili, e quella celeste (l’etere), perfettamente omogenea e inalterabile.
le macchie solari e lunari
All’insostenibilità di una differenza tra mondo celeste e sfera terrestre conduce anche la scoperta dei quattro satelliti di Giove, chiamati «medicei» in onore del granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici. Non solo la Terra, ma anche gli altri pianeti, possono avere satelliti. Inoltre, se gli altri pianeti con satelliti ruotano attorno al Sole, lo stesso potrebbe accadere alla Terra.
i «pianeti medicei»
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le fasi di venere
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Un’indiretta conferma della tesi copernicana proveniva poi dalla scoperta delle fasi di Venere, del tutto simili a quelle della Luna. Galilei osserva sistematicamente Venere col cannocchiale per alcuni mesi, rendendosi conto che il pianeta diventava «da figura rotonda assai piccola» a «mezzo cerchio crescendo tuttavia in mole», fino a diventare «falcato», per poi svanire del tutto. A suo avviso, il motivo di queste mutevoli apparenze sta nel fatto che l’orbita di Venere attorno al Sole è interna a quella della Terra [cfr. sotto, figura A]. Quindi, osservato dalla nostra prospettiva, il pianeta, in certi periodi dell’anno, si vede illuminato in pieno dal Sole; in altri periodi illuminato per metà; in altri periodi come falce decrescente o crescente. Dalle osservazioni di Venere Galilei ricava la conferma che le rotazioni dei pianeti avvengono attorno al Sole, come sosteneva Copernico, e non attorno alla Terra.
A
Congiunzione superiore
Elongazione orientale
Sole
Terra
Elongazione occidentale
Congiunzione inferiore
orbita del Sole
B epiciclo di Venere
Il fatto che Venere ci appaia diversamente a seconda della fase è inspiegabile con la dottrina tolemaica, come si vede nella figura B, in cui è evidente che il centro dell’epiciclo di Venere è sempre sulla retta che congiunge la Terra col Sole e ruota attorno alla Terra in un anno come il Sole; Venere dovrebbe apparirci sempre identica. Le diverse fasi si spiegano invece con la dottrina copernicana, come si vede nella figura A.
Terra
la scoperta della via lattea
Galileo scopre, infine, che la Via Lattea è composta da una moltitudine di stelle che appaiono così indistinte le une dalle altre perché sono molto più lontane di quelle individuabili singolarmente. Come conseguenza di questa nuova scoperta, l’aristotelico cielo delle stelle fisse – visibili ad occhio nudo – non è l’ultima sfera che completa e racchiude l’universo.
la negazione del dualismo di cielo e terra
Il significato generale di queste scoperte è quello di mostrare il carattere unitario dell’universo e l’impossibilità di contrapporre la fisica terrestre all’astronomia celeste. La negazione di una diversità della Terra rispetto al resto dell’universo indebolisce notevolmente l’assunto aristotelico di una
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posizione particolare della Terra rispetto a tutti i corpi celesti (geocentrismo). Le scoperte astronomiche compiute da Galilei favoriscono, dunque, l’accettazione della concezione copernicana. A questa teoria, tuttavia, Galilei si avvicina molto prima di fare quelle scoperte, com’è dimostrato da una lettera a Keplero del 1597. Occorre, inoltre, precisare che egli considera il copernicanesimo non già come una semplice ipotesi matematica, ma come la descrizione reale della costituzione dell’universo, che attende soltanto di essere dimostrata scientificamente. Galilei crede, erroneamente, di poter dimostrare la concezione copernicana del mondo per mezzo di una teoria delle maree, esposta nel Discorso sul flusso e sul riflusso del mare. Per Galilei le maree sarebbero prodotte dall’effetto congiunto dei due movimenti della Terra, quello di rotazione attorno a se stessa e quello di rivoluzione attorno al Sole: la realtà delle maree dimostrerebbe, quindi, la verità dell’ipotesi copernicana. Galilei non si limita a esporre questa teoria, ma ne tenta una dimostrazione sperimentale. Per far ciò, costruisce una macchina in cui a un vaso contenente una certa quantità d’acqua si imprimono insieme i due movimenti di rotazione (su se stesso) e di rivoluzione (attorno a un centro). L’impossibilità di compiere misurazioni precise sugli spostamenti dell’acqua e l’imperfetta analogia tra il vaso e il globo terrestre impedivano di verificare la falsità dell’ipotesi. Galilei rimane, pertanto, convinto della validità della dimostrazione addotta, presente in termini analoghi anche nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo. In realtà, Keplero – l’altro grande scienziato del tempo – aveva già correttamente spiegato le maree come effetto dell’attrazione lunare.
copernicanesimo e teoria delle maree
12. Bacone: la nuova concezione della scienza Un’altra figura che merita di essere ricordata nel quadro della «rivoluzione scientifica» è quella di Francis Bacon, italianizzato Bacone. Nasce a Londra nel 1561 dal lord guardasigilli della regina Elisabetta. Studia a Cambridge, per poi trascorrere alcuni anni a Parigi al seguito dell’ambasciatore di Francia. Tornato in patria riesce a intraprendere la carriera politica, conseguendo incarichi e onori sempre più elevati. Diviene avvocato generale (1607), procuratore generale (1613), lord guardasigilli (1617) e, infine, lord cancelliere (1618), funzione che gli consente di presiedere le principali corti di giustizia. Ma nel 1621 la sua fortuna cambia: accusato di aver ricevuto denaro da una delle parti che doveva giudicare, deve riconoscersi colpevole di corruzione, viene sospeso dalle funzioni e condannato a un’ammenda e al carcere. Grazie al favore che ancora gode presso la corona, riesce ad aver condonate entrambe le pene, ma deve ritirarsi a vita privata, finché lo sorprende la morte, nel 1626.
la vita
Tra le prime opere importanti di Bacone si devono segnalare i Saggi (1597) e il Temporis partus masculus (1602), nel quale rivelò un atteggiamento culturale che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita: la critica alla tradizione filosofica antica (con l’esclusione di Democrito) e medievale e l’appello alla
le opere
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costruzione di un nuovo sapere scientifico. Nel 1620 pubblica la sua opera più famosa, il Novum Organum, che già nel titolo rivela l’intenzione di essere una «nuova logica» che si oppone al vecchio Organon aristotelico. L’opera è redatta in forma di aforismi che dovevano preludere a un ampliamento successivo. Il Novum Organum si presenta, infatti, come la seconda parte di una vasta opera intitolata Instauratio magna scientiarum, suddivisa in sei parti. Di essa, tuttavia, Bacone pubblica – oltre al Novum Organum – soltanto la parte preliminare (la prefazione e il piano dell’opera) e, nel 1623, la prima parte. Quest’ultima corrisponde alla traduzione latina ampliata dello scritto sull’utilità e il progresso del sapere del 1605: De dignitate et augmentis scientiarum. Agli ultimi anni della sua vita appartiene La nuova Atlantide, che si inserisce nel filone utopico già sperimentato da Moro e da Campanella.
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il progresso del sapere
Bacone assume un atteggiamento molto critico nei confronti della tradizione filosofica precedente. Egli nutre una concezione evolutiva del sapere, secondo la quale la verità è filia temporis. In altri termini, Bacone ritiene che – nello sviluppo delle conoscenze umane – l’Antichità rappresenti l’infanzia, mentre la maturità sia conseguita con l’Età moderna. Per la sua idea progressiva del sapere – oltreché per il suo metodo empirico-sperimentale – Bacone sarà, accanto a Locke e Newton, uno degli autori a cui gli illuministi guarderanno con maggiore simpatia.
scienza e tecnica
Bacone accusa la cultura tradizionale di astrattezza e di inconcludenza. La filosofia aristotelico-scolastica, con la quale egli identifica la tradizione filosofica precedente, non è per lui capace di trovare alcuna saldatura tra pensiero e realtà: essa, pertanto, non riesce ad andare al di là dell’esercizio verbale e non permette alcun intervento sulla natura. L’aspirazione di Bacone è, invece, un grande rinnovamento della scienza che consenta di realizzare il dominio dell’uomo sulla natura. Per Bacone ciò è possibile soltanto conoscendo la natura e le sue leggi: infatti, «la scienza e il potere umano coincidono, perché l’ignoranza della causa preclude l’effetto e alla natura si comanda solo ubbidendole: quello che nella teoria funge da causa nell’operare pratico diventa regola» (Novum Organum, aforisma 3). In seguito, la concezione baconiana della scienza è stata riassunta nella formula: sapere è potere. È ovvio che una simile concezione della scienza comportava un’immediata rivalutazione della tecnica , intesa non più come semplice imitazione della natura (come nella tradizione classica), bensì come strumento di azione sulla natura. La tecnica che Bacone intende riscattare non è soltanto quella che nasce da un sapere pratico-artigianale, nel quale le conoscenze sono date in parte dal caso, in parte dall’abitudine e dalla tradizione. Egli mira, infatti, a una tecnica che sia il naturale complemento dell’indagine scientifica e che, pertanto, abbia consapevolezza teorica delle connessioni oggettive delle cause e degli effetti.
rivoluzione industriale e innovazioni tecnologiche
Lo sfondo storico-sociale di questo apprezzamento della tecnica è probabilmente costituito dai fermenti che provenivano da una borghesia operosa e dal calvinismo olandese con la sua educazione indirizzata al lavoro e al successo. Non a caso Bacone è stato da alcuni studiosi messo in relazione – anziché con la «rivoluzione scientifica» – con la «rivoluzione industriale» di 4. il pensiero scientifico nel cinquecento e nel seicento
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cui viene considerato il precursore teorico. Occorre, tuttavia, non dimenticare che all’interno dello stesso ambiente inglese si era fatta strada – soprattutto negli ultimi decenni del Cinquecento – una nuova figura di intellettuale: il practicioner. Questi era solitamente un esperto di tecnologia (ingegnere civile o militare, costruttore navale, ideatore di strumenti), destinato ad acquisire sempre più peso nella società civile.
13. Bacone: metodi e scopi
del sapere tecnico-scientifico Per realizzare il suo programma scientifico e tecnico, Bacone giudica il metodo deduttivo della tradizione aristotelica del tutto inadeguato. Come già sappiamo, infatti, la deduzione aristotelica è fondata sul sillogismo. Per questo motivo, secondo Bacone, essa è un procedimento astratto e sterile, in quanto le conclusioni a cui perviene si limitano a esplicitare ciò che è già contenuto nelle premesse. Per ancorare il sapere alla realtà sensibile, Aristotele aveva affiancato al sillogismo il procedimento induttivo. Tuttavia, l’ induzione aristotelica si limitava a passare immediatamente dai casi particolari dati alla loro generalizzazione in princìpi universali. All’induzione aristotelica occorre, dunque, contrapporre un nuovo metodo induttivo che «dal senso e dai particolari trae gli assiomi risalendo per gradi e ininterrottamente la scala delle generalizzazioni, fino a pervenire agli assiomi generalissimi». Nel procedimento induttivo messo a punto da Bacone, una funzione essenziale è svolta dagli assiomi medi. Si tratta di generalizzazioni che riconducono a unità una pluralità di casi particolari, senza tuttavia risalire a princìpi generalissimi. Questi, infatti, sebbene ricavati induttivamente, rimangono sempre distanti dalla realtà sensibile. Un esempio di assiomi medi è dato dalle leggi della natura: da un lato, esse rappresentano già un buon livello di generalizzazione, poiché riconducono i singoli fenomeni a poche costanti universali; dall’altro, mantengono la loro aderenza alla realtà concreta, poiché permettono all’uomo di operare sulla natura . Il metodo induttivo di Bacone si compone di due parti: la pars destruens e la pars construens. La pars destruens, ovvero la «parte distruttiva», ha la funzione di sgombrare il campo dai pregiudizi che possono ostacolare la corretta conduzione della ricerca.
il metodo induttivo
I pregiudizi sono detti da Bacone idola («fantasmi») e si riferiscono a conoscenze soltanto apparenti che impediscono agli uomini l’accesso a quelle vere [t10]. Essi sono di quattro tipi: 1) gli idola tribus appartengono a tutto il genere umano o, come dice Bacone, alla «tribù» umana (ad esempio, la fallibilità dei sensi o la tendenza a vedere un principio d’ordine dove non c’è); 2) gli idola specus, i pregiudizi della «spelonca» – è ovvia l’allusione alla «caverna» platonica –, hanno carattere individuale e dipendono da fattori che viziano la nostra capacità di giudizio (ad esempio, l’educazione, l’ambiente, il carattere personale); 3) gli idola fori sono prodotti dal linguaggio,
la teoria degli idoli
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ossia dal mezzo che gli uomini usano per comunicare tra loro (di qui il riferimento al «foro», al mercato) e si originano per la discrepanza tra le parole e i significati a esse attribuiti; 4) gli idola theatri sono pregiudizi indotti dalle diverse scuole filosofiche, che Bacone assimila a favole idealmente rappresentate sulla scena teatrale, per sottolineare la loro lontananza dalla realtà. la descrizione della forma delle cose
La pars construens del metodo baconiano, ovvero la «parte costruttiva», serve a determinare le cause dei fenomeni. Ma – e qui Bacone si distanzia nettamente da Galilei – lo strumento per individuare tali cause non consiste nella misurazione matematica, bensì nella definizione della forma delle cose, intesa come principio interno di costituzione e di sviluppo del fenomeno . Così facendo, Bacone rimane legato a uno dei caratteri essenziali della tradizione classica: l’analisi qualitativa della realtà. Infatti, egli ritiene che la matematica sia altrettanto pericolosa per la ricerca scientifica quanto lo è la logica aristotelica, alla quale è accomunata dall’astrattezza e dall’artificiosità.
osservazione e registrazione dei fenomeni naturali
Ma come avviene la ricerca della forma dei fenomeni? Secondo Bacone, essa può essere ottenuta attraverso la compilazione di alcune tavole. In una tabula presentiae si registreranno tutti i casi nei quali il fenomeno di cui si ricerca la causa (ad esempio, il calore) è presente (raggi del Sole, fuoco, fulmini, ecc.). Nella tabula absentiae in proximitate si indicheranno invece i casi che, pur essendo simili ai primi, non rivelano la presenza del fenomeno (raggi della Luna, fuochi fatui, ecc.). Nella tabula graduum, infine, si registreranno i casi in cui il fenomeno aumenta o diminuisce per gradi.
dall’ipotesi all’esperimento
Attraverso la compilazione esauriente delle tavole – per Bacone le forme classificabili sono numericamente finite – si può procedere a una prima ipotesi. Ad esempio, si giunge all’ipotesi che il calore sia «un moto espansivo, costretto, svolgentesi secondo le parti minori». Questa ipotesi deve essere verificata empiricamente mediante quello che Bacone chiama experimentum crucis («esperimento del crocicchio»). Tale esperimento è così chiamato perché deve porre il ricercatore nella condizione di escludere una delle due possibilità lasciate aperte, allo stesso modo in cui il viaggiatore giunto al bivio deve scegliere tra la strada giusta e quella sbagliata.
il programma enciclopedico
Gli anni del ritiro di Bacone dalla vita politica vedono la stesura di due opere importanti. Nel De dignitate et augmentis scientiarum (1623), Bacone riprendeva il progetto – già delineato in Sul progresso del sapere umano e divino (1605) – di un’enciclopedia del sapere, che sarà attuato nel Settecento dall’Enciclopedia di Diderot e d’Alembert. Quest’ultima riprodurrà, infatti, anche se con qualche variante, il criterio organizzativo indicato da Bacone. In base a esso, il sapere umano risulta articolato secondo le tre facoltà fondamentali dell’uomo: 1) la memoria, alla quale corrisponde la storia; 2) l’immaginazione, che sta a fondamento della poesia; 3) la ragione, da cui dipende la filosofia, distinta a sua volta in teologia, scienza della natura e scienza dell’uomo.
l’utopia scientifica
L’importanza della ricerca scientifica è al centro anche dell’altra opera dell’ultimo periodo – la Nuova Atlantide – pubblicata un anno dopo la morte
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Bacone La forma delle cose
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del suo autore. In essa, Bacone delinea una società utopica, nella quale gli scienziati detengono il potere politico, promuovono il bene dei cittadini e favoriscono il miglioramento dell’esistenza umana in generale. Bensalem, la città ideale in cui ha sede l’utopia, è sottoposta all’autorità scientifico-politica della Casa di Salomone, un istituto di ricerca nel quale scienziati di diversa formazione lavorano in piena collaborazione, guidati dal comune intento di fare scoperte utili all’umanità. A questo proposito, diversi studiosi hanno osservato come la Casa di Salomone baconiana ricalchi l’istituzione dell’Accademia delle scienze, che si avviava a diventare – in tutti i paesi europei dell’epoca – il centro della vita culturale e scientifica. L’opera di Bacone costituirà, infatti, un prezioso modello per i fondatori della Royal Society, avvenuta a Londra nel 1662.
in poche... parole Tra Cinquecento e Seicento si assiste in Europa a una crisi profonda della filosofia aristotelico-scolastica e a un radicale progresso delle scienze. Ciò comporta non solo l’acquisizione di singole conoscenze e la realizzazione di numerose innovazioni tecnologiche, ma anche l’elaborazione di precise procedure metodologiche in grado di assicurare una conoscenza certa della natura. La scienza moderna si distingue da quella degli antichi per alcune caratteristiche specifiche: la concezione della natura come ordine oggettivo di rapporti misurabili, la ricerca di nessi necessari di causa ed effetto, il primato della matematica come strumento per quantificare i fenomeni naturali, il ricorso alla sperimentazione per verificare le ipotesi riguardanti i processi fisici, il ruolo della tecnica per trovare mezzi sempre più precisi di misurazione e per ampliare il controllo del mondo naturale. Uno degli aspetti più rilevanti della rivoluzione scientifica è rappresentato dalle scoperte astronomiche compiute da Copernico, Brahe, Keplero, Galilei, che mettono profondamente in crisi il tradizionale sistema aristotelico-tolemaico, basato sul geocen-
trismo, sull’esistenza delle sfere cristalline e sul dualismo tra regione sublunare e sopralunare.
scienza In latino scientia, in greco epistème. In generale, è una conoscenza o un complesso di conoscenze, dotate di certezza assoluta. Per questo la scienza si deve fondare su procedure che possano fornire la garanzia della loro validità oggettiva. Tradizionalmente – da Aristotele in poi – tali procedure hanno trovato la loro più adeguata espressione nella dimostrazione. Anche la scienza moderna, infatti, ha prevalentemente carattere dimostrativo. A volte, tuttavia, accanto o in opposizione all’aspetto dimostrativo, si sottolinea, come procedura legittima della scienza, il carattere descrittivo. In base a esso, la scienza – più che dimostrare tesi – deve analizzare sperimentalmente i rapporti che intercorrono tra i fenomeni, ricercandone le costanti. In ogni caso – sia che si percorra la strada della dimostrazione, sia che si scelga quella della descrizione – la scienza moderna è, ancora in accordo con Aristotele, conoscenza delle cause. In tal senso, la scienza è ricerca del perché i fenomeni avvengono in un determinato modo anziché in un altro.
meccanicismo Termine moderno
per indicare la concezione che spiega i fenomeni soltanto in base alle connessioni causali tra i corpi. Tale concezione si contrappone al finalismo, secondo il quale gli eventi (non soltanto l’agire umano, ma anche i fenomeni naturali) e l’ordine complessivo dell’universo sono organizzati in vista di un fine, che è la causa di essi. In tal modo, ciascun evento può essere spiegato in base al fine verso il quale è orientato. Il finalismo – generalmente condiviso dal pensiero antico e medievale (sono eccezioni, ad esempio, l’atomismo e l’epicureismo antichi) – accusa momenti di crisi in Età moderna, soprattutto per la diffusione della concezione meccanicistica della realtà naturale. Il contributo di Galilei alla rivoluzione scientifica si articola su differenti piani: anzitutto, egli distingue la sfera di competenza delle Scritture – il cui scopo è quello di indicare la strada per ottenere la salvezza dell’anima – da quella della scienza – il cui scopo è quello di descrivere la struttura matematica della realtà fisica e di fornire una più adeguata immagine dell’universo.
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Galilei non solo ribadisce l’autonomia della scienza da qualsiasi forma di autorità, sia essa religiosa o tradizionale (come nel caso della filosofia aristotelico-scolastica), ma contribuisce anche a definire il metodo scientifico, basato sui due momenti dell’ipotesi e dell’esperimento. Lo scienziato deve osservare in modo rigoroso i fenomeni naturali, formulare un’ipotesi relativa alla connessione di causa e di effetto in grado di spiegarli e sottoporla a verifica sperimentale. È proprio attraverso l’impiego di questo metodo che Galilei compie le sue più importanti scoperte in campo fisico e astronomico, ora privilegiando il ricorso all’esperienza (come per la legge sulla caduta dei gravi, le macchie solari e lunari o le fasi di Venere), ora facendo esperimenti mentali e privilegiando il ragionamento deduttivo (come per il principio di inerzia).
qualità oggettive e soggettive Per Galilei la scienza della natu-
ra è una conoscenza assoluta solo se diventa matematica, ovvero se esplora la struttura della natura, costituita da un ordine oggettivo di rapporti matematici misurabili e calcolabili con precisione. Da questa convinzione, nella quale riecheggiano influenze di stampo pitagorico e platonico, scaturisce la distinzione tra qualità oggettive e soggettive, sulla quale si era già espresso l’atomismo democriteo antico. La principale differenza tra qualità oggettive e soggettive, successivamente ribattezzate da Locke qualità primarie e secondarie, consiste in questo: le prime caratterizzano i corpi in quanto tali e sono riducibili a rapporti matematici, oggettivamente misurabili (ad esempio, la grandezza, la figura, il luogo, il movimento); le seconde invece dipendono dalla percezione soggettiva dell’uomo e sussistono solo nei suoi organi di senso (ad esempio, il colore, l’odore, il suo-
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no, il sapore, ecc.). Secondo Galilei, la scienza della natura deve occuparsi unicamente delle qualità oggettive dei corpi, eliminando qualsiasi riferimento alle qualità soggettive che essi producono nel soggetto e rinunciando all’analisi qualitativa della realtà in termini di essenze o di sostanze. Ecco come Galilei riassume il primato delle qualità oggettive su quelle soggettive, la cui sussistenza (o non sussistenza) dipende interamente dall’apparato sensoriale che le percepisce: «Stimo che, tolti via gli orecchi, le lingue e i nasi, restino bene le figure, i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dell’animal vivente non credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle intorno al naso» (Il Saggiatore).
ipotesi
Dal greco hypòthesis (composto da hypò, «sotto», e tìthemi, «pongo»), letteralmente «ciò che è posto sotto». Tale significato si distingue da quello più frequente assunto in Età moderna, dove indica un enunciato da mettere alla prova in base alle conseguenze alle quali conduce. In quest’ultimo senso, il termine ipotesi è assunto talora come equivalente a teoria scientifica o a parte di essa.
esperimento Dal latino experimentum, in epoca moderna significa la riproduzione intenzionale e artificiale di fenomeni naturali in modo da attuare le migliori condizioni di osservabilità per verificare o smentire un’ipotesi.
Un’altra figura rilevante nel quadro della rivoluzione scientifica è quella di Francis Bacon, italianizzato Francesco Bacone. Occorre, tuttavia, ricordare che il metodo induttivo baconiano è assolutamente privo di quel riferimento alla matematica e all’analisi quantitativa dei fenomeni che – a partire da Galilei – costituisce
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una delle condizioni essenziali della scienza moderna. Sotto questo aspetto Bacone è ancora ampiamente legato all’analisi qualitativa dei fenomeni. Ma, allora, in che modo egli avrebbe preso parte alla nuova temperie culturale e scientifica determinatasi tra Cinquecento e Seicento? La risposta a questo quesito sta nella consapevolezza – tutta moderna – che Bacone ha del valore e delle possibilità della scienza: il suo scopo non è soltanto quello di conoscere la natura, ma anche di assicurare il più ampio dominio possibile su di essa. Per questo, la concezione baconiana della scienza è stata riassunta nella celebre formula: sapere è potere.
tecnica Bacone è l’artefice della nuova concezione della scienza come sapere progressivo, sempre intento a trovare una saldatura tra pensiero e realtà e orientato a realizzare il dominio dell’uomo sulla natura. Bacone è stato da molti considerato come il primo teorico della tecnica moderna, non più intesa come semplice imitazione della natura (come nella tradizione precedente), bensì come vero e proprio strumento di azione dell’uomo su di essa. A suo avviso, la tecnica rappresenta il complemento dell’indagine scientifica, in quanto deriva dalla conoscenza della natura e delle sue leggi. Soltanto la consapevolezza delle connessioni oggettive tra cause ed effetti, verificata sperimentalmente, può permettere di prevedere e di controllare i processi del mondo naturale. Così Bacone riassume la sua posizione sui rapporti tra scienza e tecnica: «la scienza e il potere umano coincidono, perché l’ignoranza della causa preclude l’effetto e alla natura si comanda solo ubbidendole: quello che nella teoria funge da causa nell’operare pratico diventa regola». Nella Nuova Atlantide, opera pubblicata un anno dopo la sua morte (1627), Bacone immagina una società
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ideale, governata da un gruppo di scienziati di diversa formazione, con il solo scopo di fare delle scoperte utili a risolvere i problemi dell’umanità.
deduzione Dal latino deductio, è
il rapporto di «derivazione» di una conclusione da una o più premesse in un ragionamento. Aristotele la identifica con il sillogismo e la distingue dall’induzione, in quanto ragionamento che va dall’universale al particolare. Il sillogismo, secondo Aristotele, è la forma perfetta di deduzione: «un discorso in cui, poste talune cose, altre ne seguono di necessità». Esso è composto di tre proposizioni categoriche (ossia costituite di soggetto e predicato) e precisamente di due premesse e una conclusione. In ciascuna delle due premesse compare uno stesso termine, detto «medio», il quale consente di connettere gli altri due termini nella conclusione.
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induzione Era stata definita da
Aristotele come il procedimento inferenziale che va dal particolare all’universale. L’induzione per Aristotele avveniva «per enumerazione semplice», ovvero consisteva nel puro elenco di tutti i casi in questione. In questo modo, essa non usciva dal dato di fatto e non poteva fornire un vero ragionamento dimostrativo, affidato esclusivamente al sillogismo deduttivo. Bacone, invece, ritiene che l’induzione – sempre intesa come inferenza dal particolare al generale – abbia valore dimostrativo. Per questo motivo, essa non può consistere nella semplice enumerazione dei casi dati: questo procedimento è infatti sempre esposto alla falsificazione, qualora si trovi un caso contrario. Essa deve fornire, invece, regole oggettive per passare dal particolare all’universale attraverso una «scala continua», cioè attraverso un processo di generalizzazione graduale. Que-
sto procedimento graduale viene individuato da Bacone nella classificazione dei fenomeni mediante tavole di presenza, di assenza e dei gradi. Attraverso queste tavole si possono definire le «nature» dei fenomeni, ossia le caratteristiche comuni a più soggetti (come il calore, il peso, l’estensione, la luce). Sempre attraverso le tavole si possono definire le leggi o «forme» delle nature, ossia i rapporti costanti in cui esse appaiono nei fenomeni. Ciascun fenomeno, infatti, è una combinazione di nature, alcune delle quali sono casuali, altre costanti. Rilevare progressivamente queste regolarità attraverso la classificazione mediante tavole e la successiva conferma sperimentale, è compito dell’induzione. Per Bacone, dunque, il procedimento induttivo non è una semplice raccolta di osservazioni particolari, ma un vero e proprio ragionamento che serve a dimostrare connessioni necessarie.
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i testi t8 Galilei / Filosofia e Scrittura Galilei
Lettera a Cristina di Lorena
La Lettera a Cristina di Lorena, madre del granduca di Toscana, è la più nota delle «lettere teologiche», in cui Galilei difende l’autonomia della ricerca scientifica contro l’autorità della Scrittura. La tesi centrale di Galilei è che la finalità della Scrittura non è di fornire agli uomini conoscenze teoriche, ma soltanto di istruirli sul modo di giungere alla salvezza. Per essere più facilmente comprensibile, essa si esprime pertanto nel loro linguaggio, riproducendone la rozzezza del modo di pensare e persino gli errori, quando essi riguardino solo questioni teoriche (come sono appunto le nozioni di carattere fisico-astronomico) e non abbiano attinenza con la verità religiosa.
Il motivo, dunque, che loro1 producono per condennar l’opinione della mobilità della Terra e stabilità del Sole, è, che leggendosi nelle Sacre Lettere, in molti luoghi, che il Sole si muove e che la Terra sta ferma, né potendo la Scrittura mai mentire o errare, ne séguita per necessaria conseguenza che erronea e dannanda sia la sentenza di chi volesse asserire, il Sole esser per se stesso immobile, e mobile la Terra. Sopra questa ragione parmi primieramente da considerare, essere e santissimamente detto e prudentissimamente stabilito, non poter mai la Sacra Scrittura mentire, tutta volta che si sia penetrato il suo vero sentimento2, il qual non credo che si possa negare esser molte volte recondito e molto diverso da quello che suona il puro significato delle parole. Dal che ne séguita, che qualunque volta alcuno, nell’esporla, volesse fermarsi sempre nel nudo suono literale, potrebbe, errando esso, far apparire nelle Scritture non solo contradizioni e proposizioni remote dal vero, ma gravi eresie e bestemmie ancora: poi che sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani ed occhi, e non meno affetti 1. Si riferisce a coloro «che s’ingegnano di persuadere che tale autore si danni, pur senza vederlo; e per persuadere che ciò non solamente sia lecito, ma ben fatto, vanno producendo alcune autorità della Scrittura e de’ sacri teologi e de’ Concili». 2. Galilei non mette in dubbio il prin-
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corporali ed umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, ed anco tal volta la dimenticanza delle cose passate e l’ignoranza delle future3, le quali proposizioni, sì come, dettante lo Spirito Santo, furono in tal guisa profferite da gli scrittori sacri per accomodarsi alla capacità del vulgo assai rozo e indisciplinato, così per quelli che meritano d’esser separati dalla plebe è necessario che i saggi espositori ne produchino i veri sensi4, e n’additino le ragioni particolari per che e’ siano sotto cotali parole profferiti: ed è questa dottrina così trita e specificata appresso tutti i teologi, che superfluo sarebbe il produrne attestazione alcuna. Di qui mi par di poter assai ragionevolmente dedurre, che la medesima Sacra Scrittura, qualunque volta gli è occorso di pronunziare alcuna conclusione naturale, e massime delle più recondite e difficili ad esser capite, ella non abbia pretermesso questo medesimo avviso, per non aggiugnere confusione nelle menti di quel medesimo popolo e renderlo più contumace contro a i dogmi di più alto misterio5. Perché se, come si è detto e chiaramente
cipio della veridicità assoluta della Bibbia. Essa va però interpretata e spiegata nel suo vero senso («sentimento»). La difesa dell’autonomia della ricerca scientifica è congiunta in Galileo a un vero e proprio metodo di esegesi biblica. 3. L’argomento usato qui da Galileo è
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molte forte: una interpretazione letterale della Bibbia porterebbe ad affermare una concezione antropomorfica di Dio. 4. Il vero significato. 5. Se la Scrittura non disdegna di servirsi di un linguaggio umano per comunicare la verità religiosa, a maggior ra-
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si scorge, per il solo rispetto d’accomodarsi alla capacità popolare non si è la Scrittura astenuta di adombrare principalissimi pronunziati6, attribuendo sino all’istesso Iddio condizioni lontanissime e contrarie alla sua essenza, chi vorrà asseverantemente sostenere che l’istessa Scrittura, posto da banda cotal rispetto, nel parlare anco incidentemente di Terra, d’acqua, di Sole o d’altra creatura, abbia eletto di contenersi con tutto rigore dentro a i puri e ristretti significati delle parole? e massime nel pronunziar di esse creature cose non punto concernenti al primario instituto delle medesime Sacre Lettere, ciò è al culto divino ed alla salute dell’anime, e cose grandemente remote dalla apprensione del vulgo7. Stante, dunque, ciò, mi par che nelle dispute di problemi naturali non si dovrebbe cominciare dalle autorità di luoghi delle Scritture, ma dalle sensate esperienze e dalle dimostrazioni necessarie: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al nudo significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro, es-
gione essa non trascura questo accorgimento («ella non abbia pretermesso questo medesimo avviso»), quando deve fare affermazioni su questioni di scienza naturale («pronunziare alcuna conclusione naturale»), irrilevanti per la salvezza dell’anima. Ciò è fatto per non confondere la mente del popolo ignorante e non renderlo così più riluttante («contumace») all’ascolto della Parola divina. 6. Adombrare principalissimi pronunziati: esprimere in termini antropomorfici importanti affermazioni, come quelle relative alla essenza divina.
sendo la natura inesorabile ed immutabile, e mai non trascendente i termini delle leggi impostegli, come quella che nulla cura che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità degli uomini8; pare che quello degli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone dinanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio, non che condennato, per luoghi della Scrittura che avessero nelle parole diverso sembiante; poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura, né meno eccellentemente ci si scuopre Iddio negli effetti di natura che ne’ sacri detti delle Scritture9: il che volse per avventura intender Tertulliano in quelle parole: Nos definimus, Deum primo natura cognoscendum, deinde doctrina recognoscendum: natura, ex operibus; doctrina, ex praedicationibus10.
GUIDA ALLA LETTURA 1. Il linguaggio delle Scritture si rivolge a un preciso destinatario. Quale? 2. Qual è lo scopo etico a cui rispondono le Sacre Scritture? Individua nel testo la risposta galileiana. 3. Su quali basi si deve fondare la ricerca scientifica?
7. Si ribadisce qui la diversa finalità
della Scrittura rispetto alla ricerca naturale: la Bibbia insegna «come si vadia in cielo», non «come vadia il cielo». 8. Se la Bibbia deve seguire la regola didattica della comunicabilità e della comprensibilità, la natura invece non ha bisogno di essere capita da tutti. In essa non c’è quindi una «lettera» immaginifica che raggiunga anche i più semplici. La natura deve essere piuttosto compresa nella sua vera e unica struttura, che è quella matematica. Se non si approntano i mezzi per fare questo – cioè le procedure sperimentali
(«sensate esperienze») e le dimostrazioni rigorose («dimostrazioni necessarie») – essa rimane ignota agli uomini. 9. La natura e la Scrittura sono due forme diverse della manifestazione di Dio: egli può dunque essere conosciuto tanto attraverso la prima, quanto per mezzo della seconda. 10. «Noi sosteniamo che Dio deve in primo luogo essere conosciuto per mezzo della natura, in secondo luogo riconosciuto attraverso il suo insegnamento: nella natura secondo ciò che ha fatto, nell’insegnamento secondo ciò che ha detto».
i testi
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t9 Galilei / Le qualità soggettive e oggettive Galilei
Il Saggiatore
§ 48
Il Saggiatore fu scritto da Galileo nel 1623, in polemica con il gesuita Orazio Grassi, per contestare la realtà delle comete, che egli invece spiega come una semplice illusione ottica. Quest’opera quindi non è rilevante per le sue tesi astronomiche (che vanno anzi nella direzione della difesa di una tradizione priva di fondamento), ma perché contiene importantissimi chiarimenti metodologici. Uno di essi riguarda la distinzione tra le qualità soggettive e oggettive dei corpi: le prime dipendono dalla percezione dei sensi e possono variare da individuo a individuo; le seconde, invece, appartengono alle cose in se stesse e sono misurabili da tutti allo stesso modo.
Restami ora che, conforme alla promessa fatta di sopra a V.S. Illustrissima1, io dico certo mio pensiero intorno alla proposizione «Il moto è causa di calore», mostrando in qual modo mi par ch’essa possa esser vera. Ma prima mi fa di bisogno fare alcuna considerazione sopra questo che noi chiamiamo caldo, del qual dubito grandemente che in universale ne venga formato concetto assai lontano dal vero, mentre viene creduto essere un vero accidente affezzione e qualità che realmente risegga nella materia dalla quale noi sentiamo riscaldarci. Per tanto io dico che ben sento tirarmi dalla necessità2, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, che’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba essere bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi, se i sensi non ci fussero scorta, forse il di-
1. Si riferisce a Virginio Cesarini (1595-
1624), al quale Il Saggiatore è indirizzato in forma epistolare. 2. Si intende: essere costretto dalla necessità logica.
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scorso o l’immaginazione per se stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori etc., per la parte del suggetto nel quale ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, sieno levate ed annichilate tutte queste qualità; tuttavolta però che noi, sì come gli abbiamo imposti nomi particolari e differenti da quelli de gli altri primi e reali accidenti, volessimo credere ch’esse ancora fussero veramente e realmente da quelli diverse3.
GUIDA ALLA LETTURA 1. Sottolinea nel testo le differenti qualità soggettive indicate da Galilei. 2. Che cosa, secondo Galilei, si è costretti ad ammettere con «necessità» riguardo alle sostanze corporee?
3. Le qualità oggettive – figura, dimen-
sione, luogo, tempo, movimento o quiete, azione causale, numero – risiedono realmente nelle cose. Le qualità soggettive – colore, sapore, suono,
4. il pensiero scientifico nel cinquecento e nel seicento
odore – hanno esistenza soltanto in riferimento al soggetto che le percepisce: al di fuori di esso non sono più nulla.
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t10 Bacone / La teoria degli idoli Bacone
Novum Organum
I, aforismi 38-44
Il Novum Organum di Bacone è composto di brevi paragrafi scritti in stile aforistico. Ne riportiamo alcuni nei quali sono tracciate le linee fondamentali della teoria degli idoli – in latino idola, «fantasmi, credenze vane» – nucleo centrale della pars destruens del metodo baconiano. Vengono qui definiti i quattro generi di idoli che stanno alla base degli erramenti umani: gli idoli della tribù, della caverna, del foro e del teatro.
Gli idoli e le nozioni false che hanno invaso l’intelletto umano gettandovi radici profonde, non solo assediano la mente umana sì da rendere difficile l’accesso alla verità, ma (anche dato e concesso tale accesso), essi continuerebbero a nuocerci anche durante il processo di instaurazione delle scienze1, se gli uomini, di ciò avvisati, non si mettessero in condizione di combatterli, per quanto è possibile. Quattro sono i generi di idoli che assediano la mente umana. A scopo didascalico li chiameremo rispettivamente: idoli della tribù, idoli della spelonca, idoli del foro, idoli del teatro. L’unico mezzo per scacciare gli idoli e tenerli lontani dalla mente umana sta nel seguire il naturale sviluppo dei concetti e degli assiomi per mezzo dell’induzione vera , ma già la delineazione degli idoli è di grande vantaggio. La teoria degli idoli sta infatti alla interpretazione della natura, come la dottrina degli elenchi sofistici sta alla dialettica comune. Gli idoli della tribù sono fondati sulla natura umana stessa, e sulla stessa famiglia umana, o tribù. Erroneamente si asserisce che il senso è la misura delle cose. Al contrario, tutte le percezioni, sia sensibili che intellettive, sono in relazione con la natura umana, non in relazione con la natura dell’universo. E l’intelletto umano è come uno specchio ineguale rispetto 1. L’instauratio magna, che dà anche il titolo all’opera baconiana di cui il Novum Organum costituisce la seconda parte, rappresenta il programma scientifico-filosofico di Bacone. 2. Gli organi della conoscenza umana – sia i sensi, sia l’intelletto – non sono adatti a riprodurre la realtà oggettiva, ma, conoscendola, la adattano piuttosto al carattere soggettivo della natura
alef
Bacone L’induzione
ai raggi delle cose; esso mescola la propria natura con quella delle cose, che deforma e trasfigura2. Gli idoli della spelonca derivano dall’individuo singolo. Ciascuno di noi, oltre le aberrazioni comuni al genere umano, ha una spelonca o grotta particolare in cui la luce della natura si disperde e si corrompe3; o per causa della natura propria e singolare di ciascuno; o per causa della sua educazione e della conversazione con gli altri, o per causa dei libri ch’egli legge e dell’autorità di coloro che egli ammira ed onora; o per causa della diversità delle impressioni, secondo che esse trovino l’animo già occupato da preconcetti oppure sgombro e tranquillo. In ogni modo lo spirito umano, considerato secondo che si dispone nei singoli individui, è assai vario e mutevole, e quasi fortuito. Perciò ottima è la sentenza di Eraclito: «Gli uomini vanno a cercare le scienze nei loro piccoli mondi, non nel mondo più grande, identico per tutti»4. Vi sono anche idoli che dipendono per così dire da un contratto e dai reciproci contatti del genere umano: noi li chiamiamo idoli del foro, riferendoci al commercio e al consorzio degli uomini5. Il collegamento tra gli uomini avviene per mezzo della favella, ma i nomi sono imposti alle cose secondo la comprensione del
umana. È questo un assunto che avrà una grande importanza nei successivi sviluppi della filosofia moderna. In Bacone, tuttavia, esso non è oggetto di un particolare approfondimento. 3. La spelonca indica l’elemento della soggettività individuale, e cioè il soggetto conoscente considerato come interiorità soggettiva, condizionata dalla sua particolare natura, formazione, di-
pendenza di giudizio, esperienza personale. 4. Il riferimento è a Eraclito, fr. 92, citato da Sesto Empirico, Adversus mathematicos, VII, 113. 5. Per «foro» si intende qui il mercato dove gli uomini si incontrano per comunicare e per commerciare.
i testi
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volgo, e basta questa informe e inadeguata attribuzione di nomi a sconvolgere in modo straordinario l’intelletto6. Né valgono certo, a ripristinare il naturale rapporto tra l’intelletto e le cose, tutte quelle definizioni ed esplicazioni delle quali i dotti si servono sovente per premunirsi e difendersi in certi casi. Perché le parole fanno gran violenza all’intelletto e turbano i ragionamenti, trascinando gli uomini a innumerevoli controversie e considerazioni vane. Altri idoli, infine, sono penetrati nell’animo umano ad opera delle diverse dottrine filosofiche e a causa delle pessime regole di dimostrazione: noi li chiamiamo idoli del teatro; perché consideriamo tutti i sistemi filosofici che sono stati accolti o escogitati come altrettante favole preparate per essere rappresentate sulla scena, buone a costruire mondi di finzione e di teatro. Non intendiamo parlare soltanto dei sistemi filosofici attuali o delle sètte filosofiche
6. Il linguaggio ha un’origine conven-
zionale, ma i nomi sono imposti alle cose senza che si riesca a determinare un significato unitario dei termini usati, che vengono intesi secondo i diversi modi in cui la gente comune si rappre-
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antiche; molte altre favole simili a quelle si possono comporre e mettere insieme, giacché anche dei più diversi errori le cause possono essere quasi le stesse. Dicendo ciò non pensiamo, inoltre, soltanto alle filosofie nella loro universalità, ma anche ai molti princìpi e assiomi della scienza che si sono affermati per tradizione, fede cieca e trascuratezza7. Ma di questi quattro generi di idoli bisogna discorrere più a lungo e più particolarmente per cautelare l’intelletto di fronte a essi.
GUIDA ALLA LETTURA 1. A che cosa servono l’induzione e la definizione dei vari tipi di idoli? 2. A che cosa fa riferimento Bacone con i termini «spelonca» e «foro»? 3. Perché Bacone paragona alcuni sistemi filosofici a favole da rappresentare a teatro?
senta le cose. Con una terminologia moderna si potrebbe dire che, per Bacone, gli «idoli del foro» derivano dalla difficoltà di trasformare il linguaggio comune in un linguaggio scientifico. 7. «Idoli del teatro» sono quindi in ge-
4. il pensiero scientifico nel cinquecento e nel seicento
nerale tutte le credenze, sia di ordine filosofico sia di ordine scientifico, costruite su teorie inventate astrattamente e poi trasmesse acriticamente.
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esercizi/4 CHE COSA SO?
8. Qual è il ruolo della matematica nella scienza moderna?
Guida allo studio del manuale
9. Quali sono i caratteri fondamentali del «sistema copernicano»?
1. Evidenzia le caratteristiche e il ruolo dell’esperimento nella scienza moderna, in Galileo e in Bacone. 2. Evidenzia come muta la visione delle sfere cristalline da Copernico a Keplero. 3. Evidenzia la concezione della natura formulata da Galileo. 4. Evidenzia in che modo la teoria delle maree doveva supportare, secondo Galileo, la visione copernicana del mondo. 5. Evidenzia le matrici storiche e culturali della nuova concezione della scienza elaborata da Bacone. Dizionario filosofico 6. Definisci i seguenti concetti: meccanicismo • intensità ed estensione della conoscenza matematica (Galilei) • qualità oggettive e soggettive (Galilei) • principio di inerzia (Galilei) • idoli (Bacone)
10. Perché il «sistema ticonico» del mondo rappresenta una soluzione intermedia fra il sistema tolemaico e quello copernicano? 11. Ricostruisci le vicende relative al processo e alla condanna di Galilei. 12. Perché Bacone contrappone alla induzione aristotelica un «nuovo» metodo induttivo? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 13. Perché il sistema copernicano ha una importanza che va oltre l’ambito dell’astronomia? 14. Esponi con parole tue le leggi di Keplero ed evidenzia i punti in cui esse mettono in crisi alcuni capisaldi della fisica aristotelica. 15. In che cosa consiste il «metodo sperimentale» di Galilei? 16. Quali novità introduce l’astronomia galileiana rispetto alla cosmologia aristotelico-tolemaica?
CHE COSA HO CAPITO?
17. Qual è il rapporto tra scienza e tecnica in Bacone?
Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe)
18. Ricostruisci l’argomentazione con cui Galilei sostiene l’autonomia della ricerca scientifica.
7. Perché la scienza moderna è «quantitativa», mentre quella antica è «qualitativa»?
esercizi/4
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testimonianza dei sensi, l’esistenza della realtà esterna, le stesse certezze matematiche. Di una cosa, tuttavia, non posso dubitare: se dubito, penso, e se penso, è evidente che esisto come soggetto che pensa. Il cogito ergo sum mi dà la garanzia di esistere come cosa pensante (res cogitans). Ho anche la certezza di pensare idee: per pensare, infatti, bisogna pensare qualcosa. Ciò che il cogito non riesce a provare è l’esistenza di cose esterne corrispondenti alle idee. l’idea innata di dio
5. cartesio i contenuti un nuovo modello di razionalità
Cartesio inaugura una nuova forma di razionalismo che costituirà un termine di riferimento fondamentale per tutta l’Età moderna. Alla razionalità aristotelico-scolastica, fondata sul metodo sillogistico e sul ragionamento mediato, egli contrappone la ragione intuitiva che coglie immediatamente le «cose semplici» (come l’estensione, la figura, il movimento) e le loro connessioni più elementari. Per Cartesio, anche la deduzione ha un fondamento intuitivo. Con essa, infatti, cose apparentemente lontane si mettono in connessione attraverso una serie di passaggi intermedi, ciascuno dei quali ha però carattere intuitivo. Il modello di razionalità a cui si è ispirato Cartesio è quello matematico-
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5. cartesio
euclideo. La ragione, per Cartesio, esprime la capacità del pensiero umano di acquisire conoscenze universalmente certe. un nuovo metodo per una nuova ragione
Cartesio indica il metodo che l’uomo deve seguire se vuole ottenere conoscenze certe. La prima regola impone di accettare come vere soltanto le conoscenze che presentino il carattere dell’evidenza. La seconda regola indica nella procedura dell’analisi il modo per pervenire a certezze evidenti. La terza regola prescrive la sintesi come strumento per riorganizzare le singole conoscenze in un tutto coerente. La quarta regola indica alcune tecniche di controllo procedurale delle operazioni effettuate. dal dubbio alla certezza
Per Cartesio, dunque, è necessario sottoporre tutte le cose non evidenti alla prova del dubbio: la
Per compiere il passaggio all’esistenza di una realtà esterna, Cartesio ricorre all’idea innata di Dio. Essa, infatti, è l’idea di una perfezione che non può essere prodotta da un essere imperfetto come l’uomo. Ciò implica che Dio debba esistere realmente al di fuori della mente umana. In quanto perfetto, Dio è assoluta bontà. Egli, pertanto, non può ingannarmi né corrompendo le mie capacità razionali, né facendomi apparire come reale un mondo esterno inesistente. sostanza divina e sostanze create
Dio svolge il ruolo di garante della verità conosciuta dal soggetto, ossia di tutto ciò che egli concepisce in modo evidente (e quindi anche del mondo esterno). Solo Dio è sostanza in senso proprio; in senso derivato, sono sostanze anche le cose corporee e le anime (la mia e quelle altrui), perché create da lui. Le sostanze corporee sono caratterizzate dall’estensione (res extensa) e sono divisibili; invece, le sostanze pensanti sono semplici e immateriali. Di qui il radicale dualismo cartesiano di sostanza pensante e di sostanza estesa, fornite di attributi opposti e totalmente indipendenti l’una dall’altra. la macchina del mondo
La sostanza materiale ha come carattere fondamentale
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l’estensione. Se l’estensione è il carattere unitario della materia, la molteplicità del mondo materiale è data dalla sua divisione in parti e dalla diversa ridistribuzione del moto. Dopo aver creato la sostanza estesa, infatti, Dio ha impresso in essa una certa quantità di movimento che, pur rimanendo la stessa, passa da una parte all’altra secondo una causalità meccanica. Successivamente, l’attività di Dio si è limitata alla provvidenza ordinaria, ossia al mantenimento in essere del mondo e alla garanzia dell’invariabilità delle leggi che regolano la distribuzione del movimento.
corpo umano. In tal senso, il corpo umano è paragonabile a un automa meccanico. Il suo motore è il cuore, che produce la circolazione sanguigna. Le parti più grossolane del sangue raggiungono le diverse membra del corpo e ne provocano i movimenti. Soltanto le più sottili penetrano invece nel cervello, causando le passioni e le affezioni che l’anima riceve dal corpo. Come avvenga il commercio tra l’anima (sostanza pensante) e il corpo (sostanza estesa) costituisce una difficoltà teorica di Cartesio.
la macchina del corpo
Mentre è impegnato nella ricerca delle conoscenze evidenti, l’uomo deve trovare dei princìpi pratici che possano guidare la sua condotta. È
Lo stesso meccanicismo che opera nella natura si ritrova anche nel
la morale provvisoria e il dominio delle passioni
a questo scopo che Cartesio – nella terza parte del Discorso sul metodo – redige le regole della morale provvisoria, le quali prescrivono di conformarsi alle leggi e ai costumi del proprio paese, di essere risoluti nelle decisioni prese, di cambiare i propri pensieri e desideri piuttosto che l’ordine delle cose, di ricercare sempre la verità. Nel trattato sulle Passioni dell’anima, Cartesio ribadisce il ruolo della ragione nel conoscere con chiarezza e distinzione i meccanismi fisiologici alla base delle emozioni e nell’imparare a dominarle, limitandone le conseguenze negative e canalizzandole verso fini desiderati. In ciò consistono – come già avevano insegnato gli stoici antichi – la saggezza e la felicità dell’uomo.
gli strumenti in poche… parole regole del metodo / intuito / deduzione / dubbio / cogito / sostanza / idea / Dio / rapporto tra anima e corpo / morale provvisoria / saggezza
esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?
i testi a. nel manuale t11 Cartesio/La ragione, ovvero il buon senso t12 Cartesio/Le regole del metodo t13 Cartesio/Dal dubbio alla certezza del cogito t14 Cartesio/Sostanza divina e sostanze create t15 Cartesio/La morale provvisoria t16 Cartesio/Verso una morale definitiva
b. on-line Cartesio/Tre tipi di idee Cartesio/Le dimostrazioni dell’esistenza di Dio Cartesio/La macchina del mondo Cartesio/La macchina del corpo Cartesio/Le funzioni dell’anima Cartesio/La ghiandola pineale
5. cartesio
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1. Vita e opere
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la formazione
Le vicende biografiche di René Descartes (latinizzato in Cartesio) ebbero grande incidenza sulla sua opera filosofica. Nato nel 1596 a La Haye nella Turenna, egli frequentò il collegio dei gesuiti di La Flèche, dove gli fu impartita un’educazione prevalentemente umanistica. In seguito, studiò diritto all’Università di Poitiers. Il giovane Cartesio non tardò, tuttavia, a nutrire dubbi sulla validità del sapere così acquisito. In particolare, lo colpiva il carattere soggettivo e la varietà delle opinioni sostenute dai filosofi. Messi da parte gli studi libreschi, nel 1618 Cartesio si arruolò nell’esercito di Maurizio di Nassau – la guerra dei Trent’anni era scoppiata in quell’anno – e iniziò a viaggiare per l’Europa. Prima come soldato poi come privato, egli approfittò dei suoi soggiorni in Olanda, Danimarca, Germania, Francia, Italia per ricercare nel «gran libro del mondo» ciò che non aveva trovato negli autori studiati.
la verità è nell’io
Ma neppure la conoscenza di paesi diversi fornì a Cartesio la garanzia di un sapere più sicuro. Al contrario, alla constatazione dell’arbitrarietà delle teorie filosofiche si aggiunse quella della relatività dei costumi delle diverse nazioni. Per questo motivo, decise di ripiegarsi in se stesso e di trovare nel proprio io la verità che andava cercando. Da questo nuovo atteggiamento di pensiero trasse origine un’opera nella quale Cartesio esponeva le sue teorie sulla natura e sulle leggi della realtà fisica (compresa quella umana): Il mondo o Trattato della luce, integrato da una parte su L’uomo (1630-1633). La condanna di Galileo da parte della Chiesa indusse, tuttavia, Cartesio alla prudenza: egli pubblicò soltanto alcuni saggi tratti dal Mondo (La diottrica, Le meteore e La geometria), facendoli precedere da una specie di introduzione intitolata Discorso sul metodo (1637).
alla ricerca del metodo
Il Discorso – in cui è contenuto il credo filosofico di Cartesio – era già stato in parte anticipato da altri due scritti a carattere metodologico. Nelle Regulae ad directionem ingenii (1627-1628), Cartesio enumerava ventuno regole a cui deve attenersi la ricerca filosofica, ma lo scritto – rimasto incompiuto – ne prevedeva sessanta. La ricerca della verità – anch’essa non terminata – indicava, invece, nella ragione naturale il solo strumento necessario alla conoscenza umana. Quest’ultima, secondo Cartesio, può e deve essere attinta «senza valersi dell’aiuto della religione e della filosofia», ossia senza il pesante apparato concettuale – per lo più di ascendenza aristotelico-scolastica – che si insegnava nelle scuole.
tra metafisica ed etica
Molti dei temi trattati nel Discorso vengono ripresi in forma più analitica nelle Meditazioni metafisiche, originariamente redatte in latino (1641) e poi tradotte in francese (1647). Cartesio le fece circolare – prima della pubblicazione – tra i dotti del tempo (tra cui Hobbes e Gassendi), in modo da poterle dare alle stampe unitamente alle Obiezioni da essi formulate e alle relative sue Risposte. Il pensiero di Cartesio trova un’esposizione sistematica nei Princìpi di filosofia, scritti in latino (1644) e successivamente tradotti in francese (1647). I 5. cartesio
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Princìpi, tuttavia, mentre riformulano in brevi paragrafi i presupposti fondamentali della filosofia di Cartesio (già esposti nel Discorso) e la sua concezione della realtà fisico-naturale (trattata nel Mondo), non affrontano la trattazione della realtà umana (analizzata nell’Uomo). La lacuna viene colmata dall’ultima importante opera di Cartesio: Le passioni dell’anima (1649), un trattato di etica che – partendo dall’analisi della natura del corpo umano e delle sue funzioni – costituisce anche un breve compendio di fisiologia umana. Sempre nel 1649, Cartesio riceve da parte della regina Cristina di Svezia l’invito a recarsi a Stoccolma per insegnarle personalmente la sua filosofia. Il rigore dell’inverno scandinavo e le originali abitudini della regina – le conversazioni filosofiche si svolgevano alle cinque del mattino – furono causa di un’infiammazione ai polmoni che portò Cartesio alla morte l’11 febbraio 1650.
gli ultimi anni in svezia
2. Ragione e sapere Cartesio vede nella ragione il punto di partenza di ogni ricerca filosofica e di ogni sapere scientifico. A causa della sua particolare concezione della ragione, egli entra in polemica con il razionalismo di ascendenza aristotelicoscolastica, che vincolava la validità del sapere a specifici procedimenti logici (i sillogismi). Il razionalismo cartesiano presuppone, invece, il carattere intuitivo della conoscenza. Ma che cos’è la ragione, per Cartesio? Nel Discorso sul metodo, la ragione è definita come «il potere di giudicare rettamente discernendo il vero dal falso» [t11]. Essa è sinonimo di intelletto, di lume naturale o – più semplicemente – di buon senso. In generale, dunque, la ragione rappresenta la capacità – posseduta naturalmente e spontaneamente da ogni uomo – di attingere conoscenze certe.
il primato della ragione intuitiva
Questa concezione della ragione incide anche sulla forma espositiva delle opere di Cartesio. Con ogni probabilità, non è un semplice omaggio a una tradizione letteraria il fatto che la Ricerca della verità sia esposta in forma di dialogo. Anche il Discorso e le Meditazioni sono scritti in forma autobiografica e contengono di fatto il resoconto del colloquio dell’autore con la propria ragione. L’integrazione delle Meditazioni con le Obiezioni e le Risposte, inoltre, accentua il carattere quasi dialogico dell’opera.
la scelta del genere autobiografico
Come già sappiamo, Cartesio non scrisse soltanto opere dalla forma dialogica, ma anche trattati (Il mondo e L’uomo, ma soprattutto i Princìpi e Le passioni dell’anima). Ciò dipende, da un lato, dall’esigenza pratica di inserirsi nel mondo accademico con opere che rispettino le forme espositive proprie della tradizione scolastica; dall’altro, dalle stesse caratteristiche della ragione messe in luce da Cartesio. Mentre i dialoghi platonici tendono a lasciare aperto il problema, il colloquio che il soggetto conoscente instaura con la propria ragione può essere esposto sistematicamente all’interno di un trattato. Per Cartesio, infatti, la ragione è infallibile se correttamente usata: il
la scelta del genere trattatistico
5. cartesio
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colloquio con essa, pertanto, conduce sempre a un esito univoco e definitivo. logos stoico e ragione cartesiana
La convinzione di Cartesio, secondo cui la ragione è una e uguale in tutti gli uomini, lascia trasparire l’influenza esercitata dagli stoici antichi: per loro, infatti, gli uomini potevano partecipare del Logos universale grazie alla loro ragione individuale. Ma qual è la differenza tra il Logos stoico e la ragione cartesiana? Il Logos degli stoici costituiva l’ordine logico-ontologico della realtà intera e perciò veniva identificato con Dio. La ragione cartesiana, invece, rappresenta una facoltà specificamente umana che – come vedremo – trova in Dio soltanto il garante della propria validità.
dall’unità della ragione all’unità del sapere
Le diverse scienze – pur avendo contenuti specifici differenti – traggono i loro princìpi da alcune verità fondamentali che la ragione ritrova intuitivamente in se stessa. La ragione riflette dunque sulle scienze la propria unità, così come – secondo la metafora contenuta nelle Regulae – è unica la luce con cui il Sole illumina le cose. Da questo punto di vista, la filosofia si configura come la scienza fondamentale che fonda e coordina tutte le altre discipline. «La filosofia – asserisce, a questo proposito, Cartesio nei Princìpi di filosofia – è come un albero, le cui radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, i rami che spuntano dal tronco sono tutte le altre scienze, cioè la medicina, la meccanica e la morale».
3. Il metodo della conoscenza caratteri e compiti del metodo
Nel paragrafo precedente, abbiamo visto come la ragione – secondo Cartesio – sia ugualmente partecipata da tutti gli uomini. Ora, se la ragione è una, uno deve essere il metodo con cui essa attinge conoscenze certe. Il metodo costituisce, dunque, il principio formale unitario di ogni scienza. Il metodo cartesiano è definito sin dalle Regulae ad directionem ingenii: «Per metodo intendo delle regole certe e facili, osservando le quali esattamente, nessuno darà mai per vero ciò che sia falso e, senza consumare inutilmente alcuno sforzo della mente, ma gradatamente aumentando sempre il sapere, perverrà alla vera cognizione di tutte quelle cose di cui sarà capace».
le quattro regole
Nel Discorso, come si è detto, le regole del metodo sono ridotte a quattro [t12]. 1. La prima regola è quella dell’evidenza: essa prescrive di accogliere come vero solo ciò che è evidente, ovvero ciò che è chiaro e distinto. 2. La seconda regola prescrive il procedimento dell’analisi come condizione essenziale per l’acquisizione dell’evidenza. I problemi che si incontrano nella ricerca sono, infatti, facilmente risolvibili se vengono divisi nei loro elementi più semplici. 3. La terza regola prescrive il procedimento della sintesi, che consente di risalire dagli oggetti più facilmente conoscibili a quelli più complessi. In tal modo, è possibile ritrovare in essi o imporre a essi un ordine generale. 4. La quarta regola, infine, raccomanda di compiere enumerazioni: grazie a
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esse, si può verificare di non aver dimenticato nulla e di non aver commesso errori nei passaggi precedenti. La chiarezza e la distinzione definiscono la conoscenza certa ed escludono la validità di un sapere soltanto probabile o congetturale. Ma attraverso quali strumenti razionali si consegue la conoscenza certa? Nelle Regulae, Cartesio individua due fonti del sapere certo.
le due fonti del sapere certo
1. L’ intuito ha per oggetto le conoscenze immediatamente evidenti alla ragione. Esso riguarda le «cose semplici» (come l’estensione, la figura, il movimento, l’esistenza, ecc.) che possono essere comprese di per se stesse, senza essere ricondotte ad altre evidenze più immediate. La natura di queste cose è infatti immediatamente chiara e distinta a chiunque e non ha bisogno – per essere colta – di artificiose definizioni, come pretendeva la tradizione aristotelico-scolastica. 2. La deduzione riguarda la congiunzione necessaria delle «cose semplici» in modo da formare «cose composte». In altre parole, la deduzione consente di passare dall’intuizione di verità immediatamente evidenti a verità che presentano una complessità sempre maggiore, fino a comprendere l’intera scienza umana. La deduzione differisce quindi dall’intuito, in quanto procede discorsivamente. Essa non coglie immediatamente la verità, ma opera attraverso ragionamenti scanditi da passaggi intermedi. Nel ragionamento deduttivo, da cose immediatamente evidenti si possono derivare altre cose la cui evidenza è soltanto mediata, cioè garantita dalla correttezza delle «congiunzioni» intermedie. Ora, a ben vedere – come Cartesio stesso fa notare – ciascun passaggio intermedio è a sua volta fondato su una certezza immediata. Anche quando attua la deduzione, quindi, il metodo cartesiano conserva il suo carattere intuitivo. La combinazione di intuito e deduzione – ovvero dell’analisi, che consente di cogliere le evidenze più semplici, e della sintesi, che insegna a ricomporle entro nessi necessari – permette di organizzare le conoscenze secondo un ordine tanto esteso quanto si estende il sapere stesso dell’uomo. L’edificio della scienza appare così un tutto ordinato: in esso, ciascun singolo elemento è connesso a tutti gli altri da precisi e univoci rapporti. Per questa esigenza di ordine, il metodo di Cartesio assume come modello la matematica. La concezione cartesiana della matematica, tuttavia, a differenza della tradizione scolastica, non comprende soltanto la matematica pura (aritmetica e geometria) e la matematica applicata (astronomia, ottica, musica). Essa si configura, invece, come matematica universale (mathesis universalis), ossia come «scienza dell’ordine e della misura» in generale.
l’ordine delle conoscenze e la matematica
4. Dal dubbio al cogito ergo sum La prima regola del metodo, come abbiamo visto, prescrive di accettare come vero soltanto ciò che è evidente. Ciò equivale a dubitare di ogni cosa che non offra tale garanzia e a sospendere il giudizio su tutto ciò di cui non possiamo essere assolutamente certi. Ma come si potrà giungere alla certez5. cartesio
dubbio e certezza
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za dell’evidenza? Per far ciò, Cartesio utilizza il dubbio stesso come uno strumento metodologico. In altre parole, se – dubitando di tutto – qualcosa si sottrarrà al mio dubbio metodico, allora questa cosa sarà necessariamente evidente. l’estensione del dubbio
Per Cartesio, la prima cosa di cui si deve dubitare è la testimonianza dei sensi. Accade, infatti, che i sensi talvolta ci ingannino. Ma se essi ci ingannano anche una volta soltanto, perché non potrebbero ingannarci sempre? Allo stesso modo è necessario porre in dubbio l’esistenza del nostro corpo e di tutta la realtà esterna: entrambi, infatti, potrebbero essere il risultato di un’illusione, simile a quelle che subiamo nei sogni. Chi ci assicura – si domanda Cartesio – che la nostra vita non sia un sogno continuo? Infine, Cartesio arriva a dubitare delle stesse certezze matematiche. A suo avviso, infatti, nulla esclude che Dio possa volerci ingannare o almeno permettere che ci inganniamo. Se poi ciò fosse impossibile, perché in contrasto con la bontà divina, si può comunque supporre che al posto di Dio esista un genio maligno, intento a usare la sua onnipotenza per ingannarci.
dubito, quindi esisto
Malgrado l’applicazione metodica del dubbio, una cosa si sottrarrà sempre al mio dubitare: il fatto stesso che io dubito [t13]. Ora, se è evidente che dubito, è altrettanto evidente che penso, e quindi che esisto come sostanza pensante. Questo è il senso della celebre formula cartesiana: cogito ergo sum. In altre parole, anche se io sogno o sono ingannato da un genio cattivo, nondimeno io certamente penso – seppure fantasticherie ed errori – e ho la certezza di esistere come soggetto del mio pensiero: Poi, esaminando attentamente che cosa ero, vedevo che potevo fingere di non avere un corpo, e che non esistesse il mondo, né luogo alcuno in cui mi trovassi; ma non per questo potevo fingere che io non fossi; al contrario, dal fatto stesso di pensare a dubitare della verità delle altre cose seguiva con grande evidenza e certezza che io esistevo; mentre, se solo avessi smesso di pensare, anche se tutte le altre cose da me immaginate fossero state vere, non avrei avuto nessuna ragione di credere che esistevo; conobbi così di essere una sostanza la cui essenza o natura era esclusivamente di pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo e non dipende da alcuna causa materiale (Discorso sul metodo, parte IV).
la discussione intorno al cogito
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Facendo leva sull’ergo («quindi») contenuto nella formula del cogito , i contemporanei accusarono Cartesio di essersi servito di un ragionamento che non esplicita la premessa maggiore, dandola invece per presupposta. A loro parere, il ragionamento cartesiano nella sua interezza sarebbe costituito da tre proposizioni, e non da due: «Tutto ciò che pensa esiste», «Io penso», «Dunque sono». Secondo questa prospettiva, il cogito non sarebbe la conoscenza «prima e certissima» su cui tutto il resto si deve fondare, ma dipenderebbe da una premessa non sottoposta a dubbio e quindi non dimostrata. Per i suoi critici, inoltre, Cartesio – procedendo nel modo che abbiamo illustrato – avrebbe surrettiziamente fatto uso di quella logica sillogistica che tanto contestava. Cartesio risponde all’obiezione, precisando che il cogi5. cartesio
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to ergo sum non è un ragionamento discorsivo, ma un’intuizione immediata. In base a essa, colui che dubita o che pensa – il che è lo stesso – percepisce la propria esistenza come un’evidenza certissima e irrefutabile. Cogitare ed esse non sono, dunque, i due momenti distinti di una successione logica – malgrado l’ergo che li connette – ma i due aspetti di un’unica evidenza.
5. Dall’esistenza dell’io all’esistenza di Dio Come abbiamo visto, il soggetto – l’«io» – è certo di esistere come essere pensante. Per Cartesio, dunque, il pensiero non è soltanto una facoltà, ma una sostanza . Ora, com’è articolato il pensiero, secondo Cartesio? «Con la parola pensiero – egli afferma nei Princìpi – io intendo tutto quel che accade in noi in tal modo che noi lo percepiamo immediatamente per noi stessi; ecco perché non solo intendere, volere, immaginare, ma anche sentire è qui lo stesso che pensare». La sostanza pensante ha, quindi, una valenza insieme teoretica e pratica. Essa comprende: a) da un lato, i modi in cui si formano le rappresentazioni attraverso l’intelletto (concepire, immaginare, ma anche sentire sensorialmente); b) dall’altro, i modi in cui il soggetto opera per mezzo della volontà (desiderare, provare avversione, affermare, negare, dubitare).
la sostanza pensante è coscienza di sé
Secondo Cartesio, il soggetto è certo non solo della propria esistenza, ma anche delle proprie idee . Esse sono l’oggetto immediato del pensiero stesso, ossia le rappresentazioni che il soggetto ha nell’atto stesso del pensare. Da questo punto di vista, Cartesio mostra di essere lontano da ogni forma di platonismo che riconosca alle idee una realtà autonoma e indipendente dal soggetto che le pensa. Ora, se il soggetto è certo delle proprie idee, non lo è affatto né della sua esistenza corporea – il corpo, infatti, è qualcosa di diverso dalla sostanza pensante – né della realtà esterna in generale – le idee, infatti, potrebbero non corrispondere a nulla di reale. Com’è possibile, allora, spiegare l’esistenza del mondo fuori di noi e del nostro corpo? L’unico modo per garantire l’esistenza di qualcosa al di fuori del soggetto – ed evitare di affermare la sola esistenza del soggetto pensante – è individuare un’idea capace di rimandare immediatamente a una realtà esterna.
come evitare il solipsismo
A questo proposito, Cartesio distingue tre tipi di idee : 1) le idee innate corrispondono a verità conseguibili per il solo esercizio del pensiero (ad esempio, le verità matematiche); 2) le idee avventizie sono quelle che sembrano provenirci dall’esterno, come le immagini degli oggetti d’esperienza; 3) le idee fattizie sono quelle costruite o inventate dal soggetto stesso (ad esempio, le sirene e gli ippogrifi). Ora, quali di queste idee sono in grado di rinviare a una realtà esistente al di fuori del soggetto pensante? Le idee fattizie – per definizione – non possono rinviare ad alcuna realtà esterna. Allo stesso modo, non si può essere certi che le idee avventizie provengano veramente dall’esterno: esse potrebbero, infatti, essere prodotte da una mia inconsapevole facoltà rappresentativa. Rimangono, quindi, soltanto le idee innate.
le idee dell’io
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Cartesio Tre tipi di idee
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dio non è solo un’idea ma una realtà
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Tra le idee innate vi è – secondo Cartesio – l’idea di Dio . Partendo dalle caratteristiche di questa idea presente nella mente di ognuno di noi, Cartesio si sforza di dimostrare l’esistenza di Dio in tre modi diversi . 1. La prima dimostrazione muove dal principio che la causa di qualcosa dev’essere uguale o maggiore all’effetto prodotto. Ora, l’idea di Dio equivale all’idea della perfezione. Com’è possibile, dunque, che qualcosa di imperfetto sia la causa dell’idea di perfezione? L’idea di Dio, infatti, non può essere prodotta né dall’uomo – imperfetto per il fatto stesso che dubita – né dalle cose esterne – anch’esse imperfette dal momento che posso dubitare della loro esistenza. L’idea della perfezione divina deve, quindi, provenire necessariamente da un Essere perfetto che esiste realmente al di fuori dell’idea che ho di lui. Ecco come Cartesio espone la prima dimostrazione: Di conseguenza, riflettendo sul fatto che dubitavo, e che quindi il mio essere non era del tutto perfetto, perché – lo vedevo chiaramente – conoscere era una perfezione maggiore che dubitare, badai a cercare da dove avevo imparato a pensare a qualcosa di più perfetto di quel che io non fossi, e conobbi evidentemente che doveva essere da qualche natura effettivamente più perfetta. Quanto alle idee che avevo di parecchie altre cose fuori di me, come il cielo, la terra, la luce, il calore e mille altre, non mi affannavo poi tanto a scoprire da dove venivano perché, non osservando in esse nulla che mi sembrasse renderle superiori a me, potevo credere che, se erano vere, dipendessero dalla mia natura in quanto dotata di qualche perfezione; e, se non erano vere, che mi venissero dal nulla, ossia che fossero in me per ciò che in me era imperfetto. Ma non poteva dirsi lo stesso dell’idea di un essere più perfetto del mio: manifestamente impossibile che mi venisse dal nulla; ma neanche poteva venirmi da me, perché una derivazione e dipendenza del più perfetto dal meno perfetto non implica minor contraddizione di una derivazione di qualcosa dal nulla. Restava solo che fosse stata messa in me da una natura davvero più perfetta di quel che io non fossi, anzi che avesse in sé tutte le perfezioni di cui potevo avere idea, cioè, per spiegarmi con una parola sola, che fosse Dio (Discorso sul metodo, parte IV).
2. La seconda dimostrazione muove dallo stesso principio della prima. In base a esso, io non posso essere causa della mia esistenza. Se fossi stato in grado di dare a me stesso l’essere, infatti, mi sarei dato anche quelle perfezioni – infinità, onnipotenza, onniscienza – di cui ho l’idea. Ora, io sono consapevole della mia imperfezione, com’è testimoniato dal fatto che dubito. Per questo motivo, deve esistere un Dio che mi ha portato all’esistenza e che possiede realmente tutte le perfezioni per me soltanto pensabili. 3. Con la terza dimostrazione dell’esistenza di Dio, Cartesio risponde a quanti hanno messo in dubbio l’efficacia delle prime due. Alla prima e alla seconda dimostrazione – entrambe fondate sul rapporto tra perfezione divina e imperfezione umana – alcuni hanno obiettato che il soggetto è in grado di pensare l’idea della perfezione come idea di ciò che gli manca. A loro avviso, tuttavia, ciò non comporta che l’essere perfetto – il solo a poterne essere la causa – esista realmente. Ma questo, per Cartesio, è impossibile: in 98
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tal caso, infatti, si presupporrebbe una perfezione priva dell’attributo dell’esistenza, ovvero una perfezione imperfetta. Come si può notare, nella terza dimostrazione Cartesio riprende la prova elaborata da Anselmo, in base alla quale l’esistenza è implicita nel concetto stesso di perfezione. A quella prova egli aggiunge soltanto la certezza delle proposizioni matematiche: «l’esistenza – afferma, infatti, nelle Meditazioni – non può essere separata dall’esistenza di Dio più di quel che dall’essenza di un triangolo rettilineo possa essere separata l’equivalenza dei suoi tre angoli a due retti».
6. Dio come garante della verità L’applicazione del dubbio metodico ha condotto all’affermazione di alcune verità incrollabili: 1) dal fatto che dubito deriva la certezza che esisto come sostanza pensante; 2) essendo una sostanza pensante, sono certo delle idee che penso; 3) tra le idee – che costituiscono i contenuti del mio pensiero – vi sono le idee innate; 4) tra le idee innate vi è l’idea di Dio; 5) dell’idea di Dio – corrispondente all’idea di perfezione – non posso essere io la causa, dal momento che sono imperfetto; 6) Dio – essendo perfetto – è la causa dell’idea di perfezione che trovo nella mia mente; 7) Dio – essendo la causa dell’idea di perfezione che porto dentro di me – deve necessariamente esistere.
dall’io a dio: un breve riepilogo
Dalla perfezione di Dio è possibile dedurre anche i suoi attributi: a) egli è spirito (il corpo esteso, potendo essere diviso in parti, è imperfetto); b) pura intelligenza (la dipendenza dai sensi è un limite); c) volontà buona (il male è assenza di perfezione). In quanto è buono, Dio non può essere ingannatore. In tal modo, l’ipotesi del genio maligno che impiega il suo potere per ingannarci cade definitivamente. Da questo punto di vista, il Dio cartesiano svolge il ruolo di garante della verità conosciuta dal soggetto. Oltre alla dimensione metafisica, pertanto, il Dio cartesiano appare dotato di una specifica valenza gnoseologica. In che modo?
gli attributi di dio
In primo luogo, Dio garantisce l’infallibilità del lume naturale – ovvero dell’intelletto – quando esso venga correttamente usato. Il principio dell’evidenza, per cui si può accogliere come vero ciò che è conosciuto con chiarezza e distinzione, trova in Dio il suo fondamento ultimo. L’intelletto umano è, quindi, di per sé infallibile. Da che cosa dipende, allora, l’errore? L’errore non è mai imputabile all’intelletto, bensì alla volontà. Da essa soltanto, infatti, dipende l’assenso che il soggetto può dare a una conoscenza prima che essa risulti chiara e distinta. Il fatto di prendere il falso per vero presuppone, dunque, sempre un atto di precipitazione. Quando ciò accade, la volontà prevarica l’intelletto impedendogli una corretta applicazione del metodo.
verità ed errore
In quanto volontà buona e quindi non ingannatrice, Dio garantisce la realtà del mondo esterno. La sospensione del giudizio sulla realtà diversa dalla sostanza pensante – dovuta all’applicazione del dubbio metodico – non ha
l’esistenza dei corpi materiali
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più ragione di essere. Si può, dunque, ammettere con certezza l’esistenza di una sostanza con attributi opposti al pensiero. Si tratta – come vedremo più avanti – di una sostanza estesa e divisibile in parti, della quale sono composti tanto il nostro corpo quanto gli oggetti del mondo naturale.
7. La sostanza le diverse accezioni della sostanza
Nei paragrafi precedenti, si è parlato di sostanza pensante e di sostanza estesa. Ma che cos’è la sostanza, secondo Cartesio? Nei Princìpi, la sostanza è definita come «una cosa che esiste in tal modo da non aver bisogno che di se medesima per esistere». In senso proprio, dunque, il termine sostanza compete soltanto a Dio. In senso più ampio, tuttavia, la sostanza può essere intesa come ciò che per esistere non ha bisogno di nient’altro che di Dio. In quest’accezione, si distinguono due tipi di sostanza: 1) la sostanza pensante, priva di estensione e indivisibile; 2) la sostanza estesa e divisibile [t14].
difficoltà e aspetti positivi del dualismo di anima e di corpo
Queste due sostanze sono reciprocamente distinte: infatti, i loro rispettivi attributi fondamentali – il pensiero e l’estensione – sono conosciuti separatamente dall’intelletto. In ciò consiste il dualismo metafisico che caratterizza la filosofia di Cartesio. Dal dualismo cartesiano scaturiscono numerose difficoltà concettuali – ad esempio, il problema del rapporto tra anima e corpo [cfr. 5.9] – ma anche alcuni effetti positivi. Opponendosi alla tradizione aristotelica che vedeva nel corpo esclusivamente un organo dell’anima, infatti, il dualismo ha comportato il riconoscimento dell’autonomia della materia corporea dalla sostanza spirituale. Dal punto di vista storico, pertanto, il dualismo cartesiano ha contribuito alla nascita di una scienza del corpo umano e della natura fisica che obbedisce a metodi autonomi e indipendenti dalla metafisica tradizionale. In particolare, il cartesianesimo ha promosso l’abbandono delle spiegazioni finalistiche di derivazione aristotelico-scolastica e la diffusione di una considerazione meccanico-causale della natura.
il deduttivismo della fisica e della biologia cartesiane
A questo proposito, occorre tuttavia ricordare che – sebbene la filosofia cartesiana abbia avuto, come si è visto, uno straordinario influsso sullo sviluppo delle scienze – la fisica e la biologia elaborate da Cartesio si discostano notevolmente dai modelli metodologici della scienza moderna. In esse, infatti, l’esperienza svolge una funzione subordinata rispetto alle conclusioni del metodo intuitivo-deduttivo, la cui validità appare incondizionata.
8. Il mondo fisico qualità oggettive e soggettive
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Cartesio riconosce alla materia corporea due tipi di qualità: 1) alcune appartengono a essa oggettivamente (la grandezza, la figura, il movimento, la quiete, la durata); 2) altre sono percepite soltanto soggettivamente dai sensi umani (il colore, l’odore, il sapore, il suono). In realtà, anche queste qua5. cartesio
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lità sono riconducibili al solo attributo fondamentale dell’estensione in lunghezza, larghezza e profondità. La riduzione della sostanza corporea all’estensione garantisce l’unità della materia, ovvero l’unità tra il corpo umano e il mondo naturale da un lato e tra la materia sublunare e la sostanza celeste dall’altro (in opposizione alla fisica aristotelica). La ricchezza di aspetti, in cui la sostanza estesa si presenta, dipende esclusivamente dalla sua divisione in parti e dal movimento che interviene tra di esse.
la materia è una
Secondo Cartesio, non esistono spazi vuoti all’interno della materia: tutte le parti della sostanza estesa sono, infatti, a contatto reciproco e interagiscono le une con le altre. Ciò che sembra vuoto è, in realtà, riempito da materia fluida (ad esempio, l’aria).
il vuoto non esiste
Cartesio spiega ogni fenomeno naturale attraverso un rigido meccanicismo. È lui stesso a sottolineare l’affinità della sua fisica con il pensiero di Democrito, anche se non mancano le differenze. Secondo il filosofo greco, infatti, le particelle sono atomi indivisibili e si muovono nel vuoto. Per Cartesio, invece, l’estensione comporta sempre la divisibilità e il vuoto non esiste.
l’immagine meccanicistica dell’universo
Nell’universo descritto da Cartesio in termini meccanicistici, che ruolo spetta a Dio? La sua azione è limitata a due generi di interventi: a) l’iniziale creazione della sostanza estesa e la comunicazione a essa del movimento; b) la provvidenza ordinaria con cui egli conserva in essere la materia e mantiene costante la quantità di moto in essa impresso. Ora, poiché la volontà divina è immutabile, Dio non interferisce nelle cose del mondo attraverso interventi straordinari, o miracoli.
il ruolo di dio
Ciò garantisce, secondo Cartesio, l’invariabilità delle leggi che presiedono alla ridistribuzione del movimento all’interno della materia, rimanendo costante la sua quantità complessiva. Esse sono tre: 1) la legge dell’inerzia, secondo la quale ogni parte della materia conserva il proprio stato finché non è urtata dalle altre; 2) il principio della conservazione del movimento, per cui la quantità di moto che un corpo comunica a un altro urtandolo è uguale a quella che perde; 3) il principio per cui ogni corpo tende a muoversi in linea retta .
le tre leggi del movimento
In base a questi princìpi, Cartesio delinea – in termini puramente meccanicistico-causali – la formazione dell’universo dal caos primordiale all’ordine cosmico. Le particelle in cui si divide la materia primordiale ruotano sia intorno al proprio centro, sia le une attorno alle altre. In tal modo, esse formano vortici che determinano la progressiva differenziazione della materia attorno a diversi punti centripeti. Si formano così i tre elementi fondamentali (fuoco, aria, terra), dalla ulteriore combinazione dei quali nasce il sistema solare.
la teoria dei vortici
Consapevole del fatto che alcune sue teorie – la formazione progressiva dell’universo attraverso i vortici, la dottrina eliocentrica – si allontanavano dal dettato delle Scritture, Cartesio non manca di avere le dovute cautele nei
il carattere ipotetico delle dottrine cosmologiche
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Cartesio La macchina del mondo
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confronti della censura. Egli presenta, infatti, le sue dottrine non già come verità assolute – solo la Rivelazione può avere l’ultima parola – ma come ipotesi. Tali ipotesi avrebbero la funzione di aiutare a capire meglio la natura dei fenomeni fisici, pur essendo o potendo essere in sé del tutto false.
9. Il corpo umano la descrizione meccanicistica del corpo umano
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, la materia di cui è composto il mondo naturale è la stessa di cui è composto il corpo umano. Ciò significa che tanto il primo quanto il secondo possono essere spiegati in termini meccanicistico-causali. In base a questa prospettiva, infatti, il corpo umano è paragonabile a un automa che esce dalle mani di Dio così come un orologio viene prodotto dall’artificio dell’uomo.
il cuore è il motore del corpo
Secondo Cartesio, il centro di propulsione della macchina umana è il cuore, a cui si deve la circolazione del sangue. Quest’ultima era già stata scoperta e descritta come conseguenza del movimento muscolare cardiaco dal medico William Harvey (1578-1657) nel 1628. Ciononostante, Cartesio crede erroneamente di dovervi aggiungere una correzione. Egli spiega, infatti, la circolazione come effetto del calore del cuore che scalda il sangue, rarefacendolo e sospingendolo in tutte le parti del corpo .
le funzioni dell’anima
l’unione di anima e corpo
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Nelle Passioni dell’anima, Cartesio distingue due funzioni dell’anima, ovvero della sostanza pensante: a) le azioni, ossia gli atti della volontà che dipendono esclusivamente dall’anima stessa; b) le passioni, ossia le percezioni che l’anima riceve dai sensi o dall’interno del corpo (la fame, il dolore fisico) e i moti stessi dell’anima (la gioia, la collera) . Le emozioni dell’anima sono dovute ai cosiddetti spiriti animali: con tale termine, Cartesio intende riferirsi alle parti più vive e sottili del sangue che riescono a penetrare nei minuscoli fori di accesso del cervello. La comunicazione tra l’anima e il corpo rappresenta uno dei punti più controversi del pensiero di Cartesio. Dal momento che la res cogitans e la res extensa sono due sostanze indipendenti ed eterogenee, non si vede come l’una possa influire sull’altra. La soluzione di Cartesio è la seguente. Al centro del cervello esiste un organo particolare – la ghiandola pineale –, il solo a non essere diviso in due parti simmetriche. In essa, trova la sua sede specifica l’anima. Gli spiriti che provengono dagli organi sensoriali o dalle altre parti del corpo giungono attraverso i nervi – da intendersi come veri e propri conduttori idraulici – alla ghiandola pineale. Il movimento che essi vi producono provoca la fuoriuscita di altri spiriti che, attraverso nuovi nervi, mettono in moto determinate parti del corpo senza l’intervento della volontà. La ghiandola pineale può, tuttavia, essere mossa anche direttamente dalla volontà (espressione della res cogitans). Quest’ultima, infatti, è in grado di determinare anche da sola l’irradiazione degli spiriti nei nervi e i conseguenti movimenti del corpo. In quanto causa prima – non causata – la volontà è, quindi, libera. 5. cartesio
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Come si può osservare, il problema del rapporto tra anima e corpo viene da Cartesio soltanto rinviato, non risolto. La ghiandola pineale è, infatti, concepita come il luogo in cui possono agire sia corpi materiali (gli spiriti animali), sia una sostanza spirituale (la volontà). Essa è, dunque, soltanto il punto di incontro tra la sostanza estesa e quella pensante. Rimane, però, da spiegare come la volontà – o, più in generale, l’anima – possa produrre il movimento fisico della ghiandola. In altre parole, come può la sostanza pensante – ossia non estesa – influenzare la sostanza estesa, dal momento che non dispone per sua natura di alcuna capacità di propulsione meccanica? .
persistenti difficoltà del dualismo cartesiano
10. La morale Nel Discorso sul metodo, Cartesio aveva avvertito che sul piano pratico non è possibile sospendere il giudizio finché non si consegua l’evidenza, come è invece richiesto nell’ambito delle conoscenze teoriche. Se ciò accadesse, infatti, l’uomo non potrebbe dare corso ad alcuna azione fintantoché non avesse trovato delle verità assolutamente certe. Per evitare la paralisi dell’azione, Cartesio aveva formulato una morale provvisoria , articolata in alcune regole [t15].
ricerca dell’evidenza e vita pratica
Esse prescrivevano di 1) obbedire alle leggi e ai costumi del proprio paese e conservare la religione nella quale si è stati educati; 2) perseverare con risolutezza nella decisione presa, anche se la sua esecuzione può sollevare dei dubbi; 3) dominare se stessi piuttosto che la fortuna e cambiare i propri desideri piuttosto che l’ordine esterno delle cose; 4) dedicare tutta la vita allo sviluppo della ragione e alla ricerca della verità.
le regole della morale provvisoria
Nonostante i precetti della morale provvisoria, Cartesio non giunse mai a costruire una nuova teoria morale. Egli, infatti, finì per conferire un valore definitivo alle regole dapprima considerate provvisorie. Soprattutto la terza di esse assunse una posizione centrale nel suo pensiero. Nel suo operare, infatti, l’uomo deve lasciarsi guidare dalla ragione, con la quale deve imparare a dominare le passioni che agitano l’anima. In altri termini, nel conflitto tra il corpo e l’anima – ossia tra gli spiriti animali e la volontà libera – la seconda deve prevalere sul primo:
il primato della volontà sulle passioni
Quelle che io chiamo armi proprie della volontà sono giudizi saldi e precisi circa la conoscenza del bene e del male; giudizi in base a cui essa ha stabilito di regolare le azioni della propria vita; e le anime più deboli di tutte sono quelle la cui volontà non si impegna a seguire così certi giudizi, ma si lascia continuamente trascinare dalle passioni presenti, che, spesso in contrasto reciproco, la traggono volta a volta dalla loro, e facendola lottare con se stessa, mettono l’anima nello stato più deplorevole in cui possa trovarsi (Le passioni dell’anima, parte II, art. 48).
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a Cartesio La macchina del corpo b Cartesio Le funzioni dell’anima c Cartesio La ghiandola pineale
Ora, per Cartesio, ciò è possibile soltanto se la ragione impara a conoscere con chia5. cartesio
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rezza e distinzione le passioni e i loro meccanismi. Solo in questo modo, infatti, la ragione può riuscire non già a reprimerle, ma a controllarle e dirigerle verso fini desiderati. In ciò consistono, secondo Cartesio, la saggezza e la felicità dell’uomo. Nell’appello di Cartesio alla ragione come principio teorico-pratico dell’uomo, nonché nell’assimilazione di virtù e felicità che ne deriva, appare evidente l’influenza dello stoicismo classico in generale, e senechiano in particolare [t16].
in poche... parole Per Cartesio la ragione rappresenta il punto di partenza di ogni ricerca filosofica e di ogni sapere scientifico. La sua concezione della ragione differisce da quella della tradizione aristotelico-scolastica, che individua nel procedimento logico del sillogismo la forma più perfetta di conoscenza. Per Cartesio, invece, la ragione ha un carattere eminentemente intuitivo e consiste nella capacità – posseduta naturalmente da tutti gli uomini – di attingere conoscenze certe. Tutte le volte che l’uomo compie errori di giudizio, ciò è dovuto non ad una deficienza della ragione – che di per sé è infallibile – ma alla precipitazione della volontà. Per usare la ragione in modo corretto, Cartesio definisce le regole del metodo, il cui scopo è quello di garantire il perseguimento della verità e il progresso nelle scienze. Dopo avere individuato nell’intuito e nella deduzione le fonti del sapere certo, Cartesio mette in dubbio tutte le conoscenze acquisite, sia quelle tramandate dalle autorità del passato sia quelle attestate dai nostri sensi, in quanto prive del requisito dell’evidenza. Solo il fatto che «penso, dunque sono» rappresenta un’evidenza assoluta che resiste al dubbio e costituisce il fondamento dal quale ricavare tutte le altre verità.
regole del metodo Cartesio è convinto che – poiché la ragione è 104
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una e uguale in tutti gli uomini – uno deve essere anche il metodo con cui essa può attingere conoscenze certe. Solo seguendo le regole del metodo (dal greco mèthodos, composto da metà, che indica il seguire qualcosa, e hodòs, «via, strada»), l’uomo è in grado di evitare gli errori e di progredire nella ricerca della verità: esso, dunque, deve essere comune a tutte le scienze. Nel Discorso sul metodo, Cartesio enuncia quattro regole. 1) La regola dell’evidenza (dal latino evidentia, traduzione del greco enàrgheia, «chiarezza») prescrive di accogliere come vero solo ciò che è chiaro e distinto. Applicando il modello della matematica (e soprattutto della geometria euclidea), Cartesio fa dell’evidenza immediata, e dell’intuizione a essa connessa, il criterio del metodo deduttivo. In tal modo, esso respinge la tradizione aristotelicoscolastica che affidava la dimostrazione alle procedure del sillogismo. 2) La regola dell’analisi (dal greco anàlysis, formato da anà, «in su», e ly`ein, «sciogliere»: letteralmente designa l’operazione di sciogliere o risolvere) prescrive di scomporre un problema complesso nei suoi elementi più semplici, in modo da poterli percepire ognuno nella propria evidenza e da poterli così risolvere più facilmente. 3) La regola della sintesi (dal greco sy`nthesis, formato da sy`n, «con», e tìthemi, «pongo») indica il procedimento – inverso all’analisi – consistente nel «comporre»
entità o nozioni o proposizioni. In tal senso, la sintesi è la forma di conoscenza che va dal semplice al composto. 4) La regola dell’enumerazione prescrive di controllare tutti i passaggi compiuti in precedenza, per essere certi di non avere commesso errori nell’attuare le operazioni dell’analisi e della sintesi.
intuito Dal latino intuitus o intuitio (da intueor, «guardo attentamente dentro»), indica la conoscenza o percezione diretta, ossia senza intermediari o passaggi ragionati, di un oggetto o di una verità. L’intuito assume una grande importanza nella filosofia di Cartesio, che la pone a fondamento dell’evidenza. Per Cartesio l’intera conoscenza umana – nella sua forma più certa – ha carattere intuitivo. Il modello di intuito a cui si fa riferimento è quello matematico. deduzione Dal latino deductio, «derivazione». Per Cartesio, la deduzione consente di passare dall’intuizione di verità immediatamente evidenti a verità che presentano una complessità sempre maggiore, fino a comprendere l’intera scienza umana. Mentre l’intuito è l’apprensione diretta dell’oggetto che viene colto in modo evidente (e quindi indubitabile), la deduzione opera discorsivamente attraverso ragionamenti scanditi da passaggi intermedi: essa necessita di maggiore attenzione per cogliere la verità, perché
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deve passare attraverso una serie di tappe progressive. Ad esempio, il fatto che il soggetto pensante esista o che un triangolo sia delimitato da tre linee sono verità che si colgono intuitivamente; la dimostrazione del teorema di Pitagora o le leggi del movimento, invece, sono verità che si ricavano deduttivamente a partire da evidenze intuitive (rispettivamente, la definizione di triangolo e la nozione di materia estesa). Affinché possa risultare vera, la deduzione richiede che ciascun passaggio intermedio sia a sua volta fondato su una certezza immediata. La deduzione risulta, quindi, costituita da una serie di atti intuitivi che si succedono nel tempo: a differenza dell’intuito, essa implica il ricorso alla memoria, che deve garantire la possibilità di tenere assieme e di ripercorrere tutti gli anelli della catena deduttiva. Anche quando attua la deduzione, quindi, il metodo cartesiano conserva il suo carattere intuitivo.
dubbio Il dubbio indica generalmente una condizione di incertezza psicologica di fronte a un’alternativa nella quale i due corni sono giudicati equivalenti, oppure di fronte a una situazione che nel suo complesso appare indeterminata. Nella storia della filosofia, il dubbio era stato introdotto dagli scettici antichi – specificamente da Pirrone di Elide (360 ca.-270 ca. a.C.) – sulla base della convinzione che sia impossibile trovare un criterio certo per distinguere il vero dal falso. Il dubbio scettico investe, infatti, tutta la realtà e ha un carattere definitivo. Al contrario, il dubbio cartesiano ha una funzione puramente metodologica. Esso non intende essere definitivo, ma si propone di sospendere l’assenso a qualsiasi affermazione – di ordine teorico o pratico – finché non sia possibile renderla completamente evidente. Anche quando si estende a ogni cosa e ha carattere universale, il dubbio cartesiano
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non perde mai la sua funzione euristica e costruttiva. Da questo punto di vista, il dubbio cartesiano più che mettere in discussione l’esistenza della realtà esterna testimoniata dai sensi o la validità delle verità matematiche, si limita a rilevare come esse non abbiano in se stesse il fondamento della loro certezza. Cartesio trova nel cogito ergo sum tale fondamento primo e assoluto.
cogito
Abbreviazione della espressione cogito ergo sum, con la quale Cartesio esprime la sua dottrina dell’identità tra pensiero ed esistenza. Per Cartesio, il cogito è l’atto fondamentale della res cogitans. In tal senso, il cogito coincide con la coscienza, ossia con la facoltà del soggetto pensante di conoscere se stesso con assoluta certezza e di essere consapevole dei propri atti conoscitivi e volitivi. Detto altrimenti, il cogito rappresenta l’attività principale del soggetto, inteso da Cartesio come il sostrato delle attività mentali ed emotive (pensiero, immaginazione, volontà, sentimento interiore), indipendentemente dalla esperienza esterna. A esercitare il cogito è, pertanto, il soggetto o l’io, che ha coscienza della propria esistenza, in quanto essere pensante. Essendo immediata consapevolezza di sé, l’io è anche la sede della conoscenza intuitiva, che coglie le verità evidenti.
sostanza In Cartesio indica ciò che per sussistere non ha bisogno di altro che di se stesso (in latino: per se subsistens). In questo senso, soltanto Dio è autenticamente sostanza. In un senso analogico – Cartesio ha in mente il principio dell’analogia dell’essere introdotto da Tommaso d’Aquino e divenuto patrimonio comune della cultura scolastica – si può però parlare di sostanza anche a proposito del pensiero e dell’estensione. La sostanza pensante e quella estesa sono sostanze nella misura in cui –
fatta eccezione della loro dipendenza da Dio che le ha create – non dipendono da altro. Pensiero ed estensione – che esauriscono l’intera realtà creata – sono due realtà completamente indipendenti l’una dall’altra. In ciò consiste il dualismo metafisico, che sta a fondamento dell’intera filosofia di Cartesio.
idea La cultura filosofica prece-
dente a Cartesio aveva attribuito al concetto di «idea» due diversi significati. Nella tradizione platonica, il termine ha un valore ontologico: l’idea, infatti, esprime una realtà metafisica universale e unitaria che trascende la molteplicità del mondo empirico. Nella tradizione scolastica medievale, invece, l’idea indica la rappresentazione mentale nella sua funzione di corrispondere a una cosa esterna, alla quale rinvia. Discostandosi da entrambe le tradizioni, Cartesio è il primo a introdurre la nozione di idea come semplice oggetto interno del pensiero. Qualsiasi attività mentale – nella quale sono comprese il pensiero vero e proprio, ma anche la volizione e il sentire – ha un oggetto, ovvero è un pensare, un volere o un sentire qualcosa. Questo qualcosa è l’idea, indipendentemente dalla possibilità di un suo riferimento alla realtà al di fuori del soggetto. In altri termini, per Cartesio, l’idea rimanda a quell’atto originario per cui il pensiero è consapevole di se stesso e dei propri contenuti.
Dio Secondo Cartesio, il soggetto è certo della propria esistenza non meno delle rappresentazioni – o idee – che ha nell’atto del pensare. Tra le idee pensate dal soggetto vi è l’idea innata di Dio, che – a differenza delle idee avventizie e fattizie – è la sola capace di rimandare immediatamente ad una realtà esterna al soggetto pensante. Una volta affermata la presenza dell’idea di Dio nella mente di ognuno, Cartesio si sforza di dimostrare 5. cartesio
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che si tratta non solo di un’idea, ma di una realtà: poiché l’idea di Dio equivale all’idea della perfezione, io che sono imperfetto – come è attestato dal fatto che dubito – non posso esserne l’autore. L’idea della perfezione divina, dunque, deve provenire necessariamente da un essere perfetto che esiste realmente al di fuori dell’idea che ho di lui. Dalla perfezione di Dio è possibile dedurre anche i suoi attributi: egli è spirito, è puro intelletto, è volontà buona. Proprio in quanto è buono, Dio non può averci creato in maniera tale che ci inganniamo sistematicamente né può permettere che un genio maligno impieghi il suo potere per ingannarci. Il Dio cartesiano appare, dunque, dotato di una specifica valenza gnoseologica: 1) egli garantisce l’infallibilità dell’intelletto umano, qualora venga usato correttamente secondo le regole del metodo (prima fra tutte, quella dell’evidenza); 2) egli garantisce che le sostanze estese (cioè tutto il mondo esterno al soggetto pensante) esistano veramente e che di esse si possa conoscere con veridicità solo quanto l’intelletto riesce a concepire in modo evidente come appartenente all’essenza dei corpi (ovvero, le qualità oggettive della lunghezza, della larghezza, della profondità, della figura e del movimento). L’intelletto umano – la cui infallibilità è garantita dall’esistenza di Dio – concepisce in modo evidente l’esistenza di due tipi di sostanze che esauriscono l’intera realtà: la res cogitans (inestesa, consapevole di sé e libera) e la res extensa (estesa e meccanicamente determinata). Cartesio si trova, dunque, di fronte alla difficoltà di spiegare il loro scambievole rapporto nell’uomo, che è un’unione complessa di anima e di corpo. Inoltre, egli distingue due funzioni della sostanza pensante: a) le azioni, ossia gli atti della volontà che dipendono dal106
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l’anima stessa; b) le passioni, ovvero le percezioni che l’anima riceve dagli organi sensoriali (le percezioni esterne) o dall’interno del corpo (ad esempio, sete, fame, dolore), nonché gli stati passivi causati dal corpo ma riferiti all’anima (come la collera, la gioia, la tristezza). Nel conflitto tra il corpo e l’anima, Cartesio ritiene che la seconda debba prevalere sul primo: in quanto dipendenti dal corpo, le passioni non potranno mai essere completamente dominate dalla volontà; si potrà, tuttavia, moderarne gli effetti negativi e dirigerle razionalmente verso fini più desiderabili.
rapporto tra anima e corpo
Gli attributi fondamentali della res cogitans e della res extensa – rispettivamente il pensiero e l’estensione – sono conosciuti separatamente dall’intelletto: quest’ultimo concepisce, con chiarezza e distinzione, la mente come «sostanza pensante e non estesa» e il corpo come «sostanza estesa e non pensante». Da ciò scaturisce, secondo Cartesio, la loro distinzione ontologica: il fatto che queste due sostanze siano unite di fatto – l’uomo è unità di anima e corpo – non significa che esse non siano realmente separabili, nel senso che si tratta di due realtà interamente indipendenti l’una dall’altra. Ma se la res cogitans e la res extensa sono due sostanze indipendenti ed eterogenee, non si vede come l’una possa influire sull’altra, sebbene ciò sia attestato quotidianamente dall’esperienza comune. La soluzione di Cartesio è la seguente. Al centro del cervello esiste un organo particolare – la ghiandola pineale –, il solo a non essere diviso in due parti simmetriche. In essa, trova la sua sede specifica l’anima (che, non essendo estesa, è anche una e indivisibile). Gli spiriti che provengono dagli organi sensoriali o dalle altre parti del corpo giungono attraverso i
nervi alla ghiandola pineale. Il movimento che essi vi producono provoca la fuoriuscita di altri spiriti che, attraverso nuovi nervi, mettono in moto determinate parti del corpo senza l’intervento della volontà. La ghiandola pineale può, tuttavia, essere mossa anche direttamente dalla volontà (espressione della res cogitans), determinando l’irradiazione degli spiriti nei nervi e i conseguenti movimenti del corpo. La ghiandola pineale è, dunque, il punto di incontro tra la sostanza estesa e quella pensante. Rimane, però, da spiegare come può la volontà influenzare la sostanza estesa, essendo del tutto estranea ai processi di causazione meccanica.
morale provvisoria La ricerca
di conoscenze certe ha indotto Cartesio a sospendere il giudizio su tutto ciò che può essere revocato in dubbio: dalle percezioni sensibili al sapere tradizionale, alle verità matematiche. In attesa di conseguire l’evidenza, e per evitare la paralisi dell’azione, egli individua alcune regole di comportamento che permettano all’uomo di vivere il più felicemente possibile, accontentandosi di seguire nella sfera pratica i criteri di probabilità e di verosimiglianza che invece sono rigorosamente esclusi dall’ambito della conoscenza teorica. I precetti di questa morale dovevano pertanto essere provvisori, in attesa di trovare le verità che avrebbero consentito di sostituirli con princìpi definitivi. In realtà, Cartesio finì per conferire un valore definitivo alle regole dapprima considerate come provvisorie, le quali esprimevano le convinzioni etiche che lo avrebbero accompagnato per tutta la vita. Le massime della morale provvisoria sono tre: 1) la prima prescrive di obbedire alle leggi e ai costumi del proprio paese, conformandosi sempre alle opinioni più moderate e osservando la religione alla quale si è stati educati; 2) la seconda prescrive di
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perseverare con risolutezza nelle decisioni prese, in modo da evitare pentimenti dovuti a continui cambiamenti di opinioni; 3) la terza – che contiene un evidente riferimento al razionalismo stoico, in particolare di Seneca – prescrive di dominare se stessi piuttosto che la fortuna e di mutare i propri desideri piuttosto che l’ordine del mondo, partendo dalla convinzione che solo i nostri pensieri – e non il corso degli eventi o i beni esteriori esterne – siano interamente in nostro potere. A queste tre regole, esplicitamente formulate da Cartesio, è possibile aggiungere una quarta, dalla quale tutte le altre dipendono: essa consiste
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nel «dedicare tutta la vita a coltivare la ragione e progredire, per quanto era possibile, nella conoscenza della verità» (Discorso sul metodo, parte III), in base alle indicazioni del metodo (anzitutto, quella dell’evidenza).
saggezza Nel trattato sulle Passioni dell’anima, il richiamo allo stoicismo classico in generale, e a quello senechiano in particolare, si rafforza ancora di più. Per Cartesio, infatti, la vita virtuosa consiste nel lasciarsi guidare dalla ragione e nel dominare le passioni che agitano l’anima. Solo se impara a conoscere con chiarezza e distinzio-
ne i meccanismi alla base delle passioni, la ragione può liberare l’uomo dalla soggezione ad esse e dirigerle verso fini desiderati, assicurandogli la felicità. La saggezza – sulla scia degli stoici – consiste nella capacità di estendere il pensiero chiaro e distinto alle emozioni e di sottometterle al controllo della volontà razionale: «la saggezza è principalmente utile nell’insegnare a rendere talmente padroni delle passioni e a usarle con tanta accortezza, sì che i mali che esse causano siano ben sopportabili, e perfino tali che si tratta qualche gioia da tutti» (Le passioni dell’anima, parte III, art. 212).
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i testi t11 Cartesio / La ragione, ovvero il buon senso Cartesio
Discorso sul metodo
parte I
Il Discorso sul metodo (1637) è uno dei testi fondamentali della filosofia moderna. Esso rappresenta una sorta di «manifesto» del razionalismo di Cartesio, in quanto espone non soltanto le quattro regole del suo «metodo» filosofico, ma anche la vicenda biografico-intellettuale attraverso cui egli giunse a costruire un sistema filosofico basato su princìpi razionali. Ma alla base di questo progetto vi è la fiducia – professata fin dalle prime righe – nel fatto che tutti gli uomini dispongano della facoltà di discernere il vero dal falso, alla quale è sostanzialmente riconducibile la natura della sostanzialità umana.
Il buon senso è a questo mondo la cosa meglio distribuita: ognuno pensa di esserne così ben provvisto che anche i più incontentabili sotto ogni altro rispetto, di solito, non ne desiderano di più. Non è verosimile che tutti s’ingannino su questo punto; la cosa, piuttosto, sembra attestare che il potere di giudicare rettamente discernendo il vero dal falso, ossia ciò che propriamente si chiama buon senso o ragione, è naturalmente uguale in tutti gli uomini1. Sicché la diversità delle nostre opinioni non deriva dall’essere gli uni più ragionevoli degli altri, ma solo dalle vie diverse che seguiamo nel pensare, e dalla diversità delle cose considerate da ciascuno. Infatti non basta un bell’ingegno; l’essenziale è farne buon uso. Le anime più grandi sono capaci dei più grandi vizi come delle più grandi 1. La ragione non è per Cartesio una
facoltà specifica, distinta da altre facoltà conoscitive. Essa si identifica sostanzialmente con l’intelletto o, più semplicemente, con il buon senso. A questi diversi modi di esprimere la facoltà razionale è infatti riconducibile la funzione conoscitiva per eccellenza: la distinzione del vero dal falso. 2. Se tutti dispongono di ragione (o di buon senso) e sono in grado di distin-
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virtù, e chi cammina molto piano seguendo la retta via può andare molto più in là di chi corre allontanandosene2. Quanto a me, non ho mai preteso che la mia mente fosse in qualcosa superiore alla media; più d’una volta ho desiderato addirittura di avere il pensiero pronto, l’immaginazione nitida e distinta, la memoria vasta e presente che riscontravo in altri. E non so quali altre qualità contribuiscano alla perfezione dello spirito, perché voglio credere che la ragione, ovvero il [buon] senso, essendo la sola cosa per cui siamo uomini e ci distinguiamo dalle bestie, sia tutta intera in ognuno; e seguo in questo l’opinione comune dei filosofi, per cui il più e il meno si danno tra gli accidenti, non tra le forme o le nature degli individui della medesima specie3.
guere il vero dal falso, perché sono così diverse le opinioni su che cosa sia la verità? O, più semplicemente, perché alcuni attingono il vero e altri sbagliano? La risposta sta nel fatto che non basta possedere la facoltà di distinguere il vero dal falso: bisogna anche usarla nel modo corretto. Gli errori della conoscenza discendono infatti esclusivamente dal cattivo uso che gli uomini fanno della loro ragione: di qui la ne-
cessità di un metodo o, se vogliamo, di istruzioni per l’uso della ragione. 3. Utilizzando una terminologia scolastica Cartesio intende dire che tutti gli individui della specie umana posseggono la facoltà razionale nella sua interezza, poiché essa è intrinseca alla natura (o forma) dell’uomo. È accidentale invece, cioè non dipendente dalla natura umana, l’uso, più o meno corretto, che i singoli uomini fanno della loro ragione.
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GUIDA ALLA LETTURA 1. Per Cartesio il «buon senso» è ciò che caratterizza l’uomo in quanto tale. Come si esplica questa facoltà umana? 2. Nonostante la verità sia una e tutti gli uomini siano dotati di ragione, su tutte le questioni essi hanno espresso opinioni diverse. Perché? 3. Oggi col termine «buon senso» intendiamo qualcosa di diverso dal significato attribuitogli da Cartesio. Fai un confronto fra i due significati ed evidenzia – oltre le differenze – anche gli aspetti comuni dei due usi.
t12 Cartesio / Le regole del metodo Cartesio
Discorso sul metodo
parte II
Delle sei parti che compongono il Discorso sul metodo, le prime due riguardano i criteri generali della ricerca filosofico-scientifica. Più precisamente, nella prima parte – che ha valore essenzialmente critico – Cartesio espone «diverse considerazioni relative alle scienze» dirette a mostrare come tali criteri siano mancati nelle varie forme di sapere che hanno caratterizzato la cultura tradizionale. La seconda parte invece – che ha una funzione più specificamente costruttiva – culmina nell’esposizione delle quattro regole metodologiche che Cartesio ritiene possano garantire la certezza della conoscenza, esprimendo criteri procedurali validi indifferentemente per tutte le articolazioni del sapere umano. Da questa seconda parte è tratto il brano seguente.
Quando ero più giovane mi ero dedicato un po’, fra le parti della filosofia, alla logica, e, fra quelle della matematica, all’analisi dei geometri e all’algebra. Erano tre arti o scienze che pareva dovessero dare qualche contributo al mio disegno. Ma sottoponendole a esame mi accorsi che, per quanto riguarda la logica, i suoi sillogismi e la maggior parte delle sue regole servono a spiegare agli altri le cose che si sanno1, o addirittura, come l’arte di Lullo2, a parlare senza discernimento di quelle che non si sanno, piuttosto che a impararle. E, benché contenga di fatto molti precetti verissimi e ottimi, a que1. La logica aristotelica, fondata sul metodo deduttivo (sillogismo), fondava il suo carattere dimostrativo sulla sostanziale analiticità del rapporto tra conclusione e premesse: la conclusione, per essere valida, deve già essere implicita nelle premesse. A Cartesio il sillogismo appare dunque un’inutile esplicazione di cose che già si sanno. 2. Di Raimondo Lullo (1233/12351315) Cartesio aveva letto l’Ars brevis. La logica lulliana non aveva carattere
sti tuttavia se ne mescolano tanti nocivi o superflui che operare una separazione è difficile quasi come trarre una Diana o una Minerva da un blocco di marmo non ancora sbozzato. Quanto poi all’analisi3 degli antichi e all’algebra dei moderni, a parte il fatto che il loro campo è limitato a questioni molto astratte e che appaiono prive di utilità, la prima è sempre così legata alla considerazione delle figure che può giovare all’esercizio dell’intelligenza solo a prezzo di un grande sforzo dell’immaginazione; e, per quel che concerne la seconda, ci siamo lasciati irretire da certe formule e da certe
analitico-dimostrativo, ma piuttosto combinatorio-inventivo: di qui l’ironia di Cartesio. 3. Come chiarito all’inizio del capoverso («analisi dei geometri»), per analisi qui si intende ciò che in termini moderni è la geometria analitica. Quest’ultima disciplina trova in Cartesio uno dei suoi fondatori. Egli, infatti, introduce un metodo generalizzato per la soluzione dei problemi, che nell’Antichità venivano per lo più affrontati con criteri
pensati di volta in volta per il singolo caso. Quest’esigenza è infatti soddisfatta dall’applicazione sistematica degli assi coordinati (o, appunto, «assi cartesiani»), in cui i punti geometrici sono rappresentati con coppie di valori disposti sui due assi e le loro relazioni sono espresse da formule algebriche. In questo modo i problemi geometrici potevano essere risolti applicando le regole generali dell’algebra.
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cifre fino al punto da farne un’arte confusa e oscura, un ostacolo per la mente, anziché una scienza volta a coltivarne le capacità4. Da questo fui tratto a pensare che bisognava cercare un altro metodo che avesse i pregi dei tre precedenti restando immune dai loro difetti. E come le molteplicità delle leggi offre spesso una scusa ai vizi, dimodoché uno Stato risulta molto meglio organizzato quando, avendone pochissime, le vede osservate col massimo scrupolo; così, in luogo delle congerie di regole di cui la logica si compone, ritenni che mi sarebbero bastate le quattro seguenti, purché prendessi la ferma e costante decisione di non mancare di osservarle neppure una volta5. La prima era di non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi evidentemente per tale6; ossia evitare con cura la precipitazione e la prevenzione, giudicando esclusivamente di ciò che si presentasse alla mia mente in modo così chiaro e distinto7 da non offrire alcuna occasione di essere revocato in dubbio. La seconda era di dividere ciascuna delle difficoltà che esaminavo in quante più parti era possibile, in vista di una miglior soluzione. La terza di imporre ai miei pensieri un ordine, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscersi per risalire un po’ alla volta, come per gradi, alla conoscenza dei più complessi, supponendo un ordine anche tra
4. Anche nell’ambito dell’algebra Cartesio introduce importanti innovazioni relative soprattutto al nuovo sistema di notazione. All’uso dei numeri nelle equazioni algebriche egli sostituisce le lettere a, b, c… per le grandezze note e x, y, z per quelle ignote; al contrario, introduce l’uso dei numeri al posto delle lettere per indicare gli esponenti delle potenze. 5. Cartesio stesso nelle Regulae ad directionem ingenii aveva previsto un numero eccessivo di regole per la ricerca. La loro riduzione a quattro non impedisce tuttavia che il dettato delle Regulae sia spesso più esauriente di quello del Metodo. 6. Cfr. Regulae, Regola terza: «Riguardo agli argomenti da trattare si deve fare ricerca non di ciò che altri ne abbiano opinato o di ciò che noi stessi
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quelli tra cui non vige nessuna precedenza naturale8. L’ultima era di fare, in ogni occasione, enumerazioni tanto complete, e rassegne così generali da essere sicuro di non dimenticare nulla9. Quelle lunghe catene di ragioni, affatto semplici e facili, di cui i geometri si servono abitualmente per portare in fondo le loro dimostrazioni più difficili, mi avevano fatto immaginare che tutte le cose suscettibili di cadere sotto la conoscenza umana si susseguono allo stesso modo e che, se solo ci si astenga dall’accoglierne per vera qualcuna che non lo sia, e si mantenga sempre il debito ordine nel dedurre le une dalle altre, non possono esservene di tanto lontane da non essere alla fine raggiunte, né di tanto riposte da non essere scoperte. Né ebbi molto da stentare per stabilire da quali dovevo cominciare: sapevo già che dovevo partire dalle più semplici e facili da conoscersi; e considerando che fra quanti prima d’ora hanno cercato la verità nelle scienze solo i matematici hanno potuto trovare qualche dimostrazione, ossia qualche ragione certa ed evidente, non dubitavo di dover cominciare dalle stesse questioni che essi hanno esaminato; e questo senza sperare di trarne altra utilità all’infuori di un’abitudine della mia intelligenza a pascersi di verità e a non contentarsi di false ragioni.
congetturiamo, bensì di ciò che da noi si possa intuire con chiarezza ed evidenza e dedurre con certezza; poiché solo così si acquista scienza». 7. Per la definizione della chiarezza e distinzione cfr. 5.3. A ciò che è chiaro si oppone ciò che è oscuro; a ciò che è distinto si oppone ciò che è confuso. Un’idea può quindi essere contemporaneamente chiara, cioè contenere tutte le qualità che la contraddistinguono, e confusa, cioè contenere anche qualità che in realtà non le pertengono. Non è invece possibile avere un’idea oscura e distinta. 8. Cfr. Regulae, Regola quinta: «Tutto il metodo consiste nell’ordine e nella disposizione di quelle cose a cui dev’essere rivolta la forza della mente affinché si scopra qualche verità. E tale metodo osserveremo con esattezza se
ridurremo gradatamente le proposizioni involute e oscure ad altre più semplici, e poi dall’intuito di tutte le più semplici tenteremo di risalire per i medesimi gradi alla conoscenza di tutte le altre». 9. Cfr. Regulae, Regola settima: «Per perfezionare la scienza bisogna percorrere, con un moto continuo e non mai interrotto del pensiero, tutte le cose, e ciascuna in particolare, che si riferiscono al nostro scopo, e abbracciarle con una enumerazione sufficiente e ordinata». È tale «moto continuo e non mai interrotto del pensiero» che consente di collegare immediatamente il primo e l’ultimo anello del ragionamento deduttivo in modo da conservarne il carattere intuitivo malgrado i passaggi intermedi.
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GUIDA ALLA LETTURA 1. 1. Ricostruisci le ragioni per cui Cartesio decide di dedicarsi allo studio della logica, della geometria e dell’algebra. 2. Costruisci sul tuo quaderno una tabella in cui riportare i pregi e i difetti che Cartesio ritrova nella logica aristotelica e in quella lulliana, nella geometria e nell’algebra. 3. Ricostruisci le definizioni delle regole del metodo cartesiano esposte nella parte manualistica [cfr. 5.3] a partire dal testo presentato. 4. Definisci le nozioni cartesiane di «chiarezza» e «distinzione» delle idee. 5. Nella ricerca della verità Cartesio assegna un particolare ruolo alla matematica. Evidenzia nel testo i passi che espongono tale ruolo e riassumilo con parole tue.
t13 Cartesio / Dal dubbio alla certezza del cogito Cartesio
Discorso sul metodo
parte IV
Riproduciamo qui l’inizio della quarta parte del Discorso sul metodo (1637), nella quale Cartesio espone, in termini sintetici, il percorso dal dubbio metodico alla conquista della certezza dell’io, che verrà descritta in forma più articolata e dettagliata nelle Meditazioni metafisiche (1641).
Non so se mi convenga mettervi a parte delle prime meditazioni a cui mi sono dedicato qui; sono di natura così strettamente metafisica, e così fuori del comune, che forse non potranno andare a genio a tutti. Tuttavia, perché si possa giudicare della stabilità dei princìpi su cui mi fondo, mi trovo in qualche modo costretto a parlarne. Da un pezzo avevo notato che, per quanto concerne i costumi, come ho detto prima, talvolta bisogna seguire opinioni che si sanno molto incerte come se fossero al disopra di qualunque dubbio1; ma poiché allora desideravo unicamente di attendere alla ricerca della verità, pensai che dovevo fare tutto il contrario, rifiutando come assolutamente falso tutto ciò in cui potessi immaginare il minimo motivo di dubbio, per vedere se, dopo un tale rifiuto, qualcosa sarebbe rimasto a godere la mia fiducia come del tutto indubitabile. Quindi, dato che i sensi a volte ci ingannano, volli 1. Nella precedente parte del Discorso
Cartesio aveva esposto la sua morale provvisoria, partendo dal presupposto
supporre che nessuna cosa fosse tal quale ce la fanno immaginare. E poiché vi sono uomini che sbagliano ragionando anche a proposito dei più semplici argomenti di geometria, e cadono in paralogismi2, giudicando me stesso altrettanto soggetto all’errore quanto chiunque, rifiutai come false tutte le ragioni che in passato avevo ritenuto dimostrazioni. Infine, considerando che tutti i pensieri che abbiamo da svegli possono venirci in mente anche quando dormiamo, senza che nel sonno nessuno sia vero, decisi di fingere che tutto ciò che mi era passato per la mente non rivestisse maggior verità delle illusioni dei miei sogni. Ma subito dopo mi resi conto che nell’atto in cui volevo pensare così, che tutto era falso, bisognava necessariamente che io che lo pensavo fossi qualcosa. E osservando che questa verità, penso dunque sono, era così salda e certa da non poter
che sul piano pratico, dove non si può sospendere l’assenso fino all’acquisizione della completa evidenza, occorre spesso
accettare come praticamente vere massime ancora teoricamente incerte [t15]. 2. Falsi sillogismi, ragionamenti errati.
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vacillare sotto l’urto di tutte le più stravaganti supposizioni degli scettici, giudicai di poterla accettare senza scrupolo come il primo principio della filosofia che cercavo. Poi, esaminando attentamente che cosa ero, vedevo che potevo fingere di non avere un corpo, e che non esistesse il mondo, né luogo alcuno in cui mi trovassi; ma non per questo potevo fingere che io non fossi; al contrario, dal fatto stesso di pensare a dubitare della verità delle altre cose seguiva con grande evidenza e certezza che io esistevo; mentre, se solo avessi smesso di pensare, anche se tutte le altre cose da me immaginate fossero state vere, non avrei avuto nessuna ragione di credere che esistevo; conobbi così di essere una sostanza la cui essenza o natura era esclusivamente di pensare, e che per esistere non ha bisogno di alcun luogo e non dipende da alcuna causa materiale3. Dimodoché questo io, cioè l’anima in forza della quale sono ciò che sono, è interamente distinta dal corpo e addirittura è più facile a conoscersi del corpo, e, anche se esso non fosse, l’anima, nondimeno, sarebbe tutto ciò che è4. Dopo di ciò considerai in generale ciò che si ri-
3. Il pensiero è sostanza in quanto per
esistere non dipende da altri che da Dio (per la definizione del concetto di sostanza cfr. 5.7). In quanto sostanza, esso non può quindi dipendere da alcuna causa materiale, cioè da una causa esterna (che non sia Dio). Inoltre, essendo per sua natura inesteso, esso non richiede alcuna condizione esteriore per esistere. 4. Qui abbiamo già chiaramente formulata la tesi dualistica di Cartesio, con la rigida distinzione tra sostanza pensante e sostanza estesa.
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chiede perché una proposizione sia vera e certa; infatti, avendone trovata una che sapevo tale, pensai che dovevo anche sapere in che una tale certezza consiste. E, avendo notato che nella proposizione penso dunque sono, nulla mi assicura che sono nel vero se non il fatto di vedere molto chiaramente che per pensare bisogna esistere, giudicai di poter assumere come regola generale che le cose da noi percepite in modo molto chiaro e distinto sono tutte vere5; ma che solo sussiste qualche difficoltà a stabilire giustamente quali sono quelle che concepiamo distintamente6.
GUIDA ALLA LETTURA 1. L’argomentazione del cogito si fonda su una intuizione o sulla deduzione di esso da una «verità» precedente? 2. In che modo Cartesio passa dal dubbio – esteso a ogni cosa – alla certezza dell’ego cogito? 3. Dall’evidenza per cui «penso dunque sono» emerge un’altra certezza fondamentale. Quale? 4. In che senso, secondo Cartesio, il cogito è fondamento di ogni certezza?
5. Abbiamo qui riformulata la prima re-
gola del metodo [t12]. Si noti inoltre che già in questo passo Cartesio dice espressamente che la connessione tra il pensare e l’esistere è il risultato di un «vedere molto chiaramente», ovvero di un percepire «in modo chiaro e distinto». Essa consegue dunque da un’intuizione, non da un ragionamento. 6. Finora Cartesio è giunto soltanto alla certezza di esistere come sostanza pensante. Questa certezza – come si chiarisce nelle Meditazioni – si può estendere anche all’esistenza delle idee
come oggetto interno del pensiero, lasciando tuttavia impregiudicata la loro corrispondenza a una realtà esterna. Per il momento non è quindi esclusa la possibilità teorica del solipsismo, cioè dell’ipotesi per cui, riducendo il corpo e il mondo esterno a semplici pensieri del soggetto, non esista altro che il soggetto pensante, ovvero l’anima. Il pericolo del solipsismo verrà scongiurato con la dimostrazione dapprima dell’esistenza di Dio e poi, mediante il concetto stesso della divinità, di quella del mondo.
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t14 Cartesio / Sostanza divina e sostanze create Cartesio
I princìpi della filosofia
parte I, §§ 51-54
I Princìpi di filosofia sono una delle opere più sistematiche di Cartesio. È in essi che troviamo la più chiara definizione del concetto di sostanza, con la distinzione tra la sostanza divina da un lato e le sostanze create (pensante ed estesa) dall’altro. Per giustificare l’applicazione dello stesso termine sostanza a due livelli ontologici così diversi, Cartesio ricorre alla nozione tomistica di analogia dell’essere.
Che cos’è la sostanza, e che è un nome che non si può attribuire a dio ed alle creature nello stesso senso Per quanto riguarda le cose che noi consideriamo come dotate di qualche esistenza, è necessario che le esaminiamo qui l’una dopo l’altra, per distinguere quello ch’è oscuro da quello che è evidente nella nozione che abbiamo di ciascuna. Quando noi concepiamo la sostanza, concepiamo solamente una cosa che esiste in tal modo da non aver bisogno che di se medesima per esistere1. Nel che può esserci dell’oscurità riguardo alla spiegazione di questa espressione: non aver bisogno che di se medesimo; poiché, a parlar propriamente, non c’è che Dio che sia tale, e non c’è nessuna cosa creata che possa esistere un sol momento senza essere sostenuta e conservata dalla sua potenza. Ecco perché si ha ragione nella scuola di dire che il nome di sostanza non è «univoco» riguardo a Dio ed alle creature, cioè che non v’è nessun significato di questa parola, che noi concepiamo distintamente, che convenga nello stesso senso a lui e a loro2, ma poiché tra le cose create alcune sono di tale natura da non potere esistere senza alcune altre, 1. Cartesio riprende qui la tesi aristotelica della necessità della sostanza, interpretandola tuttavia nel senso che la sostanza è causa sui. 2. Tommaso d’Aquino riteneva infatti che l’essere non possa venire predicato di Dio e del mondo nello stesso senso, cioè univocamente, ma soltanto in senso analogico. Infatti in Dio essenza ed esistenza coincidono, mentre nel mondo esse sono distinte, poiché l’esistenza non è già inclusa nell’essenza, ma dipende da Dio creatore. Cartesio riprende questo suggerimento scolastico come correttivo della definizione della
noi le distinguiamo da quelle che non hanno bisogno che del concorso ordinario di Dio, chiamando queste, sostanze, e quelle, qualità o attributi di queste sostanze. [...] Che ogni sostanza ha un attributo principale, e che quello dell’anima è il pensiero, come l’estensione è quello del corpo Ma, benché ogni attributo sia sufficiente per fare conoscere la sostanza3, ve n’è tuttavia uno in ognuna, che costituisce la sua natura e la sua essenza, e dal quale tutti gli altri dipendono. Cioè l’estensione in lunghezza, larghezza e profondità costituisce la natura della sostanza corporea; ed il pensiero costituisce la natura della sostanza pensante. Poiché tutto ciò che del resto si può attribuire al corpo presuppone estensione, e non è che un modo di quello che è esteso; egualmente, tutte le proprietà che troviamo nella cosa che pensa, non sono che modi differenti di pensare. Così non sapremmo concepire, per esempio, nessuna figura se non in una cosa estesa, né movimento che in uno spazio che sia esteso; così l’immaginazione, il sentimento e la volontà dipendono in tal
sostanza come causa sui. In senso assoluto (o univoco) soltanto Dio è causa di se stesso, e quindi sostanza in senso proprio. In senso relativo (o analogico) è invece sostanza tutto ciò che per la propria esistenza non dipende da altri che da Dio. Si noti bene, tuttavia, che lo scopo per il quale Cartesio introduce questa distinzione è ben diverso da quello di Tommaso. Quest’ultimo intendeva soprattutto sancire la differenza che intercorre tra l’essere di Dio e l’essere del mondo. A Cartesio invece interessa soprattutto ribadire la differenza tra la sostanza in senso relativo – il
pensiero e l’estensione – e ciò che non è sostanza, ma solamente una qualità della sostanza, da cui dipende per la propria esistenza. 3. In altri termini: è sufficiente un attributo per far conoscere la sostanza cui esso inerisce. Questo significa però anche che la sostanza può essere conosciuta soltanto attraverso i suoi attributi. La sostanza di per sé riesce quindi inconoscibile. Cartesio, tuttavia, tende in realtà a far coincidere la sostanza con il proprio attributo fondamentale: la sostanza pensante con il pensiero, la sostanza estesa con l’estensione.
i testi
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modo da una cosa che pensa, che non possiamo concepirli senza di essa. Ma, al contrario, noi possiamo concepire l’estensione senza figura o senza movimento, e la cosa che pensa senza immaginazione o sentimento, e così via4. Come noi possiamo avere pensieri distinti della sostanza pensante, di quella corporea e di Dio Noi possiamo dunque avere due nozioni o idee chiare e distinte, l’una d’una sostanza creata che pensa, e l’altra d’una sostanza estesa, purché separiamo accuratamente tutti gli attributi del pensiero dagli attributi dell’estensione5. Noi possiamo avere anche un’idea chiara e distinta d’una sostanza increata che pensa e che è indipendente, cioè di un Dio, purché non pensiamo che questa idea ci rappresenti tutto quello che è in lui, e non vi mescoliamo nulla con una finzione del nostro intelletto; ma prestiamo attenzione solamente a quello 4. Si delineano qui tre livelli onto-gno-
seologici: la sostanza, che dipende soltanto da se stessa; l’attributo, che è una qualità della sostanza; il modo, che è una determinazione dell’attributo. Questa distinzione terminologica ac-
che è compreso veramente nella nozione distinta che abbiamo di lui, e che sappiamo appartenere alla natura di un Essere perfettissimo. Poiché non v’è nessuno che possa negare che una tale idea di Dio sia in noi, se non vuol credere senza ragione che l’intelletto umano non potrebbe avere nessuna conoscenza della Divinità.
GUIDA ALLA LETTURA 1. Perché il significato della parola «sostanza» non è «univoco»? 2. Quali sono gli attributi essenziali delle sostanze corporee e delle sostanze pensanti? 3. A che cosa corrisponde l’idea della sostanza increata?
quisterà una particolare rilevanza in Spinoza. 5. Cartesio dà qui per evidente che il pensiero non dipenda dall’estensione, e viceversa. Soltanto sulla base di questo presupposto egli può affermare che es-
si costituiscano sostanze distinte. Ciò – e il dualismo che ne consegue – non sarà invece giudicato altrettanto evidente da alcuni contemporanei, per esempio da Gassendi e da Hobbes.
t15 Cartesio / La morale provvisoria Cartesio
Discorso sul metodo
parte III
Nel Discorso sul metodo Cartesio aveva formulato una morale provvisoria, articolata in alcune regole. L’etica proposta si rifaceva in parte al tardo stoicismo dell’età imperiale. Infatti, mentre le prime due regole sono ispirate al pragmatico buon senso (conformarsi alla morale corrente e operare in maniera risoluta), la terza regola («vincere se stessi piuttosto che la fortuna») ha un evidente riferimento al razionalismo stoico, in particolare di Seneca.
Prima di cominciare a ricostruire la casa da abitare, non basta demolirla e provvedersi di materiali e architetti, o impegnarsi personalmente nell’architettura, e averne tracciato inoltre un accurato progetto; bisogna anche essersi procurati un altro alloggio dove si possa stare comodi nel corso dei lavori; allo stesso modo, per non restare indeciso nelle mie azioni mentre la ragione mi obbligava ad esserlo 114
5. cartesio
nei miei giudizi, e per non smettere perciò di vivere quanto più felicemente potevo, mi costruii una morale provvisoria, riconducibile a tre o a quattro massime sole, che volentieri vi comunico. La prima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, conservando fedelmente la religione in cui Dio mi ha fatto la grazia di essere educato fin dall’infanzia, e regolandomi in tut-
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to il resto secondo le opinioni più moderate, più lontane da eccessi, comunemente praticate fra le persone fornite di maggiore buon senso fra quelle con cui mi sarei trovato a vivere. Infatti, cominciando fino d’allora a non tenere in nessun conto le mie, perché volevo metterle tutte in discussione, attenersi a quelle dei più assennati mi sembrava sicuramente la cosa migliore. E per quanto fra i Persiani e i Cinesi vi siano forse altrettante persone di buon senso che da noi, mi sembrava più utile regolarmi sul modello di coloro con cui avrei dovuto vivere; e mi pareva che per conoscere sul serio le loro opinioni avrei dovuto badare alle loro azioni più che alle loro parole; non solo perché nella corruzione dei nostri costumi pochi vogliono dire tutto ciò che credono, ma anche perché molti non lo sanno nemmeno loro: essendo infatti l’atto di pensiero per cui si crede una cosa diverso da quello per cui si sa di crederla, spesso l’uno non accompagna l’altro. E fra parecchie opinioni ugualmente accettate non sceglievo che le più moderate, sia perché sono sempre le più agevoli da praticarsi, e verosimilmente le migliori, dato che ogni eccesso è di solito poco raccomandabile; sia anche per scostarmi dal retto cammino, in caso di errore, meno di quanto sarebbe avvenuto scegliendo uno degli estremi mentre andava seguito l’altro [...]. La mia seconda massima era di agire con quanta più ferma risolutezza mi fosse possibile, e di seguire con altrettanta costanza, una volta orientato in un certo senso, anche le opinioni più dubbie come se fossero state certissime. Mi attenevo in questo all’esempio dei viandanti che, smarriti in una foresta, non devono andare in giro errabondi, ora in una direzione e ora nell’altra, o, peggio che mai, fermarsi da qualche parte, ma devono andare sempre nello stesso senso, seguendo un cammino quanto più è possibile diritto, non scostandosene mai per futili motivi, anche se all’inizio solo il caso 1. Il tema della probabilità accomuna
le prime due regole (nella prima si suppone che le opinioni più moderate abbiano maggior probabilità di essere corrette rispetto a quelle estreme).
abbia determinato la scelta: perché così, se non arrivano proprio dove desiderano, alla fine arriveranno pure in qualche luogo, dove verosimilmente si troveranno meglio che in mezzo a una foresta. Allo stesso modo, dato che le azioni in questa vita spesso non tollerano il minimo indugio, è una verità certissima che, quando non sta in noi scorgere le opinioni più vere, dobbiamo seguire le più probabili1, e anzi, se non rileviamo maggiori probabilità nelle une che nelle altre, dobbiamo lo stesso sceglierne qualcuna, e considerarla poi, in quanto si riferisce alla pratica, non più dubbia, ma verissima e certissima, perché tale è la ragione che ci ha portato a sceglierla. Bastò questo a liberarmi da allora in poi di tutti i pentimenti e rimorsi che di solito agitano le coscienze di quegli animi deboli e vacillanti, che si lasciano trarre a praticare senza costanza come buone cose che poi giudicano cattive. La mia terza massima era di cercare sempre di vincere me stesso piuttosto che la fortuna, e di mutare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo; e, in genere, di abituarmi a credere che non vi è nulla, al di fuori dei nostri pensieri, interamente in nostro potere, dimodoché, quando a proposito delle cose esteriori abbiamo fatto del nostro meglio, tutto ciò che non ci riesce resta, per quel che ci concerne, assolutamente impossibile. E questo solo mi sembrava bastasse a impedirmi in avvenire di desiderare qualcosa che non potessi ottenere, e quindi a rendermi contento. Perché, dato che la nostra volontà si volge naturalmente a desiderare solo le cose che il nostro intelletto rappresenta in qualche modo come possibili, certamente, se consideriamo lontani alla stessa stregua dal nostro potere tutti i beni a noi esteriori, non rimpiageremo la mancanza di quelli che sembrano dovuti alla nascita, quando ne veniamo privati senza colpa, più di quanto non ci troviamo a rimpiangere il mancato possesso dei regni della Cina e del Messi-
L’elemento della probabilità, che Cartesio esclude rigorosamente dall’ambito della conoscenza teorica, conserva dunque la sua validità – ancorché condizionata – nella sfera pratica, dove non
è possibile né attingere immediatamente la certezza dell’evidenza né sospendere l’azione fino a quel momento.
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co; e, facendo, come si dice, di necessità virtù2, non desidereremo di essere sani quando siamo malati, o di essere liberi quando siamo in prigione, più di quanto attualmente non desideriamo di avere corpi di sostanza poco corruttibile come i diamanti, o ali per volare come gli uccelli. Ma confesso che abituarsi a guardare tutte le cose da un tale angolo visuale richiede lungo esercizio e ripetuta meditazione, e credo che soprattutto in questo consistesse il segreto di quei filosofi che un tempo hanno potuto sottrarsi al dominio della fortuna e, nonostante i dolori e la povertà, contendere la palma della felicità ai loro dèi3. Infatti, dedicandosi senza posa a riflettere sui limiti posti loro dalla natura, si persuadevano così pienamente che nulla era in loro potere eccetto i propri pensieri, da trovare in questo un motivo sufficiente per impedirsi di riporre in2. L’invito a riconoscere l’elemento
della necessità e ad accettarne di buon grado l’ineludibilità accomuna Cartesio agli stoici antichi. La necessità di cui parlavano gli stoici, tuttavia, aveva un preciso carattere metafisico, riferendosi all’ordine razionale che vige nella realtà e che deve essere riconosciuto dall’uomo saggio. In Cartesio, viceversa,
teresse alcuno in altre cose; e dei loro pensieri disponevano in modo così assoluto da trovare in ciò qualche ragione per credersi più ricchi, più potenti, più liberi, più felici, di qualunque altro uomo che, non avendo la stessa filosofia, per favorito che sia dalla natura e dalla fortuna, non dispone mai alla stessa maniera di tutto ciò che vuole.
GUIDA ALLA LETTURA 1. Perché Cartesio sostiene che la regola del dubbio non è applicabile all’agire ed è, pertanto, necessaria una «morale provvisoria»? 2. Elenca le regole della «morale provvisoria» e la motivazione che sta alla base di ognuna di esse. 3. Da quale corrente filosofica antica trae spunto la terza massima?
la necessità si riferisce genericamente alla natura limitata dell’uomo, che deve subire in assoluta impotenza tutto ciò che non dipende da lui: di qui il riferimento al noto adagio popolare. Questa differenza diventa evidente quando si consideri il problema della libertà: per gli stoici esiste solamente l’alternativa tra il riconoscimento della necessità
del Logos (com’è proprio del saggio) e la sua obliterazione (come avviene nello stolto), mentre per Cartesio la libertà trova un indubbio ambito di espressione nella volontà dell’uomo (e quindi nella sfera della res cogitans). 3. L’allusione è ovviamente ai filosofi stoici.
t16 Cartesio / Verso una morale definitiva Cartesio
Lettera alla principessa Elisabetta
4 agosto 1645
Dodici anni dopo il Discorso sul metodo, in cui il riferimento al razionalismo stoico riguarda soprattutto la terza regola, la lettera ad Elisabetta del 4 agosto 1645 testimonia un rafforzamento dell’influenza stoica, che si estende anche alle prime due regole. Nella prima, infatti, il richiamo alla morale corrente è sostituito dall’appello al proprio spirito, ovvero alla guida della ragione. Nella seconda regola, l’invito alla risolutezza della decisione non è più giustificato da argomenti di ordine pratico (come nella morale provvisoria), ma si fonda sulla coscienza del fatto che la ragione può contrastare ogni incertezza derivante dalle passioni e dagli appetiti. Cartesio estende la certezza razionale già conseguita sul piano teoretico anche in campo etico, grazie ad una progressiva assimilazione del pensiero stoico antico.
Mi sembra che ciascuno possa raggiungere da sé la felicità1, senz’aspettarsi niente dal di fuori, purché osservi tre cose, a cui si riferiscono 1. La lettera prendeva le mosse dal
riferimento al De vita beata di Sene-
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5. cartesio
le tre regole di morale che ho posto nel Discorso del metodo. La prima è che cerchi di servirsi sempre, me-
ca, che Cartesio aveva proposto come tema di discussione alla principessa
Elisabetta.
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glio che può, del proprio spirito, per conoscere quello che deve fare in tutti i casi della vita. La seconda, che abbia il fermo e costante proposito di far tutto ciò che la ragione gli consiglierà, senza lasciarsene distogliere dalle proprie passioni o appetiti. Ed è la fermezza di questa risoluzione, che credo si debba considerare virtù, benché io non sappia che alcuno l’abbia mai intesa così; la si è invece divisa in molte specie, a cui si sono dati vari nomi a causa dei diversi oggetti a cui si riferisce2. La terza, che consideri, comportandosi così, quanto può, secondo ragione, che tutti i beni che non possiede sono completamente fuori del suo potere; in tal modo egli si abitua a non desiderarli. Non vi è infatti altro che il desiderio, il rimpianto e il pentimento che possano impedirci di essere contenti; se noi invece facciamo sempre tutto quel che ci detta la nostra ragione, non avremo mai alcun motivo di pentirci, anche se gli avvenimenti dovessero farci vedere che ci siamo sbagliati, poiché ciò non sarebbe per colpa nostra. Noi non desideriamo di avere più braccia o più lingue di quel che possediamo, mentre desideriamo più salute o più ricchezze; orbene, ciò è dovuto soltanto al nostro immaginare che tali cose si potrebbero ottenere con la nostra condotta, oppure che le une sono dovute alla nostra natura, e non le altre. Di tale opinione noi potremo liberarci se considereremo che, poiché noi abbiamo seguìto sempre il consiglio della nostra ragione, non abbiamo tralasciato nulla di quel che era in nostro potere, rendendoci conto che anche le malattie e le disgrazie sono naturali all’uomo non meno della prosperità e della buona salute. Del resto non tutti i desideri sono incompati-
2. La virtù è dunque, stoicamente, la capacità di vivere sempre secondo ragione, senza lasciarsi mai vincere dalle passioni. Per questo la virtù si riduce (sempre in accordo con l’insegnamento stoico) a un solo precetto e non può
bili con la beatitudine, ma solo quelli accompagnati da impazienza e da tristezza. E neppure è che la nostra ragione sia sempre nel vero; basta che la coscienza ci attesti che noi non abbiamo mai mancato di risoluzione e di virtù nell’eseguire quanto avevamo giudicato essere il meglio; e così la virtù sola basta a renderci felici in questa vita. Tuttavia, poiché allorquando essa non è illuminata dall’intelletto può essere falsa, ossia poiché la volontà e la risoluzione di ben fare possono portarci a un male da noi creduto bene, la soddisfazione che in tal caso ne deriva non è solida. E poiché generalmente si suole opporre proprio tale virtù ai piaceri, agli appetiti e alle passioni, è molto difficile metterla in pratica, laddove un retto uso della ragione, dandoci una esatta conoscenza del bene, impedisce che la virtù sia falsa, ed accordandola con i piaceri leciti, ne rende l’uso così agevole e, facendoci conoscere la condizione della nostra natura, limita talmente i nostri desideri, che bisogna confessare che la più grande felicità dell’uomo dipende da questo retto uso della ragione, e per conseguenza, che lo studio che serve a conquistarla è la più utile occupazione possibile e, a un tempo, senz’alcun dubbio, la più gradevole e la più dolce3. GUIDA ALLA LETTURA 1. Che differenza c’è tra le regole della morale provvisoria esposte nel Discorso e quelle contenute in questa Lettera? 2. Qual è la definizione di virtù formulata da Cartesio? 3. Che rapporto c’è, secondo Cartesio, tra ragione e virtù?
essere divisa in varie specie (secondo la tradizione aristotelica). 3. In questo modo il momento pratico si fonda su quello teorico. Soltanto conoscendo la vera natura della realtà si potrà sapere che cosa si può legittima-
mente desiderare e che cosa è invece al di là delle nostre possibilità. La felicità riposa dunque sul riconoscimento dei propri limiti.
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esercizi/5 CHE COSA SO?
la congiunzione di nozioni semplici per formare concetti complessi
Guida allo studio del manuale
9. Cartesio ritiene che il vecchio edificio del sapere...
1. Evidenzia quali sono, secondo Cartesio, le fonti del sapere certo.
debba essere abbattuto per costruirne uno nuovo basato sulla ragione
2. Evidenzia perché, secondo Cartesio, io non posso essere causa della mia esistenza.
debba essere rivisitato mantenendone le fondamenta e inserendovi elementi di modernità
3. Evidenzia quali sono le due accezioni con le quali Cartesio utilizza il termine sostanza.
vada distrutto, ma ritiene non sia ancora venuto il momento di costruirne uno nuovo
4. Evidenzia in che modo, secondo Cartesio, la res cogitans può incidere sul comportamento della res extensa.
vada distrutto, ma non è opportuno procedere per non incorrere nei rigori della Chiesa
5. Evidenzia quali sono le tre leggi fondamentali della fisica, secondo Cartesio. Dizionario filosofico 6. Definisci i seguenti concetti: ragione • evidenza • cogito • dualismo metafisico • io • passioni • saggezza Quesiti a risposta multipla Scegli fra le soluzioni presentate quella che ti sembra rispondere in maniera più completa ai problemi posti: 7. Il «metodo» cartesiano è un insieme di regole la cui osservanza permette di raggiungere una verità certa perché... ciò che è chiaro e distinto alla mente è vero per definizione il pensiero procede per «analisi» e «sintesi» Dio è il garante delle verità che la ragione può raggiungere l’esperienza è ingannevole e solo la ragione è veritiera 8. Per «deduzione» Cartesio intende... il passaggio dal particolare all’universale la tecnica di ragionamento che fonda l’intuito il passaggio da una conoscenza «evidente» a una conoscenza ancor più «evidente»
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10. Nel metodo cartesiano la matematica è... l’unico sapere capace di arrivare alla verità il modello di scienza da estendere a tutto il sapere un esempio di sapere ordinato e sistematico il sapere che fornisce presupposti e regole per ogni altra scienza
CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 11. Perché, secondo Cartesio, la conoscenza ha carattere intuitivo? 12. Che differenza c’è tra la concezione stoica del Logos, di cui senz’altro Cartesio subisce l’influenza, e la sua concezione di ragione? 13. Perché dobbiamo dubitare della testimonianza dei sensi? 14. Perché, in Cartesio, il «dubbio» funziona come strumento metodologico? 15. Perché il cogito ergo sum è la prima e fondamentale certezza che possiamo raggiungere? 16. A quale categoria di idee appartiene l’idea di Dio? 17. Se l’intelletto umano, secondo Cartesio, è di per sé infallibile da che cosa dipende l’errore? 18. In che modo Cartesio cerca di conciliare le sue
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tesi fisico-cosmologiche con i contenuti delle Scritture?
24. Quali sono le principali critiche che i contemporanei rivolgono al cogito ergo sum cartesiano?
19. Quali sono le regole della morale provvisoria?
25. L’io è certo di esistere come sostanza pensante. Come è articolato il pensiero secondo Cartesio?
Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe)
26. Che differenza c’è tra la nozione platonica e quella cartesiana di idea?
20. Illustra le regole del metodo cartesiano per raggiungere la verità.
27. Quali sono gli attributi di Dio, derivanti dal suo essere sommamente perfetto?
21. Illustra la teoria cartesiana del volere. 22. Illustra la differenza fra il metodo galileiano per raggiungere la verità scientifica e quello cartesiano. 23. A partire dalla definizione di «ragione» Cartesio ricava le tesi dell’«unità del sapere» e dell’«unità del metodo». In che modo?
esercizi/5
28. Nell’universo descritto da Cartesio in termini meccanicistici, quale ruolo spetta a Dio? 29. In che modo Cartesio spiega la formazione dell’universo? 30. In che cosa consistono, secondo Cartesio, la saggezza e la felicità per l’uomo?
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permanenza della materia, sia i processi conoscitivi propri dell’uomo. l’occasionalismo
6.cartesianesimo e giansenismo i contenuti la discussione sulla filosofia cartesiana
La filosofia di Cartesio ebbe una grande influenza sul pensiero del Seicento. Tale influenza, tuttavia, non sempre si manifesta nella forma di una ripresa di temi cartesiani. A volte, ciò che rimane vivo di Cartesio sono i problemi teorici lasciati aperti, che spingono i suoi successori a sviluppare soluzioni differenti: ad esempio, il ruolo dell’esperienza nella ricerca della verità e il dualismo tra res cogitans e res extensa. gassendi tra scetticismo ed epicureismo
Le ragioni di dissenso dal cartesianesimo vengono spesso
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ritrovate nei concetti chiave della sua dottrina della conoscenza. La nozione di evidenza, definita come chiarezza e distinzione e fondata sulla natura intuitiva della ragione, non forniva un criterio oggettivo per distinguere il vero dal falso. Ciò condusse Gassendi (Pierre Gassend) a proporre una versione moderna dello scetticismo. In base a essa, l’uomo può conoscere soltanto ciò che fa egli stesso o ciò che gli appare sul piano empirico, mentre le sostanze – su cui Cartesio fondava la sua metafisica – sono al di là della conoscenza umana. Nel tentativo di sviluppare una filosofia empiristica che rimanesse entro tali limiti conoscitivi, Gassendi in una seconda fase del suo pensiero recupera l’atomismo professato dagli epicurei. L’atomismo gli appare adatto a spiegare sia la continua trasformazione del mondo naturale, nonostante la
6. cartesianesimo e giansenismo
Il dualismo metafisico di Cartesio rendeva difficile spiegare l’interazione tra mente e corpo. Un tentativo di risolvere questo problema è rappresentato dall’occasionalismo di Arnold Geulincx e di Nicolas Malebranche. In base a esso, gli atti di volontà sono soltanto cause occasionali dei corrispondenti movimenti del corpo. In realtà la vera causa di entrambi è Dio, che provoca tanto l’atto di volontà quanto il movimento corporeo. In tal senso, il primo è da intendersi come l’occasione – e non la causa – del verificarsi dell’altro. All’occasionalismo causale Malebranche aggiunge anche la dottrina della visione delle cose in Dio. In base a essa, se Dio è causa diretta di ogni evento possibile, anche le nostre idee saranno direttamente causate da Dio. arnauld e la logica di port-royal
La reciproca autonomia tra res cogitans e res extensa, stabilita da Cartesio, consentiva di ritenere che la sostanza pensante fosse dotata di una facoltà conoscitiva specifica. Questa forma di conoscenza non solo è indipendente dalla percezione sensibile, ma può fare anche a meno di procedure discorsive di carattere razionale. A questa dicotomia può essere ricondotta la distinzione di Arnauld tra l’intendere, ovvero il conoscere qualcosa in modo evidente (secondo i requisiti della chiarezza e della distinzione) e il credere, ovvero il prendere per vero qualcosa in base a motivazioni diverse da quelle razionali. Insieme con Pierre Nicole, Arnauld promuove inoltre una logica di tipo metodologico che ha per oggetto le operazioni compiute dallo spirito pensante (concepire, giudicare, ragionare, ordinare) e non più i sillogismi, come nella tradizione aristotelica, o i termini, come nella logica scolastica.
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pascal: il cuore e la ragione
Alla distinzione attuata da Arnauld tra intendere e credere si ricollega quella di Pascal, che faceva parte del gruppo di pensatori ritiratisi nei pressi del monastero di Port-Royal, tra spirito di geometria (che ha per oggetto la scienza e la natura) e spirito di finezza (che riguarda la condizione dell’uomo). Alla ragione – che procede in maniera argomentativa – Pascal oppone il cuore, ovvero l’intuito, capace di cogliere immediatamente quelle realtà che non possono essere formalizzate dalla ragione. la condizione dell’uomo
L’uomo, per Pascal, è un essere intermedio tra il tutto e il nulla. Ciò
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si rivela sul piano ontologico (l’uomo è sospeso tra l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo), sul piano gnoseologico (l’uomo è incapace di conoscere tanto l’infinitamente grande quanto l’infinitamente piccolo), ma soprattutto sul piano assiologico (la grandezza dell’uomo, derivante dalla sua capacità di pensare, consiste nel comprendere la miseria della propria condizione, dovuta al peccato originale). Alla consapevolezza di questa miseria gli uomini cercano di sfuggire con il divertissement, ovvero con il divertimento come distrazione (gioco, guerra, vita di società, impegno politico).
è ragionevole credere in dio
La sola salvezza consiste, secondo Pascal, nell’accettare la propria miseria e rifugiarsi in Dio. Pascal invita l’uomo ad avere fede non in un dio filosofico, costruito astrattamente con le nozioni della ragione umana, ma nel Dio personale, il «Dio di Gesù Cristo». L’uomo si deve dunque decidere per la fede, deve scommettere su Dio. I termini della scommessa, infatti, indicano chiaramente che conviene credere: se si avrà ragione a credere si otterrà un vantaggio infinito, se si avrà torto si perderanno solo beni finiti. Ma tra il finito e l’infinito non c’è proporzione.
gli strumenti in poche… parole occasionalismo / spirito di geometria e spirito di finezza / grazia / divertissement / scommessa / abitudine
approfondimenti Il giansenismo Il libertinismo
esercizi
i testi a. nel manuale t17 Pascal/I due «spiriti» t18 Pascal/Tra il tutto e il nulla t19 Pascal/Scommettere su Dio
b. on-line Gassendi/Il pensiero dipende dal corpo Geulincx/Lo spirito non è causa dei movimenti del corpo Malebranche/Le verità eterne Pascal/Grazia sufficiente e grazia efficace Pascal/Dio di Gesù Cristo Cyrano de Bergerac/ Una voce contro la fede
Che cosa so? / Che cosa ho capito?
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1. La discussione sulla filosofia cartesiana le reazioni al razionalismo cartesiano
L’incidenza di Cartesio sulla filosofia del Seicento è molto profonda. La sua riformulazione del concetto classico di ragione costituisce la premessa di un atteggiamento razionalistico che va ben al di là dell’orizzonte culturale seicentesco. La rilevanza storica del pensiero cartesiano deve essere ricercata non soltanto nei consensi ricevuti, ma anche nelle reazioni che ha suscitato e nelle correzioni a cui è andato soggetto.
scienza moderna e dogmatismo cartesiano
La concezione della ragione avanzata da Cartesio, che più di ogni altra parte della sua filosofia condizionò la cultura contemporanea, fu oggetto di critiche che contribuirono al rafforzamento di nuovi indirizzi di pensiero. La pretesa della ragione di cogliere intuitivamente la verità e la definizione dell’evidenza in termini di chiarezza e distinzione – a loro volta non fondate su criteri formalizzabili e oggettivamente comunicabili – attirarono su Cartesio l’accusa di dogmatismo. In altri termini, il cartesianesimo apparve spesso incapace di fornire un impianto filosofico-teorico in sintonia con la concezione emergente della scienza moderna e di rappresentare quindi una valida alternativa all’aristotelismo.
le alternative dello scetticismo e dell’empirismo
Nello stesso periodo, si diffuse nella cultura europea una rinnovata attenzione per la tradizione scettica. Ciononostante, la sospensione del giudizio non era più generalizzata a tutto il sapere dell’uomo, ma limitata a quegli ambiti – come la metafisica – in cui il problema della conoscenza si poneva nei termini più ardui. Contemporaneamente, nella ricerca di una fonte conoscitiva che apparisse più solida dell’evidenza cartesiana, crebbe la sensibilità filosofica per l’ambito dell’esperienza, che nel pensiero di Cartesio occupava una posizione marginale. A questa cornice scettica o empiristica sono riconducibili – anche se con notevoli divergenze – le filosofie di Pierre Gassendi e Thomas Hobbes.
nuove forme di spiritualismo
Altro punto del pensiero cartesiano gravido di conseguenze fu il dualismo tra materia e spirito. Da un lato, come abbiamo già notato, l’affermazione dell’autonomia della res extensa favorì lo sviluppo delle ricerche naturalistiche. Dall’altro, il parallelo riconoscimento dell’autonomia della res cogitans fornì la base teorica per la ridefinizione dello spiritualismo agostiniano in chiave post-cartesiana. Al fondamento metafisico-teologico si fece, infatti, ricorso sia per giustificare il rapporto tra le sostanze rimasto irrisolto in Cartesio (Geulincx, Malebranche), sia per conferire allo spirito, in contatto interiore con la divinità, un primato di valore rispetto alla materia estesa (Arnauld, Pascal).
2. Gassendi le obiezioni a cartesio
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Come si è detto, insieme al testo delle Meditazioni (1641) Cartesio pubblicò anche le critiche dei suoi più rilevanti oppositori. Pierre Gassend, detto Gassendi (1592-1655), sacerdote, scienziato e filosofo, è autore delle Quinte 6. cartesianesimo e giansenismo
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Obiezioni. In esse, pur condividendo alcune conclusioni di Cartesio (l’esistenza di Dio e l’immortalità dell’anima), Gassendi critica il «metodo» attraverso cui sono state raggiunte. In primo luogo, Gassendi polemizza con l’adozione del concetto di evidenza. Poiché manca un criterio oggettivo che permetta di stabilire quando un’idea sia chiara e distinta, anche ciò che ci appare evidente potrebbe essere frutto di un’illusione. In particolare, non è evidente l’idea di Dio. Secondo Gassendi, infatti, tale idea non è affatto innata e non ha in sé maggiore realtà oggettiva di quanta ne abbiano le idee della potenza, della scienza, della durata e della bontà, allorché vengano aumentate all’infinito fino a tramutarsi in quelle dell’onnipotenza, dell’onniscienza, dell’eternità e della bontà perfetta.
l’idea di dio non è innata
Molte pagine di Gassendi sono, inoltre, dedicate alla critica della separazione tra corpo e anima. A suo avviso, l’anima è un corpo più sottile, ma ontologicamente non diverso dalla materia estesa. È, dunque, errato presupporre due sostanze distinte :
la critica al dualismo
Resta sempre da provare che la facoltà di pensare è talmente al di sopra della natura corporea che né quegli spiriti che si chiamano animali, né alcun altro corpo, per delicato, sottile, puro ed agile ch’esso possa essere, potrebbe essere così ben preparato, o ricevere tali disposizioni, da poter esser reso capace del pensiero. Bisogna anche provare, in pari tempo, che le anime delle bestie non sono corporee, poiché esse pensano, o, se volete, oltre le funzioni dei sensi esteriori, conoscono qualche cosa interiormente, non solo quando vegliano, ma anche quando dormono. Infine, bisogna provare che questo corpo grossolano e pesante non contribuisce in nulla al vostro pensiero (benché, nondimeno, voi non siate mai esistita senza di lui, e non abbiate mai pensato nulla standone separata); e, pertanto, che voi pensate indipendentemente da lui, in modo tale da non poter essere impedita dai vapori o da quei fumi neri e spessi, che producono, nondimeno, talvolta tanto turbamento al cervello (Quinte Obiezioni alle Meditazioni metafisiche di Cartesio, Contro la seconda Meditazione).
Per Gassendi, infine, il concetto stesso di sostanza deve essere evitato. Infatti, anche se esistesse una sostanza che soggiace ai singoli atti di pensiero o ai singoli corpi estesi, essa rimarrebbe del tutto inconoscibile per l’uomo. In altri termini, la fiducia cartesiana nelle capacità esplicative del concetto di sostanza appare a Gassendi un modo per riproporre – seppure in forma diversa – gli assunti dogmatici della tradizione aristotelica. La critica di Gassendi a Cartesio si nutre di letture tratte dalla tradizione nominalistica (soprattutto Guglielmo di Ockham) e scettica (Sesto Empirico tra gli antichi, soprattutto Montaigne tra i moderni). Nelle Exercitationes paradoxicae adversus Aristoteleos (1624), al razionalistico scire per causas di derivazione aristotelica egli contrappone l’osservazione empirica della realtà naturale e la sua puntuale descrizione. Secondo Gassendi, l’uomo può conoscere soltanto i fenomeni, ovvero ciò che fa egli stesso (oggetti artificiali) e ciò che può
alef
Gassendi Il pensiero dipende dal corpo
6. cartesianesimo e giansenismo
la critica al concetto di sostanza
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scomporre e ricostruire mentalmente, in modo da coglierne la costituzione interna (realtà naturale). Le sostanze, dunque, sono conoscibili solo da Dio. la restaurazione dell’epicureismo
Verso il 1630, Gassendi – pur rimanendo fedele a questi presupposti di ascendenza scettica – si accosta progressivamente all’epicureismo. Nelle dottrine epicuree egli ricerca il fondamento teorico dei nuovi indirizzi scientifici, dopo il fallimento dell’aristotelismo e del cartesianesimo. Nell’opera Syntagma philosophicum (1658), infatti, Gassendi sostiene che gli atomi di Democrito e di Epicuro consentirebbero di spiegare, da un lato, la permanenza della materia e, dall’altro, i continui mutamenti dei fenomeni fisici. Gli atomi fornirebbero, inoltre, una convincente spiegazione del processo conoscitivo. Per Gassendi la conoscenza si produce infatti quando alcuni atomi – staccandosi dall’oggetto conosciuto – colpiscono i sensi del soggetto conoscente. Pur recuperando la tradizione epicurea, tuttavia, Gassendi vi apporta alcune correzioni per renderla compatibile con il cristianesimo. Egli sostiene, infatti, che gli atomi – eterni per Epicuro – sono creati da Dio e da lui possono essere annientati. A suo parere, inoltre, l’atomismo non esclude il carattere finalistico della natura voluto da Dio e permette di risalire – proprio in base a tale ordine finale – dall’esistenza del mondo a quella di Dio. Infine, egli afferma che gli uomini possiedono, accanto all’anima sensitiva, anche un’anima razionale immortale.
3. L’occasionalismo dio è causa dei rapporti tra anima e corpo
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Uno dei punti più deboli della filosofia di Cartesio era il modo in cui egli spiegava il rapporto tra l’anima e il corpo. Anche all’interno della stessa scuola cartesiana si tentò, quindi, di dare un’interpretazione diversa di tale relazione. Secondo Arnold Geulincx (1624-1669) – autore di un’Ethica (1664), nonché di una Physica vera e una Metaphysica vera, pubblicate postume nel 1688 e nel 1691 – non esiste un reale rapporto causale tra anima e corpo o viceversa. L’atto di volontà che accompagna il movimento del corpo non è la causa, ma soltanto l’occasione di quest’ultimo . Analogamente, il mutamento del corpo è soltanto l’occasione della corrispondente sensazione nell’anima. Per Geulincx la vera causa dell’atto di volontà e del movimento del braccio è Dio. A suo parere, infatti, è Dio stesso a muovere il corpo o a produrre la sensazione che si verifica in occasione del relativo atto di volontà. Ciò significa che Dio, secondo Geulincx, interviene costantemente nella realtà umana, ovvero che Dio ha stabilito sin dall’inizio una corrispondenza tra gli eventi dell’anima e quelli del corpo. Per rendere più comprensibile l’azione di Dio, Geulincx ricorre all’esempio di due orologi, inizialmente sincronizzati tra loro, che poi procedano autonomamente nello stesso modo: 6. cartesianesimo e giansenismo
Geulincx Lo spirito non è causa dei movimenti del corpo
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Io non ho nulla a cui comandare, e il moto nelle mie membra non segue la mia volontà, ma accompagna la mia volontà. Questi piedi si muovono non perché voglio camminare, ma perché un altro vuole ciò volendolo anch’io. Come se un bambino, messo nella sua culla, vuole che essa dondoli, spesso essa dondola davvero, non perché egli lo vuole, ma perché la madre o la nutrice che gli stanno accanto lo vogliono; ciascuna di esse, per modo di dire, può offrirgli e vuole offrirgli ciò, poiché lui lo vuole. Anzi la mia volontà non muove un motore per muovere le mie membra, ma chi introdusse il movimento nella materia e ad essa stabilì delle norme, quello stesso formò la mia volontà, e unì così strettamente tra loro cose diversissime (cioè il movimento della materia e l’arbitrio della mia volontà) che, volendolo la mia volontà, produce un movimento quale essa vuole e viceversa, essendovi il movimento, la volontà lo vuole, senza alcuna causalità o influsso dell’uno sull’altra. Così avviene per due orologi ben regolati fra loro e secondo il corso diurno del sole: mentre uno suona e ci indica le ore, anche l’altro suona e ci indica le stesse ore; e senza alcuna causa per cui l’uno produca ciò nell’altro, ma per mera dipendenza, per la quale entrambi sono stati costruiti con la stessa arte e con pari cura. Così ad esempio il movimento della lingua asseconda la nostra volontà di parlare e questa volontà asseconda il movimento, né questa dipende da quello né viceversa, ma entrambi da quello stesso sommo artefice che, in modo ineffabile, unì queste cose tra loro (Annotata ad Ethicam, § 19).
La soluzione di Geulincx – nota con il nome di occasionalismo – è condivisa anche da Nicolas Malebranche (1638-1715), la cui opera più famosa è La ricerca della verità (1674-1675). Malebranche accoglie il principio cartesiano dell’evidenza e difende le esigenze di un razionalismo rigoroso. Per Malebranche, infatti, la ragione riveste un carattere necessario, valido anche per Dio, il quale si identifica con la ragione stessa. L’ordine del mondo non è dunque espressione di una volontà arbitraria della divinità (come pensava Cartesio), ma rispecchia la struttura della ragione universale e infinita.
l’ordine razionale del mondo
Anche Malebranche critica la dottrina cartesiana del rapporto tra le due sostanze. A suo avviso noi creiamo erroneamente dei nessi di causa-effetto per il solo fatto che vediamo accadere una cosa sempre insieme a un’altra. Per esempio, quando una palla da biliardo ne incontra un’altra, si sostiene che la prima è causa del movimento della seconda. Oppure, quando il braccio si muove accompagnato dalla mia volontà di muoverlo, si dice che il mio atto di volizione è causa del moto del braccio. In realtà, per Malebranche, è Dio la causa reale del movimento della seconda palla da biliardo o del braccio, mentre la prima palla o la volontà non sono che le cause occasionali. Secondo Malebranche, infatti, si può conoscere un rapporto causale solo quando esso è evidente. Ma l’osservazione dei movimenti delle due biglie, o della concomitanza tra la mia volizione e il moto del braccio, non offre questa evidenza. Per contro, la ragione mi garantisce l’evidenza del fatto che Dio è causa di tutte le cose e di qualsiasi mutamento avvenga nel mondo. Viene così negata non soltanto l’azione causale della sostanza pensante su quella estesa (o viceversa), ma anche quella interna alla sostanza estesa, cioè tra corpo e corpo (si pensi alle due palle da biliardo).
dio è causa dei mutamenti delle sostanze
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la conoscenza umana dipende dall’illuminazione divina
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Ora, se Dio è causa di ogni evento possibile, egli sarà anche la vera causa delle nostre idee. Noi dunque conosciamo gli oggetti non in quanto li percepiamo sensibilmente, ma in quanto vediamo le cose in Dio, ovvero in quanto Dio comunica direttamente le idee alla nostra mente. Malebranche risolve, dunque, il dubbio cartesiano sulla veridicità dell’esperienza, non già facendo di Dio il garante dei processi conoscitivi dell’uomo, ma considerandolo l’autore del contenuto stesso della conoscenza. A suo avviso, infatti, la conoscenza umana avviene mediante un’illuminazione interiore di esplicita ascendenza agostiniana .
4. Arnauld e la logica di Port-Royal credere è una forma di sapere autentico
Il riferimento ad Agostino è ancora più forte in Antoine Arnauld (16121694), che con Pascal fece parte del gruppo di pensatori ritiratosi in solitudine nei pressi del monastero di Port-Royal. Nelle Quarte Obiezioni alle Meditazioni – pubblicate da Cartesio – Arnauld corregge il cartesianesimo con l’agostinismo precisando, tra l’altro, che i criteri della chiarezza e della distinzione si applicano soltanto alle «cose che concernono le scienze e che cadono sotto la nostra intelligenza, e non a quelle che riguardano la fede e le azioni della nostra vita». Come aveva insegnato Agostino, infatti, all’opinare, che è un presumere di sapere ciò che non si sa, si contrappongono due forme di sapere autentico: a) l’intendere mediante ragioni certe (cioè il cartesiano cogitare in maniera chiara e distinta); b) il credere, cioè il ritenere per vero ciò che è motivato da ragioni diverse dalle argomentazioni razionali. Questa distinzione tra due specifiche forme di conoscenza, riferite rispettivamente agli ambiti della scienza e della fede, matura nello stesso clima culturale da cui germinerà – come vedremo in seguito – la contrapposizione pascaliana tra spirito di geometria e spirito di finezza.
una logica degli atti del pensiero
Insieme con Pierre Nicole, Arnauld è anche autore di una famosa Logica o arte di pensare (1662). La Logica di Port-Royal – così è generalmente conosciuto questo trattato – prende le distanze sia dalla logica sillogistica di ascendenza aristotelica, sia dalla logica terministica medievale, considerandole entrambe espressione di un pensare vuoto e formalistico. Sull’esempio di Cartesio, che aveva risolto la logica nel «metodo» della filosofia, i portorealisti intendono costruire una logica metodologica o – come si direbbe oggi – mentalistica. La caratteristica principale di questa nuova logica è che essa non ha più per oggetto prevalente la struttura formale del ragionamento – come in Aristotele – o i termini del discorso – come in gran parte dei logici medievali – bensì le operazioni compiute dallo spirito nell’atto del pensare.
5. Pascal: la ragione e il cuore la formazione
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Blaise Pascal nasce a Clermont-Ferrand nel 1623. Sin dalla più giovane età, viene introdotto allo studio della matematica e della fisica. Appena sedicenne, scrive un Saggio sulle coniche nel quale è contenuto il teorema che porterà 6. cartesianesimo e giansenismo
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il suo nome. Diciottenne, costruisce una macchina calcolatrice che egli stesso perfezionerà in seguito. In fisica, Pascal compie numerosi esperimenti per dimostrare l’esistenza del vuoto. Molto importanti sono anche le sue ricerche sulla dinamica dei liquidi, che conducono tra l’altro alla formulazione del principio – detto, appunto, di Pascal – secondo il quale la pressione esercitata da un liquido si trasmette con eguale intensità in tutte le direzioni. Gli studi sul calcolo delle probabilità e sulla geometria infinitesimale contrassegnano, invece, il periodo successivo alla sua «conversione» religiosa.
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Nel 1654, dopo due anni di vita mondana piuttosto intensa, Pascal trasforma la sua generica fede cristiana in una vera e propria vocazione religiosa. Un ruolo certamente determinante nella sua conversione fu svolto dall’am approfondimento, p. 128], dominato dalla figura di biente giansenistico [ Arnauld e strettamente legato a casa Pascal grazie alla sorella di Blaise, fattasi monaca presso l’abbazia di Port-Royal. Dall’anno della sua conversione, dunque, anche Pascal si ritira – come già Arnauld e Nicole – tra i «solitari» portorealisti. Nel maggio del 1653 una bolla di papa Innocenzo X condannava cinque proposizioni nelle quali la Facoltà teologica di Parigi aveva condensato le tesi di Giansenio: Arnauld e i seguaci di Giansenio accettarono la condanna, perché ritennero che essa non li riguardasse. Dopo qualche anno, la disputa fu ripresa davanti alla Facoltà teologica di Parigi e in essa intervenne Pascal – scrivendo le diciassette Lettere provinciali (1657) – a difesa della teoria agostiniana della grazia . In quegli stessi anni, Pascal lavorava alla sua maggiore opera filosofica, l’Apologia del cristianesimo. Ma la sua salute malferma – che lo tormentava dall’età di diciotto anni – andò velocemente peggiorando e lo portò alla morte nel 1662, a soli trentanove anni. I frammenti dell’opera vennero raccolti e pubblicati nel 1669 dagli amici di Port-Royal con il titolo Pensieri.
la vocazione religiosa
I lunghi studi fisico-matematici insegnarono a Pascal il valore della ragione. Anche all’interno di queste discipline, tuttavia, la ragione non basta, poiché a essa sfugge la conoscenza di quei primi princìpi che costituiscono il punto di partenza delle sue dimostrazioni. Tali princìpi, infatti, non possono essere dimostrati discorsivamente, ma soltanto colti in maniera immediata da un organo conoscitivo pre-razionale. Esso è il cuore, ovvero il sentimento, la capacità intuitiva, l’istinto:
ragione e cuore
La cognizione dei primi princìpi – come l’esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri – è altrettanto salda di qualsiasi di quelle procurateci dal ragionamento. E su queste conoscenze del cuore e dell’istinto deve appoggiarsi la ragione, e fondarvi tutta la sua attività discorsiva. (Il cuore sente che lo spazio ha tre dimensioni e che i numeri sono infiniti; e la ragione poi dimostra che non ci sono due numeri quadrati l’uno dei quali sia doppio dell’altro. I princìpi si sentono, le proposizioni si dimostrano, e il tutto con certezza, sebbene per differenti vie). Ed è altrettanto inutile e ridicolo che la ragione domandi al cuore prove dei suoi primi princìpi, per darvi il proprio consenso, quanto sarebbe ridicolo che il cuore chiedesse alla ragione un sentimento di tutte le proposizioni che essa dimostra, per indursi ad accettarle (Pensieri, n. 144).
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a Malebranche Le verità eterne b Pascal Grazia sufficiente e grazia efficace
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Ragione e cuore sono complementari, ma le loro funzioni non sono interscambiabili. In nessun modo il cuore può ragionare, come in nessun modo la ragione può sentire intuitivamente. «Il cuore ha le sue ragioni – dice Pascal nei Pensieri (n. 146) – che la ragione non conosce». l’antitesi tra conoscenza deduttiva e conoscenza intuitiva
L’antitesi tra ragione e cuore viene ulteriormente illustrata da Pascal attraverso quella tra spirito di geometria e spirito di finezza [t17]. Il primo è la capacità, propria dei procedimenti discorsivi in generale e matematici in particolare, di dedurre la conoscenza in maniera rigorosa da princìpi astratti e lontani dal comune modo di pensare. Il secondo consente invece di cogliere quelle verità che non sono formalizzabili attraverso un ragionamento, ma devono essere afferrate per mezzo di un’intuizione che penetra la realtà dall’interno. L’oggetto specifico dello spirito di geometria è il mondo della scienza e della natura, sebbene – come si è visto – anche in questo ambito i princìpi siano forniti dall’intuizione. Lo spirito di finezza si applica, invece, più propriamente alla realtà umana. Quest’ultima, infatti, presenta una ricchezza e una molteplicità che sfuggono alle univoche determinazioni del procedimento razionale.
APPROFONDIMENTO
Il giansenismo
Il giansenismo così diffuso nella comunità dei portorealisti può essere considerato come un’espressione eterodossa della riforma cattolica, che intende restituire al cristianesimo quel carattere di spiritualità interiore e di rigore morale spesso trascurato dalla politica dei gesuiti, attenti più al numero dei sedicenti cristiani che alla loro intima coerenza. Al gusto gesuitico per le pratiche esteriori e a un certo lassismo morale, i giansenisti – che prendono il loro nome dal vescovo Cornelis Jansen (latinizzato in Giansenio), autore di un’opera intitolata significativamente Augustinus (1641) – oppongono l’autorità di Agostino e la severità della sua dottrina della grazia . Ma quali sono le differenze dottrinali più significative tra i giansenisti e i gesuiti? I 128
gesuiti avevano elaborato una dottrina secondo cui ciascun individuo possiede una grazia sufficiente a salvarlo, quando essa venga corroborata dal libero arbitrio e dalle opere compiute per mezzo di esso. Contro questa teoria, i giansenisti avevano recuperato la dottrina agostiniana dell’umanità come «massa dannata». In base a essa, in seguito al peccato originale soltanto pochi eletti si possono salvare, non già in virtù di una grazia sufficiente a bene operare, bensì di una grazia efficace che viene direttamente da Dio. Le tesi giansenistiche vennero messe al bando da una bolla di papa Innocenzo X (1653) e più tardi rifiutate anche dalla Facoltà teologica di Parigi. Sebbene la sua posizione non coincidesse perfettamen-
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te con quella di Giansenio, anche Arnauld – e l’ambiente di PortRoyal – venne coinvolto nella condanna. Nel 1656 Pascal pubblicò con uno pseudonimo le Lettere provinciali per criticare la tesi del gesuita spagnolo Luis de Molina, in base alla quale l’uomo che viva in seno alla Chiesa e compia buone opere gode di una grazia sufficiente alla salvezza. Per Pascal, d’accordo con i giansenisti, le azioni dell’uomo sono sue perché dipendono dal libero arbitrio, ma anche di Dio che le fa scaturire (come lui vuole) dalla nostra volontà attraverso la grazia. In questo quadro, dunque, la buona volontà degli uomini – così come la fede – sono, in ultima istanza, il frutto della grazia che Dio concede a pochi eletti e rifiuta a molti.
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6. Pascal: l’uomo e Dio Come abbiamo visto, lo spirito di finezza permette di cogliere la condizione dell’uomo e, secondo Pascal, ne mette in rilievo il carattere di essere intermedio tra il tutto e il nulla [t18]. Se considera la sua posizione ontologica nella realtà, infatti, l’uomo riconosce di essere sospeso tra due infiniti: l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Da questo punto di vista, egli è un nulla rispetto all’infinità dell’universo, un tutto rispetto alla dimensione dell’infinitamente piccolo rivelatagli dalla natura (ad esempio, nel più piccolo degli insetti). La tensione umana tra tutto e nulla si proietta dal piano ontologico sul piano gnoseologico. L’uomo, infatti, appare incapace di conoscere il tutto, perché la sua grandezza va molto al di là della pochezza della sua ragione. D’altra parte, egli è altrettanto incapace di conoscere l’infinitamente piccolo, cioè quella regione dell’estremamente semplice, al confine tra essere e nulla, dalla quale scaturiscono i primi princìpi della realtà.
la condizione intermedia dell’uomo
La natura contraddittoria dell’uomo si manifesta, infine, a livello assiologico nella sua oscillazione tra grandezza e miseria. La grandezza dell’uomo consiste nella sua capacità di pensare. L’uomo è, per Pascal, una «canna che pensa». La fragilità del suo essere lo espone al continuo pericolo di annientamento. «Ma anche quando l’universo lo schiacciasse – continua Pascal – l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità che l’universo ha su di lui, mentre l’universo non ne sa nulla» (Pensieri, n. 377). Ora, secondo Pascal, la grandezza dell’uomo è tale soltanto in quanto egli comprende la propria miseria. La grandezza e insieme la miseria dell’uomo consistono, dunque, nel riconoscimento della perdita della sua integrità originaria, della condizione semi-bestiale a cui lo ha condannato il peccato originale, della morte che lo attende. Ma questo riconoscimento può avvenire soltanto in virtù del pensiero: un albero, infatti, non può riconoscersi miserabile.
l’uomo è fatto per pensare
Dalla considerazione della propria miseria l’uomo cerca normalmente di distogliere lo sguardo attraverso il divertissement («divertimento»; in senso etimologico, la «distrazione»). «Gli uomini, non avendo potuto guarire la morte, la miseria, l’ignoranza, hanno risolto, per vivere felici, di non pensarci» (Pensieri, n. 348). La vita di società, il gioco, la caccia, la guerra, le cariche politiche sono altrettanti mezzi per «distrarre» l’attenzione dalla propria condizione umana. Nulla, infatti, è più insopportabile per un uomo che rinchiudersi in una stanza, solo con i propri pensieri e le proprie riflessioni. A questo riguardo, tuttavia, Pascal sottolinea come la felicità data dalla «distrazione» è falsa e apparente. A suo avviso, infatti, l’unica vera felicità è quella che deriva dall’accettazione della propria miseria e dalla ricerca di Dio.
dallo stordimento di sé alla ricerca di dio
Il Dio che consola l’uomo dalla sua miseria non è quello «dei filosofi e degli scienziati», ma il «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe» e soprattutto il «Dio di Gesù Cristo». Pascal rimprovera a Cartesio di aver cercato di fare a meno di Dio e di averlo spogliato dei suoi attributi più specificamen-
la critica al dio cartesiano
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te religiosi, introducendolo nel suo sistema soltanto per dare l’impulso iniziale alla macchina del mondo. Il Dio pascaliano è invece il Dio personale, che parla al cuore dell’uomo e che riscatta la miseria umana – secondo l’espressione paolina – attraverso la «follia della croce». Da questo punto di vista, il pensiero teologico di Pascal appare segnato da una forte dimensione cristologica . la scommessa su dio
A questo «Dio di amore e di consolazione» non si può giungere attraverso argomentazioni razionali. Ciononostante, bisogna decidersi per o contro la fede in lui: non decidere equivale, infatti, a vivere come se Dio non esistesse, ossia a decidere per il no. Bisogna, pertanto, valutare attentamente che cosa la scommessa su Dio ci fa perdere e che cosa ci fa guadagnare. Se si scommette su Dio, ciò che si può guadagnare è tutto (ossia la vita eterna), mentre ciò che si può perdere è nulla (ossia una felicità finita e transitoria). Viceversa, se si scommette sulla non esistenza di Dio, si può perdere tutto e non guadagnare nulla. Ora, com’è evidente, tra il tutto e il nulla, tra l’infinito e il finito, non c’è proporzione. Occorre, dunque, scommettere senza indugio su Dio.
la fede come abitudine
Pascal stesso riconosce, tuttavia, che questa argomentazione non può vincere le resistenze di chi – pur volendolo – non riesce a credere. In questo caso, l’ostacolo alla fede non viene dalla volontà, ma dalle passioni del corpo. Occorre, dunque, domare la macchina corporea e renderla docile alla fede. Bisogna, infatti, assumere gli atteggiamenti esteriori del fedele e agire come se si credesse: inginocchiarsi, pregare ad alta voce, prendere l’acqua benedetta, far dire messe. In questo modo, l’ abitudine – che non a caso viene considerata da Pascal uno dei tre elementi della fede, accanto alla ragione e all’intuizione – renderà più facile l’accesso alla vita religiosa e il suo consolidamento. Come si può notare, l’anelito mistico di Pascal si conclude paradossalmente con un omaggio al meccanicismo cartesiano. Quest’ultimo, tuttavia, non è più interpretato come condizione della conoscenza dell’uomo e della natura, ma come strumento propedeutico alla religione [t19].
APPROFONDIMENTO
Il libertinismo
Se Pascal è il principale difensore seicentesco delle ragioni del cuore e della fede, il movimento libertino è invece il principale fautore della critica all’ortodossia religiosa in nome dell’autonomia della ragione da ogni autorità ecclesiastica o scritturale. L’espres-
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sione «libertino» (dal latino libertus, l’ex schiavo affrancato), infatti, indica che il libero pensatore intende emanciparsi da ogni servitù intellettuale. Il movimento libertino acquista forza in Francia nei primi decenni del Seicento, in reazione alla rigi-
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da ortodossia promossa dalla Riforma cattolica. Ciononostante, le radici del libertinismo vanno trovate nel Rinascimento con l’affermazione della dignità e dell’autonomia intellettuale dell’uomo, con la riscoperta dell’Aristotele pagano in contrapposizione alle
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devianti interpretazioni in senso cristiano elaborate dalla Scolastica (Pomponazzi), con la caduta del geocentrismo e l’affermazione dell’infinità dell’universo (Bruno).
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Il libertinismo è caratterizzato dal recupero delle tradizioni filosofiche post-aristoteliche. Dallo stoicismo esso deriva l’esigenza di una morale razionalistica autonoma rispetto alla religione e la concezione di un mondo governato da leggi necessarie. Dall’epicureismo esso mutua invece la concezione materialistica (e atomistica) della realtà e dell’uomo, con la conseguente negazione dell’immortalità dell’anima. Dallo scetticismo, infine, esso eredita la consapevolezza dei limiti della conoscenza umana e la pratica della sospensione del giudizio.
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Una delle preoccupazioni principali del libertinismo è quella dell’impostura religiosa. Esso si propone, infatti, di rivelare con gli strumenti offerti dalla ragione l’infondatezza dei dogmi dell’ortodossia cattolica. Questa critica sfocia, a volte, soltanto nell’affermazione del deismo, ovvero di una dottrina che riconosce l’esistenza di Dio – dimostrabile razionalmente – ma ne rifiuta gli attributi dogmatici (trinità, incarnazione, ecc.). Altre volte, invece, essa conduce a posizioni più radicali, affermando un panteismo che risolve la divinità nella natura o giungendo a un’esplicita professione di ateismo. In ogni caso, la critica all’ortodossia e ai metodi della Riforma cattolica fa sì che il movimento libertino sia generalmente sensibile al tema della tolleranza religiosa.
Una delle figure più interessanti del libertinismo è quella di Cyrano de Bergerac (1619-1655), autore di romanzi filosofici, nei quali – sotto una tenue finzione letteraria – difende le tesi più audaci. Ammiratore del copernicanesimo, Cyrano sostiene la pluralità dei mondi e l’infinità dell’universo, esaltando la portata eversiva che tali dottrine avevano nei confronti dell’ortodossia. Moderno seguace di Epicuro, egli reintroduce l’atomismo e il materialismo senza gli adattamenti in senso cristiano di Gassendi: gli atomi sono eterni; l’anima, in quanto materiale, è mortale. Ma soprattutto Cyrano giunge a un’aperta confessione di ateismo, contornata da una serie di argomenti contro l’esistenza della provvidenza e la possibilità del miracolo .
in poche... parole L’influenza di Cartesio sulla filosofia del Seicento è stata notevole. Per alcuni, egli fu un filosofo dogmatico, per altri lontano dagli sviluppi della scienza sperimentale, per altri ancora – dopo avere operato la distinzione tra res cogitans e res extensa – incapace di spiegare adeguatamente la loro unione di fatto nell’uomo. La discussione sulla filosofia di Cartesio diede origine a numerose tendenze di pensiero: Gassendi polemizzò col principio dell’evidenza e negò la distinzione ontologica dell’anima e del corpo, sostenendo il carattere materiale di entrambi; gli occasionalisti, come Geulincx e Malebranche, affermarono che il rapporto tra anima e corpo è reso possibile dall’intervento costante di Dio;
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a Pascal Dio di Gesù Cristo b Cyrano de Bergerac Una voce contro la fede
Arnauld e i portorealisti avanzarono la distinzione tra intendere (equivalente al cogitare chiaro e distinto di Cartesio) e credere (e cioè ritenere per vero su basi non razionali). In accordo con i giansenisti, infine, Pascal criticò il «Dio dei filosofi e degli scienziati», colpevoli di averlo chiamato in causa soltanto per dare l’impulso iniziale alla macchina del mondo, e si richiamò al «Dio di Gesù Cristo» che parla al cuore dell’uomo.
occasionalismo Dopo avere distinto due sostanze di natura diversa (res cogitans e res extensa), Cartesio – pur riconoscendo la loro reciproca influenza – non era in grado spiegare come potessero agire l’una sull’altra. All’interno
della scuola cartesiana si tentò di dare un’interpretazione diversa di questa relazione, recuperando tesi metafisiche e teologiche di matrice agostiniana. La soluzione di Geulincx e di Malebranche consiste nel ritenere che ciò che accade nel corpo o nell’anima sia soltanto l’«occasione» (da qui il termine di occasionalismo) per l’intervento di Dio. In altre parole, a loro avviso, le sensazioni non sono causate dal corpo così come i movimenti corporei non sono causati dalla volontà, ma è Dio che produce nell’anima la sensazione in occasione di una modificazione corporea o il movimento del corpo in occasione di un atto di volizione dell’anima. Gli occasionalisti negano l’esistenza di un’azione causale non solo tra sostanze di diversa natura (ani-
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ma e corpo), ma anche all’interno della sola sostanza estesa (tra corpo e corpo). A questo proposito, Malebranche fa l’esempio delle biglie: noi siamo soliti sostenere che il movimento della prima biglia abbia causato il movimento della seconda soltanto perché vediamo accadere una cosa dopo l’altra. L’osservazione del movimento delle biglie non offre, tuttavia, alcuna evidenza causale. Per Malebranche, la ragione garantisce l’evidenza del fatto che la prima biglia è solo la causa occasionale del movimento della seconda e che, quindi, Dio è la causa di qualsiasi mutamento avvenga nel mondo.
spirito di geometria e spirito di finezza Secondo Pascal, si
tratta di due capacità di cui è dotato l’uomo: con lo spirito di geometria, egli è capace di ragionare discorsivamente, soprattutto in ambito matematico, effettuando deduzioni a partire da princìpi astratti; con lo spirito di finezza, invece, è in grado di cogliere intuitivamente verità che non possono essere formalizzate attraverso ragionamenti e di penetrare la realtà dall’interno. Lo spirito di geometria e lo spirito di finezza si distinguono anche per gli oggetti a cui si applicano: il primo riguarda il mondo della natura, la scienza e gli enti matematici; il secondo, invece, riguarda più propriamente la realtà umana, specialmente nella sua dimensione etico-religiosa. Lo spirito di finezza risulta, tuttavia, fondamentale anche per il ragionamento matematico e geometrico: solo grazie ad esso, è possibile comprendere i primi princìpi del sapere (lo spazio, il tempo, il movimento, i numeri), che sono di per sé indimostrabili e possono essere colti solo intuitivamente. Ad esempio, che lo spazio abbia tre dimensioni o che i numeri siano infiniti rappresentano verità che l’uomo coglie immediatamente: è anzi a partire da queste verità che egli è in grado poi di sviluppare i propri
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ragionamenti e le proprie dimostrazioni. L’antitesi tra spirito di geometria e spirito di finezza viene illustrata da Pascal ricorrendo anche ad altri due termini: la ragione e il cuore. La ragione procede discorsivamente e viene utilizzata nelle discipline fisico-matematiche; il cuore è invece il sentimento, l’istinto, ovvero l’organo conoscitivo pre-razionale, in virtù del quale l’uomo intuisce i princìpi primi di ogni dimostrazione, coglie gli aspetti più profondi della realtà umana, si rapporta a Dio.
grazia In latino gratia, in greco chàris. In generale, indica un dono
gratuito, senza corrispettivo; più specificamente, il favore concesso da Dio agli uomini (a tutti, a un popolo o soltanto ad alcuni) e dal quale dipende la loro salvezza. Un problema dibattuto in ambito cristiano è se essa venga accordata da Dio a suo arbitrio (soluzione protestante), oppure per i meriti acquisiti dall’uomo con le sue azioni (soluzione cattolica).
divertissement Secondo Pascal, la grandezza dell’uomo consiste nella sua capacità di pensare e, dunque, di essere consapevole della propria miseria: l’uomo, infatti, non solo è incline al male a causa del peccato originale, ma è anche irrimediabilmente proiettato verso la morte. Da questa condizione di miseria, l’uomo cerca continuamente di distogliere la propria attenzione attraverso il divertissement: con questo termine (derivante dal latino di-vertere, «distogliere, volgere lontano da qualcosa»), solitamente tradotto con «divertimento, distrazione», Pascal descrive lo stato di stordimento che l’uomo cerca quotidianamente per evitare di riflettere sulla propria condizione esistenziale. La vita di società, la caccia, il gioco, le cariche politiche, la guerra sono solo alcuni esempi di come l’uomo cerchi di fuggire da se stesso e dai supremi interrogativi
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che riguardano il senso della vita e della morte. Pascal non manca di rilevare come il divertissement conduca l’uomo ad una felicità soltanto apparente: cercando appagamento fuori di sé – negli altri o nelle più diverse occupazioni – egli si proietta sempre nel futuro, rimanendo però insoddisfatto nel presente. «Il presente non è mai il nostro fine; il passato e il presente sono i nostri mezzi; solo l’avvenire è il nostro fine. Così, non viviamo mai, ma speriamo di vivere, e, preparandoci sempre ad essere felici, è inevitabile che non siamo mai tali» (Pensieri, n. 172). Secondo Pascal, la vera felicità è solo quella che deriva dall’accettazione della propria miseria e dalla ricerca di Dio.
scommessa Per credere in Dio, secondo Pascal, non possono bastare argomentazioni di carattere razionale. Ciononostante, non è possibile per l’uomo vivere senza decidere se essere per o contro la fede: non scegliere equivale, infatti, a vivere come se Dio non esistesse. Occorre, dunque, valutare quale sia la scelta più conveniente, e cioè stabilire che cosa si perda e che cosa si guadagni scommettendo sull’esistenza di Dio. Scommettendo che Dio esista, ciò che si può guadagnare è tutto (la vita eterna e beata), ciò che si può perdere è niente (i piaceri transitori e mondani): poiché tra il tutto e il nulla non c’è proporzione, occorre scommettere su Dio senza esitare. Viceversa, se si scommette sulla non esistenza di Dio, si può perdere tutto e non guadagnare nulla. Secondo Pascal, non vale l’argomento in base al quale l’eccessiva distanza tra quello che si ha (i beni finiti, ma certi) e quello che si potrebbe avere (la beatitudine infinita, ma assai incerta) dovrebbe spingerci a non rischiare. In ogni scommessa, infatti, si rischia il certo per l’incerto, purché la vincita sia di poco superiore alla posta; è ancora più giusto, dunque,
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scommettere quando – essendoci uguali probabilità di vincere o di perdere – si rischiano dei beni finiti per guadagnare un bene infinito.
abitudine In latino habitus, in greco hèxis. Indica il meccanismo psicologico in base al quale la ripetizione di determinati atti rende più facile l’esecuzione degli stessi comportamenti. Nella filosofia moderna il concetto è stato introdotto da Pascal, che lo ha utilizzato so-
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prattutto in difesa della religione, sostenendo che l’abitudine a compiere pratiche di culto ingenera un atteggiamento mentale favorevole al sorgere della fede. Per Pascal, l’uomo non è soltanto ragione, ma anche macchina corporea: l’argomento della scommessa – basato sulla maggiore ragionevolezza dell’avere fede rispetto al non averla – può dunque non essere sufficiente a spingerlo a credere. Per vincere le resistenze di chi – pur essendo
razionalmente convinto – non riesce a credere, occorre intervenire sulle sue abitudini esteriori e sui meccanismi delle sue azioni: solo impegnando tutto se stesso, e non soltanto la ragione, l’uomo potrà ottenere la fede. Prendere l’acqua benedetta, andare a messa, inginocchiarsi, pregare ad alta voce – in breve, comportarsi come se Dio esistesse – avrà l’effetto di ridurre gli ostacoli alla fede derivanti dalle passioni del corpo.
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i testi t17 Pascal / I due «spiriti» Pascal
Pensieri
n. 1
Viene qui riportato il Pensiero relativo alla distinzione tra spirito di geometria e spirito di finezza. Malgrado i due «spiriti» si riferiscano a oggetti diversi e siano quindi entrambi giustificati quando vengono applicati al loro ambito proprio, emerge tuttavia chiaramente una priorità del cuore sulla ragione. Memore dello scetticismo di Montaigne, Pascal ritiene che la definizione della condizione umana – l’unico vero problema per l’uomo – non sia suscettibile di una determinazione razionale, ma possa essere colta soltanto con spirito di finezza. Per questo la vera filosofia si affida completamente all’intuizione del cuore e non tiene in alcun conto le sottili dimostrazioni di un astratto razionalismo, di tipo cartesiano: «Beffarsi della filosofia è filosofare davvero» (Pensieri, n. 4).
Differenza tra lo spirito di geometria e lo spirito di finezza1. Nel primo i princìpi sono tangibili2, ma lontani dal comune modo di pensare, sicché si fa fatica a volger la mente verso di essi, per mancanza di abitudine; ma, per poco che la si volga ad essi, si scorgono pienamente; e solo una mente affatto guasta può ragionar male sopra princìpi così tangibili che è quasi impossibile che sfuggano3. Nello spirito di finezza i princìpi sono, invece, nell’uso comune e dinanzi agli occhi di tutti. Non occorre volgere il capo o farsi violenza: basta aver buona vista, ma buona davvero, perché i princìpi sono così tenui e così numerosi che è quasi impossibile che non ne sfugga qualcuno4. Ora, basta ometterne uno per cadere in errore: occorre, pertanto, una vista molto
1. Spirito di geometria e spirito di finezza corrispondono alla traduzione letterale del francese esprit de géométrie ed esprit de finesse. Con il primo termine si può tuttavia intendere lo spirito matematico o anche, più genericamente, l’atteggiamento razionalistico; con il secondo l’intuito, il sentimento, il giudizio del cuore. 2. Tangibili: nettamente definiti, afferrabili e comunicabili in maniera univoca. 3. C’è un residuo di cartesianesimo in quest’affermazione: ma mentre in Cartesio essa vale indiscriminatamente per
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limpida, per scorgerli tutti e una mente retta per non ragionar stortamente sopra princìpi noti. Tutti i geometri sarebbero, quindi, fini se avessero la vista buona, giacché non ragionano falsamente sui princìpi che conoscono; e gli spiriti fini sarebbero geometri se potessero spiegare lo sguardo verso i princìpi, a loro non familiari, della geometria5. Se, dunque, certi spiriti fini non sono geometri, è perché sono del tutto incapaci di volgersi verso i princìpi della geometria; mentre la ragione per cui certi geometri difettano di finezza è che non scorgono quel che sta dinanzi ai loro occhi e che, essendo usi ai princìpi netti e tangibili della geometria, e a ragionare solo dopo averli bene veduti e maneggiati, si perdo-
qualsiasi ambito della conoscenza, per Pascal è limitata a una sfera circoscritta: la ricerca scientifica. 4. A differenza dei princìpi dello spirito di geometria, quelli dello spirito di finezza non sono nettamente formalizzabili e sfuggono a rigorose definizioni matematiche. Per questo possono essere colti soltanto attraverso un’attività intuitiva che non sia subordinata alla rigidezza degli schemi matematico-razionali. 5. In altri termini, lo spirito di geometria e lo spirito di finezza, pur opponen-
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dosi, non si escludono a vicenda. Gli spiriti geometrici possono essere fini, se riescono anche a cogliere quei princìpi che non sono riducibili a formalizzazione razionale. Viceversa, gli spiriti fini possono essere anche geometrici, se non si limitano a cogliere intuitivamente quelle concrete verità che il cuore suggerisce loro, ma perseguono anche quelle verità astratte cui si può pervenire soltanto con il ragionamento matematico. Tuttavia questa combinazione dei due spiriti, come Pascal nota poco più sotto, avviene raramente.
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no nelle cose in cui ci vuol finezza, nelle quali i princìpi non si lascian trattare nella stessa maniera. Infatti, esse si scorgono appena; si sentono più che non si vedano; è molto difficile farle sentire a chi non le senta da sé: sono talmente tenui e in così gran numero che occorre un senso molto perspicuo e molto delicato per sentirle e per giudicarne poi in modo retto e giusto secondo tale sentimento, senza poterle il più delle volte dimostrare con ordine rigoroso, come nella geometria, perché non se ne possiedono nella stessa maniera i princìpi e volerlo fare sarebbe un’impresa senza fine. Bisogna cogliere la cosa di primo acchito con un solo sguardo, e non per progresso di ragionamento, almeno sino a un certo punto. E così è raro che i geometri siano spiriti fini e gli spiriti fini geometri, perché i primi voglion trattare con metodo geometrico le cose che esigon finezza, e cadono nel ridicolo volendo cominciare dalle definizioni e poi dai princìpi: metodo fuor di luogo in questa specie di ragionamento. Non che la mente non lo faccia, ma lo fa in modo tacito, naturalmente e senz’arte, perché l’espressione di esse eccede le umane capacità e pochi ne possiedono il sentimento. E gli spiriti fini, per contro, essendo usi a giudicare con una sola occhiata, rimangon tal6. La contrapposizione tra spirito di geometria e spirito di finezza è ancora più forte nel Pensiero n. 3: «Coloro che sono avvezzi a giudicare con il sentimento non intendono nulla nelle cose
mente stupiti quando si trovano di fronte a proposizioni per loro incomprensibili, e alla cui intelligenza si accede solo attraverso definizioni e princìpi sterilissimi, che essi non sono avvezzi a esaminare minutamente, che se ne infastidiscono e se ne disgustano6. Ma gli spiriti falsi non sono mai né fini né geometrici. I geometri che sono soltanto tali hanno, dunque, una mente retta, purché ogni cosa venga loro spiegata bene, per mezzo di definizioni e di princìpi: altrimenti, sono falsi e insopportabili, poiché non sanno ragionare rettamente se non sopra princìpi ben chiariti. E gli spiriti fini che sono soltanto tali non possono avere tanta pazienza da scendere sino ai primi princìpi delle cose speculative e d’immaginazione, che non hanno mai incontrate nelle civili conversazioni e che sono del tutto fuori dell’uso comune. GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali sono i contenuti dello «spirito di geometria»? E dello «spirito di finezza»? 2. Che cosa accade quando gli spiriti geometrici cercano di fare gli spiriti fini e viceversa? 3. Qunad’è che, secondo Pascal, si hanno degli spiriti falsi?
di ragionamento, perché vogliono capire subito d’un solo sguardo, e non sono avvezzi a cercare i princìpi. E gli altri, per contro, che sono assuefatti a ragionare per princìpi, non intendono nulla
nelle cose di sentimento, perché vi cercano i princìpi e non riescono a coglierli con una sola occhiata».
t18 Pascal / Tra il tutto e il nulla Pascal
Pensieri
n. 223
Lo studio della matematica aveva reso familiare a Pascal il problema dell’infinito. In termini ancora più problematici il tema dell’infinito ricompare a livello filosofico: l’uomo si trova sospeso – in un rapporto di assoluta sproporzione – tra la grandezza infinita dell’universo e la piccolezza infinita delle sue parti più microscopiche, senza essere in grado di conoscere né l’una né l’altra. Entra così in crisi – come già era avvenuto con Montaigne – la confortante visione rinascimentale che, presupponendo un rapporto di assoluta proporzione tra l’universo (macrocosmo) e l’uomo (microcosmo), garantiva la perfetta conoscibilità del primo da parte del secondo. All’uomo pascaliano non resta che la conturbante consapevolezza della sua natura contraddittoria, insieme partecipe del tutto e del nulla.
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L’uomo contempli, dunque, la natura tutt’intera nella sua alta e piena maestà, allontanando lo sguardo dagli oggetti meschini che lo circondano. Miri quella luce sfolgorante, collocata come una lampada eterna a illuminare l’universo1; la terra gli apparisca come un punto in confronto dell’immenso giro che quell’astro descrive, e lo riempia di stupore il fatto che questo stesso vasto giro è soltanto un tratto minutissimo in confronto di quello descritto dagli astri roteanti nel firmamento. E se, a questo punto, la nostra vista si arresterà, l’immaginazione vada oltre: si stancherà di concepire prima che la natura di offrirle materia. Tutto questo mondo visibile è solo un punto impercettibile nell’ampio seno della natura. Nessun’idea vi si approssima. Possiamo pur gonfiare le nostre concezioni di là dagli spazi immaginabili: in confronto della realtà delle cose, partoriamo solo atomi. È una sfera infinita, il cui centro è in ogni dove e la circonferenza in nessun luogo2. Infine, è il maggior segno sensibile dell’onnipotenza di Dio che la nostra immaginazione si perda in quel pensiero. L’uomo, ritornato a sé, consideri quel che è in confronto a quel che esiste. Si veda come sperduto in questo remoto angolo della natura: e da quest’angusta prigione dove si trova, intendo dire l’universo, impari a stimare al giusto valore la terra, i reami, le città e se stesso. Che cos’è un uomo nell’infinito? Ma per presentargli un altro prodigio altrettanto meraviglioso, cerchi, tra quel che conosce, le cose più minute. Un àcaro3 gli offra, nella piccolezza del suo corpo, parti incomparabilmente più piccole: zampe con giunture, 1. Il Sole, il quale nel suo movimento di rotazione descrive un’orbita sproporzionatamente grande rispetto alle dimensioni della Terra, ma molto piccola nei confronti di quelle descritte dagli astri esterni al sistema solare. 2. Prima per mezzo delle proprie conoscenze astronomiche, poi con l’ausilio della sola immaginazione, l’uomo giunge a intuire, pur senza poterla conoscere, l’estensione infinita dell’universo. Tale infinità è qui espressa mediante una metafora resa celebre da Giordano Bruno nel De causa, principio et uno.
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vene in queste zampe, sangue in queste vene, umori in queste zampe, gocce in questi umori, vapori in queste gocce; e, suddividendo ancora queste ultime cose, esaurisca le sue forze in tali concezioni, sicché l’ultimo oggetto cui possa pervenire sia per ora quello del nostro ragionamento. Egli crederà forse che sia questa l’estrema minuzia della natura. Voglio mostrargli là dentro un nuovo abisso. Voglio raffigurargli non solo l’universo visibile, ma l’immensità naturale che si può concepire nell’àmbito di quello scorcio di atomo. Ci scorga un’infinità di universi, ciascuno dei quali avente il suo firmamento, i suoi pianeti, la sua terra, nelle stesse proporzioni del mondo visibile; e, in quella terra, animali e, infine, altri àcari, nei quali ritroverà quel che ha scoperto nei primi. E, trovando via via negli altri le stesse cose, senza posa e senza fine, si perda in tal meraviglie, che fanno stupire con la loro piccolezza come le altre con la loro immensità. Invero, chi non sarà preso da stupore al pensiero che il nostro corpo – che dinanzi non era percepibile nell’universo, che a sua volta era impercettibile in seno al Tutto – sia ora un colosso, un mondo, anzi un tutto rispetto al nulla4, al quale non si può mai pervenire? Chi si considererà in questa maniera sentirà sgomento di se stesso e, vedendosi sospeso, nella massa datagli dalla natura, tra i due abissi dell’infinito e del nulla, tremerà alla vista di tali meraviglie; e credo che, mutando la propria curiosità in ammirazione, sarà disposto a contemplarle in silenzio più che a indagarle con presunzione5. Perché, insomma, che cos’è l’uomo nella natu-
3. Dopo aver considerato il rapporto dell’uomo con l’infinitamente grande, Pascal considera quello con l’infinitamente piccolo. Nella coscienza scientifica del tempo l’acaro era considerato il più piccolo animale visibile a occhio nudo. Con l’aiuto degli strumenti si possono vedere le piccolissime parti che compongono l’insetto. Ma solo con il ragionamento – procedendo in una ideale divisione indefinita della materia – si può concepire come ciascuna di quelle parti contenga a sua volta dei veri e propri universi infinitamente pic-
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coli, che a loro volta ne contengono altri al loro interno, e così via. 4. Se il tutto è l’infinitamente grande, l’infinitamente piccolo può essere assimilato al nulla. 5. Di fronte alla non conoscibilità dell’infinitamente grande e dell’infinitamente piccolo, la ragione umana rivela i propri limiti e lascia spazio a una considerazione intimistica e religiosa della realtà e dell’uomo.
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ra? Un nulla rispetto all’infinito, un tutto rispetto al nulla, qualcosa di mezzo tra il tutto e il nulla. Infinitamente lontano dalla comprensione di questi estremi, il termine delle cose e il loro principio6 restano per lui invincibilmente celati in un segreto imperscrutabile: egualmente incapace d’intendere il nulla donde è tratto e l’infinito che lo inghiotte. Che farà, dunque, se non scorgere qualche apparenza della zona mediana delle cose, in un’eterna disperazione di conoscerne il principio e il termine? Tutte le cose sono uscite dal nulla, e vanno sino all’infinito. Chi seguirà quei meravigliosi processi? Solo l’autore di quelle meraviglie le comprende; nessun altro lo può. Per non aver considerato questi due infiniti, gli uomini si son vòlti temerariamente all’indagine della natura, come se avessero qualche proporzione con essa. È strano che abbian voluto scoprire i princìpi delle cose, e giungere da questi sino a conoscere tutto, con una presunzione infinita come il loro oggetto7: perché è certo che non si può concepire un tal disegno senza una presunzione o una capacità infinite, come la natura… Impariamo, dunque, a conoscere le nostre capacità. Siamo qualche cosa e non siamo tutto. Quel tanto di essere che possediamo ci inibisce la conoscenza dei primi princìpi, che derivano dal nulla, e la pochezza del nostro essere ci preclude la vista dell’infinito. Il nostro intelletto tiene nell’ordine delle cose intelligibili lo stesso posto che il nostro corpo nell’immensità della natura8. Limitati, come siamo, in ogni campo, questa condizione intermedia tra due estremi si riscontra in tutte le nostre facoltà. I nostri sensi non percepiscono nulla di estremo: troppo rumore ci assorda, troppa luce abbaglia; l’eccessiva distanza e l’eccessiva prossimità impedisco6. Il termine delle cose è il tutto che le
comprende, l’infinitamente grande; il loro principio è l’infinitamente piccolo – assimilabile al nulla – di cui si compongono e da cui nascono. 7. Evidente allusione a Cartesio e a coloro che ne condividevano la fede assoluta nella ragione.
no la vista; troppa lunghezza e troppa brevità rendono oscuro il discorso; troppa verità ci intontisce (conosco taluni che non riescono a capire che zero meno quattro resta zero); i primi princìpi son per noi troppo evidenti: troppo piacere ci incomoda; le troppo frequenti consonanze dispiacciono nella musica; e troppi benefici ci irritano, giacché vogliamo avere di che ripagarli a dovizia: «Beneficia eo usque laeta sunt dum videntur exolvi posse; ubi multum antevenere, pro gratia odium redditur»9. Noi non sentiamo né l’estremo caldo né l’estremo freddo. Le qualità eccessive ci sono nemiche, e non vengon da noi sentite: non le percepiamo più, le soffriamo. L’esser troppo giovani o troppo vecchi è d’impaccio alla nostra intelligenza. Troppa o troppo poca istruzione, egualmente. In breve, è come se le cose estreme per noi non esistessero, e noi rispetto a loro non esistiamo: esse sfuggono a noi, noi a loro. Tale la nostra effettiva condizione. Essa ci rende incapaci sia di conoscere con piena certezza come di ignorare in maniera assoluta. Noi voghiamo in un vasto mare, sospinti da un estremo all’altro, sempre incerti e fluttuanti. Ogni termine al quale pensiamo di ormeggiarci e di fissarci vacilla e ci lascia; e, se lo seguiamo, ci si sottrae, scorre via e fugge in un’eterna fuga. Nulla si ferma per noi. È questo lo stato che ci è naturale e che, tuttavia, è più contrario alle nostre inclinazioni. Noi bruciamo dal desiderio di trovare un assetto stabile e un’ultima base sicura per edificarci una torre che s’innalzi all’infinito10; ma ogni nostro fondamento scricchiola, e la terra si apre sino agli abissi. Non cerchiamo, dunque, né sicurezza, né stabilità. La nostra ragione è sempre delusa dalla mutevolezza delle apparenze; nulla può fissare il finito tra i due infiniti che lo racchiudono e lo fuggono.
8. Nella determinazione della condizione umana, Pascal passa ora dal piano ontologico – la definizione dell’essere dell’uomo – a quello gnoseologico – la definizione delle sue possibilità conoscitive – confermando anche in questo ambito la natura intermedia dell’essere umano, sospeso tra due infiniti.
9. Tacito, Annales, IV, VIII: «I benefici
fanno piacere finché sembra che si possano ricambiare; quando sono troppo smisurati, si risponde con l’odio anziché con la gratitudine». 10. Ancora una probabile allusione allo spirito cartesiano.
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GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia nel testo le definizioni dell’uomo date da Pascal. 2. Con che cosa deve confrontarsi l’uomo per arrivare alla conclusione di essere «un nulla rispetto al tutto»? 3. Con che cosa deve confrontarsi l’uomo per arrivare alla conclusione di essere «un tutto rispetto al nulla»? 4. Metti a confronto la nozione di ragione avanzata da Cartesio con quella che emerge dalla lettura di questo brano di Pascal.
t19 Pascal / Scommettere su Dio Pascal
Pensieri
n. 164
Quello sulla scommessa (in francese: pari) è probabilmente uno dei più famosi «pensieri» di Pascal. Esso faceva probabilmente parte del progetto di una Apologia del cristianesimo mai realizzata, ma è anche accreditata l’ipotesi che si trattasse di uno scritto rivolto a un destinatario particolare: in tal caso egli sarebbe l’interlocutore che, nel dialogo in cui il pensiero si sviluppa, difende le tesi dello scetticismo.
Se c’è un Dio, è infinitamente incomprensibile, perché, non avendo né parti né limiti, non ha nessun rapporto con noi1. Siamo, dunque, incapaci di conoscere che cos’è né se esista2. Così stando le cose, chi oserà tentare di risolvere questo problema? Non certo noi, che siamo incommensurabili con lui. Chi biasimerà allora i cristiani di non poter dar ragione della loro credenza, essi che professano una religione di cui non possono dar ragione? Esponendola al mondo, dichiarano che è una follia, stultitiam3, e voi vi lamentate che non ne diano le prove! Se la provassero, mancherebbero di parola: solo difettando di prove, non difettano di criterio. 1. Dio è inconoscibile perché è infinito e, come tale, non ha alcun rapporto di proporzione con l’uomo. 2. In realtà, l’infinità di Dio, se impedisce di conoscerne la natura, non impedisce di riconoscerne l’esistenza. Lo stesso Pascal aveva affermato poco prima, in questo medesimo Pensiero: «Noi sappiamo che esiste un infinito, e ne ignoriamo la natura. Dacché sappiamo che è falso che i numeri siano finiti, è vero che c’è un infinito numerico. Ma non sappiamo che cosa è: è falso che sia pari, è falso che sia dispari, perché aggiungendovi l’unità esso non cambia natura. Tuttavia è un numero, e ogni
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«Sta bene, ma, sebbene ciò serva a scusare coloro che la presentano come tale, e li assolva dalla traccia di presentarla senza ragione, non scusa però coloro che la accolgono». Esaminiamo allora questo punto, e diciamo: «Dio esiste o no?». Ma da qual parte inclineremo? La ragione qui non può determinare nulla: c’è di mezzo un caos infinito. All’estremità di quella distanza infinita si gioca un giuoco in cui uscirà testa o croce. Su quale delle due punterete? Secondo ragione, non potete puntare né sull’una né sull’altra; e nemmeno escludere nessuna delle due. Non accusate, dunque, di errore chi abbia scelto, perché non ne sapete un bel nulla4.
numero è pari o dispari (vero è che ciò si intende di ogni numero finito). Perciò si può benissimo conoscere che esiste un Dio senza sapere che cos’è». L’asserzione della nostra incapacità di conoscere razionalmente l’esistenza di Dio è probabilmente una concessione che Pascal fa al suo interlocutore in modo da partire dal suo stesso terreno. 3. Cfr. Paolo, Prima lettera ai Corinzi, I, 21: «Dal momento che nella sapienza di Dio il mondo non ha conosciuto Dio con la propria sapienza, a Dio è piaciuto salvare i credenti mediante la pazzia della predicazione». Nello stesso contesto Paolo definisce la crocifissione
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«uno scandalo per i giudei» e «una pazzia per i gentili». Pascal fa spesso riferimento a questo passo paolino sulla stultitia crucis. Cfr. anche il Pensiero n. 804: «Questa religione [...] dopo aver fatto mostra di tutti i suoi miracoli e di tutta la sua saggezza ripudia tutto questo e proclama di non avere né saggezza né segni, ma la croce e la follia». 4. Dopo aver proclamato che la ragione non è sufficiente a far nascere la fede nel vero Dio, Pascal si preoccupa di mostrare come, tuttavia, non sia irrazionale credere. Se non può far pervenire alla conoscenza di Dio, la ragione neppure ostacola la fede in lui.
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«No, ma io li biasimo non già di aver compiuto quella scelta, ma di avere scelto; perché, sebbene chi sceglie croce e chi sceglie testa incorrano nello stesso errore, sono tutti e due in errore: l’unico partito giusto è di non scommettere affatto»5. Sì, ma scommettere bisogna: non è una cosa che dipenda dal vostro volere, ci siete impegnato. Che cosa sceglierete, dunque? Poiché scegliere bisogna, esaminiamo quel che v’interessa meno. Avete due cose da perdere, il vero e il bene, e due cose da impegnare nel giuoco: la vostra ragione e la vostra volontà, la vostra conoscenza e la vostra beatitudine; e la vostra natura ha da fuggire due cose: l’errore e l’infelicità6. La vostra ragione non patisce maggior offesa da una scelta piuttosto che dall’altra, dacché bisogna necessariamente scegliere. Ecco un punto liquidato. Ma la vostra beatitudine? Pesiamo il guadagno e la perdita, nel caso che scommettiate in favore dell’esistenza di Dio. Valutiamo questi due casi: se vincete, guadagnate tutto; se perdete, non perdete nulla. Scommettete, dunque, senza esitare, che egli esiste. «Ammirevole! Sì, bisogna scommettere, ma forse rischio troppo». Vediamo. Siccome c’è eguale probabilità di vincita e di perdita, se aveste da guadagnare solamente due vite contro una, vi converrebbe già scommettere7. Ma, se ce ne fossero da gua5. Questa è la soluzione dello scettico, l’epochè che sospende il giudizio su ciò che non può essere conosciuto con certezza. L’obiezione di Pascal è che in questo caso la sospensione del giudizio non è possibile. Infatti, come sostiene subito dopo, «scommettere bisogna», poiché il non scegliere equivale a scegliere per il no, per la non-esistenza di Dio. 6. Il problema dell’esistenza di Dio può essere trattato sul piano teoretico-gnoseologico (cui fanno riferimento i termini «vero», «ragione», «conoscenza», «errore») o su quello pratico (cui si riferiscono i termini «bene», «volontà», «beatitudine», «infelicità»). Pascal liquida però immediatamente il primo livello di discorso come non pertinente: la ragione non può determina-
dagnare tre, dovreste giocare (poiché vi trovate nella necessità di farlo); e, dacché siete obbligato a giocare, sareste imprudente a non rischiare la vostra vita per guadagnarne tre in un giuoco nel quale c’è eguale probabilità di vincere e di perdere. Ma qui c’è un’eternità di vita e di beatitudine. Stando così le cose, quand’anche ci fosse un’infinità di casi, di cui uno solo in vostro favore, avreste pur sempre ragione di scommettere uno per avere due; e agireste senza criterio, se, essendo obbligato a giocare, rifiutaste di arrischiare una vita contro tre in un giuoco in cui, su un’infinità di probabilità, ce ne fosse per voi una sola, quando ci fosse da guadagnare un’infinità di vita infinitamente beata. Ma qui c’è effettivamente un’infinità di vita infinitamente beata da guadagnare, una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, e quel che rischiate è qualcosa di finito. Questo tronca ogni incertezza: dovunque ci sia l’infinito, e non ci sia un’infinità di probabilità di perdere contro quella di vincere, non c’è da esitare: bisogna dar tutto. E così, quando si è obbligati a giocare, bisogna rinunziare alla ragione per salvare la propria vita piuttosto che rischiarla per il guadagno infinito, che è altrettanto pronto a venire quanto la perdita del nulla. Invero, a nulla serve dire che è incerto se si vincerà, mentre è certo che si arrischia; e che l’infinita distanza tra la certezza di quanto si ri-
re la scelta in base ad argomenti oggettivi. È esclusa una conoscenza razionale di Dio che possa porre la questione in termini di «verità» o «errore» logici. La questione può essere risolta soltanto sul piano pratico, mostrando l’interesse soggettivo a scommettere su Dio che ogni uomo ha, per guadagnare un bene e una felicità infiniti. 7. Inizia qui l’esame di una casistica la cui complessità ha posto problemi interpretativi agli stessi studiosi di Pascal. Senza pretendere in questa sede di dipanare tali problemi, l’argomentazione pascaliana, ridotta all’essenziale, è la seguente. Poiché la scelta per il sì o per il no è inevitabile, a parità di rischio si deve scegliere per la soluzione che ci offre maggiore guadagno (due o tre vite anziché una). Se si presenta poi
il caso di un’alternativa tra un guadagno infinito (la vita e la beatitudine eterna) e un guadagno finito (la pochezza della felicità terrena) conviene puntare tutto sull’infinito anche qualora le possibilità di vincita fossero scarsissime («quand’anche ci fosse un’infinità di casi, di cui uno soltanto a vostro favore»), poiché tra l’infinito e il finito non c’è proporzione. Quando infine – ed è questo il caso in realtà – l’alternativa tra il guadagno infinito e quello finito sia accompagnata da discrete probabilità di vincita («una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita») a maggior ragione si deve scommettere senza indugio sull’infinito.
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schia e l’incertezza di quanto si potrà guadagnare eguaglia il bene finito, che si rischia sicuramente, all’infinito, che è incerto. Non è così: ogni giocatore arrischia in modo certo per un guadagno incerto; e nondimeno rischia certamente il finito per un guadagno incerto del finito, senza con ciò peccare contro la ragione. Non c’è una distanza infinita tra la certezza di quanto si rischia e l’incertezza della vincita: ciò e falso. C’è, per vero, una distanza infinita tra la certezza di guadagnare e la certezza di perdere. Ma l’incertezza di vincere è sempre proporzionata alla certezza di quanto si rischia, conforme alla proporzione delle probabilità di vincita e di perdita. Di qui consegue che, quando ci siano eguali probabilità da una parte e dall’altra, la partita si gioca alla pari, e la certezza di quanto si rischia è eguale all’incertezza del guadagno: tutt’altro, quindi, che esserne infinitamente distante! E, quando c’è da arrischiare il finito in un giuoco in cui ci siano eguali probabilità di vincita e di perdita e ci sia da guadagnare l’infinito, la nostra proposizione ha una validità infinita8. Ciò è dimostrativo; e, se gli uomini son capaci di qualche verità, questa ne è una. «Lo riconosco, lo ammetto. Ma non c’è mezzo di vedere il di sotto del giuoco?» Sì, certamente, la Scrittura e il resto9. «Sta bene. Ma io ho le mani legate, e la mia bocca è muta; sono forzato a scommettere, e non sono libero; non mi si dà requie, e sono fatto in modo da non poter credere. Che volete, dunque, che faccia?»
8. Qui Pascal corregge in senso ottimistico la previsione delle probabilità di vittoria. Se poco prima aveva ammesso una probabilità di vincita contro un numero finito di probabilità di perdita, ora sostiene invece che le probabilità sono pari nell’uno come nell’altro caso. Comunque, il fulcro del discorso è sempre l’incomparabilità tra la finitezza del rischio e l’infinitezza del guadagno possibile. 9. Al di là di ogni argomentazione – compresa quella dell’utilità del credere
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È vero. Ma riconoscete almeno che la vostra impotenza di credere proviene dalle vostre passioni, dacché la ragione vi ci porta, e tuttavia non potete credere. Adoperatevi, dunque, a convincervi non già con l’aumento delle prove di Dio, bensì mediante la diminuizione delle vostre passioni. Voi volete andare alla fede, e non ne conoscete il cammino; volete guarire dall’incredulità, e ne chiedete il rimedio: imparate da coloro che sono stati legati come voi e che adesso scommettono tutto il loro bene: sono persone che conoscono il cammino che vorreste seguire e che sono guarite da un male di cui vorreste guarire. Seguite il metodo con cui hanno cominciato; facendo cioè ogni cosa come se credessero, prendendo l’acqua benedetta, facendo dire messe, ecc. In maniera del tutto naturale, ciò vi farà credere e vi imbestialirà10.
GUIDA ALLA LETTURA 1. Questo Pensiero di Pascal ruota sui concetti di «fede» e «ragione»; quali definizioni dei due concetti si possono ricavare dal testo? 2. Perché è ragionevole scommettere sull’esistenza di Dio? Evidenzia nel testo le argomentazioni avanzate da Pascal. 3. Qual è la posta in gioco nella scommessa su Dio? Che cosa c’è da perdere e che cosa c’è da guadagnare? 4. Che cosa impedisce all’uomo di credere, visto che la ragione invita a farlo?
a cui si riduce la «scommessa» – il vero fondamento della fede rimane l’autorità della parola rivelata e il «resto», cioè soprattutto la capacità dell’uomo di ritrovare Dio nella propria interiorità, al di fuori di ogni ragionamento, secondo l’insegnamento agostiniano. 10. Il testo francese recita «vous abêtira», cioè vi renderà animale, vi trasformerà in una macchina animata. Il corpo, sede delle passioni che ostacolano il raccoglimento in se stessi e l’accesso alla fede, diventerà così un docile
6. cartesianesimo e giansenismo
strumento della vita religiosa. Questo «imbestialimento» non è sentito da Pascal come un deprezzamento della dignità umana. Egli infatti accoglie il dualismo cartesiano tra spirito e corpo, investendolo di un preciso giudizio di valore: solamente nello spirito l’uomo trova la sua dimensione propria, mentre il corpo – che è cartesianamente concepito come una macchina – non riveste alcun valore se non è asservito alla vita dello spirito.
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esercizi/6 CHE COSA SO?
9. Perché Pascal individua nel «cuore» una fonte di conoscenza?
Guida allo studio del manuale
10. Quali sono le correnti di pensiero che ispirano il movimento libertino?
1. Evidenzia a quali esiti teorici conduce la discussione intorno al dualismo cartesiano. 2. Evidenzia la teoria della conoscenza formulata da Malebranche. 3. Evidenzia gli aspetti caratterizzanti della dottrina giansenista. 4. Evidenzia il debito di Pascal nei confronti del meccanicismo cartesiano. 5. Evidenzia i punti fondamentali che caratterizzano il pensiero del movimento libertino. Dizionario filosofico 6. Definisci i seguenti concetti: causa occasionale (Malebranche e Geulincx) • abitudine (Pascal) • spirito di geometria e spirito di finezza (Pascal) • divertissement (Pascal)
CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe)
11. Qual è l’oggetto della critica di Geulincx e Malebranche a Cartesio? 12. Quali sono gli elementi che caratterizzano la logica di Port-Royal? 13. Perché, secondo Pascal, l’uomo oscilla fra «grandezza» e «miseria»? 14. Cosa intende Pascal quando afferma che la fede è una «scommessa»? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 15. Ricostruisci le critiche di Gassendi a Cartesio, le motivazioni che le sostengono e le soluzioni che vengono proposte agli stessi problemi. 16. In che modo Gassendi cerca di conciliare il cristianesimo con la tradizione epicurea? 17. Come risolve Malebranche il dubbio cartesiano sulla veridicità dell’esperienza? 18. Illustra le differenze fra il concetto di Dio utilizzato da Cartesio e quello di Pascal.
7. Perché Gassendi rifiuta il concetto cartesiano di evidenza? 8. Quale influenza esercita il pensiero cartesiano sulla logica di Port-Royal?
esercizi/6
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7. hobbes i contenuti tutta la realtà è corpo
Hobbes risolve i problemi legati al dualismo cartesiano negando l’esistenza della sostanza pensante. A suo avviso, quando Cartesio dice «se penso, esisto come sostanza pensante», confonde la funzione (il pensiero) con il suo soggetto (che è corporeo). Hobbes, infatti, è fautore di un materialismo meccanicistico. In base a esso, la realtà è costituita da corpi che generano causalmente altri corpi. senso, ragione, linguaggio
La dottrina della conoscenza hobbesiana si fonda su un rigoroso sensismo. Gli oggetti esterni – a contatto con i nostri organi di
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7. hobbes
senso – producono delle immagini sensoriali che – sedimentate nella memoria – costituiscono il nostro apparato concettuale. Queste immagini possono essere addizionate o sottratte le une alle altre. La ragione – comune anche agli animali – non è altro che questo calcolo. A differenza degli animali, tuttavia, gli uomini sono in grado di imporre nomi alle immagini delle cose. Grazie al linguaggio, infatti, la loro ragione può addizionare o sottrarre non soltanto immagini particolari (come succede agli animali), ma anche termini universali. Essi consentono di generalizzare il calcolo, senza ripeterlo per ogni singolo caso. la filosofia è scienza delle cause generatrici
La conoscenza che si ottiene con un ragionamento corretto è la
filosofia. Essa è fondata sulle definizioni dei nomi, attribuite convenzionalmente alle cose, e sulle loro conseguenze logiche. Ora, per Hobbes, conseguenza logica è sinonimo di conseguenza causale. La filosofia è, dunque, una conoscenza per cause. Poiché la realtà risulta costituita da corpi, inoltre, la filosofia consiste nella conoscenza delle loro cause generatrici. Essa si divide, pertanto, in filosofia naturale (che studia la generazione dei corpi fisici) e filosofia civile (che ha per oggetto i corpi politici). Hobbes distingue, infine, tra una conoscenza deduttiva, quando è l’uomo stesso a produrre ciò che conosce (la matematica), e una conoscenza ipotetico-induttiva, quando – non essendo noi stessi la causa dell’oggetto – possiamo soltanto ricostruire ipoteticamente il suo processo generativo (la fisica). il materialismo etico
L’uomo fa parte integrante della natura e deve essere spiegato in base agli stessi princìpi materialistici e meccanici. Le passioni sono conseguenza delle impressioni sensoriali. A seconda che le sensazioni favoriscano o ostacolino il nostro movimento vitale, noi proviamo desiderio – e amore – o avversione – e odio – verso di esse. La vita emotiva dell’uomo non è che l’alterna lotta di queste passioni fondamentali e di quelle che da esse derivano. Il buono e il cattivo non sono valori assoluti, ma relativi a ciò che desideriamo o avversiamo. Per Hobbes, non esiste libertà del volere: la volontà non è altro che il prevalere meccanico di una passione sull’altra. dallo stato di natura al patto sociale
Prima della costituzione della società civile, secondo Hobbes, esiste lo stato di natura. Esso equivale a uno stato di guerra, in cui ciascuno vede minacciata la propria vita. Nello stato di natura, ognuno gode del «diritto su tutte le cose»: in altre parole, ognuno ha
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la facoltà di usare tutti i mezzi che soggettivamente crede opportuni per assicurare la propria autoconservazione. La ragione comanda agli uomini di uscire dallo stato naturale, per ottenere la garanzia della vita e della pace. Seguendo i dettami della ragione, infatti, gli uomini contraggono il patto sociale e danno vita allo Stato.
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il sovrano assoluto
In base a questo patto, tutti gli uomini rinunciano al proprio diritto su tutto a favore di uno solo. Questi è il sovrano: il suo potere assoluto elimina ogni forma di discordia e rende possibile la pace civile. Perché ciò avvenga, secondo Hobbes, occorre che il potere sia assolutamente indiviso. La Chiesa,
dunque, non può essere un potere che si contrappone allo Stato e il capo politico deve essere anche il capo religioso. Le dottrine politiche di Hobbes forniscono alla Corona d’Inghilterra una giustificazione tanto dell’assolutismo quanto dell’anglicanesimo.
gli strumenti in poche… parole sensazione / fenomenismo / ragione / stato di natura / diritto di natura e legge naturale / Stato / patto di unione e di sudditanza
i testi a. nel manuale t20 Hobbes/La ragione come calcolo t21 Hobbes/Dallo stato di natura alla società civile
b. on-line Hobbes/Dalla sensazione al pensiero Hobbes/Dimostrazioni a priori e a posteriori Hobbes/Lo stato di natura
approfondimenti Politica e religione nell’Inghilterra di Hobbes Il giusnaturalismo
esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?
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1. Vita e opere la formazione
Thomas Hobbes era nato a Malmesbury, nel 1588, da un pastore di campagna. La sua formazione filosofica dipende in gran parte dai lunghi soggiorni nel Continente. Dopo aver conseguito nel 1608 il baccalaureato delle Arti a Oxford, dal 1610 al 1612 accompagna il discepolo William Cavendish in un viaggio in Europa. Questo primo contatto con la cultura continentale verrà consolidato da altre permanenze, soprattutto in Francia e in Italia, negli anni 1629-1631, 1634-1637, 1640-1651. L’ultima di esse è un volontario esilio, motivato da ragioni di sicurezza: nel 1640 Hobbes aveva fatto circolare gli Elementi di legislazione naturale e politica, in un momento in cui si radicalizzava la lotta tra il re e il Parlamento.
i viaggi e le opere più importanti
Durante questi viaggi Hobbes ha occasione di conoscere Galilei ad Arcetri e, a Parigi, Gassendi, Mersenne (su invito del quale scrive le terze Obiezioni alle Meditazioni di Cartesio) e molti esponenti dell’ambiente libertino approfondimento, p. 130]. Durante il soggiorno parigino, Hobbes pub[ blica il De cive (1642), che costituisce l’ultima parte di una trilogia filosoficopolitica – gli Elementa philosophiae – le cui prime due componenti – il De corpore e il De homine – usciranno rispettivamente nel 1655 e nel 1658, dopo il rientro in Inghilterra. Prima di ritornare in patria egli pubblica la sua opera principale, il Leviatano (1651).
una fase tormentata della storia inglese
Il pensiero politico di Hobbes è fortemente influenzato dalle vicende stori approfondimento, sotto]. Sebbene fosse di estrazione che da lui vissute [ piccolo-borghese, nell’ambito del conflitto tra la Corona (Giacomo I e Carlo I Stuart) e il Parlamento, si schierò a favore del partito realista e della Chiesa anglicana. Ciò è stato spiegato in parte con la sua avversione per ogni sedizione e disordine civile, in parte con il fatto che visse lungamente sotto la protezione dei potenti. Hobbes, infatti, fu precettore di due generazioni di Cavendish, futuri duchi del Devonshire, e insegnò matematica al futuro Carlo II che – diventato re dopo la fine della dittatura repubblicana di Oliver Cromwell – lo proteggerà nell’ultima parte della sua vita. Morirà a Londra, nel 1679.
APPROFONDIMENTO
Politica e religione nell’Inghilterra di Hobbes
Thomas Hobbes visse in un periodo molto tormentato della storia inglese. La tendenza degli Stuart (prima Giacomo I, poi Carlo I) ad accentrare il potere nelle mani del re aveva provocato gravi tensioni tra la Corona e il Parlamento. Una parte di esso – la Camera dei Comuni – rappresentava, in144
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fatti, gli interessi di una classe media sempre più intenzionata a far sentire il proprio peso nella vita della nazione. Gli squilibri politici erano strettamente intrecciati con quelli religiosi. Da un lato, la politica accentratrice della monarchia si rifletteva sulla struttura episcopa-
le della Chiesa anglicana che, pur essendosi resa indipendente da quella di Roma, ne aveva conservato l’organizzazione gerarchica e autoritaria. D’altro lato, i presbiteriani accoglievano l’esigenza di una maggiore de-cattolicizzazione della Chiesa inglese e di un’articolazione più democratica del cle-
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ro. Essi richiedevano che il clero fosse eletto dal basso – ovvero dai fedeli organizzati in comunità parrocchiali (presbitèri) – anziché essere nominato dall’alto del potere vescovile. Questi conflitti politico-religiosi condussero l’Inghilterra alla guerra civile, alla condanna a morte di
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Carlo I e alla successiva dittatura repubblicana di Oliver Cromwell. Quest’ultima fu espressione, sul piano politico, della media borghesia e, su quello religioso, di una variante più radicale dei presbiteriani – gli Indipendenti – che pretendevano una completa autonomia della Chiesa dal re e dal potere politico.
In breve, la storia dell’Inghilterra della prima metà del Seicento è segnata in gran parte dal confronto tra i sostenitori dell’assolutismo monarchico e dell’episcopalismo e i difensori di una ridistribuzione del potere che attribuisse più autonomia agli strati medio-bassi della borghesia e della Chiesa.
2. La dottrina della conoscenza La teoria della conoscenza, formulata da Hobbes, subisce l’influenza di concezioni gnoseologiche allora ampiamente diffuse nella cultura continentale. Il suo principale obiettivo consiste nell’unire il meccanicismo cartesiano con un rigoroso sensismo, di probabile derivazione gassendiana. A differenza di Cartesio – che riconosceva la possibilità di idee innate (cfr. 5.5) – Hobbes ritiene che ogni conoscenza deriva dai sensi. A sua volta, la sensazione viene spiegata in termini di movimento corporeo. Essa nasce dalla pressione esercitata dagli oggetti esterni sugli organi sensoriali e, attraverso i nervi, sul cervello. L’apparato percettivo dell’uomo reagisce a questa pressione con un contro-movimento, che si conclude nella produzione dell’immagine dell’oggetto (o fantasma). Poiché la reazione degli organi sensoriali è un movimento orientato verso l’esterno, la produzione dei fantasmi è caratterizzata dalla convinzione soggettiva che le immagini esistano esternamente al corpo:
le fonti della conoscenza
L’origine di tutti i nostri pensieri è ciò che chiamiamo SENSO; non si dà infatti nessuna concezione nella mente umana che non sia generata inizialmente, in tutto o in parte, dagli organi di senso. Il resto si sviluppa a partire da questa origine [...] la sensazione in ogni caso non è niente altro che un’immagine originaria causata, come ho detto, dall’azione, cioè dal movimento, di cose esterne sugli occhi, sugli orecchi e sugli altri organi destinati a questo scopo (Leviatano, cap. I).
Ma qual è, secondo Hobbes, il contenuto delle immagini prodotte dagli organi di senso? A suo parere, il loro contenuto è pura apparenza (in greco, phàntasma): ciò che appare oggettivamente all’occhio come colore e all’orecchio come suono non è che movimento meccanico di un corpo (l’oggetto esterno) su un altro corpo (l’organo sensoriale del soggetto percipiente). La dottrina della conoscenza sensibile di Hobbes poggia, quindi, su un presupposto gnoseologico di tipo fenomenistico .
i sensi conoscono le apparenze delle cose
Dal movimento meccanico, in cui consiste la sensazione, si origina anche il pensiero. Le idee, i concetti, i pensieri – ovvero il materiale della conoscenza – sono, infatti, immagini sensoriali sedimentate nella memoria. In essa,
la formazione del pensiero
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oltre alle immagini delle singole sensazioni, rimangono anche le connessioni tra una sensazione e l’altra (e quindi tra un’immagine e l’altra). Nella ricostruzione di queste connessioni consiste l’attività del pensiero. In altri termini, secondo Hobbes, pensare vuol dire cercare i nessi causali di un «fantasma» che momentaneamente si impone alla nostra mente. Ciò equivale a connettere questa immagine (ad esempio, «pioggia») con quelle che possono esserne le cause (per esempio, «nube») o, viceversa, con quelli che possono esserne gli effetti (per esempio, «bagnarsi») .
MOVIMENTO MECCANICO
SENSAZIONE
IMMAGINI SENSORIALI
MEMORIA DELLE IMMAGINI E DELLE LORO CONNESSIONI
IDEE, CONCETTI
PENSIERO COME RICERCA DELLE CONNESSIONI CAUSALI
3. Il linguaggio la differenza tra uomo e animale
Nel paragrafo precedente abbiamo visto come l’attività di pensiero consista nel ricercare la connessione delle immagini sensoriali conservate nella memoria. Il tipo di conoscenza che ne deriva è, secondo Hobbes, comune agli uomini e agli animali: anche il cane prevede il dolore alla vista del bastone nella mano dell’uomo o il piacere in presenza dell’osso che gli si offre. Ma, che cosa permette di passare da questo tipo inferiore di conoscenza al ragionamento discorsivo, proprio soltanto degli uomini? Ciò che, secondo Hobbes, rende possibile questo passaggio è il linguaggio.
le funzioni del linguaggio
La caratteristica principale del linguaggio consiste nell’imporre dei nomi alle cose, o meglio alle immagini delle cose. I nomi, secondo Hobbes, svolgono due funzioni fondamentali. Quali? 1. La prima è la funzione mnemonica: i nomi – in quanto note – hanno il compito di ricordare all’uomo le connessioni che egli ha stabilito tra le singole cose. Ad esempio, dopo aver dimostrato che gli angoli di una figura composta da tre lati sono uguali a due angoli retti, è sufficiente imporre a quella figura il nome di «triangolo» (o qualunque altro nome convenzionale, poiché l’imposizione dei nomi per Hobbes è arbitraria), per ricordarsi di questa proprietà ogni volta ci si trovi di fronte a una figura simile, senza dovere ripetere daccapo la dimostrazione. 2. La seconda è la funzione comunicativa: i nomi – in quanto segni – servono a far comprendere agli altri uomini le cose da noi pensate e le connessioni tra esse stabilite. Ad esempio, quando dico «triangolo», tutti sanno
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Hobbes Dalla sensazione al pensiero
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che intendo una figura con tre lati, la cui somma degli angoli interni è uguale a due angoli retti. Per Hobbes, il ragionamento discorsivo opera sui nomi, e non sulle cose. Il carattere di generalità, a esso proprio, si fonda sull’uso di termini universali ai quali non corrisponde nessuna cosa reale (non esiste l’uomo, esistono solo i singoli uomini). La verità o la falsità del ragionamento dipende, quindi, dalla correttezza o scorrettezza con cui dal significato di un determinato nome si è inferita la sua connessione col significato di un altro nome. Verità o falsità riguardano sempre soltanto i nomi, non le cose: la loro natura è puramente logica, non ontologica. Il nominalismo è, dunque, un carattere fondamentale della riflessione hobbesiana sul linguaggio. In base a questa concezione del linguaggio, per Hobbes, il compito della scienza non è quello di descrivere la realtà delle cose, ma di costruire un sistema di antecedenze e conseguenze tra i nomi. Paradossalmente, questo sistema dovrebbe conservare la sua validità anche quando tutta la realtà fosse improvvisamente cancellata.
verità o falsità dei discorsi
La caratteristica principale della dottrina della conoscenza hobbesiana è quella di conciliare l’empirismo con il razionalismo, ovvero le posizioni di Gassendi e di Cartesio. Da un lato, infatti, i suoi presupposti gnoseologici sono sensistici: senza esperienza sensibile non sono possibili né i concetti né la conoscenza. D’altro lato, la conoscenza al suo più alto livello – la scienza – è un sapere che, pur ricavando dall’esperienza il materiale conoscitivo, si fonda su un sistema di rapporti logici costruito dalla ragione.
il sapere scientifico tra esperienza e ragione
4. Ragione e filosofia Nel paragrafo precedente abbiamo visto come la conoscenza scientifica sia costituita da ragionamenti discorsivi, ovvero da insiemi di connessioni logiche tra nomi. Ma che cosa significa ragionare? Per Hobbes, ogni operazione della ragione si riduce a un calcolo e, più precisamente, a una addizione o a una sottrazione. A suo avviso, queste operazioni non si applicano soltanto alle grandezze dell’aritmetica (i numeri), della geometria (le linee, le figure, ecc.) e della fisica (i concetti di velocità, forza, ecc.), ma anche ai nomi. Dire che tra due vocaboli esiste un rapporto di antecedenza e conseguenza significa, infatti, aggiungere il secondo (come conseguente) al primo (come antecedente); negare questo rapporto significa, invece, sottrarre il secondo dal primo [t20]. Promuovendo una concezione della ragione come calcolo, Hobbes recupera in forma nuova l’apparato della logica tradizionale. Ai suoi occhi, infatti, una proposizione non è che una somma di termini, un sillogismo una somma di proposizioni, una dimostrazione una somma di sillogismi.
la ragione come calcolo
La conoscenza ottenuta attraverso il corretto uso del ragionamento è la filosofia. Ora, come già sappiamo, il ragionamento stabilisce un rapporto causale tra l’antecedente e il conseguente. Per questo motivo, la filosofia è la
scire per causas
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scienza delle cause generatrici. Ma cosa significa ciò, più esattamente? Se prendiamo una figura piana che assomiglia a un circolo, non possiamo sapere con il solo ausilio dei sensi – senza ricorrere al ragionamento causale – se tale figura sia o non sia veramente un circolo. A tale certezza possiamo giungere soltanto facendo ruotare un raggio attorno al centro. Quest’ultimo si forma perché i punti della circonferenza, disegnati progressivamente dall’estremità del raggio, sono equidistanti dal centro. dagli effetti alle cause e viceversa
La conoscenza delle cause generatrici può essere utilizzata in una duplice direzione: partendo dalla cosa che genera determinati effetti o proprietà (un circolo, cioè una figura ottenuta ruotando il raggio attorno al centro, ha la proprietà di avere tutti i punti della circonferenza equidistanti dal centro) oppure, viceversa, andando dagli effetti alla causa generatrice, cioè dalle proprietà alla cosa che le determina (se una figura ha la proprietà di avere tutti i punti della circonferenza equidistanti dal centro, essa è stata prodotta dalla rotazione del raggio attorno al centro, cioè è un circolo).
dimostrazione a priori e a posteriori
Il fatto che la conoscenza si ottenga ricostruendo la generazione delle cose implica la sua distinzione in due forme diverse: 1) una conoscenza deduttiva, fondata su una dimostrazione a priori, in cui l’uomo può conseguire un’assoluta certezza perché è egli stesso a produrre ciò che conosce (è il caso della matematica); 2) una conoscenza ipotetico-induttiva, basata su una dimostrazione a posteriori, in cui l’uomo può soltanto risalire ipoteticamente dagli effetti alle loro cause perché non è egli stesso a produrre l’oggetto (come avviene nella scienza della natura, i cui oggetti sono fatti da Dio) .
oggetto e partizioni della filosofia
Ma – rimane da chiedersi – qual è l’oggetto di una conoscenza intesa come scienza delle cause generatrici? La risposta di Hobbes è: i corpi, in quanto sono le sole realtà che possono essere generate. La filosofia è conoscenza di corpi e della loro generazione. Essa ha per oggetto la generazione di due tipi di corpi – quelli esistenti in natura e quelli politici – e si dividerà in filosofia naturale e in filosofia civile. Dalla filosofia è, invece, esclusa la teologia: secondo Hobbes, infatti, Dio è sì corporeo, ma ingenerato.
5. La filosofia naturale e l’etica corpo e movimento
I presupposti della filosofia naturale di Hobbes possono essere riassunti in due proposizioni principali. 1. Tutta la realtà è corpo. Per corpo Hobbes intende tutto ciò che non dipende dal nostro pensiero e occupa una porzione di spazio. Dal concetto di corpo dipende il concetto di spazio: esso è il luogo occupato da un corpo fuori di noi. 2. Al corpo è connesso il movimento. Ogni cambiamento che avviene nella realtà si riduce a un moto di corpi o di parti all’interno di essi. Dal concetto
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Hobbes Dimostrazioni a priori e a posteriori
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di movimento dipende il concetto di tempo: esso è l’idea di successione prodotta da un corpo che si muove entro spazi progressivi. Il materialismo e il meccanicismo alla base del mondo naturale valgono anche per l’uomo, che ne è parte integrante. Essi permettono di spiegare, infatti, sia l’attività cognitiva dell’uomo sia la sua vita emotiva.
anche le passioni hanno un’origine corporea
a. La conoscenza – come già sappiamo [cfr. 7.2] – nasce da un movimento prodotto negli organi sensoriali dall’azione meccanica di un corpo esterno. In altre parole, l’attività della mente non è altro che moto in alcune parti del corpo organico e dipende dalla materia estesa. b. Le passioni sono l’immediata conseguenza delle sensazioni prodotte in noi dagli oggetti esterni. Più precisamente, noi proviamo desiderio (o appetito) per una cosa se asseconda il ciclo biologico dell’uomo (circolazione del sangue, respirazione, nutrizione, ecc.); al contrario, proviamo avversione verso di essa se lo ostacola. Al desiderio e all’avversione corrispondono rispettivamente l’amore e l’odio per la cosa desiderata oppure avversata. Dalla combinazione di queste passioni fondamentali scaturiscono tutte le altre affezioni dell’animo. La stessa religione – considerata come passione tra le passioni – non è che timore nei confronti di un potere invisibile, ossia avversione congiunta con l’idea di un danno che può provenire dalla cosa avversata. Per Hobbes, dunque, la vita etica dell’uomo si fonda sugli affetti fondamentali dell’amore e dell’odio. Per questo motivo, anch’essa risulta regolata dagli stessi princìpi. Secondo questa prospettiva, il bene e il male non sono valori o disvalori assoluti che vadano ricercati o evitati in quanto tali. Al contrario, essi si qualificano come bene o male solo in quanto vengono desiderati o avversati dall’individuo, o spontaneamente o per un comando o per un divieto da parte della legge dello Stato. Secondo Hobbes, infatti, ciò che desideriamo e amiamo è per noi buono, mentre ciò che avversiamo e odiamo è per noi cattivo.
il bene e il male derivano da valutazioni individuali
L’alternanza di desiderio e avversione obbedisce – come ogni altro movimento corporeo – a rigide leggi meccaniche e non può essere controllata dall’uomo. Quando una stessa cosa appare – sotto aspetti diversi – desiderabile e detestabile allo stesso tempo, ha luogo il processo della deliberazione. Essa consiste, secondo Hobbes, nel conflitto tra le due passioni fondamentali (o tra i loro derivati). La deliberazione si conclude con un atto di volontà, in base al quale scegliamo di agire in un modo anziché in un altro. Anche l’azione volontaria, per Hobbes, non è quindi altro che la prevalenza meccanica dell’ultima avversione su tutti i precedenti desideri, o dell’ultimo desiderio su tutte le precedenti avversioni. In che cosa consiste allora la libertà della volontà? Hobbes risponde che la nozione di «volontà libera» è priva di significato come l’espressione «quadrato rotondo». La sola libertà di cui dispone la volontà consiste nel fare senza impedimenti esteriori ciò che l’alternanza delle due passioni fondamentali – desiderio o avversione – ha già determinato.
la volontà libera non esiste
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6. Dallo stato di natura al patto sociale lo stato di natura minaccia la sopravvivenza
Malgrado il significato del termine «bene» sia relativo, almeno su una cosa – la conservazione della propria vita e l’integrità del proprio corpo – tutti gli uomini si trovano concordi. Ora, proprio questo bene viene messo in forse nello stato di natura che precede la costituzione della società civile. Ma quali sono le caratteristiche dello stato di natura? Nello stato di natura non esiste alcuna autorità che freni l’arbitrio individuale. In questa condizione, l’uomo ricerca il proprio vantaggio a danno degli altri uomini. Ciò avviene, secondo Hobbes, in parte per necessità – ogni uomo deve, infatti, contendere agli altri i pochi beni offerti dalla natura – in parte per sua propria volontà. L’uomo, per Hobbes, non è naturalmente incline alla socievolezza (come voleva Aristotele) ma all’aggressività nei confronti del prossimo (secondo l’espressione di Plauto: homo homini lupus).
diritto di natura e legge di natura
Lo stato di natura è, quindi, un permanente stato di guerra (bellum omnium contra omnes) in cui ogni individuo è chiamato a difendere se stesso e i propri averi con le sue forze . Ciò significa, secondo Hobbes, che ciascun uomo detiene un diritto di natura , ovvero un «diritto su tutte le cose» (ius in omnia) che lo autorizza a compiere ogni azione e a servirsi di ogni mezzo per garantire la propria autoconservazione. In breve, nello stato di natura il diritto si estende tanto quanto la propria forza: Se due uomini desiderano la medesima cosa, di cui tuttavia non possono entrambi fruire, diventano nemici e, nel perseguire il loro scopo (che è principalmente la propria conservazione e talvolta solo il proprio piacere) cercano di distruggersi o di sottomettersi l’un l’altro. [...] A causa di questa diffidenza dell’uno verso l’altro, non esiste per alcun uomo mezzo di difesa così ragionevole quanto l’agire d’anticipo, vale a dire l’assoggettare, con la violenza o con l’inganno, la persona di tutti gli uomini che può, fino a che non vede nessun altro potere abbastanza grande da metterlo in pericolo; ciò non è niente più di quanto esiga la conservazione di se stesso, ed è cosa in generale ammessa (Leviatano, cap. XIII).
Nello stato di natura – in cui tutti sono nemici di tutti e detengono un diritto su ogni cosa – nessuno può essere certo di non incorrere nel massimo dei mali, la morte violenta. Per questo motivo, occorre uscire dallo stato di natura e obbedire alle leggi naturali con cui la ragione indica all’uomo i mezzi necessari per conseguire il fine supremo dell’autoconservazione. La legge di natura fondamentale comanda di realizzare la pace. per vivere in pace e sicurezza occorre un patto sociale
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La pace, infatti, è la prima condizione di ogni sicurezza personale. Ma in che modo può essere raggiunta? Secondo Hobbes, la pace può avere luogo soltanto quando ciascun individuo stipuli con tutti gli altri un patto attraverso il quale egli esce definitivamente dallo stato di natura. Con tale patto ognuno si impegna: a 1) rinunciare al suo diritto naturale su tutto; 2) attribuire a una persona sola – o a un’unica assemblea di persone – il diritto naturale che nello stato di natura era detenuto da ciascun individuo. 7. hobbes
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La società che nasce da questo patto è una società politica, o Stato . Coloro che rinunciano al diritto naturale diventano sudditi, mentre la persona o assemblea che lo conserva assume la funzione di sovrano. Quest’ultimo, entrando in possesso di una forza irresistibile, rende impossibile la guerra che si produrrebbe se tutti gli individui si sentissero ugualmente legittimati a imporre il loro diritto naturale. In quel caso, infatti, ognuno agirebbe con lo scopo di prevaricare l’avversario. Alla molteplicità delle volontà individuali sempre in conflitto tra loro, si sostituisce l’unità della volontà sovrana, che decide per tutti che cosa sia giusto o ingiusto. Per Hobbes, infatti, soltanto la volontà del sovrano può stabilire il significato di questi termini che, nello stato di natura, sono invece privi di valore [t21].
nascita e scopo dello stato
7. Il sovrano assoluto Come abbiamo visto, il passaggio dallo stato di natura alla società politica si conclude con il conferimento di un potere illimitato nelle mani del sovrano. L’autorità del sovrano è assoluta per due motivi: 1) egli è, nello Stato, l’unica persona a detenere il diritto naturale su ogni cosa; 2) egli, inoltre, beneficia del contratto senza impegnarsi in esso. Occorre ricordare, infatti, che il patto è stipulato reciprocamente tra gli individui in favore del sovrano, ma non tra gli individui e il sovrano.
perché l’autorità del sovrano è assoluta?
In altre parole, il pactum unionis ( patto di unione ) e il pactum subjectionis ( patto di sudditanza ) – che, secondo la tradizione giusnaturalistica, scandi approfondimento, p. 152] – costituiscono, per vano la genesi dello Stato [ Hobbes, due aspetti di un unico processo. A suo avviso, infatti, gli individui si riuniscono in una comunità politica soltanto nel momento in cui – e per il fatto che – rinunciano a gran parte dei loro diritti naturali in favore del sovrano. Da questo punto di vista, il problema della forma di governo diventa secondario. Per quanto possa essere formalmente detenuto dal popolo o dall’aristocrazia o dal re, il potere sovrano è sempre assoluto. Questa convinzione, tuttavia, non impedisce a Hobbes di esprimere la sua preferenza per la monarchia, nella quale l’unità della volontà politica coincide con l’unicità fisica della persona che governa.
rinuncia al diritto individuale e sottomissione al sovrano
Non meno significativa è la posizione assunta da Hobbes nella questione dei rapporti tra Stato e Chiesa. Se l’unicità e l’indivisibilità del potere sovrano è la condizione essenziale per garantire la pace all’interno dello Stato, lo Stato non può tollerare una Chiesa che gli si contrapponga come potere autonomo. La Chiesa deve, quindi, far parte dello Stato e il capo di quest’ultimo eserciterà la sua autorità anche sulla gerarchia ecclesiastica.
l’autorità statale e quella religiosa coincidono
Il pensiero hobbesiano è generalmente considerato come il modello teorico dell’assolutismo politico. Una sua corretta interpretazione esige, tuttavia, che esso venga inquadrato nella particolare situazione storica in cui Hobbes è vissuto. Da questo punto di vista, la sua filosofia rappresenta una
teoria politica e contesto storico-sociale
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risposta in senso assolutistico non soltanto alle forze economico-sociali che minavano l’integrità del potere regio, ma anche al movimento puritano che indeboliva la subordinazione della Chiesa anglicana al re. Per Hobbes, il decentramento del potere voluto dalla borghesia e dal movimento puritano avrebbe provocato – secondo il calcolo razionale delle conseguenze – un ritorno allo stato di natura e di guerra.
APPROFONDIMENTO
Il giusnaturalismo
Il pensiero giuridico-politico di Hobbes intrattiene stretti legami con il giusnaturalismo (dal latino ius, «diritto», e natura). Con questo termine ci si riferisce alla dottrina secondo cui il diritto ha un fondamento naturale. Secondo il giusnaturalismo, infatti, il diritto è indipendente dall’autorità politica che emana la singola legge e le conferisce una determinata configurazione storica. Nell’Antichità e nel Medioevo, il giusnaturalismo trovò espressione soprattutto nello stoicismo, nella Patristica agostiniana e nella Scolastica tomista. Per essi, la «natura» in cui si trova inscritto il diritto è lo stesso ordine ontologico e teologico del mondo. Nel Sei-Settecento, il giusnaturalismo si trasforma in senso moderno e assume la denominazione di «scuola del diritto naturale». Per essa, il diritto è fondato non più sulla natura in generale, ma su quella umana in particolare, ovvero sulla ragione. Il diritto naturale perde, dunque, il carattere metafisico-teologico per diventare diritto razionale. In altri termini, per la scuola del diritto naturale, il diritto non è più oggettivo – ossia inscritto nelle cose stesse – ma soggettivo. Ciò non significa che esso varia da individuo a individuo, ma che è proprio del soggetto umano: la ragione, infatti, è unica per tutti. Secondo la prospettiva giusnaturalistica, l’universalità della ragio152
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ne permette di individuare diritti naturali fondamentali e inalienabili per tutti gli uomini. Per questo motivo, il diritto che nasce dalla costituzione dello Stato e dall’esercizio della sovranità dovrà essere una specificazione di quello naturale e in nessun caso potrà entrare in contraddizione con esso. Al giusnaturalismo moderno sono strettamente connesse le teorie dello stato di natura e del contratto sociale. In primo luogo, se il diritto ha un fondamento naturale, esso deve fare riferimento a uno stato di natura (reale o ideale) che preceda la costituzione della società civile. In secondo luogo, la società civile (o Stato) esprime una condizione opposta allo stato di natura: essa è, infatti, artificiale e convenzionale, poiché nasce da un patto (o contratto). Quest’ultimo contiene in sé due momenti che possono essere intesi in senso logico o cronologico: 1) un patto di unione (pactum unionis) con cui gli individui stabiliscono di entrare in una società politica; 2) un patto di sudditanza (pactum subjectionis) con cui essi si sottomettono a un’autorità sovrana, definendo contemporaneamente la forma di governo in cui si dovrà esprimere (monarchia, aristocrazia, democrazia). Generalmente, il passaggio dal giusnaturalismo classico a quello moderno viene fatto risalire all’olandese Huig Van Groot, latiniz-
zato in Ugo Grozio (1583-1645). Nel De jure belli ac pacis (1625), Grozio fonda il diritto esclusivamente sulla ragione umana. Ciò che è conforme alla natura razionale dell’uomo è giusto e moralmente necessario; ciò che se ne discosta è necessariamente ingiusto e riprovevole. La morale e il diritto trovano, quindi, una giustificazione razionale autonoma che non richiede più una fondazione di tipo metafisico o teologico. In tal senso, Grozio afferma che il diritto naturale conserverebbe la sua validità anche se – per assurdo – Dio non esistesse. In realtà, per Grozio, non può esserci nessuna divergenza tra le indicazioni della ragione e la volontà divina. Ciò che è prescritto dal diritto naturale, infatti, ha lo stesso grado di necessità delle proposizioni matematiche e deve, quindi, essere voluto anche da Dio. Sul carattere rigorosamente razionale del diritto naturale insiste anche Samuel Pufendorf (16321694). La sua opera De jure naturae et gentium (1672) ebbe grande risonanza fino a tutto il Settecento e influenzò profondamente la cultura illuministica. Partendo da una concezione cartesiana della ragione, Pufendorf fa del diritto una scienza rigorosamente deduttiva, fondata su princìpi completamente autonomi. In Pufendorf, inoltre, il diritto comincia a distinguersi non solo dall’ambito metafisico-teologico, ma an-
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che da quello più specificamente morale. A questo proposito, molto importante è la sua distinzione tra il «diritto perfetto» e il «diritto
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imperfetto». Il primo ha carattere coercitivo e si traduce in una legge dello Stato che si impone con la forza; il secondo, invece, corri-
sponde alla norma morale che attende di essere realizzata dalla coscienza interiore dell’uomo.
in poche... parole A differenza di Cartesio, che aveva suddiviso la realtà nelle due regioni della sostanza pensante e della sostanza estesa, Hobbes afferma che tutta la realtà è corpo e che i mutamenti all’interno di essa sono dovuti a movimenti tra corpi (o tra parti di essi). A differenza di Cartesio, che aveva sostenuto l’esistenza di idee innate, Hobbes ritiene che ogni conoscenza derivi dai sensi. Dalla sensazione, dovuta al movimento meccanico che i corpi esterni esercitano sugli organi sensoriali, si origina anche il pensiero. Il pensiero, secondo Hobbes, consiste nel ricostruire le connessioni tra le immagini sensoriali depositate nella memoria: la conoscenza che ne deriva è comune agli uomini e agli animali. Ciò che li distingue è, invece, l’uso del linguaggio da parte dell’uomo, e cioè la sua capacità di sviluppare dei ragionamenti discorsivi. La concezione del linguaggio di Hobbes è rigorosamente nominalistica: gli uomini, infatti, impongono dei nomi non alle cose, ma alle immagini delle cose. I nomi hanno sia una funzione mnemonica e denotativa (sono «note» che designano concetti, consentendo il ragionamento astratto) sia una funzione comunicativa e semantica (sono «segni» che permettono a diversi individui di comprendersi usando le stesse parole): la verità e la falsità dei discorsi riguardano sempre e soltanto i nomi, e non le cose, giacché dipendono dalla correttezza o dalla scorrettezza con cui sono stati collegati tra loro. Da un lato, dunque, la conoscenza dipende dall’esperienza
sensibile, dalla quale traggono origine le idee e i nomi; dall’altra, il sapere nel suo grado più alto, la scienza, si fonda su un sistema di rapporti logici costruito dalla ragione.
sensazione In latino sensus, in greco àisthesis. In senso generale, il termine può significare la conoscenza sensibile nel suo complesso, come indicano gli etimi latino e greco da cui deriva. In un significato più ristretto e più proprio, che è tipico di Hobbes, la sensazione indica invece la componente o l’elemento ultimo in cui può essere scomposta la singola conoscenza sensibile (per esempio: il freddo, il liscio, il bagnato, ecc. relativi a questo cubetto di ghiaccio). fenomenismo Dal greco phainòmenon, «ciò che appare o ciò che si manifesta». Il fenomeno è ciò che appare ai sensi. Esso può essere interpretato 1) come manifestazione della realtà di cui è apparenza; 2) come semplice apparenza, che non consente di decidere se la realtà sia tale quale appare. La seconda alternativa prevale nella filosofia moderna. In essa, a iniziare da Cartesio e in maniera ancora più netta con Hobbes, si fa strada una concezione fenomenistica della conoscenza sensibile. In base a questa concezione il suono che sento o il colore che vedo non corrispondono alle cose in sé, ma sono il risultato dell’azione degli oggetti esterni sugli organi sensoriali del soggetto. ragione Per Cartesio la ragione consiste nella capacità umana di distinguere – con un atto dell’intuizione – ciò che è evidente da ciò che
non lo è. Per Hobbes, invece, la ragione indica un procedimento specifico attraverso il quale la mente connette o disgiunge una cosa con (o da) un’altra. Per Hobbes, ragionare significa calcolare, cioè addizionare o sottrarre. Anche gli animali hanno questa facoltà: per esempio, un cane può addizionare l’immagine di un bastone alzato contro di lui con il ricordo delle botte ricevute. A differenza degli animali, tuttavia, gli uomini possono ragionare anche sui nomi delle cose, e non solo sulle immagini particolari di esse. Ciò permette loro il ragionamento astratto. Ad esempio, dopo aver calcolato che la somma degli angoli interni di un poligono con tre lati è uguale a due angoli retti, l’uomo può riferire questo risultato al poligono che chiama triangolo e procedere nei suoi calcoli, utilizzando questa conoscenza. Il materialismo e il meccanicismo alla base della realtà naturale valgono anche per l’uomo, che ne è parte integrante. Essi permettono di spiegare non solo la sua attività cognitiva, ma anche la sua vita emotiva e le sue scelte in campo etico. In questo quadro, l’amore e l’odio sono le reazioni meccaniche prodotte in noi dagli oggetti esterni e consistono rispettivamente nel desiderare ciò che asseconda il ciclo biologico dell’uomo o nell’avversare ciò che lo ostacola. Le caratteristiche principali dell’etica hobbesiana sono essenzialmente due: 1) un radicale relativismo, dovuto al fatto che il mondo dei valori è determinato dal gioco – in gran parte soggettivo – del de7. hobbes
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siderio e dell’avversione; 2) un radicale determinismo, dovuto alla concezione meccanicistica della realtà naturale e dell’agire umano. Il libero arbitrio, secondo Hobbes, non esiste: l’uomo può fare soltanto ciò che le due passioni fondamentali – desiderio o avversione – hanno già determinato in precedenza. Almeno su una cosa, tuttavia, tutti gli uomini si trovano concordi: la conservazione della propria vita e della propria integrità fisica. Per ottenere ciò, occorre vivere in una condizione di pace e di sicurezza che non sarebbe possibile nello stato di natura e che può essere garantita soltanto all’interno della società civile. La società civile (o Stato) si origina dal contratto stipulato da tutti gli individui con cui essi rinunciano al loro diritto naturale e si sottomettono ad un’autorità sovrana dotata di un potere assoluto di coercizione e di controllo. A quest’ultima spetta decidere per conto di tutti che cosa è giusto e che cosa è ingiusto.
stato di natura Indica la condizione in cui si trovano gli uomini prima di entrare nella società civile. Generalmente lo stato di natura è considerato soltanto come una nozione ipotetica che serve a spiegare la nascita della società civile. Nella tradizione giusnaturalistica del Sei-Settecento, la nozione di stato di natura è utilizzata per esprimere l’idea che il diritto ha un’origine naturale, ossia non artificiale. Secondo questa prospettiva, gli individui – prima della costituzione delle società civili – godono già naturalmente di diritti specifici, che le leggi dello Stato potranno ulteriormente determinare, ma non negare. I giusnaturalisti credono nell’esistenza di un ordine giuridico naturale che precede quello civile e deve fungere da suo modello. Nella misura in cui il diritto naturale è rispettato, dunque, lo stato di natura è pacifico. A differenza dei giusnaturalisti, Hob154
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bes ritiene che nello stato di natura valga un solo diritto naturale (il «diritto su tutte le cose»). Tale diritto dà al singolo la facoltà di fare tutto quello che vuole per difendere la propria vita, compreso il sacrificio della vita e del diritto altrui. Per Hobbes, dunque, lo stato di natura è una condizione di disordine giuridico e – almeno potenzialmente – di guerra.
diritto di natura e legge naturale Per Hobbes, il diritto di natu-
ra è la facoltà dell’individuo di fare tutto ciò che ritiene utile a garantire la conservazione della propria vita. Il diritto di natura esprime, quindi, una libertà che tutti possono esercitare gli uni contro gli altri. In tal senso, esso è principio di disordine e di guerra. La legge naturale – che comanda di uscire dallo stato di natura e di cercare la pace – è, invece, una prescrizione della ragione. La legge naturale, infatti, indica cosa si deve fare per garantire la conservazione e la sicurezza della propria vita. Essa comporta, quindi, una limitazione della libertà individuale e costituisce un principio di ordine e di pace.
Stato La legge di natura fonda-
mentale ordina di «cercare la pace e conseguirla» (Leviatano, I, cap. XIV). Per ottenere questo scopo, è necessario che ciascun individuo stipuli con tutti gli altri un patto che li faccia uscire definitivamente dallo stato di natura. Con tale patto, ciascun individuo rinuncia al proprio diritto naturale (ius in omnia) e lo trasferisce ad una persona sola – o ad un’unica assemblea di persone – a condizione che tutti facciano altrettanto e senza possibilità di tornare indietro. Da questo patto – che Hobbes formula in questi termini: «io autorizzo e cedo il mio diritto di governare me stesso, a quest’uomo, o a quest’assemblea di uomini a questa condizione, che tu gli ceda il tuo diritto e autorizzi le sue azioni in maniera simile» (Leviatano, II, cap. XVII) – nasce lo Stato o so-
cietà civile. Coloro che rinunciano al diritto naturale sono sudditi, mentre la persona (o assemblea) che lo conserva è il sovrano. Il sovrano è il solo a disporre della forza necessaria a far rispettare il patto sociale e a garantire la pace della comunità: senza di lui si tornerebbe allo stato di natura, dove tutti hanno diritto su tutto e si sentono legittimati a prevaricare sugli altri per conservare se stessi ad ogni costo. Ora, occorre chiarire che il potere del sovrano è assoluto per due motivi: a) egli è, nello Stato, l’unica persona a disporre del diritto naturale su tutto e su tutti; b) il patto è stato stipulato tra gli individui per dare origine all’autorità del sovrano, ma non tra gli individui e il sovrano, che dunque è il solo a decidere per tutti che cosa è giusto o ingiusto.
patto di unione e patto di patto di unione e di sudditanza Il pensiero giuridico-politico di
Hobbes intrattiene forti legami con il giusnaturalismo, che spiegava la genesi dello Stato, scandendo due distinte fasi: 1) quella del patto di unione (pactum unionis), in base al quale gli individui stabiliscono di entrare in una società politica; 2) quella del patto di sudditanza (pactum subjectionis), in base al quale gli individui della neo-costituita società delegano il potere sovrano ad una persona (o assemblea) e si sottomettono alla sua autorità. Per Hobbes, invece, il pactum unionis e il pactum subjectionis coincidono: gli individui, infatti, formano una comunità politica nel momento in cui – e per il fatto che – rinunciano al loro diritto naturale in favore del sovrano. Per questo motivo, il patto da cui scaturisce lo Stato ha i caratteri della unilateralità (in quanto non nasce da un accordo reciproco tra sudditi e sovrano) e della irreversibilità (in quanto nessun individuo può riappropriarsi del diritto naturale che ha trasferito al sovrano).
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i testi t20 Hobbes / La ragione come calcolo Hobbes
Leviatano
cap. V
«In che modo noi, con la mente, senza parole, ragionando con tacita riflessione, siamo soliti addizionare e sottrarre, si deve mostrare con qualche esempio. Se uno, dunque, vede oscuratamente qualcosa da lontano, anche se non è stato imposto alcun nome, ha tuttavia di quella cosa la stessa idea per la quale, imponendo ora nomi, dice che quella cosa è un corpo. Quando la cosa si è avvicinata ed egli la vede in un determinato modo ora in un luogo ora in un altro, avrà di essa una nuova idea, in base alla quale dice che questa cosa è animata. Inoltre quando, trovandosi vicino a quella cosa, vede la sua figura, ascolta la sua voce e afferra le altre cose che sono segni di una mente razionale, si forma una terza idea, anche se per ora ad essa non corrisponde alcun nome, cioè la stessa idea in base a cui diciamo che qualcosa è razionale. Infine, allorché concepisce la cosa nella sua totalità come una, dopo averla vista completamente e distintamente, l’idea che ha di essa è composta da quelle precedenti, e la mente compone tali idee nello stesso ordine in cui i singoli nomi di corpo, animale, razionale sono composti nell’unico nome corpo animale razionale o uomo». Con questo famoso esempio tratto dal De corpore (I, § 3) del 1655 Hobbes intende mostrare come la ragione, ancora prima di usare il linguaggio, proceda per calcolo (addizione o sottrazione). Sullo stesso tema egli si era già espresso in una famosa pagina del Leviatano (1651) che riproduciamo qui di seguito.
Quando una persona ragiona, non fa altro che concepire una somma totale risultante dall’addizione di parti o un resto derivante dalla sottrazione di una somma da un’altra. Fare la stessa cosa con le parole significa concepire in successione conseguente i nomi di tutte le parti fino al nome dell’intero oppure il nome dell’intero e di una parte fino al nome dell’altra parte1. Anche se, relativamente a certi oggetti (come i numeri), oltre all’addizione e alla sottrazione, si parla di altre operazioni, quali il moltiplicare e il dividere, queste sono la stessa cosa, perché la moltiplicazione non è altro che addizionare insieme cose uguali e la divisione non è altro che sottrarre i numeri ma ogni specie di oggetti che possano essere addizionati e sottrat1. Per parti qui si intendono le proprietà che compongono la definizione di un concetto e, quindi, di un nome (ad esempio: corpo + animale + razionale = uomo). Cfr. De homine, VI, § 2: «La causa del tutto, infatti, si compone del-
ti gli uni dagli altri. Come gli aritmetici insegnano l’addizione e la sottrazione con riferimento ai numeri, così i geometri insegnano la stessa cosa in ordine alle linee, alle figure (solide e piane), agli angoli, alle proporzioni, ai tempi, ai gradi di velocità, di forza, di potenza, e così via; lo stesso insegnano i logici a proposito della successione dei termini, addizionando due nomi per ottenere un’affermazione, due affermazioni per ottenere un sillogismo e più sillogismi per formare una dimostrazione; dalla somma o dalla conclusione di un sillogismo sottraggono una proposizione per trovare l’altra. Gli scrittori politici addizionano i patti per trovare i doveri degli uomini e i giuristi sommano le leggi e i fatti per trovare cosa sia giusto e ingiusto nelle azioni dei singoli. In conclusione,
le cause delle parti e quindi è necessario conoscere le cose che si devono comporre prima del loro composto. Per parti intendo qui non le parti della cosa stessa, ma quelle della sua natura: per parti dell’uomo non intendo il capo, le
spalle, le braccia, ecc., ma la figura, la quantità, il moto, la sensazione, il ragionamento e simili, cioè gli accidenti che, riuniti insieme, compongono non già la mole, ma la natura dell’uomo nella sua totalità».
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in qualunque campo in cui c’è spazio per l’addizione e per la sottrazione, c’è spazio anche per la ragione e dove non c’è posto per le prime, la ragione non ha nulla da fare. A partire da tutto questo è possibile definire, ossia determinare che cosa intendiamo significare col termine ragione se la consideriamo una facoltà della mente2. In questo senso, infatti, la RAGIONE non è altro che il calcolo (cioè l’addizionare e il sottrarre) delle conseguenze dei nomi generali che sono stati stabiliti di comune accordo per notare e significare i nostri pensieri. Uso il termine notare quando compiamo il calcolo per noi stessi, e il termine significare quando dimostriamo o sottoponiamo all’approvazione degli altri i nostri calcoli. [...] Si chiama ERRORE, e ad esso sono soggette anche le persone più sagge, il caso in cui si fa un calcolo senza servirsi dei termini, cosa possibile per oggetti particolari (come quando, alla vista di qualcosa, si ipotizza ciò che l’ha probabilmente preceduto o probabilmente lo seguirà), se non segue quel che si era creduto probabile che seguisse oppure se non c’è stato in precedenza quel che si era creduto probabile che precedesse l’oggetto in questione. Quando però ragioniamo con termini di significato generale e arriviamo ad un’inferenza generale falsa, benché questo pocedimento venga comunemente chiamato errore, si tratta piuttosto di un’ASSURDITÀ o di un discorso privo di senso. Errare infatti significa soltanto ingannarsi nel presumere che qualcosa sia accaduto in passato o debba avvenire, qualcosa di cui non era tuttavia possibile scoprire l’impossibilità, anche se non è accaduto in passato e non si verificherà in futuro. Quando invece pronunciamo un’asserzione generale, non possiamo 2. La ragione perde quindi qualsiasi dimensione metafisica – come ha ancora in Cartesio – e diventa semplicemente una funzione dell’attività mentale. 3. Come si è visto [cfr. 7.5], per Hobbes non esiste libero arbitrio. La libertà può consistere solo nell’assenza di impedimenti esterni che ostacolino la libera esecuzione di ciò che è necessariamente «voluto» dal soggetto. 4. Altro punto di divergenza da Carte-
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concepirla come possibile, a meno che essa sia vera. Ecco perché qualifichiamo come assurdi, insignificanti, privi di senso i termini di cui non concepiamo altro che il suono. Di conseguenza, se qualcuno mi parlasse di un quadrilatero rotondo, o di accidenti del pane nel formaggio, o di sostanze immateriali, o di un suddito libero, di una volontà libera, o di qualunque altra cosa libera, se non nel senso di essere libero dall’ostacolo di un’opposizione3, non direi che costui fosse in errore, ma che le sue parole sono prive di significato, cioè assurde. Da ciò appare che la ragione non è nata con noi come la sensazione e la memoria e non si acquisisce soltanto per esperienza come la prudenza, ma la si consegue con l’industria4, cominciando con la corretta attribuzione dei nomi e impadronendosi successivamente di un metodo buono e ordinato nel procedere dagli elementi, che sono i nomi, alle asserzioni che risultano dalla loro connessione, e ai sillogismi, che sono connessioni di asserzioni, fino a raggiungere la conoscenza di tutte le conseguenze dei nomi che appartengono all’argomento in questione; e questo è ciò che gli uomini chiamano SCIENZA. Mentre la sensazione e la memoria sono soltanto conoscenza del fatto, che è cosa passata e irrevocabile, la scienza è la conoscenza delle conseguenze, della dipendenza di un fatto da un altro5. Per suo mezzo, muovendo da quanto possiamo fare al presente, sappiamo come fare qualcosa d’altro quando lo vorremo, o qualcosa di simile in un altro momento. Infatti, vedendo come una cosa si produce, per quali cause e in quale modo, impariamo come produrre effetti simili quando vengano in nostro potere cause simili6. Per concludere, la luce delle menti umane so-
sio, per il quale la ragione, intesa come capacità di distinguere infallibilmente il vero dal falso, è una facoltà naturale innata. Per Hobbes, invece, essa è una tecnica che viene appresa progressivamente. Alcuni studiosi hanno mostrato come questa concezione evolutiva della ragione riceva nel Leviatano uno sviluppo maggiore rispetto alle altre opere hobbesiane. 5. In altri termini la scienza è cono-
scenza non solo di fatti, ma di relazioni (di antecedenza e conseguenza, di causa ed effetto o proprietà) tra fatti. 6. Dal sapere si passa al fare, dalla dimensione gnoseologica a quella pratica. Anche per Hobbes, come per Bacone, sapere è potere. Hobbes aveva conosciuto personalmente Bacone nella casa dei Cavendish.
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no i termini chiari, selezionati preliminarmente attraverso definizioni esatte e purgati dall’ambiguità. La ragione è il cammino, la crescita della scienza è la strada e il vantaggio dell’umanità è il fine7. Al contrario, le metafore e le parole ambigue e senza senso sono come ignes fatui; ragionare su queste equivale a perdersi fra innumerevoli assurdità e il loro risultato sono la contesa, la sedizione o il disprezzo. 7. In altri termini: il punto di partenza
sono le definizioni esatte che consentono un uso chiaro e univoco dei nomi; in
GUIDA ALLA LETTURA 1. Confronta il concetto di ragione che hai trovato in Cartesio con quello che Hobbes teorizza in questo brano. 2. Quando, secondo Hobbes, si origina l’errore? 3. Che rapporto c’è fra sensazione e memoria, da un lato, e ragione, dall’altro? 4. «Ragione», «scienza», «utilità»: quale rapporto vede Hobbes fra questi tre concetti?
base a esse si può procedere con lo strumento della ragione, cioè del calcolo delle relazioni tra i nomi; infine, la
scienza che ne consegue è finalizzata, baconianamente, alla conversione del sapere in utilità.
t21 Hobbes / Dallo stato di natura alla società civile Hobbes
Leviatano
capp. XIV e XVII
Nello stato di natura , «la vita dell’uomo è solitaria, misera, ostile, animalesca e breve». Soprattutto breve, poiché in essa la guerra di tutti contro tutti rende insicura la conservazione della vita fisica, che è il massimo bene a cui gli uomini aspirano. Dallo stato di natura occorre dunque uscire. Come? Obbedendo alle leggi della natura umana che prescrivono di cercare la pace prima della guerra, stipulando un patto per istituire la società civile.
Le prime due leggi di natura Il DIRITTO DI NATURA, che gli scrittori chiamano comunemente Jus Naturale, è la libertà che ciascuno ha di usare il proprio potere a suo arbitrio per la conservazione della sua natura, cioè della sua vita e conseguentemente di fare qualsiasi cosa che, secondo il suo giudizio e la sua ragione, egli concepisca come il mezzo più idoneo a questo fine1. 1. Si noti come il contenuto del diritto
naturale è determinato singolarmente dall’individuo. Non c’è nessun arbitro superiore che decida quale sia il diritto dell’uno o il diritto dell’altro, poiché ciascuno ha diritto a tutto ciò che, a suo personale giudizio, è utile alla propria conservazione. Diversamente da quanto ritenevano gli esponenti del giusnaturalismo tradizionale, il diritto naturale non conduce quindi per Hobbes a nessuna forma di ordine giuridico, nel quale si rintracci un sistema di
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Hobbes Lo stato di natura
Secondo il significato proprio del termine, si intende per LIBERTÀ l’assenza di impedimenti esterni. Questi impedimenti possono frequentemente diminuire il potere posseduto da una persona per fare ciò che vorrebbe, ma non possono impedirle di usare il potere che le è rimasto nei modi che il suo giudizio e la sua ragione le detteranno2. Una LEGGE DI NATURA (Lex Naturalis) è un pre-
competenze giuridiche individuali compatibili le une con le altre, in modo che il mio diritto finisce laddove comincia il tuo. Al contrario, esso conduce piuttosto al totale caos giuridico, in quanto ciò che io ritengo mio diritto può essere ritenuto contemporaneamente oggetto del proprio da parte di tutti gli altri. In altri termini, se da un lato Hobbes è sicuramente un giusnaturalista, dall’altro egli è piuttosto un «giuspositivista», poiché ritiene che un sistema giuridico che impedisca la
conflittualità tra i singoli diritti individuali, discriminando rigorosamente ciò che è lecito da ciò che non lo è, possa essere determinato soltanto dall’autorità dello Stato e dalla legge positiva che esso emana. 2. Si ricordi che per Hobbes non esiste alcuna libertà morale: la volontà non è libera, ma è determinata dalle passioni. L’unica libertà è quella, puramente esteriore, dell’assenza di vincoli che impediscano l’esecuzione materiale dell’azione.
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cetto o una regola generale scoperta dalla ragione, che proibisce ad un uomo di fare ciò che distruggerebbe la sua vita o che gli toglierebbe i mezzi per conservarla, e di non fare ciò che egli considera meglio per conservarla. Sebbene, infatti, Jus e Lex, diritto e legge, vengano generalmente confusi da chi parla di questo argomento, essi devono invece essere distinti, perché il DIRITTO consiste nella libertà di fare o di astenersi dal fare, mentre la LEGGE determina e obbliga a una delle due cose. Perciò la legge e il diritto differiscono tra loro come l’obbligazione e la libertà, che sono incompatibili nella stessa situazione3. E poiché la condizione dell’uomo (come è stato affermato nel capitolo precedente) è una condizione di guerra di ciascuno contro ogni altro, e in questo caso ciascuno è governato dalla propria ragione e non esiste niente di cui egli sia in grado di servirsi, che non possa essergli di aiuto nel preservare la propria vita contro i nemici, ne segue che in una condizione di questo genere ciascuno ha diritto a tutto, anche al corpo di un altro. Perciò, finché dura questo diritto naturale di ciascuno a tutto, nessuno può avere la sicurezza, per quanto forte o saggio sia, di vivere per tutto il tempo che la natura permette solitamente di vivere agli uo-
3. Il diritto e la legge di natura hanno in comune il fondamento, che in entrambi i casi è il principio dell’autoconservazione. Il diritto esprime tuttavia una facoltà, una licenza, un lasciar fare. Invece la legge comporta una restrizione del diritto, un comando o un divieto, cioè un dovere. In altri termini, il diritto naturale dice che cosa l’uomo può fare per conservare la propria vita, senza tuttavia garantirgli il buon esito delle proprie azioni (anzi, portando in realtà a uno stato di guerra permanente che minaccia l’esistenza di ognuno). La legge prescrive invece che cosa egli deve fare o omettere, se vuole veramente garantirsi la sicurezza. Nello stato di natura tuttavia, nel quale manca la garanzia della reciprocità, cioè la certezza che al mio rispetto del dovere corrisponda quello di tutti gli altri, tale dovere vale soltanto per
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mini. Di conseguenza, è un precetto, o una regola generale della ragione4, che ciascuno debba cercare la pace per quanto ha speranza di ottenerla, e che, se non è in grado di ottenerla, gli sia lecito cercare e utilizzare tutti gli aiuti e i vantaggi della guerra. La prima parte di questa regola contiene la prima e fondamentale legge di natura che è cercare e perseguire la pace. La seconda contiene l’essenziale del diritto di natura che è difendersi con tutti i mezzi di cui si dispone. Da questa legge di natura fondamentale, con cui si comanda agli uomini di cercare la pace, deriva la seconda legge, che si sia disposti, quando anche altri lo siano, a rinunciare, nella misura in cui lo si ritenga necessario alla pace e alla propria difesa, al diritto su tutto e ci si accontenti di avere tanta libertà nei confronti degli altri quanta se ne concede agli altri nei confronti di se stessi 5. Infatti, finché ciascuno detiene il diritto di fare tutto ciò che gli piace, tutti gli uomini sono nella condizione di guerra. Se però gli altri non rinunceranno al loro diritto, non c’è allora ragione che qualcuno si privi del suo, perché significherebbe esporsi come una preda (cosa a cui nessuno è tenuto) piuttosto che disporsi alla pace6. Questa è la legge del Vangelo: «qualunque cosa tu pretenda che gli altri facciano per te, falla tu per loro»7. Ed è la leg-
la coscienza interiore dell’individuo, mentre nella condizione statuale esso assumerà, per mezzo della legge positiva che vale per tutti, un ineludibile carattere coercitivo. 4. Anche in sede etico-politica la ragione conserva la sua funzione di calcolo del rapporto antecedente-conseguente, causa-effetto, mezzo-fine. Essa indaga infatti i nessi che intercorrono tra la condizione naturale e il fine dell’autoconservazione: dallo stato di natura consegue immediatamente lo stato di guerra, il quale a sua volta è causa del pericolo di vita cui è esposto l’individuo. Analogamente, determinato il fine od oggetto desiderato (l’incolumità fisica e il maggior benessere possibile) la ragione individua i mezzi che lo possono produrre (garanzia della pace ottenuta mediante la costituzione della società civile, raggiunta a sua volta at-
traverso la rinuncia al diritto naturale su tutto). 5. Il diritto di natura escludeva l’esistenza di alcun ordine giuridico naturale (cfr. n. 1). La legge di natura invece impone l’instaurazione di un ordine giuridico, il quale, essendo costituito dall’uomo attraverso il patto sociale, non ha però carattere naturale, bensì artificiale, statuale e positivo. 6. Per questo le prime due leggi naturali non possono essere realizzate se manca un’autorità superiore, fornita della capacità di costringere i renitenti, la quale garantisca che tutti depongano definitivamente il loro diritto naturale su tutto e accettino la limitazione della propria libertà a quella misura che la rende compatibile con la libertà degli altri. Di qui la necessità di uno Stato con un sovrano fornito di pieni poteri. 7. Vangelo di Matteo, 7, 12.
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ge di tutti gli uomini: quod tibi fieri non vis, alteri ne feceris8.
Origine e definizione dello Stato L’unico modo di erigere un potere comune che possa essere in grado di difendere gli uomini dall’aggressione di stranieri e dai torti reciproci – perciò procurando loro sicurezza in guisa che grazie alla propria operosità e ai frutti della terra possano nutrirsi e vivere soddisfacentemente – è quello di trasferire tutto il loro potere e tutta la loro forza a un solo uomo o a una sola assemblea di uomini (che, in base alla maggioranza delle voci, possa ridurre tutte le loro volontà a un’unica volontà)9. Il che è quanto dire che si incarica un solo uomo o una sola assemblea di uomini di dar corpo alla loro persona; che ciascuno riconosce e ammette di essere l’autore di ogni azione compiuta, o fatta compiere, relativamente alle cose che concernono la pace e la sicurezza comune, da colui che dà corpo alla loro persona; e che con ciò sottomettono, ognuno di essi, le proprie volontà e i propri giudizi alla volontà e al giudizio di quest’ultimo. Questo è più che consenso o concordia, è
8. «Non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te» (Elio Lampridio, Scriptores Historiae Augustae, Alexander Severus, cap. 51). 9. Il sovrano può essere rappresentato da una o più persone fisiche, ma esso è una sola persona politica: la sua volontà è in ogni caso unica. Sul concetto di persona in Hobbes, cfr. n. 12. 10. Come si vede dalla formula contrattuale, il patto di cessione del diritto naturale è stipulato reciprocamente tra gli individui, i quali decidono di rinunciare al loro diritto naturale a favore di un unico uomo o assemblea di uomini, che assume le funzioni di sovrano. Quest’ultimo è dunque beneficiario del patto, senza entrare in esso come contraente. In altri termini, la reciprocità che caratterizza ogni contratto vale soltanto nei rapporti tra gli individui, non in quelli tra i sudditi e il sovrano. Ciò ha due conseguenze di estrema importanza: a) il sovrano – il solo che non rinuncia al proprio diritto naturale – non ha
una reale unità di tutti loro in una sola e stessa persona, realizzata mediante il patto di ciascuno con tutti gli altri, in maniera tale che è come se ciascuno dicesse a ciascun altro: Do autorizzazione e cedo il mio diritto di governare me stesso a quest’uomo, o a quest’assemblea di uomini, alla condizione che tu, nella stessa maniera, gli ceda il tuo diritto e ne autorizzi tutte le azioni10. Fatto ciò, la moltitudine così unita in una sola persona si chiama STATO, in latino CIVITAS. È questa la generazione di quel grande LEVIATANO11, o piuttosto (per parlare con maggior rispetto) di quel dio mortale, al quale dobbiamo, sotto il Dio Immortale, la nostra pace e la nostra difesa. Infatti, grazie a quest’autorità datagli da ogni singolo uomo dello Stato, egli dispone di tanta potenza e di tanta forza a lui conferite, che col terrore da esse suscitato è in grado di modellare le volontà di tutti i singoli in funzione della pace, in patria, e dell’aiuto reciproco contro i nemici di fuori. In lui risiede l’essenza dello Stato, che, per darne una definizione, è: Una persona12 unica, dei cui atti i membri di una grande moltitudine si sono fatti autori13, mediante patti reciproci di ciascuno con ogni altro, affinché essa possa usare la forza e i mezzi di
obblighi nei confronti del suddito; b) il patto è irreversibile e irrevocabile, sia perché ciò che è ceduto senza contropartita non può più essere reclamato, sia perché in nessun caso il sovrano, che non sottoscrive alcun patto, può essere accusato di inadempienza nei confronti del suddito. Hobbes nega quindi ogni diritto di resistenza contro il potere costituito. L’unico caso in cui il suddito può ribellarsi si dà quando lo Stato minacci la sua vita o la sua integrità fisica. Ciò tuttavia non perché il sovrano abbia commesso ingiustizia nei suoi confronti (infatti chi detiene il diritto naturale su tutto non può commettere ingiustizia), ma perché nessuno può alienare il diritto di evitare la morte, le ferite e la prigionia, cose che rappresentano infatti quella parte del diritto di natura che l’individuo, pur rinunciando a tutto il resto, conserva per sé anche nel patto. 11. In alcune mitologie antiche – per esempio quella egiziana e quella fenicia
– il leviatano è un mostro marino che combatte contro gli dèi. Nella Bibbia, dalla quale Hobbes desume il termine, il leviatano, che in ebraico è corrispettivo di «idra», indica talvolta semplicemente la potenza del mare, rappresentata dal grosso animale che gioca con i flutti (Salmi, 104, 26), talaltra è invece simbolo delle potenze pagane o comunque del male (Isaia, 27, 1). 12. Cfr. cap. XVI: «Una PERSONA è colui le cui parole o azioni sono considerate o come sue proprie, o come rappresentanti – sia veramente sia mediante finzione – le parole o azioni vuoi di un altro vuoi di qualunque altra cosa cui vengono attribuite». La persona può quindi essere o persona naturale (la persona fisica stessa) o persona artificiale (cioè la persona giuridico-politica che rappresenta, appunto «impersonandoli», uno o più individui fisici). In questo secondo senso lo Stato è persona. 13. Cfr. cap. XVI: «Delle persone artificiali, alcune hanno il riconoscimento
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tutti loro nel modo che riterrà utile per la loro pace e per la difesa comune. Chi incarna questa persona si chiama SOVRANO e si dice che ha il potere sovrano; ogni altro si chiama suo SUDDITO. delle loro parole e azioni da parte di coloro che essi rappresentano: allora la persona è l’attore, colui che ne riconosce le parole e le azioni è l’AUTORE, e in questo caso l’attore agisce con autorità». In altri termini: lo Stato – a sua volta impersonato dal sovrano, come si dice subito dopo – impersona i singoli individui, i quali ne riconoscono e autorizzano incondizionatamente l’operato attraverso il patto sociale.
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GUIDA ALLA LETTURA 1. Illustra il concetto di «libertà» proposto da Hobbes in questo brano. 2. Hobbes distingue i concetti di «diritto» e «legge». In che modo? 3. Che cosa prescrive il diritto di natura? E la legge di natura? 4. Come avviene il passaggio dallo stato di natura alla società civile? 5. Confronta il concetto di «Stato» che Hobbes presenta in questo brano con quello di Bodin.
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esercizi/7 CHE COSA SO?
CHE COSA HO CAPITO?
Completamento
Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe)
1. Completa il testo servendoti delle parole seguenti: note • cose (due volte) • vero • arbitrari • significato • connessioni • falso • segni • nomi I nomi sono espressione del ........................................ ......................................................... attribuito alle cose. Essi hanno una duplice funzione: in quanto ...................................... rendono possibile il ricordo delle ........................................ che l’uomo stabilisce fra le singole cose; in quanto ..................................... ................................................ rendono possibile la comunicazione agli altri dei significati delle cose e delle loro relazioni. Ragionare quindi è operare con le parole e non con le .................................................; infatti nel ragionare utilizziamo dei termini ............................................................. che non hanno contenuto reale. Il ragionamento pertanto è ............ ............................................................ se descrive correttamente le relazioni stabilite fra le cose; nel caso contrario è ............................................................ Verità e falsità sono perciò esclusivi caratteri dei ............. ................................................................... e non delle ........................................ . Dizionario filosofico 2. Definisci i seguenti concetti: sensazione • fenomenismo • segno • pactum unionis • pactum subjectionis • assolutismo
esercizi/7
3. Perché, secondo Hobbes, il ragionamento è un calcolo? 4. In che modo la gnoseologia di Hobbes cerca di mediare tra l’istanza razionalista e quella empirista? 5. Definisci il rapporto tra deliberazione e volontà. 6. Qual è l’oggetto della filosofia e quali sono le sue partizioni? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 7. Illustra la differenza tra conoscenza deduttiva e conoscenza ipotetico-induttiva. 8. Illustra gli elementi della situazione storica che influiscono sul pensiero politico di Hobbes. 9. Illustra le fasi del «contratto sociale» teorizzato dai giusnaturalisti. 10. Illustra l’analisi delle passioni condotta da Hobbes. 11. Qual è il rapporto sensazione-pensierolinguaggio nel pensiero di Hobbes? 12. Qual è il rapporto fra stato civile e stato di natura nel pensiero di Hobbes?
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precisamente, essi sono gli unici due attributi che l’uomo può conoscere tra gli infiniti attributi che riguardano la sostanza. Tra idee e corpi non c’è influenza causale, poiché pensiero ed estensione sono indipendenti l’uno dall’altra. Ciononostante, l’ordine che connette necessariamente le idee tra di loro è identico all’ordine che connette i corpi. Questa identità permette di spiegare, secondo Spinoza, non solo la corrispondenza tra le cose e le loro rappresentazioni mentali, ma anche quella tra gli atti di volontà (modi del pensiero) e i movimenti del corpo (modi dell’estensione). conoscenza adeguata e inadeguata
8. spinoza
i contenuti unicità ed espressioni della sostanza
Se la filosofia di Cartesio era fondata sul dualismo metafisico tra sostanza pensante e sostanza estesa, il pensiero di Spinoza è un rigoroso monismo. L’intera realtà è riconducibile a un’unica sostanza infinita, fornita di infiniti attributi (qualità essenziali), che si manifestano in una infinità di modi (determinazioni particolari). dio è la natura
Essendo infinita, la sostanza è causa sui. Essa coincide quindi con
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Dio, che è causa necessaria di sé e di tutte le cose. Inoltre, poiché Dio è causa immanente della realtà, egli coincide con la natura. Tutto deriva necessariamente da Dio secondo i modi in cui si determinano gli attributi della sostanza. Le singole realtà, che sono modi della sostanza, sono connesse le une alle altre secondo un ordine causale necessario. L’interpretazione della realtà in termini di finalità è soltanto una conseguenza dell’ignoranza delle cause necessarie da parte degli uomini. l’ordine delle idee e l’ordine delle cose
Pensiero ed estensione non sono sostanze, come riteneva Cartesio, ma attributi della sostanza. Più
Poiché le cose sono connesse da un ordine causale necessario, la conoscenza è sempre conoscenza di cause. Quando la connessione non è conosciuta nel suo ordine corretto, ossia quando si parte dagli effetti per indovinare le cause, la conoscenza è inadeguata. Questo è il caso della conoscenza sensibile e immaginativa. Quando invece l’uomo conosce la connessione causale nell’ordine corretto – dalle cause agli effetti – la conoscenza è adeguata. Vi sono due tipi di conoscenza adeguata: 1) quella che parte da cause generali per dedurne effetti particolari (come avviene nel procedimento discorsivo della ragione); 2) quella che coglie con un unico atto conoscitivo tutta la serie causale partendo direttamente da Dio (come avviene nell’intuizione dell’intelletto). In questo secondo caso, l’uomo si pone dal punto di vista di Dio e la sua conoscenza è sub specie aeternitatis. la teoria degli affetti
L’uomo agisce in base allo sforzo di perseverare nel suo essere. Da questo appetito fondamentale Spinoza deriva – sempre causalmente e necessariamente – l’insieme degli affetti che spiegano le azioni degli uomini. Quando l’uomo ne ha una conoscenza inadeguata, gli affetti sono
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passioni, ossia qualcosa che egli subisce passivamente. Quando invece l’uomo conosce causalmente e oggettivamente la meccanica degli affetti, le passioni si trasformano in azioni. Attraverso una conoscenza adeguata degli affetti, infatti, l’uomo – dapprima schiavo delle passioni – riacquista la sua libertà. Il massimo grado della conoscenza per l’uomo consiste nell’intuire la derivazione
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dell’intera realtà da Dio. Quando ciò accade, l’uomo si conosce come momento della realtà divina e nutre un amore intellettuale di Dio. il pensiero giuridico-politico
Per Spinoza la libertà non è solo un valore morale, ma anche politico. Per quanto sia convinto – come Hobbes – che soltanto un potere
assoluto può garantire la sicurezza degli individui, Spinoza ritiene che nessun uomo possa rinunciare alla libertà di pensiero e di espressione. Secondo lui, tuttavia, tale libertà non può tradursi in una resistenza attiva. Inoltre, poiché gli uomini devono conservare nella società civile l’eguaglianza che avevano nello stato di natura, Spinoza ritiene che la democrazia sia la migliore forma di governo.
gli strumenti in poche… parole sostanza / attributi/modi / natura naturante/natura naturata / appetito / affetto / amore intellettuale di Dio
confronti Mente e corpo in Cartesio e Spinoza
i testi a. nel manuale t22 Spinoza/La sostanza infinita e i suoi attributi t23 Spinoza/Natura naturante e natura naturata t24 Spinoza/Ordine delle cose e ordine delle idee t25 Spinoza/Fede e filosofia
b. on-line Spinoza/Dio è la sostanza infinita Spinoza/Contro il finalismo Spinoza/La conoscenza intellettuale Spinoza/La libertà di pensiero e lo Stato
esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?
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1. Vita e opere le origini ebraiche
Baruch (Benedetto) De Spinoza (o d’Espinoza) nacque ad Amsterdam nel 1632 da una famiglia di ebrei portoghesi. Nella tollerante Olanda del XVII secolo la comunità ebraica trovava infatti condizioni particolarmente favorevoli al proprio sviluppo. Essa non esercitava tuttavia altrettanta tolleranza al proprio interno, dove regnavano una severa ortodossia e un rigido dogmatismo.
la scomunica e la vita da libero pensatore
Pur avendo studiato nella scuola ebraico-portoghese con risultati che facevano sperare in un futuro rabbino, Spinoza entrò ben presto in conflitto di idee con la comunità. I sospetti di eterodossia nei suoi confronti si aggravarono sempre più, fino a giungere all’aperta scomunica del 1656. Da questo momento l’evoluzione intellettuale di Spinoza è quella del libero pensatore che agisce isolatamente, senza lasciarsi costringere dai legami delle Chiese o dalle istituzioni. Per questa ragione egli rifiuterà nel 1673 un incarico di insegnamento a Heidelberg, preferendo continuare a sostentarsi con il modesto lavoro di costruttore di lenti, piuttosto che essere condizionato nella sua libertà di ricerca. Il solo sostegno che accettò fu quello di una ristretta cerchia di amici, alcuni dei quali rivestirono anche posizioni socialmente e politicamente molto elevate.
le vicende principali
Interamente caratterizzata dal lavoro e dallo studio, la vita di Spinoza è scandita da pochi fatti di rilievo: il naufragio di un carico di merci, che minò definitivamente la fortuna finanziaria della famiglia, incentrata sull’attività commerciale del padre; l’uscita dalla comunità ebraica; un tentato omicidio ai suoi danni a opera di un fanatico ebreo. Anche gli spostamenti di Spinoza sono limitati: nel 1656 si trasferisce a Rijnsburg, vicino a Leida; nel 1663 a Voorburg, vicino all’Aja; nel 1670, infine, si stabilisce in quest’ultima città, dove muore, consunto dalla tubercolosi, a soli 45 anni.
le coordinate culturali e filosofiche
Malgrado la vita di Spinoza sia stata molto appartata, come pretendeva il suo temperamento, numerose sono le influenze culturali che egli subì. Ricevendo la prima istruzione nella scuola ebraica, egli studiò il Vecchio Testamento, il Talmud, la Cabala e la filosofia ebraica. Ne derivò una profonda sensibilità mistica, che fu ulteriormente rafforzata dalla lettura di alcuni autori rinascimentali (come Leone l’Ebreo e, probabilmente, Bruno). Dopo l’esperienza ebraica, Spinoza si aprì a culture diverse, sia con la frequentazione di particolari sètte cristiane, come i mennoniti, i quaccheri, i collegianti (particolarmente attivi a Rijnsburg), sia accostandosi all’ambiente deista (conobbe ad Amsterdam l’ebreo Juan da Prado) e a quello libertino, anche francese (a Voorburg abitava Saint-Evremond). Ma l’influenza maggiore è senz’altro quella di Cartesio, che Spinoza riespone e riprende nell’opera Renati De Cartes Principia Philosophiae, seguita dai Cogitata metaphysica (1663): sono questi gli unici lavori che egli pubblica con il proprio nome.
opere edite e inedite
Poche sono, del resto, le opere che Spinoza diede alle stampe. Il Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità, rielaborato fino a diventare la prima parte dell’Ethica, fu composto nel 1660-1661, ma rimase inedito. Incompiuto re-
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stò il Tractatus de intellectus emendatione, cui Spinoza lavorò probabilmente nel 1658-1659. All’Ethica ordine geometrico demonstrata, che è la sua opera fondamentale, egli si dedicò per molti anni, rivedendone continuamente il testo. Malgrado ciò, quando fu pronta, preferì non pubblicarla a causa del mutato regime politico. L’audacia delle tesi sostenute, che attireranno comunque su Spinoza l’accusa di ateismo e di materialismo, non era più tollerabile nella nuova temperie politico-culturale successiva alla caduta della Repubblica. L’Ethica verrà pertanto pubblicata dagli amici nelle Opere postume, che conterranno anche un Tractatus politicus, redatto negli ultimi anni di vita e rimasto incompiuto. La sola opera che Spinoza diede alle stampe – oltre ai due opuscoli cartesiani sopracitati – fu, dunque, il Tractatus theologico-politicus (pubblicato anonimo nel 1670), in cui egli espone le proprie convinzioni giuridico-politiche.
2. La filosofia come ricerca di Dio L’intera speculazione di Spinoza può essere ricondotta a un solo tema fondamentale: Dio. La sua filosofia si risolve in una forma di panteismo in cui le suggestioni neoplatoniche si sposano con l’esigenza – propria del razionalismo cartesiano – di spiegare le cose in maniera chiara e distinta. Secondo questa prospettiva, Dio è la sostanza universale rispetto a cui le singole cose non sono che manifestazioni o modi di essere particolari. Un intelletto che conosca adeguatamente la realtà è, quindi, in grado di comprendere come ogni cosa sia un aspetto di Dio e tutto derivi necessariamente da lui.
ogni cosa è un aspetto di dio
Per giungere a questo risultato, l’intelletto umano dev’essere «emendato», cioè corretto e perfezionato nel suo uso. Soltanto così, infatti, l’intelletto può abbandonare completamente l’usuale considerazione delle cose in termini di entità autonome, connesse da incerti legami di causalità efficiente o finale. Questa correzione dell’uso dell’intelletto, che è l’oggetto principale del Tractatus de intellectus emendatione, si articola in quattro fasi successive corrispondenti ad altrettanti gradi di conoscenza.
i gradi della purificazione dell’intelletto
1. Il primo grado è quello che potremmo chiamare l’immaginazione, per cui ci formiamo nozioni in base a determinati segni sensibili (per esempio, ciò che si è letto o sentito dire). 2. Il secondo è quello della «esperienza vaga», ovvero della percezione empirica che ci fornisce conoscenze casuali, in cui l’intelletto non è ancora intervenuto a porre ordine. 3. Il terzo livello è dato dalla conoscenza scientifica, che risale dagli effetti alle cause. Tale conoscenza non ripercorre, tuttavia, l’intera serie causale (che porterebbe a Dio), ma si arresta ai concetti universali (come l’estensione, il numero, il movimento) che possono fungere da princìpi specifici delle singole scienze. 4. Il quarto e ultimo grado è costituito dalla conoscenza intuitiva, nella quale «la cosa è percepita mediante la sua sola essenza». Questa forma di conoscenza – la sola perfettamente adeguata – permette di risalire l’intera con8. spinoza
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nessione delle cause fino a Dio. In termini più precisi, essa permette di vedere intuitivamente la derivazione di tutte le cose dall’essenza stessa di Dio. Chi raggiunge il livello dell’intuizione acquista una conoscenza assoluta della realtà. Nella conoscenza intuitiva le cose non sono più considerate come singoli individui separati, bensì come un’unica realtà universale, strutturata secondo un ordine che coincide con l’essenza stessa di Dio.
3. Metodo e oggetto della filosofia la scelta del metodo espositivo
La forma espositiva a cui Spinoza ricorre in tutte le sue opere è il trattato. In esso, infatti, il sapere riceve una sistemazione definitiva. Il modello letterario di Spinoza non è dato però dai tradizionali trattati filosofici, bensì da quelli geometrici costruiti secondo l’esempio euclideo. Il riferimento al modello matematico – che in Cartesio e Hobbes riflette una più o meno generica esigenza di rendere rigoroso il lavoro filosofico – in Spinoza si traduce nell’assunzione di un vero e proprio criterio procedurale ed espositivo. Ciò è particolarmente evidente nella sua opera maggiore, l’Ethica, che sin dal titolo si propone di essere «dimostrata secondo l’ordine geometrico».
l’oggetto della trattazione
Nell’Ethica Spinoza inizia con l’enunciazione di definizioni, assiomi e postulati. A essi segue la serie ordinata delle proposizioni (cioè i veri e propri enunciati), corredate da dimostrazioni, corollari e scolii, nei quali la tesi sostenuta e le sue conseguenze vengono giustificate esclusivamente in base a quanto è stato stabilito nella trattazione precedente. Il tutto è integrato da prefazioni e appendici che completano il discorso. Ma, qual è la differenza tra il suo trattato e quelli di stampo euclideo? A differenza di quella euclidea, la «geometria» di Spinoza non ha per oggetto soltanto le proprietà delle figure, bensì l’essenza stessa della realtà.
la nozione cartesiana di sostanza
Il concetto da cui prende le mosse la trattazione dell’Ethica è quello di sostanza , che Spinoza intende in maniera insieme cartesiana e anticartesiana. Come abbiamo visto, Cartesio aveva distinto tra 1) un uso proprio del termine sostanza, per cui essa è causa di se stessa e coincide con Dio, e 2) un uso analogico, per il quale sostanza è tutto ciò che per esistere non necessita di altro che di Dio. Di qui la distinzione di tre diverse sostanze: quella divina, quella pensante e quella estesa.
la definizione spinoziana di sostanza
Spinoza ritiene, invece, che della sostanza si possa parlare soltanto in senso proprio: essa, infatti, è per definizione «ciò che è in sé», ciò che esiste di per se stesso. In altri termini, la sostanza è ciò la cui essenza implica necessariamente l’esistenza, ovvero ciò che è causa di se stesso. In base a questa definizione, è necessario concludere che la sostanza è infinita e unica. Se fosse finita o molteplice, infatti, esisterebbe qualcosa di esterno da cui essa dipenderebbe [t22].
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4. Le proprietà della sostanza Spinoza – partendo dalla definizione di sostanza come causa sui – dimostra che essa è infinita. Ora, la sostanza infinita contiene nella propria essenza un’infinità di proprietà o attributi . Secondo Spinoza, infatti, l’attributo è ciò che l’intelletto percepisce come costitutivo dell’essenza della sostanza. Di tali infiniti attributi, tuttavia, l’uomo può conoscere soltanto quelli dei quali egli stesso è partecipe: il pensiero e l’estensione [t22]. In questo modo, attraverso l’unicità della sostanza Spinoza risolve il dualismo cartesiano in un rigoroso monismo metafisico. Per Spinoza, infatti, il pensiero e l’estensione – lungi dal contrapporsi reciprocamente come due entità distinte e ontologicamente autonome – sono soltanto due momenti dell’unica sostanza.
gli attributi o proprietà costitutive della sostanza
Si è già detto che gli attributi esprimono le proprietà intrinseche all’essenza della sostanza. Ciascun attributo ha dunque un contenuto infinito come la sostanza che esprime. Esso, a sua volta, si determina necessariamente in una quantità infinita di modi , cioè di manifestazioni particolari dell’attributo stesso. I modi sono, a loro volta, distinti in finiti e infiniti: 1) i modi finiti sono le singole cose, ovvero i singoli corpi e le singole idee che si ritrovano nella realtà dell’esperienza; 2) i modi infiniti sono, invece, le manifestazioni costanti comuni a più cose (per esempio, il movimento o la quiete sono modi infiniti rispetto ai corpi finiti che si muovono o rimangono fermi). In tal senso, i modi infiniti fungono da anello intermedio tra gli attributi e i modi finiti.
i modi ovvero le specificazioni degli attributi
In quanto proprietà della sostanza infinita, gli attributi risiedono nella sostanza stessa, dalla quale non si distinguono sul piano ontologico. Dal canto loro, i modi non sono contenuti nell’essenza della sostanza, poiché riflettono soltanto la modalità in cui gli attributi si possono manifestare. Detto altrimenti, i modi sono semplici «affezioni» rispetto alla sostanza o, in termini scolastici, «accidenti». Quali conseguenze si devono trarre, secondo Spinoza, dalle definizioni di attributo e di modo? Gli attributi devono necessariamente essere concepiti di per se stessi come proprietà eterne della sostanza. Nel caso dei modi, invece, l’esistenza non è implicita nell’essenza, ma essi dipendono dall’attributo a cui ineriscono e quindi, in definitiva, dalla sostanza infinita. Proviamo a chiarire questa distinzione con un esempio. Come già sappiamo, l’attributo del pensiero non è ontologicamente distinto dalla sostanza e, al pari di essa, viene concepito di per sé come necessario ed eterno. La singola idea finita, invece, non può né esistere né essere compresa senza il riferimento all’attributo del pensiero.
differenza tra attributi e modi
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SOSTANZA ciò che è causa sui; è pertanto unica e infinita e si realizza in infiniti:
ATTRIBUTI Proprietà costitutive della sostanza
MODI Determinazioni particolari dell’attributo non costitutive della sostanza
L’uomo, essere finito, degli infiniti attributi percepisce solo:
infiniti Caratteristiche comuni a più cose
finiti Singole cose che si trovano nella realtà
pensiero
intelletto, volontà
una singola idea
estensione
quiete, movimento
un singolo corpo
5. Dio come natura tutto è sostanza o dio
Come abbiamo visto, per Spinoza la filosofia consiste nella conoscenza adeguata della realtà. Ma che cos’è la realtà? Per Spinoza la realtà non è altro che la sostanza unica, infinita ed eterna. Ora, tale sostanza è Dio stesso. Secondo Spinoza, infatti, Dio è la realtà considerata nella sua totalità, con tutte le sue infinite espressioni e manifestazioni. «Le cose particolari – afferma a questo riguardo Spinoza – non sono altro se non affezioni degli attributi di Dio, ossia modi mediante i quali gli attributi di Dio sono espressi in maniera certa e determinata». Ciò equivale a dire che gli attributi e i modi della sostanza sono gli attributi e i modi di Dio. Ora, come si è visto, la sostanza è causa di sé, ovvero «ciò la cui essenza implica l’esistenza»: poiché Dio e la sostanza coincidono, Dio – al pari della sostanza – è ciò che esiste per se stesso. Da questa definizione, Spinoza desume le principali caratteristiche di Dio.
tutto deriva da dio
In primo luogo, Dio è la causa necessaria e necessitante di tutte le cose. Ciò significa che non esiste nulla di contingente. In altre parole, tutto deriva necessariamente da Dio e tutto avviene necessariamente secondo il modo
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in cui si determinano gli attributi della sostanza. La conseguenza di ciò è che Dio soltanto è causa libera. Non già nel senso che Dio possa liberamente scegliere se una cosa sia o non sia, ma nel senso che egli non è necessitato da null’altro che dalla propria natura. Detto altrimenti, in Dio libertà e necessità coincidono . Per Spinoza, Dio è causa necessaria in due sensi: 1) in senso reale, poiché egli è causa dell’effettiva esistenza delle cose singole; 2) in senso logico-matematico, poiché i modi derivano dalla sostanza divina così come nella geometria le proposizioni ultime derivano dai primi princìpi. I modi sono, pertanto, connessi gli uni agli altri secondo un ordine necessario. Tale ordine è, allo stesso tempo, reale – in quanto coincide con la struttura ontologica della realtà – e geometrico – in quanto rivela un’articolazione logico-matematica. Da quanto si è detto, si può comprendere meglio perché Spinoza abbia utilizzato il metodo geometrico per scrivere un trattato di filosofia. Ai suoi occhi, infatti, la realtà ha una struttura geometrica: per questo motivo, la geometria è l’unico linguaggio che ne consenta una conoscenza adeguata. Come abbiamo appena visto, i modi sono connessi tra loro da rapporti causali necessari. Alla stessa maniera, in un trattato geometrico le proposizioni sono congiunte tra loro da rapporti necessari di antecedenza e conseguenza.
la causalità necessaria propria di dio
Questa concezione della realtà, per cui Dio è causa necessaria di tutte le cose, comporta una radicale critica del finalismo, sia nell’uomo sia nella natura. Per Spinoza, infatti, gli uomini non hanno coscienza delle cause necessarie che li determinano, ma soltanto dell’utile in vista del quale agiscono. Ciò fa sì che essi conferiscano erroneamente all’utile il carattere di fine e che – ancor più erroneamente – proiettino questo loro modo di pensare sulla natura, immaginando che anch’essa agisca in vista di fini:
contro il finalismo
Tutti i pregiudizi che qui mi propongo d’indicare dipendono da questo solo pregiudizio, cioè che gli uomini suppongono comunemente che tutte le cose della natura agiscano, come essi stessi, in vista d’un fine, e anzi ammettono come cosa certa che Dio stesso diriga tutto verso un fine determinato: dicono, infatti, che Dio ha fatto tutto in vista dell’uomo, e ha fatto l’uomo affinché lo adorasse. Io dunque considererò dapprima questo solo pregiudizio, cercando cioè in primo luogo la causa per la quale la maggior parte degli uomini rimane attaccata tranquillamente a questo pregiudizio, e tutti per natura sono tanto propensi ad abbracciarlo. In secondo luogo mostrerò la sua falsità, e, infine, farò vedere come da esso sono sorti i pregiudizi che si riferiscono al bene e al male, al merito e al peccato, alla lode e al biasimo, all’ordine e alla confusione, alla bellezza e alla bruttezza, e ad altri oggetti della stessa specie (Ethica, parte I, Appendice).
Questo pregiudizio è rafforzato dal fatto che gli uomini trovano nella natura cose che sono loro utili (per esempio, gli occhi per vedere, i denti per masticare, le erbe e gli animali per mangiare). Sapendo che queste cose non sono state prodotte da loro, essi immaginano che siano state create da Dio per il loro bene. Quando incorrono poi in cose nocive anziché utili (co-
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me le malattie, i disastri naturali, ecc.), gli uomini le interpretano come punizioni divine di cui non possono cogliere i motivi per l’impenetrabilità del giudizio di Dio. In tal modo, essi cercano di spiegare le cose invocando l’ignoranza, e – quel che è peggio – si costruiscono un’immagine falsa di Dio. Attribuendogli fini da conseguire nell’uomo e nella natura, infatti, lo considerano manchevole di qualcosa, e quindi imperfetto : Tutti gli uomini nascono senz’alcuna conoscenza delle cause delle cose, e che tutti hanno un appetito di ricercare il loro utile, e ne hanno coscienza. [...] da ciò è accaduto che essi considerino tutte le cose della natura come mezzi per il conseguimento del loro utile. E poiché sanno d’aver trovato questi mezzi, ma non di averli apprestati, hanno tratto da ciò motivo per credere che ci sia qualche altro che li abbia apprestati per il loro uso. Dopo aver considerato, infatti, le cose altrettanti mezzi, non hanno potuto credere che si siano fatte da se stesse; ma, dai mezzi che essi sono soliti di apprestarsi, hanno dovuto trarre la conclusione che ci sia uno, o più rettori della natura, dotati di libertà umana, che hanno tutto curato in loro favore e hanno fatto tutto per il loro uso. E parimenti, poiché non avevano mai udito nulla della maniera di sentire di questi rettori, essi ne hanno dovuto giudicare in base alla propria; e quindi hanno ammesso che gli Dei dirigano tutte le cose per l’uso degli uomini allo scopo di legarli a sé e di essere tenuti da essi in sommo onore: dal che è derivato che ciascuno ha escogitato secondo il proprio modo di sentire maniere diverse di prestar culto a Dio, affinché Dio lo amasse al di sopra degli altri e dirigesse tutta la natura a profitto della sua cieca cupidigia e della sua insaziabile avidità (Ethica, parte I, Appendice). dio è causa di tutto ed è in tutto
Oltre che causa necessaria, Dio è causa immanente dell’intera realtà. Poiché la sostanza è unica, Dio e le cose che da lui necessariamente derivano sono la stessa realtà, seppure considerata sotto due aspetti diversi. In altre parole, Dio e la natura coincidono, ma quest’ultima può essere considerata da due diversi punti di vista. 1) La natura naturante è la realtà considerata come sostanza infinita, come totalità degli attributi, come causa di se stessa e di tutte le cose. In quanto natura naturante, Dio è il fondamento causale di tutto ciò che esiste. 2) La natura naturata , invece, è la realtà considerata come insieme delle cose particolari e finite, cioè dei modi che derivano dagli attributi di Dio e che «senza Dio non possono né essere né essere concepiti» [t23].
6. Pensiero ed estensione la relazione tra idee e corpi
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Come si è detto, secondo Spinoza la sostanza è unica ed essa coincide con l’intera realtà. La sostanza, inoltre, è infinita, in quanto non esiste nulla di esterno che la limiti o da cui dipenda. Essa è, pertanto, caratterizzata da un’infinità di attributi o proprietà costitutive, che ne esprimono l’infinita essenza. Ciononostante, due sono gli attributi che l’uomo può conoscere, con i loro rispettivi modi: a) il pensiero, i cui modi sono le idee; b) l’esten-
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sione, i cui modi sono i corpi. Ora, si tratta di spiegare che relazione sussiste tra i modi del pensiero e i modi dell’estensione, ossia tra le idee e i corpi. Secondo Spinoza, l’ordine e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione dei corpi (come anche all’ordine e alla connessione dei modi di tutti gli altri attributi che non conosciamo). Ma che cosa significa questa identità? In base a essa, le idee – ovvero i modi del pensiero – non possono agire sui corpi – ovvero sui modi dell’estensione – e viceversa. L’azione degli uni sugli altri, infatti, sarebbe possibile – anche se problematica, come insegnava Cartesio [cfr. 5.7] – soltanto se il pensiero e l’estensione fossero realtà distinte. Per Spinoza, invece, idee e corpi sono aspetti di un’unica realtà: essi sono, pertanto, determinati a svilupparsi parallelamente secondo l’unico ordine in cui quella realtà si manifesta.
il monismo metafisico
In virtù di questo parallelismo, Spinoza può risolvere facilmente due problemi che avevano travagliato e ancora travagliavano la scuola cartesiana.
il superamento del dualismo cartesiano
1. Da un lato, la questione della corrispondenza tra le idee e il loro oggetto esterno trova soluzione nel fatto che a ogni idea del pensiero corrisponde un corpo sul piano dell’estensione, e viceversa. 2. Dall’altro lato, anche il problema della corrispondenza tra mente e corpo cessa di sussistere. Ad esempio, quando ho la volontà – che per Spinoza è un’idea – di alzare il braccio (cioè un corpo), il braccio si alza. Ciò accade perché i due eventi sono modi – rispettivamente del pensiero e dell’estensione – che si corrispondono in uno stesso punto dell’ordine necessario di connessione [t24]. Che cos’è la mente, secondo Spinoza? Essa è un’idea – cioè un modo dell’attributo del pensiero – a cui corrisponde il corpo, cioè un modo dell’estensione. L’uomo, dunque, è composto di mente e di corpo. Ma il fatto che la mente abbia per oggetto il corpo, non comporta che essa conosca il corpo di per se stesso. In questo caso, infatti, la mente dovrebbe uscire, per così dire, dall’attributo del pensiero ed entrare in quello dell’estensione. Ciò che la mente propriamente conosce è l’idea del corpo o, il che è lo stesso, la mente non è altro che l’idea del corpo. E che cos’è il corpo umano? Esso risulta composto di molti corpi più piccoli che contribuiscono alla sua continua rigenerazione (ad esempio, le particelle del sangue, delle ossa, ecc.) ed è contemporaneamente affetto da corpi esterni (per esempio, è illuminato dal Sole). Come può, allora, la mente umana conoscere il corpo? Attraverso le idee di tutti questi altri corpi e delle loro affezioni.
CONFRONTI
il rapporto tra mente e corpo
Mente e corpo in Cartesio e Spinoza
Nella filosofia cartesiana, la questione del rapporto tra la mente e il corpo viene affrontata a partire dalla definizione di sostanza. Car-
tesio aveva parlato della sostanza come di «una cosa che esiste in tal modo da non avere bisogno che di se medesima per esistere
(per se subsistens)». In senso proprio, dunque, soltanto Dio è autenticamente sostanza; in senso analogico, tuttavia, il termine
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sostanza può essere utilizzato per riferirsi a tutto ciò che per esistere ha bisogno di Dio. In questo secondo senso, secondo Cartesio, il termine sostanza compete alle menti e ai corpi: fatta eccezione della loro dipendenza da Dio che li ha creati, essi non dipendono da altro. Infatti, gli attributi fondamentali della res cogitans e della res extensa – rispettivamente il pensiero e l’estensione – sono conosciuti separatamente dall’intelletto, senza che il riferimento all’uno comporti il riferimento all’altro: l’intelletto concepisce, con chiarezza e distinzione, la mente come «sostanza pensante e non estesa» e il corpo come «sostanza estesa e non pensante». Da ciò scaturisce, secondo Cartesio, la loro distinzione ontologica, nel senso che si tratta di due realtà interamente indipendenti l’una dall’altra. Ma se la res cogitans e la res extensa sono due sostanze indipendenti ed eterogenee, non si vede come l’una possa influire sull’altra, sebbene ciò sia attestato quotidianamente dall’esperienza comune. La soluzione di Cartesio è la seguente. Al centro del cervello esiste un organo particolare – la ghiandola pineale – in cui trova la sua sede specifica l’anima. Gli spiriti che provengono dagli organi sensoriali o dalle altre parti del corpo giungono attraverso i nervi alla ghiandola pineale. Il movimento che essi vi producono provoca la fuoriuscita di altri spiriti che, attraverso nuovi nervi, mettono in moto determinate parti del corpo senza l’intervento della volontà. La ghiandola pineale può, tuttavia, essere mossa anche direttamente dalla volontà (espressione della res cogitans), determinando l’irradiazione degli spiriti nei nervi e i conseguenti movimenti del corpo. La ghiandola pineale è, dunque, il punto di incontro tra la sostanza estesa e quella pensante. Rimane, però, da spiegare come può la volontà – 172
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espressione della sostanza pensante – influenzare la sostanza estesa, dal momento che non dispone per sua natura di alcuna capacità di propulsione meccanica. La soluzione adottata da Spinoza prende le mosse dalla sua definizione di sostanza come «ciò che è in sé e viene concepito di per sé». Come si può notare, tale definizione è simile a quella che aveva dato Cartesio. Ciò che per Spinoza non è assolutamente possibile, tuttavia, è l’uso analogico della nozione di sostanza: affermare, come aveva fatto il filosofo francese, che una sostanza (la res cogitans o la res extensa) dipende da Dio equivale ad affermare che non è sostanza, in quanto dipende da altro. Spinoza è fautore di un rigoroso monismo metafisico, poiché ritiene che la sostanza sia una ed infinita: la sua essenza si esprime attraverso infiniti attributi, di cui l’uomo può conoscere però soltanto il pensiero e l’estensione. Per Spinoza, pensiero ed estensione non sono – né potrebbero essere – due sostanze, ma due attributi della medesima e unica sostanza esistente, che coincide con Dio. Inoltre, tutti gli attributi – e dunque anche il pensiero e l’estensione – si manifestano attraverso un’infinità di modi determinati: i modi del pensiero sono le singole idee, i modi dell’estensione sono i singoli corpi. Come Cartesio, anche Spinoza ha la necessità di spiegare che relazione sussista tra le idee e i corpi, visto che sono manifestazioni di due attributi differenti. A differenza di Cartesio, tuttavia, egli ritiene che non vi possa essere una relazione causale diretta tra un’idea e un corpo o viceversa: la causa di un’idea può essere soltanto un’altra idea, la causa di un corpo può essere soltanto un altro corpo. Per Spinoza, non ha senso parlare dell’azione delle idee sui corpi o viceversa, perché non si tratta di due realtà distinte, ma semplicemente di
due aspetti di un’unica realtà: «l’ordine e la connessione delle idee si identificano con l’ordine e la connessione delle cose» (Ethica, parte II, prop. VII), in quanto appartenenti all’unica sostanza. In altre parole, pensiero ed estensione, idee e corpi si sviluppano parallelamente secondo l’unico ordine della sostanza. Ad ogni moto corporeo (ad esempio, il braccio che si alza) corrisponde un’idea (la volontà di alzare il braccio) e viceversa, ad ogni manifestazione esteriore (ad esempio, il pallore, il rossore, ecc.) corrisponde un’idea percepita con la mente (paura, collera, ecc.) e viceversa, e questo perché i due eventi – che sono rispettivamente modi dell’estensione e del pensiero – si corrispondono in uno stesso punto dell’ordine necessario di connessione. Il parallelismo tra i corpi (attributi dell’estensione) e le idee (attributi del pensiero) chiarisce anche, più in generale, il rapporto tra il corpo e la mente, la quale non è altro che l’idea di un corpo. In base a questo parallelismo, infatti, non vi è corpo di cui non si dia un’idea, così come non vi è un’idea che non sia allo stesso tempo idea di un corpo. La mente, dunque, non è altro che l’idea del corpo in un determinato momento. Secondo Spinoza, la mente non può pertanto agire direttamente sul corpo e viceversa: ciò equivarrebbe a presupporre un’azione dell’attributo del pensiero su quello dell’estensione (o viceversa) come se fossero due sostanze diverse. Il corpo, inoltre, è costituito di molti corpi più piccoli e subisce l’azione di altri corpi esterni: la mente conosce il corpo attraverso le idee di tutti questi corpi e delle loro affezioni. Grazie al parallelismo di pensiero e estensione, Spinoza è in grado di risolvere anche il problema della corrispondenza tra le idee e i
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loro oggetti esterni, che Cartesio aveva affrontato ricorrendo a Dio come supremo garante della verità conosciuta dal soggetto. Per Spinoza, infatti, ad ogni idea del
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pensiero corrisponde un corpo sul piano dell’estensione e viceversa. La validità della conoscenza – ovviamente di quella intuitiva sub specie aeternitatis (e non di quel-
la confusa, soggetta all’errore) – appare, dunque, garantita dall’ordine unitario della sostanza di cui idee e corpi sono simultanea espressione.
7. La teoria della conoscenza Le idee che si presentano alla mente umana non sono disposte secondo l’ordine necessario con cui derivano da Dio, ma secondo l’ordine fortuito in cui esse appaiono nell’esperienza quotidiana. Esse non sono quindi idee «chiare e distinte» – Spinoza recupera la terminologia cartesiana – in grado di fornire una conoscenza adeguata del loro oggetto, ma idee «confuse». Ora, le idee confuse non hanno un contenuto di per sé falso, poiché tutto viene da Dio e qualsiasi contenuto ideale è di per sé vero. La confusione – e quindi l’errore – sta semplicemente nel fatto che esse esprimono una conoscenza parziale e inadeguata del loro oggetto. In altre parole, le idee confuse sono sradicate dall’ordine necessario che mostra la loro derivazione dalle idee che ne sono causa e, se si risale l’intera catena causale, da Dio.
che cos’è l’errore?
Illustrando il processo cognitivo che porta dalla conoscenza inadeguata a quella adeguata, Spinoza riprende nell’Ethica la dottrina dei gradi della conoscenza già esposta nel De intellectus emendatione [cfr. 8.2]. Ora, però, i generi della conoscenza vengono ridotti da quattro a tre.
i gradi della conoscenza
1. Il primo grado è quello della sensibilità e dell’immaginazione, nel quale le idee si presentano in ordine casuale e confuso. 2. Il secondo è costituito dalla ragione, la quale conosce le «nozioni comuni» a più cose, cioè quei modi infiniti che esprimono proprietà generali dei modi finiti (ad esempio, il movimento o la quiete per i singoli corpi). 3. La terza e più alta forma di conoscenza è l’intuizione. Essa è propria dell’intelletto e ci consente di vedere la derivazione necessaria delle cose dalla causa prima, cioè da Dio, secondo il loro corretto ordine geometrico. Mentre il primo genere di conoscenza è inadeguato, ragione e intuizione ci danno entrambe forme adeguate di conoscenza (diversamente da quanto si sosteneva nel De intellectus emendatione, che riteneva adeguata solo l’intuizione). Ragione e intuizione, infatti, consentono di conoscere, seppure in gradi differenti, la connessione necessaria tra causa ed effetto. La differenza è che, nel caso della ragione scientifica, la catena causale risale solo fino alle «nozioni comuni»; la conoscenza intuitiva, invece, parte dalla causa prima assoluta (Dio). Soltanto l’intuizione intellettuale, pertanto, ci permette di considerare le cose nella loro assoluta realtà. Attraverso di essa, l’uomo conosce le cose sub specie aeternitatis, cioè nell’eterna sostanza divina. Ciò equivale a dire che, giunto al grado più elevato della conoscenza, l’uomo perviene alla perfetta intelligibilità del reale. Attraverso l’intuizione intellettuale, l’uomo conosce la realtà – almeno nei due attributi di cui par8. spinoza
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tecipa – con la stessa profondità e la stessa certezza con cui essa è conosciuta da Dio .
8. La teoria degli affetti lo scopo della morale
Come preannuncia il titolo, l’Ethica intende essere un trattato di morale. Le dottrine metafisiche e gnoseologiche esposte nelle prime due parti dell’opera possono essere considerate come propedeutiche alla definizione di una teoria morale che si propone di liberare gli uomini dalle passioni. Inoltre, come il riconoscimento della necessità della sostanza è per Spinoza alla base della realtà e della conoscenza, così esso sarà anche a fondamento dell’etica.
anche le emozioni sono «cose naturali»
Spinoza assume come punto di partenza della sua riflessione etica il fatto che le manifestazioni della vita emotiva dell’uomo sono anch’esse «cose naturali». In altre parole, esse obbediscono alle stesse leggi che regolano le altre espressioni della natura. Ciò significa che l’uomo non è «un impero nell’impero», un’eccezione nel mondo della necessità naturale. Le sue emozioni devono quindi essere considerate con lo stesso metodo geometrico con cui vengono considerati tutti gli altri modi della sostanza. Soltanto attraverso tale metodo, l’uomo può ottenere una conoscenza adeguata degli impulsi che lo determinano ad agire, comprenderne l’intima necessità, e pertanto riuscire a non esserne più schiavo: Nulla avviene nella natura che si possa attribuire ad un suo vizio; giacché la natura è sempre la medesima, e la sua virtù e potenza d’agire dappertutto una sola e medesima; cioè le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutto avviene e si muta da una forma nell’altra, sono dovunque e sempre le medesime, e quindi una sola e medesima deve pure essere la maniera di conoscere la natura delle cose, quali che esse siano, e cioè mediante le leggi e le regole universali della natura. Gli Affetti, dunque, dell’odio, dell’ira, dell’invidia, ecc., considerati in sé, seguono dalla medesima necessità e dalla medesima virtù della natura da cui seguono le altre cose singole: e quindi riconoscono certe cause mediante le quali sono intese, e hanno certe proprietà altrettanto degne della nostra conoscenza quanto la proprietà di qualunque altra cosa di cui la sola contemplazione basta a darci diletto. Tratterò dunque della natura e delle forze degli Affetti e del potere della Mente su di essi col medesimo Metodo con cui ho trattato nelle parti precedenti di Dio e della Mente, e considererò le azioni e gli appetiti umani come se si trattasse di linee, di superfici e di corpi (Ethica, parte III, Prefazione).
lo sforzo di autoconservazione
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L’impulso fondamentale di ogni agire dell’uomo è lo sforzo (conatus) di perseverare nel suo essere, di conservare se stesso e accrescere la propria potenza. Se riferito alla sola mente, tale sforzo prende il nome di volontà, se riferito insieme alla mente e al corpo si chiama invece appetito . Quando è consapevole di se stesso l’appetito è detto cupidità. In quanto tende all’autoconservazione, la cupidità non rappresenta un difetto o una degenerazio8. spinoza
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ne della natura umana, ma ne costituisce l’essenza stessa. Spinoza abbandona ogni atteggiamento moralistico di rifiuto nei confronti degli appetiti umani in nome di un bene o di una perfezione assolutamente e astrattamente definiti: è buono tutto ciò che contribuisce alla perfezione di un essere e che ne aumenta la forza e la capacità di conservarsi. Partendo dalla definizione dell’impulso fondamentale, Spinoza deduce in ordine geometrico tutta la sua teoria degli affetti . In essa, Spinoza enumera le emozioni che accrescono o diminuiscono la potenza del corpo e della mente, e quindi la capacità dell’uomo di essere e di agire. Così la letizia nasce dal sentimento della crescita della propria capacità vitale, la tristezza al contrario da quello di una sua diminuzione. L’amore e l’odio non sono che letizia o tristezza accompagnate dall’idea di una causa esterna. Tutti gli altri affetti sono derivazioni o determinazioni specifiche di queste emozioni fondamentali, secondo una «geometria degli affetti» che ricorda per molti versi quella realizzata da Hobbes.
affetti primari e secondari
Spinoza ritiene che l’uomo spesso non abbia una conoscenza adeguata dei propri affetti e si limiti a connetterli con circostanze che gli appaiono fortuite. Per questo motivo, egli è completamente passivo nei loro confronti e si lascia dominare da essi. In questo caso, gli affetti si configurano come passioni, che l’uomo subisce e delle quali è schiavo. Quando ciò accade, l’uomo non riesce più a perseguire il suo vero bene e la sua vera utilità: la sua capacità di agire e di comprendere risulta, infatti, fortemente limitata. Questa condizione corrisponde al primo grado di conoscenza.
quando gli affetti si tramutano in passioni
Per Spinoza, tuttavia, l’uomo può pervenire a una conoscenza adeguata degli affetti, a condizione che apprenda le loro vere cause e impari a vederne l’intrinseca necessità. Gli effetti di tale conoscenza possono essere due.
la conoscenza degli affetti
1. In qualche caso, le passioni si dissolvono. Una volta conosciutane la vera natura, infatti, esse non hanno più ragione di sussistere. Ad esempio, quando io so che la causa del mio odio verso una determinata persona non è quella persona stessa, ma una certa concatenazione necessaria di idee, viene meno l’oggetto della mia avversione – e con ciò l’odio stesso. 2. Talvolta, invece, gli affetti continuano a sussistere, anche se ne conosco adeguatamente le cause necessarie. In questo caso, però, l’affetto non è più passivamente subito, ma attivamente ricercato. Ciò accade, ad esempio, quando vedo la necessità che mi porta a ricercare il cibo come strumento della mia conservazione o la sessualità come mezzo per la generazione. Quando l’uomo arriva a conoscere adeguatamente le proprie emozioni, considerandole effetti necessari di cause determinanti, la passione si tramuta in una vera e propria azione. In questa superiore coscienza morale consiste il secondo genere di conoscenza, quello della ragione. Per mezzo di essa, l’uomo attinge il suo vero utile, ossia ciò che veramente gli consente di accrescere la sua potenza d’essere. La virtù non è dunque in contrasto con la natura, le sue leggi e i suoi appetiti; al contrario ne è la piena realizzazione. Secondo questa prospettiva, la liberazione dalle passioni non è mera abnegazione e rifiuto della dimensione emotiva.
la ricerca razionale del proprio utile
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la vita emotiva «dal punto di vista dell’eternità»
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Una conoscenza perfettamente adeguata degli affetti conduce, tuttavia, a risalire la loro catena causale fino alla causa prima (Dio). Questo tipo di considerazione della vita emotiva – che corrisponde al terzo genere di conoscenza, quella dell’intelletto – si risolve ancora una volta nella considerazione della vita umana sub specie aeternitatis. Ciò non comporta la dissoluzione completa dell’emotività umana, ma la sua identificazione con la conoscenza intuitiva. Nell’ultima fase dell’ascesi morale proposta da Spinoza, l’uomo – cogliendo immediatamente la derivazione del tutto da Dio – prova un «amore intellettuale» nei confronti della divinità che è lo stesso con cui Dio ama se medesimo: Dal terzo genere di conoscenza nasce necessariamente l’Amore intellettuale di Dio. Da questo genere di conoscenza, infatti, nasce una Letizia che è accompagnata dall’idea di Dio come causa, cioè nasce un Amore verso Dio, non in quanto lo immaginiamo come presente, ma in quanto comprendiamo che Dio è eterno; e questo è ciò che io chiamo Amore intellettuale di Dio (Ethica, Corollario, prop. XXXII).
In questo amore intellettuale di Dio – cioè in questo atteggiamento dell’uomo verso Dio in cui si confondono misticismo e razionalismo – consiste la beatitudine per l’uomo . Essa non è premio alla virtù, ma è la più alta espressione della virtù stessa.
9. Fede e filosofia contro l’intolleranza religiosa
Nel Tractatus theologico-politicus, pubblicato anonimo nel 1670, Spinoza espone le sue opinioni in materia di religione e di politica. I due ambiti sono per lui strettamente connessi: nell’uno come nell’altro, infatti, occorre salvaguardare la libertà di pensiero e di espressione. L’avversario costante del Tractatus è quello spirito di intolleranza che Spinoza aveva già sperimentato in prima persona per questioni religiose. A tale scopo, Spinoza intraprende una rigorosa critica storico-filologica della Bibbia. Attraverso di essa, egli intende mostrare come la forma espositiva e la struttura categoriale della Scrittura siano fortemente condizionate dalla situazione storica che le ha espresse.
l’interpretazione razionale delle scritture
Nel testo biblico, la parola di Dio è interpretata secondo la cultura, il linguaggio e la mentalità particolari del popolo ebraico. Di conseguenza, i contenuti scritturali possono essere legittimamente reinterpretati e adattati a forme di sensibilità storicamente più recenti. A maggior ragione, essi possono diventare oggetto di un’analisi razionale che – privandoli del loro carattere specificamente rivelativo – li faccia confluire in una religione naturale, accettabile da tutti gli uomini in tutti i tempi. Un esempio caratteristico dell’analisi razionale, a cui Spinoza sottopone la tradizione religiosa, è la critica del concetto di miracolo. Tale concetto – introdotto dalla cultura ebraica per mostrare la potenza divina – appare invece al filosofo un’assur-
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dità. La nozione di miracolo comporta, infatti, l’interruzione dell’ordine necessario della natura in cui si esprime la stessa volontà di Dio. Le interminabili dispute sostenute nel corso dei secoli su temi religiosi e lo spirito di intolleranza che spesso le ha accompagnate dipendono, secondo Spinoza, da una cattiva conoscenza dei rapporti tra fede e filosofia. Mentre quest’ultima ha per oggetto la verità teoretica, la religione riguarda esclusivamente l’obbedienza a cui l’uomo è tenuto nei confronti della divinità. I dogmi nei quali la fede si esprime non entrano nel merito teorico – per esempio, non si pronunciano sull’essenza di Dio, sulla natura della libertà divina (se essa consista in una forma di libero arbitrio o se coincida con la necessità) – ma riguardano esclusivamente le verità pratiche su cui si basa il dovere dell’obbedienza (che Dio esiste, è unico, è onnipresente, è signore del mondo, esige amore verso il prossimo, premia o punisce, ecc.). Tali dogmi sono semplicissimi e, essendo comuni a tutte le religioni, escludono ogni motivo di disputa [t25].
dovere dell’obbedienza e ricerca della verità
Con questa distinzione tra verità di fede e verità teoretiche, Spinoza intendeva raggiungere due obiettivi.
conciliare la libertà religiosa con la discussione razionale
1. Da un lato, egli voleva impedire che la discussione religiosa diventasse strumento di intolleranza nelle mani dei detentori del potere religioso e politico. La fede – che è loro competenza – non contiene, infatti, alcuna ragione di controversia. 2. Dall’altro, egli si preoccupava di garantire alla ristretta cerchia dei dotti e dei filosofi la possibilità di dibattere quei temi che – ormai lontani dalla pratica religiosa e politica – potevano essere tranquillamente interpretati in chiave razionalistica.
10. Stato e libertà Se i primi tre quarti del Tractatus riguardano problemi religiosi o di esegesi biblica, gli ultimi cinque capitoli sono dedicati all’esposizione del pensiero giuridico-politico di Spinoza. La concezione spinoziana del diritto e dello Stato si inserisce in una cornice schiettamente giusnaturalistica e presenta notevoli punti di convergenza con il pensiero di Hobbes. Di Hobbes, infatti, il filosofo di Amsterdam conosceva senz’altro il De cive e, forse, la traduzione olandese del Leviatano.
le coordinate della riflessione politica
Anche Spinoza parte dall’ipotesi di uno stato di natura che precede la società civile. In questa condizione il diritto di ciascuno è uguale al suo potere, cioè alla forza di cui dispone per affermare il proprio essere. Per Spinoza, infatti, il potere del singolo non è che la potenza stessa della natura, della quale è espressione particolare. Lo stato di natura corrisponde, quindi, a una condizione di insicurezza e di pericolo. In esso, ciascuno è esposto al rischio di avere meno forza, meno potere – e quindi meno diritto naturale – di un altro.
lo stato di natura
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la convenienza per tutti del patto sociale
Che cosa spinge dunque gli uomini a imboccare la strada della convivenza all’interno della società civile? Secondo Spinoza, è lo stesso impulso all’autoconservazione – lo «sforzo di perseverare nel proprio essere», che l’uomo condivide con tutti gli esseri naturali – a produrre, in maniera necessaria, il passaggio dallo stato di natura a quello civile. Sotto la spinta della ragione – che indica il loro vero bene, la loro vera utilità – gli uomini giungono infatti a istituire un patto sociale. Grazie a esso, il diritto-potere di ciascuno viene limitato in modo da garantire a tutti la sicurezza della propria persona.
i punti di dissenso da hobbes
In due punti il pensiero politico di Spinoza si differenzia tuttavia da quello di Hobbes, prefigurandone esiti del tutto diversi. 1. In primo luogo, Spinoza non ritiene che nel patto i singoli rinuncino al loro diritto naturale. Al contrario, attraverso la sua limitazione, i singoli attuano semplicemente le condizioni necessarie per conservarlo. Per questo motivo, la condizione civile per Spinoza deve somigliare il più possibile a quella naturale. Se nello stato di natura gli uomini erano uguali, uguali dovranno essere anche nello stato civile. Ciò induce Spinoza a preferire la democrazia alle altre forme di governo (mentre Hobbes difendeva la superiorità della monarchia). Ciononostante, anche per lui il potere sovrano – per quanto democratico – deve necessariamente essere assoluto. 2. In secondo luogo, Spinoza ritiene che l’uomo – nel passaggio allo stato civile – non possa rinunciare alla libertà di pensiero e di espressione. Nessun governo può quindi restringere questa facoltà, purché essa si limiti all’analisi razionale e abbia un valore esclusivamente teorico. Infatti, la libertà di pensiero non può tradursi in un’attività politica pratica. Ciò minerebbe alle fondamenta la sicurezza stessa dello Stato. Sarà, pertanto, compito dei governanti raccogliere le libere analisi dei sudditi e – se le ritengono valide – tradurle in realtà politica .
in poche... parole Lo scopo della filosofia consiste, per Spinoza, nel raggiungere un’adeguata conoscenza delle cose al fine di liberare gli uomini dalla schiavitù delle passioni. In tal senso, la speculazione spinoziana non si esaurisce nel momento puramente teoretico, ma è attraversata da un’intensa tensione etica: l’intelletto che risale l’intera connessione delle cause riesce infatti a vedere le cose sub 178
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specie aeternitatis, e cioè dal punto di vista dell’unico ordine razionale che regge tutta la realtà. La metafisica di Spinoza prende le mosse dalla nozione di sostanza, di cui – andando oltre Cartesio – si propone di dedurre coerentemente tutte le implicazioni logiche. Per Spinoza, la definizione della sostanza come «ciò la cui essenza implica l’esistenza» comporta che essa sia causa di se stes-
sa, unica, eterna, infinita, in quanto non dipendente da altro. La sostanza infinita contiene nella propria essenza un’infinità di proprietà costitutive o attributi, sebbene l’uomo ne conosca soltanto due: il pensiero e l’estensione. Gli attributi si determinano, a loro volta, in una quantità infinita di manifestazioni particolari o modi (per esempio, le singole idee o i singoli corpi). Per Spinoza La libertà di pensiero e lo Stato
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Spinoza, tutta la realtà coincide con la sostanza infinita e la sostanza con Dio: gli attributi e i modi della sostanza sono, pertanto, gli attributi e i modi di Dio. La filosofia di Spinoza si risolve in una forma di panteismo, in base al quale tutto deriva necessariamente da Dio e le singole cose non sono che sue espressioni particolari.
sostanza Per Spinoza, la sostan-
za è «ciò che è in sé e viene concepito di per sé». In altri termini, la sostanza è ciò che non ha bisogno di altro per esistere e per essere conosciuto. Ciò significa che la sostanza ha in sé il proprio fondamento, sia dal punto di vista ontologico (essendo «ciò la cui essenza implica l’esistenza») sia da quello gnoseologico (essendo «ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale debba essere formato»). Pertanto la sostanza è infinita e unica, e coincide, da un lato, con Dio e, dall’altro, con la natura. La definizione che Spinoza dà della sostanza è analoga a quella che ne aveva dato Cartesio nella sua forma propria. A differenza di Cartesio, tuttavia, Spinoza non ritiene possibile un uso «analogico» della nozione di sostanza. Affermare che una sostanza – come il pensiero e l’estensione cartesiani – dipende da Dio, significa affermare che essa dipende da qualcos’altro (Dio appunto). Ma, se è così, essa non è più sostanza.
attributi/modi Pensiero ed estensione non sono sostanze, perché non possono esistere di per sé. Essi sono invece attributi, cioè qualità essenziali alla sostanza. Gli attributi possono essere colti soltanto dall’intelletto, che penetra intuitivamente la sostanza stessa, e non dalla ragione, che ne connette discorsivamente le manifestazioni (modi) secondo il loro ordine causale. Sebbene l’uomo possa conoscere solo il pensiero e
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l’estensione (i soli di cui partecipa), gli attributi non si limitano a questi due. Gli attributi, infatti, sono infiniti, perché infinita è l’essenza della sostanza. I modi, invece, sono determinazioni degli attributi, ossia le modalità in cui gli attributi della sostanza si manifestano. Per questa ragione, i modi non sono intrinseci alla sostanza come gli attributi. I modi possono essere finiti, quando indicano le singole cose (idee o corpi), o infiniti, quando si riferiscono a manifestazioni costanti comuni a più cose.
Natura naturante e natura natura naturante/natura naturata In latino natura, in greco phy`sis. Questa distinzione è soste-
nuta da Spinoza, ma è presente anche in diversi altri autori, soprattutto nel Rinascimento. La prima è la natura in quanto causa di tutto ciò che esiste: pertanto essa viene identificata con la sostanza infinita e con Dio. La seconda – distinguibile solo logicamente dalla prima – è la totalità complessiva delle singole cose esistenti, a cui l’unico principio generatore dà vita.
Per Spinoza, l’uomo non costituisce un’eccezione ontologica («un impero nell’impero») nell’universo: anche la sua vita emotiva obbedirà, dunque, alle stesse leggi che regolano tutte le altre espressioni della natura. Impiegando il metodo geometrico per analizzare le proprie emozioni, l’uomo ottiene una conoscenza adeguata degli impulsi che lo spingono ad agire e impara a sfruttarli per accrescere la propria potenza vitale, anziché farsi dominare passivamente da essi. Dalla cupidità (ovvero dalla tendenza all’autoconservazione) – che rappresenta l’appetito fondamentale dell’uomo – è possibile ricavare gli altri due affetti primari della letizia e della tristezza: la prima
si ha quando sentiamo crescere la nostra potenza vitale; la seconda, invece, quando la sentiamo diminuire. Da questi tre affetti primari si possono dedurre tutti gli altri affetti secondari (come l’amore, l’odio, la devozione, la speranza, ecc.). In questo quadro, il bene e il male non sono valori etici assoluti, ma dipendono dalla cupidità: il bene è ciò che accresce la potenza d’essere dell’uomo e il male ciò che la ostacola. Quando conosce le vere cause degli affetti e ne vede l’intrinseca necessità l’uomo è virtuoso, ossia capace di ricercare attivamente e consapevolmente il proprio utile. Il massimo grado di conoscenza perseguibile dall’uomo è quello dell’amore intellettuale di Dio: in virtù di esso, egli coglie ogni singola cosa – e quindi anche i suoi affetti e i suoi comportamenti – come una manifestazione necessaria dell’ordine naturale, e quindi di Dio stesso.
appetito Dal latino appetitus, «tendere verso qualcosa», in generale l’appetito è il movimento orientato a soddisfare un bisogno o un desiderio e a perseguire un fine. Per Spinoza, l’appetito è lo sforzo con cui l’uomo tende a perseverare nel proprio essere per una durata infinita. affetto Dal latino affectus, «affetto da, colpito da», indica la condizione nella quale si trova chi ha subito un’azione e ne è stato modificato. Il termine greco equivalente è pàthos (derivato da pàschein, «subire») tradotto anche con «passione». Dunque, tutti gli affetti sono «passioni» nel senso generale attribuito a quest’ultimo termine, il quale invece – nel suo significato più ristretto – indica le emozioni provate dall’animo umano (collera, ambizione, ecc.). Per Spinoza uno stesso affetto può essere considerato come una passione, quando non se ne conoscono 8. spinoza
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le cause e quindi la si subisce, oppure come un’azione, quando – conoscendone la causa necessaria – si assume un atteggiamento attivo al suo riguardo.
amore intellettuale di Dio Indica il massimo risultato a cui possono giungere la conoscenza e la morale dell’uomo, quando colgono Dio intuitivamente e conoscono
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la realtà sub specie aeternitatis. L’espressione va intesa come genitivo sia oggettivo sia soggettivo. Da un lato, esso esprime l’amore con cui gli uomini amano Dio, dopo averlo colto con l’intuizione intellettuale. Dall’altro, esso indica l’amore che Dio ha verso se stesso e, di conseguenza, verso gli uomini che nella conoscenza intellettuale si sono identificati con lui. In
entrambi i sensi, l’amore intellettuale di Dio coincide con la realizzazione della massima felicità per l’uomo, ossia la beatitudine: «Quanto più la mente gode di quest’Amore divino ossia della beatitudine, tanto più essa conosce, cioè tanto maggiore è la potenza che ha sugli affetti, e tanto meno essa patisce dagli affetti che sono cattivi» (Ethica, parte V, prop. XLII).
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i testi t22 Spinoza / La sostanza infinita e i suoi attributi Spinoza Ethica
parte I, Definizioni e Proposizioni VII-VIII; parte II, Proposizioni I-II
L’Ethica è composta di cinque parti: a) Dio; b) L’origine e la natura della mente; c) L’origine e la natura degli affetti; d) La schiavitù umana ossia le forze degli affetti; e) La potenza dell’intelletto ossia la libertà umana. Il tema della sostanza e dei suoi attributi è sviluppato soprattutto nella prima parte, in cui la sostanza infinita è identificata con Dio. Di questa parte riportiamo le Definizioni e le Proposizioni relative alla definizione della sostanza e degli attributi. Dalla seconda parte invece, dedicata all’attributo del pensiero, recuperiamo le due prime Proposizioni, relative alla definizione del pensiero e dell’estensione, e un lungo scolio che illustra il rapporto che intercorre tra i modi del pensiero (idee) e i modi dell’estensione (corpi).
La definizione della sostanza DEFINIZIONI I. Intendo per causa di sé ciò la cui essenza implica l’esistenza; ossia ciò la cui natura non si può concepire se non esistente1. II. Si dice finita nel suo genere quella cosa che può essere limitata da un’altra della medesima natura. Per esempio, un corpo è detto finito perché ne concepiamo sempre un altro più grande. Così un pensiero è limitato da un altro pensiero. Ma un corpo non è limitato da un pensiero, né un pensiero da un corpo2. 1. Viene qui ripresa, in termini di defi-
nizione, l’argomentazione che Anselmo d’Aosta utilizzò per la dimostrazione dell’esistenza di Dio e che Kant chiamerà «ontologica». 2. È già prefigurata qui la tesi spinoziana secondo cui la relazione causale può valere soltanto tra modi appartenenti allo stesso attributo (tra corpo e corpo o tra pensiero e pensiero). Essa è invece esclusa nel rapporto tra modi di attributi diversi (tra corpi e pensieri), i cui ordini di connessione causale, pur essendo reciprocamente corrispondenti (perché tanto l’estensione quanto il pensiero sono attributi dell’unica sostanza), sono indipendenti (in quanto pensiero ed estensione, sebbene siano riferiti a una sola sostanza, sono attributi diversi di essa). 3. La sostanza è ciò che «è in sé», ov-
III. Intendo per sostanza ciò che è in sé e viene concepito di per sé: vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa dal quale esso debba essere formato3. IV. Intendo per attributo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza4. V. Intendo per modo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per il cui mezzo è pure concepito5. VI. Intendo per Dio un essere assolutamente infinito, cioè, una sostanza costituita da un’in-
vero ciò che contiene nella propria essenza il principio della propria esistenza, ossia ancora ciò che è causa di se stesso. Ma oltre al proprio fondamento ontologico (cioè al principio della sua esistenza), la sostanza contiene, nella propria essenza, anche il proprio fondamento gnoseologico (cioè della sua conoscibilità). Nello stesso modo in cui non ha bisogno di un altro essere per esistere, la sostanza non necessita di alcun altro concetto per essere concepita. 4. L’attributo è una qualità o proprietà che inerisce necessariamente alla sostanza, in quanto fa parte della sua essenza. Esso viene quindi conosciuto soltanto per mezzo dell’intelletto, che per Spinoza è la più alta facoltà conoscitiva dell’uomo, preposta appunto alla conoscenza della realtà nella sua de-
rivazione necessaria da un’unica sostanza infinita. 5. Gli attributi sono determinazioni essenziali della sostanza (la quale non può non contenere in sé il pensiero e l’estensione): in quanto tali, essi risiedono nella sostanza stessa. I modi invece non entrano nell’essenza della sostanza (nel concetto di sostanza, ad esempio, non è contenuta quella particolare determinazione, quel particolare modo di essere, per cui oggi piove o splende il sole, sebbene anche queste manifestazioni, come determinazioni di un attributo della sostanza, derivino necessariamente da essa); per questo i modi sono «in altro» rispetto alla sostanza. Spinoza mutua da Cartesio (Princìpi della filosofia) questa distinzione tra attributi e modi della sostanza.
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finità d’attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna ed infinita.
Pensiero ed estensione PROPOSIZIONE IX
PROPOSIZIONE VII
Quanto più realtà o essere ciascuna cosa possiede, tanto maggiore è il numero di attributi che le competono.
Alla natura della sostanza appartiene di esistere. DIMOSTRAZIONE
DIMOSTRAZIONE
Una sostanza non può essere prodotta da altro (per il Coroll. della Prop. preced.)6; essa sarà dunque causa di sé, cioè (per la Defin. 1) la sua essenza implica necessariamente l’esistenza, ossia alla sua natura appartiene di esistere. C.D.D.
È evidente per la Defin. 4. PROPOSIZIONE X Ciascuno attributo d’una medesima sostanza dev’essere concepito per sé.
PROPOSIZIONE VIII
DIMOSTRAZIONE
Ogni sostanza è necessariamente infinita.
Un attributo è, infatti, ciò che l’intelletto percepisce d’una sostanza come costituente la sua essenza (per la Defin. 4); e quindi (per la Defin. 3) dev’essere concepito per sé. C.D.D.
DIMOSTRAZIONE Non esiste se non un’unica sostanza di un solo attributo (per la Prop. 5)7, e alla sua natura appartiene di esistere (per la Prop. 7). Apparterrà dunque alla sua natura che essa esista o come finita o come infinita. Ma essa non può esistere come finita. Perché (per la Defin. 2) dovrebbe essere limitata da un’altra della medesima natura, la quale a sua volta dovrebbe esistere necessariamente (per la Prop. 7); e perciò esisterebbero due sostanze di medesimo attributo, il che è assurdo (per la Prop. 5). Essa esiste dunque come infinita. C.D.D.8. SCOLIO I Poiché essere finito è veramente in parte una negazione, ed essere infinito è l’affermazione assoluta dell’esistenza d’una natura, segue dunque dalla sola Prop. 7 che ogni sostanza dev’essere infinita9. [...] 6. La Proposizione VI recitava: «Una sostanza non può essere prodotta da un’altra sostanza» (infatti ciò significherebbe che dipende da altro, il che contraddice la definizione della sostanza). Dalla Proposizione VI discendeva il Corollario: «Da ciò segue che una sostanza non può essere prodotta da altro». 7. La Proposizione V affermava: «Nella
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SCOLIO Da ciò è chiaro che, sebbene due attributi siano concepiti come realmente distinti, cioè l’uno senza l’aiuto dell’altro, non possiamo tuttavia concluderne che essi costituiscano due esseri o due sostanze differenti; è proprio, infatti, della natura della sostanza che ciascuno dei suoi attributi sia concepito per sé; giacché tutti gli attributi che essa possiede sono stati sempre insieme in essa, e l’uno non ha potuto essere prodotto dall’altro; ma ciascuno esprime la realtà o l’essere della sostanza. Lungi, dunque, dall’essere un’assurdità attribuire più attributi ad una medesima sostanza, nulla invece è più chiaro, in natura: che ciascun dev’essere concepito sotto un qualche attributo ed ha tanti più attributi, esprimenti e la sua neces-
natura non si possono dare due o più sostanze della stessa natura ossia dello stesso attributo». Infatti due sostanze della stessa natura sarebbero la medesima sostanza. 8. Più semplicemente: la sostanza è necessariamente infinita, perché se fosse finita dipenderebbe da altro (il che contraddice la sua definizione). Essa è inoltre unica, poiché due sostanze
infinite non sono possibili (o, il che è lo stesso, sono la stessa sostanza). 9. Infatti l’esistenza che appartiene alla sostanza non è l’esistenza finita (poiché in tal caso la sostanza dipenderebbe da altro sia per quanto riguarda il suo essere sia per quanto concerne la sua intelligibilità), bensì l’esistenza in assoluto, l’esistenza infinita.
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sità, cioè la sua eternità, e la sua infinità, quanto maggiore è la realtà o l’essere che possiede; e conseguentemente nulla pure è più chiaro di questo: che l’essere assolutamente infinito si deve necessariamente definire (come abbiamo detto nella Defin. 6) come l’essere che è costituito da un’infinità di attributi, ciascuno dei quali esprime una determinata essenza eterna ed infinita10.
L’estensione è un attributo di Dio, ossia Dio è cosa estesa. GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia le parole-chiave del testo. 2. Ricostruisci le definizioni di «sostanza», «attributo» e «modo» facendo riferimento anche a quanto viene «dimostrato» nelle Proposizioni e affermato nei commenti degli scolii. 3. Ricostruisci la dimostrazione delle Proposizioni VII e X esplicitando quanto in esse resta sottinteso.
PROPOSIZIONE I (PARTE II) Il pensiero è un attributo di Dio, ossia Dio è cosa pensante11. [...] 10. Questo scolio contiene implicitamente una polemica con Cartesio. Per Spinoza l’intelletto percepisce gli attributi della sostanza come proprietà indipendenti l’una dall’altra e quindi concepibili di per se stesse. Proprio quest’autonomia – suggerisce qui Spinoza implicitamente – ha fatto supporre a Cartesio che il pensiero e l’estensione (che sono in realtà due degli infiniti attributi della sostanza) fossero due sostanze autonome. Ma, come Cartesio stesso aveva ammesso, il pensiero e l’estensione, se non dipendono né
PROPOSIZIONE II
4. Confronta le definizioni di «sostanza» di Cartesio e Spinoza.
reciprocamente né da alcuna altra realtà finita, per esistere necessitano tuttavia della sostanza divina. Ed è proprio questo che ci impone di considerarli non già come sostanze, ma come attributi dell’unica sostanza infinita. Essi tuttavia non saranno i soli attributi della sostanza (poiché una sostanza infinita ha infiniti attributi), ma gli unici due che l’uomo può conoscere, perché sono i soli di cui egli partecipa. 11. Ciò è facilmente dimostrabile partendo, a priori, dal concetto di Dio come sostanza infinita: Dio infatti, avendo
in sé tutti gli attributi possibili, ha anche quello del pensiero. Qui tuttavia Spinoza dimostra la Proposizione con un’argomentazione a posteriori: constatata l’esistenza di singoli pensieri (questo o quel pensiero di un determinato uomo), se ne deve dedurre che essi, come tutte le cose particolari esistenti, sono modi di un corrispondente attributo presente nella natura di Dio. Il pensiero è dunque uno degli infiniti attributi di Dio. Ragionamento analogo vale per l’attributo dell’estensione, di cui si parla nella Proposizione II.
t23 Spinoza / Natura naturante e natura naturata Spinoza Ethica
parte I, Proposizioni XXV, XXIX, XXXIII
Riproduciamo qui le Proposizioni della prima parte dell’Ethica, nelle quali Spinoza illustra il rapporto che intercorre tra Dio e la natura. Questa relazione si definisce in termini di identità (Deus sive natura), seppure tale coincidenza di Dio con il mondo naturale si riferisca non agli aspetti finiti, causati, «naturati» appunto, bensì alla sua potenza infinita, principio causale di ogni realtà, «naturante».
PROPOSIZIONE XXV
COROLLARIO
Dio è causa efficiente non soltanto dell’esistenza, ma anche dell’essenza delle cose1. [...]
Le cose particolari non sono altro se non affezioni degli attributi di Dio, ossia modi median-
1. Infatti, le cose particolari – come
si dice esplicitamente nel Corollario seguente – non essendo che modi
degli attributi di Dio, sono determinazioni specifiche dell’essenza di Dio. La loro essenza non ha quindi
alcuna autonomia rispetto a quella divina.
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te i quali gli attributi di Dio sono espressi in maniera certa e determinata. [...] PROPOSIZIONE XXIX Nella natura non si dà nulla di contingente, ma tutto è determinato dalla necessità della natura divina ad esistere e ad operare in una certa maniera2. [...] SCOLIO Prima di procedere oltre, voglio spiegare qui che cosa dobbiamo intendere per Natura naturante e che cosa per Natura naturata, o meglio farlo notare. Giacché credo che ciò già risulti da quello che precede, e cioè che per Natura naturante dobbiamo intendere ciò che è in sé ed è concepito per sé, ossia quegli attributi della sostanza che esprimono un’essenza eterna ed infinita, cioè (per il Coroll. 1 della Prop. 14 e per il Coroll. 2 della Prop. 17), Dio in quanto è considerato come causa libera. E per Natura 2. Necessariamente Dio possiede gli attributi che possiede. Altrettanto necessariamente tali attributi assumono le particolari determinazioni che chia-
naturata intendo tutto ciò che segue dalla necessità della natura di Dio, o di ciascuno degli attributi di Dio, cioè tutti i modi degli attributi di Dio, in quanto sono considerati come cose che sono in Dio e che senza Dio non possono né essere né essere concepite. [...] PROPOSIZIONE XXXIII Le cose non hanno potuto essere prodotte da Dio in nessun’altra maniera né in nessun altro ordine se non nella maniera e nell’ordine in cui sono state prodotte. GUIDA ALLA LETTURA 1. In che senso i modi sono affezioni degli attributi di Dio? 2. I modi della sostanza riguardano la «natura naturante» o la «natura naturata»? Perché? 3. In che senso tutto deriva necessariamente da Dio?
miamo modi, cioè le cose particolari e finite in cui si articola la realtà che percepiamo (corpi) e che pensiamo (idee). Dunque, tutto ciò che accade nella na-
tura discende dalla necessità della natura divina.
t24 Spinoza / Ordine delle cose e ordine delle idee Spinoza Ethica
parte II, Proposizione VII
Nella Proposizione VII della seconda parte dell’Ethica Spinoza afferma che «l’ordine e la connessione delle idee si identificano con l’ordine e la connessione delle cose». Per esemplificare questo assunto egli fa l’esempio di una cosa reale (il circolo esistente in natura) e dell’idea che di questa cosa si ha nella mente (l’idea del circolo). Ma come caso più specifico la stessa argomentazione vale anche per illustrare il rapporto che intercorre tra l’idea costituita da un atto di volontà (voglio alzare il braccio) e il modo corporeo a cui essa corrisponde (il movimento del braccio). La Proposizione VII della seconda parte rappresenta dunque anche la soluzione di Spinoza al problema, lasciato aperto da Cartesio, del rapporto tra mente e corpo.
PROPOSIZIONE VII
SCOLIO
L’ordine e la connessione delle idee si identificano con l’ordine e la connessione delle cose1. [...]
Qui, prima di procedere oltre, dobbiamo richiamarci alla memoria ciò che abbiamo mo-
1. Per Cartesio pensiero ed estensione sono due sostanze autonome e indipendenti: la loro connessione appare
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dunque concettualmente molto difficile. Per Spinoza, invece, essi sono soltanto due diversi attributi di una stessa
sostanza. Da un lato essi, come attributi diversi, sono reciprocamente autonomi, nel senso che ciascuno dei due non
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strato sopra; cioè che tutto ciò che può essere percepito da un intelletto infinito come costituente l’essenza di una sostanza appartiene soltanto ad un’unica sostanza, e conseguentemente che la sostanza pensante e la sostanza estesa sono una sola e medesima sostanza, che è compresa ora sotto questo, ora sotto quell’attributo. Così pure un modo dell’estensione e l’idea di questo modo sono una sola e medesima cosa, ma espressa in due maniere; il che sembra che alcuni Ebrei abbiano visto nebulosamente in quanto essi affermano, cioè, che Dio, l’intelletto di Dio, e le cose da lui conosciute sono una sola e medesima realtà. Per esempio, il circolo esistente in natura e l’idea del circolo esistente, la quale è pure in Dio, sono una sola e medesima cosa che si spiega mediante attributi diversi; e così, sia che concepiamo la natura sotto l’attributo dell’Estensione, sia che la concepiamo sotto l’attributo del Pensiero, o sotto un qualunque altro attributo, troveremo un solo e medesimo ordine, o una sola e medesima connessione di cause, cioè il seguire delle medesime cose le une dalle altre. Né per altra ragione ho detto che Dio è causa, per es., dell’idea del circolo solo in quanto è una cosa pensante, e causa del circolo solo in quanto è una cosa estesa, se non perché l’essere fornecessita dell’altro per la sua intelligibilità, il che di fatto esclude la possibilità di una influenza reciproca. D’altro lato, poiché sono attributi di una stessa sostanza, il loro esplicarsi in una serie di modi riflette necessariamente l’es-
male dell’idea del circolo non può essere percepito se non mediante un altro modo del pensare come sua causa prossima, e questo modo alla sua volta mediante un altro, e così via all’infinito; di maniera che, fino a quando le cose sono considerate come modi del pensare, noi dobbiamo spiegare l’ordine di tutta la natura, cioè la connessione delle cause, mediante il solo attributo del Pensiero; e in quanto esse sono considerate come modi dell’Estensione, l’ordine di tutta la natura dev’essere pure spiegato mediante il solo attributo dell’estensione, e la stessa cosa intendo per gli altri attributi. Perciò delle cose come sono in sé Dio è realmente la causa, in quanto è costituito da un’infinità d’attributi; e per il momento non posso spiegare ciò più chiaramente.
GUIDA ALLA LETTURA 1. Individua la tesi centrale del ragionamento di Spinoza. 2. Qual è la principale conseguenza della Proposizione VII, rispetto agli attributi del pensiero e dell’estensione? 3. Spiega con parole tue l’esempio usato da Spinoza per definire l’identità di Dio e della natura.
senza dell’unica sostanza alla quale ineriscono. L’ordine e la successione delle idee si identifica con l’ordine e la successione dei corpi perché nell’essenza di Dio è previsto un unico ordine e un’unica successione. Più semplice-
mente: mentre Cartesio ammette due soggetti metafisici indipendenti (la res cogitans e la res extensa), Spinoza ne presuppone uno soltanto (la sostanza divina), il che risolve all’origine il problema del dualismo tra mente e corpo.
t25 Spinoza / Fede e filosofia Spinoza
Tractatus theologico politicus
cap. XIV
Il ragionamento con cui Spinoza condanna l’intolleranza religiosa è molto semplice. Da un lato, ciò su cui vale la pena di essere intransigenti – cioè ciò che incide nella prassi religiosa fondamentale – non è oggetto di disputa: la religione naturale universale, comune a tutte le religioni positive, insegna infatti agli uomini le nozioni pratiche necessarie affinché essi sappiano come obbedire a Dio. Dall’altro lato, ciò che può generare divergenze è del tutto ininfluente dal punto di vista pratico: le discussioni filosofiche sulla natura di Dio nulla tolgono e nulla aggiungono al dovere dell’obbedienza nei confronti della divinità. In proposito si può dunque lasciare che ciascuno pensi come meglio crede.
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Per trattare dunque ordinatamente dell’intera questione, incomincio dalla definizione della fede, la quale, in base al fondamento da noi stabilito, va definita come niente altro se non l’avere di Dio tali nozioni che, ignorate, è tolta l’obbedienza verso Dio, e posta tale obbedienza sono necessariamente poste [...]. Per conseguenza, appartengono alla fede cattolica soltanto quei dogmi che l’obbedienza verso Dio pone senz’altro e ignorati i quali tale obbedienza è assolutamente impossibile. Intorno a tutti gli altri, ciascuno, conoscendo meglio se stesso, deve regolarsi nel modo che a lui sembra più opportuno per confermarsi nell’amore della giustizia1. E in questo modo credo che non sia lasciato alcun luogo a controversie nella Chiesa; né alcun timore mi trattiene ormai dall’elencare i dogmi della fede universale, ossia i princìpi fondamentali dello scopo dell’intera Scrittura, che (come segue nel modo più evidente da quanto abbiamo esposto in questi due capitoli) tendono tutti a questo: esiste un Ente supremo, che ama la giustizia e la carità e al quale tutti, per essere salvi, debbono obbedire e che tutti debbono adorare con il culto della giustizia e della carità verso il prossimo2. E in base a questo è possibile stabilire tutto il resto, che si riduce, in sostanza, ai seguenti punti: I) Esiste Dio, e cioè un ente supremo, sommamente giusto e misericordioso, o esemplare della vera vita; infatti, chi non sa o non crede che egli esista, non può a lui obbedire né riconoscerlo come giudice. II) Egli è unico. Che anche questo sia assolutamente richiesto alla suprema devozione, all’ammirazione e all’amore verso Dio, nessuno può dubitare, in quanto la devozione, l’ammirazione e l’amore non nascono che dall’eccellenza di uno solo sopra tutti gli altri.
1. La fede è conoscenza pratica, non
teoretica. Essa non riguarda la verità nei suoi aspetti scientifici o speculativi, come conoscenza adeguata (per esempio, che due più due fa quattro, o che Dio è sostanza infinita), ma quelle credenze senza le quali non è possibile avere un comportamento corretto nei confronti della divinità (per esempio,
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III) Dio è presente ovunque, ovvero, tutte le cose gli sono manifeste. Se le cose si ritenessero a lui nascoste o si ignorasse che egli vede tutto, si dubiterebbe dell’equità della giustizia con la quale egli dirige ogni cosa o non se ne avrebbe notizia. IV) Egli ha il diritto e il dominio supremo di ogni cosa, né egli fa qualcosa per costrizione di qualche legge, ma per suo assoluto beneplacito e in virtù di una sua grazia singolare. Tutti, infatti, sono assolutamente tenuti ad obbedirgli; egli invece a nessuno. V) Il culto di Dio e l’obbedienza a lui consistono nella sola giustizia e nella carità, ossia nell’amore verso il prossimo. VI) Soltanto coloro che obbediscono a Dio seguendo questa regola di vita sono salvi, mentre tutti gli altri, che vivono sotto il dominio delle passioni, sono perduti. Se gli uomini non credessero questo fermamente, non avrebbero alcun altro motivo per preferire di obbedire a Dio piuttosto che alle passioni. VII) Infine, Dio perdona i peccati a coloro che ne sono pentiti. Infatti, nessuno vi è che non pecchi, e se non si stabilisse questo principio, tutti dispererebbero della loro salvezza, né avrebbero alcun motivo di credere nella misericordia di Dio; mentre colui che crede questo fermamente, e cioè che Dio per la misericordia e per la grazia con cui dirige ogni cosa perdona i peccati degli uomini, e che per questa ragione si accende maggiormente d’amore verso Dio, questi realmente conobbe il Cristo secondo lo spirito, e il Cristo è in lui. Nessuno può ignorare che tutti questi dogmi debbono essere necessariamente conosciuti, affinché tutti gli uomini, nessuno escluso, possano obbedire a Dio secondo le prescrizioni della legge che abbiamo sopra illustrato. Infatti, se se ne toglie qualcuno, si toglie anche l’obbedienza3. D’altra par-
che Dio esiste e che l’uomo dipende da lui). 2. Il tentativo di ritrovare nella Scrittura un nucleo essenziale di credenze comuni a tutte le religioni – costituenti pertanto una sorta di religione universale inscritta nella stessa natura e ragione umana – caratterizza la tradizione umanistica, da Erasmo in poi, con il
suo impegno in favore della tolleranza religiosa. Con questa tradizione Spinoza si riconnette almeno idealmente. 3. Spinoza ritiene ovviamente che gli enunciati teoretici della sua filosofia non siano in contraddizione con queste credenze pratiche, per quanto si collochino su un piano diverso (teoretico, appunto, e non pratico; filosofico e non
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te, che cosa sia Dio, ossia quell’esemplare della vera vita: se, cioè, sia fuoco o spirito o luce o pensiero4, ecc., tutto questo non interessa la fede, come non la interessa nemmeno la ricerca del motivo per cui egli sia l’esemplare della vera vita, se, cioè, perché abbia un animo giusto e misericordioso o perché ogni cosa sia e operi per esso, e di conseguenza anche noi per esso intendiamo e per esso conosciamo ciò che è vero, giusto e buono. Comunque ciascuno la pensi intorno a queste questioni, è lo stesso. Inoltre, non interessa affatto la fede il credere che Dio sia ovunque secondo la sua essenza piuttosto che secondo la sua potenza5, che egli diriga ogni cosa secondo la libertà piuttosto che secondo la necessità della sua natura6, che prescriva le leggi a guisa di un sovrano o le insegni come verità eterne7, che l’uomo obbedisca a Dio con libertà di arbitrio o per la necessità del divino decreto; che, infine, il premio dei buoni e il castigo dei cattivi siano di ordine naturale o soprannaturale8. Queste e simili cose, dico, non hanno alcuna importanza riguardo la fede, comunque ciascuno le intenda; purché la sua intenzione non sia di trarne incentivo ad una maggiore licenza di peccare o a diminuire la sua obbedienza verso Dio. Ciascuno, anzi, come già abbiamo detto, deve adattare alla propria intelligenza questi dogmi della fede e inter-
religioso). Si noti infatti la compatibilità tra i sette dogmi qui elencati e le seguenti affermazioni di Spinoza: I) Dio esiste perché coincide con la sostanza; II) è unico perché la sostanza è unica; III) è presente ovunque perché è in tutte le cose che derivano da lui; IV) è causa libera di ogni cosa; V) per l’uomo nulla è più adatto al godimento della vita razionale – e quindi all’avvicinamento all’amore intellettuale di Dio – che la concordia con gli altri uomini e, di conseguenza, la giustizia e l’amore reciproco; VI) soltanto chi vive secondo ragione non teme la morte e, nel caso pervenga all’amore intellettuale di Dio, raggiunge la beatitudine; VII) il pentimento è «tristezza accompagnata dall’idea d’un fatto che crediamo di aver compiuto per libero decreto della mente» (Ethica, parte III, Definizioni degli
pretarli nel modo in cui gli sembra di poterli più facilmente accettare senza alcuna esitazione e con piena adesione affinché conseguentemente obbedisca a Dio con pieno consenso dell’animo. A quel modo, infatti, che la fede, come pure già abbiamo avvertito, fu una volta rivelata e scritta in conformità all’intelligenza e alle opinioni dei profeti e del volgo di quel tempo, così ora ciascuno è tenuto ad adattarla alle proprie opinioni, in modo da poterla accettare senza alcuna resistenza da parte della mente e senza alcuna esitazione [...]. Resta infine da dimostrare come tra la fede, o teologia, e la filosofia non esista alcun rapporto né alcuna affinità, cosa che non può ignorare chiunque conosca il fondamento e lo scopo di queste due facoltà, che sono tra loro assolutamente diverse. Lo scopo della filosofia infatti non è altro che la verità9; mentre quello della fede, come abbiamo abbondantemente dimostrato, è soltanto l’obbedienza e la pietà. I fondamenti della filosofia, poi, sono le nozioni comuni, sicché essa deve essere attinta alla sola natura; mentre i fondamenti della fede sono i racconti e la lingua, ed essa deve essere ricavata soltanto dalla Scrittura e dalla rivelazione, come abbiamo dimostrato nel capitolo VII. La fede, dunque, concede a ciascuno somma libertà di filosofare e di professare senza colpa le opinioni che vuole intorno ad ogni cosa,
affetti, XXVII): quando l’uomo capisce che tutto deriva necessariamente da Dio e che egli non ha compiuto nulla liberamente, il pentimento scompare automaticamente e l’uomo si sente giustificato da Dio. 4. «Fuoco» secondo la definizione di Mosè, «spirito» secondo Paolo, «luce» secondo Giovanni, «pensiero» o, meglio, «pensiero del pensiero», secondo Aristotele. 5. Spinoza sceglie la prima possibilità: i modi sono determinazioni degli attributi, che ineriscono all’essenza di Dio. 6. La libertà di Dio, come si è già ricordato, coincide per Spinoza nella necessità della sua natura. 7. La seconda soluzione è quella spinoziana: le leggi della realtà sono quelle che derivano dall’essenza eterna e necessaria di Dio. Di conseguenza, anche
l’alternativa successiva è risolta a favore della necessità. 8. È ovvio che per Spinoza premio e castigo sono di ordine naturale, consistendo nella perfezione o nell’imperfezione, cioè nell’accrescimento o nell’indebolimento del proprio essere, che l’uomo consegue vivendo o non vivendo secondo ragione. 9. Qui si intende ovviamente la verità teoretica in contrapposizione a quella pratica, non già la verità in contrapposizione alla non-verità. Anche la fede ha per oggetto verità, le quali tuttavia hanno rilevanza soltanto nell’ambito dell’azione religiosa, dell’obbedienza a Dio, mentre dal punto di vista filosofico non corrispondono ancora a una forma adeguata di conoscenza.
i testi
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condannando essa come eretici e scismatici soltanto coloro che insegnano dottrine atte a suscitare ribellione, odio, discordia e ira, e considerando invece come fedeli soltanto quelli che, in proporzione alla forza della loro ragione e alle proprie facoltà, diffondono la giustizia e la carità.
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8. spinoza
GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali sono, secondo Spinoza, i «dogmi della fede universale»? 2. Su che cosa si basa la differenza tra «filosofia» e «fede»? 3. Perché deve essere tollerata la diversità di fedi religiose?
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esercizi/8 CHE COSA SO?
10. Perché il processo di conoscenza è un percorso di progressiva «emendazione dell’intelletto»?
Guida allo studio del manuale
11. Perché Spinoza critica i pregiudizi finalistici dell’uomo?
1. Evidenzia qual è lo scopo della filosofia, per Spinoza. 2. Evidenzia le motivazioni che spingono Spinoza a scegliere la forma espositiva del trattato geometricomatematico. 3. Evidenzia perché, secondo Spinoza, la sostanza è infinita.
12. In che cosa consiste, per Spinoza, l’errore? 13. Perché, secondo Spinoza, Dio e natura coincidono? 14. Perché il grado più elevato di conoscenza è la visione sub specie aeternitatis?
4. Evidenzia i termini della critica al finalismo e della concezione antropomorfica di Dio.
15. Con quali argomenti Spinoza sostiene la sua preferenza della democrazia alle altre forme di governo?
5. Evidenzia le argomentazioni con cui Spinoza sostiene la perfetta corrispondenza fra l’ordine della conoscenza e quello della realtà.
Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe)
6. Evidenzia qual è, secondo Spinoza, l’appetito fondamentale dell’uomo. 7. Evidenzia le analogie e le differenze tra Hobbes e Spinoza in relazione alla nozione di stato di natura. Dizionario filosofico 8. Definisci i seguenti concetti: sostanza • attributo • modo • natura naturata e natura naturante • affetto • amore intellettuale di Dio
CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe)
16. Quali sono i gradi della conoscenza per Spinoza nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto? E nell’Ethica? 17. Ricostruisci la teoria spinoziana degli affetti. 18. In che modo le passioni possono trasformarsi in azioni? 19. Perché il grado più elevato dell’etica è «l’amore intellettuale di Dio»? 20. Come affronta Spinoza il problema del rapporto mente-corpo? 21. Ricostruisci il pensiero di Spinoza in ordine al rapporto fra religione e filosofia e confrontalo con quanto sostenuto da Galilei. 22. Confronta le concezioni di Hobbes e Spinoza relativamente al ruolo che essi attribuiscono allo Stato.
9. Perché la filosofia è fondamentalmente «ricerca di Dio»?
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sussistenti di per sé (ad esempio una donna); c) le idee di relazione nascono dal confronto di un’idea con un’altra (ad esempio causaeffetto). origine del linguaggio e comunicazione delle idee
Le idee sono comunicabili agli altri mediante il linguaggio, che è un insieme di «segni di idee» convenzionali. Molti termini del linguaggio esprimono idee generali, ovvero insiemi di qualità che le cose hanno in comune con altre. Il passaggio dall’idea particolare all’idea generale – e quindi ai nomi comuni – è frutto del procedimento di astrazione, una delle attività specifiche dell’intelletto. le tre forme della conoscenza
9. locke i contenuti tra razionalismo ed empirismo
La filosofia di John Locke non si contrappone al razionalismo di Cartesio, ma realizza la convergenza di ragione ed esperienza. Per Locke, la ragione è condizionata dall’esperienza, da cui deriva il materiale della conoscenza. In tal senso, essa è limitata nei suoi poteri conoscitivi. Tuttavia, proprio in virtù del suo contatto con l’esperienza, la ragione può esercitare una funzione critica nell’ambito dell’agire pratico, della politica e della vita religiosa. le fonti della conoscenza
La conoscenza umana trae il suo materiale – ossia le idee della
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mente – interamente dall’esperienza, che ha due fonti: a) la sensazione, per le idee che provengono dagli oggetti esterni; b) la riflessione, per le idee relative alle operazioni interne della mente. Secondo Locke, dunque, non esistono idee innate. la classificazione delle idee
Le idee che provengono direttamente dalla sensibilità – rispetto alle quali l’uomo è passivo – sono semplici, cioè non ulteriormente scomponibili. Le idee semplici vengono successivamente composte dall’intelletto – che è una facoltà attiva – in idee complesse. Queste ultime possono essere di tre tipi: a) le idee di modo indicano qualità che non sussistono di per sé (ad esempio la bellezza), ma si devono appoggiare a un’idea di sostanza; b) le idee di sostanza indicano invece realtà
La conoscenza è la percezione dell’accordo o del disaccordo tra idee. L’accordo o disaccordo può essere colto immediatamente attraverso l’intuizione oppure discorsivamente con la dimostrazione. Poiché la conoscenza riguarda le idee – non le cose – rimane aperto il problema (come in Cartesio) della corrispondenza tra idee e cose. L’esistenza dell’io è data da un’intuizione; quella di Dio è conosciuta per dimostrazione; mentre l’esistenza delle cose esterne è certa solo nel momento della percezione sensibile attuale. Quando questa percezione non è più presente, si passa dalla certezza alla probabilità, che ha diversi gradi a seconda della sua prossimità con le condizioni della conoscenza certa. diritti naturali e patto sociale
Anche Locke – come Hobbes e gli altri giusnaturalisti – distingue tra stato di natura e stato civile. Nello stato di natura vige la legge naturale, che riconosce a ciascun individuo tre diritti fondamentali e inalienabili: la vita, la libertà e la proprietà. Secondo Locke, dunque, lo stato di natura di per sé non è
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uno stato di guerra, ma di pace. Nello stato di natura, tuttavia, manca un potere superiore agli individui. Ciò comporta che non vi sia alcuna garanzia del diritto e che, di fatto, le sue infrazioni siano continue. Occorre, dunque, entrare nella società civile con un patto sociale. la concezione dello stato
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non cedono al sovrano i loro diritti naturali, ma solo il loro diritto a farsi giustizia da sé. Secondo Locke, dunque, il sovrano non è assoluto, ma vincolato a garantire i diritti individuali fondamentali. Quando questo non avvenga, i cittadini hanno diritto di resistenza. Il pensiero politico di Locke sarà un modello per il successivo liberalismo.
religione e tolleranza
Per quanto riguarda i rapporti tra Stato e Chiesa, Locke ritiene che essi siano due associazioni con fini diversi e che debbano essere nettamente separati. Chi viene espulso dalla Chiesa non perde, pertanto, alcun diritto civile. In tal senso, Locke è fautore del principio della tolleranza.
In questo passaggio gli individui
gli strumenti in poche… parole innatismo / idea / idea di sostanza / astrazione / tre forme della conoscenza / stato di natura / patto sociale / liberalismo / tolleranza
approfondimento
i testi a. nel manuale t26 Locke/L’esperienza come limite del conoscere t27 Locke/La critica della sostanza t28 Locke/Stato di natura e stato di guerra
b. on-line Locke/La critica dell’innatismo Locke/Idee semplici e idee complesse Locke/Intuizione e dimostrazione Locke/Il potere legislativo Locke/Stato e Chiesa
Locke tra empirismo e razionalismo
esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?
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1. Vita e opere il contesto storico e sociale
Anche la vita di John Locke – come quella di Hobbes – fu segnata dalle vicissitudini che travagliarono la vita politica inglese nel Seicento. Più giovane di Hobbes di oltre quarant’anni, Locke ebbe modo di assistere sia alla prima Rivoluzione inglese, con la decapitazione di Carlo I Stuart e l’instaurazione del governo repubblicano di Cromwell (1649), sia alla restaurazione monarchica di Carlo II (1658), sia alla seconda Rivoluzione che portò all’unificazione delle corone d’Inghilterra e dei Paesi Bassi nella persona di Guglielmo di Orange (1688). Nella formazione delle sue convinzioni politiche, tuttavia, Locke percorse strade del tutto divergenti da quelle imboccate da Hobbes. Proveniente da una famiglia puritana, egli rimase infatti fedele per tutta la vita a un programma politico improntato ai valori della libertà e della tolleranza.
in viaggio per l’europa
Nato a Wrington (Bristol) nel 1632 (lo stesso anno in cui nacque Spinoza), Locke studia filosofia e medicina al prestigioso Christ Church College di Oxford. Nel 1668 viene nominato membro della Royal Society. Da quando diviene segretario personale di Ashley Cooper conte di Shaftesbury (1667), la sua vita è in gran parte legata alle alterne fortune del suo protettore. Stabilitosi a Londra nell’elegante residenza dei Cooper (Exeter House), egli è costretto a trasferirsi a lungo in Francia dopo che Shaftesbury perde la carica di cancelliere (1674). Tornato in Inghilterra (1679), Locke riprende la sua frequentazione di Exeter House. In seguito all’esilio di lord Ashley – colpevole di aver cospirato contro il tentativo di restaurazione assolutistico-cattolica di Carlo II – Locke preferisce rifugiarsi prima a Oxford, poi in Olanda. Qui si mette in contatto con l’ambiente liberale di Guglielmo di Orange e, quando questi diventa re d’Inghilterra, torna a Londra (1689). Non soddisfatto neppure dal nuovo governo, Locke – pur conservando qualche incarico amministrativo – preferisce appartarsi nel castello di Oates nell’Essex (1691). Qui muore nel 1704.
opere gnoseologiche e politiche
L’opera principale di Locke è il Saggio sull’intelligenza umana. Il Saggio – pubblicato nel 1690 – è il risultato di una lunga elaborazione teorica, che trova espressione nel I Abbozzo (i cui primi appunti risalgono al 1661) e nel II Abbozzo (1671). I due Abbozzi rappresentano tappe di un’unica evoluzione di pensiero: il loro contenuto, infatti, è analogo a quello del Saggio (4 libri) – con l’eccezione del quarto libro, interamente nuovo. Ciononostante, i due Abbozzi presentano anche una loro autonomia e una loro specificità, dovute al fatto che l’orizzonte culturale di Locke cambia nel passaggio da essi all’opera definitiva. Nei primi si risente soprattutto l’influenza dell’ambiente inglese, mentre nel Saggio Locke si avvale della conoscenza della filosofia francese – soprattutto cartesiana – acquisita durante il suo soggiorno nel Continente. Nello stesso anno in cui compare il Saggio, Locke pubblica anche la sua maggiore opera politica, i Due trattati sul governo. L’anno precedente era uscita la Epistula de tolerantia: si tratta dell’unica opera importante di Locke scritta in latino. Il filosofo era, infatti, solito scrivere in inglese, in uno stile
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semplice e lineare, in modo che la sua filosofia – ed è questo un carattere che egli ha in comune con l’Illuminismo – non fosse rivolta soltanto agli accademici, ma raggiungesse i più larghi strati della borghesia colta. Altre opere rilevanti sono i Pensieri sull’educazione (1693), nei quali Locke prospetta un ideale pedagogico che rispetti l’unità tra mente e corpo; il Saggio sulla ragionevolezza del cristianesimo (1695); la Guida dell’intelletto (pubblicata postuma), che probabilmente assumeva a modello il Discorso sul metodo di Cartesio.
altre opere
2. Le fonti della conoscenza Nell’«Epistola al Lettore» che introduce il Saggio sull’intelligenza umana, Locke fornisce un’importante informazione sull’origine della sua opera. Ecco il suo racconto: «Cinque o sei amici miei, essendosi riuniti in casa mia, ed essendo venuti a discorrere attorno a un argomento ben diverso da quello che io tratto in quest’opera, ben presto si trovarono a un punto morto per le difficoltà che sorsero da ogni parte». Uno degli amici che parteciparono a quella riunione ci informa che il tema di discussione era costituito dai «princìpi della morale e della religione rivelata». Si discuteva dunque di un argomento di filosofia pratica, che stava molto a cuore a Locke e al suo ambiente culturale. Tuttavia non si riuscì a concludere nulla per il fatto che – come ci dice Locke stesso subito dopo – «eravamo su una strada sbagliata e, prima di impegnarci in ricerche di quel genere, era necessario esaminare le nostre stesse capacità, e vedere quali oggetti siano alla portata della nostra intelligenza, e quali invece siano superiori alla nostra comprensione». Detto in altri termini, occorreva definire con esattezza i limiti della conoscenza umana.
l’esame dell’intelligenza umana
Per condurre questa indagine, Locke scrive il Saggio. E poiché l’esame della conoscenza umana deve cominciare dal problema della sua origine, egli dedica il primo libro di quest’opera a una rigorosa analisi e critica dell’ innatismo . I sostenitori dell’esistenza di idee innate affermavano l’esistenza di verità fondamentali che riscuotono necessariamente il consenso di tutti gli uomini. In realtà – controbatte Locke – questo consenso non esiste affatto. Se consideriamo ad esempio i princìpi teoretici che pretendono di essere innati (ad esempio, il principio del terzo escluso: «è impossibile che una cosa sia e non sia allo stesso tempo»), vediamo che i bambini e gli idioti non ne sono affatto in possesso. Allo stesso modo, la storia dell’umanità e i resoconti degli esploratori di terre lontane mostrano come non esista nessuna regola comportamentale – o principio pratico – che non sia ignorata o infranta da qualche parte del mondo. Anzi, cose che in un luogo sono ritenute abominevoli, altrove sono considerate come altamente meritevoli .
non esistono princìpi teoretici e morali innati
Se non può scaturire da nozioni presenti in noi sin dalla nascita, da dove proviene dunque la conoscenza? A questo punto la risposta è obbligata. Se-
l’origine delle idee
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condo Locke, ogni nostra rappresentazione mentale – ovvero ogni idea – deriva necessariamente dall’esperienza: Supponiamo dunque che la mente sia quel che si chiama un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea. In che modo giungerà essa a ricevere idee? Donde e come ne acquista quella quantità prodigiosa che l’immaginazione dell’uomo, sempre all’opera e senza limiti, le offre con una varietà quasi infinita? Donde ho tratto tutti questi materiali della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. È questo il fondamento di tutte le nostre conoscenze; da qui esse traggono la loro prima origine (Saggio sull’intelligenza umana, libro II, cap. I).
L’esperienza, secondo Locke, si presenta sotto due forme. 1. Da un lato, essa è sensazione e ci fornisce le idee che provengono dagli oggetti esterni attraverso i cinque sensi. 2. Dall’altro, l’esperienza è riflessione e sta invece all’origine delle idee relative alle operazioni interne alla mente, compresi gli stati d’animo e le passioni. Sensazione e riflessione sono le due sole fonti della nostra conoscenza: ogni sapere che pretenda di avere un’origine diversa è, dunque, privo di fondamento [t26].
APPROFONDIMENTO
Locke tra empirismo e razionalismo
L’esperienza gioca un ruolo centrale nella teoria lockeiana della conoscenza. Ora, numerosi manuali di storia della filosofia – richiamandosi a una tradizione interpretativa risalente con ogni probabilità a Hegel – tendono a contrapporre rigidamente la gnoseologia lockeiana – etichettata come empiristica – al razionalismo di Cartesio, di Spinoza e di Leibniz. Ma le cose stanno davvero così? In primo luogo, occorre ricordare che l’empirismo di Locke – pur introducendo incisivi elementi di novità – è fortemente debitore nei confronti della precedente tradizione empiristica inglese (soprattutto di Bacone e di Hobbes), nella quale il richiamo all’esperienza non andava a scapito delle esigenze della ragione. Dunque, 194
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anche in Locke empirismo e razionalismo sono strettamente congiunti in un’unica soluzione filosofica. In secondo luogo, occorre sottolineare come il parziale anticartesianesimo di Locke consista non tanto nel contrapporre l’esperienza alla ragione, quanto nel tentare di fondere insieme ragione ed esperienza. Se per Cartesio l’esperienza non aveva alcun ruolo nella definizione del concetto di ragione e svolgeva una funzione secondaria nel processo conoscitivo, in Locke essa diventa fondamentale per comprendere la natura della ragione e della conoscenza. La differenza tra la posizione lockeiana e quella cartesiana può essere sintetizzata come segue. Cartesio concepiva la ragione come
una facoltà conoscitiva assoluta, che trovava il suo fondamento nella res cogitans. Il processo conoscitivo era, dunque, determinato interamente dalle potenzialità insite nella ragione. Ciò vuol dire che esso si sviluppava interamente attraverso il procedimento intuitivo-deduttivo, proprio della ragione stessa. Per Locke, invece, la ragione è una funzione conoscitiva e argomentativa che non può fare nulla senza il soccorso dell’esperienza. Da essa, infatti, dipende sia il materiale conoscitivo su cui la ragione può operare sia la verifica finale delle operazioni compiute dal soggetto conoscente. Secondo Locke, dunque, il problema fondamentale è quello di analizzare come l’esperienza condizioni le funzioni della ragione e quali siano i limiti della conoscenza umana.
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Il riconoscimento da parte di Locke della radice empirica della conoscenza comporta anche l’abbandono del primato gnoseologico della matematica. Per Cartesio la matematica – cioè il procedimento intuitivo-deduttivo – costituisce il modello metodologico di ogni sapere filosofico. Quest’ultimo deve, infatti, conseguire sempre l’evidenza e la certezza di una conoscenza scientifica oggettiva. Secondo Locke, invece, la ragione non procede da intuizioni evidenti, ma da idee di origine empirica. Per questo motivo, essa non può prefiggersi di ricondurre la filoso-
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fia alla scienza. Per Locke, il lavoro del filosofo consiste piuttosto nel confronto reciproco delle idee, nella loro valutazione ai fini della discussione e dell’argomentazione.
matematica e della natura), ma è chiamata a occuparsi anche di etica, politica e religione – ovvero di settori dell’esperienza umana che in Cartesio trovavano poco o nessuno spazio.
La principale conseguenza di questo diverso modo di intendere i rapporti tra ragione ed esperienza consiste nell’estensione dell’ambito di ricerca del filosofo a tutto ciò che è rappresentabile mediante idee, e quindi al mondo umano in generale. La ricerca filosofica infatti non deve limitarsi a ciò che può essere suscettibile di conoscenza scientifica (la sfera della
In tal modo, Locke estende all’ambito pratico quella funzione critica della ragione che Cartesio aveva confinato rigorosamente entro la sfera teoretica. Proprio per questo motivo, la filosofia illuministica del Settecento – che della funzione critica della ragione farà il suo cavallo di battaglia – ritroverà in Locke uno dei suoi autori preferiti.
3. La classificazione delle idee Dopo aver chiarito – nel secondo libro del Saggio – l’origine delle nostre conoscenze, Locke procede alla distinzione dei diversi tipi di idee. La divisione fondamentale è quella tra idee semplici e idee complesse. Le idee semplici sono quelle che l’intelletto riceve, del tutto passivamente, dalla sensazione o dalla riflessione. Come dice il loro nome, esse non sono ulteriormente scomponibili in altre idee . Le idee semplici che derivano dalla sensazione possono dipendere da un solo senso (come le qualità sensibili degli oggetti: liscio, bianco, freddo, ecc.), oppure da più sensi congiunti (come l’idea di movimento). Le idee semplici provenienti dalla riflessione (ovvero dal «senso interno») possono appartenere al gruppo delle operazioni del pensiero oppure a quello delle operazioni della volontà. Secondo Locke, anche lo spazio e la durata nel tempo sono idee semplici: lo spazio, infatti, è fornito immediatamente dalla sensazione che percepisce la distanza tra due punti; il tempo, invece, è fornito dalla riflessione che coglie la successione interna delle idee.
le idee semplici di sensazione e di riflessione
Nell’ambito delle idee semplici che provengono dalla sensazione, Locke riprende la distinzione – il cui principio è già presente in Galilei [cfr. 4.8] e in Cartesio [cfr. 5.8] – tra idee di qualità primarie e di qualità secondarie. Le prime sono quelle che ineriscono agli oggetti stessi (la solidità, l’estensione, il movimento, ecc.). Le seconde, invece, sono quelle che dipendono dalle condizioni soggettive della nostra sensibilità (i colori, gli odori, ecc.). Questa distinzione consente a Locke di fare un’importante affermazione sulla corrispondenza tra idee e oggetti reali: «Le idee delle qualità primarie dei corpi somigliano a queste qualità e gli esemplari di tali idee esistono realmente nei corpi stessi; ma le idee prodotte in noi dalle qualità secondarie
idee e cose si corrispondono?
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Locke Idee semplici e idee complesse
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non contengono nessuna somiglianza e non c’è nulla nei corpi stessi che abbia alcuna conformità con queste idee». Stando a quanto sostiene Locke, dunque, esistono idee che non escono dall’ambito del pensiero e altre che sono riproduzione fedele della realtà. Bisogna, tuttavia, osservare che questa distinzione è difficilmente spiegabile all’interno di una cornice concettuale come quella lockeiana. Come abbiamo visto, infatti, per Locke si ha sempre solo conoscenza di «idee» – ossia di rappresentazioni mentali derivate dall’esperienza – e mai di «cose». Per questa ragione, come avremo modo di spiegare più avanti, Berkeley non esiterà ad abolirla [cfr. 12.4]. definizione e classificazione delle idee complesse
Ma qual è la differenza tra le idee semplici e le idee complesse? Come abbiamo visto, le prime costituiscono il materiale della conoscenza, gli elementi fondamentali con cui si può costruire l’edificio del sapere. Le idee complesse, invece, derivano dalla combinazione di più idee semplici tra loro: Poiché si osserva che le idee semplici esistono unite insieme in numerose combinazioni, la mente ha il potere di considerarne parecchie, unite assieme a formare una sola idea; e questo, non soltanto quando sono unite negli oggetti esterni, ma anche là dove le ha congiunte essa stessa. Chiamo complesse le idee così composte di molte idee semplici messe assieme: – come ad esempio la bellezza, la gratitudine, un uomo, un esercito, l’universo; le quali, sebbene siano composte di varie idee semplici o di idee complesse che a loro volta si compongono di idee semplici tuttavia, quando la mente lo voglia, sono considerate ciascuna di per sé, come un tutto designato da un solo nome (Saggio sull’intelligenza umana, libro II).
Se nel ricevere le idee dall’esperienza l’intelletto è puramente passivo, nella rielaborazione delle idee semplici e nella loro composizione in idee complesse esso si rivela una facoltà conoscitiva attiva. All’interno delle idee complesse, Locke distingue poi tra le idee di modo, di sostanza e di relazione . idee di modo
Le idee di modo riguardano ciò che è percepito non come sussistente di per sé, ma come dipendente da una sostanza di cui è determinazione. Per esempio, l’idea della gratitudine o della bellezza non può esistere se non in dipendenza dall’idea di una persona che abbia la qualità di essere grata o bella. Nell’ambito delle idee di modo, inoltre, Locke distingue: a) i modi semplici, che risultano dalla ripetizione della stessa idea semplice (per esempio, la dozzina nasce dalla riproduzione della stessa idea per dodici volte); b) i modi misti, che sono composti di idee semplici di diverse specie (ad esempio, l’idea della bellezza consiste in una determinata combinazione di figure, colori, ecc.).
idee di sostanza
Le idee di sostanza riguardano ciò che è percepito come sussistente di per se stesso e a cui vengono riferite le qualità espresse dalle idee semplici (ad esempio un uomo, un cavallo, il mondo, la mente). Nell’ambito delle idee di sostanza Locke distingue: a) le sostanze singole (un uomo, una pecora); b) le sostanze collettive (un esercito di uomini, un gregge di pecore).
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Locke Idee semplici e idee complesse
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Ma la principale tra le idee di sostanza è l’ idea di sostanza stessa, alla quale Locke muove una critica che – ripresa più tardi da Hume e da Kant – costituisce uno dei contributi più originali del suo pensiero. Nella nostra esperienza quotidiana noi osserviamo che molte idee semplici si presentano costantemente unite tra loro, tanto da indurci a considerarle una sola idea semplice (per esempio il colore giallo, la luminosità, la relativa malleabilità si presentano costantemente in ciò che chiamiamo «oro»). Ma, come abbiamo visto, le idee semplici non possono sussistere di per sé, ma devono essere riferite agli oggetti di cui sono qualità. Per questo motivo, secondo Locke, siamo portati a presupporre l’esistenza di un fondamento oggettivo – da noi chiamato appunto sostanza – dell’idea semplice sotto cui si raccolgono tutte le altre. Di conseguenza, per sostanza si può intendere: a) etimologicamente, ciò che «sta sotto» (ad esempio, il «sostrato» che soggiace alle diverse qualità che costituiscono l’idea dell’oro); b) l’«essenza» che esprime l’intrinseca unità e interdipendenza di tali qualità. Ora, in un caso come nell’altro, la sostanza da noi presupposta è del tutto al di là delle nostre possibilità conoscitive [t27]. L’esperienza, infatti, non ci offre che singole idee semplici (non già l’oro, ma le singole qualità dell’oro).
la critica dell’idea di sostanza
Le idee di relazione nascono dal confronto di un’idea con un’altra. Tra le principali occorre ricordare le idee di causa-effetto e di identità.
idee di relazione
1. Secondo le parole di Locke: «Denotiamo con il nome generale di causa ciò che produce qualunque idea semplice o complessa, ed effetto ciò che ne è prodotto. Così, trovando che in quella sostanza che chiamiamo cera la fluidità, che è un’idea semplice che non era prima in essa, viene costantemente prodotta dall’applicazione di un certo grado di calore, diciamo che l’idea semplice di calore, in rapporto alla fluidità della cera, ne è la causa, e la fluidità è l’effetto». Dunque, il rapporto causa-effetto costituisce per Locke un fatto oggettivo, anche se non è possibile conoscerlo nella sua intrinseca natura. 2. L’idea di identità, in generale, esprime il rapporto di un oggetto con se stesso, considerato in luoghi o tempi diversi. Ora, tale rapporto caratterizza anche la vita interiore del soggetto pensante, il quale ha coscienza di essere sempre identico a sé malgrado i mutamenti spazio-temporali. Secondo Locke, non può essere la tradizionale categoria della sostanza a risolvere il problema dell’identità personale. Locke, infatti, riconosce alla memoria la funzione di assicurare la continuità dell’io con se stesso.
4. Il linguaggio Il terzo libro del Saggio riguarda il problema del linguaggio. Per Locke, la funzione principale del linguaggio consiste nel rendere le idee comunicabili agli altri. Le parole sono infatti «segni di idee che sono anche nella mente di altri uomini, con i quali si comunica». Ciò che rende oggettivo – e quindi comunicabile – il significato delle parole è il «tacito consenso» con cui, nell’uso comune, certi termini sono connessi costantemente con deter9. locke
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minate idee. In tal modo, quando un uomo pronuncia una certa parola di fronte a un altro, nella mente di quest’ultimo viene immediatamente suscitata l’idea pensata dal primo. In base a questa prospettiva, il linguaggio non ha un’origine naturale (cioè le parole non sono segni intrinseci alle cose), ma convenzionale. il linguaggio si fonda su idee generali
La maggior parte delle parole usate dall’uomo sono nomi comuni. Questi ultimi si riferiscono non a una sola cosa (come avviene nel caso dei nomi propri), ma a un gruppo di cose che possiedono tutte determinate qualità. L’insieme delle qualità che una cosa ha in comune con altre – ciò che Locke chiama «essenza nominale» – costituisce l’idea generale, ricavata dall’esperienza particolare attraverso un processo di astrazione . Il procedimento astrattivo consiste nel tralasciare ciò che di una certa cosa è determinato da condizioni contingenti (tempo, luogo, ecc.) e nel conservare solo ciò che è comune a tutta la categoria o specie cui la cosa particolare appartiene. Secondo Locke, pertanto, l’universale non esiste nella realtà (le cose sono sempre particolari), ma riguarda soltanto le idee generali (o astratte) e i nomi comuni che ne sono i segni. Accanto al convenzionalismo, il nominalismo è un assunto fondamentale della dottrina lockeiana del linguaggio, erede in ciò della tradizione occamistica ancora viva nella cultura inglese del tempo.
5. La teoria della conoscenza l’accordo o il contrasto tra le idee
Come abbiamo visto, le fonti della conoscenza umana sono la sensazione e la riflessione, mentre il suo contenuto è dato dalle idee semplici e dalla idee complesse (derivanti dalla combinazione delle prime). In che cosa consiste dunque la conoscenza secondo Locke? In un importante passaggio del Saggio sull’intelligenza umana, egli la definisce come «la percezione del legame e concordanza, o della discordanza e contrasto, tra idee». L’accordo – o il disaccordo – tra le idee può essere colto in due modi . 1. Attraverso l’intuizione: in questo caso, l’accordo o il disaccordo è percepito in virtù delle stesse idee da confrontare, senza introdurre altri elementi che possano dare luogo all’errore (ad esempio, il blu non è il giallo, il tutto è maggiore della parte) e la conoscenza è assolutamente certa. 2. Attraverso una dimostrazione, ossia ricorrendo a una serie di ragionamenti discorsivi: in questo caso, la concordanza o discordanza tra due idee – troppo lontane una dall’altra per essere confrontate immediatamente – può essere appurata soltanto inserendo tra di esse una o più idee intermedie (le cosiddette «prove»). La certezza di questo tipo di conoscenza dipende dal fatto che ciascun passaggio del ragionamento si basa sulla percezione immediata dell’accordo o del disaccordo tra le varie coppie di idee intermedie. In tal modo, un corretto procedimento dimostrativo si deve fondare – per Locke come già per Cartesio – sul carattere intuitivo di tutti i segmenti di cui si compone:
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Così, volendo la mente conoscere la concordanza o discordanza in grandezza fra i tre angoli di un triangolo e due retti, non può farlo mediante una visione immediata e un raffronto fra di esse: poiché i tre angoli di un triangolo non possono venir messi assieme nello stesso momento e confrontati con un altro angolo o con altri due angoli; ed è per questo che la mente non ha di ciò una conoscenza immediata o intuitiva. In questo caso la mente è portata a servirsi di certi altri angoli, ai quali i tre angoli di un triangolo sono eguali; e, trovando che quelli sono eguali a due retti, viene a conoscere anche l’eguaglianza a due retti dei tre angoli d’un triangolo. [...] Ora, in ogni passo che la ragione muove sulla via della conoscenza dimostrativa, c’è una conoscenza intuitiva di quella concordanza o discordanza, che essa va cercando, con la successiva idea intermedia che essa usa come prova: poiché, se non fosse così, questo passo avrebbe ancora bisogno di esser provato; poiché, senza la percezione di tale concordanza o discordanza, non viene prodotta nessuna conoscenza; e se essa è percepita di per se stessa, occorrerà una qualche altra idea intermedia, come misura comune a dimostrare la loro concordanza o discordanza. Dal che appare chiaro che ogni passo del ragionamento che produce conoscenza ha una certezza intuitiva; e quando la mente la percepisce, non v’è più bisogno d’altro che di ricordarla, a rendere visibile e certa la concordanza o discordanza fra le idee intorno alle quali andiamo facendo le indagini (Saggio sull’intelligenza umana, libro IV).
In base alla definizione che ne dà Locke, la conoscenza non ha per oggetto le cose, ma le idee. Occorre, pertanto, porsi il problema – anch’esso già cartesiano – della realtà degli oggetti di conoscenza. In altri termini, come si può dimostrare che le idee non siano puri enti mentali, ma corrispondano a oggetti realmente esistenti? In mancanza di tale garanzia, infatti, la conoscenza si ridurrebbe a una costruzione ideale e non toccherebbe l’ambito della realtà. La certezza di questo tipo di conoscenza, inoltre, sarebbe solo formale in quanto dipenderebbe esclusivamente dalla correttezza con cui si stabilisce l’accordo o il disaccordo reciproco delle idee.
la conoscenza è una costruzione artificiale?
Per risolvere il problema, Locke cerca di mostrare come a ogni ordine di oggetti conosciuti corrisponda una forma di conoscenza che ne coglie l’esistenza con certezza.
le tre forme della conoscenza
1. L’esistenza dell’io ci è data dall’intuizione: come già aveva detto Cartesio, io sono certo di esistere per il fatto stesso di pensare e di dubitare. 2. L’esistenza di Dio è invece attingibile mediante dimostrazioni: la ragione, infatti, mi insegna che il mondo non potrebbe esistere senza una causa eterna, intelligente e onnipotente. 3. Per quanto riguarda l’esistenza delle cose esterne, Locke introduce una terza forma di conoscenza: la percezione sensibile attuale. Grazie a essa, nell’attimo in cui percepisco le idee semplici – ossia il materiale della conoscenza – ho la coscienza vivissima, molto vicina all’atto intuitivo, della realtà oggettiva di ciò che percepisco. Ma, che cosa accade appena la percezione perde la sua attualità per entrare nella memoria? In altre parole, ho ragione di essere certo che il sole conti-
il mondo esterno e la conoscenza probabile
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nui a esistere, anche quando non l’ho più di fronte a me e posso soltanto ricordare di averne visto la luce e sentito il calore? In casi come questo, secondo Locke, si passa dalla certezza alla probabilità della conoscenza che si fonda prevalentemente sull’analogia (dal fatto che io penso induco l’esistenza di altri esseri pensanti) o sull’autorità (credo all’esistenza di Alessandro Magno perché è testimoniata dagli storici). L’ambito del probabile – all’interno del quale si distinguono ancora diversi gradi (l’esistenza delle cose esterne è più probabile di alcuni strani fenomeni di cui leggo in un racconto di viaggi) – è comunque sufficiente a garantire la possibilità di una prassi quotidiana. Se l’uomo non credesse all’esistenza della realtà che lo circonda, infatti, non potrebbe operare in essa. i gradi della conoscenza
Come abbiamo visto, intuizione, dimostrazione e percezione attuale esauriscono il campo della conoscenza certa. Ora, anche in questo ambito la certezza ha gradi diversi: soltanto nell’intuizione, infatti, essa è piena. La dimostrazione razionale è sicura solo in quanto è riconducibile all’intuizione; ma nel procedimento discorsivo ciò non è mai garantito e l’errore rimane sempre possibile. La conoscenza dei sensi, infine, pur spingendosi oltre la semplice probabilità, non raggiunge l’evidenza dei primi due livelli.
6. Diritti naturali e patto sociale i due trattati sul governo
Uno degli aspetti più importanti della filosofia di Locke è la riflessione sul diritto e sullo Stato. In essa Locke si confronta, come già aveva fatto Hobbes, con le grandi trasformazioni politiche che attraversano la storia inglese del Seicento. Il pensiero politico lockeiano è contenuto soprattutto nei due Trattati sul governo (1690).
contro l’assolutismo monarchico
Il primo di essi, di carattere esclusivamente polemico, si prefigge di confutare la tesi sostenuta da Robert Filmer (morto nel 1653) nel Patriarca, o il potere naturale dei re. In quest’opera Filmer difendeva la concezione assolutistica del potere monarchico, conferito direttamente da Dio ad Adamo e da questi trasmesso – per successione ereditaria – alle generazioni di sovrani che lo hanno seguito. Contro la tesi di Filmer Locke fa valere argomenti razionali che puntano a svelare errori e pregiudizi di tradizioni culturali comunemente accettate. In tal modo, egli mostra l’assurdità dell’assimilazione dell’autorità paterna (che Dio conferisce ad Adamo) a quella politica (che nasce da un patto reciproco tra gli uomini).
lo stato di natura è pacifico e ordinato
Il secondo Trattato contiene l’esposizione organica delle teorie politiche di Locke. Come già per Hobbes e per gli altri esponenti del giusnaturalismo – a cui anche Locke si riallaccia – il punto di partenza è la definizione dello stato di natura . Locke, tuttavia, prende le distanze dalla concezione hobbesiana dello stato di natura [cfr. 7.6] su due punti decisivi. 1. In primo luogo, nello stato di natura l’individuo non possiede un generico diritto su tutto, bensì tre diritti naturali specifici – alla vita, alla libertà e alla proprietà – che terminano là dove iniziano quelli degli altri.
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2. In secondo luogo, lo stato di natura non si configura come una condizione di disordine giuridico, in cui tutti possono pretendere tutto. Lo stato di natura teorizzato da Locke corrisponde invece a una situazione in cui a ciascuno tocca il suo, secondo l’ordinato disegno della legge naturale che scaturisce dalla ragione. Da questo punto di vista, lo stato di natura non è originariamente una condizione di guerra, ma uno stato di pace e di armonia. Nello stato di natura manca, tuttavia, un potere superiore che imponga il rispetto della legge naturale. Che cosa garantisce, dunque, la tutela effettiva del diritto? La legge di natura può infatti facilmente essere violata da chiunque non intenda sottomettersi alla disciplina della ragione. Per questo motivo – e in ciò Locke è pienamente concorde con Hobbes – bisogna uscire dallo stato di natura e costituire la società civile attraverso un patto sociale [t28]. Sul significato del patto sociale, Hobbes e Locke sono nuovamente in disaccordo. Per Hobbes – come abbiamo visto – il patto sociale equivaleva a una rinuncia, da parte dell’individuo, del proprio diritto naturale in favore del sovrano. Per Locke, invece, lo Stato ha lo scopo di conservare e di garantire con la forza i diritti naturali e inalienabili di ogni singolo cittadino. L’unico diritto a cui l’individuo rinuncia entrando nella società civile è quello di farsi giustizia da sé. Proprio la giustizia – ovvero la difesa dei diritti individuali – costituisce, infatti, il compito fondamentale dello Stato. Per Locke, dunque, il potere del sovrano non è assoluto – come per Hobbes – ma limitato alla funzione della tutela dei diritti dei cittadini.
il compito dello stato
Vi è un altro punto in cui la posizione di Hobbes e quella di Locke divergono. Per il primo, infatti, il contratto sociale si risolveva nel «patto di soggezione» con il quale gli individui cedevano incondizionatamente il loro diritto naturale al sovrano. Invece, per Locke – in ciò più fedele alla tradizione giusnaturalistica classica – il passaggio dallo stato di natura alla società civile avviene attraverso la sottoscrizione di due patti diversi, dei quali il primo si configura come condizione del secondo.
patto di unione e patto di soggezione sono distinti
1. Un «patto di unione», con cui la moltitudine degli individui si trasforma in un’unica respublica (commonwealth in inglese): la sua volontà unitaria è espressa dal principio della maggioranza. 2. Un «patto di soggezione», in cui i cittadini si sottomettono al sovrano a condizione che egli garantisca i loro diritti. Quando ciò non avvenga – o non avvenga più – gli individui possono recedere dal patto che non è stato rispettato dal sovrano. In tal modo, gli individui affermano il loro diritto di resistenza, ossia la facoltà di opporsi legittimamente con la forza al sovrano divenuto usurpatore.
7. Potere politico e liberalismo La riflessione politica di Locke si differenzia da quella di Hobbes non solo per la diversa definizione dello stato di natura e del patto sociale, ma anche per la diversa concezione del potere sovrano. Come sappiamo, l’assolutezza 9. locke
i poteri dello stato
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del potere politico si rispecchiava per Hobbes nella sua indivisibilità. Per Locke, invece, l’esercizio legittimo del potere – lo ripetiamo, in funzione della custodia dei diritti individuali – trova la propria garanzia nella separazione dei poteri che concorrono alla vita dello Stato. Locke distingue, a questo riguardo, tre poteri: a) il legislativo, che esprime nella legge la volontà della maggioranza ; b) l’esecutivo, che risiede nel governo e ha il compito di far eseguire la legge; c) il federativo, che ha per così dire la funzione diplomatica di rappresentare lo Stato all’estero. Ma, come sono articolati tra loro questi poteri? Il potere federativo dipende legittimamente da quello esecutivo di cui è un’emanazione. Tra potere esecutivo e potere legislativo, invece, ci dev’essere un rapporto di separazione (sono detenuti da persone o corpi politici diversi) e di controllo reciproco (nessuno dei due è autosufficiente, ma ciascuno dei due condiziona ed è condizionato dall’altro). il liberalismo di locke e quello successivo
Riconoscimento del carattere naturale e inalienabile dei diritti dell’uomo; negazione di ogni forma di potere assoluto; affermazione del diritto di resistenza; formulazione della dottrina della separazione dei poteri: questi capisaldi del pensiero politico lockeiano diventano i princìpi fondamentali del liberalismo politico moderno, del quale Locke è generalmente considerato il fondatore. Questa attribuzione di paternità ideologica deve tuttavia tenere conto di una differenza. Il liberalismo successivo, infatti, radicalizzerà l’esigenza di limitare i poteri e le funzioni della società politica fino a elaborare una concezione puramente negativa dello Stato. In altre parole, di esso si sottolineerà soprattutto il dovere di non interferire con l’iniziativa privata. Dal canto suo, invece, Locke ha ben presente che lo Stato non è soltanto un meccanismo istituzionale per la garanzia dei diritti individuali, ma anche un corpo politico. Detto altrimenti, lo Stato è tale in quanto esprime – attraverso la voce della maggioranza – la totalità socio-politica dei suoi membri.
8. Religione e tolleranza
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le lotte di religione nel seicento
I grandi rivolgimenti politici che interessano l’Inghilterra del Seicento sono connessi – come si è già detto – a complesse lotte di religione. Per questa ragione, il problema della tolleranza religiosa occupa un posto di tutto rilievo nel pensiero di Locke. In tema di tolleranza egli giunge infatti a elaborare formulazioni teoriche che avranno una grande influenza sul pensiero successivo – in particolare illuministico – e che influenzeranno in modo permanente la mentalità e la cultura occidentale dei secoli a venire.
la religione come fatto di coscienza
La posizione di Locke sulla tolleranza non è stata, tuttavia, sempre la stessa. Nei primi scritti dedicati al problema – risalenti agli anni 1661-1662 e rimasti inediti – egli rivela più ostilità che favore nei confronti di un atteggiamento permissivo dello Stato in materia religiosa. La religione – egli osserva – si sviluppa nell’ambito della coscienza interiore. A suo avviso, dunque, il magistrato può intervenire nel determinare le manifestazioni esteriori 9. locke
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della vita religiosa del fedele – relative alla dimensione chiesastica e cultuale – senza per questo condizionarla. Prevale ancora in questi scritti la preoccupazione – di natura hobbesiana – per l’ordine pubblico, che sembra poter essere garantito soltanto attraverso il controllo della Chiesa da parte dello Stato.
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Ben diversa è la posizione assunta da Locke nel Saggio sulla tolleranza (1667). Qui viene chiaramente affermato che esistono alcune sfere di pensiero e di azione in cui l’individuo non deve subire alcuna limitazione da parte dello Stato. Non avendo alcun effetto sulla vita politica e sociale della nazione, infatti, le opinioni filosofiche e il culto divino non devono essere in alcun modo limitati o perseguitati da parte dello Stato. La piena giustificazione di questa posizione si ha, tuttavia, soltanto nell’Epistola sulla tolleranza (1689), opera destinata a diventare un termine di riferimento costante per i fautori della tolleranza dei secoli successivi. La modernità di questo scritto consiste nell’aver sancito la netta separazione tra Stato e Chiesa per quanto riguarda le finalità, le funzioni e i poteri che a essi rispettivamente competono . Lo Stato è un’associazione di individui che ha come scopo la tutela del diritto naturale alla vita, alla libertà e alla proprietà. Esso non può dunque intervenire con la costrizione in questioni che – come quelle religiose – non hanno alcuna attinenza con la difesa di quei diritti, a meno che esse non comportino pratiche nocive per la salute sociale o l’integrità dello Stato stesso:
libertà di culto e di fede religiosa
Mi sembra che lo Stato sia una società di uomini costituita per conservare e promuovere soltanto i beni civili. Chiamo beni civili la vita, la libertà, l’integrità del corpo, la sua immunità dal dolore, i possessi delle cose esterne, come la terra, il denaro, le suppellettili, ecc. È compito del magistrato civile conservare in buono stato a tutto il popolo, preso collettivamente, e a ciascuno preso singolarmente, la giusta proprietà di queste cose, che concernono questa vita, con leggi imposte a tutti nello stesso modo. [...] Quanto diremo dimostrerà, mi pare, che tutta la giurisdizione del magistrato concerne soltanto questi beni civili, e che tutto il diritto e la sovranità del potere civile sono limitati e circoscritti alla cura e promozione di questi soli beni; e che essi non devono né possono in alcun modo estendersi alla salvezza delle anime (Lettera sulla tolleranza).
Per questo, Locke esclude dal diritto alla tolleranza due categorie di persone: a) i cattolici, perché obbediscono a un’autorità politico-religiosa che è a sua volta intollerante; b) gli atei, perché per essi non esiste alcunché di sacro e non possono pertanto dare alcuna garanzia sui patti e sui giuramenti che assicurano la coesione dello Stato e l’armonia della società. Ai nostri occhi, ovviamente, questa duplice esclusione non è certo da poco, ma può essere compresa tenendo conto delle particolari condizioni storico-politiche in cui Locke vive.
limitazioni del diritto alla tolleranza
Sempre secondo l’Epistola, la Chiesa è un’associazione intesa a procurare ai propri membri la salvezza dell’anima. Ora, l’adesione a essa dipende esclu-
il compito della chiesa
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a Locke Il potere legislativo b Locke Stato e Chiesa
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sivamente dalle convinzioni interiori del credente e non può in nessun modo essere indotta con la forza. In altre parole, il sacerdote non può richiedere l’intervento del magistrato per realizzare con la costrizione ciò che non riesce a ottenere con le armi della parola e della convinzione. Dal canto suo, la Chiesa può legittimamente scomunicare coloro che non condividono i dogmi e i riti che essa propone come mezzi di salvezza. Lo scomunicato, tuttavia, non deve perdere i diritti civili di cui gode come membro dello Stato: Nessuna Chiesa è tenuta, in nome della tolleranza, a mantenere nel suo seno chi, pur ammonito, si ostina a peccare contro le leggi stabilite in quella società. Infatti se si permettesse di violare impunemente quelle leggi, la società si scioglierebbe, dal momento che esse sono le condizioni di sussistenza della comunità e l’unico vincolo della società. Tuttavia bisogna badare che al decreto di scomunica non si accompagni insulto verbale o violenza di fatto, che procuri in qualsiasi modo un danno al corpo o ai beni di colui che è cacciato. Infatti tutta la forza (come si è detto) appartiene al magistrato e a nessun privato è lecito farne uso, se non per respingere la forza usata contro di lui. La scomunica non priva e non può privare lo scomunicato di nessuno dei beni civili o dei beni che egli possedeva privatamente: essi sono tutti inerenti alla sua condizione civile e sono sottoposti alla tutela del magistrato (Lettera sulla tolleranza). razionalità e rivelazione cristiana
La difesa lockeiana della tolleranza trova il proprio complemento nello scritto sulla Ragionevolezza del cristianesimo (1695), dove essa è riconsiderata alla luce del più vasto problema del rapporto tra religione e ragione. Ridotto alla sua struttura essenziale, il cristianesimo si limita alla fede nell’esistenza di Dio, al riconoscimento della funzione salvifica del Cristo come Messia e alla predicazione di alcuni insegnamenti morali fondamentali. Considerata sotto questa luce, la religione cristiana non solo non appare contraria alla ragione, ma rivela la sua intrinseca ragionevolezza. Secondo Locke, infatti, la religione non fa che attribuire la forza della Rivelazione a contenuti etico-religiosi altrimenti accessibili a tutti, con il solo ausilio della ragione.
differenti forme di deismo
Locke pone così le basi di quella tendenza a ricondurre la religione ai suoi fondamenti razionali, che prende il nome di deismo. Malgrado ciò, egli è ben lontano dalle radicalizzazioni dei deisti posteriori – così frequenti nella cultura illuministica – contraddistinti dal rifiuto di ogni forma di religione positiva (fondata sulla Rivelazione e sulla Scrittura) e dall’adesione a una religione puramente razionale o naturale. Per Locke razionalità e rivelazione vanno di pari passo nella religione cristiana. Proprio per questo motivo, l’adesione ai singoli credi o ai singoli riti delle varie sètte cristiane non può essere viziata dal fanatismo di chi crede di essere, egli solo, nella verità. Al contrario, essa dev’essere animata dallo spirito di tolleranza di chi si affida alla forza dell’argomentazione razionale.
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in poche... parole Secondo una tradizione interpretativa risalente a Hegel (17701831: cfr. cap. 18) John Locke viene considerato il padre dell’empirismo, e cioè di una teoria della conoscenza in base alla quale tutte le nostre idee derivano dall’esperienza (da quella esterna, chiamata sensazione, e da quella interna, chiamata riflessione). In tal senso, Locke e i filosofi empiristi vengono rigidamente contrapposti ai filosofi razionalisti, primo fra tutti Cartesio, che faceva dipendere l’intero processo conoscitivo dalle potenzialità della ragione (in particolare, da quella intuitiva). Pur riconoscendo un ruolo centrale all’esperienza, tuttavia, Locke attribuisce alla ragione un compito importante: quello di esaminare le fonti e i limiti della conoscenza umana. In questo quadro, il lavoro del filosofo consiste nel mostrare come la ragione e l’esperienza entrino in gioco in tutti i campi della vita umana, non soltanto nella sfera della conoscenza scientifica, ma anche nell’etica, nella politica e nella religione. In altri termini, la ragione è in grado di discutere correttamente del rapporto reciproco tra le idee (sia di quelle che attengono all’ambito teoretico, sia di quelle che riguardano la prassi umana) solo dopo avere preliminarmente individuato nell’esperienza la fonte di tutto il materiale conoscitivo. A questo proposito, afferma Locke nel Saggio sull’intelligenza umana (1690): «Se con questa indagine sulla natura dell’intelletto potrò scoprire quali siano i suoi poteri, fin dove si estendono, a quali cose siano in qualche grado proporzionati, e quando essi ci vengono meno, suppongo che si potrà utilmente convincere lo spirito affaccendato dell’uomo ad essere più cauto nell’immi-
schiarsi di cose che superano la sua comprensione».
innatismo Termine moderno per
indicare la concezione secondo la quale l’uomo possiede sin dalla nascita conoscenze o princìpi-guida della propria condotta, non acquisiti con l’esperienza. Malgrado la dottrina platonica delle idee sia stata a volte definita innatistica, l’innatismo trova la sua prima chiara formulazione in Cartesio e la sua prima chiara confutazione in Locke.
idea Locke continua a usare il ter-
mine «idea» nel significato cartesiano di oggetto immediato della mente. Secondo questa prospettiva, pensare significa pensare qualcosa, cioè avere idee. Ciononostante, Locke associa a questo significato di idea il presupposto empiristico per cui il contenuto delle idee deve provenire dall’esperienza. L’assunto che esista una realtà esterna da cui provengono le idee induce Locke ad accettare la distinzione tra qualità primarie (le caratteristiche realmente presenti nelle cose) e qualità secondarie (dovute alla percezione soggettiva). In questo modo egli presuppone che l’uomo possa in qualche modo confrontare l’idea – l’unico materiale conoscitivo fornito dall’esperienza – con qualcosa che va al di là di essa.
idea di sostanza Locke distin-
gue tra le singole idee di sostanza (uomo, cavallo, sedia) e l’idea di sostanza in generale (l’idea della sostanza). Mentre le prime rispondono a una legittima classificazione funzionale delle idee, la seconda indica qualcosa che va al di là di ogni esperienza. Non si può infatti pretendere di conoscere la sostanza come sostrato di accidenti (di qualità della cosa), perché noi conosciamo empiricamente soltanto le qualità delle cose (idee sempli-
ci: verde, marrone, solido, ecc.) che poi raccogliamo per comporre un’idea di sostanza (quest’albero). Che cosa soggiaccia a queste qualità cade al di là dell’esperienza ed è dunque inconoscibile (anche se Locke non ne nega l’esistenza). Altrettanto indimostrabile è l’altro modo di concepire la sostanza, come «essenza» in cui sono intrinsecamente contenute le qualità della cosa. Ancora una volta il carattere empirico della conoscenza impedisce di pensare un’«essenza reale», cioè realmente esistente. Essendo il frutto di un’astrazione, l’essenza è soltanto un’«essenza nominale», cioè una collezione di idee esistente solo nella mente del soggetto e dotata di una funzione puramente logica.
astrazione Consiste nella separazione di alcune idee dal contesto particolare in cui si presentano (ad esempio il giallo, il malleabile, il lucente da un pezzo di oro) e sta alla base della formazione delle idee generali (l’oro come idea distinta dai singoli oggetti aurei). È una delle tre attività fondamentali dell’intelletto (le altre due sono la composizione di idee semplici in complesse e la formazione di idee di relazione). Si tratta di un procedimento logico-mentale, che giustifica l’uso dei concetti e dei termini generali. tre forme della conoscenza Nel Saggio sull’intelligenza umana
Locke definisce la conoscenza come «la percezione del legame e concordanza, o della discordanza e contrasto, tra idee». La conoscenza, dunque, non ha per oggetto le cose, ma le idee. Occorre, allora, porsi il problema – che anche Cartesio aveva sollevato – dell’esistenza reale degli oggetti: in altre parole, per evitare di ridurre la conoscenza umana ad una costruzione puramente artificiale e illusoria, occorre chiedersi se alle idee, con9. locke
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tenute nella mente, corrispondano degli enti esistenti anche nella realtà. Per risolvere questo problema, Locke individua per ogni categoria di oggetti conosciuti una forma specifica di conoscenza che ne attesta l’esistenza con certezza. 1) L’esistenza dell’io ci è data dall’intuizione (alla certezza di pensare si accompagna necessariamente la certezza di esistere). 2) L’esistenza di Dio ci è data attraverso dimostrazioni, e cioè attraverso ragionamenti discorsivi (senza una causa dotata di tutte le perfezioni il mondo non potrebbe esistere). 3) L’esistenza delle cose esterne è attestata dalla percezione sensibile attuale (nel momento in cui percepisco le idee semplici, ho la certezza che esse derivino dalla realtà esterna e corrispondano ad essa). In quest’ultimo caso, la conoscenza del mondo esterno può dirsi certa soltanto nell’attualità della percezione sensibile; se invece riguarda cose percepite in precedenza, essa dipende dalla memoria ed è, quindi, solo probabile. La conoscenza probabile si basa sui princìpi di analogia e di autorità ed è, comunque, sufficiente a garantire la prassi quotidiana dell’uomo. Le tre forme di conoscenza che Locke ha individuato sono caratterizzate da diversi gradi di certezza: nel caso dell’intuizione, essa è piena; nel caso della dimostrazione, essa dipende dalla possibilità di ricondurre ogni singolo passaggio argomentativo all’intuizione; nel caso della percezione attuale, essa non potrà mai raggiungere l’evidenza delle prime due forme di conoscenza. Uno degli aspetti più importanti del pensiero di Locke è la riflessione sul diritto e sullo Stato. Nel suo pensiero politico, contenuto principalmente nei due Trattati sul governo, è possibile avvertire l’influenza delle grandi trasformazioni che attraversano l’Inghilterra del Seicento. Sul piano filosofico assai rilevante risulta il 206
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confronto con la concezione assolutistica dello Stato formulata da Hobbes e con la tradizione giusnaturalistica. Secondo Locke, il compito dello Stato è unicamente quello di salvaguardare gli inalienabili diritti naturali degli individui e il potere del sovrano non è assoluto. La sottomissione al sovrano è, secondo Locke, giustificata fintantoché egli tutela e garantisce questi diritti dei cittadini. Inoltre, mentre per Hobbes il potere del sovrano è unico e indivisibile, per Locke i poteri dello Stato legittimo si distinguono nel potere legislativo e in quello esecutivo, del quale ultimo è espressione anche il potere federativo. Il potere legislativo e quello esecutivo sono separati, cioè detenuti da soggetti diversi, che si controllano reciprocamente. Un posto di tutto rilievo, nel pensiero di Locke, è rappresentato infine dalla riflessione sul problema della tolleranza religiosa e dei rapporti tra Stato e Chiesa.
stato di natura Sia per Locke
che per Hobbes lo stato di natura indica la condizione nella quale vivono gli uomini prima di entrare nella società civile. Sulla definizione dello stato di natura, tuttavia, le posizioni di Hobbes e di Locke divergono in modo significativo. Per il primo, lo stato di natura equivale ad uno stato di guerra di tutti contro tutti (bellum omnium contra omnes), in cui ogni individuo detiene un diritto naturale su tutto (ius in omnia) che lo autorizza a servirsi di ogni mezzo – e dunque, anche della forza – per salvaguardare se stesso. Per Hobbes, ciò è dovuto sia alla scarsità di beni messi a disposizione dalla natura, sia al carattere spontaneamente egoista e aggressivo dell’uomo. Per Locke, invece, nello stato di natura l’uomo non detiene un generico diritto su tutto, ma tre diritti naturali inalienabili (alla vita, alla libertà, alla proprietà), che
terminano là dove iniziano quelli degli altri. Per Locke, dunque, lo stato di natura equivale ad uno stato di pace e di armonia, regolato dalla legge naturale che scaturisce dalla ragione presente in tutti gli uomini: essa prescrive ad ognuno di godere dei propri diritti inalienabili senza recare danno agli altri. Ora, Locke è consapevole che non tutti gli individui agiscono sempre secondo ragione: per questo lo stato di natura rischia continuamente di degenerare nello stato di guerra a causa di coloro che si lasciano guidare dalle passioni e dai loro interessi privati. Ma, una volta che ciò avvenga occasionalmente, lo stato di guerra continua a persistere. Per evitare ciò, è dunque necessario dare origine a un potere superiore che abbia la forza di punire coloro che si rifiutano di rispettare la legge naturale. A questo scopo, occorre uscire dallo stato di natura e costituire la società civile attraverso un patto sociale.
patto sociale Sia per Locke che
per Hobbes la società civile e lo Stato derivano da un patto sociale tra individui. Sul significato di quest’ultimo, tuttavia, le posizioni di Hobbes e di Locke sono assai divergenti. Per il primo, il patto sociale comporta la rinuncia da parte di ogni individuo al proprio diritto naturale su tutto e il trasferimento di esso ad una sola persona. Quest’ultima, entrando in possesso di una forza irresistibile, è in grado di impedire la guerra di tutti contro tutti e di garantire la sicurezza di ognuno. Per Hobbes, dunque, il potere del sovrano è assoluto: è l’unica persona che detiene il diritto naturale su tutto e beneficia del contratto senza essere coinvolto in esso. Per Locke, invece, il patto sociale non implica il trasferimento di tutti i propri diritti ad un’autorità sovrana, ma solo del diritto di interpretare individualmente la legge di natura e di farsi giustizia da sé. In altri termini, per Locke, il compito dello Stato è quello di ga-
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rantire con la forza il reciproco rispetto dei diritti naturali di tutti gli individui: essendo limitato ad una funzione di tutela, dunque, il potere del sovrano non è assoluto. Vi è un altro punto su cui la concezione del patto sociale di Locke è assai diversa da quella di Hobbes. Per quest’ultimo, il patto di unione (pactum unionis) si risolve nel patto di soggezione (pactum subjectionis): ciò equivale a dire che gli uomini formano una società politica solo perché rinunciano ai loro diritti naturali in favore del sovrano. Per Locke, invece, in accordo con la tradizione giusnaturalistica, la genesi della società civile dipende dalla stipulazione di due patti distinti, di cui il primo è la condizione del secondo: 1) il patto di unione, con cui una moltitudine di individui diviene una volontà politica unitaria, fondata sul principio della maggioranza; 2) il patto di soggezione, con cui i cittadini si sottomettono al sovrano solo a condizione che questi conservi e garantisca i loro diritti naturali. Qualora ciò non avvenga, gli individui possono legittimamente esercitare il loro diritto di resistenza e
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recedere dal patto di soggezione, senza per questo rompere il patto di unione e regredire allo stato di natura.
liberalismo Dottrina politica che
si propone di difendere la libertà all’interno dello Stato. Generalmente, almeno nella fase settecentesca del suo sviluppo (che si ispira all’insegnamento di Locke), il liberalismo ha come presupposti fondamentali l’individualismo e la limitazione dell’attività statale entro precisi confini.
tolleranza La riflessione di Locke
sulla tolleranza è connessa con le lotte di religione che dilaniano l’Inghilterra del Seicento. In un primo momento, Locke è convinto che la religione vada vissuta da ognuno nell’interiorità della propria coscienza. In questo quadro, la preoccupazione – di natura hobbesiana – per l’ordine pubblico giustifica il controllo della Chiesa da parte dello Stato. In una seconda fase, risalente alla Lettera sulla tolleranza (1689), Locke afferma invece la netta separazione di Stato e Chiesa. Più precisamente, lo
Stato è un’associazione di individui che ha lo scopo di tutelare i diritti naturali dell’uomo e, dunque, è tenuto ad intervenire solo in questioni che riguardano la difesa della vita, della proprietà e della libertà individuali. La Chiesa, invece, è un’associazione di fedeli che ha lo scopo di indicare ai propri membri la strada per ottenere la salvezza dell’anima. Essa non può in alcun modo ricorrere alla costrizione o alla forza (monopolio dello Stato legittimo) per imporre credenze che attengono esclusivamente alla coscienza privata di ognuno. La Chiesa può tuttavia legittimamente scomunicare coloro che non condividono i dogmi e i culti che propone: colui che viene allontanato da essa, però, non deve perdere i diritti civili di cui gode come cittadino dello Stato. Dal diritto alla tolleranza sono esclusi i cattolici, perché obbediscono ad un’autorità politico-religiosa intollerante, e gli atei. Questi ultimi, negando l’esistenza di alcunché di sacro, agli occhi di Locke, non sono in grado di mantenere i patti da cui hanno avuto origine lo Stato e la società civile.
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i testi t26 Locke / L’esperienza come limite del conoscere Locke
Saggio sull’intelligenza umana
libro II, cap. I
Nel Saggio sull’intelligenza umana (1690) Locke espone compiutamente la sua teoria della conoscenza. Sin dal primo libro egli difende il presupposto empiristico del suo pensiero, negando l’esistenza di idee innate . Il secondo libro, conseguentemente, si apre con l’affermazione che tutti i contenuti della mente – cioè, secondo un’impostazione ancora cartesiana, tutte le «idee» – derivano dalle due fonti possibili dell’esperienza: la sensazione esterna e la riflessione interna.
Supponiamo dunque che la mente sia quel che si chiama un foglio bianco, privo di ogni carattere, senza alcuna idea1. In che modo giungerà essa a ricevere idee? Donde e come ne acquista quella quantità prodigiosa che l’immaginazione dell’uomo, sempre all’opera e senza limiti, le offre con una varietà quasi infinita? Donde ho tratto tutti questi materiali della ragione e della conoscenza? Rispondo con una sola parola: dall’esperienza. È questo il fondamento di tutte le nostre conoscenze; da qui esse traggono la loro prima origine. Le osservazioni che facciamo sia intorno agli oggetti esteriori e sensibili, sia intorno alle operazioni interiori della nostra mente, che percepiamo e sulle quali noi stessi riflettiamo, forniscono la nostra intelligenza di tutti i materiali del pensiero. Sono queste le due sorgenti da cui discendono tutte le idee che abbiamo, o che possiamo avere naturalmente. E anzitutto, i nostri sensi, venendo in rapporto con particolari oggetti sensibili, ci fanno entrare nell’anima molte percezioni distinte delle cose, secondo le maniere diverse in cui tali oggetti agiscono sui nostri sensi. È così che acqui-
stiamo le nostre idee del bianco, del giallo, del caldo, del freddo, del duro, del molle, del dolce, dell’amaro, e di tutto ciò che chiamiamo qualità sensibili. Dico che i nostri sensi fanno entrare tutte queste idee nella mente, intendendo con ciò che, dagli oggetti esteriori, essi fanno passare nella mente ciò che vi produce queste percezioni. E poiché questa grande fonte della maggior parte delle idee che abbiamo dipende interamente dai nostri sensi, e si comunica all’intelligenza per mezzo loro, io la chiamo sensazione. L’altra sorgente da cui l’intelligenza viene a ricevere idee, attraverso l’esperienza, è la percezione delle operazioni che la nostra mente compie dentro di sé sulle idee che ha ricevute: operazioni che, diventando l’oggetto delle riflessioni dell’anima, forniscono all’intelligenza un’altra specie di idee, che gli oggetti esterni non le avrebbero potuto fornire: e tali sono le idee di percepire, pensare, dubitare, credere, ragionare, conoscere, volere, e tutte le diverse azioni della nostra mente; dell’esistenza delle quali essendo pienamente consapevoli, perché le troviamo in noi stessi, riceviamo per loro
1. In conseguenza del rifiuto di ogni forma di innatismo, la mente appare come una tabula rasa, pronta a ricevere tutto,
ma priva di alcuna informazione che non provenga dall’esterno.
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Locke La critica dell’innatismo
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mezzo nel nostro intelletto idee altrettanto distinte quanto quelle che sono prodotte in noi da corpi quando vengono a colpire i nostri sensi. Questa è una fonte di idee che ogni uomo ha interamente in sé; e sebbene questa facoltà non sia un senso, poiché non ha niente a che fare con gli oggetti esterni, essa vi si avvicina di molto, e non le converrebbe male il nome di senso interno. Ma, poiché l’altra sorgente delle nostre idee la chiamano sensazione, questa la chiamerò riflessione, poiché per suo mezzo la mente riceve soltanto le idee che essa acquista riflettendo entro se stessa sulle proprie operazioni2. [...] Non mi sembra che l’intelligenza abbia il minimo barlume di alcuna idea che non le provenga da una di queste due fonti. Gli oggetti ester2. Il termine «operazione» si riferisce,
quindi, a tutte le esperienze interne alla mente, sia che consistano in una vera e propria attività (come il pensare, il calcolare, il volere), sia che riflettano stati d’animo che presuppongono piuttosto una condizione di passività, in quanto in esse la mente subisce l’azione di un’idea (come la paura, la gioia).
ni forniscono alla mente le idee delle qualità sensibili, ossia tutte quelle diverse percezioni che tali qualità producono in noi; e la mente fornisce all’intelligenza le idee delle sue proprie operazioni3.
GUIDA ALLA LETTURA 1. Dividi il brano in paragrafi e assegna un titolo a ciascuno di essi. 2. Esperienza, sensazione, riflessione sono le parole-chiave del brano. Individuale e cerca di darne una definizione. 3. Ricostruisci la classificazione delle idee che Locke propone nel brano.
3. L’assunto fondamentale di Locke è dunque un empirismo radicale, che esclude ogni derivazione delle idee diversa dall’esperienza, per quanto lontane esse possano apparire da questa loro origine. «Tutti quei pensieri sublimi che si innalzano sopra le nuvole e penetrano fino ai cieli traggono di qui la loro origine e base; e in tutta quella
grande estensione che la mente percorre con le sue remote speculazioni, che sembrano portarla così in alto, essa non va mai un passo oltre le idee che la sensazione o la riflessione le offrono perché divengano oggetto della sua contemplazione».
t27 Locke / La critica della sostanza Locke
Saggio sull’intelligenza umana
libro II, cap. XXIII, §§ 1-3
La classificazione delle idee è effettuata da Locke nel libro II del Saggio sull’intelligenza umana, intitolato appunto «Delle idee». Alle idee complesse di sostanza sono dedicati i capp. XXIII e XXIV. All’inizio del primo di questi due capitoli Locke si pone il problema dell’idea della sostanza in generale. Qui discute la nozione di sostanza come sostrato. L’accezione della sostanza come essenza delle cose, con la relativa distinzione tra essenza nominale ed essenza reale, sarà invece condotta nel libro III, capitolo VI.
Poiché, come ho già spiegato, la mente è provvista di un gran numero di idee semplici, che le vengono recate dai sensi così come si trovano nelle cose esterne, o dalla riflessione sulle sue proprie operazioni, essa osserva altresì che
un certo numero di queste idee semplici vanno costantemente assieme; e poiché si presume che esse appartengano a una medesima cosa, e le parole sono adattate alla comune comprensione1, e di esse si fa uso per un rapi-
1. Cioè: da parte di tutti si fa uso della stessa parola per indicare una pluralità di cose simili.
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do scambio, queste idee, così riunite in un solo soggetto, vengono chiamate con un nome solo. Ma poi, per disattenzione, siamo portati a parlarne considerandola come una sola idea semplice, mentre invece si tratta di una complicazione di molte idee messe insieme. E questo, come ho già detto, perché non sappiamo immaginare in qual modo queste idee semplici possano sussistere da sole2, e pertanto ci abituiamo a supporre un qualche substratum nel quale esse effettivamente sussistano e di cui siano il risultato: e quello chiamiamo, perciò, sostanza. Per cui, se alcuno voglia consultare se stesso nei riguardi della sua nozione di una pura sostanza in generale, troverà che non ne possiede altra idea se non quella di una supposizione di un qualche sconosciuto sostegno di quelle qualità che sono capaci di produrre in noi idee semplici; qualità che vengono comunemente chiamate accidenti3. Se a qualcuno venisse domandato, quale sia il soggetto cui si trovano inerenti il colore o il peso, non avrebbe niente da dire se non che si tratta di parti inestese e solide; e se gli si domandasse a che cosa sia inerente questa solidità e questa estensione, egli non si troverebbe in una posizione molto migliore di quell’indiano già ricordato4 il quale, dopo che ebbe detto che il mondo è sostenuto da un grande elefante, si sentì chiedere su cosa poggiasse l’elefante; al che rispose: su una grande tartaruga dalla schiena così ampia, rispose: qualcosa che non sapeva che fosse. E così qui, come in tutti gli altri casi in cui usiamo
2. Perché le idee semplici esprimono non già cose, ma soltanto qualità delle cose. 3. Locke allude qui alla dottrina scolastica del rapporto sostanza-accidente. 4. Cfr. il seguente passo: «Coloro che per primi si sono imbattuti nel concetto di accidenti come una specie di esseri reali che avevano bisogno di qualcosa cui potessero essere inerenti furono costretti a trovare la parola sostanza come sostegno per tali accidenti. Se quel povero filosofo indiano, che immaginava che anche la terra avesse bisogno di qualcosa che la sostenesse,
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certe parole senza avere idee chiare e distinte, noi parliamo come fanciulli: i quali, richiesti di che mai sia una data cosa che non conoscono, prontamente dànno questa soddisfacente risposta, che è qualcosa: il che invero non significa altro, quando viene così usato, sia dai bambini sia dagli adulti, se non che ignorano di che si tratti; e che della cosa che pretendono di conoscere, e di parlare, essi non hanno la minima idea distinta, e perciò ne sono perfettamente ignoranti e all’oscuro. Dunque, l’idea che noi abbiamo, e cui diamo il nome generale di sostanza, non essendo altro che il presunto, ma ignoto, sostegno di quelle qualità che scopriamo esistenti, e che non immaginiamo possano sussitere sine re substante, senza qualcosa che le sorregga, quel sostegno lo chiamiamo substantia; che, secondo il valore effettivo della parola, in inglese comune significa star sotto o sostenere. Essendoci formata così un’idea oscura e relativa della sostanza in generale, veniamo a formarci le idee di particolari specie di sostanze, raccogliendo quelle combinazioni di idee semplici di cui, con l’esperienza e l’osservazione dei sensi umani, si nota che esistono assieme, e si suppone quindi che derivino dalla particolare costituzione interna, o sconosciuta essenza, di quella sostanza5. Così veniamo ad avere le idee di un uomo, un cavallo, l’oro, l’acqua, ecc.; e mi appello all’esperienza di ciascuno per sapere se altri abbia di tali sostanze alcuna idea chiara, all’infuori di certe idee semplici che coesistono. Sono le qualità ordinarie os-
avesse pensato a questa parola sostanza, non avrebbe dovuto darsi la pena di trovare un elefante che la sostenesse e una tartaruga che sostenesse il suo elefante: la parola sostanza avrebbe servito perfettamente al caso suo. E se qualcuno avesse chiesto lumi sull’argomento, avrebbe potuto prendere come altrettanto buona questa risposta da un filosofo indiano (che la sostanza, senza che si sappia che cosa sia, è ciò che sostiene la terra), come noi accettiamo come sufficiente risposta e buona dottrina dai nostri filosofi europei il concetto che la sostanza, che non sappia-
mo cosa sia, è ciò che sostiene gli accidenti. Cosicché della sostanza non sappiamo in alcun modo che cosa sia, ma abbiamo solo un’idea confusa e oscura di ciò che fa». 5. Se la nozione di sostanza in generale si riferisce alla prima accezione del termine «sostanza», inteso come «sostrato» o subjectum, la nozione di sostanza specifica delle singole cose è invece piuttosto connessa con la seconda accezione del termine, come «essenza» sostanziale.
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servabili nel ferro, o in un diamante, messe assieme, che formano la vera idea complessa di queste sostanze, che un fabbro o un gioielliere, ordinariamente, conosce meglio di un filosofo6: il quale, per quanto vada parlando di forme sostanziali, di quelle sostanze non ha altra idea che non sia foggiata mediante una raccolta delle idee semplici che si trovano nella sostanza7. Però, dobbiamo avvertire che le nostre idee complesse di sostanze, oltre tutte quelle idee semplici di cui sono composte, hanno sempre in sé l’idea confusa di qualcosa cui appartengono, e in cui sussistono; e perciò, quando parliamo di una qualunque specie di sostanza, diciamo che è una cosa la quale ha queste o quest’altre qualità; che il corpo è una cosa estesa, figurata e capace di moto; lo spirito, una cosa capace di pensare; e così la durezza, la friabilità e il potere di attrarre il ferro, diciamo, sono qualità che si trovano nel6. Si tratta dell’essenza nominale, cioè del complesso delle proprietà di una cosa, che l’artigiano conosce bene attraverso la sua pratica empirica; il filosofo, invece, pretende di arrivare all’essenza reale, alla «forma sostanziale» che esprime la natura metafisica delle cose.
la calamita. Queste, e altre simili maniere di parlare, suggeriscono che si suppone sempre che la sostanza sia qualcosa oltre l’estensione, la figura, la solidità, il moto, il pensiero, o altre idee osservabili; sebbene non sappiamo che cosa sia8.
GUIDA ALLA LETTURA 1. L’idea di sostanza è un’idea complessa, anche se generalmente viene intesa come idea semplice. Evidenzia nel testo le espressioni che chiariscono la genesi di tale equivoco e, con un colore diverso, quelle che spiegano perché abbiamo bisogno dell’idea di sostanza. 2. Confronta in un breve testo l’analisi lockeiana e quella cartesiana del concetto di sostanza.
7. In altri termini: quella che i filosofi gabellano per essenza reale è spesso l’essenza nominale – l’unica effettivamente conoscibile – descritta tuttavia in termini più confusi di quanto non facciano gli artigiani che si occupano empiricamente della cosa da definire.
8. Locke non esclude pertanto l’esistenza delle sostanze (ovvero delle essenze reali), ma si limita a negare che esse, se esistono, siano conoscibili dall’uomo.
t28 Locke / Stato di natura e stato di guerra Locke
Secondo trattato sul governo
capp. II-III, §§ 4, 6-8, 16, 19-21
Il secondo e il terzo capitolo del secondo Trattato sul governo di Locke sono rispettivamente dedicati allo «stato di natura» e allo «stato di guerra». Il fatto che a questi argomenti vengano assegnati due capitoli distinti è già un chiaro segno della distanza che Locke vuole prendere da Hobbes: stato di natura e stato di guerra non sono la stessa cosa, essi «sono invece tanto lontani l’uno dall’altro quanto uno stato di pace, benevolenza, assistenza reciproca è lontano da uno stato di inimicizia, malvagità, violenza e reciproco sterminio». Malgrado questa opposizione iniziale Locke perviene alle stesse conclusioni tratte da Hobbes sulla necessità di uscire dallo stato di natura. Perché? La risposta per Locke è molto semplice. È vero che nello stato di natura la legge naturale, che è espressione immediata della ragione, comanda agli uomini di rispettare reciprocamente i diritti individuali alla vita, alla libertà e alla proprietà; tuttavia, di fronte alla violenza che alcuni riottosi possono, ciononostante, esercitare a danno degli altri uomini, tale legge, essendo priva di potere coercitivo, rimane del tutto impotente. Occorre dunque costituire un potere superiore ai singoli individui, il quale sia in grado di costringere con la forza i renitenti alla ragione. In altri termini, occorre
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dare alla legge naturale, che pur continua a esercitare la sua funzione normativa, la forza di una legge dello Stato. Ma ciò è possibile soltanto per mezzo di un patto sociale in virtù del quale gli individui abbandonino la loro condizione naturale e si riconoscano membri di uno Stato.
Lo stato di natura Per ben comprendere che cosa sia il potere politico e ricostruirne la genesi, occorre considerare quale sia lo stato in cui tutti gli uomini per natura si trovano: uno stato di perfetta libertà di regolare le proprie azioni e disporre dei propri beni e persone come meglio credono, entro i limiti della legge naturale, senza chiedere l’altrui benestare o obbedire alla volontà d’altri1. È questo anche uno stato di eguaglianza, in cui potere e autorità sono reciproci poiché nessuno ne ha più degli altri. Nulla invero è più evidente del fatto che creature della stessa specie e grado2, indifferenziatamente nate per godere degli stessi doni della natura e usare le stesse facoltà, debbano essere fra loro eguali, senza alcuna subordinazione o soggezione, se il Signore e Padrone di esse tutte non ha manifestamente dichiarato la sua volontà di preporne una alle altre conferendole con un’evidente e chiara designazione un indubbio diritto al dominio e alla sovranità3. [...] Ma, per quanto sia uno stato di libertà, questo 1. Si noti la differenza da Hobbes, per il quale l’individuo nello stato di natura ha il diritto di fare tutto ciò che crede utile alla propria conservazione senza alcuna limitazione. Per Locke invece l’individuo naturale ha diritto a fare tutto ciò che vuole soltanto a condizione che ciò non vada contro la legge naturale, cioè non leda i diritti fondamentali degli altri uomini. 2. Grado: dello stesso livello di perfezione nella gerarchia degli esseri (l’uomo è uguale rispetto agli altri uomini, sebbene sia superiore agli animali). 3. L’uguaglianza è intesa da Locke come uguaglianza di diritti, mentre in Hobbes essa era intesa primariamente come uguaglianza di forze. 4. Il «motivo più nobile della semplice sopravvivenza» è quello – come si spiega in una parte del testo qui non ripro-
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non è uno stato di licenza. Benché sia incondizionatamente libero, in questo stato, di disporre della sua persona e dei suoi beni, l’uomo non è libero di distruggere se stesso o altra creatura umana che gli appartenga, se non quando lo imponga un motivo più nobile della semplice sopravvivenza4. Lo stato naturale è governato da una legge di natura che è per tutti vincolante; e la ragione, che è poi quella legge stessa, insegna a chiunque soltanto voglia interpellarla che, essendo tutti gli uomini eguali e indipendenti, nessuno deve ledere gli altri nella vita, nella salute, nella libertà o negli averi5. [...] E perché tutti si astengano dall’usurpare gli altrui diritti e dal farsi reciproco torto, perché sia rispettata la legge di natura, che vuole la pace e la sopravvivenza di tutto il genere umano, l’esecuzione della legge naturale in quello stato è affidata a ciascuno, onde ciascuno ha il diritto di punire chi trasgredisce quella legge, nella misura bastante a scoraggiarne la violazione6. [...] Così nello stato di natura un uomo esercita il
dotta – «di fare giustizia di un trasgressore» della legge naturale. 5. È qui evidente il fondamento giusnaturalistico del pensiero politico di Locke. Esiste una legge di natura, precedente a quelle promulgate dagli Stati, che assegna a ciascuno una determinata sfera di diritti fondamentali (vita, libertà, proprietà) e ne impone a tutti il reciproco rispetto. Questa legge è inscritta nella natura razionale di ciascun uomo: per conoscerla occorre dunque soltanto consultare la ragione. Sui caratteri del giusnaturalismo in generale [ approfondimento, p. 152]. 6. È il principio giusnaturalistico vim per vim repellere licet («è lecito respingere la forza con la forza»): in assenza di un’autorità costituita che si occupi dell’amministrazione della giustizia è lecito punire le offese alla legge
naturale opponendo alla violenza perpetrata una forza uguale e contraria. In questo modo si ristabilisce l’equilibrio infranto mediante l’equazione aritmetica tra offesa e punizione, tra danno e risarcimento. La punizione infatti – come si ribadisce nel paragrafo successivo – dev’essere esattamente commisurata al crimine commesso, poiché, se essa fosse superiore a esso, da legittima punizione si trasformerebbe a sua volta in arbitraria offesa. Ma proprio la difficoltà di commisurare esattamente la punizione all’offesa nello stato naturale, e il conseguente innesco di una catena di punizioni eccessive che diventano offese, provoca la trasformazione dello stato di natura in stato di guerra e richiede l’ingresso nella società civile.
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potere su un altro; ma non si tratta del potere assoluto o arbitrario di disporre d’un colpevole, cadutogli fra mano, secondo gli appassionati furori e lo sregolato capriccio della propria volontà; ma solo di retribuirlo secondo i dettami d’una serena ragione e della coscienza, in misura della sua trasgressione, tanto cioè quanto può servire come riparazione e prevenzione, che sono i due soli motivi per cui un uomo può fare legittimamente ad un altro quel male che si dice punizione.
Lo stato di guerra Lo stato di guerra è uno stato di inimicizia e distruzione reciproca. Perciò chi, con parole o atti, manifesti non un passionale e avventato, ma un calmo e deliberato proposito circa la vita di un altr’uomo si pone in istato di guerra con colui contro il quale ha manifestato quell’intenzione, ed espone la sua vita al potere che l’altro, o chiunque accorra in sua difesa o ne sposi la causa, ha di portargliela via7. È infatti ragionevole e giusto che io abbia il diritto di distruggere ciò che minaccia di distruggermi. Poiché la legge fondamentale della natura vuole che l’uomo sia salvaguardato quanto più possibile, quando non si può salvare tutti bisogna preferire la salvezza dell’innocente. Ciascuno può distruggere chi gli faccia guerra, allo stesso modo come può uccidere un lupo o un leone: uomini siffatti non essendo soggetti alla comune legge di ragione, non conoscendo altra norma che quella della forza e della violenza, possono essere trattati come bestie da preda, creature pericolose e nocive, che certa7. Come in Hobbes, anche in Locke lo
stato di guerra non è dato da episodici eventi conflittuali, ma dalla costante e deliberata intenzione di offendersi reciprocamente, ancorché essa non venga sempre tradotta in atto. 8. La legittimità all’autodifesa si fonda sul diritto naturale alla vita. Quando questa venga attentata, si minaccia l’integrità dell’ordine giuridico naturale voluto dalla legge naturale (e quindi dalla ragione); di conseguenza il minacciato ha diritto di esercitare a sua volta la violenza per prevenire quella altrui e impedire la perpetrazione dell’ingiustizia.
mente distruggono chiunque cada in loro potere8. [...] Ecco qui evidente la differenza fra stato di natura e stato di guerra, che taluni9 hanno confuso, e che sono invece tanto lontani l’uno dall’altro quanto uno stato di pace, benevolenza, assistenza e difesa reciproca è lontano da uno stato di inimicizia, malvagità, violenza e reciproco sterminio. Quando gli uomini vivono insieme secondo ragione, senza un sovrano comune sulla terra, col potere di giudicarsi fra loro, si ha lo stato di natura. Ma la forza, o una dichiarata intenzione di usarla, sulla persona altrui, quando non vi sia sulla terra un comune sovrano cui appellarsi, significa stato di guerra: e proprio la mancanza di tale appello dà all’uomo il diritto di guerra contro un aggressore, quand’anche questo viva nella società di cui anch’io sono membro. [...] Ma, quando cessa l’uso effettivo della forza, vien meno anche lo stato di guerra fra coloro che vivono in società e sono tutti del pari soggetti all’equa decisione della legge: infatti a questo punto è disponibile il rimedio di appellarsi per l’offesa passata e prevenire il danno futuro. Ma quando tale appello non è possibile, come avviene nello stato di natura in mancanza di leggi positive e di giudici dotati d’autorità tale che ad essi sia possibile appellarsi, una volta che sia cominciato, lo stato di guerra continua a sussistere, con il diritto per la parte lesa di distruggere l’altro ogni qualvolta lo possa, finché l’aggressore offra la pace e accetti una riconciliazione in termini tali da riparare ogni torto arrecato e garantire l’innocente per il futuro10. [...]
9. È ovvio il riferimento a Hobbes. Con-
tro di lui, Locke afferma che, se gli uomini si attenessero alla legge di natura che trovano nella loro ragione, si realizzerebbe spontaneamente tra di essi una condizione di pace e assistenza reciproca. Per questo lo stato di natura si distingue concettualmente da quello di guerra, sebbene la malvagità e l’ignoranza che inducono gli uomini a infrangere la legge naturale lo trasformino di fatto in una condizione di guerra. 10. In altri termini: l’impossibilità di rivolgersi a un arbitro superiore alle parti e fornito di poteri coercitivi impe-
disce non solo la prevenzione del crimine, ma anche l’arresto dello stato di guerra una volta cominciato. Nello stato di natura è infatti impossibile da parte dell’offensore dare garanzia del fatto che non offenderà più in futuro; conseguentemente è altrettanto difficile, da parte dell’offeso, limitare la propria reazione al semplice rintuzzamento dell’offesa ricevuta, senza trasformare l’atto punitivo in una nuova offesa (cfr. quanto si è detto alla n. 6).
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L’intento di evitare questo stato di guerra (in cui non v’è altro appello che al cielo, e a cui porta ogni minima divergenza, non essendovi autorità che possa decidere fra i contendenti) è il grande motivo per cui gli uomini si associano fra loro e abbandonano lo stato di natura: infatti, dove c’è un’autorità, un potere terreno, cui sia possibile appellarsi a riparazione del torto subìto, non può perpetuarsi lo stato di guerra e ogni controversia è risolta da quella autorità.
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GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia nel testo le espressioni che mettono a fuoco l’idea di «stato di natura» propria di Locke. 2. Confronta – in un testo non superiore alle 20 righe – la concezione di Locke con quella di Hobbes, mettendone in evidenza analogie e differenze. 3. Evidenzia nel testo le caratteristiche del concetto di «libertà» di Locke. Costruisci un breve testo in cui confronti questo concetto lockeiano con quello di Hobbes. 4. Locke rifiuta l’idea hobbesiana di stato di natura come stato di guerra. Ciononostante, afferma la necessità del passaggio dallo stato di natura alla società civile. Perché?
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esercizi/9 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale 1. Evidenzia le opere più importanti di Locke e il loro contenuto in generale. 2. Esponi i caratteri delle idee semplici di sensazione e di riflessione. 3. Evidenzia a quale gruppo appartengono le idee di causa-effetto e di identità. 4. Evidenzia i termini del problema della corrispondenza tra rappresentazioni mentali e oggetti reali. 5. Evidenzia la critica lockeiana alla tesi sostenuta da Robert Filmer nel Patriarca (1653). 6. Evidenzia i tre poteri in cui, secondo Locke, si articola la vita dello Stato. Dizionario filosofico 7. Definisci i seguenti concetti: esperienza • idea • idea di sostanza • stato di natura • liberalismo • deismo
CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 8. Ricostruisci l’argomentazione con cui Locke rifiuta l’esistenza nella mente di idee innate.
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9. Qual è il fine della ricerca gnoseologica di Locke? 10. Quali sono le fonti della conoscenza secondo Locke? 11. In che cosa consiste il processo di astrazione messo in opera mediante il linguaggio? 12. Come risolve Locke il problema dell’esistenza reale degli oggetti di conoscenza? 13. In quali casi il cittadino ha il diritto di «resistere» allo Stato? 14. Perché la tolleranza deve essere un carattere fondamentale dello Stato? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 15. Qual è la principale differenza tra la gnoseologia di Locke e il razionalismo di Cartesio? 16. Illustra la classificazione lockeiana delle idee. 17. Perché Locke critica l’idea di sostanza come substratum e come essenza? 18. Perché il linguaggio ha una natura convenzionale secondo Locke? 19. Esponi le tre forme della conoscenza e metti in evidenza il loro rispettivo grado di certezza. 20. Illustra il passaggio dallo stato di natura alla società civile secondo Locke. 21. Metti a confronto i concetti fondamentali della teoria politica di Locke con quelli di Hobbes. 22. Illustra la teoria lockeiana della tolleranza.
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L’inerenza dei predicati al soggetto non ha soltanto una dimensione logica, ma esprime la reale presenza ontologica degli attributi e delle qualità nella rispettiva sostanza. Nella sostanza individuale sono già contenuti i predicati che la riguardano. La sostanza individuale Alessandro Magno, ad esempio, contiene tutte le azioni che egli compirà e gli avvenimenti cui andrà incontro. Una mente perfetta come quella divina ne ha già una completa prescienza. Malgrado ciò, le azioni di Alessandro non sono necessarie, perché il loro contrario è sempre possibile. Se si fosse realizzato il contrario, però, ci si troverebbe di fronte a un’altra sostanza individuale. la monadologia
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i contenuti filosofia, logica e matematica
Leibniz è un genio universale per il quale la filosofia è il nucleo di unificazione di una molteplicità di discipline scientifiche e umanistiche. Tra queste hanno un particolare rilievo la matematica e la logica, considerate strumento indispensabile per una lettura razionale della realtà. Sin dalla giovinezza Leibniz è interessato a un metodo logico che matematizzi il pensiero, elimini ogni soggettività e risolva ogni problema mediante la quantificazione e il calcolo.
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verità di ragione e verità di fatto
La logica di Leibniz si fonda su due princìpi. I princìpi di identità (A = A) e di contraddizione (A non è non-A) stanno alla base delle verità di ragione. Esse sono necessarie, in quanto il loro contrario implica contraddizione. Il principio di ragion sufficiente (nulla accade senza una ragione sufficiente a spiegare perché è accaduto così) riguarda invece le verità di fatto. Di esse è sempre possibile il contrario. la nozione di sostanza individuale
La sostanza è sempre individuale, in quanto riferita a una specifica combinazione di attributi.
La sostanza individuale comporta lo sviluppo progressivo di tutte le sue determinazioni. Ma da dove proviene l’energia interna necessaria a questo sviluppo? A un certo punto, nel pensiero di Leibniz diventa centrale la nozione di forza, intesa in senso sia fisico sia metafisico. La realtà è forza, energia. La dottrina della sostanza individuale si trasforma allora in quella della monade. Essa è appunto una sostanza individuale costituita da energia spirituale. La monade è caratterizzata da una costante attività percettiva, in base alla quale percepisce tutte le altre monadi. In questo senso, si può dire che le monadi sono dei punti di vista sull’universo. Tuttavia, poiché l’attività percettiva è tutta interna alla monade, tra le diverse monadi non vi sono rapporti di causazione («la monade non ha finestre»). Lo sviluppo di ciascuna monade si accorda con quello delle altre grazie all’armonia prestabilita da Dio. la teoria della conoscenza
L’attività percettiva della monade spiega anche la concezione leibniziana della conoscenza. Le percezioni possono essere confuse o acquisire un grado sempre maggiore di chiarezza. Soltanto in questo sta la differenza tra la
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conoscenza sensibile e quella intellettuale. In ogni caso, la conoscenza è sempre innata alla monade stessa. la gerarchia delle monadi e dio
Il diverso grado di percezione sta
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anche alla base della gerarchia ontologica delle monadi, divise in a) entelechie, cioè monadi che sono consapevoli delle loro percezioni (appercezione); b) anime, che hanno coscienza di sé attraverso la memoria; c) spiriti, forniti di ragione. Dio è la «monade delle monadi», poiché include in sé
tutti gli universi possibili. Tra questi egli ha creato il migliore dei mondi possibili, cioè quello in cui la massima quantità di bene è compatibile con la minima quantità di male. In questo modo Leibniz risolve anche il problema della teodicea, cioè della giustizia di Dio.
gli strumenti in poche… parole verità di ragione e verità di fatto / sostanza individuale / monade / appetizione / appercezione / armonia prestabilita / teodicea
esercizi
i testi a. nel manuale t29 Leibniz/La sostanza individuale t30 Leibniz/Le monadi t31 Leibniz/L’anima non è una tabula rasa
b. on-line Leibniz/Le verità di ragione Leibniz/Le sostanze si corrispondono armonicamente Leibniz/Le piccole percezioni Leibniz/Dio crea il migliore dei mondi possibili
Che cosa so? / Che cosa ho capito?
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1. Vita e opere la formazione
Gottfried Wilhelm Leibniz nacque a Lipsia nel 1646. Figlio di un professore universitario, trovò nella biblioteca del padre la prima occasione per accostarsi alla cultura: questa esperienza sviluppò in lui una particolare predilezione per la formazione autodidattica. Dopo aver studiato filosofia, diritto e matematica a Lipsia e a Jena, nel 1666 ottenne il diritto di tenere lezioni nell’Università di Lipsia. Non era la cattedra universitaria, tuttavia, il pulpito dal quale egli intendeva far sentire la sua voce. La sua attività culturale, infatti, si realizzerà secondo altre due strade: la vita di corte e l’organizzazione del sapere nelle Accademie.
al servizio dei potenti dell’epoca
Leibniz passa la maggior parte della vita prestando servizio presso i potenti, per i quali svolge la molteplice attività di diplomatico, di bibliotecario, di storico, di consigliere. A tutti i suoi protettori Leibniz indirizza progetti di organizzazione politica, religiosa, culturale. In generale, il suo atteggiamento nei confronti dei potenti si ispira, da un lato, al vecchio modello del dotto in cerca di stipendi e prebende per la propria sopravvivenza e, dall’altro, alla figura – di schietto sapore preilluministico – dell’intellettuale che spera di trasformare la realtà attraverso il matrimonio della cultura con il potere. Nel 1668 diventa consigliere dell’elettore di Magonza, Giovanni Filippo di Schönborn. Dal 1676 dipende invece stabilmente dal ducato di Hannover, servendo prima Giovanni Federico, poi Ernesto Augusto e infine Giorgio Ludovico, che diventerà re d’Inghilterra col nome di Giorgio I. Approfittando dei legami parentali che intercorrono tra Hannover e Berlino (Sofia Carlotta di Hannover sposa Federico di Brandeburgo, futuro Federico I di Prussia), Leibniz intreccia rapporti anche con quella corte. Leibniz, inoltre, non perderà occasione di entrare in contatto con Pietro il Grande e con il principe Eugenio di Savoia, riuscendo a diventare consigliere segreto al servizio della Russia e dell’Austria.
fondazione e promozione delle accademie
L’altra attività, alla quale Leibniz affida la realizzazione dei propri ideali culturali, è la promozione delle Accademie. Egli contribuisce in maniera determinante alla fondazione dell’Accademia delle scienze di Berlino (1700), di cui diviene presidente, e si adopera per la costituzione di analoghe strutture a Dresda e a Pietroburgo. Leibniz non manca inoltre di guadagnarsi l’affiliazione alle Accademie già esistenti, diventando membro della Royal Society di Londra e dell’Accademia delle scienze di Parigi.
i viaggi
Molto importanti dal punto di vista biografico e intellettuale sono i suoi viaggi in Europa. Dal 1672 al 1676 Leibniz è a Parigi (con due brevi soggiorni intermedi a Londra) con mandato diplomatico dell’elettore di Magonza. La missione – distogliere Luigi XIV dalle sue mire espansionistiche nel Nord Europa, suggerendo una crociata per la conquista dell’Egitto – fallisce. Ma la permanenza a Parigi serve a Leibniz per completare i suoi studi, soprattutto in matematica, e per conoscere personaggi come Arnauld, Malebranche e lo scienziato olandese Christian Huygens. Un secondo viaggio, compiuto per raccogliere materiale storico-diplomatico per il duca di
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Hannover, gli permette invece di visitare la Germania meridionale, l’Austria e l’Italia (Roma, Napoli, Firenze, Modena, Venezia). Nel 1705 la morte di Sofia Carlotta di Hannover, grande protettrice di Leibniz, segna l’inizio del suo declino. Le cose andranno ancora peggio quando Giorgio Ludovico, già sospettoso per la lentezza con cui Leibniz procede nella sua attività ufficiale di storiografo di corte, diventerà re d’Inghilterra. Pur avendone la possibilità, Giorgio I non lo chiamerà a Londra, né lo difenderà nella disputa con Newton sulla paternità della scoperta del calcolo infinitesimale, a cui entrambi giungono – prima Newton, poi Leibniz – per strade diverse e autonome. Ormai quasi dimenticato – e senza concludere il compito storiografico che gli era stato affidato – Leibniz muore a Hannover nel 1716.
gli ultimi anni
Le sue opere filosofiche – scritte quasi tutte in francese, la nuova lingua della comunità culturale europea – tradiscono spesso il carattere occasionale delle loro motivazioni. L’importante Discorso di metafisica (1686) è un prodotto collaterale al carteggio con Arnauld. Il Nuovo sistema della natura nasce invece dall’epistolario con Jacques Bénigne Bossuet. I Nuovi saggi sull’intelletto umano sono una puntuale discussione del Saggio di Locke: a causa della morte di quest’ultimo, benché redatti nel 1703, essi rimasero inediti fino al 1765. I Princìpi della natura e della grazia (1714) sono scritti per Eugenio di Savoia, mentre i Princìpi di filosofia dello stesso anno costituiscono un’esposizione schematica della dottrina leibniziana della monade (di qui il più celebre titolo di Monadologia con cui l’operetta apparve nella traduzione tedesca). L’unica opera leibniziana di grande respiro sono i Saggi di teodicea (1710), incentrati sui problemi del rapporto tra necessità e libertà e della giustificazione del male nel mondo. A queste opere filosofiche devono essere aggiunti i numerosi scritti a carattere politico, giuridico, storico, scientifico e soprattutto matematico: tra questi ultimi ricordiamo soltanto la Nova methodus pro maximis et minimis sul calcolo infinitesimale.
le opere filosofiche e scientifiche
2. La logica L’interesse di Leibniz per le questioni di logica risale agli anni della giovinezza. La prima, organica e pressoché definitiva esposizione della sua teoria logica – la Dissertatio de arte combinatoria – è infatti datata al 1666, quando egli aveva solo vent’anni. In quell’opera, il principale obiettivo di Leibniz consiste nella formulazione di un metodo logico che matematizzi il pensiero. In altre parole, si tratta di eliminare dal pensiero ciò che vi è di soggettivo e di ricondurre le operazioni mentali a una forma di calcolus ratiocinator (egli ammette esplicitamente di aver subito l’influenza di Hobbes). In questo modo, per risolvere una controversia teorica, dovrebbe essere sufficiente sedersi a tavolino e dirsi a vicenda «calcoliamo». Attraverso questa riconduzione alla matematica, la logica deve svolgere una duplice funzione: da un lato, deve dimostrare gli enunciati con assoluta certezza (e in ciò essa ri-
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prende e sviluppa la funzione della sillogistica aristotelica); dall’altro, deve consentire di inventare nuovo sapere attraverso la combinazione delle conoscenze già acquisite. l’«alfabeto» del pensiero
Ma, come è possibile ricondurre la logica alla matematica? In primo luogo, l’intero contenuto del pensiero dev’essere ridotto a un numero definito di concetti semplici, da cui possano derivare tutti i concetti composti. In altri termini, si tratta di scoprire una sorta di «alfabeto» concettuale che costituisca per il pensiero l’analogo di ciò che l’alfabeto letterale rappresenta per la lingua e la scrittura. Anche se in realtà Leibniz non riuscì mai a determinare quali fossero i concetti semplici – e in ciò sta oggettivamente la debolezza della sua proposta –, egli pensava alla possibilità di una loro catalogazione generale. Secondo i suoi progetti, a essa avrebbero dovuto concorrere studiosi di diverse discipline e di diversi paesi (riemerge qui l’importanza della comunicazione culturale attraverso le Accademie).
la riduzione dei concetti a simboli
Il secondo passo necessario alla matematizzazione del pensiero consiste, secondo Leibniz, nell’assegnare a ciascun concetto un carattere – ovvero un simbolo – che lo rappresenti. In tal modo, diviene possibile operare sui simboli anziché sui concetti. Nello stesso tempo, i caratteri devono essere ordinati in modo che le loro relazioni corrispondano effettivamente a quelle dei pensieri. Per dirla con le parole di Leibniz, si tratta di determinare la characteristica universalis, ovvero di definire la struttura grammaticale e sintattica del pensiero. Per il suo tentativo di ridurre la logica alla matematica, Leibniz è stato considerato lo scopritore – o almeno il precursore – della moderna logica formale. Sebbene sia sempre difficile dimostrare simili paternità, occorre tuttavia ammettere che egli ha esercitato una profonda influenza sul pensiero logico di gran parte dell’Ottocento.
3. La conoscenza vera le verità di ragione
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In base alla concezione della logica appena esposta, emerge che per Leibniz la verità consiste nella corretta combinazione dei concetti. Più precisamente, la combinazione dei concetti è vera se avviene senza comportare alcuna contraddizione. Ad esempio, se dico «il quadrato è rotondo», affermo una falsità, perché congiungo concetti che si contraddicono a vicenda. In seguito Leibniz preciserà la sua posizione, formulando l’assunto secondo il quale la verità si fonda sul principio di identità. Detto altrimenti, una proposizione è identica – e quindi vera – se in essa il predicato è già contenuto nel soggetto. Un esempio di proposizione identica è il seguente: «Un triangolo ha gli angoli interni uguali a due retti». In questo caso, il predicato – ossia l’avere gli angoli interni uguali a 180º – è implicito nel soggetto, in quanto è una proprietà compresa nella definizione del concetto di triangolo. Al principio d’identità è riconducibile anche il principio di contraddizione come sua variante negativa. Le verità fondate sui princìpi di identità e contraddizione prendono il nome di verità di ragione e sono necessarie e infallibili. Inoltre, tali verità si riferiscono solo a ciò che è logicamente 10. leibniz
Leibniz Le verità di ragione
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possibile come concetto astratto, indipendentemente dal fatto che esso sia o non sia realizzato nella realtà. Accanto alle verità di ragione Leibniz colloca le verità di fatto e le definisce come ciò di cui – a differenza delle prime – è possibile il contrario. Ad esempio, la proposizione «Cesare ha passato il Rubicone» è una verità di fatto perché Cesare poteva anche non compiere l’azione in essa descritta, senza che ciò comportasse alcuna contraddizione. In questa proposizione, infatti, il passaggio del fiume è giustificato non dall’impossibilità del suo contrario, ma da qualche ragione sufficiente a spiegarlo (per esempio, l’ambizione di Cesare). Le verità di fatto sono, quindi, contingenti e si fondano sul principio di ragion sufficiente. Questo principio viene così formulato da Leibniz: «Nulla accade senza una ragione sufficiente, cioè senza che sia possibile a chi conosca in profondità le cose dare una ragione che sia sufficiente a determinare perché è accaduto così e non altrimenti».
le verità di fatto
Secondo Leibniz, le verità di fatto non sono completamente contrapposte alle verità di ragione. Per chi abbia una conoscenza assoluta delle cose è possibile vedere come anche nelle verità di fatto – attraverso un numero indefinito di passaggi logici – il predicato («ha varcato il Rubicone» o «ha pugnalato Cesare») sia già contenuto nel concetto del soggetto («Cesare» o «Bruto»). In questo modo, anche le verità di fatto potrebbero essere ricondotte a proposizioni identiche e quindi a verità di ragione. In definitiva, tra le verità di ragione e le verità di fatto la differenza consisterebbe soltanto in questo: nelle verità di ragione l’identità tra soggetto e predicato è immediata o mediata da pochi passaggi intermedi (e quindi conoscibile anche dalla mente finita dell’uomo); nelle verità di fatto, invece, essa presuppone un numero infinito di passaggi e può essere conosciuta solo da una mente infinita come quella di Dio.
differenza tra verità di ragione e verità di fatto
4. Logica e metafisica: la sostanza individuale Come si è visto nel paragrafo precedente, per Leibniz, la verità consiste nell’identità del predicato con il soggetto a cui inerisce. Finora per «soggetto» abbiamo inteso una funzione logica definita dalla sua correlazione con il predicato. Ora, se si passa dal piano logico a quello ontologico – ovvero dal piano del pensiero a quello della realtà – il soggetto non è più soltanto una funzione, ma il supporto metafisico del predicato, cioè la sua sostanza. Oltre alla correlazione logica di soggetto e predicato in una proposizione, dunque, occorre prendere in considerazione la loro correlazione ontologica. In altri termini, che cosa vuol dire – sul piano della realtà – che il predicato inerisce al soggetto? Leibniz risponde asserendo che il predicato è contenuto nell’essere sostanziale del soggetto.
soggetto logico e sostanza reale
La totalità dei predicati riferibili a un determinato soggetto definisce quest’ultimo in maniera assolutamente singolare, distinguendolo da tutti gli altri. In tal senso, la sostanza nella quale sono contenuti i predicati è una sostanza individuale [t29]. Il punto di partenza della metafisica di Leib-
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niz è, dunque, la nozione di sostanza individuale. In ciò, egli rimane fedele alla tradizione aristotelica che riconosce nell’individuo una «forma sostanziale». Avendo come sua caratteristica fondamentale l’individualità, la sostanza è assolutamente singolare. Ciascuna sostanza è definita in modo particolare e irripetibile dai predicati che sono in essa contenuti. Non è possibile trovare due sostanze perfettamente uguali, poiché anche la semplice differenza di luogo o di tempo già comporta una loro diversa caratterizzazione. A questo riguardo, Leibniz amava ricordare come le dame della corte di Hannover si divertissero a cercare – invano – due foglie perfettamente uguali nel parco del castello ducale. Se due sostanze fossero davvero perfettamente uguali, se cioè contenessero entrambe gli stessi attributi ed essi soltanto, non potrebbero essere distinguibili l’una dall’altra e sarebbero in realtà la stessa sostanza (principio dell’identità degli indiscernibili). la conoscenza della sostanza individuale
I predicati della sostanza individuale esprimono tutto ciò che di essa si può affermare (o, appunto, predicare): quindi non soltanto le proprietà accidentali, ma anche le azioni o gli effetti che da essa derivano. Per esempio, nella sostanza individuale «Alessandro Magno» non sono contenuti solo l’aver avuto un certo temperamento o un certo aspetto fisico, ma anche l’aver vinto Dario o l’esser morto in un certo tempo e in un certo modo. Questo significa che chi conosca perfettamente la sostanza individuale di Alessandro può derivare da essa a priori tutto ciò che egli farà e tutto ciò che gli accadrà. Per Leibniz, ciò è possibile solo alla mente infinita di Dio. Coloro che – come gli uomini – non possono conoscere la sostanza individuale nella sua completezza, hanno nozione delle sue azioni soltanto a posteriori e di esse possono dare una spiegazione, come si è visto, soltanto sulla base del principio di ragion sufficiente. In questo modo, la contingenza (e la libertà) delle azioni di Alessandro dal punto di vista umano è perfettamente compatibile con la loro necessità dal punto di vista divino.
ogni sostanza è un mondo chiuso
Abbiamo detto che nella sostanza individuale sono già contenuti tutti gli effetti che ne deriveranno o i predicati che le saranno attribuiti. Ciò comporta la conseguenza che tra le diverse sostanze individuali non esistono rapporti di causalità reciproca. In altre parole, ciascuna di esse è un mondo chiuso in sé e l’apparenza di un’interazione causale con gli altri mondi-sostanze è dovuta – come vedremo più avanti – all’armonia prestabilita, cioè all’azione divina che garantisce la corrispondenza tra le diverse sostanze . In questo modo, pur non avendo rapporti causali reciproci, ciascuna sostanza intrattiene relazioni logiche con tutte le altre. Per usare le parole di Leibniz essa appare come lo «specchio dell’intero universo»: la totalità dell’universo si riflette in ciascuna sostanza, ma sempre da un punto di vista differente. Proprio questa diversa angolatura costituisce, in ultima analisi, la specificità e l’individualità della sostanza: Le percezioni o le espressioni di tutte le sostanze si corrispondono tra loro, in maniera che ognuno seguendo, con attenzione, certe ragioni o leggi che ha osservato, si accorda con un altro che ha fatto altrettanto, allo stesso modo in cui più persone, che si sono accordate di trovarsi insieme in un certo luogo ed
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in un certo giorno stabilito, lo possono effettivamente fare, se vogliono. Ora, sebbene tutte le sostanze esprimano gli stessi fenomeni, ciò non vuol dire che le loro espressioni siano perfettamente simili, basta che siano proporzionali; come molti spettatori credono vedere la stessa cosa e fra loro s’intendono benissimo, benché ciascuno veda e parli secondo la misura della sua vista (Discorso di metafisica, cap. XIV).
5. Metafisica e fisica: il concetto di forza Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, la dottrina leibniziana della sostanza individuale permette di realizzare la piena convergenza tra logica e metafisica, ossia tra il piano del pensiero e quello della realtà. In questo paragrafo ci preme mostrare come la nozione di forza metta invece in luce un’analoga convergenza tra fisica e metafisica e come, anzi, la prima trovi nella seconda la sua ultima giustificazione. Già sappiamo che la fisica di Cartesio poggiava sulla riduzione della materia corporea all’estensione. Questo rende tuttavia inspiegabili – secondo Leibniz – alcuni importanti fenomeni fisici, come l’impenetrabilità dei corpi (due estensioni uguali potrebbero coincidere) o la loro forza d’inerzia (se i corpi sono semplice estensione, non si capisce perché essi oppongano resistenza alla loro traslazione).
sostanza individuale e forza
Per giustificare tali fenomeni occorre dunque presupporre nei corpi una forza, in virtù della quale essi resistono alla penetrazione da parte di altri corpi o al movimento che altri corpi possono suscitare in loro. Ma, che cos’è allora la forza e che rapporto ha con l’estensione? Per Leibniz, la forza è la vera essenza della materia e di ogni sostanza. Secondo questa prospettiva, dunque, l’estensione – al pari di tutte le altre proprietà della materia – è soltanto una manifestazione o un fenomeno (nel senso etimologico di «apparenza») della forza.
l’estensione è manifestazione di una forza
Una seconda critica a Cartesio, strettamente connessa con la prima, investe la nozione di movimento. Avendo identificato la materia con l’estensione, Cartesio aveva ricondotto il movimento a una semplice traslazione meccanica dei corpi, esprimibile attraverso il prodotto della massa per la velocità (mv). Alla base di ogni fenomeno motorio vi è invece per Leibniz una forza viva, espressa dal rapporto tra la massa e la velocità al quadrato (mv2). Tale energia è in grado di produrre spontaneamente un determinato effetto fisico (ad esempio, spostare un corpo). La legge cartesiana della conservazione del movimento deve, quindi, essere sostituita con quella della conservazione dell’energia.
il movimento è forza viva
Le innovazioni apportate da Leibniz al quadro concettuale cartesiano comportano il passaggio da una concezione meccanica e causale a una concezione dinamica e finalistica della realtà. Non che la spiegazione meccanicistica perda il suo valore. Anzi, all’interno della fisica essa continua a essere di fondamentale importanza. Ma la connessione meccanica può essere utilizzata soltanto per spiegare la realtà nella sua manifestazione più superfi-
meccanicismo e finalismo
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ciale, quale essa appare nel fenomeno fisico studiato sperimentalmente. Una vera comprensione delle cose – che vada al di là dell’apparenza fenomenica e colga l’intima essenza della realtà – deve invece avere carattere finalistico. la forza come causa e come conato
D’altra parte, lo stesso concetto di forza utilizzato per definire la materia presenta al suo interno questa duplicità di meccanicismo e di finalismo. 1. Da un lato, infatti, la forza è una grandezza puramente fisica e funziona – in una spiegazione meccanica – come causa efficiente di determinati effetti (così essa era stata intesa sostanzialmente da Newton e da Huygens, ai quali Leibniz è per alcuni aspetti debitore). 2. D’altro lato, essa si pone come un concetto metafisico che va al di là di ciò che è percepibile con i sensi o con le strumentazioni scientifiche. Quando Leibniz asserisce che la realtà è forza, infatti, intende dire che in essa agiscono un’attività spontanea e originaria, irriducibile a ogni misurazione sperimentale, e una continua tensione verso un fine – a volte denominata conato (conatus).
6. La monadologia alla ricerca degli elementi ultimi
La filosofia di Leibniz è costantemente caratterizzata dall’esigenza di pervenire agli elementi ultimi delle cose. Come si è visto, nella logica tali elementi erano i concetti semplici, dai quali è possibile derivare tutti gli altri pensieri. Nella metafisica l’elemento ultimo è rappresentato dalla sostanza individuale, in quanto non può essere predicata di nessun’altra cosa. Non stupisce, quindi, che Leibniz abbia sentito il fascino dell’atomismo per spiegare la composizione generale dell’universo. Tanto nella formulazione antica (democriteo-epicurea) quanto in quella moderna (Gassendi) dell’atomismo, tuttavia, gli atomi sono intesi come elementi materiali. Ciò presenta per Leibniz gravi difficoltà teoriche.
gli atomi di energia spirituale
La materia, infatti, è estesa e tutto ciò che è esteso – per quanto piccolo possa essere – è per definizione divisibile in porzioni più piccole di estensione. Da questo punto di vista, parlare di atomi materiali è una contraddizione in termini. Infatti, se gli atomi risultano composti di parti – si domanda Leibniz – come possono essere i costituenti ultimi della realtà? Secondo lui, di conseguenza, è possibile parlare ancora di atomismo soltanto negando il carattere primario della materia e riducendo quest’ultima a energia spirituale. Leibniz afferma, infatti, che gli atomi sono costituiti di energia – anziché di materia – e li definisce come centri di forza assolutamente privi di estensione.
le caratteristiche delle monadi
Ora, se non è fatta di materia, da che cosa è costituita la realtà? Per Leibniz, la realtà – anche quella che ci appare come materiale – è composta di atomi di forza inestesi, che egli chiama monadi (dal greco monàs) per esprimere il loro carattere unitario e indivisibile [t30]. Dal fatto che le monadi sono prive di estensione – e quindi di parti – discendono altre due loro caratteristiche.
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1. In primo luogo, esse non sono né generabili né corruttibili, poiché la generazione è la composizione delle parti in un tutto e la corruzione è la dissoluzione del tutto nelle parti. Per Leibniz, le monadi possono essere create solo da Dio con un atto di immediato passaggio dal non essere all’essere. Allo stesso modo, da Dio soltanto possono essere improvvisamente annientate. 2. In secondo luogo, le monadi non possono esercitare alcuna azione causale reciproca. Infatti, l’azione causale di una monade sull’altra presupporrebbe una modificazione meccanica di quelle parti della monade passiva sulle quali agisce la monade agente. Per questa ragione, la monade – che è un elemento privo di parti – non è suscettibile di modificazioni provenienti dall’esterno. Leibniz esprime questo concetto, nel suo linguaggio immaginifico, dicendo che la monade «non ha finestre». Ma, se le monadi non esercitano né subiscono l’azione di altre monadi, come si spiega il continuo mutamento della realtà? Anche le monadi, dunque, sono sottoposte a modificazioni. Leibniz afferma, tuttavia, che tali modificazioni – non potendo provenire dall’esterno – sono il risultato dell’attività interna della monade. Per Leibniz, l’attività propria della monade è la percezione e consiste nel rappresentare a se stessa ciò che avviene nel mondo. Ecco perché la monade è concepita come un punto di vista sull’universo o anche come specchio dell’universo. Come abbiamo visto, le trasformazioni della monade non sono dovute a impossibili modificazioni di sue parti, bensì all’insorgere in essa di diversi stati interni. Ora, che cosa intende Leibniz per stati interni della monade? Ogni monade rappresenta a se stessa il mondo che la circonda. La sua configurazione interna dipende, pertanto, dal modo in cui percepisce il restante mondo – ossia tutte le altre monadi.
il cambiamento e l’attività interna delle monadi
Essendo attività ininterrotta, inoltre, la monade non riproduce sempre la stessa percezione, ma passa continuamente da una percezione all’altra. Per questo motivo, essa presenta stati interni sempre nuovi e configurazioni sempre diverse. Ciò che la spinge a questa continua crescita su se stessa è uno sforzo interno – anch’esso manifestazione dell’attività della monade – che Leibniz chiama appetizione . Si sarà notato come molto di ciò che si è detto della monade – esclusione della causalità esterna, rispecchiamento dell’intero universo – era già stato affermato a proposito della sostanza individuale. Infatti, per un verso, la monade non è altro che la nuova espressione con cui – a partire dal 1696 – Leibniz indica la sostanza individuale. Non si tratta, tuttavia, soltanto di un cambiamento terminologico. La monade, infatti, pur continuando ad assolvere la funzione di «forma sostanziale» delle cose, rivela anche una dimensione energetica e percettiva che nella sostanza individuale era soltanto implicita.
monade e sostanza individuale
7. La gerarchia delle monadi Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, l’universo risulta costituito da monadi, ovvero da atomi spirituali che percepiscono continuamente il mondo a essi circostante. Ora, secondo Leibniz, le monadi non sono tutte 10. leibniz
le monadi sono più o meno perfette
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uguali, ma hanno un differente grado di perfezione. Vi sono, infatti, monadi più consapevoli della propria attività percettiva e altre che lo sono di meno. In altri termini, le monadi possono avere diversi gradi di perfezione in base alla chiarezza e alla distinzione delle loro percezioni. materia e percezione inconsapevole
Secondo Leibniz, le monadi risultano gerarchicamente ordinate in base al loro grado di perfezione. Il gradino più basso della gerarchia è occupato da monadi che hanno percezioni così oscure e confuse da non essere consapevoli. Queste monadi costituiscono ciò che fenomenicamente appare come materia. Anche l’essenza della materia, infatti, è energia, attività, percezione, come ogni altro aspetto della realtà. Le monadi che costituiscono la materia sono anch’esse – come tutte le altre – una percezione dell’universo da un particolare punto di vista. Di questa percezione, tuttavia, esse non hanno alcuna consapevolezza.
animali e uomini
Nella catena gerarchica delle monadi si ha un salto qualitativo quando si passa dalla semplice percezione inconscia all’ appercezione , cioè alla percezione consapevole di se stessa. Anche qui possiamo, però, avere diversi gradi di perfezione. Ad esempio, negli animali la coscienza del percepire si accompagna soltanto alla memoria. Negli uomini, invece, essa è congiunta alla consapevolezza dell’identità del proprio io, cioè alla conoscenza di sé come spiriti dotati di ragione.
dio è la monade delle monadi
Il più alto livello di consapevolezza – e quindi di perfezione – è raggiunto in Dio, che si trova al vertice della scala gerarchica. Per Leibniz, in lui non solo le percezioni del mondo sono perfettamente chiare e distinte, ma si realizza anche l’unità di tutte le percezioni, di tutti i punti di vista sull’universo espressi dalle singole monadi. Solo la mente divina, infatti, determina con precisione i rapporti di ogni monade con tutte le altre e conosce ogni prospettiva particolare e confusa nella totalità delle prospettive reali e possibili. Leibniz afferma, inoltre, che Dio è il fondamento di tutte le altre monadi. Per dimostrare questa tesi, egli riprende la tradizionale prova dell’esistenza di Dio, che muove dalla contingenza del mondo creato. Come le cose contingenti possono esistere solo in virtù di un principio necessario, così le singole monadi possono trovare il principio della propria esistenza soltanto in Dio.
alcune monadi dominano le altre
La diversificazione gerarchica della realtà richiede per la sua comprensione un ulteriore chiarimento. Secondo Leibniz esistono monadi che hanno la facoltà di «dominarne» altre, in quanto le loro percezioni sono il fondamento della percezione di altre. In base alla capacità di dominio di una monade sulle altre, Leibniz distingue tra la materia organica e quella inorganica. Nel primo caso, esiste una «monade centrale» la quale – pur conservando la propria individualità – ha la capacità di ricondurre all’unità un aggregato di altre monadi. Tale monade – nell’uomo come nell’animale (benché, come si è visto, essa presenti nei due casi un diverso grado di perfezione) – è l’anima. Essa fa sì che le diverse monadi componenti il corpo costituiscano un organismo guidato da un principio vitale unitario. Al contrario, la materia inorganica è caratterizzata dall’assenza di una monade dominante che riconduca le altre all’unità.
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8. Piccole percezioni e conoscenza La distinzione tra percezione oscura e appercezione non viene utilizzata soltanto per distinguere le monadi prive di coscienza da quelle consapevoli di se stesse. Secondo Leibniz, infatti, anche all’interno delle monadi fornite di appercezioni – ad esempio, l’anima dell’uomo – ci sono percezioni che non giungono alla coscienza di sé. Dal fatto che la monade è sempre attiva si deduce che lo spirito dell’uomo pensa sempre, cioè non conosce interruzioni nella propria attività percettiva. Questo, però, non significa che tutte le sue percezioni siano coscienti, come dimostrano il sonno o i casi di manifesta incoscienza. Anzi, anche quando è desta, l’anima dell’uomo ha infinite piccole percezioni di cui non è consapevole, perché la loro intensità è troppo bassa per superare la soglia della coscienza . Per spiegare questo punto, Leibniz fa l’esempio del rumore del mare che ascolto sulla spiaggia. Il rumore del mare – il solo di cui io sono cosciente – nasce dall’insieme di tanti rumori provocati dalle singole onde, e quindi da altrettante percezioni. Queste ultime – non potendo essere percepite consapevolmente una per una – concorrono a determinare il rumore del mare e si «confondono» tutte insieme nell’unica percezione complessiva di cui sono cosciente:
percezioni senza appercezioni
Al fine di chiarire ancora meglio questa materia delle piccole percezioni che non sapremmo distinguere nel loro complesso, sono solito servirmi dell’esempio del muggito o rumore del mare che udiamo stando sulla riva. Per percepire questo rumore come lo si percepisce è ben necessario si odano le parti che ne formano il complesso, cioè a dire il rumore di ogni onda, benché ciascuno di questi piccoli rumori non si faccia sentire che nell’insieme confuso di tutti gli altri, e sarebbe inafferrabile se l’onda che lo produce fosse sola. Ma è ben necessario che si riceva in qualche modo una impressione dal movimento di quest’onda, e che si abbia qualche percezione di ciascuno di questi rumori per quanto piccoli; altrimenti, non se ne potrebbe avere del rumore di centomila onde, giacché centomila nulla non danno che nulla. E non avviene mai che si dorma tanto profondamente da non aver qualche percezione, per quanto velata e confusa; e il più gran rumore del mondo non ci sveglierebbe se non avessimo qualche percezione del suo principio, che è piccolo; a quel modo che non si spezzerebbe mai, neppure col più grande sforzo del mondo, una corda che non si tendesse ed allungasse qualche poco mediante sforzi di minore entità, benché il piccolo allungamento ch’essi ottengono non sia percettibile (Nuovi saggi sull’intelletto umano, Proemio).
La dottrina delle piccole percezioni inconsce è strettamente legata alla concezione leibniziana della conoscenza. Poiché la monade comprende in sé tutto il suo sviluppo (tutte le sue percezioni), essa contiene in sé anche tutta la sua conoscenza. Il sapere della monade è, quindi, completamente innato in essa. Secondo Leibniz, pertanto, ciò che appare come un processo di apprendimento è in realtà dallo stato di oscurità e di confusione – che le rende inconsce – a quello della chiarezza e distinzione – che ne consente la consapevolezza. In opposizione a Locke, Leibniz riprendeva così le tesi in-
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Leibniz Le piccole percezioni
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la concezione innatistica della conoscenza
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natistiche di Cartesio e di Malebranche e – in ultima analisi – di Platone, introducendo tuttavia un’importante correzione. A suo avviso, infatti, le nozioni innate non sono latenti nella mente dell’uomo sin dall’inizio nella loro interezza. Esse sono piuttosto virtualità che debbono essere ancora esplicate secondo la legge di sviluppo interna alla monade stessa [t31].
9. La dottrina dell’armonia prestabilita l’accordo reciproco di tutte le monadi
Per spiegare il continuo mutamento del mondo – e cioè l’interdipendenza tra le monadi – Leibniz ricorre alla dottrina dell’ armonia prestabilita . Tale interdipendenza deve essere spiegata senza supporre una causalità reciproca di una monade sull’altra, poiché altrimenti risulterebbero composte di parti e non sarebbero i costituenti ultimi della realtà. Leibniz espone la dottrina dell’armonia prestabilita servendosi dell’esempio di due orologi che procedono esattamente nello stesso modo, così da indicare entrambi sempre la stessa ora. La coincidenza tra i due orologi può essere spiegata in tre modi diversi. A essi corrispondono tre maniere di giustificare la relazione tra sostanze distinte.
come si spiega la relazione tra sostanze?
1. Il primo consiste nell’immaginare che i due orologi sono connessi in maniera tale da influenzarsi a vicenda. Analogamente la tradizionale concezione della causalità esterna spiega le relazioni reciproche tra le cose. 2. Il secondo presuppone un abile orologiaio che interviene continuamente sugli orologi per metterli al passo. Fuori di metafora, questa è la proposta dell’occasionalismo di Geulincx e Malebranche: per loro l’accordo tra sostanze diverse (in questo caso il pensiero e l’estensione cartesiani) è imputabile al continuo intervento straordinario di Dio [cfr. 6.3]. 3. La terza spiegazione asserisce che entrambi gli orologi hanno ricevuto esattamente la stessa carica e, pertanto, indicano a ogni momento la stessa ora senza l’intervento di alcunché (una causa esterna o Dio). Al medesimo principio obbedisce la dottrina dell’armonia prestabilita. In base a essa, Dio – all’atto della creazione del mondo – ha dato a ciascuna monade una legge di sviluppo che si armonizza con quella di tutte le altre.
la soluzione di leibniz
i mondi possibili e quello esistente
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Alla dottrina dell’armonia prestabilita è strettamente connessa quella secondo cui Dio ha creato il migliore dei mondi possibili . Si è già visto che Dio è la «monade delle monadi», ovvero la prospettiva sull’universo che include tutte le altre. In realtà, in Dio non sono contenute soltanto le prospettive delle monadi esistenti, ma anche quelle che non si sono mai realizzate in nessuna monade. Più semplicemente, nella mente infinita di Dio sono contenute – oltre al mondo esistente – le idee di tutti i mondi possibili, vale a dire di tutti i mondi che Dio avrebbe potuto creare in alternativa a quello presente. Sorge allora la domanda: perché Dio ha creato proprio questo mondo e non un altro degli infiniti possibili? La risposta di Leibniz è che questo è il migliore tra tutti. In altri termini, secondo Leibniz, Dio era ontologicamente in grado di creare qualsiasi mondo avesse voluto. Essendo 10. leibniz
Leibniz Dio crea il migliore dei mondi possibili
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infinita bontà, tuttavia, Dio era moralmente necessitato a scegliere il mondo migliore, cioè quello in cui è contenuta la minor quantità di male: Dalla perfezione suprema di Dio deriva che, creando l’Universo, ha scelto il miglior piano possibile, nel quale la più grande varietà (possibile) è congiunta col massimo ordine (possibile); il terreno, il luogo, il tempo sono i meglio preparati; la maggior quantità d’effetti è prodotta con le vie più semplici; nelle creature si trovano la maggior potenza, la maggior conoscenza, la maggior felicità e bontà che l’universo potesse ammettere. E ciò perché, nell’intelletto divino, in proporzione alle loro perfezioni, tutti i possibili pretendono all’esistenza; il risultato di tutte queste pretese dev’essere il mondo attuale, il più perfetto possibile. Senza di ciò, non sarebbe possibile rendere ragione perché le cose siano accadute così e non altrimenti (Princìpi della natura e della grazia).
10. Il problema del male La dottrina dell’armonia prestabilita consente a Leibniz di risolvere anche il problema della compatibilità del male nel mondo con l’esistenza e la bontà di Dio. Se Dio esiste ed è buono – si chiede Leibniz – perché ha creato un mondo in cui è presente il male, seppure in minima quantità? In particolare, Leibniz affronta questa questione nei Saggi di teodicea (1710). Quando dice che il mondo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili, Leibniz non intende sostenere che esso sia immune da mali. Una tale considerazione, infatti, contrasterebbe con la più elementare delle esperienze. Il significato dell’affermazione leibniziana, invece, è che – tra tutti i mondi possibili – nel nostro soltanto la massima quantità di bene si realizza insieme alla minima quantità di male.
se dio è giusto, perché esiste il male?
In particolare, Leibniz mostra come una certa quantità di male, tanto metafisico quanto morale, sia inevitabile in un mondo finito. Il male metafisico è soltanto un concetto negativo – come già aveva sostenuto Agostino – che esprime la differenza tra il creato e il creatore, ovvero l’impossibilità che il mondo e l’uomo abbiano la stessa perfezione di Dio. Se ciò avvenisse, infatti, il creato sarebbe Dio stesso. Anche il male morale nasce, secondo Leibniz, dall’imperfezione necessaria dell’uomo. Infatti, le percezioni e la conoscenza umane, per quanto tendano alla perfezione, non possono mai raggiungere la chiarezza e la distinzione assolute, proprie soltanto di Dio. Nell’uomo rimane, dunque, sempre un residuo di oscurità e di confusione che sta all’origine di ogni errore e di ogni peccato.
l’inevitabile imperfezione del mondo e dell’uomo
La tesi secondo cui il mondo reale è il migliore dei mondi possibile, in quanto in esso è contenuta la minore quantità possibile di male, venne definita da un contemporaneo di Leibniz con un neologismo destinato ad avere molta fortuna: ottimismo. L’ottimismo è a sua volta connesso con un altro importante aspetto del pensiero leibniziano: il finalismo. Come abbiamo già visto, il finalismo fisico e metafisico è implicito nella concezione
ogni monade tende verso il meglio
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leibniziana della realtà come energia e attività. Questo stesso finalismo si ritrova nella monade, nella quale esiste un irresistibile impulso a passare a percezioni sempre più chiare e distinte. Così facendo, la monade raggiunge gradi sempre maggiori di perfezione. Quest’ultima, secondo Leibniz, è di tipo morale oltreché conoscitivo. La perfezione della monade consiste, infatti, nella sempre più chiara conoscenza dei legami che la connettono a tutto il resto del mondo: Tutto è, infatti, regolato nelle cose, ed una volta per tutte, con tutto l’ordine o la corrispondenza possibili: la suprema saggezza e bontà non possono agire che secondo un’armonia perfetta: il presente è gravido dell’avvenire, il futuro potrebbe essere letto nel passato, ciò che è lontano è espresso in ciò che è vicino. Sarebbe possibile conoscere la bellezza dell’universo in ciascuna anima, se fosse possibile dispiegare tutte le pieghe che si sviluppano in modo sensibile solo col tempo. Ma, siccome ogni percezione distinta dell’anima comprende un’infinità di percezioni confuse che racchiudono tutto l’universo, l’anima stessa non conosce le cose di cui ha percezioni, se non in quanto ne abbia percezioni distinte ed in rilievo, e la sua perfezione è in proporzione delle sue percezioni distinte. Ciascuna anima conosce l’infinito, conosce tutto, ma confusamente, come quando uno passeggia in riva al mare ed ode il grande rumore che esso produce, ode i rumori particolari di ciascuna onda della quale il fremito totale è composto, ma non li distingue nettamente. Così le percezioni confuse sono il risultato delle impressioni dell’intero universo su di noi: lo stesso accade in ogni monade: Dio soltanto ha la conoscenza distinta di tutto, perché ne è la sorgente (Princìpi della natura e della grazia). il fine dell’uomo
Nella contemplazione dell’armonia che regna tra le diverse realtà dell’universo l’uomo comprende come in esso tutto sia volto al bene e come la sua stessa esistenza individuale debba contribuire a quello scopo. In questo modo, l’uomo – mentre persegue la destinazione specifica della sua natura – realizza la felicità a cui tutti aspirano.
in poche... parole Nel corso della sua vita, Leibniz affronta questioni inerenti a differenti discipline – quali la logica, la matematica, la dinamica, la teologia, ecc. – ma individua sempre nella filosofia il loro momento fondante. In tal senso, il pensiero leibniziano appare tendenzialmente orientato alla costruzione di un sistema filosofico unitario, sebbene egli non abbia mai esposto in modo organico le proprie concezioni all’interno di 230
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un’unica grande sintesi filosofica. Il suo maggior contributo in ambito logico consiste nel tentativo di matematizzare il pensiero, e cioè di ricondurre tutte le operazioni mentali ad una forma di calcolo razionale. Più precisamente, Leibniz cerca di identificare ciascun concetto con un carattere (o simbolo) che lo rappresenti, in modo da definire la struttura grammaticale e sintattica del pensiero. Dopo avere illu-
strato le caratteristiche della conoscenza vera, ricorrendo alla distinzione tra verità di ragione e verità di fatto, Leibniz si impegna a realizzare una convergenza tra piano del pensiero e piano della realtà attraverso la nozione di sostanza individuale. Le analisi dedicate al concetto di forza viva (conatus) e di monade hanno lo scopo di spiegare e di giustificare in termini metafisici la realtà fisica. In questo quadro, le mo-
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nadi rappresentano gli elementi ultimi delle cose e sono atomi di energia spirituale gerarchicamente ordinati tra loro, in base al grado di chiarezza e distinzione dell’attività percettiva che sono in grado di esprimere.
verità di ragione e verità di fatto Le verità di ragione, secon-
do Leibniz, corrispondono a combinazioni di concetti prive di contraddizione: in altre parole, si tratta di proposizioni in cui il predicato è già contenuto nel concetto del soggetto. Tali verità si fondano sul principio di identità e di non contraddizione, sono necessarie e infallibili (cioè sono sempre vere) e si riferiscono solo a ciò che è logicamente possibile, indipendentemente dal fatto che esso sia realizzato o meno nella realtà. Ad esempio, la proposizione «il cerchio è rotondo» è una verità di ragione perché è impossibile affermare il contrario senza contraddirsi: dire che «il cerchio è quadrato» equivale a dire che «il cerchio non è un cerchio». Le verità di fatto sono, invece, combinazioni di concetti di cui è possibile pensare il contrario senza cadere in contraddizione. Tali verità, a differenza delle verità di ragione, sono contingenti e si fondano sul principio di ragion sufficiente, in base al quale è possibile spiegare perché è accaduto così e non altrimenti. Ad esempio, la proposizione «Bruto ha pugnalato Cesare» è una verità di fatto perché di essa è possibile pensare il contrario senza cadere in contraddizione. In presenza di altre ragioni sufficienti, infatti, Bruto non avrebbe pugnalato suo padre e noi possiamo pensare ciò senza contraddirci. Per Leibniz, tra verità di ragione e verità di fatto non vi è una contrapposizione assoluta, ma soltanto di grado: nelle prime, l’identità di soggetto e predicato è immediata, nelle seconde, tale identità presuppone una serie indefinita di passaggi logici e può essere conosciuta soltanto da Dio.
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Quest’ultimo, disponendo di una conoscenza assoluta delle cose, ad esempio, è in grado di vedere come il predicato «ha pugnalato Cesare» sia contenuto nel concetto del soggetto «Bruto».
sostanza individuale Leibniz riprende la concezione aristotelica della sostanza in due sensi: a) in primo luogo, la sostanza è sempre riferita all’individuo; b) in secondo luogo, essa esprime la funzione logica/ontologica del soggetto/sostrato. In altri termini, la sostanza individuale è ciò che soggiace allo sviluppo delle determinazioni sostanziali, così come il soggetto rappresenta ciò a cui ineriscono i predicati. Ora, la sostanza – pur restando identica a se stessa – va incontro a mutazioni e a trasformazioni continue. Per spiegare questa situazione, Leibniz fa ancora ricorso alle nozioni aristoteliche di potenza e di atto, svincolandole però dal significato che avevano in Aristotele (potenza come potenzialità non ancora effettuata, atto come esplicazione effettuale della potenza). In Leibniz, atto e potenza diventano espressioni, a volte equivalenti, dell’attività della sostanza individuale, per cui essa tende a passare continuamente da una percezione all’altra – come apparirà ancora più chiaro nella dottrina delle monadi. monade La monade è un concet-
to fondamentale della metafisica leibniziana e riprende la dottrina della sostanza individuale, sviluppata da Leibniz nella prima fase del suo pensiero. È un atomo di forza, privo di estensione e di parti, quindi ingenerabile e incorruttibile. L’attività in cui la monade consiste è di tipo percettivo: essa infatti percepisce in ogni momento la totalità delle altre monadi (è un punto di vista sull’universo), anche se la maggior parte di queste percezioni non sono coscienti. Inoltre la monade – contenendo in sé l’intero suo sviluppo – non in-
trattiene relazioni causali con altre monadi. Le monadi si dispongono in successione gerarchica a seconda del grado di chiarezza delle loro percezioni (materia inorganica e organica, animali, spiriti). La monade delle monadi – quella che riassume in sé i punti di vista di tutte le altre monadi nonché tutti i punti di vista possibili – è Dio.
appetizione In latino appetitio, in greco òrexis. Il tendere verso qualcosa, o meglio il movimento orientato a soddisfare un bisogno o un desiderio e, più in generale, a perseguire un fine. Per Leibniz, l’appetizione è il principio dinamico che – all’interno della monade – promuove il passaggio da percezioni più confuse a percezioni più chiare. appercezione In Leibniz indica
la percezione consapevole di se stessa. Negli animali la coscienza del percepire è data semplicemente dalla capacità di congiungere due percezioni successive con un atto della memoria (per cui la seconda percezione comporta la consapevolezza della sua continuità con la percezione precedente). Negli uomini l’appercezione vera e propria comporta la consapevolezza del proprio io come entità permanente fornita di ragione.
La nozione di monade rappresenta non solo la riformulazione matura e definitiva dei concetti di sostanza individuale e di forza, elaborati in precedenza, ma permette a Leibniz di affrontare anche problemi di carattere fisico ed etico-teologico. In particolare, con la dottrina dell’armonia prestabilita, Leibniz cerca di spiegare il mutamento continuo delle cose e la relazione tra anima e corpo (già discussa da Cartesio e da Spinoza), senza ricorrere alla concezione della causalità esterna o a quella occasionalista del continuo intervento divino nel mondo. Inoltre, di10. leibniz
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mostrando che quello in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili, Leibniz cerca di risolvere la contraddizione tra la assoluta perfezione della giustizia divina e la presenza del male nel mondo. Ne emerge una visione complessiva di tipo finalistico: le monadi appaiono caratterizzate da un irresistibile impulso ad accrescere la perfezione delle loro percezioni (e quindi la loro conoscenza dell’universo); la felicità per l’uomo consiste nella contemplazione della fondamentale armonia di tutte le cose e della loro spontanea tendenza verso il meglio.
reciproca. Tale corrispondenza dipende dal fatto che Dio ha preordinato lo sviluppo di ciascuna monade secondo un ordine armonico stabilito all’atto della creazione. Lo stesso principio serve a Leibniz per spiegare la corrispondenza tra gli atti della volontà e i movimenti del corpo, e in generale il problema del rapporto tra anima e corpo, sorto con il dualismo cartesiano. Secondo Leibniz, la monade anima e l’aggregato di monadi che costituiscono il corpo seguono un ordine di sviluppo corrispondente, come se fossero due orologi che segnano la stessa ora perché sono stati caricati cogli stessi tempi.
armonia prestabilita Le mona-
teodicea Termine creato da Leib-
di non interferiscono causalmente le une con le altre. Di conseguenza la corrispondenza tra lo sviluppo interno di una monade e quello – altrettanto interno – di tutte le altre non è data dalla loro influenza
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niz come titolo di una sua opera (Saggi di teodicea, 1710), in cui affronta i temi della giustizia divina e della conciliazione di essa con la presenza del male nel mondo. Quando Leibniz sostiene che il
mondo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili, non intende dire che esso sia esente da mali. Nel mondo finito, infatti, una certa quantità di male è inevitabile: il male metafisico dipende dalla incolmabile differenza di perfezione tra il creatore e la creatura; il male morale dall’impossibilità per l’uomo di raggiungere la conoscenza perfettamente chiara e distinta propria di Dio. Questo residuo di oscurità o di confusione nelle percezioni proprie dell’uomo sono alla base dell’errore e del peccato. Il fatto che il mondo esistente sia il migliore dei mondi possibili significa solo che Dio, pur potendo nella sua onnipotenza creare qualsiasi mondo avesse voluto, a causa della sua infinita bontà è moralmente necessitato a creare – tra tutti quelli possibili – il mondo migliore, ovvero quello che contenga la minore quantità di male.
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i testi t29 Leibniz / La sostanza individuale Leibniz
Discorso di metafisica
capp. VIII, IX
Il Discorso di metafisica, composto nel 1685-1686, è la prima esposizione del pensiero filosofico di Leibniz. Esso doveva avere la funzione di uno schema da presentare ad Arnauld, di modo che la discussione epistolare tra i due filosofi potesse svolgersi su un testo concreto. Per questo è diviso in brevi capitoletti, che gli conferiscono una certa organicità.
La sostanza individuale contiene tutti i predicati del soggetto È ben vero che, quando parecchi predicati si attribuiscono al medesimo oggetto, se questo soggetto non si attribuisce più ad alcun altro, lo si chiama sostanza individuale; ma ciò non basta, perché questa spiegazione è soltanto nominale1. Bisogna perciò considerare cosa significhi l’essere attribuito veramente ad un certo soggetto. Ora è costante che ogni vera predicazione ha qualche fondamento nella natura delle cose e, quando una proposizione non è 1. Nella logica aristotelico-scolastica i termini sono ordinati gerarchicamente in base al loro livello di predicabilità. Ad esempio: «essere vivente» è predicato del soggetto «animale» («ogni animale è vivente»), il quale a sua volta è predicato del soggetto «uomo», il quale è ulteriormente predicato del soggetto «Socrate». Ciò è anche esprimibile dicendo che i termini sono ordinati gerarchicamente in base al rapporto genere-specie («uomo» è specie rispetto ad «animale», ma è genere rispetto a «Socrate»). Scendendo fino al limite inferiore della scala gerarchica, si giunge così a soggetti che non possono più essere predicati di nulla (mentre sono attribuibili a essi come predicati tutti i termini dei livelli sovrastanti): di Socrate (soggetto) posso di-
identica, cioè quando il predicato non è espressamente compreso nel soggetto, bisogna che vi sia compreso virtualmente; ed è ciò che i filosofi chiamano in-esse, dicendo che il predicato è nel soggetto2. Bisogna, quindi, che il termine del soggetto racchiuda sempre quello del predicato, in modo tale che colui che comprendesse perfettamente la nozione del soggetto dovrebbe anche giudicare che il predicato gli appartiene. Stando così la cosa, possiamo dire che la natura di una sostanza individuale o di un essere
re che è uomo (predicato), che è essere animato, ecc., ma non c’è più nulla rispetto a cui il soggetto Socrate possa fungere da predicato. In termini di rapporto tra genere e specie, si giunge così a specie che non sono più generi di nulla, bensì sono «specie infime». Questi soggetti non più predicabili (o queste specie che non sono più generi di nulla) sono «sostanze individuali» (Socrate, Platone, Aristotele). In questo modo però le sostanze individuali sono ricavate in base a un procedimento puramente logico, che lascia da parte il loro spessore metafisico (a meno che, come fa Aristotele, non si sia già dimostrato per altra via come tutti i termini considerati siano anche sostanze). 2. L’inerenza logica del predicato al soggetto («Socrate è uomo») è quindi
per Leibniz la conseguenza necessaria di una presenza metafisica di tale predicato in una sostanza che lo contiene (esiste una sostanza «Socrate» che contiene metafisicamente in sé l’umanità). Ciò vale però non soltanto per le proposizioni identiche, in cui il predicato è già espressamente (e necessariamente) contenuto nel soggetto (come potrebbe essere l’esempio dell’umanità di Socrate), ma anche per quelle in cui il predicato è soltanto virtualmente contenuto nel soggetto, cioè appare come una semplice potenzialità contingente, che non è necessariamente contenuta nel soggetto e (almeno dal punto di vista umano) può essere conosciuta solo per esperienza (Socrate muore di cicuta).
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completo è di avere una nozione così completa, da essere sufficiente a comprendere e a farne dedurre tutti i predicati dal soggetto al quale la nozione è attribuita3. L’accidente è, invece, un essere la cui nozione non racchiude tutto ciò che si può attribuire al soggetto al quale quella nozione si attribuisce4. Così la qualità di re che appartiene ad Alessandro il Grande, facendo astrazione dal soggetto, non è abbastanza determinata a un individuo e non racchiude le altre qualità dello stesso oggetto, né tutto ciò che la nozione di questo principe comprende; invece Dio, mentre vede la nozione individuale o ecceità5 di Alessandro, vi vede al tempo stesso il fondamento e la ragione di tutti i predicati che ad essa si possono con verità attribuire, come, per esempio, che egli vincerà Dario e Poro, fino a riconoscervi a priori (e non per esperienza) se egli sia morto di morte naturale o di veleno, cose che noi non possiamo sapere se non dalla storia. Così, quando si considera bene la connessione delle cose, si può dire che, in ogni mo-
3. In altri termini: nella sostanza indi-
viduale sono già metafisicamente contenuti tutti gli avvenimenti e tutte le determinazioni relative al futuro sviluppo della sostanza stessa. Cfr. quanto Leibniz sostiene altrove: «La nozione completa o perfetta di una sostanza singolare implica tutti i suoi predicati passati, presenti e futuri». 4. La determinazione della sostanza individuale come nozione completa di tutti i predicati a essa relativi introduce un nuovo criterio di distinzione tra sostanza e accidente. In opposizione alla sostanza individuale, l’accidente non contiene la totalità dei predicati (ma è esso stesso un predicato della sostanza). Come viene esemplificato subito dopo, la vittoria su Dario è un predicato della sostanza individuale «Alessandro Magno», non già dell’accidente «re dei Macedoni» (infatti non basta essere re dei Macedoni per sconfiggere Dario, mentre la «ragione sufficiente» della sconfitta di Dario è contenuta nella sostanza individuale di Alessandro). 5. Ecceità (latino haecceitas, da haec, «questa») è propriamente la particolare interpretazione che Duns Scoto dà del «principio di individuazione»: l’ha-
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mento, si trovano nell’anima di Alessandro Magno le tracce di tutto ciò che gli è accaduto ed i segni di tutto ciò che gli accadrà, nonché le tracce di tutto ciò che accade nell’universo, sebbene appartenga solo a Dio il riconoscerle tutte6.
La sostanza è un punto di vista sull’universo Da ciò derivano parecchi paradossi degni di osservazione, tra gli altri questo, che non è vero che due sostanze possano somigliarsi interamente e differire soltanto solo numero7. Inoltre, ogni sostanza è come un mondo intiero e come uno specchio di Dio o di tutto l’universo che essa esprime a suo modo, press’a poco come una medesima città è rappresentata diversamente a seconda delle differenti posizioni in cui si trova colui che la guarda8. Così l’universo è in qualche modo moltiplicato tante volte quante sono le sostanze, e la gloria di Dio è similmente moltiplicata dalle tante rappresentazioni, tutte differenti, della
ecceitas è quella peculiarità formale che permette all’individuo di distinguersi da tutti gli altri individui della stessa specie. Ma Leibniz usa qui il termine nel più generico senso di individualità, di ciò che caratterizza ciascun individuo in quanto tale. 6. Per quanto la vittoria su Dario fosse già contenuta sin dall’inizio nella sostanza individuale di Alessandro Magno, soltanto Dio poteva prevederla in base alla conoscenza completa di tale sostanza. L’uomo l’ha potuta apprendere solo a posteriori, mediante l’esperienza: per questo essa, pur dovendo necessariamente accadere, conserva ai suoi occhi un valore contingente. 7. L’infinità dei predicati che compongono la sostanza individuale la determinano come una sostanza singolarissima, che si differenzia da tutte le altre. Si allude qui al principio logico-metafisico della identità degli indiscernibili. 8. Ritroveremo questo esempio nella Monadologia. La coimplicazione della sostanza individuale con tutte le altre, in maniera tale che tutto l’universo si rispecchi in essa dal suo particolare punto di vista, è il tema centrale di questo capitoletto che, nella versione
presentata da Leibniz ad Arnauld, veniva così riassunto: «Ogni sostanza individuale esprime, alla sua maniera, tutto l’universo e nella sua nozione sono compresi tutti i suoi eventi, con tutte le loro circostanze e tutta la serie delle cose esterne». Per meglio comprendere il carattere prospettico della sostanza individuale si può ricorrere al seguente esempio. Si immagini un punto geometrico su un foglio. La realtà di questo punto geometrico, che è privo di estensione, è definita dal suo rapporto con tutti gli altri punti del foglio, cioè dalla prospettiva in cui il punto si pone rispetto a tutti gli altri. La stessa cosa vale per la sostanza individuale, con la sola differenza che la sua realtà non è, come quella del punto geometrico, soltanto logico-matematica, ma metafisica. In ogni caso però l’individualità della sostanza è definita dalla totalità dei suoi rapporti con tutte le altre sostanze (il che equivale a dire la totalità dei suoi predicati), esattamente come l’individualità di un punto geometrico è definita dalla sua posizione rispetto a tutti gli altri punti.
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sua opera9. Si può anche dire che ogni sostanza in qualche modo porta in sé il carattere della sapienza infinita e della onnipotenza di Dio e che lo imiti per quanto ne é capace. Essa infatti esprime, benché in modo confuso, tutto ciò che accade nell’universo, passato, presente, futuro, il che rassomiglia, in qualche modo, ad una percezione o conoscenza infinita; e poiché tutte le altre sostanze, a loro volta, esprimono quella e le si coordinano, si può dire che essa estende il suo potere su tutte le altre, ad imitazione dell’onnipotenza del Creatore. 9. Poiché ogni sostanza individuale è una rappresentazione dell’universo intero da un determinato punto di vista, ci saranno tante rappresentazioni dell’universo (cioè tanti punti di vista su di
GUIDA ALLA LETTURA 1. Cosa fa sì che una sostanza sia individuale? 2. Spiega e commenta il passo «Bisogna, quindi, che il termine del soggetto racchiuda sempre quello del predicato, in modo tale che colui che comprendesse perfettamente la nozione del soggetto dovrebbe anche giudicare che il predicato gli appartiene». 3. Riassumi le motivazioni per cui la «sostanza individuale» deve essere in sé «come un mondo intiero».
esso) quante sono le sostanze individuali. Dio – che è anch’egli una sostanza individuale – è l’insieme di queste rappresentazioni, la totalità dei punti di vista: nella sua mente sono tuttavia
contenute anche le rappresentazioni dell’universo che non si sono realizzate, cioè i mondi soltanto possibili.
t30 Leibniz / Le monadi Leibniz
Monadologia
§§ 1-19
I Princìpi di filosofia o Monadologia sono forse l’opera più conosciuta di Leibniz. Scritti in francese nel 1714, essi vennero ben presto tradotti in tedesco e poi in numerose altre lingue. Ma alla notorietà che essi procurarono al loro autore non si accompagnò sempre un adeguato favore. I numerosi scritti comparsi ai tempi di Leibniz contro la dottrina delle monadi testimoniano delle difficoltà che già i contemporanei ebbero nell’accoglierla, e spesso anche nel comprenderla. Quando l’Accademia delle scienze di Berlino come tema a concorso per il 1747 propose la domanda se fosse possibile interpretarla in maniera comprensibile, il premio venne assegnato a una risposta negativa. Pur con queste difficoltà la Monadologia costituisce una delle più coerenti e, malgrado la sinteticità, complete esposizioni del pensiero leibniziano. Affrontiamo quindi la non facile lettura dei paragrafi relativi agli elementi più caratterizzanti della monade.
Caratteri generali della monade La monade, della quale parleremo, non è altro che una sostanza semplice, che entra nei composti; semplice, cioè, senza parti1. 1. Cfr. questo passo dei Princìpi della
natura e della grazia fondati sulla ragione: «La sostanza è un essere capace di azione. Essa è semplice o composta. La sostanza semplice è quella che
E debbono esserci sostanze semplici, perché ve ne sono di composte; il composto non essendo altro che un ammasso o aggregatum di semplici2.
non ha parti. La composta è l’unione delle sostanze semplici o delle monadi. Monàs è un termine greco che significa unità o ciò che è uno». Come termine filosofico l’espressione «monade»
compare per la prima volta in Giordano Bruno. 2. La semplicità è per Leibniz espressione della vera sostanza e della vera realtà. Ciò che è scomponibile è soltan-
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Ora, laddove non ci sono parti, non c’è né estensione, né figura, né divisibilità possibili. Queste monadi sono i veri atomi della natura e, in una parola, gli elementi delle cose. Non è da temere alcuna dissoluzione e non è concepibile alcun modo per il quale una sostanza semplice possa naturalmente estinguersi3. Per la stessa ragione non c’è alcun modo per il quale una sostanza semplice possa avere un’origine naturale, perché essa non può formarsi per composizione4. Così si può affermare che le monadi non possono cominciare né finire, cioè, che possono cominciare solo per creazione e finire per annientamento: mentre ciò che è composto, comincia o finisce per parti. Di conseguenza, non c’è un mezzo per spiegare come una monade possa essere alterata o modificata nella sua interiorità da qualche altra creatura, non essendovi in essa nulla da trasportare, né potendosi concepire in essa alcun movimento interno che vi possa essere suscitato, diretto, accresciuto o diminuito, come accade nei composti, nei quali c’è mutamento tra le parti5. Le monadi non hanno finestre, attraverso le quali qualcosa possa entrare od uscire6. Gli accidenti non possono staccarsi
to un fenomeno che può essere risolto in elementi ultimi e semplici. 3. Non c’è quindi una vera e propria morte, poiché le monadi possono scomparire solo per annichilimento da parte di Dio. Ciò che noi chiamiamo morte è in realtà risoluzione di un composto nei suoi elementi semplici, i quali quindi non periscono. Di qui consegue anche che l’anima, che consta di una monade semplice, è immortale. 4. Cfr. questa affermazione contenuta sempre nei Princìpi della natura e della grazia: «Così Dio soltanto è l’unità primitiva o la sostanza semplice originaria, della quale tutte le monadi create o derivate sono produzioni e nascono, per così dire, in virtù di Fulgurazioni continue della divinità di momento in momento». È qui importante l’inciso «per così dire». L’espressione «fulgurazioni» è infatti immaginosa, indican-
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dalle sostanze, né passeggiare fuori di esse, come in altri tempi facevano le specie sensibili degli Scolastici7. Così, né le sostanze, né gli accidenti possono entrare dal di fuori in una monade. Nondimeno è necessario che le monadi abbiano alcune qualità, altrimenti non sarebbero neppure esseri. E se le sostanze semplici non differissero per le loro qualità, non vi sarebbe mezzo per scorgere alcun mutamento nei corpi, perché ciò che è nel composto non può derivare che dagli elementi semplici, e le monadi, supposte senza qualità, sarebbero indistinguibili l’una dall’altra, visto che non differirebbero neppure per la quantità… Di conseguenza, nell’ipotesi del pieno, ogni luogo non riceverebbe nel movimento che l’equivalente di ciò che già aveva ricevuto e uno stato di cose sarebbe indiscernibile dall’altro. Bisogna ammettere che ogni monade sia differente da ogni altra. In natura, infatti, non vi sono mai due esseri che siano perfettamente l’uno come l’altro e nei quali non sia possibile trovare una differenza interna o fondata su una denominazione intrinseca8.
do semplicemente il fatto che non c’è un processo generativo delle monadi (che comporterebbe composizione), ma che esse passano immediatamente dal non essere all’essere, e vengono conservate in essere, per un continuo atto creativo di Dio. Analogamente nel Discorso di metafisica, Leibniz parla in proposito di «emanazione». 5. È quindi escluso che la monade possa subire influenze causali dall’esterno. Ciò infatti comporterebbe l’introduzione in essa di qualcosa di nuovo (cioè di una parte che prima non c’era, per esempio un movimento che prima non faceva parte di essa) o comunque un mutamento dei rapporti tra le sue parti. Non avendo parti, la monade non può quindi subire un’azione di tal genere. 6. Si tratta ovviamente di una metafora. 7. Vi è un filone della filosofia scolastica, peraltro minoritario, che considera
le species, cioè le «immagini» sensibili delle cose, come fornite di un loro essere proprio: pertanto esse sarebbero in grado di «staccarsi» dalle cose e di «passeggiare fuori di esse». Qualcosa di simile, ad esempio, era sostenuto da Ruggero Bacone nel De multiplicatione specierum. Non è chiaro, tuttavia, a chi Leibniz intenda qui riferirsi in particolare. 8. Questa è una conseguenza del principio dell’identità degli indiscernibili, secondo il quale due sostanze che fossero perfettamente uguali sarebbero la stessa sostanza. La differenza tra le monadi è sempre una differenza qualitativa (perché quantitativamente sono tutte identiche). A sua volta la diversità di qualità, non potendo derivare dall’esterno (perché la monade non ha finestre), deve essere il risultato di una differenziazione, e quindi un mutamento interno alla monade stessa.
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Percezione e appetizione Ritengo come ammesso che ogni essere creato, e perciò anche la monade creata, è soggetto a mutamento, e che questo mutamento è continuo in ciascuna9. Da quanto abbiamo detto, consegue che i mutamenti naturali delle monadi derivano da un principio interno, perché una causa esterna non potrebbe influire nel suo interno. Occorre però che oltre il principio del mutamento, si trovi in essa un dettaglio di ciò che muta, che costituisca, per così dire, la specificazione e la varietà delle sostanze semplici10. Questo dettaglio deve implicare una molteplicità nell’unità o nel semplice. Infatti, poiché ogni mutamento naturale avviene per gradi, qualcosa muta o qualcosa permane; di conseguenza bisogna che nella sostanza semplice vi sia una pluralità di affezioni e di rapporti, benché non vi siano parti11. Lo stato passeggero, che implica e rappresenta una molteplicità nell’unità o sostanza semplice, non è altro che ciò che è chiamato percezione12, e che deve essere distinta dall’appercezione o coscienza, come si vedrà in seguito13. Ed è su questo punto che i cartesiani
9. Il mutamento interno alla monade è
conseguenza immediata del fatto che la monade è un centro di forza; e poiché la forza è un’attività continua, anche il mutamento sarà continuo. 10. Ovvero: i mutamenti interni alle monadi devono differire in ciascuna di esse, altrimenti le monadi non potrebbero distinguersi l’una dall’altra. 11. Il mutamento comporta insieme unità (della cosa che muta) e molteplicità (degli stati interni a ciò che muta). Ed è proprio questo tipo di molteplicità che Leibniz ammette nella monade: in quanto semplice, essa non contiene una molteplicità di parti, ma in quanto forza che diviene, essa contiene una molteplicità di stati interni. 12. Oltre a quello illustrato nella nota precedente, vi è un secondo modo di intendere il rapporto tra unità e molteplicità. Ciascuno stato interno della monade corrisponde infatti a una rappresentazione, nella quale la molteplicità delle cose percepite (che, come vedre-
alef
Leibniz Le piccole percezioni
hanno sbagliato gravemente, avendo considerato come un nulla le percezioni delle quali non si abbia appercezione14. Questo sbaglio li ha portati a credere che soltanto gli spiriti siano monadi, e che non esistano né anima delle bestie, né altre entelechie; e così hanno confuso, come fa il popolo, un lungo stordimento15 con la morte propriamente detta, cosa che li ha fatti ricadere nel pregiudizio degli Scolastici, delle anime interamente separate16, e che ha perfino confermato gli spiriti mal disposti nell’opinione della mortalità dell’anima. L’azione del principio interno che opera il mutamento o il passaggio da una percezione all’altra può essere chiamata appetizione: questa, è vero, non può raggiungere interamente la percezione cui tende, pur ne raggiunge sempre una parte e giunge a percezioni nuove17. [...] Si potrebbe dare il nome di entelechie a tutte le sostanze semplici o monadi create, perché esse hanno una certa perfezione (e[cousi to; ejntelev~18), una certa autosufficienza (aujtavrkeia19), che le rende come sorgenti delle loro azioni interne e, per così dire, automi incorporei20.
mo, sono tutte le altre monadi) viene ricondotta all’unità di una singola percezione. Le percezioni sono infatti definite nei Princìpi della natura e della grazia come «le rappresentazioni nel semplice [cioè nell’unità] del composto o di ciò che è esterno [cioè del molteplice]». In questo modo Leibniz riprende e risolve a modo suo il problema platonico del rapporto tra l’uno e i molti. 13. Una più chiara definizione di questa distinzione è contenuta nei Princìpi della natura e della grazia: «È opportuno distinguere tra la Percezione, che è lo stato interiore della monade che si rappresenta le cose esterne, e l’Appercezione, che è la coscienza o conoscenza riflessa di quello stato interno…». 14. Pur non giungendo al livello dell’appercezione, anche la percezione inconscia è un vero percepire. Cfr. in proposito quanto si dice delle «piccole percezioni» . Quindi tutte le sostanze, anche i corpi inorganici, hanno percezioni, ancorché inconsce; e, analoga-
mente, anche gli animali hanno un’anima, per quanto diversa dallo spirito umano. Per Cartesio invece la percezione è una funzione della «sostanza pensante»: ciò che è mera sostanza estesa, come i corpi inorganici o gli animali, non può quindi autenticamente percepire. 15. Ancora un’allusione alle «piccole percezioni» inconsapevoli, le sole di cui un uomo dispone quando perde i sensi. 16. Si allude alla concezione di una completa separazione tra le anime, che sole percepirebbero, e i corpi materiali, privi di alcuna percezione. 17. Già sappiamo che la monade è un atomo di forza, cioè di attività ininterrotta che si esprime in continuo sforzo (conatus) verso nuovi stati interni, cioè nuove rappresentazioni o percezioni. In tale sforzo consiste l’appetizione (appetitus). 18. èchousi to entelès. 19. autàrcheia. 20. Il termine «entelechia» intende
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Se poi vogliamo chiamare Anima tutto ciò che ha percezioni ed appetizioni, nel senso generale or ora chiarito, tutte le sostanze semplici o monadi create possono essere chiamate anime; ma siccome il sentire21 è qualcosa di più di una semplice percezione, penso che il nome più generale di monadi o di entelechie possa bastare per le sostanze semplici che hanno la sola percezione; e che debbono essere chiamate anime quelle che hanno percezioni più distinte ed accompagnate da memoria22. qui indicare anche il carattere di autonomia della monade, che trae da se stessa tutto il proprio sviluppo. Il termine «automa» va inteso in senso etimologico (dal greco autòs, «se stesso», e mào, «muoversi verso»; latino petere) di un essere che ha in sé il principio del proprio movimento, intendendo qui per quest’ultimo il movimento
GUIDA ALLA LETTURA 1. Cosa significa che le monadi sono sostanze semplici? 2. Se le monadi non agiscono l’una sull’altra, come avvengono i mutamenti naturali? 3. La differenza tra percezione e appercezione comporta una distinzione tra monadi. In che senso? 4. Quali sono le monadi che possono essere chiamate entelechie? 5. Quali sono le monadi che possono essere chiamate anime?
interno della monade, lo sforzo dell’appetizione che la spinge a sempre più elevate percezioni. 21. Per sentimento Leibniz intende una «percezione accompagnata da memoria», secondo la definizione fornita nei Princìpi della natura e della grazia. 22. I corpi materiali inanimati sono formati da monadi che hanno soltanto
percezioni inconsce: essi non possono quindi essere detti anime. Quest’ultimo termine può invece essere attribuito agli animali, nei quali la percezione si accompagna alla memoria, cioè è un vero sentire.
t31 Leibniz / L’anima non è una tabula rasa Leibniz
Nuovi saggi sull’intelletto umano
Proemio
Si è già detto che i Nuovi saggi sull’intelletto umano sono una puntuale analisi polemica del Saggio sull’intelligenza umana di Locke. Particolarmente rilevante è il proemio nel quale Leibniz anticipa alcuni punti di divergenza con il filosofo inglese. Tra questi riveste una particolare importanza la discussione sull’origine della conoscenza, che coinvolge la difesa dell’innatismo.
Si tratta di sapere se l’anima in se stessa è assolutamente vuota come una tavoletta sulla quale non è stato ancora scritto nulla (tabula rasa), secondo Aristotele1 e l’autore del Saggio2, e se tutto ciò che vi è impresso proviene unica-
1. Riferimento alla concezione aristotelica espressa nel De
anima.
2. Si riferisce a Locke e al suo Saggio sull’intelligenza umana.
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mente dai sensi e dall’esperienza; o se l’anima contiene originariamente i princìpi di più nozioni e conoscenze, che gli oggetti esterni risvegliano soltanto, in determinate occasioni, come credo con Platone e con la Scuola e così con tutti quelli che intendono in questo senso quel passo di S. Paolo (Rom., II, 15), nel quale egli dice che la legge di Dio è scritta nei cuori. [...] Donde nasce un’altra questione, se cioè tutte
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le verità provengano dall’esperienza, cioè a dire dall’induzione e dalle prove, o ve ne siano che hanno un altro fondamento. Giacché, se certi avvenimenti possono esser previsti avanti d’averne fatta qualsiasi esperienza, è evidente che portiamo in ciò qualcosa da parte nostra. I sensi, benché necessari per tutte le nostre conoscenze presenti, non sono sufficienti a darcele tutte, in quanto essi non ci offrono se non esempi, cioè verità particolari o individuali. Ora, tutti gli esempi, che confermano una verità generale, in qualunque numero essi siano, non sono sufficienti a stabilire la necessità universale di questa medesima verità, giacché non consegue affatto che ciò che è accaduto debba accadere sempre nella medesima guisa. Per esempio, i greci, i romani e tutti gli altri popoli, osservarono sempre che nel corso di ventiquattro ore il giorno si muta in notte e la notte in giorno. Ma avrebbero errato credendo osservarsi lo stesso ordine dappertutto, giacché nella Nuova Zembla si è visto appunto il contrario. E così errerebbe chi credesse che, nelle nostre regioni almeno, sia quella una verità necessaria ed eterna, poiché bisogna credere che la Terra e lo stesso Sole non esistono necessariamente, e che verrà forse un tempo nel quale questo bell’astro non sarà più, né tutto il suo sistema, almeno nella sua forma presente. Donde appare che le verità necessarie, quali si trovano nelle matematiche pure, e particolarmente nell’aritmetica e nella geometria, devono aver princìpi, la prova dei quali non dipende dall’esperienza, e perciò neppure dalla testimonianza dei sensi; benché senza l’aiuto dei sensi non vi si sarebbe mai posto mente. Bisogna intender bene ciò, ed Euclide l’ha inteso bene, dimostrando sovente per mezzo della ragione ciò che si vede sufficien-
3. Il carattere innato riguarda dunque tanto le «verità necessarie» fondate sul principio di identità quanto alcune verità teologiche e alcuni princìpi pratici (si ricordi che Locke escludeva l’esistenza di nozioni innate che riguardassero sia princìpi teoretici sia princìpi pratici).
temente per via d’esperienza e di immagini sensibili. Anche la logica con la metafisica e la morale, delle quali quella costituisce la teologia naturale, questa la giurisprudenza naturale, son piene di tali verità, e la loro prova non può in conseguenza procedere se non ai princìpi interni che dicono innati3. È vero che non bisogna punto credere di poter leggere a prima vista nell’anima queste leggi eterne della ragione, come si legge nell’albo l’editto del Pretore, senza difficoltà e senza bisogno d’investigare; è assai, anzi, di poterle scoprire in noi a forza di attenzione, in occasioni che i sensi ci forniscono; e il risultato delle esperienze serve di conferma alla ragione press’a poco come in aritmetica le riprove servono a meglio evitare l’errore di calcolo quando il ragionamento è lungo4. [...] Mi sono dunque servito del paragone d’un blocco di marmo venato, piuttosto che di quello d’un blocco di marmo uniforme, o delle tavolette vuote, o, in altre parole, di ciò che i filosofi chiamano tabula rasa. Giacché, se l’anima fosse come queste tavolette vuote, le verità sarebbero in noi come l’immagine d’Ercole in un blocco di marmo, quando questo marmo è del tutto indifferente a ricevere questa immagine, o qualche altra. Se nel blocco fossero invece venature che segnassero l’immagine d’Ercole a preferenza di altre immagini, questo blocco vi sarebbe più disposto, e l’Ercole vi sarebbe in certo modo come innato, per quanto fosse sempre necessario un lavoro per scoprire queste vene e polirle, togliendo ciò che impedisce loro di mostrarsi5. Nello stesso modo ci sono innate le idee e le verità, e cioè come inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali, e non già come operazioni, benché queste virtualità siano
Non sono invece innate le verità di fatto, le quali, potendo essere diversamente da come sono, devono essere confermate dall’esperienza. 4. Rispetto alle idee innate l’esperienza ha quindi, generalmente, sia una funzione rammemorativa (in accordo
con la tradizione platonica) sia una funzione confermativa o di controllo. 5. L’esempio del blocco di marmo che già contiene le venature che saranno evidenziate dallo scultore nel trarre da esso la statua deriva da Platone.
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sempre accompagnate da spesso insensibili operazioni corrispondenti6.
6. Si ricordi che per Leibniz la monade è forza, attività, continuo conato verso nuove percezioni. In questo senso c’è sempre in essa un momento virtuale che attende di essere esplicitato, ovvero ci sono sempre in essa percezioni ancora inconsapevoli che attendono di conseguire il livello della coscienza, di divenire «appercezioni». Ciò che è innato è ciò che è potenzialmente già conosciuto, ma che ancora non si è trasformato in una percezione consapevole.
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GUIDA ALLA LETTURA 1. Ricostruisci la posizione di Leibniz in merito all’esistenza di princìpi interni innati e le ragioni della polemica con Locke. 2. Con l’esempio dell’immagine di Ercole in un blocco di marmo Leibniz cerca di spiegare il ruolo dell’esperienza nella conoscenza. Esponilo con parole tue. 3. Definisci il concetto di «verità necessaria» ed elenca le conclusioni che Leibniz ne ricava. 4. Perché, secondo Leibniz, l’anima non è vuota come una tabula rasa?
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esercizi/10 CHE COSA SO?
11. Che differenza c’è fra «verità di ragione» e «verità di fatto»?
Guida allo studio del manuale
12. Perché le verità di fatto non sono del tutto contrapposte alle verità di ragione?
1. Evidenzia quali sono, secondo Leibniz, i limiti dell’idea cartesiana di estensione. 2. Evidenzia le ragioni per cui Leibniz introduce il concetto di forza. 3. Evidenzia la differenza tra la conoscenza a priori e quella a posteriori dei predicati della sostanza individuale. 4. Evidenzia gli aspetti finalistici della metafisica e della fisica di Leibniz. 5. Evidenzia le caratteristiche delle monadi.
13. Ricostruisci l’argomentazione per cui al soggetto corrisponde una «sostanza individuale». 14. Perché non possono sussistere rapporti di causalità reciproca fra le sostanze individuali? 15. Che relazione sussiste tra queste tre nozioni: monade, atomo, forza? 16. Qual è la struttura gerarchica delle monadi?
6. Evidenzia le ragioni per cui Dio è il fondamento di tutte le altre monadi.
Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe)
7. Evidenzia la distinzione tra materia organica e inorganica.
17. Perché il «principio di identità» è la legge logica fondamentale e il «principio di contraddizione» può essere considerato la variante negativa del primo?
8. Evidenzia i motivi per cui quello creato da Dio è il migliore dei mondi possibili. Dizionario filosofico 9. Definisci i seguenti concetti:
characteristica universalis • identità degli indiscernibili • monade • percezione e appercezione • teodicea
CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 10. Qual è l’obiettivo che Leibniz si propone nell’elaborazione della sua logica?
esercizi/10
18. Quale rapporto lega la logica di Leibniz alla sua metafisica? 19. Quale rapporto lega la metafisica di Leibniz alla sua fisica? 20. Confronta il pensiero di Leibniz con quello di Locke in ordine alla formazione delle conoscenze. 21. Che cosa spinge le monadi a passare dalle percezioni oscure e confuse a quelle chiare e distinte? 22. Che cosa vuol dire che ogni monade è uno «specchio dell’intero universo»? 23. Illustra il problema del male nel pensiero di Leibniz. 24. In che cosa consiste l’«ottimismo» del pensiero leibniziano?
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il «vocabolario mentale» degli uomini
Nelle sue ricostruzioni storiche Vico si serve del metodo genetico: per spiegare ciò che l’uomo ha fatto nella storia occorre comprendere le forme mentali che hanno presieduto – nello sviluppo della specie come dell’individuo – alla produzione delle sue azioni. In altri termini, occorre descrivere una metafisica della mente umana, individuando la sintassi e il lessico mentali che costituiscono le strutture psichiche di ogni agire storico. storia e provvidenza divina
Ne scaturisce un modello evolutivo della mente umana – la storia ideale eterna – che è la matrice di tutte le storie reali dei singoli popoli. In base a essa, le modalità del sentire e del pensare sono comuni a tutti gli uomini. In quanto è conforme al modello ideale eterno, la storia universale risulta dotata di una direzione unitaria ed è espressione della provvidenza divina.
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l’evoluzione della mente umana
i contenuti la critica a cartesio
Napoli rappresenta uno dei centri culturali italiani più importanti del Seicento. In questo clima nasce la filosofia di Giambattista Vico. La dottrina della conoscenza di Vico poggia sulla critica alla gnoseologia cartesiana. Per Cartesio la verità consiste in una evidenza che si dà immediatamente nella coscienza. Per Vico invece – come per molti altri filosofi del Seicento – la conoscenza ha carattere causale. Ciò non vuol dire che si possono conoscere oggettivamente i nessi causali tra le cose, ma che si può conoscere soltanto ciò che si fa.
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11. vico
l’uomo conosce pienamente solo ciò di cui è causa
Per Vico, dunque, il vero coincide con il fatto, con ciò che è fatto da noi. Nelle prime opere egli ritiene che la piena coincidenza tra vero e fatto possa sussistere per l’uomo solo nella matematica. Ma nella Scienza nuova egli applica il principio del verum ipsum factum anche alla spiegazione della storia, in quanto essa è prodotta dall’azione umana. In tal modo, Vico conferisce alla storia lo statuto di disciplina scientifica. storia, filologia, filosofia
La storia non si limita alla filologia, cioè al reperimento dei documenti e all’accertamento dei fatti che riguardano il «mondo civile», ma comporta anche la filosofia, che è conoscenza delle cause dei fatti.
Nello sviluppo della mente umana – e quindi della storia – Vico individua tre fasi, alle quali corrispondono altrettante facoltà conoscitive: 1) l’infanzia (dell’umanità come dell’individuo), in cui predomina il senso; 2) la giovinezza, dove prevale la fantasia; 3) la maturità, che è l’età della ragione. corsi e ricorsi storici
A queste facoltà Vico fa corrispondere tre età ideali dello sviluppo storico. 1) Nell’età degli dèi, i primi uomini sono «bestioni» privi di capacità raziocinativa e dominati dal senso. Malgrado ciò, essi sono capaci di provare stupore di fronte ai fenomeni della natura, tanto da vedere in essi l’azione di forze soprannaturali. 2) Nell’età degli eroi, che pretendono di discendere da divinità, gli uomini danno vita alle prime società
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politiche istituzionalizzate nella forma di Stati aristocratici. Si assiste alla nascita dei ceti sociali – patrizi e plebei – e si diffonde l’esigenza di una sempre maggiore uguaglianza fra i cittadini. 3) Nell’età degli uomini si dispiegano le capacità razionali e nasce la riflessione filosofica. Sul piano politico la razionalizzazione porta alla trasformazione delle aristocrazie in repubbliche popolari. Una volta concluso, il ciclo storico delle tre età (corso) può ritornare alle sue origini e dare avvio a un ricorso nel quale non si ripetono gli avvenimenti già
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accaduti, ma il processo psicomentale che lo ha generato. la sapienza poetica
Le prime due età, in cui prevalgono le facoltà del senso e della fantasia, hanno in comune l’elemento poetico. La poesia – intesa etimologicamente come un fare, un creare – rappresenta per Vico una vera forma di sapienza, anche se non articolata nelle forme della razionalità. La poesia ha una natura e un valore autonomi rispetto alla conoscenza razionale. Anziché operare con concetti astratti, la
poesia produce universali fantastici, in cui una particolare immagine sensibile esprime un contenuto conoscitivo generale (ad esempio Achille è la rappresentazione del coraggio, ecc.). l’origine poetica del linguaggio
Della stessa autonomia gode il linguaggio poetico rispetto a quello razionale: ogni linguaggio, del resto, nasce come linguaggio cantato e i contenuti linguistici non sono convenzionali, ma hanno un’origine naturale.
gli strumenti in poche… parole fantasia / fatto / corsi e ricorsi storici
approfondimento
i testi a. nel manuale t32 Vico/Il «vero» e il «fatto» t33 Vico/La storia come opera degli uomini e della provvidenza
b. on-line Vico/La «storia ideale eterna» Vico/Il corso delle nazioni
La formazione intellettuale di Vico
esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?
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1. Vita e opere la formazione
Giambattista Vico nacque a Napoli nel 1668 da famiglia modesta. La sua condizione finanziaria rimarrà incerta per tutta la vita, aggravata da una prole sempre più numerosa. Compì i primi studi – con una lunga interruzione – in un collegio di gesuiti, arricchendo la sua preparazione con numerose letture personali. Successivamente, anche la frequenza della facoltà di Giurisprudenza fu alquanto irregolare. Vico completò la sua preparazione autodidattica tra il 1686 e il 1698. In questo periodo, infatti, egli fu precettore privato nel castello di Vatolla nel Cilento ed ebbe l’opportunità di coltivare con agio gli studi di metafisica e di diritto. Secondo quanto egli stesso afferma nell’autobiografia – Vita di Giambattista Vico scritta da se medesimo (1725-1731) – data già a questo periodo la sua avversione per la matematica, alla quale cessò ben presto di applicarsi.
la cattedra di eloquenza e le prime opere
Nel 1699, Vico ottiene la cattedra di Eloquenza presso l’Università di Napoli. Non vincerà invece, nel 1723, il concorso per la cattedra di Giurisprudenza, più prestigiosa e meglio retribuita. In quanto professore di Eloquenza, spetta a lui il compito di pronunciare le «orazioni inaugurali» che aprono l’anno accademico. La settima e ultima di esse – intitolata De nostri temporis studiorum ratione (1708) – costituisce il suo primo scritto filosoficamente rilevante. In essa Vico prende espressamente le distanze dal cartesianesimo. Due anni dopo vede la luce il De antiquissima Italorum sapientia (1710), concepito come «Libro primo metafisico» di una trilogia le cui ultime due parti (il «Libro fisico» e il «Libro morale») non saranno mai pubblicate.
le tre edizioni della scienza nuova
Intanto procede la lunga elaborazione del capolavoro, la Scienza nuova. Aspirando alla cattedra di Diritto, Vico pubblicò alcuni lavori aventi – in senso lato – carattere giuridico: Sinopsi del diritto universale (1720), De uno universi juris principio et fine uno (1720) e il De constantia jurisprudentiae (1721), diviso in De constantia philosophiae e De constantia philologiae. Dalla rielaborazione di questi scritti nascono i Princìpj di una scienza nuova d’intorno alla natura delle nazioni, conosciuti comunemente come Scienza nuova prima (1725). Una successiva edizione rielaborata – la cosiddetta Scienza nuova seconda – comparve nel 1730. A quest’ultima Vico apportò ben quattro serie di Correzioni, miglioramenti e aggiunte. Sulla base di esse fu composta la Scienza nuova terza, che uscì nel luglio del 1744, sei mesi dopo la morte del suo autore.
APPROFONDIMENTO
La formazione intellettuale di Vico
L’erudizione di Vico è vastissima e innumerevoli sono le influenze esercitate su lui dai molti autori letti. Soltanto a quattro di essi, tuttavia, Vico riconosce nell’autobiografia la dignità di suoi maestri 244
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ideali. Vediamo un po’ più nel dettaglio. 1. Da Platone egli dichiara di aver appreso quale l’uomo «dee essere», cioè la convinzione che esista una natura ideale dell’uomo, in
base alla quale si possano conoscere metafisicamente il suo modo di pensare e di agire. 2. Tacito invece «contempla l’uomo qual è», ossia considera la realtà umana nella fatticità degli
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impulsi e delle passioni, ispirando la considerazione della «storia delle nazioni» quale si realizza nella concretezza storica. 3. Bacone ha suggerito il metodo da seguire – Vico si ritiene, a suo modo, erede del metodo empirico – e ha indicato gli errori e i pregiudizi che si devono evitare. 4. Ugo Grozio, infine, ha giustamente difeso l’esistenza di un diritto naturale condiviso da tutte le genti, tema sul quale Vico non si stanca di ritornare, rintracciando-
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ne tuttavia l’origine non già nelle speculazioni razionalistiche dei filosofi, ma nel «senso comune» di cui tutti gli uomini dispongono. Ricostruendo la geografia ideale delle influenze subite da Vico, si potrebbe aggiungere quella esercitata su di lui – sebbene in chiave esclusivamente negativa – da Cartesio. Quando Vico si ristabilisce a Napoli dopo il soggiorno nel Cilento, vi
trova «un gran rivolgimento di cose letterarie»: l’ammirazione per «Renato delle Carte» aveva sostituito l’emulazione dei letterati cinquecenteschi. Ma nell’eremo di Vatolla egli aveva già maturato la sua avversione per il sistema cartesiano, giudicato debole nella strutturazione metafisica, pericoloso per la preferenza accordata alle matematiche sugli studi umanistici, obsoleto per la ripetizione di motivi filosofici risalenti all’antichità.
2. Le critiche a Cartesio La prima polemica di Vico nei confronti del razionalismo cartesiano è contenuta nel De nostri temporis studiorum ratione. L’orazione si propone di mettere a confronto l’organizzazione degli studi (la ratio studiorum del titolo) dei moderni con quella degli antichi. In quest’opera Vico rimprovera alla «critica» moderna – cioè al metodo di Cartesio – di non educare i giovani all’eloquenza e di privilegiare le attitudini logico-matematiche a discapito della fantasia e della memoria. Non è questo, tuttavia, il solo errore che Vico attribuisce a Cartesio. Ai suoi occhi, infatti, un errore ancora più grave consiste nel modo in cui intende la fisica. Secondo Cartesio e le filosofie che a lui si ispirano, l’uomo – servendosi delle capacità logico-matematiche della ragione – può conoscere il mondo naturale come esso è in realtà. Per Vico, invece, la fisica non può essere altro che un’interpretazione congetturale della natura.
contro il primato della logica e della matematica
Per comprendere meglio l’obiezione di Vico contro Cartesio e i cartesiani, occorre soffermarsi su un principio fondamentale della sua filosofia: la netta distinzione tra ciò che è opera dell’uomo e ciò che è opera di Dio. Infatti, per Vico, solo ciò che è opera dell’uomo (ad esempio la matematica) può essere pienamente conosciuto e dimostrato, mentre ciò che è opera di Dio (ad esempio la natura fisica) può essere solo contemplato senza giungere a conoscerlo dimostrativamente. La nozione della corrispondenza tra ciò che è vero e ciò che viene fatto dal soggetto che conosce – accennata nella settima orazione – viene ripresa e sviluppata nel De antiquissima Italorum sapientia. Vediamo come Vico cerchi di spiegarla ricorrendo ad un esempio, chiarendo così anche la differenza tra la conoscenza umana e quella divina:
si conosce solo ciò che si fa
Per chiarire tutto ciò con un paragone: il vero divino è l’immagine solida delle cose, come una scultura; il vero umano è un monogramma o un’immagine piana, come una pittura; e come il vero divino è ciò che Dio, mentre conosce, dispone ordina e genera, così il vero umano è ciò che l’uomo, mentre conosce, compone e fa. E così la scienza è la conoscenza della genesi; cioè del modo con cui la cosa è fatta, e per la quale, mentre la mente ne conosce il modo, 11. vico
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perché compone gli elementi, fa la cosa: Dio, che comprende tutto, fa l’immagine solida, l’uomo che comprende gli elementi esterni fa l’immagine piana (De antiquissima Italorum sapientia, cap. I, §§ 1).
L’idea che la scienza sia conoscenza di cause è ampiamente diffusa nella filosofia precedente a Vico. Egli, tuttavia, interpreta tale definizione – subendo probabilmente l’influenza di Hobbes – nel senso che soggetto conoscente e causa agente devono coincidere [t32]. verum ipsum factum
la verità è conoscenza delle cause
l’uomo e la conoscenza vera
Dall’identità di vero e fatto discendono due conseguenze. 1) Il mondo naturale – che non è fatto dall’uomo, ma creato da Dio – può essere conosciuto pienamente soltanto da Dio. 2) L’uomo conosce – in quanto la fa – prima di tutto la matematica, poi le altre scienze astratte, nell’ordine e nella misura della loro astrazione e artificialità. Ciò vuol dire che esse sono tanto più conoscibili quanto più si allontanano dalla realtà naturale creata da Dio. Il principio vichiano dell’identità di verum e factum costituisce una critica radicale della gnoseologia cartesiana. Da un lato, esso comporta una netta distinzione tra la scienza – che è conoscenza diretta delle cause – e la semplice coscienza di una cosa – che prescinde da quella conoscenza. Con questa distinzione Vico mostra di rifiutare il principio cartesiano della verità come evidenza, in base al quale è vero ciò che si presenta immediatamente alla coscienza [cfr. 5.3]. Per Vico, come abbiamo visto, la verità è invece conoscenza delle cause ed è possibile solo quando il fatto da conoscere è opera del soggetto che lo conosce. Dall’altro lato, esso nega che il cogito possa essere il fondamento della metafisica. Detto altrimenti, per Vico il cogito non è – come credeva Cartesio – la verità fondamentale (il «primo vero») da cui possono essere derivati tutti gli altri contenuti conoscitivi (gli altri «veri»). Il cogito, infatti, è un semplice atto di coscienza, e non la causa della realtà che pretende conoscere. In base all’identità di vero e fatto, dunque, qual è l’autentico «primo vero»? Secondo Vico, esso è Dio: in lui esistono le «forme» o i generi di tutte le cose che egli conosce, creandole. L’uomo stesso conosce veramente solo quando – analogamente a quanto avviene in Dio – è autore di quello che conosce (ad esempio la matematica). Negli altri casi la conoscenza non è un vero intelligere (intus-legere, «leggere dentro, penetrare»), ma un semplice cogitare (che Vico fa derivare da co-agere, «raccogliere, mettere insieme elementi»). Di tal genere è appunto la conoscenza cartesiana che procede per semplice enumerazione (e raggruppamento) di idee, anziché pervenire alle cause delle cose.
3. Storia, filologia, filosofia lo studio della storia
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In seguito alla lettura di Ugo Grozio – cronologicamente, l’ultimo dei suoi quattro «autori» – Vico concentra i propri interessi su quello che egli chiama il «mondo civile». Con questa espressione, egli intende riferirsi all’ambito dei costumi, del diritto e della politica, considerati nella storia delle loro 11. vico
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realizzazioni e trasformazioni. Il principio del verum ipsum factum – applicato nei lavori precedenti alla matematica – viene ora esteso alla storia. Quest’ultima costituisce l’oggetto specifico di una scienza nuova che – come sappiamo – è anche il titolo del capolavoro di Vico. In base al principio del verum ispum factum, Vico ritiene che il mondo naturale sia stato creato da Dio e da Dio soltanto possa essere pienamente conosciuto, mentre il «mondo civile» è opera dell’uomo e può essere oggetto di un vero e proprio sapere scientifico. La scienza storica è resa possibile dal concorso di due discipline, che ne riflettono i due scopi principali.
la storia ha bisogno della filologia e della filosofia
1. In primo luogo, la storia deve accertare i fatti, distinguendo criticamente ciò che è veramente accaduto da ciò che è privo di fondamento. In ciò la soccorre la filologia, intesa da Vico in senso molto lato come l’insieme delle discipline che si occupano di analizzare criticamente le testimonianze del passato. In tal senso, la filologia è la scienza del certo. 2. In secondo luogo, la storia deve comprendere le ragioni e le cause dei fatti filologicamente accertati. Per far ciò essa ha bisogno di ricercare le cause che possono spiegare gli avvenimenti. Questo è il compito della filosofia, che è la scienza del vero. Nella ricerca storica il certo e il vero devono convergere. Per raggiungere questo obiettivo, vi deve essere una stretta collaborazione tra filologia e filosofia. Per Vico, gli insufficienti risultati conseguiti in passato dalla storia come scienza derivano dal fatto che i filosofi «non accertarono le loro ragioni con l’autorità de’ filologi», così come i filologi «non curarono d’avverare le loro autorità con la ragione dei filosofi». Lungi dal limitarsi ad accertare filologicamente i fatti, la storia deve «inverare» filosoficamente il certo, spiegandone la natura. A questo riguardo, Vico dichiara: «Natura di cose altro non è che nascimento di esse in certi tempi e con certe guise, le quali sempre che sono tali, indi tali e non altre nascon le cose». In altre parole, conoscere la natura delle cose equivale a conoscere la loro genesi, i modi e le forme in cui sono nate, la causa che le ha prodotte.
la ricerca della genesi dei fatti
4. Mente umana e storia ideale Come abbiamo visto, per Vico il «mondo civile» è fatto dagli uomini. Per conoscere e spiegare i fatti storici, occorre pertanto fare riferimento al modo in cui essi sono nati nella mente degli uomini, prima ancora che nella concretezza della realtà. Secondo questa prospettiva, la storia si configura come una metafisica della mente umana, ovvero come un’analisi dello sviluppo dell’attività spirituale dell’uomo (come singolo e come specie). Il primo compito di chi coltiva la «scienza nuova» è quello di ricostruire una lingua che preceda la formazione di tutti i linguaggi storici, «una lingua mentale comune a tutte le nazioni». Sulla base di essa è possibile, secondo Vico, stabilire «un vocabolario mentale comune a tutte le lingue articolate diverse, morte e viventi». Questa sintassi e questo lessico mentali 11. vico
la struttura universale della mente umana
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costituiscono la struttura fondamentale della vita psichica dell’uomo in quanto tale e presiedono allo sviluppo graduale dei suoi sentimenti, delle sue fantasie e dei suoi pensieri. Indipendentemente dai luoghi e dalle culture in cui nascono, dunque, gli uomini hanno alcune modalità comuni di sentire e di pensare (e quindi di agire) a seconda del grado di sviluppo storico in cui si trovano. È nella scoperta di queste comunanze che la storia rivela le proprie verità. i tratti universali della vita dei popoli
A partire da questa concezione dell’attività spirituale umana, Vico dimostra l’esistenza di un diritto naturale riconosciuto da tutte le nazioni e la diffusione presso tutti i popoli di tre usanze (la religione, i matrimoni solenni, la sepoltura dei morti). Questo modello evolutivo della mente umana – e della storia delle nazioni – costituisce la storia ideale eterna . Essa – in analogia alle «idee» di Platone – informa di sé le molteplici storie reali dei singoli popoli. La nascita, lo sviluppo, la maturità, il declino e la scomparsa dei popoli non sono quindi accidentali, ma obbediscono a un disegno, il quale a sua volta si radica nella «metafisica della mente umana», nelle «modificazioni» dovute allo sviluppo necessario dell’attività spirituale dell’umanità: Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che religioni, matrimoni e seppolture. Ché, per la degnità che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero», dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l’umanità, e per ciò si debbano santissimamente custodire da tutte perché ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo (Scienza nuova seconda, libro I, sez. III).
contro la presunzione dei popoli e degli intellettuali
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Il modello della storia ideale eterna libera così la ricerca storica da due pregiudizi che l’hanno tradizionalmente viziata. 1. La boria delle nazioni consiste nella tendenza di ciascun popolo ad attribuirsi la scoperta delle conoscenze o dei ritrovati che stanno alla base della storia umana. Ma, per Vico, tale presunzione è priva di fondamento. Tutte le nazioni, infatti, seguono nel loro sviluppo un ordine che – essendo quello della mente umana in generale – vale per tutti i popoli. 2. La boria dei dotti consiste nella tendenza degli studiosi a ritenere che la loro scienza sia antica quanto il mondo e sia già stata posseduta – in una forma misterica – dai più antichi sapienti dell’umanità. Per Vico, anche questo presupposto è errato. Come si vedrà tra poco [cfr. 11.6], lo sviluppo mentale dell’umanità si svolge secondo una successione di fasi naturali. È quindi impossibile attribuire alla mentalità degli antichi forme di spiritualità proprie soltanto dei gradi più evoluti di pensiero.
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Vico La «storia ideale eterna»
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5. Storia e provvidenza divina La ricerca storica, secondo Vico, non si deve occupare soltanto di ricostruire la storia ideale eterna dell’umanità. A suo avviso, infatti, non basta cercare nella storia il modello ideale che la informa – come ha insegnato Platone – ma occorre anche riconoscervi – secondo quanto ha insegnato Tacito – l’azione delle passioni e degli egoismi umani. Ma anche in questo caso il corso storico obbedisce a un disegno. Considerate nel loro complesso, infatti, le passioni ottengono un effetto molto diverso da quello voluto dagli uomini. Per esempio, dall’impulso sessuale, che di per sé mira solo alla soddisfazione fisica, nacque l’istituto della famiglia; dall’ambizione e dal desiderio di dominio sorsero la città e lo Stato.
gli effetti imprevisti delle passioni umane
Ma per quale motivo le azioni umane – pur muovendo da passioni e intenzioni soggettive – producono effetti diversi da quelli voluti o immaginati? Secondo Vico, soltanto Dio può assegnare alle azioni individuali una finalità che va al di là delle intenzioni di chi le compie, inserendosi in un disegno generale. In tal senso, dunque, la storia è retta dalla provvidenza divina. Ma che cos’è la provvidenza per Vico?
i due significati di «provvidenza»
1. Da un lato, essa è un fatto storico, accertabile mediante la constatazione fattuale dell’esito delle azioni umane. 2. Dall’altro, essa funge da criterio direttivo della ricerca. La ricostruzione storica avviene, infatti, ricomponendo le azioni dei singoli individui in un quadro unitario, dove esse non rispondono più alle intenzioni che le avevano originate ma a un ordine complessivo superiore. Vico definisce la scienza nuova – oltreché come una «storia d’umane idee» – anche come una «teologia civile ragionata della provvidenza divina»: a) teologia, in quanto scienza di Dio e della sua provvidenza; b) civile, in quanto il «mondo civile» è l’ambito in cui si studiano gli effetti dell’intervento divino; c) ragionata, perché la provvidenza non opera misteriosamente – come nella tradizionale concezione cristiana – ma attraverso i «naturali costumi umani», in modo da essere trasparente alla ragione dell’uomo. Agendo soltanto attraverso la natura umana – e non al di fuori di essa – la provvidenza non entra in contraddizione con il principio della storia ideale eterna. Al contrario, i due criteri si integrano a vicenda. Ciò vuol dire che il corso storico è al tempo stesso opera dell’uomo (come storia dello sviluppo mentale umano) e opera di Dio (come risultato della provvidenza) [t33].
la provvidenza agisce attraverso la natura umana
Il principio del verum ipsum factum assume nella Scienza nuova un significato un po’ diverso da quello rivestito nel De antiquissima. Nella dissertazione del 1710 esso veniva applicato principalmente alla matematica e riguardava una forma di conoscenza che – attraverso l’astrazione – produceva dal nulla l’oggetto del proprio sapere. Nel capolavoro del 1730 l’identità tra vero e fatto – ora estesa alla storia – riceve un fondamento ontologico e teologico. In tal senso, ciò che si conosce – e si fa – non è fatto arbitrariamente. La struttura mentale di colui che conosce e che fa, infatti, è a sua volta condizionata dall’azione provvidenziale di Dio. Come Vico aveva sostenuto nella
dio e l’uomo cooperano nella storia
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Scienza nuova prima, la provvidenza è l’«architetta» della storia, mentre l’arbitrio umano è soltanto il «fabbro» che a quell’architetta obbedisce. In base a queste osservazioni, si può comprendere in che senso Vico, con la «scienza nuova», intenda fondare la storia sulla metafisica. i significati della metafisica
1. Per un verso, egli introduce un nuovo significato del termine metafisica, estendendolo dal piano ontologico a quello gnoseologico. La metafisica non si riferisce soltanto alla natura dell’essere e della realtà in generale, ma indica primariamente la «metafisica della mente umana», cioè la configurazione dell’apparato cognitivo dell’uomo, considerato tanto nelle sue manifestazioni razionali quanto in quelle prerazionali. 2. Per altro verso, il termine metafisica rinvia anche all’azione della Provvidenza divina che, come abbiamo visto, imprime alle azioni dei singoli uomini una direzione e un significato complessivi. In altri termini, la storia è al tempo stesso opera degli uomini e di Dio. Ciò significa che essa non ha soltanto un carattere soggettivo e relativo, ma poggia su un fondamento oggettivo e assoluto.
6. Le tre età sviluppo della mente umana e della storia dell’umanità
«Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi avvertiscono con animo perturbato e commosso, finalmente riflettono con mente pura». Così Vico illustra i tre momenti dello sviluppo ideale della «metafisica della mente umana», in ognuno dei quali predomina una specifica facoltà conoscitiva. 1. Nell’infanzia dell’umanità – come in quella dell’individuo – prevale il senso, che comporta una coscienza ancora oscura e confusa del proprio oggetto. 2. Nella giovinezza predomina la fantasia: in essa la chiarezza della rappresentazione è accompagnata da un intenso stato emotivo che, da un lato, accresce l’efficacia dell’immagine, dall’altro, ne limita l’oggettività. 3. Nella maturità, infine, gli uomini giungono alla ragione, che consente una riflessione serena, libera dalle oscurità del senso e dall’emotività della fantasia. A queste facoltà Vico fa corrispondere tre età – anch’esse ideali – dello sviluppo storico. Ciò non significa che in ciascuna età operi una sola facoltà con esclusione delle altre due, ma soltanto che una delle tre facoltà – come s’è detto – prevale sulle altre, le quali rimangono tuttavia presenti. Soprattutto le prime due facoltà, il senso e la fantasia, appaiono strettamente congiunte .
l’infanzia dell’umanità
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L’età degli dèi corrisponde al senso e rappresenta la fase primitiva della storia umana. Vico respinge le contemporanee rappresentazioni dello stato di natura come età dell’oro e dell’innocenza, e dipinge i primi uomini come «stupidi, insensati ed orribili bestioni», nei quali la limitatezza della vita spi11. vico
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rituale viene compensata dalla forza fisica e dalle gigantesche dimensioni. Alcuni di questi giganti, tuttavia, arrivano a provare una sorta di meraviglia metafisica di fronte agli eventi della natura: privi di raziocinio, ma forniti di una robusta sensibilità, essi identificano le forze naturali con le divinità, a loro volta immaginate a somiglianza dell’uomo. Poiché tutta la realtà viene così «sentita» come divina, la religione costituisce il primo passo dei giganti verso la civiltà. Nel contempo essa diventa principio di altre due conquiste. Innanzitutto, i giganti – temendo l’ira degli dèi – abbandonano il costume animalesco di accoppiarsi a caso e danno luogo a matrimoni solenni, nucleo dell’istituto della famiglia e segno della moralità incipiente. In secondo luogo, essi cominciano a seppellire i loro morti e a considerare sacri i recinti in cui sono avvenute le sepolture. Nell’età degli dèi, quindi, sono già presenti i tre princìpi che Vico ritiene essere comuni a tutti gli uomini, allorché essi cominciano ad avere un’attività spirituale. Per quanto riguarda l’organizzazione politico-sociale, i primi uomini non conoscono vere e proprie istituzioni, ma vivono in nuclei familiari di tipo patriarcale. In essi il padre di famiglia è anche re e, avendo timore soltanto della divinità, detiene il potere assoluto su tutti gli altri membri. L’età degli eroi – esemplificata dalla Grecia omerica o dalla Roma dei re – corrisponde alla facoltà della fantasia. La continuità con l’età degli dèi è dimostrata dal fatto che gli eroi – i grandi uomini che dominano questo periodo (ad esempio Teseo, Achille) – pretendono di discendere da divinità. In quest’età sorgono le prime istituzioni politiche. Gli eroi, a cui risale anche la costruzione delle prime città, vi accolgono in qualità di servi gli uomini-giganti che – rimasti ancora nello stato di natura originario – cercano riparo dalle violenze dei loro simili. Alla lunga, tuttavia, i servi si ammutinano contro il potere dei forti che li dominano e li costringono a organizzarsi in veri e propri Stati aristocratici. Ciascun padre-re del precedente regime patriarcale entra, infatti, a far parte della nuova classe dirigente. Si configura così negli Stati la distinzione tra due ceti fondamentali: da un lato, i patrizi, che tendono naturalmente a conservare inalterata l’organizzazione dello Stato; dall’altro, i plebei, che mirano invece continuamente a sommuoverla per migliorare la loro condizione. Malgrado i patrizi facciano alcune concessioni ai plebei per meglio dominarli (le leggi agrarie), la tensione tra i due gruppi sociali rimane permanente e conduce al progressivo riconoscimento dell’uguaglianza di tutti i cittadini.
la giovinezza
L’età degli uomini – esemplificata dalla Grecia classica, dalla Roma repubblicana e dalla civiltà moderna – è caratterizzata dalla prevalenza della ragione. In questa età, le repubbliche si trasformano da aristocratiche in popolari. In esse le distinzioni sociali e politiche non sono più affidate all’ascendenza nobiliare o plebea, ma al censo, ovvero alla ricchezza e all’industriosità dei cittadini. L’età degli uomini è la fase della ragione dispiegata: soltanto in essa può quindi nascere la filosofia, ovvero una forma di riflessione affidata alla «mente pura» e non condizionata dal senso o dalla fantasia. Pertanto, anche la filosofia rientra nell’ambito del «mondo civile»: essa ha tra i suoi compiti – come emerge dall’opera di Platone, una delle
l’età adulta
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più esemplari realizzazioni dell’età degli uomini – la ricerca di un principio di giustizia comune a tutti.
corsi e ricorsi storici
Fasi dello sviluppo dell’umanità
Facoltà conoscitiva
Età dello sviluppo storico
Organizzazione politico-sociale
Esempi storici
Infanzia
Senso
Età degli dèi
Nuclei familiari di stampo patriarcale
Èra primitiva, dell’umanità
Giovinezza
Fantasia
Età degli eroi
Stati aristocratici
Grecia omerica, Roma dei re
Maturità
Ragione
Età degli uomini
Repubbliche popolari
Grecia classica, Roma repubblicana, Civiltà moderna
Lo schema triadico che segna le fasi della storia, secondo Vico, non è irreversibile. A causa dello scetticismo, dell’anarchia e del lusso eccessivo, gli stati dell’età degli uomini possono avviarsi a un’inesorabile decadenza, che li fa ripiombare all’inizio del ciclo mentale dell’umanità. Un esempio tipico di questa «barbarie ritornata» è il Medioevo. In esso Vico vede – al pari dei suoi contemporanei – la perdita totale dei valori storici realizzati dalla classicità greco-romana. Tuttavia, il ritorno alla barbarie non è soltanto sinonimo di decadenza. Esso, infatti, può comportare anche il ritorno – con rinnovato vigore – di quel senso e di quella fantasia che si erano assopiti nell’età razionale degli uomini. A questo riguardo, Vico ricorda che il Medioevo fu anche l’età di Dante. Questo ritorno del corso della storia alle sue origini ideali – non già cronologiche, ma psicologiche e gnoseologiche – è da Vico chiamato appunto ricorso. La sua teoria dei corsi e ricorsi storici presenta quindi una certa affinità con le interpretazioni cicliche del processo storico elaborate nell’Antichità, soprattutto dagli stoici. Di esse, tuttavia, Vico non condivide affatto il carattere necessario e ripetitivo. Il ricorso storico, la ricaduta alle origini è soltanto una possibilità. La stessa successione delle tre età (degli dèi, degli eroi, degli uomini) non ha un carattere necessario o definitivo, ma riflette la tendenza ideale dell’umanità a seguire lo sviluppo della sua intrinseca struttura mentale (senso, fantasia, ragione).
7. La sapienza poetica ragione e fantasia
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Le linee di distinzione tra le tre età non sono tutte segnate da Vico con la stessa decisione. A questo riguardo, egli asserisce che «la fantasia è tanto
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più robusta quanto più debole è il raziocinio». In base a questo assioma, la ragione appare tanto più forte quanto più sono deboli il senso e la fantasia. Per questo motivo, l’età degli uomini – che alla ragione corrisponde – è separata più nettamente dall’età degli dèi e da quella degli eroi di quanto non lo siano queste due fasi tra loro. Assai prossime appaiono, infatti, le prime due età: in esse le facoltà prevalenti non solo non si oppongono, ma si completano a vicenda. Per Vico, la fantasia si fonda necessariamente sui sensi e i sensi trovano nella fantasia la loro più naturale espansione. Da questo punto di vista, le prime due età – corrispondenti alle facoltà del senso e della fantasia – hanno in comune l’elemento della poesia, intesa etimologicamente come fare, creare (dal greco poièin). Secondo Vico, i primi poeti – i «poeti teologi» che immaginano Giove e le altre divinità – sono veri «creatori» di realtà. Attraverso la poesia i popoli primitivi ed eroici hanno creato idee, costumi, comportamenti e quindi, in generale, una realtà che prima non esisteva. Da qui deriva la grande importanza attribuita da Vico alla sapienza poetica: in essa «vero poetico» e «vero metafisico» coincidono. Ciò equivale a dire che i contenuti della sapienza poetica sono diversi da quelli della sapienza razionale. La sapienza poetica per Vico non corrisponde – come invece sostenevano i razionalisti seicenteschi – a una «sapienza riposta». In altri termini, la sapienza poetica non è un sapere già conosciuto in forma razionale, ma intenzionalmente velato da un’espressione misterico-allegorica, da cui deve essere spogliato per tornare alla sua purezza concettuale. Al contrario, le immagini fantastiche degli antichi sono espressione del loro modo di sentire e di pensare, e fanno tutt’uno con esso. In tal modo, Vico non fa altro che affermare il valore autonomo della poesia nei confronti del pensiero logico-razionale.
le prime due età e la poesia
Mentre la conoscenza razionale opera mediante i concetti astratti dell’intelletto, la poesia costruisce universali fantastici (o «generi fantastici»). Questi ultimi – analogamente al concetto nel sapere razionale – esprimono un contenuto conoscitivo generale attraverso una particolare immagine del senso e della fantasia. Così, ad esempio nella cultura omerica, Achille è la rappresentazione del coraggio, Ulisse quella della prudenza, Eurialo e Niso quella dell’amicizia.
sapienza razionale e sapienza poetica
La concezione vichiana della poesia si riflette su quella del linguaggio. Come gli uomini hanno cominciato a pensare per universali fantastici e non per concetti, così essi hanno iniziato a parlare in poesia e non in prosa. Il linguaggio cantato precede quindi quello parlato, come si evince anche dal fatto che le prime testimonianze letterarie dei popoli antichi sono poemi e non opere in prosa. Da ciò deriva, per Vico, l’infondatezza della tesi che sostiene l’origine convenzionale e arbitraria del linguaggio. Le lingue hanno un’origine naturale, poiché sono la traduzione fonica delle immagini poetiche che i popoli hanno sviluppato nell’Antichità in relazione al loro grado di sviluppo mentale e storico. Soltanto nella terza età – degli uomini e della ragione – sopravviene la componente convenzionale del linguaggio.
l’origine poetica del linguaggio
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in poche... parole Fin dalle sue prime opere, Giambattista Vico si misura con il razionalismo cartesiano, che critica in più aspetti. Anzitutto, sul piano educativo, il metodo cartesiano tende a privilegiare le capacità logico-matematiche dei giovani a discapito della fantasia e della memoria. Inoltre, per Cartesio e per i cartesiani la fisica – utilizzando le capacità logico-matematiche della ragione – riesce a conseguire la conoscenza piena del mondo naturale. Vico stabilisce invece il principio del verum ipsum factum (il vero e il fatto sono lo stesso), in base al quale si conosce solo ciò che si fa: per questo motivo, l’uomo può conoscere veramente solo la matematica e le scienze astratte, in quanto sono opera sua, ma non la natura fisica, che è opera di Dio. Nella Scienza nuova, Vico estende il principio del verum ipsum factum alla storia: essendo opera dell’uomo, infatti, la storia può essere l’oggetto di un vero e proprio sapere scientifico. La ricerca storica si basa, per Vico, sul concorso di due discipline: la filologia, che ha il compito di stabilire che cosa è accaduto veramente è quindi è scienza del certo; la filosofia, che ha il compito di comprendere le cause dei fatti accaduti ed è quindi scienza del vero. Nella ricerca storica, il certo e il vero devono convergere, in quanto conoscere i fatti equivale a conoscere i modi e le forme in cui si sono prodotti.
fantasia
Dal greco phantasìa (che può significare o ciò che appare e quindi la rappresentazione oppure la facoltà o la funzione nella quale si formano e risiedono le immagini). In Vico la fantasia consiste nella capacità propria dell’uomo di produrre immagini delle cose associate a una particolare intensità emotiva. In tal senso, la 254
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fantasia non si riferisce soltanto a rappresentazioni di cose percepite attualmente mediante i sensi. Per Vico, «la fantasia è tanto più robusta quanto più debole è il raziocinio»: le prime due fasi della vita del singolo (l’infanzia e la giovinezza) e dell’umanità (età degli dèi e degli eroi) sono dominate dalla sensibilità e dalla fantasia; l’ultima fase (la maturità e l’età degli uomini) è, invece, quella in cui prevale la ragione. Le prime due età della storia dell’umanità hanno in comune l’elemento della poesia, intesa in senso etimologico come fare, creare (dal greco poièin): i popoli primitivi ed eroici – creando idee, costumi, comportamenti – hanno infatti prodotto una realtà che prima non esisteva. Per Vico, vi è una differenza tra la conoscenza razionale, che si serve dei concetti astratti dell’intelletto, e la sapienza poetica, che si esprime attraverso «universali fantastici»: essi sono in grado di condensare un contenuto conoscitivo generale in un’immagine del senso e della fantasia. Ad esempio, nella cultura omerica, Achille è la rappresentazione del coraggio, Ulisse della prudenza.
fatto Il termine comincia ad ave-
re rilevanza nella filosofia moderna, dove è documentato in due accezioni diverse, anche se talvolta correlate. 1) Per un verso, il fatto indica un accadimento della realtà e viene contrapposto al carattere puramente ideale delle costruzioni razionali (si pensi alla distinzione leibniziana tra verità di ragione e verità di fatto, già presente in Hobbes e poi ripresa da Hume). 2) In un secondo senso, il fatto indica non tanto l’oggettività dell’accadere quanto l’«essere fatto» (factum come participio passato di facio). Per Vico, possiamo conoscere come vero soltanto ciò che abbiamo «fatto» noi stessi. In questo senso, attraverso la nozione di fatto
viene recuperata la tesi – assai diffusa nella filosofia moderna – per cui la conoscenza è conoscenza causale (scire est scire per causas). Tale conoscenza, però, è possibile solo nel caso in cui la causa del fatto coincide con il soggetto conoscente. Le uniche discipline in cui l’uomo può acquisire una conoscenza certa sono, dunque, per Vico la matematica e la storia. Ovviamente, non appartiene a questo ambito il mondo fisico, poiché è stato fatto da Dio. Secondo Vico, la storia ha il compito di analizzare l’evoluzione della mente umana individuale e quella delle nazioni. Il presupposto da cui parte è che – indipendentemente dai luoghi e dalle culture in cui nascono – gli uomini hanno comuni modalità di sentire, di pensare e di agire. Per Vico, la nascita, lo sviluppo e il declino dei popoli – e cioè la «storia ideale eterna» all’interno della quale si dispone la storia delle singole nazioni – non sono accidentali, ma si radicano nella «metafisica della mente umana», e cioè nelle modificazioni dovute allo sviluppo necessario dell’attività spirituale dell’umanità. L’evoluzione della mente umana individuale – scandita nelle tre tappe dell’infanzia, della giovinezza e della maturità – si rispecchia, sul piano generale, nelle tre età della storia delle nazioni: l’età degli dèi, degli eroi e degli uomini. Vico è convinto che lo sviluppo storico obbedisca a un disegno provvidenziale, in quanto Dio imprime alle intenzioni e alle azioni dei singoli uomini una direzione e un significato complessivi, che altrimenti non avrebbero. A suo avviso, quindi, il corso storico è al tempo stesso opera dell’uomo (la cui attività spirituale si sviluppa secondo le fasi indicate dalla storia ideale
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eterna) e di Dio (che orienta le passioni e le intenzioni soggettive verso fini di carattere universale).
corsi e ricorsi storici È una
delle più note dottrine di Vico. I corsi storici comprendono lo sviluppo completo di un ciclo di storia ideale eterna. Quest’ultima rappresenta il modello sovratemporale che determina l’evoluzione
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delle tre facoltà della mente umana in corrispondenza alle tre età della storia. I ricorsi indicano il periodico ritorno della storia alle forme mentali che caratterizzano l’inizio di un nuovo ciclo. Non c’è nulla di deterministico in questa alternanza: per ragioni diverse e contingenti, la storia può sempre ricadere nella barbarie e andare incontro a periodi di decadenza. Il caso più esemplare di ricorso è co-
stituito dal Medioevo, connotato da Vico come «barbarie ritornata». Certo, in questa definizione del Medioevo pesa tutta la valutazione generalmente negativa che il Settecento dà di questo periodo. Per Vico, tuttavia, la «barbarie» non è sempre priva di aspetti positivi. Nei periodi di barbarie, infatti, sensibilità e fantasia tornano a rifiorire e, con esse, riacquista vigore la produzione poetica.
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i testi t32 Vico / Il «vero» e il «fatto» Vico
De antiquissima Italorum sapientia
cap. I, §§ 1-2
Il De antiquissima Italorum sapientia – il cui titolo intero suona: L’antichissima sapienza degli Italici, da estrarsi dalle origini della lingua latina – è imperniato su un’idea che Vico trae dalla tradizione ermetica del Rinascimento e che gli rimarrà sempre cara: lo studio delle etimologie delle parole, o comunque l’analisi filologica delle lingue antiche, apre la via alla comprensione (anche filosofica) dei contenuti sapienziali posseduti dai popoli che quelle parole e quelle lingue usavano. Per la definizione dei contenuti filosofici dell’opera di Vico, poco importa poi che le sue ricostruzioni etimologiche siano spesso assai più ingegnose che corrette. Tra le dottrine che Vico pretende di derivare dallo studio etimologico del latino antico vi è anche una teoria metodologica che costituisce uno degli aspetti più originali del suo pensiero. Nella sapienza degli antichi italici, Vico rintraccia infatti la tesi della coincidenza del «vero» e del «fatto», ovvero il principio per cui conosciamo soltanto ciò che noi stessi facciamo. Immediato corollario di questo principio è l’assunto vichiano secondo cui l’uomo non può avere scienza della natura, che non è fatta da lui, ma soltanto della matematica, che è interamente costruita con le procedure astrattive della sua mente.
Dai latini verum e factum sono usati scambievolmente o, come si dice comunemente nelle scuole, si convertono l’uno con l’altro1; e per essi è la stessa cosa intelligere e «leggere perfettamente» e «conoscere chiaramente». Ma dicevano cogitare ciò che in volgare diciamo «pensare» e «andar raccogliendo»2. Ratio, per essi, significava sia il calcolo degli elementi dell’aritmetica sia la dote propria dell’uomo, per la quale differisce dagli animali bruti ed è supe1. Verum et factum convertuntur. In
altri termini: i popoli italici avevano già compreso che «vero» e «fatto» sono la stessa cosa, cioè che possiamo conoscere soltanto ciò che noi stessi facciamo. 2. Vengono qui distinte due forme fondamentali di conoscenza. Intendere, intelligere, è leggere dentro (intus-legere) una cosa, penetrarla perfettamente con la conoscenza. Pensare, cogitare, è mettere insieme (co-agere) le qualità di una cosa, procedendo per enumerazione e per giustapposizione. La conoscenza di Dio è sempre un intendere, perché Dio, creando le cose, le conosce perfettamente; la conoscenza dell’uomo (eccetto per quelle cose che
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riore: descrivevano comunemente l’uomo come «partecipe di ragione», non possessore di essa3. Dall’altro lato, come le parole sono simboli e note delle idee, così le idee sono simboli e note delle cose: perciò come il leggere è proprio di chi raccoglie gli elementi dello scritto dai quali le parole sono composte, così l’intendere è il raccogliere tutti gli elementi di una cosa dalle quali è espressa l’idea perfettissima di essa4.
egli stesso fa) è soltanto un pensare, un comporre dall’esterno il quadro delle qualità delle cose che egli trova già fatte. Per questo Vico dirà più sotto che l’intelligenza (intuitiva) è propria di Dio, il pensiero (discorsivo) dell’uomo. 3. L’uomo, non essendo autore delle cose, non può «intendere», cioè penetrare dall’interno, l’ordine e la ragione che Dio ha infuso nella realtà, creandola. Egli può soltanto partecipare di questa ragione dall’esterno, conoscendola discorsivamente con un’operazione assimilabile al calcolo matematico. 4. Questa affermazione, in cui si definisce l’intendere come un atto del raccogliere, può sembrare in contraddizione con la precedente, in cui tale atto sem-
brava riservato al pensare, al cogitare. In realtà, si tratta di due modi quantitativamente e qualitativamente diversi di «raccolta». Per quanto riguarda la quantità, in Dio, che crea le cose che conosce, l’intelligenza riguarda tutti gli aspetti di ciò che viene fatto e conosciuto; la mente umana, invece, si limita ad «andare raccogliendo» le qualità esteriori e più appariscenti delle cose. Per questo Vico dirà più sotto che la verità di Dio è paragonabile a una scultura, cioè a qualcosa che è fatto anche di parti interne, che non si vedono; mentre la verità umana è soltanto una pittura, un’immagine esteriore che non coglie l’essenza della realtà. Per quanto concerne invece la qualità e la procedu-
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Di qui è dato supporre che gli antichi sapienti d’Italia convenissero, circa il vero, in queste opinioni: il vero è il fatto stesso; perciò in Dio c’è il primo vero perché Dio è il primo fattore: infinito, perché fattore di tutte le cose, perfettissimo, perché rappresenta, a sé, in quanto li contiene, sia gli elementi esterni sia quelli interni delle cose5. Sapere è allora comporre gli elementi delle cose: sicché il pensiero è proprio della mente umana, l’intelligenza propria di quella divina. Infatti Dio legge tutti gli elementi delle cose, sia esterni sia interni, perché li contiene e li dispone; ma la mente umana, che è finita, e ha fuori di sé tutte le altre cose che non sono essa stessa, è costretta a muoversi tra gli elementi esterni delle cose e non li raccoglie mai tutti6: sicché può certo pensare le cose ma non può intenderle, in quanto è partecipe della ragione ma non è padrona di essa. [...] Da ciò che è stato sin qui detto è lecito concludere che il criterio e la regola del vero è l’averlo fatto7: e che inoltre la nostra chiara e distinta idea della mente non può essere criterio né degli altri veri né della mente stessa8: perché, mentre la mente si conosce, non si crea e, poiché non si crea, non conosce il suo genere o il modo in cui si conosce. Se la scienza umana deriva dall’astrazione, sono meno certe le scienze che si immergono di più nella materia corporea9: come meno certa è la meccanica
ra del conoscere, Dio intende le cose immediatamente, nell’atto stesso in cui le produce; nell’uomo invece la collezione degli attributi delle cose non avviene istantaneamente, ma soltanto gradualmente, attraverso quell’attività discorsiva che è propria della ragione umana. 5. In Dio, quindi, la verità è originaria, perché nasce da lui stesso, in quanto egli ne è autore; è infinita, perché comprende tutte le cose da lui fatte o fattibili; è perfetta, perché Dio, facendo le cose che conosce, le penetra – come si è visto – in tutti i loro aspetti. 6. Chiara critica a Cartesio, il quale pretendeva, semplicemente attraverso l’enumerazione e le revisioni successive (quarta regola del metodo), di garantire la completezza della cono-
della geometria e dell’aritmetica perché considera, come esse, il movimento ma con l’aiuto delle macchine; meno certa la fisica della meccanica, perché la meccanica considera il movimento esterno delle circonferenze, la fisica quello interno dei centri; meno certa la morale della fisica, perché la fisica considera i movimenti interni del corpo che dipendono dalla natura, la quale è certa, mentre la morale scruta i movimenti degli animi che sono i più interni e provengono per la maggior parte dal desiderio, che è infinito. E perciò, nella stessa fisica, sono approvati i pensieri dei quali possiamo mettere in opera qualcosa di simile; e si ritengono più importanti, e ricevono il sommo consenso di tutti, quei pensieri sulle cose naturali i quali ci serviranno per esperimenti con cui facciamo qualcosa di simile alla natura10. Per dirla in breve, come il vero si converte col bene, se ciò che si conosce come vero ha il suo essere dalla mente dalla quale è conosciuto, così la scienza umana è imitatrice di quella divina in quanto Dio, mentre conosce il vero, lo genera dall’eternità dentro di sé e nel tempo lo crea fuori di sé. E il criterio del vero, come in Dio è la comunicazione, nell’atto di creare, della bontà dei suoi pensieri («Dio vide che le cose erano buone»); così rispetto agli uomini è l’aver fatto le cose vere che conosciamo11.
scenza sia per quanto riguarda il procedimento (non aver omesso nessun passaggio), sia per quanto riguarda l’oggetto (aver elencato tutte le qualità di un’idea). 7. «Il criterio e la regola del vero è l’averlo fatto»: con questa formula Vico esplicita nella maniera più chiara il principio del verum ipsum factum. 8. Ciò viene affermato contro Cartesio, per il quale l’evidenza (l’idea chiara e distinta) è il fondamento della conoscenza del cogito («la mente stessa») e di tutte le verità che da esso si possono derivare («gli altri veri»). 9. In altri termini, le scienze sono tanto più certe quanto più sono astratte, cioè prodotte fittiziamente dall’uomo mediante l’operazione, appunto, dell’astrazione; sono tanto meno certe,
quanto più pretendono di rappresentare la realtà naturale, che è opera di Dio. 10. Nella Scienza nuova questa classificazione appare diversa. Ma il principio dell’identità tra vero e fatto viene confermato ed esteso all’ambito della storia. 11. Se obbedisce al principio per cui «il criterio e la regola del vero è l’averlo fatto», la conoscenza dell’uomo non solo è assolutamente certa, ma è paragonabile a quella divina. Infatti, l’uomo conosce la matematica (o la storia) allo stesso modo in cui Dio conosce il mondo che crea: in entrambi i casi la mente artefice, umana o divina ch’essa sia, contiene i modelli archetipi di ciò che viene prodotto e quindi il principio della loro totale intelligibilità.
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GUIDA ALLA LETTURA 1. Vico distingue intelligere da cogitare. Definisci i due termini e indica le operazioni che li caratterizzano. 2. Perché, secondo Vico, lo studio delle etimologie è importante? 3. Sottolinea le ragioni che sostengono la tesi secondo cui «il vero è il fatto stesso». 4. Vico stabilisce una gerarchia di scienze in base al criterio di certezza che esse hanno. Ricostruisci la classificazione che Vico propone ed esplicita le motivazioni che la sostengono.
t33 Vico / La storia come opera degli uomini e della provvidenza Vico
Scienza nuova seconda
libro I, sezz. III-IV
Nella Scienza nuova prima Vico sostiene che la provvidenza divina è l’architetta del mondo civile, mentre l’arbitrio dell’uomo ne è il fabbro, «che ubbidisce a tal divina architetta». In altri termini, la provvidenza ordisce la trama dello sviluppo storico, mentre gli uomini – per rimanere nella metafora – eseguono il lavoro di tessitura. La storia nasce, quindi, da una sorta di collaborazione tra Dio e l’uomo. Ciò non significa però che l’uomo sia un esecutore passivo e coatto del volere divino. Infatti l’azione provvidenziale di Dio non si esprime in un intervento estrinseco e miracoloso, ma in un modo di sentire e di pensare presente tanto nelle singole nazioni (il «senso comune di ciascun popolo») quanto nell’umanità intera (la «sapienza del genere umano»). D’altra parte, questa comune struttura mentale è ciò che limita l’indeterminatezza dell’arbitrio umano, facendo sì che esso si incanali secondo schemi di azione che rientrano in un disegno generale. Obbedendo esclusivamente alla propria configurazione mentale, l’uomo può così essere insieme esecutore della provvidenza e autonomo facitore della propria storia. La convergenza tra provvidenza divina e azione umana viene sottolineata anche dai passi della Scienza nuova seconda che riportiamo qui di seguito. Il primo mostra come, per un verso, il mondo civile sia opera degli uomini, in quanto in esso si riflettono le «modificazioni» della mente umana: da ciò consegue anche che le azioni degli individui obbediscono a «princìpi» generali validi per tutti. Il secondo ricorda come, per altro verso, mediante tale struttura mentale – necessariamente rivolta alla soddisfazione del bisogno e alla ricerca dell’utilità – la provvidenza divina possa guidare le stesse passioni umane verso finalità che le trascendono completamente.
Ma, in tal densa notte di tenebre ond’è coverta la prima da noi lontanissima antichità1, apparisce questo lume eterno, che non tramonta, di questa verità, la quale non si può a patto alcuno chiamar in dubbio: che questo mondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini, onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare i princìpi dentro le modificazioni della nostra medesima mente umana2. Lo che, a chiun1. Le origini della storia appaiono nasco-
ste nell’oscurità della lontananza. Le ricerche storiche esistenti su di esse sono viziate secondo Vico dalla «boria delle nazioni» e dalla «boria dei dotti»: «quindi – egli aveva poco prima afferma-
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que vi rifletta, dee recar maraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiarono di conseguire la scienza di questo mondo naturale, del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la scienza; e trascurarono di meditare su questo mondo delle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’avevano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienza degli uomini3. [...]Or, poiché questo mondo di nazioni egli è
to – per questa ricerca, si dee far conto come se non vi fussero libri nel mondo». 2. È il principio metodologico fondamentale di Vico. La configurazione del mondo storico riflette quella della mente degli uomini che lo hanno fatto;
non si può conoscere la prima senza aver precedentemente indagato e compreso la seconda. 3. Viene qui applicato il principio del verum-factum. La realtà naturale è esclusiva opera di Dio e soltanto da Dio
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stato fatto dagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpetuità convenuto e tuttavia4 vi convengono tutti gli uomini, perché tali cose ne potranno dare i princìpi universali ed eterni, quali devon essere d’ogni scienza, sopra i quali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni5. Osserviamo tutte le nazioni così barbare come umane, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi tra loro lontane, divisamente fondate, custodire questi tre umani costumi: che tutte hanno qualche religione, tutte contraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i loro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, si celebrano azioni umane con più ricercate cerimonie e più consagrate solennità che religioni, matrimoni e seppolture6. Ché, per la degnità che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principio comune di vero»7, dee essere stato dettato a tutte: che da queste tre cose incominciò appo tutte l’umanità, e per ciò si debbano santissimamente custodire da tutte perché ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi8 di nuovo. Perciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universali per tre primi princìpi di questa Scienza. Ma gli uomini, per la loro corrotta natura, sono tiranneggiati dall’amor proprio, per lo quale non sieguono principalmente che la propria utilità9; onde eglino, volendo tutto l’utile per sé e niuna parte per lo compagno, non posson essi può essere conosciuta; quella storica è opera dell’uomo e possibile oggetto della sua conoscenza. Tradizionalmente, gli uomini hanno fatto l’inverso, trascurando la conoscenza «metafisica» della storia e investigando principalmente la natura. 4. Tuttavia: tuttora. 5. I princìpi universali ed eterni – cioè le cose sulle quali tutti gli uomini hanno sempre convenuto, convengono e converranno – traggono la loro necessità dal fatto di essere costitutivi della mente dell’uomo e quindi indisgiungibili da ogni umano pensare e agire. 6. Sono le tre espressioni del «senso comune» dell’umanità. Il passaggio dallo stato ferino a quello umano si rivela ovunque si manifesti la tendenza a venerare la divinità, a celebrare matrimoni solenni (cioè sanciti da un rito religioso e contratti sotto auspìci oraco-
porre in conato10 le passioni per indirizzarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l’uomo nello stato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa moglie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezza con la salvezza delle città; distesi gl’imperi sopra più popoli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni; unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, ama la sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano: l’uomo in tutte queste circostanze ama principalmente l’utilità propia11. Adunque, non da altri che dalla provvidenza divina deve esser tenuto dentro tali ordini a celebrare con giustizia la famigliare, la civile e finalmente l’umana società; per gli quali ordini, non potendo l’uomo conseguire ciò che vuole, almeno voglia conseguire ciò che dee dell’utilità: ch’è quel che dicesi «giusto». Onde quella che regola tutto il giusto degli uomini è la giustizia divina, la quale ci è ministrata dalla divina provvedenza per conservare l’umana società. Perciò questa Scienza, per uno de’ suoi principali aspetti, dev’essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina12. La quale sembra aver mancato finora, perché i filosofi o l’hanno sconosciuta affatto, come gli stoici e gli epicurei, de’ quali questi dicono che un concorso cieco d’atomi agita, quelli che una sorda catena di cagioni e d’effetti strascina le faccende
lari), a seppellire i propri morti. Questi comportamenti infatti fanno parte del modo di pensare proprio dell’uomo. 7. Vico cita qui in forma approssimativa la Degnità XIII. 8. S’infierisca e si rinselvi: ritorni allo stato ferino e selvatico. 9. È la descrizione dell’uomo qual è, nella sua fattuale realtà, come aveva insegnato Tacito (che è, lo ricordiamo ancora, uno degli «autori» di Vico). Ma l’immagine di uno stato di natura in cui gli uomini ricercano egoisticamente il proprio interesse ha in Vico anche un’ascendenza hobbesiana. 10. Il conato – come Vico aveva chiarito poco prima – è la capacità, propria dell’uomo, «di tener in freno i moti impressi alla mente dal corpo, per o affatto acquetargli, ch’è dell’uomo sappiente, o almeno dar loro altra direzione ad usi migliori, ch’è dell’uomo civile». In
altri termini, esso è la facoltà, che presiede alla vita morale e dipende dal libero arbitrio, di controllare le passioni, delle quali Vico dà, secondo il modello cartesiano-hobbesiano, una spiegazione meccanicistica. 11. Ovvero: anche le azioni apparentemente disinteressate dell’uomo obbediscono in realtà al principio dell’utilità e dell’egoismo. Ma è proprio questo che consente l’intervento della provvidenza, la quale fa sì che gli uomini, ricercando – o credendo di ricercare – soltanto il loro interesse, contribuiscano in realtà a realizzare fini di utilità generale che non si sono proposti. In tali fini generali, previsti dalla provvidenza divina, consiste la giustizia. 12. Per quanto riguarda la spiegazione di ciascun termine di questa definizione cfr. 11.5.
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degli uomini; o l’hanno considerata solamente sull’ordine delle naturali cose, onde «teologia naturale» essi chiamano la metafisica, nella quale contemplano questo attributo di Dio, e ’l confermano con l’ordine fisico che si osserva ne’ moti de’ corpi, come delle sfere, degli elementi, e nella cagion finale sopra l’altre naturali cose minori osservata13. [...] Laonde cotale Scienza dee essere una dimostrazione, per così dire, di fatto istorico della provvidenza, perché dee essere una storia degli ordini che quella, senza verun umano scorgimento o consiglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini, ha dato a questa gran città del gener umano, ché, quantunque questo mondo sia stato criato in tempo e particolare, però gli ordini ch’ella v’ha posto sono universali ed eterni14. Per tutto ciò, entro la contemplazione di essa provvedenza infinita ed eterna questa Scienza ritruova certe divine pruove, con le quali si conferma e dimostra15. Imperciocché la provvedenza divina, avendo per sua ministra l’onnipotenza, vi debbe spiegar i suoi ordini per vie tanto facili quanto sono i naturali costumi umani; perc’ha per consigliera la sapienza infinita, quanto vi dispone debbe essere tutto ordine; perc’ha per suo fine la sua stessa immensa bontà, quanto vi ordina debb’esser indiritto a 13. Nello stesso modo in cui – inconsapevoli dell’autentico rapporto tra «vero» e «fatto» – gli uomini hanno rivolto il loro sforzo conoscitivo più al mondo naturale che a quello civile, così essi hanno ricercato gli effetti dell’azione divina più nella natura che nella storia. Alla «teologia naturale» – che è poi la metafisica della tradizione aristotelico-scolastica con le sue diverse applicazioni moderne – Vico intende quindi opporre la sua «teologia civile», che vede nel mondo civile, appunto, il prodotto dell’azione indiretta di Dio, oltreché di quella diretta dell’uomo. 14. La provvidenza divina è per Vico un «fatto storico» che la «scienza nuova» ha il compito di dimostrare filologicamente e filosoficamente. Occorre non dimenticare che, negando la conoscibilità intrinseca della realtà naturale, Vico aveva sottratto alla dimostrazione dell’esistenza e della provvidenza divina il suo argomento principale: l’incontestabilità dell’ordine che regna nel
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un bene sempre superiore a quello che si han proposto essi uomini. [...] Onde la propia continua pruova che qui farassi sarà il combinar e riflettere se la nostra mente umana, nella serie de’ possibili la quale ci è permesso d’intendere, e per quanto ce n’è permesso, possa pensare o più o meno altre cagioni di quelle ond’escono gli effetti di questo mondo civile. Lo che faccendo, il leggitore pruoverà un divin piacere, in questo corpo mortale, di contemplare nelle divine idee questo mondo di nazioni per tutta la distesa de’ loro luoghi, tempi e varietà; e truoverassi aver convinto di fatto gli epicurei che ’l loro caso non può pazzamente divagare e farsi per ogni parte l’uscita, e gli stoici che la loro catena eterna delle cagioni, con la qual vogliono avvinto il mondo, ella penda dall’onnipotente, saggia e benigna volontà dell’Ottimo Massimo Dio. GUIDA ALLA LETTURA 1. Perché si può dire che la storia è una «scienza»? 2. «Perciò questa Scienza, per uno de’ suoi principali aspetti, dev’essere una teologia civile ragionata della provvedenza divina». Evidenzia nel testo le espressioni che fondano questa conclusione di Vico. 3. In che senso la storia è opera della provvidenza divina?
mondo della natura e che rimanda necessariamente a un supremo ordinatore. L’uomo può invece conoscere propriamente l’ordine generale che vige nel mondo storico, perché è lui stesso a farlo; d’altra parte quest’ordine, essendo prodotto inconsapevolmente dall’uomo, rimanda a una causa consapevole diversa dall’uomo stesso. Dunque, non già dall’ordine naturale – che non conosciamo – ma dall’ordine storico – che produciamo noi stessi inconsapevolmente sotto la guida di una potenza superiore – si può risalire all’azione di Dio. Alla storia e alla «metafisica della mente umana», e non alla metafisica della natura, tocca il compito di dimostrare la provvidenza divina. 15. Oltre a essere un fatto storico, la provvidenza divina è anche un assunto metodologico, poiché consente di giustificare alcuni criteri della ricerca storiografica. a) In quanto onnipotente, Dio non ha bisogno di interventi straordinari per guidare le sorti della storia,
ma agisce per via naturale attraverso il modo di pensare e di agire degli uomini: anche la ricostruzione storica non dovrà quindi mai ricorrere a cause di ordine soprannaturale (si ricordi che la storia sacra, in cui tali cause sono operanti, viene da Vico esclusa dalla propria considerazione). b) In quanto infinitamente sapiente, Dio è principio di ordine: intervenendo nella storia, sia pure per vie esclusivamente naturali, egli è quindi garante del fatto che anche nel mondo civile esiste un ordine. c) Dal fatto che i fini di Dio sono sempre i migliori possibili si evince la superiorità dello scopo generale della storia – e della provvidenza – nei confronti di quelli dei singoli individui, che pure inconsapevolmente collaborano alla sua realizzazione. Questo fine supremo del corso storico, come Vico chiarisce subito dopo in un passo da noi tralasciato, è la stessa conservazione del genere umano.
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esercizi/11 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale 1. Evidenzia la differenza tra intelligere e cogitare. 2. Evidenzia i due pregiudizi che gravano sulla ricerca storica tradizionale. 3. Evidenzia le facoltà che prevalgono nelle differenti fasi della vita dell’uomo. 4. Evidenzia il ruolo della religione nell’età degli dèi. 5. Evidenzia che cosa sono gli universali fantastici. Dizionario filosofico 6. Definisci i seguenti concetti: filologia e filosofia • metafisica della mente umana • storia ideale eterna • fatto • corsi e ricorsi
CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 7. Qual è il «primo vero» secondo Vico?
esercizi/11
8. «Scienza» e «coscienza» in Vico sono concetti di significato molto diverso. Su che cosa si basa tale diversità? 9. Qual è il compito dello storico? 10. Quali sono i tre princìpi comuni a tutte le società umane? 11. Quali sono le organizzazioni politiche proprie dell’età degli eroi e dell’età degli uomini? 12. Che cosa significa che la «scienza nuova» è una teologia civile ragionata della provvidenza divina? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 13. Illustra la teoria vichiana del verum ipsum factum. 14. Che rapporto c’è tra filosofia e filologia nella Scienza nuova di Vico? 15. Perché la storia si configura come «metafisica della mente umana»? 16. Qual è il ruolo della provvidenza divina nella storia? 17. Illustra la teoria vichiana del linguaggio. 18. In che cosa consiste la sapienza poetica? Che rapporto ha con il sapere logico-razionale?
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newtoniano è fondato sul rifiuto delle ipotesi, cioè di qualsiasi assunto – metafisico o scientifico – che non sia dimostrato empiricamente. La stessa legge della gravitazione universale viene da Newton considerata non come un principio fondamentale della realtà, ma soltanto come un risultato empirico della ricerca. la dottrina metafisico teologica di newton
12. la filosofia inglese nel settecento i contenuti l’inghilterra del settecento
Nel corso del Seicento l’economia dell’Inghilterra aveva subito una grande trasformazione: il latifondo agrario aveva spesso ceduto il posto a una solida attività manifatturiera e commerciale, preparando la «rivoluzione industriale» della metà del Settecento. Nel frattempo si era definitivamente consolidato il carattere costituzionale della monarchia. Entrambi i fattori avevano favorito la nascita di un ceto medio borghese intraprendente non solo sul piano
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economico e politico, ma anche su quello culturale. La cultura del Settecento inglese appare caratterizzata dal tramonto dell’egemonia razionalistica cartesiana e da una forte esigenza empiristica e sperimentale. Le due fonti di questo nuovo atteggiamento intellettuale sono Locke e Newton. newton e la definizione del metodo scientifico
Se Locke aveva posto i fondamenti gnoseologici del nuovo empirismo moderno, Newton espone i princìpi di uno sperimentalismo che conferma e consolida la tradizione della scienza moderna da Galilei in poi. Il metodo induttivo
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Ciò non impedisce a Newton di vedere nell’ordine dell’universo – scientificamente dimostrabile – la prova sperimentale dell’esistenza di Dio, concepito come il «perfetto architetto del mondo». La scienza serve quindi a confermare i contenuti della fede. Talvolta Newton, venendo meno al suo metodo, si serve anzi di contenuti religiosi per giustificare alcuni assunti scientifici. Ad esempio, egli dimostra il carattere assoluto dello spazio e del tempo, affermando che Dio è come un infinito organo di senso dove tutte le cose trovano la loro collocazione oggettiva. pro o contro il deismo
La tesi di Locke sulla conciliabilità tra cristianesimo e ragione influenza specificamente i cosiddetti deisti. Ma se Locke aveva inteso tale compatibilità in funzione sostanzialmente apologetica, i deisti – John Toland e Matthew Tindal – applicano l’analisi razionale alla religione positiva, seppure in diversa misura, per espungere da essa tutto ciò che non è spiegabile con la ragione e per ridurre la rivelazione alla religione naturale (o razionale). l’empirismo «spiritualistico» di berkeley
Berkeley, vescovo anglicano, si serve dell’empirismo in funzione dell’apologia religiosa. Il termine di riferimento è il pensiero di Locke, anche se il suo empirismo è da un lato radicalizzato e dall’altro reso funzionale allo spiritualismo. Innanzitutto Berkeley nega che l’intelletto eserciti l’attività
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dell’astrazione: non esistono idee astratte ma soltanto concetti particolari usati per indicare più cose. La negazione delle idee astratte comporta due conseguenze. 1) Il rifiuto della distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie. Tutte le rappresentazioni di qualità – comprese quelle di tipo quantitativo – sono sempre relative al soggetto che le percepisce e
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servono soltanto a orientarsi nella vita pratica, non a fornire una conoscenza teoretica. 2) La negazione di ogni sostanza materiale. L’essere delle cose consiste esclusivamente nel loro essere percepite. immaterialismo e mente divina
Secondo Berkeley, non esiste una
realtà materiale esterna alla mente, ma esistono soltanto gli spiriti: a) quello infinito di Dio che – con il pensiero – crea le cose; b) quelli degli uomini finiti che – mediante il pensiero – le ricevono da Dio. Secondo Berkeley, dunque, la conoscenza si risolve nella comunicazione dell’uomo con la mente divina, che contiene le idee delle cose e delle loro relazioni.
gli strumenti in poche… parole induzione / analisi e sintesi / nominalismo / qualità primarie e secondarie
confronti La questione del metodo in Galilei, Cartesio e Newton
approfondimento I moralisti inglesi
i testi a. nel manuale t34 Newton/Esperienza e metodo induttivo t35 Berkeley/Essere è essere percepiti
b. on-line Newton/Dio è l’architetto del mondo Toland/La ragione e il mistero Berkeley/La critica delle idee astratte Shaftesbury/La socievolezza naturale Shaftesbury/Armonia universale e senso morale Mandeville/Vizi privati, pubblici benefici
esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?
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1. Caratteri generali Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento ha luogo in Inghilterra un vasto rinnovamento culturale destinato a influenzare l’intera filosofia europea del XVIII secolo. Questo fenomeno fu favorito da due condizioni che ponevano l’Inghilterra all’avanguardia nello sviluppo storico. sul piano socio-economico
Nel corso del Seicento l’economia inglese – tradizionalmente agraria e dall’inizio del Cinquecento tendenzialmente latifondista – aveva visto la costituzione di un robusto ceto medio, dedito all’attività manifatturiera (specialmente tessile) e commerciale. Questo processo avviene in Inghilterra con circa un secolo di anticipo rispetto agli altri paesi europei e spiega la precocità della cosiddetta «rivoluzione industriale» inglese, risalente alla metà del Settecento. L’industrializzazione farà la sua comparsa sul Continente – dove un forte distacco cronologico separa la Francia, da un lato, e la Germania e l’Italia, dall’altro – soltanto nel secolo successivo.
sul piano politico
La seconda rivoluzione (o «gloriosa rivoluzione»), concludendo il secolare conflitto tra Parlamento e Corona, garantiva definitivamente all’Inghilterra una monarchia di tipo costituzionale. In questo modo veniva riconfermato il nuovo peso della borghesia e nello stesso tempo iniziava un periodo di maggiore apertura religiosa e culturale. L’Atto di tolleranza del 1689 conferiva infatti la libertà religiosa ai protestanti non anglicani, pur continuando a escludere dal provvedimento sia i cattolici sia i liberi pensatori.
sul piano culturale
L’evoluzione filosofica che accompagna o segue questi eventi è caratterizzata principalmente dal tramonto dell’egemonia cartesiana e, quindi, dall’abbandono di un modello metodologico astrattamente razionalistico. Questo mutamento è particolarmente evidente nell’ambito della ricerca scientificognoseologica, dove, alla pretesa razionalistica di dedurre il sapere da pochi princìpi evidenti, si sostituisce l’esigenza di seguire un metodo empiricosperimentale.
primato dell’esperienza e limiti della ragione
I campioni indiscussi di questo nuovo atteggiamento filosofico sono Locke e Newton. Il Saggio sull’intelligenza umana di Locke costituisce un testo basilare per tutti i pensatori inglesi del Settecento. Che la conoscenza sia condizionata dall’esperienza e che la ragione umana non sia principio assoluto di un sapere dedotto da pochi princìpi innati sono due acquisizioni definitive della cultura inglese posteriore. Per parte loro, i Philosophiae naturalis principia mathematica di Newton – di cui parleremo tra poco – vennero spesso percepiti dai contemporanei come la versione scientifica dei princìpi gnoseologici di Locke. Il presupposto empiristico lockeiano si concreta nello sperimentalismo scientifico di Newton, che non lascia spazio ad alcuna ipotesi metafisica e fa della stessa matematizzazione dell’universo una teoria da dimostrarsi sperimentalmente.
a proposito della religione
Nell’ambito della riflessione religiosa, inoltre, la filosofia inglese conosce – a cavallo di secolo – un trentennio di discussioni e di dispute particolarmente vivaci. Sempre sotto l’influenza di Locke (non tanto il Locke del Sag-
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gio, quanto quello della Ragionevolezza del cristianesimo), l’analisi del rapporto tra ragione e rivelazione assume una grande attualità. Indipendentemente dal fatto che i singoli pensatori pongano l’accento sull’uno o sull’altro dei due termini, si nota anche qui una presa di distanza sia da Cartesio (il quale non assegnò mai alla ragione una funzione critica in fatto di religione), sia dagli esiti tendenzialmente o apertamente irreligiosi di alcuni sviluppi del razionalismo seicentesco (Spinoza e Hobbes). La filosofia inglese del Settecento sviluppa il tentativo di trovare una fondazione autonoma della morale. In altri termini, si cerca di mostrare l’indipendenza della vita etica da motivazioni di carattere metafisico e religioso. Anche questo obiettivo è perseguito percorrendo strade che allontanano da Cartesio. La norma etica non viene più fondata sulla ragione concepita come una facoltà conoscitiva assoluta, bensì sulla natura umana studiata empiricamente nelle sue componenti sentimentali e passionali oltreché razionali.
a proposito della riflessione morale
2. Newton Isaac Newton nasce a Woolsthorpe (contea di Lincoln) nel 1642, lo stesso anno in cui muore Galilei. Studia al Trinity College di Cambridge e nel 1669 succede al suo maestro Isaac Barrow sulla cattedra di Matematica. In questi anni scopre il calcolo infinitesimale, a cui dà il nome di «calcolo delle flussioni», per una via diversa e autonoma da quella percorsa da Leibniz (geometrica anziché algebrica). Come già sappiamo, ciò darà luogo a una lunga disputa sulla priorità della scoperta. In realtà, gli studiosi hanno oggi mostrato come l’idea del calcolo infinitesimale fosse già presente nell’ambiente matematico della prima metà del Seicento. Newton e Leibniz ne sarebbero stati, pertanto, i sistematori piuttosto che gli inventori. Gli studi newtoniani sul calcolo infinitesimale sono esposti nel Methodus fluxionum et seriarum infinitarum, composto nel 1671, ma pubblicato soltanto postumo nel 1736.
la formazione e la scoperta del calcolo infinitesimale
Dopo essersi occupato per un certo periodo soprattutto di ottica (Una nuova teoria sulla luce e sui colori, 1672), Newton ritorna agli studi matematici per applicarli alle sue ricerche di fisica meccanica e di astronomia. Il risultato di questi studi sarà il suo capolavoro – i Philosophiae naturalis principia mathematica (1687) –, dove è esposta tra l’altro la teoria della gravitazione universale. Eletto deputato al Parlamento come rappresentante dell’università, Newton inizia nel 1689 una brillante carriera politica, accumulando incarichi politici e accademici (ad esempio, la presidenza della Royal Society). Dal 1690 la sua ricerca scientifica perde in originalità, anche in conseguenza di una malattia nervosa dalla quale egli non si riprende più completamente. Ciononostante, nel 1704 pubblica l’importantissima Ottica, che raccoglie i risultati di tutta la sua attività scientifica relativa a questa disciplina. Muore nel 1727 ed è sepolto, con gli onori dovuti ai grandi, nell’abbazia di Westminster.
carriera scientifica e politica
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I Principia di Newton si presentano come un’opera di risistemazione generale dei princìpi della fisica o – come egli dice nella terminologia del tempo – della «filosofia naturale». I Principia si aprono con alcune definizioni importanti, come quella della massa, definita dal prodotto della densità per il volume, e quella della forza, distinta in «forza insita» (o d’inerzia) e «forza impressa» (o applicata a un corpo per modificarne lo stato dinamico). Segue poi la formulazione dei tre postulati relativi alle leggi della meccanica. 1. Il principio di inerzia recita che «ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, a meno che non sia costretto a mutare tale stato da qualche forza impressa». 2. La legge sulla caduta dei gravi stabilisce invece che «il cambiamento di moto – ovvero l’accelerazione – è proporzionale alla forza motrice impressa». 3. A queste due leggi – che sono una riformulazione di quelle galileiane [cfr. 4.10] – Newton aggiunge una terza, secondo cui «a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria».
la gravità e l’unità del mondo fisico
La tesi più importante dei Principia, tuttavia, è la legge della gravitazione universale, secondo la quale tutti i corpi si attraggono reciprocamente con una forza direttamente proporzionale alla loro massa e inversamente proporzionale al quadrato della loro distanza. La legge di gravità – che, secondo la tradizione tramandata da Voltaire, Newton avrebbe intuito dopo che una mela, staccandosi dall’albero, colpì la sua testa – riveste un’enorme importanza, poiché consente di ricondurre all’unità il mondo fisico. In base alla legge di gravità, infatti, diviene possibile esprimere in un’unica formula matematica la dinamica dei fenomeni terrestri e di quelli celesti. Di conseguenza, essa fonde in un’unica teoria gli esperimenti di Galileo sulla caduta dei corpi e le tesi di Keplero sul movimento degli astri.
gli studi sulla luce e sul colore
Nell’Ottica Newton espone invece la sua dottrina della luce, inserendola nel quadro del meccanicismo e del corpuscolarismo. Egli ritiene infatti che «all’inizio del mondo Dio abbia formato la materia di particelle solide, compatte, dure, impermeabili e mobili, dotate di date dimensioni e di date figure, di date proprietà e di date proporzioni rispetto allo spazio, affinché meglio tendessero al fine per il quale le aveva formate». Anche la luce – come tutti i fenomeni materiali – viene dunque spiegata come un movimento di particelle provenienti dall’oggetto luminoso. Molto importanti sono anche gli studi di Newton sul colore. Per mezzo di un prisma di cristallo egli scoprì che la luce bianca non è un fenomeno semplice, ma si compone di raggi aventi oggettivamente un diverso indice di rifrazione e soggettivamente un diverso colore. L’effetto del bianco è quindi dato dalla compresenza di tutti i colori, mentre il nero è l’assenza di colore.
le tre regole del metodo
I Principia e l’Ottica di Newton, oltreché per le teorie scientifiche che contengono, sono importanti per il metodo che inaugurano. Ma quali sono i punti salienti del metodo newtoniano? 1. Il ricorso all’esperimento e all’ induzione . La ricerca scientifica deve cominciare dalla conoscenza sperimentale del particolare per risalire poi in-
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duttivamente a elementi più generali. Da questo punto di vista, il procedimento di Newton è esattamente l’opposto di quello di Cartesio, che partiva da princìpi primi generalissimi per dedurne l’intero edificio della scienza in tutti i suoi particolari. 2. Il rifiuto delle ipotesi, ossia di tutto ciò che non deriva dall’esperienza. Newton precisa che le ipotesi da rifiutare possono essere metafisiche (come le «qualità occulte» degli aristotelici) o fisiche. Per Newton, la stessa legge della gravitazione universale può essere un’ipotesi fisica – da rifiutare come tale – se diventa un principio fondamentale, anziché essere un semplice risultato empirico della ricerca. Per questo motivo, egli si rifiutò sempre di spiegare la causa della legge di gravitazione, limitandosi a verificare empiricamente la validità della formula matematica che la esprime [t34]. 3. La distinzione – nella procedura di ricerca – dei momenti dell’analisi e della sintesi. Come sappiamo, la distinzione risaliva già a Cartesio, che ne faceva un uso astrattamente razionalistico [cfr. 5.3]. In Newton, invece, tale distinzione serve a specificare il procedimento induttivo. L’ analisi consiste nel procedere dalle cose composte alle cose semplici, dai movimenti alle forze che li producono e in generale dagli oggetti alle loro cause e dalle cause più particolari a quelle più generali, fino a pervenire alle cause generalissime. La sintesi consiste nell’assumere come princìpi le cause scoperte e provate, e mediante queste spiegare i fenomeni che ne derivano per poi mettere alla prova tali spiegazioni. Metodo empirico-induttivo e rifiuto delle ipotesi non impediscono, tuttavia, a Newton di formulare una dottrina metafisico-teologica. Il fatto che la natura sia un sistema ordinato e regolato da leggi necessarie è per lui la prova sperimentale che deve esistere un Essere infinitamente sapiente e potente, un «perfetto architetto del mondo» in grado di predisporre quest’ordine . Tuttavia, se la scienza è per Newton una riconferma della fede, a sua volta la fede riconferma i risultati della scienza. Dio non solo garantisce la perfezione delle leggi naturali, ma è anche il luogo in cui – quasi come in un infinito organo di senso («sensorio») – tutte le cose vengono percepite e conosciute nella loro oggettiva realtà.
scienza e fede
In questo sensorio di Dio, il tempo e lo spazio sono assoluti e non rappresentano entità relative come per gli uomini. Il presupposto dell’assolutezza del tempo e dello spazio serve a Newton per fornire coordinate univoche alle leggi della meccanica. Com’è evidente, tuttavia, tale presupposto non è desumibile da nessuna osservazione empirica ma trova il proprio fondamento in una ipotesi di natura teologica.
dio come fondamento delle leggi fisiche
CONFRONTI
La questione del metodo in Galilei, Cartesio e Newton
Il pensiero filosofico e scientifico a cavallo tra il Seicento e il Settecento appare segnato da una profonda riflessione sul metodo: in
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Newton Dio è l’architetto del mondo
questo periodo, ogni tentativo di rinnovare il sapere nei suoi contenuti – andando al di là delle formulazioni dovute alla tradizione
aristotelico-scolastica – e di sviluppare diverse modalità di approccio all’esperienza si è confrontato con l’esigenza di definire
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il metodo per conseguire questi scopi. In linea generale, questo termine (dal greco mèthodos, «l’andar dietro», da metà, «oltre, dopo, secondo», e hodòs, «strada»: letteralmente «la strada da percorrere per raggiungere un determinato obiettivo») indica l’insieme delle regole e dei procedimenti che occorre seguire per condurre una ricerca in modo ordinato e produttivo. Tra l’inizio della Rivoluzione scientifica e la prima metà del Settecento, alcuni scienziati e filosofi quali Galilei, Cartesio e Newton hanno affrontato la questione del metodo al fine di giustificare i fondamenti stessi del sapere e di accrescere sempre più le conoscenze. Sebbene non lo abbia mai teorizzato in forma compiuta, Galileo Galilei (1564-1642) si è sempre sforzato di applicare nella propria attività di ricerca un preciso metodo sperimentale. Quest’ultimo risulta costituito da due momenti fondamentali: 1) il primo consiste nella formulazione di un’ipotesi, che ha lo scopo di spiegare un determinato fenomeno naturale, stabilendo una connessione di causa ed effetto tra fatti diversi; 2) il secondo consiste nell’esperimento, attraverso il quale si cerca di mostrare se la connessione posta nell’ipotesi sia vera oppure no. Nel primo caso, si dirà che l’ipotesi è stata verificata; nel secondo, invece, che l’ipotesi è stata smentita (o falsificata), rendendo così necessaria la formulazione di altre ipotesi, finché una di esse non venga confermata dall’esperimento. Nella lettera a Cristina di Lorena, Galileo fornisce preziose indicazioni sul metodo, allorché scrive: «Pare che quello degli effetti naturali, che o la sensata esperienza ci pone dinnanzi agli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio». Con «sensate esperienze» Galilei non intende riferirsi alle esperienze ordinarie che 268
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ognuno di noi può compiere nella vita quotidiana, ma a quelle condotte scientificamente, e cioè costruite intenzionalmente dallo scienziato – eliminando i fattori di disturbo e impiegando strumenti che amplificano le sue capacità osservative – allo scopo di verificare l’ipotesi. Le «necessarie dimostrazioni» sono, invece, le ipotesi che lo scienziato ha formulato in linguaggio matematico per spiegare un determinato fenomeno naturale, presupponendo possibili concatenazioni di causa e di effetto, che attende di verificare tramite l’esperimento. Tra le «sensate esperienze» e le «necessarie dimostrazioni» vi è un rapporto di reciproca implicazione: le esperienze compiute dallo scienziato sono sempre orientate da un’ipotesi teorica e vengono sempre misurate in termini matematico-oggettivi; le ipotesi che lo scienziato formula per spiegare i fatti si originano sempre a contatto con l’esperienza, a partire dall’osservazione diretta della realtà. Il punto di partenza della filosofia di Cartesio (1596-1650) consiste nella convinzione che «il buon senso è a questo mondo la cosa meglio distribuita»: in altre parole, a suo avviso, la ragione – posseduta naturalmente da ogni uomo fin dalla nascita – è «il potere di giudicare rettamente discernendo il vero dal falso». Poiché la ragione è una ed è ugualmente partecipata da ogni uomo, uno deve essere anche il metodo da seguire per cogliere sempre la verità, evitando di cadere in errore. Come precisa Cartesio, infatti, «la diversità delle nostre opinioni non deriva dall’essere gli uni più ragionevoli degli altri, ma solo dalle vie diverse che seguiamo nel pensare, e dalla diversità delle cose considerate da ciascuno». In altri termini, l’esistenza di opinioni diverse e gli errori della conoscenza non dipendono dalla ragione – che di per sé è infallibile – ma dal
cattivo uso che alle volte gli uomini ne fanno: di qui la necessità di un metodo, e cioè di istruzioni per un uso corretto della ragione. Il metodo formulato da Cartesio assume come modello la matematica intesa come «scienza dell’ordine e della misura» in generale: in essa, infatti, vede spontaneamente all’opera le regole che ci permettono di cogliere sempre il vero, senza mai scambiarlo per il falso. Nel Discorso sul metodo (1637), Cartesio enuncia quattro regole fondamentali: 1) la prima è quella dell’evidenza e prescrive di accogliere come vero solo ciò che ha i requisiti della chiarezza e della distinzione; 2) la seconda è quella dell’analisi e prescrive di risolvere i problemi complessi nei loro elementi semplici, così da poterli cogliere uno per uno in modo evidente; 3) la terza è quella della sintesi e prescrive di risalire dagli oggetti più semplici e più facilmente conoscibili a quelli più complessi, cercando di cogliere l’ordine che li connette gli uni agli altri; 4) la quarta è quella dell’enumerazione e prescrive di ripercorrere con un moto continuo del pensiero tutti i passaggi precedentemente svolti, in modo da controllare di non aver omesso nulla e di non avere commesso errori. Come si può notare, tra le regole del metodo cartesiano, non viene fatto alcun riferimento all’esperienza o all’esperimento: questi ultimi ricoprivano invece un ruolo determinante nel metodo galileiano, in cui devono verificare o falsificare un’ipotesi scientifica. A differenza di Galileo, per Cartesio, la verità di un enunciato – e quindi l’impossibilità di revocarlo in dubbio – non dipende dalla sua verificabilità empirica, ma dall’evidenza con cui si lascia cogliere dalla ragione. A questo riguardo Cartesio distingue due fonti del sapere certo: 1) l’intuito, che ha per oggetto le conoscenze immediatamente evidenti e non ha bisogno di artificiose definizio-
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ni (come pretendeva la tradizione aristotelico-scolastica); 2) la deduzione, che procede in modo discorsivo, congiungendo tra loro più verità evidenti attraverso una serie di passaggi intermedi. Una deduzione è vera se sono intuitivamente evidenti tutti i singoli passaggi da cui è composta: ciò equivale a dire che la verità dell’intero edificio del sapere (costituito da lunghe serie di ragionamenti deduttivi) deriva dal carattere intuitivo con cui ogni passaggio è connesso all’altro. Per lo scarso ruolo attribuito all’esperienza, la fisica e la biologia elaborate da Cartesio appaiono lontane dai criteri metodologici adottati dalla scienza moderna: a suo avviso, infatti, solo le verità intuite o dedotte razionalmente hanno il requisito dell’indubitabilità, mentre le conoscenze acquisite attraverso l’esperienza, sempre soggette al dubbio, sono tutt’al più semplicemente probabili. Il metodo messo a punto da Isaac Newton (1642-1727) nei Philosophiae naturalis principia mathematica (1687) muove da presupposti opposti a quelli cartesiani: mentre per Cartesio l’edificio della scienza andava costruito a partire da alcuni princìpi evidenti e generalissimi da cui si dovevano dedurre tutti gli altri enunciati, per Newton rimane essenziale il ricorso all’esperimento e all’induzione, nonché il rifiuto di tutte le ipotesi fisiche o metafisiche che non comportino il riferimento diretto all’esperienza. In particolare, all’inizio del terzo libro dei Principia, Newton formula quat-
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tro regulae philosophandi che costituiscono un’esplicita teorizzazione del suo metodo induttivosperimentale. Vediamole una per una. 1) «Delle cose naturali non devono essere ammesse cause più numerose di quelle che sono vere e bastano a spiegare i fenomeni». In base alla prima regola, lo scienziato – per spiegare la realtà naturale – deve limitarsi a ricercare le cause efficienti dei fenomeni, senza pretendere di indagare l’essenza delle cose. 2) «Finché può essere fatto, le medesime cause vanno attribuite ad effetti naturali dello stesso genere». In base alla seconda regola, il mondo fisico ha carattere uniforme e, pertanto, è legittimo ritenere che effetti simili scaturiscano da cause simili. 3) «Le qualità dei corpi non si conoscono altrimenti che per mezzo di esperimenti»; inoltre «l’estensione dei corpi non si conosce altrimenti che per mezzo dei sensi, né è percepita in tutti; ma in quanto spetta a tutte le cose sensibili, allora viene affermata di tutte le cose». La terza regola stabilisce come sia possibile conseguire una conoscenza oggettiva: innanzitutto, per Newton, ciò che sappiamo delle cose (le loro qualità primarie, come la durezza, l’estensione, la mobilità, l’impenetrabilità) dipende dalla verifica sperimentale. I risultati di quest’ultima sono inoltre generalizzabili per via induttiva, grazie al principio dell’uniformità della natura: ad esempio, la qualità dell’estensione, verificata per alcuni corpi sensibili, viene attribuita a tutti i corpi, anche a quelli che non sono
stati oggetto di una verifica sperimentale. 4) «Nella filosofia sperimentale le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni devono, nonostante le ipotesi contrarie, essere considerate vere o rigorosamente o quanto più possibile, finché non interverranno altri fenomeni, mediante i quali o sono rese più esatte o vengono assoggettate ad eccezioni». In base alla quarta regola, lo scienziato non può legittimamente rifiutare gli assunti ricavati per via induttiva, contrapponendo ad essi soltanto ipotesi e non altri esperimenti. Nello Scolio generale aggiunto al termine della seconda edizione dei Principia, Newton spiega perché lo scienziato non debba mai fondare la propria attività di ricerca su ipotesi fisiche o metafisiche: tutte le asserzioni che non traggono origine dall’osservazione – come ad esempio le «qualità occulte» degli aristotelici – devono essere messe al bando come mere invenzioni ipotetiche. Secondo Newton, la stessa legge della gravitazione universale non deve essere considerata come un principio fisico assoluto, ma solo come il risultato empirico della ricerca. Newton afferma di non poter inserire la gravità tra le qualità generali dei corpi (essendo una forza che muta in relazione alla distanza dal centro gravitazionale) e ammette di non conoscerne la causa reale. Per questo motivo essa va considerata semplicemente come una regola metodologica che si è mostrata utile a spiegare tutti i movimenti dei corpi fin qui osservati.
3. Pro o contro il deismo Con la sua opera, Newton intendeva offrire una convalida scientifica alla religione tradizionale. E in realtà così avvenne: la maggior parte dei teologi inglesi a cavallo del secolo la considerarono una sorta di rivelazione naturale che si aggiungeva a quella scritturale senza correggerla. Essa permetteva 12. la filosofia inglese nel settecento
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quindi di continuare a raffigurare la divinità non solo come principio creatore e ordinatore del mondo, ma anche come Dio personale e vivente, secondo la corrente concezione del teismo. che cos’è il deismo?
Ma la rappresentazione di Dio come «architetto dell’universo» ebbe anche un altro esito. Da un lato, essa accrebbe la fede nell’esistenza di Dio e dei suoi attributi razionalmente comprensibili (onnipotenza, onniscienza, perfezione, infinitezza), dall’altro, condusse a rifiutare tutto ciò che – pur documentato nella Scrittura – non era riconducibile a espressione razionale. In questo modo, non solo veniva respinta la credenza nei miracoli e negli eventi soprannaturali descritti nella Bibbia, ma entrava anche in crisi la stessa concezione di Dio come persona. La conseguenza di ciò è che la divinità era intesa esclusivamente come principio creatore e ordinatore dell’universo. Questo particolare atteggiamento di pensiero – opposto alle tradizionali convinzioni teistiche – prese il nome di deismo.
le origini del deismo: la ragione e il mistero
Il deismo risale – secondo le più comuni ricostruzioni storiografiche – a John Toland (1670-1722), autore di un Cristianesimo senza misteri (1696), nonché delle ancor più note Lettere a Serena (1704), indirizzate alla regina Sofia Carlotta di Prussia. Toland si professò seguace della Ragionevolezza del cristianesimo di Locke, ma giustamente quest’ultimo respinse tale paternità spirituale. La tesi della ragionevolezza della religione cristiana è infatti utilizzata da Toland – a differenza di Locke – in funzione polemica anziché apologetica. Egli ritiene che si debba eliminare dalla Scrittura tutto ciò che è irriducibile alla ragione, tutto ciò che è «misterioso». A suo avviso, la ragione è sufficiente a cogliere gli attributi di Dio e tutto ciò che di vero vi è nel Vangelo. Infatti non esistono verità «al di sopra della ragione» che non siano anche «contrarie alla ragione» .
le religioni positive derivano dalla religione naturale
La forma più radicale del deismo inglese è proposta da Matthew Tindal (1653-1733), autore del Cristianesimo antico come la creazione (1730). Egli considera, infatti, la rivelazione come una copia della religione naturale (o razionale), della quale le singole religioni positive sono derivazioni o deformazioni. La radicalità del pensiero di Tindal sta nel fatto che egli riconosce l’assoluta priorità assiologica e cronologica della religione razionale su ogni forma di rivelazione. Infatti Dio – essendo perfetto e immutabile – ha dato da sempre agli uomini una legge altrettanto perfetta e immutabile. Il cristianesimo non poteva dunque né aggiungere né togliere nulla a questa legge. Se poté essere utile al momento della sua comparsa per ravvivare una religione naturale appannata, esso è diventato successivamente pericoloso, consolidando superstizioni e false credenze che nulla hanno a che vedere con il nucleo originario della legge divina.
gli oppositori del deismo
In Inghilterra la critica deistica alla Scrittura comincia a perdere forza verso la metà del Settecento, mentre viene ripresa ben più radicalmente nella filosofia francese. In ogni caso, in Inghilterra essa rappresenta una corrente minoritaria rispetto al numero di coloro che si adoperano per difendere il cristianesimo ufficiale. Gli argomenti più frequentemente usati dai critici del deismo sono i seguenti: a) difesa dell’attendibilità filologica delle narra-
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zioni storiche contenute nella Bibbia; b) insufficienza della ragione umana a conoscere le verità assolute e gli attributi divini; c) necessità di una conoscenza analogico-allegorica di Dio. Tra gli oppositori del deismo occupa una posizione particolare Samuel Clarke (1675-1729), autore di Sermoni poi pubblicati con il titolo Discorso sull’esistenza e sugli attributi di Dio (1705). Secondo Clarke – il cui modello è Euclide – sono dimostrabili matematicamente tanto l’esistenza e gli attributi di Dio quanto le leggi universali della natura, cui Dio stesso deve obbedire. In accordo con i deisti, dunque, egli fonda la religione sull’ordine razionale e necessario della natura. A differenza di essi, tuttavia, Clarke sostiene che la ragione non esaurisce la conoscenza di Dio, la cui essenza è impenetrabile per l’uomo: la religione razionale è solo la premessa della rivelazione, attraverso cui gli uomini hanno pieno accesso alla verità.
4. Berkeley: la teoria della conoscenza George Berkeley nasce nel 1685 a Kilkenny in Irlanda. In quel periodo il paese era travagliato dalle tensioni tra la maggioranza irlandese autoctona – di ceppo celtico e di confessione cattolica, politicamente sostenitrice degli Stuart – e una minoranza, però dominante, di origine inglese e di confessione anglicana, sostenitrice della «gloriosa rivoluzione» di Guglielmo III d’Orange. Questa difficile situazione non manca di procurare noie a Berkeley, esponente della minoranza inglese, e lo induce a lasciare l’Irlanda, prima per Londra, poi per un lungo viaggio in Francia e in Italia. Nel 1721 Berkeley ritorna in Gran Bretagna, dove si dedica al più grandioso progetto della sua vita: fondare un collegio nelle Bermude per evangelizzare i selvaggi americani. Partito per l’America nel 1728, deve però tornare in Inghilterra dopo aver assistito al fallimento del suo disegno. Si trasferisce quindi in Irlanda, dove diviene vescovo di Cloyne. Muore nel 1753.
la vita
Le prime opere di Berkeley, risalenti al periodo giovanile, si incentrano sul problema della conoscenza, analizzato alla luce di un presupposto rigorosamente empiristico: Saggio per una nuova teoria della visione (1709), Trattato sui princìpi della conoscenza umana (1710) e i tre Dialoghi tra Hylas e Philonous (1713). Questi ultimi costituiscono una riesposizione – in forma dialogica – dei contenuti del Trattato, che non aveva riscosso successo.
le opere gnoseologiche
Una fortuna editoriale ben maggiore toccò invece al secondo gruppo di opere, nelle quali prevale l’orientamento neoplatonico. Numerose edizioni ebbe infatti l’Alcifrone, in cui Berkeley polemizza contro i deisti e i cosiddetti «liberi pensatori». Nella Siris (1744), egli sviluppa invece una sorta di ascesi platonica dall’illusorietà dei sensi alla luce dell’intelletto. Come si vede, l’esito finale della speculazione del filosofo irlandese pregiudica sostanzialmente il suo iniziale empirismo. Importanti per la ricostruzione del suo pensiero sono anche gli appunti giovanili – il cosiddetto Commonplace Book – pubblicati soltanto nel 1871.
le opere di argomento religioso e morale
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l’origine empirica delle idee
Per Berkeley – come per Locke – l’oggetto della conoscenza è costituito dalle idee, cioè dalle nostre rappresentazioni mentali. Anche per lui, inoltre, l’unica fonte delle idee è l’esperienza. Ad esempio, una «mela» non è che una collezione di idee di sensazione – di un certo sapore, odore, consistenza, forma, ecc. – che l’esperienza ci presenta solitamente congiunte. Tuttavia, Berkeley ritiene che Locke non sia stato sufficientemente fedele ai suoi presupposti empiristici almeno su un punto.
non esistono idee astratte
Per Locke, infatti, ciò che distingue il pensiero umano dall’attività psichica dei bruti è la facoltà dell’astrazione [cfr. 9.4]. Come abbiamo visto in precedenza, i sensi offrono sempre idee particolari. Ciononostante, l’uomo ha la possibilità di formulare idee astratte – come quelle dell’estensione, del colore, del movimento – separandole dalle altre qualità dell’oggetto percepito. Secondo Berkeley, invece, il processo di astrazione descritto da Locke non è possibile e le rappresentazioni mentali degli uomini sono sempre idee particolari. Ad esempio, quando pensiamo all’idea dell’estensione la riferiamo sempre a un determinato oggetto. Ciò equivale a dire che, in realtà, l’idea astratta dell’estensione non si presenta mai da sola, ma è sempre associata a un oggetto particolare con tutte le sue qualità. Quando pensiamo a un uomo, non formuliamo mai l’idea astratta «uomo», ma immaginiamo sempre un uomo alto o basso, biondo o bruno, grasso o magro. Da questo punto di vista, Berkeley sembra attenersi ancor più strettamente di Locke alla tradizione occamista, approdando a un più rigoroso nominalismo .
esistono solo idee particolari
La negazione delle idee astratte non esclude tuttavia la possibilità di un uso generale delle idee particolari (uso che Locke avrebbe confuso con l’esistenza di idee astratte). È, infatti, possibile servirsi di idee particolari per rappresentare tutte le idee che appartengono a una stessa specie . Il triangolo che il geometra ha in mente per dimostrare un teorema è sempre particolare (ad esempio, un triangolo isoscele). Nella dimostrazione, tuttavia, questa particolarità non viene presa in considerazione e un triangolo particolare può rappresentare il triangolo in generale (ossia tutti i triangoli, anche quelli equilateri e quelli scaleni). Vediamo come Berkeley argomenta l’impossibilità per l’uomo di formarsi idee astratte delle cose: Se ci siano altri che abbiano questa meravigliosa potenza di astrarre le loro idee, potranno dirlo loro meglio di chiunque. Per conto mio, oso asserire positivamente che io non l’ho: mi accorgo in realtà d’esser capace di immaginare, ossia di rappresentarmi, le idee di quelle cose particolari che ho percepite, unendole fra loro e dividendole in vario modo. Posso immaginare un uomo con due teste, ovvero il busto d’un uomo congiunto al corpo d’un cavallo. Posso considerare la mano, l’occhio, il naso ciascuno per conto suo, astratto ossia separato dal resto del corpo: però, qualunque sia la mano o l’occhio che immagino, deve avere una forma ed un colore determinato. Del pari, l’idea di uomo che compongo, deve essere l’idea d’un uomo bianco o nero ovvero brunastro, diritto ovvero storto, alto o basso ovvero di statura mezzana. Non posso, per quanti sforzi di pensiero faccia, concepire l’idea astratta come l’ho descritta più sopra (Trattato sui princìpi della conoscenza umana, Introduzione).
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Berkeley ritiene che la credenza nell’esistenza di idee astratte rechi con sé altri due errori.
conseguenze dell’errore dell’astrazione
1. L’erronea distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie . Non è infatti possibile separare dal complesso delle qualità percepite soggettivamente alcune qualità oggettive delle cose, suscettibili di misurazione matematica. 2. La falsa supposizione di una sostanza materiale. Anche in questo caso si applica erroneamente il procedimento astrattivo, giacché si pretende di separare l’esistenza degli oggetti dalle sensazioni attraverso cui essi vengono percepiti. La dottrina delle qualità primarie presupponeva l’esistenza e la conoscibilità – anzi la misurabilità matematica – di una realtà indipendente dalle modalità percettive e conoscitive dell’uomo. Sin dal Saggio di una nuova teoria della visione, Berkeley polemizza contro il carattere matematico di qualità come la distanza (ovvero lo spazio) e la grandezza (ossia l’estensione). Egli nega, infatti, che la distanza e la grandezza degli oggetti che noi percepiamo mediante la vista siano determinabili in base a leggi ottiche di carattere geometrico. Per Berkeley, invece, la nozione di queste qualità è data dall’esperienza. In altri termini, noi siamo abituati a connettere determinate idee visive (e quindi determinate posizioni degli occhi) con la rappresentazione di particolari grandezze e distanze. A riprova di ciò Berkeley adduce il fatto che – come avevano recentemente provato alcune relazioni scientifiche lette alla Royal Society – un cieco nato, cui sia restituita la vista con un’operazione chirurgica, non è in grado di percepire immediatamente, senza esperienze pregresse, la distanza dagli oggetti che vede per la prima volta. Ciò dimostra, secondo Berkeley, che la distanza non è oggettivamente e matematicamente determinata da leggi ottiche che presiedono alla visione.
distanza e grandezza non sono qualità primarie
La funzione esercitata dalle idee visive di distanza e di grandezza – ma il discorso è estensibile a tutte le qualità primarie – non è dunque conoscitiva, ma esclusivamente pratica. Per Berkeley, infatti, «possiamo correttamente concludere che gli oggetti della visione costituiscono il linguaggio naturale della natura; è questo linguaggio che ci insegna a regolare le nostre azioni per conseguire le cose necessarie alla conservazione e al benessere del nostro corpo e per evitare tutto ciò che lo lederebbe o lo distruggerebbe». In altri termini, la distanza che vediamo separarci da un precipizio non ci fornisce alcuna conoscenza sulla reale lontananza dell’abisso, ma è un segno convenzionale attraverso cui la natura – e, attraverso di essa, Dio – ci consente di non precipitare in esso.
distanza e grandezza hanno un valore pratico
La polemica contro la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie diventa più esplicita nel Trattato e soprattutto nei Dialoghi tra Hylas e Philonous. In queste opere Berkeley attua una vera e propria riduzione delle qualità primarie alle qualità secondarie. Dopo aver ricordato che le qualità secondarie – sapori, odori, colori – mutano a seconda del soggetto che le percepisce e delle condizioni in cui esso si trova, Berkeley intende dimo-
il carattere relativo delle qualità primarie
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strare che anche le cosiddette qualità primarie – estensione, figura, solidità, peso, movimento e quiete – presentano lo stesso carattere relativo. Ciò che all’uomo appare estremamente piccolo, al più minuscolo degli insetti sembra enorme; a soggetti diversi lo stesso movimento può apparire lento o veloce; ciò che è duro per un animale è molle per un altro, dotato di membra più robuste. Ma, qual è la principale conseguenza dell’assimilazione delle qualità primarie alle qualità secondarie? Per Berkeley, occorre asserire – in disaccordo con Newton – che spazio e tempo sono sempre relativi al soggetto conoscente. A suo avviso, infatti, lo spazio (come l’estensione) è determinato dalla relazione tra la percezione del nostro corpo e quella degli altri oggetti. Il tempo (come il movimento), invece, è determinato dalla velocità con cui le idee si succedono nella nostra mente. la sostanza materiale non esiste
Come abbiamo visto, Berkeley rifiuta la distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie e giunge ad affermare che ogni nostra percezione è soggettiva. Ciò equivale, per Berkeley, a negare l’esistenza di una sostanza materiale extramentale (ossia esistente fuori della mente) da cui derivino le idee. In altri termini, l’esistenza delle cose si esaurisce nel loro essere percepite, o – per usare le parole di Berkeley – esse est percipi. Ma, se non esiste alcuna sostanza materiale al di fuori della mente, da dove trae origine la nostra credenza in essa? Per Berkeley, la nozione di sostanza materiale è dovuta a un erroneo processo di astrazione: dalle singole qualità percepite sensibilmente (il colore, l’odore, la forma, la grandezza di una mela) si astrae illegittimamente un sostrato metafisico, non percepibile con i sensi, che funge da loro elemento comune (la sostanza materiale «mela»). Ora, come sappiamo, anche Locke aveva negato la conoscibilità della sostanza, pur ammettendone in qualche modo l’esistenza [cfr. 9.3]. Dal canto suo, invece, Berkeley rifiuta la possibilità stessa della sua esistenza [t35].
solo la sostanza spirituale esiste
Nel linguaggio berkeleyano coloro che sostengono l’esistenza di una realtà materiale extralogica sono detti «materialisti» (nell’accezione filosofica comune, invece, il termine si riferisce a coloro per i quali esiste esclusivamente la materia). La sua filosofia si propone quindi come un radicale immaterialismo e, di conseguenza, come un radicale spiritualismo, per il quale non esiste altro che lo spirito. L’argomentazione usata da Berkeley contro l’esistenza di una realtà esterna non si riferisce infatti alla sostanza in generale, ma soltanto a quella materiale.
spirito dell’uomo e mente divina
Ma da che cosa è attestata l’esistenza di una sostanza spirituale? Secondo Berkeley, il fatto che l’uomo abbia idee dimostra l’esistenza di uno spirito che le pensa. Ora, l’uomo ha spesso anche coscienza di idee che non è in grado di produrre da sé. Ciò prova, secondo Berkeley, la provenienza di tali idee da uno spirito infinito. Ospitando in sé delle idee di cui non è l’autore, lo spirito dell’uomo mostra di dipendere da una mente divina. L’idea della mente divina è presente nell’uomo come una conoscenza puramente intellettiva indipendente dai sensi. La mente divina comunica con le menti umane mediante un linguaggio, i cui «segni» sono costituiti dalle idee. È evidente in ciò la ripresa, da parte di Berkeley, del tema della visione delle cose in Dio, che era stato diffuso nel pensiero seicentesco da Malebranche [cfr. 6.3].
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Come si può notare, nella filosofia di Berkeley va perduto il riferimento delle idee alla realtà esterna. L’unico fondamento dell’oggettività della conoscenza è dunque la sua conformità allo spirito infinito. Se la sostanza materiale non esiste e la realtà si esaurisce nella percezione del soggetto, occorre domandarsi da che cosa deriva questa percezione. Per Berkeley, Dio è la fonte di ogni conoscenza umana. Ciò vuol dire che egli è causa non soltanto delle idee, ma anche della loro connessione. Per Berkeley, ciò che noi chiamiamo realtà risulta dalla corrispondenza tra il nostro modo di connettere le idee e il modo in cui esse sono connesse nella mente di Dio.
le idee sono prodotte e ordinate da dio
Quanto alle leggi della natura – scoperte dalla scienza umana – Berkeley ne riconosce la validità, ma ritiene che esse siano stabilite dalla mente di Dio. Tali leggi, infatti, non possono avere riscontro nella realtà oggettiva, che non esiste. Esse vanno considerate come espressioni del «linguaggio» con cui Dio parla agli uomini e provvede alle loro necessità concrete. Secondo questa prospettiva, le leggi della natura non sono conoscenze teoreticamente certe, ma rivestono – come già si è visto nella Nuova teoria della visione a proposito della distanza e della grandezza – un valore esclusivamente pratico e servono a orientare l’azione umana.
il carattere pratico delle leggi di natura
5. Berkeley: religione e politica Le dottrine metafisiche e gnoseologiche che abbiamo fin qui esposte sono contenute nelle opere giovanili di Berkeley. Pur essendo le più rilevanti dal punto di vista storico, esse non sono però quelle che più stanno a cuore a Berkeley né quelle per le quali egli gode di maggior fama nel suo tempo. Negli scritti della maturità, infatti, esse non vengono più riprese. In primo piano emergono, invece, le argomentazioni apologetiche del filosofo. Nell’Alcifrone Berkeley espone, in forma dialogica, il suo pensiero religioso e morale. Obiettivo polemico esplicito sono i deisti e i liberi pensatori: Alcifrone significa letteralmente «mente potente» e allude alla presunzione di chi pretende di risolvere tutto con il proprio cervello. Berkeley denuncia la completa inadeguatezza della religione naturale a esprimere la dimensione della fede e del culto, momenti essenziali della vita religiosa. Una religione che sia veramente tale deve, quindi, essere una religione rivelata. Ciò non significa che Berkeley non si preoccupi della «ragionevolezza» della religione. Per giustificare i miracoli e i misteri cristiani egli ricorre al paragone con la scienza e ricorda che anche in essa i primi princìpi non sono spiegabili razionalmente.
contro i deisti
Nella Siris Berkeley ridisegna la sua metafisica attraverso la costruzione di una cosmologia di stampo neoplatonico. L’intero universo è permeato e animato da quella sostanza invisibile che è l’etere. Dio esplica la propria opera attraverso l’etere e comunica con gli uomini per mezzo delle cose animate da esso. Ritorna quindi in diversa forma il tema della natura come «linguaggio di Dio». Attraverso una comprensione intellettuale dell’ordine
la natura come «linguaggio di dio»
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della natura, l’uomo può compiere un’ascesi – altro tema caro al neoplatonismo – che lo riconduce all’intelletto divino. il principio dell’obbedienza
Anche il pensiero politico di Berkeley è saldamente ancorato alla religione. In un Discorso sull’obbedienza passiva o princìpi della legge di natura (1712) egli sostiene che gli uomini debbono obbedire passivamente all’autorità costituita. Infatti, la legge che da essa emana è riflesso di quella naturale e divina, senza la quale ogni felicità mondana è impossibile.
APPROFONDIMENTO
I moralisti inglesi
La riflessione morale rappresenta uno dei maggiori contributi forniti dalla filosofia inglese all’Illuminismo europeo. In questo senso è di grande rilevanza la figura di Anthony Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury (1671-1713) e nipote del primo conte di Shaftesbury, che già conosciamo come amico di Locke. Egli è autore del volume intitolato Caratteristiche di uomini, costumi, opinioni, tempi (1711). In tema di filosofia morale Shaftesbury è preoccupato – come la maggior parte dei pensatori del suo tempo – di combattere lo scetticismo etico e l’individualismo egoistico di Hobbes. Alla concezione pessimistica e conflittuale che Hobbes ha della natura umana egli contrappone una visione che si fonda sull’ottimismo e sull’armonicismo. Per Shaftesbury, l’universo è un sistema ordinato in cui le leggi più generali sono armonicamente connesse a quelle più particolari. Ciò si riflette dal piano metafisico a quello morale, dove il bene comune si accorda pienamente con quello individuale. Secondo questa prospettiva, non c’è alcun conflitto tra egoismo e altruismo. Detto altrimenti, quando l’interesse privato è guidato da «scelte
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razionali» che tengono conto dell’interesse comune, l’individuo consegue al tempo stesso la più alta «felicità» individuale e il bene universale . Per guidare l’uomo verso le giuste scelte morali non è tuttavia sufficiente la ragione, come sosteneva il razionalismo cartesiano. Alla debolezza della ragione sopperisce un particolare sentimento – detto senso morale – che comporta l’immediata percezione della differenza tra bene e male. In altre parole, il senso morale permette di cogliere la bellezza intrinseca alle azioni buone e fa provare un naturale senso di disgusto per quelle cattive . L’ottimismo di Shaftesbury trova un avversario in Bernard de Mandeville (1670-1733), nato in Olanda da famiglia di origine francese, ma naturalizzato inglese. La sua opera più famosa è la Favola delle api, ovvero vizi privati pubblici benefici (1714). Si tratta di un apologo nel quale una fiorente società di api, che agiscono sulla sola base dell’egoismo, si corrompe e va in rovina in seguito all’introduzione in essa della virtù e dei princìpi morali. Per Mandeville, infatti, la molla di ogni prosperità risiede nell’egoismo, che spinge
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ciascuno a competere con gli altri. I «vizi privati» creano bisogni superflui, che incrementano la domanda economica e la produzione volta al suo soddisfacimento. Al contrario, in una società priva di vizi, dove tutti si accontentano di ciò che hanno, ogni attività langue e si muore di noia e di ignavia . Che cosa sono, dunque, il vizio e la virtù per Mandeville? Il vizio è «ogni atto che l’uomo compie per soddisfare un appetito»: in esso risiedono le passioni naturali che stanno alla base di ogni attività e grandezza umana. Viceversa, la virtù è «ogni azione contraria all’impulso naturale, intesa a frenare le passioni». Essa porta quindi all’immobilità sociale, in quanto impedisce non solo il conflitto, ma anche la competizione e l’inventiva (nonché la stessa benevolenza che ha sempre un movente passionale).
a
c
b
Mandeville propone dunque una concezione conflittuale e anti-armonicistica della realtà sociale e nega l’esistenza di un ordine morale naturale. Per questo motivo, la sua opera viene accolta con molta ostilità dall’ambiente inglese, che vede in lui uno scellerato epigono di Hobbes.
a Shaftesbury La socievolezza naturale b Shaftesbury Armonia universale e senso morale c Mandeville Vizi privati, pubblici benefici
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in poche... parole Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento l’Inghilterra va incontro ad un vasto processo di rinnovamento economico, politico e culturale, che la pone all’avanguardia in Europa. Sul piano filosofico, si afferma l’esigenza di andare oltre l’astratto razionalismo cartesiano, che pretendeva di dedurre il sapere da pochi princìpi evidenti e di definire i princìpi del metodo empirico-sperimentale, in consonanza con il presupposto lockeiano secondo il quale tutta la conoscenza deriva dall’esperienza. I Princìpi matematici di filosofia naturale di Newton – oltre a contenere le definizioni di importanti nozioni della fisica moderna, i postulati relativi alle leggi della meccanica, la legge della gravitazione universale – recepiscono i presupposti gnoseologici di Locke, contenuti nel Saggio sull’intelligenza umana, e formulano le regole fondamentali del metodo induttivo-sperimentale.
induzione Dal latino inductio: ra-
gionamento che va dal particolare o dai particolari all’universale. Nella scienza moderna, l’induzione si andava affermando come strumento per l’analisi quantitativa dei fenomeni. Il principio dell’induzione viene applicato da Newton non solo nel passaggio dal particolare al generale (ad esempio, se si verifica sperimentalmente che alcuni corpi sono estesi, allora si può inferire che tutti i corpi sono estesi), ma anche dal tutto alla parte (ad esempio, se si verifica sperimentalmente che i corpi sono estesi, si può inferire che anche le loro parti, per quanto piccole, siano estese: è il caso della teoria corpuscolare). Il maggiore problema sollevato dall’induzione consiste nella difficoltà di spiegare come da un numero limitato di casi esaminati si possa pervenire ad affermazioni relative alla totalità dei casi. La soluzione
alla quale aderisce Newton consiste nell’affermare il principio dell’uniformità della natura, per cui le osservazioni compiute su pochi casi valgono anche per tutti i casi non esaminati.
analisi e sintesi Newton deriva
questi termini da Cartesio, per il quale corrispondevano alla seconda e alla terza regola del metodo, anche se non ne condivide l’uso astrattamente razionalistico. Per il fisico inglese, infatti, l’analisi e la sintesi costituiscono i due momenti del procedimento induttivo. L’analisi consiste nel passare dalle cose e dai fatti alle loro cause e dalle cause più particolari a quelle più generali, fino a pervenire alle cause generalissime dei fenomeni. La sintesi consiste, invece, nell’assumere come princìpi le cause trovate con l’analisi e nello spiegare mediante queste i fenomeni che ne derivano, sottoponendo poi a verifica sperimentale tali spiegazioni.
Non solo Newton, ma anche Berkeley si ispira a Locke e al suo fondamentale insegnamento, secondo il quale l’oggetto della conoscenza è costituito da idee tratte dall’esperienza. A differenza di Locke, però, per Berkeley non esistono idee astratte, ma solo idee particolari. Da questa basilare convinzione egli deriva due conseguenze assai rilevanti: la negazione della distinzione tra qualità primarie e secondarie e la negazione dell’esistenza di una realtà materiale extra-mentale. Per questo motivo, Berkeley è considerato il fautore di un radicale immaterialismo, secondo il quale l’esistenza delle cose si risolve nel loro essere percepite. Nella filosofia di Berkeley, i presupposti empiristici di Locke vengono estremizzati in funzione dello spiritualismo e dell’apo-
logia religiosa. Secondo Berkeley, infatti, lo spirito dell’uomo – ospitando dentro di sé idee di cui non può essere l’autore – mostra di dipendere da una mente divina. Non potendo provenire da una realtà esterna alla mente, la percezione delle cose è dovuta a Dio, che è quindi l’origine della conoscenza umana.
nominalismo È la dottrina se-
condo cui i concetti universali non esistono come realtà indipendenti dai singoli individui, ma sono semplici nomi. Sul piano ontologico sono reali soltanto le cose particolari. Il nominalismo ha ampio sviluppo nella cultura medievale, dove si presenta in due versioni. 1) Nella formulazione più radicale (Roscellino) l’universale è soltanto un flatus vocis e i termini stessi sono riferibili solo al particolare. 2) Nella versione più mitigata (il concettualismo di Abelardo) l’universale non ha una realtà ontologica, ma è sermo, cioè un significato logico-linguistico che si può applicare all’uno come ai molti. La stessa alternativa si ripresenta nella corrente empiristica inglese, che fa propria l’istanza nominalistica. Locke assume una posizione morbida: i concetti generali non sono «essenze reali» (cioè non hanno realtà sostanziale), ma soltanto «essenze nominali», aventi una funzione meramente logica. Più radicalmente, Berkeley ritiene che le idee generali siano nient’altro che idee particolari assunte come «segni» di altre idee particolari a esse simili.
qualità primarie e secondarie
La distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie risponde all’esigenza – viva tanto nella nuova scienza galileiana quanto nel razionalismo cartesiano – di separare nelle cose ciò che ha realtà oggettiva ed è misurabile da ciò che
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dipende dalle forme percettive del soggetto e non può essere oggetto di scienza o di conoscenza evidente. Dal canto suo, anche Locke mantiene la distinzione tra qualità primarie – realmente esistenti nelle cose – e secondarie – presenti solo nella mente del soggetto – pur sostenendo che la cono-
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scenza umana è costituita soltanto da idee (o rappresentazioni mentali). Al contrario, Berkeley afferma che l’esperienza non giustifica questa distinzione, poiché la realtà delle cose coincide con la loro percezione. Tutte le qualità sono quindi relative alla percezione stessa e non possono mai rive-
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larci qualcosa di oggettivo, ossia una realtà oltre la percezione. Il fatto che la distanza e la grandezza siano considerate oggettivamente misurabili dipende soltanto dalla nostra abitudine a connettere determinate rappresentazioni visive con l’idea di particolari grandezze o distanze.
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i testi t34 Newton / Esperienza e metodo induttivo Newton
Princìpi matematici della filosofia naturale
libro III e Scolio generale
I Princìpi matematici della filosofia naturale hanno l’aspetto esteriore di un trattato di geometria. Infatti Newton, pur essendo sostenitore del metodo sperimentale, assume come criterio espositivo quello degli Elementi di Euclide, nei quali la tradizione riconosceva un modello insuperabile di scientificità. Malgrado questo omaggio formale al metodo euclideo (e quindi deduttivo), all’inizio del terzo libro – che contiene le teorie astronomiche ed è intitolato Il sistema del mondo – Newton formula quattro regulae philosophandi che costituiscono, soprattutto le ultime due, una esplicita teorizzazione del metodo induttivo-sperimentale (primo brano). Nell’ultima pagina dello Scolio generale aggiunto al termine della seconda edizione dei Princìpi, invece, Newton spiega perché in filosofia non si devono ammettere «ipotesi», cioè assunti arbitrari non ricavati dall’osservazione sperimentale dei fenomeni (secondo brano).
Le regulae philosophandi REGOLA I Delle cose naturali non devono essere ammesse cause più numerose di quelle che sono vere e bastano a spiegare i fenomeni1. Come dicono i filosofi: La natura non fa nulla invano, e inutilmente viene fatto con molte cose ciò che può essere fatto con poche. La natura, infatti, è semplice e non sovrabbonda in cause superflue delle cose2. REGOLA II Perciò, finché può essere fatto, le medesime cause vanno attribuite ad effetti naturali dello stesso genere3. Come alla respirazione nell’uomo e nell’ani-
1. Da un punto di vista sostanziale, la prima regola già anticipa il rifiuto delle ipotesi che Newton espliciterà nello Scolio generale introdotto nella seconda edizione dei Princìpi (cfr. secondo brano del presente testo). La spiegazione della realtà naturale, infatti, deve limitarsi a ricercare le cause dei fenomeni, senza pretendere di indagare l’essenza delle cose. 2. Da un punto di vista formale la prima regola è un’applicazione del cosiddetto «rasoio di Ockham», più volte ri-
male, alla caduta delle pietre in Europa e in America; alla luce nel fuoco domestico e nel Sole; alla riflessione della luce sulla terra e sui pianeti. REGOLA III Le qualità dei corpi che non possono essere aumentate e diminuite, e quelle che appartengono a tutti i corpi sui quali è possibile impiantare esperimenti, devono essere ritenute qualità di tutti i corpi4. Infatti, le qualità dei corpi non si conoscono altrimenti che per mezzo di esperimenti, e perciò devono essere giudicate generali tutte quelle che, in generale, concordano con gli esperimenti; e quelle che non possono essere diminuite non possono essere nemmeno sot-
preso nella tradizione filosofica di indirizzo empiristico [cfr. vol. I, 16.7]. 3. L’intento di Newton è ricondurre a unità il mondo fisico, scoprendo attraverso il procedimento induttivo cause sempre più generali sotto le quali possa cadere un numero sempre maggiore di fenomeni. Questo obiettivo presuppone il principio logico della continuità e dell’uniformità della natura, che è adombrato in questa regola. 4. Le qualità dei corpi alle quali Newton qui allude sono le cosiddette quali-
tà «primarie», cioè oggettivamente inerenti alle cose. Come criterio di oggettività – che tradizionalmente veniva ritrovato nella misurabilità matematica – Newton indica qui, da un lato, la persistenza quantitativa delle qualità (e, quindi, la continuità nel comportamento dei fenomeni), dall’altro, la generalizzabilità della loro verifica sperimentale. Tali qualità sono la durezza, l’estensione, la mobilità, l’impenetrabilità, nonché la gravità, se potesse essere ampiamente sperimentata.
i testi
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tratte. Certamente, contro il progresso continuo degli esperimenti non devono essere inventati sconsideratamente dei sogni, né ci si deve allontanare dall’analogia della natura, dato che essa suole essere semplice e sempre conforme a sé5. L’estensione dei corpi non si conosce altrimenti che per mezzo dei sensi, né è percepita in tutti; ma in quanto spetta a tutte le cose sensibili, allora viene affermata di tutte le cose6. Abbiamo sperimentato che molti corpi sono duri. Ora, la durezza del tutto nasce dalla durezza delle parti, quindi a buon diritto concludiamo che non soltanto sono dure le particelle indivise di quei corpi che vengon percepiti, ma anche di tutti gli altri. Deduciamo che tutti i corpi sono impenetrabili non con la ragione, ma col senso. Gli oggetti che maneggiamo vengono riscontrati impenetrabili, ne concludiamo che l’impenetrabilità è una proprietà dei corpi in generale. Che i corpi siano mobili, e che a causa di forze qualsiasi (che chiamiamo forze d’inerzia) perseverino nel moto o nella quiete, deduciamo da queste proprietà dei corpi osservabili. L’estensione, la durezza, l’impenetrabilità, la mobilità e la forza d’inerzia del tutto nasce dall’estensione, dalla durezza, dalla impenetrabilità, dalla mobilità e dalle forze d’inerzia delle parti; di qui concludiamo che tutte le minime parti di tutti i corpi sono estese e dure, impenetrabili, mobili, e do5. La scientificità del sapere è data
dall’unione di oggettività e universalità: essa nasce pertanto dal concorso tra la verifica sperimentale e il principio dell’uniformità della natura. Soltanto attraverso l’esperimento possiamo conseguire una conoscenza oggettiva (che non può essere confusa con l’arbitrio dell’opinione individuale o del «sogno»); soltanto sulla base dell’uniformità della natura («la natura è semplice») una singola verità sperimentale può essere induttivamente generalizzata. 6. Su base sperimentale si verifica che i singoli corpi sensibili sono estesi. In virtù del principio della semplicità della natura, la qualità dell’estensione, così verificata per i corpi sensibili, viene attribuita induttivamente a tutti i corpi in generale, anche a quelli per i quali, non essendo sensibili, essa non è dimostra-
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tate di forze d’inerzia7. E questo è il fondamento dell’intera filosofia. Abbiamo, inoltre, imparato dai fenomeni che le parti divise dei corpi, e contigue le une alle altre, possono essere separate fra loro, e che le parti non divise possono essere divise con la ragione in parti minori, come è evidente dalla matematica8. In verità è incerto se quelle parti distinte e non ancora divise possano essere divise per mezzo delle forze della natura ed essere mutuamente separate. Ma se da anche un solo esperimento risultasse che, rompendo un corpo duro e solido, una qualunque particella non divisa, subisce una divisione, concluderemmo, in forza di questa regola, che non soltanto sono separabili le parti divise, ma che anche quelle non divise possono essere divise all’infinito9. Infine, se, in generale, per mezzo di esperimenti e di osservazioni astronomiche, risultasse che tutti i corpi che girano intorno alla Terra sono pesanti, e ciò in relazione alla quantità di materia in ciascuno di essi, che la Luna è pesante verso la Terra in relazione alla propria quantità di materia, e il nostro mare, a sua volta, è pesante verso la Luna, e che tutti i pianeti sono pesanti l’uno rispetto all’altro, e che la pesantezza delle comete verso il Sole è identica, allora, si dovrà dire che per questa regola tutti i corpi gravitano vicendevolmente l’uno verso l’altro. Infatti l’argomento tratto dai fe-
bile sperimentalmente. Lo stesso ragionamento vale per le altre qualità cosiddette «primarie»: la durezza, l’impenetrabilità, la mobilità e la forza d’inerzia. 7. Il principio dell’induzione viene applicato da Newton non solo nel passaggio dal particolare al generale (se si verifica sperimentalmente che alcuni corpi sono estesi, allora tutti i corpi sono estesi), ma anche dal tutto alla parte (se i corpi sono estesi, anche le loro parti, ancorché minime, sono estese). Questa affermazione è importante per sostenere la teoria corpuscolare, secondo la quale alla base della materia vi sono particelle tanto piccole da essere indivisibili, e tuttavia fornite di estensione. 8. In altri termini: i corpi possono essere divisi fisicamente fino a giungere alle particelle indivisibili che li compon-
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gono («parti non divise»), mentre queste ultime, fino a contraria prova sperimentale (cfr. n. 9), possono essere divise all’infinito soltanto logicamente mediante il calcolo infinitesimale o, come Newton lo chiama, «calcolo delle flussioni». 9. La divisibilità dei corpuscoli («particelle indivise»), pur essendo pensabile matematicamente, non è mai stata provata sperimentalmente. Per questo la teoria corpuscolare, fondata sull’opposta dottrina per cui i corpuscoli sono indivisibili, può essere accettata da Newton, almeno finché la divisibilità all’infinito delle particelle continua a non essere sperimentabile. Il corpuscolarismo non è dunque in Newton una «ipotesi» non provata, ma una dottrina che vale finché non venga sconfessata sperimentalmente.
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nomeni circa la gravità universale sarà più forte di quello circa l’impenetrabilità dei corpi, sulla quale non abbiamo nessuno esperimento e nessuna osservazione fatta direttamente sui corpi celesti. Tuttavia, non affermo affatto che la gravità sia essenziale ai corpi. Con forza insita intendo la sola forza di inerzia. Questa è immutabile. La gravità, allontanandosi dalla Terra, diminuisce10. REGOLA IV Nella filosofia sperimentale le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni devono, nonostante le ipotesi contrarie, essere considerate vere o rigorosamente o quanto più possibile, finché non intervarranno altri fenomeni, mediante i quali o sono rese più esatte o vengono assoggettate ad eccezioni. Questo deve essere fatto affinché l’argomento dell’induzione non sia eliminato mediante ipotesi. [...]
Hypòtheses non fingo Fin qui ho spiegato i fenomeni del cielo e del nostro mare mediante la forza di gravità, ma non ho mai fissato la causa della gravità11. Questa forza nasce interamente da qualche causa, che penetra fino al centro del Sole e dei pianeti, senza diminuzione della capacità, e opera
10. La ragione per cui Newton è incerto nell’inserire la gravità tra le qualità generali dei corpi è che essa non è immutabile, poiché diminuisce con la distanza del corpo dal centro gravitazionale. Questo lascia dubbi circa l’uniformità del comportamento dei fenomeni in proposito e, di conseguenza, circa l’universalizzabilità della legge di gravitazione universale, ancorché essa sia ripetutamente sperimentata per fenomeni specifici. Queste cautele nel generalizzare quella che è la sua scoperta più importante mostrano quanto fosse importante per Newton sia la verifica empirica, sia l’esistenza delle condizioni per generalizzare le singole esperienze.
non in relazione alla quantità delle superfici delle particelle sulle quali agisce (come sogliono le cause meccaniche) ma in relazione alla quantità di materia solida. La sua azione si estende per ogni dove ad immense distanze, sempre decrescendo in proporzione inversa al quadrato delle distanze. La gravità verso il Sole è composta della gravità verso le singole particelle del Sole, e allontanandosi dal Sole decresce costantemente in ragione inversa del quadrato delle distanze fino all’orbita di Saturno, come è manifesto dalla quiete degli afelii12 dei pianeti, e fino agli ultimi afelii delle comete, posto che quegli afelii siano in quiete. In verità non sono ancora riuscito a dedurre dai fenomeni la ragione di queste proprietà della gravità, e non invento ipotesi. Qualunque cosa, infatti, non deducibile dai fenomeni va chiamata ipotesi; e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche13. In questa filosofia le proposizioni vengono dedotte dai fenomeni, e sono rese generali per induzione. In tal modo divennero note l’impenetrabilità, la mobilità e l’impulso dei corpi, le leggi del moto e la gravità. Ed è sufficiente che la gravità esista di fatto, agisca secondo le leggi da noi esposte, e spieghi tutti i movimenti dei corpi celesti e del nostro mare.
11. Se per le ragioni viste sopra (cfr. n.
precedente), Newton nutre dubbi sul fatto che la gravità possa essere inserita tra le qualità generali dei corpi, a maggior ragione essa non può essere considerata un principio fisico o metafisico assoluto. Infatti, di essa si conoscono soltanto gli effetti fenomenici, non già la causa reale. Ma la sua capacità di spiegare uniformemente tutti i fenomeni è sufficiente a legittimarne l’uso scientifico, come Newton afferma chiaramente nell’ultimo periodo del testo che riproduciamo. 12. Afelio (dal greco apò, «da», ed èlios, «sole») è il punto dell’orbita di un pianeta che presenta la massima di-
stanza dal sole. Il suo contrario è il perielio. 13. Dal riconoscimento dell’ignoranza delle cause della gravità – e quindi dell’impossibilità di vedere in essa qualcosa di più di una regola metodologica che funziona – il discorso si allarga al rifiuto generale di un metodo che non sia fondato sull’osservazione sperimentale e sulle conseguenze logiche dei fenomeni osservati. Non solo la metafisica, ma anche ogni fisica non sperimentale, viene messa al bando come mera «invenzione» di ipotesi.
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GUIDA ALLA LETTURA 1. Completa sul tuo quaderno il seguente esercizio: La conoscenza della natura ha come obiettivo la spiegazione dei ... naturali attraverso la ricerca delle loro ... . Le cause devono essere ridotte al minimo numero: infatti la natura «... e inutilmente viene fatto con molte cose ciò che può essere fatto con poche». Per scoprire le cause dei fenomeni occorre conoscere le qualità dei corpi: ma quest’ultime si possono conoscere solo per mezzo di ... . Se un esperimento riesce, il suo risultato può essere ... e tutti gli altri casi, sulla base del principio della ... della natura. La filosofia sperimentale rifiuta ogni ipotesi esplicativa, sia ..., sia ... . L’esperimento infatti deve essere una ... di quanto il pensiero ha elaborato. Per questa ragione Newton conclude la sua riflessione metodologica con il motto programmatico ... . 2. Riporta in un elenco le condizioni che Newton pone (regola III) perché la generalizzazione dei dati empirici determini il conseguimento della vera conoscenza dei fenomeni fisici.
t35 Berkeley / Essere è essere percepiti Berkeley
Trattato sui princìpi della conoscenza umana
parte I, §§ 1-3
Le pagine che riproduciamo sono tra le più note dell’intera produzione berkeleyana. Esse aprono la prima parte (e anche unica, poiché la seconda non fu mai scritta) del Trattato, dopo l’Introduzione metodologica contenente la critica delle idee astratte. In queste pagine Berkeley mette subito il lettore di fronte alla sua tesi fondamentale: l’essere delle cose consiste nel loro essere percepite, nel loro essere idee. Non c’è quindi nessuna materia «fuori della mente»: la realtà è puro spirito che contiene in sé, pensandole, le idee.
È evidente per chiunque esamini gli oggetti della conoscenza umana1, che questi sono: o idee impresse ai sensi nel momento attuale; o idee percepite prestando attenzione alle emozioni e agli atti della mente; o infine idee formate con l’aiuto della memoria e dell’immaginazione, riunendo, dividendo o soltanto rappresentando le idee originariamente ricevute nei [due] modi precedenti2. Dalla vista ottengo le idee della luce e dei colori, con i loro vari gradi e le loro differenze. Col tatto percepisco il duro ed il soffice, il caldo ed il freddo, il movimento e la resistenza, ecc., e tutto questo in quantità o grado maggiore o minore. L’odorato mi fornisce gli odori; il gusto mi dà i sapori; l’udito trasmette alla mente i suoni in 1. Gli «oggetti della conoscenza umana», secondo quanto aveva insegnato Locke, sono idee e non possono essere altro che idee. In realtà, Berkeley sarà tutt’altro che fedele a questa affermazione radicale poiché ammetterà anche la possibilità di avere «nozione» dello
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tutta la loro varietà di tono e di combinazioni. E poiché si vede che alcune di queste sensazioni si presentano insieme, vengono contrassegnate con un solo nome, e quindi considerate come una cosa sola. Così, avendo osservato, per esempio, che si accompagna un certo colore con un certo sapore, un certo odore, una certa forma, una certa consistenza, tutte queste sensazioni sono considerate come una cosa sola e distinta dalle altre, indicata col nome di «mela»; mentre altre collezioni di idee costituiscono una pietra, un albero, un libro e simili cose sensibili che, essendo piacevoli o spiacevoli, eccitano in noi i sentimenti d’amore, di odio, di gioia, d’ira, ecc.3. Ma oltre a questa infinita varietà di idee, o di
spirito o mente che pensa le idee, ma che non è un’idea (cfr. n. 8). 2. Berkeley non si pone in maniera originale il problema della classificazione delle idee e si limita a riprodurre la distinzione lockeiana tra idee semplici di percezione (cioè derivanti dal senso
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esterno), idee semplici di riflessione (derivanti dal senso interno) e idee complesse risultanti dalla composizione di più idee semplici. 3. In queste affermazioni è già implicita la tesi dell’esse est percipi. Non esistono cose distinte dalle idee: le «co-
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oggetti della conoscenza, v’è poi qualcosa che conosce o percepisce quelle idee, ed esercita su di esse diversi atti come il volere, l’immaginare, il ricordare, ecc. Questo essere che percepisce ed agisce è ciò che chiamo «mente», «spirito», «anima», «io»4. Con queste parole io non indico nessuna mia idea, ma una cosa interamente diversa da tutte le mie idee e nella quale esse esistono, ossia dalla quale esse vengono percepite: il che significa la stessa cosa perché l’esistenza di una idea consiste nel venir percepita5. Tutti riconosceranno che né i nostri pensieri né i nostri sentimenti né le idee formate dall’immaginazione6 possono esistere senza la mente. Ma per me non è meno evidente che le varie sensazioni ossia le idee impresse ai sensi, per quanto fuse e combinate insieme (cioè, quali che siano gli oggetti composti da esse), non possono esistere altro che in una mente che le percepisce. Credo che chiunque possa accertarsi di questo per via intuitiva, se pensa a ciò che significa la parola «esistere» quando se» non sono che le idee stesse o collezioni di idee. Non si pone neppure il problema di ciò che corrisponde alle idee nella realtà, poiché – come vedremo tra poco – non c’è una realtà esterna alle idee a eccezione dello spirito che le pensa. 4. La differenza fondamentale tra lo «spirito» e l’«idea» è che il primo è attivo, la seconda passiva. Per questo, come si dice subito dopo, lo spirito non è un’idea ma «una cosa interamente diversa da tutte le mie idee». L’attività dello spirito inoltre è duplice: in quanto «percepisce» le idee, esso si chiama intelletto, in quanto le «produce» si chiama volontà. 5. Data la precedente sostanziale identificazione delle cose con le idee (cfr. n. 3), le idee-cose esistono non in quanto hanno corrispondenza nella realtà esterna (cosa che contraddice alla loro stessa definizione), ma in quanto esistono nella mente che le pensa. La loro esistenza è esclusivamente un’esistenza mentale e si esaurisce nell’essere percepite dallo spirito che le pensa. 6. Con queste tre espressioni, Berkeley indica le idee che anche il comune modo di sentire ritiene siano prodotti della mente e non riproduzioni di una realtà
viene applicata ad oggetti sensibili. Dico che la tavola su cui scrivo esiste, cioè che la vedo e la tocco; e se fossi fuori del mio studio direi che esiste intendendo dire che potrei percepirle se fossi nel mio studio, ovvero che c’è qualche altro spirito che attualmente la percepisce. C’era un odore, cioè era sentito; c’era un suono, cioè era udito; c’era un colore o una forma, e cioè era percepita con la vista o col tatto: ecco tutto quel che posso intendere con espressioni di questo genere7. Perché per me è del tutto incomprensibile ciò che si dice dell’esistenza assoluta di cose che non pensano8, e senza nessun riferimento al fatto che vengono percepite. L’esse delle cose è un percipi, e non è possibile che esse possano avere una qualunque esistenza fuori dalle menti o dalle cose pensanti che le percepiscono9. È infatti stranamente diffusa10 l’opinione che le case, le montagne, i fiumi, insomma tutti gli oggetti sensibili abbiano un’esistenza, reale o naturale, distinta dal fatto di venir percepiti dall’intelletto. Ma per quanto sia grande la cer-
esterna. Ma secondo lui lo stesso carattere mentale dev’essere attribuito anche alle idee che provengono dai sensi esterni, poiché il percepire è un’attività del pensiero costitutivamente non diversa dal produrre. 7. In altri termini: delle cose io non ho una conoscenza diversa dall’immagine con cui esse si presentano nella percezione. Io non conosco mai il tavolo in assoluto, ma sempre soltanto il tavolo che percepisco, o che ho percepito. 8. L’esistenza assoluta, ovvero non dipendente dalla percezione, è propria soltanto delle cose che pensano (lo «spirito», la «mente», ecc.), poiché in quanto tali esse non sono idee. Le cose che non pensano, invece, esistono soltanto in quanto sono pensate, cioè in quanto sono idee percepite da una mente. Certo Berkeley si trova in qualche difficoltà a spiegare come sia possibile conoscere le cose che pensano e la loro esistenza assoluta, dato che noi conosciamo soltanto idee (cfr. n. 1). La soluzione che egli dà del problema, non priva di ambiguità, è che tali cose sono conosciute attraverso un’evidenza immediata che ricorda l’autocoscienza cartesiana. 9. Si è osservato che il principio del-
l’esse est percipi contiene in sé simultaneamente aspetti lockeiani e antilockeiani. È lockeiano in quanto rappresenta uno sviluppo della posizione di Locke secondo la quale il mondo conoscitivo dell’uomo si risolve nelle sue idee e non si ha alcuna possibilità di conoscere ciò che va al di là delle idee o «sta sotto» di esse (come dimostra la critica al concetto di sostanza). È anti-lockeiano perché comporta la negazione della distinzione tra qualità primarie e secondarie e, di conseguenza, l’impossibilità di riconoscere in alcune idee (le qualità primarie) la corrispondenza a una realtà extramentale, per quanto conosciuta solamente attraverso le qualità sensibili. Se la conoscenza si risolve nei suoi aspetti percettivi e soggettivi, perdendo ogni riferimento a una oggettività «fuori dalle menti», l’esistenza stessa del percepito viene a coincidere con l’atto della percezione. 10. Berkeley si sforza spesso di mostrare l’accordo del suo pensiero con il senso comune. Ciò non gli impedisce tuttavia di incentrarlo su una tesi che egli stesso riconosce qui essere assolutamente contraria all’opinione di tutti.
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tezza e il consenso con i quali si è finora accettato questo principio, tuttavia chiunque si senta di metterlo in dubbio, troverà (se non sbaglio) che esso implica una contraddizione evidente. Infatti, che cosa sono, ditemi, gli oggetti sopra elencati se non cose che percepiamo con il senso? e che cosa possiamo percepire oltre alle nostre proprie idee o sensazioni? e non è senz’altro contraddittorio che una qualunque di queste, o una qualunque combinazione di esse, possa esistere senza essere percepita?
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GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali sono, secondo Berkeley, gli oggetti della conoscenza umana? 2. Che differenza c’è tra l’infinita varietà delle idee (percepite) e la mente (o spirito, o anima)? 3. Che cosa vuol dire, secondo Berkeley, che una «tavola» o una «mela» esistono? 4. Le cose non esistono indipendentemente dalla mente che le percepisce. Perché ciò vale, secondo Berkeley, anche per le cose che non percepisco dinanzi a me?
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esercizi/12 CHE COSA SO?
10. Come sono intese da Newton le dimensioni dello spazio e del tempo?
Guida allo studio del manuale
11. Qual è la posizione di Toland in merito alla ragionevolezza del cristianesimo?
1. Evidenzia i grandi cambiamenti socio-economici, politici e culturali che caratterizzano l’Inghilterra tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento. 2. Evidenzia come Newton spiega il fenomeno fisico della luce e del colore. 3. Evidenzia le caratteristiche del «metodo» di indagine di Newton. 4. Evidenzia la posizione di Tindal in merito al primato della religione razionale su ogni forma di rivelazione. 5. Evidenzia le critiche di Berkeley a Locke in relazione alla facoltà di astrazione. 6. Evidenzia le tesi principali della teoria della visione di Berkeley. 7. Evidenzia la concezione cosmologica di Berkeley. Dizionario filosofico 8. Definisci i seguenti concetti: filosofia naturale (Newton) • induzione (Newton) • nominalismo (Berkeley) • esse est percipi (Berkeley)
CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 9. Illustra cosa intende Newton con il suo programma di «rifiuto delle ipotesi».
esercizi/12
12. Quali errori gnoseologici può determinare, secondo Berkeley, l’ammissione delle «idee astratte»? 13. In che modo, secondo Berkeley, è garantita l’oggettività della conoscenza? 14. Qual è la posizione di Berkeley in ordine al rapporto morale-religione?
Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 15. Qual è il valore filosofico dei Principia di Newton? 16. In che modo Newton impiega le nozioni di analisi e di sintesi? Con quali differenze rispetto a Cartesio? 17. Che rapporto c’è, secondo Newton, tra scienza e fede? 18. Che differenza c’è tra la concezione dei teisti e quella dei deisti? 19. Illustra le differenze fra le concezioni newtoniana e berkeleyana della fisica. 20. Ricostruisci la critica di Berkeley alla distinzione fra qualità primarie e secondarie. 21. Illustra la concezione berkeleyana del linguaggio. 22. In che misura Berkeley coniuga empirismo e idealismo?
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la conoscenza riguarda relazioni tra idee o tra fatti
La conoscenza può essere di due generi: 1) la prima consiste nello stabilire relazioni tra idee senza ricorrere all’esperienza (ad esempio le proposizioni matematiche), è retta dal principio di identità e ha carattere necessario; 2) la seconda è relativa a materie di fatto, dipende sempre dall’esperienza ed è fondata sul principio di causalità. La relazione causale non è tuttavia né una conoscenza necessaria né il risultato della testimonianza dell’esperienza. la causalità tra abitudine e credenza
Per Hume, la causalità è soltanto fondata sull’abitudine a constatare una certa successione spaziotemporale e a inferire da essa determinate conseguenze. Questa abitudine genera una credenza che – pur non essendo dimostrabile razionalmente – è un istinto connaturato nell’uomo e lo guida nella vita pratica. Facendo riferimento alla credenza Hume spiega a) il sentimento dell’identità dell’io (non attestata dall’esperienza); b) la fiducia degli uomini nella realtà permanente delle cose esterne (anche se al concetto di sostanza non corrisponde alcuna impressione).
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i contenuti hume e la filosofia scozzese nel settecento
Nel Settecento la Scozia è dal punto di vista socio-economico molto più arretrata dell’Inghilterra. Ciononostante, in essa si sviluppa una cultura filosofica di tutto rilievo. Hume è la figura più eminente nella filosofia scozzese del Settecento. Nella cultura europea egli consegue una notorietà pari a quella di Locke. L’empirismo di quest’ultimo e il metodo sperimentale di Newton sono applicati da Hume all’analisi della natura umana.
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la teoria della conoscenza
Secondo Hume, la percezione è la fonte della conoscenza umana. Egli distingue due tipi di percezioni: 1) le impressioni hanno la vivezza e l’evidenza delle percezioni attuali; 2) le idee sono le immagini illanguidite delle impressioni che si conservano nella memoria. Per avere un fondamento conoscitivo, tutte le idee devono poter essere ricondotte a impressioni corrispondenti. Le idee sono connesse tra loro attraverso il meccanismo dell’associazione, che obbedisce ai criteri della somiglianza, della contiguità nello spazio e nel tempo e della causalità.
l’esame della natura umana
Lo stesso metodo empiristico viene applicato da Hume all’analisi della natura umana. I comportamenti dell’uomo sono determinati dalle passioni. Per Hume, le passioni non sono altro che impressioni interne, ovvero dati di fatto, empirici e irrefutabili. La ragione, che ha una funzione essenzialmente teoretica (il confronto delle idee), non può né estinguere né dominare le passioni. Del resto l’uomo non dispone della libertà del volere, poiché la volontà stessa è determinata causalmente. La direzione dell’agire umano è affidata a un sentimento morale, in base al quale proviamo una forma di piacere disinteressato in
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presenza di azioni virtuose. Il sentimento morale presuppone la simpatia, intesa come capacità di condividere i sentimenti degli altri. le riflessioni sulla politica e sulla religione
Il pensiero politico di Hume è fondato sul riconoscimento di una naturale socialità dell’uomo che è tuttavia limitata alle persone più vicine. L’istituzione dello Stato è quindi indispensabile per garantire la proprietà e la giustizia. Hume ritiene che l’esperienza religiosa tragga origine dal sentimento di
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timore e di speranza che gli uomini provano di fronte alla natura e ai misteri della vita. Hume riconduce quindi il fenomeno religioso alle passioni empiricamente constatabili nell’uomo, ma ritiene che la religione sia una manifestazione essenziale della vita umana. adam smith e l’economia politica
La nozione di simpatia sta anche alla base della filosofia morale di Smith: per natura gli uomini valutano positivamente le azioni
che contribuiscono alla socievolezza. In questo modo egoismo e altruismo possono convergere, poiché la felicità di ognuno passa attraverso la realizzazione del bene degli altri. Lo stesso principio armonicistico vale all’interno della vita economica di uno Stato. Il fatto che ciascuno persegua il proprio interesse sul piano individuale si traduce sul piano collettivo in un vantaggio per tutti. Secondo Smith, i processi economici volgono al meglio se lo Stato si astiene dall’intervenire in essi.
gli strumenti in poche… parole associazione / causalità / abitudine / credenza / simpatia
approfondimento Empirismo e scetticismo in Hume
esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?
i testi a. nel manuale t36 Hume/La causalità come abitudine t37 Hume/La credenza
b. on-line Hume/Gli erramenti della metafisica Hume/Impressioni e idee Hume/I fondamenti della morale: ragione o sentimento? Hume/I limiti della ragione in ambito morale Smith/Interessi particolari e vantaggi generali
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1. Vita e opere la scozia di hume
Nel Settecento le condizioni economiche e sociali della Scozia, ancora caratterizzata dal latifondo e dalla servitù della gleba, sono assai più arretrate della parte meridionale dell’isola. Soprattutto nella seconda metà del secolo, tuttavia, questo scarso sviluppo economico non impedisce una fioritura culturale di tutto rilievo.
la formazione
Il maggior rappresentante della cultura filosofica scozzese – e anglosassone in genere – del Settecento è sicuramente David Hume. Egli nacque nel 1711 a Edimburgo da una famiglia di piccola nobiltà terriera. Dopo aver trascorso i primi anni dell’adolescenza nella residenza di campagna, fu inviato a Edimburgo per frequentarvi prima il college poi l’università (nella facoltà di Giurisprudenza), ma non terminò gli studi. Fallito il tentativo di inserirsi nel commercio, si trasferì in Francia, dove soggiornò a La Flèche, presso lo stesso collegio in cui si era formato Cartesio. Qui egli scrisse – non ancora trentenne – il Trattato sulla natura umana, che sarà poi considerato la sua opera fondamentale.
la carriera politico diplomatica
Nel frattempo anche i suoi tentativi di ottenere una cattedra universitaria andarono delusi per l’opposizione dell’ambiente accademico scozzese, decisamente avverso agli esiti scettici della sua filosofia. Hume – pur continuando a studiare e a scrivere – affidò quindi la propria fortuna a professioni diverse, che dapprima rimasero nell’ambito della promozione culturale (fu conservatore della Biblioteca di Edimburgo), poi si incentrarono sempre più sull’attività politico-diplomatica. Ebbe così modo di viaggiare e soggiornare nel Continente, soprattutto a Parigi dove risiedette dal 1763 al 1766 nella veste di ambasciatore inglese.
gli ultimi anni
Ritornato in patria, rivestì ancora importanti incarichi politici a Londra, ma dal 1769 si ritirò a Edimburgo per condurre vita privata e dedicarsi ai suoi studi. Quando seppe di avere un tumore all’intestino, riordinò i suoi scritti, predisponendo la pubblicazione postuma di alcuni di essi. Attese serenamente la morte, sopraggiunta nell’agosto del 1776.
la predilezione per il genere saggistico
Hume scrisse la sua prima opera importante – il già menzionato Trattato sulla natura umana – appunto sotto forma di trattato. Poiché lo scritto non ebbe fortuna, egli imputò l’insuccesso a questo genere letterario, giudicandolo inadatto al nuovo gusto del pubblico. Egli scriverà quindi le sue opere successive – nelle quali spesso riprende i temi del suo capolavoro – nella forma letteraria, più agile e ariosa, del saggio.
le altre opere
Nei Saggi filosofici sull’intelletto umano (1748) – poi reintitolati Ricerche sull’intelletto umano – egli riprese il primo libro del Trattato; nelle Ricerche sui princìpi della morale (1751) ne riespose fondamentalmente il terzo. Scrisse anche i Saggi morali e politici (1741), i Discorsi politici (1752), la Storia naturale della religione (1757) e i Dialoghi sulla religione naturale (usciti postumi nel 1779). Ma la fama di cui Hume godette in vita è legata soprattutto alla sua attività di storico, di cui è espressione la monumentale Storia d’Inghilterra (17541761).
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2. La scienza dell’uomo Sin dal Trattato sulla natura umana Hume intende imprimere un nuovo indirizzo alla ricerca filosofica, costruendo una scienza sistematica della natura dell’uomo. Nel corso della tradizione filosofica – egli osserva nelle Ricerche – si sono imposti due generi di filosofia che, per vie diverse, non hanno condotto a risultati soddisfacenti.
la critica della tradizione filosofica
1. Da un lato, un tipo di filosofia pratica «facile e ovvia» ha cercato di convincere l’uomo a essere virtuoso, senza mostrare in che modo la virtù e gli altri valori siano fondati sulla natura umana. 2. Dall’altro lato, un genere di filosofia «rigorosa e profonda» ha avuto il merito di indagare teoreticamente la natura dell’uomo, sia nei suoi aspetti conoscitivi sia in quelli pratici. Malgrado ciò, questo tipo di pensiero ha spesso identificato la natura umana con una ragione astratta e intellettualistica. Da qui traggono origine le astruserie, gli errori, i falsi problemi e le false soluzioni che costituiscono il tessuto della metafisica. Per realizzare una scienza dell’uomo occorre correggere questo modo di filosofare con un’analisi empirica della natura umana, che ne studi sperimentalmente i fenomeni. Questa scienza della natura umana deve avere carattere sistematico. Infatti, essa investe sia l’ambito gnoseologico, attraverso l’analisi dei poteri e dei limiti dell’intelletto; sia quello etico, politico e religioso, esaminando gli istinti e le passioni che effettivamente muovono l’azione dell’uomo, lo spingono alla convivenza sociale e determinano la sua credenza nel divino. Questo nuovo modo di fare filosofia si appella al metodo illustrato da Newton nell’ultimo quarto del Seicento: risolvere i fenomeni in princìpi comuni e ricondurre questi ultimi a pochi princìpi semplici dai quali derivare tutto il resto. Nella sua indagine filosofica anche Hume tenta di ritrovare empiricamente – o, come egli dice con chiaro riferimento a Newton, sperimentalmente – alcuni princìpi fondamentali, cioè alcuni caratteri essenziali della natura umana, in base ai quali spiegare i meccanismi della conoscenza e dell’agire dell’uomo.
natura umana e metodo sperimentale
Ma da Newton e dai grandi empiristi inglesi Hume apprende soprattutto un’altra lezione fondamentale. Per condurre una corretta indagine non bisogna mai trascendere i limiti dell’esperienza né accettare ipotesi non confermate empiricamente. Se ciò non aveva impedito a Newton di concepire una visione metafisica della realtà (basti pensare alla nozione del tempo e dello spazio come sensorio di Dio), in Hume l’empirismo sperimentalistico conduce a una rigorosa critica della metafisica che completa e radicalizza l’opera iniziata da Locke .
l’esperienza come limite
3. La teoria della conoscenza Hume individua nella percezione l’unica fonte della conoscenza umana. In base al grado di forza e vivacità con cui si presentano, le percezioni si distinguono in due tipi.
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Hume Gli erramenti della metafisica
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l’origine empirica della conoscenza
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1. Le impressioni sono le percezioni nel momento in cui sono attuali e godono quindi del massimo vigore e della massima evidenza. Ad esempio, quando vedo un fiore, ne sento il profumo, ne tocco i petali, ho l’impressione di esso. 2. Le idee sono invece le immagini illanguidite delle impressioni, quali si conservano nella memoria dopo che l’impressione attuale è svanita. Ad esempio, quando non ho più il fiore dinanzi a me, ma ne ricordo il colore, il profumo e la morbidezza, posso dire di averne l’idea. la corrispondenza tra impressioni e idee
Secondo Hume, le impressioni e le idee sono le stesse percezioni considerate in due momenti diversi della loro penetrazione della mente: La prima osservazione che salta agli occhi è la grande rassomiglianza tra impressioni e idee in tutto fuorché nel grado della loro forza e vivacità: queste sembrano, in certo modo, il riflesso di quelle. Per cui ogni percezione è, per così dire, doppia, potendo mostrarsi o come impressione o come idea. Quando chiudo gli occhi e penso alla mia camera, le idee che me ne formo sono l’esatta rappresentazione delle impressioni che ne ho ricevuto: non v’è circostanza nelle une che non si ritrovi nelle altre. Esaminando le altre mie percezioni, trovo sempre la stessa rassomiglianza e la stessa rappresentazione: idee e impressioni si corrispondono sempre. [...] Dopo un esame il più accurato possibile, oso affermare che su questo punto la regola non soffre eccezioni: ogni idea semplice ha un’impressione semplice che le somiglia, e ogni impressione semplice ha un’idea che le corrisponde. L’idea che del rosso ci facciamo al buio, e l’impressione che colpisce i nostri occhi quando risplende al sole, differiscono soltanto in grado, non in natura (Trattato sulla natura umana, libro I, parte I, sez. I).
Ciò non ci impedisce, tuttavia, di costruire idee per le quali manca una impressione corrispondente. Quando pensiamo all’ippogrifo o a una montagna d’oro uniamo arbitrariamente nel nostro pensiero l’idea del cavallo con quella dell’aquila, o quella della montagna con quella dell’oro. In questo caso, mentre le idee che abbiamo congiunte (cavallo, aquila, montagna, oro) corrispondono effettivamente a singole impressioni, non c’è alcuna impressione complessiva che giustifichi la loro connessione (cavallo alato, montagna aurea) . quando un’idea è priva di significato
Hume ritiene che – per giudicare se un’idea è fondata o no – si debba risalire alle impressioni di cui essa si compone. Come abbiamo già detto, le impressioni sono l’unica fonte certa di ogni conoscenza. Se esse giustificano soltanto parti dell’idea (come nel caso dell’ippogrifo o della montagna d’oro) o se non si trovano affatto impressioni a essa corrispondenti (come nel caso della maggior parte dei concetti metafisici), l’idea è priva di significato.
non esistono idee astratte o innate
Il punto di partenza della gnoseologia humeiana è che le idee derivano dalle impressioni. Da ciò egli trae due conclusioni. 1. Le idee generali o astratte – in accordo con quanto aveva sostenuto Berkeley [cfr. 12.4] – sono impossibili. Dal momento che le impressioni sono
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Hume Impressioni e idee
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necessariamente particolari – si percepiscono sempre singoli uomini, non l’uomo in generale –, particolari saranno anche le idee che da esse derivano. L’idea astratta è soltanto un nome con il quale noi indichiamo tutte le idee particolari che presentano una reciproca somiglianza. 2. Non esistono idee innate, nel senso di conoscenze indipendenti dall’esperienza. Diversamente da Locke, Hume preferisce tuttavia evitare di usare il termine «innato». Il suo significato piuttosto impreciso potrebbe, infatti, condurre ad ambiguità. Ad esempio, se per innato si intende semplicemente «naturale», allora tutte le impressioni sono innate. L’osservazione della natura umana mette in evidenza, secondo Hume, che le idee hanno una caratteristica particolare. Tra di esse infatti avviene qualcosa di analogo all’attrazione reciproca dei corpi descritta dalla fisica newtoniana. Più propriamente, nel caso delle idee si deve parlare di una naturale tendenza all’ associazione vicendevole. I processi associativi tra le idee sono regolati da tre princìpi fondamentali: la somiglianza, la contiguità nello spazio e nel tempo, la relazione di causa-effetto. Ad esempio, un ritratto richiama naturalmente il pensiero dell’originale (somiglianza); il ricordo di una stanza ci fa pensare alle altre stanze della stessa casa (contiguità); l’idea di una ferita è spontaneamente connessa a quella del dolore (causaeffetto).
l’associazione tra le idee
Hume distingue inoltre due generi fondamentali di conoscenza. Le conoscenze che riguardano relazioni tra idee sono ottenute ricavando un’idea dall’altra, senza dover ricorrere all’esperienza. Sono di questo genere tutte le proposizioni dell’aritmetica, dell’algebra e della geometria. Per dire che 2 + 2 = 4 non ho bisogno di consultare l’esperienza, poiché l’idea del 4 è già contenuta nel 2 + 2. Analogamente la proposizione «il quadrato dell’ipotenusa è uguale al quadrato dei due cateti» scaturisce dalla comparazione delle proprietà intrinseche all’idea di ipotenusa e di cateto. Che caratteristiche possiedono le conoscenze di questo genere? Esse sono a) a priori (indipendenti dall’esperienza), poiché «anche se non esistessero in natura circoli o triangoli, le verità dimostrate da Euclide conserverebbero sempre la loro certezza ed evidenza»; b) necessarie, poiché il loro contrario implica contraddizione.
le conoscenze matematiche
Nelle conoscenze relative a «materia di fatto», invece, è sempre possibile il contrario di ciò che viene affermato. Dire che «domani non sorgerà il sole» non comporta contraddizione, poiché nell’idea di «sole» non è contenuta l’idea che «esso debba necessariamente sorgere tutti i giorni». Le conoscenze che riguardano i fatti sono possibili soltanto in virtù dell’esperienza e si fondano sul principio di causalità. Tutti i nostri ragionamenti di questo tipo si basano sulla possibilità di ricavare un fatto da un altro fatto, stabilendo tra essi una connessione di causa-effetto. Ad esempio, so che il mio amico si trova in Francia perché ho ricevuto una sua cartolina da quel paese; se in un’isola apparentemente deserta trovo un orologio, inferisco da ciò la presenza in essa, attualmente o in passato, di altri uomini.
le conoscenze che vertono sui fatti
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4. La critica all’idea di causa le connessioni causali sono sempre valide?
Come abbiamo visto, le conoscenze che vertono sui fatti si fondano sul principio di causalità: questo tipo di conoscenze stabilisce dei nessi di causa ed effetto tra un fatto e un altro. Ora, si chiede Hume, la relazione tra causa ed effetto ha davvero un carattere necessario – come pensavano Cartesio e Newton – per cui, data una certa causa, è dato inevitabilmente anche un determinato effetto? Proprio sul tema della causalità , Hume esercita la sua critica più radicale e fornisce forse il suo contributo più originale alla riflessione filosofica del Settecento.
l’esempio delle palle da biliardo
La relazione causale viene discussa da Hume facendo ricorso all’esempio delle palle da biliardo. Lanciando la palla A contro la palla B, siamo soliti dire che A – urtando B – ne causa lo spostamento e il movimento. Ora, ciò che noi diciamo corrisponde pienamente alle impressioni forniteci dall’esperienza? In altre parole, abbiamo ragioni sufficienti per dire che A causa lo spostamento di B? In realtà, se vi poniamo attenzione, l’esperienza ci testimonia soltanto le tre cose seguenti. 1. Lo spostamento di B ha luogo soltanto quando si verifica un rapporto di contiguità spaziale tra le due palle: soltanto quando A è in contatto con B, B si mette in movimento. 2. Tra il movimento di A e quello di B sussiste un rapporto di successione temporale: prima si muove A, poi si muove B. 3. Fino a questo momento tra A e B c’è sempre stata una connessione costante: finora si è sempre verificato che, quando A viene a contatto di B, B si mette in movimento.
la causa non esiste o è sconosciuta
Queste tre osservazioni – le sole certificate dall’esperienza – non sono sufficienti a giustificare l’azione causale di A su B. Secondo Hume, la contiguità spaziale e la successione temporale non bastano a dimostrare che il movimento di B è causato da A. Tale movimento, infatti, potrebbe essere privo di causa (Hume nega il principio, difeso tra gli altri da Hobbes, per cui ogni cosa deve avere una causa). Oppure potrebbe essere prodotto da un’altra causa a noi sconosciuta. In questo caso, la contiguità tra le due palle o la successione dei loro movimenti si presenterebbero solo casualmente insieme alla vera causa dello spostamento di B. Secondo Hume, anche il fatto che finora la connessione tra A e B si è verificata sempre e alle stesse condizioni potrebbe essere casuale. Non vi è, infatti, alcuna garanzia che la relazione rimanga la stessa anche in futuro. Non c’è nulla nella palla A che possa di per sé spiegare il movimento della palla B. Un uomo che avesse soltanto esperienza di A senza aver mai visto B non potrebbe mai derivare da A la conoscenza di B, come avverrebbe se la connessione tra A e B fosse necessaria.
il ruolo dell’abitudine nella conoscenza
In base a che cosa, dunque, affermiamo che esiste un nesso causale tra la palla A e la palla B? Semplicemente in base all’ abitudine . Noi siamo abituati a constatare – sulla base dell’esperienza – che all’urto di A contro B segue il movimento di B. Ciò significa che, secondo Hume, ogni nostra inferenza
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causale si fonda sull’abitudine a osservare una certa connessione tra i fenomeni [t36]. Cerchiamo di comprendere meglio questo punto, ripercorrendo i vari passaggi della critica di Hume al concetto di causa: a) tutte le volte che abbiamo visto la palla A toccare la palla B, B si è mossa; b) da ciò inferiamo che A è la causa del movimento di B; c) poiché fino a ora è sempre accaduto così, siamo portati a ritenere che anche in futuro – se la palla A toccherà la palla B nelle stesse condizioni – B si muoverà. In altre parole, dall’abitudine a vedere due fenomeni in successione spazio-temporale inferiamo che uno è causa dell’altro non solo nel presente, ma anche nel futuro. Ma che cosa ci spinge a pensare che quanto è accaduto fino a ora si ripeterà altre volte, ovvero che la connessione causale tra A e B si darà anche in futuro? Hume risponde a questo quesito affermando che ogni nostra inferenza causale è congiunta al presupposto dell’uniformità del corso della natura. In base a esso, noi riteniamo che la natura obbedisca a leggi costanti, identiche per il passato, il presente e il futuro. Sulla base di questo presupposto pensiamo che il sole – che siamo abituati a vedere nascere ogni giorno – sorgerà anche domani. Infatti, questo nostro pensiero non esprime una connessione causale necessaria. Dal fatto di vedere il sole non possiamo ricavare il fatto che esso sorgerà, ovvero l’alba di domani. Se l’affermazione «domani il sole sorgerà» non è necessaria, allora – ricorda Hume – l’affermazione «il sole non sorgerà più» non è contraddittoria e, quindi, può essere vera.
l’uniformità della natura
Sempre in rapporto all’abitudine Hume fa anche un’altra osservazione. Quando vedo la palla A venire in contatto con la palla B, non mi limito a prevedere il movimento di B, ma credo che B si muoverà a causa di A. L’abitudine ad associare tra loro due fenomeni genera la credenza nella realtà della loro connessione [t37]. La credenza non ha dunque alcun fondamento in una argomentazione razionale, ma è piuttosto espressione di un istinto connaturato nell’uomo. Secondo Hume non esiste una rigida contrapposizione tra istinto e ragione. Anche la ragione, infatti, è un istinto. La tendenza dell’uomo a sottoporre tutto a critica e a verifica – tendenza nella quale si compendia l’attività razionale – è essa stessa manifestazione di un impulso istintivo radicato nella natura umana.
l’abitudine genera la credenza
5. La critica all’idea di sostanza Sempre tenendo fermo il principio dell’empirismo radicale, Hume procede anche a esaminare l’idea di sostanza. Egli la considera sia nella forma degli oggetti che appaiono fuori di noi (sostanza materiale), sia nella forma dell’io o del soggetto delle percezioni (sostanza spirituale). Hume nota che, in virtù dell’esperienza, noi abbiamo impressioni soltanto di singole qualità degli oggetti (giallo, freddo, liscio, ecc.). Tuttavia, poiché siamo abituati a percepire queste qualità costantemente insieme, pensiamo che esse appartengono a un’unica sostanza (per esempio l’oro). In verità, la sostanza materiale è soltanto il nome di cui ci serviamo per esprimere la 13. hume
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compresenza delle singole proprietà. Come si vede, la critica humeiana ricalca fedelmente quella di Locke [cfr. 9.3], già ripresa da Berkeley [cfr. 12.4]. Attraverso il concetto di abitudine, tuttavia, Hume dà una spiegazione del nostro uso dell’idea di sostanza del tutto assente in Locke e in Berkeley. Come abbiamo visto, l’abitudine di vedere sempre congiunte determinate proprietà genera la credenza nella realtà degli oggetti che le possiedono. Questa credenza – pur non essendo fondata razionalmente – è pienamente giustificata, in quanto esprime una tendenza naturale dell’uomo. la critica dell’idea di sostanza spirituale
Hume osserva che il nostro io non è mai oggetto di un’impressione. Noi ci limitiamo a percepire singoli stati di coscienza (sensazioni, passioni, pensieri, sentimenti, volizioni), ma non cogliamo mai un loro ipotetico soggetto unitario. Il soggetto non è, quindi, una sostanza spirituale permanente e sempre identica a se stessa. Esso è piuttosto un flusso di percezioni che si succedono continuamente le une alle altre. Secondo Hume, dunque, il sentimento dell’unità e della continuità del proprio io è soltanto una credenza connaturata all’uomo.
APPROFONDIMENTO
Empirismo e scetticismo in Hume
Con la critica congiunta delle idee di causa e di sostanza Hume porta l’empirismo alle sue estreme conseguenze scettiche. Ciò vale, però, soltanto sul piano strettamente teorico. Per quanto riguarda la vita pratica dell’uomo, il riconoscimento del carattere naturale della credenza garantisce la possibilità di muoversi in un mondo in cui si sa che a determinate cause seguiranno effetti appropriati, che possiamo servirci di oggetti esterni e che possiamo agire con il sentimento di essere sempre la stessa persona. Ma anche sul piano teorico-filosofico le conoscenze relative a «materie di fatto» non perdono il loro
valore, purché si abbandoni la pretesa di farne certezze razionali dimostrabili come verità matematiche. Quando non siano esclusivamente probabili (come quando mi attendo che domani piova), le conoscenze di fatto possono essere considerate certe nel senso che sono fondate sull’esperienza e sulla naturale tendenza dell’uomo a credere in esse (come quando mi aspetto che domani sorga il sole). Lo scetticismo «moderato» di Hume – che egli stesso distingue dallo scetticismo radicale che impedisce ogni credenza – è l’inevitabile seconda faccia della «scienza della natura umana»
che egli vuole fondare. La circoscrizione della ricerca all’analisi empirica dei fenomeni e l’esclusione – di ascendenza newtoniana – delle «ipotesi metafisiche», rivela l’impossibilità di dimostrare razionalmente il valore cognitivo delle conoscenze relative a «materie di fatto». D’altra parte, lo stesso riferimento allo sperimentalismo – che impone di accettare la «verità» dei fenomeni empirici – attribuisce all’istinto, al sentimento, al senso comune, di cui tutti gli uomini dispongono, un fondamento fattuale immediato che va ben al di là di qualsiasi giustificazione astrattamente razionale.
6. La teoria delle passioni e della società Hume applica anche alla morale lo stesso metodo descrittivo e sperimentale già utilizzato per affrontare il problema della conoscenza. La sua indagine sull’etica inizia pertanto non con una enunciazione di princìpi, ma con una rigorosa analisi delle passioni . Per Hume, infatti, sono le passioni a determinare le azioni degli uomini. 294
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Secondo Hume, le passioni sono impressioni, ossia esperienze o dati di fatto, la cui realtà non può essere né approvata né condannata, ma soltanto constatata. Ora, come abbiamo visto in precedenza, anche le percezioni di oggetti esterni sono impressioni [cfr. 13.3]. Che differenza c’è, dunque, tra percezioni e passioni? La percezione è un’impressione di sensazione, in quanto deriva direttamente dall’esperienza esterna. La passione, invece, è un’impressione di riflessione, ossia un’esperienza interna che deriva da una precedente impressione di sensazione.
che cosa sono le passioni?
Come si è detto, le passioni non sono altro che impressioni, ancorché di tipo particolare. Che relazione intercorre, dunque, tra le passioni e la ragione? Secondo Hume, la ragione ha una funzione conoscitiva, non pratica. Come sappiamo, essa opera sulle idee e decide della loro verità o falsità mediante il confronto delle une con le altre. Le passioni, però, non sono idee, bensì impressioni (o dati di esperienza). Non ha quindi senso cercare di confrontarle per giudicare del loro valore, come erroneamente hanno creduto Locke e Berkeley. Detto altrimenti, le passioni – in quanto impressioni – non sono né vere né false, né giuste né ingiuste, ma semplicemente sono. La ragione, così come non può modificare il fatto che oggi piova o splenda il sole, non può agire sulle passioni né per suscitarle né per frenarle. L’unico modo in cui la ragione può condizionare la nascita della passione è attraverso il giudizio sulla realtà delle cose e sulla congruenza tra i nostri fini e i mezzi di cui intendiamo servirci per raggiungerli. Se, ad esempio, conosciamo razionalmente che l’oggetto del nostro desiderio non esiste o che i mezzi di cui disponiamo sono assolutamente insufficienti per conseguirlo, viene meno il nostro stesso desiderare. Ma, eccettuato il caso in cui l’informazione teorica può modificare i nostri desideri, la ragione non può convincerci che una passione è giusta o sbagliata o che dobbiamo fare una cosa che non vogliamo anziché una che desideriamo.
la ragione non può intervenire sulle passioni
A ciò si deve aggiungere che la stessa volontà, per Hume, è «quell’impressione interna che noi avvertiamo e di cui diveniamo consapevoli, quando coscientemente diamo origine a qualche nuovo movimento del nostro corpo o a qualche nuova percezione della nostra mente». Pur non essendo una passione, dunque, la volontà è anch’essa un’impressione, un dato di fatto. Ciò significa che anche la volontà è determinata causalmente da altri eventi esterni o interni all’uomo. Al pari delle impressioni e delle passioni, dunque, non può essere condizionata dalla ragione. Ma se la volontà non subisce il controllo della ragione – conclude Hume – non esiste alcun libero arbitrio. Ogni nostra volizione, infatti, è causata necessariamente (nel senso ora chiarito) da un determinato stato emotivo. In tal senso, dunque, la sola libertà di cui l’uomo gode è quella dalla costrizione esterna.
la volontà dell’uomo non è libera
Ma se le passioni e la volontà sono impressioni non soggette al controllo della ragione e il libero arbitrio non esiste, come può l’uomo distinguere tra virtù e vizio? In altri termini, esiste un principio morale che possa guidarne il comportamento? Hume risponde a questa domanda affermando che tale principio esiste, ma non può essere derivato dalla ragione né diventare operante grazie al libero arbitrio:
il principio che guida l’agire dell’uomo
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Per quanto la ragione, se pienamente sviluppata, sia sufficiente per istruirci delle tendenze dannose od utili di qualità ed azioni, essa non basta da sola a produrre qualche biasimo o qualche approvazione morali. L’utilità è soltanto una tendenza ad un certo fine; e se il fine ci fosse del tutto indifferente, noi proveremmo la stessa indifferenza nei riguardi dei mezzi per conseguirlo. Qui occorre che si affermi un sentimento, affinché si dia una preferenza alle tendenze utili rispetto a quelle dannose. Questo sentimento non può essere che una sensibilità per la felicità degli uomini ed un risentimento nei confronti della loro infelicità, giacché questi sono i diversi fini che la virtù ed il vizio tendono a promuovere. Qui dunque la ragione ci insegna a che cosa tendono le azioni e il senso di umanità opera una distinzione in favore di quelle che sono utili e benefiche (Ricerche sui princìpi della morale, Appendice).
Secondo Hume, dunque, ogni uomo ritrova in sé un sentimento morale che orienta spontaneamente il suo comportamento. In virtù della sua stessa natura, infatti, l’uomo prova un senso di piacere e di soddisfazione quando assiste a un’azione virtuosa, mentre prova dispiacere e disagio in presenza di un misfatto . Il piacere morale ha tuttavia un particolare carattere, che lo distingue da altre forme di piacere (per esempio, da quello fisico): è disinteressato. L’individuo infatti lo prova non già in relazione al proprio bene personale, ma semplicemente perché percepisce la conformità dell’azione compiuta all’utilità generale. la morale della simpatia
Ma qual è il fondamento del sentimento morale? Secondo Hume, esso si basa sul principio della simpatia , intesa etimologicamente come facoltà di condividere le passioni e i sentimenti degli altri. Attraverso la simpatia l’uomo partecipa alle esigenze altrui. Ciò gli consente di esprimere valutazioni morali disinteressate e fondate sull’esigenza di promuovere l’utilità di tutti o, almeno, del maggior numero possibile di individui. Approfondendo ulteriormente l’osservazione della natura umana, Hume vi riscontra un’originaria tendenza alla socialità. Essa si manifesta, in primo luogo, come impulso sessuale e porta alla costituzione della famiglia. Questa prima forma di società naturale induce gli uomini ad apprezzare i vantaggi della convivenza sociale (per esempio, quelli derivanti dalla divisione del lavoro) e a desiderare di estenderla al di là del ristretto ambito familiare.
il carattere convenzionale della società civile
D’altra parte, la tendenza dell’uomo alla socialità non è illimitata, poiché per natura egli tende ad amare soltanto le persone più vicine. Nei confronti delle persone più lontane, invece, egli assume spesso un atteggiamento ostile e sospettoso, entrando in competizione con loro per il possesso dei beni che la natura ha distribuito in scarsa misura. Ma come può l’uomo entrare in società con gli altri – per goderne i vantaggi – e, allo stesso tempo, tutelarsi contro il pericolo rappresentato dalla loro vicinanza? Per rispondere a questa duplice esigenza, secondo Hume, gli uomini stabiliscono tra loro una convenzione avente come scopo la stabilità della proprietà individuale e il godimento pacifico di ciò che ciascuno acquista mediante il proprio lavoro. La vita sociale trova il suo valore centrale nella giustizia, che consente di contemperare gli interessi individuali con quelli dell’intera so-
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cietà. Al pari della società civile – nella quale soltanto esse possono essere esercitate – la proprietà e la giustizia non hanno dunque carattere naturale. Esse rappresentano una condizione e una virtù «artificiali», poiché trovano il loro fondamento nelle convenzioni e nell’educazione degli uomini.
7. La religione Anche nell’ambito della religione Hume sconfessa ogni pretesa di ritrovare in essa un fondamento razionale. Nei Dialoghi sulla religione naturale, egli afferma – in disaccordo con i deisti – che la ragione non può fornire alcuna prova dell’esistenza di Dio. Infatti l’argomento ontologico è un illecito tentativo di ricondurre una «questione di fatto» (com’è quella dell’esistenza, ancorché di Dio) a una semplice «relazione di idee». Maggiore attenzione merita l’argomento che tenta di risalire dall’ordine e dalla perfezione dell’universo all’esistenza del suo autore, così come dall’esistenza di una macchina si può risalire a quella del suo costruttore. In questo caso, infatti, si cerca di spiegare una materia di fatto – un’esistenza – ricorrendo alla relazione di causa ed effetto. Tuttavia, secondo Hume, neanche questo argomento è concludente, poiché si fonda indebitamente sull’analogia tra cose troppo diverse: il rapporto tra Dio e il mondo, da un lato, e quello tra il costruttore e la macchina, dall’altro. In nessun modo il mondo può essere paragonato a una macchina, una casa o un’altra realtà di cui abbiamo molteplici esperienze. Del mondo nella sua interezza, infatti, non facciamo mai esperienza. Non è possibile, quindi, ipotizzare una sua causa come invece siamo soliti fare per le altre realtà. Inoltre, come sappiamo, la connessione causale si fonda sempre sull’esperienza ripetuta e consolidata dall’abitudine e, quindi, non può essere applicata al di fuori dell’ambito fenomenico.
non esistono prove razionali dell’esistenza di dio
L’esperienza religiosa – al pari di tutte le altre esperienze – è tuttavia un fatto che non può essere negato. La sua spiegazione deve quindi essere ricercata sul terreno degli impulsi che fattualmente e storicamente l’hanno portata a manifestarsi. Nella Storia naturale della religione, l’atteggiamento religioso è ricondotto al sentimento di timore e di speranza che ciascun uomo prova naturalmente di fronte alla forza della natura e al mistero della vita e della morte. Hume spiega la religione riconducendola agli istinti e alle passioni intrinseche alla natura umana. Malgrado ciò egli non fa alcuna professione di ateismo, né intende ridurre la religione – come a volte avvenne nella cultura illuministica, soprattutto francese – alla superstizione in cui vivono gli ignoranti o all’inganno perpetrato dai potenti. Radicata nella natura umana, la religione è una manifestazione insopprimibile del modo in cui l’uomo si rapporta al mondo.
la religione nasce dall’istinto
Il sentimento di timore e di speranza istintivamente provato dagli uomini di fronte alla natura è in grado di spiegare lo sviluppo dell’atteggiamento religioso che si articola in tre fasi.
la «storia naturale» della religione
1. Dapprima regna il politeismo: gli uomini spiegano le forze naturali, ri-
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correndo a molteplici divinità cui attribuiscono i caratteri (e i difetti) che riscontrano in se stessi. 2. Successivamente si afferma il monoteismo: gli uomini cercano di rendere sempre maggiori onori alla divinità che temono e, quindi, la rappresentano in maniera sempre più pura e distinta dall’uomo. 3. Infine si giunge alla rappresentazione di un Dio unico, perfetto e infinito, poiché al di là dell’infinito non vi è più nulla di concepibile. In questa fase le argomentazioni filosofiche si confondono con il sentimento di timore e di speranza. Le religioni monoteistiche liberano l’uomo dall’idolatria e dalla superstizione proprie del politeismo ma – a causa dell’unicità del Dio in cui credono – generano un’intolleranza e un fanatismo sconosciuti alle prime ingenue rappresentazioni della divinità.
8. Adam Smith e l’economia politica il bisogno di approvazione sociale
Accanto a Hume – di cui era amico e grande estimatore – uno dei maggiori rappresentanti della filosofia scozzese del Settecento è Adam Smith (17231790). La prima opera di Smith – la Teoria dei sentimenti morali (1759) – risente ampiamente della frequentazione di Hume. Il principio fondamentale della vita morale è, infatti, il sentimento della simpatia. In base a esso gli uomini sono naturalmente portati a giudicare positivamente le azioni che contribuiscono alla socievolezza reciproca e negativamente quelle che la ostacolano. Questo giudizio riguarda non solo le azioni altrui, ma anche le proprie. Ciascuno di noi ha infatti dentro di sé uno «spettatore imparziale», che consente di valutare le proprie azioni con gli occhi degli altri. Ognuno di noi può, quindi, giudicare i propri comportamenti non in base all’utilità personale, ma in base alla loro accettabilità sociale. Secondo Smith, il sentimento della simpatia permette di armonizzare gli impulsi sociali e quelli egoistici apparentemente in conflitto. Infatti, la felicità di ognuno è possibile soltanto attraverso la realizzazione del bene degli altri.
l’egoismo del singolo e il vantaggio di tutti
Un analogo principio armonicistico guida l’analisi dei processi socio-economici che Smith co