Tempi del pensiero. Età contemporanea [Vol. 3] [PDF]

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Zitiervorschau

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Giuseppe Cambiano Massimo Mori

Tempi del pensiero Storia e antologia della filosofia 3. Età contemporanea

Editori Laterza

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Pagina ii

© 2012, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari Prima edizione 2012 L’Editore Gius. Laterza & Figli si impegna a mantenere invariato il contenuto dell’opera per un quinquennio, come disposto dall’art. 5, Legge 169/2008.

L’editing è stato curato da Gianluca Valle.

Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi, Centro Licenze e Autorizzazioni per le Riproduzioni Editoriali, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected], sito web: www.clearedi.org.

Copertina, progetto grafico e servizi editoriali a cura di Pagina, soc. coop., Bari.

Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council. Finito di stampare nel febbraio 2012 da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-421-0991-4

Editori Laterza Piazza Umberto I, 54 70121 Bari e-mail: [email protected] http://www.laterza.it

Questo prodotto è stato realizzato nel rispetto delle regole stabilite dal Sistema di gestione qualità conforme ai requisiti ISO 9001:2008 valutato da DAS e coperto dal certificato numero IT03-043

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Pagina iii

indice del volume 1. schopenhauer 1. 2. 3. 4. 5.

Vita e opere 3 Il mondo come rappresentazione 4 Il mondo come volontà 6 Le vie della liberazione dalla volontà 9 Il nulla e la morte 10 in poche... parole, p. 11

i testi t1 Schopenhauer/Volontà e coscienza

14

[Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, libro II, § 23]

t2 Schopenhauer/La vita è sofferenza o noia

15

[Schopenhauer Il mondo come volontà e rappresentazione, libro IV, §§ 57-58]

esercizi, p. 17 Schopenhauer/La volontà e le sue manifestazioni • Schopenhauer/La negazione della volontà

alef

2. kierkegaard 1. Vita e opere 2. La polemica con l’idealismo hegeliano 3. Gli stadi della vita 4. Angoscia e disperazione 5. Il salto verso la fede

19

i testi t3 Kierkegaard/Esistenza contro essenza

20 21 24 25

in poche... parole, p. 25

27

[Kierkegaard Postilla conclusiva non scientifica, parte II, cap. 3, § 1]

t4 Kierkegaard/L’angoscia [Kierkegaard Il concetto dell’angoscia, cap. I, § V]

29

esercizi, p. 33

Kierkegaard/Il paradosso della fede: Abramo

alef

3. le eredità di hegel e il marxismo 1. 2. 3. 4.

Destra e sinistra hegeliane Feuerbach Marx ed Engels: vita e opere Marx: il rovesciamento della filosofia hegeliana

36 37 41

7. Marx ed Engels: lotta di classe e rivoluzione proletaria

43

8. Marx ed Engels: l’analisi economica 54 del capitalismo

approfondimento Il socialismo utopistico e la riorganizzazione della società, p. 45

5. Marx: la critica dell’economia politica 46 e la condizione dei lavoratori 6. Marx ed Engels: 49 il materialismo storico

53

approfondimento La «rivoluzione industriale e gli economisti classici, p. 53

approfondimento Il materialismo dialettico di Engels, p. 59

9. La Seconda Internazionale 10. Marxismo e rivoluzione russa

60 62

in poche... parole, p. 63 indice del volume

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i testi

Pagina iv

t8 Marx, Engels/Ideologia e classi sociali

t5 Feuerbach/Religione e autocoscienza dell’uomo [Feuerbach L’essenza del cristianesimo, Introduzione, cap. 2]

t6 Marx/Alienazione e oggettivazione [Marx Manoscritti economico-filosofici del 1844, Primo manoscritto]

t7 Marx/Le tesi su Feuerbach [Marx Tesi su Feuerbach]

[Marx, Engels L’ideologia tedesca, parte I]

66 68

t9 Marx, Engels/Borghesia e proletariato [Marx, Engels Manifesto del partito comunista, passim]

74 78

esercizi, p. 81

72

Feuerbach/Sensibilità e amore • Marx/Comunismo e comunismo rozzo • Marx/Capitale e lavoro salariato • Engels/Nascita ed estinzione dello Stato

alef

4. il positivismo 1. Caratteri generali del positivismo 2. Comte: l’articolazione del sapere

84 85

[Comte Discorso sullo spirito positivo, cap. I, §§ 1-4]

approfondimento Lo sviluppo delle scienze in Francia tra Sette e Ottocento, p. 85

3. 4. 5. 6.

Comte: il progresso dell’umanità Bentham e l’utilitarismo John Stuart Mill Darwin e l’evoluzionismo

89 90 91 96

approfondimento Lo sviluppo delle scienze della vita, p. 97

7. Spencer

i testi t10 Comte/La teoria dei tre stati

98

approfondimento Il positivismo in Germania e in Italia, p. 101

t11 Mill/Che cos’è l’utilitarismo [Mill Utilitarismo, cap. II]

t12 Darwin/La lotta per la vita [Darwin L’origine della specie, cap. IV]

t13 Spencer/La legge dell’evoluzione [Spencer Primi princìpi, parte II: cap. XIV, § 115; cap. XV, §§ 116, 127, 129, 138; cap. XVII, § 145]

104 109 111 114

esercizi, p. 117

in poche... parole, p. 102 Comte/La classificazione delle scienze • Mill/La critica al sillogismo • Mill/L’uniformità della natura • Spencer/Società militari e società industriali

alef

5. nietzsche 1. 2. 3. 4. 5. 6.

Vita e opere La nascita della tragedia «Per ogni agire ci vuole oblio» La scienza e lo «spirito libero» Alle origini della morale Il cristianesimo e la morale del risentimento 7. La morte di Dio e l’avvento del superuomo 8. La volontà di potenza come arte

120 122 123 126 127

iv

indice del volume

i testi t14 Nietzsche/Apollineo e dionisiaco [Nietzsche La nascita della tragedia, 1-3 passim]

t15 Nietzsche/La morte di Dio

129

131 133

confronti La volontà in Schopenhauer e in Nietzsche, p. 135

9. La dottrina dell’eterno ritorno

in poche... parole, p. 138

[Nietzsche La gaia scienza, libro III, § 125; libro V, § 343]

t16 Nietzsche/Il superuomo [Nietzsche Così parlò Zarathustra, parte I, Prefazione, 3-4; parte IV, 1-3]

esercizi, p. 151

136

141 145 147

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Nietzsche/La vita e la storia • Nietzsche/Morale dei signori e morale degli schiavi • Nietzsche/La colpa e l’ascetismo • Nietzsche/Vita e volontà di potenza

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6. le reazioni al positivismo tra francia e germania 1. Gli inizi dello spiritualismo in Francia 2. Bergson: tempo, memoria, conoscenza 3. Bergson: lo slancio vitale 4. Il neokantismo 5. Dilthey e lo storicismo tedesco 6. Spengler e il tramonto dell’Occidente 7. Weber: il metodo delle scienze storico-sociali 8. Weber: l’analisi del mondo moderno

i testi 154

t17 Bergson/La durata reale

155 163

t18 Bergson/L’evoluzione creatrice

166 170

t19 Dilthey/L’intuizione del mondo

175

t20 Weber/Protestantesimo e capitalismo

176

[Weber L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, passim]

in poche... parole, p. 182

190

[Bergson L’evoluzione creatrice, cap. I] [Dilthey I tipi di intuizione del mondo e la loro elaborazione nei sistemi metafisici, I, 3-4]

t21 Weber/L’agire sociale

179

186

[Bergson Saggio sui dati immediati della coscienza, cap. II]

[Weber Economia e società, parte I, cap. I, § 2]

193 195 197

esercizi, p. 200

Boutroux/Le leggi di natura • Bergson/L’immagine • Bergson/I due tipi di memoria • Bergson/Intuizione e intelligenza • Dilthey/Comprensione storica e oggettivazione della vita • Spengler/Morfologia della storia universale • Weber/L’oggettività delle scienze storico-sociali

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7. il pragmatismo 1. 2. 3. 4.

Peirce James Dewey: esperienza e conoscenza Dewey: uomo e natura

204 206 208 212

approfondimento L’Inghilterra tra idealismo e realismo: il «caso» Moore, p. 215

i testi t22 James/La volontà di credere [James La volontà di credere, sezz. IV, IX, X]

t23 Dewey/Un nuovo concetto di esperienza [Dewey Intelligenza creativa, sez. I]

219 221

esercizi, p. 223

in poche... parole, p. 216 Peirce/Il significato della credenza • Dewey/La logica strumentale • Dewey/Mente e corpo

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8. il neoidealismo italiano 1. Hegelismo e marxismo nell’Italia unita 2. Croce: la filosofia dello spirito 3. Croce: lo storicismo assoluto

226 227 236

4. Gentile: l’attualismo 5. Gentile: società, diritto, Stato etico

239 245

in poche... parole, p. 246

confronti La concezione della storia e della filosofia in Dilthey e in Croce, p. 237

indice del volume

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Pagina vi

i testi

t25 Gentile/Stato etico e moralità

t24 Croce/Intuizione ed espressione artistica [Croce Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, parte I, cap. I]

249

251

[Gentile Genesi e struttura della società, cap. VI, §§ 7-9]

esercizi, p. 254

Croce/Dialettica degli opposti e dialettica dei distinti • Croce/Male e vitalità nella storia • Gentile/La dialettica del pensiero

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9. husserl e la fenomenologia 1. Le origini della fenomenologia 2. Husserl: alla ricerca della logica pura 3. Husserl: la fenomenologia trascendentale 4. Husserl: la crisi delle scienze e il ruolo della fenomenologia 5. Scheler in poche... parole, p. 273

258 259 262 268 270

i testi t26 Husserl/Atteggiamento naturale e intenzionalità [Husserl Filosofia come scienza rigorosa, passim]

t27 Husserl/La crisi europea e il compito della filosofia [Husserl La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, parte I, §§ 6-7]

276 279

esercizi, p. 282

Husserl/L’epochè • Husserl/Il mondo-della-vita e le scienze • Scheler/L’etica e i valori • Scheler/Simpatia e amore

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10. l’esistenzialismo, heidegger, l’ermeneutica 1. Jaspers e la filosofia dell’esistenza 2. Heidegger: essere ed esistenza

286 289

approfondimento Il primo Heidegger fra teologia e fenomenologia, p. 291

3. Heidegger: verità e storia della metafisica 4. Gadamer: l’ermeneutica 5. Gadamer: la verità dell’arte e della storia in poche... parole, p. 310

i testi t28 Heidegger/L’esistenza inautentica e il mondo del «Si»

314

[Heidegger Essere e tempo, parte I, sez. I, cap. 4, § 27]

t29 Heidegger/L’esistenza autentica e la morte

298 305 306

[Heidegger Essere e tempo, parte I, sez. II, cap. 1, § 50]

t30 Heidegger/Il pensiero e la filosofia [Heidegger Lettera sull’«umanismo», passim]

t31 Gadamer/Comprensione e storia degli effetti [Gadamer Verità e metodo, parte seconda, II, 1, c-d]

316 317 320

esercizi, p. 322 Jaspers/Esistenza e mondo • Jaspers/Esistenza e libertà • Heidegger/La verità e l’inizio della metafisica • Heidegger/Nichilismo e metafisica • Heidegger/La tecnica e la poesia • Gadamer/Comprensione e fusione di orizzonti

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indice del volume

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11. freud e la psicoanalisi 1. La nascita della psicoanalisi 2. La teoria della psiche 3. La psicoanalisi e l’origine della civiltà 4. Gli sviluppi della psicoanalisi 5. Lacan e «la rivoluzione copernicana freudiana»

326 329

i testi t32 Freud/Il sogno e l’inconscio [Freud L’interpretazione dei sogni, cap. 7, F]

332 334 338

t33 Freud/Aggressività umana e civiltà [Freud Il disagio della civiltà, 8 passim]

342 344

esercizi, p. 349

in poche... parole, p. 340 Freud/L’egemonia del principio di piacere • Freud/L’Io, il Super-io e il senso di colpa • Jung/L’inconscio collettivo

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12. interpretazioni e sviluppi del marxismo 1. Il marxismo italiano 2. Il «marxismo occidentale» 3. Bloch e Benjamin: marxismo e utopia 4. Horkheimer e la Scuola di Francoforte 5. Horkheimer e Adorno: Illuminismo e ragione 6. Adorno: il negativo e l’arte 7. Marcuse e «il grande rifiuto» 8. Althusser: il marxismo e l’epistemologia

352 354 358 360 362 364 367 370

i testi t34 Gramsci/La storicità delle filosofie [Gramsci Quaderni del carcere, 10, II, § (17); 11, § (62)]

t35 Lukács/Azione e coscienza di classe [Lukács Storia e coscienza di classe, cap. 3, § 1]

t36 Horkheimer, Adorno/Mitologia dell’Illuminismo [Horkheimer, Adorno Dialettica dell’Illuminismo, cap. 1]

t37 Marcuse/Repressione addizionale e immaginazione [Marcuse Eros e civiltà, parte I, cap. 2; parte II, cap. 7]

375 379 382

386

in poche... parole, p. 372 esercizi, p. 390 Bloch/I sogni e la speranza • Benjamin/La storia e l’istante • Horkheimer/La teoria critica • Adorno/La triste scienza e l’industria culturale • Althusser/La pratica teorica

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13. temi e problemi di filosofia politica 1. La grande guerra e la cultura di destra 2. Jünger 3. Schmitt 4. Arendt 5. Habermas e Apel: la prassi e la comunicazione

i testi 394 394 396 398 401

t38 Schmitt/Il politico [Schmitt Il concetto del «politico», §§ 1-2]

t39 Arendt/L’azione e la politica [Arendt Vita activa, cap. 1, § 1; cap. 5, § 24]

407 409

esercizi, p. 412

in poche... parole, p. 405 Habermas/L’etica e l’agire comunicativo

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indice del volume

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Pagina viii

14. la filosofia di ispirazione cristiana e le nuove teologie 1. 2. 3. 4. 5.

Crisi ed esigenze di rinnovamento Barth Bultmann Tillich Bonhoeffer

416 418 419 421 422

approfondimento Una fede senza Dio?, p. 424

6. Ulteriori sviluppi della ricerca teologica

426

i testi t40 Barth/Il «totalmente Altro» [Barth L’Epistola ai Romani, Commento a Rom. 1, 16-17]

t41 Bonhoeffer/Cristianesimo senza religione [Bonhoeffer Resistenza e resa, Lettere 30.4 e 16.7 del 1944]

431 434

esercizi, p. 436

in poche... parole, p. 429 Bultmann/Mito e demitizzazione • Tillich/Fede e affermazione dell’essere • Hamilton/La morte di Dio • Rahner/La svolta antropologica

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15. tra esistenzialismo e strutturalismo in francia 1. La «filosofia concreta» di Marcel 2. Sartre: esistenza e libertà

440 441

confronti La questione dell’esistenza in Kierkegaard, Heidegger e Sartre, p. 446

3. Sartre: la filosofia dell’impegno 4. Merleau-Ponty: fenomenologia e marxismo

in poche... parole, p. 461

447 449

approfondimento Vicende della fenomenologia e dell’ermeneutica: Lévinas e Ricoeur, p. 452

5. La linguistica e la nascita dello strutturalismo 6. Lévi-Strauss e l’antropologia strutturale 7. Foucault: il sapere e il potere

approfondimento La stagione post-strutturalista: Deleuze, Derrida, Lyotard, p. 459

i testi t42 Sartre/Il nulla e la libertà [Sartre L’essere e il nulla, parte prima, I, 5; parte quarta, I, 2]

t43 Merleau-Ponty/Corpo, percezione e intersoggettività

452 454 457

[Merleau-Ponty Fenomenologia della percezione, parte seconda, IV]

t44 Foucault/Il potere [Foucault La volontà di sapere]

463

466 468

esercizi, p. 472

Sartre/Il gruppo in fusione • Lévi-Strauss/Le nozioni di struttura e di modello

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16. logica e linguaggio. frege, russell e wittgenstein 1. Frege: aritmetica e logica

476

approfondimento Logica e matematica nell’Ottocento, p. 478

2. Russell: logica e matematica 3. Russell: linguaggio e conoscenza approfondimento Filosofie della matematica, p. 487

viii

indice del volume

479 484

4. Wittgenstein: il linguaggio e il mondo

488

approfondimento Wittgenstein e la riflessione sulla matematica, p. 493

5. Wittgenstein: linguaggio ed esperienza in poche... parole, p. 497

494

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i testi t45 Russell/L’atomismo logico [Russell La filosofia dell’atomismo logico, 1]

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Pagina ix

t47 Wittgenstein/Significato e giochi linguistici 506

500

t46 Wittgenstein/L’etica, il mistico e la filosofia 503 [Wittgenstein Tractatus logico-philosophicus, 6.41-6.421, 6.4311-7]

[Wittgenstein Ricerche filosofiche, parte I, nn. 11, 23, 43, 65-67, 199]

esercizi, p. 508

Frege/Senso e significato • Russell/La fondazione logica della matematica • Wittgenstein/ Il Tractatus • Wittgenstein/Necessità logica e contingenza empirica • Wittgenstein/Filosofia e terapia linguistica

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17. gli sviluppi della riflessione epistemologica 1. Mutamenti scientifici e problemi filosofici

in poche... parole, p. 535

512

i testi

approfondimento Le scoperte scientifiche tra Ottocento e Novecento, p. 515

2. 3. 4. 5.

Il Circolo di Vienna Schlick Neurath Carnap

t48 Carnap/Logica e metafisica

517 519 520 521

confronti La nozione di verità secondo Russell,Wittgenstein e i neopositivisti, p. 524

6. Popper: la logica della scoperta scientifica 7. Popper: la società aperta 8. Ulteriori sviluppi della filosofia della scienza

[Carnap Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, §§ 1, 3-4]

t49 Popper/La falsificabilità e il cammino della scienza [Popper Logica della scoperta scientifica, parte I, cap. I, § 6; parte II, cap. X, § 85]

t50 Kuhn/Le rivoluzioni scientifiche

526 531

[Kuhn La struttura delle rivoluzioni scientifiche, cap. 9]

538

542 545

esercizi, p. 548

532

Carnap/Sintassi logica e principio di tolleranza

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18. la filosofia analitica 1. Filosofia analitica e analisi del linguaggio 2. Austin 3. Quine 4. Filosofi post-analitici 5. Il problema mente-corpo e l’intelligenza artificiale 6. Analisi del linguaggio ed etica applicata

i testi 552 553 554 558 560

t51 Ryle/Lo spettro nella macchina

566

[Ryle Il concetto di mente, cap. I, §§ 1-3]

t52 Searle/La camera cinese [Searle Mente, cervello e intelligenza, cap. II]

570

t53 Engelhardt/Tensione tra princìpi in bioetica 572 [Engelhardt Manuale di bioetica, capp. I e III]

esercizi, p. 574

561

in poche... parole, p. 563 Austin/Asserzioni e atti linguistici • Quine/I due miti dell’empirismo

alef indice del volume

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bibliografia

576

le fonti

599

indice dei nomi

601

indice del volume

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età contemporanea

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le negazioni della volontà

L’oggettivazione della volontà comporta conflitto e sofferenza, in quanto ciò che è essenzialmente unitario viene costretto a contendersi lo spazio e il tempo, nonché a subire la reciproca azione causale. L’uomo deve quindi tendere alla nolontà, cioè alla negazione della volontà. Passaggio preliminare di questo processo è la contemplazione estetica delle idee, platonicamente intese come le entità universali che si sottraggono al principio di individuazione. Per ottenere la liberazione dai mali della vita occorre tuttavia passare all’esercizio della morale, che ha le sue tappe fondamentali nella realizzazione del diritto, nella compassione e infine nella vera e propria ascesi.

1. schopenhauer

gli strumenti in poche… parole

i contenuti il mondo come rappresentazione

A Berlino la più tenace opposizione a Hegel è condotta da Schopenhauer, suo collega all’università. Schopenhauer riprende da Kant la distinzione tra fenomeno e noùmeno, interpretando il primo come semplice parvenza del secondo (il «velo di Maya»). Il mondo fenomenico è il mondo della rappresentazione, che sta alla base della distinzione tra soggetto e oggetto. Essa è prodotta dalle forme a priori della conoscenza: lo spazio e il tempo (le forme della sensibilità) e la causalità (l’unica categoria dell’intelletto, concepito anch’esso come una facoltà intuitiva). Spazio, tempo e causalità costituiscono il principio di individuazione.

2

rappresentazione / apparenza / volontà / pessimismo / ascesi il mondo come volontà

Al di sotto del fenomeno giace la cosa in sé (o noùmeno), che Schopenhauer concepisce come volontà di vivere – unica, eterna e irrazionale –, di cui i singoli fenomeni sono altrettante oggettivazioni. La via di accesso alla cosa in sé è data dal corpo: esso, infatti, è in grado di percepirsi come oggetto tra gli oggetti, ma anche come impulso irrefrenabile a volere, come forza primordiale che sfugge ai canoni della rappresentazione. La volontà di vivere si manifesta attraverso una serie progressiva di gradi: nelle forze della natura (gravità, magnetismo, ecc.), nella vita vegetale e animale, infine nei singoli individui umani. In particolare, negli uomini la volontà di vivere diviene consapevole di se stessa.

1. schopenhauer

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

i testi a. nel manuale t1 Schopenhauer/Volontà e coscienza t2 Schopenhauer/La vita è sofferenza o noia

b. on-line Schopenhauer/La volontà e le sue manifestazioni Schopenhauer/ La negazione della volontà

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1. Vita e opere Arthur Schopenhauer nasce a Danzica nel 1788 da un ricco commerciante e da una scrittrice di romanzi. Quando Danzica cessa di essere «città libera» e viene inglobata nella Prussia, suo padre – fervente repubblicano – trasferisce la famiglia ad Amburgo. La giovinezza di Arthur è costellata di viaggi, nei quali il padre vede uno strumento di istruzione e di preparazione alla professione del commercio: egli soggiorna per due anni a Le Havre, in Francia (1797-99), visita Praga (1800), compie con i genitori un lungo viaggio attraverso Olanda, Inghilterra, Francia, Svizzera, Austria, Prussia. Dopo la morte del padre, suicida nel 1805, gli succede per breve tempo nell’attività commerciale, ma poi decide di dedicarsi agli studi. La madre, intanto, trasferitasi a Weimar, apre un salotto letterario, frequentato anche da Goethe, con cui il giovane Arthur avrà qualche incontro. Pur vivendo per qualche tempo anch’egli a Weimar, abita in una casa diversa da quella della madre, di cui non approva la condotta emancipata.

gli anni della giovinezza

Al compimento del ventunesimo anno riceve parte dell’eredità paterna, che gli consente di vivere di rendita. Frequenta l’università di Gottinga, dove Jacobi lo introduce alla lettura di Platone e di Kant. Rilevantissima è, inoltre, l’influenza esercitata su Schopenhauer dalla lettura delle Upanishad, i testi sacri della sapienza indiana, che asseriscono l’esistenza dell’Uno-tutto (ossia di un’unità sostanziale al di là della molteplicità dei fenomeni). A Berlino segue anche le lezioni di Schleiermacher e di Fichte, che trova insopportabile. Durante un nuovo soggiorno a Weimar, scrive la Quadruplice radice del principio di ragion sufficiente (1813).

la formazione all’università di gottinga

Separatosi definitivamente dalla madre, dal 1814 al 1818 vive a Dresda. Qui scrive nel 1818 Il mondo come volontà e rappresentazione, pubblicato l’anno successivo. Visita l’Italia nel 1819 (Venezia, Bologna, Firenze, Roma, Napoli) e nel 1822 (Milano, Firenze, Trento). Nel frattempo, ottenuta la libera docenza, si trasferisce a Berlino, dove tiene lezioni all’università nelle stesse ore di quelle di Hegel, per fargli concorrenza: il risultato è che si trova senza allievi. Giungono le prime – poco favorevoli – recensioni del Mondo. Schopenhauer decide di porvi rimedio non già riscrivendo il libro, ma lavorando a una serie di aggiunte, che saranno raccolte con il titolo di Supplementi e pubblicate come secondo volume nella seconda edizione del Mondo (1844).

la pubblicazione del mondo e l’insegnamento berlinese

Nel 1831 si trasferisce a Francoforte per sfuggire all’epidemia di colera che affligge Berlino (e che costerà la vita a Hegel). Un decennio dopo la morte di Hegel, quando l’hegelismo accusa i primi scossoni, Schopenhauer comincia a raccogliere qualche consenso e a guadagnare qualche discepolo. Ma la fama arriverà soltanto nel 1851 con i Parerga e paralipomena (due volumi), che raccolgono vari saggi, tra cui i noti Aforismi sulla saggezza della vita e La filosofia delle università, aspra requisitoria contro gli ambienti filosofici accademici della Germania. Ora anche il Mondo si vende bene, tanto da consentire una terza edizione (1859). Nel 1860 Schopenhauer muore di polmonite.

gli ultimi trent’anni: la fama e la crisi dell’hegelismo

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2. Il mondo come rappresentazione il primato della rappresentazione

Il mondo come volontà e rappresentazione inizia con le parole: «Il mondo è una mia rappresentazione». Ma che cosa intende Schopenhauer per rappresentazione ? Essa consiste nel rapporto necessario tra soggetto e oggetto. Nessuno di questi due termini, infatti, può stare senza l’altro. Da un lato, il soggetto è «ciò che tutto conosce, senza essere conosciuto da alcuno», ossia ciò che non diventa mai oggetto della conoscenza propria o altrui. Dall’altro, il soggetto non può conoscere se non un oggetto: se non ci fosse un oggetto, il soggetto non conoscerebbe nulla. In questo caso però non ci sarebbe neppure più soggetto, poiché esso è tale soltanto in quanto conosce.

al di là del realismo e dell’idealismo

Erroneamente, il realismo – che Schopenhauer chiama anche materialismo – fa derivare il soggetto dall’oggetto, partendo da una realtà materiale esterna che informa di sé la soggettività. Ma altrettanto erroneamente l’idealismo risolve l’oggetto nel soggetto, come sua produzione interna. Né il soggetto può prevalere sull’oggetto né l’oggetto sul soggetto: la conoscenza, infatti, è data dall’unione di entrambi, intesi come le due componenti indissolubili e indispensabili della rappresentazione.

il punto di partenza: la gnoseologia kantiana

A fondamento della dottrina della conoscenza di Schopenhauer vi è la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé, che egli tuttavia interpreta in modo del tutto originale. Come sappiamo, per Kant il fenomeno è l’unico oggetto della conoscenza umana, condizionata dalle forme a priori della sensibilità e dell’intelletto: in tal senso, esso coincide con la realtà stessa. Detto in termini kantiani, il fenomeno è sinonimo di « apparenza », poiché la cosa in sé – che è al di là del mondo fenomenico – sfugge alla conoscenza umana; ma esso non è «parvenza», cioè realtà ingannevole al di sotto della quale si nasconde la realtà vera. Lo stesso noùmeno – la cosa in sé –, che nella prima edizione della Critica della ragion pura (1781) appare ancora come un indefinibile x soggiacente al fenomeno, nella seconda edizione (1787) viene risolto in un «concetto-limite», necessario per la definizione stessa di fenomeno, ma privo di ogni realtà sostanziale.

il fenomeno è parvenza, il noùmeno è la realtà vera

Qual è invece il valore conoscitivo del fenomeno per Schopenhauer? Pur concordando con Kant che esso è il risultato delle forme a priori della conoscenza umana, egli lo considera come una semplice parvenza. Egli, infatti, lo paragona al «velo di Maya» di cui parla la filosofia indiana, in quanto copre la realtà vera (ovvero la cosa in sé). Se per Kant il fenomeno è il punto d’arrivo della conoscenza umana, per Schopenhauer invece deve essere travalicato per giungere al noùmeno, cioè alla realtà vera delle cose e dell’uomo.

le forme a priori sono interne alla rappresentazione

Anche per Schopenhauer – come per Kant – la filosofia prende le mosse dall’analisi delle forme a priori della conoscenza, sebbene esse vengano intese un po’ diversamente. Per Kant, le forme a priori erano le condizioni in base alle quali il soggetto può conoscere un oggetto. Ma Schopenhauer – come abbiamo appena visto – nega qualsiasi priorità del soggetto rispetto

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all’oggetto, non solo nel senso idealistico fichtiano, per cui il soggetto «pone» l’oggetto, ma anche nel senso trascendentale kantiano, per cui il soggetto «costituisce» l’oggetto. L’elemento veramente originario, da cui dipendono sia il soggetto sia l’oggetto, è la rappresentazione. Le forme a priori, quindi, non saranno condizioni della rappresentazione, bensì sue conseguenze. In altre parole, esse sono già contenute in quel fatto assolutamente primo che è l’indissolubile rapporto tra soggetto e oggetto. Le forme a priori sono tre: lo spazio e il tempo (che corrispondono alle intuizioni pure di Kant) e la causalità (a cui si riducono le dodici categorie kantiane). Lo spazio e il tempo hanno principalmente la funzione di determinare l’oggetto in una pluralità di individui, resi specifici appunto dai loro rapporti spazio-temporali, cioè dall’essere collocati in una determinata posizione e inseriti in una determinata successione di momenti. Spazio e tempo fungono da «principio di individuazione» della materia, differenziando all’interno di essa ciascun oggetto individuale da tutti gli altri. A tale principio concorre anche la causalità, che costituisce l’essenza stessa della materia, percepita attraverso lo spazio e il tempo. Infatti, noi non possiamo percepire le cose nello spazio o nel tempo se non in quanto esse agiscono le une sulle altre, cioè in quanto le une sono causa e le altre effetto. Da questo punto di vista, la rappresentazione della realtà non è altro che la rappresentazione della causalità – cioè dell’azione reciproca degli oggetti – nello spazio e nel tempo.

spazio, tempo e causalità

Schopenhauer dice, in omaggio a Kant, che possiamo continuare a chiamare sensibilità le forme a priori dello spazio e del tempo. Ma avverte giustamente che nel suo sistema l’uso di questo termine è improprio, poiché la sensibilità presuppone già la materia da cui provengono le sensazioni. Nella sua concezione invece la materia – coincidendo con la causalità – nasce soltanto all’interno della rappresentazione. La forma a priori della causalità coincide invece con l’intelletto, inteso – ancora una volta – in modo assai diverso da Kant. Per il filosofo di Königsberg esso è la facoltà del giudizio, cioè della conoscenza mediata, nella quale le rappresentazioni immediate (intuizioni) vengono unificate in una «rappresentazione di rappresentazioni» (concetto). Per Schopenhauer, invece, l’intelletto opera intuitivamente, al pari della sensibilità: infatti la causalità, che è la specifica forma a priori dell’intelletto, non è una categoria in senso kantiano (cioè un concetto che unifica più intuizioni o più concetti), ma – come si è visto – la rappresentazione immediata della realtà come attività.

sensibilità e intelletto

Quali conseguenze comporta questo modo di concepire la sensibilità e l’intelletto? Per Schopenhauer conoscere non significa giudicare, come per Kant: la realtà viene colta intuitivamente nelle forme dello spazio, del tempo e della causalità. In tal modo, sensibilità e intelletto non sono più kantianamente opposti – come l’aspetto passivo e quello attivo della conoscenza – ma convergono in un’unica conoscenza immediata.

conoscere equivale a intuire la realtà

Se le rappresentazioni proprie della sensibilità e dell’intelletto hanno carattere immediato e intuitivo, quelle della ragione sono invece mediate, cioè 1. schopenhauer

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la ragione unifica le rappresentazioni e si esprime mediante giudizi

«rappresentazioni di rappresentazioni» o concetti. La ragione, quindi, svolge per Schopenhauer una funzione analoga a quella svolta per Kant dall’intelletto. Essa congiunge più rappresentazioni in un’unica rappresentazione, cioè «giudica». Poiché i concetti sono esprimibili soltanto attraverso parole, la ragione è anche la facoltà del linguaggio. Ragione e linguaggio sono le due facce della stessa medaglia: in molte lingue – nota Schopenhauer – esse sono espresse dalla medesima parola, corrispondente al greco logos, che vuol dire appunto «ragione» e «discorso».

la ragione è propria dell’uomo

Il linguaggio e la ragione costituiscono, secondo Schopenhauer, ciò che distingue gli uomini dagli altri esseri viventi, mentre l’intelletto – avendo ancora per oggetto semplici rappresentazioni immediate – appartiene anche agli animali. Oltre al linguaggio, la ragione è strettamente connessa: a) con la riflessione pratica, cioè con la capacità di orientare l’azione in base alle argomentazioni del pensiero riflesso; b) con la scienza, che è solita ricondurre il caso particolare alla legge naturale, cosa impossibile senza concetti che unifichino sotto di sé una pluralità di rappresentazioni subordinate.

3. Il mondo come volontà al di là della rappresentazione

Come si è detto, per Schopenhauer il mondo della rappresentazione è un velo illusorio che nasconde la vera realtà. Ma come si può attingere la cosa in sé che soggiace al mondo fenomenico? Certamente non attraverso la conoscenza intellettiva e razionale: essa infatti, essendo fondata sulle forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità, non può uscire dalla sfera della rappresentazione, e quindi del fenomeno. Se l’uomo non fosse altro che soggetto sottostante alle forme a priori del conoscere, non sarebbe mai possibile per lui pervenire al noùmeno. Ma così non è.

corpo-oggetto e corpo-volontà

Oltreché soggetto conoscente, infatti, l’uomo è anche un essere corporeo. Il corpo ha una duplice valenza. 1. Da un lato, esso è soltanto un oggetto tra gli oggetti, sebbene più immediato degli altri: in questo senso esso non sfugge alle leggi della rappresentazione e ricade pienamente nel mondo fenomenico. 2. D’altro lato, il corpo è anche espressione di volontà: in questo senso esso è la sede di una forza assolutamente irriducibile alla rappresentazione, una forza primigenia che non è un oggetto tra gli oggetti e che sfugge a ogni determinazione causale da parte delle altre cose. Attraverso l’esperienza corporea l’uomo può pertanto penetrare al di là del mondo della rappresentazione e pervenire alla cosa in sé, al fondamento noumenico che sta alla base di ogni manifestazione fenomenica della realtà. La cosa in sé – che Kant aveva dichiarato inconoscibile e che gli idealisti avevano eliminato come contraddittoria – è dunque volontà .

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IL MONDO COME RAPPRESENTAZIONE E COME VOLONTÀ dal mondo come rappresentazione

attraverso il

conosciuto attraverso le tre forme a priori

corpo

non in quanto ma in quanto sede oggetto tra gli oggetti dell’impulso a vivere

spazio tempo causalità

è possibile accedere al La «volontà di vivere» è l’essenza di tutte le cose

squarciando il «velo di Maya» e scoprendo che

mondo noumenico (o cosa in sé)

I caratteri fondamentali di questa volontà noumenica sono due. 1. La volontà è una. Se fosse fenomeno, essa si frantumerebbe in una pluralità di individui. Ma, poiché si trova al di là del mondo fenomenico, la volontà è per forza unica: la cosa in sé, infatti, non è determinata dalle forme a priori dello spazio e del tempo e, quindi, non sottostà al principio di individuazione. Se per assurdo un solo uomo riuscisse ad annientare completamente la volontà che è in lui, verrebbe soppressa la volontà in generale, e il mondo intero sparirebbe. 2. La volontà è irrazionale. Come abbiamo visto, la ragione è la facoltà dei concetti, in quanto opera la sintesi delle rappresentazioni immediate della sensibilità o dell’intelletto: in tal senso, essa appartiene al mondo della rappresentazione, del quale è l’espressione più alta. Essendo al di là del mondo fenomenico, dunque, la volontà non può essere oggetto della ragione. Al contrario, essa si presenta come un’aspirazione senza fine e senza scopo, un tendere che non conduce a nessun ordine e a nessuna acquisizione definitiva. In altre parole, essa è una forza cieca e inconscia, puro istinto, pura «volontà di vivere (in tedesco: Wille zum Leben)» [t1].

le caratteristiche della volontà di vivere

Se da un lato il mondo è rappresentazione (o fenomeno), dall’altro esso è l’oggettivazione della volontà (o cosa in sé). La volontà infinita, infatti, si oggettiva – cioè si realizza – in una serie progressiva di gradi. Al livello più basso vi sono le forze stesse della natura: la gravità, l’impenetrabilità, la solidità, la

le oggettivazioni della volontà

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fluidità, l’elettricità, il magnetismo, le proprietà chimiche e tutte le altre proprietà delle cose. Queste forze non possono però essere considerate come entità fisiche connesse da rapporti causali, come fa generalmente la scienza: al contrario, esse sono forze metafisiche che agiscono indipendentemente dalla legge di causalità, valida solo nel mondo dei fenomeni. Nei successivi gradi della vita animale e vegetale la volontà si oggettiva nelle diverse specie, con tutte le caratteristiche e tutte le forme di impulso vitale che sono a esse proprie. L’ultimo grado di oggettivazione è quello in cui la volontà si realizza nei singoli individui umani: ciascuno di essi appare fornito di uno specifico volere che – sul piano fenomenico – si esprime come volontà razionale . tra la volontà e il mondo della rappresentazione

Tra il mondo fenomenico costituito da una pluralità di individui e la cosa in sé (il puro Wille zum Leben) vi sono tuttavia altre oggettivazioni della volontà che si sottraggono ai rapporti di spazio, tempo e causalità, e quindi anche al principio di individuazione. Secondo Schopenhauer, esse sono paragonabili alle idee di Platone, in quanto al pari di esse costituiscono i modelli universali a cui si conforma la realtà. In altri termini, il mondo fenomenico non è che una pallida immagine e una illusoria moltiplicazione di queste idee. D’altra parte, le idee stesse – a differenza di quanto afferma Platone – non sono ancora la realtà vera, cioè la volontà infinita, ma soltanto il termine intermedio tra quest’ultima e il mondo fenomenico. La dottrina platonica delle idee e quella kantiana della distinzione tra fenomeno e noùmeno convergono quindi, secondo Schopenhauer, verso un’unica verità fondamentale: il mondo che noi conosciamo attraverso l’esperienza sensibile e la conoscenza intellettuale è pura illusione e ci rimanda necessariamente a qualche cosa che sta al di là di esso.

l’irrazionalità dietro alla storia e alle istituzioni sociali

La concezione della cosa in sé come volontà conduce Schopenhauer a un radicale pessimismo . Poiché la volontà è irrazionale, ciò che noi consideriamo nel mondo ordine e armonia è soltanto illusione. L’ordine della società civile e politica non è che il fragile rivestimento di un coacervo di pulsioni e di egoismi, che non tardano a manifestarsi con effetti dirompenti appena venga meno la forza coercitiva che li trattiene. La storia, lungi dall’essere quella progressiva esplicazione del razionale che appariva a Hegel, è una sequela di irrazionalità e di follie. La stessa ragione – nella quale il pensiero illuministico aveva visto lo strumento della trasformazione del mondo – spesso non è che il mezzo per giustificare, dando loro un’apparenza logica, i ciechi impulsi e gli sfrenati egoismi degli uomini.

il «pendolo» che oscilla tra dolore e noia

Una più onesta considerazione della realtà vede a fondamento di essa un’aspirazione senza scopo che conduce a una eterna e inconsulta tensione, a un bisogno che non può mai trovare un soddisfacimento duraturo. La volontà – in quanto è desiderio di qualcosa che deve ancora essere raggiunto – è privazione, e quindi dolore e sofferenza. Ma quando l’oggetto della volontà viene conseguito, la soddisfazione non è che momentanea e si traduce subito in noia. Infatti, quando il bisogno si è placato, la vita – che non è altro che volontà – appare come svuotata di se stessa e priva di senso. Così l’esistenza è una penosa altalena tra due mali: la privazione e la noia [t2].

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Schopenhauer La volontà e le sue manifestazioni

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4. Le vie della liberazione dalla volontà Come abbiamo visto, l’oggettivazione della volontà nel mondo fenomenico è principio di sofferenza e di dolore. La liberazione da questi mali deve quindi necessariamente passare attraverso la negazione del mondo fenomenico, nel quale la nostra individualità è legata alla catena dei bisogni e delle soddisfazioni. Occorre pertanto attingere una forma di conoscenza che non obbedisca più al principio di individuazione e che, quindi, si sottragga alle forme a priori dello spazio, del tempo e della causalità. Schopenhauer individua tre forme di conoscenza non fenomenica, a cui corrispondono tre gradi di liberazione dai mali della volontà.

oltrepassare il mondo fenomenico

La prima forma di conoscenza non fenomenica è data dall’arte, che per Schopenhauer è conoscenza delle idee. Nell’esperienza artistica, infatti, il soggetto riesce a svincolare l’oggetto dalle condizioni spaziali, temporali e causali che lo individualizzano e a contemplarlo come una specie universale, come un’essenza, come l’immediata oggettità della volontà. L’artista appare, così, quale soggetto assoluto di una conoscenza pura, precedente al processo di fenomenizzazione. Anche le idee sono rappresentazioni, ma in esse l’elemento rappresentativo si riduce al fatto primario e universale del necessario rapporto tra soggetto e oggetto. In esse la relazione tra le due componenti della conoscenza non è più determinata dalle forme a priori. Nell’arte, tra soggetto e oggetto non vi è quindi alcuna mediazione, ma il secondo occupa interamente la coscienza del primo, oppure, il che è lo stesso, il primo si perde nel secondo. Naturalmente ciò comporta, da parte dell’artista, la capacità di negare anche la sua propria individualità, liberandosi di tutti gli interessi e di tutte le volontà particolari che lo legano alla determinatezza fenomenica: egli deve diventare un puro contemplatore disinteressato. Questa capacità di liberarsi dall’individualità per contemplare l’universale per tutto il tempo necessario alla realizzazione dell’opera d’arte, è ciò che contraddistingue il genio dall’uomo prosaico. L’arte, tuttavia, costituisce soltanto il primo gradino del processo di negazione della volontà da parte dell’individuo. Essa è pur sempre qualcosa di temporaneo, in quanto è legata al momento della contemplazione dell’idea, sia attraverso l’opera creatrice dell’artista, sia attraverso la fruizione dell’opera d’arte da parte dello spettatore.

l’arte e la contemplazione delle idee

Una più duratura liberazione dai mali della volontà può derivare dalla morale, la quale rappresenta – per così dire – la naturale continuazione dell’attività artistica. La virtù, infatti, nasce sempre da una forma di conoscenza. Attraverso la virtù, però, la conoscenza va al di là delle manifestazioni fenomeniche della volontà e attinge la vera natura della volontà stessa, rendendo l’uomo consapevole delle dolorose conseguenze cui essa porta. In altre parole, attraverso la virtù l’uomo giunge a comprendere la necessità di negare il proprio spontaneo consenso all’impulso della volontà di vivere. In tal senso, la conoscenza ottenuta grazie alla virtù costituisce un quietivo della volontà. Ma, per ottenere questo risultato, occorre estendere dal piano

la morale e la limitazione dell’egoismo

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conoscitivo a quello pratico quella sospensione del «principio di individuazione» che è già stata realizzata dalla contemplazione artistica. In questo modo, l’uomo non considererà più se stesso come un individuo contrapposto ad altri individui, cioè come espressione di bisogni e interessi che lo portano necessariamente a entrare in conflitto con il suo vicino. Al contrario, egli opererà in modo da ridurre a un’unica realtà il proprio io e quello degli altri, eliminando ogni conflittualità tra gli individui. Questo obiettivo viene conseguito in due tempi. 1. Dapprima, il soggetto si limita a non compiere azioni che possano ledere la volontà degli altri, attraverso il diritto. Quest’ultimo si realizza esteriormente nell’ambito dello Stato. 2. Successivamente, il soggetto supera la contrapposizione tra individui assumendo un atteggiamento caritatevole nei confronti del prossimo. In ciò consiste la compassione, che può nascere soltanto nella sfera dell’interiorità dell’uomo. l’ascesi

Si è detto che diritto e compassione negano la volontà, eliminando il conflitto tra uomo e uomo. Ma è soltanto la volontà individuale quella che entrambi possono negare. Un più alto grado del processo di liberazione dai mali della vita richiede invece una negazione della volontà di vivere in se stessa. A questo scopo è finalizzata l’ ascesi , intesa come sistematica mortificazione dei bisogni della vita sensibile – primariamente dell’impulso sessuale. L’ideale a cui ogni procedura ascetica deve tendere è la completa negazione della volontà ovvero – il che è lo stesso – l’affermazione della nolontà, della non-volontà. L’esito finale del processo di negazione della volontà deve quindi condurre al nulla. Con questo termine, Schopenhauer non indica alcunché di positivo, come potrebbe essere l’estasi in cui il mistico perde se stesso ma ritrova la totalità del divino. Il nulla esprime esclusivamente la completa negazione della volontà di vivere, la quale reca con sé anche la negazione del mondo come oggettivazione di questa volontà.

5. Il nulla e la morte il nulla nella sapienza indiana

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Nella formulazione dei concetti di nulla e di nolontà Schopenhauer è stato fortemente influenzato dalla nozione di Nirvana, che è centrale nel pensiero delle Upanishad, i testi sacri della sapienza indiana. Tuttavia, nella concezione indiana il Nirvana appare ancora come qualcosa di positivo: un nullatutto in cui l’individuo si perde, risolvendo completamente in esso la sua specificità. In quanto tale, per Schopenhauer il Nirvana degli indiani è ancora un’illusione. Il nulla dev’essere qualcosa di assolutamente negativo, la pura e semplice «nolontà», senza alcun riempimento sostitutivo del vuoto a cui essa conduce. Per questa ragione Schopenhauer adduce come modello più appropriato le vite dei santi, che si sono completamente liberati dal condizionamento della volontà: 1. schopenhauer

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Su ciò non vi è dubbio: da una parte, il fenomeno della volontà, il mondo, non ha per essenza che dolore inconsolabile, e miseria infinita; dall’altra, con la volontà svanisce anche il mondo, e non ci resta dinanzi che il nulla. È bene, dunque, che si meditino la vita e gli atti dei santi; se non direttamente, il che ben di rado ci è concesso nella nostra esperienza personale, nell’immagine almeno che ne offrono la storia o l’arte (e specialmente quest’ultima, improntata da un suggello d’infallibile verità). Questo è, per noi, l’unico mezzo per dissipare la lugubre impressione del nulla; di quel nulla che si delinea quale meta finale in uno sfondo di là dalla santità e dalla virtù, e che temiamo come i fanciulli temono le tenebre. Meglio così, che non illudere il nostro terrore, come fanno gl’indiani, i quali si appagano di miti e di parole vuote di senso come ad esempio l’assorbimento nel Brahm, o il Nirvana dei buddisti. Lo riconosciamo francamente: per coloro che sono ancora animati dal volere, ciò che resta dopo la totale soppressione della volontà è il vero ed assoluto nulla. Ma viceversa, per coloro in cui la volontà si è convertita e soppressa, questo mondo così reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, questo, propriamente questo, è il nulla (Il mondo come volontà e rappresentazione, libro IV, § 71).

Ma nella tradizione cristiana il vuoto lasciato dalla negazione del mondo si riempie positivamente della comunione tra il santo e la divinità. Attraverso l’ascesi il misticismo cristiano giunge alla totale affermazione di Dio; quello di Schopenhauer è invece un misticismo ateo che rifiuta il mondo per giungere alla pura negatività . Ma in che modo l’uomo – almeno in quanto individuo – può veramente sperimentare il nulla? La sola speranza di raggiungerlo è data dalla morte, la quale «dissipa l’illusione che separa la coscienza individuale dall’universale» e dà la certezza della fine temporale dell’individuo. Paradossalmente, dunque, la morte costituisce l’unica nota di speranza nella pessimistica concezione schopenhaueriana della realtà.

la negazione del mondo per i cristiani e per schopenhauer

in poche... parole Le coordinate del pensiero di Schopenhauer sono molteplici: la dottrina platonica delle idee; la gnoseologia critica kantiana (riletta in termini soggettivisticoidealistici); la sapienza dell’antico Oriente (soprattutto quella indiana e buddista). Il punto di partenza della filosofia di Schopenhauer è dato dal concetto di rappresentazione e dalla con-

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Schopenhauer La negazione della volontà

trapposizione tra mondo fenomenico e «cosa in sé». Per il filosofo di Danzica il mondo nel quale viviamo e che cogliamo intuitivamente nelle dimensioni dello spazio, del tempo e della causalità è pura apparenza. Al di là di esso si dispiega il regno della volontà di vivere, che costituisce l’essenza noumenica di tutta la realtà ed è comune a tutti gli

esseri. L’uomo scopre la volontà di vivere grazie al corpo: quest’ultimo, infatti, non è solo un oggetto tra gli oggetti – inserito nel mondo della rappresentazione – ma anche espressione di volontà che si radica direttamente nel mondo noumenico. Le caratteristiche della volontà di vivere (Wille zum Leben) sono opposte a quelle del mondo fenomenico.

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Quest’ultimo è costituito da una pluralità di individui collocati nello spazio e nel tempo e collegati da rapporti di causa e di effetto; la volontà di vivere, invece, è unica, eterna, incausata e priva di scopo.

rappresentazione È il concetto fondamentale della dottrina della conoscenza di Schopenhauer. Costituisce il momento originario da cui scaturisce il rapporto reciproco di soggetto e oggetto, nessuno dei quali è precedente all’altro. La rappresentazione è prodotta dalle forme a priori della conoscenza: da un lato lo spazio e il tempo, che si riferiscono alla sensibilità, dall’altro la causalità, che è la forma a priori dell’intelletto. Spazio, tempo e causalità sono forme dell’intuizione: infatti, a differenza di Kant, anche l’intelletto per Schopenhauer ha carattere intuitivo. Il fenomeno viene quindi immediatamente intuito non solo nello spazio e nel tempo, ma anche in una rete causale. Dalla convergenza di questi elementi nasce il «principio di individuazione», in base al quale il fenomeno si presenta come un individuo tra i tanti, che interagisce causalmente con gli altri individui nel conflitto della vita. apparenza Dal latino apparentia, corrispondente al greco phainòmenon. Il significato di questo termine può avere una connotazione negativa, quando indica ciò che vela e nasconde la realtà vera; una connotazione positiva, quando definisce la realtà stessa nel suo manifestarsi. Nel pensiero moderno prevale nettamente la seconda alternativa, con la difesa kantiana del fenomeno come unico oggetto di conoscenza possibile. L’opposizione della vera realtà (intelligibile o intuibile) all’apparenza (sensibile) attraversa l’intera tradizione idealistica, trovando la più radicale espressione in Hegel che – in base al principio dell’identità tra reale e razionale – confina nel mondo del12

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l’apparenza tutto ciò che è accidentale, cioè non riconducibile alla razionalità dialettica. Schopenhauer riafferma con forza la concezione del mondo come apparenza che nasconde la realtà noumenica, costituita da un’unica volontà irrazionale.

volontà Per Schopenhauer la volontà è innanzitutto quella individuale, che si manifesta fenomenicamente nelle azioni e negli impulsi. In quanto tale essa coincide con il «carattere». Ma il carattere non è che la manifestazione fenomenica di una volontà noumenica, che costituisce la vera essenza della realtà e si manifesta non solo nella volontà umana, ma anche negli animali e negli altri esseri (per esempio attraverso gli impulsi elettrici, le proprietà magnetiche, ecc.). Non essendo condizionata dal principio di individuazione, la volontà è unica, poiché non si rifrange nella pluralità degli individui, e irrazionale, perché non soggiace all’ordine delle connessioni causali. La volontà noumenica sfugge a qualsiasi rappresentazione, in quanto, non facendo parte del fenomeno, non può essere colta dalle forme a priori della conoscenza. L’uomo può pertanto pervenire a essa soltanto attraverso il suo corpo, quale oggettivazione diretta della volontà nel mondo fenomenico, con i suoi istinti e i suoi impulsi. Secondo Schopenhauer, volere equivale a soffrire. «Ogni volere scaturisce da bisogno, ossia da mancanza, ossia da sofferenza. A questa dà fine l’appagamento; tuttavia, per un desiderio che venga appagato, ne rimangono almeno dieci insoddisfatti; inoltre, la brama dura a lungo, le esigenze vanno all’infinito; l’appagamento è breve e misurato con mano avara [...]. Quindi finché la nostra coscienza è riempita dalla nostra volontà; finché siamo abbandonati alla spinta dei

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desideri, col suo perenne sperare e temere; finché siamo soggetti del volere, non ci è concessa durevole felicità né riposo» (Il mondo come volontà e rappresentazione, § 38). Secondo questa prospettiva, la felicità non corrisponde mai ad uno stato di pienezza e di positiva soddisfazione, ma è soltanto una provvisoria mancanza di dolore. Il solo modo per sfuggire alla sofferenza consiste nel limitare la volontà di vivere. Secondo Schopenhauer, tre sono le stra-de percorribili: 1) l’arte, che in quanto conoscenza disinteressata si solleva al di sopra del principio di individuazione, consente al soggetto di distrarsi – seppure provvisoriamente – dalla volontà e dai dolori che essa comporta; 2) la morale, negando lo spontaneo impulso all’egoismo individuale, induce a riconoscere l’unica e comune radice della brama di vivere e promuove la carità nei confronti del prossimo; 3) l’ascesi.

pessimismo La filosofia di Scho-

penhauer è radicalmente pessimista: da questo punto di vista essa si contrappone all’ottimismo sociale degli illuministi e all’ottimismo storico di matrice hegeliana. Secondo il filosofo di Danzica, la società civile e politica non è il frutto della naturale bontà e socievolezza dell’uomo, bensì il fragile rivestimento di conflitti egoistici e di bisogni utilitari. Essa ha una natura puramente convenzionale e serve a controllare gli istinti aggressivi degli individui, altrimenti destinati alla sopraffazione totale. La storia – anziché essere la progressiva manifestazione dello Spirito (come aveva sostenuto Hegel) o della Ragione (come auspicavano gli stessi illuministi, promotori del continuo progresso dell’umanità) – non è altro che una sequela di irrazionalità e di follie. Da questo punto di vista gli uomini – pur di volta in volta diversi a seconda delle epoche storiche – sono an-

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che sempre uguali a se stessi, essendo caratterizzati da un insieme di tratti essenziali: nascita, sofferenza, conflitto, morte. Nelle tre forme dell’arte, della morale e dell’ascesi l’individuo può cercare di negare il mondo, sopprimendo così la brama di vivere che avverte dentro di sé. La soluzione alle innumerevoli sofferenze che essa comporta è, tuttavia, rappresentata solo dalla morte, il nulla al quale

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l’individuo in vita può soltanto aspirare, ma mai raggiungere pienamente.

ascesi Dal greco àskesis, «esercizio». Originariamente designava qualsiasi forma di addestramento; passò poi a indicare l’esercizio consistente nella limitazione e rinuncia dei desideri (in particolare di quelli corporei). In Schopenhauer esprime il processo – insie-

me conoscitivo e pratico – con cui si giunge a negare la volontà irrazionale che sta alla base dell’universo. A differenza dell’ascesi cristiana che porta all’unione estatica con Dio, quella suggerita da Schopenhauer conduce alla liberazione dalla volontà di vivere – a partire dalle sue molteplici oggettivazioni – fino alla perdita di sé nel puro nulla.

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i testi t1 Schopenhauer / Volontà e coscienza Schopenhauer

Il mondo come volontà e rappresentazione

libro II, § 23

Il II e il IV libro del Mondo sono entrambi dedicati al «Mondo come volontà» (mentre il primo e il terzo riguardano il «Mondo come rappresentazione»). Il secondo libro, in particolare, concerne il problema dell’oggettivazione della volontà, descrivendo i diversi gradi attraverso i quali quest’ultima realizza se stessa. La più specifica di queste oggettivazioni è data dai corpi dei singoli individui. Il corpo diventa pertanto la porta attraverso la quale l’uomo, abbandonando il piano della rappresentazione, può rientrare nel mondo della volontà e coglierne l’intima essenza noumenica. Nel § 23, di cui qui si riporta un brano, Schopenhauer mostra come la stessa volontà di vivere che determina le azioni consapevoli dell’uomo stia alla base non solo dei suoi atti fisiologici, ma, discendendo progressivamente la scala degli esseri, anche di tutte le manifestazioni del mondo animale, dalle attività che sembrano connesse a una rappresentazione a quelle che esprimono semplici processi biologici. In questo modo le più alte manifestazioni spirituali dell’uomo, come la rappresentazione e il pensiero, vengono implicitamente assimilate alle più basse espressioni della vita animale nella comune derivazione da una radice inconsapevole.

Finora furon considerati fenomeni della volontà solo quelle modificazioni, le quali non hanno altra causa che un motivo, ossia una rappresentazione. Perciò in tutta la natura si attribuiva una volontà soltanto all’uomo, e tutt’al più agli animali; perché il conoscere, il rappresentare, come ho già notato altrove, è la genuina ed esclusiva caratteristica dell’umanità. Ma che la volontà agisca anche là dove nessuna conoscenza la guida, vediamo subito dall’istinto e dalle tendenze meccaniche degli animali1. Che essi abbiano rappresentazioni e conoscenza, non è cosa che ora ci riguardi; imperocché lo scopo, al quale essi dirigono la loro azione quasi fosse un motivo conosciuto, rimane ad essi del tutto ignoto. Perciò il loro agire avvie1. Finora Schopenhauer ha mostrato

come le rappresentazioni e le azioni consapevoli dell’uomo siano il prodotto della inconsapevole volontà di vivere che agisce nell’uomo attraverso il corpo. Ora egli radicalizza la sua tesi ponendo questa stessa volontà inconscia alla base di tutte le manifestazioni della vita, anche le più basse. In questo modo egli intende mostrare che non c’è

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ne in quel caso senza motivo, non è guidato dalla rappresentazione, e ci mostra immediatamente e chiarissimamente, che la volontà agisce anche senz’alcuna conoscenza2. L’uccello di un anno non ha nessuna rappresentazione delle uova, per le quali costruisce un nido; un giovine ragno non ne ha della preda, per la quale tesse una rete; non il formicaleone della formica, a cui per la prima volta scava una fossa; la larva del cervo volante fora il legno, dove vuol compiere la sua metamorfosi; e quando essa vuol diventare un insetto mascolino, il foro è doppio di quando vuol diventare femmina, per dar posto alle corna, delle quali non ha ancor nessuna rappresentazione. In tali atti di codesti animali è pur palesemente in gioco la

alcuna connessione tra la volontà (intesa come volontà noumenica) e la coscienza, ma che tutte le attività fenomeniche, siano esse coscienti o inconsapevoli, hanno come unica matrice una volontà priva di coscienza. In altri termini la stessa coscienza è una manifestazione fenomenica di una forza cieca e inconsapevole, al pari della produzione del guscio di una chiocciola.

1. schopenhauer

2. Che gli effetti della volontà abbiano le caratteristiche della coscienza o che consistano in manifestazioni puramente biologiche non ha nessuna importanza, poiché anche ciò che appare come coscienza è semplicemente la conseguenza di un impulso inconsapevole.

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volontà, come nelle altre loro azioni; ma essa agisce in un’attività cieca, la quale è bensì accompagnata dalla conoscenza, ma non ne è guidata. Ora, se ci siamo persuasi che la rappresentazione, come motivo, non è punto necessaria ed essenziale condizione dell’attività del volere, conosceremo più facilmente l’effetto della volontà in casi dov’è meno appariscente3. Per esempio, non attribuiremo il guscio della chiocciola ad una volontà guidata da conoscenza, ma estranea alla chiocciola stessa, come non pensiamo che la casa da noi stessi costruita sorga per effetto d’una volontà che non sia la nostra; ma questa casa e la casa della chiocciola conosceremo quali opere della volontà, oggettivantesi in entrambi i fenomeni; volontà che opera in noi secondo motivi, e nella chiocciola ciecamente, come un impulso costruttivo rivolto al di fuori. Anche in noi la stessa volontà agisce in vari modi ciecamente: in tutte le funzioni del nostro corpo, che nessuna conoscenza guida, in tutti i suoi processi vitali 3. In altri termini: non già la rappre-

sentazione cosciente è condizione della

e vegetativi, digestione, circolazione del sangue, secrezione, sviluppo, riproduzione. Non solo le azioni del corpo, ma il corpo medesimo è in tutto e per tutto, come abbiamo mostrato, fenomeno della volontà, volontà oggettivata, volontà concreta: tutto ciò, che in esso accade, deve quindi accadere per effetto di volontà; sebbene qui codesta volontà non sia diretta dalla conoscenza, né determinata da motivi, ma agisca ciecamente in seguito a cause che in tal caso prendono il nome di stimoli.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo le considerazioni in base alle quali Schopenhauer conclude che la volontà non è solo caratteristica dell’uomo, ma pervade tutto l’universo. 2. Che rapporto c’è tra rappresentazione e volere? 3. Dove ha sede la volontà nell’uomo?

volontà, ma al contrario la volontà (inconscia) è la condizione della rappre-

sentazione cosciente, come di qualsiasi altra manifestazione della vita.

t2 Schopenhauer / La vita è sofferenza o noia Schopenhauer

Il mondo come volontà e rappresentazione

libro IV, §§ 57-58

Nel IV libro del Mondo, Schopenhauer descrive la dinamica della volontà di vivere, comune a tutti gli esseri viventi. Volere equivale a provare un senso di mancanza e di tensione che si risolve solo per mezzo dell’appagamento del bisogno. Schopenhauer definisce la felicità in termini negativi come momentanea eliminazione dello stato di privazione che la precede. Ciò implica che essa non sia originaria e che dipenda sempre dalla soddisfazione di un desiderio antecedente. Secondo Schopenhauer, la vita di ogni essere oscilla «come un pendolo» tra il dolore – provato perché avverte la mancanza di qualcosa – e la noia – dovuta al raggiungimento dell’obiettivo e alla perdita di stimoli che ne consegue. Ben presto, tuttavia, la volontà di vivere riprenderà nuovamente il sopravvento e la noia lascerà il posto a nuovi bisogni.

Già nella natura incosciente, constatammo che la sua essenza è una costante aspirazione senza scopo e senza posa; nel bruto e nell’uomo, questa verità si rende manifesta in modo ancor

più eloquente. Volere e aspirare, questa è la loro essenza, una sete inestinguibile. Ogni volere si fonda su di un bisogno, su di una mancanza, su di un dolore: quindi è in origine e per esi testi

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senza votato al dolore1. Ma supponiamo per un momento che alla volontà venisse a mancare un oggetto, che una troppo facile soddisfazione venisse a spegnere ogni motivo di desiderio: subito la volontà cadrebbe nel vuoto spaventoso della noia: la sua esistenza, la sua essenza, le diverrebbero un peso insopportabile. Dunque la sua vita oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia, suoi due costitutivi essenziali. Donde lo stranissimo fatto, che gli uomini, dopo ricacciati nell’inferno dolori e supplizi, non trovarono che restasse, per il cielo, niente all’infuori della noia2. [...] La soddisfazione o, come si dice ordinariamente, la felicità, è per natura essenzialmente negativa, senza nulla di positivo. La felicità non è mai originaria, né ci viene spontaneamente; ma si deve sempre alla soddisfazione di un desiderio. Il desiderio, la privazione, sono infatti condizioni preliminari di ogni gioia. Ma con la soddisfazione cessa il desiderio, e quindi anche la gioia. Dunque, la soddisfazione, la felicità, si riducono in fondo alla liberazione da un dolore e da un bisogno. (Intendendo sotto questo nome non soltanto le sofferenze reali o sensibili ma ogni specie di desiderio che turbi la nostra quiete, e la stessa noia mortale che rende la vita un peso.) Conquistare un bene qualsiasi è ben difficile; ad ogni progetto si oppongono difficoltà senza numero; gli ostacoli si centuplicano ad ogni passo. E quando infine, superati gli inciampi, siamo giunti al fine desiderato, che guadagno abbiam fatto? Nessuno: siamo riusciti semplicemente a liberarci da un dolore, da un desiderio; ci ritroviamo, insomma, nello stato di prima. Il dato primitivo è il bisogno, cioè il dolore. Della soddisfazione, 1. La volontà esprime un bisogno, una mancanza: ma mancare di qualcosa significa soffrire. Inoltre, anche quando tale bisogno sia soddisfatto, ne sorge subito un altro, altrettanto imperioso, poiché la volontà, come già sappiamo, è aspirazione infinita. Quindi, volere è soffrire. 2. La volontà comporta sempre la sofferenza per la mancanza dell’oggetto voluto. In questa argomentazione contro la volontà Schopenhauer osserva

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della gioia, non abbiamo che una conoscenza indiretta, che si deve al ricordo delle antecedenti sofferenze, delle privazioni da cui fummo liberati. Perciò, dei beni e dei vantaggi attualmente posseduti, non sappiamo né renderci un conto preciso né fare un’esatta valutazione; le cose, ci sembra, non potrebbero andare diversamente; infatti, la felicità che quei beni ci danno, è negativa: ci tien lontani dal dolore. Non possiamo sentire il valore dei beni, che dopo averli perduti; la mancanza, la privazione, la sofferenza, sono i soli elementi positivi che si facciano sentire direttamente. Questa è anche la ragione che ci rende così dolce il ricordo di mali superati, ad esempio angustie, malattie, povertà, ecc.; non abbiamo infatti altro mezzo per gustare i beni presenti3. [...] Essendo la felicità negativa, senza niente di positivo, la soddisfazione, l’appagamento non possono durare a lungo: non fanno che liberarci da un dolore o da una privazione, a cui seguiranno di certo un’altra nuova sofferenza, o il languore, un’aspirazione senza oggetto, la noia.

GUIDA ALLA LETTURA 1. La vita dell’uomo, dice Schopenhauer, «oscilla, come un pendolo, fra il dolore e la noia». Evidenzia sul testo le espressioni che definiscono i concetti di «dolore» e «noia». 2. In che senso, secondo Schopenhauer, la felicità è per sua essenza negativa? 3. Qual è, per Schopenhauer, l’unico modo in cui riusciamo ad apprezzare il valore dei beni?

che, anche quando la volontà si acquietasse nell’acquisizione dell’oggetto voluto, il risultato non sarebbe il benessere, ma soltanto la noia, poiché, venendo meno lo stimolo della volontà, verrebbe a mancare anche l’interesse per la vita. Quindi: se si vive (e si vuole) intensamente, si soffre; se si rinuncia all’intensità della vita (e della volontà), ci si annoia. 3. Posto che per l’uomo l’alternativa è quella tra la sofferenza (per un bisogno

1. schopenhauer

innapagato) e la noia (conseguente all’appagamento del bisogno), non è mai possibile – ed è questo l’argomento conclusivo contro la volontà – godere di una vera felicità. Ciò che chiamiamo felicità è soltanto una condizione negativa, cioè la momentanea assenza di un dolore o di una noia (la quale è anch’essa una forma di sofferenza) che ci affliggano positivamente.

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esercizi/1 CHE COSA SO?

9. In che modo l’uomo può pervenire alla «cosa in sé»?

Guida allo studio del manuale

10. Quali sono i gradi di oggettivazione della volontà?

1. Evidenzia le correzioni che Schopenhauer apporta alla distinzione tra «fenomeno» e «noùmeno» fatta da Kant e la conclusione che ne ricava. 2. Evidenzia le forme a priori individuate da Schopenhauer. 3. Evidenzia che cosa distingue gli uomini dagli altri esseri viventi. 4. Evidenzia le caratteristiche della volontà di vivere. 5. Evidenzia le influenze platoniche sul pensiero di Schopenhauer.

11. Qual è la critica che Schopenhauer rivolge all’ottimismo storico di Hegel? E agli illuministi? 12. In che modo la morale può aiutare l’uomo a liberarsi dalla soggezione alla volontà di vivere? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 13. Perché Schopenhauer rifiuta la concezione kantiana del «noùmeno» come limite invalicabile della conoscenza?

6. Evidenzia le influenze esercitate dalla sapienza indiana sul pensiero di Schopenhauer.

14. Che differenza c’è tra la concezione kantiana e quella schopenhaueriana della sensibilità e dell’intelletto?

Dizionario filosofico

15. Perché, secondo Schopenhauer, l’esistenza può essere solo «dolore»?

7. Definisci i seguenti concetti: realismo • idealismo • velo di Maya • principio di individuazione • nolontà • nulla

CHE COSA HO CAPITO?

16. In che cosa consiste la virtù, secondo Schopenhauer, e quali sono le forme in cui si realizza? 17. Perché il Nirvana non costituisce ancora una negazione abbastanza radicale della volontà?

Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 8. Che differenza c’è tra la nozione kantiana e quella schopenhaueriana di «intelletto»?

esercizi/1

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tempo – e recuperando una condizione di eccezionalità che non ha più carattere estetico ma religioso (il modello è Abramo, disposto a sacrificare Isacco per volere di Dio). la tragedia dell’esistenza

2. KIERKEGAARD i contenuti

modo venivano rifiutate – come inadatte a cogliere la vera realtà – le categorie fondamentali del pensiero hegeliano: universalità e necessità.

la polemica contro hegel

i tre stadi della vita

La polemica contro Hegel è alimentata a Copenaghen da Kierkegaard, che può essere considerato l’iniziatore dell’esistenzialismo contemporaneo. Egli introduce una netta distinzione tra il piano dell’essenza, che è oggetto del pensiero logico ed è caratterizzata dalla necessità, e il piano dell’esistenza, che può essere colta soltanto da un «pensiero soggettivo» e si risolve nella categoria della possibilità. L’esistenza, infatti, non ha mai carattere universale, ma riguarda sempre il singolo, nella sua irriducibile specificità. In questo

In quanto possibilità, l’esistenza umana si apre a tre alternative o stadi della vita, dotati di valore differente. 1) Nello stadio estetico l’individuo vive nell’immediatezza dell’istante e gode della sua irripetibile eccezionalità (il modello è il Don Giovanni di Mozart). 2) Nello stadio etico l’individuo riconferma con una «scelta» – che è anche una continua ripetizione – la sua adesione a princìpi morali universali (il modello è la figura del marito). 3) Nello stadio religioso l’uomo si affida al rapporto esclusivo con Dio, scegliendo di vivere nel «momento» – inteso come irruzione dell’eternità nel

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2. kierkegaard

La concezione della vita di Kierkegaard è tragica. L’indeterminatezza delle possibilità – in cui consiste l’esistenza dell’uomo – lo porta alla «vertigine» dell’angoscia e alla disperazione. Angoscia e disperazione possono avere come solo esito positivo la fede, che è un salto qualitativo attraverso cui l’uomo si aggrappa a Dio. Essendo il prodotto di un salto senza mediazioni, la fede non può essere giustificata da argomentazioni razionali, ma è effetto del paradosso per cui si accetta ciò che apparentemente è assurdo.

gli strumenti in poche… parole esistenza / possibilità / angoscia / disperazione

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

i testi a. nel manuale t3 Kierkegaard/Esistenza contro essenza t4 Kierkegaard/L’angoscia

b. on-line Kierkegaard/Il paradosso della fede: Abramo

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1. Vita e opere Søren Kierkegaard nasce a Copenaghen nel 1813 da una famiglia dominata dalla severità religiosa del padre, già anziano. Studia teologia all’università della città natale, protraendo gli studi per un decennio, in cui conduce una vita piuttosto disordinata. Soltanto dopo la morte del padre si impegna seriamente nello studio, riuscendo a conseguire la licenza in teologia nel 1840. L’anno successivo ottiene il titolo di magister artium con la dissertazione Sul concetto di ironia con costante riferimento a Socrate.

gli studi teologici a copenaghen

Sempre nel 1841, per motivi religiosi rompe il fidanzamento, durato un anno, con Regina Olsen, che continuerà tuttavia a rimpiangere. Sciolti i legami sentimentali, si reca a Berlino nel 1841-42 per ascoltare Schelling, dalla cui «filosofia positiva» si attende molto. Ma l’entusiasmo iniziale si tramuta presto in una delusione: anche la «filosofia della rivelazione» gli appare troppo speculativa e troppo lontana dalla concretezza dell’esistenza. Tornato a Copenaghen – grazie alla rendita lasciatagli dal padre – può dedicarsi completamente agli studi e alla pubblicazione dei suoi libri. A Copenaghen Kierkegaard rimarrà fino alla morte, avvenuta nel 1855, a soli quarantadue anni. Di quest’ultimo periodo della sua vita gli unici avvenimenti degni di nota sono la polemica diretta contro di lui dal periodico satirico «Il corsaro» e quella da lui stesso condotta contro la Chiesa ufficiale danese, accusata di tradire il vero spirito del cristianesimo.

parentesi berlinese e rientro nella città natale

Le opere di Kierkegaard possono essere divise in due gruppi. Il primo raccoglie gli scritti espressamente religiosi, soprattutto i Discorsi edificanti, che egli continua regolarmente a pubblicare su diversi temi. Il secondo gruppo comprende, invece, le vere e proprie opere filosofiche, quasi tutte pubblicate con uno pseudonimo diverso. Ciò testimonia, da un lato, la volontà di Kierkegaard di prendere le distanze da esse; dall’altro, l’intenzione di sottolineare il carattere soggettivo della filosofia. Tra queste, oltre alla già ricordata tesi di laurea, vanno annoverate: Aut-aut, di cui fa parte il Diario di un seduttore (1843); Timore e tremore (1843); La ripetizione (1843); Briciole filosofiche, o una filosofia in briciole (1844); Il concetto dell’angoscia (1844); Stadi nel cammino della vita (1845); Postilla conclusiva non scientifica (1846); La malattia mortale (1849). Molto importanti sono anche il Diario – che Kierkegaard tenne dal 1834 fino alla morte, e che fu pubblicato postumo – e le cosiddette Carte, ossia gli appunti e i riassunti lasciati inediti.

scritti religiosi e opere filosofiche

Alcune sue opere hanno carattere letterario, altre sono più specificamente filosofiche. Le une e le altre sono, comunque, accomunate dal rifiuto di costruire un sistema filosofico: al contrario, esse presentano un andamento più discorsivo, a volte un po’ rapsodico, in base alla convinzione che la filosofia si possa fare – ed esporre – solo in «briciole».

un pensiero asistematico

2. kierkegaard

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2. La polemica con l’idealismo hegeliano «io stupido hegeliano!»

il primato dell’esistenza sull’essenza

il primato della singolarità sull’universalità

l’ironia e l’infinita soggettività dell’uomo

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«Io stupido hegeliano»: con questa espressione, contenuta nelle Carte, Kierkegaard rimprovera a se stesso la sua breve adesione iniziale – ancora studente – alla filosofia di Hegel: adesione che è stata del resto fortemente ridimensionata da recenti studi. In ogni caso, l’idealismo razionalistico di Hegel appare ben presto a Kierkegaard l’espressione filosofica più contraria alle proprie istanze intellettuali. Il punto di maggiore contrasto con Hegel riguarda il concetto di esistenza . L’oggetto della speculazione hegeliana era infatti l’essenza delle cose, e più precisamente la loro essenza razionale. L’esistenza veniva considerata soltanto in quanto inclusa nell’essenza stessa, cioè in quanto realtà razionale. Al di fuori di questo rapporto con l’essenza razionale, l’esistenza era per Hegel pura accidentalità e – come tale – sfuggiva all’analisi concettuale della filosofia. Già Kant – che viene espressamente invocato da Kierkegaard – aveva invece osservato che l’esistenza è una «posizione assoluta», del tutto indipendente dal concetto della cosa cui si riferisce. Ad esempio, io posso avere una perfetta conoscenza del concetto di cento talleri, senza che questa somma esista effettivamente. Analogamente, Kierkegaard sostiene nel Diario che l’esistenza è altra cosa rispetto all’essenza concettuale: «esistere» viene da ex-sistere, cioè «stare fuori» dal concetto. L’esistenza non è quindi posta dal pensiero insieme all’essenza delle cose, ma è data indipendentemente dall’attività speculativa dell’uomo [t3]. In altri termini il pensiero può riflettere su di essa, non già determinarla e porla in atto. Occupandosi soltanto delle essenze, la filosofia hegeliana aveva per oggetto l’universale. Considerando invece l’esistenza in quanto diversa dall’essenza, Kierkegaard incentra la sua attenzione su ciò che universale non è, cioè sul particolare e sull’individuale. L’esistenza, infatti, non appartiene ai concetti universali, che sono soltanto entità logiche, ma all’individuo nella sua specifica concretezza o – come Kierkegaard preferisce dire – al singolo. Riutilizzando una terminologia aristotelica, egli osserva che a Hegel interessano soltanto i «generi»: non i singoli uomini, ma il genere «uomo». Per Kierkegaard, invece, l’esistenza spetta in senso proprio solo all’individuo. Del resto, la realtà ultima dell’individuo è anche il cuore dell’insegnamento del cristianesimo, che non si rivolge mai all’uomo in generale, ma sempre al singolo uomo, con il suo specifico e particolarissimo rapporto con Dio. La filosofia di Hegel – insensibile alla specificità delle determinazioni individuali – era pertanto essenzialmente anti-cristiana e soltanto una surrettizia operazione concettuale ha potuto far credere il contrario. Interessato soltanto alle essenze universali delle cose, Hegel è il filosofo dell’Assoluto, del quale la soggettività non è che un aspetto parziale e incompiuto. Per Kierkegaard, invece, è impossibile porsi dal punto di vista dell’Assoluto: per quanti sforzi faccia, l’uomo non esce mai – in quanto singolo – dalla sua soggettività. Ciò non impedisce, tuttavia, come Kierkegaard sostiene sin dalla sua tesi di laurea sul Concetto di ironia, che la stessa sogget2. kierkegaard

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tività assuma un valore assoluto. L’ironia socratica – in quanto sapere di non sapere – è una soggettività essenzialmente negativa: anzi, essa esprime una «negatività infinita», perché è negazione di ogni determinazione specifica. Ma, nello stesso tempo, essa contiene in sé una possibilità positiva, cioè «l’infinitezza intera della soggettività»: infatti, la soggettività finita – negando ogni determinazione specifica – si apre nello stesso tempo a una soggettività infinita, cioè all’indeterminatezza dell’esistenza. Ponendosi dal punto di vista dell’Assoluto, Hegel si era proposto di comprendere filosoficamente la necessità dell’essere. Rinunciando a ogni assolutezza e considerando sempre l’esistenza dal punto di vista della soggettività del singolo, Kierkegaard non esce invece dalla sfera della possibilità . Le diverse determinazioni dell’esistenza umana – egli distingue, come vedremo subito, tre condizioni esistenziali fondamentali – costituiscono possibilità che l’uomo liberamente può scegliere o non scegliere. La stessa apertura del soggetto finito alla soggettività infinita – come si è appena visto – è soltanto una possibilità, e l’infinito stesso è inteso in termini di possibilità infinite. In ogni momento della sua vita l’uomo è chiamato a scegliere – o anche a scegliere di non scegliere – tra possibilità diverse. Questa totale apertura verso il possibile costituisce il carattere fondamentale dell’esistenza. Per questa sua definizione delle categorie di esistenza, possibilità e soggettività, Kierkegaard è stato considerato l’ispiratore dell’esistenzialismo contemporaneo [cfr. 10.2 e 15.2].

il primato della possibilità sulla necessità

3. Gli stadi della vita Negli Stadi nel cammino della vita, Kierkegaard distingue tre condizioni o possibilità esistenziali fondamentali, alle quali dà il nome di «stadi». Questi ultimi infatti possono essere considerati come momenti successivi dello sviluppo individuale, anche se – in contrasto con il carattere necessario del processo dialettico hegeliano – tra l’uno e l’altro non vi è nessuna forma di automatismo, bensì un «salto» che può essere colmato soltanto con la libera scelta del singolo.

le alternative esistenziali sono tre

Nella prima opera pubblicata dopo la tesi di laurea, Aut-aut, Kierkegaard delinea i primi due stadi. Lo stadio estetico è incarnato dalla figura del seduttore, che dedica la sua intera esistenza alla conquista dell’animo femminile per il puro piacere della conquista stessa. La vita estetica, infatti, è incentrata sul desiderio e sul godimento. L’esteta non esce dalla sfera della sensualità: per questo il personaggio che meglio lo rappresenta è il Don Giovanni di Mozart. Il seduttore vive nell’elemento dell’immediatezza: egli non compie mai una scelta definitiva, non si impegna mai in nulla, la sua filosofia è il motto oraziano del carpe diem. La vita dell’esteta è una successione ininterrotta di istanti indipendenti gli uni dagli altri: egli passa da un’esperienza all’altra senza che quella precedente lasci una traccia di sé su quella successiva, senza che la sua esistenza abbia una storia. L’unico elemento costante nella sua vita è la ricerca del nuovo e il rifiuto della ripeti-

lo stadio estetico

2. kierkegaard

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zione, considerata come fatale principio di noia. Il suo unico compito è la ricerca dell’eccezionalità, nell’esasperata volontà di diversificarsi da tutti gli altri individui e da tutte le proprie esperienze passate. la vita estetica porta alla disperazione

Proprio a causa dell’assenza di un punto unificatore dell’esistenza, l’esito finale dello stadio estetico è la disperazione, ovvero la presa di coscienza della assoluta vanità di ogni cosa. Anche la disperazione, tuttavia, può essere vissuta in due maniere diverse. 1. Essa può venire considerata come una forma estremamente raffinata di divertimento, che consiste nel non prendere mai nulla sul serio e nel godere della mancanza di senso di ogni cosa: in questo caso non si esce dalla sfera estetica. 2. La disperazione – se autentica – può però anche mostrare all’esteta la vanità delle sue esperienze e spingerlo a compiere il salto verso un genere di vita superiore – lo stadio etico – retto da princìpi completamente diversi. Tra i due stadi, comunque, non c’è alcuna forma di mediazione. Il passaggio dalla disperazione finita (estetica) alla disperazione infinita (etica) è un «salto» che può essere compiuto solo in base alla libera scelta del singolo.

lo stadio etico

Lo stadio etico trova la sua migliore rappresentazione nella figura del marito o – più in generale – nel personaggio del Consigliere di Stato Guglielmo, la cui esistenza è definita dalle sfere del matrimonio, della famiglia, della professione, della fedeltà allo Stato. Se l’esteta trapassa di istante in istante senza impegnarsi mai in nulla, la vita dell’uomo etico è invece contrassegnata dalla scelta. In primo luogo, egli compie la scelta fondamentale tra bene e male; in secondo luogo, egli conferma in ogni istante ciò che ha già scelto per sempre – una certa sposa, una certa professione, ecc. L’uomo etico – a differenza dell’esteta – ama dunque la ripetizione, vedendo in essa una continua riconferma della sua decisione iniziale. Se la vita dell’esteta si frantuma in una miriade di istanti privi di storia, quella dell’uomo etico si sviluppa nella continuità del tempo. All’esasperata ricerca dell’eccezionalità da parte dell’esteta egli contrappone la tranquilla universalità del dovere, di cui l’esistenza etica è una continua realizzazione. Ma per l’uomo etico il dovere non è un’imposizione esteriore (come sarebbe per l’esteta), bensì soltanto «il compito che si è a se stessi», ossia ciò che ciascuno ha deciso di diventare in virtù della sua libera scelta.

la vita etica porta al pentimento

Anche la vita etica, tuttavia, appare limitata. Se sceglie se stesso fino in fondo, l’individuo raggiunge la propria origine, cioè Dio. Ma poiché di fronte alla maestà di Dio l’unico sentimento che l’uomo può provare è quello della propria inadeguatezza morale, l’esito finale della vita etica è il pentimento. L’uomo etico viene così messo di fronte al peccato, che però non è più una categoria etica, bensì una determinazione religiosa. Con il pentimento, dunque, si esce dalla sfera dell’etica, per entrare in quella della religione. Anche in questo caso, il passaggio non è automatico, ma comporta un salto ancora più radicale di quello che divideva lo stadio etico da quello estetico.

lo stadio religioso

Lo stadio religioso è descritto in Timore e tremore, opera che già nel titolo esprime la natura dell’atteggiamento che l’uomo religioso deve avere nei

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confronti del divino. Nella sfera etica l’individuo vive nell’ambito dell’universale: ciò che è bene e ciò che è male, ciò che è dovere e ciò che è colpa, sono noti a tutti. Nella sfera della religione, invece, il «cavaliere della fede» è assolutamente solo: il suo unico rapporto è quello con Dio. La dimensione religiosa comporta una sospensione dell’etica, poiché essa si impernia esclusivamente sulla volontà di Dio, che può anche divergere dalle leggi dell’etica. La figura emblematica della condizione religiosa è Abramo, che per obbedire a Dio non esita a sacrificare l’unico figlio Isacco . Dal punto di vista morale, egli ha soltanto un dovere, quello di essere un buon padre: l’etica, dunque, lo condanna irrimediabilmente come un assassino. La giustificazione della sua intenzione di uccidere Isacco risiede tutta nella volontà di Dio, la quale si esprime esclusivamente nel rapporto interiore tra il «singolo» Abramo e la divinità. Nessuno lo può capire in base alle regole dell’etica, ed egli stesso non può essere certo di essere nel giusto: la fede è rischio e paradosso. In virtù di essa infatti il singolo – che per l’etica è subordinato all’universalità della legge – afferma la propria superiorità rispetto all’universale in nome del suo rapporto individuale con l’Assoluto:

abramo e i paradossi della fede

La morale è propriamente il generale e, in quanto generale, è ciò che vale per tutti. In altro senso si può dire che è ciò che è valido in ogni istante. [...] Quando l’individuo rivendica la sua individualità di fronte al generale, egli pecca, né può conciliarsi col generale se non riconoscendolo. [...] La fede è, appunto, il paradosso secondo il quale il singolo, come tale, al di sopra del generale, è in regola di fronte a questo, non come subordinato, ma come superiore; e nondimeno (si badi bene) in modo tale che il singolo, dopo essere stato come tale subordinato al generale, diventa allora, per mezzo del generale, il singolo come tale, superiore a quello; in modo che il singolo come tale è in rapporto assoluto con l’Assoluto. Questa posizione sfugge alla mediazione, che si effettua sempre in virtù del generale. Essa è e resta eternamente un paradosso inaccessibile al pensiero (Timore e tremore, Problema I).

GLI STADI DELLA VITA RELIGIOSO

rapporto con l’eternità

rischio/solitudine

paradosso della fede

con un salto dovuto alla libera scelta dell’uomo

ETICO

scelta/ripetizione

dovere/generalità

pentimento

con un salto dovuto alla libera scelta dell’uomo

ESTETICO

alef

immediatezza

Kierkegaard Il paradosso della fede: Abramo

eccezionalità

disperazione

2. kierkegaard

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4. Angoscia e disperazione angoscia e possibilità di scelta

Si è visto che la possibilità è la categoria fondamentale dell’esistenza. La condizione di insicurezza e di inquietudine connessa a questa categoria è l’oggetto dei due scritti che – accanto alle Briciole e alla Postilla – costituiscono il nucleo più propriamente filosofico del pensiero di Kierkegaard: Il concetto dell’angoscia (1844) e La malattia mortale (1849). L’ angoscia è la «vertigine» che scaturisce dalla possibilità della libertà. L’uomo sa di poter scegliere, sa di avere di fronte a sé la possibilità assoluta: ma è proprio l’indeterminatezza di questa situazione che lo angoscia. Egli acquista la coscienza che tutto è possibile: ma, quando tutto è possibile, è come se nulla fosse possibile. La possibilità non si riveste di positività, non è la possibilità della fortuna, della felicità, ecc.; è la possibilità dello scacco, la possibilità del nulla.

l’angoscia e l’ignoranza del futuro

Essa non è presente nella bestia che – priva di spirito – è guidata dalla necessità dell’istinto, né nell’angelo che – essendo puro spirito – non è condizionato dalle situazioni oggettive. L’angoscia è propria di uno spirito incarnato, qual è l’uomo, cioè di un essere fornito di una libertà che non è né necessità, né astratto libero arbitrio, ma libertà condizionata dall’ignoranza di ciò che può succedere. Dunque, l’angoscia trae origine dalla libertà, ovvero dalla possibilità di agire in un mondo in cui nessuno sa che cosa accadrà. A questo riguardo, Kierkegaard fa l’esempio dell’angoscia provata da Adamo di fronte al divieto di gustare i frutti dell’albero della conoscenza: egli non sa ancora in che cosa consista la conoscenza, non conosce la differenza tra il bene e il male, non comprende il senso del divieto stesso. Egli non sa che cosa accadrà, eppure è chiamato a scegliere tra l’obbedienza e la disobbedienza [t4].

la disperazione e l’impossibilità di essere se stesso

Strettamente connessa alla categoria della possibilità è anche quella della disperazione , la «malattia mortale» di cui Kierkegaard tratta nel libro omonimo. Tuttavia, se l’angoscia è incentrata soprattutto sui rapporti tra il singolo e il mondo, la disperazione riguarda piuttosto il rapporto del singolo con se stesso. L’angoscia è determinata dalla coscienza che tutto è possibile, e quindi dall’ignoranza di ciò che accadrà. Invece, la disperazione è motivata dalla constatazione che la possibilità dell’io si traduce necessariamente in un’impossibilità. Infatti, l’io è posto di fronte a un’alternativa: o volere o non volere se stesso. Se l’io sceglie di volere se stesso, cioè di realizzare se stesso fino in fondo, viene necessariamente messo a confronto con la propria limitatezza e con l’impossibilità di compiere il proprio volere. Se invece rifiuta se stesso e cerca di essere altro da sé, si imbatte in un’impossibilità ancora maggiore. Nell’uno come nell’altro caso, l’io è posto di fronte al fallimento, è condannato a una malattia mortale, che è appunto quella di «vivere la morte» di se stesso.

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5. Il salto verso la fede Tanto l’angoscia, quanto la disperazione possono avere un solo esito positivo: la fede. Sia l’esperienza della possibilità del nulla propria dell’angoscia, sia quella della «malattia mortale» rivelata dall’impossibilità dell’io, trovano una soluzione soltanto quando l’uomo compie un salto qualitativo, aggrappandosi a Dio. Il credente non ha più l’angoscia del possibile, poiché il possibile è nelle mani di Dio; né il suo io si perde nella disperazione della propria impossibilità, poiché sa di dipendere da Dio e di trovare in Lui un sicuro ancoraggio. Il passaggio alla fede, tuttavia, è un «salto» senza mediazioni. La fede è, infatti, il risultato di un atto esistenziale con cui l’uomo va al di là di ogni tentativo di comprensione razionale, accettando anche ciò che al vaglio della ragione appare assurdo. L’essenza intima della fede è infatti il paradosso, in base al quale essa è vera proprio perché va al di là delle umane capacità di comprensione.

dio è la fonte di tutte le possibilità

La verità della fede non è una verità oggettiva, determinabile con gli stessi strumenti di indagine con cui si analizza un fenomeno naturale o un problema logico-matematico. Al contrario, essa è soggettiva non nel senso di essere relativa e variabile, ma nel senso di essere fondata esclusivamente sul rapporto del singolo soggetto con la Rivelazione divina. Nella fede ogni uomo è solo con Dio. La fede nasce dalla fusione dell’esistenza dell’uomo – e quindi della temporalità, della finitezza, della possibilità – con l’elemento dell’eternità e dell’infinito.

il rapporto privato con dio

Con la nozione di momento Kierkegaard indica proprio l’irrompere dell’eternità nel tempo con cui Dio si rivela all’uomo. Nel momento l’infinito si manifesta al finito: infatti, la verità che ciascun credente porta soggettivamente nel suo cuore contiene la stessa verità divina. Il cristianesimo è quindi l’unica vera religione, poiché esso soltanto riesce a esprimere questa verità per mezzo della dottrina dell’incarnazione di Dio. La venuta di Dio nel mondo costituisce per i cristiani un evento storico che, tuttavia, richiede il dono della fede per essere accolto. Da questo punto di vista, infatti, non vi è differenza tra i discepoli di Cristo, a lui contemporanei, e tutti i credenti che sono venuti dopo di loro. La tesi centrale del cristianesimo, ossia l’incarnazione di Dio in Cristo, è una verità di per sé assurda, in quanto implica la paradossale inserzione dell’eternità nel tempo. Tale evento si ripete – e viene accettato – tutte le volte che l’uomo riceve il dono della fede, cioè nell’attimo in cui incontra Dio.

incarnazione e dono della fede

in poche... parole Per la definizione delle categorie di esistenza, possibilità, singolarità, Kierkegaard è stato considerato l’ispiratore dell’esistenzialismo contemporaneo. Jaspers

(1883-1969), Heidegger di Essere e tempo (1927), Sartre (1905-80) si richiamano alla sua opera per mettere in luce gli aspetti costitutivi dell’esistenza umana, intenta

a confrontarsi con una serie di situazioni limite, proiettata verso le possibilità future, pervasa dall’angoscia dovuta alla libertà di scelta. Ciò che caratterizza

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maggiormente la filosofia di Kierkegaard è la polemica con l’idealismo di Hegel e il rifiuto di costruire un sistema filosofico. Se Hegel pone l’accento sull’essenza intrinsecamente razionale della realtà e si interessa al «genere» umano inteso come manifestazione dello spirito (Geist), Kierkegaard parte invece sempre dall’esistenza del singolo, dalla sua indeterminatezza e inoggettivabilità. Egli individua tre alternative esistenziali fondamentali tra cui l’uomo è chiamato a scegliere: lo stadio estetico, caratterizzato dalla spasmodica ricerca del nuovo; lo stadio etico, caratterizzato dalla ripetizione e dall’universalità del dovere; lo stadio religioso, caratterizzato dai paradossi della fede e dall’abbandono a Dio inteso come fonte di tutte le possibilità.

esistenza Dal latino existentia, formato da ex, «da», e sistere,

«stare»; in senso derivato, «venire ad essere». Con questo termine Kierkegaard indica il modo di essere proprio dell’uomo. Per chiarirne il significato, egli chiama in causa la distinzione kantiana tra il concetto di una cosa e la sua esistenza, asserendo che l’esistenza è una «posizione assoluta», del tutto indipendente dal concetto della cosa. In altre parole, per Kierkegaard (come già per Kant) non è possibile ricavare l’esistenza di una cosa dalla sua essenza. In profondo disaccordo con Hegel, dunque, il filosofo danese ritiene che l’esistenza non possa essere racchiusa dentro ad un concetto, ma sempre lo ecceda (ex-sistere, nel senso di «stare fuori»). A suo avviso, infatti, l’esistenza non può essere dedotta razionalmente dal pensiero, in quanto si dà all’uomo sempre come un insieme di alternative possibili. Riflettendo su di sé, l’uomo scopre che la propria esistenza appare definita dalle seguenti ca-

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ratteristiche: a) non è mai necessaria e garantita, ma sempre esposta all’indeterminatezza, al rischio e allo scacco; b) consiste in un insieme di possibilità che pongono l’uomo di fronte a scelte continue; c) riguarda sempre il singolo individuo nella sua concretezza e non entità universali (il popolo, lo Stato, la società, ecc.); d) è pervasa dall’angoscia (in quanto è apertura totale al possibile) e dalla disperazione (in quanto è caratterizzata dall’impossibilità di essere se stessi).

possibilità È una delle categorie fondamentali del pensiero di Kierkegaard e, attraverso di lui, dell’esistenzialismo contemporaneo. Essa caratterizza l’esistenza umana, che non è definibile attraverso un’essenza determinata necessariamente una volta per tutte secondo un’astratta logica oggettiva, ma è invece connotata dalla concretezza dell’individualità particolare, o meglio della singolarità irripetibile nella sua specificità. In quanto assoluta singolarità e soggettività, l’esistenza non è determinata da rapporti necessari, ma è un susseguirsi di possibilità. Alla possibilità è strettamente connessa la nozione di scelta: l’uomo deve continuamente fare delle scelte. Anche quando si limita a vivere nell’istante (stadio estetico) senza impegnarsi in nulla, sta comunque scegliendo; così come quando sceglie di essere fedele a un compito (stadio etico), non sceglie una volta soltanto, ma conferma continuamente la stessa scelta (con la «ripetizione» o «ripresa»). Ma la scelta più radicale, la sola che si ri vela una possibilità assolutamente positiva, è la scelta di Dio (stadio religioso), anche se essa, non potendo essere confortata da alcuna considerazione razionale – e in ciò si rivela la forza del protestantesimo di Kierkegaard –, comporta un «salto» qualitativo e l'accettazione

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del paradosso per cui si sceglie l’assurdo.

angoscia Il termine assume rilevanza filosofica con Kierkegaard per indicare il sentimento che l’uomo prova di fronte al proprio modo di essere, ossia all’esistenza. Quest’ultima – non essendo altro che possibilità indeterminata – risulta sempre legata al rischio della scelta. Mentre la paura riguarda sempre un oggetto preciso, l’angoscia non ha oggetto, ma nasce appunto dall’impossibilità di oggettivare l’esistenza – che è pura possibilità – con un atto del pensiero. L’angoscia è, dunque, la «vertigine» che l’uomo prova in relazione agli aspetti di indeterminatezza e di negatività connessi con l’esperienza della propria libertà. disperazione La disperazione, a

differenza dell’angoscia, non riguarda il rapporto dell’individuo con il mondo esterno e le scelte che deve fare in funzione di esso, bensì il rapporto dell'uomo con se stesso. Si aprono infatti due possibilità, entrambe negative. Se l’individuo vuole essere se stesso, è continuamente confrontato con la sua inadeguatezza al compito, in quanto essere finito e «insufficiente». Se non vuol essere se stesso, se vuol evadere da sé, entra in contraddizione con se stesso e si condanna per altra via all’infelicità. L’unico modo per guarire dalla disperazione, che è una «malattia mortale» di cui soffrono tutti gli uomini, è affidarsi alla fede in Dio. In questo modo l’uomo, pur rimanendo fedele al proprio compito, che consiste nell’essere se stesso e nel non tentare di evadere da sé, non si illude di poter essere sufficiente a se stesso. Egli riconosce la sua insufficienza non come un fallimento, ma come l’effetto della sua dipendenza da Dio, dall’Assoluto, che si ottiene soltanto abbandonandosi a esso.

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i testi t3 Kierkegaard / Esistenza contro essenza Kierkegaard

Postilla conclusiva non scientifica

parte II, cap. 3, § 1

Le Briciole di filosofia e la Postilla conclusiva non scientifica, pubblicate rispettivamente nel 1844 e nel 1846 con lo pseudonimo di Johannes Climacus, contengono la definizione delle categorie fondamentali del pensiero kierkegaardiano: esistenza, possibilità, soggettività. La rilevanza filosofica di questi concetti è sottolineata dal fatto che essi sono pensati in opposizione alle categorie di essenza, necessità, assolutezza, che erano state imposte alla cultura filosofica contemporanea dal più influente pensatore del tempo: Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Kierkegaard non nega – come emerge dal seguente passo della Postilla – che queste categorie siano valide nel mondo astratto della logica, cioè di un pensiero che intende prescindere da qualsiasi condizione particolare per conseguire l’oggettività assoluta. Ma egli nega che questa sia la dimensione dell’uomo, il quale non può mai uscire dalla sua concreta situazione esistenziale e dal particolare punto di vista soggettivo imposto dal suo essere un «singolo». Una filosofia che, come quella hegeliana, si proponga di cogliere le cose sub specie aeternitatis, si preclude automaticamente la possibilità di intendere il significato e il destino dell’esistenza umana.

Che il linguaggio dell’astrazione1 non lasci veramente apparire la difficoltà dell’esistente e dell’esistenza, cercherò di spiegarlo a proposito di una questione decisiva, di cui si è molto parlato e scritto. Com’è noto, la filosofia hegeliana ha tolto il principio di contraddizione e più d’una volta Hegel stesso ha citato al suo severo tribunale quei pensatori che rimanevano nella sfera dell’intelletto e della riflessione e che di conseguenza affermavano che c’è un aut-aut. Da allora è diventato un gioco molto apprezzato che appena qualcuno fa allusione a 1. Per linguaggio dell’astrazione Kierkegaard intende qui il metodo filosofico hegeliano, che pretende di cogliere l’essenza universale astraendo dall’«accidentalità» dei casi particolari. Si noti, tuttavia, che per Hegel questo procedimento non è affatto astratto, ma massimamente concreto, poiché esso solo esprime l’essenza della realtà autentica. Hegel e Kierkegaard presuppongono, quindi, due diverse concezioni della concretezza (o dell’astrattezza). Per Hegel è concreta sola la totalità del reale, mentre ogni aspetto parziale di questa totalità, in quanto incompleto, è

un aut-aut, ecco arrivare trotterellando a cavallo un hegeliano2, che ottiene la vittoria e se ne ritorna di corsa a casa3. [...] Eppure sembra che alla base di questa battaglia e di questa vittoria ci sia un equivoco. Hegel ha perfettamente e assolutamente ragione: dal punto di vista dell’eternità, sub specie aeterni, nel linguaggio dell’astrazione, nel puro pensiero e nel puro essere, non c’è alcun aut-aut. Come diavolo potrebbe esserci, se per l’appunto l’astrazione rimuove la contraddizione? Hegel e gli hegeliani dovrebbero piuttosto pren-

astratto (nel senso di una parte «astratta», cioè separata, dalla realtà intera). Per Kierkegaard, invece, la concretezza – la vera realtà – coincide con la singola esistenza, considerata nella sua assoluta specificità e soggettività. Astratto è, viceversa, ogni procedimento inteso ad allontanarsi dall’esistente così concepito, per cogliere una dimensione universale che, negando necessariamente la specificità individuale, perde con ciò stesso di realtà. 2. Kierkegaard si riferisce soprattutto a J.L. Heiberg, che aveva introdotto l’hegelismo in Danimarca, e a H.L. Marten-

sen, vescovo di Copenaghen e capo della Chiesa danese: quest’ultimo, tuttavia, era un hegeliano moderato, contrario agli aspetti dell’idealismo – come l’immanentismo – meno conciliabili con il cristianesimo. 3. Nella prospettiva hegeliana ogni opposizione – e quindi ogni alternativa, ogni aut-aut – si risolve necessariamente in una superiore unità sintetica. L’opposizione non è quindi assolutamente reale, ma possiede un’esistenza soltanto «astratta», essendo il risultato di un’arbitraria separazione di una totalità sintetica in due opposti contrari.

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dersi l’incomodo di spiegare cosa significa questa commedia, d’introdurre nella logica la contraddizione, il movimento, il passaggio, ecc. I difensori dell’aut-aut hanno torto quando invadono il campo del pensiero puro e vogliono difendere in esso la propria causa. Come il gigante Anteo, con cui lottò Ercole, perdeva tutta la sua forza appena veniva sollevato da terra, così l’aut-aut della contraddizione si trova eo ipso eliminato appena è elevato al di sopra dell’esistenza e portato nell’eternità dell’astrazione4. D’altra parte Hegel ha anche completamente torto quando, dimenticando l’astrazione, la pianta in asso e si precipita nell’esistenza per eliminarvi di prepotenza il doppio aut. Infatti è impossibile far questo nell’esistenza, perché allora io sopprimo nello stesso tempo l’esistenza stessa. Quando elimino (astraggo) l’esistenza, non c’è più nessun autaut; quando lo elimino dall’esistenza, elimino anche l’esistenza, e ciò significa che non è

4. Kierkegaard ammette, dunque, che

nel pensiero astratto (cioè in quello che per Hegel è il pensiero massimamente concreto, quello che si pone dal punto di vista dell’Assoluto) non esistono contraddizioni, poiché tale pensiero consiste appunto nella procedura attraverso la quale i punti di vista soggettivi vengono superati da un unico punto di vista oggettivo (o, meglio, assoluto) che li ricomprende e armonizza tutti. Anzi – osserva Kierkegaard – non si capisce perché gli hegeliani introducano la contraddizione per poi dire che non c’è: più semplice sarebbe stato il negarla del tutto, affermando – come avevano fatto gli eleati – che la realtà è una, indivisa e immobile. Il movimento introdotto da Hegel nella realtà è infatti – egli continua – soltanto fittizio, essendo puramente logico, non reale: quando si giunge alla sintesi degli opposti, ci si accorge che in realtà non c’era nessuna opposizione reale, e quindi non c’è stato alcun movimento. Con ciò Kierkegaard mostra però di disconoscere il senso della dialettica hegeliana, per la quale il movimento che scaturisce dalla logica della contraddizione è insito nella struttura stessa della realtà, ed esprime una dimensione ontologica non meno che logica. L’op-

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ch’io lo elimini dall’esistenza5. Se è inesatto dire che c’è qualcosa di vero in teologia che non lo è in filosofia, è invece del tutto esatto dire che c’è qualcosa di vero per un esistente che non lo è nell’astrazione, e parimenti ch’è eticamente vero che l’essere puro è una fantasticheria e ch’è proibito ad un esistente voler dimenticare ch’egli è esistente. [...] Pensare l’esistenza in abstracto e sub specie aeterni è sopprimerla nella sua essenza, ed ha il suo riscontro nel merito tanto strombazzato della liquidazione del principio di contraddizione6. L’esistenza non può essere pensata senza movimento e il movimento non può essere pensato sub specie aeterni. Trascurare il movimento non è propriamente un capolavoro, e introdurlo come passaggio nella logica, e con esso il tempo e lo spazio, non è che una nuova confusione. Infatti nella misura in cui il pensiero è eterno c’è una difficoltà per l’esistente. L’esistenza è come il movimento: è molto difficile avere da

posizione che conduce a una sintesi è, per Hegel, una contraddizione reale, anche se opposizione e sintesi si collocano su piani logicamente e metafisicamente diversi. 5. L’errore di Hegel, dice Kierkegaard, non è di aver negato la contraddizione nel mondo del pensiero astratto, ma di averla negata anche nella sfera dell’esistenza. Infatti, l’esistenza non ha nulla a che vedere con l’universale astratto; anzi è l’opposto di esso. Proprio quella individualità, quella particolarità, e quindi quell’opposizione di punti di vista particolari, che è legittimamente esclusa dall’universale, esprime invece l’intima natura dell’esistente. L’esistente è sempre qui e ora, è sempre il singolo individuo, che non esce dalla sua soggettività e non raggiunge mai il punto di vista dell’universale. Pertanto, le contraddizioni, le alternative, gli autaut, che si dissolvono immediatamente sub specie aeternitatis, rimangono irriducibili dal punto di vista dell’esistenza. Se li eliminassimo, se volessimo oltrepassarli in una superiore unità, come vuol fare Hegel, negheremmo con ciò stesso anche l’esistenza. Esistenza e universalità sono termini irriducibili l’uno all’altro: per questo, le contraddizioni che appartengono alla

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sfera dell’esistenza non potranno mai essere risolte in una sintesi, che appartiene alla sfera dell’universale. 6. Anche da questa espressione si evince la totale incomprensione che oppone Kierkegaard a Hegel: quest’ultimo non intendeva affatto «liquidare la contraddizione», bensì farne la struttura portante del suo metodo filosofico, che infatti si fonda sulla «logica della contraddizione». Hegel si proponeva semplicemente di riconoscere alla contraddizione una funzione di conciliazione, e quindi di costruzione progressiva della realtà, anziché attribuirle la tradizionale (aristotelica) funzione di tener separati gli opposti. Per un pensatore religioso come Kierkegaard, il quale ha di mira non tanto la spiegazione (e la giustificazione) del processo della realtà, quanto piuttosto la denuncia della drammaticità dell’esistenza, dell’opposizione assoluta tra uomo e Dio, tra sapere e fede, tra ragione e paradosso, la contraddizione deve, invece, conservare tutta intera la sua capacità di rottura: essa deve diventare lo strumento per mezzo del quale l’uomo è messo di fronte all’alternativa irriducibile, allo scacco, all’angoscia, trovando così l’opportunità di aprirsi all’esperienza religiosa.

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fare con essa. Se li penso li abolisco e quindi neanche li penso più. Sembra pertanto che sia esatto dire che c’è qualcosa che non si lascia pensare: l’esistente. Ma la difficoltà ritorna, e ciò per il fatto che il pensatore esiste, e il pensare pone insieme l’esistenza7.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Che cos’è il linguaggio dell’astrazione secondo Kierkegaard? 2. Kierkegaard accusa Hegel di pensare l’esistenza in astratto. Qual è, invece, il tratto fondamentale di essa? 3. Precisa il senso in cui Kierkegaard utilizza il termine «contraddizione». 4. Perché «pensare pone insieme l’esistenza»?

7. Anche qui riemerge l’estrema con-

trapposizione di Kierkegaard a Hegel. Per Hegel, logica e metafisica coincidono: quanto più una cosa presenta una struttura logica (cioè è razionale), tanto più è reale (identità di reale e razionale). Per Kierkegaard, invece, il movimento reale, per essere tale, non deve essere riducibile al semplice movimento logico, che non è altro che un passaggio del pensiero. Il movimento reale deve quindi contenere in sé qualcosa di irriducibile al pensiero, cioè non de-

ve poter essere pensato interamente. Lo stesso vale per l’esistenza, che è la sede del movimento reale: l’esistente non può essere pensato fino in fondo, poiché esso sfugge alle categorie del pensiero, che sono necessariamente generalizzanti. Tuttavia, pensare ed essere non possono neppure essere divisi, poiché in realtà il pensante (l’uomo) esiste e, dunque, il pensiero stesso è calato nell’esistenza. Si tratterà quindi di spiegare l’esistenza con una forma di pensiero assoluto, oggettivamente lo-

gico, pensiero dell’universale. Occorrerà far ricorso a un pensiero che riconosca l’irriducibilità della contraddizione, la specificità assoluta dell’esistenza in quanto singolo, la forza del paradosso al di sopra dell’argomentazione razionale. Occorrerà, in altri termini, far ricorso a un pensiero soggettivo, a un pensiero che riconosca la natura soggettiva della verità, di contro alla pretesa hegeliana di conoscere la verità nella sua essenza assoluta.

t4 Kierkegaard / L’angoscia Kierkegaard

Il concetto dell’angoscia

cap. I, § V

Il concetto dell’angoscia fu pubblicato nel 1844, con lo pseudonimo di Virgilius Haufniensis. Esso reca come sottotitolo «Semplice riflessione per una dimostrazione psicologica orientata in direzione del problema dogmatico del peccato originale». L’obiettivo del libro è, quindi, quello di spiegare la natura e l’origine del peccato di Adamo. Perciò viene condotta un’analisi psicologica del concetto di angoscia, considerato il presupposto immediato dello stesso peccato originale, anche se il passaggio dalla condizione di angoscia a quello di peccato è un salto qualitativo irriducibile ad alcuna spiegazione. Adamo si trova, infatti, originariamente nella condizione dell’innocenza. A sua volta, innocenza significa ignoranza: ignoranza del bene e del male, ignoranza delle conseguenze della conoscenza, ignoranza di tutto ciò che può accadere. Il divieto divino risveglia in lui la coscienza di potere, ma egli non sa in che cosa questo potere consista. Egli sente su di sé la minaccia della condanna, ma non sa che cosa essa significhi veramente per lui. Ma il non sapere che cosa accadrà, e quindi la consapevolezza che tutto è possibile, genera angoscia, la quale – proprio per la possibilità indeterminata che esprime – è insieme amata e temuta da parte dell’uomo. Proprio nella possibilità di «lasciarsi cadere» in quest’angoscia, di lasciarsi vincere dagli aspetti per cui la si ama, risiede l’antecedente immediato del peccato originale.

L’innocenza è ignoranza. Nell’ignoranza l’uomo non è determinato come spirito, ma è de-

terminato psichicamente nell’unione immediata colla sua naturalità. Lo spirito nell’uomo i testi

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è come sognante1. Questa concezione si trova perfettamente d’accordo con la Bibbia, la quale, negando all’uomo nello stato di innocenza la conoscenza della differenza tra il bene e il male, manda all’aria tutte le fantasticherie cattoliche riguardo al merito. In questo stato c’è pace e quiete; ma c’è, nello stesso tempo, qualcos’altro che non è né inquietudine né lotta, perché non c’è niente contro cui lottare. Allora, che cosa è? Il nulla. Ma quale effetto ha il nulla? Esso genera l’angoscia2. Questo è il profondo mistero dell’innocenza: essa nello stesso tempo è angoscia. Sognando, lo spirito proietta la sua propria realtà; ma questa realtà è il nulla, questo nulla l’innocenza lo vede continuamente fuori di sé. L’angoscia è una determinazione dello spirito sognante e come tale appartiene alla psicologia. Nella veglia la differenza tra l’io e l’altro da me è posta; nel sonno è sospesa; nel sogno è un nulla accennato. La realtà dello spirito si mostra continuamente come una figura che tenta la sua possibilità, ma appena egli cerca di afferrarla, essa si dilegua; essa è un nulla che può soltanto angosciare. Di qui non può fare, finché non fa altro che mostrarsi. Poiché il concetto dell’angoscia non si trova quasi mai trattato nella psicologia, io devo richiamare l’attenzione sul fatto ch’esso è completamente 1. Lo spirito è sinonimo di consapevolezza. L’uomo innocente-ignorante, come il bambino, non possiede ancora interamente lo spirito. E tuttavia in lui lo spirito è già presente, seppure non portato alla consapevolezza: l’uomo non è la bestia. Questa condizione intermedia è ben espressa dalla metafora del sogno: nell’uomo innocente lo spirito è sognante. 2. L’uomo che si trova nella condizione di ignoranza non ha qualcosa contro cui combattere positivamente. Al contrario, oggetto del non sapere è il nulla. E proprio questo nulla genera angoscia. Chi è assillato da un problema particolare è preoccupato e spaventato, ma non angosciato. L’angoscia nasce dalla totale indeterminatezza della situazione, dal non sapere affatto che cosa potrà accadere. 3. La definizione della libertà come «possibilità della possibilità» è molto

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diverso da quello del timore e da simili concetti che si riferiscono a qualcosa di determinato, mentre invece l’angoscia è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità3. Perciò non si troverà l’angoscia nell’animale, precisamente perché esso, nella sua realtà naturale, non è determinato come spirito. [...] L’angoscia è posta nell’innocenza; in primo luogo, dunque, non è colpa4, in secondo luogo non è un peso che aggravi, né una sofferenza che non sia compatibile colla beatitudine dell’innocenza. Se si osservano i bambini, quest’angoscia si trova in loro più chiaramente determinata come ricerca dell’avventuroso, del mostruoso, del misterioso. Che ci siano bambini nei quali l’angoscia manca, ciò non vuol dir nulla; non l’ha neanche l’animale: quanto meno spirito, tanto meno angoscia. Questa angoscia appartiene così essenzialmente al bambino ch’egli non ne vuol fare a meno; pur angosciandolo, essa lo attira col suo dolce affanno. In tutte le nazioni che hanno serbato il carattere infantile, come il sognare dello spirito, si trova questa angoscia; e quanto essa è più profonda, tanto più profonda è la nazione. Non è che una stupidaggine prosaica il credere che questa sia disorganizzazione5. [...] Come il rapporto dell’angoscia al suo oggetto, a quel qualche cosa che è il nulla (nel lin-

importante poiché spoglia il concetto di libertà di ogni determinazione positiva. La libertà – come viene qui definita – non è la facoltà di fare qualcosa o di esercitare il libero arbitrio, ma è la semplice possibilità dell’indeterminato, la possibilità totale che non esclude alcuna possibilità, il «tutto è possibile» che si traduce in un nulla di determinato. Di qui, l’associazione della libertà all’angoscia. 4. La colpa comporta già la determinazione della scelta, è libertà già consumata. Quindi, essa può generare rimorso e pentimento, non angoscia. L’angoscia è invece connessa con la libertà ancora da esercitare, vale a dire – come si è visto nella nota precedente – con la libertà intesa come semplice possibilità di potere. 5. Si è visto (cfr. n. 1) che l’angoscia è connessa con la fase sognante dello spirito. Essa si manifesta, quindi, in tut-

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te le situazioni che realizzano quella condizione, come nei bambini, nelle nazioni ancora agli albori della loro civiltà, o nell’uomo ancora innocente, come Adamo prima del peccato. Quando invece lo spirito è pienamente desto, come nell’uomo maturo che combatte contro le difficoltà della vita, l’angoscia rimane latente, poiché la determinatezza dei problemi prende il posto dell’assolutamente indeterminato, del nulla che sta alla base dell’angoscia. È chiaro, tuttavia, che le occupazioni mondane costituiscono una sorta di «divertimento» pascaliano che impedisce all’uomo di giungere a considerare la sua natura fondamentale: tutte le volte che l’uomo riesce ad andare al di là della distrazione offertagli dall’azione pratica torna nuovamente a confrontarsi con l’angoscia.

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guaggio comune c’è la frase espressiva «angosciarsi di nulla») è assolutamente ambiguo; così il passaggio dall’innocenza alla colpa, che si può qui stabilire, sarà abbastanza dialettico per dimostrare che la spiegazione è quale dev’essere, cioè psicologica. Il salto qualitativo è fuori di ogni ambiguità; ma colui che, mediante l’angoscia, diventa colpevole, è certo innocente; infatti non era lui, ma l’angoscia, una potenza estranea, che lo prese; una potenza ch’egli non amava, ma di cui si angosciava...: eppure egli è colpevole, perché si lasciò cadere nell’angoscia ch’egli, pur temendola, amava. Non c’è nel mondo niente di più ambiguo di questo e perciò questa è l’unica spiegazione psicologica, la quale però, per ripeterlo ancora una volta, non pensa mai di voler essere una spiegazione che spieghi il salto qualitativo6. [...] Ancora esiste l’innocenza, ma basta che risuoni una parola ed ecco che l’ignoranza è concentrata. Questa parola, naturalmente, l’innocenza non la può comprendere, ma l’angoscia ha quasi afferrato la sua prima preda: invece del nulla, essa ha avuto una parola enigmatica. Se questo nel Genesi è espresso con le parole

6. Il passaggio dall’angoscia al peccato

comporta un «salto qualitativo» che non è suscettibile di nessuna spiegazione. L’analisi psicologica che Kierkegaard propone arriva, tuttavia, alle soglie di questa spiegazione impossibile. L’angoscia è determinata, come si è visto, dalla possibilità. In particolare, con il divieto di Dio, l’uomo si trova nella condizione, come si vedrà subito dopo (cfr. nota successiva), della «possibilità di potere», cioè di poter fare anche ciò che è stato vietato, di potersi opporre a Dio. Di qui, il rapporto ambiguo che l’uomo ha con l’angoscia: egli la ama e non la ama a un tempo stesso, perché il dischiudersi del mondo della possibilità, in cui essa consiste, è qualcosa che l’uomo insieme vuole e teme. Così, da un lato l’angoscia, in quanto cosa temuta, in quanto possibilità non esperita, rimane sul versante della innocenza; dall’altro essa, in quanto amata, in quanto desiderio di sperimentare il proprio potere, conduce alla colpevolezza del peccato. Da una parte l’angoscia precede il pec-

che Dio disse ad Adamo: «Soltanto dell’albero della conoscenza del bene e del male tu non devi mangiare» (Gen., 2, 17), vien da sé che Adamo, in fondo, non comprese quelle parole; infatti, come poteva comprendere la differenza tra il bene e il male se questa distinzione sarebbe stata la conseguenza della soddisfazione del frutto?7 Se ora si ammette che il divieto sveglia il desiderio8, si ottiene una conoscenza invece dell’ignoranza, perché Adamo doveva avere conoscenza della libertà se aveva il desiderio di farne uso. Perciò questa spiegazione si trova in ritardo. Il divieto angoscia Adamo, poiché il divieto sveglia in lui la possibilità della libertà. Ciò ch’era rimasto fuori dell’innocenza come il nulla dell’angoscia è entrato ora dentro di essa stessa e qui è di nuovo un nulla, cioè la possibilità angosciante di potere. Cosa sia ciò ch’egli può, egli ne ha idea alcuna; altrimenti si presupporrebbe, come avviene di solito, quel che segue, cioè la differenza tra il bene e il male. Soltanto la possibilità di potere c’è come la forma più alta dell’ignoranza, come l’espressione più alta dell’angoscia; perché in un senso più alto, questa possibilità è e non è,

cato ed è diversa da esso, dall’altra essa comporta già il peccato. 7. Finché non riceve il divieto divino di gustare i frutti dell’albero della conoscenza, l’uomo è ancora completamente innocente. Egli già conosce l’angoscia, la quale è radicata nell’ignoranza che a sua volta è conseguenza dell’innocenza: ma la sua angoscia è ancora l’angoscia del nulla. Ma quando l’uomo riceve il divieto divino, il nulla diventa qualcosa di più concreto. Ora la possibilità assolutamente indeterminata, in cui consisteva il nulla, diventa la possibilità di poter fare o non fare ciò che è stato vietato, ovvero, più in generale, la possibilità di potere. L’uomo non ha ancora la conoscenza del bene e del male, quindi la sua libertà non si configura ancora come libertà di scelta tra due oggetti definiti. Tuttavia, egli acquista già la consapevolezza di potere in quanto uomo, cioè di pretendere di «essere» davanti a Dio, pur conoscendo la sua incapacità di reggere questo confronto.

8. Kierkegaard allude qui alla tesi so-

stenuta dallo svizzero Usteri (nel suo Sviluppo della dottrina paolina, pubblicato a Zurigo nel 1824), secondo cui il peccato di Adamo è implicito nel divieto divino. Infatti, il divieto avrebbe svegliato in Adamo il desiderio di cogliere il frutto della conoscenza. Ma questa tesi, che Kierkegaard poche pagine prima aveva apprezzato come tentativo di spiegazione psicologica del peccato, ha il limite di anticipare ciò che deve ancora spiegare: la conoscenza del bene e del male. Per Kierkegaard, il divieto non risveglia in Adamo il desiderio di ciò che è proibito (che ancora non conosce), ma soltanto la coscienza della possibilità di potere. Che cosa egli possa rimane, infatti, assolutamente indeterminato, cioè è ancora un nulla. Per questo la possibilità di potere comporta anch’essa l’angoscia, pur differenziandosi dall’angoscia originaria, la semplice angoscia dell’ignoranza.

i testi

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perché egli, in un senso più alto, l’ama e la fugge. Il divieto è seguito dalla condanna: «Allora tu dovrai certamente morire» (Gen., 3, 18). Cosa ciò significhi, Adamo naturalmente non lo comprende affatto; mentre invece nulla c’impedisce, se ammettiamo che questa parola gli fu detta, di immaginare che Adamo ricevesse con essa l’idea del terribile. Anche l’animale, in queste situazioni, può comprendere l’espressione mimica e il movimento nella voce di colui che parla, senza comprendere la parola. Se il divieto sveglia il desiderio, allora anche la parola della pena deve svegliare l’idea del terrore. Ma questo porta alla confusione. Il terrore qui diventa soltanto angoscia, perché Adamo non ha compreso le parole, in modo che troviamo di nuovo soltanto l’ambiguità dell’angoscia. La possibilità infinita di potere, 9. Lo stesso ragionamento fatto da Kierkegaard a proposito del divieto viene ripreso qui in relazione alla condanna. Adamo non sa che cosa significhi morire: quindi, la condanna non ha per lui un contenuto preciso. Essa non suscita il terrore di qualcosa di determinato, così come il divieto non aveva ri-

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che fu svegliata dal divieto, ora si avvicina di più per il fatto che questa possibilità manifesta come sua conseguenza un’altra possibilità9. Così l’innocenza è portata alla sua situazione estrema. Essa è in angoscia rispetto a ciò che è vietato e alla pena. Non è colpevole, eppure vi è un’angoscia come se fosse perduta10. Più in là la psicologia non può andare, ma questo punto lo può raggiungere e soprattutto, nella sua osservazione della vita umana, lo può verificare di continuo.

GUIDA ALLA LETTURA 1. In che cosa consiste il mistero dell’innocenza? 2. Che differenza c’è tra angoscia e timore? 3. Come viene descritta la situazione nella quale si trova Adamo?

svegliato il desiderio della conoscenza del bene e del male. Egli riceve soltanto l’idea del terribile: alla possibilità del potere si aggiunge, quindi, una nuova terrificante possibilità, ancorché priva di contenuto. Ciò accresce ulteriormente il carattere ambiguo dell’angoscia, ossia il fatto che l’uomo ami e te-

2. kierkegaard

ma insieme la possibilità che essa esprime. Con questo si è alle soglie del peccato originale, al quale tuttavia si perviene, come si è detto, soltanto con un salto qualitativo irriducibile a una spiegazione di qualunque genere. 10. Cfr. n. 6.

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esercizi/2 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale

8. Illustra le diverse concezioni dell’Assoluto di Hegel e di Kierkegaard. 9. In che modo è possibile passare da uno stadio all’altro dell’esistenza?

1. Evidenzia i rapporti intrattenuti con i vari esponenti dell’idealismo tedesco.

10. Perché la disperazione viene definita da Kierkegaard «malattia mortale»?

2. Evidenzia il giudizio di Kierkegaard sulla visione hegeliana del cristianesimo.

11. Che differenza c’è tra paura e angoscia?

3. Evidenzia le figure emblematiche corrispondenti ai diversi stadi della vita. 4. Evidenzia i luoghi in cui la fede viene definita come «rischio» e «paradosso». 5. Evidenzia gli elementi del cristianesimo che maggiormente hanno colpito Kierkegaard. Dizionario filosofico 6. Definisci il significato dei seguenti termini: esistenza • singolo • stadio estetico • angoscia • pentimento • momento

CHE COSA HO CAPITO?

12. Che differenza c’è tra angoscia e disperazione? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 13. Che rapporto c’è tra la biografia e l’opera di Kierkegaard? 14. Perché, secondo Kierkegaard, Hegel non ha colto il vero significato dell’esistenza? 15. Illustra le caratteristiche dello stadio etico, evidenziando le differenze con quello estetico. 16. Schopenhauer e Kierkegaard affermano che l’uomo fa esperienza del nulla, eppure intendono cose profondamente diverse. Quali? 17. Spiega il rapporto tra fede e ragione, secondo Kierkegaard.

Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 7. Che cos’è l’«ironia» secondo Kierkegaard? In che relazione sta questa nozione con quella di «possibilità»?

esercizi/2

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Feuerbach alla sfera della politica e dello Stato, affermando contro Hegel la priorità della società civile – come sistema dei bisogni e delle attività economiche volte a soddisfarli – rispetto allo Stato. Il presente è caratterizzato dal modo di produzione capitalistico fondato sull’industria, che genera necessariamente l’alienazione del lavoratore. Questi infatti si trova espropriato non solo dei prodotti del suo lavoro, ma anche di ciò che lo fa propriamente uomo e lo distingue dagli animali: il lavoro e il suo essere sociale. il ruolo del proletariato nella storia

3. le eredità di hegel e il marxismo

Secondo Marx, l’uomo potrà recuperare la propria «essenza sociale» (das kommunistischen Wesen) soltanto attraverso la vittoria del proletariato – la nuova classe formatasi grazie allo sviluppo dell’industria. Questa infatti, è una classe universale in quanto rivendica la liberazione dell’uomo in quanto tale. L’uomo non è un’essenza puramente statica e passiva: costitutiva dell’uomo è infatti la prassi, ossia l’attività volta a trasformare la natura per trarne i mezzi di sussistenza. il materialismo storico

i contenuti destra e sinistra hegeliane

Con la morte di Hegel (1831) i suoi allievi assumono due orientamenti contrastanti: da una parte la cosiddetta destra insiste sulla razionalità del reale, dall’altra la sinistra ritiene che la razionalità non trovi ancora piena realizzazione nelle istituzioni politiche e religiose esistenti. Tra gli esponenti della sinistra hegeliana occorre ricordare i nomi di Strauss, promotore nel 1837 della divisione della scuola hegeliana; di Bauer, filosofo e biblista tedesco inizialmente aderente alla destra; di Feuerbach, fautore di un radicale ateismo.

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dalla teologia all’antropologia

Feuerbach ritiene che la religione sia il risultato dell’oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell’uomo in un ente supremo, nel quale esse troverebbero piena soddisfazione e realizzazione. Si tratta allora di trasformare la teologia in antropologia, ritrovando nell’uomo ciò che è stato alienato in un ente estraneo – sia esso Dio o lo spirito assoluto di Hegel. È nel finito che va ritrovato l’infinito, cioè nel vero soggetto, che non è lo spirito, ma l’uomo come essere sensibile e corporeo – di cui il pensiero è solo un predicato. il lavoro nel mondo capitalistico

Marx estende la critica di

3. le eredità di hegel e il marxismo

Ciò che l’uomo è dipende dalla produzione dei mezzi di sussistenza. In ciò consiste il materialismo storico, che mira a spiegare i fatti nella loro successione storica in base ai diversi modi di produzione. Secondo Marx, sono essi a determinare il tipo di rapporti sociali e politici e la stessa formazione di idee religiose, politiche, giuridiche, filosofiche. Il piano dell’economia costituisce la struttura rispetto alla quale tutto il resto delle attività umane si configura come sovrastruttura, la quale tuttavia può esercitare effetti sulla struttura stessa. Quando si ritiene che la sfera delle idee (o sovrastruttura) sia un piano indipendente dalla struttura, si forma l’ideologia che – consapevolmente o no – fornisce un’immagine parziale o distorta

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della realtà e serve solitamente a giustificare l’esistente. la storia come lotta di classe

L’analisi storica dei modi di produzione è la base del socialismo scientifico: essa individua il motore della storia nella lotta delle classi, le quali si formano in base alla loro collocazione entro i vari modi di produzione. Oggi domina la borghesia, che ha trionfato contro l’aristocrazia terriera dell’età feudale ed è proprietaria dei mezzi della produzione industriale. Essa trova contro di sé la nuova classe del proletariato. Il conflitto tra queste due classi sfocerà, secondo Marx ed Engels, in una rivoluzione che porterà all’eliminazione delle classi, della proprietà e della divisione del lavoro e quindi all’instaurazione del comunismo. l’analisi economica del capitalismo

Nell’ultima fase del suo pensiero Marx svolge un’ampia indagine sulla formazione del modo di

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produzione capitalistico. Egli distingue tra valore d’uso e valore di scambio delle merci, le quali hanno la proprietà comune di essere prodotte dal lavoro umano. Il loro valore diventa misurabile quando – grazie al denaro – si determina sul mercato il prezzo delle merci attraverso il meccanismo della domanda e dell’offerta. Tipico del modo di produzione capitalistico è il fatto che la conversione delle merci in denaro e viceversa è finalizzata non all’acquisto di altre merci e al loro consumo, ma all’aumento di denaro. In esso anche il lavoro diventa merce, comprata in cambio di un salario corrisposto a individui giuridicamente liberi, ma costretti a vendere la propria forza-lavoro per sostentarsi. Tale salario corrisponde però solo a una parte del tempo impiegato dall’operaio nella produzione: ciò genera plusvalore e quindi profitto per il capitalista. Marx ritiene che con l’introduzione delle macchine non soltanto aumenti la divisione del lavoro, sempre più parcellizzato, ma si generi l’immiserimento progressivo della classe operaia.

rivoluzione e dittatura del proletariato

L’analisi economica condotta da Marx – incentrata sull’insanabile contraddizione tra profitto e capitale, nonché sul progressivo impoverimento delle classi operaie – è alla base della sua previsione di un collasso del sistema capitalistico, cui dovrebbe seguire l’instaurazione di una nuova società, non più basata sulla proprietà privata e sulla divisione in classi. Questo cambiamento non potrà avvenire di colpo, ma richiederà una fase di transizione, soprannominata da Marx dittatura del proletariato. Dopo di essa, come sostiene Engels, si arriverà all’estinzione dello Stato. Lenin condivide questa tesi, ma considera necessaria la formazione di un partito di rivoluzionari di professione – ossia di un gruppo cementato da unità ideologica, disciplinato e centralizzato – per guidare il proletariato verso la rivoluzione.

gli strumenti in poche… parole alienazione / prassi / materialismo storico / struttura / sovrastruttura / ideologia / classe sociale / plusvalore / comunismo

approfondimenti Il socialismo utopistico e la riorganizzazione della società

i testi a. nel manuale t5 Feuerbach/Religione e autocoscienza dell’uomo t6 Marx/Alienazione e oggettivazione t7 Marx/Le tesi su Feuerbach t8 Marx, Engels/Ideologia e classi sociali t9 Marx, Engels/Borghesia e proletariato

La «rivoluzione industriale» e gli economisti classici

esercizi

Il materialismo dialettico di Engels

Che cosa so? / Che cosa ho capito?

b. on-line Feuerbach/Sensibilità e amore Marx/Comunismo e comunismo rozzo Marx/Capitale e lavoro salariato Engels/Nascita ed estinzione dello Stato

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1. Destra e sinistra hegeliane la filosofia dopo hegel

Hegel morì nel 1831 lasciando un folto stuolo di discepoli, impegnati nella pubblicazione delle sue opere e dei resoconti delle sue lezioni – oltre che nella prosecuzione e divulgazione del suo insegnamento. Nacquero riviste come organi della scuola e nel 1843 Karl Ludwig Michelet fonderà addirittura una Società filosofica hegeliana.

la monarchia di luglio e il dibattito tra progressisti e conservatori

La rivoluzione di luglio del 1830 in Francia ebbe delle conseguenze significative sul dibattito intorno alla filosofia hegeliana. In quell’occasione, il popolo di Parigi – dopo il colpo di Stato attuato da Carlo X – scese in piazza e lo costrinse ad abbandonare la capitale, decretando la decadenza della dinastia borbonica. Di lì a breve, Luigi Filippo d’Orléans fu proclamato dal Parlamento «re dei francesi per volontà della nazione», dando inizio alla cosiddetta monarchia di luglio sotto il segno di un moderato liberalismo. Questo episodio della storia recente faceva riflettere i contemporanei: doveva essere interpretato come l’inizio di una nuova epoca, nella quale le classi privilegiate avrebbero progressivamente perso il loro potere, o rappresentava soltanto una minaccia rispetto agli ordinamenti esistenti, di per sé positivi?

la spaccatura della scuola hegeliana

Per gli hegeliani si poneva, dunque, il problema d’intendere il significato della equazione tra reale e razionale, affermata da Hegel. Alcuni l’interpretarono nel senso che ciò che è storicamente realizzato presenta una sua intrinseca razionalità; altri, invece, ravvisando nelle istituzioni politiche e religiose esistenti contraddizioni e aspetti negativi, giunsero alla conclusione che la razionalità non aveva ancora trovato pieno compimento nella realtà. Si formarono così schieramenti opposti, che – riprendendo la distinzione presente nel Parlamento francese – sarebbero stati qualificati nel 1837 da Strauss come destra e sinistra hegeliane. La prima sarà anche identificata con i cosiddetti vecchi hegeliani e la seconda con i giovani.

religione e filosofia: l’ambiguità di hegel

Questa opposizione si originò anzitutto in relazione al problema della religione. Per i vecchi hegeliani la filosofia del maestro si accordava con i contenuti della fede cristiana. Hegel aveva sostenuto che la religione – in particolare quella cristiana – e la filosofia hanno un identico contenuto. La differenza è data dal fatto che nella religione esso è espresso sotto forma di rappresentazione, mentre nella filosofia sotto forma di concetto. Questa tesi era suscettibile di una duplice interpretazione. 1. Da una parte, permetteva di insistere sul contenuto di verità della religione e quindi dei suoi dogmi (l’incarnazione di Cristo o l’immortalità dell’anima), anche se la forma in cui tale verità è espressa non è pienamente adeguata. 2. Dall’altra parte, rendeva possibile sostenere che la rappresentazione religiosa – proprio per la sua inadeguatezza – deve essere abbandonata e sostituita dalla filosofia.

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Il momento culminante di queste discussioni fu raggiunto con la Vita di Gesù (1835) di David Friedrich Strauss (1808-1874), che si collocava nell’ambito della sinistra hegeliana. La conclusione alla quale egli pervenne è che i Vangeli non sono un resoconto storico attendibile, bensì un mito, un racconto creato liberamente sulla base delle attese e delle credenze suscitate da Gesù nei primi cristiani. Se il contenuto del cristianesimo – la forma più alta di religione – è mitico e ha la sua matrice nell’immaginazione, la religione in generale non può essere innalzata alla sfera del concetto mediante la filosofia, come aveva preteso Hegel. Emerge in tal modo la scissione di religione e filosofia che – secondo la destra hegeliana – Hegel aveva invece inteso conciliare.

strauss: religione e filosofia sono inconciliabili

All’ateismo pervenne l’hegeliano Bruno Bauer (1809-1882). Ostile dapprima a Strauss e allineato sulle posizioni della destra, egli fondò la «Rivista di teologia speculativa» (1836-38). Nel 1839 cominciarono i suoi guai con la censura prussiana e dovette lasciare l’insegnamento prima nell’università di Berlino e poi in quella di Bonn. Nel 1841 pubblicò anonima La tromba del giudizio universale contro Hegel ateo e anticristo, dove Hegel viene presentato come il prototipo del vero ateo, colui che ha sostituito Dio con l’uomo e la fede con la filosofia. Nel Cristianesimo svelato (1843) egli sostiene che il cristianesimo aveva elevato a essenza dell’uomo l’infelicità e il dolore: l’uomo, quindi, sarebbe tornato pienamente se stesso soltanto attraverso l’eliminazione totale del cristianesimo.

bauer: primato dell’uomo e rifiuto della religione

Nel 1840 salì sul trono di Prussia Federico Guglielmo IV, che diede avvio alla reazione autoritaria politica e religiosa. In questo contesto, il problema dello Stato s’impose al centro delle discussioni dei giovani hegeliani e la teoria hegeliana dello Stato apparve sempre più una giustificazione dello Stato prussiano. «Critica» fu la loro parola d’ordine: al centro del loro atteggiamento vi era la ripresa del principio hegeliano della negazione dialettica e della contraddizione che muove il mondo. La critica, infatti, mette in luce l’inadeguatezza e la contraddittorietà della realtà rispetto all’idea razionale dello Stato – inteso in senso liberale e democratico – e pone le condizioni per l’azione politica volta a realizzare questa idea. I giovani hegeliani, tuttavia, non costituivano un gruppo compatto, si alleavano e si separavano polemizzando tra loro. L’unico legame era questo comune spirito di opposizione, che permea anche i loro scritti. Essi sono, infatti, in gran parte manifesti, enunciazioni di programmi e tesi, battaglie polemiche.

l’idea razionale dello stato non è ancora realtà

2. Feuerbach Un capovolgimento radicale delle posizioni hegeliane ebbe luogo con Ludwig Feuerbach. Nato nel 1804 a Landshut, in Baviera, egli studiò teologia a Heidelberg, ma nel 1824 si recò a Berlino, dove subì l’influenza di Hegel. Nel 1825 abbandonò la teologia per la filosofia. L’anno successivo andò a completare gli studi a Erlangen, dove nel 1828 ottenne la laurea e la libera docenza in Filosofia. Dal 1829 al 1836 tenne saltuariamente corsi presso 3. le eredità di hegel e il marxismo

vita e opere

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l’università di Erlangen, ma non ebbe successo il suo tentativo di esservi nominato professore straordinario. Già nel 1830, infatti, egli aveva pubblicato anonimi i Pensieri sulla morte e l’immortalità, che lo avevano reso sospetto alle autorità accademiche e religiose del regno di Baviera. Nel 1837 egli si ritirò pertanto a Bruckberg, dove visse sino al 1860 grazie soprattutto ai proventi di una fabbrica di porcellane, di cui la moglie era comproprietaria. In quello stesso anno Feuerbach aveva già pubblicato una Storia della filosofia moderna da Bacone di Verulamio a Spinoza (1833), alla quale fecero seguito i volumi su Leibniz (1837) e su Bayle (1838). Nel 1839 Feuerbach pubblicò il saggio Per la critica della filosofia hegeliana, che diede inizio alla serie dei suoi scritti più noti – comparsi nell’arco di pochi anni: L’essenza del cristianesimo (1841), Tesi provvisorie per la riforma della filosofia (1843), Princìpi della filosofia dell’avvenire (1843), L’essenza della religione (1845). Nell’anno della rivoluzione – il 1848 – gli studenti lo chiamarono a tenere un corso a Heidelberg, ma nel 1849 egli tornò a Bruckberg. Di qui – dopo un dissesto finanziario – Feuerbach si trasferì nel 1860 a Rechenberg (presso Norimberga), dove visse in miseria i suoi ultimi anni sino alla morte, avvenuta nel 1872. l’uomo e l’infinito

Nell’Essenza del cristianesimo Feuerbach non intende sottoporre il cristianesimo a una critica di tipo illuministico, riducendolo a un cumulo di errori e superstizioni. A suo avviso, la religione – in particolare quella cristiana – ha un contenuto positivo, che consente di scoprire l’essenza dell’uomo. Dalla tesi di Schleiermacher – secondo cui la religione consiste nel sentimento dell’infinito – egli trae la conclusione che l’infinito esprime l’essenza stessa dell’uomo. Nessun individuo singolo, tuttavia, contiene in sé quest’essenza nella sua totalità e compiutezza. Per questo motivo, l’uomo ricorre a Dio e trova in esso l’oggettivazione della propria essenza, cioè dell’infinito.

dio come proiezione dell’uomo

La religione è l’oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell’uomo – ossia la proiezione di essi in un ente indipendente dall’uomo, nel quale tali aspirazioni sono pienamente realizzate. La religione ha, dunque, un’origine pratica: l’uomo avverte la propria insicurezza e cerca la salvezza in un essere personale, infinito, immortale e beato, cioè in Dio. Nella religione è l’uomo a fare Dio a propria immagine e somiglianza, non viceversa: quando a Dio si attribuiscono la conoscenza o l’amore infinito, in realtà s’intende esprimere l’infinità delle possibilità conoscitive e dell’amore propria dell’uomo. In Dio e nei suoi attributi l’uomo proietta i suoi bisogni e i suoi desideri e può, dunque, riconoscerli. Per questo motivo, Feuerbach conclude che «la religione è la prima, ma indiretta coscienza che l’uomo ha di sé» [t5].

cristianesimo e alienazione dell’uomo da se stesso

La conoscenza che l’uomo ha di Dio equivale, dunque, alla conoscenza che l’uomo ha di se stesso. Ma nella religione l’uomo non si rende conto che Dio è l’oggettivazione della propria essenza. Solo la filosofia permette di divenire pienamente consapevoli di questo. Ciò spiega, tra l’altro, perché nella storia dell’umanità e degli individui la religione preceda ovunque la filosofia: l’uomo pone la propria essenza fuori di sé prima di riconoscerla come propria. Proiettando la propria essenza su Dio, l’uomo la colloca al di là del suo mondo terreno, sicché per riconquistarla deve negare quest’ulti-

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mo. Qui si annida, secondo Feuerbach, la vera colpa del cristianesimo nei confronti del genere umano: l’aver condotto all’ascetismo, alla fuga dal mondo, al sacrificio e alla rinuncia, in ultima analisi alla spogliazione delle qualità umane a favore di Dio. Secondo Feuerbach, la religione e la teologia devono trasformarsi in antropologia: solo attraverso la progressiva negazione di Dio, infatti, diviene possibile per l’uomo riappropriarsi consapevolmente della propria essenza. Detto altrimenti, l’antropologia – che per Feuerbach coincide con la filosofia stessa – si assume il compito di liberare l’essenza dell’uomo e le sue infinite possibilità dalla loro alienazione religiosa in un Ente estraneo. Una volta riconosciuta la non esistenza di Dio come entità separata, i predicati che prima gli venivano attribuiti – bontà, saggezza, giustizia – sono invece riscoperti come possibilità e prerogative della stessa essenza umana.

negando dio, l’uomo si riappropria di se stesso

Nelle Tesi provvisorie per la riforma della filosofia e nei Princìpi della filosofia dell’avvenire, Feuerbach accusa la filosofia hegeliana di essere una forma di teologia. Entrambe, infatti, alienano l’essenza umana in una realtà posta lontano dall’uomo. Ma, mentre nella teologia l’essenza umana è alienata in Dio, nella filosofia speculativa essa è alienata nello Spirito Assoluto, ossia nel pensiero. Nella filosofia hegeliana Dio diventa l’essenza della ragione stessa. Detto altrimenti, Dio non è più rappresentato come essenza autonoma, distinta dalla ragione: di più, le determinazioni che lo qualificano (per esempio, l’infinità) sono da lui attribuite alla ragione stessa. Come abbiamo visto, Feuerbach sostiene che Hegel abbia commesso lo stesso errore della teologia: egli ha cercato di dedurre il finito dall’infinito e di mostrare che il primo è solo un momento negativo del secondo. In realtà, però, non ha fatto altro che ricavare le determinazioni dell’infinito partendo dalla realtà finita.

la teologia mascherata di hegel

Quale sarà, dunque, secondo Feuerbach, il compito della filosofia dell’avvenire? Essa dovrà partire non – come aveva fatto Hegel – dal pensiero autosufficiente, inteso come Soggetto Assoluto, bensì dal vero soggetto, di cui il pensiero è soltanto un predicato. Tale soggetto è l’uomo in carne e ossa, un essere mortale dotato di sensibilità e bisogni:

ritrovare l’infinito nel finito

La nuova filosofia considera e tiene conto dell’essere quale è per noi, non soltanto cioè come una essenza pensante, ma anche come una essenza realmente esistente – l’essere quindi come oggetto dell’essere, come oggetto di se stesso. L’essere come oggetto dell’essere – e solo questo essere è davvero essere e merita il nome di essere – è l’essere del senso, dell’intuizione sensibile, della sensazione, dell’amore. L’essere è quindi un mistero dell’intuizione, della sensazione, dell’amore (Princìpi della filosofia dell’avvenire, § 33).

L’inizio della filosofia non è Dio o l’Assoluto, ma ciò che è finito, determinato e reale. Occorre dunque partire dall’intuizione sensibile, perché veramente reale è soltanto ciò che è sensibile. Solo attraverso i sensi un oggetto è dato come immediatamente certo. Il sensibile infatti non ha bisogno di 3. le eredità di hegel e il marxismo

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dimostrazione, perché costringe subito a riconoscere la sua esistenza. In questa prospettiva la natura non è più semplice forma estraniata dello spirito, come aveva asserito Hegel, ma diventa la base reale della vita dell’uomo. l’uomo come essere sensibile

Solo dalla sensibilità deriva il vero concetto dell’esistenza; infatti, solo ciò che è piacevole o doloroso modifica lo stato dell’uomo e mostra che qualcosa esiste o manca. Passione, amore, fame sono dunque la «prova ontologica» dell’esistenza di qualcosa: Nelle sensazioni, e proprio nelle sensazioni più comuni, sono celate le più sublimi verità. L’amore è la vera prova ontologica dell’esistenza di un oggetto fuori della nostra testa, né l’essere può esser provato in altro modo che attraverso l’amore, e in generale attraverso la sensazione. Esiste soltanto ciò la cui esistenza ti allieta e la non esistenza ti addolora. La differenza tra soggetto ed oggetto, tra essere e non essere è quindi una differenza che può dar gioia o dolore (Princìpi della filosofia dell’avvenire, § 33).

La corporeità – diversificandosi come maschio o femmina – conduce al riconoscimento dell’esistenza di un essere differente dall’io, che tuttavia è essenziale per la determinazione della mia esistenza. Il vero principio della vita e del pensiero non è dunque l’io, ma l’io e tu, il cui rapporto più reale si configura come amore, interesse per l’esistenza dell’altro . «La vera dialettica – afferma Feuerbach – non è un monologo del pensiero solitario con se stesso, ma un dialogo fra l’io e il tu». la religione e la dipendenza dell’uomo dalla natura

Il fenomeno religioso continuerà a rimanere al centro delle riflessioni di Feuerbach. Nell’Essenza della religione, egli prende in considerazione non soltanto il cristianesimo, ma la religione in generale: essa ha la sua matrice nel sentimento di dipendenza dell’uomo dalla natura. Feuerbach considera l’individuo come un’entità non autosufficiente, bensì dipendente da una realtà oggettiva: la natura. In questa fase del suo pensiero, col termine «natura» Feuerbach non intende tanto la natura dell’uomo, che si esprime sotto forma di sensibilità. Essa è, più in generale, il mondo da cui l’uomo dipende: tale dipendenza si manifesta all’uomo sotto forma di bisogno. Proprio dalla difficoltà di soddisfarlo nasce la religione. Di fronte al carattere illimitato dei propri desideri e delle proprie aspirazioni, l’uomo si rende conto del carattere limitato dei suoi poteri. In questa situazione, Dio viene immaginato come l’essere nel quale tutti questi desideri sono realizzati: a Dio, infatti, nulla è impossibile.

«l’uomo è ciò che mangia»

Nella sua ultima produzione teorica Feuerbach insisterà sull’importanza della conoscenza della natura e di un rapporto armonico dell’uomo con la natura stessa. Ciò lo condurrà a guardare con interesse agli sviluppi di concezioni materialistiche nelle indagini scientifiche della metà del secolo e a considerare l’alimentazione stessa come la base a partire da cui si costituisce e si perfeziona la cultura umana. Significativo, a questo riguardo, è il titolo di un suo scritto del 1862: Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia.

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3. le eredità di hegel e il marxismo

Feuerbach Sensibilità e amore

alef

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3. Marx ed Engels: vita e opere Karl Marx nacque a Treviri nella Renania – allora sotto il dominio prussiano – il 5 maggio 1818 da una famiglia di ebrei convertiti al protestantesimo. Il padre era avvocato e consigliere di giustizia e nutriva simpatie per la cultura illuministica e liberale. Nell’ottobre del 1835 Marx si reca all’università di Bonn per studiare giurisprudenza, ma dopo un anno si trasferisce a Berlino. Sono gli anni delle polemiche tra gli hegeliani a Berlino, ma anche della reazione assolutistica, che giunge al culmine con l’avvento di Federico Guglielmo IV al trono di Prussia. Marx ha intanto abbracciato la filosofia hegeliana ed è vicino agli hegeliani di sinistra. Fra il 1839 e il 1841 prepara la sua tesi di laurea sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, che invia all’università di Jena, dove nell’agosto del 1841 ottiene la laurea.

la formazione di marx tra bonn, berlino e jena

Marx intraprende la strada del giornalismo politico e dal 1842 collabora alla «Rheinische Zeitung» («Gazzetta renana»), pubblicata a Colonia. All’inizio del 1843 la censura prussiana sopprime il giornale. Nel giugno dello stesso anno Marx sposa Jenny von Westphalen e a fine ottobre si reca a Parigi, dove fonda i «Deutsch-französische Jahrbücher» («Annali franco-tedeschi»). Qui egli pubblica – nel 1844 – l’Introduzione alla Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico e Sulla questione ebraica. Nella stessa rivista esce l’Abbozzo di una critica dell’economia politica di Engels. Questo scritto desta l’interesse di Marx, che nel 1844 intraprende un’intensa lettura degli scritti degli economisti: frutto di essa sono i cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844, pubblicati per la prima volta soltanto nel 1932.

esordi da giornalista e primi scritti

Friedrich Engels era nato a Barmen nel 1820 in una famiglia bigotta e reazionaria. Il padre era un ricco industriale tessile che lo aveva avviato al commercio. Durante il servizio militare a Berlino – dall’ottobre 1841 all’ottobre 1842 – Engels si era avvicinato ai giovani hegeliani, aveva collaborato alle loro riviste e aveva aderito al comunismo. Nel novembre del 1842 si era recato a Manchester a lavorare in una fabbrica tessile di cui il padre era comproprietario; durante il viaggio aveva avuto un primo incontro con Marx, ma senza grande seguito. Di ritorno da Manchester avvenne un secondo incontro con Marx a Parigi: qui inizia la loro ininterrotta amicizia e collaborazione. Insieme decidono di prendere le distanze dai giovani hegeliani berlinesi e scrivono La Sacra Famiglia (1845). Marx – espulso da Parigi – si rifugia con la famiglia a Bruxelles, dove nell’estate Engels lo raggiunge per compiere insieme un breve viaggio in Inghilterra. Di ritorno a Bruxelles essi scrivono L’ideologia tedesca, che sarà pubblicata solo nel 1932. Nel 1845 Engels pubblica La situazione della classe operaia in Inghilterra, frutto delle sue osservazioni dirette della realtà sociale inglese.

il sodalizio intellettuale con engels

I due amici si dedicano alla diffusione delle idee del socialismo scientifico. Nel 1847 Marx scrive in francese la Miseria della filosofia in polemica con la  approfondimento, p. 46]. ContempoFilosofia della miseria di Proudhon [

il manifesto della lega dei comunisti

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raneamente, presso l’Associazione degli operai tedeschi di Bruxelles tiene una serie di conferenze, che saranno pubblicate nel 1849 col titolo Lavoro salariato e capitale. All’interno della Lega dei giusti – costituita soprattutto da piccoli artigiani – cominciano a prevalere le tesi del socialismo scientifico. Nel congresso della Lega tenuto a Londra nel giugno del 1847 si decide di cambiare il nome in Lega dei comunisti: l’obiettivo di essa è abbattere il dominio della borghesia per fondare una nuova società senza classi e senza proprietà privata. Al motto precedente: «Tutti gli uomini sono fratelli» viene sostituito il nuovo: «Proletari di tutto il mondo, unitevi!». Alla fine del 1847 Marx ed Engels sono incaricati di redigere il programma della Lega dei comunisti: nasce il Manifesto del partito comunista, pubblicato a Londra – in tedesco – nel febbraio 1848. dalla germania in inghilterra

Nel marzo 1848 la rivoluzione dilagante in Europa raggiunge anche Colonia, ove si recano Marx ed Engels, che il 1° giugno 1848 fanno apparire il quotidiano «Neue Rheinische Zeitung» («Nuova gazzetta renana»), diretto da Marx sino al 19 maggio 1849. La controrivoluzione è ormai vittoriosa in Germania, Marx deve lasciare la Prussia e si reca a Parigi, ma il 24 agosto 1849 deve rifugiarsi in Inghilterra. Engels rimane a combattere l’esercito prussiano, ma è poi costretto a fuggire in Svizzera e quindi a Genova, dove si imbarca per Londra. Il fallimento della rivoluzione borghese in Germania convince i due amici che il centro motore della rivoluzione si deve spostare in un paese capitalistico avanzato, l’Inghilterra. Matura l’idea che la rivoluzione politica dipenda dall’insorgere di crisi economiche.

marx e il soggiorno a londra

Nel 1850, a Londra, essi tentano di riorganizzare la Lega dei comunisti. Essa, tuttavia, si rivelò presto impossibile anche in Germania e in Francia dopo il colpo di Stato di Luigi Bonaparte nel dicembre 1851. Nel 1852 è deciso lo scioglimento della Lega. Marx analizza queste vicende in articoli poi pubblicati con i titoli Le lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850 e Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, mentre Engels lo fa in Rivoluzione e controrivoluzione in Germania. A Londra Marx con la sua famiglia riesce a sopravvivere grazie all’aiuto economico di Engels, che nel frattempo si è stabilito a Manchester per lavorare in una filiale dell’azienda paterna. Dal 1851 al 1862 Marx collabora al «New York Daily Tribune», commentando soprattutto avvenimenti di politica internazionale. Marx riprende lo studio dell’economia e lavora intensamente a raccogliere dati alla biblioteca del British Museum di Londra, riempendo innumerevoli quaderni di estratti e annotazioni, che saranno pubblicati – per la prima volta nel 1939-41 e poi nel 1953 – con il titolo Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica (noti anche come Grundrisse). Una prima elaborazione di questo materiale è pubblicata, nel 1859, con il titolo Per la critica dell’economia politica, ma il risultato più cospicuo è Il Capitale, il cui primo libro viene pubblicato nel 1867.

gli ultimi vent’anni di marx

Nel 1864, a Londra si costituisce l’Associazione internazionale degli operai – nota anche come Prima Internazionale: in essa l’influenza di Marx è predominante. Nel 1872 il Consiglio generale – su proposta di Engels che temeva l’influenza di Bakunin – viene trasferito a New York. In occasione del congresso di Gotha, che approva la costituzione di un unico partito social-

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democratico in Germania, Marx scrive nel 1875 la Critica al Programma di Gotha, pubblicata da Engels nel 1891. Nel 1881 muore la moglie di Marx e, nel gennaio del 1883, la sua figlia maggiore. Poco dopo, il 14 marzo 1883, a Londra muore anche Marx. Engels gli sopravvive, pubblica propri scritti sull’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884) e su Ludwig Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca (1886), cura l’edizione postuma del secondo (1885) e del terzo volume (1894) del Capitale di Marx. In corrispondenza con socialisti di tutti i paesi e collaboratore di varie riviste Engels è ormai il punto di riferimento del movimento operaio internazionale, che nel 1893 lo acclama presidente onorario al congresso di Zurigo. Due anni dopo, nel 1895, egli muore a Londra.

engels punto di riferimento per il movimento operaio

4. Marx: il rovesciamento della filosofia hegeliana All’inizio della loro formazione filosofica Marx ed Engels furono entrambi hegeliani. Nella sua tesi di laurea sulla Differenza tra la filosofia della natura di Democrito e quella di Epicuro, Marx interpreta la situazione della filosofia dopo Hegel in analogia con la situazione delle filosofie ellenistiche dopo Platone e Aristotele. È possibile un nuovo cominciamento della filosofia dopo le grandi sintesi sistematiche? Secondo Marx, proprio in questi momenti diventa auspicabile che la filosofia riprenda contatto con la realtà e cerchi una realizzazione nel mondo esterno. In sintonia con l’atteggiamento dei giovani hegeliani e fedele al principio hegeliano dell’unità di ragione e realtà, Marx si propone dunque di mostrare l’inadeguatezza della realtà rispetto a ciò che è razionale. Qual è allora il compito della filosofia dopo Hegel? Essa deve recuperare la sua funzione illuministica di critica razionale della realtà esistente, allo stesso modo in cui – dopo Aristotele – Epicuro («il più grande illuminista greco») aveva portato sino in fondo la critica della religione, combattuto il fatalismo e rivendicato la libertà dell’autocoscienza umana.

la filosofia come critica razionale della realtà

Nell’Introduzione alla Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico, Marx riprende la tesi di Feuerbach sull’origine della religione [cfr. 3.2]. Questi ha infatti mostrato che la religione è prodotta dall’uomo, ma per uomo si deve intendere non il singolo, bensì «il mondo dell’uomo, lo Stato, la società». In accordo con Feuerbach, Marx asserisce che la religione è «l’oppio del popolo», giacché fornisce una giustificazione e una consolazione nei confronti della miseria reale in cui l’uomo si trova. La vera liberazione dalla religione potrà quindi avvenire soltanto attraverso la generale emancipazione dell’uomo come essere sociale. La critica della religione porta alla conclusione che l’essenza suprema per l’uomo non è Dio, ma l’uomo stesso. Da ciò scaturisce la necessità di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, spossessato della sua essenza.

è l’uomo a creare dio e la religione...

Marx avverte che la critica feuerbachiana alla religione deve essere estesa anche alla sfera della politica e dello Stato. Come si è visto, Feuerbach aveva

... e la società civile a creare lo stato

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mostrato la necessità d’invertire soggetto e predicato nella dialettica hegeliana, facendo dell’uomo il soggetto e di Dio il predicato. Secondo Marx, questa operazione deve essere applicata anche alla concezione hegeliana del rapporto tra Stato e società civile. Per Hegel lo Stato era la realtà incondizionata, da cui dipendeva tutto il resto, la famiglia e la società civile, che solo in esso trovavano realizzazione compiuta, proprio come nella religione tutto dipende da Dio. Per Marx, invece, nella realtà storica la priorità spetta alla società civile, non allo Stato: «Come non è la religione – egli afferma – che crea l’uomo, ma è l’uomo che crea la religione, così non è la costituzione che crea il popolo, ma il popolo la costituzione». lo stato non è la sintesi degli interessi di tutti

Marx condivide l’analisi di Hegel della moderna società civile come sistema di bisogni, il cui principio è l’interesse particolare dei singoli e dei ceti. Tuttavia, egli non accoglie la tesi hegeliana dello Stato come sintesi degli interessi particolari e generali né l’idea che la burocrazia coincida con la classe universale, capace di agire nell’interesse di tutti. Secondo Marx, il processo storico reale è caratterizzato da una tendenza a realizzare l’idea di democrazia, intesa come la massima partecipazione possibile al potere legislativo. A suo avviso, tuttavia, l’emancipazione politica non è ancora quella umana: l’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge è puramente astratta e formale – non sostanziale – in quanto lascia sussistere, anzi favorisce, la disuguaglianza economica e sociale.

la scissione dell’uomo moderno

Nei cosiddetti «diritti dell’uomo», sanciti dalle rivoluzioni americana e francese, si nasconde una mistificazione. Essi infatti non fanno altro che assolutizzare come essenza dell’uomo un tipo particolare di uomo – il bourgeois – ossia l’individuo privato della società borghese. Quest’ultimo è definito dalla proprietà, è mosso da interessi particolari ed è quindi ostile agli altri uomini, considerati come dei limiti alla propria libertà. Secondo Marx, nella società attuale l’uomo conduce una doppia vita: la vita nella comunità politica e la vita nella società civile, nella quale agisce come individuo privato. Nella società borghese – contrassegnata dalla separazione tra pubblico e privato – l’uomo è solo astrattamente membro dello Stato, ossia cittadino (citoyen).

proletariato ed emancipazione dell’uomo

Ma come è possibile completare l’emancipazione politica conseguita dalla rivoluzione francese e così ottenere la piena emancipazione umana? Secondo Marx, questa può essere raggiunta solo attraverso la rivoluzione del proletariato. Nella prima fase del suo pensiero, quella contenuta negli Annali franco-tedeschi e nei Manoscritti economico-filosofici del 1844, egli non pensa ancora al proletariato internazionale, ma soprattutto a quello tedesco, né parla ancora di comunismo, anche se riconosce nell’esistenza della proprietà privata il fattore principale della disuguaglianza e della degradazione dell’essenza umana. Il proletariato, dunque, e non la burocrazia – come riteneva Hegel – rappresenta la vera «classe universale». Solo attraverso la classe nella quale l’essenza dell’uomo è andata completamente perduta è possibile riconquistare totalmente tale essenza. Il problema è di rendere cosciente il proletariato della sua essenza e, quindi, del suo compito rivoluzionario. La filosofia diventa allora qualcosa che dev’essere realizzato pratica-

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mente e la teoria diventa una forza materiale quando riesce a «impadronirsi» del proletariato: in questo senso si può affermare che il proletariato è «il vero erede della filosofia classica tedesca».

APPROFONDIMENTO

Il socialismo utopistico e la riorganizzazione della società

L’interpretazione della rivoluzione francese e delle sue conseguenze è il problema che sta a cuore a tutti i pensatori francesi dell’età napoleonica e della restaurazione. Alcuni tra loro la considerano come un punto di non ritorno e concentrano la loro attenzione sul futuro, puntando a una organizzazione completamente nuova della società: si tratta delle correnti di pensiero generalmente classificate sotto l’etichetta di socialismo utopistico. In realtà, questi pensatori non si considerano degli utopisti – ossia costruttori di progetti fantastici e inapplicabili – ma tentano di realizzare le loro idee, diffondendole mediante libri e giornali e procedendo talvolta anche a esperimenti pratici. Uno degli esponenti più significativi di questo gruppo di intellettuali fu senz’altro Claude-Henri de Rouvroy de Saint-Simon (17601825). Tra le sue opere più importanti occorre ricordare: le Lettere di un abitante di Ginevra ai suoi contemporanei (1803), nelle quali enunciò la tesi secondo cui le rivoluzioni scientifiche sono causa di quelle politiche e presentò un progetto di governo dell’umanità affidato a scienziati liberamente eletti; l’Abbozzo di una nuova enciclopedia (1810); Il sistema industriale (1821-22) e il Catechismo degli industriali (1823), in cui tentò di delineare le caratteristiche della nuova società industriale. Secondo Saint-Simon, la rivoluzione francese ha seppellito il vecchio mondo, fondato sul sapere teologico e organizzato su basi feudali. Essa ha anche preparato il

terreno alla nascita di una nuova epoca organica. Quest’ultima si fonderà su un corpo sistematico di credenze – la scienza – diverso da quello che reggeva l’antica società. La società del passato trovava la sua legittimazione in un sistema di credenze teologiche, di cui era portatrice la classe che deteneva il potere spirituale, il clero. La società moderna è invece caratterizzata da un nuovo elemento: l’industria, sorta dal progresso scientifico e dalle sue applicazioni tecniche. Nella nuova epoca industriale – il cui scopo sono le attività produttive – la posizione che nelle precedenti società aristocratiche – fondate sulla guerra – era occupata dalla nobiltà feudale è ora assunta dalle nuove classi produttive (non solo quelle legate alla manifattura, ma anche al commercio e all’agricoltura). Nella nuova epoca gli industriali devono assumere la direzione della vita pubblica, in virtù di un potere fondato non sulla costrizione, ma sul consenso. Tra i membri delle classi produttive, Saint-Simon colloca anche tutti coloro che promuovono il nuovo sistema di credenze fondato sui metodi delle scienze positive. Per sua stessa costituzione, inoltre, la scienza è universale e pacifica. Pertanto, la nuova società scientifico-industriale avrà anch’essa i caratteri dell’universalità. Essa si estenderà all’umanità intera e sarà contrassegnata dalla coesistenza di ordine e di progresso, ossia da una forma di progresso pacifico, senza violente fratture rivoluzionarie. La riorganizzazione della società su nuove basi è l’obiettivo perse-

guito anche da Charles Fourier (1772-1837), ma il perno di tale progetto è ravvisato non tanto nella scienza – come in SaintSimon – quanto nelle passioni umane. Tra le sue opere più significative possiamo ricordare Il nuovo mondo industriale e societario, o invenzione del procedimento d’industria attraente e naturale distribuita in serie passionali (1829). Fourier parte dalla constatazione che la società del suo tempo è un mondo capovolto: in essa l’ordine naturale delle cose è rovesciato, dal momento che vi regnano la miseria e la frode. Rispetto a questa degenerazione prodotta dalla civiltà, la natura rappresenta – come per Rousseau – il polo positivo. Per Fourier, ciò significa che tutte le passioni e le inclinazioni proprie della natura umana sono buone: esse devono pertanto essere assecondate e soddisfatte, mentre sinora sono state considerate cattive e quindi represse. Le passioni fondamentali sono l’amore per la ricchezza e l’amore per i piaceri. Se si vuole raggiungere un’organizzazione armonica della società, occorre far leva su queste due passioni e non reprimerle. Si tratta pertanto di modificare le sfere del lavoro e dei rapporti tra i sessi, assecondando l’impulso naturale tendente al piacere dei sensi nonostante l’opposizione dei doveri e dei pregiudizi. Il lavoro dovrà essere suddiviso in funzioni differenti esercitate da individui differenti secondo i loro gusti – ossia le loro attrazioni passionali – e si dovranno formare gruppi nei quali le passioni individuali siano armonizzate tra lo-

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ro, in modo da evitare ogni conflitto e favorire al tempo stesso l’emulazione e la cooperazione. La passione più importante è il bisogno di varietà: saranno quindi necessari turni brevi di lavoro, per evitare che si cada nella noia, frequenti passaggi all’esercizio di funzioni differenti e mobilità da un gruppo all’altro. In tal modo – diversamente da quanto avviene nell’industria attuale, dove la varietà è repressa e il lavoro è uniforme – potrà costituirsi un’industria attraente, capace di assicurare il massimo della produttività. Su questa base si formeranno le falangi, ossia gruppi di circa 1800 persone di entrambi i sessi, le quali vivranno in falansteri economicamente e socialmente autosufficienti, anche se collegati tra loro. Questi falansteri sono al tempo stesso abitazioni collettive, luoghi di lavoro e di divertimento, circondati da aree coltivabili e foreste. Nei falansteri, secondo Fourier, potrà trovare finalmente compimento la liberazione sessuale, sinora repressa attraverso l’affermazione del predominio maschile sulla donna e l’istituzione della famiglia monogamica. I seguaci di Fourier ten-

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tarono l’esperimento di organizzare un falansterio, ma esso fallì anche per mancanza di mezzi e Fourier – sempre più in disaccordo con essi – lo sconfessò. Pierre-Joseph Proudhon (18091865) nel 1840 pubblicò il suo primo scritto Che cos’è la proprietà?. Nel 1844, a Parigi, entrò in contatto con Bakunin e Marx, con il quale tuttavia interruppe ben presto i rapporti. Nel 1846 pubblicò il Sistema delle contraddizioni economiche o filosofia della miseria, a cui Marx rispose con la Miseria della filosofia [cfr. 3.7]. Nel 1859 pubblicò Sulla giustizia considerata nella rivoluzione e nella Chiesa, forse la sua opera più importante. Contrariamente a quanto pensava Marx, Proudhon ritiene che l’economia non poggi ancora su basi scientifiche. Essa piuttosto deve essere diretta dalla volontà umana e subordinata a obiettivi superiori, in primo luogo alla giustizia. La storia è il dominio della libertà, che ha il proprio fine nella realizzazione della giustizia. Sono possibili due modi di concepire la giustizia: 1) come risultato di un’imposizione da parte di un’autorità esterna superiore

all’individuo; 2) come facoltà dell’individuo stesso di riconoscere la pari dignità di ogni altro individuo. Nel primo caso si pretende di realizzare la giustizia a scapito della libertà individuale, ma Proudhon respinge la legittimità di qualsiasi autorità superiore all’individuo – e precisamente di quella di Dio in ambito religioso, dello Stato nella sfera politica e della proprietà in quella economica. Di qui il suo anarchismo, che significa letteralmente «rifiuto di ogni potere». Lo Stato è considerato un’istituzione assurda o illegale, finalizzata allo sfruttamento dei propri simili mediante la forza, così come la proprietà privata è finalizzata allo sfruttamento del lavoro altrui. Ogni individuo ha invece il diritto di godere della massima libertà, a patto che uguale libertà sia riconosciuta anche a tutti gli altri. Sulla base della libertà e della giustizia, come riconoscimento della pari dignità altrui, è possibile la libera organizzazione di una società mutualistica. In essa i lavoratori-produttori si scambiano i prodotti, in modo da costituire un tutto armonico.

5. Marx: la critica dell’economia politica

e la condizione dei lavoratori l’intuizione di engels

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Nell’Abbozzo di una critica dell’economia politica (1844) – giudicato da Marx «geniale» – Engels mostrava che l’aumento dell’accumulazione capitalistica genera crisi economiche, una riduzione dei salari e l’impoverimento progressivo delle classi lavoratrici, con il conseguente acutizzarsi delle tensioni sociali. Questa situazione sembrava smentire l’esaltazione dei vantaggi della proprietà privata da parte dei teorici dell’economia: secondo Engels, miseria e conflitti sociali potevano essere eliminati soltanto abolendo la proprietà privata – ossia instaurando il comunismo. Stimolato da quest’opera di Engels, Marx s’immerge a Parigi nella lettura degli economisti (in primo  approfondimento, p. 54]) e dei loro critici luogo di Smith e di Ricardo [ (ad esempio, il socialista Proudhon [  approfondimento, sopra]). 3. le eredità di hegel e il marxismo

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Il risultato di questo lavoro sono i quaderni pubblicati – soltanto nel nostro secolo – con il titolo Manoscritti economico-filosofici del 1844. In questo scritto Marx cerca anzitutto di individuare le leggi che regolano il movimento dell’industria e di spiegare – in base a esso – la formazione del proletariato. Il mondo dell’economia non è una totalità di rapporti armonici – come era apparso a Smith – ma un terreno di conflitti, che contraddicono i presupposti di ordine naturale e sociale, di felicità della maggioranza, sostenuti dalla maggior parte degli economisti. Per gli economisti i conflitti sono soltanto accidentali: quando si formulano le leggi economiche, dunque, occorre farne astrazione. Ciò equivale, da un lato, ad attribuire a queste leggi – che di fatto coincidono con quelle della produzione capitalistica – un carattere di immutabilità ed eternità; dall’altro lato, ad assumere la proprietà privata come un fatto che non richiede spiegazioni.

economia capitalista e proprietà privata non sono «fatti» immutabili

 apProprio questo aveva messo in discussione – tra gli altri – Proudhon [ profondimento, p. 46] con la domanda formulata nel titolo del suo scritto Che cos’è la proprietà? (1840), alla quale aveva risposto: un furto. Di fatto, secondo Marx, la società industriale si arricchisce in misura proporzionale all’impoverimento della gran massa della popolazione. L’economia politica – ossia la disciplina che studia le leggi attraverso cui sono prodotti, distribuiti e consumati i beni utili alla soddisfazione dei bisogni umani – sarebbe colpevole di mistificare il rapporto tra l’operaio, il suo lavoro e la produzione. Secondo Marx, infatti, essa occulta l’alienazione che caratterizza il lavoro nella società industriale moderna.

la proprietà è un «furto» e il lavoro è alienato

Nella produzione capitalistica l’ alienazione assume vari aspetti connessi tra loro [t6].

che cos’è l’alienazione?

1. In primo luogo, l’operaio si estrania dal prodotto del suo lavoro: ciò che egli produce non gli appartiene, ma è esclusivo possesso del capitalista, per il quale lavora. 2. In secondo luogo, l’operaio si estrania da sé, ossia non considera il proprio lavoro come parte della sua vita reale. Questa si svolge altrove, a casa, fuori e indipendentemente dal lavoro, che si trova sotto il comando di un potere estraneo. 3. In terzo luogo, l’operaio perde la sua essenza generica (in tedesco: Gattungswesen). Ciò che distingue il genere umano da quello animale è il lavoro. Attraverso di esso l’uomo – sotto la spinta dei bisogni – oggettiva le sue capacità e si appropria della natura. Ma, nell’epoca attuale, il lavoro continua a essere l’espressione più autentica dell’essenza dell’uomo? Marx ritiene che nella moderna produzione capitalistica il lavoro non consista più nella realizzazione positiva della natura umana, ma sia diventato soltanto un mezzo di sopravvivenza individuale. 4. Un’importante conseguenza di ciò è che l’uomo si estrania dall’altro uomo. L’unità organica dell’umanità si realizza oggettivamente nell’attività lavorativa, dove ogni uomo è legato da un rapporto sostanziale con gli altri uomini. Ma nel sistema di produzione capitalistico l’esistenza della proprietà privata comporta la frantumazione dell’essenza sociale degli uomini. In base a essa, infatti, i prodotti non appartengono a coloro che – attraverso la 3. le eredità di hegel e il marxismo

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loro comune attività – ne sono stati i fautori, bensì soltanto a colui che ne è diventato il proprietario. per hegel il lavoro riguarda lo spirito

Secondo Marx, tanto Hegel quanto gli economisti hanno riconosciuto che il lavoro è il tratto costitutivo dell’essenza dell’uomo, ma ne hanno scorto soltanto il lato positivo. Per gli economisti il lavoro è qualcosa di naturale, in qualche modo privo di storia; Hegel invece ha avuto il merito di aver colto il carattere storico del lavoro. Per Hegel, infatti, lo spirito è autoproduzione di se stesso e l’uomo è il risultato del proprio lavoro. Questa autoproduzione è un processo di sviluppo, in cui lo spirito si oggettiva nel mondo – ossia diventa altro da sé – e poi ritorna a sé arricchito da tutte le determinazioni acquisite nel corso del processo. Il lavoro dello spirito è, dunque, un processo di alienazione e disalienazione. Ma questo processo, secondo Hegel, avviene soltanto nel pensiero e coincide con la storia dell’autocoscienza.

per marx disalienazione e disoggettivazione non coincidono

Proprio questo è l’aspetto che Marx non può condividere. Per Hegel, le nozioni di alienazione e di oggettivazione sono equivalenti. Ciò significa che ogni relazione del soggetto con un oggetto altro da sé è alienazione, ossia perdita di sé in altro. La disalienazione – ossia il processo contrario con cui il pensiero ritorna a se stesso – corrisponderà pertanto alla disoggettivazione – ovvero alla negazione di ogni relazione con il mondo oggettivo. Secondo Marx, invece, l’oggettività costituisce per l’uomo un condizionamento intrinseco e ineliminabile – e non semplicemente un aspetto provvisorio da superare dialetticamente.

hegel contro feuerbach...

Da un lato, dunque, Marx riconosce a Hegel il merito di aver colto che l’essenza dell’uomo è suscettibile di perdita (alienazione) e di riappropriazione (disalienazione): in questo modo egli contrappone Hegel a Feuerbach, che aveva concepito l’essenza dell’uomo come qualcosa di statico, di a-storico.

... feuerbach contro hegel

Dall’altro lato, Marx attribuisce a Hegel il torto di concepire il processo di alienazione e disalienazione in maniera idealistica, ovvero come un processo puramente spirituale che riguarda soltanto il pensiero. Contro questo aspetto Marx fa valere l’istanza di Feuerbach, che ha rivendicato il primato della sensibilità e della corporeità. In definitiva, secondo Marx, l’oggettivazione rappresenta un aspetto ineliminabile dell’essenza umana e consiste nell’uso della natura in cooperazione con gli altri uomini. Per questo motivo, l’uomo è al tempo stesso un essere naturale – in quanto è legato costitutivamente alla natura – e un essere storico – in quanto può rimuovere l’alienazione e recuperare la sua essenza senza per questo negare la propria oggettività.

disalienazione ed eliminazione della proprietà privata

La proprietà è «l’espressione materiale, sensibile, della vita umana estraniata» e, pertanto, la soppressione della proprietà e dei rapporti sociali fondati su essa coinciderà con la soppressione di ogni alienazione. Il superamento dell’alienazione avviene dunque con il comunismo , nel quale l’esecuzione delle attività produttive coincide con la realizzazione dell’essenza umana. Marx contrappone nettamente la sua concezione del comunismo a tutte le

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forme di comunismo rozzo, fondate sulla negazione della civiltà: esse pretendono, infatti, di tornare alla «innaturale semplicità» dell’uomo povero e privo di bisogni, non ancora giunto alla proprietà privata . Comunismo significa invece, per Marx, riappropriazione dell’essenza umana in tutta la ricchezza delle determinazioni acquisite durante lo sviluppo storico, ossia la liberazione e manifestazione totale di tutte le facoltà umane. Ciò significa che le tecniche e le produzioni culturali – sviluppate nelle epoche precedenti – restano disponibili anche per una società diversa da quella nella quale si sono formate e possono essere recuperate anche nella futura società comunistica. In che cosa consiste, dunque, il progresso dell’umanità? Per Marx, lo sviluppo tecnico – migliorando i rapporti dell’uomo con la natura – è condizione necessaria, ma non sufficiente, per la realizzazione dell’essenza umana. Questa infatti include anche i rapporti sociali, dai quali dipende l’uso della tecnica. Nel comunismo l’agire umano sarà contrassegnato dalla libertà e dall’universalità, dall’assenza di ogni costrizione nei rapporti sociali, ma anche dal massimo dominio dell’uomo sulla natura, al fine di soddisfare il maggior numero di bisogni. Il comunismo, per Marx, non è un’utopia o un ideale astratto – come pensavano molti socialisti del tempo – ma l’esito verso il quale procede lo stesso movimento della storia:

il progresso dell’umanità e il comunismo

Il comunismo in quanto effettiva soppressione della proprietà privata quale autoalienazione dell’uomo, e però in quanto reale appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo; e in quanto ritorno completo, consapevole, compiuto all’interno di tutta la ricchezza dello sviluppo storico, dell’uomo per sé quale uomo sociale, cioè uomo umano. Questo comunismo è, in quanto compiuto naturalismo, umanismo, e in quanto compiuto umanismo, naturalismo. Esso è la verace soluzione del contrasto dell’uomo con la natura e con l’uomo; la verace soluzione del conflitto fra esistenza ed essenza, fra oggettivazione e affermazione soggettiva, fra libertà e necessità, fra individuo e genere. È il risolto enigma della storia e si sa come tale soluzione (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Terzo manoscritto).

6. Marx ed Engels: il materialismo storico Nelle 11 Tesi su Feuerbach di Marx e nell’Ideologia tedesca – opera di Marx ed Engels – Feuerbach è presentato come colui che ha saputo smascherare il mondo rovesciato della religione, rintracciandone la radice antropologica. Secondo i due autori, tuttavia, egli non è stato capace di cogliere adeguatamente il carattere storico della natura umana e le condizioni storiche che rendono possibile il costituirsi della religione stessa. Il problema per Marx ed Engels consiste infatti nell’abolire – più che la religione – le condizioni storiche che la rendono possibile. Questo programma di modificazione storica della realtà trova espressione nella celebre tesi secondo cui i filosofi sinora si sono accontentati di interpretare il mondo, mentre ora si tratta di trasformarlo [t7].

alef

Marx Comunismo e comunismo rozzo

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l’eliminazione della religione deriva dalla disalienazione economica

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il materialismo di feuerbach è superato

Nella filosofia di Feuerbach è ancora forte un’eredità illuministica, soprattutto nella sua concezione della natura umana come essenza priva di storia. In più, il materialismo di Feuerbach – vicino a quello settecentesco – considera l’uomo come entità naturale dotata di corporeità e sensibilità e quindi fondamentalmente passiva. Detto altrimenti, per Feuerbach, la realtà sensibile rappresenta sempre un oggetto già costituito, non un prodotto dall’attività umana. Come si è visto, per questo aspetto Hegel era apparso superiore a Feuerbach, in quanto aveva messo in luce il carattere autoproduttivo dell’attività umana, anche se lo aveva attribuito soltanto allo spirito o al pensiero puro.

l’uomo è il suo lavoro

Secondo Marx ed Engels, invece, la dimensione sensibile dell’uomo non è soltanto passiva, ma si configura come prassi trasformatrice della natura. Di più, nell’Ideologia tedesca si afferma che gli uomini si distinguono dagli animali non per il fatto che sono dotati di pensiero, bensì quando cominciano a produrre i loro mezzi di sussistenza: Si possono distinguere gli uomini dagli animali per la coscienza, per la religione, per tutto ciò che si vuole; ma essi cominciarono a distinguersi dagli animali allorché cominciarono a produrre i loro mezzi di sussistenza, un progresso che è condizionato dalla loro organizzazione fisica. Producendo i loro mezzi di sussistenza, gli uomini producono indirettamente la loro stessa vita materiale. [...] Il fatto è dunque il seguente: individui determinati che svolgono un’attività produttiva secondo un modo determinato entrano in questi determinati rapporti sociali e politici. In ogni singolo caso l’osservazione empirica deve mostrare empiricamente e senza alcuna mistificazione e speculazione il legame fra l’organizzazione sociale e politica e la produzione. L’organizzazione sociale e lo Stato risultano costantemente dal processo della vita di individui determinati; ma di questi individui, non quali possono apparire nella rappresentazione propria o altrui, bensì quali sono realmente, cioè come operano e producono materialmente, e dunque agiscono fra limiti, presupposti e condizioni materiali determinate e indipendenti dal loro arbitrio (MarxEngels, L’ideologia tedesca, parte I).

In altre parole, ciò che gli individui sono dipende dalle condizioni materiali della loro produzione: questo è il presupposto fondamentale del materialismo storico . Quest’ultimo si propone di descrivere le varie forme che le attività produttive e la divisione del lavoro hanno assunto nella storia, mostrando come a esse corrispondano determinate forme di proprietà. Secondo Marx, per comprendere il processo storico bisogna partire dallo studio dei modi di produzione della vita materiale. L’analisi storica deve dunque rinunciare al concetto di «essenza umana», muovendo – più che da quanto gli uomini esplicitamente dicono o pensano di essere – dai bisogni dei singoli uomini e dai mezzi che essi utilizzano per soddisfarli. Per questa ragione, inoltre, la storia umana cessa di essere il campo d’azione di soggetti immaginari (l’autocoscienza hegeliana) e si presenta, invece, come l’insieme dei modi in cui gli uomini soddisfano di volta in volta i loro bisogni materiali e dei rapporti sociali che ne derivano. 50

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Per Marx la base della società è economica ed è data dal modo in cui gli uomini si procurano la sussistenza. La soddisfazione dei primi bisogni e l’incremento della popolazione generano nuovi bisogni, per soddisfare i quali occorre una più articolata divisione del lavoro. Il grado di sviluppo delle forze produttive è quindi indicato dal grado di sviluppo della divisione del lavoro: questa ha assunto storicamente varie forme, dando luogo in particolare alla separazione tra città e campagna – cioè tra agricoltura, da una parte, e commercio e industria, dall’altra –, e successivamente anche tra industria e commercio. Il modo di produzione non coincide con la società nella sua totalità, ne è soltanto la base. La società civile, infatti, è costituita dall’insieme delle relazioni materiali tra individui entro un determinato grado di sviluppo delle forze produttive.

aumento dei bisogni e divisione del lavoro

Ai gradi di sviluppo della divisione del lavoro corrispondono forze produttive diverse e diverse forme di proprietà. Marx ed Engels distinguono quattro tipi di proprietà. 1) La proprietà tribale è quella in cui predominano la caccia, la pesca e la pastorizia e dove – successivamente – interviene anche l’agricoltura: in essa la divisione del lavoro è ancora scarsa. 2) La forma di proprietà caratteristica della comunità antica è quella in cui ha fatto la sua comparsa lo Stato e gli schiavi costituiscono la principale forza produttiva. In questa forma compare già la divisione del lavoro tra città e campagna e, quindi, tra agricoltura, industria e commercio. 3) La proprietà feudale è quella in cui predomina l’agricoltura. La società è organizzata gerarchicamente in ordini e corporazioni e incominciano a generarsi le prime forme di capitale. 4) La proprietà caratteristica del modo di produzione capitalistico è quella in cui predomina l’industria.

divisione del lavoro e forme di proprietà

Un importante aspetto della concezione materialistica della storia è che i modi di produzione determinano il carattere dei rapporti sociali e politici e la stessa produzione delle idee: non la coscienza determina la vita, ma la vita determina la coscienza e i suoi prodotti. Questo è il nucleo della distinzione tra struttura e sovrastruttura , secondo la quale le idee e le produzioni culturali – la religione e la stessa filosofia, oltre che la politica e il diritto – non si generano in maniera indipendente, ma sono anch’esse il frutto di determinati tipi di organizzazione economica e sociale. Ciò significa che per comprendere il processo storico occorre partire dai modi in cui gli uomini producono la loro vita materiale, più che da ciò che essi dicono o pensano di essere.

«non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza»

Ma, se sono il frutto di precisi rapporti di forza economico-sociali, perché le attività intellettuali – e in particolare la filosofia – appaiono libere di determinarsi da sé? Per rispondere a questa domanda Marx ricorre alla nozione di ideologia [t8]. A suo avviso, i prodotti culturali sono «ideologici» perché danno l’illusione di essere autonome manifestazioni dello spirito umano, ma in verità – spesso senza averne nemmeno coscienza – esprimono le idee della classe dominante e forniscono un’immagine parziale o addirittura rovesciata della realtà, di fatto giustificando l’esistente. Proprio questa era – secondo Marx ed Engels – l’illusione dei giovani hegeliani, che consideravano la genesi delle idee indipendente dalla base materiale. Essi rappresentavano appunto «l’ideologia tedesca», in quanto ritenevano che ba-

le idee e la loro genesi materiale

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I RAPPORTI TRA STRUTTURA E SOVRASTRUTTURA SOVRASTRUTTURA

Marx intende mettere in evidenza la dipendenza dei fenomeni politici, sociali e culturali dalla struttura economica, senza però intenderla come un rapporto meccanico di condizionamento. Anche la sovrastruttura può influire sulla vita reale degli uomini, sebbene sia per lo più il riflesso della base economica e l’espressione della classe dominante.

Istituzioni politiche e giuridiche

Idee morali

Idee religiose

Idee filosofiche

Idee politiche

Produzioni artistiche e culturali

determina i rapporti sociali, politici e la produzione delle idee

può incidere sulla

STRUTTURA Modi di produzione Divisione del lavoro Rapporti di produzione

stasse la critica delle idee dominanti e la sostituzione di esse con altre idee per condurre gli uomini all’emancipazione. la struttura condiziona la sovrastruttura

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Marx ed Engels si premureranno, tuttavia, di evitare interpretazioni scorrette del rapporto fra struttura e sovrastruttura. Marx – già nell’Introduzione, scritta nel 1857, a Per la critica dell’economia politica – ribadirà che il rapporto tra sviluppo della produzione materiale e sviluppo della produzione artistica non è del tutto parallelo: ciò, tra l’altro, consente di spiegare perché i prodotti dell’arte greca costituiscano ancor oggi un oggetto di godimento estetico, pur essendo mutate le condizioni materiali e il tipo di società in cui ebbero origine. Inoltre, le stesse produzioni culturali e intellettuali possono – a loro volta – agire sulla struttura e sulla vita reale degli uomini – dalle quali derivano. Engels respingerà in seguito ogni interpretazione deterministica del rapporto struttura-sovrastruttura, sostenendo che non si può considerare il fattore economico come l’unico fattore determinante. Tale rapporto – come del resto la tipologia delle forme di proprietà – serve anzitutto a orientare l’analisi storica e la formulazione di programmi politici. Per questo motivo, esso non va inteso come una gabbia entro la quale costringere a forza il materiale empirico fornito dalle vicende storiche. 3. le eredità di hegel e il marxismo

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7. Marx ed Engels: lotta di classe

e rivoluzione proletaria

La concezione materialistica della storia pone, secondo Marx ed Engels, il socialismo su basi scientifiche, perché si fonda sull’analisi del processo storico e delle condizioni reali che porteranno al socialismo ed è, quindi, lon approtana dalle costruzioni utopiche e immaginarie dei primi socialisti [ fondimento, p. 45]. Un esempio tipico di questa erronea impostazione era dato da Proudhon, sottoposto a critica da Marx nella Miseria della filosofia. Proudhon accettava la teoria economica di Ricardo, ma la estendeva a ogni epoca della storia, ricorrendo a leggi e idee eterne come motori della storia. Spiegando i fenomeni economici in termini morali e filosofici, egli mistificava la reale base economica e storica della società capitalistica, con la conseguenza di propugnare – più che la soppressione di quest’ultima – un astratto ideale di giustizia, una migliore distribuzione delle ricchezze e una politica di collaborazione tra le classi.

la critica del socialismo utopistico

A ciò Marx ed Engels contrappongono – soprattutto nel Manifesto del partito comunista – la tesi secondo la quale il motore della storia è la lotta tra le classi . La missione storica delle classi è determinata dalla loro collocazione all’interno di specifici modi di produzione. La divisione del lavoro – da cui deriva la proprietà privata – genera la disuguaglianza sociale e, quindi, i conflitti tra interessi particolari e interesse collettivo, tra l’attività del singolo e chi controlla questa attività: da ciò emerge la lotta di classe. Quando a un determinato grado di sviluppo della divisione del lavoro non corrispondono più rapporti sociali adeguati, allora la relazione tra forze produttive e forme di cooperazione sociale entra in «contraddizione» e si produce una crisi. A essa si accompagna la transizione rivoluzionaria verso un diverso modo di produzione e il dominio di una nuova classe.

la «contraddizione» tra forze produttive e rapporti di produzione

Così è avvenuto con la borghesia nei confronti del precedente mondo feudale: Marx ed Engels tracciano un profilo storico dei trionfi della borghesia sul piano economico e intellettuale. L’ascesa della borghesia coincide con lo sviluppo del capitalismo: solo con la forma moderna della proprietà e la formazione dell’industria, si afferma un modo di produzione esteso su scala mondiale, ma con esso si genera anche una massa ingente di forze produttive – il proletariato industriale – destinato ad abbattere il dominio della borghesia, a sopprimere le classi e a eliminare la divisione del lavoro. Nella rivoluzione i proletari non hanno nulla da perdere – tranne le loro catene – e hanno invece un mondo da guadagnare, sicché Marx ed Engels possono concludere il Manifesto con la parola d’ordine: «Proletari di tutti i paesi, unitevi!» [t9].

borghesia e proletariato

APPROFONDIMENTO

La «rivoluzione industriale» e gli economisti classici

Nella seconda metà del Settecento la vita economica inglese era stata trasformata in profondità da

quella che viene comunemente chiamata rivoluzione industriale. Quest’ultima fu caratterizzata da

due fattori fondamentali. In primo luogo, si applicarono ai processi produttivi – soprattutto

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quelli legati all’industria tessile e metallurgica – le invenzioni e i ritrovati tecnici che si susseguivano ormai rapidamente. L’introduzione delle macchine nei processi di lavorazione ebbe due immediate conseguenze: la vertiginosa crescita della produzione e l’altrettanto rapida riduzione delle manovalanze, sostituite dai mezzi meccanici. In secondo luogo, l’incremento della produzione e dei commerci ebbe come conseguenza la concentrazione di grandi capitali nelle mani della borghesia delle città – tradizionalmente alla guida dell’attività manifatturiera – mentre parallelamente la nobiltà accentrava in sé la ricchezza agricola della nazione. Adam Smith (1723-1790), promotore dell’economia politica come scienza e teorico del liberismo [cfr. vol. II, 13.8] nel suo capolavoro, l’Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni (1776), sosteneva che l’elemento propulsore di ogni attività economica è l’interesse individuale. Apparentemente, gli interessi individuali sono in conflitto: gli imprenditori hanno interesse a pagare il meno possibile il lavoro dei loro operai; questi ultimi, invece, vogliono percepire il salario più alto possibile. Tuttavia, se si adotta un punto di vista generale, gli

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interessi individuali sembrano comporre un tutto armonico e determinare un vantaggio generale da cui traggono profitto anche coloro che sono apparentemente più svantaggiati. L’ottimismo di Smith dovette, tuttavia, scontrarsi con la sempre meno equa distribuzione della ricchezza, la graduale riduzione dell’occupazione e il fenomeno dilagante della povertà. Nel Saggio sui princìpi della popolazione (1798) Thomas Robert Malthus (1766-1834) aveva messo in luce il crescente divario tra la crescita demografica e quella delle risorse per la sussistenza. La popolazione – nota Malthus – cresce infatti secondo una proporzione geometrica (1-2-4-8, ecc.), per cui ogni singolo aumento è principio di moltiplicazione degli aumenti successivi. Viceversa, i mezzi per la sussistenza aumentano soltanto in proporzione aritmetica (1-2-3-4, ecc.). Di conseguenza l’aumento delle risorse non riesce a tenere il passo con la crescita della popolazione: ci saranno sempre più esseri umani e, proporzionalmente, sempre meno risorse sufficienti a sfamarli. Come soluzione Malthus propone un rigoroso controllo delle nascite, cioè un «ritegno morale» che consiste nell’astenersi dal matrimonio e dalle pratiche sessuali.

Anche David Ricardo (1772-1823) – autore di Princìpi di economia politica e delle imposte (1817) – mostra grande interesse per le disfunzioni della società e dell’economia. Pur condividendo i princìpi liberistici di Smith, Ricardo non ritiene che la legge della domanda e dell’offerta possa condurre a un’equa redistribuzione della ricchezza. Egli individua due fattori di sperequazione. Il primo è dato dal rapporto tra la rendita fondiaria – cioè il reddito prodotto dalla proprietà della terra – e la crescita demografica. Per sfamare la popolazione sarà necessario coltivare anche i terreni meno fertili, con maggiori costi di lavoro e una minore rendita. Poiché la popolazione crescerà sempre di più, sarà sempre più vasto il ricorso a terreni sempre meno fertili con rendite sempre più ridotte. In questo modo la «rendita differenziale» – cioè la differenza tra la rendita dei terreni più fertili e quella dei terreni meno fertili – diventerà sempre più grande. Il secondo fattore di sperequazione economico-sociale è dato dalla cosiddetta legge ferrea dei salari. In base alla legge della domanda e dell’offerta, infatti, i salari tendono ad abbassarsi sempre più, fino ad attestarsi al semplice limite di sopravvivenza del lavoratore.

8. Marx ed Engels: l’analisi economica del capitalismo l’inghilterra è il paese più capitalista

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Dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848 in Europa, Marx ed Engels giungono alla convinzione che il centro della rivoluzione si è spostato in Inghilterra – il paese industrialmente e capitalisticamente più avanzato. Qui l’introduzione del vapore come forza motrice aveva rivoluzionato il sistema della produzione industriale e il sistema dei trasporti; inoltre, negli anni Cinquanta la produzione riceveva un nuovo impulso, dando luogo a vaste concentrazioni industriali, all’espansione dei consumi, a un aumento dei salari, alla diminuzione delle ore lavorative. In questa situazione Marx riprende lo studio dell’economia politica e affronta la questione del metodo dell’analisi economica. I risultati più cospicui di questa riflessione sono gli 3. le eredità di hegel e il marxismo

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appunti pubblicati postumi sotto il titolo di Grundrisse e Per la critica dell’economia politica – uscita nel 1859 e preceduta da un’Introduzione scritta nel 1857, pubblicata anch’essa postuma. L’oggetto dell’economia politica sono individui che producono in società, non isolatamente – come pensavano gli economisti classici (da Smith a Ricardo). L’indagine deve partire dalla realtà – dal concreto –, che inizialmente appare come un «insieme caotico» di determinazioni. Il concreto, anche se caotico, è il punto di partenza per effettuare astrazioni che consentono di ricavare concetti sempre più semplici e sottili. Tali concetti sono le categorie dell’analisi economica (per esempio, quelle di divisione del lavoro, soggetto del lavoro, prodotto, strumento di produzione e così via).

dal concreto all’astratto

Le categorie economiche più complesse si formano, secondo Marx, nella situazione storica in cui lo sviluppo economico ha raggiunto la forma più ricca e articolata, ossia nel modo di produzione capitalistico. Esso è dunque la chiave per comprendere anche le formazioni economiche antecedenti, più arretrate. Detto altrimenti, le categorie che permettono di cogliere la struttura della forma più avanzata di produzione – ossia quella della società borghese – consentono di capire anche «la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme di società passate, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita, e di cui sopravvivono in essa ancora residui parzialmente non superati», allo stesso modo in cui «l’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia».

l’anatomia del capitalismo e delle economie più arretrate

Il problema fondamentale consisterà allora nell’articolare le categorie della formazione economica e sociale capitalistica. A questa impresa Marx si accinge soprattutto con Il Capitale. Il modo di produzione capitalistico si presenta come un’enorme produzione e raccolta di merci: dunque, l’indagine sul capitale deve iniziare con l’analisi della merce. La merce è in primo luogo qualcosa che per le sue qualità può soddisfare bisogni umani di qualsiasi tipo, materiali o intellettuali. In ciò risiede il suo valore d’uso, che si realizza appunto nell’uso, ossia nel consumo che si fa di essa. Rispetto a questo valore si distingue il valore di scambio, che esprime un rapporto di corrispondenza quantitativa tra valori d’uso (per esempio una certa quantità di grano può essere scambiata con una certa quantità di seta o con una d’oro, considerate equivalenti). Ogni merce ha molteplici valori di scambio, in relazione alle merci con cui è scambiata.

il doppio valore della merce

Ma, affinché lo scambio sia possibile, occorre che tutti i valori di scambio delle merci possano essere riportati a un criterio generale di equivalenza. In altre parole, le merci – in quanto valori di scambio – non sono considerate dal punto di vista qualitativo, ossia in base alla loro capacità di soddisfare bisogni umani, ma solo dal punto di vista quantitativo. Le merci hanno valori d’uso differenti (un Cd di Mozart non equivale a un kg di pane, perché soddisfano esigenze tra loro incommensurabili), ma hanno anche una proprietà comune che permette di stabilire quanto ognuna di essa vale rispetto a un’altra (valore di scambio). In tal modo, tutte le merci sono interscambiabili, pur avendo valori d’uso differenti.

l’equivalenza delle merci e il valore di scambio

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il valore di scambio dipende dalla quantità di lavoro

Se si prescinde dal loro valore d’uso, qual è allora la proprietà che tutte le merci hanno in comune? Ognuna di esse è prodotta dal lavoro, ma non da un tipo particolare di lavoro distinto da ogni altro, bensì dal «lavoro umano eguale in astratto». Ciò significa che si fa astrazione dalle differenze esistenti fra i vari tipi di lavoro e «li si riduce al carattere comune che essi possiedono in quanto dispendio di forza-lavoro umana». In tal modo, un bene ha valore soltanto perché in esso viene oggettivato – o materializzato – lavoro umano. Tale valore è misurabile in base alla quantità di lavoro contenuta in esso e la quantità di lavoro, a sua volta, è misurata in base alla sua durata temporale. Per determinare questa misura occorre prescindere dal tempo necessario al singolo operaio: è chiaro, infatti, che se egli è inabile o pigro, impiegherà maggior tempo a produrre un oggetto e dunque, paradossalmente, il suo prodotto verrebbe a essere più costoso di quello di un operaio abile e solerte. È invece il tempo di lavoro socialmente necessario – in media – in specifiche condizioni storiche di produzione a determinare il valore dell’oggetto prodotto.

il feticismo delle merci

Le cose – quando sono viste soltanto come merci interscambiabili, senza che si scorga il lavoro umano incorporato in esse – si trasformano in feticci. Si assiste a un fenomeno simile a quello che avviene in ambito religioso, dove un oggetto fabbricato dall’uomo – il feticcio – è tramutato in una divinità autonoma. Questo fenomeno è tipico del modo di produzione capitalistico, nel quale il prodotto domina l’uomo e i rapporti sociali appaiono come semplici rapporti tra cose.

il ciclo economico del capitalismo

Con il denaro viene determinato sul mercato – attraverso il rapporto tra la domanda e l’offerta – il prezzo delle merci, ossia il loro valore di scambio espresso in termini quantitativi. Tipico del modo di produzione capitalistico è il fatto che la conversione di merci in denaro, e viceversa, è finalizzata non al consumo – attraverso l’acquisto di altre merci – bensì al profitto, ossia all’aumento del denaro. Il primo tipo di circolazione denaro-merci, proprio di un modello generale di società mercantile, è esprimibile con la formula M-D-M (dove D = denaro e M = merce): dalla vendita della merce si ricava denaro, usato allo scopo di acquistare altre merci. Nel capitalismo, invece, la formula è D-M-D’, dove D’ è maggiore di D: infatti, il denaro acquisito a conclusione del ciclo (D’) è aumentato rispetto a quello impiegato inizialmente (D) per acquistare la merce (M).

il profitto e la forza-lavoro

Ma qual è la merce che consente di generare il profitto? Secondo Marx, la fonte del profitto deve essere cercata non nella sfera della circolazione (o vendita) delle merci, bensì in quella della loro produzione. Egli individua questa fonte nella forza-lavoro, ossia nell’energia erogabile per produrre oggetti. La forza-lavoro costituisce un tipo particolare di merce, dotato di capacità produttiva, dal quale può essere estorto profitto, ossia un guadagno rispetto al denaro speso per acquistarlo. Coloro che prestano la propria forza-lavoro sono individui giuridicamente liberi, costretti a venderla come unico mezzo per sostentarsi . Il sistema di produzione delle merci che abbiamo appena esaminato non esiste da sempre, ma è proprio del moderno

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Marx Capitale e lavoro salariato

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mondo capitalistico, nel quale la forza-lavoro stessa è diventata una merce. Altra condizione è l’esistenza dei capitalisti, ovvero di individui che possiedano i mezzi di produzione. I capitalisti spendono parte del loro capitale – sotto forma di salario – per acquistare forza-lavoro allo scopo di generare il profitto. Ma, com’è possibile che l’acquisto di questa merce generi profitto? Come sappiamo, anche la forza-lavoro – in quanto merce – ha un valore di scambio che, al pari di tutte le altre, sarà determinato in base al tempo medio di lavoro richiesto per produrla. Ciò significa che il valore della forza-lavoro è calcolato in base al costo necessario per produrla. Quest’ultimo comprende le spese sostenute per garantire la sopravvivenza dell’operaio, la sua riproduzione e l’apprendimento delle abilità necessarie al suo lavoro. Il profitto – chiamato da Marx anche plusvalore – potrà generarsi soltanto se il salario corrisposto dal capitalista equivale a una sola parte del tempo impiegato dall’operaio nella produzione – e precisamente alla parte che basta a garantire la sussistenza dell’operaio stesso. Se per esempio tale parte equivale a sei ore di lavoro, tutto il lavoro compiuto in altre ore della stessa giornata – ossia il pluslavoro – non è retribuito e genera plusvalore. Il plusvalore sarà allora dato dal rapporto fra due quantità di lavoro nella sfera della produzione, ossia tra il tempo di pluslavoro e il tempo impiegato per produrre la sussistenza del lavoratore.

il profitto e la teoria del plusvalore

il modo di produzione capitalistico è finalizzato alla produzione della merce Per comprendere la formazione del capitale occorre iniziare con l’analisi della merce. La merce ha un doppio valore d’uso

di scambio

società precapitalistiche

società capitalistica

MDM

D M D’

economia di consumo

economia di profitto

Si è detto che il plusvalore è il fine della produzione capitalistica e si forma nella sfera della produzione. Nel Capitale Marx si propone di studiare i dif-

le forme di organizzazione del lavoro

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ferenti modi di organizzare il lavoro nella produzione capitalistica. A fondamento di essi c’è la cooperazione, ovvero il lavoro di molte persone che operano insieme in uno stesso luogo e contemporaneamente secondo un piano. Ciò differenzia i tipi principali di organizzazione capitalistica del lavoro – ossia la manifattura e la fabbrica – dall’artigianato, che non richiede la compresenza spaziale e la contemporaneità nell’esecuzione dei lavori. Il carattere assunto dalla cooperazione nell’economia capitalistica porta ad aumentare la produttività, ma sottrae all’operaio il controllo del proprio lavoro, contrariamente a quanto avviene per l’artigiano.

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profitto, aumento della produttività e del capitale costante

Nello stadio industriale del capitalismo, una parte del capitale è investita nell’acquisto di macchine. Queste ultime costituiscono il capitale costante, mentre i salari corrisposti agli operai costituiscono il capitale variabile. Le macchine sono lo strumento fondamentale per accrescere la produttività. Mentre un artigiano compie un’attività che comporta l’uso di una pluralità di strumenti e l’esecuzione di una pluralità di operazioni, le macchine permettono di suddividere quest’unica attività in molteplici operazioni affidate ciascuna a persone diverse. In tal modo aumenta l’efficienza del lavoro svolto dal singolo operaio, addetto a una sola operazione, ma il lavoro stesso diventa unilaterale e ripetitivo. Più aumenta la specializzazione delle funzioni e più l’operaio è costretto a vendere la sua forza-lavoro, non soltanto perché non possiede i mezzi di produzione, ma anche perché ha perso la capacità di svolgere un mestiere compiuto. Tutte le diverse operazioni necessarie per produrre un oggetto finito sono ormai compiute dal sistema integrato operaio-macchina.

il lavoro alienato dell’operaio

Il culmine è raggiunto con la divisione del lavoro tra macchine differenti e con l’organizzazione del lavoro a catena. In questa situazione gli operai sono al servizio della macchina, devono adattare i loro ritmi di lavoro a quelli della macchina e diventano intercambiabili tra loro, giacché le loro funzioni tendono a livellarsi. Ritorna così in primo piano il tema dell’alienazione trattato da Marx nei suoi anni giovanili [cfr. 3.5]. L’operaio non può più decidere sulle operazioni da compiere né sull’uso delle macchine, ma è del tutto subordinato a decisioni prese da altri: in tal modo, giungono al culmine la divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale (consistente nelle funzioni direttive) e l’antagonismo tra le forze produttive.

la crisi del sistema capitalistico

Per non soccombere alla concorrenza, il capitalista deve investire in misura crescente il plusvalore ricavato in macchinari – ossia in capitale costante – e per non diminuire i propri profitti deve cercare di tenere sempre più basso il capitale variabile – ossia i salari. Malgrado ciò, Marx è convinto dell’esistenza di una legge tendenziale di caduta del saggio di profitto, con la conseguente progressiva concentrazione del capitale in poche mani. A ciò è correlato, come si è visto, l’immiserimento crescente degli operai: con l’introduzione delle macchine – che possono sostituire il lavoro di molti operai – aumentano i disoccupati, cresce anche l’offerta di forza-lavoro sul mercato e i salari tendono a diminuire. In questa situazione si genera la massima contraddizione tra il carattere privato della proprietà dei mezzi di produzione e il carattere sociale della produzione, tra le forze produttive sempre in 3. le eredità di hegel e il marxismo

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la legge della caduta tendenziale del saggio di profitto

saggio di profitto =

plusvalore capitale costante + capitale variabile

Il significato dei termini

La spiegazione della legge

Saggio di profitto: il profitto non è il plusvalore, ma è il rapporto – esprimibile in percentuale (saggio) – tra il plusvalore e la somma di capitale costante e capitale variabile.

Per aumentare il profitto occorre aumentare la produttività  per aumentare la produttività occorre aumentare il plusvalore  per aumentare il plusvalore occorre aumentare il capitale costante (per l’acquisto di macchinari e tecnologie innovative)  poiché, oltre un certo limite, il capitale variabile non può essere ridotto e poiché il capitale costante è destinato ad aumentare, il saggio di profitto è destinato a diminuire (rapporto di proporzionalità inversa).

Capitale costante: capitale investito nelle macchine, nella loro manutenzione e innovazione. Capitale variabile: salari degli operai.

crescita – il proletariato – e il numero sempre più esiguo di capitalisti: «la produzione capitalistica – afferma Marx – genera essa stessa, con l’inevitabilità di un processo naturale, la propria negazione». Il fatto che lo sviluppo delle forze produttive stesse aumentando, ma al tempo stesso non diminuisse la miseria del proletariato, appariva a Marx la condizione per il sovvertimento dell’assetto capitalistico e la transizione a una nuova formazione economico-sociale. Marx prevedeva che una prima fase sarebbe stata caratterizzata dalla temporanea dittatura del proletariato, che avrebbe condotto all’abolizione delle classi. Al «regno della necessità» – proprio della società capitalistica – sarebbe così subentrato il «regno della libertà», il pieno sviluppo delle capacità umane, reso possibile anche da un uso alternativo delle macchine allo scopo di alleviare la fatica e di accorciare la giornata lavorativa, oltre che di aumentare la produttività. Nella Critica al Programma di Gotha Marx descrive questa nuova società, nella quale lo Stato non era più necessario, come il luogo in cui «il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti». Alla prima fase, nella quale il motto è: «A ciascuno secondo il suo lavoro», sarebbe subentrato il comunismo pienamente realizzato, il cui motto è: «Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni».

APPROFONDIMENTO

l’avvento del comunismo

Il materialismo dialettico di Engels

Marx, nell’ultima fase della sua attività, concentrò tutte le sue forze nella stesura del Capitale. Engels invece si dedicò, da una

parte, alla divulgazione della teoria del materialismo storico e, dall’altra, all’analisi dei problemi delle scienze naturali e allo studio

delle formazioni economiche, sociali e politiche antecedenti al modo di produzione capitalistico. Marx ed Engels salutarono con

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entusiasmo la teoria dell’evoluzione di Darwin sia perché metteva fine a ogni concezione finalistico-antropocentrica della natura, sia perché sottolineava l’intreccio indissolubile tra storia della natura e storia degli uomini. Con essa la storicità appariva una prerogativa non soltanto dell’umanità, ma della natura in generale. Nell’Anti-Dühring Engels polemizza contro le concezioni positivistiche della scienza, per le quali la scienza è un sapere fuori dal tempo. In realtà, secondo Engels, anche la scienza è soggetta a un processo di evoluzione storica. Caduta la pretesa filosofica di raggiungere la verità assoluta, si è aperto lo spazio alle verità accessibili alle scienze positive e a una sintesi dei loro risultati mediante la dialettica. Attraverso teorie come quelle della convertibilità dell’energia in lavoro meccanico, della cellula biologica e dell’evoluzione, le scienze si sono sollevate al di sopra di un livello puramente empirico di raccolta di dati e hanno raggiunto un adeguato livello teorico, caratterizzato dalla formulazione di leggi. Secondo Engels esiste una dialettica della natura, non soltanto

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della storia. Per dialettica si devono intendere non soltanto le leggi del pensiero, ma le leggi esistenti oggettivamente nella realtà. Caratteristica costitutiva della materia è il movimento: di questo, secondo Engels, possono essere individuate tre leggi fondamentali. Esse sono: a) la conversione della quantità in qualità e viceversa; b) la compenetrazione degli opposti, per cui in una totalità a un elemento se ne trova opposto un altro che lo implica ed è, a sua volta, implicato dal primo (ad esempio le cariche elettriche opposte, l’attrazione e repulsione degli elementi chimici); c) la negazione della negazione, per cui ogni realtà è negata per dar luogo a una formazione più alta (ad esempio, il seme – cadendo su un terreno favorevole – è negato come seme, ma germogliando dà luogo alla pianta). Tra il mondo della natura e il mondo umano esiste per Engels intreccio e continuità, ma entrambi i mondi non sono realtà statiche, bensì dinamiche. Nell’Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884), Engels afferma che lo Stato non è un’istituzione naturale

ed eterna, ma il prodotto di una società giunta a un determinato grado di sviluppo economico-sociale: l’esistenza dello Stato dimostra che tale società si è scissa in classi antagonistiche con interessi economici contrastanti . In particolare, lo scopo dello Stato moderno è di mantenere i rapporti di produzione capitalistici, ratificando democraticamente il dominio di classe mediante il suffragio universale, che tuttavia può diventare utile per la lotta rivoluzionaria del proletariato. Nell’Anti-Dühring Engels sostiene che il modo di produzione capitalistico conduce alla proletarizzazione della maggior parte della popolazione, la quale finirà per impadronirsi dello Stato, trasformando i mezzi di produzione in proprietà dello Stato. È questa la fase della dittatura del proletariato, che tuttavia condurrà alla soppressione del proletariato in quanto classe e di ogni conflitto di classe. Nella fase matura del comunismo, dunque, avrà luogo non l’abolizione, ma l’estinzione dello Stato: «Al posto del governo sulle persone appare l’amministrazione delle cose e la direzione dei processi produttivi».

9. La Seconda Internazionale gli «errori» di marx

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Alla fine dell’Ottocento il movimento operaio appare una forza in crescita; nel 1889 è costituita la Seconda Internazionale, che unisce tutti i partiti socialisti di orientamento marxista. All’interno di essa predomina la corrente che interpreta il processo storico come un’evoluzione graduale e inarrestabile verso il socialismo. Alcuni aspetti dell’analisi di Marx, tuttavia, non sembrano trovare immediato riscontro nella realtà, soprattutto non paiono verificarsi l’impoverimento crescente del proletariato e la crisi definitiva del capitalismo. In questa situazione, ci si comincia a chiedere se il modello marxiano di analisi della realtà economica, storica e sociale abbia ancora validità oppure necessiti di una revisione: nasce in tal modo – all’interno della socialdemocrazia tedesca – la tendenza chiamata revisionismo. 3. le eredità di hegel e il marxismo

Engels Nascita ed estinzione dello Stato

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Il principale esponente di essa è Eduard Bernstein (1850-1932), autore di un’opera intitolata I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia (1899). Egli rileva che il capitalismo – anziché crollare – è riuscito a superare indenne le crisi, continuando a garantire i profitti, ma al tempo stesso migliorando le condizioni economiche e sociali del proletariato. In tal modo, la società – anziché polarizzarsi in due classi contrapposte – presenta anche una consistente classe media. Secondo Bernstein, questi errori di previsione della teoria marxiana devono essere imputati alla permanenza in essa di residui hegeliani, in particolare della dialettica, che si pone a un livello eccessivo di generalità, senza tener conto della realtà effettiva. A suo avviso, il socialismo può essere costruito soltanto attraverso un’evoluzione graduale, con una lotta politica e parlamentare e l’alleanza con le forze progressiste della borghesia. Ciò significa che la transizione al socialismo potrà avvenire soltanto attraverso le riforme.

per una transizione graduale e democratica verso il socialismo

In polemica col revisionismo si schierarono, da una parte, coloro che intendevano presentarsi come difensori del marxismo più ortodosso e, dall’altra, quanti scorgevano nella rivoluzione l’unica via per la transizione dal capitalismo al socialismo. Tra gli esponenti della prima direzione è Karl Kautsky (1854-1938). Nel suo scritto Etica e concezione materialistica della storia (1906), Kautsky fondava la propria fiducia nel crollo del capitalismo su una concezione evoluzionistica della storia, concepita come un processo articolato in tappe necessarie, che non potevano essere saltate con rivoluzioni premature. In questo senso egli avrebbe considerato la rivoluzione russa come l’ultima rivoluzione borghese, non come una vera e propria rivoluzione socialistica. La Russia, infatti, era un paese economicamente arretrato e non poteva arrivare al socialismo, se non passando attraverso la fase del capitalismo più sviluppato, che essa non conosceva ancora: secondo Kautsky, la storia non può fare salti. Ciò significa che nella società socialista sarebbero state conservate tutte le conquiste delle epoche precedenti. Da ciò scaturiva anche il rifiuto della violenza come metodo rivoluzionario.

quella russa non è stata una rivoluzione proletaria

Rosa Luxemburg (1870-1919), polacca di origine e appartenente alla corrente di sinistra della socialdemocrazia, era anch’essa ostile al revisionismo. Nel 1914 si schierò contro l’adesione del partito alla guerra e l’anno successivo fondò la Lega di Spartaco; nel 1919 venne uccisa a Berlino dai soldati inviati dal governo socialdemocratico a reprimere un’insurrezione operaia. Nella sua opera L’accumulazione del capitale (1913), la Luxemburg individua nell’imperialismo la condizione che porterà alla crisi decisiva del sistema capitalistico. Impadronendosi progressivamente di nuove aree di mercato, il capitalismo giungerà a un punto in cui non potrà più espandere ulteriormente il suo sistema di produzione: in questa situazione esso sarà destinato a crollare di fronte alla rivoluzione proletaria. Secondo la Luxemburg, la transizione al socialismo può avvenire non mediante la lotta politica parlamentare entro le istituzioni borghesi, ma soltanto attraverso la sollevazione spontanea delle masse, non pilotate dall’alto di un partito. Per questo nel 1917 la Luxemburg saluterà dapprima con entusiasmo la rivoluzione russa, ma non ne condividerà gli sviluppi in direzione della dittatura del proletariato.

crollo del capitalismo e ruolo delle masse

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10. Marxismo e rivoluzione russa la posizione di plechanov

Da tempo il marxismo aveva trovato ampia diffusione anche tra gli intellettuali russi. A ciò aveva contribuito in particolare, con numerosi scritti, Georgij Valentinovicˇ Plechanov (1857-1918), costretto a vivere all’estero dal 1880 al 1917 e primo traduttore in russo del Manifesto del partito comunista. Egli sosteneva che la Russia, fondamentalmente agricola e feudale, non era in grado di superare la fase borghese-capitalistica. Per questo, allo scoppio della rivoluzione in Russia nel 1917, continuò a considerare necessaria la collaborazione con la borghesia, la quale avrebbe contribuito a far uscire la Russia dalla sua arretratezza.

lenin: il ruolo del partito e la transizione verso il regno della libertà

Per questo aspetto egli si scontrava con Vladimir Il’icˇ Ul’janov, detto Lenin (1870-1924), convinto nel 1917 della possibilità di una rivoluzione proletaria in Russia, nonostante tale arretratezza. Per condurre a essa era necessaria la formazione di un partito di rivoluzionari professionisti, inteso come avanguardia della classe operaia. Già nel 1902 – in Che fare? – Lenin aveva elaborato la sua concezione del partito, come gruppo fortemente cementato al suo interno dall’unità ideologica, disciplinato e centralizzato nelle sue decisioni ed efficiente sul piano operativo. Alla vigilia della vittoria della rivoluzione nel 1917 egli affrontava in Stato e rivoluzione la questione dei caratteri che avrebbe assunto il periodo di transizione al comunismo. Lenin riteneva necessaria una fase transitoria di dittatura del proletariato, caratterizzata dall’uso della forza per preparare il passaggio al regno della libertà. Infatti, il controllo operaio sulla produzione e la partecipazione dei lavoratori alla direzione dello Stato – attraverso la formazione dei Soviet (consigli) degli operai e dei contadini – avrebbero gradualmente condotto all’estinzione dello Stato stesso.

lenin: gnoseologia materialistica e dialettica della storia

Lenin individua i due elementi fondamentali della teoria marxiana nel materialismo e nella dialettica. In Materialismo ed empiriocriticismo (1909) egli sostiene che la materia, agendo sui nostri sensi, produce le sensazioni: ciò significa che le cose esistono indipendentemente dalle nostre sensazioni e dalla nostra coscienza. Non si può dunque affermare che esista una differenza di principio tra i fenomeni, ossia le cose come appaiono a noi, e le cose in sé, come pretendevano certe forme di kantismo. L’unica differenza rilevante è quella intercorrente fra ciò che è conosciuto e ciò che non lo è ancora. Esiste dunque una verità oggettiva assoluta, a cui ci si avvicina progressivamente: dire che la conoscenza è relativa equivale soltanto a dire che essa non ha ancora conseguito la verità totale, non che non esiste una verità unica. L’errore dei positivisti, dei neokantiani e degli empiristi consiste, secondo Lenin, nel considerare i dati della conoscenza come qualcosa di già costituito e invariabile. La realtà e il processo della conoscenza devono, invece, essere interpretati alla luce della dialettica. Su questo punto Lenin insisterà anche nei Quaderni filosofici, pubblicati postumi nel 1933, frutto anche della sua rilettura delle opere di Hegel. La dialettica – come già per Marx – permette di leggere la storia come lotta di classi, alla quale sarebbe seguito il momento sintetico della società senza classi.

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3. le eredità di hegel e il marxismo

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in poche... parole Pochi anni dopo la morte di Hegel, avvenuta nel 1831, si formarono due scuole di pensiero – soprannominate destra e sinistra hegeliane – che interpretavano in modo diverso l’eredità filosofica del maestro, specialmente in relazione a tre temi: l’equazione di reale e razionale, il problema dello Stato e della religione. In particolare, gli esponenti della destra asserivano che ciò che si è storicamente realizzato ha una sua intrinseca razionalità, giustificando di fatto gli assetti politici e sociali esistenti. Gli esponenti della sinistra, invece, sostenevano che la razionalità non avesse trovato ancora pieno compimento nella realtà, promuovendo di fatto la critica e il superamento della situazione storica esistente. Tra i più importanti esponenti della sinistra hegeliana, possiamo annoverare Ludwig Feuerbach (1804-1872) e il giovane Marx. Il primo e il secondo sono accomunati dall’aspra critica rivolta alla filosofia hegeliana, accusata di capovolgere il concreto e l’astratto e di mistificare la realtà, trasformandola in una manifestazione necessaria dello Spirito. In particolare, Feuerbach accusa la filosofia hegeliana di essere una forma di teologia mascherata, che fa della Ragione un equivalente di Dio e la tratta come il protagonista assoluto della storia, dimenticando invece che il vero soggetto è l’uomo in carne e ossa, dotato di sensibilità e di bisogni. Di qui l’esigenza, condivisa da Marx, di ridare importanza alla base reale della vita dell’uomo e di «poggiare la dialettica sui piedi e non sulla testa». Marx eredita da Hegel e da Feuerbach il concetto di alienazione, ma lo utilizza per spiegare le caratteristiche del lavoro e la condizione del lavoratore nella società industriale moderna. Marx condivide le critiche di

Feuerbach alla religione, considerata come l’oggettivazione dei bisogni e delle aspirazioni dell’uomo, ma ritiene che la liberazione totale da essa si avrà solo attraverso la generale emancipazione dell’uomo come essere sociale. Per questo motivo, l’analisi della storia e della società non deve rimanere a livello di pura teoria, ma deve essere unita alla prassi, ovvero all’impegno di trasformazione concreta della realtà esistente. «I filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo» (Tesi su Feuerbach, 11).

ne a chi detiene i mezzi di produzione; b) estraniato da sé, in quanto non considera il proprio lavoro come parte della sua vita reale; c) espropriato della sua essenza generica, ossia di ciò che lo rende propriamente uomo, il lavoro, che lo distingue dagli animali, e il suo rapporto con gli altri uomini. Nel Capitale egli avrebbe mostrato che l’introduzione delle macchine, contribuendo a un’ulteriore divisione del lavoro, incrementa l’alienazione dell’operaio, addetto ormai a una sola operazione e quindi costretto a un lavoro ripetitivo che lo obbliga ad adattarsi ai ritmi della macchina.

alienazione Letteralmente signi-

prassi Dal greco pràxis, «azio-

fica «diventare altro» o «cedere qualcosa di proprio (per esempio un diritto) ad altri». Il termine era stato ripreso da Hegel per caratterizzare un momento dello sviluppo dello spirito e precisamente il momento in cui l’Idea esce da sé e si oggettiva in qualcosa di «altro» (natura) rispetto al pensiero puro. A esso fa seguito il momento della disalienazione, ossia del ritorno dell’Idea a se stessa come spirito. Per Hegel, dunque, l’alienazione coincideva con l’oggettivazione nella natura, ossia con la relazione del soggetto con un oggetto altro da sé. Feuerbach ravvisava nella religione stessa una forma di alienazione, nel senso che in essa l’uomo come ente finito trasferisce le proprie qualità, moltiplicandole all’infinito, in un altro ente (Dio) considerato oggettivamente esistente. Anche Marx ritiene, come Feuerbach, che protagonista dell’alienazione sia l’uomo in carne e ossa e non lo spirito, come aveva sostenuto Hegel, ma individua il luogo proprio dell’alienazione nel modo di produzione capitalistico, fondato sull’industria. In questa situazione l’individuo è alienato in quanto è: a) espropriato del prodotto del suo lavoro, che appartie-

ne». Con questo termine Marx indica: 1) il lavoro che trasforma la natura; 2) le relazioni costitutive fra gli uomini. Il materialismo storico pone al centro della storia la prassi. Per «rovesciamento della prassi» si intende la relazione dialettica che si instaura tra la prassi stessa e i risultati a cui essa dà luogo. Questi ultimi infatti divengono, a loro volta, le condizioni di ulteriori sviluppi della prassi e così via.

Il punto di partenza del materialismo storico di Marx è che il lavoro – inteso come prassi trasformatrice della natura e produzione dei mezzi di sussistenza – è ciò che distingue l’uomo dall’animale. Per questo motivo, egli si propone di descrivere le varie forme che le attività produttive e la divisione del lavoro hanno assunto nella storia dell’umanità. Quest’ultima non è più, come per Hegel, il campo d’azione dello Spirito o dell’Autocoscienza, ma il teatro d’azione di uomini in carne e ossa, impegnati a produrre materialmente la loro esistenza e legati da precisi rapporti sociali. Per

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comprendere a fondo la società, secondo Marx, occorre studiare – più che le sue istituzioni politiche e sociali o i suoi modi di pensare – la sua struttura economica, e cioè la dialettica tra forze produttive e rapporti di produzione. I rapporti sociali e politici, le istituzioni giuridiche e religiose, le stesse produzioni culturali sono per Marx il frutto di determinate forme di organizzazione economica. A differenza degli hegeliani di sinistra, che attribuivano alle idee la capacità di condurre gli uomini all’emancipazione, Marx ritiene che i prodotti culturali siano per lo più «ideologici», e cioè espressioni della classe dominante, volte a fornire una rappresentazione deformata della realtà e a giustificare l’esistente.

materialismo storico Il materialismo di Marx ed Engels è diverso dalle forme tradizionali di materialismo – rilanciate nel Settecento francese e riprese anche da Feuerbach – secondo cui tutto ciò che esiste è materia (o corpo) o solo la materia e i corpi sono dotati del potere causale di produrre effetti. Per Marx ed Engels l’uomo è sì un’entità corporea dotata di sensibilità, ma è al tempo stesso capace di attività: costitutiva degli uomini è la prassi, grazie alla quale essi costruiscono se stessi nel tempo. Ciò che gli uomini sono dipende, infatti, dalle condizioni materiali nelle quali producono i loro mezzi di sussistenza instaurando un rapporto con la natura e con gli altri uomini. struttura Totalità o insieme di

elementi interdipendenti, tra i quali sussistono relazioni non causali, ma sistematiche e costanti, che possono essere individuate e studiate. Marx usa il termine struttura per indicare il complesso – storicamente variabile – dei rapporti di produzione, che determinano i caratteri assunti dai rappor-

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ti tra le classi sociali e dalle formazioni ideologiche (o sovrastruttura).

sovrastruttura In tedesco Überbau, da über, «sopra», e bau,

«costruzione»). Termine usato da Marx e nel pensiero marxista per indicare l’insieme delle istituzioni politiche e giuridiche, delle idee religiose, politiche, morali e filosofiche e delle produzioni artistiche e culturali, le quali dipendono – per i loro caratteri e per il loro funzionamento – dalla struttura economica, ossia dalla base reale – storicamente variabile – costituita dai rapporti di produzione.

ideologia Coniato originariamente per indicare lo studio delle sensazioni e della formazione delle idee, il termine è usato polemicamente da Marx ed Engels per indicare la funzione che le idee politiche, religiose, giuridiche, filosofiche – e in genere le produzioni culturali – possono svolgere nel giustificare la situazione di volta in volta esistente. Il presupposto di questa nozione di ideologia è la distinzione tra struttura e sovrastruttura. In base a essa, i modi di produzione dei mezzi di sussistenza della vita materiale determinano o, per lo meno, condizionano in maniera decisiva i rapporti sociali e politici e la stessa produzione delle idee. Ciò comporta che le idee circolanti in una determinata epoca storica sono le idee della classe dominante, e cioè di quella che possiede i mezzi di produzione. Quando le idee sono considerate un prodotto autonomo – anziché risultato di processi storici materiali – si perviene, anche senza averne coscienza, a mascherare i caratteri effettivi della realtà storica, fornendone immagini parziali o deformate, con la conseguenza di legittimare lo stato di cose esistente e, quindi, gli interessi della classe dominante. Compito dell’analisi storica – condotta in base ai presupposti del materialismo

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storico – è anche quello di smascherare il carattere ideologico che possono assumere le produzioni culturali. L’analisi delle società umane effettuata da Marx ha stabilito che il motore della storia è la lotta tra le classi. In particolare, egli vede nella rivoluzione francese la cesura tra il mondo medievale e quello moderno: le classi in conflitto erano l’aristocrazia, espressione di rapporti sociali e di proprietà di tipo feudale oramai al tramonto, e la borghesia. Secondo Marx, lo sviluppo del sistema di produzione capitalistico è segnato dall’ascesa di questa nuova classe sociale, alla quale è tuttavia destinata a contrapporsi il proletariato industriale, e cioè un’ingente massa di forze produttive. Al proletariato spetta, secondo Marx, il compito di abbattere il dominio della borghesia, abolire una volta per tutte le classi sociali, la divisione del lavoro e la proprietà privata. A suo avviso, infatti, la proprietà privata è la principale causa dell’alienazione dell’uomo. La soppressione di ogni alienazione coinciderà, pertanto, con l’eliminazione della proprietà privata, che verrà completamente realizzata soltanto nella società comunista.

classe sociale Il concetto viene introdotto da Hegel, che lo designa tuttavia non con il termine Klasse, bensì con quello di Stand (ceto, stato sociale), talvolta erroneamente tradotto in italiano con «classe». Il termine Klasse viene invece usato da Marx per indicare la posizione occupata da un gruppo di individui all’interno dei rapporti di produzione. In particolare, nel modo di produzione capitalistico la separazione tra mezzi di produzione – che appartengono al capitalista – e forza-lavoro – che i proletari sono costretti a vendere per sopravvivere – determina la polarizzazione tra due classi anta-

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gonistiche: i capitalisti (o la borghesia) e il proletariato. Nell’acquistare coscienza di classe, il proletariato si assume il compito storico di eliminare lo sfruttamento e la divisione in classi, fondata su di esso, ossia di condurre alla realizzazione del comunismo.

plusvalore A differenza del ciclo

economico pre-capitalistico basato sul consumo, quello capitalistico è basato sulla ricerca del profitto: Marx lo descrive con la formula D-M-D’ (denaro-merce-più denaro). A suo avviso, il profitto del capitalista non si determina nel momento della circolazione o della vendita delle merci, bensì in quello della loro produzione. Le merci, infatti, vengono prodotte grazie alla forza-lavoro dei lavoratori che, nel moderno mondo capitalistico, è diventata a sua volta una merce. Per Marx, il profitto del capitalista si genera nel momento dell’acquisto di quella peculiare merce che è la forza-lavoro. In che modo? Il lavoratore riceve un salario che non corrisponde all’intero valore prodotto con il suo lavoro, ma solo a quello che serve ad assicurargli la sussistenza, la riproduzione e l’apprendimento delle competenze necessarie allo svolgimento dei suoi compiti. In altre parole, una parte del lavoro prestato dall’operaio serve ad integrare il suo salario, un’altra parte – chiamata da Marx pluslavoro – genera il plusvalore, ovvero un valore in più non retribuito e offerto gratuitamente al capitalista. Il plusvalore consiste, dunque, nel rapporto tra il tempo di pluslavoro e il tempo impiegato dal lavoratore per assicurarsi la sopravvivenza. Dal plusvalore deriva il profitto: quest’ultimo consiste nel rapporto tra il plusvalore e la somma tra il capitale variabile (speso dal capitalista per

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pagare i salari) e il capitale costante (speso per acquistare e far funzionare i mezzi di produzione). Per aumentare il profitto, il capitalista deve accrescere il plusvalore. Ciò è possibile in due modi: 1) tenendo i salari più bassi possibile, sebbene non si possa andare oltre la soglia della sussistenza dei lavoratori; 2) aumentando gli investimenti in macchinari sempre più rapidi ed efficienti (capitale costante). Emergono così, secondo Marx, le contraddizioni interne al capitalismo. a) Investendo parti sempre più consistenti del suo profitto nel capitale costante, il capitalista è destinato a totalizzare rendimenti via via decrescenti. b) Producendo una quantità eccessiva di merce che il mercato non è in grado di assorbire, si va incontro alle cosiddette crisi cicliche di sovrapproduzione. c) Si determina un contrasto tra il carattere privato dei mezzi di produzione e dei rapporti di proprietà e il carattere sociale della produzione. d) La conseguenza di ciò è la formazione di due classi sociali antagoniste: da una parte, un numero sempre più ristretto di capitalisti; dall’altra, una massa crescente di proletari sempre più poveri e sfruttati.

comunismo

Secondo Marx, il comunismo non è un’utopia, ma «la soluzione dell’enigma della storia», e cioè il risultato di numerosi secoli di lotta di classe. Nell’epoca a lui contemporanea, quella del capitalismo industriale, le classi sociali che si contrappongono sono la borghesia e il proletariato. A suo avviso, il progressivo impoverimento della classe operaia e le contraddizioni interne al sistema capitalistico avrebbero condotto alla rivoluzione e, quindi, alla dittatura del proletariato. Quest’ultima era vista da Marx come un

periodo di transizione, durante il quale si sarebbe giunti alla definitiva abolizione della proprietà privata, dello Stato borghese e delle classi sociali. Alla dittatura del proletariato sarebbe seguita la società comunista vera e propria. Nei Manoscritti economico-filosofici (1844) Marx distingue tra due forme di comunismo: 1) quello rozzo, fondato sulla negazione della civiltà e del progresso tecnico, aspira a recuperare la perduta semplicità dell’uomo povero e privo di bisogni; 2) quello da lui proposto invece mira alla liberazione di tutte le facoltà umane, così come si sono determinate nello sviluppo storico, tecnico e culturale dell’umanità. Nella futura società comunista, l’assenza di costrizione nei rapporti sociali dovrà permettere la libera affermazione dell’essenza sociale dell’uomo e lo sviluppo tecnico avrà come unici scopi quello di assicurare il massimo dominio sulla natura e di soddisfare il maggior numero possibile di bisogni. Anche nella Critica al Programma di Gotha (1875) Marx fa riferimento a due fasi della futura società comunista. La prima, riassumibile con il motto «A ciascuno secondo il suo lavoro», è caratterizzata dalla socializzazione dei mezzi di produzione e dal livellamento salariale, per cui ognuno riceve una quantità di beni equivalente al lavoro prestato, a partire da una misura uguale per tutti. La seconda, riassumibile con il motto «Ciascuno secondo le sue capacità, a ciascuno secondo i suoi bisogni», è caratterizzata da una superiore forma di uguaglianza, dal lavoro creativo (non costrittivo, come semplice mezzo di sostentamento), dal riconoscimento delle differenze individuali, dal perseguimento di tutte le potenzialità umane.

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i testi t5 Feuerbach / Religione e autocoscienza dell’uomo Feuerbach

L’essenza del cristianesimo

Introduzione cap. 2

Pubblicata nel 1841, un anno dopo la chiamata di Schelling a Berlino per insegnare Filosofia della rivelazione, e quindi nel pieno della restaurazione autoritaria, l’Essenza del cristianesimo di Feuerbach produsse un effetto liberatorio e suscitò entusiasmo tra i giovani hegeliani. «In quel momento – racconterà decenni dopo Engels – tutti fummo feuerbachiani». Lo scritto ha un andamento sistematico e si articola in due parti, volte a mettere in luce rispettivamente l’aspetto positivo e quello negativo della religione. Esse sono intitolate: a) la vera essenza, cioè l’essenza antropologica della religione; b) l’essenza non vera, ossia teologica, della religione. La religione rappresenta, infatti, la coscienza di ciò che l’uomo veramente è, e, in questo senso, la religione ha un contenuto positivo. L’aspetto negativo è che nella religione tale coscienza viene oggettivata ed estraniata in un essere trascendente rispetto all’uomo, a cui l’uomo stesso è asservito. Il brano che segue è tratto dall’Introduzione e riguarda il primo aspetto, ossia la radice antropologica della religione.

Nel rapporto con le cose esteriori la coscienza che l’uomo ha dell’oggetto è distinguibile dalla coscienza che l’uomo ha di se stesso; ma trattandosi dell’oggetto religioso la coscienza e l’autocoscienza vengono senz’altro a identificarsi. L’oggetto sensibile è esterno all’uomo, quello religioso è in lui, a lui interiore, perciò è un oggetto che non si può scindere dall’uomo, così come non si può da lui scindere la consapevolezza di sé, la coscienza; è un oggetto intimo, anzi di tutti il più intimo, il più vicino. «Dio», dice per esempio Agostino, «ci è più vicino, più congiunto, e perciò anche più facilmente riconoscibile che non le cose sensibili e corporali»1. L’oggetto sensibile è in sé un oggetto indifferente, indipendente dai convincimenti, dal giudizio; l’oggetto della religione invece è un oggetto prescelto: è l’essere più pregiato, il primo, il più eccelso; per sua natura presuppone un giu1. Agostino, De Genesi ad litteram, V,

16. Feuerbach distingue la coscienza che l’uomo ha degli oggetti esterni e quella che ha di sé. L’oggetto divino, cioè Dio, ha la prerogativa di rappresentare questi due aspetti, identificati rispettivamente con la coscienza e l’autocoscienza, collegati tra loro. Dio, infatti, per un verso è nell’uomo, è la vera essenza dell’uomo, ma per l’altro è pro-

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dizio critico, la distinzione fra il divino e il non divino, fra il degno di adorazione e il non degno di adorazione. E qui perciò vale senza riserve la proposizione: ciò che l’uomo pone come oggetto null’altro è che il suo stesso essere oggettivato. Come l’uomo pensa, quali sono i suoi principî, tale è il suo dio: quanto l’uomo vale, tanto e non più vale il suo dio. La coscienza che l’uomo ha di Dio è la conoscenza che l’uomo ha di sé 2. Tu conosci l’uomo dal suo dio, e, reciprocamente, Dio dall’uomo; l’uno e l’altro si identificano. Per l’uomo, è Dio il proprio spirito, la propria anima; e ciò che per l’uomo è spirito, ciò che è la sua anima, il suo cuore, quello è il suo dio: Dio è l’intimo rivelato, l’essenza dell’uomo espressa; la religione è la solenne rivelazione dei tesori celati dell’uomo, la pubblica professione dei suoi segreti d’amore3. Ma da quanto abbiamo detto non si deve de-

iettato fuori dell’uomo, come se si trattasse di un oggetto o ente esterno all’uomo. 2. Il presupposto di questa tesi di Feuerbach è che nel caso di un oggetto privilegiato come Dio, ossia di un oggetto che l’uomo apprezza al massimo grado ed è perciò distinto da qualsiasi altro oggetto, si esprime, ma in forma oggettivata (cioè come un essere che

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esiste autonomamente), nient’altro che l’essenza dell’uomo stesso, i suoi pensieri e i suoi princìpi. 3. L’aspetto positivo della religione consiste dunque nel fatto di manifestare, anche se in forma oggettivata, la vera essenza dell’uomo. Ciò significa che la religione è la coscienza di ciò che l’uomo realmente è.

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durre che l’uomo religioso sia direttamente consapevole che la coscienza che ha di Dio sia la stessa autocoscienza del suo proprio essere, poiché appunto il non essere consapevole di ciò è il fondamento della vera e propria essenza della religione4. Per evitare questo equivoco diremo meglio: la religione è la prima, ma indiretta autocoscienza dell’uomo. Perciò la religione precede sempre la filosofia, nella storia dell’umanità così come nella storia dei singoli individui. L’uomo sposta il suo essere fuori da sé, prima di trovarlo in sé 5. In un primo tempo egli è consapevole del proprio essere come di un altro essere. La religione è l’infanzia dell’umanità; il bambino vede il proprio essere, l’uomo, fuori da sé, ossia oggettiva il proprio essere in un altro uomo. Perciò il progresso storico delle religioni consiste appunto nel considerare in un secondo tempo come soggettivo e umano ciò che le prime religioni sono idolatrie per le religioni posteriori; queste riconoscono che l’uomo ha adorato il proprio essere senza saperlo. In ciò consiste il loro progresso, e di conseguenza ogni progresso nella religione è per l’uomo una più profonda conoscenza di se stesso. Ma ogni religione particolare che definisce idolatrie le sue più antiche sorelle, esclude se stessa – ed invero necessariamente, altrimenti non sarebbe più religione – da questo destino, da questa natura universale della religione; soltanto alle altre religioni attribuisce ciò che pur sempre rimane – se pure in modo diverso – il vizio della religione in generale. Per il fatto di avere un altro oggetto, un altro contenuto, per il fatto di avere superato il contenuto delle religioni anteriori, immagina di essersi innalzata al di sopra delle leggi ne4. Nel momento in cui l’uomo diventa consapevole che la coscienza che egli ha di Dio è, in realtà, l’autocoscienza di ciò che egli, come uomo, realmente è, si è già fuori dalla religione e si penetra nel territorio della filosofia come antropologia, e non più come teologia. Infatti, è aspetto costitutivo della religione il fatto di ignorare, cioè di non essere consapevole del fatto che Dio e i suoi attributi esprimono soltanto l’essenza dell’uomo. Questo punto è precisato subito dopo dicendo che la religio-

cessarie ed eterne sulle quali si fonda l’essenza di ogni religione, immagina che il suo oggetto, il suo contenuto sia soprannaturale. Ma ciò che la religione da se stessa non può fare, cioè studiare la sua natura come un qualsiasi oggetto, può farlo il pensatore, che perciò penetra nell’essenza della religione e ne rivela ogni segreto6. Il nostro compito è appunto di mostrare che la distinzione fra il divino e l’umano è illusoria, cioè che null’altro è se non la distinzione fra l’essenza dell’umanità e l’uomo individuo, e che per conseguenza anche l’oggetto e il contenuto della religione cristiana sono umani e nient’altro che umani. La religione, per lo meno la religione cristiana, è l’insieme dei rapporti dell’uomo con se stesso, o meglio con il proprio essere, riguardato però come un altro essere. L’essere divino non è altro che l’essere dell’uomo liberato dai limiti dell’individuo, cioè dai limiti della corporeità e della realtà, e oggettivato, ossia contemplato e adorato come un altro essere da lui distinto. Tutte le qualificazioni dell’essere divino sono perciò qualificazioni dell’essere umano. GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali differenze Feuerbach rileva tra oggetto sensibile e oggetto religioso? Evidenzia la risposta sul testo. 2. Commenta la seguente affermazione: «la religione è la prima, ma indiretta autocoscienza dell’uomo». 3. Qual è, secondo Feuerbach, il compito del filosofo? 4. Metti in luce analogie e differenze tra la nozione hegeliana di alienazione e quella avanzata da Feuerbach in questo brano.

ne è autocoscienza dell’uomo, ma non diretta, bensì indiretta (ossia attraverso l’oggettivazione dell’essenza dell’uomo in Dio). 5. Questa affermazione poggia su uno dei cardini della dialettica hegeliana, secondo la quale l’Idea si estrania da sé (nella natura) prima di tornare a sé, nella piena consapevolezza dello spirito. In questo passo Feuerbach identifica il terreno nel quale ha luogo l’estraniazione non tanto nella natura, quanto in Dio, oggetto della religione.

6. Anche nell’ambito della religione hanno luogo progressi e arricchimenti; tuttavia anche nella religione più pura e perfetta permane, secondo Feuerbach, il difetto costitutivo di proiettare in un ente estraneo i caratteri propri dell’essenza dell’uomo. Solo la filosofia è in grado di smascherare l’illusione che si cela nel cuore della religione: di qui deriva non soltanto il fatto che la filosofia nasce dopo la religione, ma soprattutto la sua superiorità rispetto a ogni forma di religione.

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t6 Marx / Alienazione e oggettivazione Marx

Manoscritti economicofilosofici del 1844

Primo manoscritto

Nel 1932 comparve a Mosca l’edizione di tre manoscritti di Marx con il titolo Manoscritti economico-filosofici del 1844: in essi è contenuto l’abbozzo di un’opera più ampia, progettata da Marx, che avrebbe dovuto comprendere anche la critica del diritto, della morale, della politica e concludersi con un altro scritto, nel quale sarebbe stata stabilita la connessione tra questi domini particolari e svolta una critica globale di essi. Nella parte effettivamente composta, Marx indaga le relazioni dell’economia con lo Stato, il diritto, la vita civile. Il primo manoscritto affronta le questioni del salario, del profitto del capitale, della rendita fondiaria e si conclude con l’analisi del lavoro alienato. A differenza degli economisti classici, Marx non intende descrivere una realtà economica fuori del tempo né assume la proprietà privata come un fatto ovvio, ma cerca di spiegarla come conseguenza del lavoro espropriato nella precisa situazione storica della produzione capitalistica.

La condizione economica attuale Noi partiamo da un fatto economico, attuale. L’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza e estensione. L’operaio diventa una merce tanto più a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci; esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere1. Questo fatto non esprime nient’altro che questo: che l’oggetto, prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione 1. Caratteristica saliente del modo attuale di produzione, ossia della produzione industriale capitalistica, è che l’operaio, quanto più produce merci e quindi ricchezza, tanto più s’impoverisce e, quindi, tanto meno ha da consumare: nascono di qui le crisi di sottoconsumo e di sovrapproduzione, causate dall’assenza di sbocchi per le merci prodotte. Infatti, l’unica merce di cui l’operaio dispone, ossia se stesso e la propria capacità lavorativa, diventa, secondo Marx, sempre più a buon mercato, sicché egli si trova costretto a cedere la propria forza-lavoro a un prezzo sempre più ridotto: di qui deriva l’ab-

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del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare, nella condizione descritta dall’economia politica, come privazione dell’operaio, e l’oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell’oggetto, e l’appropriazione come alienazione, come espropriazione 2. La realizzazione del lavoro si palesa tale privazione che l’operaio è spogliato fino alla morte per fame. L’oggettivazione si palesa tale perdita dell’oggetto che l’operaio è derubato non solo degli oggetti più necessari alla vita, ma anche degli oggetti più necessari del lavoro. Già, lo stesso lavoro diventa un oggetto di cui egli può impadronirsi solo con lo sforzo più grande e le interruzioni più regolari. L’appropriazione dell’oggetto prodotto si palesa tale estraniazione che più oggetti l’operaio produce, meno può possederne e tanto più cade sotto il dominio del suo prodotto, del capitale3.

bassamento dei salari al minimo della sussistenza. Il mondo attuale risulta dunque un mondo capovolto, nel quale le cose, ossia le merci prodotte, vengono ad assumere maggior valore degli uomini che le producono. 2. Marx definisce il prodotto del lavoro lavoro oggettivato, fissato in un oggetto. Il lavoro umano non può non assumere la forma dell’oggettivazione, ossia estrinsecarsi in un prodotto, attraverso la trasformazione della natura. La specificità del modo capitalistico di produzione è che il prodotto è sottratto all’operaio, anzi appartiene a un altro, ossia al capitalista che ne ha acquistato

3. le eredità di hegel e il marxismo

la forza-lavoro, e pertanto si erge come un ente estraneo di fronte al lavoro dell’operaio, che pure lo ha prodotto. In questa situazione l’oggettivazione assume dunque immediatamente la forma dell’alienazione: l’operaio è espropriato del suo prodotto, che si trova ceduto a un altro. Per descrivere questa situazione è usato a volte anche il termine estraniazione (anch’esso di origine hegeliana), per indicare il divenire estraneo dell’oggetto prodotto rispetto al produttore. 3. L’aumento della produzione nel sistema industriale comporta un grado maggiore di espropriazione dei prodot-

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Espropriazione del prodotto del lavoro Tutte queste conseguenze si trovano nella determinazione: che l’operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come ad un oggetto estraneo. Poiché è chiaro, per questo presupposto, che quanto più l’operaio lavora tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, ch’egli si crea di fronte, e tanto più povero diventa egli stesso, il suo modo interiore, e tanto meno egli possiede. Come nella religione. Più l’uomo mette in Dio e meno serba in se stesso. L’operaio mette nell’oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all’oggetto. Più è grande questa sua facoltà e più l’operaio diventa senza oggetto. Ciò ch’è il prodotto del suo lavoro, esso non lo è. Quanto maggiore dunque questo prodotto, tanto minore è egli stesso4. L’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto, lo confronta estranea e nemica. [...] Abbiamo finora considerato l’alienazione, l’espropriazione dell’operaio solo secondo un lato: quello del suo rapporto coi prodotti del suo lavoro. Ma l’alienazione non si mostra solo nel risultato, bensì anche nell’atto della produzione, dentro la stessa attività producente. Come potrebbe l’operaio confrontarsi come un estraneo col prodotto della sua attività, se egli non si è estraniato da se stesso nell’atto della produzione stessa? Il prodotto non è che il résumé dell’attività, della produzione. Se, dunque, il prodotto del lavoro è la espropriazione, la stesti dell’operaio: essi, infatti, vanno ad accrescere il capitale che controlla il lavoro dell’operaio e, quindi, aumentano il dominio del capitale sull’operaio stesso. 4. Sono qui chiare le tracce della riflessione sulla religione di Feuerbach: l’oggetto prodotto è equiparato a Dio, sicché quanto maggiore è la potenza dell’oggetto, tanto minore è quella del soggetto e quindi è maggiore la sua spogliazione. Feuerbach identificava il soggetto con l’uomo in generale, mentre Marx lo identifica storicamente con

sa produzione dev’essere espropriazione in atto, o espropriazione dell’attività, o attività di espropriazione. Nell’alienazione dell’oggetto del lavoro si riassume soltanto l’alienazione, l’espropriazione, dell’attività stessa del lavoro5.

Espropriazione del lavoro In che consiste ora l’espropriazione del lavoro? Primieramente in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio si sente quindi con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. Come a casa sua è solo quando non lavora e quando lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario, bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì è soltanto un mezzo per soddisfare dei bisogni esterni a esso. La sua estraneità risalta nel fatto che, appena cessa di esistere una costrizione fisica o d’altro genere, il lavoro è fuggito come una peste. Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro-mortificazione. Finalmente l’esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì a un altro. Come nella religione l’attività spontanea dell’umana fantasia, dell’umano cervello e del cuore umano, opera indipendentemente dall’individuo, cioè come un’atti-

l’operaio all’interno del modo di produzione capitalistico. 5. L’operaio è espropriato del suo prodotto, in quanto la sua stessa attività, consistente nel produrre tale oggetto, gli è stata sottratta, appartiene a un altro. Il capitalista, infatti, è colui al quale per sopravvivere l’operaio ha dovuto cedere la sua capacità lavorativa: in questa situazione il suo lavoro assume un carattere costrittivo, si configura come sacrificio, non come esplicazione delle facoltà umane nel loro rapporto con la natura. Ne deriva la conseguenza

che l’operaio percepisce il proprio lavoro come qualcosa di estraneo, che non gli appartiene, e trova in esso non la realizzazione, bensì la negazione di se stesso. Egli si sente in armonia con se stesso soltanto fuori dal lavoro, ossia a casa, nel tempo libero dal lavoro, sicché il lavoro non è più percepito come esplicazione di se stesso e soddisfazione di un bisogno, bensì soltanto come strumento per soddisfare bisogni che non hanno nulla a che fare col lavoro.

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vità estranea, divina o diabolica, così l’attività del lavoratore non è attività spontanea. Essa appartiene ad un altro, è la perdita del lavoratore stesso. Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’aver una casa, nella sua cura corporale, ecc., e che nelle sue funzioni umane si sente solo più una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale. Il mangiare, il bere, il generare, ecc., sono in effetti anche schiette funzioni umane, ma sono bestiali nell’astrazione che le separa dal restante cerchio dell’umana attività e ne fa degli scopi ultimi e unici6. [...]

Espropriazione dell’essenza umana Abbiamo ancora da trarre dalle precedenti una terza caratteristica del lavoro alienato. [...] La natura è il corpo inorganico dell’uomo: cioè la natura non è essa stessa corpo umano. Che l’uomo vive della natura significa: che la natura è il suo corpo, rispetto a cui egli deve rimanere in continuo progresso, per non morire. Che la vita fisica e spirituale dell’uomo è congiunta con la natura, non ha altro significato se non che la natura si congiunge con se stessa, ché l’uomo è una parte della natura7. Poiché il lavoro alienato 1) aliena all’uomo la natura, e 2) aliena all’uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così all’uomo il genere; gli riduce così la vita generica ad un mezzo della vita individuale. In primo luogo estrania l’una all’altra la vita generica e 6. Il modo di produzione capitalistico genera dunque la disumanizzazione dell’operaio, la sua riduzione a un livello di vita puramente animale. Marx aveva di fronte le miserabili condizioni di vita dei lavoratori dell’industria, descritte da molti economisti, in particolare dall’amico Engels. Egli intende precisare che le funzioni biologiche fondamentali sono proprie anche dell’uomo, ma diventano puramente animali quando sono isolate dal resto dell’attività umana e si pongono come l’unico obiettivo da perseguire.

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la vita individuale, in secondo luogo fa di quest’ultima nella sua astrazione lo scopo della prima, parimente nella sua forma astratta e alienata. Giacché primieramente il lavoro, l’attività vitale, la vita produttiva, appare all’uomo solo come un mezzo per la soddisfazione di un bisogno, del bisogno di conservazione dell’esistenza fisica. Ma la vita produttiva è la vita generica. È la vita generante la vita. Nel mondo dell’attività vitale si trova l’intero carattere di una specie, il suo carattere specifico. E la libera attività consapevole è il carattere specifico dell’uomo. Ma la vita stessa appare, nel lavoro alienato, soltanto mezzo di vita. L’animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa. L’uomo fa della sua attività vitale stessa l’oggetto del suo volere e della sua coscienza. Egli ha una cosciente attività vitale: non c’è una sfera determinata con cui immediatamente si confonde. L’attività vitale consapevole distingue l’uomo direttamente dall’attività vitale animale. Proprio solo per questo egli è un ente generico. Ossia è un ente consapevole, cioè ha per oggetto la sua propria vita, solo perché è precisamente un ente generico. Soltanto per questo la sua attività è libera attività. Il lavoro estraniato sconvolge la situazione in ciò: che l’uomo, precisamente in quanto è un ente consapevole, fa della sua attività vitale, della sua essenza, solo un mezzo per la sua esistenza. La pratica produzione di un mondo oggettivo, la lavorazione della natura inorganica è la conferma dell’uomo come consapevole ente generi-

7. L’uomo, in quanto entità corporea,

fa parte della natura, ma con la natura egli si trova in un rapporto attivo, che si esprime nel lavoro che trasforma la natura stessa e la rende disponibile alla sua sopravvivenza. Questo rapporto con la natura è dunque costitutivo del genere umano; l’alienazione, invece, sottraendo all’operaio l’attività in cui si esprime questo rapporto con la natura, ossia il lavoro, e i prodotti «naturali» a cui esso dà luogo, gli sottrae al tempo stesso la sua «vita generica» (in tedesco Gattungsleben), che lo qualifica co-

3. le eredità di hegel e il marxismo

me appartenente alla comunità del genere umano. In questa situazione, il lavoro non è più libera attività consapevole, espressione autentica dell’uomo nella sua distinzione dalle altre specie animali, ma si riduce a puro mezzo per la vita individuale: quest’ultima finisce allora per smarrire il suo legame naturale e storico con la dimensione sociale che qualifica propriamente l’essenza del genere umano (in tedesco Gattungswesen).

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co, cioè ente che si rapporta al genere come al suo proprio essere ossia si rapporta a sé come ente generico. Invero anche l’animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche, ecc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l’uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà del medesimo. L’animale produce solo se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo confronta libero il suo prodotto. L’animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene; mentre l’uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all’oggetto la misura inerente, quindi l’uomo forma anche secondo le leggi della bellezza. Proprio soltanto nella lavorazione del mondo oggettivo l’uomo si realizza quindi come un ente generico. Questa produzione è la sua attiva vita generica. Per essa la natura si palesa opera sua, dell’uomo, e sua realtà. L’oggetto del lavoro è quindi l’oggettivazione della vita generica dell’uomo: poiché egli si sdoppia non solo intellettualmente, come nella coscienza, bensì attivamente, realmente, e vede se stesso in un mondo fatto da lui. Allorché, dunque, il lavoro alienato sottrae all’uomo l’oggetto della sua

8. Marx distingue nettamente fra alienazione e oggettivazione: la prima sottrae all’uomo la sua vita generica, ossia il tratto costitutivo del libero lavoro cosciente che modifica la natura, mentre l’oggettivazione è la forma che necessariamente il lavoro deve assumere e che qualifica l’uomo come «ente generico». Con questa espressione Marx intende sottolineare che l’uomo non è limitato, come gli animali, a condizioni particolari di vita, ma produce in modo libero e consapevole le condizioni di

produzione, è la sua vita generica che gli sottrae, la sua reale oggettività di specie, e così trasforma il suo vantaggio sull’animale nello svantaggio della sottrazione del suo corpo inorganico, della natura8. Egualmente, quando il lavoro alienato abbassa la spontaneità, la libera attività, ad un mezzo, fa della vita generica dell’uomo il mezzo della sua esistenza fisica. La coscienza che l’uomo ha del suo genere si trasforma dunque, attraverso l’alienazione, in ciò: che la vita generica gli diventa mezzo. Il lavoro alienato fa dunque: 3) della specifica essenza dell’uomo, tanto della natura che dello spirituale potere di genere, un’essenza a lui estranea, il mezzo della sua individuale esistenza; estrania all’uomo il suo proprio corpo, come la natura di fuori, come il suo spirituale essere, la sua umana essenza; 4) che un’immediata conseguenza, del fatto che l’uomo è estraniato dal prodotto del suo lavoro, dalla sua attività vitale, dalla sua specifica essenza, è lo straniarsi dell’uomo dall’uomo9. Quando l’uomo sta di fronte a se stesso, gli sta di fronte l’altro uomo. Ciò che vale del rapporto dell’uomo al suo lavoro, al prodotto del suo lavoro e a se stesso, ciò vale del rapporto dell’uomo all’altro uomo, e al lavoro e all’oggetto del lavoro dell’altro uomo. In generale, il dire che la sua essenza specifica è estraniata dall’uomo significa che un uomo è estraniato dall’altro, come ognuno di essi dall’essenza umana.

esistenza del genere a cui appartiene. Ciò significa che l’umanità è il prodotto dell’attività storica degli uomini e pertanto in determinate situazioni storiche l’uomo può trovarsi ad aver perso il suo essere autentico. L’espressione «ente generico» o «essenza dell’uomo» sarà in seguito abbandonata da Marx, forse perché troppo carica di risonanze filosofiche. 9. Marx ha sviluppato la sua argomentazione in progressione: dapprima ha mostrato che nel lavoro alienato l’uomo

è estraniato dal prodotto del suo lavoro e, di conseguenza, dalla sua stessa attività lavorativa; ma poiché la libera e cosciente attività lavorativa definisce l’essenza generica dell’uomo, il lavoro alienato gli sottrae quest’essenza e conduce l’operaio alienato ad attribuire un primato alla sua esistenza puramente individuale e privata. In tal modo, il lavoro alienato finisce per isolare l’uomo dagli altri uomini, estraniarlo da essi, spezzando il suo legame organico con tutti i membri del genere umano.

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GUIDA ALLA LETTURA 1. Definisci il concetto marxiano di alienazione. 2. Ricostruisci il processo che porta l’operaio all’alienazione riprendendo i passi opportuni di questo testo. 3. Ricostruisci il ragionamento con cui Marx sostiene che l’alienazione dell’operaio ha origine nell’espropriazione del suo lavoro. 4. Evidenzia le espressioni che mettono in risalto gli effetti disumanizzanti che l’espropriazione del lavoro ha sull’operaio. 5. Che differenza c’è tra la lavorazione del mondo inorganico realizzata dall’animale e quella realizzata dall’uomo?

t7 Marx / Le tesi su Feuerbach Marx

Tesi su Feuerbach

Nei Manoscritti del 1844 Marx definisce Feuerbach «il solo che sia in un rapporto serio e critico con la dialettica hegeliana»: Feuerbach ha avuto il merito di mostrare che la filosofia è «religione trasposta in pensieri» e, quindi, è anch’essa una forma di alienazione, a cui occorre sostituire il «vero materialismo», che ha il suo principio nel «rapporto sociale dell’uomo con l’uomo». Poco tempo dopo, nel 1845, Marx avverte la necessità di fare i conti anche con Feuerbach e stende in fretta brevi appunti per un lavoro ulteriore, non destinati alla pubblicazione: sono le 11 Tesi su Feuerbach, pubblicate nel 1888 da Engels, che ravviserà in esse il primo documento di una nuova «concezione del mondo», il materialismo storico. Si tratta di un testo che per un verso guarda al passato, fa un bilancio critico delle sue acquisizioni più significative, rappresentate dall’opera di Feuerbach, ma per l’altro guarda al futuro, indicando le linee portanti non solo di un nuovo metodo, ma anche di un nuovo modo di concepire la filosofia, non più come attività teoretica volta soltanto a comprendere il mondo, ma piuttosto come prassi trasformatrice della realtà.

1. Il difetto principale di tutti i materialismi che si sono susseguiti finora (ivi compreso quello di Feuerbach) è che ciò che ci si presenta, la realtà, la sensibilità viene concepito soltanto sotto forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività sensibile, umana, come prassi; non soggettivamente. Il lato attivo è stato quindi trattato astrattamente, in polemica col materialismo, dall’idealismo – che naturalmente non conosce l’attività reale, sensibile 1. Il materialismo di Feuerbach non si

distingue dalle forme tradizionali di materialismo, in quanto anch’esso riconosce il primato del sensibile e ravvisa nella sensibilità la proprietà essenziale dell’uomo, ma non la concepisce come attività (in greco pràxis) che si sviluppa storicamente nel tempo. Paradossalmente era stato l’idealista Hegel a rico-

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come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili – realmente diversi dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l’attività umana stessa come attività oggettiva. Nella Essenza del cristianesimo egli considera quindi schiettamente umano solo il comportamento teoretico, mentre la prassi viene concepita e descritta solo nella sua forma sordidamente giudaica. Egli non comprende quindi il significato «rivoluzionario» dell’attività pratico-critica1.

noscere l’importanza di questa dimensione attiva, pur attribuendola soltanto al pensiero, non alla sensibilità: Hegel aveva infatti interpretato l’attività del pensiero come una sorta di prassi spirituale, mentre la vera prassi, secondo Marx, è sensibile. A sua volta, Feuerbach, smarrendo questa dimensione di prassi, era rimasto impigliato nel pri-

3. le eredità di hegel e il marxismo

mato della teoria rispetto alla prassi. Nell’Ideologia tedesca, scritta poco dopo queste Tesi, si dirà incisivamente che «fin tanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare, e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un materialista. Materialismo e storia sono per lui divergenti».

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2. Il problema se il pensiero umano abbia una verità oggettiva non è un problema teorico, ma pratico. Nella prassi l’uomo deve dimostrare la verità, cioè la realtà e la potenza, la concretezza del suo pensiero. La contesa sulla realtà o la non realtà del pensiero – che è isolato dalla prassi – è un problema puramente scolastico2. 3. La dottrina materialistica dei mutamenti delle circostanze e dell’educazione dimentica che le circostanze devono essere cambiate dagli uomini, e che lo stesso educatore deve essere istruito. Detta teoria deve quindi scindere la società in due parti – di cui una è posta al di sopra della società stessa. La coincidenza del variare delle circostanze e dell’attività umana, ovvero autotrasformazione, può essere intesa e compresa razionalmente solo come prassi rivoluzionaria3. 4. Feuerbach prende le mosse dal quel dato di fatto che è l’autoalienazione religiosa e lo sdoppiamento del mondo in due mondi, uno religioso ed uno profano. Il suo lavoro consiste nel dissolvere il mondo religioso nella sua base profana. Ma il fatto che la base profana si stacca da se stessa ed assegna a se stessa un regno indipendente nelle nuvole, questo fatto si può spiegare solo con l’intimo dilaceramento e con 2. Marx respinge il modo tradizionale d’impostare il problema gnoseologico in termini puramente teorici, come problema del rapporto tra pensiero e verità oggettiva. La verità è da lui concepita come risultato della prassi: vero è il pensiero che l’azione realizza, ossia il pensiero che si dimostra tale nella realtà delle cose trasformate dalla prassi. In questa tesi si avverte un’eco del principio hegeliano della connessione di reale e razionale, ma con un nuovo accento posto sulla prassi come anello di congiunzione tra pensiero e realtà. 3. Teorie del condizionamento ambientale sul pensiero e sui costumi degli uomini erano ampiamente diffuse nel Settecento. In queste impostazioni materialistiche il carattere dell’uomo era concepito come il prodotto della sua organizzazione biologica e delle circostanze ambientali. Corollario di questa impostazione era la tesi che l’educazione dei più dev’essere affidata a pochi individui illuminati. Questa impostazione, secondo Marx, presuppo-

la contraddizione interna di questa base profana. Quindi, dopo che si è scoperto che la famiglia terrena è il mistero della sacra famiglia, anche la prima deve essere distrutta teoricamente e praticamente4. 5. Feuerbach, non soddisfatto del pensiero astratto, vuole l’intuizione; ma egli non concepisce la sensibilità come attività pratica dell’uomo sensibile. 6. Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualche cosa di astratto che risieda nel singolo individuo. Essa, nella sua realtà, è l’insieme dei rapporti sociali. Feuerbach, che non procede alla critica di questa essenza reale, è quindi costretto: 1) ad astrarre dal corso storico, a fissare per sé il sentimento religioso ed a presupporre un individuo umano astratto, isolato. 2) L’essenza può quindi essere intesa soltanto come «genere», come generalità interna, muta, che collega in modo naturale molti individui5. 7. Feuerbach non vede quindi che anche il «sentimento religioso» è un prodotto sociale e che l’astratto individuo che egli analizza appartiene ad una determinata forma sociale6.

neva in qualche modo la staticità e immutabilità dei condizionamenti ambientali, trascurando il problema della loro trasformazione radicale, concepibile soltanto come prassi rivoluzionaria. Marx rimprovera quindi a queste forme di materialismo settecentesco, di cui Feuerbach è ancora portatore, di non tener conto della prassi storica dell’uomo come capacità di trasformare la natura e rivoluzionare i rapporti sociali. 4. Il lavoro di Feuerbach dev’essere proseguito: non basta eliminare l’alienazione religiosa, occorre eliminare l’alienazione più radicale che colpisce l’uomo e che consente di spiegare lo stesso costituirsi dell’alienazione religiosa: si tratta dell’alienazione del lavoro, che Marx aveva analizzato nei Manoscritti. 5. Questa tesi cruciale segna l’allontanamento netto dalle posizioni di Feuerbach e, in generale, da ogni impostazione del problema antropologico in termini esclusivamente filosofici e teo-

rici. Marx ritiene non più utilizzabile il concetto di «essenza umana», di cui aveva fatto uso nei Manoscritti, o meglio ritiene che non sia più interpretabile, alla maniera di Feuerbach, come qualcosa di astratto, un’essenza di tipo metafisico, soprastorico. Questa impostazione aveva condotto Feuerbach a presupporre l’esistenza di un individuo isolato, ma questa è per Marx soltanto un’astrazione fittizia, perché l’uomo è l’insieme dei rapporti sociali e l’individuo è costitutivamente inserito in una trama di rapporti sociali. Il legame tra gli individui, più che essere dato dalla loro appartenenza al «genere» umano, e quindi definibile a prescindere dalla storia in cui gli uomini sono coinvolti, dev’essere rintracciato nelle relazioni effettive che storicamente intercorrono tra essi. Solo in questo modo diventa possibile un’analisi critica dei rapporti sociali esistenti nel presente. 6. Anche il fenomeno religioso è per Marx un fenomeno storico e sociale: esso assume configurazioni storiche di-

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8. Ogni vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che inducono la teoria a ripiegare sul misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nel comprendere questa prassi. 9. Il punto più elevato a cui giunge il materialismo intuitivo, il materialismo cioè che non concepisce la sensibilità come attività pratica, è l’intuizione dei singoli individui e della società civile. 10. Il punto di vista del vecchio materialismo è la società civile, il punto di vista del nuovo è la società umana o l’umanità sociale7. 11. I filosofi si sono limitati ad interpretare il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo8. verse dipendenti da specifiche relazioni sociali tra gli uomini. Emerge qui un embrione della concezione materialistica, secondo cui le idee e, quindi, anche la religione non sono qualcosa che si genera da sé in completa indipendenza dalle condizioni materiali in cui gli uomini provvedono alla loro vita. 7. Marx contrappone il suo nuovo materialismo al vecchio, che al massimo giungeva a riconoscere l’esistenza della società civile, ma come un insieme di rapporti statici fuori dal tempo tra individui singolarmente presi. Ma in tal modo esso non riusciva ad andare al di là della situazione esistente e a co-

GUIDA ALLA LETTURA 1. In che cosa consiste, secondo Marx, il carattere ideologico «di tutti i materialismi che si sono susseguiti finora (ivi compreso quello di Feuerbach)»? Qual è il modo che Marx indica per uscire da questa visione ideologica? Evidenzia sul testo le espressioni che rispondono alle domande. 2. Qual è il rapporto tra prassi e verità illustrato da Marx nella tesi 2? 3. Nella tesi 6 Marx sostiene che l’uomo è «l’insieme dei rapporti sociali»; confronta questa tesi con quanto viene affermato nel brano tratto dall’Ideologia tedesca [ t8] e indica se vi sono state delle modifiche. 4. Commenta la tesi 11, uno dei passi più famosi di tutta l’opera marxiana.

glierne le contraddizioni che avrebbero portato all’instaurazione della «società umana», ossia alla piena realizzazione dell’uomo nell’insieme dei rapporti sociali. 8. In questa celebre tesi finale è tratta la conclusione di tutte le considerazioni precedenti. Se l’elemento decisivo del nuovo materialismo è nella prassi, concepita non come prassi individuale, ma sociale, è chiaro che la stessa filosofia partecipa al processo di disalienazione e di conquista dell’umanità sociale e della libertà non attraverso l’attività puramente teorica consistente nell’interpretazione e nella comprensione del

mondo com’è di fatto, bensì attraverso la prassi che trasforma questa realtà stessa. Si può notare che Marx non dice che occorre eliminare la filosofia, ma che essa non può identificare il proprio compito in un’interpretazione come puro lavoro teorico, che lascia sussistere il reale com’è, anche quando, come nel caso dei giovani hegeliani, si criticano le interpretazioni precedenti e le si sostituisce con altre. Il lavoro filosofico potrà trovare la sua legittimazione soltanto attraverso il suo inserimento nella prassi rivoluzionaria, volta alla trasformazione della realtà.

t8 Marx, Engels / Ideologia e classi sociali Marx, Engels

L’ideologia tedesca

parte I

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L’ideologia tedesca, composta tra la fine del 1845 e l’autunno del 1846, è il risultato di una riflessione comune di Marx ed Engels, anche se quest’ultimo sostiene di avere contribuito in misura minore. Essa nacque quando – raccontò Marx alcuni anni dopo nella Prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859) – «decidemmo di mettere in chiaro, con un lavoro comune, il contrasto tra il nostro modo di vedere e la concezione ideologica della filosofia tedesca; di fare i conti, in realtà, con la nostra anteriore coscienza filosofica. Il disegno venne realizzato nella forma di una critica della filosofia posteriore a Hegel». Per difficoltà editoriali l’opera non fu pubblicata, sicché – prosegue Marx – «abbandonammo tanto più volentieri il manoscritto alla critica roditrice dei topi, in quanto avevamo già raggiunto il nostro scopo principale, che era di veder chiaro in noi stessi»: l’opera sarà pubblicata solo nel 1932. In buona parte è una critica a Bruno Bauer e a Stirner, ma in generale ai giovani hegeliani è imputato il fatto di credere che la vera rivoluzione avvenga nel pensiero, in una critica puramente teorica delle istituzioni e dei pregiudizi: questa posizione è qualificata come ideologia (termine che dapprima significava indagine sulle idee, in particolare sul modo in cui esse si formano). A ciò Marx ed Engels obiettano, soprattutto nella prima parte dello scritto,

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rimasta incompiuta, che le idee sono condizionate, nella loro formazione, dai rapporti sociali di produzione, attraverso i quali gli uomini si procurano i mezzi per la loro sussistenza.

E questi rapporti non sono statici o eterni, ma si sviluppano storicamente passando attraverso fasi caratterizzate da modi diversi di produzione e correlative forme di proprietà. Su questi presupposti si costituisce la «concezione materialistica della storia», a cui è strettamente legata una concezione della rivoluzione come trasformazione della realtà storica, economica e sociale, e non come rivoluzione e critica puramente intellettuale. La produzione delle idee, delle rappresentazioni, della coscienza, è in primo luogo direttamente intrecciata all’attività materiale e alle relazioni materiali degli uomini, linguaggio della vita reale. Le rappresentazioni e i pensieri, lo scambio spirituale degli uomini appaiono qui ancora come emanazione diretta del loro comportamento materiale. Ciò vale allo stesso modo per la produzione spirituale, quale essa si manifesta nel linguaggio della politica, delle leggi, della morale, della religione, della metafisica, ecc. di un popolo. Sono gli uomini i produttori delle loro rappresentazioni, idee, ecc., ma gli uomini reali, operanti, così come sono condizionati da un determinato sviluppo delle loro forze produttive e dalle relazioni che vi 1. Il rapporto fra il livello della produ-

zione di idee e la sfera della produzione materiale, che è la base reale della vita degli uomini, è descritto mediante metafore come «intreccio», «emanazione», «manifestazione», ma l’espressione che forse esprime con maggior chiarezza questo punto è «condizionamento». Quel che rimane ancora indeterminato è se si tratti di un condizionamento necessario, nel senso che, dato un certo assetto economico, possa risultarne soltanto quella determinata produzione di idee o se possa sussistere un certo scarto tra i due piani. Nella prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), Marx denominerà l’insieme dei rapporti di produzione «struttura economica della società» e tutte le altre produzioni che si

corrispondono fino alle loro formazioni più estese1. La coscienza non può mai essere qualche cosa di diverso dall’essere cosciente, e l’essere degli uomini è il processo reale della loro vita. Se nell’intera ideologia gli uomini e i loro rapporti appaiono capovolti come in una camera oscura, questo fenomeno deriva dal processo storico della loro vita, proprio come il capovolgimento degli oggetti sulla retina deriva dal loro immediato processo fisico2. Esattamente all’opposto di quanto accade nella filosofia tedesca, che discende dal cielo sulla terra, qui si sale dalla terra al cielo. Cioè non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si pensa, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi3; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. [...] Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produ-

elevano su questa base «sovrastruttura» e ribadirà che «il modo di produzione della vita puramente materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita». La precisazione «in generale» lascia supporre che la sovrastruttura non è deducibile in maniera necessariamente uniforme dalla struttura e che le specifiche modalità di relazione, che sempre sussistono tra i due piani, devono essere accertate di volta in volta per via empirica. 2. L’opera dei giovani hegeliani è qualificabile come «ideologia», in quanto, sostenendo il primato della coscienza sulle condizioni materiali di vita, capovolge i rapporti reali tra la base e la sovrastruttura. A sua volta, però, questo capovolgimento non è un’operazione

puramente arbitraria e soggettiva da parte dei giovani hegeliani: anch’esso, in quanto appartiene al livello della sovrastruttura, è l’esito di un processo storico reale e manifesta il fatto che è la realtà stessa a essere capovolta. Nella situazione storica del presente, infatti, le idee morali, politiche, filosofiche e così via appaiono dotate di vita autonoma, mentre nella realtà non lo sono. 3. Questo è un presupposto centrale della concezione materialistica della storia, ossia che non sempre ciò che gli uomini pensano o immaginano di se stessi è una descrizione veritiera e adeguata di ciò che essi realmente sono. Uno dei contrassegni dell’«ideologia» è anzi il mascheramento (conscio o inconscio) dei caratteri propri della realtà.

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zione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale. Le idee dominanti non sono altro che l’espressione ideale dei rapporti materiali dominanti, sono i rapporti materiali dominanti presi come idee: sono dunque l’espressione dei rapporti che appunto fanno di una classe la classe dominante, e dunque sono le idee del suo dominio4. Gli individui che compongono la classe dominante posseggono fra l’altro anche la coscienza, e quindi pensano; in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell’epoca. Per esempio: in un periodo e in un paese in cui potere monarchico, aristocrazia e borghesia lottano per il potere, il quale quindi è diviso, appare come idea dominante la dottrina della divisione dei poteri, dottrina che allora viene enunciata come «legge eterna»5. La divisione del lavoro, che abbiamo già visto6 come una delle forze principali della storia fi4. Dopo aver mostrato la dipendenza

della produzione delle idee dalla base economica, Marx ed Engels precisano che alle relazioni di dominio che si instaurano nella sfera economica e sociale corrisponde un analogo dominio nella sfera delle idee. Per chiarire questo punto è introdotta la nozione di classe: sul piano economico domina la classe che detiene i mezzi della produzione materiale e che pertanto assoggetta a sé la classe operaia; ma poiché la base materiale condiziona quella spirituale, allora la classe detentrice del potere nella sfera economica eserciterà analogo dominio anche nell’ambito spirituale. La conseguenza è che le idee dominanti, in quanto prodotto della classe dominante sul piano economico, saranno necessariamente l’espressione di questo dominio. 5. Secondo Marx ed Engels, una delle

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nora trascorsa, si manifesta anche nella classe dominante come divisione del lavoro intellettuale e manuale, cosicché all’interno di questa classe una parte si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell’elaborazione dell’illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi. All’interno di questa classe questa scissione può addirittura svilupparsi fino a creare fra le due parti una certa opposizione e una certa ostilità, che tuttavia cade da sé se sopraggiunge una collisione pratica che metta in pericolo la classe stessa: allora si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto dal potere di questa classe. L’esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già l’esistenza di una classe rivoluzionaria. [...] Se ora nel considerare il corso della storia si svincolano le idee della classe dominante dalla classe dominante e si rendono autonome, se ci si limita a dire che in un’epoca hanno dominato queste o quelle idee, senza preoccuparsi delle condizioni della produzione e dei produttori di

operazioni tipiche del pensiero ideologico e non scientifico consiste nel presentare come eterno, fuori del tempo e, quindi, dotato di validità assoluta e universale ciò che invece è soltanto storico, frutto di precise condizioni economiche e sociali e quindi destinato a perire insieme al perire di queste condizioni. 6. Prima si è mostrato che le forme di proprietà sono connesse a forme di divisione del lavoro che si susseguono nella storia: per esempio, tra città e campagna e poi tra industria e commercio. La divisione del lavoro tuttavia non s’instaura soltanto tra classi antagonistiche; talvolta essa può prodursi anche all’interno della classe dominante come divisione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. In questa situazione il lavoro intellettuale si configura come puramente ideologico, ossia come

3. le eredità di hegel e il marxismo

produzione di idee volte a legittimare il potere detenuto di fatto dalla classe dominante. Questa funzione, tuttavia, è subordinata e secondaria rispetto al lavoro manuale, ossia ai membri attivi della classe dominante, i capitalisti detentori dei mezzi di produzione. Il ruolo subordinato degli intellettuali può spiegare l’eventuale insorgere di contrasti con gli altri membri della classe dominante e il formarsi dell’illusione che le idee prodotte dagli intellettuali non siano quelle della classe dominante. In realtà, secondo Marx, questi contrasti apparenti cessano quando la classe dominante nel suo complesso è minacciata da una classe realmente antagonistica, ossia dal proletariato. Soltanto l’esistenza reale del proletariato come classe rivoluzionaria rende possibile la formazione di idee realmente, e non solo apparentemente, rivoluzionarie.

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queste idee, e se quindi si ignorano gli individui e le situazioni del mondo che stanno alla base di queste idee, allora si potrà dire per esempio che al tempo in cui dominava l’aristocrazia dominavano i concetti di onore, di fedeltà, ecc., e che durante il dominio della borghesia dominavano i concetti di libertà, di uguaglianza, ecc. Queste sono, in complesso, le immaginazioni della stessa classe dominante7. Questa concezione della storia che è comune a tutti gli storici, particolarmente a partire dal diciottesimo secolo, deve urtare necessariamente contro il fenomeno che dominano idee sempre più astratte, cioè idee che assumono sempre più la forma dell’universalità. Infatti ogni classe che prenda il posto di un’altra che ha dominato prima è costretta, non fosse che per raggiungere il suo scopo, a rappresentare il suo interesse come interesse comune di tutti i membri della società, ossia, per esprimerci in forma idealistica, a dare alle proprie idee la forma dell’universalità, a rappresentarle come le sole razionali e universalmente valide. La classe rivoluzionaria si presenta senz’altro, per il solo fatto che si contrappone a una classe, non come classe ma come rappresentante dell’intera società, appare come l’intera massa della società di contro all’unica classe dominante. Ciò le è possibile perché in realtà all’inizio il suo interesse è ancora più legato all’interesse comune di tutte le altre classi non dominanti, e sotto la pressione dei rapporti fino allora esistenti non si è ancora potuto sviluppare come interesse particolare di una classe particolare. La sua vittoria giova perciò anche a molti individui delle altre classi che non giungono al dominio, ma solo in quanto pone questi individui in condizione di ascendere nella classe dominante8. 7. È qui rifiutata una storia di pure idee, svincolata dall’analisi dei condizionamenti storici materiali che hanno reso possibile la produzione di tali idee. Questo tipo di storia è soltanto l’espressione di ciò che la classe dominante immagina a proposito del passato per poter dimostrare la propria superiorità. Ogni nuova classe che acquista posizione dominante tende, infatti, a presentare come parziali, legate a interessi puramente particolari, le

Quando la borghesia francese rovesciò il dominio dell’aristocrazia, con ciò rese possibile a molti proletari di innalzarsi al di sopra del proletariato, ma solo in quanto essi diventarono borghesi. Quindi ogni nuova classe non fa che porre il suo dominio su una base più larga della precedente, per la qual cosa anche l’opposizione delle classi non dominanti contro quella ora dominante si sviluppa più tardi con tanta maggiore asprezza e profondità. Queste due circostanze fanno sì che la lotta da condurre contro questa nuova classe dominante tende a sua volta a una negazione della situazione sociale esistente più decisa e più radicale di quanto fosse possibile a tutte le classi che precedentemente avevano aspirato al dominio. Tutta questa parvenza, che il dominio di una determinata classe altro non sia che il dominio di certe idee, cessa naturalmente da sé non appena il dominio di classe in generale cessa di essere la forma dell’ordinamento sociale, non appena quindi non è più necessario rappresentare un interesse particolare come universale o «l’universale» come dominante. GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo le espressioni che presentano il concetto di ideologia. 2. Che effetti ha la divisione del lavoro all’interno della classe dominante? 3. «Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti». Illustra brevemente questo giudizio riportando le opportune citazioni che sostengono l’argomentazione marxiana. 4. Marx considera motore della storia la lotta di classe. Evidenzia sul testo le espressioni che sostengono questa tesi.

idee della classe che essa ha sostituito e le proprie, invece, come universali, espressione autentica degli interessi di tutta la comunità. Anche questa, secondo Marx ed Engels, è una delle operazioni tipiche del pensiero ideologico. 8. Nella fase iniziale in cui una classe è in lotta con la classe dominante e riesce a scalzarla dal suo dominio, gli interessi di cui essa è portatrice riguardano tutte le classi in quanto non sono dominanti. Così la vittoria della borghesia

sull’aristocrazia feudale è risultata vantaggiosa non soltanto alla classe borghese, ma anche a quella proletaria, consentendo a molti proletari di accedere alla classe borghese, che in tal modo ha allargato la sua base. Quando invece la nuova classe ha ormai consolidato il suo dominio, allora si sviluppano in maniera netta i suoi interessi particolari ed emergono di conseguenza nuove forme di lotta di classe.

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t9 Marx, Engels / Borghesia e proletariato Marx, Engels

Manifesto del partito comunista

passim

Redatto come programma per la Lega dei comunisti, il Manifesto del partito comunista fu pubblicato nel febbraio del 1848. Esso ha come destinatari in primo luogo i proletari, ai quali sono indicate le linee di un’azione unitaria di lotta. Non si tratta però di un progetto utopistico, in cui il comunismo sia presentato in termini puramente morali come ideale di giustizia e di uguaglianza. Il comunismo è anzi descritto come l’esito di un processo storico che ha il suo asse portante nell’affermazione della borghesia contro il vecchio mondo feudale e nell’instaurazione del modo capitalistico della produzione industriale, che porta alla formazione di una sempre più ampia classe operaia e alla conseguente lotta di classe. Ciò significa che proprio dalla vittoria della borghesia nascono le condizioni per un nuovo passo in avanti nella storia del mondo, ossia la costituzione della classe destinata ad abbattere la borghesia stessa, per eliminare tutte le classi e dar luogo alla società comunistica: una società contrassegnata proprio dalla scomparsa dei conflitti tra le classi che sinora hanno dominato la storia.

Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi1. Quale partito d’opposizone non è stato tacciato di comunismo dai suoi avversari governativi; qual partito d’opposizione non ha rilanciato l’infamante accusa di comunismo tanto sugli uomini più progrediti dell’opposizione stessa, quanto sui propri avversari reazionari?2 Da questo fatto scaturiscono due specie di conclusioni. Il comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee. È ormai tempo che i comunisti espongano apertamente in faccia a tutto il mondo il loro modo di vedere, i loro fini, le loro tendenze, e 1. Il termine «spettro» è usato ironi-

camente per indicare, da una parte, l’immagine fittizia che i reazionari hanno del comunismo e, dall’altra, la paura che esso provoca in loro. Il papa era allora Pio IX, mentre Metternich era una delle figure più rappresentative della restaurazione e della rinnovata alleanza fra trono e altare dopo la caduta di Napoleone. Guizot, invece, era sostenitore di idee liberali, ma anch’egli ostile al comunismo, come del resto i democratici filorepubblicani francesi. Quanto allo zar di Russia, Marx ed Engels videro sempre in esso la punta più avanzata dell’oscurantismo europeo. 2. Il termine «comunista» era diventa-

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che contrappongano alla favola dello spettro del comunismo un manifesto del partito stesso. A questo scopo si sono riuniti a Londra comunisti delle nazionalità più diverse e hanno redatto il seguente manifesto che viene pubblicato in inglese, francese, tedesco, italiano, fiammingo e danese. La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi3. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta. Nelle epoche anteriori della storia troviamo

to un termine valutativo di tipo negativo, usato per denigrare i propri avversari politici. Obiettivo del Manifesto sarà di fornire un’idea non distorta di che cosa sia realmente il comunismo. 3. È qui enunciato uno dei princìpi cardine della concezione materialistica della storia: la lotta delle classi è stata sinora il motore della storia ed è, al tempo stesso, il presupposto che deve orientare l’interpretazione del processo e dei mutamenti storici. Nel testo non è detto chiaramente che cosa si deve intendere per «classe», ma in generale il termine indica tutti coloro che occupano una posizione identica o simile all’interno di un determinato assetto

3. le eredità di hegel e il marxismo

economico e sociale; quando essi acquistano anche coscienza di questa loro posizione e di essere legati da interessi comuni con quanti la condividono, allora si pongono anche le basi per il loro costituirsi in un partito organizzato. Il testo presenta dapprima una concezione dicotomica delle classi come caratteristica di ogni epoca storica, proprio per sottolineare l’antagonismo fra due classi di oppressori e oppressi; ma poco dopo, a proposito delle «epoche anteriori della storia», si parla di una gradazione o gerarchia sociale, più complessa della semplice dicotomia.

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quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi. La società borghese moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta. La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato4. [...] Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che le porteranno la morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari. Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne 4. Le epoche antecedenti all’affermazione del dominio della borghesia sono caratterizzate da una grande articolazione di ordini o ceti: ciò serve a mostrare quanto la divisione delle classi si sia polarizzata in senso dicotomico nell’epoca moderna e si sia quindi radicalizzata la lotta di classe. L’età moderna è contrassegnata dal contrasto fra la borghesia, ossia, preciserà Engels, «la classe dei capitalisti moderni che sono proprietari dei mezzi della produzione sociale e impiegano lavoro salariato», e il proletariato, ossia «la classe degli operai salariati, che non possedendo nessun mezzo di produzione, sono costretti a vendere la loro forza-lavoro per vivere» . Successivamente, Marx ed Engels spiegano come, a partire dal-

alef

Marx Capitale e lavoro salariato

vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato5. Con l’estendersi dell’uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l’operaio6. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un’operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima ad imparare. Quindi le spese che causa l’operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della sua specie. Ma il prezzo di una merce, quindi anche quello del lavoro, è uguale ai suoi costi di produzione. Quindi il salario decresce nella stessa proporzione in cui aumenta il tedio del lavoro [...]. L’operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l’industria progredisce, scende sempre più al disotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in

la città medievale, si sia storicamente formata la borghesia e come il suo sviluppo abbia condotto alla creazione di un mercato mondiale e alla formazione del proletariato, cioè della classe destinata a distruggerla. 5. Il mercato è il luogo in cui le merci sono scambiate e ricevono un prezzo. Per sopravvivere il proletariato è costretto a vendere la sua forza-lavoro come merce, ma per poter essere venduta essa deve trovare acquirenti (i capitalisti), sicché per poter continuare a trovare lavoro, ossia a vendere la propria forza-lavoro, i proletari debbono accrescere il capitale dei loro acquirenti. 6. Ritorna il tema dell’alienazione, ampiamente trattato nei Manoscritti

[t6], ma in connessione al tema delle macchine. L’introduzione delle macchine nella produzione industriale le rende il principale fattore produttivo, relega l’operaio a una funzione puramente accessoria rispetto a esse e riduce il prezzo della merce venduta dall’operaio, ossia la sua forza-lavoro. Questo prezzo, ossia il salario, viene così a ridursi al costo minimo per garantire la sussistenza dell’operaio stesso: ne deriva un immiserimento crescente del proletariato e si pongono, quindi, le premesse per un sovvertimento radicale della società. La tesi dell’immiserimento progressivo resterà uno dei punti più controversi delle successive discussioni sul marxismo, sino al Novecento.

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una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società. La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro7. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai

7. Come tutte le merci vendute sul mercato, anche la forza-lavoro è sottoposta alla concorrenza: quanto maggiore è l’offerta di una merce, tanto minore sarà il prezzo pagato per essa. Di qui scaturisce la competizione tra gli operai costretti a vendere la loro forzalavoro; tutto dunque farebbe pensare alla loro impossibilità di associarsi e condurre una lotta comune. Lo sviluppo del capitalismo, invece, dando luogo

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piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili8. GUIDA ALLA LETTURA 1. Qual è lo «spettro» che si aggira per l’Europa? 2. Qual è il postulato fondamentale del materialismo storico, enunciato da Marx ed Engels in questo brano? 3. Ricostruisci il processo che ha determinato la condizione di «alienazione» dell’operaio nella società borghese e gli effetti che questo processo continua a produrre su tale condizione. 4. Perché il «tramonto» della borghesia «e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili»?

alla formazione della grande industria e quindi alla concentrazione di grandi masse in un unico luogo di lavoro, legate da un comune interesse, pone involontariamente le condizioni perché queste masse si associno e si organizzino per sovvertire la borghesia. 8. L’aggettivo «inevitabile» sottolinea che il processo storico che condurrà alla vittoria del proletariato ha un carattere di necessità, non può non conclu-

3. le eredità di hegel e il marxismo

dersi con tale esito. Anche questo sarà un punto assai dibattuto nelle discussioni successive sul marxismo, in connessione anche al problema se la rivoluzione e la transizione al comunismo abbiano un carattere puramente oggettivo, ossia dipendano dallo sviluppo delle forze produttive e quindi dalla dinamica economica, oppure dipendano anche dal fattore soggettivo della coscienza di classe.

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esercizi/3 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale 1. Evidenzia i principali esponenti della destra e della sinistra hegeliana. 2. Evidenzia i termini della critica di Feuerbach alla filosofia hegeliana. 3. Evidenzia quali sono gli aspetti della teoria del sensibile elaborata da Feuerbach. 4. Evidenzia le opere frutto del sodalizio intellettuale di Marx e di Engels. 5. Evidenzia il ruolo attribuito da Marx al proletariato nelle sue diverse opere. 6. Evidenzia la concezione dello Stato elaborata da Marx. 7. Evidenzia i caratteri essenziali della «concezione materialistica della storia». 8. Evidenzia le forme di proprietà che, secondo Marx, si sono susseguite nella storia. 9. Evidenzia le posizioni dei pensatori marxisti, citati nel manuale, ostili al revisionismo. Dizionario filosofico 10. Definisci i seguenti concetti: antropologia (Feuerbach) • alienazione (Marx) • comunismo • lotta di classe • ideologia • capitale (costante e variabile) • plusvalore • materialismo dialettico (Engels) • revisionismo (Bernstein) • dittatura del proletariato (Lenin)

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 11. A partire da quale avvenimento storico si determinano gli opposti schieramenti della destra e della sinistra hegeliane? 12. Qual è la posizione dei giovani e dei vecchi hegeliani in merito al problema dello Stato? 13. Con quali argomentazioni Feuerbach sostiene

esercizi/3

che Dio è solo una proiezione sublimata dei bisogni umani? 14. Che differenza c’è, secondo Marx, tra emancipazione politica ed emancipazione umana? 15. Che differenza c’è fra «valore d’uso» e «valore di scambio» delle merci, secondo Marx? 16. Definisci il fenomeno del feticismo delle merci, proprio del modo di produzione capitalistico. 17. Qual è il ruolo che Marx assegna alla «dittatura del proletariato»? 18. In che cosa consiste, secondo Marx, il «regno della libertà»? 19. Illustra la concezione della verità sostenuta da Lenin in Materialismo ed empiriocriticismo. Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 20. Perché, secondo Feuerbach, la filosofia di Hegel non è altro che «teologia filosofica»? 21. Qual è la differenza fra il concetto di «alienazione» di Feuerbach e quello di Marx? 22. In che modo Marx interpreta la situazione della filosofia dopo Hegel in analogia con la situazione delle filosofie ellenistiche dopo Platone e Aristotele? 23.A cosa conduce l’inversione della dialettica hegeliana promossa da Marx? 24. Illustra la concezione marxiana di «lavoro». 25. In che modo Marx argomenta la tesi che l’economia rappresenta la «struttura» fondamentale di una società? 26. In che modo Hegel, Marx ed Engels definiscono la dialettica? Metti in evidenza analogie e differenze. 27. Che differenza c’è tra il ciclo economico delle società precapitalistiche e quelle capitalistiche? 28. Quali conseguenze trae Marx dall’enunciazione della «caduta tendenziale del saggio di profitto»? 29. Quali caratteristiche dovrà avere la società comunista derivante dall’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione? 30. Quali aspetti dell’analisi economica di Marx non hanno trovato riscontro nella realtà, secondo Bernstein?

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anche se si applica alla società e non alla natura. bentham e l’utilitarismo

Il principio fondamentale dell’utilitarismo è che le azioni degli uomini debbano essere valutate in base all’aumento della felicità individuale e sociale che sono in grado di produrre. Il suo iniziatore è Bentham, secondo il quale il piacere è il parametro per valutare l’utilità delle cose. Poiché il piacere è quantificabile, è possibile elaborare un’algebra morale che consenta di ottenere il duplice obiettivo della massimizzazione del piacere e della minimizzazione del dolore. mill: induzione e uniformità della natura

4. il positivismo i contenuti i caratteri generali del positivismo

Tra Sette e Ottocento la cultura francese vede rifiorire molte discipline scientifiche, dalla matematica alla fisica, dalla chimica alla biologia. In questa temperie si sviluppa il positivismo, che fa propria l’esigenza di rischiaramento dell’Illuminismo vedendo nella scienza e nella riforma della società le due condizioni per la sua realizzazione. L’assunto fondamentale del positivismo è che oggetto della scienza possano essere soltanto i fatti accertabili empiricamente e che il compito della conoscenza scientifica sia quello di scoprire le leggi, cioè le connessioni costanti tra i fatti.

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comte e la legge dei tre stati

In particolare Comte ritiene che lo stato positivo sia il termine finale di un processo di sviluppo – relativo sia all’individuo sia alla specie – che vede come momenti precedenti lo stato teologico, in cui si cerca di conoscere l’essenza delle cose riferendole a entità soprannaturali, e lo stato metafisico, in cui le cause prime vengono ricondotte a entità astratte immanenti alla natura. Comte ritiene anche che le scienze pervengano allo stato positivo secondo un ordine logicocronologico definito dal criterio della decrescente semplicità e generalità. L’ordine di successione è quindi il seguente: astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia. Quest’ultima viene intesa come «fisica sociale», cioè come una disciplina che ha la stessa oggettività della fisica,

4. il positivismo

Nel Sistema di logica deduttiva e induttiva Mill espone la sua teoria dell’induzione, rimasta fondamentale nella storia dell’epistemologia contemporanea. Egli ritiene che il procedimento deduttivo non sia efficace, perché le premesse maggiori del sillogismo sono valide soltanto se sono a loro volta ricavate osservando casi particolari. L’induzione è invece un’inferenza produttiva, in quanto consente di estendere a tutti gli individui della stessa classe (cioè di generalizzare) osservazioni che sono state verificate soltanto in alcuni casi. Ciò che permette di operare questa generalizzazione è il principio dell’uniformità della natura, il quale è tuttavia esso stesso il risultato di una induzione, ossia di una generalizzazione così ampia da comprendere tutti i fenomeni. filosofia e biologia

L’evoluzionismo è l’indirizzo di pensiero che ammette una progressiva trasformazione delle specie. Per Lamarck l’evoluzione delle specie è influenzata dal clima e dall’ambiente, che producono modificazioni fisiche trasmissibili ereditariamente. Ma la teoria contemporanea dell’evoluzione è legata al nome di Darwin, per il quale le modificazioni non sono

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causate dall’ambiente, ma da mutazioni di ordine casuale, successivamente sottoposte a una selezione naturale. Poiché in natura non sussistono risorse sufficienti per tutti e conseguentemente vige la lotta per l’esistenza, soltanto i più adatti sopravvivono, trasmettendo poi ereditariamente le loro qualità. Applicata dapprima alle specie subumane, la teoria dell’evoluzione viene successivamente estesa anche all’uomo.

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spencer e la teoria dell’evoluzione

Formulata da Darwin sul piano scientifico, la teoria evolutiva riceve uno sviluppo filosofico da Spencer. Egli ritiene che la conoscenza umana proceda per generalizzazioni successive. I risultati più generali a cui giungono le singole scienze sono a loro volta unificabili dalla filosofia nella legge dell’evoluzione, che vale per tutti i fenomeni, appartengano essi al mondo inorganico, a quello

organico o a quello superorganico (cioè sociale). Spencer ritiene che le generalizzazioni compiute dalle singole scienze – e sistemate sinteticamente dalla filosofia – non possano varcare il limite dell’Inconoscibile. Quest’ultimo può soltanto essere venerato dalla religione.

gli strumenti in poche… parole positivo / induzione / liberalismo / selezione naturale

approfondimenti Lo sviluppo delle scienze in Francia tra Sette e Ottocento Lo sviluppo delle scienze della vita Il positivismo in Germania e in Italia

i testi a. nel manuale

b. on-line

t10 Comte/La teoria dei tre stati t11 Mill/Che cos’è l’utilitarismo t12 Darwin/La lotta per la vita t13 Spencer/La legge dell’evoluzione

Comte/La classificazione delle scienze Mill/La critica al sillogismo Mill/L’uniformità della natura Spencer/Società militari e società industriali

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Caratteri generali del positivismo coordinate storiche e geografiche

Lo sviluppo delle scienze avvenuto in Francia tra Settecento e Ottocento [  approfondimento, p. 85] costituisce lo sfondo culturale da cui emerge la filosofia del positivismo. Questo movimento filosofico e scientifico nasce in Francia all’indomani del congresso di Vienna, in piena età della restaurazione. Più tardi – attorno alla metà dell’Ottocento – esso si svilupperà anche in Inghilterra, in Germania e in Italia, assumendo configurazioni diverse rispetto alla sua matrice francese.

fatti e metodo scientifico

Il carattere fondamentale del positivismo è la riconduzione di ogni forma di conoscenza a un sapere positivo , cioè fondato su fatti empiricamente accertati e scientificamente connessi in un sistema di leggi. La ricerca deve sempre iniziare con l’osservazione e la descrizione dei fatti, considerati come il solo oggetto di una conoscenza autenticamente scientifica. La spiegazione dei fatti così appurati, nonché la previsione di quelli futuri, è quindi possibile attraverso la scoperta delle leggi – cioè delle relazioni costanti tra i fenomeni – e la verifica empirico-sperimentale delle leggi stesse. Ogni forma di conoscenza che si discosti da questa metodologia deve essere respinta come falsa o fantastica.

differenze e affinità con l’idealismo e con il romanticismo

Il positivismo rappresenta perciò una reazione tanto all’idealismo, del quale combatte il tentativo di ricondurre la realtà al pensiero, quanto al Romanticismo, del quale rifiuta soprattutto l’attribuzione di validità conoscitiva all’intuizione artistica e poetica. D’altra parte, è stato osservato come il positivismo condivida con entrambi questi movimenti alcune istanze fondamentali. Con l’idealismo avrebbe in comune la concezione immanentistica della realtà, mentre dal Romanticismo mutuerebbe una certa aspirazione verso l’assoluto, ricercato ora nella scienza anziché nella poesia. In realtà, i legami del positivismo con la tradizione idealistico-romantica appaiono piuttosto tenui, se si tiene conto, invece, della sua diretta filiazione dall’Illuminismo settecentesco.

positivismo e illuminismo

Con il movimento illuministico il positivismo ha infatti in comune i seguenti punti: a) il rigoroso empirismo gnoseologico; b) la stretta correlazione tra filosofia e scienza; c) l’organizzazione enciclopedica del sapere; d) la funzione pratica della conoscenza, finalizzata al miglioramento delle condizioni di vita dell’umanità; e) la concezione della storia come progresso.

la fiducia nella scienza e nel progresso

All’inizio dell’Ottocento, le scienze – soprattutto quelle biologiche – erano assai più avanzate di quanto non fossero nell’età dell’Illuminismo. Inoltre, l’analisi scientifica dei fenomeni cominciava ad allargarsi dall’ambito naturale a quello sociale: accanto alla fisica, alla chimica, alla biologia, cominciavano ad acquisire un più preciso statuto epistemologico discipline come la sociologia, la psicologia e l’antropologia. Ciò consente ai positivisti di nutrire maggiori certezze sull’infallibilità della conoscenza scientifica e sulla sua progressiva estensibilità a tutte le sfere della conoscenza umana.

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2. Comte: l’articolazione del sapere L’iniziatore del positivismo è generalmente considerato Auguste Comte. Nato a Montpellier nel 1798, studiò all’École polytechnique di Parigi. Nel 1816, poiché la Scuola fu temporaneamente chiusa per ragioni politiche,

APPROFONDIMENTO

la formazione

Lo sviluppo delle scienze in Francia tra Sette e Ottocento

Nei primi decenni dell’Ottocento si assiste in Francia a un vigoroso sviluppo delle scienze, anche in virtù del potenziamento delle istituzioni scientifiche operato dai governi rivoluzionari e da Napoleone. Il piemontese Joseph-Louis Lagrange (1736-1813) nella Meccanica analitica (1811) si serve del calcolo infinitesimale per operare una compiuta matematizzazione della meccanica, riformulando le nozioni di velocità, accelerazione, forza e così via nei termini di derivate e integrali di funzioni. Mediante il solo calcolo egli deduce – senza far ricorso a figure – tutte le proprietà della meccanica, tradotta così in una disciplina matematica a carattere deduttivo. Pierre Simon de Laplace (17491827) assume le leggi della meccanica analitica come fondamento per il suo sistema cosmologico nella Esposizione del sistema del mondo (1796), formulando l’ipotesi dell’origine del sistema solare a partire da una nebulosa primitiva. Alla base della cosmologia di Laplace – che non ritiene necessaria l’«ipotesi» di Dio e di un suo intervento nel mondo – vi è una concezione rigorosamente deterministica, secondo la quale ogni stato o evento dell’universo è conseguenza di stati ed eventi precedenti e causa di quelli successivi. Se l’uomo fosse in grado di conoscere con esattezza tutte le forze operanti nella natura in ciascun istante, egli potrebbe prevedere con altrettanta esattez-

za gli stati e gli eventi futuri. La necessità di formulare previsioni probabili dipende esclusivamente dall’ignoranza dei dati necessari per una previsione certa. In questo periodo si aprono anche nuovi campi d’indagine, come la teoria del calore e della sua propagazione attraverso i corpi e il vuoto, di cui Joseph Fourier (1768-1830) dà una formulazione in termini matematici. La termodinamica, come calcolo della quantità di lavoro ottenibile da determinate quantità di calore, riceve una prima formulazione da parte di Sadi Carnot (1796-1832). Quest’ultimo individua il presupposto del cosiddetto «primo principio della termodinamica», ossia il fatto che la trasformazione del calore in energia meccanica comporta una dispersione termica. Anche l’elettrologia diventa un capitolo della fisica matematica e la scoperta della pila da parte dell’italiano Alessandro Volta (17451827) permette di condurre una pluralità di esperimenti che confermano le connessioni tra fenomeni elettrici e fenomeni magnetici. Sulla base del concetto di corrente come quantità misurabile André-Marie Ampère (17751836) pone i fondamenti dell’elettrodinamica con la sua Teoria dei fenomeni elettrodinamici (1828). Non in tutti i settori dell’indagine fisica domina la concezione newtoniana di una composizione corpuscolare dei corpi. L’interpretazione della luce come effetto

dell’emissione di corpuscoli non appare in grado di spiegare la corrispondenza tra i fenomeni di rifrazione e i diversi colori (o le diverse intensità luminose) a cui essi danno luogo. In opposizione alla teoria corpuscolare, AugustinJean Fresnel (1788-1827) formula pertanto l’ipotesi che la luce sia il risultato di un moto ondulatorio dell’etere, simile alle onde prodotte da un sasso lanciato nell’acqua. Dove, invece, il modello corpuscolare s’impone definitivamente è nella chimica. Già Lavoisier aveva mostrato che l’elemento chimico è la sostanza che permane invariata attraverso le relazioni e le trasformazioni chimiche. Sulla sua linea si pone Claude-Louis Berthollet (1748-1822), che fornisce anche importanti contributi alla chimica applicata. Il torinese Amedeo Avogadro (1776-1856), infine, pone le basi per pesare gli atomi, assumendo come unità di misura il peso dell’atomo di idrogeno. In tal modo, la teoria della composizione atomica dei corpi riceve una trattazione in termini matematici. Ma il grande sviluppo delle scienze in Francia non si limita alle discipline fisiche e chimiche. Anche le scienze naturali ricevono un forte impulso dalla nuova temperie culturale: ne consegue un approfondimento degli studi biologici che conduce alla nascita di nuove scienze come la paleontologia e l’anatomia comparata.

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interruppe gli studi. A iniziare dal 1817 svolse l’attività di segretario di Saint-Simon, collaborando alle sue iniziative editoriali. Tra i due si stabilì ben presto un intenso scambio intellettuale: se da un lato Comte deve a Saint-Simon [  approfondimento, p. 45] il perfezionamento della propria cultura filosofica e scientifica, dall’altro è difficile stabilire quanto – nella concezione sainsimoniana della società industriale – sia dovuto al giovane allievo-segretario. vicende accademiche e stesura del corso di filosofia positiva

Nel 1824 Comte interruppe la sua collaborazione con Saint-Simon. Continuando a imporsi una severa disciplina di studi – nel 1826 escono le Considerazioni sul potere spirituale – egli tentò inutilmente di ottenere una cattedra all’École polytechnique, che aveva nel frattempo ripreso l’attività. Più tardi riuscirà a diventare soltanto «ripetitore» (funzione pressoché equivalente a quella di assistente) e poi «esaminatore» nelle commissioni per l’ammissione alla Scuola. Pensò allora di tenere privatamente, nel proprio appartamento, un «corso di filosofia positiva». Comte mise per iscritto le lezioni che furono pubblicate – tra il 1830 e il 1842 – con il titolo appunto di Corso di filosofia positiva (sei volumi). Le tesi fondamentali del Corso saranno riprese anche, in forma più popolare, nel Discorso sullo spirito positivo (1844). La fatica sostenuta per redigere le lezioni, oltreché le gravi difficoltà finanziarie e le vicissitudini sentimentali – aveva sposato una ex prostituta che lo abbandonò più volte – furono la causa di una grave crisi nervosa, che lo costrinse dapprima a un ricovero in clinica e poi, uscitone non guarito, lo spinse a un tentativo di suicidio.

la svolta religiosa e conservatrice

L’ultima fase del pensiero di Comte è caratterizzata da una svolta in senso religioso – già evidente nel Discorso sull’insieme del positivismo (1848) – e da un più accentuato conservatorismo politico. Quest’ultimo è determinato dalla delusione provocata in lui dalla rivoluzione del 1848, nella quale egli aveva posto qualche speranza relativamente alla realizzazione del suo programma socio-scientifico. Per questo, egli salutò con favore il colpo di Stato con cui Napoleone III restaurava l’impero, attendendosi dal nuovo governo la realizzazione di quell’«ordine» che egli considerava essenziale per la salute di ogni società. Le dottrine socio-politiche di Comte sono esposte soprattutto nei quattro volumi del Sistema di politica positiva (1851-54) e nell’Appello ai conservatori (1855). Avendo perso il suo impiego all’École polytechnique, negli ultimi anni della sua vita Comte dovette sostentarsi con il «libero sussidio positivista» che alcuni suoi discepoli avevano appositamente istituito per lui. Morì nel 1857.

la legge dei tre stati

Secondo Comte, il passaggio – auspicato da Saint-Simon – dall’epoca teologico-feudale alla nascente società industriale non può essere realizzato con l’attività politica diretta, ma deve essere preceduto da una generale riorganizzazione culturale e scientifica che tenga conto del processo storico attraverso cui le scienze conseguono la loro definitiva validità epistemologica. Sin dal Piano dei lavori scientifici necessari per riorganizzare la società (1824) Comte aveva formulato la «legge dei tre stati», che sarà posta alla base del successivo Corso di filosofia positiva [t10]. Per mezzo di essa sono individua-

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ti tre «stati» o «stadi» (in francese: états), che costituiscono le fasi del processo di sviluppo che riguarda sia l’individuo sia l’umanità intera. Nello stato teologico – che rappresenta l’infanzia dello sviluppo umano (sul piano individuale come su quello del genere) – gli uomini pretendono di conoscere la natura essenziale delle cose. Nel tentativo di attingere questa conoscenza assoluta essi fanno ricorso – per mezzo della fantasia – a una o più entità soprannaturali, identificate dapprima con i feticci delle religioni animistiche, poi con le molteplici divinità del politeismo e, infine, con l’unico Dio del monoteismo.

il primo stato

Lo stato metafisico – corrispondente alla giovinezza – in realtà è soltanto una fase di transizione tra lo stato teologico e quello positivo: in esso si conserva la tendenza a voler conoscere l’essenza delle cose, ma il criterio di spiegazione viene cercato, anziché in entità soprannaturali, in entità astratte immanenti alla natura stessa. Una chiara esemplificazione di questo atteggiamento è la teoria che pretende di spiegare la facoltà dell’oppio di indurre il sonno attraverso la presenza in esso di una vis dormitiva non ulteriormente definibile.

il secondo stato

Nello stato positivo gli uomini – conseguita la maturità sia sul piano dello sviluppo individuale sia su quello della specie – abbandonano la pretesa di conoscere l’essenza delle cose e limitano l’indagine ai fatti fenomenici e alle loro relazioni. La conoscenza umana è quindi soltanto relativa: tuttavia, le relazioni costanti che essa rileva tra i fenomeni mediante l’osservazione e l’esperimento sono conosciute con certezza come leggi necessarie. L’esempio più adeguato di conoscenza positiva è fornito dalla legge di Newton sulla gravitazione universale: essa rinuncia, infatti, a qualsiasi ipotesi metafisica (hypotheses non fingo) e si limita a determinare il carattere unitario del rapporto che connette tutti i fatti dell’universo. L’ultimo dei tre stati previsti da Comte comporta dunque la realizzazione della filosofia positiva, la quale abbandona definitivamente le concezioni teologiche e metafisiche della realtà, per darne invece una spiegazione rigorosamente scientifica.

il terzo stato

Tutte le scienze – per essere veramente tali – devono giungere allo stato positivo. Tuttavia, esse non conseguono questo obiettivo contemporaneamente. Per Comte, una scienza è tanto più semplice quanto più generale è il suo oggetto, mentre è tanto più complessa quanto più particolare è il suo oggetto. Dunque, giungono per prime allo stadio positivo le scienze che sono più semplici e che hanno l’oggetto più generale. Per ultime vi pervengono invece quelle più complesse, che studiano oggetti più particolari .

la classificazione delle scienze

In base a questo criterio, l’ordine di successione secondo cui le scienze hanno conseguito (o devono ancora conseguire) lo stadio positivo è il seguente: astronomia, fisica, chimica, biologia e sociologia. L’astronomia, la fisica e la chimica appartengono infatti al gruppo di discipline che ha per oggetto la materia inorganica, la quale è più semplice e più generale di quella organica (la materia organica dipende da quella inorganica e non viceversa). All’interno del gruppo delle scienze inorganiche, inoltre, l’astronomia – riguardando esclusivamente i movimenti matematici degli astri – è più sem-

le scienze che studiano la materia inorganica...

alef

Comte La classificazione delle scienze

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plice e più generale della fisica terrestre, cui sono riconducibili la fisica propriamente detta e la chimica. Tra queste ultime due, la fisica in senso proprio – che si occupa soltanto del movimento meccanico – è più semplice e generale della chimica, che studia la composizione degli elementi e le loro reazioni. ... e quelle che studiano la materia organica

Il gruppo delle discipline organiche – di per sé, come si è visto, più complesso e meno generale di quello delle discipline inorganiche – si divide a sua volta in biologia (o fisica organica), che si occupa della struttura e del movimento degli organismi naturali, e sociologia (o fisica sociale), che riguarda invece gli organismi sociali. Poiché questi ultimi sono più complessi e più particolari di quelli naturali, la biologia e la sociologia si collocano rispettivamente al penultimo e all’ultimo posto dell’ordine successivo delle scienze.

la matematica è il modello di tutte le scienze

Dalla classificazione sistematica delle scienze sono escluse sia la matematica sia la psicologia, sebbene per opposti motivi. L’esclusione della matematica non significa che essa non sia una scienza ma – al contrario – che essa è la scienza fondamentale, in quanto costituisce il punto di riferimento di tutte le altre scienze. Il conseguimento dello stato positivo da parte delle singole discipline, infatti, avviene quando esse assumono come proprio il modello della matematica, che è la disciplina più generale e più semplice in assoluto.

la psicologia o è biologia o è sociologia

Per una ragione completamente diversa non rientra nel novero delle discipline classificate la psicologia. Fedele al principio per cui non si dà scienza se non di fatti, Comte ritiene che non sia possibile descrivere i processi della psiche come realtà indipendenti dai «fatti» fisiologici, che ne costituisco-

La classificazione delle scienze

materia organica Sociologia Biologia

materia inorganica Astronomia Fisica Chimica

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Il grafico evidenzia la classificazione delle scienze, dall’astronomia, che studia i fenomeni più generali e meno complessi, alla sociologia, che studia i fenomeni più particolari e complessi. La freccia indica il grado di generalità decrescente. Sono escluse dalla classificazione la matematica, la psicologia e la filosofia.

Matematica (fondamento di tutte le scienze) Psicologia (non ha per contenuto dei «fatti») Filosofia (non ha oggetto specifico)

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no la condizione, o dai «fatti» sociali, che ne rappresentano l’oggettivazione concreta. Nel primo caso la psicologia si risolve in biologia, nel secondo in sociologia. Ammettere l’esistenza di una psicologia che abbia un oggetto autonomo (l’anima o lo spirito), indipendente dai fatti biologici o sociali, sarebbe un’indebita concessione al pensiero metafisico. Anche la filosofia non ha una collocazione specifica all’interno della classificazione delle scienze. Essa infatti non è una scienza fornita di un oggetto proprio (com’era intesa, ad esempio, la metafisica), ma ha semplicemente la funzione di coordinare le varie scienze, studiandone le relazioni reciproche e i princìpi fondamentali comuni (ad esempio: la legge dei tre stati, il principio della semplicità e della generalità, ecc.). Detto altrimenti, la filosofia – rendendo possibile la stessa classificazione delle scienze – fornisce quel «sistema generale delle idee» che è indispensabile per il rinnovamento morale e intellettuale dell’umanità e, di conseguenza, per la riorganizzazione concreta della società.

e la filosofia?

3. Comte: il progresso dell’umanità La possibilità di una riorganizzazione della società su nuove basi rimane sempre l’aspirazione fondamentale di Comte. A tal fine è indirizzata la scienza che si colloca al vertice della piramide delle discipline: la sociologia. Essendo la più complessa e più specialistica delle scienze, essa è l’unica a non avere ancora conseguito pienamente lo stadio positivo. Pertanto, la definizione epistemologica della sociologia appare a Comte il più urgente compito intellettuale, morale e politico del suo tempo: soltanto in questo modo sarà completato l’edificio del sapere positivo e saranno poste le fondamenta per una trasformazione della realtà sociale e politica.

il primato della sociologia

Alla costruzione della scienza sociologica Comte dedica metà del Corso di filosofia positiva – gli ultimi tre dei sei volumi di cui esso si compone. Egli definisce la sociologia come «fisica sociale» e le attribuisce un compito fondamentale:

definizione e articolazione della sociologia

La fisica sociale considera ciascun fenomeno dal duplice punto di vista elementare della sua armonia con i fenomeni coesistenti e del suo collegamento con lo stato anteriore e con lo stato posteriore dello sviluppo umano. Da entrambe queste prospettive essa si sforza di scoprire, per quanto è possibile, le vere relazioni generali che collegano tra di loro tutti i fatti sociali: ognuno di questi appare spiegato, nell’accezione veramente scientifica del termine, quando ha potuto essere convenientemente riportato sia all’insieme della situazione corrispondente sia all’insieme del movimento precedente, mettendo sempre accuratamente da parte qualsiasi vana e inaccessibile ricerca della natura intima e del modo essenziale di produzione dei fenomeni [...]. Questa nuova scienza rappresenta necessariamente, in maniera diretta e continua, la massa della specie umana – attuale, passata e anche futura – come costituente un’immensa ed eterna unità sociale i cui diversi organi, individuali o nazionali, uniti 4. il positivismo

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senza sosta da un’intima e universale solidarietà, contribuiscono inevitabilmente – ognuno in un modo e in un grado determinato – all’evoluzione fondamentale dell’umanità (Corso di filosofia positiva, lezione 48).

Come le altre branche della fisica, la sociologia si divide in statica e dinamica. La statica ha per oggetto le strutture permanenti della società (famiglia, proprietà, ecc.) e trova la sua categoria fondamentale nel concetto di ordine. La dinamica studia invece le trasformazioni della società nel tempo e si incentra sul concetto di progresso. Per Comte, la statica e la dinamica costituiscono i due aspetti inscindibili della sociologia: non è possibile infatti un ordine che non sia finalizzato al progresso, così come non è possibile un progresso che non si realizzi nell’ordine. le fasi della storia dell’uomo

Ricostruendo lo sviluppo della società, la parte dinamica della sociologia propone anche una vera e propria filosofia della storia, scandita nei tre momenti fondamentali già illustrati dalla dottrina dei tre stati. Al primo stato corrisponde un’epoca teologica, nella quale il potere spirituale è detenuto dai sacerdoti e quello temporale dai militari. La finalità fondamentale dell’età teologica è la conquista. L’epoca metafisica – che corrisponde allo stadio intermedio – è una semplice fase di transizione. Essa comporta la progressiva dissoluzione del vecchio sistema teologico, senza compensare tuttavia l’azione demolitrice con un’adeguata opera di ricostruzione sistematica, che si realizza solo nell’ultima fase. All’ultimo stadio – ancora da conseguire – corrisponderà invece un’epoca positiva, in cui il potere spirituale sarà detenuto dagli scienziati e dai tecnocrati, mentre quello temporale sarà affidato agli industriali. L’intera epoca positiva è infatti indirizzata alla realizzazione e alla diffusione della produzione industriale.

4. Bentham e l’utilitarismo

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l’assunto di fondo

Le esigenze di una più equa redistribuzione della ricchezza e di una maggiore emancipazione sociale e culturale delle classi più arretrate, manifestatesi a seguito della rivoluzione industriale, trovarono una formulazione filosofica nella dottrina dell’utilitarismo. Il suo assunto principale è che le azioni devono essere valutate non in base alle intenzioni che le muovono, ma alle loro conseguenze pratiche, e più precisamente in base all’utilità individuale e sociale che rivestono.

l’impegno politico

L’iniziatore del movimento utilitaristico in Inghilterra è generalmente considerato Jeremy Bentham (1748-1832), uomo politico e giurista oltreché filosofo. Egli si occupò della riforma della legislazione britannica in senso liberale, prendendo posizione a favore del suffragio universale, dell’ampliamento del sistema scolastico a beneficio degli strati sociali più bassi e di un più diffuso intervento statale nell’ambito assistenziale. Fondò la «London and Westminster Review», che divenne l’organo del pensiero radical-liberale e utilitaristico. La sua opera principale è l’Introduzione ai princìpi della morale e della legislazione (1789). 4. il positivismo

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L’utilitarismo inglese è strettamente connesso con la tradizione dell’Illuminismo. L’intera opera di Bentham è infatti un’elaborazione sistematica del principio – già difeso da Helvétius e Beccaria – della «massima felicità per il massimo numero di persone». La felicità viene definita in termini di piacere, così come l’infelicità in termini di dolore. Infatti, se la morale vuole diventare una scienza – e in ciò appare evidente anche il legame tra utilitarismo e positivismo – essa deve fondarsi non già su ideali astratti, ma su fatti concreti, osservabili empiricamente e misurabili quantitativamente. Nella sfera dei comportamenti umani, il piacere e il dolore sono gli unici fatti esattamente quantificabili. Pertanto, essi devono essere assunti a criterio di valutazione di ogni singola azione: saranno eticamente buone le azioni che promuovono il piacere tanto dei singoli quanto della collettività ed eticamente cattive quelle che promuovono invece l’infelicità e il dolore.

l’etica utilitaristica

Non tutti i piaceri sono ugualmente desiderabili, sia perché non sempre sono separabili dai dolori, sia perché diverso è il loro grado e valore. Bentham si propone dunque di elaborare un’algebra morale che presieda al loro calcolo quantitativo, in modo da favorire la massimizzazione del piacere – cioè la produzione del massimo piacere possibile – e la minimizzazione del dolore – cioè la riduzione del dolore alla minima quantità possibile. A questo scopo egli compila una tavola dei requisiti necessari per rendere un piacere autenticamente desiderabile: l’intensità, la durata, la certezza, la prossimità nel tempo, la fecondità (cioè l’essere motivo di altri piaceri), la purezza (il non essere accompagnato da conseguenze dolorose) e l’estensione (il recare vantaggio anche ad altri uomini). Come è sottolineato soprattutto da quest’ultimo requisito, Bentham ritiene che i più grandi piaceri individuali siano quelli che promuovono la felicità di tutti. La ricerca del piacere – se ben intesa – ha quindi necessariamente un esito altruistico, ovvero egoismo e altruismo tendono a coincidere.

il calcolo dei piaceri

Oltreché nell’ambito morale, il principio utilitaristico vale anche nella sfera giuridica. A fondamento dello Stato, infatti, non vi è alcun contratto sociale – Bentham accoglie la critica di Hume al giusnaturalismo contrattualistico – ma l’esigenza utilitaria di collaborare per la promozione della felicità. La legislazione ha il compito di considerare i moventi che informano concretamente le azioni umane e di seguirne l’evoluzione storica, in modo da promuovere quelli che favoriscono l’utile sociale e reprimere quelli che lo ostacolano. Le sanzioni – previste dalle leggi – servono dunque a punire le azioni umane che ostacolano il perseguimento della felicità.

le leggi e la promozione della felicità collettiva

5. John Stuart Mill La connessione tra positivismo e utilitarismo appare evidente in John Stuart Mill (1806-1873), figlio del filosofo James Mill (1773-1836). Pur non volendo essere definito un positivista, il giovane Mill nutrì sempre una grande attenzione per le opere di Comte, con il quale rimase a lungo in corrispondenza, fino a che i due non interruppero la loro relazione episto4. il positivismo

l’influenza del padre e di comte

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lare per ragioni politiche. All’insegnamento del padre sono invece imputabili le sue convinzioni in materia di psicologia e soprattutto la sua adesione ai princìpi dell’utilitarismo etico e sociale. l’influenza di bentham e l’esperienza politica

Tanto dalla tradizione positivistica quanto da quella utilitaristica Mill derivava inoltre un atteggiamento di sospetto nei confronti della metafisica. Da Bentham e dal padre John Stuart Mill ereditò anche la passione per la politica e l’orientamento radical-liberale. Collaborò attivamente alla «London and Westminster Review» – fondata da Bentham – e, dopo aver lavorato nella Compagnia delle Indie orientali, si dedicò alla politica attiva, tentando tra l’altro di raccogliere in un nuovo partito radicale tutti gli oppositori dei conservatori. Il progetto, tuttavia, non fu portato a termine. Conseguentemente Mill si ritirò dalla politica, dedicandosi interamente agli studi.

le opere

Nel 1843 uscì il suo capolavoro, il Sistema di logica deduttiva e induttiva. Seguirono: i Princìpi di economia politica (1848), Sulla libertà (1859), Utilitarismo (1863), i Tre saggi sulla religione, usciti postumi nel 1874.

la logica: «scienza della prova o dell’evidenza»

Nella sua opera fondamentale, Sistema di logica deduttiva e induttiva, Mill sostiene che la logica non si occupa delle verità che ci sono note per coscienza immediata (ad esempio: le sensazioni corporee, i sentimenti o gli stati mentali), ma soltanto delle conoscenze derivate da altre conoscenze «per via d’inferenza». In altri termini, la logica non si preoccupa di indagare la natura delle cose, ma si limita a verificare la validità della connessione tra più proposizioni all’interno di un ragionamento.

denotazione e connotazione

La prima operazione della logica è quella della denominazione, cioè dell’attribuzione di nomi alle cose. Il linguaggio è uno strumento del pensiero, prima ancora che della comunicazione: per questo motivo, ogni indagine logica deve iniziare con un’analisi del linguaggio. È in questo quadro che Mill introduce una famosa distinzione tra termini denotativi e termini connotativi. 1. Un termine è denotativo quando indica semplicemente un oggetto, senza riferimento a qualche sua proprietà o attributo. Ad esempio, sono termini denotativi tutti i nomi propri: quando dico Giovanni, Paolo o Pietro, indico semplicemente un individuo preciso, senza dare alcuna informazione che lo caratterizzi. 2. Un termine è invece connotativo quando indica una o più proprietà relative a un oggetto. Tali sono gli attributi: quando dico «bianco» o «razionale» indico la qualità che caratterizza un determinato oggetto. Ma sono termini connotativi anche i nomi comuni: questi ultimi – oltre a denotare i singoli individui – indicano anche le loro qualità. Ad esempio, il termine uomo denota i singoli individui umani, ma connota anche le qualità (razionalità, corporeità, una certa forma esteriore, ecc.) che li definiscono in quanto uomini.

proposizioni verbali e proposizioni reali

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Questa distinzione è rilevante non soltanto per la classificazione dei nomi, ma anche per quella delle proposizioni che derivano dalla composizione di nomi. In tal modo, è possibile distinguere due tipi di proposizioni. 4. il positivismo

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1. Sono proposizioni verbali quelle in cui il predicato esprime un concetto che è già contenuto nel soggetto. Tali proposizioni non forniscono, pertanto, nessuna nuova informazione. Ad esempio, quando dico che «gli uomini sono razionali», non amplio la mia conoscenza, perché la nozione di razionalità è già compresa in quella di uomo. In altre parole, sono proposizioni – analogamente ai giudizi analitici di cui parlava Kant – necessarie ma improduttive. 2. Sono proposizioni reali, invece, quelle in cui il predicato esprime una connotazione che non era contenuta nel soggetto. Esse comportano quindi un vero – reale, appunto – ampliamento della conoscenza. Ora, affinché un ragionamento o inferenza apporti vera conoscenza occorre che la proposizione conclusiva sia diversa – sul piano del contenuto – da quella di partenza e non una semplice «trasformazione verbale» di essa. Ma quali sono gli strumenti logici per garantire ciò? La logica tradizionale individuava due strade: 1) l’inferenza dal generale al particolare attraverso la deduzione, e quindi il sillogismo (inteso come forma fondamentale della deduzione); 2) l’inferenza dal particolare al generale attraverso l’induzione. Mill intende mostrare che esiste una terza strada, che sta a fondamento di entrambe le vie tradizionali: l’inferenza avviene sempre da particolare a particolare.

l’inferenza dal particolare al particolare

Iniziamo con l’analisi del sillogismo, utilizzando il tradizionale esempio: «Tutti gli uomini sono mortali. Socrate è un uomo. Dunque Socrate è mortale». Se viene inteso come una dimostrazione di tipo deduttivo – cioè se la conclusione «Socrate è mortale» viene dedotta dalle premesse, come il sillogismo pretende – esso comporta necessariamente una petizione di principio, cioè contiene già nella premessa ciò che si deve dimostrare nella conclusione. Infatti, nella premessa maggiore «Tutti gli uomini sono mortali» è già detto che «Socrate è mortale», poiché nell’espressione «tutti gli uomini» è compreso anche Socrate. Tuttavia, il sillogismo può presentare qualche valore, se non lo si considera soltanto come un procedimento deduttivo. In altre parole, la premessa maggiore «Tutti gli uomini sono mortali» non deve essere considerata il punto di partenza del ragionamento, ma piuttosto il punto di arrivo di una serie di osservazioni particolari. Poiché sperimento che Tizio è mortale, Caio è mortale, Sempronio è mortale, posso presumere che anche Socrate sia mortale e che tutti gli uomini lo siano. In tal modo, la proposizione generale (quella che ritenevo una premessa maggiore) è una formula compendiosa di osservazioni particolari che è però espressa in termini generali, così da poter essere applicata anche a particolari non ancora osservati. Secondo questa prospettiva, le proposizioni generali non sono che il momento intermedio di un ragionamento che va dal particolare al particolare, aggiungendo alla serie dei particolari osservati il particolare a cui si applica la conclusione .

la critica al sillogismo

Mill sostiene che ogni nostra conoscenza abbia un’origine empirica. Ciò significa che ogni inferenza parte dall’osservazione dei casi particolari. Ma qual è allora la vera natura di tutte le nostre generalizzazioni? Per Mill, esse non sono altro che formule derivate da rassegne di casi particolari, attestati

la conoscenza deriva dall’esperienza

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dall’esperienza. Le stesse verità della matematica sono conseguite attraverso generalizzazioni di questo genere: alla loro base vi sono sempre esperienze particolari. Gli oggetti della matematica non sono diversi da quelli empirici, ma sono gli stessi oggetti empirici considerati facendo astrazione da alcune loro qualità: per esempio, il punto geometrico è un punto empirico in cui si astrae dall’estensione, così come nella linea si fa astrazione dall’aspetto della larghezza e così via. i due tipi di induzione

Ma su che cosa si basano le nostre inferenze? Non tanto sulla deduzione, quanto sull’ induzione . A questo proposito, tutttavia, Mill distingue tra due tipi di induzione. 1. L’induzione perfetta è quella in cui si considerano tutti i casi relativi a una certa classe: essa non comporta un vero aumento di conoscenza e l’operazione conoscitiva – di puro carattere analitico – si riduce a una semplice «trasformazione verbale». Per esempio, se dico: «Pietro era ebreo, Paolo era ebreo, Giovanni era ebreo» e così via fino a enumerare tutti i dodici apostoli, per concludere: «quindi tutti i dodici apostoli erano ebrei», in realtà la conclusione non aggiunge nulla di nuovo alle affermazioni sui singoli individui e non è che una loro riformulazione verbale. 2. L’induzione imperfetta è quella che Mill chiama induzione per enumerazione semplice. Essa consiste nel derivare una data qualità dall’osservazione di un certo numero di casi particolari e nell’estenderla a tutti gli individui della stessa classe – anche a quelli che non sono caduti sotto la mia esperienza. Così avviene quando affermo: «Tizio è mortale», «Caio è mortale», «Sempronio è mortale», quindi «tutti gli uomini sono mortali». Procedendo da particolare a particolare, io conseguo un’informazione su una qualità che riguarda tutti gli elementi di una certa classe, anche se non li ho conosciuti uno a uno per esperienza diretta.

l’uniformità della natura

Si è detto che l’induzione imperfetta consente un ampliamento della conoscenza. Ma essa è sempre valida? Se sperimento solo un certo numero di casi individuali, come posso essere sicuro che le osservazioni fatte per essi valgano anche per tutti gli altri casi non verificati? Per secoli gli europei hanno creduto che tutti i cigni fossero bianchi, perché non avevano mai visto un cigno nero. In altri termini: se procedo sempre da particolare a particolare, che cosa garantisce la validità della generalizzazione, cioè del passaggio dal particolare al generale? Mill ritiene che esista un criterio oggettivo per avvalorare questo passaggio e lo ritrova nel principio dell’uniformità della natura, il quale trova la sua migliore espressione nella legge di causalità necessaria. Possiamo estendere alla totalità dei casi di una determinata classe le affermazioni fatte in base all’osservazione di un numero limitato di essi perché supponiamo che la natura sia ordinata da leggi.

circolo vizioso?

È Mill stesso a osservare tuttavia che tale principio – posto a fondamento di ogni induzione – è a sua volta il risultato di un’induzione, cioè di una generalizzazione di casi particolari. Ci troviamo quindi di fronte a quella che a molti è apparsa una petizione di principio. Da un lato, l’induzione trova il

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proprio fondamento nel principio dell’uniformità della natura; dall’altro lato, questo principio si fonda a sua volta su un procedimento induttivo . Mill diede importanti contributi non solo agli studi di logica – si ricordi che la distinzione tra connotazione e denotazione sarà ripresa, seppure in modo diverso, da Frege [cfr. 16.1] – o di gnoseologia, ma anche all’etica, nonché al dibattito economico-politico del suo tempo. L’etica di John Stuart Mill è improntata all’utilitarismo mutuato da Bentham attraverso la mediazione di James Mill. A fondamento della morale sta, anche per lui, il principio dell’utilità, ossia della massima felicità per il maggior numero possibile di persone. A sé John Stuart rivendica l’invenzione del termine «utilitaristico», il quale era tuttavia già stato utilizzato, seppure in un’accezione leggermente diversa, da Shaftesbury. Rispetto alle formulazioni di Bentham e del padre, egli apporta però alcune importanti variazioni, insistendo in particolare sulla necessità di una determinazione qualitativa dei piaceri, in opposizione al calcolo meramente quantitativo di Bentham, in modo da garantire la superiorità dei piaceri intellettuali e morali su quelli puramente sensibili [t11].

la riflessione etica

Nei Princìpi di economia politica Mill distingue tra le leggi della produzione economica, che – come tutti gli altri fatti sociali – obbediscono al principio della necessità naturale, e le leggi della distribuzione, che dipendono invece dalla volontà umana. Il diritto e il costume possono quindi modificare le regole distributive, promuovendo una più equa allocazione dei beni e delle ricchezze. Mill auspica infatti una serie di riforme che si ispirino al criterio utilitaristico del maggior benessere possibile per il maggior numero di individui. Tra l’altro, egli è fautore di una maggiore parificazione sociale dei sessi, della partecipazione dei lavoratori all’impresa, dell’allargamento del diritto di voto, nonché della fondazione di cooperative di produzione. L’utilitarismo si sposa in lui con l’altruismo: egli ritiene, infatti, che l’incremento della felicità altrui sia una delle maggiori cause del proprio piacere.

la concezione dell’economia e della politica

Se l’esigenza di giustizia consente a Mill di apprezzare qualche merito del socialismo, il riconoscimento del valore intangibile della libertà fa di lui un radicale oppositore di questa dottrina. In politica come in economia, Mill è attestato su posizioni di liberalismo radicale. Il suo pensiero economicopolitico punta sempre alla valorizzazione dell’individuo e alla difesa degli spazi di libertà senza i quali nessuna iniziativa individuale può fiorire. Nel saggio Sulla libertà egli pone alla base dell’ordinamento dello Stato la libertà civile, che si distingue in tre determinazioni: a) la libertà di coscienza, di pensiero e d’espressione; b) la libertà di perseguire la felicità secondo il proprio gusto; c) la libertà di associazione. Di conseguenza, Mill è assolutamente contrario a ogni intervento dello Stato nella vita economica e sociale della nazione. Le intromissioni dell’autorità pubblica nella sfera privata sono ammesse soltanto se sono finalizzate a evitare la lesione dei diritti di un individuo da parte degli altri. Il suo liberalismo non gli impedì tuttavia – come si è appena detto – di nutrire un forte sentimento sociale e di adoperarsi, sia pure su basi individualistiche, per una maggiore cooperazione e solidarietà tra le diverse componenti della società.

libertà civile e ruolo dello stato

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6. Darwin e l’evoluzionismo la vita

Nipote del naturalista Erasmus Darwin (1731-1802), Charles Darwin (18091882) si dedicò sin da giovane alla ricerca. Dal 1831 al 1836 compì un viaggio di esplorazione intorno al mondo, durante il quale raccolse molte delle osservazioni che lo portarono più tardi a formulare la sua teoria sulla trasformazione delle specie. Infatti quest’ultima era già presente alla sua mente sin dal 1838, poco dopo la conclusione del viaggio. Ma Darwin attese vent’anni prima di renderla pubblica – appunto nel 1858 – con una comunicazione scientifica alla Società Linneana di Londra. L’anno successivo la teoria veniva ampiamente esposta nel capolavoro di Darwin, Sull’origine della specie per mezzo della selezione naturale, il quale – per quanto strenuamente avversato dagli ambienti religiosi – ebbe un successo strepitoso.

la lotta per l’esistenza

 approfondimento, p. 54], Darwin ritiene Convinto seguace di Malthus [ che le dottrine di quest’ultimo non valgano soltanto per la popolazione umana, ma siano estensibili a tutti gli esseri viventi. In natura non c’è posto per tutti: le risorse naturali non sono infatti sufficienti a garantire l’esistenza degli esseri che si moltiplicano in maniera vertiginosa. Essi sono, pertanto, in guerra perenne gli uni contro gli altri per guadagnarsi uno spazio vitale e adeguati mezzi di sussistenza.

la selezione naturale

Nella lotta per la vita, soltanto i più adatti sopravvivono, trasmettendo poi ereditariamente le loro qualità: in questo modo si tramandano solo le specie più resistenti, mentre quelle che si rivelano inadatte a reggere la lotta sono necessariamente destinate a scomparire [t12]. Darwin riteneva dunque insufficiente la tesi di Lamarck in base alla quale l’ambiente – attraverso la modificazione dei bisogni e delle funzioni – produce una variazione negli organi degli animali. Le modificazioni organiche non si producono in risposta alle esigenze dell’ambiente; viceversa, è l’ambiente a scegliere tra le modificazioni quelle più utili alla sopravvivenza. Ma da dove provengono tali modificazioni, positive o negative che siano? Darwin ritiene che non si possa dare una risposta precisa a questa domanda. Alcune possono avere carattere genetico, altre essere prodotte dal cibo, altre ancora dall’ambiente, dall’uso o dal non uso degli organi (un parziale lamarckismo rimane, quindi, anche in Darwin). In ogni caso, esse non sono risposte funzionali a un’esigenza o a un bisogno, ma effetti casuali di fattori diversi.

l’ipotesi del «grande selezionatore»

 approfondiLa concezione darwiniana della trasformazione delle specie [ mento, p. 97] metteva in crisi la visione ottimistica e armonicistica della natura difesa dai naturalisti aventi un’ispirazione religiosa o semplicemente deistica. Sostenere che in natura vige una lotta per la vita con una conseguente selezione del più adatto significava abbandonare ogni principio di ordine e di armonia del mondo naturale e, quindi, ogni riferimento a una mente ordinatrice che operi direttamente in esso. Al più, rimaneva spazio per una sorta di Essere che esercita la funzione di grande selezionatore – ipotesi non scartata da Darwin – il quale opera sull’intera natura così come il singolo allevatore agisce sui propri animali. Ma, anche in questo caso,

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l’opera della divinità può espletarsi soltanto per mezzo di «cause seconde», cioè può agire solo attraverso le immutabili leggi della natura che prescrivono appunto la lotta per l’esistenza e la selezione naturale . Inoltre, il carattere casuale delle modificazioni delle specie esclude ogni finalismo della struttura animale e getta dubbi anche sulla possibilità di un finalismo complessivo della natura. Inoltre, l’emergenza di variazioni utili alla sopravvivenza si ottiene soltanto attraverso la distruzione di una quantità enorme di energie e di esistenze. Questo spreco contraddice ancora una volta la tradizionale immagine di una natura ben ordinata, nella quale i fini sono conseguiti con il minimo dei mezzi.

la negazione della finalità della natura

Se la selezione naturale è la legge che regola lo sviluppo e la trasformazione delle specie, non c’è nessuna ragione per cui l’essere umano si sottragga a essa. Questa infatti è la conclusione cui Darwin perviene nella sua seconda opera importante – L’origine dell’uomo (1871) –, nella quale il principio darwiniano fondamentale viene esteso dalle specie subumane all’uomo stesso. L’uomo non è stato creato direttamente da Dio, ma deriva da una specie di animali inferiori, e più precisamente dai quadrumani – cioè dalle scimmie.

la posizione dell’uomo nella natura

La selezione naturale non si applica soltanto alla struttura fisica dell’uomo, ma anche alle sue determinazioni intellettuali e morali. In questo modo, essa si estende dall’ambito naturale a quello storico-sociale e permette di giustificare la conflittualità esistente tra le stesse nazioni civili. Pur non diffondendosi a lungo sulle conseguenze sociali dei suoi princìpi scientifici (che saranno invece tratte dagli esponenti del cosiddetto «darwinismo sociale»), Darwin arriva a spiegare alcuni fenomeni storici e sociali – quali il colonialismo e lo stesso sterminio di popolazioni selvagge da parte delle nazioni civili – in termini di sopravvivenza del più adatto.

la spiegazione di fenomeni storico-sociali in termini evoluzionistici

APPROFONDIMENTO

Lo sviluppo delle scienze della vita

Il grande impulso ricevuto dallo sviluppo delle scienze tra Sette e Ottocento non interessò soltanto le scienze esatte – come la matematica, la fisica, l’astronomia e la chimica – ma anche le scienze della vita – come l’anatomia, la biologia, l’anatomia comparata e la paleontologia. A questo sviluppo delle scienze naturali è strettamente connesso uno dei dibattiti scientifici che più influirono sulla cultura filosofica ottocentesca: la discussione sulla trasformazione delle specie. Nel Settecento era prevalente la tesi del fissismo. In base a essa le

specie sono rimaste inalterate nel tempo e presentano, pertanto, gli stessi caratteri che ricevettero all’atto della creazione. Questa tesi – diffusa da Linneo (17071778), il grande naturalista – aveva due vantaggi: sul piano scientifico, garantiva il carattere oggettivo e definitivo delle classificazioni delle specie, e sul piano religioso si accordava con il testo biblico. Già nel Settecento, tuttavia, si era fatta strada l’opposta ipotesi del trasformismo, secondo cui gli esseri viventi avrebbero subìto nel tempo un processo di progressiva modificazione. Generalmente, il trasformismo sette-

centesco – difeso da scienziati come Buffon, Maupertuis, e da filosofi materialisti come La Mettrie, Holbach, Diderot – non era tuttavia inteso come una specifica teoria della trasformazione delle specie: la tendenza alla trasformazione era piuttosto considerata una caratteristica della materia in generale, a cui il pensiero materialistico attribuiva sensibilità e movimento. Inoltre, il trasformismo settecentesco era connesso con la disputa tra i sostenitori della preformazione, secondo cui nell’uovo è già contenuto un individuo in miniatura che attende soltanto di svilupparsi, e quelli

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dell’epigenesi, secondo cui l’organismo risulta da una progressiva differenziazione delle parti nel suo sviluppo embrionale. Ovviamente, l’affermazione della dottrina della trasformazione delle specie doveva passare attraverso la critica del preformismo, il quale affermava la perenne riproduzione dell’identico. Del resto, l’accettazione dell’opposta teoria epigenetica non conduceva necessariamente a una concezione evoluzionistica delle specie. Un trasformismo applicato allo sviluppo delle specie è invece presente in Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), autore di una Filosofia zoologica (1809). Respingendo il fissismo, egli formula una teoria dell’evoluzione delle specie fondata sull’influenza del clima e dell’ambiente. I mutamenti ambientali modificano i bisogni dell’organismo e, di conseguenza, le sue abitudini. Le diverse abitudini fanno sì che vengano più frequen-

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temente utilizzati organi che prima rimanevano inoperosi e, viceversa, che non siano più utilizzati organi prima attivi. In questo modo i primi si sviluppano e i secondi si atrofizzano: ciò è espresso dalla formula secondo cui «il bisogno genera la funzione e la funzione crea l’organo». Le modificazioni fisiche così acquisite dall’individuo a causa dell’influenza ambientale sono poi trasmesse per via ereditaria ai discendenti, dando origine a nuove specie che si trasformano progressivamente adattandosi alle mutazioni ambientali. Le tesi trasformistiche di Lamarck furono aspramente avversate. Uno dei maggiori oppositori fu Georges Cuvier (1769-1832). Questi, studiando resti fossili di invertebrati, giunse a formulare l’ipotesi di apparizioni successive delle specie animali in diverse epoche geologiche, in seguito a cataclismi che avrebbero portato alla scomparsa delle vecchie specie e alla

emergenza di nuove: il diluvio universale – di cui parla la Bibbia – sarebbe l’ultima di queste catastrofi. In questo modo Cuvier riusciva a coniugare il riconoscimento scientifico di una successione di specie diverse con il mantenimento del principio della fissità delle specie. Il trasformismo fu invece ripreso da Geoffroy Saint-Hilaire (17721844), il quale contribuì anche agli studi di anatomia comparata enunciando il principio dell’unitarismo: la natura avrebbe conformato gli animali secondo uno stesso piano architettonico, disponendo gli organi nello stesso modo rispetto alle strutture centrali (ad esempio, la colonna vertebrale dei mammiferi). Il trasformismo fu difeso anche dall’inglese Charles Lyell (1797-1875), cui si deve – tra l’altro – l’uso moderno del termine evoluzione, inteso non più come sviluppo del singolo individuo, bensì come trasformazione delle specie nel corso del tempo.

7. Spencer la vita e le opere

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Herbert Spencer nacque a Derby nel 1820. Autodidatta, divenne ingegnere delle ferrovie a Londra. Nel 1846, essendo entrato in possesso di un lascito ereditario, abbandonò la professione per dedicarsi completamente all’attività di scrittore. Per alcuni anni collaborò alla rivista «The economist». La sua prima formulazione della teoria evoluzionistica risale al 1852, quando pubblicò l’articolo Ipotesi dello sviluppo (nel quale tuttavia non compare ancora il termine «evoluzione»). Nei Princìpi di psicologia (1855) riprese la stessa tesi, applicandola ai cambiamenti della mente umana avvenuti col susseguirsi delle generazioni. Pubblicando nel 1859 l’Origine della specie, Darwin riconobbe il debito contratto con le precedenti formulazioni della teoria  approfondimento, p. 97], tra cui quella di Spencer. Tuttatrasformistica [ via, poiché i Princìpi di psicologia erano passati inosservati, mentre l’Origine della specie riscosse un enorme successo, la paternità della teoria dell’evoluzione venne generalmente attribuita a Darwin. Molto più tardi, Spencer rivendicherà i propri meriti in un articolo – pubblicato in francese – dal titolo Il principio dell’evoluzione (1895). La caratteristica fondamentale dell’opera di Spencer consiste soprattutto nell’aver esteso il principio dell’evoluzione dall’ambito della trasformazione delle specie all’intera realtà. 4. il positivismo

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L’estensione della teoria dell’evoluzione all’intera realtà – compresa quella sociale – viene realizzata nei Primi princìpi (1862). In quest’opera Spencer intende elaborare i fondamenti generali del suo sistema filosofico. Alle singole parti di esso vengono, invece, dedicate le opere successive: i Princìpi di biologia (1864-67), una nuova edizione dei Princìpi di psicologia (1870-72), i Princìpi di sociologia (1876-96), i Princìpi di etica (1892-93). Spencer morì nel 1903. La concezione che Spencer ha della conoscenza presenta almeno due caratteri specificamente positivistici: da un lato, il sapere si fonda su fatti osservati empiricamente; dall’altro, la scienza procede individuando leggi (ovvero relazioni costanti tra fatti accertati). Tuttavia, ciò non significa, per Spencer, che la scienza possa conseguire una conoscenza assoluta di tutta la realtà. Le idee ultime della scienza – i concetti di spazio e tempo, di materia e movimento – rimangono infatti del tutto inconoscibili per l’uomo. Attraverso la spiegazione, la scienza riconduce fatti particolari – documentati dall’esperienza – a regole più generali, per poi sussumere tali regole sotto princìpi più generali, e così via. I princìpi ultimi a cui si giungerà in questo processo di progressiva generalizzazione non saranno però più riconducibili a un altro principio più generale, cioè saranno inspiegabili. Spencer giunge dunque a sostenere il carattere relativo della conoscenza: conoscere significa mettere in relazione fatti con altri fatti secondo criteri di generalizzazione sempre più ampi, ma in nessun modo si giunge a cogliere il principio unitario che sta alla base di tutte queste relazioni. Al di là dei risultati ultimi della scienza vi è, dunque, un Inconoscibile che non potrà mai essere penetrato.

caratteri e limiti della conoscenza

Per Spencer, vi è perfetta compatibilità tra scienza e religione: entrambe si devono arrestare di fronte all’Inconoscibile, che nel caso della scienza rappresenta semplicemente ciò che cade al di fuori di essa, mentre nel caso della religione diventa oggetto di fede e di venerazione. L’Inconoscibile non è dunque concepito da Spencer in forma puramente negativa. Esso corrisponde alla forza misteriosa che si manifesta in tutti i fenomeni naturali e coincide con il fondamento metafisico di ogni realtà empirica.

l’inconoscibile è anche l’oggetto della religione

Conformemente ai canoni del positivismo, per Spencer c’è continuità tra scienza e filosofia. Come si è visto, le singole scienze unificano i fatti empirici in una serie crescente di generalizzazioni che si conclude con i concetti più generali possibili per le singole discipline. A sua volta, la filosofia unifica i risultati relativi alle singole scienze in una generalizzazione superiore, che è la più alta possibile per l’uomo: al di là di essa, infatti, si entra necessariamente nella sfera dell’Inconoscibile. La filosofia svolge dunque – in accordo con i canoni positivistici – la funzione di scienza generale che connette organicamente e sinteticamente i risultati ultimi delle differenti discipline specifiche. Per questo Spencer definisce il suo pensiero come sistema di filosofia sintetica.

la filosofia come scienza generale

I risultati più generali a cui giungono le diverse discipline possono essere riassunti nei seguenti tre princìpi: l’indistruttibilità della materia, la continuità del movimento, la persistenza della forza. Il compito della filosofia

princìpi generali delle scienze e legge dell’evoluzione

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sarà, pertanto, quello di unificare questi tre princìpi in un’unica legge generale, che Spencer individua nella legge dell’evoluzione. Infatti, questa legge spiega la graduale integrazione (ovvero concentrazione) della materia e la conseguente dissipazione del movimento – a cui sinteticamente si possono ricondurre i tre princìpi sopraddetti – mediante un triplice processo: in primo luogo, come un passaggio dall’incoerente al coerente (cioè un processo di progressiva concentrazione); in secondo luogo, come un passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo, dall’uniforme al multiforme (cioè un processo di progressiva differenziazione); infine, come un passaggio dall’indefinito al definito (cioè come un processo di progressiva determinazione) [t13]. dall’inorganico al superorganico

Questa formulazione generale della legge dell’evoluzione è contenuta nei Primi princìpi: nelle opere successive Spencer non fa che applicarla ai campi delle specifiche discipline. Egli individua, pertanto, diversi livelli di sviluppo evolutivo: oltre all’evoluzione inorganica – che riguarda lo sviluppo della materia e la storia naturale della Terra – e l’evoluzione organica – che concerne la trasformazione delle specie – ci sarà anche un’evoluzione superorganica, che investe lo sviluppo della società. Come esempio di evoluzione inorganica possiamo considerare la formazione del sistema solare da una precedente nebulosa: la progressiva coesione del sistema è stata accompagnata da una graduale specificazione e distinzione del Sole e dei pianeti. Nell’ambito dell’evoluzione organica ricade – come si è detto – la trasformazione delle specie: in particolare, Spencer ritiene che l’adattamento all’ambiente abbia creato nuovi organi (secondo la teoria di Lamarck), i quali sono poi stati selezionati naturalmente in base alla regola della sopravvivenza del più adatto (in accordo questa volta con Darwin). In ogni caso, tutte le modificazioni sono «a priori» per l’individuo, nel senso che esso le eredita dalla specie, ma sono «a posteriori» per la specie, che le deriva dall’influenza ambientale.

l’evoluzione dalle società primitive a quelle industriali

Come esempio di evoluzione superorganica (o sociale), si possono considerare i processi che hanno portato dalle società primitive – scarsamente coese al loro interno e caratterizzate da una limitata differenziazione sociale – alle moderne società industriali – fortemente unitarie, fornite di una precisa divisione del lavoro e di una articolata molteplicità di funzioni sociali. L’applicazione della legge dell’evoluzione all’ambito sociale consente anche a Spencer di spiegare – in analogia con quanto avevano già fatto SaintSimon e Comte – il processo di modernizzazione sociale come un passaggio da società di tipo militare a società di tipo industriale . Nelle società primitive, infatti, la mancanza di coesione doveva essere compensata da una forte centralizzazione del potere, che comportava l’estensione del sistema gerarchico proprio dell’esercito a tutte le relazioni sociali. Viceversa, nelle moderne società industriali la cooperazione forzata delle società militari è stata progressivamente sostituita da una cooperazione volontaria, che produce spontaneamente la coesione degli individui nel tutto.

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Spencer Società militari e società industriali

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APPROFONDIMENTO

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Il positivismo in Germania e in Italia

In ritardo rispetto alla Francia (e, ovviamente, ancor più rispetto all’Inghilterra), la Germania sperimenta la sua rivoluzione industriale soltanto dopo gli anni Trenta. Ciò ha come diretta conseguenza il rapido declino delle filosofie idealistiche e romantiche e l’affermazione del nuovo spirito positivistico. In Germania, tuttavia, il positivismo assume i caratteri del materialismo. Quest’ultimo, se coglieva del positivismo il riferimento esclusivo ai fatti e alle loro leggi, conservava della precedente tradizione tedesca la tendenza alla riduzione sistematica della realtà a un principio unitario. In questo modo, il positivismo tedesco si propone come una forma di monismo, il quale, anziché ricondurre la realtà allo spirito, come aveva fatto il precedente idealismo, la risolve interamente nella materia. Al nuovo clima culturale determinato dallo sviluppo del positivismo in Germania è connessa la nascita della psicologia scientifica che – accanto alla biologia e alla sociologia – va ad aumentare il numero delle discipline aventi ormai un preciso statuto epistemologico. I primi risultati in questo senso sono ottenuti da Ernst Heinrich Weber (1795-1878) e, soprattutto, da Gustav Theodor Fechner (1801-1887), i quali cominciano ad analizzare i dati psichici alla stregua di tutti gli altri fatti scientifici, dischiudendo la possibilità di spiegarli mediante leggi e quantificazioni matematiche. In questo modo, la psicologia si sottraeva al giudizio di non scientificità espresso dal criticismo kantiano e ribadito, all’interno dello stesso positivismo, da Comte. Nello stesso tempo, la psicologia diventava una scienza autonoma, cessando di essere la branca della filosofia nella quale il soggetto rifletteva speculativa-

mente sulla propria «anima». Nella conquista di tale autonomia la psicologia scientifica è certo debitrice della tradizione empirico-associazionistica, che – a iniziare da Hume – aveva considerato le attività psichiche come processi naturali osservabili empiricamente. Malgrado le professioni di «sperimentalismo», tuttavia, quella tradizione affidava ancora l’indagine psicologica all’introspezione (e quindi alla filosofia), mentre le nuove tendenze scientifiche impongono un’analisi dei fatti psichici condotta con strumenti di laboratorio, al pari di tutte le altre scienze. Il maggiore contributo alla creazione di una psicologia sperimentale è dato da Wilhelm Wundt (1832-1920), autore di Linee fondamentali di psicologia fisiologica (1874) e di una Psicologia dei popoli (1911-20). Attraverso la strumentazione scientifica, Wundt si propone di isolare i fatti psichici elementari – cioè le sensazioni – per poterne poi studiare le leggi di connessione (specialmente quella della causalità psichica). Ciò non comporta, tuttavia, un’assimilazione completa delle dinamiche psichiche a quelle fisiche, né una loro dipendenza dai processi bio-fisiologici. Le leggi della psicologia hanno infatti una natura specifica che le distingue da quelle della fisica e delle altre scienze; inoltre, Wundt sostiene la teoria del parallelismo tra mente e corpo, che esclude ogni azione causale della sfera fisico-biologica sui processi psichici. L’oggetto di studio della psicologia non sono però soltanto i fatti, ma anche gli atti psichici, che si distinguono dai primi per la loro spontaneità. Quando tali atti assumono dimensioni complesse – quali il linguaggio, l’esperienza estetica, i costumi, i miti – è pos-

sibile studiarli comparativamente descrivendo i loro prodotti oggettivi: la disciplina settoriale che si occupa di questo studio è la psicologia dei popoli o etno-psicologia o psicologia storico-sociale (Völkerpsychologie). Se il richiamo all’importanza del fatto, come dato di partenza dell’indagine scientifica, accomuna Wundt allo spirito positivistico del secolo, la rivendicazione della spontaneità – e quindi della volontarietà – degli atti, nonché la ripresa della dottrina del parallelismo tra mente e corpo, rivela la presenza di embrionali spunti spiritualistici. Nella seconda metà dell’Ottocento anche l’Italia subisce l’influenza del positivismo francese e inglese, soprattutto nella forma evoluzionistica difesa da Spencer. Le condizioni storiche che hanno consentito questa ricezione sono da ricercarsi nel più avanzato – per quanto tardivo – sviluppo industriale, nelle mutate condizioni politiche conseguenti all’unificazione nazionale, nel progresso della cultura laica che lo Stato promuove contro la prevalenza culturale della Chiesa cattolica, nell’emergenza di una nuova borghesia imprenditoriale. Il maggiore rappresentante del positivismo italiano è Roberto Ardigò (1828-1920), un ex sacerdote che abbandonò la fede e l’abito talare sotto l’influenza della tradizione razionalistica del Rinascimento (il suo primo scritto è su Pietro Pomponazzi). Tra le sue opere: La psicologia come scienza positiva (1870), La formazione naturale nel fatto del sistema solare (1877), La morale dei positivisti (1879), L’inconoscibile di Spencer e il positivismo (1883), Il vero (1891), La ragione (1894). L’autore che ha più influito sul pensiero di Ardigò è Spencer, dal quale egli accoglie l’estensione

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del principio dell’evoluzione alla realtà intera. Ardigò apporta, tuttavia, un’importante correzione alla concezione spenceriana dell’evoluzione, riconducendo le tre determinazioni che la caratterizzavano a una sola: il passaggio dall’indistinto al distinto. Ciò è dovuto al fatto che Ardigò prende come punto di riferimento per la propria teoria dell’evoluzione non i processi biologici – come invece hanno fatto Darwin e Spencer – ma quelli psicologici. Nella sensazione si percepisce dapprima qualcosa di complessivo e di indistinto: solo in un secondo mo-

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mento la coscienza distingue tra un soggetto (o un «Me») e un oggetto (un «non-Me»). Questo processo di progressiva distinzione vale tuttavia per l’intera natura. Non è invece accettabile – ed è questa la seconda presa di distanza di Ardigò dal suo ispiratore – la concezione che Spencer aveva dell’Inconoscibile, inteso come una realtà posta al di là delle nostre possibilità conoscitive. Ardigò obietta che l’Inconoscibile non esiste, così come non esiste il noùmeno kantiano. Si può parlare soltanto di un ignoto, cioè di ciò che non è stato ancora spiegato

dalla scienza, ma che è destinato a diventare noto con il progressivo svilupparsi della nostra conoscenza scientifica. Quanto ai comportamenti umani, Ardigò esclude del tutto la libertà del volere. In tal senso, la morale non è un insieme di norme che possono essere liberamente scelte o rifiutate dal soggetto agente. Al contrario, i valori etici sono il frutto del condizionamento della società, che costringe gli individui a reprimere la loro pericolosità sociale e li indirizza verso comportamenti collaborativi.

in poche... parole Il positivismo è una corrente filosofica e scientifica che nasce in Francia all’indomani del congresso di Vienna (1815) e che successivamente si diffonde in Inghilterra, Germania e Italia. Il contesto culturale del positivismo è dato, da un lato, dai formidabili cambiamenti storico-sociali innescati dalla rivoluzione industriale; dall’altro, dall’assunzione del metodo scientifico a modello della conoscenza, basato sull’osservazione dei fatti e la formulazione di leggi. Per queste ragioni, il positivismo può essere considerato, da un lato, una reazione all’idealismo e al Romanticismo e, dall’altro, una filiazione dell’Illuminismo settecentesco. Con quest’ultimo, infatti, condivide la fiducia nel sapere scientifico, basato sull’esperienza, e nel miglioramento delle condizioni di vita dell’uomo, prodotte da un progressivo accrescimento delle conoscenze non solo in campo naturale (fisica e biologia), ma anche antropologico e sociale. La figura di maggior rilievo del positivismo in Francia è quella di Auguste Comte (1798-1857): a lui si deve la formulazione della cele102

bre legge dei tre stati di sviluppo dell’umanità e la classificazione delle scienze in base al loro grado di semplicità e di generalità. Lo stato positivo, a suo avviso non ancora pienamente raggiunto, è quello in cui l’umanità abbandona definitivamente le concezioni teologiche e metafisiche della realtà, per spiegarla in termini di leggi scientifiche. Tra le figure di maggiore rilievo del positivismo in Inghilterra, occorre ricordare quella di Jeremy Bentham (17481832), fautore di un’etica utilitaristica mirante al raggiungimento della maggiore felicità possibile per il maggior numero possibile di individui, e quella di John Stuart Mill (1806-1873). Nel suo capolavoro Sistema di logica deduttiva e induttiva (1848) Mill spiega l’ampliamento della conoscenza umana grazie all’induzione e al principio dell’uniformità della natura; in campo economico-politico, è fautore di un liberalismo radicale, basato sulla valorizzazione dell’individuo come unica strada per accrescere il benessere e la felicità di tutti.

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positivo Secondo le indicazioni

fornite da Comte il termine positivo ha più significati. 1) Può significare reale in opposizione a chimerico: a differenza della teologia e della metafisica, la filosofia positiva si impegna esclusivamente nelle ricerche che non escono dalla portata conoscitiva dell’uomo. Questo è l’ambito della vera realtà per l’uomo. 2) Può indicare l’utile in contrasto con l’inutile: la ricerca filosofica e scientifica deve essere finalizzata al miglioramento delle condizioni concrete dell’esistenza umana. 3) Può esprimere la certezza in opposizione all’indecisione: il positivismo intende, infatti, proporsi come una guida etico-politica dell’umanità. 4) Può essere sinonimo di preciso in opposizione al vago: la fumosità delle concezioni teologico-metafisiche è sostituita da un pensiero e da un linguaggio che determinano esattamente il proprio oggetto. 5) Infine, può essere contrapposto a negativo: il nuovo pensiero si propone di essere costruttivo, a differenza della filosofia moderna che – si pensi soprattutto all’Illuminismo – ha avuto un carattere essenzialmente critico e distruttivo.

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induzione Indica l’inferenza (il ragionamento) dal particolare al generale, di contro alla deduzione che va dall’universale al particolare (e ha la sua forma canonica nel sillogismo aristotelico). Nella storia della filosofia l’induzione ebbe fortuna alterna. Aristotele la ritenne valida soltanto per la dialettica e la retorica, negandole la validità della scienza dimostrativa, che si deve fondare esclusivamente sul sillogismo. Rifiutata dagli stoici, l’induzione venne invece riconosciuta dagli epicurei. La sua fondazione moderna risale a Francesco Bacone che – con il sistema delle «tavole» (di presenza, di assenza, dei gradi) – la trasformò in un procedimento sistematico di indagine per esaurire l’analisi della «forma» di un fenomeno. La contestazione di Hume – il quale nega la possibilità di inferire conclusioni generali in base a esperienze particolari – verrà ripresa anche nel dibattito epistemologico contemporaneo (Popper). Ma è John Stuart Mill a fornire la teorizzazione classica dell’induzione, sia perché chiarisce che la sua utilità consiste nel compiere generalizzazioni da un numero limitato di casi esaminati, sia perché indica nel principio dell’uniformità della natura (che equivale al principio di causalità) il fondamento logico del procedimento induttivo. liberalismo Dottrina politica che

si propone di difendere la libertà

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all’interno dello Stato. Il liberalismo – i cui presupposti teorici sono solitamente fatti risalire a Locke – si fonda generalmente sul primato dell’individuo e si propone appunto di limitare al massimo l’ingerenza dello Stato nella sfera delle libertà individuali (di pensiero, di espressione, di associazione, ecc.). Uno dei maggiori teorici ottocenteschi del liberalismo fu John Stuart Mill. Inserendosi nel dibattito scientifico sulle trasformazioni delle specie sviluppatosi tra Sette e Ottocento, Charles Darwin (18091882) elabora la teoria dell’evoluzione, basata sui princìpi della lotta per l’esistenza e della selezione naturale del più adatto. Herbert Spencer (1820-1903) ne aveva già dato una prima formulazione nel 1852 e nel 1855, ovvero assai prima della pubblicazione dell’Origine della specie (1858), applicandola ai cambiamenti della mente umana intervenuti con il susseguirsi delle generazioni. Spencer comunque estende il principio dell’evoluzione dall’ambito della trasformazione delle specie all’intera realtà. A suo avviso, infatti, si può parlare non solo di evoluzione organica, ma anche di evoluzione inorganica – riguardante lo sviluppo della Terra e, in generale, della materia – e di evoluzione superorganica – riguardante lo sviluppo della società. Alla fi-

losofia spetta, secondo Spencer, il compito di unificare i risultati ottenuti dalle singole scienze: per questo motivo, i tre princìpi dell’indistruttibilità della materia, della continuità del movimento e della persistenza della forza vengono integrati nell’unica legge generale dell’evoluzione, che regola lo sviluppo di tutta la realtà. Secondo Spencer, l’uomo è in grado di cogliere le connessioni tra i fatti, giungendo ai princìpi generali che regolano la legge dell’evoluzione, ma non è in grado di trovare il principio unitario assoluto che è alla base di tutte le relazioni, da lui soprannominato «Inconoscibile».

selezione naturale È un con-

cetto tipico dell’evoluzionismo di Darwin. Il presupposto è che in natura c’è scarsità di beni, contesi dagli individui delle diverse specie. In questa lotta per la vita sopravvivono soltanto gli individui che presentano il maggior adattamento all’ambiente. La lotta per l’esistenza – non consentendo ai più deboli di perpetuarsi – fa sì che le generazioni successive si avvalgano del patrimonio genetico dei più forti. In questo modo la selezione naturale non opera soltanto sugli individui, ma anche sulle diverse modificazioni organiche che si sono casualmente prodotte (per variazioni genetiche o altre ragioni), in modo da premiare soltanto quelle più utili all’adattamento della specie.

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i testi t10 Comte / La teoria dei tre stati Comte

Discorso sullo spirito positivo

cap. I, §§ 1-4

Comte fu un grande propagandista delle proprie idee. Soprattutto negli ultimi anni, egli cercò di diffondere il credo positivistico con opere divulgative come il Discorso preliminare sull’insieme del positivismo, del 1848, o apertamente apologetiche come il Catechismo positivista, del 1852. Egli intende rivolgersi direttamente al popolo o, meglio, a quel «proletariato» a cui Marx ed Engels indirizzavano, proprio nel 1848, il Manifesto del partito comunista. Alle esposizioni divulgative appartiene anche il Discorso sullo spirito positivo, che non a caso viene premesso, come una sorta di «Discorso sul metodo», al Trattato filosofico di astronomia popolare del 1844. Proprio all’inizio dell’opera, Comte espone quella che è la dottrina centrale del suo pensiero, già formulata nel 1822 e posta a fondamento del Corso di filosofia positiva (1830-42): la teoria dei tre stati.

Tutte le nostre speculazioni, quali che siano, sono inevitabilmente soggette, sia nell’individuo che nella specie1, a passare successivamente attraverso tre stati teorici differenti, che le denominazioni abituali di teologico, metafisico e positivo potranno, qui, sufficientemente qualificare, per quelli, almeno, che ne avranno ben compreso il vero senso generale. Sebbene dapprima indispensabile, sotto tutti gli aspetti, il primo stato deve ormai essere concepito come puramente provvisorio e preparatorio; il secondo, che non ne costituisce in realtà che una modifica dissolvente, comporta solo un ruolo transitorio, per condurre gradualmente al terzo; ed è questo, il solo pienamente normale, a costituire, in tutti i modi, il regime definitivo della ragione umana.

Stato teologico All’inizio, necessariamente teologico, tutte le nostre speculazioni manifestano spontaneamente una caratteristica predilezione per le 1. Che tra lo sviluppo del singolo indi-

viduo e quello della specie ci sia una corrispondenza diretta è una dottrina più volte ricorrente nella cultura storiografica sei-settecentesca (si pensi, ad esempio, a Vico o a Herder). Nell’ambi-

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questioni più insolubili, sugli oggetti più radicalmente inaccessibili a ogni investigazione decisiva. Per un contrasto che, ai nostri giorni, deve a prima vista sembrare inspiegabile, ma che in fondo è in piena armonia con la vera situazione iniziale della nostra intelligenza in un tempo in cui lo spirito umano è ancora al di sotto dei più semplici problemi scientifici, tale spirito ricerca avidamente, e in un modo quasi esclusivo, l’origine di tutte le cose, le cause essenziali, sia prime che finali, dei diversi fenomeni che lo colpiscono, e il loro fondamentale modo di prodursi, in una parola le conoscenze assolute. Questo bisogno primitivo è naturalmente soddisfatto, tanto quanto lo esige una tale situazione, e anche, in effetti, per quanto possa mai esserlo, dalla nostra iniziale tendenza a trasportare dappertutto il tipo umano, assimilando tutti i fenomeni, quali che siano, a quelli che noi stessi produciamo e che, a questo titolo, cominciano a sembrarci abbastanza noti, per l’intuizione immediata che li accompagna2. Per ben

to del positivismo, Ernst Haeckel tenterà di conferirle dignità scientifica sostenendo la tesi per cui l’ontogenesi – lo sviluppo dell’individuo – è una «ricapitolazione» della filogenesi – dello sviluppo della specie.

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2. A fondamento dello stato teologico

vi è un atteggiamento essenzialmente antropomorfico, in base al quale l’uomo interpreta ogni rapporto causale negli stessi termini in cui egli è causa delle cose e delle azioni che fa. A fonda-

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comprendere lo spirito, puramente teologico, risultato dello sviluppo, via via sempre più sistematico, di questo stato primordiale, non bisogna limitarsi a considerarlo nella sua ultima fase, che si compie sotto i nostri occhi nelle popolazioni più avanzate, ma che non è affatto, anzi è molto lontano dall’esserlo, il più caratteristico3: diviene indispensabile gettare un colpo d’occhio veramente filosofico sull’intero suo naturale itinerario, per valutare la sua fondamentale identità sotto le tre forme principali che gli sono successivamente proprie. La forma più immediata e più accentuata costituisce il feticismo propriamente detto. Il quale consiste soprattutto nell’attribuire a tutti i corpi esteriori una vita essenzialmente analoga alla nostra, ma quasi sempre più energica, per la loro azione d’ordinario più potente. L’adorazione degli astri caratterizza il grado più elevato di questa prima fase teologica, che al principio differisce appena dallo stato mentale cui si arrestano gli animali superiori4. Sebbene si ritrovi con evidenza nella storia intellettuale di tutte le nostre società, questa prima forma della filosofia teologica ha oggi un dominio diretto solo nella meno numerosa delle tre grandi razze che compongono la nostra specie5. mento di ogni realtà vi sarebbe quindi una causa intelligente e intenzionale, sia essa efficiente o finale. In altri termini, le cose sono prodotte da agenti strutturalmente simili all’uomo, ma molto più potenti di lui. Nasce così la concezione di esseri soprannaturali, immaginati a somiglianza dell’uomo, ma forniti di poteri che vanno al di là delle capacità umane, in modo da poter fungere da occulte cause non naturali dei fenomeni naturali. 3. Nella sua forma più raffinata – il monoteismo, che, come si vedrà, succede al feticismo e al politeismo – lo stato teologico estende le sue propaggini fino all’età presente. Bisogna infatti ricordare che i tre stati, pur essendo in successione, non sempre sono cronologicamente separati. Il secondo stato comincia molto prima che il primo finisca e finisce dopo l’inizio del terzo. Ci sono cioè periodi in cui si sovrappongono più stati: lo stato teologico, ad esempio, perdura fino alla rivoluzione francese e, come si è appena visto, le

Nella sua seconda fase essenziale, che costituisce il vero politeismo, troppo spesso confuso dai moderni con lo stato precedente, lo spirito teologico rappresenta nettamente la libera preponderanza speculativa dell’immaginazione, mentre fino allora erano soprattutto prevalse, nelle teorie umane, l’istinto e il sentimento6. La filosofia iniziale vi subisce la più profonda trasformazione che possa comportare l’interezza del suo reale destino, per ciò che la vita è in esso, infine, tolta agli oggetti materiali per essere trasportata misteriosamente a diversi esseri fittizi, per lo più invisibili, il cui continuo attivo intervento diviene ormai la causa diretta di tutti i fenomeni esteriori e anche, in seguito, dei fenomeni umani7. È in questa fase caratteristica, non bene valutata oggi, che bisogna principalmente studiare lo spirito teologico, che vi si sviluppa con una pienezza e una omogeneità ulteriormente impossibili8: è, sotto tutti gli aspetti, il tempo del suo più grande ascendente, mentale e sociale ad un tempo. La maggioranza della nostra specie non è affatto ancora uscita da questo stato, che persiste oggi nella più numerosa delle tre razze umane9, oltre la parte più progredita della raz-

sue manifestazioni sono ancora vive anche quando Comte scrive; ma lo stato metafisico, che logicamente gli succede, inizia in realtà sin dall’età della Riforma. 4. Come si chiarirà successivamente, parlando del politeismo, il feticismo (o animismo) è fondato sull’istinto: in esso non vi è ancora una vera e propria attività rappresentativa, ma semplicemente il sentimento che nelle cose naturali sia nascosta un’anima vitale. 5. Si riferisce ovviamente alla razza nera. 6. Se nel feticismo gli uomini si limitavano a sentire le cose naturali come dotate di vita, con il politeismo essi pervengono, mediante l’immaginazione, a vere e proprie rappresentazioni della divinità. A differenza del feticismo, il politeismo è una espressione del pensiero, ancorché fantastico. 7. Il feticista si limita a introdurre, con il sentimento, la vita all’interno delle stesse cose inanimate. Il politeista trasferisce invece il principio vitale a esseri

immaginari – gli dèi, appunto – esterni alle cose e indipendenti da esse. 8. Il politeismo rappresenta la forma più compiuta dello stato teologico. Infatti, il feticismo non è ancora, come abbiamo visto alla n. 6, una vera espressione di pensiero; mentre il monoteismo, che succede al politeismo, è già una forma di pensiero astratto, che tende quindi a sfumare nello stato metafisico (cfr. n. 10). Soltanto nel politeismo, dunque, il principio fondamentale dello stato teologico, la riconduzione delle realtà naturali ad agenti soprannaturali e invisibili, trova piena espressione nell’elemento che gli è più proprio: il pensiero fantastico, l’immaginazione. Il pensiero immaginativo, infatti, caratterizza i popoli che, come gli antichi Greci o molte odierne popolazioni asiatiche, non sono più primitivi (e quindi hanno superato la fase del feticismo) e non sono ancora completamente civilizzati (e quindi non sono ancora giunti alle astrazioni del monoteismo). 9. La razza gialla.

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za nera e la parte meno avanzata della razza bianca. Nella terza fase teologica, il monoteismo propriamente detto, comincia l’inevitabile declino della filosofia iniziale, che pur conservando per lungo tempo una grande influenza sociale, tuttavia più apparente che reale, subisce da questo momento un rapido declino intellettuale, per una conseguenza spontanea della semplificazione caratteristica, in cui la ragione viene a restringere, via via sempre più, il precedente dominio della immaginazione, lasciando gradualmente sviluppare il sentimento universale, fino ad allora quasi insignificante, dell’assoggettamento necessario di tutti i fenomeni naturali a leggi invariabili10. [...]

Stato metafisico Per sommarie che debbano essere, qui, le spiegazioni generali sulla natura provvisoria e sul ruolo preparatorio della sola filosofia che realmente corrisponde all’infanzia dell’Umanità, esse fanno facilmente comprendere che il regime iniziale differisce troppo profondamente, sotto tutti gli aspetti, da quello che noi vedremo corrispondere alla virilità mentale, perché il passaggio dall’uno all’altro possa originariamente operarsi, sia nell’individuo che nella specie, senza l’ausilio crescente di una specie di filosofia intermedia, essenzialmente limitata a questo ufficio transitorio. Tale è la partecipazione speciale dello stato metafisico propria10. Il monoteismo è una religione che ha in gran parte un fondamento razionale. Esso, inoltre, si basa su concetti astratti, come quello dell’unità. In questo modo comincia a farsi strada l’atteggiamento metafisico, che trova nell’astrazione il suo elemento fondamentale, o perfino il concetto positivo dell’unità della legge a cui è riconducibile una molteplicità di fenomeni naturali. In ogni caso, si indebolisce la facoltà dell’immaginazione che, come abbiamo visto (cfr. n. 8), stava alla base dello stato teologico e costituiva il nerbo della concezione politeistica. 11. Avendo un carattere transitorio tra lo stato teologico – che corrisponde all’infanzia dell’umanità e del singolo uo-

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mente detto all’evoluzione fondamentale della nostra intelligenza, che, ostile a ogni mutamento brusco, può così elevarsi quasi inavvertitamente dallo stato puramente teologico allo stato francamente positivo, sebbene questa situazione equivoca si avvicini, in fondo, ben più al primo che al secondo11. Le speculazioni dominanti vi hanno conservato lo stesso carattere essenziale di tendenza abituale alle conoscenze assolute: solo la situazione vi ha subìto una trasformazione notevole, proprio per meglio facilitare l’incremento delle concezioni positive. Come la teologia, infatti, la metafisica tenta soprattutto di spiegare la natura intima degli esseri, l’origine e la destinazione di tutte le cose, il modo essenziale di produzione di tutti i fenomeni; ma, invece di servirsi degli agenti soprannaturali propriamente detti, li sostituisce via via con entità o astrazioni personificate, il cui uso, veramente caratteristico, ha spesso consentito di designarla col nome di ontologia. È troppo facile oggi osservare senza difficoltà una tale maniera di filosofare che, ancora preponderante nei confronti dei fenomeni più complicati, presenta quotidianamente, anche nelle teorie più semplici e meno arretrate, tante notevoli tracce del suo lungo dominio12. L’efficacia storica di queste entità risulta direttamente dal loro carattere equivoco: e invero, in ciascuno di questi esseri metafisici, inerente al corpo corrispondente senza confondersi con esso, lo spirito può, a volontà, secondo che sia più vicino allo stato teologico o a quello po-

mo – e quello positivo – la maturità virile – lo stato metafisico rappresenta la fase della giovinezza. Per quanto intermedio tra il primo e il terzo stato, esso è tuttavia più vicino al primo, poiché lo stato positivo o è completamente conseguito o non lo è affatto. Non è possibile dare una spiegazione semiscientifica dei fatti: o si consegue la certezza della scienza, della positività, o si rimane nell’errore e nell’ignoranza. Poco importa poi se questo errore si esprima nelle concezioni teologiche, fondate sul riferimento a divinità soprannaturali, oppure su quelle metafisiche, incentrate sul presupposto dell’esistenza di entità astratte. In entrambi i casi, i fatti sono spiegati attraverso finzioni, anzi-

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ché essere indagati nei rapporti necessari che costituiscono la loro unica spiegazione scientifica. 12. Qui si inserisce la seguente nota di Comte: «Quasi tutte le abituali spiegazioni relative ai fenomeni sociali, la maggior parte di quelle che concernono l’uomo intellettuale e morale, una gran parte delle nostre teorie fisiologiche o mediche, ricordano ancora direttamente la strana maniera di filosofare, così argutamente caratterizzata da Molière, senza alcuna grave esagerazione, nell’occasione ad esempio della virtù dormitiva dell’oppio, in conformità con lo scuotimento decisivo che Descartes aveva fatto subire a tutto il regime delle entità».

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sitivo, vedere o una vera emanazione della potenza soprannaturale o una semplice denominazione astratta del fenomeno considerato. Non è più, allora, la pura immaginazione che domina e non è ancora l’autentica osservazione; ma il ragionamento vi acquista molta estensione e si prepara confusamente all’esercizio veramente scientifico13. Si deve, d’altronde, notare che la sua parte speculativa vi si trova dapprima molto esagerata, in forza della tendenza ostinata ad argomentare invece di osservare, che in tutti i modi caratterizza d’abitudine lo spirito metafisico, anche nei suoi organi più eminenti. Un ordine di concezioni così flessibile che non comporta in nessun modo la consistenza così a lungo peculiare del sistema teologico, deve, d’altronde, giungere ben più rapidamente all’unità corrispondente, attraverso la subordinazione graduale delle diverse entità particolari a una sola entità generale, la Natura, destinata a determinare il debole equivalente metafisico della vaga connessione universale risultante dal monoteismo14.

Stato positivo Questa lunga successione di preamboli necessari conduce infine la nostra intelligenza, gradualmente emancipata, al suo stato definitivo di positività razionale, che deve essere qui ca13. La posizione intermedia dello sta-

to metafisico rispetto a quello teologico e a quello positivo si riflette anche nelle facoltà conoscitive e negli strumenti di indagine cui esso fa ricorso. Nello sta-to teologico l’utilizzazione dell’osservazione e del ragionamento è minima, mentre prevale nettamente la facoltà dell’immaginazione. Esattamente il contrario avviene nello stato positivo. Nello stato metafisico, viceversa, si fa già ricorso al ragionamento, ma esso, anziché appoggiarsi sull’osservazione rigorosa dei fatti, si intreccia ancora con l’immaginazione: il risultato è la determinazione di entità astratte, che, pur avendo ancora poco a che vedere con la generalizzazione scientifico-positiva, non sono più così immaginarie e fantastiche da essere identificate con agenti soprannaturali, ma si presentano talvolta come sem-

ratterizzato in modo più particolareggiato dei due stati precedenti. Avendo spontaneamente constatato, in questi esercizi preparatori, l’inanità radicale delle spiegazioni vaghe e arbitrarie proprie della filosofia iniziale, sia teologiche che metafisiche, lo spirito umano rinunzia ormai alle ricerche assolute che convenivano solo alla sua infanzia e circoscrive i suoi sforzi nell’ambito, perciò rapidamente progressivo, della vera osservazione, sola base possibile delle conoscenze veramente accessibili, sagacemente adattate ai nostri bisogni reali. La logica speculativa era fino ad allora consistita nel ragionare, in modo più o meno sottile, secondo princìpi confusi che, non comportando nessuna prova sufficiente, suscitavano sempre dibattiti senza esito. Essa riconosce ormai, come regola fondamentale, che ogni proposizione che non è strettamente riducibile alla semplice enunciazione di un fatto, particolare o generale15, non può presentare nessun senso reale e intelligibile. I princìpi di cui ci si serve sono, essi stessi, soltanto veri fatti, solamente più generali e più astratti di quelli di cui devono formare la connessione. Quale che sia, d’altronde, il modo, razionale o sperimentale, di procedere alla loro scoperta, è sempre dalla loro conformità, diretta o indiretta, con i fenomeni osservati che risulta esclusivamente la lo-

plici rappresentazioni astratte dei fenomeni considerati. 14. Nello stato metafisico, il ragionamento, svincolato dall’osservazione empirica, diventa speculazione astratta. Ma la speculazione è per essenza sistematica: essa tende a ricondurre tutti i fenomeni a una spiegazione unitaria. Per questo il pensiero metafisico giunge ben presto a raccogliere la totalità dei fenomeni sotto un’unica entità astratta, la Natura, concepita come un sistema armonico e totalizzante. La stessa tendenza all’unità era presente anche nello stato teologico, nel quale tuttavia il passaggio dal feticismo, che crede in un numero indefinito di spiriti, al monoteismo, che si concentra su un Dio unico, è assai più lento, poiché l’immaginazione che prevale in quello stato è più incline alla differenziazione che all’unificazione.

15. Un fatto, per Comte, è tanto più generale quanto meno dipende da altri fatti e quanto più gli altri fatti dipendono da esso. I fatti matematici sono i più generali, poiché coinvolgono qualsiasi altro fatto, che deve essere suscettibile di misurazione matematica per poter essere spiegato scientificamente. I fatti fisici, chimici, biologici sono invece vieppiù particolari. Così la legge della gravitazione universale di Newton è un fatto più generale delle leggi astronomiche di Keplero o delle leggi di Galileo sulla gravità, poiché le seconde non sono altro che applicazioni particolari della prima. In questo modo, come si chiarisce subito dopo, nel sapere scientifico i princìpi non sono enunciati speculativi indimostrabili, come avviene nel pensiero metafisico, bensì semplicemente fatti più generali che servono a spiegare fatti più particolari.

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ro efficacia scientifica. La pura immaginazione perde allora irrevocabilmente la sua antica supremazia mentale, e si subordina necessariamente all’osservazione, in modo da costituire uno stato logico pienamente normale, senza cessare tuttavia di esercitare, nelle speculazioni positive, un ruolo capitale e inesauribile per creare o perfezionare i mezzi di connessione, sia definitiva che provvisoria16. In una parola, la rivoluzione fondamentale che caratterizza la virilità della nostra intelligenza consiste essenzialmente nel sostituire, dappertutto, all’inaccessibile determinazione delle cause propriamente dette, la semplice ricerca delle leggi, cioè delle relazioni costanti che esistono tra i fenomeni osservati. Che si tratti di minori o di più sublimi effetti, di urto o di gravità come di pensiero e di moralità, noi non possiamo veramente conoscere che le diverse mutue relazioni, proprie del loro modo di compiersi, senza mai penetrare il mistero della loro produzione17. Non solamente le nostre ricerche positive devono essenzialmente ridursi, sempre, alla valutazione sistematica di ciò che è, rinunziando a scoprirne la prima origine e la destinazione finale; ma importa, inoltre, avvertire che lo stu-

16. Nello stato positivo l’immaginazio-

ne che costituiva la facoltà fondamentale del pensiero teologico e che condizionava ancora in gran parte quello metafisico non scompare completamente. Essa è soltanto subordinata rigorosamente all’osservazione empirica e strumentale: anche nello stato positivo, infatti, l’immaginazione svolge un’importante funzione euristica, in quanto consente di escogitare connessioni che non sono immediatamente evidenti in base alla semplice osservazione. Analogamente, anche il pensiero raziocinante, che caratterizza lo stato metafisico, nella fase positiva non viene affatto rifiutato, ma semplicemente disciplinato, subordinandolo ancora una volta all’osservazione e distinguendolo nettamente dall’immaginazione.

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dio dei fenomeni, invece di poter divenire in alcun modo assoluto, deve sempre restare relativo alla nostra organizzazione e alla nostra situazione. Riconoscendo, sotto questo duplice aspetto, l’imperfezione necessaria dei nostri mezzi speculativi, si vede che, lungi dal poter studiare completamente una esistenza effettiva, essi non potranno garantire in nessun modo la possibilità di constatare così, anche molto superficialmente, tutte le esistenze reali, la maggior parte delle quali forse ci deve sfuggire totalmente18. GUIDA ALLA LETTURA 1. Qual è l’atteggiamento di pensiero che caratterizza lo «stato teologico», lo «stato metafisico» e lo «stato positivo»? 2. Lo stato metafisico è indicato da Comte come «transitorio»: individua nel testo gli elementi che ne determinano la transitorietà. 3. Qual è la regola fondamentale adottata dalla mente umana nello stato positivo? 4. Qual è il ruolo dell’immaginazione nello stato positivo? E nei due stati precedenti? 5. Descrivi ciò che caratterizza la «virilità della nostra intelligenza» conseguita nello stato positivo.

Ciò che dello stato metafisico viene completamente respinto è la tendenza alla speculazione, cioè a un uso astratto del ragionamento, svincolato dal riferimento ai fatti accertati attraverso l’osservazione empirica. 17. Questo è il carattere fondamentale dell’atteggiamento positivo. In esso viene completamente abbandonata la pretesa di conoscere l’essenza ultima delle cose, e quindi la loro causa prima. Rinunciando a dare una definizione essenziale delle cose, la scienza si occupa soltanto di fenomeni e si limita a determinare le relazioni necessarie tra di essi – cioè le leggi. 18. Se negli stati teologico e metafisico l’uomo aspira a una conoscenza assoluta della realtà – una conoscenza che colga la causa prima delle cose – il

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pensiero positivo si limita a un sapere relativo. Ciò è da intendersi sia nel senso che esso ha per oggetto soltanto le relazioni, per quanto necessarie, fra i fenomeni, sia nel senso che esso è condizionato dal carattere soggettivo della conoscenza umana. Lungi dal potere determinare l’essenza assoluta della realtà, l’uomo non giunge neppure a conoscere, anche solo fenomenicamente, tutte le realtà esistenti. La scientificità della conoscenza positiva consiste esattamente nel riconoscimento dei propri limiti e nell’abbandono di un atteggiamento gnoseologicamente presuntuoso, che in realtà conduce soltanto a fantasticherie o a interminabili discussioni su ciò che gli uomini non potranno mai conoscere.

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t11 Mill / Che cos’è l’utilitarismo Mill

Utilitarismo

cap. II

L’opuscolo Utilitarismo fu pubblicato dapprima su una rivista, in una serie di articoli, e poi definitivamente, nel 1863, in un unico volume. Lo scritto intende proporre a un vasto pubblico le linee fondamentali di quella filosofia dell’utilità che Mill, attraverso il padre James e Bentham, mutuava da una tradizione anglosassone risalente a Shaftesbury, Hutcheson e Hume. Ma esso ha anche carattere apologetico, poiché Mill si preoccupa soprattutto di mostrare come l’assimilazione dell’utilità alla felicità e al piacere non sia affatto da confondersi con una professione di volgare edonismo. In questo modo, la difesa dei princìpi utilitaristici si intreccia con la rivalutazione dell’epicureismo, che costituisce il loro più remoto referente concettuale. Ma, nello stesso tempo, l’opuscolo comporta anche una correzione del criterio puramente quantitativo cui Bentham e James Mill – gli antecedenti immediati dell’utilitarismo milliano – affidavano la valutazione della felicità e del piacere.

La dottrina che accetta come fondamento della morale l’utilità, ossia il principio della massima felicità, sostiene che le azioni siano giuste in proporzione alla loro inclinazione a promuovere la felicità, ingiuste in proporzione alla loro inclinazione a produrre il contrario della felicità1. Per felicità s’intende il piacere e l’assenza di dolore; per infelicità, il dolore e la privazione del piacere2. Occorrerebbe dire molto di più per dare un concetto chiaro del criterio morale propugnato della teoria; in particolare, che cosa essa includa nelle idee di dolore e di piacere, e fino a che punto tale questione sia lasciata aperta. Ma queste spiegazioni supplementari non alterano la teoria della vita su cui si fonda questa teoria della moralità – ossia che il piacere e la libertà dal dolore siano le sole cose desiderabili come fini, e che tutte le cose desiderabili (che nell’ambito dell’utilitarismo sono tanto numerose quanto in qualsiasi altra dottrina) siano desiderabili o per il piacere in loro in1. L’utilitarismo giudica quindi le azio-

ni non in base alle loro intenzioni, ma alle loro conseguenze e, più precisamente, in base alla loro attitudine ad avere o non avere come conseguenza la felicità umana. 2. L’identificazione della felicità con il piacere, ribadita già da Bentham, risale a Locke, il quale nel saggio sull’intelletto umano (II, XXI, 42) aveva scritto: «La felicità, nella sua estensione piena, è il massimo piacere di cui siamo capaci, e l’infelicità il massimo dolore». La

trinseco, o come mezzi per favorire il piacere ed allontanare il dolore. Orbene, una tale teoria della vita suscita in molte persone, e fra loro in alcune fra le più stimabili, una inveterata repulsione. Si considera cosa gretta e degradante supporre che la vita non abbia un fine più elevato del piacere – nessun oggetto di desiderio e di aspirazione migliore e più nobile; la si ritiene una dottrina degna soltanto di porci, cui furono sprezzatamente assimilati nei tempi antichi i seguaci di Epicuro3, e i sostenitori moderni della dottrina sono all’occasione fatti segno di paragoni non meno scortesi da parte dei loro avversari tedeschi, francesi ed inglesi. A codesti attacchi gli Epicurei hanno sempre risposto che non essi, ma i loro accusatori rappresentano la natura umana sotto una luce degradante, poiché l’accusa suppone che gli esseri umani non siano capaci d’altri piaceri che quelli in cui sono capaci i porci4. Se questa supposizione fosse vera, l’imputazione non sareb-

concezione negativa del piacere, come assenza di dolore, è invece di derivazione epicurea. Epicuro riponeva, infatti, la felicità soprattutto nell’aponìa (da a privativo e pònos, «fatica» o «dolore»). Nello stesso modo, ha origine epicurea la concezione del dolore come non-piacere, come piacere impedito. 3. Allusione all’espressione coniata da Orazio: porcus ex grege Epicuri. La polemica anti-edonistica, e più in generale anti-eudemonistica, era particolarmente forte nel filone del Romantici-

smo inglese, rappresentato da Coleridge e Carlyle, che pure non furono ininfluenti nella formazione di Mill. 4. La presa di distanza di Mill dall’edonismo volgare – assumendo come modello la dottrina degli epicurei, ancorché corretta, come si dirà più avanti, da elementi stoici e cristiani – corre su due registri, tra di loro strettamente connessi. Da un lato, egli difende la concezione negativa del piacere, inteso come assenza di dolore; dall’altro, si preoccupa di distinguere una gerarchia

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be oppugnabile, ma non sarebbe più un’imputazione; se infatti le fonti di piacere fossero precisamente le stesse per gli esseri umani e per i porci, una norma di vita abbastanza buona per gli uni sarebbe abbastanza buona per gli altri. La comparazione della vita epicurea a quella delle bestie è sentita come degradante, precisamente perché i piaceri d’una bestia non appagano il concetto che della felicità ha un essere umano. Gli esseri umani hanno facoltà più elevate degli appetiti animali, e non considerano felicità alcuna cosa che non ne implichi l’appagamento, una volta che ne siano resi consapevoli. Non credo davvero che gli Epicurei non abbiano commesso alcun errore nel trarre le loro conseguenze dal principio utilitario. Per farlo in modo sufficiente occorre includervi molti elementi stoici e cristiani. Non si conosce tuttavia una teoria epicurea della vita che non attribuisca ai piaceri dell’intelletto, dei sentimenti, dell’immaginazione e degli impulsi morali un valore molto più elevato come piaceri che a quelli della sensazione pura. dei piaceri, che va dai più bassi piaceri sensibili ai più elevati piaceri intellettuali e morali. Per far ciò, egli si serve della distinzione – per la verità non sempre congrua e perspicua – tra la quantità e la qualità del piacere. 5. Mill opera una duplice distinzione. In primo luogo, distingue tra la natura intrinseca di un piacere e le sue conseguenze contingenti – cioè quelle conseguenze che non dipendono dalla natura stessa del piacere, ma da situazioni esterne. In secondo luogo, a questa prima distinzione egli fa corrispondere quella tra qualità e quantità dei piaceri. La scala gerarchica dei piaceri deve essere compilata in base non già a criteri quantitativi (i suoi vantaggi contingenti), bensì a un giudizio qualitativo sulla loro intrinseca natura. In questo modo, un piacere quantitativamente consistente (cioè durevole, sicuro, ecc.) può risultare meno desiderabile di un altro piacere quantitativamente più modesto, ma qualitativamente superiore. La funzione primaria di questa distinzione milliana è affermare l’intrinseca superiorità dei piaceri intellettuali e morali (per quanto quantitativamente ridotti siano) su quelli materiali (per

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Si deve tuttavia ammettere che gli scrittori utilitaristi in generale hanno posto la superiorità dei piaceri mentali rispetto a quelli fisici principalmente sulla maggiore permanenza, sicurezza, ecc. dei primi – cioè sui loro vantaggi contingenti piuttosto che sulla loro natura intrinseca5. Su tutti questi punti gli Utilitaristi hanno pienamente dimostrato la loro tesi, ma avrebbero anche potuto assumere con perfetta coerenza l’altro fondamento – quello per così dire maggiore6. È perfettamente compatibile con il principio dell’utilità riconoscere il fatto che alcune specie di piacere sono più desiderabili e valide di altre. Sarebbe assurdo che la stima dei piaceri si supponesse dipendente dalla sola quantità, mentre nella stima di tutte le altre cose si considera la qualità non meno della quantità. Se mi si chiede che cosa intenda per differenza di qualità nei piaceri, o che cosa renda un piacere più valido di un altro, puramente in quanto piacere, fuori dell’essere quantitativamente maggiore, non c’è che una sola risposta possibile7. Di due piaceri, se ad uno dànno una de-

quanto quantitativamente consistenti possano essere). Tuttavia, in queste espressioni si può avvertire anche la polemica contro l’utilitarismo di Bentham, il quale aveva proposto una classificazione puramente quantitativa dei piaceri, misurata appunto in base a quelli che per Mill sono i «vantaggi contingenti» del piacere (durata, sicurezza, estensione, purezza, ecc.). La correzione che Mill vuole apportare all’utilitarismo di Bentham e di suo padre James è motivata da una maggiore sensibilità per l’autonomia dei valori spirituali, che gli deriva dalla lettura di Coleridge e di Carlyle. In altri termini, John Stuart Mill pur rifiutando l’antieudemonismo e l’antiutilitarismo dei romantici inglesi, è preoccupato di concedere un giusto spazio nella propria concezione utilitaristica a quei valori spirituali che i romantici assolutizzavano e che i primi utilitaristi trascuravano. 6. Il fondamento per così dire maggiore è appunto la superiorità intrinseca o qualitativa di alcuni piaceri di contro alla semplice superiorità quantitativa, determinata dalle conseguenze contingenti. Appare chiaro, tuttavia, che la di-

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stinzione di Mill è poco perspicua. Non è chiaro, infatti, perché i vantaggi che derivano da un determinato piacere debbano essere conseguenze contingenti e non implicite invece nella stessa natura del piacere stesso. Di conseguenza, anche la determinazione della qualità intrinseca di un piacere in opposizione alla quantità delle sue conseguenze appare sicuramente più sfuggente dell’univoco riferimento benthamiano alla misurazione quantitativa. 7. Mill stesso ammette qui che per definire la qualità dei piaceri non esistono criteri oggettivamente determinabili e comunicabili, quali sono ad esempio i criteri quantitativi di Bentham. Tale definizione è, infatti, demandata a un istinto fondamentale – in ciò si può rinvenire anche l’influenza di Hume e dei moralisti inglesi – per cui immediatamente si sente che un piacere è qualitativamente superiore a un altro. Mill, tuttavia, sembra correggere questa valutazione immediata della qualità di un piacere con un elemento quantitativo, quando dà rilevanza all’umanità – cioè a un elemento numerico – di coloro che esprimono questa valutazione.

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cisa preferenza tutti coloro che abbiano esperienza di ambedue, senza riguardo ad un sentimento di obbligazione morale a preferirlo, quello è il piacere più desiderabile. Se coloro che abbiano di ambedue una competente conoscenza pongono uno dei due sopra l’altro, al punto da preferirlo anche sapendo che può accompagnarsi ad un maggiore disagio, e da non rinunciarvi per nessuna quantità dell’altro piacere di cui sia capace la loro natura, abbiamo ragione di attribuire al godimento preferito una superiorità qualitativa così schiacciante

da rendere la quantità, al confronto, di scarso rilievo. GUIDA ALLA LETTURA 1. Qual è il principio fondamentale della morale dell’utilità? 2. La dottrina utilitarista, al pari di quella epicurea, fu ritenuta «degna soltanto di porci». Perché, secondo Mill, questa valutazione è del tutto errata? 3. Perché alcuni piaceri sono da preferire rispetto ad altri?

t12 Darwin / La lotta per la vita Darwin

L’origine della specie

cap. IV

Introducendo l’edizione italiana dell’Origine della specie, Giuseppe Montalenti fa le seguenti osservazioni: «L’importanza del libro di Darwin va veduta sotto due aspetti principali. In primo luogo, essa segna l’avvento della teoria dell’evoluzione [...]. Ora tale teoria, oltre al suo altissimo significato biologico, ne ha uno che interessa più direttamente l’umano genere: sovverte completamente la nozione tradizionale del posto che l’uomo occupa nella natura, lo detronizza da ‘re del creato’, e lo considera alla stregua degli altri fenomeni naturali, come una di quelle forme organizzate che esistono sulla faccia della terra, e che hanno avuto nel corso dei tempi una successione, una storia, la quale appunto si è convenuto di denominare ‘evoluzione’ [...]. Il secondo aspetto della grandezza dell’opera di Darwin consiste nella interpretazione ch’egli dà delle cause dell’evoluzione biologica. Cause strettamente ‘naturali’, cioè suscettibili di quell’analisi scientifica cui egli si dedica con tanta scrupolosa cura e con la ferma intenzione di non indulgere mai alle interpretazioni metafisiche, che, chiamando in azione ‘forze’ o ‘impulsi’ o ‘tendenze’ o ‘disegni’ superiori, introducono nel ragionamento scientifico criteri che alla scienza sono e debbono rimanere estranei». Entrambi questi aspetti emergono con evidenza nelle pagine dedicate da Darwin all’esplicazione del principio della selezione naturale, le più note delle quali vengono riprodotte nel testo seguente.

In quale modo agisce sulla variazione1, la lotta per l’esistenza, che abbiamo brevemente discussa nel capitolo precedente? Può applicarsi allo stato di natura il principio della selezione, che abbiamo visto così potente in mano del1. Si tratta delle variazioni individuali

che per motivi diversi, condizionati in parte ambientalmente in parte geneti-

l’uomo? Vedremo, credo, che questo principio ha un’azione assai efficace. Teniamo ben presente il numero infinito di lievi variazioni e differenze individuali esistenti nella nostra produzione domestica e, in grado minore, nelle

camente, rappresentano l’emergenza della novità nel succedersi delle generazioni. Appunto operando su tali varia-

zioni – cioè su tali novità – la natura seleziona gli individui in base al principio della sopravvivenza del più adatto.

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specie allo stato di natura, e non dimentichiamo altresì quanta forza abbia la tendenza ereditaria. [...] Dal momento che indubbiamente sono avvenute variazioni utili all’uomo, si può dunque ritenere improbabile che altre variazioni in qualche modo utili a ciascun essere, nella grande e complessa battaglia della vita, si presentino nel corso di molte generazioni successive? E se ciò avviene, come possiamo noi dubitare (ricordando che vengono al mondo molti più individui di quanti ne possono sopravvivere) che individui i quali godano di un qualsiasi vantaggio, sia pur minimo, rispetto agli altri, non abbiano una maggiore probabilità di sopravvivere e di riprodursi? D’altra parte possiamo essere sicuri che qualsiasi variazione, anche minimamente nociva, sarà rigorosamente distrutta. La conservazione delle differenze e variazioni individuali favorevoli e la distruzione di quelle nocive sono state da me chiamate selezione naturale o sopravvivenza del più adatto. Le variazioni che non sono né utili né nocive, non saranno influenzate dalla selezione naturale, e rimarranno allo stato di elementi fluttuanti, come si può osservare in certe specie polimorfe, o infine, si fisseranno, per cause dipendenti dalla natura dell’organismo e da quella delle condizioni2. Poiché l’uomo può ottenere, e certamente ha ottenuto, grandi risultati con la sua opera di selezione metodica ed inconscia, che cosa non può fare la selezione naturale? L’uomo può agire solo su caratteri esterni e visibili; la Natura, se mi si consente di personificare con que2. Le variazioni, che insorgono casualmente, possono essere utili, dannose o irrilevanti ai fini della conservazione dell’individuo. Esse, infatti, non sono prodotte in funzione all’ambiente, ma vengono selezionate da esso in base al loro grado di utilità soltanto dopo che si sono sviluppate. 3. In una pagina precedente, qui omessa, Darwin aveva precisato che per natura si deve intendere «soltanto l’azione combinata e il risultato di numerose leggi naturali, e per leggi la sequenza di fatti da noi accertati». La personificazione della natura, tuttavia,

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sto nome la conservazione naturale o sopravvivenza del più adatto3, non tiene conto alcuno delle apparenze, a meno che non siano utili a qualche individuo. Essa può agire su ogni organo interno, su ogni ombra di differenza costituzionale, sull’intero meccanismo della vita. L’uomo seleziona soltanto in vista del proprio vantaggio; la Natura soltanto per il vantaggio dell’essere cui rivolge le sue cure. Ogni carattere selezionato è tenuto in piena attività dalla natura, come è implicito nel fatto stesso dell’essere stato selezionato. L’uomo raccoglie in uno stesso paese esseri nati sotto climi diversi; raramente egli esercita ciascun carattere selezionato in modo peculiare e appropriato: nutre con gli stessi cibi tanto i colombi a becco lungo quanto quelli a becco corto; non sottopone a diversi esercizi un quadrupede dalla groppa lunga o dalle lunghe gambe; ed espone allo stesso clima gli ovini a vello lungo e quelli a vello corto. Non permette ai maschi più vigorosi di lottare per il possesso della femmina. Non distrugge rigorosamente tutti gli animali di qualità inferiori, ma, per quanto è in suo potere, protegge tutti i suoi prodotti nel corso mutevole delle stagioni. Egli spesso comincia la selezione da forme semimostruose, o per lo meno con modificazioni abbastanza appariscenti da attirare la sua attenzione o da presentare un evidente vantaggio per lui4. In natura la più lieve differenza di struttura o di costruzione può rovesciare la ben equilibrata bilancia della lotta per l’esistenza, e così essere conservata. Quanto fuggevoli sono i desideri e gli sforzi dell’uomo! Quanto breve è il tempo

pur dovendo essere considerata una pura metafora, è difficilmente evitabile. Così si parla di «affinità chimiche» o di «attrazione» della gravità, senza intendere con questo che gli elementi si sintetizzino, o le parti di materia si attraggano, volontariamente. Nello stesso modo, si può parlare di «selezione naturale» senza presupporre alcuna intenzionalità della natura. 4. Paradossalmente, la selezione è meno incisiva laddove è intenzionale, come nell’uomo, che vuole modificare gli animali da lui allevati. Qui si mira, infatti, a variare soltanto alcuni aspetti –

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quelli che soggettivamente interessano l’uomo. Per far ciò, egli rinuncia a selezionare tutti gli altri, anzi tende a conservarli, operando in maniera antiselettiva per tutto ciò che non lo interessa. La selezione della natura, invece, investe tutti gli aspetti, poiché in essa tutte le variazioni, indipendentemente dalla loro appariscenza e dall’interesse che esse rivestono per l’uomo, vengono passate al vaglio della loro funzionalità in vista della conservazione dell’individuo e, indirettamente, della specie.

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in cui egli dispone! E, di conseguenza, quanto sono miseri i risultati della sua opera, al confronto di quelli accumulati dalla natura nel corso di interi periodi geologici! È dunque lecito meravigliarsi che i prodotti della natura abbiano un carattere «più genuino» di quelli dell’uomo, che essi siano infinitamente più adatti alle tanto complesse condizioni di vita, e che portino l’impronta di un magistero assai più perfetto?5 Si può dire, metaforicamente, che la selezione naturale sottoponga a scrutinio, giorno per giorno e ora per ora, le più lievi variazioni in tutto il mondo, scartando ciò che è cattivo, conservando e sommando tutto ciò che è buono; silenziosa e impercettibile essa lavora quando e ovunque se ne offra l’opportunità per perfezionare ogni essere vivente in relazione alle sue condizioni organiche e inorganiche di vita. Questi lenti cambiamenti noi non li avvertiamo quando sono in atto, ma soltanto quando la mano del tempo ha segnato il lungo volgere delle età, ma così imperfette sono le nostre cognizioni delle remote ere geologiche che ci è soltanto dato di vedere che le forme viventi attuali sono diverse da come erano una volta. [...] Per far comprendere con chiarezza in qual modo, secondo me, agisce la selezione naturale, mi si permettano uno o due esempi immaginari. Prendiamo il caso di un lupo che si nutra di differenti animali, catturandone alcuni con l’astuzia, altri con la forza, altri ancora con l’agilità, e supponiamo che la sua preda più veloce, ad esempio il cervo, in seguito a cambia-

5. In queste parole si potrebbe ravvisare la presenza di un «disegno» della natura in vista del perfezionamento delle specie. Ma, a parte il rifiuto darwiniano di ogni personalizzazione o ipostatizzazione della natura (cfr. n. 3), il finalismo è escluso dal carattere esclusivamente causale sia dell’emergenza delle variazioni, sia della stessa selezione naturale. Le variazioni sono infatti – come si è detto – il risultato fortuito di una serie di processi naturali, di carattere ambientale o genetico. In esse non si può ravvisare alcun ordine né al-

menti avvenuti nella regione, sia divenuto più numeroso, o che le altre predi abituali del lupo siano diminuite durante la stagione dell’anno in cui il lupo è maggiormente stimolato dalla fame. In tali circostanze i lupi più veloci e più agili avranno maggiore probabilità di sopravvivere e saranno quindi mantenuti in vita o selezionati, sempre a condizione che conservino la forza necessaria per sopraffare la preda, in ogni periodo dell’anno in cui sono spinti a nutrirsi di altri animali. Mi pare che non vi sia ragione di dubitare di questo risultato, come non si può mettere in dubbio la possibilità che ha l’uomo di aumentare l’agilità dei suoi levrieri per mezzo di una selezione accurata e metodica, o con la selezione inconscia, quale è quella operata da chiunque cerca di conservare i cani migliori, pur senza avere l’intenzione di modificare la razza. GUIDA ALLA LETTURA 1. Riassumi il contenuto della lettura con il sistema delle note a margine; poi fai una scheda del testo. 2. Che cos’è la variazione? 3. Evidenzia sul testo le espressioni che illustrano il concetto darwiniano di «selezione naturale». 4. Che cosa intende Darwin per natura? 5. Poni attenzione al seguente passo: «È dunque lecito meravigliarsi che i prodotti della natura abbiano un carattere ‘più genuino’ di quelli dell’uomo, che essi siano infinitamente più adatti alle tanto complesse condizioni di vita, e che portino l’impronta di un magistero assai più perfetto?». Valuta se questo passo lasci intravedere o no una concezione finalistica della natura.

cuna finalità, tant’è che la loro stragrande maggioranza va distrutta. Una funzione ordinativa ha invece la selezione naturale, la quale opera secondo un principio di discriminazione – la scelta del più adatto alla sopravvivenza – che influisce sul miglioramento della specie. Ma anche questo risultato obbedisce esclusivamente alla legge della causalità naturale, perché è il semplice effetto della naturale incapacità del più debole a vincere la lotta per l’esistenza e non risponde a nessun valore orientativo. I più adatti sono i «migliori» solo

dal punto di vista della forza e della capacità di sopravvivenza. Ciò apparirà evidente soprattutto quando la selezione naturale sarà applicata – nell’Origine dell’uomo – alla sfera dell’azione umana: qui sarà chiaro che l’«ordine» instaurato dalla selezione naturale, giustificando la prevaricazione del più debole da parte del più forte, sarà scarsamente adatto a fondare una teoria della convivenza o, ancor meno, della giustizia sociale.

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t13 Spencer / La legge dell’evoluzione Spencer

Primi princìpi

parte II: cap. XIV, § 115; cap. XV, §§ 116, 127, 129, 138; cap. XVII, § 145

Alla definizione della legge dell’evoluzione – esposta nei Primi princìpi, l’opera che sta a fondamento di tutte le altre parti del «sistema di filosofia sintetica» – Spencer giunge attraverso un procedimento di determinazione progressiva. Egli parte dalle due leggi generali che sono espresse dai risultati di tutte le scienze particolari: l’integrazione della materia e la dissipazione del movimento. Questi due processi sono tuttavia accompagnati da leggi costanti – passaggio dall’incoerente al coerente, dall’omogeneo all’eterogeneo, dall’indistinto al distinto – le quali, nel loro insieme, forniscono la legge generale dell’evoluzione.

Dall’incoerente al coerente L’evoluzione, nel suo aspetto primario, è un mutamento da forme meno coerenti a forme più coerenti, conseguente alla dissipazione del movimento e all’integrazione della materia1. Questo è il processo universale attraverso cui passano gli esseri sensibili, considerati individualmente e nel loro insieme, nella fase ascendente della loro storia. I fatti provano che tale carattere è egualmente manifesto sia nei primi mutamenti che si suppone l’universo abbia subito nel suo complesso, sia negli ultimi mutamenti che ritroviamo nella società e nei prodotti della vita sociale. Dappertutto l’unificazione procede in diversi modi simultaneamente2. Nell’evoluzione del sistema solare, o di un pianeta, o di un organismo, o di una nazione, vi è una progressiva aggregazione dell’intera massa. Essa può venir prodotta dalla crescente 1. Il punto di partenza è il problema della redistribuzione della materia e del movimento nell’universo. Questa redistribuzione può essere considerata nella sua forma primaria, cioè più immediata, oppure tenendo conto anche delle redistribuzioni secondarie che essa comporta. Nel primo caso, si ha l’evoluzione semplice (con un solo livello di redistribuzione), nel secondo, l’evoluzione complessa (con più livelli di redistribuzione). Qui si considera soltanto l’evoluzione semplice, il cui processo si esaurisce nel passaggio dall’incoerente al coerente (o dal meno coerente al più coerente). In altri termini, la redistribuzione conseguente alla semplice integrazione della materia accompagnata da dissipazione di movimento comporta soltanto una progressiva coesione delle parti.

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densità della materia già contenuta in essa o dall’aggiungersi di materia che ne era prima separata oppure da entrambe le cose; ma comporta in ogni caso una perdita di movimento relativo. Nello stesso tempo le parti, nelle quali la materia si è divisa, si consolidano ciascuna al suo interno. Lo constatiamo nella formazione dei pianeti e dei satelliti, sviluppatasi parallelamente alla concentrazione della nebulosa che ha dato origine al sistema solare; lo constatiamo nella crescita di organi distinti, la quale progredisce di pari passo con la crescita di ciascun organismo; lo constatiamo infine nella nascita di particolari centri industriali e di particolari masse di popolazione, che accompagna la nascita di ogni società3. In ogni caso un grado più o meno alto di integrazione locale accompagna l’integrazione generale. Pertanto, al di là della più stretta giustapposi-

2. Il passaggio dall’incoerente al coe-

rente – come poi anche gli altri due aspetti dell’evoluzione – riflette una legge assolutamente generale. Tale generalità è espressa dal fatto che essa è universalmente applicabile sia sincronicamente (cioè a fenomeni diversi appartenenti a uno stesso tempo evolutivo) sia diacronicamente (cioè a momenti diversi del processo). In questo ultimo caso, il grado della coesione, così come quello dell’integrazione della materia e della dissipazione del movimento, sarà ovviamente proporzionale al punto di avanzamento all’interno dell’evoluzione. 3. Si è detto nella n. precedente che la prima determinazione della legge dell’evoluzione – come del resto le altre – vale per ogni fenomeno, indipendentemente dalla sua natura. Spencer con-

4. il positivismo

cretizza questa tesi adducendo tre esempi tratti dai tre ambiti in cui l’evoluzione si scandisce: inorganico (formazione dei pianeti), organico (crescita dell’organismo) e superorganico (sviluppo di determinati centri industriali). In tutti i casi, l’evoluzione passa da momenti di minore coerenza a momenti di maggiore coerenza: ad esempio, i pianeti derivano dalla progressiva compattazione di nebulose, l’articolazione degli organi di un animale dipende dalla progressiva concentrazione della materia organica (un’ameba, che è minimamente coesa, non ha organi distinti), la funzionalità di un centro industriale dipende dal grado di coesione degli individui che lo compongono.

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zione tra i componenti del tutto da un lato e tra i componenti di ciascuna parte dall’altro, troviamo anche una più stretta combinazione tra le parti, che causa la loro reciproca dipendenza4. Soltanto confusamente prefigurata negli esseri inorganici, celesti o terrestri, questa dipendenza reciproca diventa distinta in quelli organici e super-organici. Dalla più bassa forma vivente in su, il grado di sviluppo è indicato dal grado in cui le diverse parti formano un insieme capace di cooperazione. Il passaggio da quelle creature che continuano a vivere nelle singole parti anche se tagliate a pezzi alle altre che non possono perdere alcuna parte importante senza morire, o alcuna parte non importante senza provare gravi disturbi di costituzione, rappresenta un passaggio a creature che, oltre a essere più integrate in quanto a compattezza, sono più integrate anche in quanto consistono di organi che vivono l’uno per l’altro e l’uno per mezzo dell’altro. L’analogo contrasto tra società progredite non ha bisogno di esser illustrato nei particolari: l’incessante processo di coordinazione delle parti le caratterizza tutte quante.

Dall’omogeneo all’eterogeneo Nel caratterizzare come evoluzione semplice l’integrazione della materia e la dissipazione del movimento non accompagnate da re-distribuzioni secondarie abbiamo tacitamente asserito che, ove avvengano tali re-distribuzioni secondarie, si ha automaticamente la complessità5. Ovviamente se, mentre è avvenuta la trasformazio4. La progressiva coesione si realizza dunque su due livelli: da un lato tra le parti e il tutto, dall’altro all’interno delle singole parti, che tendono a costituire ciascuna un piccolo tutto, pur rimanendo organicamente connesse con il tutto complessivo. Il secondo aspetto – la progressiva coesione delle parti in se stesse – prelude al processo di graduale differenziazione che costituisce la seconda determinazione della legge evolutiva. 5. Si passa ora dall’analisi della redistribuzione primaria a quella della redistribuzione secondaria, e quindi dall’evoluzione semplice all’evoluzione

ne dall’incoerente al coerente, si sono avute anche altre trasformazioni, la massa, in luogo di rimanere uniforme, è necessariamente diventata multiforme: la proposizione è identica. Dire che la re-distribuzione primaria è accompagnata da re-distribuzioni secondarie significa dire che, insieme al mutamento da uno stato omogeneo a uno eterogeneo, le componenti della massa, integrandosi, si differenziano. Questo è il secondo aspetto sotto cui dobbiamo studiare l’evoluzione. [...] La formula generale, a questo punto della nostra analisi, deve quindi essere completata. È vero che l’evoluzione, considerata nel suo aspetto primario, è un mutamento da forme meno coerenti a forme più coerenti, conseguente alla dissipazione del movimento e all’integrazione della materia; ma questa non è tutta la verità. Insieme al passaggio dall’incoerente al coerente c’è un passaggio dall’uniforme al multiforme. Ciò avviene almeno ogni qual volta l’evoluzione è composta, il che capita nell’immensa maggioranza dei casi6. [...] Il nostro concetto di evoluzione deve perciò comprendere tutti questi caratteri: in base alle nozioni di cui ora disponiamo, l’evoluzione è definibile come mutamento da un’omogeneità incoerente a un’eterogeneità coerente, che accompagna la dissipazione del movimento e l’integrazione della materia7.

Dall’infinito al definito L’evoluzione, se da un lato è un mutamento dall’omogeneo all’eterogeneo, d’altro lato co-

complessa. La redistribuzione secondaria della materia e del movimento è conseguenza di quella primaria: analogamente la seconda determinazione della legge dell’evoluzione è conseguenza della prima. Il passaggio dall’incoerente al coerente comporta infatti una progressiva differenziazione delle parti relative alla materia coesa (cfr. n. precedente), cioè un corrispondente passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo. 6. La prima e la seconda determinazione della legge dell’evoluzione stanno in rapporto di conseguenziarietà (nel senso che la seconda consegue dalla pri-

ma), ma non di connessione necessaria (nel senso che la seconda debba sempre conseguire dalla prima). Nelle sue fasi più arretrate l’evoluzione può presentare una natura semplice (non complessa), comportando un solo livello di redistribuzione della materia e del movimento (redistribuzione primaria senza la secondaria). Ma questo avviene molto raramente. 7. La seconda formulazione della legge dell’evoluzione è quindi il risultato della fusione delle prime due determinazioni: passaggio dall’incoerente al coerente e passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo.

i testi

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stituisce un mutamento dall’indefinito al definito. Insieme al passaggio dalla semplicità alla complessità vi è quello dalla confusione all’ordine, da una sistemazione indeterminata a una sistemazione determinata. Lo sviluppo, non importa di quale tipo, presenta non soltanto una moltiplicazione di parti diverse, ma anche un aumento della distinzione con cui queste parti si definiscono l’una rispetto all’altra8. [...] Questo carattere universale dell’evoluzione, pur accompagnando necessariamente quelli già indicati nelle definizioni precedenti, non era però espresso nei termini usati per enunciarle. Occorre perciò modificare ulteriormente la nostra formula. L’idea più precisa che finora possiamo formarci dell’evoluzione è la seguente: un mutamento da un’omogeneità indefinita e incoerente a un’eterogeneità definita e coerente, che accompagna la dissipazione del movimento e l’integrazione della materia9.

Definizione conclusiva Abbiamo così trovato che il concetto definitivo dell’evoluzione deve comprendere la re-distribuzione sia del movimento conservato sia della materia che la compone10. Questa ulteriore precisazione è quasi altrettanto importante del resto. I movimenti del sistema solare hanno per noi un significato eguale a quello posseduto dalla dimensione, dalla forma e dalle distanze relative degli astri che lo compongono; e tra i fenomeni presentati da un organismo si deve ammettere che quell’insieme di azioni sensibili e insensibili, tra loro combinate, che noi chiamiamo vita, non è meno interessante dei suoi tratti strutturali. Lasciando però da parte 8. La terza determinazione – passaggio

dall’indistinto al distinto (o dal meno distinto al più distinto) – non è conseguenza della seconda, ma della prima. Si è visto (cfr. nn. 4 e 5) come il passaggio dall’incoerente al coerente (prima determinazione), essendo applicato ai rapporti interni alle singole parti oltreché a quelli tra le parti e il tutto, comporti una progressiva differenziazione. Da un lato questa differenziazione si presenta come un passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo (seconda determinazione), dall’altro come un

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ogni implicito riferimento al modo in cui questi due ordini di fatti ci riguardano, è chiaro che ogni re-distribuzione di materia è necessariamente accompagnata da una re-distribuzione di movimento; e la conoscenza unificata che costituisce la filosofia deve comprendere entrambi gli aspetti di questa trasformazione. [...] La nostra formula richiede pertanto ancora un’aggiunta. Ma è quasi impossibile combinare in modo soddisfacente questa aggiunta con le definizioni precedenti; perciò, per comodità di esposizione, sarà meglio cambiare il loro ordine. Procedendo in questo modo, e fatta la dovuta aggiunta, la formula definitiva può essere così stabilita: l’evoluzione è un’integrazione di materia e una concomitante dissipazione di movimento, durante cui la materia passa da un’omogeneità indefinita e incoerente a un’eterogeneità definita e coerente, e durante cui il movimento conservato subisce una trasformazione parallela.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo i passi che esprimono il concetto di evoluzione come legge universale. 2. In che cosa consiste il passaggio dall’incoerente al coerente e quali tipi di essere riguarda? 3. In che rapporto stanno tra loro la prima e la seconda determinazione della legge dell’evoluzione? 4. In che cosa consiste la complessità – termine introdotto da Spencer durante la trattazione del passaggio dall’omogeneo all’eterogeneo? 5. La nozione di evoluzione deriva dalla combinazione di due elementi fondamentali. Quali?

passaggio dall’indistinto al distinto (terza determinazione). Progressiva eterogeneità e progressiva distinzione sono dunque due aspetti paralleli del processo di differenziazione che consegue alla progressiva coesione della materia. 9. La terza definizione della legge dell’evoluzione è il risultato della sintesi della prima, della seconda e della terza determinazione. 10. Finora Spencer ha descritto le tre leggi che si risolvono nell’unica legge dell’evoluzione, parlando di integrazio-

4. il positivismo

ne della materia e di dissipazione del movimento. Si potrebbe, quindi, avere l’impressione che la legge dell’evoluzione riguardi solo la redistribuzione della materia, dal momento che del movimento si è parlato solo come movimento dissipato. In questa ultima parte del testo, Spencer precisa però che la redistribuzione riguarda sia la materia sia il movimento, ovviamente quello che rimane in seguito alla dissipazione che si accompagna all’integrazione della materia.

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esercizi/4 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale 1. Evidenzia le influenze dell’Illuminismo sul positivismo. 2. Evidenzia i criteri della classificazione delle scienze formulata da Comte. 3. Evidenzia l’assunto fondamentale dell’utilitarismo di Bentham. 4. Evidenzia in che modo, secondo Mill, un ragionamento può apportare nuova conoscenza. 5. Evidenzia il programma del liberalismo radicale promosso da Mill nel saggio Sulla libertà. 6. Evidenzia la posizione di Darwin in merito alla religione. 7. Evidenzia il principio fondamentale della filosofia dell’evoluzione formulata da Spencer. Dizionario filosofico 8. Definisci i seguenti concetti: positivo (Comte) • utilitarismo (Bentham, Mill) • logica (Mill) • evoluzione (Darwin, Spencer) • Inconoscibile (Spencer)

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 9. Quali sono, secondo Comte, le tre tappe principali del progresso dell’umanità? 10. Attraverso quale criterio Comte perviene alla «classificazione delle scienze»? 11. Qual è, secondo Comte, il ruolo della filosofia nel sistema generale delle scienze?

esercizi/4

12. Per quali ragioni, secondo Comte, matematica e psicologia vanno escluse dalla classificazione delle scienze? 13. Perché, secondo Comte, la sociologia è «fisica sociale»? 14. In che cosa consiste l’algebra morale teorizzata da Bentham? 15. Perché, secondo Mill, solo l’«induzione imperfetta» determina il conseguimento di nuove conoscenze? 16. Quali sono le ragioni per cui John Stuart Mill ritiene che la conoscenza abbia origine empirica? 17. In che cosa consiste «l’evoluzione superorganica», secondo Spencer? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 18. Le nozioni di «legge» e di «fatto» sono fondamentali per comprendere il programma filosoficoscientifico del positivismo. Spiega perché. 19. Illustra le corrispondenze tra la parte dinamica della sociologia e la filosofia della storia teorizzate da Comte. 20. Quale relazione viene istituita da Bentham fra «utilità» e «piacere»? 21. Quale critica muove John Stuart Mill al sillogismo aristotelico? 22. Illustra, facendo anche degli esempi, la celebre distinzione – introdotta da Mill – tra termini denotativi e termini connotativi e quella tra proposizioni verbali e proposizioni reali. 23. Illustra la relazione che Mill istituisce fra «utilitarismo» e «altruismo», mettendone in evidenza le conseguenze economiche, sociali e politiche. 24. Perché la teoria darwiniana dell’evoluzione ebbe un impatto molto forte sul dibattito ideologico e religioso?

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i contenuti la tragedia, la vita, la storia

Filologo classico, Nietzsche rivolge la propria attenzione alla tragedia greca, nella quale vede conciliati due impulsi vitali fondamentali: l’apollineo, che tende a idealizzare la realtà, conferendole quiete e serenità; il dionisiaco, che tende invece a immergersi senza freni nel caos della vita, dimenticando la propria individualità, e si esprime nella musica. L’influsso del razionalismo, rappresentato da Socrate, ha segnato la fine della tragedia e ha portato all’affermazione dell’uomo

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teoretico ottimisticamente fiducioso in una ragione capace di cogliere la realtà e la verità: nasce di qui, secondo Nietzsche, la cultura della decadenza, che contrassegna anche il presente. Un tratto di essa è la malattia storica, ossia una crescita eccessiva del sapere storico. Ma per Nietzsche la storia – nella compresenza armonica delle sue tre forme (monumentale, antiquaria e critica) – deve servire alla vita, potenziarla, non soffocarne gli impulsi attivi. la genealogia della morale

È soprattutto lo sviluppo della morale che ha finito per danneggiare la vita, a causa di errori e presupposti inconsapevoli

– in particolare l’interpretazione antropomorfica e finalistica della natura. Ciò ha prodotto l’illusione che l’uomo fosse libero e responsabile delle sue azioni. Alla radice delle azioni c’è invece l’istinto di procurarsi piaceri ed evitare dolori. Il cristianesimo – sulla scorta del platonismo – ha attribuito piena verità e bontà a un mondo intelligibile separato dal sensibile, ha condotto a una svalutazione del corpo e ha generato una morale della rinuncia e del risentimento – basata sul senso di colpa e sul bisogno di perseguire ideali ascetici. Nietzsche considera il cristianesimo come una forma di nichilismo della debolezza, una morale degli schiavi fondata sulla negazione della vita e dei suoi impulsi: l’egualitarismo e l’umanitarismo sarebbero gli ultimi eredi di essa. la morte di dio e l’avvento del superuomo

Al nichilismo passivo Nietzsche contrappone invece un nichilismo attivo, consistente in un capovolgimento di tutti i valori. A Zarathustra fa annunciare che Dio è morto e che si può quindi tornare a essere fedeli alla terra e alla vita. La figura che esprime questo oltrepassamento della morale tradizionale da parte dell’uomo è il superuomo, che poggia solo su se stesso e che – come qualsiasi altro organismo vivente – tende ad affermarsi come volontà di potenza. volontà di potenza ed eterno ritorno

La volontà di potenza non ha obiettivi fuori di sé e, pertanto, tende incessantemente ad accrescere la propria potenza. L’eterno ritorno dell’uguale è la formula in cui si compendia, secondo Nietzsche, questo dire continuamente sì alla vita e a tutto ciò che essa contiene: solo riconoscendo la pienezza di ciascun istante della vita e amando ciò che accade nel mondo, si può volere che tutto ritorni eternamente uguale.

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gli strumenti in poche… parole apollineo/dionisiaco / genealogia della morale / morte di Dio / nichilismo / superuomo / eterno ritorno / amor fati

confronti

i testi a. nel manuale t14 Nietzsche/Apollineo e dionisiaco t15 Nietzsche/La morte di Dio t16 Nietzsche/Il superuomo

b. on-line Nietzsche/La vita e la storia Nietzsche/Morale dei signori e morale degli schiavi Nietzsche/La colpa e l’ascetismo Nietzsche/Vita e volontà di potenza

La volontà in Schopenhauer e in Nietzsche

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Vita e opere la formazione

Friedrich Nietzsche nacque a Röcken, nei pressi di Lipsia in Germania, il 15 ottobre 1844; rimase presto orfano del padre, pastore protestante. Nel 1850 la madre si trasferì a Naumburg, dove Nietzsche iniziò i suoi studi e ricevette un’educazione musicale. Nel 1859 entrò nel ginnasio di Pforta, dove rimase sino al 1864, quando si immatricolò come studente di Teologia all’università di Bonn. Qui frequentò soprattutto le lezioni del filologo classico Friedrich Ritschl, che seguì quando questi si trasferì all’università di Lipsia. In questa città cominciarono a farsi avvertire le sofferenze e le malattie che lo angustieranno per tutta la vita, come reumatismi ed emicranie.

l’incontro con wagner e la carriera universitaria

Alla fine del 1868 avviene il suo primo incontro con Richard Wagner; nel frattempo legge Schopenhauer e pubblica articoli su Diogene Laerzio e Teognide. Nel 1869, grazie all’appoggio di Ritschl e del suo condiscepolo Hermann Usener, ottiene l’insegnamento di Lingua e letteratura greca presso l’università di Basilea, in Svizzera. A Basilea diventa collega dello storico Jacob Burckhardt, di cui seguirà le lezioni sulla storia e sulla civiltà greca, stringe amicizia con il teologo Franz Overbeck e, intanto, intrattiene rapporti con Wagner e Cosima von Bülow, che si sposeranno nel settembre successivo. Nominato professore ordinario a Basilea nell’aprile 1870, allo scoppio della guerra franco-prussiana chiede un congedo per arruolarsi come infermiere volontario, ma dopo quindici giorni si ammala di dissenteria e di difterite e viene riportato a casa. Nel gennaio 1872 Nietzsche pubblica il suo primo volume: La nascita della tragedia.

l’attenzione per la cultura greca

La pubblicazione della Nascita della tragedia lascia perplessi Ritschl e Usener, che l’interpretano come un abbandono dei metodi rigorosi della filologia; nel maggio del 1872, Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff – che diventerà il maggior filologo classico in Germania a cavallo tra i due secoli – lo attacca nell’opuscolo La filologia del futuro. In quello stesso mese, Nietzsche si reca a Bayreuth per assistere alla posa della prima pietra del teatro progettato da Wagner. Tra il 1872 e il 1873 egli compone una serie di scritti che rimarranno inediti, in particolare il breve saggio Verità e menzogna in senso extramorale e l’opera più ampia La filosofia nell’epoca tragica dei greci.

l’estraneità verso il mondo moderno

Tra il 1873 e il 1874 incomincia invece a pubblicare una serie di scritti polemici, da lui raggruppati sotto il titolo di Considerazioni inattuali: il primo compare nel 1873 ed è rivolto contro David Friedrich Strauss, altri due escono nel 1874 e vertono Sull’utilità e sul danno della storia per la vita e su Schopenhauer educatore, mentre nel 1876 sarà pubblicato il quarto intitolato Richard Wagner a Bayreuth. In questi scritti Nietzsche esalta la musica wagneriana, ma già dall’estate del 1874 cominciano le tensioni nei suoi rapporti con Wagner.

la salute inferma e i soggiorni in italia

Nonostante l’aggravarsi delle sue condizioni di salute, Nietzsche ha continuato a svolgere il suo insegnamento presso l’università, ma nel febbraio del 1876 è costretto a chiedere un congedo per motivi di salute e nell’ottobre dello stesso anno parte per l’Italia, dando inizio a una serie di soggiorni

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che dureranno vari anni: da Genova s’imbarca con Paul Rée per Napoli e poi si reca a Sorrento, dove rimane sino al maggio del 1877. A settembre riprende l’insegnamento a Basilea e comincia a dettare a Peter Gast gli aforismi che costituiranno Umano, troppo umano. Un libro per spiriti liberi, dedicato a Voltaire e pubblicato in due parti, la prima nel 1878 e la seconda nel 1879. Nel maggio 1879 Nietzsche si dimette dall’università di Basilea, che gli concede una pensione, e si reca prima a Zurigo e poi in Engadina, dove scrive Il viandante e la sua ombra. Dopo un breve soggiorno presso la madre, trascorre gran parte del 1880 in Italia, a Riva del Garda e Venezia, poi a Marienbad, in autunno a Stresa e poi a Genova, dove risiede sino all’aprile 1881. Da allora trascorrerà periodicamente i suoi inverni a Genova e in Liguria – in particolare a Rapallo – sino al 1883, e successivamente a Nizza sino al 1888, mentre ogni estate tornerà a Sils-Maria, in Engadina. In questi soggiorni lavora alle sue opere, che escono a ritmo serrato: nel 1881 Aurora. Pensieri sui pregiudizi morali, nel 1882 la Gaia scienza, nel 1883 la prima e la seconda parte di Così parlò Zarathustra, cui farà seguito una terza parte pubblicata nel 1884, mentre la quarta parte non troverà editore e dovrà essere pubblicata a sue spese nel 1885. Nel 1886 pubblica a proprie spese Al di là del bene e del male e ripubblica – con nuove prefazioni – La nascita della tragedia e Umano, troppo umano. L’anno successivo accade lo stesso per Aurora, la Gaia scienza e le prime tre parti dello Zarathustra.

la produzione successiva alle dimissioni dall’università

Nell’estate del 1886 – a Sils-Maria – progetta di scrivere un’opera sulla volontà di potenza e l’eterno ritorno e nel 1887 pubblica a proprie spese la Genealogia della morale. Tra l’aprile e il giugno 1888 soggiorna a Torino, una città di cui è entusiasta, e vi scrive Il caso Wagner. Dopo aver trascorso l’estate a Sils-Maria, dove lavora al Crepuscolo degli idoli, torna a Torino, dove scrive Ecce homo e Nietzsche contra Wagner. In questo periodo Nietzsche riceve i primi segni del successo delle sue opere in Europa. Il 3 gennaio 1889, mentre si trova a Torino, ha un crollo psichico; il 5 Burckhardt riceve una lettera che gli segnala le gravi condizioni di Nietzsche e avverte Overbeck, il quale si reca a Torino e lo riporta a Basilea, dove viene ricoverato in una clinica per malattie nervose.

il soggiorno torinese e il crollo psichico

Dal maggio 1890 Nietzsche vive a Naumburg, in condizioni sempre più gravi, incapace di riconoscere gli amici, in preda ad accessi d’ira e, dal 1893, paralizzato alla spina dorsale. Dapprima è assistito dalla madre, che però muore nel 1897, e in seguito dalla sorella Elisabeth. Questa, rimasta vedova, aveva fondato nel 1894 un archivio – a Weimar – con l’intento di conservare i manoscritti del fratello e di occuparsi dell’edizione completa delle sue opere. A Weimar, Nietzsche muore il 25 agosto 1900.

gli ultimi anni

La pubblicazione delle sue opere – diretta dalla sorella con la collaborazione di Peter Gast – inizia nel 1895 e comprende anche scritti postumi, alcuni dei quali pubblicati nel 1906 con il titolo La volontà di potenza. Nel 1956 Karl Schlechta avrebbe fornito una nuova edizione delle opere di Nietzsche, in tre volumi, nella quale avrebbe ripubblicato il materiale della Volontà di po-

le varie edizioni degli scritti

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tenza, ma non nell’ordine sistematico arbitrario dato dai primi editori, bensì in quello cronologico. Questo stesso criterio è quello seguito nell’edizione critica delle opere nietzscheane, che ha iniziato a comparire dal 1967 a cura di Giorgio Colli e Mazzino Montinari e rende ora possibile uno studio di Nietzsche libero da pregiudiziali ideologiche.

2. La nascita della tragedia filologia e critica della cultura

Il giovane Nietzsche intraprende gli studi di filologia classica, animato dall’ammirazione per il mondo greco e per le sue produzioni artistiche, nelle quali scorge la manifestazione più alta della vita – in opposizione all’assenza di cultura e alla volgarità del mondo moderno. Su questo punto egli si sente in consonanza con la filosofia di Schopenhauer e con il rinnovamento estetico propugnato da Richard Wagner.

l’influenza di schopenhauer e di wagner

Di Schopenhauer egli condivide la polemica contro la filosofia ridotta a scienza oggettiva e impersonale – praticata nelle università – e l’insistenza sulla centralità del problema della vita e del suo significato. A suo avviso, inoltre, Schopenhauer e Wagner hanno contribuito a diffondere una cultura tragica, capace di cogliere l’eterna sofferenza presente nel mondo. Ma questa conoscenza tragica può essere sopportata in modo appropriato soltanto attraverso l’arte: Wagner – già nell’Opera d’arte dell’avvenire (1850) – aveva considerato la tragedia greca come l’espressione di una libera universalità, indicando in essa il modello al quale l’arte rivoluzionaria del presente doveva richiamarsi contro la cultura impoverita e degenerata del mondo moderno. Sulla base di questi presupposti e della riscoperta della grecità arcaica – già avviata a partire dagli inizi del secolo – Nietzsche compone la sua prima opera, La nascita della tragedia.

apollo e dioniso

Di fronte alle idealizzazioni del mondo greco come regno della serenità e dell’armonia, predominanti nella cultura tedesca a partire da Winckelmann, Nietzsche mette in luce come – in quello stesso mondo – siano presenti aspetti inquietanti e dolorosi. I Greci erano dominati, a suo avviso, da due impulsi vitali che egli chiama apollineo e dionisiaco [t14]. Il primo è legato alla figura del dio Apollo e corrisponde alle visioni del sogno, nelle quali la realtà appare idealizzata e luminosa: tali erano gli dèi olimpici, che furono creati dai Greci per sopportare il dolore dell’esistenza. Gli dèi, infatti, vivendo una vita simile a quella umana – ma perfetta e priva di sofferenze – giustificano la vita. L’impulso apollineo è, dunque, un impulso di bellezza, che genera un mondo illusorio e che nell’ambito delle arti figurative trova la sua espressione soprattutto nella scultura. Ma accanto a esso è presente presso i Greci l’impulso dionisiaco, che si riferisce al dio Dioniso e alle esperienze religiose legate al suo culto. Esso è un impulso di ebbrezza, che spinge a immergersi senza freni nel caos della vita – dimenticando la propria individualità – e a riconciliarsi con gli altri e con la natura attraverso la danza e il canto. Sul piano artistico l’impulso dionisiaco trova la sua espressione nella musica. Quando predomina l’impulso dionisiaco, quello

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apollineo risulta indebolito: in questo caso la verità della vita viene ritrovata nell’eccesso, anziché nella misura. La tragedia greca è il frutto della conciliazione tra l’impulso dionisiaco e quello apollineo e rappresenta, agli occhi di Nietzsche, il culmine della civiltà greca. La tragedia si sviluppa in connessione al culto di Dioniso – il dio che soffre, di cui tutti gli eroi tragici (Prometeo, Edipo e così via) sono soltanto maschere. Essa nasce dal rito della processione in onore di Dioniso di uomini mascherati da satiri (esseri per metà animali e per metà umani). Danzando e cantando in stato di eccitazione, questo coro esprimeva le sue emozioni più forti in un mondo apollineo di immagini. In un primo momento la tragedia era costituita unicamente dal coro; soltanto in seguito venne ad aggiungersi l’azione, ossia la parte drammatica (in greco dràma significa, appunto, «azione compiuta»).

l’equilibrio dei due impulsi

Perché questa suprema forma artistica a un certo punto morì? Secondo Nietzsche ciò sarebbe avvenuto con Euripide, che aveva attribuito una parte prevalente al dialogo tra i personaggi – a scapito della musica – e aveva trasformato i miti rappresentati nella tragedia in racconti di vicende dotate di uno sviluppo razionale. In tal modo, egli aveva portato sulla scena l’uomo nella sua quotidianità ed eliminato l’elemento dionisiaco. Secondo Nietzsche la decadenza della tragedia è parallela alla diffusione della filosofia di Socrate, il quale aveva sostenuto che solo chi sa è virtuoso e che soltanto ciò che è razionale è bello.

la decadenza della tragedia

Mentre nella tragedia la vita trovava una giustificazione estetica grazie alla rappresentazione artistica, ora la vita poteva essere giustificata soltanto attraverso la conoscenza. Con Socrate si era così affermato un nuovo tipo di uomo – l’uomo teoretico – il cui supremo interesse è la ricerca della verità: rispetto al pessimismo che pervade la tragedia, questo tipo di uomo è ottimista, perché nutre la fiducia che il pensiero possa giungere – mediante la dialettica e la conoscenza delle cause – a cogliere la realtà nella sua essenza. Ma questa fede, secondo Nietzsche, è puramente illusoria, perché è soltanto un mezzo di cui la volontà si serve per continuare a vivere.

socrate e il primato della razionalità

3. «Per ogni agire ci vuole oblio» Con lo sguardo rivolto alla Grecia arcaica, Nietzsche si sente estraneo al mondo moderno e intraprende una battaglia contro il presente e la sua mancanza di vera cultura, scrivendo le Considerazioni inattuali: esse sono inattuali in quanto enunciano tesi contrastanti con i valori dominanti e operano per costruire un nuovo futuro.

la critica del presente

Nella diagnosi negativa del presente, Nietzsche si incontra con Jacob Burckhardt (1818-1897), lo storico dell’arte, del Rinascimento italiano e dell’età di Costantino. Quest’ultimo – proprio nei primi anni del soggiorno di Nietzsche a Basilea – tiene lezioni sulla civiltà greca e sullo studio della storia, le quali saranno pubblicate postume con i titoli: Storia della civiltà greca

burckhardt e la crisi del mondo moderno

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(1894-1902) e Considerazioni sulla storia mondiale (1905). Sensibile all’insegnamento di Schopenhauer, anche Burckhardt non condivide la concezione ottimistica della storia formulata da Hegel né l’interpretazione del presente come culmine positivo del suo cammino progressivo. Nel mondo moderno, infatti, la libertà dell’individuo è gravemente minacciata dalle tendenze democratiche e socialistiche e dal predominio del mondo degli affari. Ciò non significa che l’attuale momento storico sia caratterizzato da una crescente decadenza; secondo Burckhardt, si deve piuttosto parlare di ascese e cadute relative. Il passaggio da un’epoca a un’altra è segnato da crisi, che portano all’eliminazione di un passato avvertito come oppressivo e all’instaurazione di qualcosa di nuovo: dunque, la crisi è segno di vitalità, in quanto ogni sviluppo spirituale avviene «a forza di urti e di salti», sia negli individui sia nelle collettività. Nella situazione minacciosa del presente l’unica consolazione è riposta nella conoscenza storica, che permette di contemplare in maniera distaccata le vicende del passato. la storia e la vita

Nietzsche condivide la diagnosi negativa del mondo moderno formulata da Burckhardt, ma assume un atteggiamento più combattivo e polemico. A suo avviso, la cultura moderna è in preda a una vera e propria malattia storica. Alla descrizione e alla terapia di questa malattia, Nietzsche tenta di provvedere con la seconda delle Considerazioni inattuali, intitolata Sull’utilità e sul danno della storia per la vita . Essa è inattuale perché smaschera gli elementi potenzialmente dannosi contenuti in ciò che per l’epoca presente rappresenta un vanto: la formazione e la conoscenza storica. Il criterio per formulare questa valutazione è dato dalla vita: la storia favorisce e incrementa oppure blocca e atrofizza la vita e l’azione? L’oblio, secondo Nietzsche, è necessario alla vita: Immaginate l’esempio estremo, un uomo che non possedesse punto la forza di dimenticare, che fosse condannato a vedere dappertutto un divenire: un uomo simile non crederebbe più al suo stesso essere, non crederebbe più a sé, vedrebbe scorrere l’una dall’altra tutte le cose in punti mossi e si perderebbe in questo fiume del divenire: alla fine, da vero discepolo di Eraclito, quasi non oserebbe più alzare il dito. Per ogni agire ci vuole oblio: come per la vita di ogni essere organico ci vuole non soltanto luce, ma anche oscurità. Un uomo che volesse sentire sempre e solo storicamente, sarebbe simile a colui che venisse costretto ad astenersi dal sonno, o all’animale che dovesse vivere solo ruminando e sempre per ripetuta ruminazione. Dunque, è possibile vivere quasi senza ricordo, anzi vivere felicemente, come mostra l’animale; ma è assolutamente impossibile vivere in generale senza oblio. Ovvero, per spiegarmi su questo tema ancor più semplicemente: c’è un grado di insonnia, di ruminazione, di senso storico, in cui l’essere vivente riceve danno e alla fine perisce, si tratti poi di un uomo, di un popolo o di una civiltà (Sull’utilità e sul danno della storia per la vita, 1).

Per poter vivere nel presente, sostiene Nietzsche, occorre dimenticare il passato, che altrimenti ci sovrasterebbe e paralizzerebbe. Ciò non significa che la storia, fondata sulla memoria del passato, sia sempre dannosa: la cosa 124

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Nietzsche La vita e la storia

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importante è ricordare nel momento giusto e nella misura adeguata. La storia deve, quindi, essere posta al servizio della vita, non viceversa. Nietzsche distingue tre tipi di storia, ciascuno dei quali è necessario entro certi limiti per il vivente. Ciascun tipo di storia è infatti nel suo diritto se rimane sul suo terreno; in caso contrario, produce soltanto atteggiamenti unilaterali dannosi per la vita. I rischi inerenti a ogni tipo di storia possono essere combattuti soltanto attraverso la limitazione derivante dagli altri.

i tre tipi di storia

La storia monumentale guarda al passato per rintracciarvi modelli e maestri che non può trovare nel presente. Essa è, dunque, propria di chi è attivo e nutre aspirazioni: dall’osservazione delle vette del passato (i monumenti) deduce che la grandezza fu una volta possibile e lo sarà ancora.

la storia monumentale...

Questo tipo di storia, tuttavia, ha anche un risvolto negativo: a) danneggia il passato stesso, perché dimentica molte parti di esso allo scopo di far emergere soltanto singoli fatti abbelliti; b) può spingere al fanatismo, ossia a identificarsi con questi monumenti del passato, oppure paralizzare la libera creazione artistica, quando i modelli appaiono ineguagliabili.

... e i suoi limiti

La storia antiquaria induce a guardare con fedeltà e amore al passato da cui si proviene, trattandolo con venerazione anche nei suoi aspetti più minuti. Questo tipo di storia è utile alla vita, in quanto ci fa sentire eredi di un passato meritevole di essere conservato.

la storia antiquaria...

Anch’essa, tuttavia, può costituire un pericolo, perché limita il proprio campo visivo soltanto alla tradizione a cui si appartiene e porta ad accettare tutto il passato in quanto è passato, rifiutando invece tutto ciò che è nuovo. In tal modo, dominata da una «furia collezionistica», essa mummifica la vita – non più ravvivata dalla freschezza del presente – e paralizza l’azione.

... e i suoi limiti

La storia critica è propria di chi soffre e ha bisogno di liberarsi del passato per poter vivere: essa porta il passato davanti a un tribunale e lo condanna. Il pericolo di questo tipo di storia è dato dal fatto che questa condanna non elimina la nostra provenienza dal passato: è impossibile, infatti, staccarsi del tutto dalla catena che ci lega a esso.

la storia critica: pregi e difetti

Ma che rapporto c’è oggi, secondo Nietzsche, tra storia e vita? La storia è diventata scienza oggettiva, priva di legami con la vita. La cultura moderna non è, dunque, vera cultura: essa non è viva, ma soltanto una forma di sapere sulla cultura. Per eccesso di storia nasce la presunzione che l’epoca presente sia più giusta di ogni altra epoca, in quanto avrebbe a sua disposizione il sapere oggettivo che permette di misurare imparzialmente il passato. In realtà, ciò conduce – secondo Nietzsche – ad adattare il passato alle opinioni correnti del presente. Ma perché l’ultimo venuto dovrebbe avere il diritto di giudicare chi è vissuto prima? Solo chi costruisce il futuro ha diritto di giudicare il passato, non chi vive adagiato nel presente, paralizzato nelle sue forze vitali. Gli errori del mondo moderno sono quelli di idolatrare il fatto compiuto, di considerare l’epoca attuale come il massimo compimento del processo storico e di ritenere che le masse – proprio perché costituite da molti individui – possano generare qualcosa di grande.

la critica dello storicismo

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gli avversari della conoscenza storica

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Quali sono, dunque, in questa fase del pensiero di Nietzsche, gli antidoti alla malattia storica? Egli ne individua due: 1) l’antistorico – ossia la forza di poter dimenticare; 2) il sovrastorico – ossia la religione, che ha la potenza di distogliere lo sguardo dal divenire per dirigerlo verso ciò che è eterno e immutabile. Non a caso la scienza storica vede nell’arte e nella religione potenti avversari, in quanto essa odia l’oblio e tende a escludere l’eterno. Ma la vita deve dominare la storia, perché una conoscenza che distruggesse la vita distruggerebbe anche se stessa.

4. La scienza e lo «spirito libero» la svolta «illuministica»: dall’arte alla scienza

La pubblicazione di Umano, troppo umano (1878) – dedicato a Voltaire – segna una svolta nella filosofia di Nietzsche. Egli prosegue la polemica contro la cultura del proprio tempo e le esaltazioni del progresso storico, ma non ravvisa più nell’arte la via per uscire dalla decadenza, bensì nella scienza. Nietzsche ora guarda con interesse, da una parte, all’Illuminismo e ai moralisti francesi del Seicento e del Settecento e, dall’altra, alle scienze naturali. In questa fase la scienza è valutata positivamente da Nietzsche non tanto perché è in grado di pervenire a conoscenze oggettive, bensì perché comporta un atteggiamento metodico e spregiudicato di fronte ai valori correnti, alle abitudini e alle regole imposte dalla società. Infatti, la scienza stessa ha la sua origine e giustificazione nei bisogni della vita: secondo Nietzsche, la conoscenza si è imposta come un bisogno essenziale e, in quanto tale, ha assunto un potere sempre più vasto nel mondo moderno. Ma questo potere crescente non dipende dal fatto che la scienza sia un sapere disinteressato, capace di cogliere la verità. Infatti, anche l’errore può essere utile alla vita e la stessa promozione della scienza nell’età moderna è avvenuta grazie ad alcuni errori inconsapevoli.

la scienza non conosce la realtà in sé

Alla scienza sono stati erroneamente attribuiti il potere di cogliere la bontà e la sapienza divina che regge l’universo e la prerogativa di essere lo strumento per realizzare la felicità umana. Sono questi errori che hanno accresciuto il peso della scienza nella vita moderna. In realtà, la rappresentazione del mondo fornita dalle scienze non coglie affatto le cose come sono in se stesse, in quanto non può andare oltre l’apparenza. Anche la scienza, infatti, ben lungi dall’essere disinteressata e neutrale, nasce dal bisogno vitale di avere certezze e rassicurazioni: è tale bisogno che ha fatto escogitare il metodo della conoscenza scientifica.

alla base della scienza vi sono i bisogni vitali

Quest’ultimo si basa sulla credenza nei legami causali tra cose ed eventi, sulla possibilità di numerare e di compiere astrazioni e generalizzazioni, allo scopo di cogliere presunte essenze stabili delle cose. Ammettere che la scienza possa nascere da errori e da bisogni vitali sembra in contrasto con l’assoluta oggettività che di consueto le viene riconosciuta. Eppure è possibile, secondo Nietzsche, che nella scienza l’interesse personale giochi un ruolo più importante della verità oggettiva e disinteressata, anzi è possibile

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che i due piani siano intrecciati, anziché contrastanti. La filosofia e la scienza hanno dunque la loro ultima origine – più che nell’istinto di conoscenza – in un istinto vitale che si è servito della conoscenza come strumento per la vita stessa.

5. Alle origini della morale Anche il dominio della morale si è costruito, secondo Nietzsche, a partire da presupposti ed errori inconsapevoli. Per questa ragione, esso deve essere sottoposto a un’indagine genealogica, ovvero a un’analisi storica che scopra l’origine delle idee morali e ne ricostruisca le trasformazioni ( genealogia della morale ). Ciò significa che non esistono valori assoluti, ma che i valori e le norme morali – alle quali la vita viene di volta in volta assoggettata – hanno la loro radice nella vita stessa e sono il prodotto di fattori «umani, troppo umani». Pensare a ciò che accade in termini morali – di bene o di male – equivale a ritenere che la natura sia orientata finalisticamente, proprio come l’agire umano. Ma le nozioni di buono e cattivo sono estranee alla natura: il divenire è di per sé innocente. Secondo Nietzsche, dunque, l’uomo è stato educato alla moralità attraverso un processo che lo ha condotto ad attribuire a se stesso qualità puramente immaginarie.

la genesi della morale nella vita dell’uomo

Anche la credenza in un io sostanziale e unitario è puramente illusoria: Nietzsche, infatti, contesta l’evidenza dell’ego cogito («io penso») cartesiano, in base al quale io esisto come qualcosa che pensa e pensare è l’attività di un essere concepito come causa del pensiero. Per sostenere ciò dovrei già sapere che cosa sia il pensare. In realtà, nulla impedisce di sostenere che un pensiero sopraggiunga per iniziativa propria, non perché sono io a volerlo.

l’illusoria credenza nell’io

Non soltanto l’idea di un io sostanziale, ma anche il principio che esista una libertà del volere è del tutto illusorio: in base a esso si crede che esistano azioni morali di cui ciascuno sarebbe responsabile. Questa credenza presuppone che chi compie un’azione, la compia sulla base di una conoscenza. In questo senso, Socrate e Platone avevano nutrito il pregiudizio che alla retta conoscenza dovesse seguire la retta azione; ma ciò, secondo Nietzsche, è continuamente smentito dai fatti. Infatti, nello svolgimento dell’azione entrano in gioco fattori non riducibili alla sola conoscenza, i quali sfuggono all’agente. Detto altrimenti, la scelta di compiere una certa azione non è mai del tutto consapevole e libera.

i moventi delle azioni sono inconsapevoli

Non si può dimostrare che il vero movente delle azioni risieda nella libertà del volere; esso va piuttosto ricercato nell’istinto di conservazione o, meglio, nell’istinto che spinge a procurarsi piaceri e a evitare dolori. Ma, se una scelta libera non è possibile, viene meno anche la possibilità di giudicare moralmente i comportamenti umani? Alcune azioni dannose esercitate nei nostri confronti sono da noi giudicate «cattive» in base all’assunto erroneo che chi ce le infligge sia dotato di una volontà libera: da questa nostra credenza scaturisce il desiderio di vendetta. In realtà queste azioni – che ap-

la ricerca del piacere e la credenza nella volontà libera

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paiono «cattive» a chi le subisce – sono compiute dall’agente allo scopo di procurare piacere a se stesso, non dolore a un altro. Quando si formula un giudizio di valore su un’azione, l’errore consiste nell’assumere come unità di misura l’effetto di essa sugli altri, mettendo in secondo piano l’agente stesso – ovvero il fatto che tale azione risulti utile o dannosa per lui. la società ha sostituito l’utile individuale con l’utile sociale

Da questo errore – comune ai più – trae origine l’idea che le regole della morale siano stabilite dalla società e che l’interesse generale debba prevalere su quello individuale. In realtà, questo modo di pensare è il frutto di un processo di occultamento delle origini individualistiche e utilitaristiche della morale. Per giungere a questo risultato, infatti, la società ha dovuto lottare contro la ricerca egoistica del piacere e dell’utile. In tal modo, essa è pervenuta a trovare i veri moventi dell’azione non nell’utile e nel piacere individuali, ma nell’interesse generale e nel bene comune. Questi valori, tuttavia, non sono – secondo Nietzsche – supremi e oggettivi, giacché anche dietro a essi si nasconde l’utile. La sola differenza è che essi promuovono l’utile sociale anziché quello individuale.

il bene e il male

Come si è visto, la società è la matrice fondamentale dei giudizi di valore. Certi valori possono essere storicamente considerati ora buoni ora cattivi, ma la gerarchia tra i valori è stabilita sempre dai più forti a scapito dei più deboli. In termini nietzscheani, la differenza tra il bene e male è sempre imposta dai signori (coloro che dominano) agli schiavi (coloro che sono dominati): i primi sono detti «i buoni» e i secondi «i cattivi» . Sono i più potenti a imporre i criteri della valutazione morale, elevando se stessi e le proprie azioni a unità di misura di ciò che è buono. Sono loro a vietare a tutti gli altri il diritto di agire in vista del proprio piacere individuale, perché ciò minaccerebbe il loro potere e la loro autorità. In questo quadro, bene è tutto ciò che garantisce e rafforza il potere del gruppo dominante; viceversa, male è tutto ciò che lo minaccia e lo indebolisce. Quando sono i dominatori a determinare la nozione di «buono», sono gli stati di elevazione e di fierezza dell’anima che vengono avvertiti come il tratto distintivo e qualificante della gerarchia. L’uomo nobile separa da sé quegli individui nei quali si esprime il contrario di tali stati d’elevazione e di fierezza – egli li disprezza. [...] L’uomo di specie nobile sente se stesso come determinante il valore, non ha bisogno di riscuotere approvazione, il suo giudizio è «quel che è dannoso a me, è dannoso in se stesso», conosce se stesso come quel che unicamente conferisce dignità alle cose, egli è creatore di valori. Onorano tutto quanto sanno appartenere a sé: una siffatta morale è autoglorificazione. Sta in primo piano il senso della pienezza, della potenza che vuole straripare, la felicità della massima tensione, la coscienza di una ricchezza che vorrebbe donare e largire – anche l’uomo nobile presta soccorso allo sventurato, ma non o quasi non per pietà, bensì piuttosto per un impulso generato dalla sovrabbondanza di potenza. L’uomo nobile onora in se stesso il possente, nonché colui che sa parlare e tacere, che esercita con diletto severità e durezza contro se medesimo e nutre venerazione per tutto quanto è severo e duro (Al di là del bene e del male, cap. 9, § 260).

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Nietzsche Morale dei signori e morale degli schiavi

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In linea generale, i più accolgono la gerarchia dei valori imposta dai signori per paura: in questa situazione essi non misurano le cose e le azioni in base al piacere o al dispiacere che esse procurano loro, ma fingono di condividere i giudizi di valore dominanti. Col tempo questi criteri morali si trasformano in abitudini, inducendo ad attribuire un valore supremo al sacrificio di sé e all’altruismo. Ciò significa che i più non fanno nulla per se stessi, ma cercano di conformarsi a un modello di uomo, che è solo una finzione costruita da chi detiene il potere per il proprio vantaggio. Con l’introduzione della morale si apre un solco fra la natura e la società, sicché la morale viene a configurarsi come strumento di dominio e di repressione dell’individualità da parte della comunità. Le azioni degli individui tendono a subordinarsi all’utile della comunità, dando luogo a quello che Nietzsche chiama istinto del gregge. Con queste tesi, Nietzsche si oppone a ogni tentativo ottimistico di costruire una storia edificante. A suo avviso, l’istituzione della società, dell’etica e dello Stato non corrispondono alle tappe di uno sviluppo lineare e non testimoniano affatto il progresso dell’umanità rispetto a una condizione primitiva. Al contrario, secondo Nietzsche, la civiltà presente è il risultato di un progressivo addomesticamento.

la morale e il conformismo

6. Il cristianesimo e la morale del risentimento Nel corso della storia umana sono state escogitate diverse tavole di valori. Malgrado ciò, la morale ha sempre rappresentato – in tutte le sue varianti storiche – una forma di costrizione esercitata sull’individuo. Una svolta decisiva è rappresentata dal cristianesimo. Nietzsche interpreta il cristianesimo come erede del platonismo. Le tesi fondamentali del platonismo sono tre: 1) la netta distinzione tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile (attestato appunto dai sensi corporei); 2) la superiorità del mondo intelligibile – considerato come il fondamento della verità e del valore – sul mondo sensibile – ridotto a semplice apparenza; 3) il distacco dal mondo dell’apparenza sensibile come condizione per accedere al puro mondo delle idee. L’aspirazione verso il mondo intelligibile e la fuga da quello sensibile messe in atto dal platonismo sono divenute, secondo Nietzsche, i presupposti della morale della rinuncia che il cristianesimo avrebbe ereditato e sviluppato.

cristianesimo e platonismo

Nel cristianesimo, tuttavia, la morale della rinuncia inaugurata dal platonismo si sarebbe mescolata con alcuni caratteri specifici della tradizione ebraica. Gli ebrei, secondo Nietzsche, rappresentano emblematicamente gli impotenti, ai quali è negata l’azione. Essi, pertanto, provano odio nei confronti dei potenti e del mondo e si consolano con una vendetta immaginaria. In tal modo, si sarebbe costituita la morale del risentimento, che giunge al suo trionfo con il cristianesimo. In base a essa, le azioni sono avvertite dal soggetto non come manifestazioni della sua forza e della sua accettazione della vita, ma soltanto come reazioni contro ciò che è esterno e contro gli altri. Coloro che si conformano alla morale del risentimento rie-

la radice ebraica del cristianesimo

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scono a dire sì alla vita soltanto perché attribuiscono ad altri la colpa della propria infelicità. l’origine del senso di colpa: tra debito e vendetta

Dal risentimento si sviluppa il senso di colpa, nel quale l’aggressione – anziché scaricarsi all’esterno sugli altri – viene diretta su se stessi: a questo tema è dedicata, in particolare, la seconda dissertazione della Genealogia della morale . La nozione di colpa ha origine dal concetto di debito, ossia di ciò che è dovuto per compensare un danno materiale. Per lungo tempo nella storia umana le pene furono inflitte per ira, non perché si pensava che l’autore di un danno ne fosse responsabile. In altre parole, non si credeva nella libera scelta e pertanto era impossibile giudicare qualcuno colpevole di avere agito in un certo modo – pur potendo agire diversamente. In quelle epoche arcaiche, il piacere di far violenza all’autore di un danno e il dolore che questi ne riceveva erano considerati equivalenti in valore al danno subito. Allora l’umanità non si vergognava della sua crudeltà. Con l’apparizione del Dio cristiano fa la sua comparsa il senso di colpa: si ritiene, infatti, che il dolore e l’infelicità derivino da una colpa commessa nei confronti di Dio, che diventa quindi il massimo creditore. Tratto geniale del cristianesimo è, per Nietzsche, il fatto che sia il creditore stesso (Dio) a sacrificarsi per amore del debitore (l’uomo).

la repressione degli istinti e la creazione di nuovi valori

La colpa trova la sua sede più propria nell’interiorità della coscienza: gli istinti vengono indirizzati verso l’interno, in modo da impedire che si sfoghino all’esterno, sugli altri. Gli istinti dell’uomo primitivo – l’inimicizia, la crudeltà, il piacere dell’aggressione – finiscono così per rivolgersi contro l’uomo stesso. Con il cristianesimo trionfa una nuova malattia, la più grave: la sofferenza che l’uomo impartisce a se stesso. Il fine della moralità è riposto non più nella felicità terrena, bensì nell’infelicità terrena. L’uomo si sente obbligato a fare ciò che non vuole, ma per rendere sopportabile questo dovere finge di agire per amore di Dio e degli uomini, considerati uguali davanti a Dio. Su questa base, i valori morali più importanti diventano l’altruismo, l’abnegazione di sé, l’aspirazione verso ideali ascetici.

il no alla vita

Sin da Platone i filosofi, secondo Nietzsche, hanno provato astio contro la sensualità e il corpo: questo astio, egli trova ora dominante anche in filosofi e artisti da lui prima venerati come Wagner e Schopenhauer. L’ideale ascetico tratta la vita «come un cammino sbagliato» e rappresenta il massimo di risentimento, in quanto vorrebbe signoreggiare sulla vita, usando la forza della vita stessa . Esso è, dunque, costitutivamente legato alla ricerca della sofferenza e conduce alla distruzione della salute e del gusto. Ma in tal modo il cristianesimo manifesta la sua ostilità nei confronti della vita, mascherando la propria nausea per essa con la sua fede in un’altra vita: nel Crepuscolo degli idoli Nietzsche dirà che la vita finisce dove inizia «il regno di Dio».

per i cristiani questa vita non vale nulla

Se il centro di gravità del tutto è spostato fuori della vita, nell’al di là – cioè nel nulla – si elimina il centro di gravità della vita in generale. Infatti, nel cristianesimo la vita è concepita come qualcosa di «essenzialmente immorale» e proprio per questo la si combatte con la morale della negazione di sé, dell’altruismo e della compassione. In realtà, secondo Nietzsche, si prova

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Nietzsche La colpa e l’ascetismo

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compassione per gli altri soltanto perché inconsciamente si pensa a se stessi. Il cristianesimo è, dunque, una religione per sofferenti, che reprime la virilità, la bramosia di potere e – in generale – ogni istinto, ostacolando l’affermazione dei più forti e favorendo i più deboli. Esso, secondo Nietzsche, rappresenta il nichilismo della debolezza, giacché induce l’uomo a essere stanco di se stesso e riduce a niente la vita. Le moderne tendenze democratiche e socialistiche sono, secondo Nietzsche, eredi dirette della morale cristiana. Egualitarismo e umanitarismo hanno la loro matrice nell’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, la quale ha segnato il destino dell’Europa. Grazie a essa, i mediocri e i deboli hanno imparato a considerare se stessi come meta e culmine della storia. Ciò significa che gli uomini del risentimento – le cui parole d’ordine sono il primato della maggioranza, il livellamento e l’abbassamento dell’uomo – rappresentano la retrocessione dell’umanità.

cristianesimo, ideali democratici e socialisti

In questa situazione, l’utilità comune è la base delle valutazioni morali: il compito dello Stato consiste nel proteggere gli individui e nel ricercare il benessere per il maggior numero possibile di uomini. All’interno dello Stato il singolo viene educato al bene comune. Alla base di tutto ciò, secondo Nietzsche, non c’è l’amore del prossimo, ma la paura di innalzare l’individuo al di sopra della massa. Il risultato è una morale dell’equità che promuove il drastico livellamento delle prerogative e dei desideri individuali e che diffonde la mediocrità. Da ciò scaturisce l’infiacchimento dell’umanità: l’ultimo frutto di questo processo è, per Nietzsche, l’emancipazione della donna.

l’utile comune e la morale della mediocrità

In Al di là del bene e del male, Nietzsche auspica un’Europa capace di acquisire una volontà unica, che ponga fine alla commedia degli staterelli e della democrazia. Ciò può avvenire, a suo avviso, soltanto grazie a una nuova casta dominante: il problema europeo è «la disciplina educativa di una nuova classe governante d’Europa». Paradossalmente, la democratizzazione crescente finisce per formare, da una parte, uomini predisposti alla schiavitù e, dall’altra, tiranni che li sottomettono al loro totale controllo. Solo una società aristocratica potrà condurre a una elevazione del tipo «uomo»; la convinzione di una sana aristocrazia è, infatti, che «la società non può esistere per amore della società», ma per consentire l’innalzamento di individui superiori. Sono queste le tesi che impressioneranno maggiormente i lettori di Nietzsche nei primi anni della sua fortuna: riprendendone alcune – quali l’antidemocrazia e l’antiegualitarismo – e lasciandone in disparte altre – come il rifiuto dell’antisemitismo – il nazismo tenterà nel secolo successivo di appropriarsi del suo pensiero.

la nuova guida dell’europa

7. La morte di Dio e l’avvento del superuomo Nei paragrafi precedenti si è visto come Nietzsche abbia cercato di ricostruire la genesi della morale a partire dagli errori che l’hanno resa possibile. Così facendo, egli ha tentato di mostrare che proprio la morale rappre5. nietzsche

la trasvalutazione di tutti i valori

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senta il pericolo maggiore per la vita e per l’uomo. Già in Umano, troppo umano, Nietzsche formula una serie di alternative, che guideranno la sua riflessione successiva: «Non si possono capovolgere tutti i valori? Ed è forse bene il male? È Dio solo un’invenzione e una finezza del diavolo? È forse tutto in ultima analisi falso? E se noi siamo degli ingannati, non siamo per ciò stesso anche ingannatori? Non dobbiamo anche essere ingannatori?». Ma come può avvenire il capovolgimento – o la trasvalutazione (in tedesco Umwertung) – dei valori morali? Secondo Nietzsche, occorre portare sino in fondo l’impulso dell’uomo teoretico alla verità, ossia quell’«incendio» che – a partire da Platone e dalla fede cristiana – si è propagato sino a noi. Attraverso l’amore per la verità, infatti, è possibile smascherare come errori le stesse «verità» su cui si fonda la morale tradizionale: in primo luogo l’idea stessa di verità, e poi la giustizia, l’amore per il prossimo, l’amore per Dio. dal nichilismo passivo a quello attivo

Liberarsi dall’errore vuol dire liberarsi anzitutto dalla credenza erronea che esista la verità. Ciò non deve, tuttavia, portare alla sostituzione di tale errore con un’altra presunta verità: occorre, infatti, andar oltre la contrapposizione fra verità ed errore, giacché entrambi traggono origine dalla vita. Il processo di liberazione dall’errore giunge a compimento, secondo Nietzsche, con l’ateismo assoluto. Non si tratta tanto di dimostrare che Dio non esiste o di prescrivere l’eliminazione di Dio dalla vita, quanto di prendere atto del declino inarrestabile della fede in Dio e della necessità di liberare l’umanità dal senso di colpa. Dal nichilismo della debolezza perseguito dal cristianesimo occorre passare al nichilismo attivo, ossia alla negazione consapevole dei valori morali, delle credenze religiose, dei presupposti gnoseologici su cui si è fondata l’intera tradizione occidentale.

nichilismo passivo e attivo Platonismo/ Cristianesimo

Svalutazione del sensibile Risentimento, senso di colpa, ideali ascetici

Morte di Dio Trasvalutazione (= rovesciamento) di tutti i valori La Verità non esiste

Tramonto dell’uomo platonico-cristiano e avvento del superuomo

Nichilismo passivo Nichilismo attivo Sì alla vita e alla libera creazione di se stessi

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Nietzsche assegna a Zarathustra (ossia Zoroastro, riformatore della religione iranica) il compito di annunciare la «verità nuova» [t15]. A questo singolare personaggio – costruito come contraltare alla figura di Cristo – Nietzsche fa infatti pronunciare la famosa sentenza «Dio è morto» (in tedesco: Gott ist tot). Che cosa significa questa affermazione? Zarathustra asserisce che «Dio è una supposizione», caduta la quale non c’è più nulla da temere né ci sono speranze ultraterrene da nutrire, ma si può tornare a essere fedeli alla terra e alla vita. Zarathustra è «il senza Dio», che proprio per questo ha acquistato una nuova leggerezza, può danzare, ridere e rovesciare le vecchie tavole di valori, in opposizione ai dispregiatori del corpo, ai rassegnati, allo spirito di gravità.

«rimanete fedeli alla terra»

Con la morte di Dio crollano i valori che dicevano no alla vita e cade anche la supposizione dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio. Zarathustra può, quindi, completare il suo annuncio in questi termini: «Morti sono tutti gli dèi: ora vogliamo che il superuomo viva». Non essendoci più un Dio che gli dica che cosa fare, l’uomo deve – con un salto – andare oltre l’uomo com’è stato sinora. Nietzsche, infatti, considera l’uomo come un essere transitorio e lo paragona a una corda tesa fra la bestia e il superuomo . Il superuomo non si trova più – come l’uomo – tra la realtà divina e quella animale, ma fa affidamento soltanto su se stesso ed è pronto a sperimentare nuove forme di vita [t16].

l’annuncio di zarathustra

La nozione di superuomo è andata soggetta a molti fraintendimenti. Nella sua autobiografia – Ecce homo – Nietzsche definisce il superuomo come il «tipo riuscito al massimo grado», radicalmente diverso dall’uomo moderno, buono, cristiano. Egli precisa che sarebbe un errore concepirlo come un eroe o una sorta di mezzo santo e mezzo genio o, addirittura, come l’esemplare di una razza superiore, quasi un ulteriore anello nella catena evolutiva della specie umana. Sarebbe altresì erroneo considerarlo una sorta di modello con tratti e contenuti già definiti nel suo modo di vivere, da proporre all’imitazione di tutti. Ciò equivarrebbe, infatti, a reintrodurre norme e regole d’azione, che soffocherebbero nuovamente la creatività della vita e la formazione di individualità uniche e irripetibili. Più che sostituire nuovi valori ai vecchi, si tratta di eliminare la nozione stessa di valore come norma superiore a cui l’uomo e la vita dovrebbero sottomettersi. Ciò che Zarathustra insegna è una nuova volontà – la volontà libera – capace di creare il nuovo. La morte di Dio e la trasvalutazione dei valori consentono all’uomo di oltrepassare se stesso e di spingersi verso il nuovo, verso ciò che non è ancora stato scoperto né sperimentato. Ma ogni creazione comporta al tempo stesso distruzione: il nuovo può emergere solo attraverso la distruzione del vecchio e, quindi, attraverso la sofferenza.

il superuomo è al di là dell’uomo

8. La volontà di potenza come arte Come si è visto, il superuomo è caratterizzato dalla volontà libera, in quanto dà significato alla propria vita senza subire i condizionamenti della mo5. nietzsche

l’energia inconscia di tutti i viventi

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rale, della religione o della scienza dominanti. Emerge qui il tema della volontà di potenza (in tedesco: Wille zur Macht), presente già in Aurora, ma centrale anche nella Gaia scienza, sul quale Nietzsche ha lasciato numerosi appunti, che costituiranno la base dell’opera postuma pubblicata dalla sorella con questo stesso titolo. La volontà di potenza – energia inconscia propria dei viventi – non ha obiettivi fuori di se stessa, neppure quello dell’autoconservazione. È la morale tradizionale che ha parlato di fini e di intenzioni, ma questa menzogna ha nascosto che alla radice di ogni azione vi è sempre la volontà di potenza. In realtà, anche quando si fa del bene ad altri, lo si fa per mostrare che è vantaggioso per essi rimanere in nostro potere; allo stesso modo, il sacrificio del martire dipende dalla sua avidità di potenza. sì alla vita nella sua interezza

Ma se non sono né i fini né le intenzioni a dare impulso all’azione, che cosa spinge gli uomini ad agire? Secondo Nietzsche, l’unica forza agente è la volontà di potenza, ovvero una quantità di energia accumulata che non attende altro che di esplicarsi. La volontà non è dunque la manifestazione di un presunto io (o anima) – giacché, come abbiamo visto, non esiste un sostrato permanente che causi le nostre azioni [cfr. 5.5]; essa dipende invece dalla vita, che è continuo divenire e necessario superamento di se stessa. Per Nietzsche, la volontà di potenza si configura come un sì detto alla vita in ogni momento e in ogni aspetto – anche al dolore che essa contiene.

oltrepassare se stessi, accrescere la propria energia vitale

In altre parole, la volontà di potenza è essenzialmente volontà che vuole se stessa come potenza e che, quindi, tende incessantemente a potenziarsi e accrescersi . Essa conduce l’uomo ad andare continuamente «oltre (in tedesco: über) se stesso»: il super-uomo (in tedesco: Über-mensch) è colui che riesce a realizzare il continuo oltrepassamento messo in opera dalla volontà. Ciò non significa, tuttavia, che il superuomo persegua intenzionalmente lo scopo di dominare gli altri uomini: in tal caso, infatti, ci troveremmo davanti a una volontà di potenza puramente reattiva, che si lascia condizionare dagli effetti che può produrre su altri.

le interpretazioni e la loro forza vitale

La volontà di potenza è, secondo Nietzsche, alla base delle interpretazioni con cui costruiamo il nostro mondo. Egli afferma che non esistono fatti oggettivi, ma solo interpretazioni. Ogni interpretazione è violenza, unilateralità, aggiunge o toglie qualcosa. Ciò non significa che tutte le interpretazioni, a cui dà luogo la vita, siano equivalenti. Qual è, allora, il criterio per stabilire preferenze tra esse? Secondo Nietzsche, un’interpretazione risulta vera o falsa, giusta o ingiusta, se contribuisce rispettivamente a potenziare o a indebolire la vita. Detto altrimenti, il grado di verità di un’interpretazione dipende dalla quantità di volontà di potenza che si esprime in essa: La verità non è pertanto qualcosa che esista e che sia da trovare, da scoprire, ma qualcosa che è da creare e che dà il nome a un processo, anzi a una volontà di soggiogamento, che di per sé non ha mai fine: introdurre la verità, come un processus in infinitum, un attivo determinare, non un prendere coscienza di qualcosa sia «in sé» fisso e determinato. È una parola per la «volontà di potenza». [...]

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Nietzsche Vita e volontà di potenza

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L’uomo proietta il suo impulso di verità, il suo «fine» in un certo senso fuori di sé come mondo dell’essere, come mondo metafisico, come «cosa in sé», come mondo già esistente. Il suo bisogno inventa già, come creatore, il mondo a cui lavora, lo anticipa: questa anticipazione («questa fede» nella verità) è il suo sostegno. Ogni accadere, ogni movimento, ogni divenire come uno stabilire rapporti di grado e di forza, come una lotta (La volontà di potenza, vol. VIII, t. II, frammento 65).

A coloro che si affidano alla volontà di potenza esclusivamente reattiva – tipica del passato – i filosofi dell’avvenire, liberi dai pregiudizi della morale, potranno insegnare che «l’uomo non è ancora esaurito per le sue possibilità più grandi». La volontà di potenza, infatti, è essenzialmente creazione: con la morte di Dio l’uomo diventa libero di creare se stesso per mezzo della volontà. Zarathustra è, appunto, presentato da Nietzsche come «uno che vede e vuole e crea, egli stesso, un futuro e un ponte verso il futuro». Quando descrive l’aspetto creativo della volontà di potenza, Nietzsche guarda all’arte. La figura del superuomo sembra modellarsi su quella dell’artista: non l’artista insoddisfatto, risentito o ascetico della tradizione romantica, ma quello libero e sano, che dice sì alla vita e non ha bisogno di rassicurazioni filosofiche o religiose o di modelli da seguire.

CONFRONTI

l’arte di creare se stessi

La volontà in Schopenhauer e in Nietzsche

L’influenza di Schopenhauer su Nietzsche riguarda diversi aspetti del pensiero di quest’ultimo: dalla concezione della tragicità e dell’assurdità della vita alla riflessione sull’arte, alla negazione del carattere lineare e progressivo della storia dell’uomo, alla nozione di volontà. Per Schopenhauer la volontà costituisce la vera essenza della realtà, comune a tutti gli esseri, non soltanto organici, ma anche inorganici. Essa si trova al di là del mondo della rappresentazione e delle sue tre forme a priori (spazio, tempo, causalità); per questo motivo, rimane inaccessibile alla conoscenza rappresentativa e può essere raggiunta dall’uomo soltanto grazie all’esperienza corporea. Il corpo – percepito dal-

l’esterno – ricade anch’esso nell’ambito della rappresentazione; esso può, tuttavia, essere percepito anche dall’interno come espressione di una forza primigenia non oggettivabile, che è il volere. Tale volontà – esistendo al di fuori del principio di individuazione che separa e definisce gli enti fenomenici – è unica, eterna e irrazionale: essa si presenta come una forza cieca e priva di scopo che – collocandosi al di là del mondo fenomenico – non può essere colta dalla ragione, e cioè dalla facoltà di cui l’uomo dispone per sintetizzare le rappresentazioni spaziali, temporali e causali, colte invece dalla sensibilità e dall’intelletto. Schopenhauer chiama questa volontà Wille zum Leben, volontà di vivere, e la identi-

fica come un istinto che vuole perpetuare la sopravvivenza e il volere, come la sorgente inesauribile di tutti i bisogni, come la continua aspirazione priva di fine che agita tutti i viventi. Tale volontà noumenica, che si oggettiva fenomenicamente nel corpo e si manifesta anzitutto attraverso gli impulsi e i desideri individuali, è la principale causa dell’infelicità e dell’insoddisfazione dell’uomo. Per porre rimedio alla sofferenza e al dolore, secondo Schopenhauer, è necessario negare il mondo fenomenico e il principio di individuazione su cui esso si basa, cercando così di fuoriuscire dalla catena dei continui bisogni e delle provvisorie soddisfazioni in cui siamo imprigionati. Possiamo qui rilevare una prima distanza tra 5. nietzsche

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Schopenhauer e Nietzsche: il primo indica nell’arte – e poi nell’ascesi – le strade per distaccarsi dal mondo fenomenico e spegnere la fiamma del desiderio, passando dalla voluntas (= volere sempre qualcosa) alla noluntas (= non voler più nulla). Per Nietzsche, invece, l’arte – quella tragica dei Greci, o quella rivoluzionaria prospettata da Wagner – ha il compito di fornire una «giustificazione estetica» al caos della vita e di aiutare l’uomo a non evadere da essa, ma ad accettarla entusiasticamente in tutti i suoi aspetti (gioia, dolore, lotta, incertezza, irrazionalità, ecc.). Nietzsche riprende da Schopenhauer la nozione di volontà, ma le attribuisce un significato e un valore del tutto differenti. La volontà di potenza (in tedesco, Wille zur Macht) di cui parla Nietzsche non va intesa in termini schopenhaue-

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riani, unicamente come volontà di vivere: l’autoconservazione è soltanto una conseguenza indiretta di essa. Il termine indica in Nietzsche – influenzato su questo punto dalle scienze biologiche del tempo – una prerogativa di tutti i viventi. Essa è alla base di ogni azione e corrisponde a una quantità di energia accumulata che tende a estrinsecarsi e potenziarsi incessantemente. La volontà di potenza non ha scopi al di fuori di se stessa: dunque, essa non è subordinata a fini ultraterreni o a princìpi di fede – che finiscono per negare la vita – né alla considerazione degli effetti che il proprio agire può avere su altri. La volontà di potenza dice sì alla vita in maniera incondizionata, in quanto la accetta in tutti i suoi aspetti – anche quelli dolorosi. Contrassegni di essa sono la salute, la forza, la creatività, in opposizione alla ma-

lattia, alla debolezza, alla passività, al risentimento e al senso di colpa. La volontà di potenza consente all’uomo di oltrepassare se stesso e di dive-nire superuomo (über, «oltre», Mensch, «uomo»), e cioè un uomo diverso da quello platonico-cristiano, che si libera delle «menzogne di millenni» ed è capace di vivere senza riferimenti assoluti o certezze metafisiche. Nella prospettiva della volontà di potenza, non vi sono cose in sé, princìpi morali o verità eterne, ma soltanto la libera attività di creazione con cui il superuomo costruisce se stesso e il mondo. La volontà di potenza conferisce significati sempre nuovi alla realtà, senza renderli mai dei princìpi definitivi e senza adeguarsi passivamente a modelli preesistenti, accrescendo continuamente se stessa e il proprio amore incondizionato per la vita.

9. La dottrina dell’eterno ritorno la volontà vince l’irreversibilità del tempo

Abbiamo visto come la volontà di potenza consista nella libera creazione da parte dell’uomo, che cerca di andare incessantemente oltre la sua umanità, formatasi per opera di millenarie convenzioni sociali, morali e religiose. Eppure, nel suo dispiegarsi, la volontà incontra un ostacolo: l’impossibilità di tornare indietro e di modificare il passato. Ma se fosse impacciata dal passato e lo avvertisse come vincolo, la volontà non sarebbe più libera e, quindi, non sarebbe veramente volontà di potenza. Per essere libera, la volontà di potenza deve dire: «Così volli che fosse». È questo l’altro insegnamento fondamentale di Zarathustra: «Tutte le cose eternamente ritornano e noi con esse». L’ eterno ritorno dell’uguale – dice Nietzsche in Ecce homo – è la suprema formula (di origine stoica) con cui si dice sì alla vita, a tutto il piacere e a tutta la sofferenza che essa contiene. Solo se si è pienamente felici si può volere questa ripetizione eterna e soltanto con l’eterno ritorno si supera del tutto il nichilismo passivo, il no alla vita.

ogni attimo è voluto per se stesso

Come si può volere non solo il futuro, ma anche il passato – con tutte le scelte, le gioie e le sofferenze che lo hanno segnato? Il passato si presenta a noi come un dato immodificabile, del tutto fuori dalla sfera d’azione della nostra volontà. Per volere anche il proprio passato, occorre sostituire alla

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concezione lineare e progressiva del tempo – propria del cristianesimo e della mentalità moderna – una concezione ciclica del tempo, in cui ogni istante non sia valutato in funzione degli altri momenti o della totalità del tempo. Questa concezione porta a riconoscere e ad accogliere ogni momento come avente in se stesso un significato e, quindi, a volere che esso ritorni per l’eternità. Nell’aforisma 341 della Gaia scienza, Nietzsche mostra come la prospettiva dell’eterno ritorno permetta di distinguere tra l’uomo platonico-cristiano e il superuomo: per il primo, l’idea di rivivere questa vita – senza la proiezione verso la futura ricompensa ultraterrena – è solo un peso («il peso più grande»); per il superuomo, invece, l’eterno ritorno coincide con l’accettazione entusiastica della propria vita, amata così tanto da volere che essa si ripeta infinite volte. Il peso più grande. Che accadrebbe se, un giorno o una notte, un demone strisciasse furtivo nella più solitaria delle tue solitudini e ti dicesse: «Questa vita, come tu ora la vivi e l’hai vissuta, dovrai viverla ancora una volta e ancora innumerevoli volte, e non ci sarà in essa mai niente di nuovo, ma ogni dolore e ogni piacere e ogni pensiero e sospiro, e ogni indicibilmente piccola e grande cosa della tua vita dovrà fare ritorno a te, e tutte nella stessa sequenza e successione – e così pure questo ragno e questo lume di luna tra i rami e così pure questo attimo e io stesso. L’eterna clessidra dell’esistenza viene sempre di nuovo capovolta e tu con essa, granello della polvere!». Non ti rovesceresti a terra, digrignando i denti e maledicendo il demone che così ha parlato? Oppure hai forse vissuto una volta un attimo immenso, in cui questa sarebbe stata la tua risposta: «Tu sei un dio e mai intesi cosa più divina»? Se quel pensiero ti prendesse in suo potere, a te, quale sei ora, farebbe subire una metamorfosi, e forse ti stritolerebbe; la domanda per qualsiasi cosa: «Vuoi tu questo ancora una volta e ancora innumerevoli volte?» graverebbe sul tuo agire come il peso più grande! Oppure, quanto dovresti amare te stesso e la vita, per non desiderare più alcun’altra cosa che questa ultima eterna sanzione, questo suggello? (Nietzsche, La gaia scienza, libro IV, n. 341)

Si può allora parlare – con gli stoici – di amor fati , una nozione che aveva nell’Antichità – e probabilmente anche in Nietzsche – una base cosmologica. Essa significa infatti non solo sopportare, ma amare tutto ciò che accade necessariamente nel mondo e, quindi, «non voler nulla di diverso da quello che è». Ciò è indispensabile, secondo Nietzsche, per procedere con un salto alla costruzione del superuomo. Per Nietzsche, l’amor fati rappresenta l’antidoto alla morale della rinuncia con la quale il cristianesimo e le varie forme di platonismo hanno spinto gli uomini a mortificare la vita terrena in vista di quella ultraterrena. Volendo l’eterno ritorno di tutto ciò che accade, infatti, il superuomo dimostra di accettare la vita in tutti suoi aspetti – nel suo essere libero gioco di creazione e di distruzione.

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amare la vita così com’è

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in poche... parole Nella seconda metà dell’Ottocento tende a imporsi la convinzione sempre più diffusa che la civiltà occidentale stia procedendo irresistibilmente verso il progresso. Alle scoperte in campo scientifico e tecnico che portano maggiore benessere e sicurezza per tutti si aggiungono la diffusione dell’istruzione pubblica, una legislazione sociale volta a proteggere i ceti più deboli, l’affermarsi in campo politico di tendenze egualitarie. Di fronte a questo quadro, da molti ritenuto positivo, alcuni arretrano sgomenti e si domandano se ciò rappresenti un reale progresso oppure sia soltanto lo stadio terminale di una malattia che ha colpito l’Occidente. Chi più radicalmente si pose questo interroga-tivo fu Friedrich Nietzsche. Le fasi del pensiero nietzscheano sono diverse. 1) Il periodo giovanile è segnato dal forte influsso esercitato da Schopenhauer e da Wagner e dall’interesse per il mondo greco: a questa fase, appartengono scritti come La nascita della tragedia (1872), Considerazioni inattuali (1873-76), in cui Nietzsche cerca di ricostruire la nascita e la decadenza della tragedia attica, attribuendo all’arte il ruolo di fornire una giustificazione estetica della caoticità dell’esistenza. Si tratta anche del periodo in cui Nietzsche sferra un attacco polemico contro le filosofie idealistiche insegnate nelle università tedesche e contro lo storicismo imperante. 2) Il periodo intermedio – soprannominato «illuministico» o «genealogico» – è segnato dalla fiducia nella scienza, intesa non come insieme di conoscenze oggettive, ma come atteggiamento critico e spregiudicato capace di risalire ai bisogni vitali e di ricostruire i processi storici che hanno prodotto le credenze e i valori dell’uomo occidentale. A questo 138

periodo appartengono scritti quali Umano, troppo umano (187880) e La gaia scienza (1882), in cui Nietzsche smaschera il carattere utilitaristico delle nozioni (illusoriamente universali) di bene e di male, la funzione repressiva delle regole sociali, l’origine platonico-cristiana della morale. 3) L’ultima fase del pensiero di Nietzsche è quella che ha inizio con la pubblicazione di Così parlò Zarathustra (1883-85) e che continua fino al 1889, anno in cui le condizioni psichiche del filosofo si aggravano irrimediabilmente. Durante questo periodo, contrassegnato dall’annuncio della morte di Dio e del crollo di tutti gli assoluti, Nietzsche elabora le dottrine del superuomo e della volontà di potenza e ritorna sulla teoria dell’eterno ritorno, anticipata nella Gaia scienza.

apollineo/dionisiaco Coppia di

termini introdotta da Nietzsche per indicare i due impulsi vitali che avrebbero dominato il mondo greco arcaico e dalla cui conciliazione sarebbe sorta la tragedia. Il primo è connesso al dio Apollo e sta a indicare l’aspetto luminoso e rassicurante, che porta a idealizzare la realtà nelle figure degli dèi, che vivono una vita simile a quella degli uomini, ma perfetta. L’impulso connesso a ciò è dunque un impulso che produce belle forme e trova la sua espressione soprattutto nella scultura. Il dionisiaco è invece connesso al dio Dioniso e alle forme di culto legate a questa divinità, che è anche il dio del vino. Esso esprime dunque un impulso di ebbrezza, che induce a dimenticare la propria individualità per immergersi nel caos della vita e riconciliarsi con gli altri e con la natura attraverso la danza e il canto. L’espressione artistica specifica del dionisiaco è data dalla musica. Nella tragedia il mondo delle

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emozioni e della sofferenza viene espresso musicalmente in un mondo apollineo di immagini, ma con Euripide la parte narrativa e recitativa avrebbe preso il sopravvento mettendo in scena l’uomo nella sua quotidianità ed espellendo l’elemento dionisiaco.

genealogia della morale In ter-

mini generali, per «metodo genealogico» Nietzsche intende un tipo di indagine storico-critica, volta a ricostruire l’origine e le trasformazioni delle idee, delle credenze e dei valori sui cui si sono fondate per secoli la mentalità e la condotta dell’uomo occidentale. A suo avviso, infatti, non esistono verità o norme morali di carattere assoluto, poiché ognuna deriva dai bisogni vitali dell’uomo, primo fra tutti quello di rassicurarsi dall’angoscia provata di fronte alla caoticità e alla tragicità dell’esistenza. Grazie a questo metodo, sarà possibile mostrare come spesso un principio o un valore siano stati generati per reazione rispetto a una realtà o a un’esigenza del tutto opposte: «per esempio, il razionale dall’irrazionale, ciò che sente da ciò che è morto, la logica dall’illogicità, il contemplare disinteressato dal bramoso volere, il vivere per gli altri dall’egoismo, la verità dagli errori» (Umano, troppo umano). Nietzsche applica il metodo genealogico alla morale occidentale, per rivelare il carattere illusorio dei suoi presupposti e per risalire alla sua origine storica. Tra i falsi fondamenti della morale, Nietzsche indica: 1) la credenza in un io sostanziale, regista dei propri pensieri e delle proprie azioni; 2) l’esistenza del libero arbitrio; 3) il carattere universale e disinteressato della distinzione tra bene e male. In rapporto a quest’ultimo punto, Nietzsche è convinto che nel mondo arcaico gli individui agivano non misurando l’effetto delle proprie azioni sugli altri, ma solo per pro-

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curarsi piacere ed evitare il dolore: alla base della morale vi è, dunque, la ricerca dell’utile individuale. Inoltre, secondo Nietzsche, la società è possibile solo in quanto educa ognuno a privilegiare l’utile generale rispetto a quello individuale: i valori e le norme vengono imposti dai più forti (i signori) alla massa dei più deboli (gli schiavi), i quali per paura li interiorizzano e si abituano a seguirli. Quanto alle origini storiche della morale, Nietzsche ritiene che l’uomo occidentale moderno sia l’erede della tradizione platonico-cristiana. La commistione del platonismo – con la separazione tra mondo intelligibile e mondo sensibile – e del cristianesimo – con l’invenzione del senso di colpa e dell’uguaglianza di tutti davanti a Dio – ha condotto l’uomo occidentale a reprimere gli istinti vitali e a capovolgere i valori dominanti nelle società arcaiche – l’inimicizia, la crudeltà, il piacere dell’aggressione – in quelli dell’altruismo, dell’abnegazione di sé, dell’umiltà, con l’effetto di ridurre a niente la vita terrena, in attesa dell’al di là.

morte di Dio In Così parlò Zarathustra, Nietzsche fa annunciare a

Zarathustra – il riformatore dell’antica religione iranica del mazdeismo – la morte di Dio. Dopo un lungo periodo di meditazione solitaria, Zarathustra torna in mezzo agli uomini per diffondere la «verità nuova»: si tratta dell’avvento del superuomo, e cioè di un nuovo tipo di uomo che si è liberato della fede in Dio, ha smesso di nutrire speranze ultraterrene, vive al di là del bene e del male, dicendo sì alla vita in tutti i suoi aspetti e sperimentando liberamente nuove forme di esistenza. In questo quadro, la morte di Dio non costituisce soltanto l’affermazione di un radicale ateismo verso tutte le religioni che prospettano soluzioni anti-vitali e anti-mondane, ma anche la fine della nozione stessa di Verità e Valore, e cioè di tutte le certezze me-

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tafisiche assolute (di carattere gnoseologico, morale o religioso) che l’uomo si è costruito per conferire un ordine rassicurante al flusso caotico della realtà. Nella seconda metà dell’Ottocento, il vecchio Dio cristiano è stato infatti rimpiazzato da altre strutture metafisiche, a cui si è comunque riconosciuto il carattere di fondamento esplicativo della realtà o di valore di tutti i valori: ad esempio, l’adorazione positivistica del «fatto», la fiducia nel progresso storico, le tendenze democratiche e socialistiche, ecc. L’accettazione della morte di Dio costituisce il primo passo verso la nascita del superuomo, il solo in grado di vivere rinunciando a tutti gli assoluti e di creare il nuovo, senza subire la costrizione di princìpi o norme superiori.

nichilismo Dottrina che nega la

realtà delle cose o dei concetti e dei valori che sono comunemente considerati importanti. Nichilisti erano detti i rivoluzionari russi dell’Ottocento, che operavano per l’abbattimento totale dell’ordine e dei valori dominanti. Nietzsche ha distinto due forme di nichilismo: 1) il nichilismo passivo (o della debolezza), proprio della tradizione cristiana occidentale, il quale dice no alla vita; 2) il nichilismo attivo, che annuncia la morte di Dio – inteso come fondamento dei valori di questa tradizione – e il tramonto dell’uomo. In tal modo, il nichilismo attivo prepara l’avvento del superuomo ed è espressione della volontà di potenza che dice sì alla vita in tutti i suoi aspetti.

superuomo Termine introdotto da Nietzsche per indicare la figura che va oltre l’uomo formatosi storicamente sotto l’influsso della morale, del platonismo e del cristianesimo. In tal senso, il superuomo è l’opposto dell’uomo che soffoca gli impulsi vitali, svaluta la corporeità e la vita, sacrifica se stesso a favore di altri e della società. Prendendo atto della morte

di Dio e del declino inarrestabile della fede in Dio, vengono a cadere il timore di future punizioni divine e la speranza in un mondo ultraterreno superiore a quello terreno. In tal modo il superuomo può con un salto abbandonare i vecchi codici di valori e superare l’uomo com’è stato sinora. Perfino l’uomo, infatti, al pari di tutte le cose che sempre divengono, è un’entità transitoria. Il superuomo poggia soltanto su se stesso – non più su Dio – e dice sì alla vita, accettandola in tutti i suoi aspetti.

eterno ritorno Nietzsche presenta la dottrina dell’eterno ritorno nell’aforisma 341 della Gaia scienza [cfr. p. 137] e in un capitolo, intitolato «La visione e l’enigma», della parte III di Così parlò Zarathustra. La dottrina dell’eterno ritorno deve essere compresa in relazione alle nozioni di superuomo e di volontà di potenza. Il superuomo, come si è visto, è colui che crea liberamente se stesso attraverso la volontà di potenza, e cioè assecondando la spinta incessante ad oltrepassare se stesso verso nuove forme di vita. Il principale scoglio al totale dispiegamento della volontà di potenza è rappresentato dall’irreversibilità del tempo: il passato, infatti, appare come un dato immodificabile, che vincola irrevocabilmente le scelte presenti e ostacola la creatività del superuomo. Di qui l’esigenza di volere non solo il presente e il futuro, ma anche il passato: «Ogni ‘così fu’ è un frammento, un enigma, una casualità orrida – fin quando la volontà che crea non dica anche: ‘ma così volli che fosse!’ – Finché la volontà che crea non dica anche: ‘ma io così voglio! Così vorrò!» (Così parlò Zarathustra, parte II, Della redenzione). Per far ciò, occorre rinunciare alla concezione unidirezionale del tempo, propria della tradizione ebraico-cristiana, e adottare la concezione ciclica, 5. nietzsche

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di origine storica, secondo la quale – terminato un ciclo cosmico – tutto ciò che è accaduto nel mondo si ripeterà infinite volte, sempre nello stesso modo. Mentre nella concezione progressiva del tempo, ogni istante è destinato a essere consumato dal successivo e a differire il proprio valore nel futuro, nella concezione ciclica

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ogni attimo è dotato di significato in se stesso. Volendo l’eterno ritorno di tutto ciò che accade, dunque, il superuomo non rinvia la propria felicità in un ipotetico altrove, ma dimostra di amare ogni attimo della sua vita, con le sue gioie e i suoi dolori.

amor fati Espressione latina che

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significa letteralmente «amore del fato o del destino», usata da Nietzsche per indicare non tanto l’accettazione passiva, quanto piuttosto l’amore di tutto ciò che accade necessariamente nel mondo. Esso è un tratto fondamentale del superuomo, che accetta integralmente la vita e non vuole nulla di diverso da ciò che è.

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i testi t14 Nietzsche / Apollineo e dionisiaco Nietzsche

La nascita della tragedia

1-3 passim

La nascita della tragedia è la prima opera pubblicata da Nietzsche: essa comparve nel gennaio del 1872 e, in una seconda edizione migliorata, nel 1874, ma ebbe una lunga gestazione. Nietzsche cominciò a lavorarvi già nell’inverno fra il 1868 e il 1869 e, agli inizi del 1870, tenne due conferenze, a Basilea, su «Il dramma musicale greco» e su «Socrate e la tragedia», il cui contenuto anticipa il volume. Esso ha per oggetto non soltanto la tragedia, ma l’intera cultura ellenica, dalle sue manifestazioni più arcaiche sino alla sua decadenza, iniziata con Socrate e culminata nell’età alessandrina. Questa interpretazione complessiva del mondo greco è intrecciata da Nietzsche con la sua concezione filosofica della vita, che tuttavia assume la forma non di una trattazione sistematica, ma di una ricostruzione storica del passato e dei suoi effetti sul mondo moderno. Qui sono riportati i capitoli iniziali, nei quali Nietzsche distingue e descrive i due impulsi dominanti nell’esperienza della vita e del mondo, propria dei Greci, l’apollineo e il dionisiaco, e le espressioni artistiche corrispondenti a essi.

L’apollineo Avremo acquistato molto per la scienza estetica, quando saremo giunti non soltanto alla comprensione logica, ma anche alla sicurezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco, similmente a come la generazione dipende dalla dualità dei sessi, attraverso una continua lotta e una riconciliazione che interviene solo periodicamente1. Questi nomi noi li prendiamo a prestito dai greci, che rendono percepibili a chi capisce le profonde dottrine occulte della loro visione dell’arte non certo mediante concetti, bensì mediante le forme incisivamente chiare del loro mondo di dèi. Alle loro due divinità artistiche, Apollo e 1. Come obiettivo della propria trattazione, Nietzsche indica la costruzione di una teoria dell’arte, la quale parte però da un’intuizione, più che da una dimostrazione logica in termini puramente concettuali. Si tratta dell’intuizione che fa cogliere come alla base dell’arte esistano due istinti o impulsi fondamentali, paragonati da Nietzsche alle due polarità antagonistiche del maschile e del femminile. L’arte si afferma pienamente soltanto quando tra

Dioniso, si riallaccia la nostra conoscenza del fatto che nel mondo greco sussiste un enorme contrasto, per origine e per fini, fra l’arte dello scultore, l’apollinea, e l’arte non figurativa della musica, quella di Dioniso: i due impulsi così diversi procedono l’uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio fra loro e con un’eccitazione reciproca a frutti sempre nuovi e più robusti, per perpetuare in essi la lotta di quell’antitesi, che il comune termine «arte» solo apparentemente supera; finché da ultimo, per un miracoloso atto metafisico della «volontà» ellenica, appaiono accoppiati l’uno all’altro e in questo accoppiamento producono finalmente l’opera d’arte altrettanto dionisiaca che apollinea della tragedia attica2.

questi due istinti contrastanti avviene una riconciliazione. L’intuizione può cogliere questo fatto, secondo Nietzsche, se si guarda al mondo greco e, in particolare, agli dèi dei Greci: qui emergono due divinità, Apollo e Dioniso, che Nietzsche chiama «artistiche», in quanto appaiono legate alle due manifestazioni artistiche antitetiche della scultura e della musica. 2. Le due arti, scultura e musica, sono riconducibili a due impulsi contrastanti,

che Nietzsche equipara ai due fenomeni fisiologici del sogno e dell’ebbrezza: in questo senso, esse hanno un legame intrinseco con esperienze della vita. Nella tragedia attica questi due impulsi riescono a fondersi, dando luogo alla forma più alta di arte, ma ciò non dipende dall’iniziativa consapevole di singoli poeti, bensì è frutto di quello che Nietzsche chiama «un miracoloso atto metafisico», dipendente da una volontà sovraindividuale. Nietzsche riprende

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Per accostarci di più a quei due impulsi, immaginiamoli innazitutto come i mondi artistici separati del sogno e dell’ebbrezza; fra questi fenomeni fisiologici si può notare un contrasto corrispondente a quello fra l’apollineo e il dionisiaco. Nel sogno apparvero dapprima alle anime degli uomini, secondo la rappresentazione di Lucrezio3, le magnifiche figure degli dèi; nel sogno il grande scultore vide le incantevoli forme di esseri sovrumani, e il poeta ellenico, interrogato sui segreti della creazione poetica, avrebbe ugualmente ricordato il sogno e dato un ammaestramento simile a quello che Hans Sachs dà nei Maestri cantori: Amico mio, proprio questa è l’opera del poeta, che egli interpreti e noti il suo sognare. Credetemi, la più vera illusione dell’uomo gli viene aperta nel sogno: ogni arte poetica e poesia non è che interpretazione del sogno vero4. La bella parvenza dei mondi del sogno, nella cui produzione ogni uomo è artista pieno, è il presupposto di ogni arte figurativa, anzi, come vedremo, altresì di una metà essenziale della poesia. Nella comprensione immediata della figura noi godiamo, tutte le forme ci parlano, non c’è niente di indifferente e di non necessario. [...] questo concetto di volontà da Schopenhauer: come essa conduce talvolta i due sessi opposti ad accoppiarsi e in tal modo a generare nuova vita, così avviene anche con questi due impulsi artistici contrapposti. 3. Il riferimento è a Lucrezio, Sulla natura delle cose, V, 1169-1182. È propria dell’epicureismo la concezione secondo cui gli dèi esistono: poiché ogni conoscenza ha il suo punto di partenza nella percezione di immagini formate da atomi provenienti dagli oggetti, le quali riproducono le sembianze di questi oggetti, così sarà anche per la conoscenza degli dèi. In questa prospettiva, il sogno è interpretato come una delle esperienze nelle quali ha luogo la percezione delle immagini delle divinità [cfr. vol. I, 6.5]. 4. Sono versi pronunciati dall’artigiano-poeta Hans Sachs, uno dei protagonisti dell’opera di Wagner I maestri cantori di Norimberga. Il sogno è presentato da Nietzsche come l’ambito nel

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5. nietzsche

Il dionisiaco Sotto l’incantesimo del dionisiaco non solo si restringe il legame fra uomo e uomo, ma anche la natura estraniata, ostile e soggiogata celebra di nuovo la sua festa di riconciliazione col suo figlio perduto, l’uomo. La terra offre spontaneamente i suoi doni, e gli animali feroci delle terre rocciose e desertiche si avvicinano pacificamente. Il carro di Dioniso è tutto coperto di fiori e di ghirlande: sotto il suo giogo si avanzano la pantera e la tigre5. Si trasformi l’inno alla «gioia» di Beethoven in un quadro e non si rimanga indietro con l’immaginazione, quando i milioni si prosternano rabbrividendo nella polvere: così ci si potrà avvicinare al dionisiaco6. Ora lo schiavo è uomo libero, ora s’infrangono tutte le rigide, ostili delimitazioni che la necessità, l’arbitrio o la «moda sfacciata» hanno stabilite fra gli uomini7. Ora, nel vangelo dell’armonia universale, ognuno si sente non solo riunito, riconciliato, fuso col suo prossimo, ma addirittura uno con esso, come se il velo di Maia fosse stato strappato e sventolasse ormai in brandelli davanti alla misteriosa unità originaria8. Cantando e danzando, l’uomo si manifesta come membro di una comunità superiore: ha disimparato a camminare e a parlare ed è sul punto

quale la realtà viene idealizzata e le figure appaiono in tutto lo splendore della loro bellezza. In questo senso, il sogno è l’ambito appropriato per la manifestazione del divino nella sua forma apollinea, ossia bella, serena e armoniosa. D’altra parte, è proprio questa idealizzazione che fa del sogno stesso un mondo illusorio, contrastante con il dolore ineliminabile dall’esistenza umana. 5. Nell’esperienza legata al culto del dio Dioniso, al quale era attribuita, fra l’altro, l’invenzione del vino, l’impulso dominante era, secondo Nietzsche, l’ebbrezza, che trovava espressione nella danza e nel canto corale. Grazie a essa il singolo cessava di avvertirsi come tale e, quindi, condannato al «principio di individuazione» (di cui aveva parlato Schopenhauer), ma si sentiva congiunto al tutto e alla natura, alla terra e agli animali, che non gli apparivano più come entità distinte da lui e perciò ostili.

6. Il riferimento è all’ultimo tempo

della Nona sinfonia di Beethoven, in cui il coro canta «L’inno alla gioia» di Schiller. In esso risuona l’invito: «Siate abbracciate, o genti (in tedesco, Millionen)», che equivale a un incoraggiamento alla pace e alla concordia universali. 7. L’esperienza dionisiaca è soprattutto un’esperienza di liberazione da ogni vincolo, sia da quello dell’individualità, sia da quelli imposti dalle convenzioni e dalle norme sociali. 8. Era Schopenhauer che aveva mostrato, nell’esperienza che squarcia il «velo di Maya», la via di accesso al principio unitario del tutto: la volontà [cfr. 1.3]. Schopenhauer desumeva l’espressione «velo di Maya» dalla filosofia indiana: essa indicava per lui il mondo illusorio dei fenomeni, dei sogni e del principio di individuazione.

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di volarsene in cielo danzando. Dai suoi gesti parla l’incantesimo. Come ora gli animali parlano, e la terra dà latte e miele, così anche risuona in lui qualcosa di soprannaturale: egli sente se stesso come dio, egli si aggira ora in estasi e in alto, così come in sogno vide aggirarsi gli dèi. L’uomo non è più artista, è divenuto opera d’arte: si rivela qui fra i brividi dell’ebbrezza il potere artistico dell’intera natura, con il massimo appagamento estatico dell’unità originaria9. [...] Il canto e la mimica di tali invasati dai duplici sentimenti furono per il mondo omerico dei greci qualcosa di nuovo e di inaudito. In particolare suscitò in esso spavento e orrore la musica dionisiaca. Se, a quanto sembra, la musica era già conosciuta come un’arte apollinea, lo era solo, parlando rigorosamente, come onda del ritmo, la cui forza plastica veniva sviluppata per la rappresentazione di stati apollinei. La musica di Apollo era architettura dorica in suoni, ma in suoni solo accennati, quali appartengono alla cetra. È tenuto cautamente lontano, come non apollineo, proprio l’elemento che costituisce il carattere della musica dionisiaca, e pertanto della musica in genere, la violenza sconvolgente del suono, la corrente unitaria della melodia e il mondo assolutamente incomparabile dell’armonia10. Nel ditirambo dionisiaco l’uomo viene stimolato al massimo potenziamento di tutte le sue facoltà simboli9. Il culmine dell’esperienza dionisiaca è dato dall’estasi, in cui l’uomo fa tutt’uno con il principio unitario del tutto e, quindi, non è più un individuo separato dal resto. In quest’esperienza l’uomo non è più consapevole nel suo agire e nel suo produrre opere d’arte, anzi si è trasformato egli stesso in un’opera d’arte, in un prodotto della creatività della natura. 10. La musica è l’elemento dominante nella forma d’arte dionisiaca: caratteristica saliente di essa è di non essere subordinata alla rappresentazione, come avviene invece nel caso dell’arte apollinea per eccellenza, la scultura. Lo scatenamento del puro suono ha l’effetto di sconvolgere violentemente la serenità e l’equilibrio, che Nietzsche ritiene propri del mondo descritto nei poemi omerici.

che; qualcosa di mai sentito preme per manifestarsi, l’annientamento del velo di Maia, l’unificazione come genio della specie anzi della natura11. Ora l’essenza della natura deve esprimersi simbolicamente; è necessario un nuovo mondo di simboli, e anzitutto l’intero simbolismo del corpo, non soltanto il simbolismo della bocca, del volto, della parola, ma anche la totale mimica della danza, che muove ritmicamente tutte le membra. In seguito crescono all’improvviso e impetuosamente le altre capacità simboliche, quelle della musica, come ritmica, dinamica e armonia. Per comprendere questo scatenamento totale di tutte le capacità simboliche, l’uomo deve essere già giunto a quel vertice di alienazione di sé che in quelle capacità vuole esprimersi simbolicamente: il ditirambico seguace di Dioniso viene quindi compreso solo dai suoi simili!12 Con quale stupore dové guardare a lui il greco apollineo! [...] Il greco conobbe e sentì i terrori e le atrocità dell’esistenza: per poter comunque vivere, egli dové porre davanti a tutto ciò la splendida nascita sognata degli dèi olimpici. L’enorme differenza verso le forze titaniche della natura, la Moira spietatamente troneggiante su tutte le conoscenze, l’avvoltoio del grande amico degli uomini Promoteo, il destino orrendo del saggio Edipo, la maledizione della stirpe degli Atridi, che costringe Oreste al matricidio, in-

11. Cfr. n. 8. Si ricordi che per Schopenhauer la volontà è il principio infinito che vive in ogni essere della natura e genera inevitabilmente infelicità e dolore, dal momento che ogni volere è sempre segno di una mancanza che si cerca di colmare. A causa della volontà di vivere, gli individui, secondo Schopenhauer, si trovano impigliati in una lotta incessante tra loro; essi pertanto perirebbero, se non intervenisse quello che egli chiamava il «genio della specie», ossia l’amore e il desiderio di accoppiarsi. Per Schopenhauer, dunque, l’amore è anch’esso un prodotto della volontà di vita e non il risultato di scelte individuali. Il ditirambo è la forma musicale poetica, impiegata nei culti dionisiaci per inneggiare al dio. 12. Anche per Schopenhauer la musi-

ca rappresentava la forma più alta di arte: in essa, infatti, si sarebbe manifestato il principio universale della volontà, senza alcuna restrizione in formulazioni concettuali. La musica, infatti, non ha immediati riferimenti semantici a cose, pensieri o immagini: in essa al posto dei concetti e dei segni subentrano i simboli. Secondo Nietzsche, nell’esperienza dionisiaca è addirittura il corpo a farsi simbolo del tutto nella forma della mimica e della danza, poiché esso si muove in sintonia con il flusso della musica. Per raggiungere questo stato, l’uomo deve essere pervenuto al vertice della «alienazione di sé», ossia deve essere uscito totalmente da se stesso come individuo per fare tutt’uno con la natura.

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somma tutta la filosofia del dio silvestre con i suoi esempi mitici, per la quale perirono i melanconici etruschi – fu dai greci ogni volta superata, o comunque nascosta e sottratta alla vista, mediante quel mondo artistico intermedio degli dèi olimpici13. Fu per poter vivere che i greci dovettero, per profondissima necessità, creare questi dèi: questo evento noi dobbiamo senz’altro immaginarlo così, che dall’originario ordinamento divino titanico del terrore fu sviluppato attraverso quell’impulso apollineo di bellezza, in lenti passaggi, l’ordinamento divino olimpico della gioia, allo stesso modo che le rose spuntano da spinosi cespugli. Altrimenti quel popolo che aveva una sensibilità così eccitabile, che bramava così impetuosamente, che aveva un talento così unico per il soffrire, come avrebbe potuto sopportare l’esistenza, se questa non gli fosse stata mostrata nei suoi dèi circonfusa da una gloria superiore? Lo stesso impulso che suscita l’arte, come completamento e perfezionamento dell’esistenza che induce a continuare a vivere, fece anche nascere il mondo olimpico, in cui la «volontà» ellenica si pose di fronte uno specchio trasfiguratore. Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi – la sola teodicea soddisfacente!

13. Nietzsche intende mostrare che

anche nelle profondità del mondo apollineo si cela il mondo dionisiaco. Ciò significa che le immagini e il sogno di dèi che vivono sereni e gioiosi sul monte Olimpo, liberi dalle sofferenze e dall’infelicità, sono escogitati dalla cultura apollinea soltanto allo scopo di mostrare un mondo perfetto, che consenta di continuare a vivere, nonostante i dolori dell’esistenza. La rappresentazione artistica degli dèi olimpici era un modo per nascondere e, in certo modo, superare la potenza ostile della natura. Nietzsche enumera una serie di prota-

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L’esistenza sotto il chiaro sole di dèi simili viene sentita come ciò che è in sé desiderabile, e il vero dolore degli uomini omerici si riferisce al dipartirsi da essa, soprattutto al dipartirsene presto14.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Definisci i concetti di «apollineo» e «dionisiaco». 2. Quali sono le forme d’arte proprie dello spirito apollineo, di quello dionisiaco e della sintesi di entrambi? 3. Che ne è del «principio di individuazione» durante le feste dionisiache? 4. Che differenza c’è tra la musica apollinea e quella dionisiaca? 5. A quale esigenza profonda risponde la creazione del mondo degli dèi olimpici da parte dei Greci? 6. «Così gli dèi giustificano la vita umana vivendola essi stessi – la sola teodicea soddisfacente!». Che cosa intende Nietzsche per teodicea in questo contesto? A quale altro importante filosofo dell’età moderna è legato questo termine?

gonisti di miti, da Prometeo a Edipo e a Oreste, i quali esemplificano il carattere doloroso della vita, ben noto ai Greci. Nel mondo olimpico, escogitato dall’immaginazione, la vita appare invece come trasfigurata e potenziata e, quindi, induce a continuare a vivere. 14. Il contenuto dei poemi omerici è interpretato da Nietzsche come espressione del mondo apollineo e olimpico. Egli richiama l’attenzione sul carattere particolare che, all’interno di essa, verrebbe ad assumere la teodicea. Con questo termine s’intende la dottrina che mira a dimostrare l’esistenza di

una giustizia divina, contro i tentativi di negarla partendo dalla presenza del male nel mondo, interpretato come incompatibile con tale giustizia. Nel mondo olimpico sarebbe la stessa vita condotta dagli dèi a giustificare la vita umana, nel senso che, vivendo la loro vita, gli dèi renderebbero la vita in sé qualcosa di desiderabile per gli uomini. Ciò spiegherebbe, secondo Nietzsche, perché gli eroi omerici avvertano come dolorosa, più che l’esistenza, la morte, l’abbandono della vita.

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t15 Nietzsche / La morte di Dio Nietzsche

La gaia scienza

libro III, § 125; libro V, § 343

La gaia scienza, pubblicata nel 1882 (ma il V libro vi fu aggiunto nella seconda edizione del 1887), esprime il senso di liberazione avvertito da Nietzsche per essere riuscito a cogliere gli errori che soffocano la vita e le impediscono di manifestarsi pienamente. Egli si rende conto che sta verificandosi un evento di portata epocale, l’estinzione della credenza in Dio: è questo evento che consente di liberarsi dalla cappa del passato, da tutti i valori imposti contro la vita, e quindi di procedere in direzione di una nuova scienza contrassegnata dalla «gioia», al di là del bene e del male e delle tendenze metafisiche e ascetiche ostili alla vita. In un capitolo di Ecce homo, intitolato «Perché io sono un destino», Nietzsche dirà che: «La scoperta della morale cristiana è un avvenimento che non ha uguali, una vera catastrofe, chi può far luce su di essa, quindi, è una force majeure, un destino – spacca in due la storia dell’umanità. Si può vivere prima di lui o dopo di lui». Nietzsche vedrà se stesso come il punto di divaricazione tra passato e avvenire e così concluderà, prima di piombare nella sua crisi finale: «Sono stato capito? – Dioniso contro il crocifisso».

L’uomo folle1. Avete sentito di quel folle uomo che accese una lanterna alla chiara luce del mattino, corse al mercato e si mise a gridare incessantemente: «Cerco Dio! Cerco Dio!». E poiché proprio là si trovavano raccolti molti di quelli che non credevano in Dio, suscitò grandi risa. «È forse perduto?» disse uno. «Si è perduto come un bambino?» fece un altro. «Oppure sta ben nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?» – gridavano e ridevano in una gran confusione. Il folle uomo balzò in mezzo a loro e li trapassò con i suoi sguardi: «Dove se n’è andato Dio? – gridò – ve lo voglio dire! Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini! Ma come abbiamo fatto questo? Come potremmo vuotare il mare bevendolo fino all’ultima goccia? Chi ci dètte la spugna per strusciar via l’intero orizzonte? Che mai facemmo, a sciogliere questa terra dalla catena del suo sole? Dov’è che si muove ora? Dov’è che ci moviamo noi? Via da tutti i soli?2 Non è il nostro un eterno precipitare? E 1. Dagli appunti stesi da Nietzsche per la preparazione della Gaia scienza risulta che questo «uomo folle» era da lui identificato con Zarathustra, l’antico leggendario riformatore della religione persiana, che diventerà il protagonista di Così parlò Zarathustra. La raffigurazione dell’uomo folle, che di giorno con la lanterna in mano cerca Dio, è una variazione, ma con una significativa sostituzione di Dio al posto dell’uomo, del-

all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte? Non dobbiamo accendere lanterne la mattina? Dello strepito che fanno i becchini mentre seppelliscono Dio, non udiamo dunque nulla? Non fiutiamo ancora il lezzo della divina putrefazione? Anche gli dèi si decompongono! Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini? Quanto di più sacro e di più possente il mondo possedeva fino ad oggi, si è dissanguato sotto i nostri coltelli; chi detergerà da noi questo sangue? Con quale acqua potremmo noi lavarci? Quali riti espiatòri, quali giuochi sacri dovremo noi inventare? Non è troppo grande, per noi, la grandezza di questa azione? Non dobbiamo noi stessi diventare dèi, per apparire almeno degni di essa?3 Non ci fu mai un’azione

l’aneddoto del cinico Diogene che allo stesso modo andava in giro cercando «l’uomo». 2. Nelle bozze, prima della correzione finale, il testo diceva: «E senza questa linea, senza questo punto – che ne sarà di tutta la nostra architettura? continueranno le nostre case a stare in piedi? continueremo noi stessi a stare in piedi?». Ossia, ora che la fede in Dio sta scomparendo e Dio è morto perché

noi l’abbiamo ucciso, su quali basi poggerà la vita, che finora si è retta su questa credenza e sulla tavola di valori, comandi e divieti costruita a partire da essa? Venuto meno il punto di riferimento saldo rappresentato da Dio, non si rischierà di andare vagando senza direzioni nel nulla? 3. L’evento straordinario della morte di Dio, ucciso dagli uomini che non credono più nella sua esistenza, potrebbe

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più grande: tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione, ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi!». A questo punto il folle uomo tacque, e rivolse di nuovo lo sguardo sui suoi ascoltatori: anch’essi tacevano e lo guardavano stupiti. Finalmente gettò a terra la sua lanterna che andò in frantumi e si spense. «Vengo troppo presto – proseguì – non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino: non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini4. Fulmine e tuono vogliono tempo, il lume delle costellazioni vuole tempo, le azioni vogliono tempo, anche dopo essere state compiute, perché siano vedute e ascoltate. Quest’azione è ancor sempre più lontana da loro delle più lontane costellazioni: eppure son loro che l’hanno compiuta!». Si racconta ancora che l’uomo folle abbia fatto irruzione, quello stesso giorno, in diverse chiese e quivi abbia intonato il suo Requiem æternam Deo. Cacciatone fuori e interrogato, si dice che si fosse limitato a rispondere invariabilmente in questo modo: «Che altro sono ancora queste chiese, se non le fosse e i sepolcri di Dio?». [...] Quel che significa per la nostra serenità. Il maggiore degli avvenimenti più recenti – che «Dio è morto», che la fede nel Dio cristiano è divenuta inaccettabile – comincia già a gettare le sue prime ombre sull’Europa. Almeno a quei pochi, lo sguardo, la diffidenza di sguardo dei quali è abbastanza forte e sottile per questo spettacolo, pare appunto che un qualche sole sia tramontato, che una qualche antica, profonda fiducia si sia capovolta in dubbio: a costoro il nostro vecchio mondo dovrà sembrare ogni giorno più crepuscolare, più sfiduciato, più estraneo, più «antico». Ma in sostanza si può generare un senso di colpa; in realtà, secondo Nietzsche, esso segna un momento di trapasso decisivo, che può essere giustificato soltanto nella prospettiva che gli uomini diventino essi stessi dèi e diano avvio a un’epoca più alta della storia, nella quale con la morte di Dio viene meno anche ogni senso di colpa. In queste proposizioni di Nietzsche si pongono le premesse del tema

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dire, che l’avvenimento stesso è fin troppo grande, troppo distante, troppo alieno dalla capacità di comprensione del maggior numero perché possa dirsi già arrivata anche soltanto notizia di esso; e tanto meno, poi, perché molti già si rendano conto di quel che propriamente è accaduto con questo avvenimento – e di tutto quello che ormai, essendo sepolta questa fede, deve crollare, perché su di essa era stato costruito, e in essa aveva trovato il suo appoggio, e dentro di essa era cresciuto: per esempio tutta la nostra morale europea. Una lunga, copiosa serie di demolizioni, distruzioni, decadimenti, capovolgimenti ci sta ora dinanzi5: chi già da oggi potrebbe aver sufficiente divinazione di tutto questo, per far da maestro e da veggente di questa mostruosa logica dell’orrore, per essere il profeta di un offuscamento e di una eclisse di sole, di cui probabilmente non si è ancora mai visto sulla terra l’uguale?... Perfino noi, per nascita divinatori d’enigmi, noi che siamo in attesa per così dire sulle montagne, piantati fra l’oggi e il domani, interiormente tesi nella contraddizione tra l’oggi e il domani, noi primogeniti e figli prematuri del secolo imminente, noi che già dovremmo scorgere le ombre che ben presto avvolgeranno l’Europa: com’è che perfino noi le guardiamo salire senza una vera partecipazione a questo ottenebramento, soprattutto senza preoccuparci e temere per noi stessi? Siamo forse ancor troppo soggetti alle più immediate conseguenze di questo avvenimento: e queste più immediate conseguenze, le sue conseguenze per noi, contrariamente a quello che ci si potrebbe aspettare, non sono per nulla tristi e rabbuianti, ma piuttosto come un nuovo genere, difficile a descriversi, di luce, di felicità, di ristoro, di rasserenamento, di rincoramento, d’aurora... In re-

del superuomo, anche se tale termine qui non è ancora introdotto. 4. Affiora qui un altro tema persistente nell’opera di Nietzsche: il senso della sua inattualità, la convinzione che quanto egli dice e annuncia è prematuro e in anticipo sui tempi. Egli presenta la sua filosofia come una filosofia per il futuro, la quale tuttavia si innesta su avvenimenti in corso, che sfuggono pe-

rò ai suoi contemporanei. Tale è la morte di Dio, che sono gli uomini ad aver ucciso, senza rendersene conto, tanto è vero che continuano a tributargli onori nelle chiese. 5. In un appunto, Nietzsche precisava che l’evento della morte di Dio oggi sfugge «perché gli avvenimenti più grandi vengono compresi per ultimi e più tardi di tutti gli altri».

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altà, noi filosofi e «spiriti liberi», alla notizia che il vecchio Dio è morto, ci sentiamo come illuminati dai raggi di una nuova aurora; il nostro cuore ne straripa di riconoscenza, di meraviglia, di presentimento, d’attesa, – finalmente l’orizzonte torna ad apparirci libero, anche ammettendo che non è sereno, – finalmente possiamo di nuovo scioglier le vele alle nostre navi, muovere incontro a ogni pericolo; ogni rischio dell’uomo della conoscenza è di nuovo permesso; il mare, il nostro mare, ci sta ancora aperto dinnanzi, forse non vi è ancora mai stato un mare così «aperto»6. 6. La morte di Dio rappresenta l’evento che porta con sé la caduta della vecchia e finora dominante concezione dell’uomo, della sua morale e dei valori collegati a essa, e pertanto può essere salu-

GUIDA ALLA LETTURA 1. Perché la notizia della morte di Dio viene annunciata da un «folle»? Evidenzia sul testo le espressioni che rispondono alla domanda. 2. «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso! Come ci consoleremo noi, gli assassini di tutti gli assassini?»: evidenzia sul testo le espressioni che indicano la risposta di Nietzsche al problema posto dal folle. 3. Quale effetto ha l’annuncio del folle sui filosofi e sugli spiriti liberi? 4. Quale effetto ha la morte di Dio sul futuro della morale europea? Perché?

tato dai veri filosofi, che si trovano in bilico tra il presente e l’avvenire, come una liberazione. Essa, infatti, elimina gli ostacoli che impedivano l’esplorazione di nuove possibilità umane, con

tutti i rischi che può comportare questa apertura verso ciò che non è ancora stato esperimentato né creato.

t16 Nietzsche / Il superuomo Nietzsche

Così parlò Zarathustra

parte I, Prefazione, 3-4; parte IV, 1-3

Così parlò Zarathustra è costituito di quattro parti, pubblicate fra il 1883 e il 1885. Prima di stendere la parte IV, Nietzsche aveva progettato di scrivere un’opera sull’«uomo superiore», ossia su come arrivare, nel mondo odierno dominato dalla plebe e dall’ideale dell’uguaglianza e, di conseguenza, da un indebolimento e abbassamento dell’uomo stesso, a una nuova nobiltà. È questo lo sfondo sul quale viene elaborata la riflessione di Nietzsche sul «superuomo», in connessione col tema della morte di Dio. Il personaggio a cui Nietzsche affida questi temi è Zarathustra, lo Zoroastro dei Greci, l’antico riformatore della religione persiana. Tale opera nietzscheana è costruita, da una parte, sul modello delle antiche raccolte di detti e fatti memorabili di un sapiente e, dall’altra, sulla scrittura in brevi versetti propria dei testi biblici, in particolare dei Vangeli, di cui, per vari aspetti, intende essere la parodia. Nietzsche fa qui l’esperimento di una nuova forma stilistica di prosa poetica, che assume toni lirici e oracolari e presta una particolare attenzione alla musicalità del ritmo e alla ricchezza di immagini e simboli.

Io vi insegno il superuomo. L’uomo è qualcosa che deve essere superato1. Che avete fatto per superarlo? Tutti gli esseri hanno creato qualcosa al di sopra di sé: e voi volete essere il riflusso in questa 1. Chi parla è Zarathustra, che, dopo dieci anni di soggiorno sui monti, giunge in città e parla alla folla radunata nel

grande marea e retrocedere alla bestia piuttosto che superare l’uomo? Che cos’è per l’uomo la scimmia? Un ghigno o una vergogna dolorosa. E questo appunto ha

mercato. Il presupposto dell’affermazione di Zarathustra è che l’uomo non è un’entità fissa e definita una volta per

tutte, ma è ciò che egli può fare di sé creativamente, superandosi, ossia andando appunto «oltre» l’uomo.

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da essere l’uomo per il superuomo: un ghigno o una dolorosa vergogna2. Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia. E il più saggio tra voi non è altro che un’ibrida disarmonia di pianta e spettro. Voglio forse che diventiate uno spettro o una pianta? Ecco, io vi insegno il superuomo! Il superuomo è il senso della terra. Dica la vostra volontà: sia il superuomo il senso della terra! Vi scongiuro, fratelli, rimanete fedeli alla terra e non credete a quelli che vi parlano di sovraterrene speranze! Lo sappiano o no: costoro esercitano il veneficio3. Dispregiatori della vita essi sono, moribondi e avvelenati essi stessi, hanno stancato la terra: possano scomparire! Un tempo il sacrilegio contro Dio era il massimo sacrilegio, ma Dio è morto, e così sono morti anche tutti questi sacrileghi. Commettere il sacrilegio contro la terra, questa è oggi la cosa più orribile, e apprezzare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra!4 In passato l’anima guardava al corpo con disprezzo: e questo disprezzo era allora la cosa più alta: – essa voleva il corpo macilento, orrido, affamato. Pensava, in tal modo, di poter sfuggire al corpo e alla terra. Ma questa anima era anch’essa macilenta, orri-

2. Nietzsche allude alla tematica dar-

winiana dell’evoluzione dell’uomo dalla scimmia, ma la interpreta in chiave etica, più che biologica. Quando un’entità è giudicata qualcosa di vergognoso, essa appare meritevole di essere superata: ciò vale per la scimmia rispetto all’uomo e ciò deve, dunque, valere anche per l’uomo stesso rispetto a ciò che è «oltre» l’uomo, il superuomo. L’evoluzione della civiltà sino al momento attuale dimostra, invece, secondo Nietzsche, che l’uomo, anziché procedere oltre l’uomo stesso, è regredito alla scimmia: è avvenuta, dunque, un’evoluzione alla rovescia, una decadenza. 3. Parlare di speranze ultraterrene

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da e affamata; e crudeltà era la voluttà di questa anima!5 Ma anche voi, fratelli, ditemi: che cosa manifesta il vostro corpo dell’anima vostra? Non è forse la vostra anima indigenza e feccia e miserabile benessere? Davvero, un fiume immondo è l’uomo. Bisogna essere un mare per accogliere un fiume immondo, senza diventare impuri. Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è il mare, nel quale si può inabissare il vostro grande disprezzo. Qual è la massima esperienza che possiate vivere? L’ora del grande disprezzo. L’ora in cui vi prenda lo schifo anche per la vostra felicità e così pure per la vostra ragione e la vostra virtù6. L’ora in cui diciate: «Che importa la mia felicità! Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere. Ma la mia felicità dovrebbe giustificare persino l’esistenza!». L’ora in cui diciate: «Che importa la mia ragione! Forse che essa anela al sapere come il leone al suo cibo? Essa è indigenza e feccia e un miserabile benessere!». L’ora in cui diciate: «Che importa la mia virtù! Finora non mi ha mai reso furioso. Come sono stanco del mio bene e del mio male! Tutto ciò è indigenza e feccia e benessere miserabile!». L’ora in cui diciate: «Che importa la mia giustizia! Non mi vedo trasformato in brace ardente! Ma il giusto è brace ardente!».

equivale a somministrare il veleno che intossica e uccide la vera vita, quella terrena. Costitutiva del superuomo è, invece, la fedeltà alla terra, l’attaccamento alla vita e alla corporeità; mentre la morale contemporanea rappresenta il culmine del disprezzo per la vita. Essa, infatti, è frutto delle filosofie che hanno ridotto il mondo sensibile a pura apparenza, immaginando un vero mondo al di là di quello terreno, e del cristianesimo che, conseguentemente, ha insegnato a riporre le proprie speranze solo nell’aldilà. 4. Oggi che Dio è morto e, con Dio, il presunto mondo sovrasensibile, la terra e la corporeità possono ridiventare i veri oggetti di culto.

5. Nietzsche allude al senso di colpa e

agli ideali ascetici che martoriano il corpo e l’individuo e sono, quindi, anch’essi forme di crudeltà [t20]. 6. Sono qui compendiati i tratti caratteristici, secondo Nietzsche, dell’uomo moderno, che riduce la felicità alla semplice sicurezza della propria vita ed esercita la ragione e la virtù soltanto per frenare il libero manifestarsi della vita. Questo atteggiamento è segno di mancanza e debolezza, di quella che poco dopo Nietzsche chiama «accontentabilità». Il trapasso al superuomo è invece contrassegnato dal disprezzo verso tutto ciò.

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L’ora in cui diciate: «Che importa la mia compassione! Non è forse la compassione la croce cui viene inchiodato chi ama gli uomini? Ma la mia compassione non è crocifissione». Avete già parlato così? Avete mai gridato così? Ah, vi avessi già udito gridare così! Non il vostro peccato – la vostra accontentabilità grida al cielo, la vostra parsimonia nel vostro peccato grida al cielo! Ma dov’è il fulmine che vi lambisca con la sola lingua! Dov’è la demenza che dovrebbe esservi inoculata? Ecco, io vi insegno il superuomo: egli è un fulmine e quella demenza! – Zarathustra aveva detto queste parole, quando uno della folla gridò: «Abbiamo sentito parlare anche troppo di questo funambolo; è ora che ce lo facciate vedere!». E la folla rise di Zarathustra. Ma il funambolo, credendo che ciò fosse detto per lui, si mise all’opera7. Zarathustra invece guardò meravigliato la folla. Poi parlò così: L’uomo è un cavo teso tra la bestia e il superuomo, – un cavo al di sopra di un abisso. Un passaggio periglioso, un periglioso essere in cammino, un periglioso guardarsi indietro e un periglioso rabbrividire e fermarsi. La grandezza dell’uomo è di essere un ponte e non uno scopo: nell’uomo si può amare che egli sia una transizione e un tramonto8. 7. La folla si era radunata nella piazza

del mercato per assistere alle esibizioni di un funambolo, non per ascoltare il discorso di Zarathustra. 8. È qui ribadito chiaramente che l’uomo non è un’entità stabile, ma un «tramonto», nel senso di qualcosa che giunge al termine, e, al tempo stesso, un cammino, una «transizione», nel senso di qualcosa che può condurre oltre l’uomo stesso. Per illustrare questo punto, Nietzsche usa anche la metafora del ponte tra la bestia e il superuomo. Essendo, dunque, qualcosa di transitorio, che può regredire o procedere oltre, l’uomo non può essere concepito come uno scopo finale, qualcosa che abbia valore in se stesso e intorno al quale tutto debba ruotare; esso è, invece, qualcosa che deve tramontare per lasciar sorgere il superuomo. Questo cammino verso il superuomo non è tut-

Io amo coloro che non sanno vivere se non tramontando, poiché essi sono una transizione. Io amo gli uomini del grande disprezzo, perché essi sono anche gli uomini della grande venerazione e frecce che anelano all’altra riva. Io amo coloro che non aspettano di trovare una ragione dietro le stelle per tramontare e offrirsi in sacrificio: bensì si sacrificano alla terra, perché un giorno la terra sia del superuomo. [...] Quando per la prima volta venni dagli uomini commisi la sciocchezza degli eremiti, la grande sciocchezza: mi misi sul mercato9. E quando parlai a tutti, non parlai a nessuno. A sera, però, erano miei compagni funamboli e cadaveri; e io stesso ero quasi un cadavere. Ma il mattino seguente giunse a me una nuova verità: fu allora che imparai a dire: «Che mi importano il mercato e la plebe e il rumore della plebe e gli orecchi della plebe!». Voi, uomini superiori, imparate questo da me: sul mercato nessuno crede a uomini superiori. E, se volete parlare lì, sia pure! Ma la plebe dirà ammiccando: «Noi siamo tutti eguali»10. «Voi uomini superiori, – così ammicca la plebe – non vi sono uomini superiori, noi siamo tutti eguali, l’uomo è uomo; davanti a Dio – siamo tutti eguali!»11. Davanti a Dio! – Ma questo Dio è morto! Da-

tavia sicuro e garantito, anzi comporta l’estremo pericolo, paragonato da Nietzsche alla sospensione su un abisso e alla situazione di un funambolo sulla corda, che, per non cadere, non deve guardarsi indietro né fermarsi. 9. Siamo ora nella parte IV del libro. La scena (che è anche una parodia dell’ultima cena) è ambientata nella caverna in cui dimora Zarathustra: insieme a lui sono a banchetto vari ospiti, uomini e animali. A essi Zarathustra, che riconosce di aver commesso in passato l’errore di aver voluto parlare a tutti e afferma ora con certezza: «Io sono una legge solo per i miei, non sono una legge per tutti», rivolge un discorso concernente l’uomo superiore. 10. Il mercato rappresenta il luogo dove domina la folla, la plebe, il dèmos dei Greci, la cui parola d’ordine è l’uguaglianza di tutti, con la connessa

negazione dell’esistenza di uomini superiori. Con questo riferimento al mercato, Nietzsche allude al luogo pubblico in cui i cittadini delle antiche democrazie greche si riunivano per discutere e prendere deliberazioni comuni su un piano di completa uguaglianza. A ciò, egli contrappone una visione aristocratica, fondata sul riconoscimento della disuguaglianza necessaria tra gli uomini. 11. Il cristianesimo, proclamando l’uguaglianza di tutti gli uomini davanti a Dio, rappresenta di fatto, secondo Nietzsche, un sostegno alle concezioni ugualitarie e democratiche moderne. Per gli uomini superiori, che intendono distinguersi dalla plebe, Dio rappresenta, afferma Nietzsche poco dopo, il «più grande pericolo». Ma se Dio è morto, come proclama Zarathustra, tale morte deve portare inevitabilmente

i testi

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vanti alla plebe, però, noi non vogliamo essere eguali. Uomini superiori, fuggite il mercato! Davanti a Dio! – Ma questo Dio è morto! Uomini superiori, questo Dio era il vostro più grave pericolo. Da quando egli giace nella tomba, voi siete veramente risorti. Solo ora verrà il grande meriggio, solo ora l’uomo superiore diverrà – padrone!12 Avete capito queste parole, fratelli? Voi siete spaventati: il vostro cuore ha le vertigini? Vi si spalanca, qui, l’abisso? Ringhia, qui, contro di voi il cane dell’inferno? Ebbene! Coraggio! Uomini superiori! Solo ora il monte partorirà il futuro degli uomini. Dio è morto: ora noi vogliamo, – che viva il superuomo. I più preoccupati si chiedono oggi: «come può sopravvivere l’uomo?». Zarathustra invece chiede, primo e unico: «come può essere superato l’uomo?»13. Il superuomo mi sta a cuore, egli è la prima e unica cosa, – e non l’uomo: non il prossimo, non il miserrimo, non il più sofferente, non il migliore. – Fratelli miei, ciò che io posso amare nell’uomo è che egli sia un trapasso e un tramonto14. E anche in voi è molto che mi fa amare e sperare. Che voi disprezzaste, ecco, uomini superiori, ciò che mi fa sperare. Gli uomini del grande disprezzo sono, infatti, quelli della grande venerazione. Che voi abbiate disperato, in ciò è molto da onorare. Perché voi non imparaste a rassegnarvi e modestia e senno e diligenza e riguardo e il lungo eccetera delle piccole virtù.

con sé il crollo di ogni ugualitarismo e aprire lo spazio per la formazione di una nuova aristocrazia. 12. La morte di Dio pone fine, al tempo stesso, alla morale degli schiavi, fondata sul risentimento e sullo spirito di vendetta nei confronti dei più forti, e rende dunque possibile il risorgere della figura del padrone. 13. Secondo Nietzsche, la preoccupa-

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5. nietzsche

Ciò che è femmineo, ciò che discende da servi e in particolare tutto l’intruglio plebeo: ciò vuole oggi dominare su tutto il destino dell’uomo – oh, schifo! schifo! schifo! Ciò chiede e chiede e di chiedere non si stanca: «come conservare l’uomo nel modo migliore, per il tempo più lungo, con il massimo del piacere?». Con ciò, essi sono i padroni di oggi. Questi padroni di oggi, oh fratelli miei, superateli, – questa piccola gente: essi sono il pericolo maggiore per il superuomo! Superate, ve ne prego, uomini superiori, le piccole virtù, le piccole assennatezze, i riguardi minuscoli, il brulichio delle formiche, il benessere miserabile, la «felicità del maggior numero»! –

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo le espressioni che permettono di definire il concetto di «superuomo». 2. «Avete percorso il cammino dal verme all’uomo, e molto in voi ha ancora del verme. In passato foste scimmie, e ancor oggi l’uomo è più scimmia di qualsiasi scimmia». Quale messaggio vuole darci Nietzsche con questa affermazione? 3. Nietzsche utilizza in un significato negativo i termini «mercato» e «plebe». Evidenziane le ragioni. 4. «Fratelli miei, ciò che io posso amare nell’uomo è che egli sia un trapasso e un tramonto». Commenta questo passo riportando le opportune citazioni del testo. 5. «Superate, ve ne prego, uomini superiori, le piccole virtù, le piccole assennatezze, i riguardi minuscoli, il brulichio delle formiche, il benessere miserabile, la ‘felicità del maggior numero’». Commenta questo passo riportando le opportune citazioni del testo.

zione fondamentale dell’età contemporanea è di garantire la sopravvivenza degli uomini, proteggendoli dalla natura e dagli altri uomini e procurando loro un benessere crescente, identificato con la felicità che dovrebbe essere distribuita al maggior numero possibile di individui. Ma in tal modo la felicità viene degradata, per Nietzsche, al livello delle piccole e mediocri virtù bor-

ghesi della rassegnazione, dell’assennatezza, dell’accontentarsi di poco e l’uomo stesso viene indebolito, ridotto a un essere malato, incapace di vivere pienamente. A ciò Zarathustra oppone la richiesta che l’uomo, giunto a questo punto massimo di estenuazione e di decadenza, venga superato, lasciando emergere il superuomo. 14. Cfr. n. 8.

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esercizi/5 CHE COSA SO?

12. Quali sono gli antidoti alla malattia storica proposti da Nietzsche?

Guida allo studio del manuale

13. Perché con Umano, troppo umano (1878) Nietzsche propone la scienza, e non più l’arte, come via per uscire dal malessere della vita quotidiana?

1. Evidenzia le forme d’arte nelle quali l’impulso apollineo e quello dionisiaco hanno trovato espressione nel mondo greco. 2. Evidenzia gli aspetti principali della concezione della storia di Burckhardt. 3. Evidenzia – con due colori diversi – i caratteri positivi e negativi dei tre tipi di storia analizzati da Nietzsche nella II Considerazione inattuale. 4. Evidenzia i differenti contesti in cui ricorre il termine «istinto». 5. Evidenzia l’argomentazione con cui Nietzsche sostiene che i moventi dell’agire umano sono la ricerca del piacere e la fuga dal dolore. 6. Evidenzia gli aspetti del platonismo ereditati dal cristianesimo. 7. Evidenzia alcuni fraintendimenti a cui può andare soggetta la nozione di superuomo. 8. Evidenzia la concezione del tempo che si addice allo stile di vita del superuomo. Dizionario filosofico 9. Definisci i seguenti concetti: malattia storica • genealogia della morale • risentimento • senso di colpa • morte di Dio • trasvalutazione dei valori

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 10. Da che cosa trae origine la tragedia greca secondo Nietzsche? 11. Che ruolo hanno avuto le figure di Euripide e di Socrate nella storia della tragedia greca?

esercizi/5

14. Che relazione c’è, secondo Nietzsche, tra il bene e l’utile? 15. Perché Nietzsche sostiene che il cristianesimo è l’erede del platonismo? 16. Quale futuro Nietzsche vorrebbe per l’Europa? 17. Qual è il messaggio di Zarathustra? 18. In che senso il superuomo può essere assimilato alla figura dell’artista? 19. Che rapporto c’è tra la dottrina nietzscheana dell’«eterno ritorno dell’uguale» e quella stoica dell’amor fati? Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 20. Illustra l’influenza di Schopenhauer e di Wagner nelle differenti fasi del pensiero di Nietzsche. 21. Illustra la critica allo storicismo. 22. Qual è la critica che Nietzsche rivolge all’ego cogito cartesiano? 23. Perché il vero movente delle azioni non è da trovarsi, secondo Nietzsche, nella libertà del volere? 24. Illustra il processo in base al quale i signori arrivano a imporre agli schiavi la loro gerarchia di valori. 25. Quali sono gli effetti che, secondo Nietzsche, il cristianesimo ha avuto sulla cultura europea? 26. Che rapporto c’è tra la «morte di Dio» e l’avvento del «superuomo»? 27. Perché il superuomo è «al di là del bene e del male»? 28. Illustra la differenza tra la «volontà di vivere» (Schopenhauer) e la «volontà di potenza» (Nietzsche). 29. Illustra il significato della celebre affermazione nietzscheana, in base alla quale «non ci sono fatti oggettivi, ma solo interpretazioni».

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spazializzato) e che sono qualitativamente indifferenziati (tempo omogeneo). In una coscienza intesa come durata, invece, non ci sono istanti isolati, ma solo un unico processo spontaneo di espansione della coscienza. Una distinzione analoga a quella tra le due forme di temporalità è operata da Bergson tra intelligenza e intuizione. La prima procede per analisi e sintesi, rimanendo però esterna al proprio oggetto; la seconda implica invece l’immedesimazione completa tra conoscente e conosciuto. L’intelligenza è adatta alla conoscenza scientifica e alla conduzione degli aspetti pratici della vita, ma soltanto l’intuizione può cogliere la durata reale e l’essenza metafisica dell’uomo e della realtà.

6. le reazioni al positivismo tra francia e germania i contenuti caratteri generali dello spiritualismo

Lo spiritualismo nasce in Francia nella prima metà dell’Ottocento come reazione al positivismo. Il suo assunto fondamentale è che nella coscienza si manifestino con immediata evidenza la verità e i valori, cui è pertanto possibile pervenire attraverso la semplice introspezione. Tipica dello spiritualismo è la difesa della libertà dell’uomo, che talvolta viene contrapposta alla necessità della natura, talaltra viene estesa all’intera natura sotto forma di spontaneità.

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bergson: tempo e conoscenza

Il rappresentante principale dello spiritualismo francese è Bergson. Contro i positivisti egli sostiene innanzitutto che i dati della coscienza hanno sempre carattere qualitativo e non quantitativo, che li rende irriducibili ai fenomeni fisici. La stessa opposizione si ha tra il tempo della coscienza e quello esteriore. La coscienza è costituita dalla durata reale, cioè da un flusso ininterrotto, in cui i momenti precedenti si fondono senza soluzione di continuità con quelli successivi. Nella scienza e nella conduzione pratica della vita quotidiana vige invece una concezione del tempo come successione di istanti distinti che si giustappongono (tempo

6. le reazioni al positivismo tra francia e germania

bergson: una sola vita, una sola realtà

A partire dall’Evoluzione creatrice Bergson estende la nozione di durata all’intera realtà, considerata come un unico Tutto. Alla base della realtà vi è uno slancio vitale che spinge in avanti la materia, facendola espandere in diverse direzioni. Bergson interpreta, così, l’evoluzione non come l’effetto di un determinismo biologico, ma come l’espansione di un principio spirituale. La stessa materia non è una realtà separata dallo spirito, ma indica il grado di inerzia che lo slancio vitale trova nella sua espansione. il neokantismo

Nella seconda metà del XIX secolo si sviluppa la tendenza a recuperare il kantismo in funzione critica nei confronti dell’idealismo e del positivismo. Con il positivismo tuttavia il «ritorno a Kant» ha in comune l’assunzione delle scienze fisico-matematiche come modello della scienza in generale. Questo indirizzo assume il nome di neokantismo (o neocriticismo) e si sviluppa soprattutto in due centri della Germania, che danno vita ad altrettante scuole. 1) Rappresentanti della Scuola di Marburgo sono Cohen e Natorp, che insistono sul carattere rigorosamente formale della

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conoscenza. All’insegnamento della Scuola di Marburgo è legato anche Cassirer, il quale individua – accanto alla struttura logica dell’esperienza scientifica – altre forme a priori alla base delle attività non scientifiche dell’uomo (la religione, l’arte, la morale). Egli elabora così una filosofia delle forme simboliche, in base alla quale le diverse sfere della cultura rappresentano il contenuto dello spirito mediante segni simbolici. 2) La Scuola del Baden è caratterizzata dal fatto di porre in primo piano il problema dei valori, considerati nella loro universalità e necessità. Tra i suoi esponenti più significativi possiamo ricordare Windelband e Rickert. dilthey e lo storicismo

Lo storicismo è accomunato al neokantismo dal fatto che si pone anch’esso il problema della possibilità e della validità della conoscenza, ma circoscrive l’indagine al problema della conoscenza storica. Fondamentale in questo senso è la distinzione operata da Dilthey tra scienze dello spirito e scienze della natura. Esse si distinguono 1) in base all’oggetto: nelle scienze della natura l’oggetto conosciuto è esterno al soggetto conoscente; nelle scienze dello spirito soggetto

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e oggetto sono omogenei, in quanto fanno entrambi parte del mondo umano; 2) in base al tipo di esperienza: le scienze naturali fanno riferimento all’esperienza esterna, le scienze dello spirito a quella interna o esperienza vissuta; 3) in base al metodo: le scienze della natura si propongono la spiegazione causale dell’oggetto, mentre le scienze dello spirito mirano a una sua comprensione attraverso categorie come significato, fine, valore. Nel suo periodo più maturo Dilthey sostiene che la comprensione si applica alle «espressioni oggettive» del divenire della vita. In altri termini, la conoscenza del mondo umano non è più data immediatamente dall’introspezione, ma ha per oggetto i prodotti storici in cui tale mondo si oggettiva. Dilthey precisa che il mondo storico è strutturato in base a connessioni dinamiche più o meno generali e tali da costituirsi ciascuna attorno a valori e scopi propri: dall’individuo ai sistemi di organizzazione sociale e alle epoche storiche. Ne consegue la negazione dell’esistenza di valori assoluti e la relatività di tutti i fenomeni storici. Per quanto aspiri a una universale intuizione del mondo, anche la filosofia deve essere storicizzata e relativizzata.

weber: metodo e compito delle scienze sociali

Diversamente da Dilthey, per Weber ciò che distingue le scienze sociali da quelle della natura non è l’oggetto, ma il metodo. Mentre le scienze naturali hanno per oggetto leggi generali, le scienze sociali sono orientate verso l’individualità. La ricerca storico-sociale ha per Weber due condizioni di possibilità. La prima è il riferimento al valore, come strumento di selezione dei dati significativi. Esso deve tuttavia essere distinto dal giudizio di valore – cioè dalla presa di posizione valutativa nei confronti degli avvenimenti studiati – che è rigorosamente escluso dalla conoscenza scientifica. La seconda condizione consiste nel ricorso alla spiegazione causale, che è tuttavia puramente condizionale (non ha carattere necessario) ed è realizzata mediante i giudizi di possibilità oggettiva. Negli ultimi anni della sua vita Weber indirizza i suoi interessi verso la sociologia, che intende ora differenziare dalle scienze storiche. Se queste ultime hanno per oggetto l’individualità, la sociologia si occupa delle uniformità dei comportamenti, che devono essere oggetto di comprensione. In base a questi presupposti Weber formula una classificazione dei tipi fondamentali di agire sociale.

gli strumenti in poche… parole durata reale / immagine / memoria / intelligenza / intuizione / slancio vitale / valore / comprensione / spiegazione / connessione dinamica / avalutatività / giudizi di possibilità oggettiva / tipo ideale

i testi a. nel manuale t17 Bergson/La durata reale t18 Bergson/L’evoluzione creatrice t19 Dilthey/L’intuizione del mondo t20 Weber/Protestantesimo e capitalismo t21 Weber/L’agire sociale

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

b. on-line Boutroux/Le leggi di natura Bergson/L’immagine Bergson/I due tipi di memoria Bergson/Intuizione e intelligenza Dilthey/Comprensione storica e oggettivazione della vita Spengler/Morfologia della storia universale Weber/L’oggettività delle scienze storico-sociali

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1. Gli inizi dello spiritualismo in Francia antecedenti e caratteri generali dello spiritualismo

Nella prima metà dell’Ottocento si sviluppa in Francia – parallelamente al positivismo – la corrente filosofica dello spiritualismo, destinata a conservare la sua vitalità anche nella seconda metà del secolo e nel Novecento. Il carattere fondamentale di questo movimento consiste nell’assunto che ogni verità scaturisce dalla coscienza attraverso il metodo dell’osservazione interiore. In questa prospettiva la componente spirituale dell’esistenza assume un valore nettamente superiore all’elemento materiale: di qui l’opposizione dello spiritualismo a ogni forma di materialismo, di empirismo sensistico e di positivismo, in quanto espressione di scientismo naturalistico. In realtà, la tradizione spiritualistica aveva profonde radici nella storia della filosofia francese. Essa risale sicuramente a Montaigne, si ripresenta in chiave razionalistica in Cartesio e in Malebranche, per poi venire esplicitamente riproposta da Pascal attraverso l’alternativa tra «ragione» e «cuore».

cousin e il primato dell’elemento spirituale

Victor Cousin (1792-1867) è il primo a usare il termine «spiritualismo», da lui definito come la filosofia che «insegna la spiritualità dell’anima, la libertà e la responsabilità delle azioni umane, le obbligazioni morali, la virtù disinteressata, la dignità della giustizia e la bellezza della carità; e al di là dei limiti di questo mondo essa mostra un Dio, autore e tipo dell’umanità, che, dopo averla creata evidentemente per uno scopo eccellente, non l’abbandonerà nello sviluppo misterioso del suo destino». La sua opera filosoficamente più rilevante è Del vero, del bello e del bene, pubblicata per la prima volta nel 1820.

ravaisson: l’abitudine tra spirito e materia

Un altro esponente dello spiritualismo francese è Félix Ravaisson (18131900), autore di studi storici e di alcune brevi opere teoriche, tra cui l’importante tesi di dottorato su L’abitudine (1838). Secondo Ravaisson, la coscienza è il principio di ogni verità e il mondo naturale stesso non è che semplice apparenza. Ma, se la stessa realtà sensibile deve essere ricondotta all’attività dello spirito, come si può giustificare l’apparenza della materialità? Ciò si spiega – secondo Ravaisson – mediante l’abitudine, che costituisce un ponte di passaggio dall’attività spirituale all’inerzia materiale. Infatti, pur nascendo dallo spirito, l’abitudine – attraverso la ripetizione meccanica degli atti – comporta una progressiva perdita della consapevolezza e della libertà. Il risultato ultimo di questo processo è la produzione di una realtà che – sebbene conservi la sua radice spirituale – è ormai completamente inerte e inconscia: questa è la materia.

boutroux e i diversi gradi della realtà

Alla critica dei princìpi positivistici mira invece il contingentismo di Émile Boutroux (1845-1921), autore di due saggi che ebbero grande risonanza: Sulla contingenza delle leggi di natura (1874) e L’idea della legge naturale nella scienza e nella filosofia contemporanea (1895). Lo scopo che Boutroux si prefigge è quello di confutare il determinismo e il meccanicismo positivistici, sostenendo che anche una interpretazione rigorosamente scientifica della realtà lascia ampio spazio alla contingenza e alla libertà. Boutroux osserva che le diverse realtà oggetto dell’analisi scientifica – la materia, i corpi

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inorganici, gli organismi, l’uomo – si collocano su una scala gerarchica, i cui gradi sono caratterizzati da una sempre maggiore varietà, particolarità e individualità. In tal modo, ogni grado della realtà presenta un carattere specifico e irriducibile ai gradi inferiori. Detto altrimenti, ogni livello di realtà è contingente rispetto a quelli precedenti, in quanto presenta un elemento di novità rispetto a essi: i corpi hanno qualità che non sono contenute nella semplice materia, caratterizzata soltanto dall’estensione e dal movimento; gli organismi sono espressione di una vita che è estranea ai corpi inorganici; l’uomo manifesta in sé un elemento spirituale irriducibile alla vita biologica. Come esistono diversi gradi di realtà, nello stesso modo si distinguono diversi tipi e livelli di leggi: logiche, matematiche, meccaniche, fisiche, chimiche, biologiche, sociologiche e psicologiche. Ora, la contingenza non riguarda solo il rapporto tra i diversi tipi di leggi – che sono irriducibili le une alle altre – ma anche il concetto stesso di legge. Le leggi sono, infatti, tanto più necessarie quanto più sono astratte, mentre diventano sempre più indeterminate e contingenti quanto più specifica è la realtà cui si applicano . Circoscritta così la portata delle leggi naturali, Boutroux afferma di conseguenza la limitata estensibilità della scienza. La sua funzione consiste nell’operare su simboli che rappresentano la realtà, così da determinare il più possibile i loro rapporti reciproci e da orientare la condotta pratica dell’uomo. Ma al di là della scienza rimane un vasto ambito di realtà irriducibile alla rappresentazione simbolica: in questa sfera entrano la morale, il diritto, l’arte, e soprattutto la religione, che ha il suo strumento nella fede e la sua fonte nella dimensione interiore della coscienza.

boutroux e i limiti della scienza

2. Bergson: tempo, memoria, conoscenza La maggiore figura dello spiritualismo francese – ed europeo in generale – è senz’altro quella di Henri Bergson. Nato a Parigi nel 1859 da famiglia ebrea di origine polacca, egli studiò all’École Normale seguendo i corsi di Boutroux. Nel 1889 conseguì il dottorato in Filosofia con due dissertazioni, rispettivamente in latino e in francese. La seconda – il Saggio sui dati immediati della coscienza – fu pubblicata nello stesso anno e risultò un successo. La seconda opera importante – Materia e memoria – apparve nel 1896 ed ebbe una notevole influenza su William James e su Marcel Proust (di cui Bergson sposò una cugina). Tre anni dopo, Bergson fu chiamato a insegnare al Collège de France. Al 1903 e al 1907 risalgono rispettivamente l’Introduzione alla metafisica e l’opera più famosa di Bergson, L’evoluzione creatrice. Da ricordare anche Durata e simultaneità (1922), dedicata alla discussione della teoria della relatività di Einstein.

la formazione e la chiamata al collège de france

Negli anni successivi la fama di Bergson crebbe enormemente: divenuto Accademico di Francia, nel 1927 gli fu conferito il premio Nobel per la Letteratura. La sua ultima opera importante è del 1932: Le due fonti della morale e

conferimento del nobel e ultimi anni

alef

Boutroux Le leggi di natura

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della religione. Negli ultimi anni i suoi interessi religiosi divennero più forti ed egli si avvicinò al cattolicesimo, senza tuttavia abbracciarlo ufficialmente per solidarietà con la comunità ebraica ormai oggetto delle persecuzioni naziste. Quando i tedeschi invasero Parigi (1939), egli si iscrisse spontaneamente nelle liste degli ebrei, rifiutando l’esenzione offertagli dai nazisti in virtù della sua celebrità. Morì a Parigi – ancora occupata dai tedeschi – nel 1941. bergson e la cultura contemporanea

L’influenza di Bergson sul mondo filosofico contemporaneo è stata grandissima. Oltreché – come si è accennato – sul pragmatismo americano attraverso William James [cfr. 7.2], essa si esercitò sull’esistenzialismo francese, sulla fenomenologia di Max Scheler e – attraverso il confronto di Bergson con Einstein – sulla riflessione contemporanea relativa ai rapporti tra scienza e filosofia.

i dati della coscienza

Il Saggio del 1889 inizia con una presa di distanza dalla tendenza – caratteristica del positivismo in generale e della psicologia scientifica in particolare – a considerare gli stati psichici come oggetto di una misurazione quantitativa, cioè esprimibile matematicamente, al pari delle grandezze fisiche. Contro questo orientamento Bergson difende invece il carattere qualitativo dei dati della coscienza. Ciò vale assolutamente per gli stati della coscienza che non dipendono da una modificazione esterna, quali ad esempio un sentimento di gioia oppure un sentimento estetico o morale. L’aumento dell’intensità di una gioia che cresce in noi non consiste in una semplice espansione quantitativa, per cui la letizia sarebbe dapprima racchiusa in un piccolo angolo della coscienza per poi occupare uno «spazio» sempre maggiore di essa. Al contrario, esso corrisponde alla successione di fasi qualitativamente diverse: in principio si manifesta come una generica apertura verso il futuro, poi si esprime in un senso di leggerezza, per diventare infine – nelle sue espressioni più alte – una qualità indefinibile paragonabile a un calore o a una luce.

l’esempio di un foglio di carta

Non solo i «dati» della coscienza che riguardano le impressioni interne hanno carattere qualitativo, ma anche quelli che derivano da impressioni esterne, per quanto in questo caso occorra tenere conto anche della «quantità» della causa che li provoca. Certamente le diverse percezioni che noi abbiamo di un foglio di carta dipendono dalla differente quantità di luce impiegata per illuminarlo nei singoli casi. Tuttavia, il risultato di questa diversa intensità dell’illuminazione ha per noi un effetto qualitativo: se ben illuminata, la carta appare bianca, mentre con gradi più deboli di luce essa apparirà gialla o grigiastra. Attraverso questa opposizione tra qualità e quantità, Bergson perviene così ad affermare la specificità dei dati della coscienza, i quali non possono essere assimilati – come tendeva a fare la psicologia scientifica – ai dati fisici, né essere studiati con gli stessi strumenti utilizzati per l’indagine scientifico-naturale.

tempo spazializzato e durata reale

La rilevanza di quest’impostazione appare in tutta la sua portata quando, nelle pagine centrali dell’opera, viene esaminato il problema del tempo. Bergson era alla ricerca di una definizione del tempo che evitasse la tradi-

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zionale concezione quantitativa condivisa tanto dal pensiero scientifico quanto dal comune modo di pensare. In questa concezione il tempo è inteso come una successione indefinita di istanti omogenei e uniformi, anche se distinti gli uni dagli altri, analogamente a quanto avviene nella serie dei numeri naturali, dove a ogni unità segue un’altra unità identica alla prima. In questo modo si opera una sorta di spazializzazione del tempo, poiché ogni interpretazione quantitativa del tempo comporta necessariamente – per la sua descrizione – il ricorso alla metafora dello spazio. Se invece si abbandona il modello matematico-quantitativo – cui si è tradizionalmente legati – ci si rende conto che il tempo è piuttosto una successione di stati qualitativi della coscienza, gli uni diversi dagli altri, ma anche gli uni intimamente connessi con gli altri. In questa successione, infatti, i momenti precedenti si fondono con i momenti immediatamente successivi, senza che sia possibile individuare cesure interne al tutto, così come in una melodia le note – pur essendo qualitativamente diverse tra di esse – si fondono in un processo unitario senza soluzioni di continuità. A questa intuizione qualitativa del tempo Bergson dà il nome di durata reale [t17].

La spazializzazione del tempo (T1 = t2 - t1) (T2 = t3 - t2)… t1

t2

t3

t4

t5

t6

a

b

c

d

e

f

(A = b - a) (B = c - b)… Il tempo trascorso T1(= t2-t1) tra un istante (t1) e l’altro (t2) viene fatto corrispondere – nella concezione quantitativa del tempo – al segmento spaziale A (= b-a).

Il tempo trascorso T2 (= t3-t2) tra un istante (t3) e l’altro (t2) viene fatto equivalere al segmento spaziale B (= c-b), e così via.

La contrapposizione della durata reale al tempo spazializzato non significa che Bergson svaluti la concezione spaziale del tempo. Quest’ultima, infatti, continua a essere indispensabile nella descrizione – compiuta dalla meccanica in particolare e dalla fisica in generale – dei fenomeni del mondo inorganico. Ma essa appare inadatta a esprimere sia l’evoluzione temporale nell’ambito biologico (ad esempio la crescita di un organismo e, in generale, tutti i fenomeni della vita), sia l’esperienza del tempo che ciascun uomo ha nella propria coscienza. La stessa esistenza spirituale dell’io – che si risolve nel flusso ininterrotto della vita della coscienza – coincide infatti con la durata reale. Nel fluire dell’esistenza stati coscienziali sempre nuovi si aggiungono continuamente ai precedenti, senza cancellarli o distinguersi nettamente da essi, ma saldandosi con essi e conservandoli in una nuova totalità spirituale. La memoria non è, dunque, una facoltà specifica, ma è la durata

la vita degli organismi e della coscienza

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reale stessa, è l’essenza della vita spirituale del soggetto, per il quale le impressioni più recenti crescono assieme ai vecchi ricordi, attribuendo così alla coscienza configurazioni sempre nuove. flusso di coscienza e libertà

Questa nuova concezione del tempo e della vita della coscienza fornisce a Bergson anche gli argomenti per combattere il determinismo imperante nel positivismo e difendere la libertà dell’uomo. In base alla concezione della durata reale, infatti, le passioni, i desideri e le volontà non sono realtà distinte che si succedono nel tempo, bensì espressioni di un unico flusso di coscienza. Le singole azioni dell’uomo sono quindi il risultato dell’intero intreccio di dati coscienziali che costituisce la sua stessa vita spirituale. In questo flusso della coscienza, inoltre, gli stati successivi non sono conseguenza necessaria di quelli precedenti, ma comportano l’emergere di un elemento di novità e di spontaneità assolutamente irriducibile agli stati precedenti. In questo flusso continuo e unitario della coscienza – indipendente da ogni condizionamento esterno e fonte inesauribile di novità – risiede la libertà umana.

la relazione tra il corpo e lo spirito

Si è detto che la durata reale esprime l’intima essenza della coscienza. Ma quale rapporto intercorre tra la coscienza e la materia? In altre parole, che rapporto c’è tra la vita interiore del soggetto che sente in sé il flusso della memoria – «l’inafferrabile progresso del passato che fa presa sul futuro» – e la realtà dell’universo corporeo in cui l’uomo vive e agisce? A questa domanda cerca di rispondere la seconda importante opera di Bergson – Materia e memoria – il cui sottotitolo recita significativamente «Saggio sulla relazione tra il corpo e lo spirito».

la materia secondo gli idealisti e i realisti

Nella Prefazione alla prima edizione dell’opera Bergson asserisce che la filosofia «non è altro che il ritorno cosciente e riflesso ai dati dell’intuizione» e che – attraverso l’analisi dei fatti e il confronto delle varie dottrine – essa deve condurci alle stesse conclusioni del senso comune. Ma in che modo l’uomo comune – all’oscuro delle discussioni tra filosofi – concepisce la materia? Secondo Bergson, egli ne ha una percezione immediata che non separa – come invece fanno gli idealisti e i realisti – la sua esistenza dalla sua apparenza. I primi – soprattutto Berkeley – riducono l’oggetto materiale a una rappresentazione del soggetto conoscente; i secondi – il modello è Cartesio – pensano alla realtà materiale come a una «cosa» preesistente alla rappresentazione e avente una natura diversa da essa.

la materia secondo l’uomo comune

Viceversa, Bergson – che vuole attenersi ai dati dell’esperienza immediata – definisce la materia come un insieme di immagini , intendendo con quest’ultimo termine qualcosa che sta a metà tra la rappresentazione e la cosa . L’uomo comune crede infatti che esista una realtà distinta da lui (in accordo con i realisti e in opposizione agli idealisti), la quale tuttavia coincide perfettamente con la percezione che egli ha di essa (in accordo con l’idealismo e in opposizione al realismo). In altri termini, egli non ritiene che esista una realtà diversa dalle immagini della coscienza, ma nello stesso tempo è certo che tali immagini hanno una realtà autonoma, esistendo indipendentemente dalla coscienza.

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Bergson L’immagine

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Le immagini che compongono l’universo non sono ovviamente accostate le une alle altre a capriccio, ma sono stabilmente connesse in un insieme di relazioni: queste ultime sono le leggi della natura. Tra le diverse immagini ve ne è però una che presenta un carattere particolare e privilegiato poiché – oltre a sottostare alle leggi naturali – ha anche la facoltà di modificare le altre immagini in base a criteri propri. Inoltre, mentre le altre immagini sono conosciute soltanto dall’esterno (come vedremo, mediante la percezione), questa immagine particolare viene vissuta dall’interno. Tale immagine è il nostro corpo. Ma qual è la funzione del corpo? Essa consiste nel selezionare le immagini, ovvero nel conservare quelle utili alla soddisfazione dei propri bisogni e nel tralasciare le altre. Così facendo, il corpo delimita un campo di immagini in mezzo a un’infinità di altre immagini messe da parte: questo è il campo della percezione. Poiché, come si è detto, la selezione operata dal corpo è guidata da interessi e bisogni, la percezione non ha un carattere puramente conoscitivo, ma operativo. In altri termini, per Bergson percepire significa agire, ossia modificare la realtà materiale in base alle esigenze del nostro corpo.

il corpo è l’immagine che seleziona le immagini

Finora abbiamo trattato soltanto della materia, anche se all’interno di essa abbiamo individuato un’immagine – il corpo – che svolge una funzione particolare: esso, come si è visto, è soltanto materia che agisce (o meglio reagisce) ad altra materia in vista dei propri bisogni. Ma la reazione del corpo nei confronti della rimanente realtà materiale si esaurisce completamente nella materia stessa oppure è determinata da qualcosa che va al di là di essa? In altri termini, si tratta di rispondere alla seguente domanda: il cervello, ovvero l’organo corporeo dell’organizzazione del pensiero, determina l’intera vita psichica e – attraverso di essa – il comportamento dell’uomo  approfondimento, p. (come sosteneva la psicologia associazionistica [ 101])? Oppure esiste un livello spirituale superiore – irriducibile alle funzioni fisico-chimiche del cervello – dal quale piuttosto esse dipendono?

il cervello determina la vita psichica?

Innanzitutto, occorre osservare che la percezione attraverso la quale l’uomo conosce il mondo e agisce su di esso comporta un riferimento – per quanto minimo si possa supporre – alla memoria. Infatti, da un lato, percepisco e agisco in base a interessi e bisogni che si collocano nel passato (per quanto prossimo) rispetto alla mia percezione-azione (che invece è sempre attuale); dall’altro lato, questi interessi sono anch’essi condizionati da percezioni-azioni precedenti.

la relazione tra percezione e memoria

Ora, Bergson opera una distinzione fondamentale tra due tipi di memoria . La memoria-abitudine è l’insieme dei meccanismi motori con i quali l’organismo rielabora una risposta a determinati stimoli. Quando compio un’azione meccanica – ad esempio, recito a memoria una poesia – mi servo della memoria-abitudine. La memoria pura contiene i «ricordi indipendenti» e coincide con la durata reale della coscienza (ovvero con la sostanza spirituale dell’io). Quando penso a diversi momenti della mia storia personale – per esempio alle ripetute letture che ho fatto, in tempi diversi, per imparare la poesia, con le diverse situazioni, le diverse impressioni, i diversi stati d’animo a esse connessi – faccio riferimento alla memoria pura.

la memoriaabitudine e la memoria pura

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la continuità tra ricordiimmagine e ricordi puri

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Abbiamo detto che la percezione corporea comporta un riferimento alla memoria. Ma quale delle due memorie delineate poc’anzi interviene in essa? Ovviamente la prima a essere interessata è la memoria-abitudine, che sollecita le risposte motorie adeguate alla situazione sulla base delle esperienze precedenti. Ma, in realtà, i contenuti specifici della memoria-abitudine non sono altro che una selezione di alcuni tra i numerosissimi ricordi contenuti nella memoria pura. Tra le due forme di memoria sussiste quindi un rapporto di stretta interconnessione. Da un lato, la memoria-abitudine attinge all’inesauribile serbatoio della memoria pura i ricordi necessari ad attivare le risposte motorie della percezione. Dall’altro, alcuni ricordi puri vengono recuperati grazie alla memoria-abitudine, riportati alla superficie e trasformati in ricordi-immagine, diventando così le cause immediate delle nostre reazioni motorie .

«in una coscienza c’è infinitamente di più che nel cervello corrispondente»

Non vi è, quindi, alcuna soluzione di continuità nel processo che va dai ricordi collocati nella memoria pura, ai ricordi-immagine, con cui opera la memoria meccanica dell’abitudine, e – attraverso di essi – alla percezione. Ciò equivale a dire che la memoria-abitudine – espressione puramente organica e materiale dell’attività cerebrale – non è autonoma, ma dipende dalla memoria pura. Quest’ultima, come abbiamo visto, coincide con la durata reale della coscienza: per questo motivo, essa è indipendente dalla sfera della materia e cade completamente nelle regioni dello spirito. In questo modo Bergson intendeva dimostrare l’impossibilità di ridurre la vita psichica e i processi mentali all’attività cerebrale.

le due forme di conoscenza

Abbiamo visto che l’essenza della coscienza è durata reale; tuttavia, noi siamo irresistibilmente portati a pensare che i diversi istanti si giustappongano gli uni agli altri come se si collocassero su una ideale linea geometrica. Perché avviene questo? Perché abbiamo difficoltà a penetrare la nostra durata interiore? Bergson cerca di rispondere a queste domande nell’Introduzione alla metafisica (1903). In quello scritto, egli ricorda anzitutto che noi possediamo due forme di conoscenza .

il funzionamento dell’intelligenza

In primo luogo, possiamo conoscere un oggetto dall’esterno, descrivendone i singoli caratteri e servendoci di simboli per rappresentarli. Ad esempio, di una città possiamo scattare molte fotografie parziali e cercare poi di ricostruirne l’insieme combinando le diverse rappresentazioni fotografiche. In altri termini, noi possiamo analizzare l’oggetto, per ricomporre poi sinteticamente i diversi aspetti cui si è giunti attraverso il procedimento analitico. Questo è il modo di procedere dell’ intelligenza .

l’intuizione

In secondo luogo, possiamo cogliere l’oggetto dal di dentro e penetrare la sua intima essenza compiendo un atto di identificazione simpatetica con esso. In questo modo l’oggetto non viene ricostruito mediante la giustapposizione delle sue rappresentazioni parziali o simboliche, ma colto immediatamente nella sua totalità. Ciò avviene, ad esempio, quando – anziché ricomporre l’immagine di una città attraverso le fotografie dei suoi diversi aspetti – la conosco per esperienza diretta, vivendo in essa, percorrendone effettivamente le strade e sentendone pulsare la vita. Questa seconda forma di conoscenza è l’ intuizione .

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a Bergson I due tipi di memoria b Bergson Intuizione e intelligenza

a

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Intuizione chiamiamo qui la simpatia per cui ci si trasporta all’interno di un oggetto, in modo da coincidere con ciò che esso ha di unico e, conseguentemente, di inesprimibile. L’analisi, al contrario, è l’operazione che riporta l’oggetto a elementi già conosciuti, vale a dire comuni a questo oggetto e ad altri. Analizzare consiste, dunque, nell’esprimere una cosa in funzione di ciò che essa non è. Sicché ogni analisi è una traduzione, uno sviluppo in simboli, una rappresentazione fatta da punti di vista successivi, da cui si segnano altrettanti punti di contatto tra l’oggetto nuovo, studiato, e altri che si crede già di conoscere. Nel desiderio, eternamente insaziato, di abbracciare l’oggetto intorno a cui è condannata a girare, l’analisi moltiplica senza fine i punti di vista, per completare una rappresentazione sempre incompleta; varia senza soste i simboli, per perfezionare una traduzione sempre imperfetta. Per questo prosegue all’infinito. Ma l’intuizione, ove sia possibile, è un atto semplice (Introduzione alla metafisica, §1).

Si è visto che l’intelligenza scompone e ricompone i suoi oggetti, costruendo al posto di essi delle rappresentazioni simboliche. Dunque, soltanto l’intuizione assolve completamente alla funzione conoscitiva, in quanto permette di conoscere la realtà come essa veramente è. Esclusivamente con l’intuizione, ad esempio, si può penetrare dal di dentro la vita della coscienza e coglierla come durata reale, nella totalità del suo sviluppo. In virtù dell’intuizione è quindi possibile riscoprire la validità della metafisica, intesa come scienza assoluta del reale: «Se esiste un mezzo per possedere una data realtà assolutamente invece di conoscerla relativamente, per porsi in essa invece di assumere punti di vista su di essa, per averne l’intuizione invece di farne l’analisi, insomma, per coglierla all’infuori di qualsiasi espressione, traduzione o rappresentazione simbolica, la metafisica è proprio questo. La metafisica è, dunque, la scienza che pretende di fare a meno dei simboli» (ibid.). La crisi della metafisica, affermata sia dagli empiristi sia dai razionalisti, è dovuta semplicemente al fatto che gli uni e gli altri, seppure per strade diverse, hanno analizzato la realtà con le procedure dell’intelligenza, anziché limitarsi a coglierla con un atto d’intuizione. Pertanto, la capacità conoscitiva dell’intelligenza appare limitata. Le rappresentazioni statiche e parziali di cui essa si serve consentono una conoscenza soltanto relativa. Come sappiamo, l’intelligenza non coglie l’unità assoluta dell’oggetto, ma ricompone i diversi aspetti della realtà, precedentemente isolati gli uni dagli altri.

la riscoperta della metafisica

La conoscenza propria dell’intelligenza, se appare insufficiente dal punto di vista teoretico, svolge invece adeguatamente la funzione pratica di orientare l’azione umana. L’intelligenza esprime il modo di procedere proprio della scienza, da intendere non come un sapere teoretico – così l’avrebbero erroneamente concepita i positivisti – bensì come una forma di conoscenza tecnica rivolta all’azione. Agire nel mondo significa, infatti, attivare un processo di adattamento del soggetto alla situazione oggettiva presente. Per operare sulle cose si dovrà pertanto pensare in termini spaziali, ovvero delimitare in modo fisso e stabile i contorni degli oggetti e le loro relazioni. In altre parole, sarà necessario interrompere il flusso della vita reale in una

intelligenza e conoscenza scientifica

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pluralità di elementi immobili, così come avviene nelle pellicole cinematografiche, nelle quali il movimento viene spezzettato nei singoli fotogrammi, cioè in una pluralità di immagini statiche giustapposte in una sequenza spaziale. la scienza e l’omogeneità del tempo

L’altro compito della scienza – dovuto al suo carattere pratico, non teoretico – è quello di prevedere gli avvenimenti futuri sulla base di quelli passati, in modo da consentire il migliore adattamento possibile da parte dell’uomo. Ma la previsione implica l’omogeneità tra passato e futuro. Ciò comporta la necessità di considerare tempi e cose future al di fuori della durata reale, ovvero di spogliarli dalla loro specificità qualitativa. Oltreché spazializzato, il tempo dovrà quindi essere reso anche omogeneo, così da poter essere sottoposto a misurazione matematica.

il primato dell’«homo faber» sull’«homo sapiens»

La contrapposizione operata da Bergson tra intuizione e metafisica, da un lato, e intelligenza e scienza, dall’altro, non intende semplicemente svalutare le seconde di fronte alle prime. Bergson stesso ricorda che «prima di speculare si deve vivere». L’esigenza fondamentale della vita è quella di rispondere continuamente alle sollecitazioni che provengono dalla realtà materiale, fornendovi risposte adeguate. L’uomo può soddisfare questa esigenza solo facendo ricorso all’intelligenza e alla scienza. Le categorie con cui esse definiscono la realtà materiale non devono essere tuttavia trasferite dal piano operativo a quello teoretico, pretendendo che attraverso di esse si possa anche «conoscere» la realtà. La realtà è attingibile soltanto attraverso lo strumento della metafisica: l’intuizione. I procedimenti dell’intelligenza, dunque, non sono errati in quanto tali, ma solo se vengono applicati ad ambiti che non sono di loro competenza.

agire nella realtà non significa conoscerla

L’intelligenza – e la scienza che da essa dipende – permette all’uomo di intervenire sulla realtà nella quale vive, per meglio adattarsi a essa, ma non di conoscerla. Ciononostante, proprio a causa della priorità del vivere sullo speculare, l’uomo tende spontaneamente ad applicare gli schemi mentali del sapere scientifico alla realtà. In tal modo, egli scambia per conoscenza assoluta quella che è invece solo una prospettiva pratico-operativa sulla realtà, ottenuta mediante la frammentazione della durata in una molteplicità di istanti immobili.

concetti e parole cristallizzano la durata reale

L’intuizione della realtà comporta, inoltre, la rinuncia a due strumenti che erroneamente riteniamo indispensabili per la conoscenza: la concettualizzazione e il linguaggio. I concetti, infatti, sono i simboli che utilizziamo per indicare i «pezzi» della realtà astratti dal flusso vitale attraverso il procedimento dell’analisi intellettuale; le parole sono i simboli fonetici con cui li comunichiamo agli altri. Concetti e parole sono i mezzi di cui si serve abitualmente il sapere scientifico-intellettuale: essi comportano necessariamente la frammentazione, la spazializzazione e, quindi, la distorsione della realtà. Quest’ultima può essere colta nell’unità assoluta della sua durata reale soltanto attraverso l’intuizione e, pertanto, non può essere né concettualizzata né espressa in termini linguistici.

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3. Bergson: lo slancio vitale Nelle opere che abbiamo finora considerato, Bergson riferisce la nozione di durata reale esclusivamente alla coscienza, alla dimensione dello spirito in opposizione alla materia. Ma è possibile estendere la durata all’esistenza in generale? Nell’Evoluzione creatrice – la sua opera più famosa – egli risponde affermativamente a questa domanda.

si può concepire l’universo come un tutto che dura?

Bergson stesso afferma che, a prima vista, si rivela difficile ammettere l’esistenza della durata nel mondo inorganico. Qui la materia appare costituita da singoli corpi che sono isolati gli uni dagli altri e non presentano nessuna forma di mutamento interno: il cambiamento sembra, anzi, dover essere spiegato meccanicisticamente come la semplice azione reciproca di elementi – molecole, atomi, elettroni – che in sé rimangono immutabili. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare – continua Bergson – che la frantumazione della realtà inorganica in una miriade di «sistemi isolati» è conseguenza inevitabile del nostro modo «scientifico» e intellettuale di rappresentarci il mondo. Se interpretiamo il più piccolo avvenimento fisico – ad esempio, lo zucchero che sciolgo in un bicchiere d’acqua – non con gli occhi della scienza, ma in relazione alla nostra esperienza personale, esso assumerà un significato completamente diverso. Il processo di scioglimento dello zucchero non sarà più scandito dal tempo matematico che registra le trasformazioni di alcuni elementi chimici, ma coinciderà con la mia attesa e con la mia impazienza, cioè sarà inglobato all’interno della durata pura della mia coscienza.

la durata nel mondo inorganico

Se anche nel mondo inorganico esistono indizi per ammettere la possibilità di una durata della realtà in generale, questa supposizione diventa ancora più forte passando al mondo organico. È vero che anche qui assistiamo alla concentrazione della materia organica in individui singoli e separati, ma questa «tendenza all’individuazione» è controbilanciata da una altrettanto forte «tendenza alla riproduzione», che spinge l’organismo al di là dell’individualità e stabilisce un elemento di continuità tra le generazioni. Inoltre, lo stesso singolo individuo non è più – come appare almeno esteriormente nel corpo inorganico – una realtà statica e immutabile, ma un essere che cresce, si trasforma e invecchia, secondo un processo di sviluppo continuo assai simile a quello della coscienza.

lo sviluppo continuo degli esseri organici

Il principio della durata appare pertanto estendibile all’intera realtà, considerata come un unico Tutto. Per Bergson, alla base di esso vi è infatti uno slancio vitale , che spinge in avanti la materia verso realizzazioni sempre più complesse. Tale slancio si espande a raggiera sviluppandosi in innumerevoli direzioni, anche se non in tutte con la stessa forza e con la stessa capacità formatrice. Si spiega così la divisione tra mondo vegetale e mondo animale. Del resto, anche le diverse specie animali corrispondono a diverse ramificazioni dell’unica vita che sorregge l’universo: per questo si possono riscontrare analogie morfologiche tra gli animali che si collocano ai gradi più bassi della scala biologica e quelli che hanno conseguito le realizzazioni più

intuizione e slancio vitale

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alte [t18]. Ma in che modo l’uomo può conoscere lo slancio vitale che sorregge lo sviluppo dell’intero universo? Per rispondere a questa domanda Bergson recupera la nozione di intuizione discussa nell’Introduzione alla metafisica, ma – anziché contrapporla all’intelligenza – la considera ora come la radice comune dell’intelligenza stessa e dell’istinto. l’intuizione come ritorno dell’intelligenza all’istinto

L’intelligenza e l’istinto determinano l’azione pratica degli esseri viventi in risposta alle sollecitazioni dell’ambiente. Esse, tuttavia, si differenziano in quanto l’istinto è la capacità di servirsi di strumenti già organizzati, mentre l’intelligenza implica la capacità di costruire strumenti artificiali che sopperiscano alla deficienza di quelli naturali. L’istinto si realizza negli animali, l’intelligenza nell’uomo. L’istinto opera inconsciamente, mentre l’intelligenza è sempre consapevole di sé e nasce, anzi, proprio dalla presa di coscienza di un problema da risolvere o di una difficoltà da superare. Pur seguendo tendenze diverse, istinto e intelligenza non sono mai completamente separabili. Dal momento che perfino nel comportamento più intelligente rimane sempre un residuo di reazione istintivo, è sempre possibile un ritorno consapevole dell’intelligenza all’istinto. Ciò avviene quando l’istinto diventa conscio di sé, perde il suo carattere interessato e si trasforma in immediata capacità di cogliere il proprio oggetto. In questo caso l’istinto acquista la coscienza dell’intelligenza, conservando insieme l’immediatezza che l’intelligenza ha invece perduto: esso diventa, dunque, intuizione. Il conseguimento della coscienza da parte dell’istinto consente all’uomo di intuire lo slancio vitale che attraversa l’intero universo, di cui lui stesso fa parte.

al di là del meccanicismo e del finalismo

Di fronte a questa interpretazione vitalistica dell’universo le opposte concezioni del meccanicismo e del finalismo perdono il loro significato. Tanto il primo quanto il secondo presuppongono una realtà già data, nella quale sono contenuti tutti gli sviluppi futuri. Non importa poi se questa realtà è intesa come un insieme di particelle e di atomi che si combinano tra di loro secondo leggi causali necessarie (come avviene nel meccanicismo), oppure è concepita come un disegno originario preesistente che condiziona lo sviluppo cosmologico e biologico (come sostiene invece il finalismo). In realtà, l’evoluzione comporta – secondo Bergson – l’idea che non esiste nessuna realtà data, ma soltanto una realtà in movimento – la vita universale, lo slancio vitale – che si dà e si fa da se stessa, espandendosi e modificandosi continuamente. Inoltre, sia il meccanicismo sia il finalismo partono dal presupposto che la realtà naturale sia il risultato della composizione di un’infinità di parti distinte. Essi divergono soltanto nello scegliere i criteri che hanno presieduto a quest’opera di composizione: complicate leggi naturali per il meccanicismo o un’unica volontà intelligente per il finalismo.

l’evoluzione creatrice

La critica al meccanicismo e al finalismo comporta che, per Bergson, non si possa distinguere tra una materia che viene plasmata e una o più forze formatrici (meccaniche per il determinismo, volontarie per il finalismo) che la trasformano. A maggior ragione non ci sono, da un lato, cose create e, dall’altro, un loro creatore. La realtà è sempre una sola, sia che la consideriamo sotto la forma dello slancio vitale che sta alla base dell’evoluzione, sia

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che consideriamo i singoli risultati del processo evoluzionistico. Essa si fa da sola, perché è intrinsecamente sviluppo, movimento, divenire, durata. In tal senso, l’evoluzione è insieme soggetto e oggetto di se stessa: è evoluzione che dà a se stessa la propria materia. Secondo questa prospettiva, la materia stessa si risolve nell’unica realtà dello slancio vitale, perdendo così ogni autonomia e ogni specificità. Se nelle opere precedenti Bergson aveva mantenuto netto il suo dualismo – di tempo e durata, quantità e qualità, intelligenza e intuizione, scienza e metafisica e, appunto, materia e spirito – nell’Evoluzione creatrice la materia si risolve in una manifestazione dello spirito. È vero che egli continua a parlare della materia bruta come di ciò che oppone resistenza allo slancio vitale. Tale resistenza, tuttavia, non deve essere intesa come un ostacolo esterno, urtando contro il quale la vita universale arresta la propria corsa, bensì come il limite interno alla forza vitale stessa. Infatti, quando una particolare diramazione dello slancio vitale ha sviluppato al massimo le sue potenzialità, non può far altro che ripiegarsi su se stessa, senza per questo bloccare l’espansione dello slancio vitale nel suo insieme.

la materia come momento dello slancio vitale

L’evoluzione creatrice offre la prospettiva di uno slancio vitale che è principio di ogni realtà dell’universo: ciò indurrebbe a pensare che Bergson – in materia religiosa – si sia attestato su di un radicale monismo panteistico. E di fatto non mancò chi, da parte cattolica, gli mosse questa accusa. Ma Bergson si difese sostenendo che il suo pensiero non solo non poggiava su presupposti panteistici, ma costituiva una vera e propria confutazione del panteismo. Il significato di questa affermazione appare chiaro dalla lettura dell’ultima sua opera importante, Le due fonti della morale e della religione (1932).

la svolta religiosa

Esistono due tipi di morale, cui corrispondono altrettanti tipi di società. Le società storicamente esistenti sono società chiuse, poiché in esse i singoli individui sono condizionati e non dispongono di alcun margine di libertà effettiva. La società è la fonte dell’obbligazione morale, che non è una norma della ragione, ma una costrizione sociale interiorizzata dall’individuo attraverso l’abitudine a osservarla. Sotto questo aspetto, le società umane non differiscono sostanzialmente da quelle delle formiche: in entrambi i casi la struttura dell’organizzazione sociale e le regole del comportamento individuale sono il risultato dell’evoluzione naturale, che ha promosso il massimo adattamento possibile dell’individuo alla totalità sociale. Nel caso delle formiche, queste regole sono imposte dall’istinto; per quanto riguarda gli uomini, dall’«abitudine a contrarre le abitudini», la quale – come intensità e regolarità – ha una forza paragonabile a quella dell’istinto.

le società chiuse e la morale dell’obbligo

Alle società chiuse si contrappone la società aperta, che lascia spazio alla novità e alla libertà. Il fondamento di questa nuova società è la morale aperta propugnata dalle grandi figure morali. Quest’ultima non è ristretta a un singolo gruppo sociale e non ha intenti conservativi, ma spinge tutti a continuare in piena libertà – sul piano dell’azione e dell’iniziativa umana – lo slancio creatore della vita.

le società aperte e lo slancio vitale

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le religioni statiche come reazione naturale all’intelligenza

Alla contrapposizione tra morale chiusa e morale aperta corrisponde, sul piano religioso, quella tra religione statica e religione dinamica. Religioni statiche sono le religioni storiche le quali – malgrado i vari riferimenti a rivelazioni positive – hanno tutte un’unica origine naturale. Esse sono, infatti, un prodotto dell’evoluzione inteso a correggere la tendenza analitica dell’intelligenza che rischia di rivolgersi contro la vita stessa. Lo spirito parcellizzatore dell’intelligenza, ad esempio, induce gli uomini a chiudersi nel loro egoismo; oppure, li spinge a prevedere il futuro e la morte, paralizzando la loro fiducia e capacità d’iniziativa. Per ovviare a ciò, l’evoluzione naturale stessa ha prodotto la religione che ha creato credenze e pratiche intese a restituire all’uomo l’apertura verso il prossimo, la fiducia nel futuro e nell’immortalità, il senso della protezione da parte di un essere onnipotente.

le religioni dinamiche e l’amore mistico

La religione dinamica viene invece fatta coincidere da Bergson con il misticismo. Soltanto i grandi mistici possono conoscere intuitivamente la natura di Dio, che è «amore e oggetto di amore». Ma l’amore di Dio richiede la creazione di esseri che possano essere amati e che, a loro volta, lo riamino. La creazione non è altro che «un’intrapresa di Dio per creare dei creatori, per aggiungere degli esseri degni d’amore». Sotto questa luce, i risultati cui si perveniva nell’Evoluzione creatrice appaiono provvisori. In quell’opera, l’analisi si fermava agli effetti naturali dello slancio creatore, ma tali effetti sono la base e il ponte di passaggio per un’espansione non più fisica, ma soltanto spirituale: un’espansione d’amore.

4. Il neokantismo affinità e differenze con il positivismo

A partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento si delinea nella cultura tedesca un vero e proprio ritorno a Kant. Esso trova le sue principali ragioni nella reazione all’idealismo, da un lato, e agli esiti materialistici del positivismo, dall’altro. Certamente la filosofia di Kant non era stata assente dalla scena culturale della prima metà del secolo, anzi era stata un termine di riferimento essenziale per i pensatori idealisti, così come per i loro avversari (ad esempio, Schopenhauer). Ciò che tuttavia caratterizza in modo nuovo questo «ritorno a Kant» è l’esperienza del positivismo. Se è vero, come abbiamo detto, che esso si presenta come una reazione ai suoi esiti materialistici, è anche vero che al positivismo lo accomunano, da un lato, la concezione della scienza fisico-matematica come modello di ogni conoscenza, dall’altro, l’esigenza di fondare le scienze dell’uomo da un punto di vista epistemologico. Naturalmente, il Kant al quale si vuole ritornare non ha per tutti gli stessi connotati. Il tratto comune delle varie forme di neokantismo consiste, tuttavia, nell’intendere l’attività filosofica come una riflessione critica sui risultati e sui metodi delle scienze.

la scuola di marburgo

L’espressione filosoficamente più significativa del movimento neokantiano è costituita dalla cosiddetta Scuola di Marburgo, dal nome della sede uni-

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versitaria in cui insegnarono o nella quale si formarono i suoi principali esponenti. L’iniziatore della scuola fu Hermann Cohen (1842-1918), professore a Marburgo dal 1873 al 1912 e in seguito alla Scuola superiore ebraica di Berlino. Il suo pensiero è esposto nel Sistema di filosofia, che si articola significativamente in tre parti: Logica della conoscenza pura (1902), Etica della volontà pura (1904) ed Estetica del sentimento puro (1912). Esso era stato preceduto da tre ampi studi su La teoria kantiana dell’esperienza (1871), La fondazione kantiana dell’etica (1877) e La fondazione kantiana dell’estetica (1879). Cohen ritiene che la Critica della ragion pura – di cui privilegia la seconda edizione – debba essere considerata come una teoria dell’esperienza, e in particolare dell’esperienza scientifica fisico-matematica, della quale deve garantire la validità. In altri termini, la critica non ha nulla da dire sui contenuti del sapere, ma si determina come riflessione sulla forma della conoscenza: la filosofia di Kant è «la critica del sistema, dei metodi e dei princìpi di Newton». Le dottrine esposte nel Sistema di filosofia costituiscono per Cohen uno sviluppo e – per così dire – un aggiornamento del pensiero di Kant. Innanzi tutto, Cohen chiarisce che la filosofia è una logica della scienza – cioè del sapere universalmente valido – e ha il compito di mostrare le condizioni che rendono possibile la scienza come tale. Ma quali sono queste condizioni? Per spiegare questo punto Cohen fa riferimento al modo in cui la matematica costruisce i suoi oggetti producendoli: Cohen ritiene, infatti, che la conoscenza scientifica proceda allo stesso modo. Il principio unico e originario di quest’ultima è il pensiero puro: esso produce gli oggetti della scienza, ma non in senso idealistico, bensì nel senso in cui nella matematica si parla di una «x» da determinare.

cohen e i fondamenti della conoscenza scientifica

L’altro principale esponente della scuola è Paul Natorp (1854-1924), professore a Marburgo dal 1892 e autore della Dottrina platonica delle idee (1903) e dei Fondamenti logici delle scienze esatte (1910). Egli si mantiene fedele alla maggior parte dei capisaldi del pensiero di Cohen, estendendoli anche ai campi della pedagogia e della psicologia. Quest’ultima non è considerata come una disciplina empirica, ma viene fatta coincidere con la logica – a sua volta intesa come conoscenza pura. Natorp insiste particolarmente sull’aspetto logico-metodologico della filosofia, per cui essa trasforma ogni fatto in problema: ciò comporta il riferimento a premesse sempre più fondamentali, nello sforzo di una sempre più rigorosa (ma mai definitiva) legalizzazione dell’esperienza. In questa direzione, si muove anche la sua interpretazione della dottrina platonica delle idee, considerate come le norme della conoscenza vera, i princìpi della sua universalità e necessità.

natorp e le idee platoniche

Ernst Cassirer nasce a Breslavia nel 1874. Addottoratosi con Cohen a Marburgo nel 1899, insegna a Berlino come libero docente e ad Amburgo dal 1919. L’avvento del nazismo nel 1933 lo costringe all’esilio (Cassirer era ebreo), dapprima in Inghilterra e in Svezia e, infine, negli Stati Uniti, dove insegna a Yale e alla Columbia University, e dove muore nel 1945. Tra le sue opere a carattere storico sono da ricordare: Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza dell’età moderna (in quattro volumi: 1906, 1908, 1920,

vita e opere di cassirer

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postumo), Vita e dottrina di Kant (1918), Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento (1927), La filosofia dell’Illuminismo (1932). Tra le opere a carattere più squisitamente teoretico vanno menzionate: Concetto di sostanza e concetto di funzione (1910), Filosofia delle forme simboliche (in tre volumi: 1923, 1925, 1929), Saggio sull’uomo (1944). l’interesse per le forme della cultura e per il linguaggio

Il punto di partenza di Cassirer è evidente soprattutto nelle opere di carattere storico, nelle quali privilegia il problema filosofico della conoscenza. L’interpretazione cassireriana di Kant – soprattutto quando ribadisce la normatività della struttura logica dell’esperienza scientifica – deve molto a Cohen, ma presenta anche un aspetto di novità. Cassirer ammette, infatti, la possibilità di più forme che rendono possibile non soltanto la scienza, ma anche la morale, l’arte e la religione. E in luogo della preferenza di Cohen per la Critica della ragion pura si ritrova in Cassirer una considerazione privilegiata per la Critica del giudizio in quanto approdo problematico del criticismo a una filosofia della cultura in generale. Anche nel suo lavoro storiografico di maggior mole, quello sulla storia del problema della conoscenza (tradotta in italiano con il titolo fuorviante di Storia della filosofia moderna), l’impostazione si era venuta evolvendo da un iniziale interesse – nei primi due volumi – per i problemi gnoseologici legati alle scienze esatte a una più ampia considerazione delle diverse forme culturali. E nello studio sul concetto di funzione – che nella scienza moderna si è venuto sostituendo a quello di sostanza – Cassirer mette in luce l’importanza del linguaggio, e quindi del segno, nella costituzione degli oggetti di cui si occupa la scienza. In questo modo, Cassirer estendeva la cosiddetta «rivoluzione copernicana» di Kant dal piano puramente epistemologico a tutte le forme della cultura, riconosciute nella loro irriducibile autonomia.

la nozione di forma simbolica

Nella Filosofia delle forme simboliche Cassirer presta attenzione a ogni attività spirituale nella sua forma caratteristica, nel suo manifestarsi peculiare, nel suo esser così, in una ricchezza di forme che rispecchia la stessa ricchezza della vita. Ciò che accomuna le diverse sfere della cultura (linguaggio, mito, religione, arte, ecc.) è la loro natura di forme simboliche in quanto rappresentano mediante segni simbolici il contenuto dello spirito. «Il simbolo non è il rivestimento meramente accidentale del pensiero ma il suo organo necessario ed essenziale [...]. L’atto della determinazione concettuale di un contenuto procede di pari passo con l’atto del suo fissarsi in qualche simbolo caratteristico».

da «animale razionale» a «animale simbolico»

Il compito della filosofia sarà, allora, quello di mostrare come attraverso l’espressione simbolica si generino le varie forme della realtà spirituale. A questo compito è preliminare la considerazione del linguaggio, inteso come l’attività specificamente umana attraverso la quale si organizza l’esperienza – immediata e grezza – in un mondo di simboli. Il mito, l’arte, la religione, la storia fanno parte dell’universo simbolico, sono i «fili che costituiscono l’aggrovigliata trama dell’umana esperienza». Se tutte le forme della vita culturale dell’uomo sono forme simboliche, allora anche l’uomo potrà essere ormai definito animal symbolicum. «In tal modo si indicherà ciò che lo

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caratterizza e che lo differenzia rispetto a tutte le altre specie, e si potrà capire la speciale via che l’uomo ha preso: la via verso la civiltà». Le dottrine di Windelband e di Rickert rappresentano l’espressione principale del secondo indirizzo del neokantismo, qualificato su base geografica come Scuola del Baden o del «sud-ovest», dalle sedi universitarie (Friburgo e Heidelberg) dove essi hanno insegnato.

la scuola del baden

Il pensiero di Wilhelm Windelband (1848-1915) è esposto in Preludi – una raccolta di saggi e discorsi pubblicata nel 1883 e accresciuta nelle edizioni successive – e nell’Introduzione alla filosofia (1914). La filosofia ha il compito di ricercare i princìpi a priori che garantiscono non soltanto la validità del conoscere, ma anche quella del volere e del sentire: questi princìpi sono valori universali e necessari. Windelband distingue tra validità empirica delle leggi naturali e validità normativa dei valori: le prime si esprimono in giudizi che affermano, per esempio, l’essere di un oggetto o una relazione tra rappresentazioni; i secondi entrano in gioco nei giudizi valutativi, del tipo «questa cosa è buona (o vera o bella)». I giudizi del secondo tipo sono quelli della filosofia, alla quale Windelband riconosce – in accordo con l’impostazione neokantiana – un compito essenzialmente critico nei confronti del sapere scientifico, che è invece del tutto autonomo. I valori non hanno un’esistenza di fatto, ma non per questo cessano di valere incondizionatamente. Essi costituiscono quella che Windelband chiama coscienza normale, una sorta di ideale dover-essere presente e agente in tutte le coscienze empiriche.

windelband e la filosofia dei valori

Una simile impostazione conduce Windelband a sostenere – nel saggio Storia e scienza della natura – una distinzione di metodo (fondata sulla diversità dello scopo conoscitivo) tra scienze della natura e scienze dello spirito. Windelband chiama le prime scienze nomotetiche, in quanto sono orientate alla ricerca di leggi (non importa se della natura o del mondo umano), e le seconde scienze idiografiche, in quanto si propongono di cogliere i processi nella loro individualità. In una delle sue ultime opere – l’Introduzione alla filosofia – egli riformulerà la distinzione tra conoscenza storica e scienza naturale: la conoscenza storica è quella che riguarda il mondo della cultura e che – a differenza della scienza naturale – ha relazione con i valori. Il terreno della realizzazione empirica dei valori è infatti la realtà storica.

la distinzione tra scienze nomotetiche e ideografiche

I temi della speculazione di Windelband verranno ripresi in forma sistematica dal suo allievo più importante, Heinrich Rickert (1863-1936), i cui scritti più significativi sono I limiti della formazione dei concetti delle scienze della natura (1896-1902), Il concetto di filosofia (1910), Sistema di filosofia (1921) e Problemi fondamentali della filosofia (1934). Anche per Rickert la scienza naturale è orientata verso la ricerca di leggi generali; tuttavia, essa incontra un limite – l’individualità dei fenomeni – oltre il quale non può andare. La sola forma di conoscenza dei processi individuali è la conoscenza storica. Rickert sottolinea che la distinzione tra scienza naturale e conoscenza storica è puramente metodologica, poiché i fatti fisici e quelli della vita interiore possono essere entrambi oggetto di conoscenza naturalistica o storica: «la

rickert: scienze naturali e conoscenza storica

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realtà diventa natura se la consideriamo dal punto di vista del generale e della legge, diventa storia se la consideriamo dal punto di vista del particolare e dell’individuale». la costituzione dell’oggetto storico in base al valore

Si è detto che la conoscenza storica ha per oggetto l’individuale, ma esso si ottiene quando alla molteplicità di elementi che costituiscono il contenuto dell’esperienza si attribuisce un «significato». Detto altrimenti, è il riferimento a un valore ciò che riduce a individualità il coacervo dell’esperienza, trasformandolo così in oggetto storico. L’intero ambito oggettivo della conoscenza storica si fonda, dunque, sul riferimento a «valori culturali» validi incondizionatamente: l’ambito della conoscenza storica è il mondo della cultura. Ciò non significa che le scienze della cultura procedano a «valutazioni»: semplicemente procedono attraverso un riferimento al valore, cioè individuano il loro oggetto sulla base dei valori che indirizzano il concreto agire dell’uomo.

5. Dilthey e lo storicismo tedesco la storia come problema

A un’esigenza critica in senso kantiano si può ricondurre l’avvio del dibattito – nella filosofia tedesca della fine dell’Ottocento – sul carattere, sul metodo e sull’oggetto delle discipline che studiano l’uomo e la realtà sociale nella loro dimensione storica. Analogamente al movimento neocriticistico – il quale cercava di giustificare gli sviluppi della scienza sulla base teorica della Critica della ragion pura – ci si propone in questo caso di determinare le condizioni di possibilità e di validità della conoscenza storica. Ciò comporta evidentemente un allargamento dell’indagine critica a un campo del sapere che era rimasto per lo più estraneo alla riflessione kantiana, soprattutto perché si era venuto costituendo scientificamente soltanto nell’Ottocento.

caratteri dello storicismo tedesco contemporaneo

Questo dibattito si sviluppa tra gli ultimi due decenni dell’Ottocento e gli anni Venti del nostro secolo, influendo in misura significativa non soltanto sul pensiero filosofico ma anche sulla ricerca storica e sulle scienze sociali novecentesche. Lo storicismo – nel suo significato più generale – asserisce che la realtà umana e la vita sociale sono essenzialmente storiche e che la storia costituisce, pertanto, il principale strumento per la loro comprensione. In questo senso, si può parlare di diversi «storicismi» nella cultura moderna e contemporanea, da Vico al marxismo o a Croce. Quello tedesco contemporaneo, tuttavia, si caratterizza – oltre che per l’aspetto metodologico, a cui si è già fatto cenno – per il conseguente rifiuto di ogni filosofia della storia, almeno da parte dei suoi maggiori esponenti. Tra le premesse dello storicismo contemporaneo, oltre alla crisi della speculazione idealistica e alla reazione a certi esiti del positivismo, ci sono la ripresa del criticismo e soprattutto il grande sviluppo degli studi storici nell’Ottocento.

la vita di dilthey

L’inizio del movimento storicistico tedesco si fa comunemente risalire al 1883, l’anno di pubblicazione della Introduzione alle scienze dello spirito di Wilhelm Dilthey. Nato a Biebrich, in Renania, nel 1833, studiò a Heidelberg e a

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Berlino. Divenne professore di Filosofia a Basilea nel 1867, poi in altre università tedesche. Dal 1882 fu professore all’università di Berlino dove concluse il suo insegnamento nel 1906. Morì a Siusi, nel Tirolo allora austriaco, nel 1911. I suoi primi interessi di storico si rivolsero dapprima alle manifestazioni letterarie, religiose e filosofiche del Romanticismo tedesco e culminarono nella pubblicazione (1867-70) di una vasta biografia di Schleiermacher rimasta incompiuta. In seguito, Dilthey allargò il proprio campo di indagine alla cultura del Rinascimento e della Riforma, all’Illuminismo e all’idealismo: Intuizione del mondo e analisi dell’uomo nel Rinascimento e nella Riforma (189194), Il secolo XVIII e il mondo storico (1901), Esperienza vissuta e poesia (1906), La storia giovanile di Hegel (1905-6).

la produzione giovanile

Nel 1883 era apparso il primo degli studi teorici importanti – L’introduzione alle scienze dello spirito – nel quale Dilthey si proponeva di giustificare l’autonomia delle scienze dello spirito rispetto a quelle naturali. La ricerca impostata in quest’opera venne ripresa e sviluppata in una serie di scritti successivi. Nelle Idee di una psicologia descrittiva e analitica (1894), Dilthey attribuisce alla psicologia una funzione fondante nei confronti delle altre scienze dello spirito.

la fase della definizione delle scienze dello spirito

Questa posizione verrà abbandonata negli ultimi scritti, che rappresentano il risultato più maturo delle sue ricerche: Studi sulla fondazione delle scienze dello spirito (1905-10) e La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito (1910). È ancora importante ricordare i saggi sull’Essenza della filosofia (1907) e I tipi di intuizione del mondo (1911), nei quali la stessa filosofia è considerata nella sua dimensione storica, come una particolare – e quindi relativa – intuizione del mondo.

gli ultimi scritti

Nell’Introduzione alle scienze dello spirito Dilthey fornisce sostanzialmente un insieme di criteri di distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, delineando nel contempo una sorta di enciclopedia di queste ultime. Il primo e fondamentale criterio della distinzione tra le scienze storiche e quelle della natura è costituito dall’omogeneità tra soggetto e oggetto della ricerca, cioè dall’appartenenza del soggetto conoscente allo stesso «mondo» sul quale verte l’indagine.

la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito

Nelle scienze della natura soggetto e oggetto sono tra loro distinti; nelle scienze dello spirito essi si presentano invece indissolubilmente connessi. Infatti, le scienze naturali studiano un complesso di fenomeni esterni all’uomo, mentre le scienze della storia e della società studiano un dominio di cui l’uomo fa parte integrante e di cui ha coscienza immediata. In tale esperienza immediata l’uomo si riconosce sovrano del proprio volere, responsabile delle proprie azioni e libero di sottoporre tutto al vaglio del pensiero. Dunque, la natura è il mondo della necessità meccanica – esprimibile in forma di leggi – mentre la storia è il dominio della libertà.

l’uomo appartiene al mondo storico-sociale che studia

Ma a quale di questi due mondi l’uomo propriamente appartiene? Per Dilthey, l’uomo è una vivente unità psico-fisica, giacché fa contemporanea-

il dualismo spirito-materia

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mente parte del mondo della natura e del mondo della storia. Da un lato, quindi, l’uomo è sottoposto ai condizionamenti meccanico-naturali; dall’altro, è un soggetto libero. A questo riguardo, Dilthey precisa che processi spirituali e processi materiali non sono tra loro comparabili, e soprattutto che i primi non possono essere derivati dai secondi. l’esperienza vissuta e l’unità del mondo umano

L’altro criterio di distinzione tra le scienze dello spirito e le scienze della natura è che le prime si fondano sull’esperienza interna, mentre le seconde si basano sull’esperienza esterna. I processi naturali possono essere conosciuti soltanto attraverso la percezione esterna; i processi storico-sociali sono «comprensibili dall’interno». Mentre il rapporto con la natura è un rapporto fra termini estranei, quello con il mondo umano si presenta come un rapporto immediato, giacché il soggetto conoscente ne è parte integrante. L’uomo ha infatti un’esperienza immediata della vita spirituale nella propria interiorità, un’esperienza che non comporta nessuna mediazione concettuale. I dati delle scienze dello spirito derivano dall’esperienza interna che l’uomo ha di sé. Questa coscienza immediata del proprio stato interiore – che Dilthey chiama esperienza vissuta – include anche la comprensione che si può avere degli altri uomini. Nell’esperienza vissuta, dunque, trova espressione immediata l’unità stessa del mondo umano che costituisce l’oggetto delle scienze dello spirito.

i metodi della spiegazione e della comprensione

Si è detto che le scienze della natura e le scienze dello spirito hanno oggetti differenti – rispettivamente la natura e la storia – e che si basano su differenti tipi di esperienza – rispettivamente la percezione esterna e l’esperienza vissuta. Quali sono, dunque, i metodi con cui ricercano i loro oggetti? Le scienze naturali si propongono di fornire una spiegazione (Erklären) causale dei fenomeni, mentre le scienze dello spirito mirano a una comprensione (Verstehen) del mondo umano, servendosi di categorie come quelle di significato, fine, valore.

quali sono le scienze dello spirito?

Per Dilthey, la struttura stessa del mondo umano è storica, giacché storico è il suo nucleo fondamentale, cioè l’individuo, costituito da un complesso di

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Scienze della natura

Scienze dello spirito

esperienza esterna (Erfahrung)

esperienza vissuta (Erlebnis)

oggetto esterno all’uomo

oggetto omogeneo all’uomo

spiegazione

comprensione

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rapporti storicamente condizionati, dai quali sorgono i sistemi di cultura e di organizzazione della società. Le scienze dello spirito abbracciano, dunque, sia le discipline che studiano le manifestazioni del mondo umano nella loro individualità (ad esempio, la storia nelle sue diverse forme: politica, letteraria, artistica), sia le discipline di tipo generalizzante che tendono alla scoperta delle uniformità presenti nel mondo umano (ad esempio, la psicologia, la sociologia, ecc.). Negli scritti posteriori all’Introduzione Dilthey non solo riprende temi già affrontati – la distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito, da un lato, e tra spiegazione e comprensione, dall’altro; la natura essenzialmente storica dell’uomo – ma approda anche a una più matura formulazione della sua «critica della ragione storica». In questa fase del suo pensiero, egli ritiene che la conoscenza del mondo umano non sia più data immediatamente nell’introspezione, ma possa essere raggiunta soltanto attraverso la considerazione dei prodotti storici in cui esso si esprime.

le oggettivazioni dell’umano

Mediante l’idea dell’oggettivazione della vita noi perveniamo per la prima volta a gettare uno sguardo sull’essenza di ciò che è storico. Tutto è qui sorto dall’attività spirituale e reca quindi il carattere della storicità: perfino nel mondo sensibile esso si inserisce come prodotto della storia. Dalla distribuzione degli alberi in un parco, dalla disposizione delle case in una strada, dallo strumento appropriato di un artigiano fino alla sentenza del tribunale, tutto è intorno a noi, a ogni ora, storicamente divenuto. Ciò che lo spirito immette oggi del proprio carattere nella sua manifestazione di vita, è domani, quando ci sta dinanzi, storia. Col procedere del tempo noi siamo attorniati dalle rovine di Roma, da cattedrali, dai castelli della monarchia assoluta. La storia non è nulla di separato dalla vita, nulla di staccato dal presente a causa della sua distanza nel tempo (La costruzione del mondo storico nelle scienze dello spirito, sez. II, III, 1).

Mediante un richiamo alla tradizione ermeneutica della cultura tedesca – a cui Dilthey si era accostato attraverso lo studio di Schleiermacher – la comprensione della vita viene ora definita come «il processo in cui perveniamo a conoscere, in base a segni dati sensibilmente, un elemento psichico del quale essi sono l’espressione». La comprensione si configura, dunque, come un riferimento retrospettivo alle oggettivazioni dell’«Erleben» (cioè del divenire dei vissuti di coscienza). Riprendendo un termine hegeliano, Dilthey chiama queste espressioni oggettive della vita con il nome di «spirito oggettivo» .

la comprensione dello «spirito oggettivo»

Accanto a quelle di vita e di spirito, l’altra nozione fondamentale per caratterizzare la struttura del mondo storico, è quella di connessione dinamica . Il mondo storico si presenta come una connessione generale che comprende una molteplicità pressoché infinita di connessioni particolari – dagli individui (che sono connessioni limitate dalla nascita e dalla morte) ai sistemi di cultura e di organizzazione sociale, alle epoche storiche. Ogni connessione ha il proprio centro in se stessa e si differenzia dalle altre per i valori che produce e per i fini che realizza. Ciò significa che non esistono valori e sco-

la struttura interna del mondo storico

alef

Dilthey Comprensione storica e oggettivazione della vita

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pi assoluti. Infatti, ogni connessione particolare – costituendosi attorno a scopi e valori specifici – non è altro che un aspetto parziale e relativo del mondo storico nel suo insieme. ogni epoca storica è diversa dall’altra

Ma, se ogni connessione particolare è autocentrata, occorre concludere che non esiste alcun rapporto tra di esse? Secondo Dilthey, le connessioni particolari non sono prive di relazioni reciproche: per esempio, le epoche storiche trapassano sì una nell’altra, ma è possibile comprenderle perché ognuna di esse conserva alcune tendenze dell’epoca precedente e ne contiene altre che preparano il passaggio a quella successiva. Ciò che Dilthey intende sottolineare non è tanto la relatività dei valori, quanto piuttosto il carattere finito di ogni fenomeno storico. In tal modo, egli nega la possibilità di una conoscenza globale della realtà storico-sociale, come quelle a cui aspirano la filosofia della storia o la sociologia positivistica. La liberazione dalla pretesa di un senso oggettivo dello sviluppo storico e della vita nella sua totalità costituisce anzi, per Dilthey, «l’ultimo passo verso la liberazione dell’uomo».

le filosofie sono prodotti storici

Il riconoscimento della fondamentale storicità del mondo umano – che costituisce la principale eredità lasciata da Dilthey al pensiero filosofico del Novecento – conduce al riconoscimento della storicità della filosofia stessa, accomunata in questo a qualsiasi altra manifestazione dell’attività spirituale. In altre parole, le dottrine filosofiche – in quanto forme di oggettivazione della vita – sono anch’esse dei prodotti storici, sebbene con alcune peculiarità. In primo luogo, esse si fondano sulla totalità della coscienza e si propongono di affrontare «il mistero del mondo e della vita»; inoltre, vantano una pretesa di validità universale.

affinità e differenze con l’arte e la religione

In quanto fondata sulla totalità della coscienza, la filosofia presenta analogie con l’arte e la religione, anch’esse tese a risolvere il mistero del mondo e della vita; ma, in quanto avanza pretese di validità incondizionata, essa se ne differenzia, avvicinandosi piuttosto al pensiero concettuale delle scienze. Queste, tuttavia, indagano aspetti specifici della natura o del mondo storico, mentre la filosofia ambisce a una conoscenza globale. Essa – afferma Dilthey, rimettendo in circolazione un termine che avrà molta fortuna – è una intuizione del mondo (in tedesco: Weltanschauung). Un’intuizione del mondo è un atteggiamento di fronte alla vita: non soltanto una forma di conoscenza, ma anche un insieme di valori, di scopi e di norme [t19]. Anche arte e religione sono intuizioni del mondo, ma non hanno pretese di validità assoluta. Tuttavia, questa pretesa della filosofia è naturalmente contraddetta dal fatto che tutte le dottrine filosofiche sono – a loro volta – dei prodotti storici.

le tre impostazioni filosofiche fondamentali

Pur fondandosi sulla totalità della vita psichica, la filosofia concepisce il mondo privilegiando di volta in volta la conoscenza causale, il sentimento o la volontà: si determinano in questo modo i tre tipi di dottrine filosofiche, che Dilthey chiama rispettivamente materialismo, idealismo oggettivo e idealismo della libertà. Il primo è rappresentato dalle varie forme di naturalismo, da Democrito ed Epicuro a Hobbes, agli enciclopedisti settecente-

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schi e al positivismo; il secondo è quello che da Eraclito e dallo stoicismo giunge fino a Spinoza, Shaftesbury, Goethe, Schelling, Schleiermacher e Hegel; l’ultimo comprende la filosofia ellenistico-romana, la filosofia cristiana, Kant, Fichte. L’intera storia della filosofia è caratterizzata dalla lotta incessante tra queste tre differenti impostazioni, destinata a non aver fine per l’impossibilità di una spiegazione incondizionata della realtà. Qual è allora la funzione che Dilthey riconosce alla filosofia? Essa consiste nell’«autoriflessione storica» e nell’indagine critica sulle proprie possibilità e sui propri limiti.

6. Spengler e il tramonto dell’Occidente Oswald Spengler (1880-1936) è l’autore di una fortunata opera – Il tramonto dell’Occidente – pubblicata tra il 1918 e il 1922, cioè tra gli ultimi mesi della Prima guerra mondiale e l’immediato dopoguerra. È questo un periodo in cui comincia ad accentuarsi la consapevolezza di vivere in un periodo di crisi sociale, economica e politica, in primo luogo, ma anche crisi intellettuale e di valori, insomma crisi delle certezze che l’inizio del secolo aveva ereditato dall’ottimismo ottocentesco. L’opera di Spengler è emblematica già dal titolo: la crisi e il crollo della Germania vengono interpretati come il tramonto dell’intera civiltà occidentale. In un quadro concettuale che riprende temi della speculazione di Goethe e di Nietzsche, Spengler tenta di rispondere alla domanda pressante sul destino della civiltà europea.

dal crollo della germania al crollo della civiltà

Per Spengler ogni civiltà è un organismo ed è quindi soggetta alla nascita, alla crescita, alla decadenza e alla morte. Questo ciclo di sviluppo ha il carattere dell’ineluttabilità, in quanto risulta necessariamente determinato dal corredo di possibilità di cui l’organismo dispone all’inizio della sua vita. Questo è il fondamento di ciò che Spengler chiama «logica organica della storia», che ha il suo principio nella necessità del destino. Il futuro della civiltà occidentale può essere previsto in maniera esatta, perché essa è destinata alla decadenza e alla scomparsa come tutte le altre: «a noi non è data la libertà di realizzare una cosa anziché l’altra. Noi ci troviamo invece di fronte all’alternativa di fare il necessario e di non poter fare nulla. Un compito posto dalla necessità storica sarà in ogni caso realizzato, o col concorso dei singoli o ad onta di essi». Spengler va quindi in cerca dei sintomi della decadenza dell’Occidente nell’analisi dei fenomeni economici e politici del mondo contemporaneo, e li trova nell’affermazione della borghesia, nel primato dell’economia sulla politica, nella democrazia .

ogni civiltà è destinata a finire

Se il ciclo evolutivo è lo stesso per tutte le civiltà, diverso è invece il loro corredo di possibilità. Spengler sviluppa qui – in senso radicalmente relativistico – la dottrina diltheyana dell’autoreferenzialità delle epoche storiche: ogni civiltà costituisce un mondo a sé, con un proprio linguaggio formale, un proprio simbolismo, una propria concezione della natura e della storia. Una comprensione effettiva è possibile, quindi, solo nell’ambito di una stessa civiltà. I valori di una civiltà appartengono soltanto a essa e non sono pos-

il relativismo dei valori

alef

Spengler Morfologia della storia universale

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sono essere condivisi dalle altre: ciò preclude la possibilità di una comprensione reciproca tra civiltà differenti.

7. Weber: il metodo delle scienze storico-sociali la formazione e gli esordi accademici

Max Weber nacque a Erfurt nel 1864, figlio di un uomo politico, deputato del partito nazional-liberale. Condusse i suoi studi, secondo il costume del tempo, in diverse università (Heidelberg, Berlino, Gottinga e poi ancora Berlino). Dopo l’abilitazione, insegnò a Friburgo e dal 1896 a Heidelberg. Ma il brillante inizio della carriera accademica fu interrotto – nel 1897 – da una grave crisi nervosa, che costrinse Weber a lasciare l’insegnamento e le ricerche per alcuni anni.

gli scritti metodologici e la riflessione sulla società moderna

Egli ritornò al lavoro nel 1901, rinunciando all’insegnamento universitario. Negli anni successivi pubblicò gli studi metodologici, i principali dei quali sono tradotti in italiano col titolo Il metodo delle scienze storico-sociali, e i celebri lavori sullo spirito del capitalismo e il suo rapporto con l’etica protestante. Nel 1904 diventò condirettore della prestigiosa rivista «Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik», nella quale pubblicò la maggior parte dei suoi studi. In questi stessi anni prese forma il problema centrale – storiografico e sociologico – di Weber, quello del processo di razionalizzazione della società moderna. Tra il 1910 e la fine della guerra mondiale attese alla composizione dei saggi e dei materiali che costituiranno le grandi opere – incompiute o pubblicate postume – sull’Etica economica delle religioni universali, su Economia e società, sulla Storia economica.

l’attività politica degli ultimi anni

Gli anni della guerra e dell’immediato dopoguerra videro Weber impegnato nell’attività politica attraverso la collaborazione alla «Frankfurter Zeitung», sulle cui pagine – pur approvando le ragioni ideali e politiche della guerra – prese posizione contro la politica ufficiale del Reich. A questo riguardo, occorre ricordare che Weber partecipò alla commissione d’armistizio e prese parte all’elaborazione della costituzione repubblicana di Weimar. Nel 1918 ritornò all’insegnamento. Morì a Monaco nel 1920. I suoi ultimi significativi scritti sono il saggio Parlamento e governo nel nuovo ordinamento della Germania e le due conferenze su Scienza come professione e Politica come professione.

scienze della natura e scienze storico-sociali

In accordo con Rickert, Weber asserisce che le scienze della natura sono orientate verso la ricerca di leggi generali, mentre le scienze storico-sociali studiano le realtà individuali. In altre parole, è il metodo adottato dalle scienze sociali a permettere la definizione del suo oggetto, e non le presunte qualità intrinseche o ontologiche di esso. In tal modo, se l’interesse della ricerca è rivolto alla conoscenza di regolarità secondo leggi universali, si costituisce l’oggetto della scienza naturale; se invece è rivolto alla conoscenza dei processi individuali, si costituisce l’oggetto storico.

il riferimento al valore e la ricerca

Weber recupera da Rickert non solo questa importante distinzione, ma anche la nozione di riferimento al valore [cfr. 6.4], inteso come criterio di se-

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lezione del dato delle scienze storico-sociali. L’oggetto storico infatti presuppone «la relazione dei fenomeni culturali con idee di valore», in quanto riguarda processi ai quali il ricercatore attribuisce significati culturali. Il distacco di Weber dalla filosofia dei valori è, tuttavia, netto a proposito del modo d’essere dei valori: essi non sono più forniti di una validità incondizionata e metastorica, ma sono i valori di una determinata cultura che lo studioso assume per condurre la propria ricerca. La ricerca storico-sociale ha quindi un punto di partenza «soggettivo», un particolare punto di vista che stabilisce l’oggetto e la direzione dell’indagine. Ma quali sono, allora, le condizioni fondamentali che permettono alle scienze storico-sociali di conseguire risultati «oggettivamente» validi, pur muovendo da presupposti «soggettivi»? È il problema che Weber affronta nei saggi metodologici più importanti: L’«oggettività» conoscitiva della scienza sociale e della politica sociale (1904) e Studi critici intorno alla logica delle scienze della cultura (1906) .

come ottenere risultati oggettivi?

Egli parla di « avalutatività » delle scienze sociologiche ed economiche per evidenziare come gli studiosi – nel descrivere i fenomeni storico-sociali – debbano astenersi dal fornire giudizi di valore su di essi, magari indicando come avrebbero dovuto essere o svolgersi. Weber distingue, infatti, la relazione al valore – che si è visto essere il criterio con cui il ricercatore individua l’oggetto della sua indagine – dal giudizio al valore – che è invece una presa di posizione valutativa (cioè l’approvazione di valori, la prescrizione di comportamenti, la difesa di scopi pratici, di posizioni politiche, ecc.). La ricerca sociale deve accertare ciò che è, non indicare ciò che deve essere. Giudicare della validità dei valori è, dunque, per Weber «una questione di fede, forse un compito della considerazione speculativa [...] sicuramente non l’oggetto di una scienza empirica». Ciò che lo scienziato sociale invece può fare – senza compromettere l’oggettività della sua indagine – è misurare l’efficacia con cui i valori assunti come scopo dell’agire sono perseguiti dai mezzi scelti per la loro realizzazione, ovvero analizzare le conseguenze derivanti dalla scelta di certi valori e dall’impiego di determinati mezzi.

l’esclusione dei «giudizi di valore»

Le scienze storico-sociali non possono mai dare una spiegazione completa ed esauriente di un avvenimento, dal momento che gli antecedenti ai quali un avvenimento può essere ricondotto sono – in linea di principio – infiniti. Ma alla ricerca storica spetta «la spiegazione causale di quegli elementi e di quegli aspetti dell’avvenimento in questione che rivestono un significato universale da determinati punti di vista, e perciò un interesse storico». Ciò può avvenire mettendo in relazione l’evento o il processo storico reale con processi storici possibili costruiti concettualmente. Se – eliminando o modificando un elemento della situazione – il processo possibile si discosterà da quello reale, allora l’elemento in questione potrà essere considerato in rapporto causale con l’evento che si intende spiegare. I giudizi di possibilità oggettiva – così Weber chiama i procedimenti di imputazione causale di questo tipo – mettono capo a un tipo di spiegazione condizionale, che nega il postulato positivistico (valido per le scienze naturali) del legame tra causalità e necessità. Tali giudizi portano alla scoperta delle

il ricorso alla spiegazione condizionale

alef

Weber L’oggettività delle scienze storico-sociali

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condizioni che favoriscono (e del grado in cui lo favoriscono) o che impediscono il verificarsi di un determinato avvenimento. i tipi ideali

Per far ciò, è necessario immaginare delle sequenze di avvenimenti che non si sono date empiricamente, e ricorrere a concetti generali che hanno il carattere di tipi ideali . Weber li definisce in questo modo: Il tipo ideale non è una rappresentazione del reale, ma intende fornire alla rappresentazione un mezzo di espressione univoco. [...] Esso è ottenuto mediante l’accentuazione unilaterale di uno o di alcuni punti di vista, e mediante la connessione di una quantità di fenomeni particolari diffusi e discreti, esistenti qui in maggiore e là in minore misura, e talvolta anche assenti, corrispondenti a quei punti di vista unilateralmente posti in luce, in un quadro concettuale in sé unitario. Nella sua purezza concettuale questo quadro non può mai essere rintracciato empiricamente nella realtà; esso è un’utopia, e al lavoro storico si presenta il compito di constatare in ogni caso singolo la maggiore o minore distanza della realtà da quel quadro ideale (Il metodo delle scienze storico-sociali, passim).

Ma quali sono le conseguenze dell’adozione dei tipi ideali da parte delle scienze sociali? 1. Le uniformità di comportamento constatate in questo modo non sono leggi vere e proprie, ma costruzioni concettuali che nella loro purezza ideale si ritrovano raramente, e a volte mai. Ciononostante, esse sono l’unico mezzo per costruire rappresentazioni della realtà empirica. 2. La ricerca storica – di per sé volta all’individualità – deve servirsi a scopo euristico delle scienze sociali astratte. In seguito, lo studio delle regolarità dell’agire umano arriverà a rappresentare uno scopo autonomo della ricerca storico-sociale, lo scopo della sociologia.

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Scienze naturali

Scienze storico-sociali

oggetto: regolarità secondo leggi generali

oggetto: individualità

spiegazione causale (causalità necessaria)

spiegazione causale (causalità condizionale)

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giudizi di possibilità oggettiva

regole dell’esperienza tipi ideali

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8. Weber: l’analisi del mondo moderno Il problema della natura e della genesi del capitalismo era largamente dibattuto nella cultura tedesca degli ultimi anni dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento. Erano da poco stati pubblicati da Engels il secondo e il terzo libro del Capitale di Marx, e le teorie marxiane cominciavano ad acquisire diritto di cittadinanza accademica presso economisti e storici. Uno dei primi studiosi ad aver considerato il Capitale come opera scientificamente valida fu Werner Sombart (1863-1941), condirettore con Weber dell’«Archiv für Sozialwissenschaft und Sozialpolitik» e autore del libro Il capitalismo moderno (1902). In quest’opera, l’autore presentava il capitalismo moderno come il risultato della combinazione della tendenza al maggior guadagno possibile con un orientamento razionale dell’agire.

il contributo di sombart

Anche Weber – come Sombart – riconosceva nel razionalismo economico il carattere del capitalismo moderno. Anch’egli infatti individuava come suoi caratteri costitutivi l’organizzazione razionale dell’impresa, la tendenza al profitto sulla base del calcolo del capitale, la redazione di bilanci preventivi e consuntivi, la separazione tra impresa e amministrazione domestica, l’impiego del lavoro formalmente libero, l’esistenza di un libero mercato. Ma accanto a questi elementi, Weber indicava un aspetto che – dal punto di vista marxiano – si direbbe «sovrastrutturale». Si tratta dello spirito del capitalismo, cioè di una specifica mentalità economica che – a suo avviso – affonda le sue radici nel terreno della religione.

il capitalismo come mentalità

Il problema di Weber è quello di spiegare «il particolare carattere del capitalismo occidentale e, in seno a questo, di quello moderno, e le sue origini». Non era nuova la constatazione del più avanzato grado di sviluppo economico e civile delle società in cui si erano diffuse le confessioni riformate. Weber ne trae spunto per impostare la sua tesi del rapporto tra la mentalità capitalistica e l’etica economica del protestantesimo ascetico (cioè del calvinismo e delle sètte anabattistiche e puritane). Il credente di queste confessioni – convinto che la sua salvezza o la sua dannazione siano decretate da Dio dall’eternità e non dipendano dalle sue opere – cerca una «conferma» della grazia divina, e la trova nel successo economico. In tal senso, il compimento del proprio dovere nel mondo e la riuscita economica sono interpretati come un segno dell’elezione divina. Si caricano, quindi, di significato religioso i caratteri dell’operosità, dello zelo, della coscienza rigorosa e severa, che si traducono nella concezione della professione come vocazione e in una condotta di vita metodica. In seguito, il capitalismo si è spogliato di questo senso etico-religioso, ma è rimasta la tendenza al profitto – concepito come scopo a sé – ed è rimasto l’abito di una condotta metodica («razionale») di vita [t20].

successo mondano ed elezione divina

È evidente che la teoria weberiana dell’origine dello spirito capitalistico è in contrasto con la concezione marxiana, dal momento che rovescia il rapporto tra struttura economica e sovrastruttura [cfr. 3.6]. Occorre, tuttavia, sottolineare che l’opera di Weber non si propone affatto di sostenere un

la critica a marx e il ruolo della sovrastruttura

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qualsivoglia primato di fattori «spirituali» su quelli materiali. Egli, infatti, rifiuta ogni pretesa di spiegazione onnicomprensiva dei fenomeni storico-sociali e ogni assolutizzazione di princìpi, giacché l’unica forma possibile di spiegazione è, come si è visto, quella condizionale. Dalla sua ricerca egli trae soltanto la conclusione – limitata al problema del sorgere della mentalità economica razionale del capitalismo – che vi è uno stretto rapporto tra questa e l’etica economica del protestantesimo ascetico. l’oggetto della sociologia

Negli ultimi anni della sua vita, gli interessi di Weber si orientarono sempre di più verso la sociologia, con lo scopo di determinarne la specificità rispetto alla ricerca storica e alle altre scienze sociali. Già nel saggio Su alcune categorie della sociologia comprendente (1913), Weber definiva la sociologia come lo studio dell’agire sociale, cioè di quell’agire che si riferisce all’agire di altri individui. Essa si occupa dell’agire umano sotto due aspetti: 1) in quanto è fornito di senso, ossia di un termine di riferimento e di una direzione rispetto a esso; 2) in quanto mostra nel suo corso connessioni e regolarità – al pari di ogni altro accadere. Si tratta di una disciplina che ha per scopo la ricerca di uniformità di comportamenti, e quindi la formulazione di generalizzazioni: in questo senso, essa si avvicina alla scienza naturale.

il metodo della sociologia

La sociologia si distingue dalla scienza naturale perché richiede il ricorso alla comprensione (Verstehen). Le connessioni e le regolarità dell’atteggiamento umano devono, infatti, essere «interpretate»: esse non sono leggi assolute – alla maniera della sociologia positivistica – ma uniformità espresse in forma di tipi ideali e constatabili empiricamente. Viene ripreso qui un concetto di chiara matrice diltheyana, ma con un significato assai diverso: la comprensione deve sempre essere controllata con la spiegazione causale.

sociologia e ricerca storica

Da questo punto di vista, si precisa in modo nuovo il rapporto tra scienza sociale e ricerca storica: esse rappresentano due direzioni di ricerca autonome e tra loro complementari. La storiografia mira alla spiegazione causale di eventi individuali che rivestano un significato culturale, la sociologia «elabora concetti di tipi e cerca regole generali dell’accadere». La complessa (e incompiuta) costruzione di Economia e società si presenterà, allora, come lo studio sistematico dei rapporti tra i tipi di atteggiamento (e le corrispondenti forme di relazione sociale) e le forme di organizzazione economica.

agire sociale e razionalità

Secondo Weber, la sociologia si basa su una prima generale classificazione dei tipi fondamentali di agire sociale. All’inizio di Economia e società, infatti, Weber distingue tra «agire razionale rispetto allo scopo», «agire razionale rispetto al valore», agire «affettivo» e agire «tradizionale» [t21]. Gli ultimi due rappresentano forme di atteggiamento non razionale, i primi due forme di razionalità contrapposte. Essi sono disposti in un ordine decrescente di intelligibilità, e proprio il richiamo alla nozione di intelligibilità ci consente di delineare meglio il problema della razionalità, così centrale nella sociologia di Weber. «Razionale», per Weber, è ciò che si può comprendere in base a una relazione tra mezzi e scopo: quanto più un comportamento umano è fondato su una relazione tra mezzi e scopo, tanto più risulta com-

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prensibile, cioè calcolabile e prevedibile. Come si è già detto, la razionalità non consiste, per Weber, nella conoscenza di leggi oggettive della società, e tantomeno nella rivelazione di significati immanenti alla storia o alla natura umana. Essa presuppone il disincantamento del mondo. Con questa espressione Weber intende indicare il progressivo abbandono da parte dell’uomo della spiegazione della realtà in termini magici in favore di una concezione tecnico-scientifica. Dal punto di vista scientifico il mondo è privo di senso: l’unico senso è quello che in esso viene introdotto dall’agire razionale. A questo riguardo, Weber introduce – nel capitolo sulle «Categorie sociologiche fondamentali dell’agire economico» di Economia e società – la distinzione tra razionalità formale e razionalità materiale. La prima consiste nella nel semplice calcolo – formale – del rapporto tra mezzi e fini, la seconda riguarda l’agire subordinato a determinati contenuti – materiali – di carattere valutativo. Questa distinzione, secondo Weber, non è riscontrabile soltanto nella sfera economica, ma è operante, oltreché nel capitalismo moderno, anche nelle istituzioni sociali che lo accompagnano: il diritto razionale-formale, l’amministrazione burocratica, il moderno sapere scientifico. La prevalenza della razionalità formale su quella materiale costituisce infatti uno dei tratti fondamentali della modernità.

le forme della razionalità occidentale

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in poche... parole Nella prima metà dell’Ottocento si sviluppa in Francia la corrente filosofica dello spiritualismo, i cui primi esponenti – ricollegandosi alla tradizione filosofica francese inaugurata da Montaigne e proseguita da Cartesio, Malebranche e Pascal – furono Victor Cousin, Félix Ravaisson ed Emile Boutroux. In opposizione ad ogni forma di materialismo e di empirismo, che avevano preso piede in età illuministica, e in contrasto con lo scientismo positivistico, essi intendono mettere in luce il primato dello spirito sull’elemento materiale: come la coscienza individuale, anche la realtà si configura come un divenire continuo, caratterizzato dalla contingenza, dalla libertà e dalla ricerca della novità. La maggiore figura dello spiritualismo francese ed europeo fu Henri Bergson, cui venne attribuito il Nobel per la Letteratura nel 1927. Il punto di partenza della filosofia di Bergson è l’esame dei dati immediati della coscienza, che appare come un flusso continuo e unitario di stati qualitativi sempre differenti. A questo riguardo, Bergson conclude che non è possibile trattare i dati della coscienza come delle grandezze fisiche, quantitativamente misurabili, perché l’essenza dell’io è la durata, che ha carattere qualitativo. Bergson, inoltre, affronta il tema della relazione tra la percezione e la memoria: la prima è il frutto di una selezione delle immagini operata dal corpo e guidata da bisogni e interessi determinati; la seconda rappresenta il termine di riferimento della percezione. Ogni percezione si basa, infatti, su interessi e bisogni che si collocano nel passato e che risultano a loro volta condizionati da percezioni o azioni precedenti. Più esattamente, la percezione implica un riferimento ad uno dei due tipi 182

di memoria delineati da Bergson. Il primo è la memoria-abitudine, grazie alla quale reagiamo adeguatamente agli stimoli della situazione presente richiamando i meccanismi motori già messi alla prova nel passato. La memoria-abitudine si radica, tuttavia, sulla memoria-pura, che coincide con la durata reale della coscienza. Dopo avere distinto tra due possibili forme di conoscenza della realtà, l’intelligenza di cui si serve la scienza e l’intuizione di cui si serve la metafisica, Bergson nell’Evoluzione creatrice (1907) estende la durata dal piano della coscienza a quello dell’intera realtà, giungendo a sostenere che l’universo è come una totalità vivente, attraversata da un unico slancio creatore.

durata reale Espressione con cui Bergson indica la dimensione del tempo all’interno della coscienza. La durata esprime l’essenza della coscienza, costituita da un flusso ininterrotto di «dati immediati» che si fondono gli uni con gli altri in una irresolubile continuità. In tal senso, la durata reale coincide con la memoria propria dell’io. Bergson contrappone al tempo inteso come durata reale il tempo spazializzato, o tempo omogeneo. Quest’ultimo trae origine dall’operazione con cui l’intelletto applica alla durata della coscienza uno schema spaziale a essa estraneo. Nell’Evoluzione creatrice, la durata reale viene estesa dalla coscienza all’intera realtà e si manifesta come lo «slancio vitale» che sta alla base del processo evolutivo. immagine Contro l’idealismo, che ritiene che la realtà sia spirito, e il realismo, che suppone l’esistenza reale della materia, Bergson sostiene che la materia è un insieme di immagini. Queste ultime sono definite dal fatto di stare a metà tra la rappresentazione e la

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cosa. Il corpo è un’immagine particolare, che ha la funzione di selezionare le altre immagini in base ai suoi interessi e bisogni. Si definisce così il campo della percezione, ovvero l’ambito delle immagini conservate in mezzo alle infinite altre che vengono dimenticate. Le immagini selezionate dal corpo attraverso la percezione vengono immagazzinate nella memoria.

memoria Per Bergson, è possibile distinguere due tipi di memoria. Da un lato, c’è la memoria-abitudine che ha carattere puramente organico: sulla base degli stimoli ricevuti dalla percezione, essa prepara una risposta motoria all’ambiente. D’altro lato, c’è una memoria pura che contiene i ricordi indipendenti dalla percezione immediata e coincide con l’intera durata della coscienza. Le due memorie sono strettamente connesse tra loro. È dal serbatoio della memoria pura che vengono tratti i «ricordi puri» necessari per orientare la risposta motoria, ma, d’altra parte, soltanto attraverso la memoria-abitudine questi ricordi puri possono divenire «ricordi immagine» effettivamente operativi. È dunque impossibile ridurre i processi mentali all’aspetto fisiologico della vita psichica (memoria-abitudine), dimenticando che la sorgente profonda è sempre di natura spirituale (memoria pura). intelligenza Per Bergson l’intelligenza ha tre caratteristiche: a)

essa è fondata sul procedimento discorsivo dell’analisi e della sintesi, poiché scompone l’oggetto nelle sue componenti per mezzo di rappresentazioni parziali e spesso simboliche; b) essa riguarda soprattutto l’attività dell’uomo come homo faber, capace di costruire strumenti artificiali (in opposizione all’istinto, che è la capacità – posseduta anche dagli animali – di servirsi degli organi corporei) e di

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variarne indefinitamente la composizione; c) essa presuppone la concezione del tempo spazializzato, poiché soltanto la suddivisione quantitativa del tempo in istanti discreti consente la scomposizione dell’oggetto.

intuizione Essa prevede che l’oggetto sia colto dall’interno in maniera immediata, con una sorta di identificazione da parte del soggetto. Non ha quindi alcuna funzione sul piano pratico, ma è indispensabile per cogliere quelle realtà – come la coscienza e la sua durata reale – che si sottraggono a ogni parcellizzazione e a ogni divisione temporale. Soltanto attraverso l’intuizione è possibile una metafisica, cioè la penetrazione della realtà nella sua essenza. slancio vitale In francese: élan vital. Termine con cui Bergson indica il principio spirituale che sta alla base del processo evolutivo, imprimendo in esso una forza di sviluppo che non è né determinata né preordinata finalisticamente. «Lo slancio vitale di cui parliamo consiste, in sostanza, in un’esigenza di creazione. Esso non può creare in modo assoluto, perché incontra davanti a sé la materia, cioè il movimento opposto al proprio; ma esso si impadronisce di questa materia, che è pura necessità, e tende a introdurre in essa la maggior somma possibile d’indeterminazione e di libertà» (Evoluzione creatrice). In tal senso, lo slancio vitale è evoluzione che dà a se stessa la propria materia: quest’ultima non costituisce una realtà estranea allo spirito, ad esso contrapposta, ma il limite interno alla forza vitale. La materia rappresenta il provvisorio ripiegamento dello slancio vitale su se stesso, dopo che una sua particolare diramazione ha raggiunto il massimo dispiegamento delle sue potenzialità, senza per questo arrestarne il flusso interminabile.

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Non solo in Francia, ma anche in Germania si diffondono, nella seconda metà dell’Ottocento, alcune correnti filosofiche che si configurano come reazioni agli esiti materialistici del positivismo: il neokantismo e lo storicismo. I filosofi neokantiani promuovono un ritorno alla filosofia kantiana, intesa anzitutto come indagine critica sui risultati e sui metodi delle scienze, estendendo la riflessione epistemologica dalle scienze fisico-matematiche alle scienze dell’uomo. Si possono distinguere due indirizzi fondamentali del neokantismo, denominati in base alla collocazione delle università in cui si affermarono: 1) la Scuola di Marburgo, i cui maggiori esponenti furono Hermann Cohen, Paul Natorp ed Ernst Cassirer; 2) la Scuola del Baden, all’interno della quale si sono distinti Wilhelm Windelband e Heinrich Rickert. Cohen mette in luce il carattere produttivo della conoscenza scientifica che procede costruendo i propri oggetti. A Cassirer si deve la riflessione critica sulle forme che rendono possibile non soltanto la scienza, ma anche la morale, l’arte e la religione: di qui l’interesse per il linguaggio e il simbolo, considerati come mezzi attraverso cui l’uomo organizza l’esperienza e accede alla dimensione della cultura. Il dibattito sul carattere assoluto o relativo dei valori caratterizza, invece, la Scuola del Baden: in particolare Windelband opera una distinzione tra le scienze della natura (da lui chiamate nomotetiche, perché volte all’individuazione di leggi universali) e le scienze dello spirito (da lui chiamate ideografiche, perché volte a cogliere i processi nella loro individualità). Tra queste ultime, egli inserisce la conoscenza storica, il cui oggetto specifico è dato dal mondo della cultura: quest’ultimo viene inteso come il campo della realizza-

zione empirica dei valori. Come Windelband, anche Rickert ritiene che la conoscenza storica abbia per oggetto l’individuale: quest’ultimo si ottiene riferendo la complessità dell’esperienza e il concreto agire dell’uomo ad un significato unificante, e cioè ad un valore.

valore (In greco àxion, ciò che è

stimato, apprezzato). A iniziare dal neokantismo il termine viene a indicare ciò che accomuna il bene, il bello e il vero. La Scuola del Baden (Windelband e Rickert) sviluppa una «filosofia dei valori» intesa a garantire l’oggettività del valore, fondato sull’a priori kantiano: in questo contesto si apre un vasto dibattito a proposito dell’assolutezza o della relatività dei valori (il quale rappresenta la continuazione del dibattito sull’oggettività o soggettività del bene). Al principio della relatività dei valori è particolarmente sensibile lo storicismo tedesco che – considerandoli come prodotti del processo storico (Dilthey) – giunge a negare l’esistenza di valori assoluti e a ritenerli espressioni temporanee di singole civiltà (Spengler). L’inizio dello storicismo tedesco contemporaneo si fa risalire comunemente al 1883, l’anno della pubblicazione dell’Introduzione alle scienze dello spirito di Wilhelm Dilthey. Il tratto fondamentale di questa corrente filosofica consiste nel ritenere che il mondo umano e sociale siano essenzialmente storici e che, quindi, la storia sia lo strumento principale per la loro comprensione. Alcuni tratti comuni allo storicismo e al neokantismo sono dati dalla reazione agli esiti materialistici del positivismo, dall’attenzione per i prodotti culturali dell’uomo, intesi come espressione della sua attività spirituale, e dalla ripresa di una forma di criticismo, con la ricerca delle condizioni di possibilità e di validità della conoscen-

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za storica. I nuclei più importanti del pensiero di Dilthey sono i seguenti. 1) La distinzione tra le scienze della natura e le scienze dello spirito: le prime si basano sull’esperienza esterna e impiegano il metodo della spiegazione; le seconde, invece, si basano sull’esperienza vissuta e impiegano il metodo della comprensione. 2) L’attuazione di una vera e propria «critica della ragione storica»: la conoscenza del mondo umano può essere raggiunta soltanto passando attraverso l’esame dei suoi prodotti storici (e cioè, hegelianamente, dello «spirito oggettivo»). Secondo questa prospettiva, il mondo umano si presenta come un insieme di connessioni dinamiche, ognuna delle quali ha il suo centro in se stessa ed è caratterizzata da scopi e valori particolari, rivelando il carattere finito di ogni realtà storica e l’impossibilità di reperire un senso ultimo della storia. 3) Le dottrine filosofiche sono dei prodotti storici ed ogni filosofia esprime un’«intuizione del mondo», e cioè un atteggiamento complessivo nei confronti della vita, basato su conoscenze, valori e scopi. In altri termini, anche le filosofie sono per Dilthey delle oggettivazioni della vita spirituale dell’uomo: ognuna di esse – a differenza dell’arte e della religione – pretende di avere una validità assoluta, ma è destinata a scontrarsi col limite invalicabile della sua storicità.

comprensione / spiegazione

Con il termine «comprensione» Dilthey indica il metodo delle scienze dello spirito, che consiste nell’immedesimazione o «empatia» con l’oggetto della ricerca, in modo da riviverne psicologicamente i significati immanenti. Essa si contrappone quindi alla «spiegazione» delle scienze sociali, che esplicita nessi causali e leggi costanti, presenti oggettivamente nei fatti. La comprensione è quindi 184

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rivolta verso l’interno e si basa sull’esperienza vissuta (Erlebnis), che consente di immedesimarsi nei fatti storici e di renderli comprensibili cogliendone le finalità e il valore. La spiegazione, invece, considera l’oggetto esclusivamente come esterno.

connessione dinamica In Dil-

they indica la struttura incentrata intorno a un fine o a valori che conferiscono unità alle varie componenti. Le connessioni dinamiche esprimono sempre una totalità autoreferenziale, cioè un insieme dotato di valori e significati propri. Tali significati non sono quindi mai assoluti, ma sempre relativi alla connessione stessa. Le connessioni possono collocarsi su diversi livelli, dall’individuo (che è già una totalità con una finalità propria) alle formazioni culturali, dalle epoche storiche al mondo storico nel suo complesso. Uno dei maggiori rappresentanti della cultura tedesca della seconda metà dell’Ottocento fu Max Weber. Interessato al dibattito metodologico sulla distinzione tra scienze della natura e scienze dello spirito che aveva luogo in quegli anni tra alcuni esponenti del neokantismo e dello storicismo, l’opera di Weber è nota anche per l’analisi della genesi e della natura del capitalismo moderno, per la definizione dello statuto epistemologico della sociologia, per lo studio delle differenti tipologie del potere, per l’approfondimento dei risvolti etici dell’attività politica e scientifica. Le prime opere di Weber sono volte a definire l’oggetto e il metodo delle scienze storicosociali, basato sull’esclusione dei giudizi di valore, sul ricorso alla spiegazione causale di tipo condizionale, sull’utilizzo di tipi ideali. In ambito economico, Weber ha cercato di rovesciare la dottrina marxiana del primato della struttura sulla sovrastruttu-

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ra, mostrando come lo spirito del capitalismo affondi le sue radici nel terreno della religione, cioè mettendo in relazione la ricerca del successo economico con i princìpi etici del protestantesimo ascetico (la ricerca dell’elezione divina). In ambito sociologico, Weber ha indagato le differenti forme dell’agire sociale, ovvero di quell’agire che si riferisce all’agire di altre persone, e il processo di razionalizzazione tipico delle società occidentali. Quest’ultimo conduce al disincantamento del mondo, e cioè al progressivo abbandono da parte dell’uomo delle credenze magico-sacrali in favore di una concezione tecnico-scientifica della realtà. Il disincantamento del mondo si accompagna, secondo Weber, al primato della razionalità formale: nelle società capitalistiche moderne, infatti, la gran parte delle azioni umane appare guidata dal calcolo dei mezzi più appropriati per raggiungere fini determinati e non da princìpi di ordine valutativo.

avalutatività È il termine usato da Weber per indicare la doverosa assenza di giudizi di valore. Weber distingue, infatti, i «giudizi di valore» dalla «relazione al valore». Il giudizio di valore comporta una presa di posizione valutativa pro o contro determinati oggetti storici. La relazione ai valori è, invece, il criterio indispensabile che permette di distinguere i fatti significanti per la ricerca da quelli che non lo sono. In sostanza, essa corrisponde agli interessi teoretici che orientano la ricerca. Se la relazione ai valori è fondamentale nella scienza storica, il giudizio di valore toglie scientificità alla ricerca, che dev’essere sempre completamente «avalutativa». giudizi di possibilità oggettiva In Weber sono i giudizi che

rendono possibile la spiegazione causale (condizionale). Essi sono

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costruzioni ipotetiche di processi causali diversi da quello che si suppone essere stato effettivamente operante, per verificare quale conseguenza sarebbe derivata dall’assenza o dal mutamento di una particolare componente della serie causale. Il procedimento avviene nel modo seguente. 1) Si definisce la spiegazione causale ritenuta valida, ad esempio: la vittoria dei Greci a Maratona è stata la causa (nel senso della condizione) del futuro sviluppo culturale dell’Occidente. 2) Si ipotizza una serie causale diversa, ad esempio: la vittoria dei Greci è sostituita con quella dei Persiani. 3) Se le conseguenze che «ci si deve aspettare» logicamente in tal caso sono irrilevanti – in quanto non modificano sostanzialmente la re-

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altà storica – allora la serie causale che si è individuata è errata (la battaglia di Maratona non sta alla base dello sviluppo culturale dell’Occidente). Ma se sono da aspettarsi conseguenze completamente diverse (la cultura religioso-teocratica dei Persiani avrebbe impedito il nascere di una civiltà occidentale improntata alla libertà e alla democrazia), allora è confermata l’importanza della battaglia di Maratona come causa/ condizione dell’attuale cultura occidentale.

tipo ideale Nelle scienze storico-sociali qualsiasi concetto e qualsiasi regola empirica hanno un carattere «tipico-ideale». Il tipo ideale, sia esso un concetto generale o una regola empirica, non è

la rappresentazione di un dato reale ma il risultato di una costruzione concettuale, ottenuta mediante l’accentuazione unilaterale di alcuni elementi della molteplicità del dato empirico, in sé coerente e priva di contraddizioni. In quanto tale il tipo ideale è un’utopia nel senso letterale della parola. Esso pone astrattamente in luce gli elementi essenziali di un certo fenomeno o di un certo gruppo di fenomeni e serve come criterio di comparazione al quale deve essere riferito il dato empirico. Per esempio, sono tipi ideali i concetti, da Weber largamente usati, di «capitalismo», «economia cittadina», «feudalesimo», «imperialismo», ecc., ma anche complesse costruzioni concettuali, come il marxismo.

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i testi t17 Bergson / La durata reale Bergson

Saggio sui dati immediati della coscienza

cap. II

Il brano che riportiamo è tratto dal Saggio sui dati immediati della coscienza (1889), che è diviso in tre capitoli. Il primo riguarda la definizione della natura qualitativa degli stati di coscienza, mentre il terzo utilizza gli argomenti maturati nei primi due per una misurata difesa della libertà umana. È nel secondo capitolo, tuttavia, che viene trattato il problema fondamentale dell’opera, oggi tornato a rivestire interesse per la speculazione filosofica contemporanea: la natura del tempo.

Ci sono infatti, come mostreremo in dettaglio tra breve, due possibili concezioni della durata, l’una priva di ogni mescolanza, l’altra nella quale interviene surrettiziamente l’idea di spazio1. La durata assolutamente pura è la forma assunta dalla successione dei nostri stati di coscienza quando il nostro io si lascia vivere, quando si astiene dallo stabilire una separazione fra lo stato presente e quello anteriore. Perché ciò avvenga, non ha bisogno di immergersi interamente nella sensazione o nell’idea che si dà, poiché allora, al contrario, cesserebbe di durare. E non ha nemmeno bisogno di dimenticare gli stati anteriori: basta che, ricordandosi di essi, non li giustapponga allo stato attuale come un punto ad un altro, ma che li organizzi con esso, come avviene quando ci ricordiamo le note di una melodia fuse, per così dire, insieme2. Ma non si potrebbe dire che, sebbene queste note si succedano, noi le percepiamo comunque le une nelle altre, e che il loro in1. Ci sono, dunque, due concezioni possibili del tempo. La prima è quella del tempo spazializzato, cioè della durata fittiziamente raffigurata mediante la metafora dello spazio. La seconda è quella della durata considerata come essa viene immediatamente esperita nella coscienza, senza reinterpretarla secondo schemi temporali che non le sono propri: questa è la durata reale. 2. Per attingere la durata reale occorre semplicemente «lasciarsi vivere», cioè non proiettare sui dati della coscienza

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sieme è paragonabile a un essere vivente le cui parti, per quanto distinte, si compenetrano per l’effetto stesso della loro solidarietà?3 La prova di ciò è che quando andiamo fuori misura insistendo più del necessario su una nota della melodia, ciò che ci avverte del nostro errore non è la sua esagerata lunghezza in quanto tale, ma il cambiamento qualitativo che in questo modo abbiamo apportato all’insieme della frase musicale. È quindi possibile concepire la successione senza la distinzione come una compenetrazione reciproca, una solidarietà, una organizzazione intima di elementi, ciascuno dei quali, pur rappresentando il tutto, può essere distinto e isolato solo mediante un pensiero capace di astrazione. È certamente questo il modo in cui un essere contemporaneamente identico e mutevole, che non avesse alcuna idea dello spazio, si rappresenterebbe la durata. Ma, familiarizzati con l’idea dello spazio, addirittura ossessionati da essa, l’intro-

modelli interpretativi esterni (come quello spaziale). Per questo occorre evitare di isolare la singola sensazione da quelle che l’hanno preceduta, perché in questo modo si introduce nella successione dei dati della coscienza un rapporto di distinzione e di giustapposizione che è proprio dello spazio, ma non del tempo. Al contrario, bisogna lasciare che la singola sensazione sia compenetrata dalle precedenti e si fonda con esse, in modo da costituire un unico flusso privo di interruzioni o scansioni.

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3. Se si vuole individuare un modello

della durata reale tratto dall’ambito scientifico, esso non può più essere tratto dal campo della matematica (della quantità e dello spazio), ma – come indica il riferimento all’«essere vivente» – da quello della biologia (della qualità e della vita). Il modello biologico presuppone infatti il concetto di totalità organica, nella quale le singole parti sono inseparabili dall’intero.

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duciamo a nostra insaputa nella rappresentazione della pura successione; giustapponiamo i nostri stati di coscienza in modo da percepirli simultaneamente, non più l’uno nell’altro, ma l’uno accanto all’altro; in breve, proiettiamo il tempo nello spazio, esprimiamo la durata attraverso l’estensione, e la successione assume per noi la forma di una linea continua o di una catena, le cui parti si toccano senza penetrarsi4. Segnaliamo inoltre che quest’ultima immagine implica la percezione, non più successiva, ma simultanea, del prima e del dopo, e che sarebbe contraddittorio ipotizzare una successione che al tempo stesso fosse una pura successione e che si mantenesse in un solo e medesimo istante. Ora, quando si parla di un ordine di successione nella durata e di una sua reversibilità, si tratta di quella successione pura che abbiamo definito sopra e che è priva di mescolanza con l’estensione, oppure di quella successione che si dispiega in spazio, in modo tale che se ne possano abbracciare contemporaneamente più termini separati e giustapposti? La risposta non è dubbia: per stabilire un ordine tra termini bisogna infatti dapprima distinguerli e poi confrontare i posti che occupano; li si percepisce allora come molteplici, simultanei e distinti; in una parola, li giustapponiamo, e l’ordine che stabiliamo deriva dal fatto che la successione diventa simultaneità e si proietta nello spazio5. In breve, quando spostando un dito lungo una superficie o una li4. La concezione tradizionale dello

spazio come addizione progressiva di istanti è, dunque, il risultato di una proiezione surrettizia e ingiustificata dello schema spaziale ed estensionale nella sfera della temporalità e dell’intenzionalità. 5. Nella concezione del tempo spazializzato i diversi istanti non vengono percepiti originariamente come successivi, ma come simultanei. Essi sono, infatti, grandezze distinte le une dalle altre, in modo tale da poter dire che l’istante t2 è diverso dall’istante t1 perché viene dopo di esso. Per la stessa ragione, essi sono considerati come omogenei, cioè qualitativamente non differenziati, per cui si può parlare di una loro reciproca reversibilità: l’istan-

nea avrò una serie di sensazioni di qualità diverse, delle due cose l’una: o mi raffigurerò queste sensazioni solo nella durata, ma allora esse si susseguiranno in modo tale che non potrò, in un momento dato, rappresentarmene più d’una come se fossero simultanee e tuttavia distinte; – oppure distinguerò un ordine di successione, ma ciò perché io possiedo non solo la facoltà di percepire una successione di termini, ma anche quella di disporli insieme dopo averli percepiti; insomma, ho già l’idea di spazio. L’idea di una serie reversibile nella durata, o anche semplicemente di un certo ordine di successione nel tempo, implica dunque di per sé la rappresentazione dello spazio, e non può essere utilizzata per definirlo. Per dare a questa argomentazione una forma più rigorosa, immaginiamo una linea retta infinita, e su questa linea un punto materiale A che si sposta. Se questo punto prendesse coscienza di se stesso, sentirebbe di star cambiando, in quanto si muove: percepirebbe una successione; ma questa successione avrebbe per esso la forma di una linea? Certamente, a condizione però che in qualche modo esso potesse sollevarsi al di sopra della linea che percorre e percepire simultaneamente più punti giustapposti di essa: ma con ciò stesso darebbe luogo all’idea di spazio, ed è nello spazio, non nella durata pura, che vedrebbe svolgersi i cambiamenti che subisce6. Tocchiamo qui con mano l’errore di coloro che considerano la durata

te t2 potrebbe essere collocato al posto dell’istante t1, poiché ciò che li distingue è soltanto il loro ordine di successione, cioè il fatto che t2 venga dopo t1. In altri temini, nella concezione spaziale del tempo gli istanti sono percepiti come simultanei, cioè nel loro isolamento e nella loro indifferenza rispetto agli altri. Soltanto in un secondo tempo essi vengono ordinati in una successione temporale attraverso un procedimento di giustapposizione spaziale, per cui su una ideale linea di sviluppo l’istante t2 è collocato accanto a t1, l’istante t3 accanto a t2, e così via. Nella durata reale, viceversa, ciascuno stato d’animo è inseparabile da quelli che lo precedono e viene definito qualitativamente proprio dal fatto che in esso

confluiscono tutti i precedenti dati della coscienza. In altri termini, nella durata reale, la percezione della successione è originaria: in nessun modo si potrebbe invertire l’ordine di successione, connotando, ad esempio, la sensazione attuale come precedente a quella provata dieci minuti fa. 6. Nella durata pura (o reale) non esiste una pluralità di istanti autonomi che si collocano in un determinato ordine di successione. Esistono invece soltanto singoli stati di coscienza che, al loro interno, ricomprendono tutti gli stati precedenti, sentiti però non come qualcosa di diverso dallo stato presente, ma come le componenti del suo contenuto. La sensazione che ho avuto un minuto fa non è un’unità temporale

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pura come una cosa analoga allo spazio, ma di natura più semplice. Essi tendono a giustapporre gli stati psicologici, a formarne una catena o una linea, e non immaginano affatto di far intervenire in questa operazione l’idea dello spazio propriamente detta, l’idea di spazio nella sua totalità, in quanto lo spazio è un mezzo a tre dimensioni. Ma non è forse evidente a tutti che per scorgere una linea sotto forma di linea bisogna porsi al di fuori di essa, rendersi conto del vuoto che la circonda, e pensare, di conseguenza, uno spazio a tre dimensioni? Se il nostro punto cosciente A non ha ancora l’idea di spazio – ed è proprio questa l’ipotesi in cui ci dobbiamo porre – la successione degli stati attraverso cui passa non potrà assumere per lui la forma di una linea; le sue sensazioni si aggiungeranno invece dinamicamente le une alle altre, organizzandosi tra loro come le note di una melodia dalla quale ci lasciamo cullare. In breve, la durata pura potrebbe essere una successione di cambiamenti qualitativi che si fondono, si penetrano, senza contorni precisi, senza alcuna tendenza a esteriorizzarsi gli uni rispetto agli altri, senza alcuna parentela con il numero: sarebbe l’eterogeneità pura. Ma per il momento non insisteremo su questo punto: ci basta infatti aver dimostrato che, dall’istante in cui si attribuisce la più piccola omogeneità della durata, si introduce surrettizziamente lo spazio. [...] Che la nostra concezione abituale della durata derivi da una graduale invasione dello spazio nel campo della coscienza pura, lo prova moldistinta da quella che vivo ora, così come in un gregge di pecore la quattordicesima pecora è distinta dalla quindicesima. La concezione spaziale del tempo, invece, fa di ogni istante una unità distinta e omogenea che, come si è visto nella n. 5, riceve il suo significato temporale dall’essere inserita a un certo punto della successione spaziotemporale. 7. La concezione che solitamente abbiamo della durata, cioè del tempo, è di tipo spaziale. Essa è infatti il risultato, come abbiamo visto nelle note precedenti, della proiezione di uno schema spaziale sull’elemento del tempo: attraverso questo schema è possibile tra-

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to bene il fatto che per togliere all’io la facoltà di percepire un tempo omogeneo, basta staccare da lui quello strato più superficiale di fatti psichici che egli utilizza come regolatori7. Il sogno ci pone proprio questa condizione, poiché il sonno, allentando il gioco delle funzioni organiche, modifica soprattutto la superficie di comunicazione tra l’io e le cose esterne. Allora non misuriamo più la durata, la sentiamo; da quantità, ritorna allo stato di qualità; non c’è più valutazione matematica del tempo trascorso; essa ha lasciato il posto a un istinto confuso che, come tutti gli istinti può commettere degli errori grossolani ma talvolta anche procedere con una straordinaria sicurezza. Anche allo stato di veglia, l’esperienza quotidiana dovrebbe insegnarci a cogliere la differenza tra la durata-qualità, quella che la coscienza afferra immediatamente, e che probabilmente l’animale percepisce, e il tempo per così dire materializzato, il tempo divenuto quantità a causa di un dispiegamento nello spazio. Mentre scrivo queste righe, un orologio vicino batte le ore; ma il mio orecchio distratto se ne accorge solo quando si sono già fatti sentire parecchi colpi; dunque non li ho contati. Eppure, mi è sufficiente uno sforzo d’attenzione retrospettiva per fare la somma dei quattro colpi che sono già stati suonati, e aggiungerli a quelli che sento. Se allora, rientrando in me stesso, mi interrogo attentamente su ciò che è appena accaduto, mi accorgerò che i primi quattro suoni avevano colpito il mio orecchio e scosso la mia coscienza, ma che le sensazioni prodotte da

sformare l’elemento qualitativo che contrassegna la durata in quanto tale – come successione di stati d’animo diversi gli uni dagli altri nella loro singola specificità, ancorché fusi gli uni con gli altri – in un elemento quantitativo, cioè in segmenti di tempo omogeneo, privo di qualificazioni eccetto quella della misurabilità matematica. Ma questa operazione di spazializzazione non è una attività originaria della coscienza: al contrario, essa presuppone l’intervento di una riflessione simbolica – come si vedrà successivamente, di natura intellettuale – che va al di là della mera coscienza «immediata», poiché proietta su di essa gli schemi interpretativi –

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necessariamente spaziali e quantitativi – che servono a regolare il rapporto tra l’io e il mondo esterno. Per attingere la durata reale, aveva sostenuto Bergson all’inizio del testo (cfr. n. 2), bisogna «lasciarsi vivere», cioè occorre liberare la nostra coscienza da qualsiasi proiezione che non appartenga al suo sentimento immediato. Lo stesso risultato si ottiene nel sogno, dove, venendo meno il problema del rapporto con la realtà esterna, le determinazioni della coscienza non vengono più spazializzate e quantificate, ma percepite nel loro elemento qualitativo e vissute come un flusso irriducibile a misurazioni.

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ognuno di essi, invece di giustapporsi, si erano fuse le une nelle altre in modo da formare un insieme con una propria specificità, in modo da farne risultare una specie di frase musicale. Per valutare retrospettivamente il numero dei colpi, ho cercato di ricostruire questa frase con il pensiero; la mia immaginazione ha battuto un colpo, poi due, poi tre, e finché non è giunta proprio al numero quattro, la sensibilità, consultata, ha risposto che l’effetto totale differiva qualitativamente. Aveva quindi constatato a suo modo la successione dei quattro colpi battuti, ma non con un’addizione8, in modo del tutto diverso, e senza fare intervenire l’immagine di una giustapposizione di termini distinti. In breve, il numero dei colpi battuti è stato percepito come qualità, e non come quantità; è questo il modo in cui la durata si presenta alla coscienza immediata, ed essa conserva questa forma finché non cede il posto a una sovrapposizione simbolica, ricavata dall’estensione. – Quindi, per concludere, di-

8. Occorre distinguere tra addizione e

successione. La durata reale fornisce la semplice successione dei dati, in modo che ciascun dato che sopraggiunge si fonde e confonde con i precedenti, pur aggiungendo qualcosa di qualitativamente specifico. L’addizione è, invece, una successione per giustapposizione progressiva, ovvero una successione nella quale le singole unità che via via si aggiungono conservano la loro distinzione rispetto alle precedenti e si collocano spazialmente accanto a esse. 9. Si tratta della distinzione, operata da Bergson nelle pagine di questo capitolo che non sono qui antologizzate, tra la molteplicità numerica o quantitativa e la molteplicità qualitativa (caratteristica della durata reale). Nel primo caso, la molteplicità è data da una pluralità di elementi distinti e omogenei, che dà luogo appunto al numero. L’esempio addotto da Bergson stesso è quello del gregge di pecore: si tratta di una pluralità di individui quantitativamente distinti (ciascuna pecora è un’unità irriducibile alle altre) e qualitativamente omogenei (sono sommate soltanto pe-

stinguiamo due forme di molteplicità9, due valutazioni molto diverse della durata, due aspetti della vita cosciente. Al di sotto della durata omogenea, simbolo estensivo della vera durata, una psicologia attenta riesce a districare una durata i cui momenti eterogenei si compenetrano; al di sotto della molteplicità numerica degli stati di coscienza, una molteplicità qualitativa; al di sotto di un io dagli stati ben definiti, un io in cui la successione implica fusione e organizzazione. Ma la maggior parte delle volte noi ci limitiamo al primo di essi, e cioè all’ombra dell’io proiettata nello spazio omogeneo. La coscienza, tormentata da un insaziabile desiderio di distinguere, sostituisce il simbolo alla realtà, oppure scorge quest’ultima solo attraverso il primo. E siccome l’io così rifratto, e per ciò stesso suddiviso, si presta infinitamente meglio alle esigenze della vita sociale in generale e del linguaggio in particolare, esso lo preferisce, e perde di vista, a poco a poco, l’io fondamentale10.

core, senza prendere in considerazione le loro differenze individuali). In questo caso, la molteplicità è data dall’addizione di unità a unità, secondo uno schema giustappositivo di matrice spaziale, in modo da formare un determinato numero. Nel secondo caso, invece, la molteplicità è data dalla pluralità di elementi continui – le sensazioni che si succedono nella coscienza – i quali sono qualitativamente differenziati (ogni sensazione è diversa dalle altre), ma quantitativamente indeterminati, poiché gli elementi successivi si amalgamano immediatamente con quelli precedenti (le sensazioni successive si confondono con quelle precedenti in un’unica coscienza). Questo secondo tipo di molteplicità, dunque, non è numerica, e può assumere l’aspetto di numero soltanto se interviene la rappresentazione simbolica dello spazio. Nell’esempio qui addotto, la molteplicità numerica è quella che mi consente di dire, giustapponendo le singole unità secondo un modello di successione spaziale, che ho già sentito esattamente quattro colpi di orologio. La molte-

plicità della durata reale è invece quella che comporta la consapevolezza di aver sentito più colpi che rimangono tuttavia indistinti e come fusi in un’unica esperienza. 10. Alle distinzioni tra molteplicità numerica e molteplicità qualitativa, e tra tempo spazializzato e durata reale, corrisponde anche la distinzione tra l’io rifratto e l’io fondamentale. Il primo è quello che procede sempre quantificando il proprio oggetto e applicando a esso la rappresentazione dello spazio. Il secondo è invece quello che, precedentemente a ogni riferimento allo spazio, esprime i dati immediati della coscienza e coglie la durata reale. Il primo è indispensabile per regolare il rapporto tra io e mondo esterno e per agire sulla realtà; il secondo è necessario per cogliere l’io nella sua essenza. Ma, in realtà, abituato a servirsi sempre dell’io rifratto, l’uomo ne proietta i metodi anche sulla vita interiore, spazializzando e quantificando anche ciò che di per sé ha esclusivamente carattere qualitativo.

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GUIDA ALLA LETTURA 1. Dividi il testo in paragrafi e assegna un titolo a ognuno di essi. 2. Evidenzia sul testo le espressioni che definiscono il concetto di «durata» elaborato da Bergson. 3. Quale funzione riveste, nell’esposizione del concetto di «durata», la metafora della melodia e dell’essere vivente? 4. Che cosa serve a spiegare l’esempio della linea infinita e dello spostamento su di essa del punto A? 5. Elenca gli errori della concezione spazializzante del tempo. 6. In cosa consiste la «concezione abituale della durata» di cui parla Bergson? 7. Alla fine di questa lettura Bergson conclude: «Quindi distinguiamo due forme di molteplicità, due valutazioni molto diverse della durata». In che senso la durata vera si fonda sull’«io fondamentale»?

t18 Bergson / L’evoluzione creatrice Bergson

L’evoluzione creatrice

cap. I

L’evoluzione creatrice è l’opera più famosa di Bergson e, probabilmente, quella che più contribuì ad assicurargli il premio Nobel per la letteratura. Dal punto di vista concettuale essa, da un lato, mostra una profonda continuità con le opere precedenti – riprendendo e sviluppando i temi della durata reale, dell’opposizione tra intuizione e intelligenza, della limitazione del valore conoscitivo attribuito alla scienza dalla tradizione positivistica. D’altro lato, la novità dell’opera consiste nell’estendere il principio della durata dalla sfera della coscienza all’ambito dell’esistenza in generale, attenuando la contrapposizione dualistica tra materia e spirito fortemente presente nelle opere precedenti.

Ritorniamo, così, dopo un lungo giro, all’idea dalla quale eravamo partiti: quella di uno «slancio originario» della vita, che passa da una generazione di germi alla generazione seguente, mediante organismi sviluppati che servono a collegare i germi stessi. Questo slancio, conservandosi sulle linee di evoluzione tra le quali si divide, è la causa profonda delle variazioni, almeno di quelle che si trasmettono regolarmente, che si addizionano, che creano specie nuove. In generale, quando le specie hanno cominciato a divergere, a partire da 1. L’evoluzione, intesa come un unico slancio vitale che si espande a raggiera in più direzioni, consente di giustificare, insieme, la diversificazione delle specie e il carattere unitario del pro-

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una fonte comune, esse accentuano la loro divergenza col progredire della loro evoluzione. Tuttavia, su determinati punti, esse potranno e dovranno, anzi, evolvere identicamente, se si accetta l’ipotesi di uno slancio comune. È ciò che ci resta a dimostrare, in maniera più precisa, in base all’esempio stesso che abbiamo scelto: la formazione dell’occhio nei Molluschi e nei Vertebrati. In tal modo, l’idea di uno «slancio originario» potrà, d’altra parte, diventare più chiara1. Due punti sono ugualmente notevoli in un or-

cesso evolutivo, per cui sono riscontrabili analogie morfologiche in specie anche lontane tra loro. Naturalmente, questi due caratteri erano presenti – e pienamente giustificati – anche nella

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concezione classica, di matrice darwiniana, dell’evoluzione, sebbene la loro spiegazione fosse più complessa.

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gano quale è l’occhio: la complessità della struttura e la semplicità della funzione. L’occhio si compone di parti distinte quali la sclerotica, la cornea, la retina, il cristallino, ecc. L’analisi di ciascuna di queste parti andrebbe all’infinito. Per non parlare che della retina, si sa che essa comprende tre strati sovrapposti di elementi nervosi – cellule multipolari, cellule bipolari, cellule visive – ciascuno dei quali ha la sua individualità e costituisce, certamente, un organismo molto complesso: e questo non è che uno schema semplificato della delicata struttura di questa membrana. La macchina occhio è, dunque, composta di un’infinità di macchine, tutte di una complessità estrema. Tuttavia, la visione è un fatto semplice. Non appena l’occhio si apre, si ha la visione. E proprio perché il funzionamento è semplice, la più leggera distrazione della natura nella costruzione di questa macchina infinitamente complicata avrebbe resa impossibile la visione. Ciò che sconcerta è proprio il contrasto tra la complessità dell’organo e l’unità della funzione2. Una teoria meccanicistica ci farà assistere alla costruzione graduale della macchina sotto l’influenza delle circostanze esteriori, che o intervengono direttamente mediante un’azione sui tessuti, o, indirettamente, mediante la selezione dei tessuti più adatti. Ma, qualunque forma

2. Questo punto è per Bergson di capitale importanza per mostrare la superiorità della propria concezione evolutiva sulle tradizionali posizioni del meccanicismo e del finalismo. Ciò che – sempre secondo l’interpretazione bergsoniana – arrovella i sostenitori tanto del primo quanto del secondo è il divario tra la complessità costitutiva dell’organo e la semplicità della funzione da esso svolta. Nella prospettiva di Bergson questa diversità è facilmente spiegabile facendo ricorso alle due forme fondamentali di conoscenza: l’intelligenza e l’intuizione. L’intelligenza, che procede per analisi, scomponendo la realtà in pezzi la cui ricomposizione appare poi estremamente complessa, vede nell’organo, nella fattispecie nell’occhio, una macchina o uno strumento estremamente articolato nella sua

prenda questa tesi, anche a supporre che valga a spiegare, in una certa misura, la struttura delle singole parti dell’occhio, essa non riesce, tuttavia, a gettare alcuna luce sulla loro correlazione. Sopravviene, allora, la dottrina della finalità. Essa dice che le parti sono state unite insieme secondo un piano prestabilito, in vista di un fine. In tal modo, assimila il lavoro della natura a quello dell’operaio che procede, anch’esso, mediante la riunione di parti in vista della realizzazione di un’idea o dell’imitazione di un modello. Il meccanicismo rimprovererà, dunque, a ragione, al finalismo il suo carattere antropomorfico. Ma non si accorge ch’esso stesso procede secondo questo metodo, salvo a troncarlo a mezzo. Senza dubbio, esso ha fatto «tabula rasa» del fine da perseguire o del modello ideale, ma anch’esso ritiene che la natura abbia lavorato, come l’operaio umano, unendo insieme parti distinte. Un semplice sguardo sullo sviluppo di un embrione gli avrebbe mostrato, tuttavia, che la vita procede in modo affatto diverso. Essa non procede per associazione e addizione di elementi, ma per dissociazione e sdoppiamento3. Bisogna, dunque, sorpassare entrambi i punti di vista, quello del meccanicismo e quello del finalismo, i quali si basano, in fondo, su concetti cui l’intelletto è stato condotto dallo spet-

struttura. Per l’intuizione, invece, esso non è che l’espressione unitaria di una forza vitale altrettanto unitaria nella sua radice, ancorché poi differenziatasi in una miriade di diramazioni. Ecco perché il vedere è una funzione semplice, così come io, all’interno della mia esperienza personale, sento la semplicità dell’atto con cui alzo la mano, per quanto esso appaia assai complesso a un’analisi intellettuale esterna che lo scomponga nelle singole frazioni di movimento e nelle singole componenti dinamiche. 3. L’errore comune al meccanicismo e al finalismo sarebbe, dunque, quello di ritenere che gli organismi naturali siano il risultato di una composizione di parti (e, in ultimo, di elementi indivisibili), cioè che si proceda dai molti all’uno. Non importa, poi, se quest’opera

di composizione viene intesa come guidata da un’intelligenza superiore (come fa il finalismo, peccando di antropomorfismo, ma riuscendo a dare ragione delle connessioni tra le parti), oppure come l’esito di una cieca azione meccanico-causale (che evita l’antropomorfismo, ma non spiega l’organicità delle relazioni delle parti in un tutto). In realtà – sostiene Bergson – l’evoluzione non va dai molti all’uno, ma dall’uno ai molti. Essa parte, cioè, da un unico slancio vitale, che poi si differenzia progressivamente nelle singole specie e nei singoli individui. L’unitarietà e la semplicità della funzione dell’occhio è quindi data dal fatto che l’occhio stesso non è una realtà composita, ma la manifestazione unitaria di una ramificazione dell’unica forza vitale che sorregge l’evoluzione.

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tacolo del lavoro dell’uomo. Ma in qual senso sorpassarli? Dicevamo che, quando si analizza la struttura di un organo, si può andare, di decomposizione in decomposizione, all’infinito, sebbene il funzionamento del tutto sia un atto semplice. Questo contrasto tra la complicazione all’infinito dell’organo e la estrema semplicità della funzione è precisamente ciò che dovrebbe aprirci gli occhi. [...] Se io alzo la mano da A in B, questo movimento mi appare, al tempo stesso, sotto due aspetti: sentito dall’interno, è un atto semplice, indivisibile; percepito dall’esterno, è il percorso di una determinata curva. In questa linea potrò distinguere quante porzioni vorrò, e la linea stessa potrà essere definita come una determinata coordinazione di quelle posizioni tra loro. Ma le infinite posizioni e l’ordine che le collega le une alle altre sono scaturiti automaticamente dall’atto indivisibile per il quale la mia mano è andata da A in B. Il meccanicismo consisterebbe qui nel non tener conto che delle posizioni; il finalismo nel non tener conto che del loro ordine: ma l’uno e l’altro si lascerebbero sfuggire il fatto del movimento, che è la realtà stessa. In un certo senso, il movimento è qualcosa di «più» delle posizioni e del loro ordine, poiché basta porlo, nella sua semplicità indivisibile, per avere, al tempo stesso, e le infinite posizioni successive e il loro ordine, con in più qualcosa che non è né ordine, né posizione, ma che è l’essenziale: la mobilità4. In un altro senso, il movimento è qualcosa di «meno» della serie delle posizioni e dell’ordine che le collega: poiché, per disporre dei punti in un certo ordine, bisogna dapprima rappresentarsi tale ordine e, di poi, realizzarlo con quei punti: occorre un lavoro di riunione, e occorre dell’intelligenza. Invece, il movimento semplice della mano non implica nulla di tutto ciò: non è intelligente, nel senso umano della parola, e non è una riunione di elementi, poiché non è

4. È ovvio tuttavia che il movimento, inteso qui non come processo spazializzato, ma come divenire unitario, come durata, non può essere conosciuto attraverso l’analisi intellettuale, ma de-

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costituito di elementi5. Lo stesso si dica per il rapporto tra l’occhio e la visione. Vi è nella visione qualche cosa di «più» delle cellule che compongono l’occhio e della loro coordinazione reciproca: in questo senso, né il meccanicismo, né il finalismo si spingono così lungi come sarebbe necessario. Ma, in altro senso, meccanicismo e finalismo vanno troppo lungi, l’uno e l’altro, poiché attribuiscono alla natura la più formidabile delle fatiche di Ercole, supponendo che essa abbia sollevato sino all’atto semplice della visione una infinità di elementi infinitamente complicati; mentre, invece, la natura non ha sostenuto, per formare un occhio, fatica maggior di quanto ne abbia sostenuta io per alzare la mano. Il suo atto semplice si è diviso automaticamente in una infinità di elementi che noi scorgiamo coordinati secondo una medesima idea, allo stesso modo che il movimento della mia mano lascia cadere fuori di sé una infinità di punti che corrispondono ad una stessa equazione.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Dividi il testo in paragrafi e assegna un titolo a ognuno di essi. 2. Che cosa cerca di mostrare Bergson con l’esempio della formazione dell’occhio nei molluschi e nei vertebrati? 3. Esponi, in un testo non più lungo di 15 righe, la differenza tra la teoria dell’evoluzione di Bergson e quella di Darwin. 4. Bergson accomuna nella stessa critica le teorie finalistiche e quelle meccanicistiche. Evidenzia i passi in cui viene svolta tale critica. 5. Che cosa cerca di mostrare Bergson attraverso l’esempio del movimento della mano?

v’essere colto attraverso l’intuizione. L’intelligenza non basta: occorre quel di «più» che è offerto dall’intuizione. 5. Il movimento come durata è nello stesso tempo qualcosa di «meno» ri-

6. le reazioni al positivismo tra francia e germania

spetto al movimento spazializzato dell’intelligenza, appunto perché fa a meno delle schematizzazioni concettuali e linguistiche di cui l’intelligenza si serve nelle sue descrizioni analitiche.

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t19 Dilthey / L’intuizione del mondo Dilthey

I tipi di intuizione del mondo e la loro elaborazione nei sistemi metafisici

I, 3-4

La dottrina delle intuizioni del mondo, esposta in alcuni saggi degli ultimi anni della vita di Dilthey, assume come suo punto di partenza la vita, cioè la matrice più profonda a cui si possano ricondurre i prodotti dello spirito umano. Di fronte alla vita, riflettendo su di essa, l’uomo si forma quella che Dilthey chiama «esperienza della vita», di volta in volta differente nei singoli individui. Con il passare delle generazioni questa esperienza di vita si universalizza e agisce sugli uomini anche quando non ne sono consapevoli. «Tutto quanto ci domina sotto forma di costume, di consuetudine, di tradizione è fondato su tali esperienze di vita». Nella molteplicità delle visioni del mondo è possibile riscontrare affinità, che consentono di costruire una tipologia; ma questa, avverte Dilthey, può essere soltanto provvisoria, «nient’altro che uno strumento per vedere in modo storicamente più profondo».

Dalle mutevoli esperienze della vita emerge, di fronte all’apprendimento orientato verso la totalità, il volto della vita: volto contraddittorio, vitalità e al tempo stesso legge, ragione e arbitrio, volto che offre aspetti sempre nuovi, e quindi chiaro forse nei particolari ma completamente misterioso nell’insieme. L’anima cerca di raccogliere in un complesso le relazioni della vita e le esperienze in esse fondate, ma non vi riesce. Al centro di tutte le cose incomprensibili stanno la procreazione, la nascita, lo sviluppo e la morte. Il vivente sa della morte, e non è tuttavia in grado di intenderla1. Già dal primo sguardo a un morto, la morte risulta incomprensibile alla vita: su ciò poggia anzitutto la nostra posizione di fronte al mondo come a qualcosa di altro, di estraneo e di terribile. Nel fatto della morte vi è quindi una forza che costringe a rappresentazioni fantastiche che hanno il compito di rendere intelligibile questo fatto; fede nei morti, culto degli antenati, culto dei trapassati generano le rappresentazioni fondamentali della fede religiosa e della metafisica. E l’estraneità della vita si accresce nella misura in cui l’uomo sperimenta nella società e nella natura una lotta permanente, l’annientamento continuo di una creatura da parte di 1. Il mistero della vita si presenta di fronte a ciascuno in modo contraddittorio e mutevole: pur nella chiarezza di ogni singolo dettaglio, l’insieme risulta oscuro ed enigmatico. Neppure lo scorrere delle generazioni consente di avvicinarsi alla comprensione del tutto. In

un’altra, la spietatezza di ciò che opera nella natura. Emergono strane contraddizioni che nell’esperienza della vita vengono sempre più forti alla coscienza e non sono mai risolte: tra l’universale transitorietà e la volontà in noi presente verso qualcosa di saldo, tra la potenza della natura e l’autonomia del nostro volere, tra la limitatezza di ogni cosa nello spazio e nel tempo e la nostra facoltà di oltrepassare ogni limite. Questi misteri hanno impegnato i sacerdoti egizi e babilonesi al pari della predicazione cristiana, Eraclito al pari di Hegel, il Prometeo eschileo al pari del Faust di Goethe. Ogni grande impressione mostra all’uomo la vita in un aspetto particolare; il mondo appare in una luce diversa; dal momento che queste esperienze si ripetono e si connettono, sorgono le nostre disposizioni interiori nei confronti della vita2. Da una relazione vitale la vita intera riceve una colorazione e un’interpretazione nelle anime affettive o pensierose – così sorgono le disposizioni universali. Esse cambiano man mano che la vita mostra all’uomo aspetti sempre nuovi; ma nei diversi individui predominano, secondo la loro essenza, determinate disposizioni di vita. Gli uni si attaccano alle cose concrete, sensibili, e vivono nel godimento

particolare, la morte risulta incomprensibile alla vita; l’uomo si rende conto di trovarsi di fronte a una realtà imperscrutabile. Così, dalle diverse esperienze di vita nascono in ciascun uomo le disposizioni interiori nei confronti di essa.

2. È attraverso un meccanismo psico-

logico che si formano le disposizioni interiori nei confronti della vita, dove si conservano le grandi impressioni e quelle che si ripetono.

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immediato; altri perseguono, attraverso il caso e il destino, grandi scopi che danno durata alla loro esistenza; vi sono nature gravi che non sopportano la transitorietà di ciò che amano e posseggono, e alle quali la vita appare quindi priva di valore e quasi intessuta da vanità e da sogni, oppure che cercano qualcosa di permanente al di là di questa terra. Le più universali tra le grandi disposizioni di vita sono l’ottimismo e il pessimismo. Essi si differenziano però in svariate sfumature. A chi lo contempla in qualità di spettatore, il mondo – estraneo – appare come uno spettacolo variopinto e fuggevole; a chi governa ordinatamente la propria vita secondo un progetto, lo stesso mondo appare invece familiare, di casa: egli sta nel mondo a pie’ fermo e appartiene ad esso. Queste disposizioni di vita, le innumerevoli sfumature della posizione di fronte al mondo, costituiscono il terreno per la formazione delle intuizioni del mondo3. In queste si compiono, sulla base delle esperienze di vita in cui sono operanti le molteplici relazioni vitali degli individui nei confronti del mondo, i tentativi per risolvere il mistero della vita. E proprio nelle loro forme superiori si fa valere in modo particolare un procedimento: la comprensione di un dato incomprensibile mediante uno più chiaro. Ciò che è chiaro diventa mezzo di comprensione o fondamento di spiegazione di ciò che è incomprensibile. La scienza analizza, e quindi sviluppa relazioni generali dalle situazioni omogenee così isolate; religione, poesia e metafisica originaria esprimono il significato e il senso della totalità. Quella conosce, queste

3. Sulla base delle disposizioni di vita,

nelle varie forme che esse assumono, nascono le diverse visioni del mondo, che costituiscono la base dei diversi tentativi di risolvere l’enigma rappresentato dalla vita. Accade così che ciò che è più noto e che appare maggiormente chiaro venga assunto a criterio

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intendono. Una tale interpretazione del mondo, che rende trasparente la sua essenza molteplice attraverso un’essenza più semplice, comincia già col linguaggio, per svilupparsi poi nella metafora in quanto sostituzione di un’intuizione mediante un’altra affine che la rende in qualche senso più chiara, nella personificazione che avvicina e rende comprensibile umanizzando, oppure attraverso ragionamenti analogici, che determinano il meno noto a partire dal più noto sulla base dell’affinità e così si accostano ormai al pensiero scientifico4. Ovunque la religione, il mito, la poesia e la metafisica originaria cercano di rendere qualcosa intelligibile e capace di suscitare impressione, ciò avviene mediante il medesimo procedimento.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Delinea il rapporto che Dilthey istituisce fra vita e visione del mondo utilizzando le opportune citazioni. 2. Che cosa sono, secondo Dilthey, le «disposizioni interiori nei confronti della vita»? E quali sono le più universali tra esse? 3. Qual è il sapere che «conosce» e quali, invece, i saperi che «intendono»? 4. Come si costituiscono le intuizioni del mondo (Weltanschauungen)? Evidenzia sul testo la risposta.

di spiegazione di ciò che è incomprensibile. È ciò che accade nel linguaggio, nel mito, nella religione, nell’arte e da ultimo nella metafisica, dove si tratta sempre di determinare ciò che è meno noto attraverso ciò che è più noto. 4. L’intuizione del mondo, di cui Dilthey ha appena cercato di mostrare la

6. le reazioni al positivismo tra francia e germania

genesi, rappresenta il fondamento comune dell’arte, della religione e della filosofia. L’analisi condotta nel seguito dell’opera metterà in luce le differenze tra queste tre forme di intuizione del mondo, ma anche il loro comune carattere storico.

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t20 Weber / Protestantesimo e capitalismo Weber

L’etica protestante e lo spirito del capitalismo

passim

Ciò che distingue il capitalismo moderno dalle forme economiche che lo hanno preceduto è per Weber «l’organizzazione razionale-capitalistica del lavoro (formalmente) libero». Mettendo l’accento sull’aggettivo razionale, egli sposta l’analisi dal piano strutturale a quello della formazione degli atteggiamenti. La razionalità è un imperativo rigoroso che investe tutti gli aspetti dell’esistenza, le cui origini devono essere rintracciate in un nuovo modo di atteggiarsi di fronte al mondo: per Weber, queste origini sono, almeno all’inizio, di carattere essenzialmente religioso. Soltanto sotto l’influenza di una fede religiosa che insegni l’assoluta trascendenza di Dio, il mondo può essere spogliato di ogni residuo significato magico, disincantato. Il problema della genesi del capitalismo diventa così il problema della genesi dei suoi attori, cioè degli imprenditori. Ampiamente discussa da molti punti di vista, questa impostazione è tuttavia un imprenscindibile punto di partenza di molti tentativi moderni di spiegare il processo di modernizzazione. Essa è richiamata in molti luoghi dell’opera di Weber e trova la sua espressione classica nel saggio su L’etica protestante e lo spirito del capitalismo.

Si può controllare il proprio stato di grazia specialmente confrontando il proprio stato dell’animo con quello che, secondo la Bibbia, fu proprio degli Eletti, per esempio dei patriarchi. Solo un eletto ha realmente la fides efficax, egli solo è capace, in seguito alla rinascita (regeneratio) ed alla santificazione (sanctificatio) che ne consegue, di aumentare, durante tutta la vita, la gloria di Dio con opere buone, in realtà e non nella sola apparenza. Ed in quanto egli è cosciente del fatto che la sua condotta, per lo meno nel suo carattere fondamentale e nel costante proposito (propositum oboedientiae), riposa su di una forza in lui vivente per la maggior gloria di Dio, che dunque non soltanto è voluta, ma soprattutto è operata da Dio, egli rag-

1. Nelle analisi delle dottrine teologi-

che del protestantesimo, Weber non si riferisce direttamente agli scritti dei riformatori: non sono infatti tanto le dottrine teologiche a interessarlo, quanto la loro applicazione nella pratica. Pertanto, egli prende in esame soprattutto gli sviluppi sei-settecenteschi, in particolare attraverso scritti che riflettevano la concreta esperienza pastorale dei ministri religiosi, sia presbiteriani inglesi e scozzesi, sia metodisti e quaccheri delle colonie americane. Il capoverso che qui precede, e che riassume la dottrina calvinistica della grazia, pa-

giunge il sommo bene cui tende questa religiosità: la certezza della grazia1. [...] Non si dice ancora, come Franklin2: «Il tempo è denaro» ma questa sentenza vale, per così dire, in senso spirituale: esso è infinitamente prezioso, perché ogni ora perduta è tolta al lavoro a servizio della gloria di Dio. Senza valore, talvolta addirittura riprovevole, è anche la contemplazione inattiva, per lo meno se essa avviene a spese del lavoro professionale. Poiché essa è meno accetta a Dio dell’adempimento attivo della sua volontà nella professione. Oltre a ciò vi è per essa la domenica, e secondo il Baxter quelli stessi, che sono pigri nella loro professione non hanno tempo per Dio, quando ne è l’ora3. [...]

rafrasa una pagina della Westminster Declaration del 1657. Colui che si crede eletto, cioè strumento della Provvidenza, non può credere che la sua opera (o meglio l’opera che Dio compie per suo mezzo) non possa essere produttiva e buona. 2. Benjamin Franklin (1706-1790), uomo d’affari, scienziato, filosofo e uomo politico americano. Autodidatta intraprendente e geniale, fu un po’ l’ambasciatore del mondo americano tra gli illuministi europei. Qui Weber si riferisce al Consiglio ad un giovane commerciante, che Franklin aveva pubblicato

per diffondere l’esortazione al lavoro, alla probità e al risparmio. 3. Richard Baxter (1615-1691) fu uno dei più importanti pastori puritani inglesi, noto per la sua predicazione e i suoi scritti. Weber cita con molta frequenza i suoi sermoni. Ci sono molte ragioni che giustificano una indefessa attività: in primo luogo, essa è l’unico modo per onorare Dio, e, inoltre, è anche l’unico modo di disperdere i dubbi sulla propria salvezza. L’ozio è quindi visto come il nemico più pericoloso; il tempo deve essere speso al servizio della gloria di Dio.

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La parabola di quel servo, che fu scacciato perché non aveva messa a frutto la libbra a lui affidata, sembrava esprimere chiaramente questo comando. Volere esser povero significava, come spesso si portava per argomento, lo stesso che volere esser malato, e sarebbe stato riprovevole come santificazione delle opere e dannoso alla gloria di Dio. Ed infine il chieder l’elemosina da parte di uno che fosse stato capace di lavorare, era cosa non solo colpevole come pigrizia, ma anche, conformemente alla parola dell’apostolo, contraria all’amor del prossimo. Come il rafforzamento del significato ascetico della professione stabile mette, moralmente, in miglior luce il moderno ceto dei professionisti specializzati, così l’interpretazione in senso provvidenziale delle possibilità di guadagno conferisce un alone morale all’uomo d’affari moderno. L’aristocratica indifferenza del gran signore e la ostentazione da parvenu del ricco borioso sono ugualmente odiose all’ascesi. Un raggio di approvazione morale investe in pieno l’austero self-made man borghese: God blesseth his trade è una espressione costantemente usata per quegli Eletti, che avevano seguito con successo quelle disposizioni divine, e tutta la forza del Dio del Vecchio Testamento, che ricompensa appunto in questa vita i Suoi della loro pietà, doveva agire nel medesimo senso anche per il Puritano, che secondo il consiglio di Baxter, controllava il proprio stato di grazia colla statura spirituale degli eroi biblici, ed interpretava le sentenze della Bibbia «come gli articoli di un codice»4. [...] Ciò che l’epoca, religiosamente così viva del XVII secolo, lasciò alla sua utilitaria erede, fu 4. Il profitto e la ricchezza, riprovevoli quando conducono alla pigrizia e alla dissipazione, devono essere encomiati se sono il risultato del compimento del proprio dovere. Nella misura in cui essa implica uno sforzo incessante, la ricerca del guadagno è dunque un dovere dell’uomo d’affari. Il risultato dell’etica puritana è stato anche quello di produrre la formazione di capitale necessaria ai futuri sviluppi: «Se colleghiamo – dice Weber – le limitazioni sul consu-

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soprattutto una straordinaria buona coscienza – diciamo pure una buona coscienza farisaica – riguardo al guadagno di denaro, purché compiuto secondo le vie legali. [...] Era sorto un ethos professionale specificamente borghese. Colla coscienza di essere nella piena grazia del Signore e di essere da lui visibilmente benedetto, l’imprenditore borghese, se si manteneva nei limiti di una correttezza formale, se la sua condotta morale era irreprensibile, e l’uso che faceva della sua ricchezza non era urtante, poteva accudire ai suoi interessi, lo doveva anzi fare5. [...] Solo come un mantello sottile, che ognuno potrebbe buttar via, secondo la concezione di Baxter, la preoccupazione per i beni esteriori doveva avvolgere le spalle degli «eletti». Ma il destino fece del mantello una gabbia di acciaio. Mentre l’ascesi imprendeva a trasformare il mondo e ad operare nel mondo, i beni esteriori di questo mondo acquistarono una forza sempre più grande nella storia. Oggi lo spirito dell’ascesi è sparito, chissà se per sempre, da questa gabbia. Il capitalismo vittorioso in ogni caso, da che posa su di un fondamento meccanico, non ha più bisogno del suo aiuto. Sembra impallidire per sempre anche il roseo stato d’animo del suo sorridente erede: l’Illuminismo, e come un fantasma di concetti religiosi che furono, si aggira nella nostra vita il pensiero del dovere professionale. Ove l’adempimento di questo non possa esser posto direttamente in relazione coi più alti beni spirituali della civiltà, o dove inversamente non debba esser sentito anche soggettivamente come semplice costrizione economica, per lo più l’individuo

mo con la soppressione dei vincoli posti all’attività acquisitiva, il risultato pratico è ovvio: la formazione di capitale, a causa di una costrizione ascetica al risparmio». L’espressione God blesseth his trade significa Dio benedice i suoi commerci. 5. Il passaggio dal XVII al XVIII secolo segna il passaggio dell’entusiasmo religioso alla buona coscienza utilitaristica. È sorta e cresciuta un’etica specificamente economica. L’uomo d’affari

6. le reazioni al positivismo tra francia e germania

borghese può, anzi deve, accudire ai suoi interessi. Ma non è questa la sola eredità dell’etica del protestantesimo ascetico al capitalismo moderno; accanto a essa c’è «la confortante assicurazione» che i beni del mondo siano distribuiti in modo ineguale per opera della Provvidenza e per i suoi segreti fini, e c’è il riconoscimento e l’accettazione, sulla base del concetto di vocazione, dei ruoli diversi e complementari dell’imprenditore e dell’operaio.

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rinuncia ad ogni spiegazione di esso6. Nel paese, dove più fortemente si è sviluppato, negli Stati Uniti, l’attività economica, spogliata del suo senso etico-religioso, tende ad associarsi a passioni puramente agonali, che non di rado le imprimono precisamente il carattere di uno sport.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Riassumi attraverso un sistema di note a margine il contenuto del testo. 2. L’analisi del protestantesimo che Weber propone non è teologica, ma sociologica e conclude con il seguente giudizio: «non si dice ancora, come Franklin: “il tempo è denaro” ma questa sentenza vale, per così dire, in senso spirituale». Su quali elementi poggia il giudizio di Weber? 3. Costruisci sul tuo quaderno una tabella in cui indicare gli elementi propri dell’etica protestante e quelli propri del capitalismo.

6. Alla fine della sua ricerca, Weber

sottolinea la totale perdita di senso etico-religioso dell’attività economica nel mondo del suo tempo. Ormai il capitalismo vittorioso posa su un fondamento meccanico. La stessa cosa ribadirà significativamente nell’ultimo suo corso di lezioni (1919-20), che poi è di-

ventato la Storia economica: «la radice religiosa dell’uomo economico moderno si è disseccata». Al suo posto subentra un utilitarismo senza fede che guida il comportamento economico. Il mantello leggero è diventato la gabbia d’acciaio: il puritano volle essere un professionista, noi dobbiamo esserlo. È

assente ogni prognosi sul futuro del capitalismo, ma il quadro che si disegna nelle ultime pagine di Weber è quello di una crescente burocratizzazione, al pari di tutti gli aspetti della vita moderna. Sarà questo uno dei temi fondamentali della sua sociologia.

t21 Weber / L’agire sociale Weber

Economia e società

parte I, cap. I, § 2

I concetti di razionalità, razionalismo, razionalizzazione ricorrono con grande frequenza nell’intera opera di Weber. Non ci si deve meravigliare, quindi, se l’opera conclusiva (ancorché non conclusa) dell’attività dei suoi ultimi anni di vita, Economia e società, si apre con una tipologia dei modi di agire razionale. Dei modi di agire, perché la razionalità non è un attributo dell’essere umano né una legge del processo storico: questi, di per sé, non sono né razionali né irrazionali. La razionalità è, invece, un carattere che può essere attribuito all’agire sociale dei singoli, a seconda che sia orientato in base alla considerazione dei mezzi necessari per la realizzazione di un determinato scopo, oppure in base al perseguimento di un valore al quale viene attribuita validità incondizionata.

Come ogni agire, anche l’agire sociale può essere determinato1: 1) in modo razionale rispetto allo scopo – da aspettative dell’atteggiamento di oggetti del 1. Non ogni agire è un agire sociale.

«L’agire sociale (comprendendo il tralasciare e il subire) può essere orientato in vista dell’atteggiamento passato, presente o previsto come futuro, di altri individui», siano questi individui sin-

mondo esterno e di altri uomini, impiegando tali aspettative come «condizioni» o come «mezzi» per scopi voluti e considerati razionalmente in qualità di conseguenza;

goli e noti o una molteplicità indeterminata di persone. Un esempio di Weber: lo scontro tra due ciclisti è un semplice avvenimento analogo agli eventi naturali; sarebbe agire sociale, invece, il loro tentativo di evitarsi, il

passare a vie di fatto o discutere pacificamente di diritti di precedenza. I quattro tipi (ovviamente si tratta di tipi ideali) di determinazione dell’agire sociale che seguono sono disposti in ordine di intelligibilità decrescente.

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2) in modo razionale rispetto al valore – dalla credenza consapevole nell’incondizionato valore in sé – etico, estetico, religioso, o altrimenti interpretabile – di un determinato comportamento in quanto tale, prescindendo dalla sua conseguenza; 3) affettivamente – da affetti e da stati attuali del sentire; 4) tradizionalmente – da un’abitudine acquisita. 1. L’atteggiamento rigorosamente tradizionale – al pari della pura imitazione passiva [...] – sta precisamente al limite, e spesso al di là di ciò che si può definire, in generale, un agire orientato «in base al senso». Infatti esso è assai sovente una specie di oscura reazione a stimoli abitudinari, che si svolge nel senso di una disposizione una volta acquisita. La massa di tutto l’agire quotidiano acquisito si avvicina a questo tipo – il quale non soltanto si inserisce come caso-limite nella sistematica delle forme di atteggiamento, ma anche, dato che il legame con il patrimonio dell’abitudine può essere consapevolmente mantenuto in un grado e in un senso diverso (come si vedrà in seguito), viene ad accostarsi al tipo dell’agire affettivo2. 2. Il comportamento rigorosamente affettivo sta esso pure al limite, e sovente al di là dell’agire consapevolmente orientato «in base al senso»; e può essere una specie di reazione, priva di ostacoli, ad uno stimolo che va oltre la vita quotidiana. Esso costituisce una sublimazione quando l’agire condizionato affettivamente si presenta come liberazione cosciente di una situazione del sentimento: esso si trova allora, nella maggior parte dei casi (anche se non sempre), sulla via della «razionalizzazione in vista di un valore» o dell’agire in vista di uno scopo, oppure di entrambi3. 3. L’orientamento affettivo dell’agire e l’orientamento razionale rispetto al valore si distin-

2. L’agire rigorosamente tradizionale, cioè fondato su un’abitudine acquisita, rappresenta un caso-limite, in quanto soltanto al limite può essere considerato fornito di senso.

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guono per la consapevole elaborazione dei punti di riferimento ultimi dell’agire e per l’ordinamento progettato in maniera conseguente, che si riscontrano nel secondo. Per il resto essi hanno in comune il fatto che il senso dell’agire è riposto non in un risultato che stia al di là di questo, ma nell’agire in quanto tale, configurato in un certo modo. Agisce affettivamente chi soddisfa il suo bisogno, attualmente sentito, di vendetta o di gioia o di dedizione o di beatitudine contemplativa o di manifestazione di affetti (sia di carattere inferiore sia di carattere sublime). Agisce in maniera puramente razionale rispetto al valore colui che – senza riguardo per le conseguenze prevedibili – opera al servizio della propria convinzione relativa a ciò che ritiene essergli comandato dal dovere, dalla dignità, dalla bellezza, dal precetto religioso, dalla pietà o dall’importanza di una «causa» di qualsiasi specie. L’agire razionale rispetto al valore (nel significato che assume nella nostra terminologia) è sempre un agire secondo «imperativi» o in conformità a «esigenze» che l’agente crede gli siano poste4. Noi intendiamo parlare di razionalità rispetto al valore solamente in quanto l’agire umano si orienta in base a tali esigenze – ciò che avviene in misura assai diversa, ma il più delle volte alquanto modesta. Come sarà posto in luce, esso riveste un significato abbastanza rilevante perché lo si debba considerare un tipo particolare – sebbene non ci si proponga qui, del resto, di fornire una classificazione esauriente dei tipi dell’agire. 4. Agisce in maniera razionale rispetto allo scopo colui che orienta il suo agire in base allo scopo, ai mezzi e alle conseguenze concomitanti, misurando razionalmente i mezzi in rapporto agli scopi, gli scopi in rapporto alle conseguenze, ed infine anche i diversi scopi possibili in rapporto reciproco: in ogni caso egli non agisce quindi, né affettivamente (e in

3. Anche l’agire affettivo che, come quello tradizionale, è una forma di atteggiamento non razionale, si può considerare un caso-limite nello stesso senso.

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4. Nell’agire razionale rispetto al valore l’agire si conforma a imperativi o a «esigenze» ai quali viene attribuito un valore assoluto, prescindendo dalla considerazione delle conseguenze.

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modo particolare non emotivamente) né tradizionalmente5. La decisione tra gli scopi in concorrenza e in collisione, e tra le relative conseguenze, può da parte sua essere orientata razionalmente rispetto al valore: allora l’agire risulta razionale rispetto allo scopo soltanto nei suoi mezzi. Oppure l’individuo che agisce può – prescindendo da qualsiasi orientamento razionale rispetto al valore, in vista di «imperativi» e di «esigenze» – disporre gli scopi concorrenti e contrastanti, considerati semplicemente come dati indirizzi soggettivi di bisogni, in una scala stabilita in base alla loro urgenza da lui consapevolmente misurata, e di conseguenza può orientare il suo agire in maniera che essi siano soddisfatti, se possibile, in tale successione (principio dell’«utilità marginale»)6. L’orientamento dell’agire razionale rispetto al valore può quindi essere in relazioni assai differenti con l’atteggiamento razionale rispetto allo scopo. Dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo, però, la razionalità rispetto al valore è sempre irrazionale – e lo è quanto più eleva a valore assoluto il valore in vista del quale è orientato l’agire; e ciò perché essa tiene tanto minor conto delle conseguenze dell’agire, quanto più assume come incondizionato il suo valore in sé (la pura intenzione, la bellezza, il bene assoluto, l’assoluta

5. L’agire razionale rispetto allo scopo è il tipo più propriamente razionale, dal momento che l’agire razionale rispetto al valore, dal punto di vista della razionalità rispetto allo scopo «è sempre irrazionale». Esso implica sempre la considerazione degli scopi e dei mezzi per raggiungerli e la loro influenza reciproca. 6. Weber utilizza qui la nozione economica di «utilità marginale» per spiegare la disposizione degli scopi secondo un’ordine di soddisfazione determinato dalla misura della loro urgenza. L’utilità marginale, detta anche grado finale di

conformità al dovere). Ma l’assoluta razionalità rispetto allo scopo è anche soltanto un casolimite, di carattere essenzialmente costruttivo. 5. Assai di rado l’agire, e in particolare l’agire sociale, è orientato esclusivamente nell’uno o nell’altro modo. E così pure questi tipi di orientamento non costituiscono affatto, naturalmente, una classificazione esauriente dei modi di orientamento dell’agire, ma sono tipi concettualmente puri – creati per scopi sociologici – ai quali l’agire reale si avvicina più o meno, o dei quali, ancor più di frequente, risulta mescolato. Soltanto il risultato può dimostrarne l’opportunità per noi7.

GUIDA ALLA LETTURA 1. L’agire sociale viene definito da Weber in relazione a quattro «tipi ideali». Costruisci sul tuo quaderno una tabella in cui indicare i caratteri che Weber attribuisce a ognuno dei «tipi ideali» di «agire sociale». 2. I tipi di orientamento dell’agire sociale individuati da Weber sono «concettualmente puri». Che cosa significa questa affermazione? Che cosa ne dimostra, dunque, la validità? 3. Qual è, tra i tipi di agire classificati da Weber, quello più razionale?

utilità, indica il rapporto di convenienza tra un bene economico e un individuo: si basa sulla constatazione del fatto che il possesso di dosi progressive di un dato bene da parte di un individuo ne attenua l’utilità presso il possessore fino a raggiungere un livello di indifferenza. 7. Weber ribadisce qui che si tratta di tipi ideali e di una classificazione non esauriente degli orientamenti. Che sia euristicamente feconda lo prova il seguito dell’analisi sociologica weberiana, dove essa viene messa continuamente alla prova sia nello studio del-

l’agire concreto individuale, sia nella sociologia dei gruppi sociali e nella storia economica. Il tipo ideale del capitalismo, per esempio, o dello stato razionale moderno, come di qualunque impresa organizzata burocraticamente, risulteranno definibili in termini di razionalità rispetto allo scopo. L’economia pianificata o uno stato socialista lo saranno in termini di razionalità rispetto al valore, senza dimenticare che si tratta di tipi «puri», ai quali l’agire sociale si avvicina più o meno e che in esso sono per lo più mescolati.

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esercizi/6 CHE COSA SO?

14. Perché, secondo Bergson, la psicologia scientifica è destinata al fallimento?

Guida allo studio del manuale

15. In che senso la durata reale della coscienza rende manifesta la libertà propria dell’uomo?

1. Evidenzia le espressioni che illustrano i caratteri fondamentali della filosofia di Boutroux. 2. Evidenzia le espressioni che illustrano la concezione bergsoniana di «percezione» e «memoria». 3. Evidenzia i concetti chiave dell’Evoluzione creatrice di Bergson. 4. Evidenzia le caratteristiche generali del «ritorno a Kant» compiuto dalla Scuola di Marburgo. 5. Evidenzia i caratteri generali dello storicismo tedesco contemporaneo. 6. Evidenzia la tesi sostenuta nell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo di Max Weber. 7. Evidenzia la contraddizione insolubile in cui, secondo Dilthey, versa la filosofia. 8. Evidenzia la tesi sostenuta nel Tramonto dell’Occidente di Spengler. 9. Evidenzia le diverse occorrenze del termine «razionalità», impiegato da Weber. Dizionario filosofico 10. Definisci i seguenti concetti: tempo spazializzato (Bergson) • durata (Bergson) • slancio vitale (Bergson) • intuizione (Bergson) • spiegazione (Dilthey) • comprensione (Dilthey) • valore (Windelband e Rickert) • connessione dinamica (Dilthey) • giudizio di possibilità oggettiva (Weber) • tipo ideale (Weber)

16. Qual è il ruolo del corpo secondo Bergson? 17. Perché Bergson distingue fra «memoria-abitudine» e «memoria pura»? 18. A quale obiettivo filosofico di ordine generale cerca di rispondere Materia e memoria? 19. In che modo Bergson riscopre la validità della metafisica? 20. Quali caratteri Bergson attribuisce alle «religioni statiche» e alle «religioni dinamiche»? 21. In che modo Cohen intende l’attività filosofica? 22. In che cosa consiste la «novità» della lettura kantiana di Cassirer? 23. Come definisce Cassirer le forme simboliche? Quali sono le principali? 24. Che differenza c’è, secondo Windelband, tra scienze nomotetiche e scienze idiografiche? 25. Illustra come Dilthey ha realizzato il proposito di condurre una «critica della ragione storica». 26. Che cosa intende Spengler con il concetto di «logica organica della storia»? 27. Che differenza c’è, secondo Weber, tra relazione al valore e giudizio di valore? 28. Perché, secondo Weber, i «giudizi di possibilità oggettiva» sono necessariamente «giudizi condizionali»? 29. Qual è, secondo Weber, il tratto caratteristico della razionalità occidentale?

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 11. Chi sono gli iniziatori della tradizione spiritualistica francese?

Trattazione sintetica di argomenti (max 15-20 righe) 30. Illustra la concezione della «durata» teorizzata da Bergson.

12. Che cosa rivela, secondo Ravaisson, l’abitudine?

31. Illustra la concezione della scienza elaborata da Bergson.

13. Qual è il concetto di «legge» naturale elaborato da Boutroux?

32. Illustra i contributi di Bergson al dibattito filosofico sul rapporto tra anima e corpo.

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esercizi/6 33. Illustra le ragioni per cui Bergson nell’Evoluzione creatrice rifiuta sia la concezione meccanicistica sia quella finalistica della natura. 34. In che senso la distinzione bergsoniana tra società aperta e società chiusa trae origine dalla sua teoria dello slancio vitale? 35. Perché la filosofia della Scuola del Baden viene di norma indicata come «filosofia dei valori»? 36. Quali sono i criteri in base ai quali Dilthey distingue tra scienze della natura e scienze dello spirito? 37. Illustra in che modo, per Dilthey, la costituzione del mondo storico secondo connessioni dinamiche conduca al relativismo e alla «liberazione dell’uomo».

esercizi/6

38. Illustra in che cosa consiste la tesi weberiana dell’«avalutatività» delle scienze storico-sociali. 39. Che differenza c’è, secondo Weber, tra le spiegazioni causali fornite dalle scienze naturali e quelle fornite dalle scienze storico-sociali? 40. Illustra la tesi di Weber circa il carattere del capitalismo occidentale e le sue origini. 41. In quale modo Weber classifica i tipi fondamentali dell’agire sociale? 42. Confronta la concezione della sociologia di Weber con quella di Comte.

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e l’abduzione, o ragionamento ipotetico da convalidare sperimentalmente. Alla logica peirciana è strettamente connessa la semiotica, in cui la nozione di segno viene riferita da un lato all’oggetto (il significato del segno), dall’altro al destinatario della comunicazione segnica (interpretante). la teoria della verità di james

7. il pragmatismo i contenuti il pragmatismo: una filosofia americana

Il pragmatismo costituisce il più originale contributo americano alla filosofia contemporanea. Esso rappresenta una filiazione dell’empirismo, nel senso che pone l’esperienza alla base di ogni conoscenza umana. Il concetto di esperienza dei pragmatisti è, però, molto più elastico di quello della tradizione empiristica classica. L’esperienza, infatti, non consiste nella semplice ricezione passiva dei dati, ma comporta immediatamente una risposta attiva dell’uomo. In tal senso, essa non è costituita da singole percezioni isolate e irrelate, ma è data anche dalle relazioni tra le cose (sia quelle tra gli oggetti, sia

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Se per Peirce il pragmatismo – cui egli preferisce il termine «pragmaticismo» – è una teoria del significato, per James è una teoria della verità: le conseguenze di un’idea hanno carattere individuale, nel senso che – se corrispondono alle aspettative dell’individuo che ha l’idea – coincidono per lui con la verità. A ciò è connessa la dottrina jamesiana della volontà di credere, in base alla quale l’uomo può credere alla verità di alcuni assunti – non verificabili empiricamente – su base puramente emozionale. Questo è possibile quando l’affermazione presenti tre requisiti specifici: essere viva, importante e obbligata. lo strumentalismo di dewey

quelle tra l’oggetto esperito e il soggetto che esperisce). Sulla base di questi presupposti, l’assunto fondamentale del pragmatismo è che il significato di un termine o una proposizione è dato dalle conseguenze pratiche che ci si attende da essi. la teoria della credenza e del segno di peirce

Questo assunto generale è sviluppato da Peirce nella teoria della credenza, intesa come un’abitudine che fornisce una regola d’azione. Il significato della credenza consiste nelle sue conseguenze pratiche. Due credenze con le stesse conseguenze sono la stessa credenza. Oltre che per le dottrine pragmatistiche, il pensiero di Peirce è rilevante per la logica. Egli distingue infatti tre tipi di inferenza: la deduzione, l’induzione

7. il pragmatismo

L’assunto pragmatistico che connette il significato di un’idea alle sue conseguenze pratiche si traduce in Dewey in una completa riforma della logica, intesa come teoria dell’indagine. La logica consente di passare da una situazione indeterminata e problematica – che crea disagio e dubbio – a una situazione determinata, in cui il problema è risolto in maniera univoca. I momenti del processo di indagine sono: la formulazione dell’«idea», intesa come progetto complessivo; la chiarificazione dell’idea attraverso il ragionamento e il linguaggio; la conferma mediante esperimento, che si traduce in un giudizio finale. dewey e il rifiuto del dualismo

Influenzato da Hegel, Dewey trasferisce in ambito empiristico e

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pragmatistico il monismo idealistico. Viene quindi rifiutato ogni dualismo tra soggetto e oggetto, tra mente e corpo o tra individuo e ambiente, che nell’esperienza appaiono sempre strettamente connessi gli uni agli altri. Anche la coscienza non esiste indipendentemente dalla realtà, ma si costituisce soltanto nel momento in cui il soggetto si trova

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di fronte a una situazione problematica. l’etica e l’estetica di dewey

La stessa esigenza monistica si trova nella teoria della valutazione. I valori sono esigenze sentite immediatamente che si giustificano da sé, ma non possono essere considerati indipendentemente dai

mezzi utili per realizzarli. In altre parole, un fine per cui non ci sono mezzi non è un valore. Anche nell’opera d’arte il fine (il valore artistico) è inseparabile dai mezzi atti a realizzarlo. Negli oggetti strumentali il fine è esterno, mentre nel capolavoro artistico è interno all’oggetto stesso.

gli strumenti in poche… parole credenza / volontà di credere / situazione problematica / strumentalismo / transazione

i testi a. nel manuale

b. on-line

t22 James/La volontà di credere t23 Dewey/Un nuovo concetto di esperienza

Peirce/Il significato della credenza Dewey/La logica strumentale Dewey/Mente e corpo

approfondimento L’Inghilterra tra idealismo e realismo: il «caso» Moore

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

7. il pragmatismo

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1. Peirce le origini del pragmatismo

Negli Stati Uniti – verso la fine dell’Ottocento – si sviluppa la corrente del pragmatismo, che costituisce il più originale contributo americano alla filosofia contemporanea ed esercita una vasta influenza anche sulla cultura europea. L’iniziatore della nuova corrente è considerato, dagli stessi contemporanei, Charles Sanders Peirce (1839-1914), anche se egli – come si vedrà tra poco – prese ben presto le distanze dagli ulteriori sviluppi del movimento. Figlio di un famoso matematico che insegnò Fisica e Astronomia a Harvard, egli tentò insistentemente – senza riuscirvi – di ripercorrere la carriera accademica del padre. Non ebbe successo nemmeno nella pubblicazione delle sue opere che, fatta eccezione per alcuni sia pur importantissimi articoli, rimasero inedite. Le sue opere sono ora raccolte nei sei volumi della Raccolta di scritti di Ch.S. Peirce (Collected Papers of Ch.S. Peirce), editi negli anni 1931-35.

il significato della credenza

Il concetto che lega la filosofia di Peirce alla nascita del pragmatismo, esposto in due saggi divenuti immediatamente famosi – Il fissarsi della credenza (1877) e Come rendere chiare le nostre idee (1878) – è quello di credenza . Che cosa, dunque, è la credenza? Abbiamo visto che ha tre proprietà: 1) è qualcosa di cui ci rendiamo conto; 2) acquieta l’irritazione del dubbio; 3) implica lo stabilirsi nella nostra natura di una regola d’azione, o, per dirla in breve, di un’abitudine. Mentre acquieta l’irritazione del dubbio, che è il motivo per pensare, il pensiero si rilassa, e si ferma in riposo per un momento quando la credenza è raggiunta. Ma dal momento che la credenza è una regola per l’azione, l’applicazione della quale implica ulteriori dubbi e pensieri, nello stesso tempo in cui essa è un punto d’arrivo, è anche un punto di partenza per il pensiero. Ed è per questo che mi sono permesso di chiamarla pensiero in riposo, sebbene il pensiero sia essenzialmente un’azione. L’esito finale del pensare è l’esercizio della volizione, e di questo il pensiero non fa più parte; ma la credenza è solo uno stadio dell’azione mentale, un effetto del pensiero sulla nostra natura, il quale effetto influenzerà il futuro pensare. L’essenza della credenza è lo stabilirsi di un’abitudine, e differenti credenze si distinguono dai differenti modi d’azione che fanno sorgere. [...] Per sviluppare il significato di una cosa non dobbiamo far altro, dunque, che determinare quali abitudini essa produce, giacché quello che una cosa significa è semplicemente l’abitudine implicata da essa (Come rendere chiare le nostre idee, II).

Quando si trova in una situazione di dubbio, l’uomo dà inizio a una «ricerca» che mette capo a una credenza, ovvero a un’abitudine (habit) che costituisce una regola d’azione. Il significato della credenza risiede nelle azioni che essa comporta in risposta a una situazione di dubbio : due credenze che conducano alle medesime azioni sono eguali, anche se possono essere formulate in termini diversi. pragmatismo e pragmaticismo

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Peirce sostiene dunque che le diverse conseguenze delle credenze servono a distinguere i loro diversi significati. Tuttavia, il fatto che una credenza si 7. il pragmatismo

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riveli più efficace di altre – cioè consenta di uscire da una situazione di dubbio meglio di altre – non implica che essa sia anche la più vera. Per prendere le distanze dalla tendenza – propria degli altri pragmatisti – a far coincidere l’efficacia con la verità, Peirce rifiuterà successivamente il termine pragmatismo, sostituendolo con quello – «abbastanza brutto da non essere rubato» – di pragmaticismo. Per consolidare la credenza si possono seguire diversi metodi: la «tenacia» di chi si rifiuta di mettere in discussione le proprie idee; l’«autorità» che esclude le altre opinioni; il «metodo a priori» o «metafisico» che procede in base al puro ragionamento; e, infine, il «metodo scientifico» che si fonda sul procedimento sperimentale. Se dal punto di vista dell’efficacia tutti questi metodi possono essere accettati, dal punto di vista della verità solo il metodo scientifico può essere considerato valido: esso soltanto, infatti, è in grado di riconoscere i propri errori e di correggere progressivamente se stesso. Per usare un’espressione di Peirce, soltanto il metodo scientifico è fallibilista e consente pertanto – attraverso un processo di progressiva autocorrezione – un graduale avvicinamento alla verità.

efficacia e verità delle credenze

Ma da che cosa dipende la chiarezza di un’idea o di una credenza? Secondo Peirce essa non è data immediatamente dalla sua evidenza – come asserisce l’intuizionismo filosofico – ma dipende dalla consapevolezza delle conseguenze pratiche che essa comporta. Il suo rifiuto non riguarda soltanto l’intuizionismo cartesiano o razionalistico in genere, ma anche l’empirismo tradizionale, in quanto considera i dati dell’esperienza come immediatamente evidenti. Per Peirce, al contrario, l’esperienza stessa è il frutto di un’inferenza: le nostre percezioni non consistono nella semplice ricezione passiva di un dato, ma comportano un «giudizio percettivo» sui contenuti dell’esperienza. Ad esempio, quando diciamo che un certo oggetto è giallo, dobbiamo già possedere il concetto di giallo per poterlo applicare al caso particolare, cioè dobbiamo formulare un «giudizio», anche se – a differenza dei giudizi intellettuali – esso viene espresso inconsapevolmente.

la critica dell’empirismo

Abbiamo parlato di inferenza, cioè di ragionamento. Peirce ne distingue tre tipi: 1) la deduzione, che va dal generale al particolare; 2) l’induzione, che va dal particolare al generale; 3) l’abduzione (o ragionamento ipotetico), che consiste nel formulare un’ipotesi causale partendo da un effetto dato (ad esempio, «Se c’è cenere [effetto], ci deve essere stato un fuoco [causa]»). La validità del ragionamento abduttivo può comunque essere garantita solo dalla procedura sperimentale: soltanto accendendo un fuoco posso effettivamente verificare se esso produce cenere. In tal senso, il procedimento abduttivo coincide con quello ipotetico-sperimentale che caratterizza la scienza moderna da Galilei in poi. Ovviamente le conclusioni cui giunge l’abduzione non sono definitive, ma aprono la strada a nuove ricerche e a nuove conclusioni, secondo il modello di approssimazione progressiva alla verità che caratterizza il metodo scientifico.

la teoria dell’inferenza

Il crescente interesse per le questioni di logica porterà Peirce a formulare anche un’originale teoria dei segni (o semiotica). Per segno si deve inten-

la semiotica

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dere ogni atto che consenta una comunicazione. Ogni segno comporta necessariamente un duplice riferimento: da un lato all’oggetto, che costituisce il significato del segno; dall’altro all’interpretante, cioè al destinatario della comunicazione segnica, che deve comprendere e, appunto, interpretare il significato del segno. Per esempio, il termine «cavallo» è un segno che può riferirsi a un determinato animale soltanto quando vi sia una persona che, sentendo quella parola, coglie quel significato. Ma – e questo è l’elemento di maggiore originalità – l’interpretante stesso non è che un segno, poiché il pensiero (in base al quale l’interpretante coglie il significato del segno) non è che una forma di linguaggio. In quanto segno, dunque, l’interpretante rimanda a sua volta a un oggetto e a un altro interpretante. La conseguenza importante di questa dottrina è che ogni cosa ha una funzione semiotica e, più precisamente, ogni cosa può svolgere la funzione di segno – oggetto o interpretante, a seconda del contesto nel quale viene inserita.

2. James

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vita e opere

Se Peirce ha dato l’avvio al movimento pragmatista, colui che ne promosse la diffusione sul piano internazionale fu senz’altro William James (18421910). Egli proveniva da una facoltosa e colta famiglia americana: il padre, Henry, era esponente di rilievo della filosofia trascendentalista e il fratello maggiore – anch’egli di nome Henry – era un famosissimo scrittore (Il giro di vite, I bostoniani). Dopo aver viaggiato a lungo in Europa, William insegnò Psicologia e Filosofia a Harvard. Tra le opere filosofiche di maggior rilievo: Princìpi di psicologia (1890); La volontà di credere e altri saggi di filosofia popolare (1897), Le varietà dell’esperienza religiosa (1902), Pragmatismo: un nome nuovo per vecchi modi di pensare (1907), Il significato della verità (1909), nonché i postumi Saggi sull’empirismo radicale (1912).

l’interazione tra la mente e il mondo

Nei Princìpi di psicologia, James descrive la vita psichica dell’individuo nei termini di un flusso di sensazioni (stream of feelings) che si succedono ininterrottamente, compenetrandosi le une con le altre. In questo modo, James si contrapponeva alla scuola associazionistica, che presuppone una giustapposizione successiva e meccanica di sensazioni distinte e indipendenti. Inoltre, secondo James, la mente umana non è una realtà separata dal mondo naturale: piuttosto, l’una e l’altro sono i due aspetti diversi di un’unica realtà o, almeno, di un unico complesso di realtà interagenti. Si spiega così la sua famosa teoria dell’azione riflessa, in base alla quale ogni atto psichico è la risposta a uno stimolo che proviene dal mondo esterno, senza che si possa separare la prima dal secondo. Detto altrimenti, l’ambiente esterno influenza la vita psichica, la quale a sua volta – attraverso l’azione maturata in risposta alla sollecitazione ricevuta – modifica l’ambiente. Questa interazione non va tuttavia intesa in senso deterministico, poiché la risposta dell’individuo all’ambiente contiene sempre una componente di spontaneità. 7. il pragmatismo

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La concezione jamesiana del pragmatismo esplicita due aspetti contenuti nella teoria psicologica dell’azione riflessa: l’esito pratico di ogni processo mentale e il suo orientamento verso il futuro. Per James – come per Peirce – il significato di un’idea o di una teoria è dato dalle sue conseguenze pratiche future. Ma, mentre per Peirce quest’affermazione implica soltanto – come si è visto – una teoria del significato, per James essa si trasforma in una teoria della verità. Le conseguenze di cui parla Peirce sono sempre generali e verificabili, per cui il metodo pragmatistico viene pensato soprattutto in vista della sua utilizzabilità in ambito scientifico, rendendo possibile distinguere le diverse teorie sulla base dei loro diversi effetti pratici. Per James, invece, la validità di un’idea o teoria è misurata dalla sua capacità di sortire l’effetto che l’individuo soggettivamente si attende, senza pretendere riscontri sul piano generale. In altri termini, la verità di un’idea viene a coincidere con la sua efficacia pratica: cosa che Peirce negava esplicitamente.

una nuova concezione della verità

Si spiega così perché il pragmatismo di James sia strettamente connesso con la dottrina della volontà di credere . Essa sostiene che ci sono casi in cui l’uomo non ha bisogno di attendere una verifica empirica della sua credenza, ma può credere esclusivamente in base a una disposizione emotiva o passionale. Perché ciò sia legittimo occorrono, tuttavia, alcune condizioni. In primo luogo, bisogna che la questione non sia immediatamente verificabile mediante l’esperienza scientifica o storica: non posso credere che un asino possa volare o che Lincoln non sia esistito. Inoltre, occorre che l’opzione – cioè la scelta tra il credere o il non credere – sia viva (cioè stimoli il mio interesse), importante (non banale) e obbligata (cioè non possa essere rinviata senza che ciò comporti, di fatto, una scelta negativa). È questo il caso delle questioni etiche (è possibile promuovere un miglioramento morale del mondo?) o religiose (esiste Dio?). In questi casi non soltanto si ha diritto a credere, ma la credenza può produrre essa stessa la propria verificazione [t22]. Un alpinista che, per superare un burrone, deve compiere un salto al limite delle proprie forze, avrà maggiori probabilità di riuscire nell’impresa se – credendo di avere energie sufficienti – le impiegherà tutte nel salto: nello stesso modo il mondo può diventare veramente migliore se noi crediamo in questa possibilità e lavoriamo in questo senso.

l’influenza della volontà sulle credenze

Nell’ultima fase del suo pensiero – in seguito alla lettura di Materia e memoria di Bergson [cfr. 6.2] – James riprenderà la concezione psicologica di una completa integrazione tra mondo psichico e mondo naturale, divenendo fautore di un empirismo radicale. Nei saggi postumi dedicati a questa prospettiva egli parla infatti di un’unica sostanza reale, che di per sé non è né spirituale né materiale: questa sostanza è da lui denominata esperienza pura e si rifrange in una pluralità di elementi, anch’essi né pura coscienza soggettiva né semplice oggetto di coscienza. Il processo della conoscenza è dato esclusivamente dal fatto che i diversi elementi dell’esperienza pura si determinano secondo rapporti reciproci diversi, configurandosi ora come «conoscente» ora come «conosciuto».

la fase dell’empirismo radicale

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3. Dewey: esperienza e conoscenza la vita

Il pragmatismo assume una configurazione particolare nella concezione filosofica di John Dewey. Nato a Burlington, nel Vermont, nel 1859, egli studiò alla John Hopkins University, dove ricevette una formazione di tipo neohegeliano, ma su di lui influirono poi potentemente il pragmatismo di Peirce e di James e le dottrine dell’evoluzionismo darwiniano. Studiò anche presso l’università del Michigan, dove si specializzò in Psicologia, laureandosi con una tesi sulla psicologia in Kant. Dal 1894 al 1904 insegnò all’università di Chicago: qui fondò la «scuola laboratorio» per bambini, la quale si basava sui nuovi princìpi pedagogici introdotti da Dewey stesso. Dal 1904 al 1929 insegnò alla Columbia University di New York. In questa città morì nel 1952.

gli scritti

Le opere più importanti di Dewey sono Esperienza e natura (1925), La ricerca della certezza (1929) e, soprattutto, Logica, teoria dell’indagine (1938). Sono comunque da ricordare: Come pensiamo (1910), Saggi di logica sperimentale (1916), Natura e condotta dell’uomo (1922), Una fede comune (1934), L’arte come esperienza (1934), Il conoscente e il conosciuto (1939), Teoria della valutazione (1939), Libertà e cultura (1939). Importantissimi per gli sviluppi della pedagogia contemporanea sono Democrazia ed educazione (1916), Esperienza ed educazione (1938), Educazione oggi (1940).

che cos’è l’esperienza?

Come per altri pragmatisti, anche per Dewey il punto di partenza è l’esperienza. Al pari di Peirce e di James, egli non la definisce sul piano della conoscenza astratta, ma su quello dell’azione pratica. L’esperienza è data, infatti, dall’interazione tra l’organismo e l’ambiente in cui esso opera: è un sentire che è sempre anche un reagire. Esperienza è camminare in una strada, consumare un pasto, parlare con un vicino, costruire un garage o innamorarsi. Di conseguenza, l’esperienza è attività non meno che passività: l’organismo che esperisce qualcosa da un lato riceve uno stimolo da parte dell’ambiente, dall’altro rielabora questo stimolo in una risposta (è qui particolarmente evidente l’influenza della psicologia di James). Inoltre, se per l’empirismo classico il materiale dell’esperienza era costituito da dati isolati e indipendenti l’uno dall’altro, secondo Dewey l’esperienza coglie soprattutto le relazioni tra le cose, sia quelle che riguardano i nessi tra gli oggetti della realtà naturale e sociale, sia quelle che concernono il rapporto tra l’organismo e la realtà [t23].

l’esperienza non è sempre armonica

Non sempre l’ambiente agisce sull’individuo in modo conforme alle sue necessità e alle sue aspettative. In parte, le energie dell’ambiente naturale favoriscono le funzioni organiche, promuovendo la crescita, la salute, l’adattamento. In parte, quelle energie agiscono invece contro le funzioni dell’organismo, provocando disturbi, malattia e morte. Analogamente, l’ambiente sociale agisce sull’individuo in parte favorevolmente, in parte sfavorevolmente. Da questo punto di vista, la nostra esperienza è anche esperienza di disagi, di errori, di mancanze, di disordine, in ogni caso di una insufficiente capacità dell’organismo di adattarsi all’ambiente. È così

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possibile anche l’esperienza di cose puramente negative, come la morte, in risposta alla quale l’individuo reagisce in maniera diversissima, dall’indifferenza alla disperazione, dal rifugio nella religione alla stipulazione di un’assicurazione sulla vita. Un’altra caratteristica dell’esperienza, per Dewey, è che essa precede ogni intellettualizzazione. L’empirismo classico ha sbagliato ritenendo che essa mi dia, ad esempio, la sensazione del blu. La mia «sensazione» del blu è, infatti, già il risultato di una successiva riflessione sull’esperienza. In realtà, l’esperienza consiste nel fatto che io scrivo una lettera con una penna blu, o sono infastidito da una luce blu. Analogamente, l’esperienza non è ancora riflessione consapevole sugli aspetti problematici dell’esistenza. Soltanto quando portiamo alla coscienza questi aspetti problematici, cominciamo a riflettere su di essi: e qui si inizia la conoscenza, che deriva dall’esperienza, ma non è identica con essa. Se non si presenta alcuna situazione di disagio, l’esperienza può non diventare conoscenza, come avviene, ad esempio, quando mi servo di una penna blu perfettamente adatta a scrivere una lettera. Ma, se mi trovo tra le mani una penna blu e intendo invece sottolineare una parola in rosso, porto il fatto alla coscienza e ne faccio un problema. A questo punto non ho più soltanto esperienza, ma concettualizzazione, ragionamento, inizio di conoscenza.

la conoscenza come concettualizzazione dell’esperienza

Considerazioni analoghe valgono anche per il concetto di coscienza. Per Dewey la coscienza è il momento in cui l’esperienza rivela la sua dimensione problematica, innescando così il processo conoscitivo. Tutte le azioni compiute durante la giornata fanno parte della mia esperienza: ma soltanto in un certo numero di casi l’esperienza si traduce in coscienza, perché si fa sentire l’esigenza di una sua correzione o trasformazione. Un uomo che cammina per la strada è soltanto un organismo che interagisce con l’ambiente; ma se la strada è piena di pozzanghere, quell’uomo, che ora guarda dove mette i piedi, è un organismo che ha sviluppato in sé la funzione della coscienza. La coscienza non è, quindi, una condizione ontologica assoluta, ma soltanto una funzione relativa a una particolare condizione transitoria.

la conoscenza inizia là dove l’esperienza diventa coscienza

Il problema della conoscenza viene trattato da Dewey nella forma più completa in Logica, teoria dell’indagine: egli la definisce come un processo di manipolazione dell’esperienza, volto a eliminarne progressivamente gli aspetti conflittuali o problematici in modo da adattare le cose all’uso che vogliamo farne. Il pensiero e i giudizi attraverso i quali esso si esprime non sono intesi da Dewey come dei procedimenti esclusivamente mentali, ma come delle vere e proprie azioni volte a operare una trasformazione della realtà. Nulla è più lontano da Dewey di quella che egli chiama «la teoria della conoscenza come spettacolo», per cui essa consiste nella contemplazione o ricezione passiva di una realtà esterna indipendente dall’uomo.

la logica e lo studio della conoscenza

La logica coincide, dunque, per Dewey con una teoria dell’indagine, indirizzata a trasformare una situazione indeterminata in una situazione completamente determinata . Per situazione indeterminata si deve intendere una condizione esistenziale nella quale esistono alcuni elementi di discre-

la logica e le fasi dell’indagine

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Dewey La logica strumentale

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panza rispetto ai fini, agli interessi o alle esigenze dell’individuo che opera in essa. Quando questi elementi siano trasformati in modo da eliminare ogni causa di disturbo da parte dell’ambiente, la situazione indeterminata si converte in una situazione determinata. La situazione indeterminata ci è data dall’esperienza, che però – come abbiamo visto –, precedendo ogni forma di riflessione, non ci rende ancora consapevoli di quali siano gli elementi da rimuovere o trasformare e su quali altri elementi si possa invece contare come termini di riferimento utili alla nostra azione modificatrice. dalla situazione indeterminata a quella problematica

Ciò avviene con la trasformazione della situazione semplicemente indeterminata in una situazione problematica , nella quale siano appunto dati con chiarezza i termini del problema da risolvere. Definita la situazione problematica, il soggetto della ricerca deve formulare un’idea, intesa come una previsione generica sul tipo di soluzione che si intende perseguire. Nella sua vaghezza, l’idea fornisce soltanto un suggerimento sulla direzione che deve prendere la ricerca, ma non consente ancora il passaggio all’azione pratica. Occorre chiarire, dunque, l’idea nella sua portata e nelle sue implicazioni, in modo da determinare le singole fasi dell’intervento e il rapporto che esse hanno con gli aspetti determinati della situazione. Ciò è possibile soltanto attraverso il ragionamento che formalizza l’idea traducendola in un linguaggio simbolico.

la soluzione può essere formalizzata in due modi

Questo può avvenire a due livelli. La formalizzazione può essere data dal linguaggio ordinario, che consente di risolvere un problema quotidiano facendo riferimento al semplice senso comune; oppure essa può servirsi del linguaggio della scienza, il quale permette un più elevato grado di generalizzazione e di universalità. Il senso comune e la scienza mettono capo, quindi, a due attività di ricerca che sono distinte soltanto dal diverso grado di formalizzazione simbolica a cui fanno ricorso: in entrambi i casi, tuttavia, si tratta di procedimenti che utilizzano una precisa sintassi logica.

dall’esperimento al giudizio finale

Il ragionamento da solo non può comunque dare piena garanzia dell’efficacia dell’idea. L’ultima parola spetta all’esperimento, con il quale le precedenti fasi della ricerca si traducono in azione pratica. Si deve notare, tuttavia, che già la formulazione dell’idea e l’articolazione del ragionamento hanno carattere operazionale: essi non consistono nell’analisi teorica della situazione, ma sono intrinsecamente compenetrati dall’azione cui mettono capo. Ancora una volta, pensare e agire non sono attività distinte, ma i due aspetti di una stessa attività. Se l’esperimento ha esito positivo, l’idea svolta dal ragionamento si traduce in un giudizio finale. Esso sancisce definitivamente la scelta operativa fatta, che da questo momento in poi viene considerata come «decisione direttiva di attività future». Con il giudizio finale, la conoscenza è acquisita e l’indagine conclusa.

verità e soluzione dei problemi

Ma se – come abbiamo visto – la conoscenza consiste nel trasformare una situazione indeterminata in una determinata secondo la logica dell’indagine, che cos’è la verità secondo Dewey? La concezione che egli ha della verità è più vicina a quella di Peirce [cfr. 7.1] che a quella di James: la verità non è data dall’efficacia di un’idea o di una credenza per un singolo individuo,

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LA TEORIA DELL’INDAGINE le fasi 1. dubbio

2. idea

3. ragionamento

4. esperimento

5. giudizio finale

trasforma l’indeterminatezza in «situazione problematica»

ipotesi di soluzione del problema

formalizzazione dell’idea in linguaggio simbolico

verifica pratica dell’ipotesi

conclusione dell’indagine e «decisione direttiva di attività future»

ma dal riconoscimento unanime – ottenuto applicando una precisa sintassi logica e facendo ricorso finale all’esperimento – che determinate procedure sono in grado di risolvere determinati problemi. Per Dewey, inoltre, le «proposizioni» di cui ci serviamo nell’indagine – cioè le formulazioni relative ai modi di agire per risolvere il problema – non sono né vere né false: esse sono soltanto strumenti che utilizziamo per chiarificare l’idea e rendere possibile la sua verifica sperimentale. Di qui la denominazione di strumentalismo che Dewey dà al suo pensiero. La verità compete soltanto al giudizio che è stato conclusivamente provato in via sperimentale. Come si vede, anche per Dewey – come per Peirce – il pragmatismo trova la sua più naturale e completa applicazione nell’ambito della scienza. Dewey, inoltre, accoglie da Peirce anche il principio del fallibilismo, per cui i risultati di un’indagine scientifica sono definitivi soltanto nella misura in cui non intervengono altri giudizi a dimostrarne la falsità. I giudizi sono considerati «verità stabilite» non in quanto siano incorreggibili, ma solo nel senso che per il momento non vi sono ragioni per metterli in discussione o continuare la ricerca su di essi. Anche per Dewey la verità è un ideale cui tendere, più che un traguardo effettivamente conseguibile.

dewey, peirce e il modello della conoscenza scientifica

La teoria della verità di Dewey getta luce anche sulla sua concezione della filosofia. Tradizionalmente, la filosofia ha esercitato – secondo lui – una funzione illusionistica: essa ha tranquillizzato gli animi mostrando come nella realtà ci fosse ordine, armonia, stabilità. Viceversa la filosofia – ed è questo uno dei punti su cui Dewey prende maggiore distanza da Hegel – deve rendere consapevole l’uomo che la realtà è anche disordine, conflittualità, instabilità, ma nello stesso tempo che l’intelligenza umana è in grado di trasformare operativamente questa realtà in modo da renderla più omogenea con le proprie esigenze. La filosofia è «l’intelligenza diventata consapevole della propria natura e dei propri metodi». La natura dell’intelligenza è quella di approntare strumenti per risolvere problemi; i suoi metodi sono quelli descritti nella teoria dell’indagine. La filosofia è essenzialmente un metodo di chiarificazione; ma, appunto per questo, essa si traduce immediatamente in operatività e costituisce la più concreta speran-

filosofia e intervento sulla realtà

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za – da parte dell’uomo – di poter conservare e sviluppare il proprio sistema di valori.

4. Dewey: uomo e natura i due poli dell’indagine

Abbiamo visto che il mondo dell’esperienza costituisce una realtà unitaria, nella quale non ci sono elementi isolati, ma un unico complesso di relazioni. Questo vale ovviamente anche per il processo di indagine che abbiamo descritto sopra. L’individuo che conduce l’indagine non è una realtà esterna alla situazione in cui opera e che intende modificare; non c’è un soggetto della conoscenza autonomo e contrapposto a un oggetto: soggetto e oggetto sono funzioni che emergono nel corso stesso dell’indagine. Il soggetto è un organismo che «diventa un soggetto conoscente in virtù del suo impegno in operazioni di ricerca controllata». Analogamente, l’oggetto è quella parte dell’esperienza che il soggetto circoscrive in base ai propri interessi e bisogni, al fine di conoscerla e di intervenire su di essa per modificarla.

l’interdipendenza di soggetto e oggetto

Naturalmente, soggetto e oggetto sono strettamente connessi l’uno all’altro, nel senso che uno esiste soltanto in quanto esiste l’altro. Per indicare questa relazione, Dewey usa negli ultimi scritti il termine transazione , mutuato dal mondo dell’economia e degli affari. Qui la transazione indica il rapporto che viene a instaurarsi tra un compratore e un venditore, che non esistono però l’uno indipendentemente dall’altro: il compratore è tale perché esiste un venditore e viceversa. Nello stesso modo, un organismo si costituisce come soggetto solo in quanto definisce una determinata porzione di esperienza come oggetto e viceversa.

al di là del dualismo cartesiano

Ispirata alla stessa esigenza monistica è la concezione deweyana del rapporto mente-corpo . Contro ogni interpretazione dualistica di questa relazione, Dewey precisa che l’uomo è un’unità psico-fisica. La mente non può esistere indipendentemente dalle condizioni organiche del corpo, così come questo, a sua volta, non può sussistere se non in dipendenza dalle condizioni ambientali. Noi non abbiamo espressioni linguistiche adeguate per esprimere tale unità psico-fisica – osserva Dewey – per cui dobbiamo ricorrere all’espressione composta «mente-corpo». Ma le due parole che la compongono non indicano due realtà diverse, bensì, ancora una volta, due aspetti o funzioni dello stesso organismo: Il nostro linguaggio è così permeato dei significati di teorie che hanno separato il corpo dalla mente, costituendone due regni esistenziali nettamente divisi fra di loro, che noi non disponiamo di parole che designino il fatto esistenziale così come esso realmente è. [...] La realtà corporeo-mentale designa semplicemente ciò che realmente ha luogo quando un corpo vivente entra in rapporto con situazioni di discorso, di comunicazione e di partecipazione. Nell’espressione «corpo-mente», nella quale le due parole sono separate da un trattino, «corpo» designa l’operazione continuata, che conserva via via i

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Dewey Mente e corpo

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propri risultati, registrata e cumulativa di fattori che sono continui con il resto della natura, tanto inanimata quanto animata; mentre la parola «mente» designa i caratteri e le conseguenze che sono differenziali, che indicano dei tratti che emergono quando il «corpo» si trova impegnato in una situazione più ampia, più complessa e più interdipendente (Esperienza e natura, cap. VII).

Per Dewey, dunque, l’elemento «corpo» esprime l’accumularsi e il persistere di determinati effetti dell’ambiente sull’organismo; mentre, la componente «mente» si riferisce alla capacità di quest’ultimo di elaborare risposte che conducano a un’ulteriore modificazione dell’ambiente. Poiché l’uomo è in continua interazione con l’ambiente, la sua azione non può essere guidata – kantianamente – da una ragione intesa come facoltà contrapposta agli impulsi della sensibilità. Per Dewey, infatti, è impossibile una netta distinzione tra razionalità e istinto. La volontà non può essere considerata come una forza morale che si sottrae all’influenza dei condizionamenti ambientali: essa coincide piuttosto con l’abitudine, cioè con una somma di esperienze passate che predispongono l’uomo ad agire in un modo piuttosto che in un altro. La stessa libertà assume un carattere particolare nel contesto deweyano. Essa non comporta né il libero arbitrio né la capacità kantiana di essere principio di una serie causale, ma è data semplicemente dagli spazi di novità, di originalità e creatività che caratterizzano la risposta mentale dell’uomo allo stimolo puramente fisico dell’ambiente.

il problema morale: volontà e libertà

Tenendo conto di ciò, come è possibile distinguere un’azione buona da una cattiva, un’azione giusta da una ingiusta, o anche – poiché il problema si pone negli stessi termini – una cosa bella da una brutta? Nella sua Teoria della valutazione, Dewey risponde alla prima questione dicendo che i valori nascono sempre da un’esigenza insoddisfatta e coincidono con la condizione che soddisfa tale esigenza. Ma proprio perché il valore reclama la propria soddisfazione, è necessario l’esame del rapporto tra mezzi e fini. La questione morale non può, dunque, essere affrontata occupandosi soltanto dei valori in sé – cioè dei fini cui si tende – ma anche dei mezzi necessari per conseguirli. Ciò significa, inoltre, che non ci sono valori o fini in sé che debbano essere acquisiti a ogni costo. Qualsiasi valore può infatti essere rifiutato, se la sua realizzazione rende sproporzionato il rapporto mezzi-fini.

l’origine dei valori e i criteri di scelta

Dewey insiste molto sull’interdipendenza di mezzi e fini, tanto da far entrare ciascuno dei due termini nella definizione dell’altro. Così i mezzi sarebbero parti frazionarie dei fini, cioè non qualcosa di esterno e puramente strumentale al fine, ma già una sua parziale realizzazione. Analogamente, i fini sarebbero mezzi procedurali: indicando il fine interno allo stesso procedimento, essi fungerebbero anche da mezzi della sua realizzazione.

il rapporto mezzi-fini nelle azioni umane

Non a caso Dewey recupera – contro ogni tendenza della scienza moderna – la nozione classica di «fine naturale»: ogni processo naturale o sociale ha in se stesso un fine che costituisce la molla del proprio sviluppo. La tendenziale convergenza tra mezzi e fini ha come conseguenza la spontaneità del

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processo che conduce alla realizzazione del fine stesso: se compio un lavoro perché mi piace, il fine non è soltanto nello scopo che mi propongo mediante il lavoro (costruire un manufatto), ma già nel lavoro stesso che – essendo gratificante – non è più soltanto un mezzo ma anche un fine. La convergenza tra mezzi e fini è, quindi, una condizione essenziale della felicità a cui l’uomo tende naturalmente. l’arte e la sua particolare «utilità»

La considerazione del rapporto tra mezzi e fini è di fondamentale importanza anche nell’ambito dell’arte. Nell’attività estetica, infatti, il fine – l’opera d’arte – non è diverso dai mezzi impiegati per realizzarlo, cioè dalla creatività dell’artista e dai materiali che egli ha realizzato. E, viceversa, i mezzi impiegati in tale attività non hanno un fine esterno a sé, come avviene nelle attività che mettono capo a prodotti strumentali (ad esempio, il martello fatto per battere). Da questo punto di vista, l’opera d’arte presenta una forma finale che non è posseduta dagli oggetti strumentali: in essa, appunto, i fini da realizzare (l’oggetto estetico) e i mezzi impiegati per la loro realizzazione (il talento dell’artista, le tecniche, il bronzo, i colori, ecc.) coincidono. Ciò tuttavia non deve far dimenticare che – al pari di ogni altro valore – anche l’arte è mezzo oltreché fine. Ciò significa che non c’è differenza qualitativa tra le arti belle e le arti utili: l’arte è «utile» perché esercita una funzione sociale, rendendo comunicabile l’esperienza dell’artista e allargando in generale la sfera della creatività.

elogio della democrazia e difesa della libertà

In ambito politico Dewey è uno strenuo difensore del valore e dei metodi della democrazia. Come nella natura l’individuo è in continua interazione con l’ambiente, così nella democrazia ognuno collabora con le proprie forze al benessere della totalità e riceve a sua volta sostegno dal corpo collettivo. Dewey non nasconde, tuttavia, che nelle democrazie esistenti – anche in quella americana – non sempre l’interazione tra individuo e totalità si è sviluppata in modo equilibrato (come del resto avviene anche nella natura): spesso i gruppi sociali più elevati traggono vantaggi maggiori dal loro apporto alla vita sociale di quanto non facciano i ceti inferiori. La responsabilità di questa situazione è in gran parte attribuibile, secondo Dewey, al liberalismo classico, che ha indissolubilmente connesso la difesa della libertà politica con quella della libertà economica (cioè, il liberalismo con il liberismo). Contro questa concezione, Dewey promuove invece una forma di liberalismo radicale, che garantisca l’effettiva libertà di ciascun membro della società politica anche attraverso interventi dello Stato, senza per questo adottare modelli socialistici o comunistici della società.

l’educazione del bambino alla scuola attiva

Alle riflessioni sulla democrazia è anche connessa la pedagogia di Dewey, che ebbe grandissima fortuna non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa. L’attività scolastica del bambino è infatti intesa da Dewey come partecipazione attiva e spontanea alla vita della comunità scolastica: una corretta educazione infantile può, a suo avviso, predisporre gli individui alle regole della vita democratica e rivelarsi in futuro l’unico potente mezzo per rafforzare e diffondere la democrazia. Ma, al di là della relazione con la politica, la pedagogia di Dewey appare come l’applicazione pratica dei

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suoi più rilevanti assunti filosofici. Al centro di essa vi è la nozione di scuola attiva, il cui principio fondamentale – «imparare facendo» (learning by doing) – è che l’insegnamento non deve essere subìto passivamente attraverso la ricezione di nozioni mnemoniche, ma deve essere il risultato dell’attività volontaria del bambino, impegnato in lavori che rispondano ai suoi interessi e alle sue scelte. L’opera dell’educatore deve quindi limitarsi a suscitare in lui i giusti interessi, a fornirgli i materiali e a guidarlo nella realizzazione dei suoi lavori. Nella «scuola laboratorio» che Dewey fece aprire presso il dipartimento di Pedagogia dell’università di Chicago i bambini cucinavano, coltivavano l’orto e preparavano manufatti. Le stesse discipline tradizionali – leggere, scrivere, far di conto, la storia, la geografia, ecc. – venivano insegnate partendo da interessi concreti, legati appunto all’attività lavorativa dei bambini. Non è difficile scorgere sullo sfondo di queste dottrine pedagogiche i temi fondamentali della riflessione filosofica di Dewey: il principio dell’interazione tra individuo e ambiente, la situazione problematica come condizione del processo cognitivo, il carattere strumentale del pensiero, la teoria del rapporto mezzi-fini.

APPROFONDIMENTO

l’esperienza di chicago

L’Inghilterra tra idealismo e realismo: il «caso» Moore

Anche in Inghilterra – come in Francia – si sviluppò, nella seconda metà dell’Ottocento, una forte reazione alla cultura positivistica. Ma, mentre in Francia tale reazione comportò un ritorno allo spiritualismo, considerato l’autentica tradizione filosofica nazionale, in Inghilterra non esisteva un analogo termine di riferimento. Il vero antidoto contro la cultura positivistica doveva essere cercato non nell’empirismo, la corrente filosofica inglese che rappresentava una delle matrici fondamentali del positivismo, ma nell’idealismo di Hegel, più o meno adattato alle esigenze della cultura anglosassone. L’obiettivo generale di questo «ritorno a Hegel» era la restaurazione dei valori dello spirito che il positivismo – con il suo naturalismo scientifico – aveva ampiamente ridimensionato, o perfino rifiutato. Tra i maggiori

rappresentanti del neoidealismo inglese occorre citare Francis Herbert Bradley (1846-1924). Nella sua opera più importante, Apparenza e realtà (1893), egli suggerisce di andare al di là del mondo dell’esperienza, basato sulle relazioni tra dati molteplici che conducono inevitabilmente a rapporti contraddittori, per attingere un Assoluto che nella sua unicità è privo di contraddizioni. Il neoidealismo trovò una diretta e puntuale opposizione da parte del realismo, che cominciò a svilupparsi in Inghilterra – all’inizio del Novecento – a opera di Bertrand Russell [cfr. 16.2] e George Edward Moore (1873-1958). Le strade percorse da Russell e da Moore a un certo punto si divisero, poiché il primo si orientò verso l’atomismo logico e il secondo attuò un recupero della filosofia

del senso comune. Essi tuttavia, coetanei e compagni di studi a Cambridge, seguirono inizialmente lo stesso percorso, contrassegnato soprattutto dai loro contributi in difesa del realismo, i Princìpi di matematica di Russell e la più specifica Confutazione dell’idealismo di Moore. Quest’ultima apparve su «Mind», la rivista che – diretta a lungo dallo stesso Moore – diventerà l’organo filosofico del realismo inglese. In La confutazione dell’idealismo Moore analizza a scopo critico quello che per lui è l’assunto fondamentale di ogni posizione idealistica: il principio berkeleyano per cui «essere è essere percepiti». Moore osserva che questa proposizione è molto ambigua, poiché pretende di asserire l’identità di due termini, «essere» e «essere percepiti», che non so-

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no affatto identici. La loro diversità appare evidente se pensiamo alla differenza che intercorre tra il «giallo» (essere) e la mia «sensazione del giallo» (essere percepito): dove è chiaro che nella seconda è contenuto qualcosa che nella prima era assente, cioè l’elemento della coscienza. La confutazione del principio berkeleyano appare ancora più chiara se confrontiamo tra di loro sensazioni diverse, ad esempio la «sensazione del blu» e la «sensazione del rosso»: entrambe le sensazioni – in quanto tali – contengono un elemento comune, quello della coscienza; mentre il «blu» e il «rosso» non hanno nulla in comune. Quindi, gli oggetti della sensazione (il «giallo», il «blu», il «rosso») sono altra cosa rispetto alle sensazioni del giallo, del blu o del rosso che noi proviamo nella nostra coscienza. L’essere non è riconducibile all’essere percepito, ma ha una sua realtà autonoma. Nella Confutazione, Moore considera oggetto della coscienza tanto le qualità (il giallo, il rosso) quanto gli oggetti fisici (la mia

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mano, questo tavolo). In un successivo saggio su La natura e la realtà degli oggetti di percezione (1905) Moore distingue invece nettamente tra i dati sensoriali (sense-data), che ci sono forniti dalla percezione attuale, e gli oggetti fisici tridimensionali, che non ci sono dati da questo tipo di percezione. Si presentano allora due tipi di problemi. Il primo è: che cosa dimostra l’esistenza degli oggetti fisici, cioè di un mondo esterno a noi? A questa domanda, Moore risponde in due importanti opere: Difesa del senso comune (1925) e La prova di un mondo esterno (1939). Non abbiamo bisogno di dimostrare l’esistenza degli oggetti esterni – argomenta Moore – perché «sappiamo già» che esistono: cioè, a fondamento della certezza del mondo esterno c’è un atto intuitivo, una conoscenza immediata. Il secondo problema è, invece, quello di chiarire la relazione che intercorre tra i dati sensoriali e gli oggetti esterni, cioè tra ciò che percepiamo immediatamente e ciò che conosciamo immediatamente. Su quale fondamento si basa, ad

esempio, l’asserzione secondo cui il bianco, il morbido, il liscio (che percepisco attualmente) sono parte della superficie della mia mano (che conosco altrettanto immediatamente)? Questa relazione, secondo Moore, rimane problematica, poiché esistono difficoltà a sostenere sia che le qualità percepite siano parte della superficie della mano, sia che ne costituiscano una semplice «apparenza», sia che la superficie della mano sia un termine che riunisce in sé le diverse qualità della mano. Queste ultime considerazioni mostrano come la ricerca filosofica di Moore proceda con estrema cautela, preoccupata di non introdurre affermazioni che non siano dimostrabili più che di estendere l’ambito di ciò che si può affermare. Lo strumento più adatto per condurre una tale ricerca, con tutte le cautele che essa comporta, è l’analisi del linguaggio ordinario, poiché proprio in esso trova l’espressione migliore quel senso comune che sta alla base della nostra conoscenza.

in poche... parole Il pragmatismo è un indirizzo di pensiero sorto negli Stati Uniti nella seconda metà dell’Ottocento e diffusosi più tardi in Europa, dove esercita una vasta influenza soprattutto a partire dai primi decenni del Novecento. L’iniziatore di questa corrente fu Charles Sanders Peirce: a lui si deve l’elaborazione del concetto di credenza, la critica dell’intuizionismo cartesiano e dell’empirismo classico, la formulazione di un’originale teoria semiotica (dei segni). Secondo Peirce, la 216

verità di una credenza può essere accertata solo mediante il metodo sperimentale e i dati dell’esperienza non sono immediati, ma il frutto di un’inferenza. Peirce individua tre tipi di inferenza: la deduzione, l’induzione e l’abduzione. Il ragionamento abduttivo coincide con il procedimento ipotetico-sperimentale, il solo in grado di approssimarsi progressivamente alla verità. Secondo Peirce, infine, ogni cosa ha una funzione semiotica, cioè può svolgere la funzione di se-

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gno (o come oggetto o come interpretante).

credenza Secondo Peirce la cre-

denza indica un’abitudine che costituisce una regola d’azione. Il significato della credenza è dato dalle sue conseguenze pratiche, cioè dalle azioni che essa suggerisce per risolvere una situazione di dubbio. Le conseguenze pratiche di cui parla Peirce hanno sempre carattere generale e sono pertanto abiti di azione – cioè procedure di comportamento – universalizzabi-

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li. La teoria della credenza è difatti elaborata da Peirce pensando soprattutto alle credenze scientifiche e alle abitudini procedurali che esse comportano. Anche James condivide la riconduzione del significato della credenza ai suoi effetti pratici. Ma egli riferisce la credenza a singole idee più che a enunciati: ad esempio, questa è per me una sedia se posso sedermici sopra, anche se in realtà si configura come un tronco tagliato o una tinozza rovesciata; viceversa una sedia esposta in un museo non è più uno strumento per sedersi, ma un oggetto di contemplazione estetica. Secondo James, dunque, le conseguenze pratiche dell’idea non esprimono soltanto un significato, ma la verità dell’idea. William James promosse il pragmatismo a livello internazionale, mettendo in secondo piano gli aspetti logico-metodologici evidenziati da Peirce e accentuandone gli aspetti etici e vitalistici. L’attenzione di James si concentra sulla vita psichica degli individui, da lui definita come un «flusso di sensazioni» (stream of feelings) che si fondono l’una nell’altra, sull’interazione reciproca tra la mente e l’ambiente, sulle basi emotive e passionali della credenza. Nell’ultima fase del suo pensiero, James si orienta verso una forma di monismo o di empirismo radicale, in base a cui vi è un’unica sostanza reale, né esclusivamente spirituale né esclusivamente materiale, una unica esperienza pura che si configura come una pluralità di relazioni.

volontà di credere È una delle

tesi più note di James. Nel caso di alcune credenze non suscettibili di verifica empirica – quali sono generalmente gli enunciati morali o religiosi – è legittimo credere in essi sulla base di una disposizione emotiva e prerazionale. In questo caso, infatti, la mia credenza può

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contribuire alla verificazione stessa della credenza. Facciamo un esempio: credere in Dio significa avere una concezione più sicura e armoniosa della vita; ma se non credo in Dio avrò scarse occasioni di riscontrare tale armonia nell’esistenza; se invece credo in lui mi sentirò confortato e sollevato anche nei momenti più difficili e, di fatto, la mia fede produrrà gli effetti che mi aspetto dall’esistenza di Dio. Lo sviluppo più importante del pragmatismo nel Novecento è rappresentato dallo strumentalismo di John Dewey. Il suo punto di partenza è costituito dall’esperienza, che – a differenza di Peirce e di James – egli non definisce sul piano della conoscenza, ma su quello dell’azione. A suo avviso, l’esperienza coincide con l’interazione tra l’organismo e l’ambiente e precede l’intervento della riflessione intellettuale. Secondo Dewey, il rapporto tra l’organismo e l’ambiente non è sempre armonico: ogni volta che si presenta una situazione di disagio (o per il mancato adattamento del primo al secondo o per la non conformità del secondo alle esigenze del primo), l’esperienza tende a tradursi in conoscenza, e cioè in un’attività di concettualizzazione con la quale si riflette sugli aspetti problematici dell’esistenza. Secondo Dewey, la conoscenza non consiste in un rapporto contemplativo con la realtà, ma in un processo di manipolazione dell’esperienza, con cui l’uomo si sforza di intervenire sulla realtà e di adattare le cose alle sue esigenze pratiche. Per Dewey, conoscere qualcosa equivale a trasformare una situazione indeterminata in una situazione completamente determinata, individuando attraverso il ragionamento le possibili soluzioni ai problemi così delineati. Sulla scia di James, anche per Dewey l’esperienza rivela una stretta in-

terdipendenza tra il soggetto e l’oggetto, tra la mente e il corpo, di modo che l’uno non può esistere senza l’altro. In ambito etico ed estetico, è assai rilevante la riflessione sull’origine dei valori e sul rapporto mezzi-fini. La questione morale non può essere affrontata occupandosi solo dei valori in sé, ma anche dei mezzi adoperati per raggiungerli. Nell’ambito delle azioni umane, così come in quello delle creazioni artistiche, fini e mezzi tendono a compenetrarsi l’uno con l’altro, in quanto i mezzi (il talento, le tecniche, i materiali) attraverso cui si vuole raggiungere uno scopo (l’opera d’arte) sono momenti integranti dello scopo stesso. In ambito politico, Dewey fu strenuo difensore di un liberalismo radicale e in ambito pedagogico fu promotore del principio dell’«imparare facendo», centrato sugli interessi concreti e sull’attività volontaria del bambino.

situazione problematica Con questa espressione Dewey indica una situazione indeterminata che diventa un problema per la coscienza, creando una condizione di incertezza e di dubbio. Situazione problematica e coscienza sono dunque correlate: l’una nasce quando nasce l’altra. Se, trovandomi in una città sconosciuta, passeggio a caso guardando le vetrine, può darsi che perda l’orientamento. Quando ciò avviene la situazione si configura come indeterminata, perché non sono più in grado di orientarmi e non so dove dirigermi. Tuttavia la situazione da indeterminata diventa problematica soltanto quando prendo coscienza di aver perso l’orientamento, ad esempio cessando di guardare le vetrine e decidendo di tornare in albergo. Solamente allora – essendo consapevole del problema e sentendolo come un disagio e fonte di dubbio – comincerò a pensare in che modo risol-

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verlo (per esempio consultando una guida o chiedendo informazioni, ecc.). Ovviamente ciò vale anche, e soprattutto, quando le situazioni prima indeterminate e poi problematiche hanno rilevanza scientifica.

strumentalismo Termine con il

quale Dewey, volendo dare una connotazione specifica al proprio pragmatismo, sottolinea il caratte-

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re strumentale dell’indagine e degli strumenti logici (proposizioni, ragionamenti, ecc.) di cui essa si serve: l’una e gli altri, infatti, non sono altro che «strumenti» per risolvere una situazione problematica.

transazione Con questo termine

Dewey indica il rapporto di stretta interconnessione tra gli aspetti della realtà, per esempio tra soggetto e oggetto, tra mente e cor-

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po, tra conoscenza e ambiente, ecc. La transazione si distingue dall’interazione perché quest’ultima avviene tra elementi separati e indipendenti, mentre la transazione costituisce i termini del rapporto (il soggetto è tale perché c’è un oggetto, la mente è tale perché c’è il corpo), esattamente come avviene nella sfera economica da cui il termine è tratto (il compratore è tale perché c’è il venditore).

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i testi t22 James / La volontà di credere James

La volontà di credere

sezz. IV, IX, X

La volontà di credere è una raccolta di saggi, pubblicata nel 1897, che desume il titolo dal più noto degli scritti che la compongono. In quest’ultimo James trasforma il pragmatismo peirciano da dottrina metodologica per determinare il significato di una credenza in uno strumento concettuale per difendere il diritto alla fede, laddove non si tratti di questioni dimostrabili razionalmente o scientificamente, ma di dottrine morali e religiose. «In tal modo – come ha scritto Nicola Abbagnano – il pragmatismo è per James soltanto un ponte di passaggio allo spiritualismo». Dopo aver descritto le condizioni alle quali è possibile «voler credere» [cfr. 7.2], James, nel brano riportato qui di seguito, spiega la legittimità del diritto a credere – James stesso ammette che l’espressione «diritto a credere» è per alcuni versi più giusta di «volontà di credere» – quando si verifichino quelle condizioni.

In breve, la tesi che intendo difendere è la seguente: la nostra natura di esseri passionali non soltanto ha titolo legittimo, ma ha anche il dovere di decidere una scelta tra proposizioni, ogni volta che si tratti realmente di una vera scelta che non può essere decisa, per sua natura, su una base puramente intellettuale 1, infatti, in queste condizioni, dire «non decidere, ma lascia aperta la questione», è a sua volta una decisione dettata dalle passioni, proprio come decidere per il sì o per il no, ed è accompagnata dallo stesso rischio di perdere la verità2. Questa tesi, espressa in termini così astratti, diverrà presto chiara. [...] Un organismo3 sociale di qualsiasi tipo, grande o piccolo, è quello che è perché ciascun membro svolge il suo compito confidando che gli altri membri svolgeranno simultaneamente il 1. L’ambito in cui vige il diritto-dovere

di credere è dunque circoscritto a due livelli. In primo luogo, esso riguarda soltanto le questioni che non possono essere dichiarate vere o false in base a un procedimento razionale (o empirico-razionale, come nel caso delle questioni scientifiche). In secondo luogo, tra le opzioni non dirimibili razionalmente e scientificamente sono suscettibili di un atto di fede solo quelle che presentano congiuntamente i caratteri della vitalità, dell’inevitabilità e dell’im-

loro. In tutti i casi in cui un certo risultato desiderato viene raggiunto con la cooperazione di molte persone indipendenti, la sua esistenza, come fatto, è una semplice conseguenza della fiducia, preliminare e reciproca, delle persone che sono immediatamente interessate. Un governo, un esercito, un sistema commerciale, una nave, un’università, una squadra di atletica si trovano in questa condizione; senza di essa non soltanto non si giunge ad alcun risultato, ma non si riesce nemmeno a fare un tentativo. Un intero treno, con tutti i suoi passeggeri (anche abbastanza ben piantati individualmente) saranno derubati da pochi ladri, semplicemente perché questi ultimi possono contare sulla reciproca collaborazione, mentre ogni singolo passeggero teme che, se fa qual-

portanza. In questi casi – e solo in questi casi – la decisione su base emotiva non solo è legittima, ma è doverosa. 2. Si risente qui l’eco dell’argomentazione pascaliana per cui, quando si tratta di decidere sull’esistenza di Dio, la sospensione della decisione equivale a una decisione negativa. Del resto, James stesso ammette esplicitamente l’influenza su di lui dell’argomento pascaliano della «scommessa». 3. L’ambito delle opzioni in cui vige il diritto a credere si può dividere in due

sfere: da un lato, quella dei comportamenti individuali e sociali che possono essere influenzati dalla fiducia nel loro esito positivo; dall’altro, quella delle questioni etiche e religiose. In questo capoverso, James si sofferma sulla prima sfera, anche perché trattando di essa è più facile mostrare empiricamente come la fede possa a volte produrre la sua stessa verificazione. Ma il suo obiettivo finale è l’applicazione della volontà di credere alla morale e alla religione.

i testi

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che movimento di resistenza, verrà fatto secco prima che qualcun altro gli venga in aiuto. Se ognuno di noi credesse che tutto il treno insorgesse immediatamente insieme a noi, come un sol uomo, insorgeremmo individualmente e allora non si tenterebbe mai una rapina al treno. Ci sono quindi casi in cui un fatto non può giungere a verificarsi se non esiste preliminarmente la fiducia che possa effettivamente giungere a compimento. E nel caso che la fiducia in un fatto possa contribuire a creare quel fatto, sarebbe una logica folle quella che affermasse che la fede che se ne va per la sua strada senza aspettare la prova scientifica è «la forma più bassa di immoralità» nella quale possa cadere un essere pensante. Eppure questa è la logica con cui i nostri assolutisti scientifici pretendono di regolare le nostre vite! Quindi, nelle verità che dipendono dalla nostra azione personale, la fiducia basata sul desiderio è certamente una cosa legittima e forse anche indispensabile. A questo punto però si dirà che questi in fondo non sono altro che semplicissimi casi umani e non hanno nulla a che fare con le grandi questioni cosmiche, come il problema della fede religiosa. E quindi affrontiamo direttamente questo tema. Le religioni hanno forme così diverse fra loro che quando parliamo del problema religioso lo dobbiamo considerare nei suoi tratti più generici e nel senso più ampio. Che cosa intendiamo quindi con l’ipotesi religiosa? La scienza dice che le cose esistono; la moralità dice che alcune cose sono migliori di altre; la religione, nella sua essenza, dice due cose. In primo luogo, dice che le cose migliori sono quelle più eterne, le cose che sono più grandi di noi, quelle che nell’universo scagliano l’ultima pietra, per così dire, e dicono l’ultima parola. [...] La seconda affermazione della religione è che noi ci sentiremo meglio fin da questo momen4. Si noti come l’essenza della religione viene spogliata da James di ogni riferimento alla metafisica e alla teologia tradizionali. La religione è, infatti, ricondotta a due aspetti essenziali: a) l’affermazione di valori superiori a

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to se crediamo che la sua prima affermazione sia vera4. Consideriamo ora quali sono gli elementi logici della situazione nel caso che l’ipotesi religiosa sia vera in entrambe le sue parti. (Naturalmente dobbiamo ammettere questa possibilità fin dall’inizio. Se dobbiamo discutere il problema, esso deve comportare un’ipotesi vivente. Se per qualcuno di voi la religione fosse un’ipotesi che non può avere alcuna possibilità vitale di essere vera, allora non muovete un passo di più. Io parlo soltanto agli «altri»). Procedendo in questo modo, vediamo in primo luogo che la religione si offre come scelta di grande importanza. Si suppone che, fin da ora, ci guadagnamo qualche cosa con la nostra credenza, e che perdiamo, se la credenza ci manca, qualche bene vitale. In secondo luogo, la religione è un’opzione che si impone a forza, per tutto il bene che essa comporta. Non possiamo sfuggire al problema restando scettici e aspettando maggiori lumi, perché, sebbene noi evitiamo l’errore comportandoci in quel modo, nel caso che la religione non sia vera, perdiamo i suoi beni nel caso che lo sia, con la stessa certezza con cui li perderemmo nel caso che decidessimo apertamente di non credere affatto. È come se un uomo esitasse indefinitamente di chiedere ad una certa donna di sposarlo perché non è perfettamente sicuro che questa si riveli un angelo dopo che lui l’ha portata a casa. Quella possibilità di fare l’esperienza di che cosa sia un angelo, comportandosi lui in quel modo, gli verrebbe meno, proprio come se si risolvesse a sposare un’altra donna. Lo scetticismo quindi non consiste soltanto nell’evitare una certa scelta; è invece la scelta di un tipo particolare di rischio. È meglio correre il rischio di perdere la verità che avere la possibilità di commettere un errore: questa è la posizione di quel signore che impone il suo veto sulla verità5. [...] Se la religione fosse vera e le prove a suo favo-

quelli umani (ma non per questo assoluti); b) la necessità morale soggettiva di accettare come veri questi valori. 5. La conclusione dunque è la seguente. In primo luogo, la verità della religione non può essere verificata da pro-

7. il pragmatismo

cedimenti razionali o scientifici. Esiste, quindi, la condizione preliminare perché la religione possa essere dichiarata vera in base a un atto di fede. In secondo luogo, l’opzione religiosa – dire di sì o di no all’esistenza di Dio e di un ordi-

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re fossero ancora insufficienti, io non vorrei usare i vostri strumenti per spegnere i fuochi della mia natura (questo mi darebbe la sensazione che dopo tutto in questa faccenda i vostri strumenti hanno avuto qualche loro influsso) nei confronti dell’unica possibilità che ho nella vita di mettermi dalla parte vincente; quella possibilità infatti dipenderebbe, naturalmente, dalla mia disponibilità a correre il rischio di agire come se il mio bisogno passionane assiologico del mondo – è viva, importante e ineludibile. Esistono, quindi, anche le condizioni conclusive perché si abbia il diritto di credere alla religione.

le di guardare al mondo in una prospettiva religiosa possa avere significato profetico e veridico.

GUIDA ALLA LETTURA 1. In che modo la nostra natura di esseri passionali influisce sulla formazione delle credenze? Evidenzia sul testo la risposta. 2. Su quali affermazioni si basa l’ipotesi religiosa? A che scopo James ricorre in questo testo all’esempio della religione? 3. Evidenzia sul testo le espressioni che indicano l’appartenenza di James al pragmatismo.

t23 Dewey / Un nuovo concetto di esperienza Dewey

Intelligenza creativa

sez. I

La nozione di esperienza occupa una posizione centrale nel pensiero deweyano. Ma essa è rilevante soprattutto per la nuova accezione in cui essa viene assunta da Dewey (e, in generale, dai pragmatisti) rispetto alla tradizione dell’empirismo classico. Consapevole di ciò, in un saggio del 1916, intitolato Necessità di un risanamento della filosofia e pubblicato in un volume collettivo (vi collaborò tra gli altri anche Mead) dal titolo Intelligenza creativa. Saggi sull’atteggiamento pragmatico, egli enuclea chiaramente i punti di divergenza tra la vecchia e la nuova concezione.

Una critica della filosofia attuale dal punto di vista della qualità tradizionale dei suoi problemi deve cominciare da qualcosa, e la scelta del principio è arbitraria. A me è sembrato che la nozione di esperienza implicita nelle questioni più attivamente dibattute offra un punto di partenza naturale. Poiché, se non vedo errato, è proprio il concetto tradizionale di esperienza comune alla scuola empiristica e ai suoi avversari che tiene vivi molti dibattiti anche su argomenti che da esso sono chiaramente del tutto lontani, mentre quel concetto stesso è del tutto 1. Per la tradizione filosofica l’esperienza è una forma di conoscenza: più precisamente, per l’empirismo classico essa è la prima e fondamentale forma della conoscenza. Per Dewey, invece, la conoscenza, pur nascendo dall’espe-

insostenibile alla luce della scienza e della prassi sociale attuali. Per conseguenza io comincio con una breve esposizione di alcuni dei contrasti principali fra la caratterizzazione ortodossa dell’esperienza e quella congeniale alle condizioni presenti. 1) Il punto di vista ortodosso considera l’esperienza primariamente come un fatto conoscitivo. Ma ad occhi che non guardano attraverso lenti invecchiate essa appare sicuramente come un fatto del rapporto tra essere vivente e il suo ambiente naturale e sociale1. 2) Secondo

rienza, non è originariamente costitutiva di essa. L’esperienza è primariamente data da un’interazione ambientale tra soggetto e oggetto o, come egli ebbe a esprimersi in Democrazia ed educazione, un «fatto attivo-passivo».

«Ogni trattazione dell’esperienza – dirà poco dopo Dewey – deve oggi accordarsi con la considerazione che esperimentare significa vivere, e che il vivere procede dentro e a causa del mezzo ambiente, e non nel vuoto». L’espe-

i testi

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la tradizione l’esperienza è (almeno primariamente) una cosa psichica, compenetrata di «soggettività». Quello che l’esperienza suggerisce di se stessa è un mondo genuinamente oggettivo che entra nelle azioni e nelle passioni degli uomini e che subisce modificazioni attraverso le loro risposte2. 3) Nella misura in cui la dottrina consacrata ammette qualcosa al di là del mero presente, è il passato esclusivamente che conta. L’essenza dell’esperienza viene posta nella registrazione di ciò che è avvenuto, nel riferimento a un precedente. L’empirismo viene concepito come legato a ciò che è stato o che è «dato». Ma la esperienza nella sua forma vitale è sperimentale, sforzo di cambiare il dato; è caratterizzata da una proiezione, da un protendersi verso il futuro. Il suo tratto saliente è la connessione con un futuro3. 4) La tradizione empiristica è legata al particolarismo. I nessi e le continuità vengono supposti come estranei all’esperienza, come sottoprodotti di dubbia validità. Un’esperienza che è un sottostare a un ambiente e uno sforzo per dominar-

rienza è, dunque, una condizione originaria dalla quale si sviluppa, come momento successivo, la conoscenza. L’esperienza è immediata, comportando l’incontro tra un essere vivente e il suo ambiente, precedentemente a ogni riflessione: esperienza è consumare un pasto, parlare con un amico, guardare un quadro. La conoscenza comporta, invece, un aspetto riflessivo, che scaturisce dalla percezione di un aspetto problematico dell’esperienza: mi chiedo come avviene la digestione, se il mio amico abbia torto o ragione, se il quadro sia bello o che cosa esso rappresenti. 2. Nella prospettiva tradizionale (non soltanto empiristica), l’esperienza è una rappresentazione sensoriale-mentale della realtà. Pertanto, essa è sostanzialmente soggettiva, sia nel senso (cosa su cui insistono gli avversari dell’empirismo) che è individuale e connessa a particolari condizioni percettive, sia nel senso che in ogni caso essa è data dalle «impressioni» che il soggetto riceve dalla realtà ovvero dalle idee che da queste impressioni derivano (si pensi a Hume). Nei casi estremi (Berkeley), la realtà stessa viene

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lo in nuove direzioni è pregnante di nessi4. 5) Nell’accezione tradizionale, esperienza e pensiero sono termini antitetici. E l’inferenza, in quanto è altra cosa da un ravvivamento di ciò che è stato dato in passato, va oltre l’esperienza; e perciò essa o è priva di validità oppure è una misura della disperazione colla quale, usando l’esperienza a guisa di trampolino, noi ci lanciamo in un mondo di cose stabili e di altre persone. Ma l’esperienza, presa libera dalle restrizioni imposte dall’antico concetto, è piena di inferenza. Non esiste all’evidenza nessuna esperienza cosciente senza inferenza; la riflessione è nativa e costante5. GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali sono le caratteristiche dell’esperienza secondo la tradizione empiristica classica? Evidenziale sul testo. 2. Quali sono i tratti dell’esperienza che gli empiristi non sarebbero stati in grado di vedere e che, invece, Dewey mette in primo piano?

ridotta all’essere percepita da parte del soggetto. Nella prospettiva di Dewey, invece, l’esperienza è assolutamente oggettiva, essendo data dall’interazione tra un essere vivente e il mondo naturale in cui esso vive e opera: le nostre stesse rappresentazioni di quel mondo, che a noi appaiono «soggettive», non sono che una componente del contenuto oggettivo dell’esperienza, un fatto che interagisce con gli altri fatti. 3. Comportando l’interazione tra organismo e ambiente, l’esperienza non riguarda soltanto l’azione del «mondo esterno» sul «soggetto», la quale, isolata dal resto, appare necessariamente come passata, come un dato conoscitivo che si può soltanto registrare. Al contrario, l’esperienza concerne anche la risposta che l’organismo dà alla sollecitazione dell’ambiente; risposta che, come ogni evento operativo, è rivolta alla modificazione dell’ambiente, cioè al futuro. 4. Per Locke, l’esperienza fornisce soltanto idee semplici, non ulteriormente scomponibili: toccherà all’intelletto il comporle in idee complesse. Analogamente, per Hume le impressioni empiriche sono di per sé «sciolte e separa-

7. il pragmatismo

te» le une dalle altre. Dewey viceversa, concependo l’esperienza come interazione tra organismo e ambiente, dà ampio risalto alle interconnessioni: anzi, l’esperienza non è costituita da fatti, ma da relazioni tra fatti. 5. Nell’empirismo tradizionale la cesura tra esperienza (passiva) e intelletto (attivo) è netta. Il pensiero può soltanto riordinare i dati dell’esperienza secondo criteri che non sono però più di derivazione empirica. Pertanto – nota Dewey – l’elaborazione discorsiva del pensiero, cioè l’inferenza che parte dal particolare empirico dato per giungere a conclusioni generali, o è rifiutata come non valida o è accettata nella sua sola funzione pratica di orientamento dell’azione (si pensi alla critica humiana alla nozione di causalità). Nella prospettiva pragmatistico-strumentalistica di Dewey, viceversa, il pensiero è la prosecuzione dell’esperienza: più esattamente, è il momento in cui l’esperienza, da risposta immediata all’ambiente, si trasforma in consapevolezza di un problema e, quindi, in risposta mediata da un ragionamento logico.

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esercizi/7 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale 1. Evidenzia le occorrenze del termine «fallibilismo» presenti in questo capitolo. 2. Evidenzia le espressioni che definiscono la nozione di verità per Peirce, James e Dewey. 3. Evidenzia le espressioni che definiscono il nuovo concetto di esperienza sostenuto da Dewey. 4. Evidenzia il ruolo del ragionamento nella formulazione delle possibili soluzioni di una situazione problematica. 5. Evidenzia le espressioni che giustificano la definizione del pensiero politico di Dewey come «liberalismo radicale». 6. Evidenzia i punti qualificanti della pedagogia di Dewey. Dizionario filosofico 7. Definisci i seguenti concetti: pragmaticismo (Peirce) • abduzione (Peirce) • flusso di sensazioni (James) • strumentalismo (Dewey) • transazione (Dewey) • learning by doing (Dewey)

CHE COSA HO CAPITO? Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe) 8. Quali sono i metodi con cui, secondo Peirce, formiamo e fissiamo le «credenze»?

11. Quali sono i tratti caratterizzanti dell’ultima fase del pensiero di James, detta anche empirismo radicale? 12. Quali sono le fasi della logica dell’indagine, elaborata da Dewey? 13. Perché l’esperimento è, secondo Dewey, la sola garanzia dell’efficacia dell’idea? 14. Che cosa sono i valori per Dewey e in che modo è possibile agire preferendo l’uno all’altro? 15. Che differenza c’è, secondo Dewey, tra arti belle e arti utili? 16. Illustra la relazione che Dewey istituisce fra «libertà» e «valore». Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe) 17. Con quale argomentazione Peirce sostiene che anche l’esperienza è frutto di un’inferenza? 18. Illustra la teoria semiotica di Peirce. 19. In quali casi, secondo James, l’uomo vuole credere anche senza una verifica sperimentale delle sue credenze? 20. Qual è, secondo Dewey, il compito della filosofia? Confronta la sua concezione con quella di Dilthey. 21. Illustra la concezione deweyana del rapporto fra mente e corpo. 22. Che cosa intende Dewey per coscienza? In che cosa si differenzia la sua posizione da quella degli idealisti e da quella dei realisti? 23. Illustra il rapporto fra esperienza, valore e democrazia nel pensiero di Dewey.

9. Da che cosa dipende, secondo Peirce, la chiarezza di un’idea?

24. Confronta la nozione di valore proposta da Dewey con quella discussa – nell’ambito del neokantismo tedesco – da Windelband e da Rickert.

10. Qual è la tesi avanzata da James con la sua teoria dell’azione riflessa?

25. Che cosa intende Dewey per convergenza di mezzi e di fini?

esercizi/7

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conoscenza dell’universale concreto, ossia del concetto che è sintesi di individualità e universalità; 2) l’attività pratica, che si articola in economia, volizione del particolare, cioè dell’utile, ed etica, volizione dell’universale, cioè del bene. politica, scienza e filosofia

8. il neoidealismo italiano i contenuti hegelismo e marxismo nell’italia unita

Verso la fine dell’Ottocento ha luogo anche in Italia una reazione contro il positivismo e si affermano filosofie che si richiamano all’insegnamento hegeliano, già diffuso nell’Ottocento soprattutto nella cultura meridionale. Figure di spicco dell’hegelismo napoletano furono Bertrando Spaventa, per il quale la filosofia italiana del Rinascimento aveva precorso gli sviluppi del pensiero europeo successivo e preparato l’Italia ad essere una nazione libera come le altre, e Francesco De Sanctis, noto per le sue riflessioni sull’opera d’arte, specialmente letteraria, intesa come espressione della

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coscienza morale di un popolo. Antonio Labriola, attivo a Roma, fu invece sensibile alle sollecitazioni provenienti dal materialismo storico di Marx e di Engels: il suo contributo più importante consiste nella critica del rapporto di derivazione deterministica della sovrastruttura (l’arte, la religione, la morale) dalla struttura economico-sociale. croce e le forme dello spirito

Partendo da un’analisi critica del marxismo, considerato un semplice canone di interpretazione storica, Croce perviene all’elaborazione di una filosofia dello spirito, che distingue tra due attività fondamentali: 1) l’attività teoretica (o conoscitiva), che si articola in estetica, conoscenza intuitiva dell’individuale, e logica,

8. il neoidealismo italiano

Nella sfera economica Croce fa rientrare anche la politica, che è volontà che persegue l’utile e quindi non è né morale né immorale, ma anche la scienza, perché i concetti di cui essa fa uso sono finzioni utili, ossia pseudoconcetti. È soltanto con la filosofia che si ha conoscenza dell’universale concreto, che è storico, perché la realtà stessa è storica. In questo senso Croce denomina la propria concezione storicismo, come identità di filosofia e storia e – precisamente – storia dello sviluppo dello spirito universale nelle sue forme. dialettica dei distinti e circolarità dello spirito

Riallacciandosi a Hegel, Croce sostiene che la relazione tra le forme dello spirito è dialettica. Hegel aveva sostenuto che anche tra le forme dello spirito assoluto sussiste una dialettica culminante nella filosofia come superamento dell’opposizione tra le forme inferiori dell’arte e della religione. In realtà per Croce la dialettica degli opposti è operante all’interno di ciascuna delle forme, ma tra queste forme stesse vige una dialettica dei distinti, che non porta al superamento di nessuna di esse, in quanto ogni forma implica la precedente ed è implicata dalla successiva. In ciò consiste quella che Croce chiama circolarità dello spirito, che si sviluppa sempre più arricchito passando continuamente attraverso tutte le sue forme. la storia e la libertà

La storia stessa è per Croce opera dello spirito, che è libertà – e non tanto dei singoli individui. Secondo questa prospettiva, la storia può essere concepita come progressiva

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realizzazione della libertà anche attraverso momenti (ad esempio, il fascismo) che si presentano apparentemente come la negazione di essa. È sulla consapevolezza di ciò che si può costituire la storia come azione, la quale ha il suo principio nella libertà. gentile e la critica del marxismo

Anche Gentile inizia con un’analisi del marxismo, da lui considerato una filosofia della prassi. La caratteristica principale di quest’ultima è che non concepisce l’oggetto come un dato, ma come l’esito dell’azione umana, che a sua volta torna a modificare il soggetto. Affermando il primato della base materiale, ossia dell’economia, rispetto al pensiero e allo spirito, il marxismo ha però scambiato il relativo con l’assoluto,

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perché solo lo spirito è suscettibile di storia.

significa superare l’alterità come tale, riportandola alla sua unità.

il pensiero è atto puro

il volere universale e lo stato etico

Pensare è attività, poiché il pensiero è in quanto pone l’oggetto e quindi fa: nulla esiste se non nell’atto in cui è pensato. In ciò consiste l’attualismo, che identifica il pensare con il pensare in atto (o pensiero pensante); il pensiero astratto (o pensiero pensato) è, invece, ciò che è diventato un fatto – e non è più atto. Soggetto del pensiero non è l’io empirico (o individuale), ma l’Io trascendentale. Quest’ultimo va concepito come un processo creativo, e non come una sostanza: se fosse tale, infatti, sarebbe già un fatto (ossia pensiero pensato). L’Io trascendentale è unico, è l’unità dello spirito di contro alla molteplicità degli io empirici e delle cose: per esso conoscere

Poiché il volere coincide con il conoscere che si traduce in realtà, Gentile può anche sostenere l’identità di teoria e prassi. Il volere come volere comune e universale è lo Stato, la cui volontà è il diritto che trova la propria attuazione nella legge (ossia volontà voluta). Fuori dello Stato non ci sono dunque diritti o libertà individuali, né l’etica può fungere da criterio di giudizio della politica e dell’azione dello Stato. Lo Stato appare dunque come una sorta di persona morale che ha fini e volontà superiori a quelli degli individui: in ciò consiste lo Stato etico, che per Gentile doveva trovare attuazione nel fascismo.

gli strumenti in poche… parole dialettica dei distinti / «l’intuizione è espressione» / concetto / pseudoconcetto / attività pratica / atto puro / Stato etico

i testi a. nel manuale t24 Croce/Intuizione ed espressione artistica t25 Gentile/Stato etico e moralità

b. on-line Croce/Dialettica degli opposti e dialettica dei distinti Croce/Male e vitalità nella storia Gentile/La dialettica del pensiero

confronti La concezione della storia e della filosofia in Dilthey e in Croce

esercizi Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Hegelismo e marxismo nell’Italia unita il ritorno a hegel

Negli ultimi decenni dell’Ottocento il positivismo aveva raggiunto in Italia i suoi massimi trionfi [  approfondimento, p. 101], grazie soprattutto a brillanti risultati conseguiti nell’ambito di discipline e ricerche particolari (dalla psicologia alla sociologia). Malgrado ciò, esso aveva al contempo mostrato chiari segni di debolezza sul piano dell’elaborazione filosofica generale. L’offensiva antipositivistica destinata a ottenere i maggiori successi è quella sferrata – all’inizio del nuovo secolo – da Benedetto Croce e da Giovanni Gentile, che si richiamano entrambi alla tradizione hegeliana. Già verso il 1843, il pensiero hegeliano era penetrato a Napoli, soprattutto per la trattazione dell’estetica e per la concezione della storia, intesa come manifestazione progressiva dello spirito del mondo in singoli popoli e nazioni.

spaventa: la filosofia è manifestazione dello spirito di un popolo

Figura di spicco dell’hegelismo napoletano fu Bertrando Spaventa (18171883). Nel 1860, egli veniva chiamato a insegnare Filosofia all’università di Bologna e l’anno successivo a quella di Napoli: in concomitanza con la formazione dell’unità nazionale, egli avvertiva l’esigenza d’individuare una tradizione filosofica nazionale. Il suo presupposto era che la filosofia è la manifestazione più significativa della vita di un popolo libero, in quanto in essa si compendiano hegelianamente tutti i momenti antecedenti dello spirito.

filosofia italiana ed europea

La filosofia italiana, secondo Spaventa, non era nata nell’antica Magna Grecia o dalla Scolastica, come comunemente si pensava, ma nel Rinascimento, come affermazione di libertà nei confronti dell’autorità dello stesso pensiero scolastico. Bruno e Campanella avevano precorso gli sviluppi successivi della filosofia europea – ossia, rispettivamente, la dottrina della sostanza di Spinoza e il cogito di Cartesio. A sua volta Vico, sintetizzando l’oggettivismo di Bruno con il soggettivismo di Campanella, aveva anticipato la grande filosofia tedesca. In precedenza Spaventa aveva criticato Rosmini e Gioberti, ma ora li equiparava a Kant e Hegel: con essi la filosofia italiana aveva riacquistato la sua peculiarità nazionale e, al tempo stesso, si era ricongiunta all’Europa. Rosmini e Gioberti, infatti, affermando il primato del soggetto conoscente (o spirito), avrebbero suggerito – secondo Spaventa – un nuovo cominciamento per la logica hegeliana. Per entrambi, infatti, l’essere «non è fuori dell’atto del pensare». Il punto di partenza della logica, dunque, non è «l’essere assolutamente vuoto e indeterminato», ipotizzato da Hegel, ma l’atto stesso del pensare.

il primato filosofico della nazione italiana

Nell’ottica di Spaventa, dunque, la filosofia italiana assumeva una funzione di precorrimento: essa aveva posto i semi, che avevano trovato sviluppo presso altre nazioni, da cui erano tornati al luogo di origine – in Italia – in forma nuova e arricchita. In tal modo, venivano poste le basi per non essere, nel futuro, «scissi dalla vita universale» e per divenire «nazione libera ed uguale nella comunità delle nazioni».

l’estetica di de sanctis

Dall’estetica di Hegel trasse ispirazione Francesco De Sanctis (1817-1883). Dapprima esule a Torino e a Zurigo, dove insegnò, fu poi ministro del-

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l’Istruzione nell’Italia unita e autore di numerosi studi di critica letteraria, oltre che di una celebre Storia della letteratura italiana. Egli considerò l’opera d’arte il prodotto autonomo della fantasia, facoltà creatrice spontanea, che realizza una sintesi compiuta di contenuto e di forma. Nell’opera d’arte la forma non è qualcosa che viene ad aggiungersi dall’esterno al contenuto, ma si genera in connessione a esso nella mente dell’artista. Poiché l’artista è sempre legato a una precisa situazione storica, l’opera d’arte è al tempo stesso espressione della coscienza morale e civile di un popolo. Secondo questa prospettiva, la storia della letteratura è contemporaneamente storia morale e civile di una nazione. Nei suoi ultimi anni, De Sanctis avrebbe salutato con favore la diffusione del darwinismo, visto come affermazione dei contenuti reali della vita, contro le evasioni romantiche dalla realtà. Sulla filosofia di Hegel si formò Antonio Labriola (1843-1904). A partire dal 1874 fu professore di Filosofia morale e Pedagogia nell’università di Roma e, dal 1887, ebbe anche l’incarico di Filosofia della storia. Inizialmente vicino alla Destra storica, nel 1879 compì un viaggio in Germania, su incarico del ministero dell’Istruzione Pubblica, per studiarvi l’ordinamento scolastico. Qui cominciò a nutrire simpatia per il movimento socialista, ma soltanto verso il 1890 aderì esplicitamente al marxismo, intrattenendo rapporti epistolari con Engels e Kautsky e pubblicando opere orientate in questo senso, quali In memoria del Manifesto dei comunisti (1895), Del materialismo storico (1896) e Discorrendo di socialismo e di filosofia (1898-99).

vita e opere di labriola

Nel 1890, la lettura dei testi di Marx e di Engels lo condusse a ravvisare nel materialismo storico la spiegazione oggettiva della dinamica storica attraverso la lotta di classe. Alle teorie che separavano il piano dei valori da quello degli interessi materiali di cui le classi sociali sono portatrici, Labriola contrappose le tesi che «le idee non cascano dal cielo» e la storia delle idee «non consiste nel circolo vizioso delle idee che spieghino se stesse». Per questa via Labriola riprendeva il tema del rapporto fra struttura e sovrastruttura [cfr. 3.6], respingendo tuttavia ogni riduzione deterministica della seconda alla prima. Si trattava, invece, di un processo complicato di derivazione e mediazione fra questi piani, che invitava a guardarsi dalla tentazione di dedurre meccanicamente i prodotti dell’attività storica umana (l’arte, la religione, la morale) dalla situazione economica e sociale, che pure era la base imprescindibile di essi. L’uomo – affermava Labriola – «produce e sviluppa se stesso, come causa ed effetto, come autore e conseguenza ad un tempo, di determinate condizioni, nelle quali si generano anche determinate correnti di opinioni, di credenze, di fantasia, di aspettazioni».

le idee non sono «mere apparenze e bolle di sapone»

2. Croce: la filosofia dello spirito Benedetto Croce nacque a Pescasseroli (in Abruzzo) nel 1866, da una famiglia di ricchi proprietari terrieri; compì i suoi primi studi a Napoli, ma nel 1883 i suoi genitori morirono entrambi durante il terremoto di Casamicciola. Da allora egli visse a Roma presso un cugino del padre, Silvio Spaventa, 8. il neoidealismo italiano

la formazione da autodidatta

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autorevole esponente della Destra storica, fratello di Bertrando. Iscrittosi alla facoltà di Giurisprudenza, Croce preferì seguire i corsi filosofici di Antonio Labriola, e rinunciò così a laurearsi. Nel 1886 tornò a Napoli, ove si dedicò a ricerche erudite di storia e letteratura, e nel 1893 compose la memoria La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte. Tra il 1895 e il 1900, stimolato da Labriola, si immerse nello studio del marxismo, scrivendo alcuni saggi poi raccolti nel volume Materialismo storico ed economia marxista (1900). l’amicizia con gentile e la distanza dall’accademia

Nel frattempo strinse amicizia con Giovanni Gentile, anch’egli impegnato nella critica del marxismo, il quale divenne il suo principale collaboratore nella rivista «La Critica», da lui fondata nel 1902 per propugnare la rinascita dell’idealismo. Tale rivista – con i suoi articoli di filosofia, storia e critica letteraria – avrebbe esercitato un’influenza determinante sulla vita culturale e politica italiana sino al 1943. In contatto con le figure più rappresentative della cultura europea, Croce svolse la sua attività fuori dalle università attraverso questa rivista e con i suoi scritti, mantenendo un distacco critico verso la figura del filosofo professionale dedito alla speculazione pura.

i volumi della «filosofia dello spirito»

Nel 1902 Croce pubblicò l’opera che gli avrebbe dato vasto successo anche presso un pubblico non strettamente interessato ai problemi filosofici: l’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale. Essa costituisce il primo volume di quella che fu chiamata da Croce «Filosofia dello spirito». Gli altri volumi sono: Logica come scienza del concetto puro (1909), Filosofia della pratica. Economia ed etica (1909) e Teoria e storia della storiografia (1917).

la collaborazione con laterza

l’attività politica e l’antifascismo

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Nel 1906 per sua iniziativa prese avvio presso Laterza – l’editore dei suoi scritti – la «Collezione dei classici della filosofia moderna», il cui primo volume è l’Enciclopedia delle scienze filosofiche di Hegel, tradotta da Croce stesso. In quello stesso anno egli pubblicò il saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel. Nominato senatore nel 1910, Croce assunse un atteggiamento di neutralità durante la Prima guerra mondiale, né condivise gli atteggiamenti nazionalistici antitedeschi. Nel 1920-21 fu ministro della Pubblica Istruzione nel governo presieduto da Giolitti. Di fronte all’avvento del fascismo, nel 1922, mantenne dapprima un atteggiamento di cautela, vedendo nel fascismo stesso una «reazione giovanile patriottica», che si sarebbe spenta presto consentendo la restaurazione di uno Stato liberale rafforzato. Dopo il delitto Matteotti (1924) assunse una netta posizione antifascista in difesa della libertà, rompendo definitivamente i rapporti di amicizia con Giovanni Gentile. Nel 1925, in risposta a un Manifesto degli intellettuali fascisti scritto da Gentile, contrappose un altro manifesto, sottoscritto da vari intellettuali antifascisti, nel quale denunciava il ricorso alla violenza e la soppressione della libertà di stampa da parte del regime. Per vent’anni, con il suo atteggiamento e i suoi scritti – tra i quali ebbero notevole successo la Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), la Storia d’Europa nel secolo XIX (1932) e La storia come pensiero e come azione (1938) – Croce fu un punto di riferimento per quanti si opposero al regime fascista. 8. il neoidealismo italiano

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Dopo la liberazione fu ministro nei governi Badoglio e Bonomi e presidente del partito liberale, ma dal 1948 tornò a dedicarsi prevalentemente agli studi, curando la pubblicazione dei «Quaderni della Critica» (1945-51) e occupandosi dell’Istituto di Studi storici da lui fondato a Napoli, città nella quale morì nel 1952.

gli ultimi anni

Il primo scritto teorico di Croce – La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893) – ha come obiettivo polemico la tesi d’impronta positivistica, sostenuta dallo storico Pasquale Villari, secondo cui la storia è scienza e deve quindi assumere a modello le procedure delle scienze. Per Croce, invece, la storia non può essere scienza: quest’ultima, infatti, ha per oggetto l’universale, ossia l’astratto, mentre la storia – come l’arte – riguarda il concreto, l’individuale. Per questo motivo, la storia consiste nella narrazione di ciò che è accaduto e non presuppone l’esistenza di un disegno prestabilito o provvidenziale. Con questa affermazione, Croce si contrapponeva a Hegel e interpretava la storia come il risultato dell’agire degli uomini, sulla base delle condizioni oggettive, ma anche degli ideali che ne orientano l’azione. Per questo aspetto, egli si ispirava all’insegnamento di Labriola, che negli ultimi anni del secolo – come si è visto [cfr. 8.1] – andava abbracciando decisamente il marxismo e sollecitava anche Croce a occuparsene.

la storia non è una scienza

Da Labriola – a cui dedica il volume Materialismo storico ed economia marxista (1900) – Croce tuttavia si discosta, asserendo che il materialismo storico è un canone d’interpretazione storica più che una filosofia generale della storia. In altre parole, il marxismo richiama l’attenzione dello storico sul sostrato economico delle società in modo da comprenderne meglio le configurazioni e gli avvenimenti. Alla luce di queste considerazioni, Il Capitale di Marx si presenta a Croce – più che come un trattato di economia o una ricerca storica – come una costruzione ipotetica e astratta di carattere sociologico e comparativo, volta a chiarire le condizioni del lavoro nelle società e la formazione del profitto del capitale. Secondo questa prospettiva, il socialismo non rappresenta per Croce lo sbocco inevitabile di un processo prevedibile in base alla conoscenza scientifica delle leggi della storia; esso gli appare invece fondato su un presupposto morale – anziché scientifico – che richiede di essere perseguito grazie alla persuasione e alla forza del sentimento.

il marxismo e l’interpretazione della storia

Lo studio della storia in tutte le sue manifestazioni metteva Croce di fronte alla pluralità di forme nelle quali si esplica l’attività umana. Egli cercò di cogliere lo specifico di ciascuna forma distinguendola da ogni altra attraverso un procedimento di esclusione e di negazione che evitasse sovrapposizioni e confusioni:

la storia e l’attività spirituale dell’uomo

Noi, per esempio, parliamo dello spirito ossia dell’attività spirituale in genere; ma parliamo anche, a ogni istante, delle forme particolari di quest’attività spirituale. E, mentre le consideriamo tutte come costitutive della compiuta spiritualità (e la deficienza di alcuna d’esse ci offende e ci muove al rimedio, e l’assenza totale o quasi ci spaventa come assurda o mostruosa), siamo poi vigili e gelosi perché l’una non si confonda con l’altra; e perciò riproviamo chi giudi8. il neoidealismo italiano

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ca d’arte con criterî morali, o di moralità con criterî artistici, o di verità con criterî utilitarî, e via. Ché, se dimenticassimo la distinzione, uno sguardo alla vita ce la farebbe subito ricordare: la vita, che ci mostra quasi anche esteriormente distinte le sfere dell’attività economica, scientifica, morale, artistica, e l’unico uomo ci fa apparire specificato ora come poeta, ora come industriale, ora come uomo di Stato, ora come filosofo (Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, cap. IV).

Mediante la tecnica della distinzione, Croce elaborò – a partire dal 1900 – un vero e proprio sistema, da lui denominato filosofia dello spirito. Per spirito si deve intendere non un’entità divina trascendente, ma l’attività spirituale umana nella sua universalità, che travalica la dimensione finita dei singoli individui. le quattro forme dello spirito

Già nell’Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale, Croce formulava la teoria delle quattro forme dello spirito, ossia dei modi in cui lo spirito – nel suo sviluppo storico – opera in maniera universale e costante. In generale, egli distingue due attività dello spirito. 1) L’attività teoretica riguarda la conoscenza e si articola, a sua volta, in due forme: a) l’estetica, ossia la conoscenza dell’individuale; b) la logica, ossia la conoscenza dell’universale. 2) L’attività pratica mira al perseguimento di fini attraverso l’azione e si articola, a sua volta, in due forme: a) l’economia, consistente nella volizione del particolare, cioè dell’utile; b) l’etica, consistente nella volizione dell’universale, cioè del bene.

SPIRITO attività teoretica

ciò che è vivo...

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attività pratica

estetica

economia

logica

etica

Quali sono le relazioni che intercorrono tra le forme dello spirito? La risposta a questo interrogativo ripropone il problema della dialettica: su questo punto, Croce avverte la necessità di prendere posizione rispetto alla filosofia di Hegel. Ciò avviene nella Logica, ma è già oggetto di trattazione specifica nel saggio Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel. In Hegel, Croce ravvisa una filosofia antimetafisica e antiteologica, che ha concepito se stessa come comprensione storica e razionale di tutte le attività dell’uo8. il neoidealismo italiano

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mo: per Hegel, la realtà è storia e non esistono valori o idee soprastoriche. La dialettica degli opposti costituisce la legge di sviluppo della realtà: quest’ultima, infatti, appare articolata in una serie di opposizioni che si riconciliano attraverso sintesi superiori. In altri termini, senza contraddizione e opposizione non ci sarebbero svolgimento e vita. Qual è l’errore che Hegel avrebbe commesso nel modo di concepire la dialettica, secondo Croce? Egli avrebbe considerato come opposti anche quelli che sono invece soltanto dei distinti, ossia le forme dello spirito. Non si può dire, per esempio, che l’arte e la filosofia siano opposte l’una all’altra e, quindi, che la filosofia rappresenti il superamento dell’arte. Secondo Croce, infatti, l’opposizione è operante all’interno di ciascuna forma dello spirito – nell’estetica fra bello e brutto, e nella logica tra vero e falso –, non già tra una forma e l’altra – vero e bello non sono tra loro opposti come lo sono, invece, vero e falso . Ciò significa che esiste una dialettica dei distinti , diversa dalla dialettica degli opposti, estesa indebitamente da Hegel alle forme dello spirito. Tra i distinti esiste un nesso di implicazione, per cui ogni grado o forma implica la precedente ed è implicata dalla successiva. Così la filosofia implica l’arte, in quanto deve fondarsi su intuizioni e rappresentazioni individuali: la conoscenza estetica, infatti, fornisce il materiale a quella logica. A sua volta, come si vedrà, la conoscenza è implicata dalla volizione, che da parte sua è materia per una successiva intuizione.

... e ciò che è morto nella filosofia di hegel

Lo spirito è tutto in ciascuna forma, ma passa da una all’altra, dispiegandosi e arricchendosi. Come sappiamo, Hegel aveva pensato i rapporti fra arte, religione e filosofia, applicando ai distinti «la forma triadica, che è propria della sintesi degli opposti»: ciò lo aveva condotto a parlare di superamento di alcune forme dello spirito assoluto da parte di altre (ad esempio, l’arte da parte della religione; l’arte e la religione da parte della filosofia). Secondo Croce, ciò non è possibile giacché ogni forma rappresenta un grado necessario della vita dello spirito.

dalla dialettica degli opposti alla dialettica dei distinti

In ciò consiste la critica al panlogismo hegeliano, ossia alla pretesa di sostituire il pensiero filosofico a tutte le attività e processi dello spirito, che devono invece essere salvaguardati nella loro distinzione e connessione reciproca. Lo spirito passa tra le varie forme per una necessità intrinseca alla sua natura, che è di essere insieme arte e filosofia, teoria e prassi. La relazione dei distinti nell’unità dell’attività spirituale è paragonabile, secondo Croce, «allo spettacolo della vita, in cui ogni fatto è in relazione con tutti gli altri». Il simbolo più adeguato per rappresentare l’unità dello spirito nella distinzione delle sue forme non è dunque la serie lineare, in cui la posizione di ciascuna forma è fissata staticamente, ma il circolo – inteso dinamicamente – in cui ogni punto è insieme primo e ultimo. In ciò consiste appunto la circolarità dello spirito, che si sviluppa progressivamente attraverso le sue varie forme, ritornando sempre arricchito a ciascuna di esse.

la circolarità dello spirito

La prima forma dello spirito è l’estetica: oggetto di essa è l’arte, che Croce considera come una forma di conoscenza. Ma conoscenza di che cosa? Come abbiamo già visto, l’estetica è distinta dalla logica: per questo motivo,

l’estetica e l’intuizione artistica

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Croce Dialettica degli opposti e dialettica dei distinti

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l’arte non può essere conoscenza dell’universale, la quale è propria dell’intelletto e consiste nella produzione di concetti. L’arte è, invece, conoscenza intuitiva dell’individuale che si esprime attraverso la produzione di immagini (o fantasia). Ma che cos’è l’intuizione, secondo Croce? Essa è un atto spirituale, che si distingue da tutto ciò che è puramente passivo, meccanico o naturale (la percezione, la sensazione). In termini crociani, «l’intuizione è espressione» [t24]. Per Croce, lo spirito «non intuisce se non facendo, formando, esprimendo» in parole, suoni, colori. Più precisamente, nell’atto estetico l’attività espressiva dà forma al materiale offerto dalle sensazioni: l’arte è, dunque, forma e non può essere ridotta alla riproduzione passiva di una realtà naturale esterna. A questo proposito, Croce ribadisce – come aveva mostrato Vico – che il linguaggio non è puro suono, ma appunto espressione e perpetua creazione. l’intuizione e l’irrilevanza delle tecniche

Ma che rapporto intercorre tra l’intuizione puramente interiore, da un lato, e il momento della sua realizzazione tecnica in opere o prodotti, dall’altro? Secondo Croce, l’esecuzione di un’opera non aggiunge nulla all’intuizione artistica vera e propria, ma risponde soltanto alla necessità pratica di riprodurre l’immagine formata interiormente per renderla disponibile a se stessi e comunicarla ad altri. Da questo punto di vista, perdono rilevanza le distinzioni tra le varie arti o tra i vari generi letterari: esse sono solo classificazioni empiriche estrinseche rispetto all’unità dell’espressione artistica.

il bello e la fruizione dell’opera

Il bello è il valore dell’espressione, ossia coincide con l’espressione riuscita, e non può essere confuso con il piacevole o il sublime o il comico e così via, ossia con determinazioni puramente psicologiche. Né si può parlare di un bello naturale, perché ciò equivarrebbe ad attribuire alla natura una capacità intuitiva ed espressiva, che è invece propria dello spirito. Al contrario del bello, il brutto corrisponde invece all’attività espressiva impacciata e ha la sua causa nell’interferenza della volontà che persegue fini pratici all’interno del processo di formazione artistica. Quando allora un prodotto spirituale si può dire bello? Secondo Croce ciò può avvenire soltanto rivivendo interiormente il processo spirituale compiuto dall’artista, servendosi del segno fisico, ossia dell’opera che questi ha lasciato. Ciò significa che l’attività giudicatrice (gusto) s’identifica con l’attività che produce (genio). Per giudicare un poeta occorre, dunque, elevarsi alla sua altezza, far tutt’uno con lui.

l’arte ha il proprio fine in se stessa

In seguito, Croce tornò quasi ininterrottamente a riflettere sul fenomeno artistico in numerosi saggi – dal Breviario di estetica (1912) alla raccolta intitolata La poesia (1936). Egli insiste sul fatto che l’intuizione propria dell’arte ha un carattere lirico, in quanto è accompagnata dal sentimento: nell’intuizione lirica ha luogo una sintesi a priori di sentimento e immagine, per cui senza immagine il sentimento è cieco, mentre senza sentimento l’immagine è vuota, ossia si riduce a un vano fantasticare. Tuttavia, non si tratta di un’espressione sentimentale immediata, ancora aderente al particolare, bensì di un’espressione che placa e trasfigura il sentimento, riannodando il particolare all’universale: in ciò consiste la poesia. A essa Croce contrappone la letteratura, ovvero tutte le forme espressive (ad esempio, le opere di-

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dascaliche o di intrattenimento) che hanno valore principalmente culturale. Emerge qui uno dei tratti che più hanno contribuito al successo dell’estetica crociana: la rivendicazione dell’autonomia dell’arte. L’arte non è riducibile alle altre forme dello spirito e, pertanto, non può essere valutata secondo le categorie del vero, dell’utile, del piacevole o del moralmente buono. L’arte può rappresentare contenuti che dal punto di vista morale sono riprovevoli, ma essa non è per questo moralmente riprovevole. Per questa ragione, non possono venirle affidati compiti di istruzione o di educazione morale o politica. L’arte – in quanto conoscenza dell’individuale – è distinta e indipendente dalla conoscenza per concetti, ossia dalla conoscenza dell’universale. Alla trattazione di questa ultima forma di conoscenza Croce dedicò la Logica come scienza del concetto puro. L’attività logica (o pensiero) sorge sulla base delle intuizioni, che colgono il molteplice nella sua individualità: per questo aspetto, dunque, essa presuppone la conoscenza intuitiva propria dell’estetica. Ma la conoscenza logica va oltre l’intuizione, per cogliere ciò che è universale nell’individuale, ossia il concetto . Croce definisce il concetto come universale concreto. Esso è universale, perché trascende le singole rappresentazioni (per esempio, il concetto di bellezza non si esaurisce nelle singole rappresentazioni di cose belle); è concreto, perché è immanente a ciascuna rappresentazione (per esempio, il concetto di bellezza non esiste in un presunto altro mondo come le idee platoniche, ma è presente in ogni cosa bella).

la logica e il concetto

Rispetto ai concetti, Croce distingue gli pseudoconcetti : essi sono finzioni concettuali, il cui contenuto è dato da una o più rappresentazioni (per esempio, la nozione di cane o di casa) oppure da astrazioni prive di rappresentazione (per esempio, la nozione di triangolo). Nel primo caso, si ha una concretezza senza universalità, in quanto il cane o la casa non sempre sono esistiti sulla terra: si hanno allora pseudoconcetti empirici; nel secondo caso, invece, si ha universalità senza concretezza, poiché il triangolo in quanto tale non esiste mai nella realtà: si hanno, perciò, pseudoconcetti astratti. Croce esclude che tali finzioni concorrano alla formazione di concetti veri e propri. Ciò non vuol dire che gli pseudoconcetti siano errori. Essi infatti non traggono origine dall’attività teoretica e conoscitiva dello spirito, ma dall’ attività pratica che li escogita allo scopo di poter richiamare – con un solo nome – una molteplicità di rappresentazioni.

gli pseudoconcetti e la loro funzione

Secondo Croce, sia le scienze naturali (incluse la sociologia e la psicologia) sia quelle matematiche fanno uso di pseudoconcetti. Tanto le leggi generali a cui pervengono le prime quanto i princìpi astratti su cui si basano le seconde, infatti, non sono altro che pseudoconcetti. Per Croce, le leggi scientifiche sono costruzioni utili, ma arbitrarie, in quanto presuppongono come fisso ciò che è mobile. La matematica, dal canto suo, si fonda su princìpi ipotetici che servono al fine pratico di contare e calcolare. Riprendendo suggestioni rintracciabili nella contemporanea riflessione epistemologica (Mach e Poincaré), Croce insiste sul carattere convenzionale, pratico ed economico delle scienze. In opposizione alla cultura positivistica, dunque,

le scienze non hanno valore conoscitivo

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egli sottrae ogni capacità realmente conoscitiva alle scienze, che cessano di essere il modello per eccellenza della conoscenza. gli storici formulano giudizi individuali

Abbiamo visto che l’attività logica consiste nella formazione dei concetti. Pensare, infatti, equivale a pensare concetti. Il pensiero, d’altra parte, è intrinsecamente connesso alla sua espressione verbale. Pensare concetti equivale, dunque, a formulare giudizi. Questi ultimi, secondo Croce, possono essere di due tipi: 1) la definizione, nella quale soggetto e predicato sono entrambi universali (per esempio: «L’arte è intuizione»); 2) il giudizio individuale, in cui il soggetto è individuale e il predicato universale (per esempio: «Quest’opera d’arte è bella»). Questo secondo tipo di giudizio è largamente impiegato dagli storici che riconducono i fatti riferiti dalle fonti sotto un concetto universale (per esempio, guerra, Stato, ecc.). Ogni giudizio individuale, vertendo sull’elemento intuitivo o percettivo (il soggetto a cui si attribuisce un predicato), è un giudizio storico: esso comporta sempre il riferimento a una realtà di fatto – ossia a un fatto storico – dal momento che nella realtà non si trovano, né sono concepibili, fatti immutabili.

l’identità di filosofia e storia

Richiamandosi a Vico, Croce sostiene che si può conoscere solo ciò che si è fatto: in tal modo la conoscenza storica viene a coincidere con la conoscenza tout court. La filosofia, in quanto conoscenza della realtà, coincide con la storia, dal momento che la realtà è storia. Ciò significa anche che ogni filosofia è sempre storicamente condizionata: non esiste, per Croce, una filosofia definitiva fondata su verità soprastoriche e ultime. La filosofia è la storia dello sviluppo dello spirito attraverso le forme in cui, di volta in volta, si attua.

il rapporto tra attività teoretica e attività pratica

Fin dall’Estetica, Croce ha distinto l’attività dello spirito in teoretica e pratica: quest’ultima dipende dalla volontà come produttrice di azioni. Con l’attività teoretica l’uomo comprende le cose, mentre con quella pratica le muta, ma per mutarle egli si fonda sulla conoscenza. Tra attività pratica e attività teoretica esiste, dunque, lo stesso rapporto che sussiste tra logica ed estetica: la prima presuppone la seconda. Secondo Croce, infatti, la volontà cieca non è propriamente volontà, in quanto nessuna azione è possibile se non è preceduta da una conoscenza intuitiva o logica, ossia storica. Ciò non significa che la conoscenza teoretica indichi che una determinata cosa, o uno scopo, è buona o cattiva, utile o dannosa: la conoscenza, come abbiamo visto, ha a che fare con ciò che è vero. Ma, se il pensiero in quanto tale pensa sempre il vero, che cos’è l’errore? Esso non consiste nella non adeguatezza fra il pensiero e il suo oggetto, ma nasce dall’interferenza di motivi pratici, passioni o interessi con l’attività teoretica.

le forme dell’attività pratica: l’economia e l’etica

L’attività economica è la volontà che ha per oggetto l’individuale, ossia l’utile. L’utile non deve essere tuttavia confuso con l’egoistico, perché questo rientra nell’ambito della morale. Come abbiamo visto, invece, la sfera economica – essendo autonoma – non è soggetta a giudizi morali. Ciò comporta che sia possibile perseguire coerentemente un fine economico, anche se sul piano etico esso risulta immorale. Secondo Croce, l’etica implica l’economia, ossia la volizione dell’universale

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implica la volizione del particolare; al contrario, l’economia è del tutto autonoma rispetto all’etica. Detto altrimenti, fra economia e morale – fra il momento dell’utile e quello del bene – egli ritrova lo stesso rapporto che intercorre fra estetica e logica: la seconda presuppone la prima, ma non viceversa.

il rapporto tra l’economia e l’etica

Per Croce, non vi può essere moralità, se non s’incorpora e cala nell’utile: «Volere economicamente è volere un fine; volere moralmente è volere il fine razionale», ossia il bene. Ma ciò non sarebbe possibile, se il fine universale (il bene) non fosse voluto anche come fine particolare. In altre parole, se il fine universale non fosse avvertito dall’individuo anche come un fine particolare, egli non si sentirebbe moralmente interessato a perseguire il bene.

il rapporto tra l’etica e l’economia

Secondo Croce, non esistono altre forme dello spirito al di là delle quattro da lui individuate. Come si è visto, egli riconduce le scienze empiriche e matematiche alla sfera dell’attività pratica. Così è anche per la religione: nella misura in cui contiene elementi morali, essa è riconducibile all’attività morale; in quanto contiene, invece, elementi mitici – e quindi afferma l’universale come mera rappresentazione attraverso l’immagine di Dio – rientra nell’estetica. Analogamente, il diritto è riconducibile alla sfera pratica: la legge, infatti, è una classificazione di azioni e di sanzioni e funziona come gli pseudoconcetti. Si tratta, cioè, di schemi comodi per agire e utili per mantenere l’ordine sociale, che tuttavia rimangono astratti, perché la volontà si esprime sempre in azioni concrete, individuali.

la religione e il diritto non sono forme dello spirito

Anche la politica, a cui Croce dedica vari saggi – in particolare gli Elementi di politica (1925) –, non è una sfera autonoma dell’attività dello spirito: essa rientra nell’economia, ossia nella volontà che persegue l’utile. Da questo punto di vista, gli atti politici non sono né morali né immorali. Su questo punto, Croce si riallaccia al pensiero di Machiavelli, scopritore dell’autonomia della politica, caratterizzata da proprie leggi e propri fini. Per un altro verso, Marx gli aveva insegnato quanto fossero determinanti gli interessi economici, la forza e la lotta nella stessa vita politica.

la politica rientra nell’economia

L’utile per Croce è individuale, sicché alla base della politica vi sono le azioni utilitarie degli individui: contrariamente a quanto pensano Hegel e Gentile, nella politica il primato spetta agli individui – non allo Stato. Quest’ultimo non esiste come entità superiore agli individui stessi, né può pretendere di assorbire in se stesso la vita etica. Per questo aspetto, Croce tiene dunque fermo uno dei presupposti del liberalismo e scorge nella libertà la via per promuovere non la democrazia, ma l’aristocrazia dello spirito. Lo Stato è tale soltanto quando si attua nell’atto concreto del governo e ha come suoi momenti costitutivi la forza e il consenso.

il primato degli individui

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3. Croce: lo storicismo assoluto storia e storiografia

Il terreno su cui si svolgono le azioni degli individui è la storia: gli eventi storici dipendono dalle volizioni e dalle azioni dei singoli, ma risultano sempre dall’incontro delle azioni di più individui e, in tal senso, sono opera dello spirito. Nell’ultimo volume della «Filosofia dello spirito» – Teoria e storia della storiografia – Croce afferma che tutto il sistema filosofico da lui elaborato puntava verso «il problema della comprensione storica». Ma il termine storia può assumere due significati: in primo luogo, gli eventi storici (in latino, res gestae) e, in secondo luogo, la ricostruzione razionale di essi, ossia la storiografia (in latino, historia rerum gestarum). Per il primo aspetto, Croce ribadisce che il soggetto della storia è «l’umanità comune a tutti», non l’individuo empirico o la somma degli individui. Ciò non vuol dire che gli eventi storici siano il risultato dell’azione di una ragione o di una provvidenza trascendente rispetto agli individui, ma soltanto che alla trama della storia collaborano tutti gli individui – non alcuni in particolare – in un processo infinito.

la differenza tra storia e cronaca

Ma che cosa induce a studiare il passato, ossia a compiere indagini storiografiche? Non l’esigenza di conservare il ricordo di ciò che è ormai trascorso: in tal caso, secondo Croce, si ha soltanto la cronaca, che è storia morta, passata, non storia viva. Secondo Croce, «solo un interesse presente ci può muovere a indagare un fatto passato»: i documenti e i libri del passato diventano storia per noi soltanto quando li rielaboriamo secondo i nostri bisogni spirituali. In ciò consiste la tesi crociana, secondo cui ogni storia è sempre storia contemporanea. In quanto tale, infatti, la storia ha una genesi pratica, negli interessi della vita presente.

la giustificazione del passato

Che rapporti intercorrono, dunque, tra la storiografia – che è una forma dell’attività teoretica – e l’azione etica e politica? La conoscenza storica – sottolineava Croce in Teoria e storia della storiografia – non appartiene all’attività pratica dello spirito, ma assume tale attività a proprio oggetto. In questo senso, alla storiografia non appartengono le categorie di bene e male, sicché «per essa non ci sono fatti buoni e fatti cattivi, ma fatti sempre buoni», una volta che si sia compreso il loro significato all’interno del processo storico. Secondo questa prospettiva, la storia «non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice» di ciò che è avvenuto .

la comprensione storica

Nei saggi raccolti nella Storia come pensiero e come azione, Croce approfondiva il problema del rapporto tra la storiografia e l’azione etica e politica nella storia. Egli sottolineava che la conoscenza storica, ossia la storia come pensiero, ha il compito di «superare la vita vissuta per rappresentarla in forma di conoscenza». In questo senso, la storiografia assume un «ufficio catartico», libera dalla servitù nei confronti del passato e dei fatti, proprio in quanto li assume a oggetto di conoscenza. Il sapere storico non deve assolvere o condannare il passato, bensì comprenderlo: in tal senso, esso si presenta come un’opera di chiarificazione del passato a partire dal presente e diventa condizione indispensabile per un’azione efficace nella storia.

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Su questa base si costituisce la storia come azione, il cui principio è la libertà: essa si esprime nella lotta, nell’accettazione o nella ripulsa di situazioni o di programmi in nome di ideali morali. In questo senso, Croce può affermare che la moralità è «la lotta contro il male», ossia contro le continue insidie tese alla vita e alla libertà. La storia appare, allora, non un idillio né una tragedia, ma un dramma, nel quale male e dolore continuano a ripresentarsi, ma sempre soltanto come stimoli e ostacoli da superare: il principio direttivo è pur sempre il bene, ossia lo spirito che è libertà. Croce ritiene che la definizione più appropriata della sua filosofia sia storicismo, ossia «l’affermazione che la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia», nel suo perenne svolgimento e lotta.

la storia e il dramma della libertà

Dopo l’avvento del fascismo, Croce afferma il primato della libertà nella vita dello spirito. A ciò si collega la tesi, già formulata da Hegel, che la storia e lo sviluppo dello spirito consistono nella progressiva realizzazione della libertà: anche nei periodi storici in cui la libertà appare minacciata e negata, essa tuttavia continua a essere formatrice di storia. Questa tesi si poteva anche prestare alla giustificazione dei momenti storici giudicati moralmente negativi, come il fascismo; ma considerando tali momenti come puramente accidentali e come condizioni per un ulteriore avanzamento, essa poteva generare negli antifascisti la fiducia nella transitorietà di essi e servire come criterio per valutare le diverse epoche storiche secondo il grado di libertà da esse realizzato.

fascismo e libertà

Nell’ultima fase del suo pensiero, Croce pone alla base di ogni attività spirituale il vitale. La vita non si arresta mai in nessuna delle forme che via via assume e nel suo ritmo è, indissolubilmente, amore e dolore. Al vitale sono riconducibili i periodi di apparente barbarie o decadenza. Il male e la malattia, infatti, non sono per Croce realtà positive: è nello sforzo di attuare altre forme che i momenti inferiori vengono giudicati irrazionali e negativi. Il vitale è, dunque, l’elemento dialettico che fa uscire le altre forme dello spirito dalla loro immobilità, le spinge a lottare e affermarsi: in questo senso, esso appare a Croce come una forza terribile, un’«irrequietezza che non si soddisfa mai». In un saggio del 1946, intitolato La fine della civiltà, egli avanza il dubbio che le civiltà insidiate da questa negatività possano perire, anche se lo spirito non muore. Solo un’etica del lavoro intesa a risolvere i problemi posti dalla vita può costituire, ai suoi occhi, la via per superare il negativo che si cela persistentemente nel cuore di essa .

l’ultimo croce: il vitale e la fine della civiltà

CONFRONTI

La concezione della storia e della filosofia in Dilthey e in Croce

Lo storicismo è un indirizzo filosofico che nasce in Germania alla fine dell’Ottocento. Wilhelm Dilthey è considerato l’iniziatore di questa corrente di pensiero con la pubblicazione dell’Introduzione alle scienze dello spirito nel 1883.

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Croce Male e vitalità nella Storia

Il punto di partenza dello storicismo consiste nel ritenere che la realtà umana e sociale siano essenzialmente storiche, indicando nella conoscenza storica il principale strumento per la loro comprensione. Per questi motivi, lo

storicismo tedesco contemporaneo – proprio a partire da Dilthey – ha esteso l’indagine critica di matrice kantiana alle condizioni di possibilità della ricerca storica, riconoscendo alle discipline storico-sociali uno statuto autonomo.

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In particolare, secondo Dilthey, la storia (nelle sue diverse forme: politica, letteraria, artistica, ecc.) non costituisce soltanto una delle scienze dello spirito (Geisteswissenschaften), ma coincide con la struttura stessa del mondo umano. Le scienze dello spirito hanno l’obiettivo di studiare le manifestazioni umane nella loro individualità e di scoprire le uniformità presenti nel mondo storico-sociale. Ciò è possibile, secondo Dilthey, perché vi è omogeneità tra il soggetto (= l’uomo) e l’oggetto della ricerca (= le produzioni spirituali dell’uomo) e perché – grazie all’esperienza vissuta (Erlebnis) – ogni individuo è in grado di comprendere interiormente la vita spirituale dell’altro. Mentre le scienze della natura (Naturwissenschaften) cercano di spiegare causalmente i fenomeni individuando delle leggi universali e necessarie, le scienze dello spirito mirano alla comprensione del mondo umano, allo scopo di rivivere il valore e il significato immanente delle esperienze storiche nella loro individualità. Negli scritti posteriori all’Introduzione diventa centrale la nozione di «connessione dinamica» (Wirkungszusammenhang), con la quale Dilthey cerca di mettere in luce il carattere finito di ogni fenomeno storico. Dilthey distingue diversi livelli di connessione – dall’individuo, costituito sempre da un insieme di rapporti storicamente determinati, alle differenti formazioni culturali, dai sistemi di organizzazione sociale alle epoche storiche – ognuno dei quali si configura come una struttura che ha in sé il proprio centro, dotata di significati e di valori propri. Ogni connessione esprime un carattere parziale e relativo del mondo storico, che non può dunque essere mai abbracciato nella sua globalità, al contrario di quanto sostengono le filosofie della storia e la sociologia di stampo positivistico, sempre alla 238

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ricerca del senso oggettivo delle cose. In questo quadro, anche la filosofia e le dottrine filosofiche sono dei prodotti storici, e cioè oggettivazioni della vita dello spirito. La filosofia viene definita da Dilthey come una «intuizione del mondo» (Weltanschauung), e cioè come un atteggiamento complessivo dell’uomo di fronte al «mistero del mondo e della vita». Tale intuizione, in quanto esprime il rapporto della coscienza individuale con il mondo che la circonda, non consiste soltanto in una forma di conoscenza, ma è anche sempre un insieme di valori, scopi e norme. A differenza delle intuizioni artistiche o religiose del mondo, l’intuizione filosofica ha una pretesa di validità assoluta e universale, che viene tuttavia contraddetta dalla sua natura di prodotto storico, al pari delle altre oggettivazioni dello spirito. La sola funzione universale che Dilthey riconosce alla filosofia è quella dell’«autoriflessione storica»: indagando criticamente sui propri limiti e sulle proprie possibilità, essa ci rende sempre più consapevoli del carattere plurale e relativo delle visioni del mondo. Il tema della storia è stato sempre al centro della riflessione di Benedetto Croce fin dalla sua prima opera teorica, intitolata La storia ridotta sotto il concetto generale dell’arte (1893). Sulla scia di Dilthey e dello storicismo tedesco, Croce polemizza con la concezione positivistica della storia, secondo la quale essa sarebbe una scienza in grado di enunciare leggi universali e necessarie (del tipo di quelle naturali) e di fornire spiegazioni causali degli eventi. Per Croce, la scienza riguarda l’universale, mentre la storia – come l’arte – riguarda l’individuale; per questo motivo, essa consiste nella narrazione delle azioni degli uomini, i quali subiscono l’influsso di condizionamenti oggettivi, ma cercano anche di attuare gli ideali in cui credono. Il problema

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della storia viene affrontato sistematicamente nel volume Teoria e storia della storiografia (1917). In quest’opera, Croce sostiene che «un fatto è storico in quanto è pensato»: occorre, dunque, distinguere il piano degli eventi storici (in latino, res gestae) da quello della ricostruzione razionale di essi (in latino, historia rerum gestarum), che Croce chiama «storiografia». La storiografia è la conoscenza della vita dello spirito, che si sviluppa progressivamente nelle opere della fantasia, del pensiero, nell’attività economica e nell’agire morale. Per Croce, si può conoscere solo ciò che si è fatto: di qui scaturisce la tesi dell’identità di filosofia e di storia. Poiché la realtà e la vita sono storia, la conoscenza filosofica di esse non potrà che essere storicamente situata: in tal senso, la filosofia è la storia dello sviluppo dello spirito attraverso le forme in cui si attua (estetica, logica, economia, etica) e non può fondarsi su verità ultime o soprastoriche. Un’altra definizione che Croce dà della filosofia è quella di «metodologia della storiografia», intesa come delucidazione delle categorie del giudizio storico e dei concetti che guidano l’interpretazione storica. Croce distingue tra giudizio definitorio (utilizzato dai filosofi) e giudizio individuale (utilizzato dagli storici), ma alla fine ritiene che si implichino reciprocamente: infatti, non è possibile conoscere fatti particolari, se non assumendoli dentro a categorie logiche generali; d’altra parte, non è possibile fare uso di concetti generali se non applicandoli all’elemento intuitivo o concreto. Ogni giudizio individuale è un giudizio storico, che però presuppone un giudizio definitorio; pertanto, la filosofia implica la storia. Croce è, inoltre, persuaso che «ogni vera storia è storia contemporanea», in quanto solo i bisogni o gli interessi della nostra vita presente possono spingerci a in-

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dagare un fatto passato. Come si è visto, la storiografia è filosofia, in quanto attiene all’attività teoretica dello spirito, e assume come proprio oggetto di indagine l’attività pratica dell’uomo: ciò significa che nella pratica storiografica non possono rientrare valutazioni di ordine morale. Il suo unico obiettivo è la comprensione dei fatti e delle motivazioni per cui sono accaduti: in tal senso, la storia «non è mai giustiziera, ma sempre giustificatrice». Dopo l’avvento del fascismo, Croce raccoglie nel volume La storia come pensiero e come azione (1938) le sue ultime riflessioni sulla storia:

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per rispondere all’accusa di giustificazionismo, Croce afferma che «la storia si fa come libertà e si pensa come necessità». In altri termini, la storia come pensiero, ossia la conoscenza storica, ha come unico scopo quello di comprendere ciò che è avvenuto, mostrandone l’intrinseca razionalità e necessità. La storia come azione è, invece, quella che gli uomini effettivamente vivono e che è caratterizzata dalla progressiva ricerca della libertà. Croce definisce la sua posizione filosofica nei termini di uno «storicismo assoluto», per il quale «la vita è realtà e storia e nient’altro che storia». Ri-

prendendo le tesi hegeliane, la storia si configura come un dramma nel quale lo spirito incontra continue insidie e ostacoli all’affermazione della propria libertà, ostacoli che però alla fine riesce sempre a superare. In questo quadro, anche i momenti storici giudicati moralmente negativi (come il fascismo) rappresentano le tappe necessarie di un ulteriore avanzamento, in vista di una maggiore grado di libertà: «in istoria, non c’è mai decadenza che non sia insieme formazione o preparazione di vita nuova, e, pertanto, progresso».

4. Gentile: l’attualismo Mentre Croce svolse la propria attività in piena libertà e indipendenza economica – grazie a cospicui beni di famiglia – fuori dalle università, Giovanni Gentile fu legato al mondo della scuola e dell’università e, dopo l’avvento del fascismo, occupò posizioni di prestigio nelle più importanti istituzioni culturali del regime. Nato a Castelvetrano (in Sicilia) nel 1875, egli compì i suoi studi alla Scuola Normale Superiore di Pisa sotto la guida di Donato Jaja, che gli fece conoscere l’opera di Bertrando Spaventa. Di qui trae origine il persistente interesse di Gentile per la storia della filosofia italiana, il cui primo frutto fu il volume Rosmini e Gioberti (1898), seguito da numerosi altri. Contemporaneamente si dedicò allo studio del marxismo, pubblicando il volume La filosofia di Marx (1899), che lo mise in contatto con Benedetto Croce; dal 1903 collaborò attivamente alla rivista «La Critica», da questi fondata.

la formazione alla normale

lo studio del marxismo e l’amicizia con croce

Dopo aver insegnato per vari anni Filosofia nei licei – in particolare a Napoli – fu professore di Filosofia dal 1907 al 1914 all’università di Palermo e poi, dal 1914 al 1918, presso quella di Pisa. È questo il periodo in cui Gentile elabora ed espone le linee fondamentali del suo sistema in una serie di scritti: L’atto del pensiero come atto puro (1912); La riforma della dialettica hegeliana (1913); Teoria generale dello spirito come atto puro (1916); Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-23).

l’elaborazione del sistema

Nazionalista durante la guerra, nel 1918 ottiene la cattedra di Filosofia nell’università di Roma e successivamente aderisce al fascismo interrompendo l’amicizia con Croce e fondando, nel 1920, il «Giornale critico della filosofia italiana».

l’adesione al fascismo e la rottura con croce

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gli incarichi politici e culturali

Ministro della Pubblica Istruzione dal 1922 al 1924, procede alla riforma della scuola, assegnando il primato alla formazione umanistica, nettamente distinta da quella tecnico-scientifica. Nel 1925 è posto a capo dell’Enciclopedia Italiana, sostenuta finanziariamente da Giovanni Treccani, alla quale chiama a collaborare anche studiosi non fascisti. In essa compare la voce «Dottrina del fascismo», almeno in parte ispirata al suo pensiero, nella quale si afferma che «lo Stato è tutto e l’individuo nulla». La sua adesione al fascismo allontana da lui i suoi primi discepoli, Giuseppe Lombardo Radice, Adolfo Omodeo e Guido De Ruggiero. Dopo il 1929 e il Concordato con la Chiesa cattolica, la posizione di Gentile come intellettuale laico risulta indebolita all’interno del regime fascista. Malgrado ciò, egli rivestirà ancora cariche prestigiose come quella di direttore della Scuola Normale di Pisa e, nel 1943, di presidente dell’Accademia d’Italia.

gli ultimi anni

Anche dopo l’8 settembre 1943, egli restò fedele a Mussolini e aderì alla Repubblica di Salò. Nell’aprile del 1944 fu ucciso sotto casa sua a Firenze da un gruppo di partigiani.

la critica del marxismo

Anche Gentile – come Croce – mosse i primi passi discutendo il marxismo. Nell’opera La filosofia di Marx (1899) – dedicata a Croce e nota anche a Lenin – Gentile si chiede se la concezione materialistica della storia sia o no una filosofia della storia. In quanto ha adottato la forma dialettica, Gentile ritiene che il marxismo sia una filosofia della storia. A suo avviso, tuttavia, i marxisti avrebbero considerato prevedibile anche ciò che non può esserlo e che, pertanto, non appartiene alla filosofia della storia: la materia, il fatto economico. Oggetto di quest’ultima, infatti, è l’articolazione dialettica dell’idea – e non la materia.

il marxismo come filosofia della prassi

Fondandosi soprattutto sulle Tesi su Feuerbach, Gentile rinviene in Marx una filosofia della prassi. Ai suoi occhi, Marx ha il merito di criticare il materialismo tradizionale poiché questo concepisce l’oggetto come un dato, anziché come un processo, e il soggetto come rappresentazione passiva di tale oggetto. Marx, invece, concepisce «l’oggetto intrinsecamente legato all’attività umana»: è la prassi umana che produce e modifica l’oggetto, il quale a sua volta viene a modificare anche il soggetto, in modo che «l’effetto reagisce sulla causa e il loro rapporto si rovescia, l’effetto facendosi causa della causa, che diviene effetto pur rimanendo causa». In ciò consiste il cosiddetto rovesciamento della prassi: «La prassi, che aveva come principio il soggetto e termine l’oggetto, si rovescia, tornando dall’oggetto (principio) al soggetto (termine)». Per Marx, il rovesciamento della prassi contrassegna la vita sociale dell’individuo: questi è, a un tempo, colui che pone i vincoli sociali e colui che ne subisce gli effetti. Seguendo il ritmo dialettico della prassi umana, è possibile determinare a priori lo sviluppo della storia, ossia costruire una filosofia della storia. Lo sviluppo della prassi produce divisioni nella realtà, sicché la lotta di classe non è un fatto accidentale e ha, anzi, uno sbocco inevitabile. Alla luce di queste considerazioni, secondo Gentile, la filosofia della storia di Marx appare segnata dal determinismo o finalismo.

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Ma qual è il maggiore errore filosofico di Marx, secondo Gentile? Egli ha considerato il pensiero non come un’attività reale, ma soltanto come una «forma derivata e accidentale dell’attività sensitiva». A ciò Gentile opponeva una tesi, che avrebbe costituito il nucleo portante della sua futura filosofia: «O il pensiero è, e pensa; o non pensa, e non è pensiero. Se pensa, fa». A ben vedere, il Marx teorico della prassi, a cui andava il consenso di Gentile, era già in qualche modo contenuto – e in forma migliore – nella tradizione idealistica di Fichte e di Hegel: il processo del reale tornava a essere risolto nella coscienza che il soggetto ne ha. Il problema di Gentile, negli anni successivi, sarebbe stato di fare i conti con questa tradizione.

la critica a marx

Al centro dell’elaborazione sistematica compiuta da Gentile vi è il presupposto che il pensare è essenzialmente attività: su questa base, egli distingue fra pensiero astratto e pensiero concreto e identifica il pensiero concreto con il pensare in atto. Nulla, per Gentile, esiste propriamente se non nell’atto in cui viene pensato: in questo senso, egli definisce attualismo la propria posizione filosofica. Il pensiero che non è attuale – ossia non è in atto – non è più nostro, ma diventa qualcosa di pensato. Nel momento in cui l’atto del pensiero è concepito come già compiuto – ossia come un fatto – esso non è più propriamente atto; il pensare è, invece, «atto in atto» e, in quanto tale, è inoggettivabile. Detto altrimenti, il pensare in atto non può essere considerato come un oggetto, perché si troverebbe fissato e irrigidito: esso è invece pura attività, che è solo in quanto «si viene facendo».

pensiero astratto e pensiero in atto

Da questo punto di vista, si può dire che non esistono fatti spirituali, ma soltanto atti; anzi, più esattamente, soltanto l’atto dello spirito che – nel pensare – pone perennemente se stesso. In ciò consiste l’autoctìsi (dal greco autòs, «se stesso», e ktìzein, «fondare», «creare»), ossia l’attività di autocreazione dello spirito, che non dipende da alcun presupposto. In altri termini, nulla precede né trascende lo spirito, che è assoluta immanenza del pensiero a se stesso o, il che è lo stesso, atto puro .

l’autocreazione dello spirito

Secondo Gentile, la tradizione filosofica – da Platone a Hegel, sino a Croce – ha compiuto un errore fondamentale: quello di concepire il pensiero come oggetto – anziché come atto – e di studiare le relazioni tra i concetti come se si trattasse di oggetti dati. Per designare questa posizione, Gentile usa l’espressione dialettica del pensato: essa è attenta soltanto alla molteplicità e particolarità dei concetti e delle cose, anziché all’unità dell’atto pensante, e concepisce la conoscenza come rispecchiamento di verità già date. Alla dialettica del pensato sfugge che la verità è legata al tempo, è svolgimento e progresso; la dialettica del pensare invece:

il pensiero non è un dato

Non conosce mondo che già sia; che sarebbe un pensato; non suppone realtà, di là dalla conoscenza, e di cui toccherebbe a questa d’impossessarsi; perché sa, come ha dimostrato Kant, che tutto ciò che si può pensare della realtà (il pensabile, i concetti dell’esperienza) presuppone l’atto stesso del pensare. E in questo atto vede perciò la radice di tutto. In guisa che tutto quello che è è in virtù del pensare: e il pensare così non è più postuma e vana fatica, che intervenga quando non c’è più nulla da fare nel mondo, anzi è la stessa cosmogo-

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nia. La storia del pensiero pertanto nella nuova dialettica diventa il processo del reale, e il processo del reale non è più concepibile se non come la storia del pensiero (La riforma della dialettica hegeliana, parte I, cap. I). kant e hegel: la riscoperta del pensiero pensante

Per primo, dunque, Kant ha avuto il merito di mostrare che il soggetto non è un dato, ma una funzione, un’operazione; il suo limite è, però, consistito nel considerare fisse e prestabilite le categorie: in quanto tali, anch’esse rientrano nella dialettica del pensato. Lo stesso Hegel aveva cercato una dialettica oggettiva della natura e della storia, fissandone tappe e momenti come risultati e prodotti del pensiero e dell’attività umana. E anche nella logica aveva assunto come punto di partenza l’essere vuoto e indeterminato per dedurne il divenire, anziché partire dall’atto del pensiero.

spaventa e il farsi del pensiero

Spaventa aveva intravisto la strada giusta, riconoscendo che l’essere è atto di pensare [cfr. 8.1]: su questa base, Gentile ritiene di poter operare una riforma della dialettica hegeliana. Essa consiste nel passare dalla dialettica del pensato – per la quale il punto di partenza è il pensiero pensato – alla dialettica del pensare – per la quale il punto di partenza è il pensiero pensante. In base a quest’ultima, il mondo non sussiste come un dato fisso e irrigidito, indipendente dall’atto del pensiero; inoltre, la verità – come già aveva colto Vico – non è un fatto, ma un farsi .

la dialettica del pensare

Per spiegare il farsi del pensiero, Gentile ricorre alla metafora del fuoco e del combustibile: al primo è continuamente necessario il secondo per non spegnersi. Allo stesso modo, il pensiero pensato deve fornire continuamente nuovo combustibile al pensiero pensante. Ma da dove il pensiero pensante deriva il suo combustibile? Secondo Gentile, che qui riprende considerazioni e tematiche già sviluppate da Fichte, il pensiero pensato è posto dal pensiero stesso. Il pensiero in atto – come si è visto – non è limitato da qualcosa di esterno, che gli pre-esista o lo trascenda. Per questo motivo, esso può trarre l’alimento necessario alla sua incessante attività soltanto da se stesso. Detto altrimenti, il pensiero pensante – negandosi – crea e pone l’altro da sé, ovvero il pensiero pensato. Quest’ultimo è chiamato da Gentile fatto o natura. La natura è il risultato dell’attività spazializzatrice e temporalizzatrice del pensiero, il quale viene fissato come un fatto a sé stante, indipendente dal pensiero stesso. Ma, in quanto pensiero pensato, la natura è errore, ossia un momento continuamente superato nell’atto del pensare. L’errore, infatti, nel momento stesso in cui è pensato – e quindi riconosciuto come errore – è di fatto già superato.

il soggetto del pensare in atto

Si è visto come il pensiero astratto corrisponda al pensiero pensato e come, invece, il pensiero concreto corrisponda al pensare in atto. Ma qual è il soggetto di questo pensare in atto? Per Gentile, non può trattarsi dell’io empirico. L’io empirico, infatti, è un fatto e appartiene a ciò che egli ha chiamato natura. In altre parole, l’io empirico non pensa in atto, ma è posto dal pensiero pensante come altro da sé: esso è, dunque, l’oggetto – e non il soggetto – del pensiero in atto. Il soggetto del pensiero pensante non può essere una sostanza o uno stato, ma un processo creativo, a cui Gentile dà il nome di Io trascendentale. Per esso niente è già fatto, ma tutto è sempre da

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Gentile La dialettica del pensiero

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fare. Detto altrimenti, il soggetto del pensiero in atto coincide con l’atto stesso del pensare. L’Io trascendentale, pertanto, non è altro che l’attività pura del pensare nella sua irriducibilità a ciò che pensa. Come abbiamo visto, la natura (o fatto) è posta dal pensiero in atto come altro da sé. Ora, i diversi pensieri – considerati non dal punto di vista dell’oggetto che in essi è pensato, ma dal punto di vista dell’atto che li pone – rivelano la loro unica origine. In ciò consiste l’unità dell’Io trascendentale: nell’atto del pensare, infatti, la molteplicità viene riassorbita nella sua unità. Alla base di questa concezione vi è una precisa dottrina della conoscenza, secondo la quale «conoscere è identificare, superare l’alterità come tale»: nel momento in cui qualcosa è conosciuta, essa non può essere altro dal soggetto trascendentale che la conosce e, dunque, fa tutt’uno con esso. Il ragionamento impiegato da Gentile a proposito degli altri io è identico a quello che viene utilizzato a proposito dell’errore: nel momento in cui l’altro è pensato, esso viene posto entro l’atto del pensare e, quindi, superato in quanto altro.

l’io trascendentale e la molteplicità degli io empirici

Abbiamo visto come l’io trascendentale sia l’atto stesso del pensare e come in esso si risolva la molteplicità degli io empirici e delle cose. Questi aspetti dell’attualismo di Gentile influenzano il suo modo di concepire il processo educativo – un tema di cui si occupò a più riprese, dal Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1913-14) a La riforma dell’educazione (1920). L’educazione consiste in un processo di autoeducazione, attraverso il quale si realizza l’unità – nel soggetto trascendentale – di maestro e allievo. Rispetto a ciò le tecniche didattiche o le conoscenze psicologiche perdono di importanza, giacché presuppongono una relazione di alterità fra i protagonisti del processo educativo. L’educazione, invece, rappresenta un potente veicolo di coesione e unificazione delle individualità empiriche, tale da condurre alla formazione di un unico spirito. Queste considerazioni di Gentile si prestarono a un’utilizzazione politica, indicando nell’educazione lo strumento capace di condurre gli individui a trovare la propria vera identità nella superiore unità dello Stato.

attualismo e pedagogia

Gentile insiste sul carattere unitario della realtà spirituale, che scaturisce dall’unità dell’Io trascendentale, in polemica contro la tendenza opposta – affermata da Croce [cfr. 8.2] – a tener ferma la distinzione tra le varie forme dello spirito. Mentre Croce ribadisce la distinzione fra attività teoretica e attività pratica dello spirito, Gentile teorizza la sostanziale identità di teoria e prassi. Distinguere fra teoria e prassi sarebbe possibile soltanto supponendo che la teoria consista nella conoscenza di un mondo già dato e la prassi nella costruzione di una nuova realtà a opera della volontà. Ma – come abbiamo visto – per Gentile il conoscere non è pura contemplazione passiva, bensì pensiero in atto e perciò è prassi. In tal modo, ogni atto spirituale è pratico, sicché il volere non è altro che «la concretezza del conoscere» che si traduce in realtà.

pensare in atto è agire

Rispetto alla dialettica dei distinti teorizzata da Croce, Gentile ritiene che i distinti – ovvero le forme dello spirito – rientrino in una logica del pensato,

l’unità dello spirito

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non del pensiero. Non per questo egli intende distruggere o togliere valore ai concreti processi particolari, ma soltanto ricondurli – al di là delle loro differenze – all’unità che è fondamento di tutti. Per far ciò, egli riconsidera i momenti della filosofia hegeliana dello spirito assoluto – arte, religione e filosofia – alla luce del proprio attualismo, ma conservando lo schema dialettico triadico, sempre di origine hegeliana. l’arte e la religione sono forme di pensiero astratto

L’arte rappresenta il momento dell’esaltazione del soggetto – il sentimento come pura soggettività – che si libera dai vincoli della realtà. Rispetto a essa, la religione rappresenta l’antitesi, in quanto esaltazione dell’oggetto e negazione del soggetto nell’oggetto, ossia in Dio. Nella religione al concetto di autoctìsi, come creazione che il soggetto fa di se stesso, si sostituisce quello di eteroctìsi, ossia di creazione da parte di un’entità oggettiva; al concetto del conoscere come posizione dell’oggetto da parte del soggetto si sostituisce quello di rivelazione che l’oggetto fa di sé al soggetto; alla volontà che crea il bene si sostituisce la grazia che il bene – cioè Dio – fa di sé al soggetto. Sia l’arte sia la religione sono, secondo Gentile, posizioni astratte del pensiero, in quanto isolano soltanto un lato dell’atto concreto del pensare – la soggettività o l’oggettività.

la filosofia come concreta unità di soggetto e oggetto

Rispetto all’arte e alla religione, la filosofia costituisce il momento della sintesi: nel concreto atto del pensare, infatti, il pensiero crea se stesso e insieme il proprio oggetto. In quanto tale, la filosofia è «la immanente sostanza di ogni vita spirituale», ossia il pensiero concreto operante in tutte le forme (l’arte, la religione o la scienza). Fuori della filosofia non c’è propriamente attività spirituale e, poiché il pensiero si fa e si sviluppa storicamente, la filosofia fa tutt’uno con la propria storia.

il circolo di filosofia e storia della filosofia

Gentile riprende da Hegel la concezione dell’unità della filosofia nel suo sviluppo storico, al quale ogni filosofo contribuisce con le proprie costruzioni. A questo riguardo, Gentile parla di circolo di filosofia e storia della filosofia, nel senso che per fare storia della filosofia occorre filosofare e per fare filosofia occorre presupporre la storia della filosofia. Chi ricostruisce storicamente una filosofia del passato deve, infatti, avere un concetto unitario di che cosa sia la filosofia nella sua totalità.

la critica della scienza

Per quanto riguarda la scienza, Gentile non le riconosce la posizione di primato che le era stata data dalla cultura positivistica, ricollocando piuttosto la filosofia al vertice del sapere. A suo avviso, infatti, la scienza assomma in sé i difetti propri sia dell’arte sia della religione: 1) come la religione, essa pretende di essere un sapere puramente oggettivo, ossia di liberare l’oggetto dalla soggettività; 2) come l’arte, essa presume di conoscere l’oggetto attraverso la sensazione, che – essendo inevitabilmente soggettiva – le impedisce tuttavia di raggiungere l’universalità propria della filosofia. La scienza assume dogmaticamente i dati forniti dalla sensazione, presupponendo quindi l’esistenza dell’oggetto come qualcosa che sta separato e autonomo di fronte al pensiero. Anche nella scienza, dunque, è immanente una filosofia, ma questa si riduce a una forma unilaterale di naturalismo e materialismo: ogni scienza, infatti, trasforma tutto ciò di cui si occupa in natura, ossia in una serie di dati esterni all’atto concreto del pensare.

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5. Gentile: società, diritto, Stato etico Il soggetto della prassi è libero ma proprio per questo, secondo Gentile, ha bisogno degli altri io. Al chiarimento di questo punto e all’analisi della comunità umana e del suo fondamento, Gentile dedicò la sua ultima opera, scritta nel 1943 e pubblicata postuma – nel 1946 – col titolo Genesi e struttura della società. In essa, egli respinge tutte le concezioni atomistiche della società, che la considerano come l’aggregato di una molteplicità di individui empirici.

la critica dell’atomismo sociale

A suo avviso, i veri attori sociali non sono gli individui empirici, ma l’Io trascendentale che – come abbiamo visto – è unità vivente di universale e particolare. Il soggetto trascendentale, infatti, è pensiero pensante in cui l’universale si fa e si pone incessantemente e, quindi, ha necessità del molteplice. In tal senso, secondo Gentile, un individuo è veramente tale solo in quanto è Io trascendentale, ovvero un’unità che pone e risolve in sé la molteplicità: a esso la comunità è immanente come sua legge, nel senso che «ogni io è noi, ma non un noi già fatto e preesistente», bensì un noi che mira a farsi universale. Esiste, secondo Gentile, una societas in interiore homine: già nel dialogo interiore di ciascuno con se stesso c’è chi parla e chi ascolta e, dunque, è presente l’umanità.

la società dentro di noi

La società è «la realtà del volere nel suo processo» e il volere come volere comune e universale è lo Stato. La nazione non s’identifica con il suolo, il modo di vita e la tradizione comune: tutto ciò costituisce soltanto la materia della nazione, che richiede, invece, la coscienza di tale materia e, insieme, il fare di essa l’oggetto della propria volontà. In questo senso, Gentile afferma che lo Stato crea la nazionalità, non viceversa.

stato e nazione

Fuori dello Stato, secondo Gentile, non esiste alcun diritto, nessun presunto diritto naturale. Il diritto è l’attuazione della volontà dello Stato in quanto volontà dei cittadini, ossia in quanto volontà universale. Tale attuazione ha luogo nella legge, nella quale gli individui empirici trovano il loro limite.

che cos’è il diritto?

Contro le teorie liberali, che rivendicano l’autonomia di una sfera privata individuale, Gentile riprende da Hegel la nozione di uno Stato che – in quanto volere universale superiore alle volontà puramente individuali – non ha limiti al di sopra di sé e non riconosce nulla fuori di sé. Con queste tesi, Gentile continuava a fornire un sostegno teorico alla concezione dello Stato propria del fascismo. A suo avviso, l’errore del liberalismo consiste nel presupporre una libertà individuale fuori dello Stato, mentre soltanto nello Stato l’uomo è propriamente libero. In questo senso, è un’operazione di astrazione contrapporre l’etica alla politica e ravvisare nella prima il criterio per giudicare la seconda. In realtà, è impossibile un’etica a-politica, in quanto la politica è l’attività dello spirito in quanto Stato.

contro il liberalismo

Lo Stato, come si è visto, non è un’entità oggettiva contrapposta all’individuo, ma è l’autocoscienza del soggetto trascendentale in quanto volontà universale. Ciò fa dello Stato stesso una sorta di persona morale, con fini e

l’immanente eticità dello stato

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volontà superiori a quelli degli individui, e, pertanto, la suprema manifestazione della vita etica: è questa la nozione di Stato etico. Nella superiore moralità dello Stato, il limite rappresentato dalle leggi viene riconosciuto dagli individui come limite proprio. In altre parole, il momento coercitivo della forza viene interiorizzato e fatto proprio sotto forma di consenso: si realizza in tal modo una sintesi di autorità e libertà [t25].

in poche... parole Nell’Italia post-unitaria la cultura di stampo positivistico fino ad allora dominante comincia a dare i primi segni di debolezza. Bertrando Spaventa, figura di rilievo dell’hegelismo napoletano, avverte l’esigenza di individuare una tradizione filosofica nazionale, facendola iniziare nel Rinascimento italiano. Antonio Labriola, per lungo tempo docente all’università di Roma, aderisce al marxismo, dando importanti contributi alla teoria del materialismo storico. L’offensiva antipositivistica conobbe, tuttavia, i suoi maggiori successi all’inizio del Novecento grazie a Benedetto Croce e Giovanni Gentile, entrambi promotori di un ritorno all’idealismo hegeliano, sebbene criticato e corretto in alcuni suoi aspetti essenziali. Gli apporti più significativi di Croce alla cultura italiana ed europea del tempo possono essere raccolti attorno a quattro nuclei tematici principali: 1) la critica della dialettica hegeliana degli opposti e la teorizzazione della circolarità dello spirito, che si sviluppa esprimendosi distintamente nelle quattro forme dell’estetica, della logica, dell’economia e dell’etica; 2) la riflessione estetica sul rapporto tra intuizione ed espressione e la rivendicazione dell’autonomia dell’arte rispetto alle altre forme dello spirito (il bello non ha niente a che fare con il vero, 246

l’utile, il buono); 3) l’elaborazione dello storicismo assoluto, in base al quale «la vita e la realtà è storia e nient’altro che storia» e la riflessione sui compiti della storiografia; 4) l’esaltazione della libertà come scopo ultimo dello spirito umano in tutte le epoche storiche e la difesa del primato degli individui rispetto allo Stato.

dialettica dei distinti Croce ri-

prende da Hegel la nozione di dialettica come processo e articolazione intrinseca della realtà e del pensiero. Ciononostante, egli ritiene che la dialettica hegeliana degli opposti non sia adeguata a descrivere le forme dello spirito e i loro rapporti reciproci. L’opposizione è interna a ciascuna forma dello spirito: per esempio, nell’estetica tra bello e brutto, nella logica tra vero e falso, nell’economia tra utile e dannoso, nell’etica tra buono e cattivo. Tra le quattro forme dello spirito sussiste invece, secondo Croce, una dialettica dei distinti, per cui ciascuna forma è implicata dalla precedente e implica la successiva. Così la logica come conoscenza dell’universale concreto presuppone l’estetica, ossia la conoscenza intuitiva dell’individuale. A sua volta la conoscenza è implicata dalla volizione, che senza di essa sarebbe soltanto volontà cieca. Nell’ambito delle forme pratiche dello spirito, inoltre, l’etica presuppone l’economia, in quanto

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il fine universale – il bene – non può non essere voluto anche come fine particolare. In ciò consiste la circolarità tra le forme dello spirito, dalla quale esso esce continuamente arricchito.

«l’intuizione è espressione»

Per Croce l’estetica costituisce la prima forma della vita dello spirito e l’arte è conoscenza intuitiva dell’individuale. Con il termine «intuizione» Croce intende un atto spirituale non assimilabile alla percezione passiva delle cose, ma un’attività espressiva che dà forma al materiale offerto dalle sensazioni. Un’intuizione «che non sia parola, canto, disegno, pittura, scultura, architettura, parola per lo meno mormorata tra sé e sé, canto per lo meno risonante nel proprio petto, disegno e colore che si veda in fantasia e colorisca di sé tutta l’anima e l’organismo, è cosa inesistente» (Aesthetica in nuce). A suo avviso, gli aspetti esecutivi o tecnici di un’opera non aggiungono nulla all’intuizione artistica, ma servono soltanto a comunicare ad altri l’immagine formatasi interiormente. In tal senso, il bello corrisponde all’espressione riuscita e il brutto a quella incompiuta, dovuta ad interferenze di altre forme dello spirito. Croce parla anche di «intuizione lirica», intendendo con essa la sintesi a priori di sentimento e di immagine: «il sentimento senza l’immagine è cieco, e l’im-

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magine senza il sentimento è vuota». Grazie all’intuizione lirica, infatti, l’immagine (= la forma) trasfigura il sentimento (= il contenuto), che altrimenti potrebbe restare sul piano della «tumultuosa passionalità» individuale o decadere a «vano fantasticare», attribuendogli un valore e una portata universali. In ciò consiste la poesia, che Croce distingue dalla letteratura, ovvero da tutte le forme espressive che hanno carattere didascalico, erudito o di mero intrattenimento.

concetto Per Croce la logica co-

stituisce la seconda forma della vita dello spirito e corrisponde all’attività di pensiero. Essa si fonda sull’intuizione, ma va oltre essa, in quanto coglie l’universale nell’individuale. Il pensiero si articola tramite i concetti, che Croce definisce come «universali concreti». I concetti sono universali, perché trascendono le singole rappresentazioni; sono concreti perché sono immanenti a questa o quella rappresentazione. Per Croce, pensare concetti equivale a formulare giudizi. A suo avviso, è possibile distinguere due tipi di giudizi: a) le definizioni, nelle quali soggetto e predicato sono entrambi universali (ad esempio, l’uomo è un animale ragionevole); b) i giudizi individuali, nei quali il soggetto è individuale e il predicato è universale (ad esempio, Pietro è un uomo). I giudizi individuali, secondo Croce, sono sempre dei giudizi storici, in quanto presuppongono la sintesi dell’elemento intuitivo-individuale (= il soggetto, la realtà di fatto) con quello logico-universale (= il predicato): «se il giudizio è rapporto di soggetto e predicato, il soggetto, ossia il fatto, quale che esso sia, che si giudica, è sempre un fatto storico, un diveniente, un processo in corso, perché fatti immobili non si ritrovano né si concepiscono nel mondo della realtà». Gli storici fanno largo uso di giudizi individuali, in quanto cercano di ricondurre i fatti

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storici riferiti dalle fonti sotto un concetto universale (ad esempio, Stato, guerra, ecc.).

pseudoconcetto Termine usato da Croce per indicare le nozioni generali, differenti dal concetto puro o universale concreto, escogitate e impiegate dalle varie scienze (sia quelle naturali, incluse la sociologia e la psicologia, sia quelle matematiche) per scopi puramente mnemonici o classificatori. Croce distingue tra due tipi di pseudoconcetti: 1) quelli empirici sono concreti senza essere universali (ad esempio, nozioni quali «casa», «gatto», «rosa» raccolgono sotto un unico nome una serie di individui simili che non sono sempre esistiti); 2) quelli astratti sono universali senza essere concreti (ad esempio, nozioni quali «triangolo», «moto libero» non si riferiscono a realtà effettivamente esistenti). In altre parole, gli pseudoconcetti empirici «contengono alcuni oggetti o frammenti della realtà, ma non la contengono tutta»; al contrario, gli pseudoconcetti astratti hanno portata universale, ma non hanno per oggetto nulla di reale (il «triangolo» e il «moto libero» non esistono nella realtà). In questo quadro, secondo Croce, le leggi scientifiche o i princìpi matematici – essendo formati da pseudoconcetti – non possiedono un autentico valore conoscitivo, ma attengono piuttosto all’attività pratica dello spirito, che con un solo nome può richiamare una molteplicità di rappresentazioni. attività pratica La vita dello

spirito si attua, secondo Croce, nelle sfere dell’attività teoretica (estetica e logica) e dell’attività pratica (economia ed etica). Con l’attività teoretica l’uomo conosce le cose, con l’attività pratica agisce per mutarle. L’attività pratica implica quella teoretica, ma non viceversa: nessuna azione della volontà sarebbe possibile, infatti, se non fosse preceduta da una co-

noscenza intuitiva o logica (non si saprebbe su quale realtà intervenire); ciò non significa, tuttavia, che la conoscenza teoretica possa fornire indicazioni sull’utilità o sulla bontà dello scopo da perseguire. L’attività economica è, per Croce, la volontà che ha per oggetto l’utile individuale; l’etica, invece, è la volontà che ha per fine il bene universale. Anche in questo caso, l’etica implica l’economia, ma non il contrario, perché la volizione dell’universale presuppone la volizione del particolare. Per Croce, infatti, è possibile perseguire coerentemente un fine individuale, anche se ciò è immorale; non è, invece, possibile perseguire un fine morale (il bene universale) se ciò non fosse avvertito dall’individuo come qualcosa di utile per sé. L’altro protagonista della cultura italiana della prima metà del Novecento fu Giovanni Gentile. Amico di Croce e dal 1903 suo collaboratore nella rivista da questi fondata, «La Critica», Gentile aderì successivamente al fascismo – interrompendo i rapporti con il filosofo napoletano – e ricoprì importanti incarichi accademici e politici. Nominato ministro della Pubblica Istruzione, dal 1922 al 1924 fu il promotore di un’epocale riforma della scuola che assegnava un indiscusso primato alla formazione umanistica rispetto a quella tecnico-scientifica. Sul piano filosofico, gli apporti di Gentile si concentrano attorno a tre principali nuclei tematici: 1) l’elaborazione dell’attualismo, e cioè della dottrina che individua nel pensiero in atto e nell’Io trascendentale il principio di tutta la realtà; 2) la critica alla dialettica crociana dei distinti e la tesi dell’unità dello spirito, in base alla quale non ha senso separare attività teoretica e attività pratica; 3) l’analisi della comunità umana, intesa come un «noi universale» presente nei

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singoli individui, e la conseguente teorizzazione dello Stato etico.

atto puro Con questa espressio-

ne Gentile ha designato il pensiero pensante, come pensiero in atto che nel pensare pone se stesso senza alcun presupposto: in questo senso esso è puro, ossia indipendente da ogni contenuto o condizione empirica. Ciò che è pensato dal pensiero in atto diventa pensiero astratto, ossia un fatto oggettivato, ormai separato dall’atto del pensiero. Nell’atto puro il pensiero è interamente immanente a se stesso. L’errore delle metafisiche tradizionali consiste invece nell’introduzione della trascendenza, ossia nel porre che esista qualcosa di altro rispetto al pensiero in atto, per esempio la natura, le cose esterne, gli altri io o Dio. Dall’unità dell’atto del pensiero, che supera l’alterità come tale e ripor-

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ta tutto a se stesso, scaturisce il carattere unitario della realtà spirituale. Ciò significa che la filosofia permea tutte le forme e attività dello spirito e fuori della filosofia non c’è propriamente attività spirituale. E ogni atto spirituale è anche sempre pratico, perché volere non è altro che la concretezza del conoscere che si traduce in realtà. Lo Stato stesso, come volere comune e universale, non è un fatto, un’istituzione, un apparato privo di vita, ma atto.

Stato etico Per Gentile, la so-

cietà non è costituita da singoli individui ma dall’Io trascendentale, e cioè da un’unità vivente che tende a riassorbire in sé la molteplicità. In tal senso, la comunità è immanente ad ogni individuo come scopo a cui ognuno tende: «ogni io è noi, ma non un noi già fatto e preesistente», un noi che

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aspira a divenire universale. In questo quadro, lo Stato rappresenta il volere comune e universale, che annulla in sé le singole volontà individuali. Per Gentile, dunque, sulla scia di Hegel, non vi è alcuna separazione tra sfera pubblica e privata, lo Stato non è un’entità esterna che si contrappone agli individui e non ha limiti sopra di sé. Lo Stato, inoltre, coincidendo con la volontà universale dei cittadini, è la suprema manifestazione della vita etica di un popolo, e cioè moralità realizzata. Soltanto all’interno dello Stato, infatti, l’uomo può essere veramente libero: i cittadini considerano le finalità e la volontà dello Stato come superiori alle proprie, interiorizzandole e facendole proprie. Nello Stato etico prospettato da Gentile scompare la contrapposizione tra autorità e libertà, tra obbedienza e consenso.

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i testi t24 Croce / Intuizione ed espressione artistica Croce

Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale

parte I, cap. I

L’Estetica è l’opera che diede immediata celebrità a Croce: essa è lo sviluppo di una memoria che egli aveva letto, in tre sedute, all’Accademia Pontaniana di Napoli nel 1900. Qui sono riportate le pagine iniziali, nelle quali Croce individua i caratteri costitutivi dell’arte nel fatto di essere conoscenza intuitiva, inscindibile dall’espressione. L’espressione, tuttavia, non deve essere confusa con l’estrinsecazione fisica in lettere scritte, suoni o colori materiali: Croce chiarisce che questo aspetto rientra nell’attività pratica dello spirito, non in quella conoscitiva che è specifica dell’arte. I passi riportati sono anche significativi per illustrare il metodo usato da Croce, soprattutto nei suoi scritti a carattere maggiormente sistematico, ossia nei volumi costituenti la «Filosofia dello spirito»: egli procede, infatti, alla determinazione dei significati dei concetti, mediante negazioni e distinzioni rispetto ad altri concetti imparentati o affini od opposti.

La conoscenza ha due forme: è o conoscenza intuitiva o conoscenza logica; conoscenza per la fantasia o conoscenza per l’intelletto o conoscenza dell’universale; delle cose singole ovvero delle loro relazioni; è, insomma, o produttrice d’immagini o produttrice di concetti1. Continuamente si fa appello, nella vita ordinaria, alla conoscenza intuitiva. Si dice che di certe verità non si possono dare definizioni; che non si dimostrano per sillogismi; che conviene apprenderle intuitivamente. Il politico rimprovera l’astratto ragionatore, che non ha l’intuizione viva delle condizioni di fatto; il pedagogista batte sulla necessità di svolgere anzitutto nell’educando la facoltà intuitiva; il critico si tiene a onore di mettere da parte, innanzi a un’opera artistica, le teorie e le astrazioni e di giudicarla intuendola direttamente; l’uomo pratico, infine, professa di vivere d’intuizioni più che di ragionamenti2. 1. Croce impiega una procedura dico-

tomica, ossia di divisione per due, distinguendo le due forme possibili di conoscenza, caratterizzate da due serie parallele di proprietà: da una parte, la conoscenza intuitiva, che avviene mediante la fantasia, ha per oggetto l’individuale, ossia entità singole, e dà luogo alla produzione di immagini; dall’altra, invece, la conoscenza logica (a cui Cro-

Ma a questo ampio riconoscimento che la conoscenza intuitiva riceve nella vita ordinaria, non fa riscontro un pari e adeguato riconoscimento nel campo della teoria e della filosofia. Della conoscenza intellettiva c’è una scienza antichissima e ammessa indiscussamente da tutti, la Logica; ma una scienza della conoscenza intuitiva è appena ammessa, e timidamente, da pochi. La conoscenza logica si è fatta la parte del leone; e, quando addirittura non divora la sua compagna, le concede appena un umile posticino di ancella o di portinaia. – Che cosa è mai la conoscenza intuitiva senza il lume della intellettiva? È un servitore senza padrone; e, se al padrone occorre il servitore, è ben più necessario il primo al secondo, per campare la vita. L’intuizione è cieca; l’intelletto le presta gli occhi. Ora, il primo punto che bisogna fissare bene in mente è che la conoscenza intuitiva non ha

ce dedicherà una trattazione apposita, la Logica come scienza del concetto puro), che avviene mediante l’intelletto, ha per oggetto l’universale, ossia le relazioni tra le cose, e dà luogo alla produzione di concetti. 2. Tratto saliente della conoscenza intuitiva è di essere immediata, ossia di cogliere il proprio oggetto senza dover ricorrere a passaggi intermedi e, quin-

di, senza dover effettuare ragionamenti o sillogismi. Pur essendo valutata positivamente nell’ambito della vita ordinaria, tale conoscenza, secondo Croce, non ha ricevuto adeguato riconoscimento sul piano teorico ed è anzi di solito svalutata rispetto alla conoscenza logica: alla rivalutazione teorica di essa, Croce intende appunto provvedere con l’Estetica.

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bisogno di padroni; non ha necessità di appoggiarsi ad alcuno; non deve chiedere in prestito gli occhi altrui perché ne ha in fronte di suoi proprî, validissimi3. E se è indubitabile che in molte intuizioni si possono trovare mescolati concetti, in altre non è traccia di simile miscuglio; il che prova che esso non è necessario. L’impressione di un chiaro di luna, ritratta da un pittore; il contorno di un paese, delineato da un cartografo; un motivo musicale, tenero o energico; le parole di una lirica sospirosa, o quelle con le quali chiediamo, comandiamo e ci lamentiamo nella vita ordinaria, possono ben essere tutti fatti intuitivi senza ombra di riferimenti intellettuali. Ma, checché si pensi di questi esempî, e posto anche si voglia e debba sostenere che la maggior parte delle intuizioni dell’uomo civile siano impregnate di concetti, v’è ben altro, e di più importante e conclusivo, da osservare. I concetti che si trovano misti e fusi nelle intuizioni, in quanto vi sono davvero misti e fusi, non sono più concetti, avendo perduto ogni indipendenza e autonomia. Furono già concetti, ma sono diventati, ora, semplici elementi d’intuizione. Le massime filosofiche, messe in bocca a un personaggio di tragedia o di commedia, hanno colà ufficio, non più di concetti, ma di caratteristiche di quei personaggi; allo stesso modo che il rosso in una figura dipinta non sta come il concetto del color rosso dei fisici, ma come elemento caratterizzante di quella figura. Il tutto determina la qualità delle parti4. Un’opera d’arte può essere piena di concetti filosofici, può averne, anzi, in maggior copia, e anche più profondi, di una dissertazione filosofica, la quale potrà essere, a sua volta, ricca e riboccante di descrizioni e intuizioni. Ma nonostante tutti quei concetti, il 3. Contro la tradizionale subordinazio-

ne della conoscenza intuitiva, immediata, rispetto a quella intellettiva e concettuale, Croce rivendica a pieno titolo l’autonomia e la dignità di essa. 4. Croce rileva che molte intuizioni sono di fatto mescolate a concetti, ossia a elementi propri della conoscenza logica, piuttosto che di quella intuitiva, ma fa osservare che, in tal caso, i concetti stessi vengono a essere modificati a

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risultato dell’opera d’arte è un’intuizione; e, nonostante tutte quelle intuizioni, il risultato della dissertazione filosofica è un concetto. I Promessi sposi contengono copiose osservazioni e distinzioni di etica; ma non per questo vengono a perdere, nel loro insieme, il carattere di semplice racconto o d’intuizione. Parimente, gli aneddoti e le effusioni satiriche, che possono trovarsi nei libri di un filosofo come lo Schopenhauer, non tolgono a quei libri il carattere di trattazioni intellettive. Nel risultato, nell’effetto diverso a cui ciascuna mira e che determina e asservisce tutte le singole parti, non già in queste singole parti staccate e considerate astrattamente per sé, sta la differenza tra un’opera di scienza e un’opera d’arte, cioè tra un atto intellettivo e un atto intuitivo. [...] Vi è un modo sicuro di distinguere l’intuizione vera, la vera rappresentazione, da ciò che le è inferiore5: quell’atto spirituale dal fatto meccanico, passivo, naturale. Ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione. Ciò che non si oggettiva in una espressione non è intuizione o rappresentazione, ma sensazione e naturalità. Lo spirito non intuisce se non facendo, formando, esprimendo. Chi separa intuizione da espressione, non riesce mai più a congiungerle. L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime. Se questa proposizione suona paradossale, una delle cause di ciò è senza dubbio nell’abito di dare alla parola «espressione» un significato troppo ristretto, assegnandola alle sole espressioni che si dicono verbali; laddove esistono anche espressioni non verbali, come quelle di linee, colori, toni: tutte quante da includere nel concetto di espressione, che abbraccia perciò ogni sorta di manifestazione dell’uomo,

opera del contesto globale, di carattere intuitivo, nel quale si trovano inseriti e perdono, quindi, il loro carattere specifico per diventare elementi integranti dell’intuizione. 5. Ossia dalla pura e semplice sensazione o associazione di sensazioni. La sensazione, infatti, è puramente passiva, non richiede alcun intervento da parte del soggetto che la subisce e, pertanto, non è propriamente un atto

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spirituale, come lo è invece l’intuizione. Non si deve dimenticare che, per Croce, spirito significa principalmente attività. A dimostrare il carattere attivo e spirituale dell’intuizione sta, secondo Croce, il fatto che essa è sempre al tempo stesso anche espressione, ossia si traduce e dà sempre luogo alla produzione di immagini, che possono essere di varia natura, non necessariamente soltanto verbali.

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oratore, musico, pittore o altro che sia. E, pittorica o verbale o musicale o come altro si descriva o denomini, l’espressione, in una di queste manifestazioni, non può mancare all’intuizione, dalla quale è propriamente inscindibile. Come possiamo intuire davvero una figura geometrica, se non ne abbiamo così netta l’immagine da essere in grado di tracciarla immediatamente sulla carta o sulla lavagna? Come possiamo intuire davvero il contorno d’una regione, per esempio dell’isola di Sicilia, se non siamo in grado di disegnarlo così come esso è in tutti i suoi meandri? A ognuno è dato sperimentare la luce che gli si fa internamente quando riesce, e solo in quel punto che riesce, a formolare a sé stesso le sue impressioni e i suoi sentimenti. Sentimenti e impressioni pas-

sano allora, per virtù della parola, dall’oscura ragione della psiche alla chiarezza dello spirito contemplatore. È impossibile, in questo processo conoscitivo, distinguere l’intuizione dall’espressione.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Quali sono le caratteristiche della conoscenza intuitiva e della conoscenza logica? 2. In che modo è possibile distinguere l’intuizione vera da ciò che le è inferiore? 3. Che rapporto c’è tra intuizioni e concetti nell’opera d’arte? Evidenzia sul testo la posizione di Croce.

t25 Gentile / Stato etico e moralità Gentile

Genesi e struttura della società

cap. VI, §§ 7-9

L’ultima opera di Gentile, Genesi e struttura della società, che ha per sottotitolo Saggio di filosofia pratica, fu composta nel 1943 e pubblicata postuma nel 1946. Come buona parte degli scritti e delle acquisizioni teoriche di Gentile, anche questa è il risultato delle sue lezioni universitarie: in questo caso si tratta di un corso tenuto all’università di Roma nel 1942-43 sulla «dottrina trascendentale del volere e della società». Elaborata in un momento drammatico della storia italiana, in cui Gentile ribadisce la sua fedeltà al fascismo, in quest’opera giungono a maturazione, e con nuovi sviluppi, i temi che avevano guidato la sua riflessione etico-politica e che lo avevano indotto a dare il proprio sostegno al regime; in particolare, la sua concezione della società, dello Stato, del diritto e della politica.

La forza del volere, in quanto forza che si chiama diritto (dura lex sed lex) è il volere voluto, che si pone come limite della libertà. Questo limite è necessario, e non può mancare. È il momento del diritto, dello Stato come autori1. Gentile ha definito poco prima il di-

ritto come la volontà dello Stato, che si traduce in leggi, ossia in volere voluto, oggettivato in norme, le quali regolano i rapporti tra Stato e cittadini (diritto pubblico) o tra cittadini e cittadini (diritto privato). Nello Stato e, quindi, anche nel diritto, che ne è espressione, la

tà, che è volere potente, innanzi a cui deve cedere l’arbitrio1. Lo Stato è lo stesso individuo nella sua universalità. Impossibile quindi che non gli competa la stessa moralità dell’individuo, quando nel-

volontà del cittadino è attuata come volontà universale, non come interesse particolare: le leggi rappresentano, pertanto, dei limiti posti alla libertà degli individui empirici, singolarmente presi. Di fronte alla volontà universale dello Stato deve, dunque, cedere ogni arbitrio puramente individuale: in que-

sto senso, è costitutivo dello Stato il momento dell’autorità e della forza, ma ciò non significa, secondo Gentile, che lo Stato sia negazione della libertà, anzi nel seguito egli cerca di mostrare che proprio nello Stato si attua una più alta libertà.

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l’individuo lo Stato non sia un presupposto – limite della sua libertà – ma la stessa attualità concreta del suo volere2. La distinzione regge nel terreno empirico finché si distingua e opponga l’individuo allo Stato. Allora si può pensare una moralità individuale non congruente con la legge dello Stato. Ma, comunque, lo Stato come volere ha una legge universale, un imperativo categorico, che non può essere altro che moralità3. E le incongruenze non possono riguardare altro che la diversità dei problemi da risolvere, sempre diversi anche nell’ambito della cosiddetta moralità individuale. Da questo concetto dello Stato deriva la sua immanente eticità. Della quale vuole spogliarlo chi? Chi ha interesse a osteggiarlo: l’opposizione che ne fa bersaglio a’ suoi colpi, comincia naturalmente dal farne una res, scevra di valore, immeritevole perciò di qualsiasi rispetto. Ma chi nega l’eticità dello Stato, s’affretta ad apprestargli con la sinistra quel che gli ha strappato con la destra. Perché lo Stato di cui si disconosce il valore etico è... quello degli altri. Al quale giova sostituirne un altro che, ben inteso e ben trattato, potrà esser sì rivestito del valore che la concezione morale e religiosa della vita può conferirgli facendone uno strumento delle sue finalità superiori. Senza avvertire che una cosa (strumento) non potrà mai acquisire alcun valore; e che perciò, su questa via, non c’è altra possibile via d’uscita che la teocrazia. La quale foggia o postula uno Stato, che coincidendo con la stessa divina volontà ricade nel concetto del contestato Stato etico. Ma se la teocrazia non è parola vuota, non c’è ragione di adombrarsene. Perché nessun dub2. Il diritto e le leggi, poste dallo Stato,

sono volontà voluta, ossia codificata in norme fisse: esse, quindi, rappresentano un momento astratto rispetto alla concretezza del volere in atto, ossia alla volontà volente, in cui consiste la moralità. Questa è, infatti, definita da Gentile come lo «spiritualizzarsi del voluto nell’atto del volere»: ciò significa che nella moralità è superata la positività del diritto, nel senso che in essa i limiti posti dal diritto e dalle leggi vengono riconosciuti e fatti propri. In tal modo, questi limiti, diventando auto-limitazio-

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bio che il volere dello Stato è un volere divino, sia che s’intenda nella immediatezza della sua autorità, sia che più pienamente si assuma come l’attualità concreta del volere. C’è sempre Dio: il Dio del vecchio e del nuovo Testamento. La ribellione morale che provoca lo Stato etico è la riconferma della sua eticità. Perché una forza amorale non potrebbe mai dar luogo ad apprezzamento etico. La ribellione nasce ogni volta che dello Stato si senta la forza, e non si riconosca il valore (positivo)4. Ma in questo caso gli si attribuisce bensì un valore, ancorché negativo; come al peccatore che si vuol ravveduto, pentito, redento; e si considera perciò capace di ciò. La prova flagrante dell’eticità dello Stato è nella coscienza dell’uomo di Stato. I luoghi comuni delle divergenze tra morale e politica rientrano nella casistica della dottrina morale. Nessuna più efficace riprova dell’eticità dello Stato che il moralismo, di buona o cattiva lega, ingenuo o retorico, con cui s’industriano di venir toccando e tentando di risanare le piaghe morali della convivenza politica gli avversari della dottrina dello Stato etico. I quali dopo avere logicamente spogliato lo Stato e la politica, in cui esso si attua, d’ogni attributo morale, inorridiscono della umanità che essi si sono artificialmente foggiata in mente: umanità senza umanità, poiché la moralità è certamente la caratteristica più essenziale dello spirito umano. Uno Stato per sua natura anetico non è perciò immorale; ma è peggio che immorale. Io

ni, non tolgono nulla alla libertà, ma risultano manifestazioni della forza stessa della libertà. 3. Opporre la moralità allo Stato significa, secondo Gentile, concepire la moralità come una prerogativa propria dei singoli individui empirici. Essa, invece, è propria dello Stato, che è il vero e unico individuo, sintesi di particolare e universale, in quanto è volontà dell’universale e va, dunque, oltre la particolarità degli interessi puramente individuali. In tal senso, Gentile respinge ogni tentativo di trovare la moralità

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fuori dallo Stato e parla, dunque, di eticità immanente allo Stato. 4. Come si è visto, secondo Gentile, solo astrattamente si può contrapporre allo Stato una presunta moralità individuale, sicché coloro che teorizzano e mettono in opera questa contrapposizione si riducono a fare del moralismo astratto, auspicando, in realtà, pur sempre uno Stato, anche se diverso da quello che essi combattono su un presunto piano morale autonomo.

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direi che sia inumano, se è vero, come s’è avvertito, che nessuna forma di attività umana è concepibile che non sia per sé stessa subordinata alla legge morale. Peggio che immorale. Perché l’immorale è destinato a redimersi e ricrearsi nella moralità; laddove l’amorale è per definizione escluso da ogni possibilità di moralizzarsi. E può l’uomo tollerare che nell’ambito del suo operare qualche cosa si sottragga all’impero di quella legge morale che è la creatrice della sola vita possibile all’uomo? Anche gli animali domestici che l’uomo s’è indotto ad ammettere nel circolo della sua vita quotidiana, egli li assoggetta ad una rudimentale regola di condotta, a una elementare distinzione di lecito e illecito, che in tutti i modi cerca loro di inculcare fino al punto di poter confidare che essi, comunque, se la siano appropriata e l’osserveranno. Così innanzi alla feroce forza che fa nomarsi dritto, innanzi a questo Briareo dalle cento braccia, che mette le mani per tutto e fa e disfà l’opera degli individui che sono in concreto la realtà morale, pura forza immane e ignara di ogni norma di giustizia, ecco scattare il naturale bisogno dell’anima umana di proclamare e difendere la moralità, ossia la salvezza dello spirito. Codesta forza andrà bensì riconosciuta e conservata, ma in quanto utile ai fini dello spirito che essa ignora, e che perciò la trascendono. Lo spirito, moralità, è libertà. Ebbene lo Stato, che per sé stesso ignora que-

5. Solo attraverso lo Stato etico, se-

condo Gentile, la moralità e la libertà, che ne è il presupposto, possono trovare adeguato fondamento e realizzazione. Infatti, un’umanità lasciata a se stessa sarebbe preda di una totale amoralità, al di fuori di ogni regola e legge morale. Se le cose stanno così, non ha senso, secondo Gentile, pretendere di assoggettare lo Stato, che è intrinsecamente morale, in quanto volontà che vuole l’universale, a una presunta superiore legge morale. Questo è l’errore del moralismo, che non si rende conto che la vera sede della moralità è lo Stato stesso, che perciò è definibile come Stato etico. È evidente, in queste pagine, la polemica di Gentile

sta libertà, la quale lo trascende come qualcosa di affatto superiore e incommensurabile, deve con le sue instituzioni favorire e promuovere l’esercizio di questa libertà5. Deve? Ma dunque ha un dovere morale? È anch’esso etico come ogni singolo individuo che ha i suoi doveri verso la libertà e che noi distinguiamo nel seno dello Stato? Sarà come un animale da addomesticare; giacché che altro è addomesticare un animale se non ammetterlo, come si diceva, nella nostra società, nella nostra famiglia, e quindi contradire in pratica a quella natura sub-umana e però antisociale che gli si è attribuita senza troppo pensarci su? Lo Stato sordo alla legge morale appunto perciò si finisce con volerlo assoggettare ad una guida superiore, quasi ad un’artificiale moralizzazione e umanizzazione. E dall’arbitrarietà dell’assunto, scaturisce una sorta di zelo impaziente, di violenta frettolosità di strafare. Per la quale in questi filosofi della politica non è più la moralità che si fa innanzi con la sua schietta ed eloquente semplicità, ma un moralismo passionato ed oratorio che si riversa sulla storia e la sommerge in un indistinto movimento di luci e di ombre soprannuotanti al reale processo storico, in cui si viene realizzando lo Stato: col risultato di ridurre il grande problema dello Stato, che è il problema della storia universale, al piccolo problema borghese del dare e dell’avere di questo o quello Stato, di questo o quel partito dominante, di questo o quell’uo-

contro i teorici liberali, in particolare Croce, per i quali lo Stato è soltanto uno strumento di salvaguardia e protezione degli individui e delle loro libertà, non un’entità dotata di valore superiore ai singoli individui, una persona morale o una sostanza etica. Per Gentile, lo Stato etico (e il governo in cui esso s’incarna e che ha il compito di fare le leggi e di farle rispettare) è sintesi di coazione e di consenso: per quanto coatto, il consenso comporta pur sempre, a suo avviso, un minimo di spontaneità. Governo e cittadini possono essere opposti soltanto se si concepiscono gli individui come la sorgente esclusiva di tutti i loro diritti e doveri e lo Stato come un semplice strumento di coordina-

zione delle libere attività individuali. Secondo Gentile, questa concezione liberale dello Stato è tipica di un preciso momento storico, legato allo sviluppo della società borghese e industriale europea a partire dalla fine del Seicento: essa è, dunque, una dottrina storicamente contingente, elaborata per risolvere un problema storico contingente, ossia il superamento dello Stato feudale, fondato esclusivamente sull’autorità. A suo parere, questo problema è ormai stato risolto e superato dalla superiore dottrina dello Stato etico, in cui si realizza la sintesi dei due momenti dell’autorità e della libertà, che non possono più essere contrapposti astrattamente l’uno all’altro.

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mo di Stato di fronte all’ideale morale. Tanto più cresce l’ansia morale quanto più questa è stata negata là dove è la sua sede. L’ansia, l’affanno... e la retorica traggono motivo dalla disperazione di mai più abbracciarsi col vivo della vita morale.

GUIDA ALLA LETTURA 1. Evidenzia sul testo l’espressione che definisce la concezione gentiliana di «diritto». 2. Evidenzia sul testo le espressioni che definiscono la concezione gentiliana di «Stato». 3. Ricostruisci il ragionamento con cui Gentile sostiene la tesi della natura «etica» dello Stato. 4. Su che cosa Gentile fonda la sua concezione dello Stato etico? 5. Che cosa sarebbe uno Stato che disconoscesse il proprio fondamento etico?

esercizi/8 CHE COSA SO? Guida allo studio del manuale 1. Evidenzia le espressioni che illustrano il clima culturale e le linee del dibattito filosofico in Italia dopo l’unificazione nazionale. 2. Evidenzia la posizione di Croce sul socialismo. 3. Evidenzia il ruolo della conoscenza intuitiva per Croce. 4. Evidenzia le critiche che Croce muove alla filosofia hegeliana nelle differenti fasi del suo pensiero. 5. Evidenzia perché per Croce la religione, il diritto e la politica rientrano nella sfera dell’attività pratica. 6. Evidenzia la posizione politica di Croce nelle differenti fasi del suo pensiero. 7. Evidenzia qual è stato, secondo Gentile, l’errore di Marx.

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8. Evidenzia le espressioni che illustrano la distinzione gentiliana fra dialettica del pensato e dialettica del pensare. 9. Evidenzia le critiche che Gentile muove alla filosofia hegeliana. 10. Evidenzia la distinzione gentiliana tra autoctìsi e eteroctìsi. 11. Evidenzia la posizione di Gentile sul ruolo della filosofia rispetto all’arte e alla religione. 12. Evidenzia le critiche di Gentile alle concezioni atomistiche della società. Dizionario filosofico 13. Definisci i seguenti concetti: precorrimento (Spaventa) • universale concreto (Croce) • pseudoconcetti (Croce) • circolarità dello spirito (Croce) • autoctìsi (Gentile) • Io trascendentale (Gentile) • Stato etico (Gentile)

esercizi/8

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CHE COSA HO CAPITO?

Trattazione sintetica di argomento (max 15-20 righe)

Quesiti a risposta sintetica (max 8-10 righe)

25. Che differenza c’è, per Croce, tra definizioni e giudizi individuali? Fai degli esempi.

14. In che modo Labriola reinterpreta la teoria marxiana di struttura e sovrastruttura?

26. Illustra la concezione estetica di Croce.

15. Perché, secondo Croce, il materialismo storico non è una filosofia della storia? 16. Quali sono le forme dello spirito secondo Croce? Qual è la caratteristica propria di ognuna? 17. Qual è la posizione di Croce nei confronti della dialettica hegeliana? 18. Con quale argomentazione Croce riafferma il principio dell’autonomia dell’arte? 19. Ricostruisci l’argomentazione con cui Croce critica la concezione positivista della storia.

27. Perché Croce sostiene la distinzione fra poesia e letteratura? 28. Ricostruisci l’argomentazione crociana sul rapporto fra storia e storiografia. 29. In che cosa consiste la tesi crociana dell’identità di storia e filosofia? 30. Che rapporto c’è, secondo Croce, fra economia ed etica? 31. Ricostruisci l’argomentazione crociana per cui la storia è progressiva realizzazione della libertà.

20. Che cos’è il vitale per Croce?

32. In che cosa consiste la tesi gentiliana del rovesciamento della prassi?

21. Perché Gentile distingue «pensiero astratto» e «pensiero concreto»?

33. Qual è il soggetto del pensiero in atto secondo Gentile?

22. Qual è la posizione di Gentile in merito alla dialettica dei distinti, teorizzata da Croce?

34. Illustra le conseguenze della tesi gentiliana dell’«unità dello spirito» sul rapporto io-altri.

23. Gentile parla di circolo di filosofia e storia della filosofia. Che cosa vuol dire?

35. Come avviene il processo educativo secondo Gentile?

24. Che cosa intende dire Gentile con la formula societas in interiore homine («la società è interiore all’uomo»)?

36. Illustra la concezione dello Stato di Gentile.

esercizi/8

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coscienza e sono intenzionati dagli atti della coscienza. In tal modo, si diventa spettatori disinteressati non delle singole cose empiriche, ma delle loro essenze universali e necessarie. la coscienza trascendentale come fondamento

9. husserl e la fenomenologia i contenuti la fenomenologia come scienza rigorosa

Riprendendo da Brentano il concetto di intenzionalità – secondo cui i fenomeni psichici sono atti con i quali la mente è sempre in relazione a un oggetto – Husserl mette a punto la fenomenologia pura. Il suo obiettivo è quello di descrivere le leggi logiche che operano soggettivamente nel vissuto concreto della conoscenza, partendo dagli oggetti colti negli atti conoscitivi. Su questa base la fenomenologia può presentarsi come scienza rigorosa in grado di realizzare l’idea di conoscenza

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assoluta a partire da un fondamento certo. il superamento dell’atteggiamento naturale

Per far ciò, il fenomenologo deve neutralizzare tutte le conoscenze e i pregiudizi derivanti dall’atteggiamento naturale – e, pertanto, anche quelli delle scienze empiriche. Tali conoscenze, infatti, assumono come ovvia l’esistenza del mondo e degli oggetti. Per liberarsi da ogni presupposto, secondo Husserl, occorre operare l’epochè. Grazie a essa è possibile mettere tra parentesi l’esistenza delle cose del mondo e assumere l’atteggiamento fenomenologico. Dopo l’epochè, infatti, il mondo si presenta come un insieme di fenomeni che si danno alla

9. husserl e la fenomenologia

Ciò su cui però non è possibile sospendere il giudizio, come aveva già mostrato Cartesio, è il fatto che io sto pensando, ossia la coscienza pura (o trascendentale). A differenza di Cartesio, tuttavia, essa non deve essere concepita come una sostanza, ma come una funzione. Più precisamente, la coscienza pura è ciò che resta dopo l’attuazione dell’epochè o – il che è lo stesso – ciò che non può essere messo tra parentesi. La coscienza pura è, dunque, il fondamento – assolutamente certo ed evidente – grazie al quale il mondo e le cose acquistano senso. il mondo-della-vita e le scienze

Secondo Husserl, le scienze e la cultura europea – di cui esse sono espressione – stanno attraversando una crisi. Le scienze europee, infatti, si sono ridotte a mere scienze di fatti che prescindono da ogni riferimento al soggetto e quindi dal problema del senso dell’esistenza e del mondo in generale. In altre parole, nelle scienze è andato dimenticato il fondamento di ogni sapere possibile, che conferisce senso alle scienze stesse. Tale fondamento è dato, secondo Husserl, dalla soggettività trascendentale che si radica nel mondo-della-vita. Questo è il regno delle evidenze originarie comuni a tutti gli uomini in quanto soggetti conoscenti. Dalla crisi delle scienze sarà possibile uscire solo attraverso la riduzione fenomenologica (o epochè), capace di mettere in luce le strutture di questa sorgente ultima di tutte le formazioni conoscitive. scheler e l’etica dei valori

Il metodo fenomenologico fu esteso anche ad altri ambiti

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dell’esperienza umana, in particolare a quello della vita emotiva e dell’etica da parte di Scheler. A suo avviso, la sfera dei sentimenti è autonoma da quella del conoscere, ma è anch’essa caratterizzata dall’intenzionalità: anch’essa, infatti, è dotata di

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contenuti propri dati a priori. Tali contenuti originari sono i valori, ossia le qualità inerenti alle cose, oggetto del sentire intenzionale. Avendo per oggetto i valori, l’etica può essere detta materiale, non formale, come quella kantiana, che eliminava dalla vita morale il

sentimento e le emozioni. I valori costituiscono un mondo oggettivo, gerarchicamente strutturato secondo leggi a priori. I valori più alti sono i valori della persona, i quali possono essere intuiti solo attraverso un atto di amore.

gli strumenti in poche… parole intenzionalità / evidenza / epochè / coscienza pura / ontologia / mondo-dellavita / valore / simpatia

esercizi

i testi a. nel manuale t26 Husserl/Atteggiamento naturale e intenzionalità t27 Husserl/La crisi europea e il compito della filosofia

b. on-line Husserl/L’epochè Husserl/Il mondo-della-vita e le scienze Scheler/L’etica e i valori Scheler/Simpatia e amore

Che cosa so? / Che cosa ho capito?

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1. Le origini della fenomenologia il problema della conoscenza tra psicologia e logica

Nella seconda metà dell’Ottocento uno dei modi più consueti di affrontare il problema della conoscenza consiste nel chiedersi quali siano i processi psicologici attraverso i quali si formano le idee. A tale domanda è possibile rispondere per via empirica, grazie ai metodi della psicologia sperimentale, che studia i meccanismi della percezione e dell’apprendimento. A questa posizione – denominata psicologismo – studiosi di logica come Frege [cfr. 16.1] obiettano che essa non è in grado di affrontare il problema della validità della conoscenza stessa: arrivare a scoprire come si producono, si associano e si trasformano le idee non basta a dimostrare che esse siano vere oggettivamente – ossia indipendentemente da chi le pensa, da quando e da come le pensa.

brentano e la polemica con la psicologia sperimentale

Una posizione autonoma all’interno di queste discussioni è assunta da Franz Brentano (1838-1917). Sacerdote sino al 1873, quando – in seguito alla proclamazione dell’infallibilità del papa – abbandonò la Chiesa, Brentano fu professore nelle università di Würzburg e di Vienna. Nel 1895 lasciò l’insegnamento e trascorse gran parte della sua vita a Firenze. La sua opera più nota è la Psicologia dal punto di vista empirico (1874). Studioso di Aristotele, al quale dedicò numerose opere, Brentano considera la psicologia come scienza dei fenomeni psichici, fondata sul metodo dell’analisi e della descrizione. In tal senso, egli polemizza con la psicologia sperimentale, che invece si basa sull’osservazione diretta degli atti psichici o indiretta a partire dai loro effetti fisici. Secondo Brentano, infatti, i fenomeni psichici sono nettamente distinti da quelli fisici; d’altra parte, gli atti psichici non possono essere osservati come se si trattasse di oggetti, perché nel momento in cui li si osserva, li si distrugge nella loro peculiarità.

il primato della psicologia sulle altre scienze

Ciò non significa che la psicologia sia inferiore alle scienze fondate sull’osservazione: queste ultime, anzi, non hanno accesso diretto agli oggetti che intendono descrivere, ma costituiscono soltanto congetture a partire dal modo in cui gli oggetti appaiono a chi li osserva. Al contrario, la psicologia coglie direttamente i suoi oggetti e, pertanto, è la prima tra le scienze, la scienza del futuro. Le leggi psicologiche da essa scoperte potranno infatti fornire una base sicura all’agire (sia degli individui, sia delle masse) e, quindi, produrre effetti benefici sulla vita sociale.

la scoperta dell’intenzionalità

Diversamente dalla tradizione che si richiama a Cartesio o a Locke, Brentano ritiene che i fenomeni psichici non siano idee, ma atti con i quali la mente è in relazione a un oggetto. Il loro tratto caratteristico è, infatti, l’ intenzionalità . I fenomeni psichici si riferiscono sempre necessariamente a oggetti: così, per esempio, la percezione rimanda sempre a qualcosa di percepito, il desiderio a qualcosa di desiderato. In generale, dunque, la coscienza è sempre coscienza di (qualcosa), ovvero è sempre correlata a un contenuto oggettivo di cui ha evidenza immediata. Secondo Brentano, non esistono propriamente atti psichici inconsci. Infatti, noi non possiamo percepire i nostri atti mentali, senza essere al tempo stes-

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so coscienti di essi: per esempio, non possiamo udire un suono, senza essere al tempo stesso coscienti non solo del suono, ma anche dell’atto di udirlo. In questo caso, non si hanno due distinti atti di coscienza – la percezione del suono e la coscienza di percepirlo – ma un solo atto con due oggetti diversi, il suono (ossia un fenomeno fisico) e l’atto di udirlo (ossia un fenomeno psichico, distinto dai fenomeni fisici, in quanto caratterizzato dall’intenzionalità).

ad esempio: la percezione di un suono

L’atto mentale più semplice, secondo Brentano, è la rappresentazione, ossia il semplice avere un oggetto di fronte alla mente: essa fornisce l’oggetto agli altri atti, che costituiscono modalità diverse di riferirsi a esso. Tra questi sono fondamentali il giudizio, nel quale un oggetto è affermato o negato, e il sentimento, in cui esso è amato o odiato. A sua volta, inoltre, ciascun atto di giudizio si differenzia da un altro in base all’oggetto, ossia al suo contenuto intenzionale.

la classificazione degli atti psichici

2. Husserl: alla ricerca della logica pura Entro questo orizzonte di problemi e – in generale – nell’atmosfera neokantiana delle università di lingua tedesca, che pone al centro dell’indagine filosofica il problema della conoscenza, si muovono le prime ricerche di Edmund Husserl. Nato nel 1859 a Prossnitz, in Moravia, da famiglia ebrea, studiò matematica e fisica, prima presso l’università di Lipsia e poi – dal 1878 – in quella di Berlino, dove seguì i corsi dei matematici Kronecker e Weierstrass, laureandosi con quest’ultimo nel 1883. Nel 1884 tornò a Vienna, dove si avvicinò a Brentano e, nel 1887, sostenne l’esame per la libera docenza a Halle. In questo stesso anno, dopo essersi convertito alla confessione evangelica, sposò Malvine Charlotte Steinscheider, anch’essa ebrea convertita. Nel 1891 pubblicò la sua prima opera Filosofia dell’aritmetica, poi nel 1900 e 1901 i due volumi delle Ricerche logiche.

la formazione e i primi scritti

Nominato nel 1901 professore straordinario all’università di Gottinga, vi rimase sino al 1916, quando divenne professore a Friburgo. In questo periodo fondò la rivista che poi divenne l’organo del movimento fenomenologico, lo «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung» («Annuario di filosofia e di ricerca fenomenologica»), sul quale compariranno scritti importanti dei suoi primi discepoli (Scheler e Heidegger) e alcuni dei suoi scritti più significativi – quali Filosofia come scienza rigorosa (1911) e il primo volume delle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica (1913).

la carriera accademica: da gottinga a friburgo

Nel dopoguerra, la sua filosofia cominciò a essere conosciuta anche fuori dalla Germania: nel 1922 tenne una conferenza a Londra sulla fenomenologia e, nel 1929, altre conferenze alla Sorbona di Parigi, poi ripetute a Strasburgo. Il testo di queste conferenze fu trascritto in francese – sotto la guida di Alexandre Koyré – da Gabrielle Pfeiffer ed Emmanuel Lévinas, compa-

la diffusione della fenomenologia e la rottura con heidegger

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rendo nel 1931 con il titolo Meditazioni cartesiane. Intanto, nel 1928, sulla cattedra di Friburgo gli era successo Heidegger, mentre egli si dedicava alla composizione di altre opere, come Logica formale e trascendentale (1929) e una Postilla alle «Idee», da apporre come premessa alla traduzione inglese di quest’opera, uscita nel 1931: in essa, egli prendeva posizione, tra l’altro, contro la filosofia di Heidegger. l’esperienza del nazismo e le conferenze di vienna e di praga

Con l’avvento del nazismo nel 1933, fu radiato dall’università di Friburgo in quanto ebreo, proprio nel periodo in cui Heidegger ne era rettore; stessa sorte toccò al figlio, professore di Diritto, che nel 1936 emigrò negli Stati Uniti. In alcune conferenze, tenute a Vienna e a Praga nel 1935, Husserl rilanciò il programma fenomenologico come via di salvezza dai pericoli di disumanizzazione e irrazionalismo che minacciavano la cultura europea: esse costituiscono l’abbozzo della sua ultima opera – rimasta incompiuta – che sarà pubblicata postuma con il titolo La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale (1954).

la morte e gli inediti

Nel 1938 Husserl morì a Friburgo. I suoi numerosi manoscritti – grazie a Hermann Leo van Breda – furono salvati dalla distruzione e trasferiti all’università di Lovanio, dove costituiscono il fondo degli «Archivi Husserl». A partire dal 1950 ha preso avvio – sotto il titolo «Husserliana» – la pubblicazione di questi inediti: tra essi si possono ricordare i volumi secondo e terzo delle Idee (1966). Altri scritti sono stati pubblicati dal suo allievo Ludwig Landgrebe (Esperienza e giudizio, 1939) e da Gerd Brand (Mondo, io e tempo, 1955).

dallo psicologismo...

Il primo scritto di Husserl – Filosofia dell’aritmetica (1891) – è dedicato a Brentano, dal quale egli riprende il concetto di intenzionalità. Anche per Husserl, esso è il tratto caratteristico degli atti psichici che «tendono» sempre verso il loro oggetto. Su questa base, Husserl esamina la genesi del concetto di numero: esso deriva, a suo avviso, da un atto unitario della mente, che dirige intenzionalmente la sua attenzione su molteplicità di oggetti riuniti in un aggregato specifico (per esempio, un insieme di mele). A partire da ciò, la mente ricava per astrazione il concetto generale di aggregato, inteso come collezione delle unità costitutive di una molteplicità; procedendo a contare tali unità, si perviene al concetto di numero. Husserl riconosce l’esistenza autonoma dei numeri come forme generali, ossia come strutture rappresentative costanti del soggetto, le quali condizionano l’attività conoscitiva. Nella misura in cui descrive tali strutture nella loro genesi empirica, egli resta tuttavia legato allo psicologismo.

... alle ricerche logiche

In seguito a una recensione critica di Frege [cfr. 16.1], che gli rimprovera di confondere il piano logico con quello psicologico, e alla lettura di Bolza approfondimento, p. 479], Husserl si allontana progressivamente no [ dallo psicologismo. Egli riconosce che la logica non è riducibile a un insieme di regole tecniche – puramente formali – utili per compiere ragionamenti o deduzioni corrette. Al contrario, essa ha a che fare con il significato dei concetti e, quindi, con il loro contenuto oggettivo. Si pone, quindi, la

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necessità di affrontare il problema delle relazioni tra logica e psicologia: a ciò Husserl provvede con le Ricerche logiche. Le leggi che descrivono i processi psicologici sono generalizzazioni che partono dall’esperienza e, pertanto, non hanno validità necessaria, ma possono essere modificate e corrette in base all’accertamento di fatti empirici. I princìpi logici e matematici sono, invece, necessariamente veri: in tal senso, il rapporto fra premesse e conclusioni nei ragionamenti non può essere ridotto all’accertamento empirico di relazioni di coesistenza o di successione di atti psichici. In altre parole, una logica pura non si può fondare su basi empirico-psicologiche, ma non può neppure avere un carattere puramente formale. Essa, invece, deve essere la teoria di ogni possibile tipo di ragionamento, ovvero determinare le condizioni ideali di possibilità della scienza in generale.

la validità dei princìpi logicomatematici è assoluta

Su questa base, Husserl esamina il concetto di significato. Egli ritiene che l’unità minima di significato non sia il termine linguistico singolarmente preso, ma la proposizione, la quale in generale enuncia che qualcosa è o non è. La logica studia la proposizione a prescindere dal fatto che essa sia vera o falsa oppure che sia formulata verbalmente o pensata da qualcuno; per questo aspetto, dunque, essa è pienamente indipendente dalla psicologia e non si configura come scienza del pensiero. Per proposizione, Husserl non intende i singoli enunciati. Ad esempio, l’enunciato «La tovaglia è bianca» può essere pronunciato – o anche soltanto pensato – una o più volte, in tempi e luoghi diversi, da diverse persone, ma la proposizione è il significato (tovaglia bianca) comune a ognuno di essi.

la logica studia le proposizioni

In altre parole, la proposizione è l’essenza degli enunciati, ossia il loro contenuto oggettivo permanente, che non dipende dal fatto che qualcuno li dica (o li pensi) né si esaurisce nell’atto empirico di pensarli (o di dirli). Questa essenza gode di un’esistenza autonoma rispetto ai singoli enunciati, allo stesso modo degli universali (per esempio, la bianchezza), i quali non sono entità singole, ma l’insieme o l’essenza di una molteplicità di cose singole (in questo caso, le singole cose bianche).

la proposizione è il significato oggettivo degli enunciati

Secondo Husserl, di queste essenze abbiamo un’esperienza autoevidente, caratterizzata da una certezza superiore a ogni certezza fornita dalle scienze empiriche: egli chiama tale esperienza intuizione categoriale, per distinguerla dalla semplice intuizione empirica, che coglie soltanto oggetti individuali. La logica pura consiste nella descrizione delle essenze, che sono alla base di ogni tipo di indagine e di scienza. Per Husserl, essa ha il compito di mostrare come le leggi logiche si diano e operino in ogni vissuto (in tedesco, Erlebnis) di coscienza. Come abbiamo visto, ogni atto psichico ha un correlato intenzionale. Partendo dalla considerazione degli oggetti intenzionali, la logica pura descrive le leggi logiche che regolano ogni possibile conoscenza – ossia le strutture fisse secondo cui il pensiero si articola insieme ai suoi oggetti.

la logica e l’intuizione categoriale

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3. Husserl: la fenomenologia trascendentale lo scopo della fenomenologia

Secondo Husserl, l’ideale della vera filosofia consiste nel realizzare l’idea della conoscenza assoluta – sulla base di un fondamento certo – e la fenomenologia è il metodo che consente di pervenire a questo obiettivo. Questo programma è delineato e svolto da Husserl negli scritti successivi alle Ricerche logiche, nella Filosofia come scienza rigorosa e, soprattutto, nelle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica. Per costituirsi come scienza rigorosa, la filosofia non deve assumere nulla come ovvio e indiscutibile, ma deve pervenire criticamente a un fondamento dotato di evidenza assoluta.

il superamento dell’atteggiamento naturale

A tale scopo, essa non può partire dall’atteggiamento naturale, che assume il mondo come un insieme di fatti ovvi: le stesse scienze empiriche si fondano su questo presupposto e identificano la conoscenza con l’accertamento di fatti ritenuti oggettivi e indiscutibili. Ma l’esperienza delle cose è variabile e mutevole e, quindi, non può garantire l’oggettività e la validità della conoscenza, sicché le scienze della natura non possono propriamente risolvere i problemi di una teoria della conoscenza [t26].

il metodo della fenomenologia: l’epochè

Occorre, invece, liberarsi da ogni presupposto, sia dalle credenze comuni, sia da quelle proprie di tali scienze, così come dai contenuti dottrinali di tutte le filosofie precedenti. A ciò provvede quella che Husserl chiama riduzione fenomenologica (in tedesco, phänomenologische Reduktion) oppure, con un termine desunto dallo scetticismo antico, epochè . Essa consiste nel mettere tra parentesi l’atteggiamento naturale e tutto ciò che esso comporta: per esempio, l’assunzione dell’esistenza del mondo o la distinzione di soggetto e oggetto quali dati ovvi. Essa, tuttavia, non ha un compito puramente distruttivo nei confronti delle credenze o dei pregiudizi diffusi e, in questo senso, non coincide con il dubbio scettico. Ecco una delle numerose definizioni di epochè che Husserl fornisce, mettendo l’accento sul peculiare punto di vista a cui essa permette di avere accesso: Noi che per filosofare ricominciamo radicalmente da capo operiamo l’epochè a partire dall’atteggiamento naturale che la precede necessariamente, e non casualmente, a partire cioè da quell’atteggiamento che inerisce costantemente alla storicità, alla vita e alla scienza. Tuttavia è ora necessario rendersi veramente conto che l’epochè non è affatto un’astensione abituale e irrilevante, bensì che grazie ad essa lo sguardo del filosofo si rende veramente libero, libero specialmente dai vincoli più forti e più universali, e perciò più occulti, dai vincoli dell’essere-già-dato del mondo. Questa liberazione equivale alla scoperta della correlazione universale, in sé assolutamente conclusa e assolutamente autonoma, di mondo e di coscienza del mondo. Quest’ultima non è altro che la vita di coscienza della soggettività che produce la validità del mondo, la soggettività che nelle sue continue attuazioni (Erwerben) ha sempre un mondo ed è sempre attivamente formatrice. Infine risulta che la correlazione assoluta dev’essere intesa nel senso più vasto, come correlazione dell’essente di ogni genere e in ogni senso, da un lato, e di un’assoluta soggettività dall’altro, in quanto è costitutiva del senso e della validità d’essere. Occorre soprattutto rile-

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vare che l’epochè dischiude al filosofo un nuovo modo di esperienza, un nuovo modo di pensare, di teorizzare, in cui egli, posto al di sopra del suo essere naturale e al di sopra del mondo naturale, non smarrisce nulla del suo essere e delle sue verità obiettive, nulla dei risultati spirituali della sua vita nel mondo e della vita storica della comunità; egli si impedisce soltanto – in quanto filosofo, nella peculiarità dell’orientamento dei suoi interessi – di persistere nell’atteggiamento naturale della sua vita nel mondo, di porre cioè sul terreno del mondo dato problemi, domande sull’essere, problemi di valore, problemi pratici, domande attorno all’essere e al non-essere, attorno alla validità, all’utilità, al bello, al buono, ecc. Infatti tutti gli interessi naturali sono posti fuori gioco. Ma il mondo, che era prima per me e che continua ad essere, in quanto mondo mio, nostro, umano, valido attraverso i modi soggettivi, non è scomparso; durante la conseguente attuazione dell’epochè esso rimane il puro correlato della soggettività che gli conferisce il suo senso d’essere, e in base alla cui validità esso «è» (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, III parte, § 41).

La modificazione dell’atteggiamento naturale deve condurre, secondo Husserl, all’assunzione dell’atteggiamento fenomenologico: in base a esso, quelli che prima erano semplicemente gli oggetti del mondo si presentano ora come oggetti intenzionati dalla coscienza . Ogni atto di coscienza, infatti, ha una natura intenzionale, in quanto si dirige verso qualcosa; il compito del fenomenologo è quello di descrivere ciò che si dà alla coscienza (ovvero l’oggetto a cui l’atto si riferisce) nei modi in cui esso si dà:

quando le cose diventano fenomeni di coscienza

Che cosa voglia dire l’affermazione che l’oggettualità c’è e che essa si dimostra come una oggettualità che è ed è così per la conoscenza, deve risultare evidente dalla coscienza stessa e divenire così comprensibile senza equivoci. A tal fine è necessario lo studio dell’intera coscienza, dal momento che essa presenta possibili funzioni conoscitive in tutte le sue conformazioni. Ma dal momento che ogni coscienza è sempre «coscienza-di», lo studio essenziale della coscienza implica anche quello del significato e dell’oggettualità della coscienza come tale. Studiare un qualsiasi tipo di oggettualità nella sua essenza generale (studio che può perseguire interessi che siano lontani dalla teoria della conoscenza e dall’indagine della coscienza) significa tenere dietro ai suoi modi di datità ed esaurire, attuando i relativi processi di «chiarificazione», il suo contenuto essenziale (Filosofia come scienza rigorosa, passim).

Ad esempio, io vedo un tavolo. Dopo l’epochè, io non sono più interessato al tavolo come all’oggetto sul quale posso mettere un vaso o sul quale consumo i miei pranzi e le mie cene. Una volta messa tra parentesi l’esistenza del tavolo, esso diventa un oggetto di coscienza e io posso cogliere i suoi modi di darsi a me. Nell’atteggiamento fenomenologico, cesso di avere attenzione per il tavolo e passo a considerare la mia percezione del tavolo. Il tavolo non è più l’oggetto che mi sta di fronte, ma si rivela ora come il contenuto intenzionale di un mio vissuto di coscienza – la mia percezione di questo tavolo.

alef

Husserl L’epochè

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la descrizione del dato intenzionale

A questo punto, l’analisi fenomenologica può proseguire, approfondendo o il lato soggettivo del dato intenzionale (che cosa significa percepire un oggetto «in carne ed ossa»? Quali sono le caratteristiche generali della percezione?) o il lato oggettivo di esso (quali sono le caratteristiche generali del tavolo? Che cosa fa di un oggetto un tavolo?). Soffermiamoci, per il momento, sul lato oggettivo del nostro contenuto intenzionale: il tavolo può assumere forme differenti (circolare o rettangolare), poggiare su quattro gambe laterali o su un solo asse centrale, essere di vari colori o materiali, ma che cosa permette di chiamarlo ancora un tavolo? Continuando così, il fenomenologo giunge a definire l’essenza del tavolo, ovvero i tratti caratteristici che differenziano un tavolo da tutti gli altri oggetti. Ad esempio, fa parte dell’essenza del tavolo essere un oggetto materiale formato da un piano orizzontale sorretto da uno o più elementi verticali, attorno a cui le persone si siedono.

«alle cose stesse»

Sospendendo l’affermazione della realtà del mondo, il mondo stesso diventa un insieme di fenomeni che si danno alla coscienza – ossia di oggetti ai quali la coscienza si rapporta intenzionalmente nei propri atti. Si tratta di imparare a guardare le cose per come esse si danno all’interno dei vari atti di coscienza (atti di rappresentazione, di percezione, di ricordo e così via). Si comprende, allora, il significato del programma husserliano di tornare «alle cose stesse»: avendo messo tra parentesi l’esistenza del mondo come un dato ovvio, l’atteggiamento fenomenologico consiste nell’atteggiamento puramente teoretico di uno «spettatore disinteressato». Lo sguardo di tale spettatore è diretto non verso le cose empiriche nella loro accidentalità, bensì verso le essenze.

l’intuizione eidetica

La riduzione fenomenologica – mettendo tra parentesi l’oggetto naturale nella sua singolarità – prepara la via a quella che Husserl chiama intuizione delle essenze. Anche le essenze, infatti, possono essere conosciute: esse sono le strutture di senso su cui si fondano le distinzioni tra i vari oggetti (ad esempio, persona, cosa, sedia, quadro, ecc.) e gli atti di coscienza (ad esempio, percezione, rappresentazione, fantasia, ecc.). Torniamo all’esempio del tavolo percepito. Dopo l’epochè il fenomenologo non guarda più a esso nella sua individualità empirica, ma nella sua esemplarità. In altre parole, assumendo il punto di vista dello spettatore disinteressato, questo tavolo qui lo aiuta a definire l’essenza del tavolo in generale: partendo da esso, infatti, egli può mettere a fuoco le caratteristiche minime che ogni tavolo deve possedere per essere tale. Allo stesso modo, la percezione di un oggetto particolare gli può dire qualcosa su che cos’è la percezione in generale: ogni percezione, infatti, è caratterizzata da specifiche proprietà (eidetiche) che la rendono diversa da un atto di immaginazione o di fantasia.

che cosa rimane dopo l’epochè?

Si è visto come l’epochè consista nella sospensione della credenza nell’esistenza del mondo. Come aveva indicato Cartesio, il dubbio può investire l’esistenza delle cose e degli altri, tutte le mie conoscenze acquisite, ma non il fatto che io sto pensando. Dal momento stesso che dubito di ogni cosa, infatti, si affaccia in me un’incrollabile certezza: e cioè che io esisto in quanto penso e dubito. Allo stesso modo, Husserl si chiede: che cosa rimane, una

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volta che sia stata operata la riduzione fenomenologica? Ciò che resta, a suo avviso, è la coscienza pura (o trascendentale) – che appunto per questo egli chiama anche residuo fenomenologico. A differenza di Cartesio la coscienza non è una sostanza, ma la funzione originaria e universale che costituisce il mondo. Ad esempio, io vedo un quadro. La coscienza pura di quel quadro non è la res cogitans – la mia mente – che ospita l’idea del quadro. Non bisogna, infatti, confondere la coscienza pura con la coscienza empirica dei singoli individui, che invece deve essere sottoposta a riduzione. La coscienza pura non è una realtà sostanziale – mente, anima, psiche – ma il modo di presenza di una qualunque realtà. Detto altrimenti, la coscienza pura non è altro che un punto di vista, o meglio, quello specifico punto di vista da cui chiunque vedrebbe quello che vedo io se fosse al mio posto. La coscienza pura è il modo in cui quel quadro si dà a me – o a chiunque si trovi al mio posto – indipendentemente dal fatto che esista o non esista, dal fatto che posso distruggerlo o comprarlo. Dopo l’epochè non sono interessato al quadro come a un oggetto d’uso o di scambio, ma solo alla mia percezione del quadro. D’altra parte, posso neutralizzare il fatto di essere io a vivere questa percezione e guardare a essa come all’atto di un io in generale (o io puro): la mia percezione mi interessa ora solo per ciò che in essa sarebbe vissuto da chiunque si trovi al mio posto.

la coscienza pura non è la coscienza empirica

Detto altrimenti, la coscienza pura del quadro è ciò che rimane dopo aver messo tra parentesi l’esistenza del quadro, l’esistenza di me che lo guardo, e aver puntato l’attenzione sul puro atto del guardare il quadro. La riflessione è una proprietà fondamentale del vissuto: grazie a essa, ogni Erlebnis può essere colto e analizzato. In altri termini, è possibile dirigere uno sguardo riflessivo sugli atti stessi della coscienza e del pensiero: in tal modo, essi diventano oggetto di quella che Husserl chiama percezione immanente, la quale è dotata di evidenza assoluta. Ciò significa che – mentre il mondo naturale e le cose che gli appartengono possono essere e non essere – la percezione immanente garantisce necessariamente l’esistenza del suo oggetto, ossia del vissuto intenzionale della coscienza.

la percezione immanente dei vissuti di coscienza

IL PASSAGGIO DALL’ATTEGGIAMENTO NATURALE A QUELLO FENOMENOLOGICO atteggiamento naturale (= il mondo è assunto come un insieme di fatti ovvi)

epochè (= riduzione fenomenologica)

sospensione del giudizio sull’esistenza di cose e di fatti del mondo

intuizione delle essenze (= attraverso la riflessione sugli atti e sugli oggetti intenzionati dalla coscienza pura)

coscienza pura (= ciò che resta dopo l’epochè)

atteggiamento fenomenologico (= fatti del mondo diventano fenomeni, ossia oggetti intenzionali della cocienza)

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i vissuti di coscienza: noesi e noema

Il mondo e la realtà hanno senso soltanto se riferiti alla coscienza, la quale ha appunto la proprietà di conferire senso a essi. Ogni vissuto intenzionale è costituito da due aspetti. 1) L’aspetto soggettivo è detto noesi (letteralmente, «l’operazione del pensare») e coincide con l’atto intenzionale che conferisce senso (il percepire, il ricordare, il desiderare, ecc.). 2) L’aspetto oggettivo è detto noema (letteralmente, «ciò che è pensato») e corrisponde all’oggetto intenzionato (il percepito, il ricordato, il desiderato, ecc.).

le ontologie regionali

Come abbiamo visto, il mondo – con tutti i suoi oggetti – si dà all’interno dei vissuti di coscienza in diversi modi (ora nella percezione, ora nell’immaginazione, ecc.). In ogni vissuto di coscienza è possibile isolare un noema, ossia l’oggetto di quel vissuto (il percepito, l’immaginato, ecc.). Dal punto di vista noematico, è possibile suddividere il mondo in differenti ontologie regionali (cosa, persona, mondo spirituale). A ciascuna di esse appartengono, dunque, specifiche essenze regionali: grazie a esse è possibile ricavare la costituzione fondamentale di ogni conoscenza possibile e il fondamento ontologico di tutte le scienze empiriche. La fenomenologia, tuttavia, è diversa dall’ontologia tradizionale che assume le unità di cui essa si occupa nella loro identità, come se si trattasse di qualcosa di saldo e definito. La fenomenologia invece assume le varie unità – ossia le essenze – nel flusso che le correla al vissuto della coscienza e ha lo scopo di descrivere la costituzione delle realtà oggettive all’interno della coscienza pura. Alla trattazione di questi temi è dedicata la terza parte delle Idee, pubblicata postuma.

l’analisi costitutiva della realtà mondana

Nella seconda parte, pubblicata anch’essa postuma, Husserl fornisce un’analisi fenomenologica dei modi in cui si costituiscono i tre strati della realtà mondana. 1. Il primo è quello delle cose materiali, ossia il campo delle realtà trascendenti spazio-temporali, governate dalla pura causalità, oggetto della percezione e delle scienze naturali. 2. Il secondo è quello del corpo proprio, ossia della totalità liberamente mobile degli organi di senso, e delle nature animali. 3. Il terzo strato è quello della psiche, in quanto flusso temporale di Erlebnisse connessi tra loro e con il corpo proprio: a partire da essa si costituisce l’io vero, che non trapassa negli Erlebnisse. L’io, tuttavia, richiede il tu, il noi, l’altro, il mondo: su questa base si costituisce il mondo spirituale, in cui la persona – nell’associazione con le altre persone – è centro di un mondo circostante che si presenta come orizzonte aperto ai dati oggettivi naturali e sociali. La vita spirituale ha la sua legge fondamentale nella motivazione, sicché l’io si configura come io libero: ciò conferisce al mondo spirituale un primato ontologico su quello puramente naturale.

il radicalismo di cartesio e la ricerca dell’evidenza

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Husserl era consapevole del fatto che la sua esigenza di un nuovo, radicale cominciamento e di una nuova, radicale fondazione della conoscenza presentava analogie con il programma perseguito da Cartesio. Su questo punto egli ritorna nelle Meditazioni cartesiane. Anche oggi, secondo Husserl, è andato perso il senso dell’unità della scienza a causa della mancanza di chia-

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rezza sui princìpi di essa. Per questo motivo occorre far rivivere il radicalismo di Cartesio. La scienza cerca verità valide per tutti, ma non può pretendere ad alcuna validità definitiva, se manca l’evidenza assolutamente certa – immune da ogni dubbio – del suo fondamento. Questa non può essere cercata nel mondo quale appare all’esperienza comune e alle stesse scienze naturali, perché – come aveva mostrato Cartesio – tale mondo potrebbe essere un sogno o un’apparenza. Mettendo il mondo tra parentesi, tuttavia, io pervengo non a un mero nulla, bensì a me stesso come coscienza pura, nella quale e per la quale l’intero mondo oggettivo è per me. Infatti, dopo l’epochè io scopro di possedere un mondo continuativo che è «per me» e di essere dato a me stesso in un’esperienza evidente. Il tempo, come coesistenza e successione dei momenti di vita, è la forma universale che sta alla base dell’io. Emerge qui l’evidenza incontrovertibile dell’io sono, erroneamente trasformato da Cartesio in una sostanza pensante: si tratta, invece, dell’io o ego trascendentale, inseparabile dalle sue esperienze vissute. L’ego trascendentale è il polo identico dei momenti di vita della coscienza e l’universo delle possibili forme che essi possono assumere. Questa è l’evidenza originaria: «Non ha senso – dice Husserl – voler cogliere l’universo dell’essere vero come qualcosa che stia al di fuori dell’universo della coscienza possibile». Il mondo e le cose acquistano senso soltanto attraverso l’io, sicché si può affermare che la soggettività trascendentale è «l’universo della possibilità di senso».

l’evidenza originaria è l’io trascendentale

Avendo il suo fondamento nell’evidenza dell’io trascendentale, la fenomenologia è definita da Husserl idealismo trascendentale, diverso dall’idealismo psicologico alla Berkeley, ma anche da quello di Kant, che continua a mantenere un mondo di cose in sé come concetto limite. A differenza dell’idealismo tradizionale, l’idealismo trascendentale non nega l’esistenza del mondo, ma ha il suo unico scopo nel chiarimento del senso di questo mondo.

una nuova forma di idealismo

Il rischio del primato accordato all’io può consistere in una forma di solipsismo, che rinchiuda il soggetto in se stesso e lo renda inaccessibile agli altri. Nelle Meditazioni cartesiane, Husserl si premura di mostrare che l’intersoggettività è costitutiva della soggettività trascendentale. Secondo Husserl, infatti, io esperisco originariamente il mondo come intersoggettivo, ossia come «un mondo che è per tutti e i cui oggetti sono disponibili a tutti». Entro questa sfera comune, io cerco di delimitare la sfera specifica di ciò che è «mio proprio», ma ciò presuppone il concetto di «altro». In tal modo, si dilegua l’apparenza di solipsismo, anche se continua a valere il principio secondo cui tutto ciò che è per me – compresi quindi gli altri soggetti – può attingere il proprio senso esclusivamente dalla mia sfera di coscienza.

l’io trascendentale è compatibile con l’esistenza degli altri?

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4. Husserl: la crisi delle scienze

e il ruolo della fenomenologia non è più possibile una filosofia universale?

Nell’opera pubblicata postuma – La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale – Husserl affronta il tema della crisi radicale in cui versa l’umanità europea. La causa di essa deve essere ricercata nella crisi dell’idea di filosofia come scienza della totalità dell’essere, di cui le singole scienze rappresentano diramazioni specifiche. Secondo Husserl, l’umanità europea – a partire dal Rinascimento – si era costituita come autonoma grazie a questa concezione della filosofia. Essa mirava a dare alla vita regole fondate sulla ragione, allo scopo di rendere liberi. A partire dal Settecento, la possibilità di una metafisica era diventata un problema ed era crollata la fede in una filosofia universale e nella capacità della ragione di determinare ciò che l’essere è. In altri termini, cadono «la fede in una ragione assoluta che dia senso al mondo, la fede nel senso della storia, nel senso dell’umanità, nella sua libertà in quanto attiva possibilità dell’uomo di conferire un senso razionale alla sua esistenza umana individuale e umana in generale».

le scienze moderne non si pongono il problema del senso

Il crollo della fiducia in una filosofia universale si estende anche a tutte le scienze moderne, in quanto eredi dello stesso ideale di razionalità. Nonostante i loro successi empirici, infatti, anche le scienze sono travagliate da paradossi e da problemi di fondazione. In discussione non è tanto il valore delle conoscenze specifiche acquisite dalle singole scienze, quanto il significato che la scienza nel suo complesso ha e può avere per l’umanità. Alla base della crisi vi è la riduzione dell’idea della scienza a scienza di fatti, la quale prescinde da qualunque riferimento al soggetto che compie l’indagine scientifica. Ciò vale anche per le cosiddette scienze dello spirito, nelle quali l’avalutatività diventa l’ideale da perseguire. Escludendo in linea di principio i problemi del senso dell’esistenza e del mondo in generale, la scienza finisce con l’estraniarsi dagli uomini; ne consegue, secondo Husserl, che «le mere scienze di fatti creano meri uomini di fatto».

l’umanità autentica e la guida della ragione

Per comprendere la crisi del presente occorre, dunque, secondo Husserl, riconsiderare la storia dell’umanità. In tal modo è possibile rendersi conto che il senso dell’umanità autentica è quello di una umanità «fondata sulla ragione filosofica e sulla coscienza di non poterlo essere che così». Questa nozione di umanità compare, secondo Husserl, per la prima volta in Grecia con la nascita della filosofia. Quest’ultima è intesa come attività teoretica puramente disinteressata e guidata dalla ragione, mirante a un sapere universale dotato di fondamento assoluto.

la fenomenologia e il fine dell’umanità

Si è originato in questo modo un tèlos (un fine) consistente nella realizzazione di un’umanità pienamente razionale: questo fine è un compito infinito, di cui anzitutto i filosofi sono responsabili. Essi sono chiamati da Husserl funzionari dell’umanità, in quanto sono i custodi del vero essere razionale dell’umanità. Per uscire dalla crisi del presente occorre recuperare il senso originario di questo tèlos, proseguendo l’eredità trasmessa dai primi filosofi greci, la quale è andata smarrita, originando la crisi delle scienze stesse. Ciò

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è possibile soltanto attraverso la filosofia fenomenologica, capace di volgere uno sguardo pienamente disinteressato verso le cose stesse e di rintracciare nella soggettività trascendentale il fondamento di ogni sapere possibile [t27]. Attraverso la fenomenologia, la filosofia può recuperare il tèlos della ricerca e la realizzazione di un’umanità integralmente e liberamente fondata sulla ragione. Indicando nella fenomenologia la prosecuzione più adeguata dell’ideale di una libera indagine razionale – priva di presupposti e mirante a una validità universale – Husserl intendeva opporsi all’irrazionalismo, che ormai egli vedeva minacciare la vita spirituale e materiale dell’Europa e soprattutto della Germania. A tale irrazionalismo imperante le scienze non sembravano più in grado di opporre alcun baluardo. Per questa ragione, egli assegnava alla filosofia il compito etico di salvaguardare il significato autentico dell’idea di umanità.

la fenomenologia come baluardo contro l’irrazionalismo

Ma quando, secondo Husserl, la crisi dell’umanità europea – ossia della razionalità filosofica così come è stata fondata dai Greci – si è manifestata per la prima volta? A suo avviso, ciò è accaduto nell’età moderna con Galilei, che ha utilizzato la matematica per indagare scientificamente la natura, riducendola a un insieme di entità e di forze oggettivamente misurabili. La più importante conseguenza della matematizzazione della natura è, secondo Husserl, l’obiettivismo, ossia la tendenza a trattare il mondo come un dato ovvio, distinto e indipendente dal soggetto che lo conosce. Di qui trae origine il dualismo cartesiano tra natura e mondo psichico, che è la premessa per la specializzazione delle varie scienze e per la costruzione di una psicologia oggettivistica. In questa prospettiva, la stessa soggettività – l’anima o la mente – viene considerata come una res, ossia come una cosa indagabile con i metodi delle scienze della natura.

la matematizzazione della natura e l’obiettivismo moderno

Questo atteggiamento obiettivante nei confronti della natura e dell’uomo ha condotto a dimenticare il fondamento sul quale si esercitano le stesse operazioni delle scienze naturali e che Husserl chiama il mondo-della-vita (in tedesco, Lebenswelt). Con questa espressione egli intende riferirsi all’esperienza che noi abbiamo del mondo prima della formazione di categorie e giudizi. Tale esperienza prescientifica e precategoriale costituisce il fondamento e la sorgente delle conoscenze stesse delle scienze. In tal senso, il mondo-della-vita è definito da Husserl anche come «un regno di evidenze originarie», esperite nella loro immediatezza e comuni a tutti gli uomini in quanto soggetti conoscenti.

il regno del mondodella-vita

Secondo Husserl, la riduzione fenomenologica rappresenta la via di accesso al mondo-della-vita nella sua correlazione con la soggettività trascendentale. Grazie alla riduzione, infatti, il mondo cessa di presentarsi nell’ovvietà dell’atteggiamento naturale e si rivela invece come il prodotto della soggettività trascendentale, che ne costituisce il senso e la validità d’essere. Il primo in sé non è, dunque, l’essere del mondo nella sua ovvietà – come presumono le scienze naturali – ma la soggettività, che nelle sue forme prescientifiche pone ingenuamente l’essere del mondo e poi, nelle varie scien-

la riscoperta della soggettività trascendentale

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ze, lo rende oggettivo. La fenomenologia – in quanto riflessione del soggetto conoscente su se stesso e sulla propria vita conoscitiva – può ritornare a questa sorgente ultima di tutte le formazioni conoscitive e, su questa base, costruire una filosofia universale fondata in maniera pura e definitiva .

5. Scheler la vita e le opere

Max Scheler nacque a Monaco nel 1874, da padre protestante e madre ebrea. Nel 1889 si convertì al cattolicesimo, ma dieci anni dopo abbandonò la fede cattolica. Nel 1893 si iscrisse alla facoltà di Medicina dell’università di Monaco, ma l’anno dopo passò alla facoltà di Filosofia dell’università di Berlino, dove insegnavano – tra gli altri – Dilthey e Simmel. Nel 1895 si trasferì a Jena, dove si laureò nel 1897. Dopo aver insegnato nell’università di Jena, divenne nel 1907 assistente di Lipps all’università di Monaco, ma nel 1910 a causa di un adulterio dovette abbandonare l’insegnamento in questa università. Nel 1911 fu a Göttingen, dove insegnava Husserl, e nel 1912 si stabilì a Berlino, dove strinse amicizia con lo storico delle origini del capitalismo, Werner Sombart. In quello stesso anno pubblicò un saggio Sul risentimento e l’anno successivo (1913) – sullo «Jahrbuch für Philosophie und phänomenologische Forschung», la rivista fondata da Husserl – la prima parte del Formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, mentre la seconda comparve nel 1916. Nel 1915 Scheler si convertì una seconda volta al cattolicesimo, compose saggi di critica alla civiltà borghese moderna e interventi a favore della guerra. Terminato il conflitto, fu nominato nel 1919 professore di Filosofia e Sociologia all’università di Colonia. Nel 1921 pubblicò L’eterno nell’uomo, ma l’anno successivo ebbe una crisi che lo condusse nuovamente ad abbandonare il cattolicesimo. Negli ultimi anni della sua vita, terminata nel 1928, quand’era appena stato chiamato a insegnare Filosofia all’università di Francoforte, Scheler compose numerosi scritti: Essenza e forme della simpatia (1923), Problemi di una sociologia del sapere (1924), Le forme del sapere e la società (1926), La posizione dell’uomo nel cosmo (1927).

la sfera emotiva è dotata di contenuti propri

Convinto che il neokantismo della Scuola di Marburgo [cfr. 6.4] – disattento alla dimensione storica dell’esperienza vissuta – non fosse in grado di cogliere le peculiarità della vita spirituale e culturale dell’uomo, Scheler ritenne di aver trovato il metodo adeguato per affrontare questi problemi nella fenomenologia di Husserl. Per Scheler, anche la sfera dei sentimenti – non solo quella conoscitiva – è caratterizzata dall’intenzionalità. Quella del sentimento è una sfera autonoma dal conoscere, in quanto è dotata di contenuti propri – dati a priori e non derivati dalle conoscenze di dati di fatto: La vera sede di ogni a priori di valore (compreso quello morale) è la conoscenza dei valori, anzi la visione dei valori, che ha luogo nel sentire, nel preferire e infine nell’amare e nell’odiare, così come è sede degli a priori di valore la «conoscenza morale», cioè quella relativa alle connessioni di valore, al loro grado di «altezza» o di «bassezza». Questa conoscenza si compie dunque in funzioni e

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atti specifici che sono toto cœlo diversi da ogni percepire e pensare, e costituiscono l’unica possibile via di accesso al mondo dei valori. I valori e i loro ordinamenti brillano non già nella «percezione interna» o nella introspezione (che ci dà solo elementi psichici), ma nello scambio vivo con il mondo (sia esso psichico, fisico o altro ancora), nell’amore, nell’odio, ossia nella pienezza di quegli atti intenzionali (Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori, I, II, A).

b

Gli atti del sentimento sono correlati intenzionalmente ai valori . Scheler li definisce come qualità inerenti alle cose, che si danno a conoscere grazie al sentire intenzionale (in tedesco, Gefühl), dotato di un’evidenza pari a quella che gli atti del percepire o del ricordare hanno dei loro oggetti. I valori costituiscono, dunque, un mondo oggettivo, caratterizzato da proprie leggi a priori, che è compito dell’etica mettere in luce e descrivere. Con queste considerazioni, Scheler poneva fine al primato del problema della conoscenza, sostenuto da alcuni neokantiani e – in qualche modo – ancora condiviso da Husserl.

l’essere dei valori

Alla fondazione dell’etica Scheler dedicò una delle sue opere più importanti, Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori. L’obiettivo polemico di essa è costituito dal formalismo etico kantiano. Kant aveva espulso il sentimento e le emozioni dalla vita morale e aveva ravvisato il fondamento della morale in una legge universale della ragione, puramente formale e priva di contenuti, la quale comanda incondizionatamente – a prescindere da ogni esigenza di felicità. Secondo Scheler, invece, la vita morale include sentimenti ed emozioni, che ci consentono di avere accesso ai valori. Come abbiamo visto, i valori sono oggettivi e universali e non possono essere derivati dall’esperienza, che è sempre variabile e mutevole, ma sono intuiti direttamente: il valore, infatti, non è qualcosa che viene aggiunto alle cose a opera di un giudizio che fa seguito alla rappresentazione o percezione di tali cose. Inoltre, secondo Scheler, non esistono soltanto i valori positivi, ma anche quelli negativi (ad esempio, il falso, il brutto, l’ingiusto e così via). L’etica, dunque, non è puramente formale, ma è dotata di un proprio contenuto a priori, dato dall’intuizione dei valori: in questo senso, essa è definibile come etica materiale .

etica formale ed etica materiale

A gradi diversi del sentimento risulta correlata, secondo Scheler, una gerarchia oggettiva dei valori: a) ai sentimenti sensibili sono correlati i valori sensibili compresi nella gamma tra gradevole e sgradevole; b) ai sentimenti corporei – legati allo stato del corpo – sono correlati i valori del nobile e del volgare, dell’utile e del dannoso, su cui si fonda anche la vita associata; c) ai sentimenti vitali – legati alle funzioni del corpo – sono correlati i valori vitali, come la generosità, il coraggio e così via; d) ai sentimenti dell’anima (o dell’io) sono correlati i valori spirituali e conoscitivi del vero e del falso, del bello e del brutto, del giusto e dell’ingiusto; e) ai sentimenti propri della persona sono correlati i valori religiosi del sacro.

l’ordine dei valori

La gerarchia dei valori è disposta secondo strati che vanno dal livello corporeo a quello spiritualmente più puro della persona. Su questa base, Scheler

la persona

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a Husserl Il mondo-della-vita e le scienze b Scheler L’etica e i valori

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può criticare Husserl per aver posto al vertice l’io trascendentale, che è una funzione universale puramente conoscitiva e impersonale. A suo avviso, invece, il primato va alla persona, ridotta da Husserl a pura esemplificazione empirica dell’io trascendentale. La vita morale consiste nella piena realizzazione della persona umana e, quindi, include costitutivamente sentimenti ed emozioni, in particolare la simpatia e l’amore.

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io e gli altri

La persona è l’uomo nella sua totalità e individualità, nell’unità di tutti i suoi atti. Essa ha per correlato costitutivo il mondo e la partecipazione emotiva alla vita delle altre persone: in ciò consiste propriamente la simpatia . A questo tema Scheler dedica un’opera apposita, Essenza e forme della simpatia (1923). La percezione dell’altro precede quella dell’io, sicché la conoscenza dell’altro non deriva per analogia dalla conoscenza di se stessi: ognuno, infatti, prima di arrivare a pensare pensieri propri e a concepirsi come io, pensa in base alle credenze che dominano nell’ambiente e provengono dalla tradizione. Percepire e conoscere l’altro, tuttavia, non è ancora simpatia, ossia sentire-con l’altro: la simpatia è un fenomeno originario, una funzione innata, grazie alla quale si va oltre se stessi e si riconosce l’altro a partire da una partecipazione affettiva. La partecipazione affettiva può assumere vari aspetti, che vanno dal contagio (o fusione emotiva) all’identificazione o all’immedesimazione: sull’immedesimazione intenzionale e cosciente si fonda la simpatia.

la differenza tra simpatia e amore

La simpatia, tuttavia, non deve essere confusa con l’amore: la prima, infatti, è puramente reattiva e cieca di fronte al valore dell’altro e, quindi, si differenzia dal secondo, che è attivo e poggia sul riconoscimento della persona altrui nella sua diversità e irripetibilità. Senza amore, la persona è soltanto un animale sociale, un’entità oggettiva e sostituibile, mentre nell’amore ciascuno è veramente se stesso e l’io diventa propriamente persona .

risentimento e invidia

Secondo Scheler, il mondo moderno ha dimenticato e nascosto la simpatia e l’amore. Egli riprende da Nietzsche il concetto di risentimento e lo considera come il contrassegno non della morale cristiana, bensì delle morali moderne: è il risentimento, infatti, che porta a ritenere la natura soltanto come un ambito da dominare e gli altri uomini soltanto come strumenti – o addirittura ostacoli – in vista del benessere economico. L’invidia – matrice del risentimento – genera lo spirito di concorrenza, che è alla base dell’economia moderna e del mondo borghese.

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Scheler Simpatia e amore

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in poche... parole Nella seconda metà dell’Ottocento, gli psicologi sperimentali affrontano il problema della conoscenza cercando i processi psichici che portano alla formazione delle idee; studiare i meccanismi dell’apprendimento e della percezione non risolve, però, la questione della validità oggettiva della conoscenza stessa. Per questo motivo, Franz Brentano cerca di fondare una psicologia intesa come scienza dei fenomeni psichici nettamente distinti da quelli fisici. A suo avviso, i fenomeni psichici non sono oggetti, ma atti caratterizzati dall’intenzionalità e la coscienza è sempre coscienza di qualcosa. Secondo Brentano, non esistono atti psichici inconsci, in quanto non si può essere coscienti di un oggetto rappresentato (giudicato, voluto) senza essere coscienti dell’atto che lo rappresenta (giudica, vuole).

intenzionalità Brentano riprende questo termine dalla filosofia scolastica medievale, nella quale indicava il riferimento del concetto a qualcosa di esterno da sé. Per il filosofo tedesco, l’intenzionalità è il tratto specifico dei fenomeni psichici: questi ultimi sono atti che si riferiscono a qualcosa di diverso dagli atti stessi (ad esempio la percezione rimanda a qualcosa di percepito, il desiderio a qualcosa di desiderato e così via). Per Edmund Husserl, la filosofia non deve assumere nulla come ovvio e scontato, ma deve pervenire a un fondamento dotato di evidenza assoluta. A questo scopo, egli distingue tra atteggiamento naturale e atteggiamento fenomenologico, a cui si può avere accesso soltanto dopo avere effettuato l’epochè. Mettendo «fuori circuito» l’esistenza delle cose o la distinzione tra soggetto

e oggetto, infatti, il filosofo si libera da ogni presupposto e da ogni costruzione teorica, per esaminare ciò che appare alla coscienza (i fenomeni). Dopo avere attuato l’epochè, le cose del mondo si presentano alla coscienza come oggetti di atti intenzionali, da descrivere nei modi in cui si danno e nei limiti in cui si danno. Husserl chiama «fenomenologia» questo nuovo modo di affrontare il problema della conoscenza: «La fenomenologia della conoscenza è scienza dei fenomeni di conoscenza nel doppio senso: da una parte, delle conoscenze come apparenze, rappresentazioni, atti di coscienza, in cui si presentano queste o quelle oggettualità e se ne diviene consapevoli (passivamente o attivamente); e dall’altra parte è scienza di queste oggettualità stesse in quanto in tali forme si presentano. La parola fenomeno ha un doppio senso per via dell’essenziale correlazione fra l’apparire e ciò che appare» (L’idea della fenomenologia). L’epochè, pur sospendendo la credenza nell’esistenza del mondo, non può mettere tra parentesi la coscienza pura (o l’ego trascendentale): quest’ultima non è una realtà sostanziale (anima, mente, psiche), ma l’insieme dei vissuti di coscienza esaminati nei loro aspetti universali, i modi in cui qualcosa appare a qualcuno. Compito del fenomenologo è quello di porsi come «spettatore disinteressato» che conosce non le cose empiriche ma le essenze, e cioè le strutture di senso sulle quali si basano le distinzioni tra gli oggetti e i vari atti di coscienza, suddividendo così la realtà in differenti ontologie regionali (cosa materiale, persona, mondo spirituale).

evidenza (Dal latino evidentia, traduzione del greco enàrgheia). Il

darsi a vedere, il presentarsi e manifestarsi di una cosa per quello che è. Nella filosofia contemporanea Husserl riprende da Cartesio il concetto di evidenza per indicare il carattere di verità immediata con cui i fenomeni e le loro caratteristiche essenziali si danno alla coscienza pura, una volta compiuta la riduzione fenomenologica.

epochè Termine greco indicante

la «sospensione del giudizio o dell’assenso», praticata dagli scettici antichi, di fronte a cose oscure o a tesi rispetto a cui si possono dare argomentazioni equivalenti sia favorevoli sia contrarie; essa consiste nel non affermare né negare. Il termine è stato ripreso da Husserl per indicare la messa tra parentesi dell’atteggiamento naturale, che assume come un dato ovvio l’esistenza del mondo o la distinzione soggetto-oggetto. Con l’attuazione dell’epochè – detta anche «riduzione» – il fenomenologo riesce a ottenere la progressiva liberazione da ogni credenza dogmatica e ad assumere l’atteggiamento fenomenologico. Sospendendo la fede nella realtà del mondo, infatti, il mondo stesso si presenta come un insieme di fenomeni – ovvero di oggetti intenzionali che si danno alla coscienza. In tal modo grazie all’epochè si può accedere alle «cose stesse», che non sono cose empiriche singolari – alla cui esistenza si è interessati – ma essenze universali e necessarie di cui si può diventare spettatori disinteressati. Non tutto, però, può essere oggetto di epochè: a essa si sottrae la coscienza pura, perché – come già aveva mostrato Cartesio – non posso sospendere il giudizio sul fatto che io sto pensando.

coscienza pura Nella fenomeno-

logia husserliana, la coscienza indica il flusso delle esperienze vissute (Erlebnisse). All’interno di ogni vissuto di coscienza è possibile distin-

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guere gli atti (percepire, immaginare, rappresentare...) dagli oggetti a cui questi atti si riferiscono (percepito, immaginato, rappresentato...). In tal senso, la caratteristica principale della coscienza è l’intenzionalità: la coscienza è sempre coscienza di qualcosa, ossia tende sempre verso un oggetto che va al di là di essa. Husserl distingue, inoltre, tra coscienza empirica e coscienza pura. Nel primo caso, si tratta dell’io empirico, l’io che ognuno è in quanto risulta spazio-temporalmente situato nel mondo. Attraverso l’epochè si attua una modificazione dell’atteggiamento naturale, per cui si sospende il giudizio sull’esistenza di fatti o cose incontrati nel mondo. L’io empirico non può sottrarsi all’epochè, giacché esso coincide con l’esperienza ovvia e ingenua che ho di me. Ma una volta che è stato eliminato dalla coscienza tutto ciò che riguarda me, che cosa rimane? Rimane la coscienza pura con ciò che in essa si dà, nei modi in cui si dà. La coscienza pura non è una sostanza, alla maniera di Cartesio, ma semplicemente il modo di presenza di una qualunque realtà. Ad esempio, io guardo una ragazza. Dopo l’epochè, mi rivolgo all’atto del guardare una ragazza: nel primo caso, l’io che guarda la ragazza è quello empirico; nel secondo, l’io che si rivolge all’atto di percezione è l’io puro. Attraverso la riflessione, il fenomenologo mette in luce le caratteristiche generali di questo atto di percezione, la sua stratificazione (ad esempio, l’atto del vedere si intreccia con atti di immaginazione), le sue componenti (lato soggettivo, lato oggettivo). Ma ciò che trova, non vale solo per lui: i contenuti della coscienza pura vengono presi in considerazione per ciò che in essi vi è di essenziale (ossia comune a tutti, in tutti i tempi e luoghi). In questo senso la coscienza pura è il punto di partenza per la costruzione della fenomenologia come scienza rigorosa. 274

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ontologia (Dal greco on, «ente», e lògos, «discorso»). Termine coniato in età moderna per indicare la disciplina che studia l’essere in generale. Nella filosofia contemporanea la nozione di ontologia generale è ripresa da Husserl per indicare la logica pura, ossia l’insieme delle leggi logiche che sono operanti in ogni vissuto di coscienza e che regolano ogni possibile conoscenza. A essa egli affianca le cosiddette ontologie regionali, le quali hanno per oggetto le essenze regionali, ossia le strutture ideali di tutti gli individui appartenenti a una determinata regione d’essere (ad esempio la cosa materiale, la persona, il mondo spirituale, e così via). Nell’opera pubblicata postuma – La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale – Husserl affronta il tema della crisi dell’umanità europea che ha smarrito il senso della propria esistenza e del mondo in generale. La matematizzazione della natura operata dalle scienze e l’obiettivismo, ossia la tendenza a trattare il mondo e l’uomo come realtà separate e indipendenti, hanno condotto a dimenticare il mondo-della-vita nella sua correlazione con la soggettività trascendentale. Il mondo-della-vita non è quello assunto dalle scienze naturali, ma quello dell’esperienza prescientifica e precategoriale che viene costituito dalla soggettività trascendentale. In questo quadro, la fenomenologia si pone come la sola filosofia autenticamente universale, in grado di riscoprire nella soggettività la sorgente ultima di tutte le formazioni conoscitive e di realizzare l’ideale di un’umanità integralmente fondata sulla ragione.

mondo-della-vita (In tedesco, Lebenswelt). A partire dall’età mo-

derna, con Galilei, le scienze della natura hanno trasformato il mondo in un insieme di entità e di forze

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matematicamente misurabili. Da qui ha tratto origine il dualismo cartesiano di res cogitans (= cosa pensante, anima, mente) e res extensa (= cosa estesa, materia) e la conseguente contrapposizione gnoseologica di soggetto e oggetto. Questa descrizione del mondo viene data per scontata e rientra nell’atteggiamento naturale con cui ognuno di noi si rapporta a se stesso e alle cose, trattandoli come meri «fatti». Grazie all’epochè è, tuttavia, possibile, secondo Husserl, sospendere l’atteggiamento naturale e divenire consapevoli che «la scienza è una realizzazione dello spirito umano», che il mondo da essa descritto è una costruzione teorica basata sull’esperienza preriflessiva e precategoriale del soggetto. Husserl chiama «mondo-della-vita» questo «regno di evidenze originarie», comune a tutti i soggetti conoscenti e sempre già dato come sfondo di tutte le elaborazioni simboliche che lo riguardano: «esso è dato del tutto naturalmente a tutti noi, a noi in quanto persone nell’orizzonte dell’umanità, in qualsiasi connessione attuale con gli altri; è ‘il’ mondo comune a tutti [...] il mondo è un terreno costante di validità, una sorgente costantemente disponibile di ovvietà, e noi, sia in quanto uomini pratici sia in quanto scienziati, ci occupiamo sempre di esso» (La crisi delle scienze europee). Secondo Husserl, il mondo-della-vita rappresenta il correlato della soggettività trascendentale, che gli attribuisce senso e validità d’essere, prima della formazione delle categorie e dei giudizi. Max Scheler trova nella fenomenologia di Husserl il metodo per affrontare i problemi legati alla vita emotiva e morale dell’uomo, che i neokantiani di Marburgo avevano lasciato irrisolti. Egli pone fine al primato del problema gnoseologico, ampiamente sostenuto dai neokantiani e in parte

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condiviso dallo stesso Husserl, per concentrarsi sulla sfera dei sentimenti. Quest’ultima gli appare caratterizzata da precisi contenuti dati a priori e non derivabili dalle conoscenze di fatto. Per Husserl, l’intuizione delle essenze (Wesensschau) permetteva di conoscere le strutture di senso alla base dei vissuti di coscienza; allo stesso modo, per Scheler, l’intuizione emotiva (Gefühl) è in grado di cogliere i valori (buono, giusto, bello, ma anche cattivo, ingiusto, brutto, ecc.) come qualità inerenti alle cose. Scheler critica Kant perché poneva il fondamento dell’etica nella legge formale della ragione, che comanda incondizionatamente il dovere, escludendo dalla vita morale dell’uomo i sentimenti e le emozioni. Egli prospetta, invece, un’etica materiale dotata di contenuti, i valori appunto, articolati secondo una gerarchia oggettiva (da quelli sensibili a quelli religiosi). Scheler non

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condivide l’impostazione idealistico-costitutiva della fenomenologia husserliana, che individua nell’io trascendentale il fondamento impersonale di ogni esperienza possibile. A suo avviso, il fine della vita morale consiste nella piena realizzazione della persona che si rapporta originariamente al mondo e all’altro. Per Scheler, infine, sono gli atti di amore e non quelli di simpatia, a riconoscere la persona per quello che è, nella sua irripetibile individualità.

valore Termine che si diffonde nella seconda metà dell’Ottocento in Germania per indicare ciò che è apprezzato e ritenuto meritevole di scelta, dando luogo a un dibattito sull’assolutezza o relatività dei valori. Per Scheler i valori sono colti intenzionalmente non dall’intelletto, ma dal sentimento e diventano oggetto di scelta preferenziale. Essi sono qualità inerenti alle cose e al tempo stesso contenuti propri

del sentimento. In tal senso, i valori sono dati a priori – ovvero non ricavati dalla conoscenza empirica – e costituiscono un mondo oggettivo, gerarchicamente strutturato da leggi a priori. Al vertice della gerarchia oggettiva dei valori si collocano quelli della persona, ossia dell’uomo nella sua totalità e individualità e nell’unità dei suoi atti: essi sono oggetto di intuizione da parte di atti di amore.

simpatia (Dal greco sympàtheia, da syn, «con», e pàschein, «patisco», «subisco»). Nell’ambito della filosofia contemporanea, Scheler ha distinto la simpatia dal semplice contagio o fusione emotiva, ossia dal fatto di provare la stessa emozione: si può, infatti, provare simpatia o compassione per un dolore altrui, senza per questo provare questo stesso dolore. In questo senso la simpatia è essenziale per la comprensione degli altri e il riconoscimento dell’alterità delle persone.

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i testi t26 Husserl / Atteggiamento naturale e intenzionalità Husserl

Filosofia come scienza rigorosa

passim

Pubblicato come lungo articolo sulla rivista «Logos», nel 1911, Filosofia come scienza rigorosa è una sorta di manifesto della fenomenologia, uno scritto programmatico in cui sono indicate le vie che occorre percorrere per costruire la filosofia come sapere certo, assolutamente fondato. A tale scopo, essa non può essere confusa con nessuna delle scienze naturali, tanto meno con una psicologia intesa come scienza empirica basata su dati di fatto: quest’ultima, infatti, rientra nell’orizzonte dell’atteggiamento naturale, che non mette in discussione, ma piuttosto assume come ovvi, i dati dell’esperienza, senza coglierli nella loro correlazione con gli atti di coscienza, nei quali essi si danno. Si riportano qui le pagine in cui Husserl conduce una critica all’atteggiamento naturale e fa valere, in opposizione a esso e come costitutiva del metodo fenomenologico, l’intenzionalità.

Ogni scienza della natura è ingenua nei suoi punti di partenza: la natura che essa vuole prendere in esame, per essa esiste semplicemente. Le cose ci sono ovviamente, come cose che stanno in quiete o in movimento, mutevoli nello spazio infinito e, come cose temporali, nel tempo infinito: noi le percepiamo, noi le descriviamo in semplici giudizi di esperienza. L’obiettivo della scienza della natura è quello di conoscere queste datità ovvie in maniera oggettivamente valida e scientificamente rigorosa, e ciò vale anche per la natura nel senso più ampio, nel senso psicofisico e, rispettivamente, per le scienze che la prendono in esame, particolarmente la psicologia1. Lo psichico non è un mondo per sé, esso è dato come un Io e come un vissuto dell’Io (in un senso del resto molto diverso), e similmente esso si mostra connesso empiricamente a determinate cose 1. Husserl chiama «naturale» l’atteg-

giamento che assume come scontata e ovvia l’esistenza delle cose nel mondo: questo atteggiamento è alla base non soltanto del modo comune di vedere le cose, ma anche delle scienze della natura, che si pongono soltanto l’obiettivo di conoscere le cose come fatti oggettivi di per sé indiscutibili, senza indagare più a fondo le ragioni per le quali essi si

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fisiche, chiamate corpi. Anche questa è una pre-datità ovvia: compito della psicologia è perciò quello di esaminare scientificamente questo psichico nella connessione naturale psicofisica nella quale esso esiste ovviamente, di determinarlo in maniera oggettivamente valida e di scoprire il complesso delle leggi del suo formarsi e trasformarsi, del suo comparire e del suo disparire2. Ogni determinazione psicologica è eo ipso psicofisica, e precisamente nel senso amplissimo (al quale a partire da ora teniamo fermo) che essa infallibilmente ha nel tempo stesso un significato sul piano fisico. Anche quando quella scienza empirica che è la psicologia mira alla determinazione di puri e semplici eventi coscienziali e non di dipendenze psicofisiche nel consueto senso ristretto, questi eventi sono tuttavia pensati come eventi di natura, cioè appartenenti a coscienze uma-

danno come ovvi alla coscienza. Tra le scienze della natura, Husserl include anche la psicologia, nella misura in cui essa intende modellarsi sulle scienze fisiche, assumendone le procedure di osservazione e di sperimentazione. 2. Analogamente alle altre scienze della natura, anche la psicologia considera il mondo dei fenomeni psichici come un insieme di dati oggettivi, che si pre-

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sentano di fatto intrinsecamente connessi al piano della corporeità. In questo senso, gli oggetti della psicologia possono essere definiti più propriamente come fenomeni psicofisici. L’individuazione delle leggi psichiche può allora avvenire, anche per via sperimentale, attraverso il rilevamento dei rapporti di causalità e di correlazione tra il piano fisico e quello psichico.

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ne o a animali, che per parte loro hanno una connessione ovvia e implicita con corpi umani od animali3. L’eliminazione del rapporto con la natura significherebbe per lo psichico la perdita del carattere di fatto naturale determinabile in maniera oggettivo-temporale, in breve di fatto psicologico. Teniamo quindi ben fermo che ogni giudizio psicologico implica in sé, espressamente o meno, che la natura fisica venga posta come esistente. Da ciò consegue palesemente che, se si possono fornire degli argomenti decisivi in forza dei quali si può affermare che la scienza fisica della natura non può essere filosofia in senso specifico, che mai e poi mai essa può servire come fondamento della filosofia e che solo sulla base della filosofia precedentemente illustrata può essere equivocamente utilizzata in senso filosofico ai fini della metafisica, allora tutti gli argomenti siffatti dovrebbero trovare senz’altro applicazione alla psicologia4. Ora argomenti del genere non mancano affatto. È sufficiente ricordare solo l’«ingenuità» con la quale la scienza della natura assume – secondo quanto asserito in precedenza – la natura come data, una ingenuità che in essa è per così dire immortale e che, per esempio, si ripete in ogni momento del suo procedere, là dove essa fa ricorso alla semplice esperienza e in conclusione 3. Husserl ritiene che la psicologia del

suo tempo, modellandosi sulle scienze della natura, presupponga in ogni caso che i fenomeni psichici appartengano a esseri dotati di corporeità e rientrino, quindi, negli eventi naturali osservabili: proprio per questo è legittimo applicare a essi i metodi d’indagine propri delle scienze fisiche, capaci di garantire l’oggettività dei risultati. 4. Il fatto che le scienze naturali diano luogo a conoscenze oggettive non legittima, secondo Husserl, i tentativi di identificare con esse la filosofia o di considerarle il fondamento o il modello della filosofia, come avveniva in pensatori che traevano ispirazione dal positivismo. La filosofia, infatti, cerca un punto di partenza e un fondamento assolutamente certo, senza dare nulla per presupposto, mentre le scienze della natura assumono come dati ovvi le cose e gli eventi del mondo e, quindi, non

riconduce all’esperienza tutti i metodi scientifici empirici. La scienza della natura, nel suo genere, è certamente alquanto critica. Un’esperienza isolata, anche se replicata, ha ancora per essa un valore quanto mai limitato. Nell’ordinamento e nella connessione metodica delle esperienze, nel gioco scambievole dell’esperienza e del pensiero secondo regole logiche fisse, l’esperienza valida si distingue dalla non valida, ogni esperienza mantiene un determinato livello di validità e viene a enuclearsi la conoscenza oggettivamente valida in generale, la conoscenza naturale. Ma per quanto questo tipo di critica dell’esperienza, finché ci manteniamo nel campo della scienza della natura e pensiamo nei termini del suo atteggiamento, possa essere soddisfacente per noi, è ancora possibile e indispensabile una critica che ponga al tempo stesso in questione l’intera esperienza in generale e il pensiero scientifico empirico5. Come può l’esperienza, in quanto coscienza6, dare un oggetto o coglierlo? Com’è che le esperienze si giustificano o possono giustificarsi reciprocamente per mezzo di esperienze, e non solo superarsi o rafforzarsi soggettivamente? Come fa un gioco della coscienza logicoempirica a affermare quanto è oggettivamente valido per cose che sono in sé e per sé? Perché le cosiddette regole del gioco della coscienza

mettono in discussione la supposizione che sta alla base dell’atteggiamento naturale. 5. In una certa misura, anche nelle scienze della natura, che non si accontentano della semplice osservazione di fenomeni isolati o anche ripetuti, ma cercano rapporti regolari tra essi, ossia leggi universalmente valide, è presente, secondo Husserl, un grado di criticità. Finché si rimane nell’ambito specifico di tali scienze, questo grado è sufficiente, ma non è più tale quando si vuole ritrovare il fondamento assolutamente certo dell’esperienza in generale e, quindi, anche delle stesse scienze empiriche. In questo caso, occorre procedere a una critica ancora più radicale, la quale conduca a non assumere nulla come ovvio, neppure l’esistenza della natura come di un dato oggettivo. 6. Ogni esperienza comporta sempre il riferimento a un soggetto che la vive e

ne è consapevole. Si tratta allora di chiedersi in che senso è possibile il costituirsi della relazione del soggetto, ossia della coscienza, con i suoi oggetti e, di conseguenza, quali siano le condizioni di possibilità per il costituirsi di una conoscenza oggettivamente valida di essi. In altri termini, non è possibile, secondo Husserl, parlare di conoscenza delle cose, come se queste fossero entità a sé stanti, indipendenti dalla coscienza, a cui esse di volta in volta si danno nel flusso dell’esperienza vissuta. Se le cose stanno così, è chiaro che la questione del fondamento della conoscenza non può prescindere dal riferimento alla coscienza. Ma le scienze della natura non sono in grado di rispondere a questo problema, in quanto, come si è visto, presuppongono come un dato ovvio il mondo della natura e non avvertono la necessità di cogliere la loro relazione costitutiva con gli atti della coscienza.

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hanno un loro rilievo per le cose? Com’è che la scienza della natura deve divenire comprensibile in ogni suo aspetto, nella misura in cui essa presume, in ogni suo livello, di porre e conoscere la natura come un qualcosa che è in sé di fronte al flusso soggettivo della coscienza? Tutto questo diviene un enigma, non appena è fatto oggetto di una seria riflessione. Tutti sanno che la teoria della conoscenza è la disciplina che intende dare una risposta a questi interrogativi, ma finora essa non ha risposto in maniera scientificamente chiara, senza discordanze e in modo decisivo, a dispetto di tutto il lavoro di ricerca e di riflessione che vi hanno rivolto i maggiori scienziati. Ora c’è solo bisogno di mantenere il livello di questa problematica in termini di rigorosa consequenzialità (di una consequenzialità che è certo mancata a tutte le teorie della conoscenza sinora date), per individuare il controsenso di una «teoria della conoscenza scientifico-naturale», e così pure di ogni teoria della conoscenza psicologica. Alcuni enigmi, per parlare in generale, sono in linea di principio immanenti alla scienza della natura: ovviamente le loro soluzioni, derivate da premesse e risultati, sono in linea di principio trascendenti. Volere attendere la soluzione di ogni problema proprio della scienza della natura come tale – proprio di essa in tutti i suoi aspetti, dal principio alla fine – dalla scienza della natura stessa, o anche solo pensare che essa possa contribuire con delle premesse di un qualche tipo alla soluzione di un problema del genere, vorrebbe dire muoversi in un circolo vizioso. È anche chiaro che in una teoria della cono-

7. L’aggettivo tetiche (dal greco thèsis,

«posizione») è un semplice rafforzativo del sostantivo posizioni. Per Husserl, è l’atteggiamento naturale che pone e assume come un dato ovvio l’esistenza delle entità naturali, che si presentano nello spazio e nel tempo, oltre che connesse tra loro da rapporti di causalità. Nell’ambito di queste entità, la psicologia empirica del tempo faceva rientrare anche le facoltà e i fenomeni psichici dell’uomo. 8. Emerge qui un concetto fondamen-

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scenza che voglia mantenere la coerenza del proprio senso, ogni maniera di porre la natura pre-scientificamente deve essere