Filosofia moderna [Vol. 2] [PDF]

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Zitiervorschau

copertina2_tr.fh11 11-07-2011 9:55 Pagina 1 C

Colori compositi

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Vol2-Indice:Layout 1

10-12-2008

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Pagina I

Costantino Esposito Pasquale Porro

filosofia moderna

in collaborazione con Paolo Ponzio

Editori Laterza

001-Esposito-Porro-Vol2-romane_Layout 1 12/07/11 09.28 Pagina II

© 2009, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari Prima edizione 2009 Seconda ristampa 2011

L’Editore Gius. Laterza & Figli si impegna a mantenere invariato il contenuto dell’opera per un quinquennio, come disposto dall’art. 5, Legge 169/2008.

Questo manuale è il risultato del lavoro comune dei due Autori. Al di là della responsabilità condivisa, il primo volume è stato curato principalmente da Pasquale Porro, il secondo e il terzo da Costantino Esposito. In questo volume i capp. 1, 3, 4, 5, 12, 25 sono stati redatti da Paolo Ponzio e il cap. 27 da Giusi Strummiello. Hanno inoltre collaborato al lavoro redazionale: Giovanna D’Aniello per i capp. 2, 10, 18-21; Giambattista Formica per i capp. 13, 14, 16; Francesco Marrone per i capp. 8, 11, 15; Donatella Colantuono per i Percorsi tematici 3 e 4; Marco Lamanna per il Percorso tematico 5; Vincenzo Lomuscio per il Percorso tematico 6; Stefania Scardicchio per i Percorsi tematici 1 e 2. Gli esercizi e le sintesi sono stati realizzati da Roberto Massari, Federica Pellicoro e Benedetto Pizzolla.

L’editing è stato curato da Arcangelo Licinio. Copertina e progetto grafico a cura di Luigi Fabii / Pagina soc. coop., Bari. Servizi editoriali a cura di dMB Editoria e grafica s.r.l., Firenze. Questo libro è stampato su carta amica delle foreste, certificata dal Forest Stewardship Council. Finito di stampare nel luglio 2011 da SEDIT - Bari (Italy) per conto della Gius. Laterza & Figli Spa ISBN 978-88-421-0913-6

Editori Laterza Piazza Umberto I, 54 70121 Bari e-mail: [email protected] http://www.laterza.it

L’Editore è a disposizione di tutti gli eventuali proprietari di diritti sulle immagini riprodotte, nel caso non si fosse riusciti a reperirli per chiedere debita autorizzazione. Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da AIDRO, Corso di Porta Romana 108, 20122 Milano, e-mail: [email protected], sito web: www.aidro.org.

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Pagina III

parte I

Indice del volume

L’ALBA DELLA MODERNITÀ

1

Dal Quattrocento al Cinquecento: rotture e continuità della tradizione

1 2 3

4

5 6

7

8

2

Il ritorno dello scetticismo: Michel de Montaigne

20

Sintesi Bibliografia Esercizi

21 23 25

L’istanza di una nuova coscienza religiosa e la disputa sulla libertà e sulla grazia

26

2

L’eredità medievale e la riscoperta dell’“io” 2 Le tendenze fondamentali del pensiero rinascimentale 5 Da Costantinopoli all’Italia: flussi e influssi della filosofia bizantina 7 3.1 Profeti e maghi orientali: Ermete, Zoroastro, Orfeo, p. 7 3.2 La tradizione platonica bizantina, p. 8 Niccolò Cusano 9 4.1 La “dotta ignoranza”, p. 10 4.2 Dio e l’Universo: complicazione, esplicazione, contrazione, p. 11 4.3 Princìpi per una nuova cosmologia, p. 13 Il ritorno di Epicuro: Lorenzo Valla 13 Il ritorno di Platone: l’Accademia platonica fiorentina 14 6.1 Marsilio Ficino e la nascita dell’Accademia platonica fiorentina, p. 14 6.2 Pico della Mirandola e la Dignitas hominis, p. 16 L’aristotelismo rinascimentale 17 7.1 Il problema dell’anima in Pietro Pomponazzi, p. 18 7.2 Il metodo scientifico di Jacopo Zabarella, p. 19

1 2 3 4

5

3 1 2

La Riforma protestante Gli albori della Riforma in Germania: l’esperienza di Martin Lutero Erasmo da Rotterdam e Lutero: libero o servo arbitrio? Grazia e giustizia nelle dottrine riformate 4.1 La “grazia giustificante”, p. 31 4.2 La “fede giustificante”, p. 31 4.3 Potere civile e predestinazione, p. 32 Dalla Riforma protestante alla riforma cattolica 5.1 Il concilio di Trento, p. 33 5.2 La risoluzione tridentina alla disputa sulla giustificazione, p. 34

26 27 29 31

33

Sintesi Bibliografia Esercizi

35 37 38

Alla scoperta dell’essenza del mondo: il naturalismo rinascimentale

39

L’attenzione alla natura nel Rinascimento L’incerto confine tra magia e scienza

39 40

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IV

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Pagina IV

Indice del volume 3

4

Bernardino Telesio: la natura studiata secondo i suoi princìpi 3.1 La sensibilità universale, p. 41 Un’etica naturalistica, p. 43 Giordano Bruno

8 41

Galileo Galilei 44

Tommaso Campanella

50

5.1 La filosofia dei sensi e la magia, p. 50 5.2 Il sapere metafisico e la fondazione dell’autocoscienza, p. 51 5.3 La dottrina delle primalità, p. 53 5.4 La filosofia politico-religiosa, p. 54 5.5 La città del Sole, p. 55

Sintesi Bibliografia Esercizi

56 58 59

9 10 11 12 13

6

4

Alla scoperta della misura del mondo

60

1 2

1 2

Un nuovo modo di pensare la scienza Esperienza, ragione e tecnologia: il caso di Leonardo da Vinci Niccolò Copernico e il modello eliocentrico Tycho Brahe e l’eccellenza dell’osservazione Giovanni Keplero e l’astronomia nuova

60

3

Sintesi Bibliografia Esercizi

70 71 72

Francis Bacon e Galileo Galilei

73

3 4 5

5 1

Due protagonisti alle origini della scienza moderna

66 67

73

4 5 6 7

Il sapere al cuore del potere La critica alla tradizione e il nuovo sistema del sapere La teoria degli “idoli” Tra i ragni e le formiche: l’esperienza delle api Tecnologia e sapere delle forme Il metodo dell’“induzione vera”

74 75 77 80 81 83

Un nuovo sguardo sul mondo Le scoperte astronomiche Il metodo della scienza galileiana L’ipotesi copernicana al vaglio della teologia Il Dialogo sopra i due massimi sistemi e il processo del 1633

86 88 91 93 95

Sintesi Bibliografia Esercizi

98 100 101

La tarda Scolastica europea: metafisica, ontologia, teologia

103

Tradizione filosofica e pensiero moderno La rinascita del pensiero scolastico e il Gaetano La Scolastica del “Secolo d’oro”

103 104 106

3.1 La Scolastica domenicana: Vitoria e Cano, p. 106 3.2 La Scolastica gesuita: Perera e Fonseca, p. 107 3.3 La controversia sulla grazia e sulla libertà: Molina e Báñez, p. 108 3.4 Libere discussioni e battaglie teologiche: la via media di Bellarmino, p. 108

62 64

4

Francisco Suárez e la nascita dell’ontologia moderna

109

Sintesi Bibliografia Esercizi

109 112 113

7

Nuove teorie della politica e del diritto

114

1

Il Rinascimento politico

114

1.1 Machiavelli: la politica come tecnica del potere, p. 115 1.2 Thomas More: la politica come utopia del potere, p. 117 1.3 Jean Bodin: la sovranità dello Stato, p. 119

Francis Bacon 2 3

85

3.2

4.1 Dio come natura, p. 45 4.2 Unità e infinità dell’Universo, p. 46 4.3 Dal monismo al molteplice: la teoria del minimo e della monade, p. 48 4.4 La conoscenza e l’eroico furore, p. 49

5

Sapere scientifico e società politica: la Nuova Atlantide

2

Diritto e politica tra Vecchio e Nuovo Mondo

120

2.1 La filosofia del diritto negli scolastici spagnoli tra Cinquecento e Seicento, p. 120 2.2 La controversia sugli indios, p. 122

Sintesi Bibliografia Esercizi

124 126 126

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Pagina V

parte II

Indice del volume

L’ORIZZONTE CARTESIANO E I NUOVI SISTEMI DELLA METAFISICA RAZIONALISTICA

5

René Descartes

128

1

Il desiderio del vero e le misure della ragione Un pensiero in prima persona Il problema del metodo

128 129 131

2 3

3.1 La critica alla logica scolastica, p. 131 3.2 Il metodo come esigenza della ragione, p. 132 3.3 I caratteri della scienza: unità, certezza, evidenza, p. 133 3.4 Le matematiche come modello di conoscenza certa ed evidente, p. 135 3.5 Gli operatori del metodo: l’intuito e la deduzione, p. 137 3.6 Le quattro regole, p. 138

4

7

9

6.1 La morale provvisoria, p. 160 logia delle passioni, p. 161

164 166 167

9

Baruch de Spinoza

169

1 2 3

La mente umana e la sostanza divina 169 L’esercizio del pensiero come scelta di vita 170 Un metodo per l’emendazione dell’intelletto 172

4

La meccanica degli affetti: dalla schiavitù alla liberazione

185

Esegesi e politica

189

Sintesi Bibliografia Esercizi

191 193 194

10

Gottfried Wilhelm Leibniz

195

1 2 3

Un pensiero barocco Una vita per la scienza La sostanza come forza

195 196 198

160 6.2 La fisio-

Sintesi Bibliografia Esercizi

3.1 Il vero bene dell’uomo, p. 172 tro modi della percezione, p. 173

183

9.1 Critica della rivelazione e interpretazione storica delle Scritture, p. 189 9.2 La libertà del pensiero e l’ordine dello Stato, p. 190

143

L’etica

La natura della mente e l’idea del corpo

8.1 La natura degli affetti, p. 185 8.2 Il desiderio di essere, p. 186 8.3 Il governo delle passioni, p. 187 8.4 La potenza dell’intelletto e l’amore intellettuale di Dio, p. 188

5.1 Dalla scienza alla filosofia prima, p. 143 5.2 Il percorso delle Meditazioni, p. 144 5.3 Il test del dubbio, p. 145 5.4 La verità del cogito, p. 149 5.5 Dall’io a Dio, p. 150 5.6 Le dimostrazioni a posteriori dell’esistenza di Dio, p. 151 5.7 La dimostrazione a priori dell’esistenza di Dio, p. 155 5.8 Verità ed errore, p. 156 5.9 Essenza ed esistenza dei corpi, p. 158 5.10 Il rapporto tra la mente e il corpo nell’uomo, p. 159

6

178

7.1 Ordine delle idee e ordine delle cose, p. 183 7.2 La mente come idea del corpo, p. 183 7.3 I tre generi della conoscenza, p. 184

8

La scienza cartesiana tra fisica e fisiologia 140

La metafisica

«Deus sive natura» 6.1 La sostanza, p. 178 6.2 Gli attributi, p. 178 6.3 I modi, p. 179 6.4 Dio come natura, p. 179 6.5 La causalità della sostanza divina, p. 181 6.6 «Natura naturans» e «natura naturata», p. 182

4.1 La favola del mondo meccanico, p. 140 4.2 L’uomo macchina, p. 142

5

176

5.1 Difendere la verità dall’assalto del mondo, p. 176 5.2 Il metodo geometrico della dimostrazione, p. 177

6

8

Nell’orizzonte dell’Etica

3.1 L’individualità della sostanza, p. 198 3.2 Il concetto di forza e i fenomeni del mondo fisico, p. 199

4

4.1 A partire da Descartes, p. 174 4.2 L’idea vera di Dio, p. 174 4.3 Al di là di Descartes, p. 175

174

200

4.1 Il fondamento logico della metafisica, p. 200 4.2 Verità di ragione e verità di fatto, 4.4 Una p. 203 4.3 Le monadi, p. 205 natura piena di vita, p. 206 4.5 L’armonia prestabilita, p. 207

5

La dinamica del conoscere

208

5.1 Le idee come espressioni del mondo, p. 208 5.2 I gradi della conoscenza, p. 209 5.3 Tra empirismo e innatismo, p. 210

3.2 I quat-

L’idea di Dio e la geometria

Logica e metafisica: l’universo delle monadi

6

Dio, la possibilità del male, la finalità del mondo 6.1 Dal possibile al necessario: l’esistenza di

212

V

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VI

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Pagina VI

Dio, p. 212 6.2 Il migliore dei mondi possibili, p. 213 6.3 Perché il male?, p. 214

Sintesi Bibliografia Esercizi

11

Crisi e sviluppo del razionalismo

216 218 219

Il canone cartesiano Giansenisti, libertini, “moderni”

IL CANONE INGLESE E LA SVOLTA EMPIRISTA DELLA GNOSEOLOGIA

12

Thomas Hobbes

250

1 2

Politica e metafisica In esilio volontario: Hobbes tra l’Inghilterra e la Francia Natura e compito della filosofia Ragione, linguaggio e conoscenza

250

220

Nell’orizzonte del cartesianesimo 1 2

parte III

Indice del volume

220 221

3 4

4.1 Ragionare è calcolare, p. 254 4.2 Sensazione e immaginazione, p. 255 4.3 La concezione nominalistica del linguaggio, p. 256 4.4 Possibilità e limiti della conoscenza, p. 257

2.1 Il giansenismo a Port-Royal, p. 222 2.2 Il libertinismo erudito, p. 223 2.3 Moderni versus antichi, p. 224

3

Gassendi

225

3.1 La critica della tradizione scolastica, p. 225 3.2 Gassendi e Descartes, p. 226 3.3 La ripresa dell’atomismo, p. 226

5 6 7

Un pensiero paradossale Un uomo di scienza e di “cuore” Il metodo e la verità

227 227 229

6.1 Verità scientifica e verità di fede, p. 229 6.2 Spirito di finezza e spirito di geometria, p. 230

7

La scienza dell’uomo

264 267 268

Isaac Newton

269

235 236

1 2 3 4 5

La rivoluzione meccanicista della scienza Una vita per la conoscenza La meccanica newtoniana Metodologia e metafisica Newton esoterico

269 270 271 274 276

Sintesi Bibliografia Esercizi

277 279 279

14

John Locke

280

1 2 3

L’esperienza e la ragione Una vita per la società Dal problema della convivenza civile all’analisi del conoscere

280 281

9.1 L’origine della conoscenza: la visione in Dio, p. 237 9.2 I modi del conoscere, p. 238

Il giusnaturalismo 10 11 12 13

Sintesi Bibliografia Esercizi

13

Gli occasionalisti e Malebranche L’occasionalismo Malebranche

257 258 259

231

7.1 La condizione umana tra miseria e distrazione, p. 231 7.2 La redenzione della fede, p. 233 7.3 La scommessa, p. 234

8 9

La filosofia del corpo Il meccanismo della volontà La teoria politica e il Leviatano 7.1 Lo stato di natura, p. 259 7.2 Le leggi di natura, p. 260 7.3 Il patto sociale e la nascita dello Stato, p. 261 7.4 Il diritto del sovrano e il diritto dei sudditi, p. 262 7.5 Lo Stato assoluto, p. 263

Blaise Pascal 4 5 6

251 252 254

Il diritto naturale Grozio Pufendorf Thomasius

240 241 242 244

Sintesi Bibliografia Esercizi

245 247 248

282

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Pagina VII

Indice del volume 3.1 La legge di natura e il principio dell’esperienza, p. 282 3.2 Una nuova strada per l’indagine: la genesi delle conoscenze, p. 284

Esperienza, idee, linguaggio

285

4.1 La critica all’innatismo, p. 285 4.2 L’origine delle idee, p. 285 4.3 Idee semplici e idee complesse, p. 287 4.4 La critica dell’idea di sostanza, p. 289 4.5 Il linguaggio, p. 290

5

4

6

Il pensiero liberale: potere politico e tolleranza religiosa

5

15 1 2 3

George Berkeley

Un empirista contro l’empirismo Filosofo, polemista, vescovo I princìpi della conoscenza

Sintesi Bibliografia Esercizi

294

Esse est percipi: l’immaterialismo Realtà e origine delle idee

299 300 301

302 303 304

307 308

Religione, moralità, sapienza metafisica 311 Sintesi Bibliografia Esercizi

330 331 332

17

L’Illuminismo europeo

334

1 2

Un nuovo programma di pensiero Il “potere” della ragione

334 336

Sintesi Bibliografia Esercizi

338 338 388

18

L’Illuminismo inglese

339

1 2

L’Illuminismo come problema “religioso” 339 Tra liberi pensatori e apologeti 340

302

5.1 Le idee non sono chimere, ma cose, p. 308 5.2 Dio come origine delle idee, p. 310

6

326

NELLO SPAZIO DELL’ILLUMINISMO

3.1 La filosofia come indagine generale sul conoscere, p. 304 3.2 La critica dell’astrazione, p. 305 3.3 Le idee come segni, p. 306

4 5

Le passioni umane e la vita pubblica 5.1 La morale, p. 326 5.2 La politica, p. 328 5.3 La religione, p. 329

6.1 Dallo stato di natura allo stato di diritto, p. 294 6.2 La divisione dei poteri nello stato di diritto, p. 295 6.3 La tolleranza come fondamento della convivenza civile, p. 297

Sintesi Bibliografia Esercizi

322

4.1 La critica alla relazione causa-effetto, p. 322 4.2 La conoscenza: certezza, proba4.3 Scetticismo bilità, credenza, p. 324 versus metafisica, p. 324

Conoscenza certa e conoscenza probabile 291 5.1 La conoscenza certa: “knowledge” , p. 291 5.2 La conoscenza probabile: “judgment”, p. 292 5.3 La ragione, la fede, l’entusiasmo, p. 293 5.4 La difesa dall’accusa di deismo e l’esegesi dei testi sacri, p. 293

Gli esiti scettici della teoria della conoscenza

parte IV

4

3.1 La scienza della natura umana, p. 317 3.2 L’applicazione del metodo sperimentale, p. 318 3.3 La genesi del materiale conoscitivo, p. 319 3.4 Relazioni di idee e materie di fatto, p. 321

312 313 314

2.1 I liberi pensatori, p. 340 2.2 I platonici di Cambridge, p. 341 2.3 I latitudinari e la “filosofia sperimentale”, p. 342

3 4

I deisti La riflessione sul “senso morale”

343 344

4.1 Shaftesbury, p. 344 4.2 Mandeville, p. 345 4.3 Hutcheson, p. 346

16

David Hume

315

5

Senso comune ed economia politica 5.1 Thomas Reid, p. 348 p. 348

1 2 3

Empirismo e scetticismo Una nuova scena del pensiero La teoria della conoscenza

315 316 317

Sintesi Bibliografia Esercizi

348

5.2 Adam Smith,

350 351 351

VII

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VIII

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Pagina VIII

Indice del volume

19

L’Illuminismo francese

1

Critica, storia, politica: Bayle e Montesquieu

352

2

Dall’economia politica al diritto penale: l’Illuminismo a Milano 2.1 Verri, p. 388

1.1 Bayle, p. 352

2

352

1.2 Montesquieu, p. 354

Voltaire

388

2.2 Beccaria, p. 389

Sintesi Bibliografia Esercizi

391 391 392

Due casi atipici: Giambattista Vico e Jean-Jacques Rousseau

393

356

2.1 Un polemista all’assalto del potere, p. 356 2.2 Voltaire, “filosofo” illuminista, p. 357

3

L’Enciclopedia

358

22

3.1 Il progetto enciclopedico dell’Illuminismo, p. 358 3.2 d’Alembert, p. 360 3.3 Diderot, p. 361

4 5

Il sensismo: Condillac I filosofi materialisti

362 364

5.1 La Mettrie, p. 364 5.2 Helvétius, p. 365 5.3 d’Holbach, p. 366

6

Il progresso storico della ragione 6.1 L’idea di progresso, p. 367 p. 368 6.3 Condorcet, p. 369

20 1

371 372 373

L’Illuminismo tedesco

374

Pietismo religioso e razionalismo filosofico

5

Sintesi Bibliografia Esercizi

383 384 384

La Scienza nuova

6 7 8 9

10

L’Illuminismo italiano

385

1

Dalla metafisica all’economia civile: l’Illuminismo a Napoli

386

1.1 Genovesi, p. 386

1.2 Filangieri, p. 387

401

Una vita come confessione Dalla spontaneità naturale alla corruzione culturale Lo stato di natura e la disuguaglianza degli uomini Il contratto sociale 9.1 La volontà generale, p. 412 l’uomo al cittadino, p. 414

21

399

Jean-Jacques Rousseau

379

381

“Verum” e “certum”

5.1 La “boria delle nazioni” e la “boria dei dotti”, p. 401 5.2 Una “metafisica della mente umana”, p. 402 5.3 Il “dizionario mentale” della storia, p. 404 5.4 La reinterpretazione della “sapienza poetica” e la scoperta del “vero Omero”, p. 405 5.5 Dai “bestioni” all’umanità dispiegata, p. 405 5.6 La provvidenza e i ricorsi storici, p. 407

2.2 Baumgarten, p. 378

Filosofia, religione, educazione: Lessing

393 395 396

4.1 Nello spazio del diritto, p. 399 4.2 Il ruolo della filologia, p. 399 4.3 L’importanza della mitologia, p. 401

376

3.1 Crusius, p. 379 3.2 La “filosofia popolare” e Mendelssohn, p. 380

4

4

374

Ragione ed esperienza

Alla ricerca del senso della storia I “quattro autori” di Vico Il “verum-factum” 3.1 Il metodo degli studi: topica e senso comune, p. 396 3.2 La vera sapienza metafisica, p. 397

1.2 Tho-

La metafisica della Scuola razionalista 2.1 Wolff, p. 376

3

1 2 3

6.2 Turgot,

Sintesi Bibliografia Esercizi

1.1 Il cuore e la ragione, p. 374 masius, p. 375

2

367

Giambattista Vico

408 409 410 412 9.2 Dal-

Moralità, religione, educazione: l’Emilio

415

10.1 Coscienza morale e sentimento religioso, p. 415 10.2 I dogmi della fede naturale, p. 415 10.3 Il programma educativo, p. 417

Sintesi Bibliografia Esercizi

418 421 422

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Pagina IX

Indice del volume

23

Immanuel Kant

424

1 2 3

La svolta kantiana della filosofia Una vita secondo sistema La formazione del criticismo

424 425 427

3.1 Scienza della natura e pensiero metafisico, p. 427 3.2 I princìpi della conoscenza e i princìpi dell’essere, p. 428 3.3 La metafisica, dai “sogni” all’esperienza, p. 429 3.4 La “grande luce” e la distinzione tra mondo sensibile e mondo intelligibile, p. 430

4

La Critica della ragion pura

5 6

Dalla speculazione alla morale La Critica della ragion pratica

7

La Critica del Giudizio

24 1 2 3 4

1

Dallo Sturm und Drang alla Romantik

478

1.1 Una nuova concezione della ragione, p. 478 1.2 Alla ricerca dell’unità perduta, p. 480 1.3 Il circolo romantico, p. 480

Bellezza, arte, libertà in Schiller Goethe: il classicismo e la filosofia della natura La poetica dell’infinito: 4.1 Schlegel, p. 484 Hölderlin, p. 486

5

6 453

La religione della moralità e la filosofia della storia

458

Sintesi Bibliografia Esercizi

460 464 465

I postkantiani

468

Nell’orizzonte della filosofia trascendentale Reinhold e il problema della rappresentazione Schulze e la questione aperta dello scetticismo Maimon: l’impossibilità della cosa in sé

478

4.2 Novalis, p. 485

468

7

483 484 4.3

487 5.3

Jacobi: la disputa sullo spinozismo e la filosofia della fede Religione ed ermeneutica in Schleiermacher

490 491

Sintesi Bibliografia Esercizi

493 495 496

26

Johann Gottlieb Fichte

497

1

Un compito impossibile: giungere alle origini del sapere Un missionario della scienza La “dottrina della scienza”

497 498 500

2 3

3.1 Oltre l’opposizione di dogmatismo e idealismo, p. 500 3.2 I princìpi della dottrina della scienza, p. 502 3.3 Il sapere teoretico, p. 504 3.4 Il sapere pratico, p. 506

469 470 471

481

Filosofia del linguaggio e filosofia della storia 5.1 Hamann, p. 487 5.2 Herder, p. 488 von Humboldt, p. 489

7.1 Giudizio determinante e giudizio riflettente, p. 453 7.2 Il giudizio estetico, p. 455 7.3 Il giudizio teleologico, p. 456

8

474 475 475

La filosofia del Romanticismo

4

6.1 Libertà e legge morale, p. 449 6.2 Formalismo e autonomia della morale kantiana, p. 450 6.3 Il sommo bene e i postulati della ragion pratica, p. 452

Sintesi Bibliografia Esercizi

25

2 3

448 449

472

DAL ROMANTICISMO ALLA FILOSOFIA CLASSICA TEDESCA

432

4.1 Il problema della metafisica come scienza, p. 432 4.2 La “rivoluzione copernicana” del conoscere, p. 433 4.3 I giudizi sintetici a priori, p. 435 4.4 La partizione della Critica della ragion pura, p. 437 4.5 L’Estetica trascendentale, p. 437 4.6 La Logica trascendentale, p. 438 4.7 L’Analitica trascendentale, p. 439 4.8 La Dialettica trascendentale, p. 444

Beck: l’oggetto come prodotto dell’io penso

parte VI

parte V

5

LA FILOSOFIA CRITICA

4

Il diritto, l’educazione, lo Stato: la libertà alla prova

506

IX

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X

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Pagina X

Indice del volume 4.1 Lo spazio giuridico dell’intersoggettività, p. 506 4.2 Lo spazio dell’educazione e la missione dei dotti, p. 507 4.3 Compito e funzioni dello Stato, p. 509

5

Filosofia e religione: l’Io, l’Assoluto, Dio

3.1 Kantismo, spinozismo, Romanticismo, p. 544 3.2 La riflessione teologico-politica, p. 545

4 510

5.1 Il sapere e l’Assoluto, p. 510 5.2 La problematica teologico-religiosa, p. 511

27

Sintesi Bibliografia Esercizi

513 514 515

Friedrich Wilhelm Joseph Schelling

517

L’enigma della filosofia di Schelling Una vita alla continua ricerca del sistema L’Assoluto come Io puro

517 518 519

3.1 La filosofia trascendentale da Kant a Fichte, p. 519 3.2 La sintesi di dogmatismo e criticismo, p. 521

4

L’Assoluto come spirito e natura

5

7

9

La filosofia dello spirito

L’Assoluto come divenire

582 586 587

PERCORSI TEMATICI

531

L’Assoluto come il puro esistente

1

Nascita e sviluppi del soggetto moderno

T1

Niccolò Cusano • L’uomo è un dio umano e un microcosmo

8.2 La filosofia

Mitologia e rivelazione

536

Sintesi Bibliografia Esercizi

537 539 540

Georg Wilhelm Friedrich Hegel

La ragione come mondo Il filosofo accademico Le matrici del pensiero hegeliano

590

534

Le congetture, cap. XIV

T2

Il servo arbitrio

T3

541

T4

541 542 544

T5

593

Martin Lutero • La libertà dell’uomo non può nulla 594

René Descartes • Il cogito 595

Blaise Pascal • Il posto dell’uomo nell’Universo Pensieri, 84, 264-265, 268, 270, 306

1 2 3

569

6.2 La

Meditazioni sulla filosofia prima, II-III

28

566 567

L’Assoluto come identità di infinito e finito 529

8.1 Le Età del mondo, p. 534 positiva, p. 534

9

L’Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio La filosofia della natura

Sintesi Bibliografia Esercizi

7.1 Panteismo e libertà, p. 531 7.2 Esistenza e fondamento in Dio, p. 532 7.3 Il problema del male, p. 532

8

561

9.1 Lo spirito soggettivo, p. 569 9.2 Lo spirito oggettivo, p. 571 9.3 Lo spirito assoluto, p. 576

525

6.1 La filosofia dell’identità, p. 529 differenza tra finito e infinito, p. 530

7

La Scienza della logica

8.1 Natura meccanica, p. 567 8.2 Natura fisica, p. 568 8.3 Natura organica, p. 568

5.1 Il sistema della filosofia della natura, p. 525 5.2 Il sistema dell’idealismo trascendentale, p. 526 5.3 Dall’attività inconscia alla volontà libera, p. 527 5.4 L’opera d’arte, p. 528

6

551

6.1 Una logica dialettica, p. 561 6.2 La dottrina dell’essere, p. 563 6.3 La dottrina dell’essenza, p. 564 6.4 La dottrina del concetto, p. 565

522

L’Assoluto come sistema

La Fenomenologia dello spirito 5.1 L’idea e il compito della “fenomenologia”, p. 551 5.2 La coscienza, p. 554 5.3 L’autocoscienza, p. 555 5.4 La ragione, p. 557 5.5 Lo spirito, p. 558 5.6 La religione, p. 560 5.7 Il sapere assoluto, p. 560

8

4.1 L’Io come spirito, p. 522 4.2 La filosofia trascendentale della natura, p. 523

5

548

4.1 Dalla “riflessione” alla “speculazione”, p. 548 4.2 Eticità, diritto, politica, p. 550

6 1 2 3

Nello spazio dell’idealismo: verso il “sistema”

598

George Berkeley • L’essere della realtà e il soggetto percipiente Trattato sui princìpi della conoscenza umana, §§ 1-9

600

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Pagina XI

Indice del volume T6

David Hume • La mente dell’uomo come teatro delle rappresentazioni Trattato sulla natura umana, sez. VI

T7

2

637

T18 Bernardino Telesio • La natura secondo i suoi princìpi De rerum natura iuxta propria principia, Proemio; vol. II, IV, cap. XIX 604

Georg Wilhelm Friedrich Hegel • Il soggetto come spirito assoluto Fenomenologia dello spirito, Prefazione, 2-3

610

Bibliografia

612

Il concetto di ragione

613

640

T19 Giordano Bruno • L’Universo infinito e gli infiniti mondi De l’infinito Universo et mondi, 2-3 Dialogo I

Johann Gottlieb Fichte • L’interesse dell’uomo tra dogmatismo e idealismo Prima introduzione alla dottrina della scienza, 5, 7 608

T9

Il concetto di natura

602

Immanuel Kant • L’io, la conoscenza, il dovere morale Critica della ragion pura, cap. II, sez. II, «Deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto», § 16; Critica della ragion pratica, libro I, cap. III, «Dei moventi della ragion pura pratica»

T8

3

642

T20 Tommaso Campanella • La sensibilità universale e la magia naturale Del senso delle cose e della magia, libro I, capp. 1 e 2; libro IV, cap. 1

644

T21 Galileo Galilei • Il libro della natura e l’esperienza Il Saggiatore

647

T22 René Descartes • La favola del mondo meccanico Il Mondo, cap. 6

649

T23 Baruch de Spinoza • Dio, la natura, la sostanza T10

Discorso sul metodo, parte I; parte II

T11

616

Baruch de Spinoza • La conoscenza e l’amore di Dio Etica, parte II, scolio II della prop. XL; parte IV, capp. IV, V, IX, e parte V, propp. XXV, XXVII, XXXII, XXXVI, XXXVIII 618

T12 Gottfried Wilhelm Leibniz • La caratteristica universale Storia ed elogio della lingua caratteristica universale che sia al tempo stesso arte dello scoprire e del giudicare; Sulla scienza universale o calcolo filosofico. Sulla caratteristica, § 1; Discorso preliminare sulla conformità della fede con la ragione, Saggi di teodicea, §§ 1-2 621

T13

624

T14 John Locke • L’assenso razionale Saggio sull’intelletto umano, libro IV, cap. 17, §§ 1, 2, 3, 24

Critica della ragion pura, B 163-165; Critica del Giudizio, Introduzione

654

T25 Georg Wilhelm Friedrich Hegel • La natura come idea Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, vol. II, § 246; §§ 247-249

657

T26 Friedrich Wilhelm Joseph Schelling • Natura e spirito Idee per una filosofia della natura, Introduzione; Il rapporto del reale e dell’ideale nella natura 659

Bibliografia

662

626

T16 Immanuel Kant • Ai confini della ragione pura Critica della ragion pura, Prefazione alla 1a ed.; Critica della ragion pura, Prefazione alla 2a ed. 628

Georg Wilhelm Friedrich Hegel • La realtà della ragione Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, §§ 79-82, §§ 213-214; Filosofia dello spirito, §§ 418-419; Lineamenti di filosofia del diritto, Prefazione 632

Bibliografia

4

Scienza e conoscenza: il problema del metodo

663

625

Voltaire • Limiti e poteri della ragione Il filosofo ignorante, §§ 1, 3, 4, 9, 10, 56

T17

651

T24 Immanuel Kant • La natura tra meccanicismo e finalismo

Thomas Hobbes • La ragione come calcolo Leviatano, cap. V

T15

Etica, parte I, prop. XV, scolio; parte I, prop. XXIX, dimostr., scolio

René Descartes • Ragione, metodo e verità

636

T27 Francis Bacon • Il nuovo metodo della conoscenza Nuovo Organo, libro I, §§ 1-3, 18-19, 22, 24-26; libro I, §§ 38-44; libro II, § 36 666

T28 Galileo Galilei • La matematica come linguaggio della natura Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, Giornata prima 670

T29 René Descartes • Il metodo della certezza Discorso sul metodo, parte II

674

T30 Gottfried Wilhelm Leibniz • Fisica, metafisica e logica Lettera a Nicole Remond sul suo sistema; Monadologia, §§ 31-38

676

XI

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XII

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Pagina XII

Indice del volume T31

Isaac Newton • Il metodo analitico e la filosofia sperimentale Ottica, libro III, q.31; Princìpi matematici della filosofia naturale, libro III

679

T32 David Hume • Lo studio della natura umana e il sistema delle scienze Trattato sulla natura umana, vol. I, Introduzione

6

Morale e politica

720

Filosofia e religione

721

La religione cristiana, capp. I-II 683

Fondamento dell’intera dottrina della scienza, §1 687

5

Bibliografia

T46 Marsilio Ficino • L’affinità tra sapienza e religione

T34 Johann Gottlieb Fichte • Il primo principio assolutamente incondizionato

Bibliografia

719

681

T33 Immanuel Kant • La rivoluzione critica della conoscenza Critica della ragion pura, Prefazione alla 2a ed.; B 125-129

Lineamenti di filosofia del diritto, § 258; Zusätze (‘Aggiunte’), § 258

723

T47 Martin Lutero • Il libero arbitrio e la fede La libertà cristiana; Contro il Papato di Roma fondato dal diavolo; Servo arbitrio

690

T48 René Descartes • Dio, la ragione naturale, le verità eterne

691

Meditazioni sulla filosofia prima, Lettera dedicatoria ai teologi della Sorbona; Lettera a Mersenne, 6 maggio 1630; 27 maggio 1630

725

727

T49 Baruch de Spinoza • La differenza tra filosofia e religione Trattato teologico-politico, Prefazione; cap. 14 729

T35 Niccolò Machiavelli • Il realismo politico e la fede Il principe, cap. XV; cap. XVIII

694

Pensieri, 414-416, 438, 479-481

T36 Tommaso Campanella • La città come utopia Questione quarta sull’ottima repubblica, a. I

T51 696

T37 Ugo Grozio • Anche se Dio non ci fosse Del diritto di guerra e di pace, Prolegomeni

699

T38 Thomas Hobbes • Stato di natura e Stato politico Leviatano, cap. XIV; capp. XVII, XXI

701

T39 Baruch de Spinoza • Libertà e potere Trattato teologico-politico, cap. XVI; cap. XIX

704

T40 John Locke • Diritto naturale e proprietà Secondo trattato sul governo, cap. I; cap. IV, §§ 22-23; cap. XI, § 138

706

T41 Charles-Louis de Secondat de Montesquieu • La divisione dei poteri Lo spirito delle leggi, libro XI, capp. IV, VI

709

T42 Jean-Jacques Rousseau • L’uomo e il cittadino T43 Immanuel Kant • La pace della ragione 713

T44 Johann Gottlieb Fichte • La natura organicista dello Stato Fondamento del diritto naturale secondo i princìpi della dottrina della scienza, parte II, cap. 1, corollario; I discorsi alla nazione tedesca, cap. VIII

T45 Georg Wilhelm Friedrich Hegel • Lo Stato come “Dio reale”

731

Gotthold Ephraim Lessing • La religione come educazione Sulla genesi della religione rivelata; L’educazione del genere umano

733

T52 Immanuel Kant • La religione della ragione La religione entro i limiti della sola ragione, cap. 4

736

T53 Friedrich Heinrich Jacobi • Il salto mortale della fede La dottrina di Spinoza. Lettere al signor Moses Mendelssohn, Prefazione alla 3a ed.

738

T54 Friedrich Daniel Ernst Schleiermacher • La religione come rapporto dell’uomo con l’Universo Sulla religione. Discorsi alle persone colte che la disprezzano, II discorso

739

T55 Georg Wilhelm Friedrich Hegel • La filosofia come verità della religione

Emilio o dell’educazione, libro I, cap. II; Il contratto sociale, libro I, cap. VI; libro I, cap. VII 710 Per la pace perpetua, parte II, art. 1; parte II, art. 2; parte II, art. 3; Appendice, § 1

T50 Blaise Pascal • L’impotenza della ragione e la fede del cuore

717

Lezioni di filosofia della religione, parte I, Introduzione. Il concetto della religione; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, § 564

741

T56 Friedrich Wilhelm Joseph Schelling • La filosofia della rivelazione Introduzione filosofica alla filosofia della mitologia, lez. 24, lez. 11; Filosofia della rivelazione, lez. 9, lez. 24

743

Bibliografia

747

Indice dei nomi

749

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Pagina 1

parte I

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L’ALBA DELLA MODERNITÀ

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capitolo 1

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Dal Quattrocento al Cinquecento: rotture e continuità della tradizione

1 L’eredità medievale e la riscoperta dell’“io” “Umanesimo” e “Rinascimento” sono due categorie che non indicano semplicemente una corrente di pensiero o un insieme di dottrine filosofiche, ma soprattutto una condizione spirituale e insieme una tendenza culturale che si afferma tra gli intellettuali – letterati, artisti, filosofi, scienziati, politici – a partire dalla fine del XIV secolo. Tale tendenza informerà di sé le vicende filosofiche del Quattrocento e del Cinquecento, arrivando sino ai primi decenni del XVII secolo, in un arco temporale i cui estremi potrebbero essere individuati da un lato in Francesco Petrarca (1304-1374) e dall’altro in Tommaso Campanella [ 3.5]. Il punto fondamentale di cambiamento, in questa nuova posizione, sta nel fatto che gli uomini cominciano a concepire sé stessi non più a partire dal rapporto con qualcosa di più grande di sé – con quell’Alterità che per i medievali costituiva con evidenza l’origine e il destino dell’esistenza – bensì a partire semplicemente dalla propria natura di uomini. È vero che anche per i

rinascimentali la natura umana va sempre intesa come una natura creata, e cioè dipendente da Dio, ma questa verità è diventata nel frattempo quasi un presupposto ovvio. Il fatto che l’uomo sia una creatura significa soprattutto che egli è fornito di certe capacità o abilità che deve sviluppare con le sue proprie forze: l’uomo “è” essenzialmente ciò che è capace di essere, cioè di realizzare da sé stesso. Anche nell’Antichità greca e romana si era affermata una conoscenza di sé basata soltanto sulle capacità intellettuali e sulle virtù morali proprie della natura umana, e non è un caso che gli “umanisti”, dedicandosi allo studio delle humanae litterae – la grammatica, la retorica e la dialettica, rinnovate attraverso il recupero critico dei testi antichi – intendessero ritornare alla perfezione dell’uomo classico, visto come la giusta e perfetta misura di sé stesso. Ora però la situazione è diversa, e chi torna ad affermare l’humanitas come un ideale di autocompimento non è più l’uomo greco, ma l’uomo cristiano. Quest’ultimo aveva scoperto di essere libero – ossia di possedere un valore assoluto, non riducibile a nessun’altra cosa o circostanza – non più a motivo del censo, della posizione sociale o per il fatto di dedicarsi al lavoro intellettuale,

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Dal Quattrocento al Cinquecento: rotture e continuità della tradizione capitolo 1

I luoghi della cultura rinascimentale

come era nell’Antichità, ma solo per il fatto di essere voluto, nella sua singolarità, direttamente da Dio. La scoperta rinascimentale dell’uomo come “io”, dunque, non sarebbe possibile senza la tradizione cristiana nella quale è maturata: essa è perciò allo stesso tempo una riscoperta; ma è altrettanto vero che tale riscoperta nasce proprio nel momento in cui la coscienza di essere in rapporto con il creatore si è progressivamente indebolita – come se si trattasse di una vecchia dottrina a cui non corrisponde più un’esperienza reale. Per questo motivo, rispetto alla lunga discussione tra gli studiosi, se il Rinascimento costituisca una rottura con il Medioevo o vada inteso in continuità con quest’ultimo, si deve dire che esso rappresenta senza dubbio un momento di netta discontinuità con l’eredità medievale, ma che al tempo stesso questa frattura non sarebbe neanche pensabile al di fuori di quella tradizione. Anzi, si può dire che i rinascimentali non hanno affatto rigettato il contenuto di questa tradizione, ma hanno preteso di interpretarlo come qualcosa che si potesse produrre con le proprie forze, ispirandosi in questo alla saggezza dei filosofi antichi. Il singolo uomo d’ora innanzi tenterà di affermare sé stesso, cioè la sua individualità, attraverso la sua “riuscita” in una determinata abilità o in un particolare ambito della vita. Ma i singoli aspetti, intesi in questo modo, perdono il nesso con la totalità – vale a dire con il significato di tutto – e si frammentano in momenti autonomi e parziali. La concezione antropologica che si delinea è dunque tale che il singolo io non avverte più il compito di contribuire con la sua parte all’edificazione di un ideale comune e di un intero popolo, ma, al contrario, quello di

Londra Anversa Parigi

Norimberga Augusta Basilea

Lione

Mantova

Venezia

Ferrara

Urbino Firenze Roma

distaccarsi da ciò che è comune per emergere come “distinto” ed “eccelso”. In altri termini, la grandezza dell’uomo non nasce più dalla sua appartenenza a qualcosa di grande – e più grande anche di sé stesso –, ma dall’affermazione della propria grandezza in termini di riuscita. Nei secoli precedenti – pur attraverso contraddizioni e incoerenze – la dipendenza dell’uomo da Dio era stata concepita come il fondamento della libertà; ora invece essa si riferisce a una realtà ultraterrena sempre più lontana, a un’origine remota da cui gli uomini, vivendo, finiscono per distaccarsi, e a cui magari torneranno solo dopo questa vita mortale. Dio è il Signore del passato e del futuro; l’uomo il signore del presente. Se vuole affermare sé stesso l’uomo è costretto a staccarsi dal suo creatore, e quando si riferisce a Dio deve rinunciare a sé stesso. Non a caso la concezione moderna dell’io nasce già nella poesia di Petrarca: in essa emerge il sentimento di un animo che cerca nella propria interiorità quella verità da cui tutte le creature sembrano invece allontanarlo. Lo si capisce bene se si paragona l’esperienza poetica di Petrarca con quella di Dante e il loro rapporto con la donna amata: se per Dante Beatrice è il segno carnale della presenza di Dio e al tempo stesso la via e la compagnia terrena offertagli nel suo viaggio alla ricerca dell’ideale; per Petrarca Laura è invece un oggetto d’amore che distoglie il poeta dalla ricerca della verità, e quindi va rimosso o sublimato per seguire la strada che porta al cielo. Con una conseguenza di grande importanza: se la verità del mondo è relegata in un ordine celeste staccato dall’esperienza concreta della vita (in questo caso dall’innamoramento per Laura), anche la donna amata perderà di spessore e concretezza, non sarà più segno del vero, e diventerà un’immagine astratta, proprio in senso etimologico, cioè tirata via o separata dall’interezza dell’esperienza. Le due strade – quella della terra e quella verso il cielo – sono ormai divise tra loro: la condizione dell’io rinascimentale è così segnata intimamente da una frattura, come sospesa in un’insanabile contraddizione.



Il tuo fragile animo infatti, assediato dai fantasmi, oppresso da molti e diversi pensieri in continua lotta tra loro, non è in grado di decidere quale debba affrontare per primo, quale tener vivo, quale distruggere, quale respingere: […] e tu, privo di consiglio, sei travolto di qui e di là da

3

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parte I L’alba della modernità

Sandro Botticelli, La Primavera, 1478-80 [Uffizi, Firenze] I dipinti di Sandro Botticelli, anche grazie a un programma iconografico di alto significato umanistico, sono da sempre consi-

derati l’emblema della rinascita culturale del Quattrocento e Cinquecento italiano. Botticelli fece parte dello stuolo di artisti, architetti, poeti e letterati che prestarono servizio presso la corte di Lorenzo de’ Medici.

un’oscillazione incredibile senza essere mai, e in nessun luogo, tutto intero e tutto te stesso. [Petrarca, Secretum, I, 38]



N on si tratta di un semplice disorientamento psicologico o sentimentale, ma di una vera e propria concezione della verità, cioè del rapporto tra l’io e il reale:



Jan van Eyck, Uomo con turbante, 1433 [National Gallery, Londra]

Io sono un appassionato indagatore del vero; ma poiché esso non si lascia dominare dal pensiero, io assumo il dubbio stesso come verità. Così, quasi insensibilmente sono diventato accademico [cioè scettico] – non concedendo mai nulla a me stesso, e nulla mai affermando, ma dubitando di tutto tranne che di quello per cui ritengo sacrilego il dubbio. [Petrarca, Seniles, VI, 5]

Il fiammingo van Eyck raffigura in maniera perfetta il senso di dominio su di sé e sul mondo, e insieme la malinconica coscienza della caducità della vita, tipica dei nuovi ceti borghesi dell’Europa del XV secolo.

L’idea stessa di soggetto umano e di interiorità da ora in avanti sarà sinonimo di una divisione tra la realtà e il suo destino, tra le cose del mondo



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Dal Quattrocento al Cinquecento: rotture e continuità della tradizione capitolo 1

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e il loro significato ultimo, tra la vita e l’ideale. Si spiega così il motivo per cui l’uomo del Rinascimento cercherà, in molteplici maniere, di colmare da sé questa frattura, di sanare il dissidio con le sue forze, ma senza poter mai togliersi di dosso l’ombra di una contraddizione, visibile per esempio in una certa tristezza che sempre accompagna le raffigurazioni della bellezza o del potere: come quell’inspiegabile malinconia che segna diffusamente le magnifiche figure dipinte da Botticelli o l’inquietudine che rode intimamente i volti dei ricchi borghesi o dei potenti signori delle città ritratti da van Eyck. Ma un significato o una verità che non anima più dall’interno la vita dei singoli e della società – come invece era avvenuto, pur in forme diversissime e articolate, nella civiltà medievale – se in un primo momento lascia come un’ombra di rimpianto o una nostalgia dolente, non tarderà ad essere percepito come un peso, se non addirittura come un vincolo da cui liberarsi. A partire da questa situazione di profonda crisi esistenziale, la cultura dell’Umanesimo e l’idea stessa di un “rinascimento” mirano ad una restaurazione integrale della statura dell’uomo, finalmente liberato dai lacci della teologia ecclesiastica e della filosofia scolastica, e riportato alle sue autentiche sorgenti naturali, quali erano coltivate nella cultura classica. E da quest’ultima si eredita non solo l’idea che l’uomo è chiamato a realizzare imprese che gli assicurino fama e gloria, ma anche l’idea che il successo mondano è sempre esposto ai casi imperscrutabili della fortuna, contro la quale l’umanità resta ultimamente impotente. 1. Il periodo umanistico-rinascimentale è contrassegnato: a. da una nuova concezione dell’uomo come creatura la cui essenza coincide con ciò che è capace di realizzare da sé. V F b. dalla negazione del rapporto di dipendenza dell’uomo da Dio. V F c. dalla scoperta dell’uomo come “io”, maturata all’interno della tradizione cristiana. V F d. da una concezione antropologica per cui la grandezza dell’uomo è data dalla sua appartenenza al tutto. V F 2. La condizione dell’io nel Rinascimento: a. è segnata da una frattura fra il reale e l’ideale. b. è segnata da un disorientamento di natura psicologica e sentimentale. c. coincide con il sentimento di dipendenza dell’io da Dio come fondamento della libertà. d. coincide con il proprio rapporto con la totalità del reale.

2 Le tendenze fondamentali del pensiero rinascimentale Questo vero e proprio cambiamento epocale attraversa tutto il XV e il XVI secolo in una molteplicità di forme, a volte disparate, se non opposte tra loro, ma accomunate dal tentativo di cercare nuove risposte ai problemi dell’epoca e di pensarle nel segno forte di un rinnovamento o di una rinascita o di una riforma dell’antico. Tra i diversi fattori che concorrono a formare il quadro di questa svolta vanno ricordati: a. la diffusione, a partire dalla Firenze dei Medici, degli studia humanitatis e di un nuovo approccio filologico ai testi antichi (anche grazie a un intenso lavoro di traduzione) come possibilità di ricostruire un’immagine dell’uomo quale signore dell’Universo; b. la formazione di un nuovo ceto di intellettuali, spesso raccolti attorno ai più importanti centri del potere politico, che si concepiscono come un’élite o un’avanguardia illuminata rispetto ai seguaci della tradizione e al popolo incolto; c. un’intensa ripresa (in circoli e accademie non universitarie) del pensiero di Platone e dei neoplatonici, inteso come il vertice di un’antica sapienza di origine orientale, che passando dalla Grecia arriva a fecondarsi con il cristianesimo; d. l’esigenza di una riforma religiosa all’interno della Chiesa, nel senso di un ritorno alla radicalità evangelica dei primi cristiani, e di una riaffermazione del valore assoluto delle Sacre Scritture rispetto alla tradizione ecclesiastica, con il riaccendersi del dibattito sul rapporto tra la libertà umana e la grazia divina; e. una nuova interpretazione della natura in alternativa alla tradizione che si rifaceva alla fisica aristotelica dominante nelle Università: e questo sia sviluppando un’idea di natura come vita dotata di sensibilità e immanente a tutte le cose, sia attraverso un nuovo impulso alla misurazione del mondo celeste, che porterà lentamente ad uscire dal chiuso del cosmo geocentrico (in cui il centro è costituito appunto dalla Terra), verso l’idea di un Universo eliocentrico (con al centro il Sole) e addirittura infinito; f. una rinnovata attenzione alla filosofia di Aristotele, non solo all’interno della metafisica scolastica (soprattutto nella Penisola iberica e in Germania), nella quale vengono elaborati alcu-

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ni importanti concetti che verranno ripresi poi dai filosofi moderni [ 1.7]; ma anche all’esterno o contro la Scolastica, in un aristotelismo connotato piuttosto in senso laico e in alcuni casi anticristiano (soprattutto in Italia, e a Padova in particolare); g. una rifondazione del campo della politica nella sua autonomia rispetto a quello della morale, come espressione delle nuove istanze sociali e politiche legate alle repubbliche e alle signorie; h. una ridefinizione del campo del diritto naturale e internazionale in seguito alle nuove problematiche sorte con la scoperta dell’America (1492) dal rapporto degli europei – spagnoli e portoghesi e olandesi – con le popolazioni indie. Se si prendono in considerazione i contenuti filosofici dell’età rinascimentale, si può dire che durante il secolo XV predomina una riflessione intorno all’uomo (di tono prettamente “umanistico”), mentre il pensiero del XVI secolo è orientato soprattutto alle questioni di filosofia naturale. Tale distinzione, tuttavia, non è esatta: in realtà le due tematiche non solo si intrecciano cronologicamente, ma costituiscono i volti diversi – a volte coerenti, a volte dissonanti – di un continuum in cui motivi e prospettive differenti concorrono a costruire una nuova immagine dell’io e del mondo, e quindi un nuovo modo di fare filosofia. Per esempio, gli studia humanitatis non costituirono semplicemente la via filologica grazie alla quale si poté acquisire un nuovo senso critico rispetto alla teologia scolastica o alla tradizione dei commentatori di Aristotele; al contrario fu la rinascita di un nuova consapevolezza antropologica a determinare il rinnovamento degli studi umanistici, i quali furono intesi sin dall’inizio come lo strumento di una nuova posizione culturale e filosofica. Così come è indubbio che l’enfasi posta sulla natura come la sorgente di ogni capacità umana [ 1.1] si rispecchia nelle nuove concezioni della natura fisica, intesa come un organismo vivente, pervaso da una vera e propria capacità “spirituale”. Allo stesso modo, non si potrebbero separare le esigenze di una riforma religiosa dalle spinte verso una renovatio imperii (le spinte alla riforma degli ordinamenti politici, espresse in particolare da Carlo V) e dalla ridefinizione del potere politico degli Stati europei.

Per questo motivo, così come non è possibile comprendere il fenomeno rinascimentale senza tener conto delle sue radici medievali, analogamente si dovranno ritrovare nello stesso Rinascimento le radici di quella che chiamiamo l’età moderna, e che datiamo solitamente a partire dalla nuova concezione della scienza (Bacon ma soprattutto Galileo:  5) e dalla filosofia di Descartes [ 8]. Il Quattrocento e il Cinquecento, quindi, possono essere letti come un momento decisivo nella storia del pensiero occidentale, un lungo periodo di trapasso da un mondo ad un altro. Probabilmente l’immagine un po’ stereotipata degli uomini nuovi in lotta permanente con il vecchio, così come noi pensiamo in genere il Rinascimento, è in buona parte un’invenzione degli storici e dei filosofi del XVIII e del XIX secolo, preoccupati di indicare in quell’epoca il luminoso inizio del razionalismo moderno. È certamente vero che gli umanisti e i rinascimentali possedevano una spiccata sensibilità per ciò che costituiva un nuovo inizio: il pensiero doveva ricominciare dalle origini, ritornando alle sorgenti incontaminate della natura e della cultura, e sbarazzarsi delle vecchie interpretazioni coltivate nelle “scuole”. Ma al tempo stesso si deve dire, più realisticamente, che i novatores, ossia gli uomini del rinnovamento, erano profondamente radicati nel tessuto della filosofia e della teologia scolastica, ancora di netta impronta aristotelica. In questa tradizione essi hanno innestato – spesso al prezzo di rotture e di lacerazioni – tutta una serie di problematiche nuove e di esigenze diverse; e queste ultime a loro volta hanno costretto a ripensare e a riformulare in modo radicalmente differente le soluzioni antiche. Non è un caso, d’altronde, che l’intero pensiero umanistico e rinascimentale sia nato e sia stato fortemente influenzato dal “ritorno” dei filosofi antichi, e che grazie a questi ultimi si sia tentato di ripensare in maniera nuova l’eredità cristiana. 1. Tra le diverse tendenze del pensiero rinascimentale, la diffusione e il rinnovamento degli studia humanitatis: a. contribuirono a costituire l’idea di uomo come signore dell’Universo. V F b. si inscrivono già all’interno di una nuova consapevolezza antropologica. V F c. rappresentano semplicemente uno strumento tecnico di approccio alla filosofia tradizionale. V F d. si hanno a partire dalle città di Padova e Roma. V F

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3 Da Costantinopoli all’Italia: flussi e influssi della filosofia bizantina 3.1 Profeti e maghi orientali: Ermete, Zoroastro, Orfeo A chi abbia sempre pensato al Rinascimento come all’epoca della liberazione della ragione dalle sue dipendenze teologiche, potrà forse sembrare paradossale che ai suoi inizi stia la fascinazione esercitata dai miti di un’antica religione misterica proveniente dall’Oriente. In effetti, uno degli elementi distintivi della cultura umanistica rinascimentale è costituito dalla ricerca di quell’antica sapienza con la quale fosse possibile agli uomini mettersi in diretto rapporto con la divinità. Tutto ciò che si reputava antico, originario e remoto era dunque ritenuto più vicino alla verità divina e di conseguenza assumeva un’importanza decisiva. Ermete Trismegisto, Zoroastro e Orfeo sono ritenuti in quest’epoca – anche sulla base dell’autorità di alcuni Padri della Chiesa, tra cui Agostino, Lattanzio, Cipriano – i profeti pagani da cui scaturisce quell’ininterrotta tradizione sapienziale che giunge fino a Platone, e che da Platone discenderà fino a Cristo. Non sembri strana perciò la decisione di Cosimo de’ Medici – una volta giunto a Firenze, nel 1460, il manoscritto greco del Corpus hermeticum – di farlo tradurre, prima ancora delle stesse opere di Platone, da Marsilio Ficino [ 1.6.1]. E si tratta di un atteggiamento reverenziale che sarà fatto proprio dallo stesso Ficino. Ma quali sono i caratteri dottrinali di tali scritti? Iniziamo dal Corpus hermeticum. Dopo lunghe ricerche filologiche oggi sappiamo che l’insieme di questi scritti dev’essere datato tra il II e il III secolo d.C., e che quindi essi sono nettamente posteriori alla datazione stabilita dai rinascimentali. Al suo interno, il Corpus conserva tutta una serie di scritti e di frammenti, i più importanti dei quali sono i brani editi con il titolo di Pimander e il dialogo intitolato Asclepio. Questi scritti non sono così omogenei da poter essere attribuiti a uno stesso autore, anche se le dottrine che vi sono sostenute sono prevalentemente quelle della scuola pitagorico-platonica, mescolate ad elementi tipici della fisica aristotelica e della cosmologia stoica. Essi vengono fatti risalire direttamente a Ermete (Hermes), il dio con-

siderato “tre volte grande” (da cui l’appellativo Trismegisto) in quanto svolge la funzione di mediatore tra le cose divine e quelle umane. L’impronta comune degli scritti ermetici è quella di una gnosi esoterica: le verità della divina rivelazione costituiscono delle conoscenze a cui solo poche persone possono accedere. Essa riguarda, in senso neoplatonico, il modo in cui dal principio divino discende per necessaria gradazione tutta quanta la realtà. Al culmine di quest’ultima vi è dio, inconoscibile e ineffabile, luce e intelletto supremo, da cui discende il lògos, cioè il figlio primogenito. Ma dio ha anche un secondogenito, il demiurgo o “intelletto del mondo”. Da esso deriva l’uomo incorporeo che è immagine di dio, e infine l’intelletto che viene dato all’uomo corporeo perché possa accedere alle cose divine e occuparsi, mediante il suo corpo, di quelle materiali. La materia poi, considerata per sé stessa, costituisce la pienezza del male e tutte le realtà sensibili sono dominate dal fato. E se è vero che il lògos primogenito è in aperta opposizione al Verbo divino dei cristiani, agli occhi dei lettori rinascimentali esso appare come una profezia di Cristo; con la conseguenza però che la stessa figura di Cristo – e con essa l’immagine dell’uomo – viene riletta alla luce della rivelazione ermetica. Di qui deriva un certo sincretismo, tipico della religione degli umanisti, nella quale dottrine neoplatoniche e neopitagoriche si intrecciano con dottrine cristiane, e trapassano indistintamente l’una nell’altra. Tutta l’antropologia rinascimentale, sintetizzata nella dottrina dell’uomo come microcosmo, trova negli scritti ermetici una sua fonte diretta: «Pertanto, o Asclepio, l’uomo è un grande miracolo, un essere vivente da adorare e onorare» [Asclepio, cap. 3, 6]. L’essere umano viene collocato al centro del mondo, come “medio” tra i due opposti – Dio, il bene supremo, e la materia, il male assoluto – e per questo è creato con due nature, quella divina e quella umana. Con la prima l’uomo si avvicina a Dio mediante il suo intelletto, scrutandone il volere, adorandolo e onorandolo. Con la seconda natura, invece, l’uomo si avvicina alla materia, sia perché si prende cura delle cose, della Terra e degli animali, sia anche perché, tentato dal male, può allontanarsi da Dio. Accanto al Corpus hermeticum un ruolo importante nella ripresa rinascimentale dell’esoterismo antico è svolto dagli Oracoli caldaici che i fi-

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losofi rinascimentali, su indicazione di Giorgio Gemistio Pletone [ 1.3.2], attribuiscono a Zoroastro (un riformatore iranico del secolo VII-VI a.C.), ma che in realtà sono opera di Giuliano il Teurgo, un autore vissuto all’epoca dell’imperatore Marco Aurelio (II secolo d.C.). Qui il neoplatonismo e il pitagorismo si colorano di un aspetto decisamente magico-rituale: la rivelazione divina è intesa come una vera e propria teurgia (produzione o fabbricazione del divino), giacché conoscendo i nomi della divinità gli uomini ottengono la capacità di influire su di essa e di produrne molteplici incarnazioni. Infine, occorre accennare a un’ultima tradizione, l’orfismo, molto più antica rispetto a quelle relative agli scritti ermetici e agli Oracoli caldaici, sebbene parecchi dei documenti che ci sono pervenuti come orfici siano delle falsificazioni posteriori, anch’esse prodotte in età imperiale. Gli Inni orfici che i filosofi rinascimentali hanno conosciuto contengono certamente dottrine provenienti dall’orfismo originario, ma frammisti a filosofemi stoici e a dottrine appartenenti all’ambiente alessandrino. Per comprendere il modo in cui l’insieme di questi scritti furono accolti, si pensi che Ficino, all’inizio della sua edizione degli scritti platonici, tratteggia una genealogia del sapere in cui ad Ermete, nipote di Prometeo e nato negli stessi anni di Mosè, succede Orfeo, e a lui si ricollegano Pitagora e Platone in una successione cronologica che non ammette alcuna discontinuità [ 1.6.1]. 1. Il grande fascino esercitato da Ermete, Zoroastro e Orfeo sulla cultura rinascimentale risponde: a. all’esigenza di ricercare una sapienza originaria che mettesse l’uomo in rapporto con la divinità. V F b. all’esigenza di liberazione della ragione dalla teologia cristiana. V F c. al diffuso sincretismo del periodo considerato. V F d. alla convinzione che ciò che è più antico è più vicino alla verità divina. V F 2. Il Corpus hermeticum: a. è un insieme di scritti effettivamente composti in epoca precristiana. b. presenta elementi pitagorici, platonici, aristotelici e stoici. c. viene letto dai rinascimentali come uno scritto il cui contenuto anticipa le verità del cristianesimo. d. è stato presumibilmente scritto da un unico autore.

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3.2 La tradizione platonica bizantina Nel Quattrocento si assiste a una diffusa, intensa rinascita del platonismo, che segna in maniera profonda l’intero clima spirituale della filosofia e più in generale dell’intera cultura europea. Tale rinascita ha un’importanza straordinaria per la circolazione e la traduzione di testi sino ad allora non disponibili: dei dialoghi platonici, il Medioevo latino conosceva infatti solo il Menone, il Fedone e il Timeo, mentre ora essi vengono tutti quanti tradotti. D’altra parte quello che viene riscoperto a Firenze nel Quattrocento non è il Platone dell’Accademia ateniese del IV secolo a.C., ma il Platone studiato a Bisanzio, e già fortemente caratterizzato dalle interpretazioni neoplatoniche, come quelle di Plotino, Giamblico e Proclo. Si tratta di una tradizione interpretativa che da una parte risentiva delle antiche infiltrazioni magico-ermetiche provenienti dall’Oriente [ 1.3.1], e dall’altra offriva una potente mediazione concettuale alla teologia cristiana. Questa vera e propria invasione del platonismo nella filosofia rinascimentale, favorita inizialmente dal fatto che nei primi anni del Quattrocento diversi dotti bizantini erano stati invitati dagli umanisti italiani perché insegnassero loro la lingua greca, è legata peraltro anche ad alcuni eventi particolari. Ricordiamo per esempio il fatto che tra il 1438 e il 1439 papa Eugenio IV aveva indetto un concilio ecumenico a Ferrara e a Firenze, con l’intento di giungere a una conciliazione tra la Chiesa ortodossa e quella cattolica, e per questo motivo un nutrito gruppo di teologi e filosofi era giunto da Costantinopoli in Italia, assieme all’imperatore Giovanni VII Paleologo, portando con sé testi e commenti risultanti dalle discussioni tipiche della loro tradizione, come quella sul primato da accordare a Platone o Aristotele in riferimento alla teologia cristiana. E non si deve poi dimenticare che quando i Turchi conquistarono Costantinopoli, nel 1453, decretando così la fine dell’Impero romano d’Oriente, le scuole filosofiche bizantine si sciolsero diffondendosi in terra europea. Se questa migrazione intellettuale dall’Oriente greco verso l’Occidente latino ha costituito senza dubbio un canale privilegiato per la rinascita del platonismo, va detto però che se i bizantini hanno, per così dire, portato la fiaccola di questa antica tradizione dentro le nuove accademie ri-

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nascimentali, una volta penetrata all’interno di queste ultime, tale tradizione diventa presto un’altra cosa. Certamente il fenomeno più rilevante è stato il fatto che molti manoscritti della filosofia platonica e neoplatonica (oltre a Platone, soprattutto Plotino e Proclo), che nel Medioevo si ritenevano perduti, sono ora a disposizione dei filologi umanisti, che iniziano a tradurli dal greco in latino. Ma quanto più si traduce, tanto più ci si allontana dagli antichi custodi di quei testi e dalle discussioni interne alle loro scuole. N on è un caso che uno dei più importanti protagonisti della stagione umanistica, Marsilio Ficino [ 1.6.1], nel tracciare lo sviluppo del pensiero platonico, passerà dal neoplatonismo antico alla Scolastica medievale, araba e latina, trascurando quasi totalmente l’apporto della filosofia bizantina. Il motivo sta forse nel fatto che per questi filosofi bizantini la discussione era per la maggior parte incentrata su come la filosofia greca potesse conciliarsi con le esigenze della teologia cristiana, e per di più come essa potesse favorire o impedire la conciliazione tra l’ortodossia e il cattolicesimo. Tra i neoplatonici di stretta osservanza, per esempio, Giorgio Gemistio Pletone (1355-1452 ca.) riteneva che la filosofia di Platone salvaguardasse la trascendenza di Dio e l’immortalità dell’anima più di quella di Aristotele, la quale invece sarebbe rimasta condizionata troppo dal suo naturalismo (sebbene poi egli stesso ammettesse l’esistenza di divinità intermedie tra Dio e la natura, tipiche del paganesimo). Tra i bizantini vi furono tuttavia anche difensori di Aristotele, come Giorgio Scolario Gennadio (1405-1472 ca.) e Giorgio Trapezunzio (1395-1486), i quali sostenevano invece che l’aristotelismo meglio si accorda, come già aveva mostrato la Scolastica latina, con le dottrine cristiane, mentre il platonismo arriverebbe al massimo ad una demonologia pagana (cioè uno studio delle creature intermedie fra Dio e gli uomini). Giovanni Bessarione (1400 ca.-1472), infine, si era distinto per il suo tentativo di conciliare platonismo e aristotelismo creando con ciò le basi per l’unione tra la Chiesa greca e quella romana (un’unione che non ebbe modo di realizzarsi). Ma per comprendere la differenza di prospettiva dei rinascimentali latini basta ricordare il modo in cui umanisti come Marsilio Ficino e Pico della Mirandola [ 1.6.1-2] discutevano delle questioni essenziali veicolate dal platoni-

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smo – il rapporto tra materia e spirito, tra mondo e Dio, tra scienza e filosofia, ecc. – e soprattutto il modo nuovo e teoricamente impegnato con cui questa tradizione veniva reinterpretata da un autore come Cusano. 1. La rinascita del platonismo nell’età rinascimentale: a. si concretizza nell’opera di traduzione di tutti i dialoghi platonici. V b. è caratterizzata dalla riscoperta dell’autentico Platone. V c. è contrassegnata dalla riscoperta di un Platone contaminato dal neoplatonismo e dall’ermetismo. V d. si concretizza nella circolazione di tre dialoghi soltanto, ovvero il Menone, il Fedone e il Timeo. V 2. L’affermazione del platonismo nella filosofia rinascimentale fu favorita: a. dall’arrivo in Italia di dotti bizantini chiamati per insegnare il greco. b. dalla caduta di Costantinopoli ad opera dei Turchi nel 1453. c. dal concilio tenutosi a Ferrara e Firenze. d. dal diffondersi in Italia della discussione intorno al primato da accordare a Platone o Aristotele in relazione alla teologia cristiana.

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4 Niccolò Cusano Niccolò Cusano è una delle personalità più significative del Quattrocento, non solo come filosofo e teologo, ma anche come protagonista diretto delle vicende ecclesiastiche e politiche dell’epoca. Il suo vero nome era Niccolò Krebs, ma fu conosciuto come Cusano perché era nato a Cues, vicino Treviri, in Germania, nel 1401. Studiò ad Heidelberg, a Padova (dove si laureò in diritto) e a Colonia. Ordinato sacerdote, partecipò nel 1432 al concilio di Basilea, entrando attivamente nelle dispute sulla preminenza dei concilii rispetto al papa in tema di infallibilità (anche se alla fine divenne strenuo difensore del primato di Roma). Preparò inoltre la riconciliazione della Chiesa bizantina con quella cattolica, decisa nel 1439 dal concilio di Ferrara, recandosi in delegazione a Costantinopoli, da dove tornerà portando con sé numerosi codici greci, tra cui la Teologia platonica di Proclo, che fece tradurre e pubblicare a stampa (era amico personale di Gutenberg). Divenne cardinale nel 1448 e principe-

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vescovo di Bressanone nel 1450. Morì a Todi nel 1464. La sua vastissima produzione comprende opere a carattere politico-religioso, come La concordanza cattolica (1433) e La pace della fede (1453), opere scientifiche, come Gli esperimenti di statica (1449) e la Perfezione matematica (1458), e gli scritti propriamente filosofici, quali La dotta ignoranza (1440), Le congetture (1442), La caccia della sapienza (1463), Il non-aliud (1462).

4.1 La “dotta ignoranza” Il punto di partenza della filosofia di N iccolò Cusano sta nel riconoscimento che la natura propria del nostro intelletto consiste nella ricerca della verità:



Noi vediamo che in tutte le cose è insita una certa aspirazione naturale ad esistere nella maniera migliore consentita dalla natura di ciascuna di esse; e tutte agiscono a questo fine e hanno mezzi adatti per esso; ed è loro congiunta una certa capacità di giudizio conveniente allo scopo di conoscere la loro finalità […]. Perciò diciamo che un intelletto sano e libero conosce e abbraccia con amore quella verità che aspira insaziabilmente a raggiungere, quando indaga su ogni cosa con il procedimento discorsivo che gli è insito. E la verità più certa è, senza dubbio, quella da cui ogni mente sana non può dissentire. [La dotta ignoranza, libro I, I, 2]



Ma questa verità risulta sempre eccedente le capacità limitate della nostra mente, la quale, pur desiderandola, non riuscirà mai a contenerla totalmente in sé. Come sarà possibile a un intelletto finito raggiungere la verità infinita? Quale via o metodo essa dovrà percorrere a tal fine? Una cosa è chiara a Cusano, e cioè che la conoscenza non potrà mai annullare la differenza o sproporzione tra il finito e l’infinito. Questo, tuttavia, non lo porta all’atteggiamento scettico di chi dice che per l’uomo è impossibile conoscere con “precisione” la verità, bensì a dire che tale precisione può essere raggiunta solo in un procedimento all’infinito. Proprio perché «la proporzione perfetta tra il noto e l’ignoto» supera le nostre capacità, «Socrate riteneva di non conoscere altro, se non la propria

ignoranza» e Aristotele diceva che per conoscere le cose più evidenti in natura abbiamo la stessa difficoltà di una civetta che tenti di fissare il Sole. Ma allora,



perché non sia vano il nostro desiderio di conoscere, non potremo che desiderare di sapere di non sapere. E se potremo conseguirlo pienamente, avremo raggiunto ciò che possiamo chiamare una dotta ignoranza. [La dotta ignoranza, libro I, I, 4]



In Cusano il famoso principio socratico del “sapere di non sapere” non è visto soltanto come la messa in crisi di una nostra presunzione (come faceva Socrate nei confronti dei sofisti) o il semplice riconoscimento di una nostra inadeguatezza, ma come un vero e proprio metodo di conoscenza, cioè come un modo di entrare in rapporto con una verità che ci supera da tutte le parti. Nella conoscenza delle cose finite noi procediamo abitualmente mediante “similitudini” o “proporzioni” in senso matematico: a partire dai precisi rapporti che sussistono tra le cose note abbiamo la possibilità di stabilire rapporti, o proporzioni, con ciò che è ancora ignoto (come nella proporzione a : b = c : x). Ma quando ciò che noi ignoriamo non è solo un lato o un aspetto finito delle cose, ma è la loro stessa verità, cioè la loro natura infinita, non vi è alcuna proporzione tra i termini, ma solo infinita e continua sproporzione tra di essi:



Un intelletto finito, dunque, non può raggiungere con precisione la verità delle cose procedendo mediante similitudini. La verità non ha gradi, né in più né in meno, e consiste in qualcosa di indivisibile […]. Perciò l’intelletto, che non è la verità, non riesce mai a comprenderla in maniera tanto precisa da non poterla comprendere in modo più preciso, all’infinito; ed ha con la verità un rapporto simile a quello del poligono col circolo: il poligono inscritto, quanti più angoli avrà tanto più risulterà simile al circolo, ma non si renderà mai eguale ad esso, anche se moltiplicherà all’infinito i propri angoli, a meno che non si risolva in identità col circolo. [La dotta ignoranza, libro I, III, 10]



Tale cammino di approssimazione infinita all’infinita verità non potrà dunque mai compiersi nella mente umana, per la quale le cose

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restano inevitabilmente distinte tra loro, secondo il principio di non-contraddizione (vale a dire: una cosa non può essere allo stesso tempo sé stessa e altro da sé). Per potersi compiere, tale cammino deve raggiungere un principio di unificazione tale della realtà, da realizzare una vera e propria “coincidenza degli opposti”: ma questo può avvenire solo in Dio. L’esempio di coincidenza che Cusano stesso presenta è quello tra ciò che è massimamente grande (o “massimo”) e ciò che è massimamente piccolo (o “minimo”): essi si oppongono solo in relazione alla quantità di “grande” e “piccolo”, ma se si elimina tale relazione, parlando in assoluto, non rimane che la nozione di “massimo”. In questo modo le due grandezze opposte di massimo e minimo significheranno l’uno assoluto. Ma a questo proposito vale anche l’esempio delle figure geometriche: se pensiamo un cerchio che abbia un raggio infinito esso verrà a coincidere con il suo opposto, cioè con una linea retta, e ogni punto della circonferenza verrà a coincidere con il suo opposto, cioè con il centro della circonferenza, e lo stesso si potrà dire della coincidenza tra l’arco e la corda e così via. Della coincidenza degli opposti non potremo mai avere una conoscenza sensibile, perché mediante quest’ultima noi percepiamo soltanto un determinato grado “positivo” della realtà, mentre l’infinito comporta una conoscenza di tipo solo “negativo” (cioè ci dice ciò che non possiamo determinare). Allo stesso modo, non potremo neanche dimostrare tale coincidenza mediante la nostra ragione, perché quest’ultima è una facoltà discorsiva (che si regge cioè sul principio di noncontraddizione e passa da un concetto all’altro, senza poter cogliere insieme due concetti opposti). L’unica possibilità è quella di mostrarla non come oggetto di discorso, ma come oggetto di visione da parte dell’intelletto. Quest’ultimo viene dunque considerato da Cusano nettamente superiore rispetto alla ragione, giacché riesce a intuire

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l’infinito, cioè l’unità in cui tutti gli opposti coincidono. L’intuizione intellettuale, tuttavia, non annulla mai la trascendenza dell’infinito rispetto al finito, né trasforma la dotta ignoranza in un sapere compiuto, poiché ciò che essa vede rimane “incomprensibile” alla ragione. Ma l’intuizione intellettuale dell’infinito (o “sapienza”), intesa come il vertice della dotta ignoranza, non comporta affatto una svalutazione della conoscenza razionale del finito (o “scienza”). Al contrario, il metodo dell’approssimazione all’infinito si traduce, per quanto riguarda gli oggetti finiti, nella conoscenza “per congettura”, intendendo con questo termine quelle nozioni che, pur non esprimendo in maniera precisa la verità delle cose, tuttavia vi partecipano mediante dei simboli. La conoscenza congetturale più acuta è quella matematica, la quale ci fa «comprendere simbolicamente e conoscere incomprensibilmente mediante i numeri». Qui risiede il paradosso della conoscenza cusaniana: che si può conoscere per congettura qualcosa che non si riesce a comprendere per dimostrazione razionale. 1. Per Cusano la “dotta ignoranza”: a. coincide semplicemente con la necessità di mettere in crisi la presunzione umana. b. costituisce soltanto il riconoscimento dell’inadeguatezza delle facoltà conoscitive umane. c. è un vero e proprio metodo di conoscenza utile ad entrare in rapporto con la verità infinita. d. consente all’uomo di arrestare la sua ricerca nella conoscenza della verità infinita. 2. La “coincidenza degli opposti” in Cusano: a. rende possibile il cammino di approssimazione infinita alla verità infinita. b. è dimostrata e colta dall’intelletto umano. c. è intuita dalla ragione. d. si dà come intuizione intellettuale che non annulla la trascendenza dell’infinito rispetto al finito.

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4.2 Dio e l’Universo: complicazione, esplicazione, contrazione Il principio della coincidenza degli opposti porta Cusano a pensare Dio come l’essere infinito in atto, nel quale tutte le cose vengono a coincidere, e il mondo come la differenziazione dell’unità divina nella molteplicità delle cose finite. Per rimarcare i caratteri dell’unicità e

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dell’assolutezza propri di Dio rispetto al mondo, Cusano lo definisce come “Massimo assoluto” (riprendendo la celebre definizione di Anselmo d’Aosta, per il quale Dio è “ciò di cui non si può pensare niente di più grande”). Di qui si spiegano poi i tre princìpi costitutivi dell’essere di Dio: se nel mondo vige sempre la molteplicità delle cose, in Dio non può che esservi il principio del molteplice, vale a dire l’unità e l’indivisibilità; se nel mondo vi sono dappertutto diseguaglianze, in Dio dev’esserci uguaglianza; se nel mondo vi è continua disgregazione e divisione, in Dio risiede necessariamente la connessione di tutte le cose. Unità, uguaglianza e connessione appartengono alla stessa essenza di Dio, e quindi sono tutt’uno con Lui, mentre nel mondo esse si ritrovano depotenziate e diminuite. Anche l’Universo è infinito, come Dio, ma quest’ultimo è infinito “in modo negativo” (perché in Lui le differenze sono negate nell’unità), mentre l’Universo è infinito “in modo privativo” o “indefinito”, poiché la sua molteplicità è senza termine e non è mai interamente definibile. Se Dio è dunque unità infinita e l’Universo è infinita molteplicità, si dovrà spiegare il rapporto tra i due termini. Il problema è molto delicato, poiché affermare oltre all’infinità di Dio anche l’infinità dell’Universo potrebbe annullare la trascendenza di Dio rispetto al mondo (non è possibile infatti pensare due infiniti). Cusano risolve il problema servendosi di alcune nozioni tipiche del pensiero neoplatonico, ma al tempo stesso le ripensa all’interno della dottrina cristiana della creazione di tutte le cose da parte di Dio. Come l’unità numerica contiene in sé tutti i numeri, non in quanto determinati ma in quanto riferentisi tutti all’unità, così Dio, nell’unità del suo essere, è la “complicazione” di tutte le cose reali. Il termine com-plicatio significa che in Dio le cose sono “piegate” tutte quante “assieme”, ossia co-implicate, per cui si può anche dire che “tutte le cose sono in Dio”. L’Universo invece consiste in un’“esplicazione” della complicazione divina, e cioè in quel processo inverso con cui l’unità si dis-piega (ex-plicatio) come molteplicità. In questo senso, si può dire, secondo Cusano, che “Dio è in tutte le cose”. Noi non riusciamo a comprendere razionalmente in che modo l’essere-unità di Dio venga esplicato dalla molteplicità delle cose, e tuttavia sappia-

mo – mediante la dotta ignoranza – che le cose senza il Massimo assoluto sono nulla, com’è nulla il numero senza l’unità, mentre Dio sussiste indipendentemente dalle cose e dall’Universo nel suo insieme [ T1]. Di qui nasce la questione circa l’essere proprio dell’Universo, e più in particolare circa l’essere delle cose finite che compongono la molteplicità dell’Universo. Quest’ultimo, secondo Cusano, va pensato come un “Massimo contratto”: “massimo” perché ha in sé le stesse proprietà di Dio, vale a dire l’infinità e l’unità; “contratto” perché tali caratteri sono delimitati, determinati, concentrati in un tempo e in luogo particolari. Si ha così una vera e propria “contrazione” (contractio) dell’unità nella molteplicità e dell’infinità nella finitezza delle cose; ma questo non va inteso come una perdita del divino nelle cose del mondo, ma al contrario come la presenza – contratta, appunto – dell’infinito in ogni singolo finito e dell’unità in ogni singola parte. Cusano non segue in questo caso la teoria neoplatonica dell’emanazione, secondo cui le cose fluiscono per gradazione l’una dall’altra a partire dal principio dell’Uno, ma afferma che Dio crea simultaneamente ogni singola parte dell’Universo, facendo sì che il tutto non sia la semplice somma delle parti, ma sia la sostanza di ogni parte. In tal senso, si deve dire che “tutto è in tutto” e che «sebbene l’Universo non sia né Sole né Luna, è tuttavia Sole nel Sole e Luna nella Luna» [La dotta ignoranza, libro II, IV, 115]. Se è vero dunque che la totalità dell’Universo non può sussistere senza le singole parti che lo costituiscono, è anche vero che l’essere dell’Universo è tutto negli enti che lo costituiscono, pur nella diversità che li distingue tra loro.

1. Unità, uguaglianza e connessione appartengono per Cusano all’essenza di Dio perché: a. Dio è infinito in modo indefinito. b. in Dio vi è il principio del molteplice. c. in Dio vi è il principio dell’uguaglianza. d. Dio è definito come il “Massimo assoluto”. 2. Per Cusano: a. Dio è l’infinito in atto. b. solo Dio è infinito, l’Universo è finito. c. Dio è l’unità infinita. d. l’Universo è infinita molteplicità.

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4.3 Princìpi per una nuova cosmologia

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Il principio metafisico secondo cui nell’Universo tutto è in tutto, porta Cusano a ripensare in maniera radicalmente diversa l’immagine del mondo tramandata dalla fisica aristotelico-tolemaica. Pur senza alcuna verifica sperimentale, egli giunge su base puramente speculativa a intuire alcune tesi che saranno poi enunciate da Copernico e da Galilei – come quella per cui l’Universo non è finito ma infinito, e quella per cui il suo centro non coincide con la Terra ma con ogni punto dell’Universo intero. Nell’Universo non è mai possibile giungere al massimo e al minimo in modo perfetto, e cioè non si può mai trovare qualcosa che possieda delle proprietà in un grado assoluto, tale da non ammetterne uno maggiore o minore. E questo vale per ogni parte o elemento dell’Universo, il quale non va più diviso tra una sfera celeste e una terrestre (come nel cosmo aristotelico-tolemaico) proprio perché non è immaginabile il minimo assoluto del moto, e quindi neppure un centro immobile e fisso rispetto alle orbite celesti. Anche la Terra non è priva di moto; e come essa non è al centro perfetto del mondo, così la sfera celeste non è perfettamente la sua circonferenza. Anzi, considerato in assoluto – e cioè in Dio, l’infinito in cui tutti gli opposti vengono a coincidere – nessun luogo può essere considerato come il centro dell’Universo, e al tempo stesso il centro è in ogni luogo, in quanto l’Universo coincide all’infinito con la circonferenza. Analogamente, le orbite celesti non disegnano dei circoli perfetti attorno ad un centro fisso, ma ogni posizione nell’Universo è sempre relativa al punto di osservazione prescelto: sia noi, sia coloro che stanno agli antipodi rispetto a noi abbiamo i poli celesti allo zenith (cioè perpendicolari al punto in cui ci troviamo in quanto osservatori), e in qualunque parte dell’Universo stessimo ci sembrerebbe sempre di essere al centro.

1. La messa in discussione della fisica aristotelico-tolemaica da parte di Cusano nasce propriamente: a. dall’aver egli compiuto studi sperimentali di fisica. b. dal principio per cui tutte le cose sono in Dio. c. dal principio metafisico per cui tutto è in tutto. d. dal ricorso alla congettura.

5 Il ritorno di Epicuro: Lorenzo Valla N ella figura di Lorenzo Valla (Roma 1407-ivi 1457), che fu professore di retorica a Piacenza e Pavia e filosofo accreditato presso diverse corti italiane (soprattutto quella del re Alfonso d’Aragona a Napoli), si possono ritrovare alcuni dei motivi e delle tendenze tipiche dell’Umanesimo rinascimentale intrecciati in una sintesi singolare: la filologia come nuova posizione critica nei confronti della tradizione e come impegno “militante” nel presente; una ridefinizione in chiave naturalistica ed edonistica dell’antropologia; una critica affilata alla filosofia scolastica e alla teologia ecclesiastica in vista di una radicale riforma della religiosità cristiana. Alla base dell’intero pensiero di Valla si trova il costante richiamo al principio del “piacere” di origine epicurea. N ello scritto intitolato appunto Sul piacere (1431), che egli poi rielaborerà nel dialogo Sul vero e sul falso bene (14341441), Valla si impegna in una serrata confutazione dell’etica stoica – quale è descritta nell’opera La consolazione della filosofia di Boezio (VI secolo). Secondo quest’ultima, niente di ciò che accade nella vita, nemmeno i casi più avversi della sorte, può far perdere agli uomini la loro autentica felicità, cioè il possesso di un bene eterno, poiché esso coincide con la provvidenza che governa tutte le cose. N ei confronti dell’ascetismo stoico, che secondo Valla trapassa nel distacco dai beni mondani tipico del monachesimo medievale, bisogna riaffermare invece che la vita dell’uomo è mossa e orientata dalla ricerca e dalla fruizione del godimento, e che in quest’ultimo consiste la sua felicità. A ciò mirano tutte le attività e le conoscenze dell’uomo: l’arte come la scienza, la politica come la religione, vanno giudicate buone o cattive per l’utilità che rivestono in ordine al conseguimento del piacere. Da questo ideale non sfugge peraltro neanche il cristianesimo, il quale secondo Valla non invita a rinunciare ai piaceri terreni, se non per condurre a dei piaceri più elevati, quelli celesti – che pur essendo sopraterreni non sono tuttavia piaceri minori, anzi sono piaceri maggiori. In questo senso, la ricerca del piacere non si arresta al soddisfacimento fornito dalla natura, ma ha la possibilità di giungere al bene eterno, cioè a quel

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piacere divino (divina voluptas) di natura utraterrena, che coincide con la carità cristiana. Come succede anche in altri casi di ripresa dei filosofi antichi da parte degli umanisti, Valla fa irrompere il pensiero di Epicuro nell’orizzonte della Scolastica cristiana per scardinarla nei suoi elementi di fondo, e poi riformulare la visione cristiana in una direzione diversa, se non opposta alla tradizione dottrinale della Chiesa. Basti pensare che, per Valla, l’edonismo, cioè l’identificazione del bene con il piacere, porta a mettere radicalmente in questione non solo l’utilità della conoscenza filosofica (in particolare della filosofia aristotelica, alla quale – come afferma nelle Disputazioni dialettiche del 1439 – è da preferire senz’altro la grammatica e la retorica), ma anche l’utilità della conoscenza teologica, giacché il volere di Dio resta assoluto e imperscrutabile e deve essere seguito solamente per fede (cfr. lo scritto Sul libero arbitrio del 1439). Il che non mancò di fare apprezzare notevolmente Valla da parte di Lutero e di Calvino. A questo intento critico risponde peraltro anche l’importante lavoro di Valla come filologo, il cui risultato più noto è il Discorso sulla falsa e inventata donazione di Costantino (1440), che, grazie a un’attenta analisi filologica, stabilisce che il documento con cui si credeva che l’imperatore avesse donato alla Chiesa l’Impero romano d’Occidente, e su cui si basava il potere temporale dei papi, non era altro che un falso medievale. Più in generale, l’idea che sottende l’impegno filologico di Valla è quella di restaurare nella sua purezza originaria la lingua latina classica, imbarbarita nell’epoca medievale, ma nella quale sono ancora contenuti i significati fondamentali delle parole, vale a dire i loro legami o riferimenti alle cose. Il lavoro sulla lingua è l’arma più potente contro tutte le autorità stabilite per tradizione ma non più verificate nella loro legittimità: un’arma che Valla impiegherà nelle sue Annotazioni sul Nuovo Testamento (1449), avanzando il principio del libero esame critico-testuale delle Sacre Scritture, e attirandosi così una messa all’Indice da parte del concilio di Trento [ 2.5.1]. 1. Per Valla la felicità: a. consiste nell’adeguarsi dell’uomo alla provvidenza. b. implica un atteggiamento ascetico e la rinuncia ai beni mondani. c. poggia su un principio edonistico. d. consiste nell’imperturbabilità dell’uomo anche di fronte ai casi più avversi.

6 Il ritorno di Platone: l’Accademia platonica fiorentina 6.1 Marsilio Ficino e la nascita dell’Accademia platonica fiorentina Filosofo platonico e mago ermetico, grande umanista e straordinario traduttore, Marsilio Ficino (Figline Valdarno 1433-Firenze 1499) è in qualche modo l’emblema del Rinascimento italiano ed europeo. Alla sua opera si deve – anche grazie alla sponsorizzazione di Cosimo de’ Medici – l’inizio dell’Accademia platonica fiorentina, un formidabile centro di studi, traduzioni e relazioni intellettuali, oltre che di promozione politico-culturale, al cui interno troviamo alcune figure di primo piano nel panorama culturale del Quattrocento italiano, quali Egidio da Viterbo, Ludovico Lazzarelli, Angelo Poliziano e Pico della Mirandola. La grande impresa di traduzione e di interpretazione che vede impegnato Ficino per ben trent’anni, non solo ha permesso la fruizione di opere sino ad allora sconosciute all’Occidente latino, e che grazie a lui avranno un enorme successo editoriale, ma ha contribuito in maniera decisiva all’entrata del neoplatonismo nella cultura filosofica, non solo del suo tempo ma di tutta l’epoca moderna. Nel 1462 Ficino traduce insieme agli Inni orfici e ai Commenti di Zoroastro, tutti gli scritti del Corpus hermeticum [ 1.3.1], mentre nel 1463 inizia la traduzione delle opere di Platone che si concluderà quindici anni dopo, nel 1477. Infine, tra il 1484 e il 1492, porta a compimento le traduzioni delle opere di Plotino, Porfirio, Proclo e Dionigi Areopagita. Attraverso questo lavoro editoriale l’Accademia platonica e Ficino stesso, che ne costituisce l’anima, diviene un punto di riferimento ineludible e costante per gli umanisti dell’epoca. L’ideale di Ficino consiste fondamentalmente nel raggiungere una perfetta unificazione della filosofia platonica con la teologia cristiana: anzi, più che di un obiettivo da raggiungere, per lui si tratta di un’unità originaria da riportare finalmente in luce. A tal fine, occorre mostrare quella misteriosa genealogia della sapienza umano-divina che nasce per divina rivelazione nell’antico Egitto, passa attraverso Pitagora e Platone per giungere a Cristo, e, grazie alla mediazione dei filosofi neoplatonici, arriva ai Padri

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della Chiesa e a Dionigi, e da questi – evitando la Scolastica medievale, che paradossalmente finisce per essere una filosofia irreligiosa a motivo del suo aristotelismo – giunge sino alla rinascita quattrocentesca [ T46]. Se dunque già le dottrine orfiche, ermetiche e caldaiche [ 1.3.1] possono essere intese come una “prisca teologia” (l’‘antica teologia’), il pensiero platonico e la religione cristiana elaboreranno tale primigenia rivelazione in un corpus dottrinale organico, che Ficino chiama “pia philosophia” (una ‘filosofia religiosa’ o ‘devota’), e che intende portare a pieno compimento. L’origine e lo sviluppo della filosofia consistono infatti, secondo Ficino, in un’illuminazione della mente umana, dovuta a sua volta a una vera e propria rivelazione divina, la quale ha irradiato nel mondo – lungo tracce e percorsi diversi, non di rado nascosti e bisognosi di essere disvelati – la luce di un’unica verità. Da uomo della provvidenza, come egli stesso si definiva, e portatore di una speciale missione, Ficino è convinto che questa sua “docta religio” sia l’unica in grado di realizzare, dopo il Medioevo, una vera rinascita spirituale della propria epoca nel segno del platonismo, in tutti i campi del sapere e dell’azione dell’uomo: dalla filosofia alla teologia, dall’arte alla letteratura, dalla morale alla politica. Si trattava dunque di una rinascita che non coinvolgeva soltanto i filosofi e i teologi, ma anche i nuovi ceti emergenti nella città rinascimentale. Da un punto di vista dottrinale, Ficino concepisce neoplatonicamente l’essere della realtà come un tutto unitario scandito in diversi gradi di perfezione, che si possono percorrere in senso discendente e in senso ascendente. I gradi, vale a dire le articolazioni essenziali dell’essere, sono cinque: 1. Dio, il principio primo di tutto l’Universo; 2. la mente angelica, cioè gli esseri spirituali assolutamente privi di materia; 3. l’anima, che è un essere che partecipa sia dell’ordine spirituale che di quello corporeo; 4. la qualità, vale a dire le forme dei corpi; 5. il corpo materiale. I primi due gradi della realtà, cioè il mondo intelligibile, così come gli ultimi due, ossia il mondo sensibile, resterebbero assolutamente distanti e irrelati fra loro, se l’anima non ne costituisse il termine medio di congiunzione: essa infatti

vive, insieme, nell’eternità e nel tempo, partecipa del modello ideale e iperuranio e al tempo stesso della contingenza naturale e storica. In tal modo consente la comunicazione e l’unione tra questi due mondi perché ha in sé tutte le caratteristiche del mondo superiore e insieme ha la capacità di vivificare quello inferiore.



[L’anima] cerca di divenire ogni cosa come Dio è in tutto? Si, in modo mirabile, dal momento che l’anima vive la vita del vegetale, in quanto si cura del corpo nutrendolo, dell’animale, in quanto accetta l’esistenza dei sensi, dell’uomo, in quanto si occupa razionalmente delle cose umane, degli eroi, in quanto indaga il mondo naturale, dei dèmoni, in quanto studia le questioni naturali, degli angeli, in quanto ricerca i misteri divini, di Dio, in quanto compie ogni cosa per la grazia di Dio stesso. [Teologia platonica, libro XIV, cap. 3]



L’anima rappresenta quel principio semplice, incorporeo e immortale presente in tutto ciò che vive nell’Universo e che attraverso di sé lega tutte le cose tra loro in quanto le lega a Dio, della cui natura essa partecipa. Per questo l’anima è chiamata da Ficino «il centro della natura», «l’intermediaria di tutte le cose», «il nodo e la copula del mondo». Ma la sua dignità speciale si rende particolarmente evidente nell’anima umana; in quest’ultima, infatti, scopriamo che ciò che tiene unito tutto l’Universo, è l’amore: l’amore con cui Dio ha creato il mondo e l’amore che spinge il mondo e gli uomini a riunirsi con Dio. In senso prettamente platonico, l’amore è un movimento di ascesa ideale dell’anima, che all’inizio è mossa dalla bellezza dei corpi, poi delle anime e di qui arriva a contemplare la pura luce divina. Ciò che l’anima ama quando ama le cose non sono le cose stesse, ma la perfezione della loro idea, cioè la presenza di Dio in ciascuna di esse e la presenza di tutte le loro idee in Dio. In senso discendente, invece, l’amore di Dio per le creature è la carità rivelata dal cristianesimo, che si compenetra così con il movimento amoroso delle anime create. Connesso al tema dell’amore, è in Ficino quello della magia. L’universale armonia cui ogni organismo partecipa grazie alla mediazione dell’anima e in virtù dell’amore che connette tutte le cose tra loro, si traduce, a livello cosmologico, nell’idea che l’uomo possa arrivare a scoprire questi nessi

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segreti della natura e dominarli. Tutti gi esseri, infatti, sono pervasi da quello che Ficino chiama lo “spirito”, una sostanza materiale sottilissima che permette non solo la comunicazione tra di loro, ma anche tra essi e l’anima. Tale spirito è diffuso dappertutto, non solo negli esseri umani, ma anche nei corpi materiali e nel cielo, dove lo spirito è più tenue. Lo studio del suo influsso sulle vicende terrene, sui singoli materiali (pietre, metalli, ecc.) e sugli eventi astrali è il compito del filosofo-mago, che a questo fine si serve anche dell’astrologia, studio degli influssi degli astri sulle vicende degli uomini. Il mago, che è insieme medico e sacerdote, sfruttando le varie simpatie e gli influssi astrali opportunamente orientati, cerca così di conservare o di riportare in salute tutti gli organismi presenti nel mondo, in modo da poter far risplendere in maniera più radiosa la luce divina che abita l’Universo intero. 1. Per Marsilio Ficino scopo fondamentale della ricerca filosofica è mostrare: a. la differenza contenutistica fra prisca theologia e pia philosophia. V b. l’insufficienza della docta religio a realizzare la rinascita spirituale dell’epoca. V c. l’originaria unità fra le dottrine orfico-ermetiche-caldaiche, la filosofia platonica e il cristianesimo. V d. la continuità fra la prisca theologia e la pia philosophia. V

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2. Per Ficino l’unione fra mondo intelligibile e mondo sensibile avviene grazie: a. all’amore. b. all’anima. c. ai corpi. d. a Dio.

6.2 Pico della Mirandola e la Dignitas hominis A Marsilio Ficino va accostata la figura di Giovanni Pico della Mirandola (Mirandola 1463-Firenze 1494) il quale, dopo aver compiuto i suoi studi tra Bologna, Padova, Pavia e Parigi, si stabilirà a Firenze, entrando in contatto non solo con l’ambiente dell’Accademia platonica ma anche con il circolo umanistico legato a Girolamo Savonarola, la cui amicizia pagherà a caro prezzo, morendo avvelenato a soli 31 anni. L’apporto nuovo che Pico arreca al pensiero platonico fiorentino può essere sintetizzato secondo una triplice partizione: l’interesse per la

magia ebraica, denominata “cabala”; la dottrina della dignità dell’uomo; la posizione sincretistica tra platonismo e aristotelismo. Tornato da Parigi nel 1485, Pico decide di dar vita – sull’esempio dei dibattiti filosofici ascoltati alla Sorbona – a una grande disputa pubblica di filosofia e di teologia da tenersi a Roma. N ascono così le Conclusioni filosofiche, cabalistiche e teologiche (1486), consistenti in 900 tesi intorno all’uomo, alla natura e a Dio provenienti non solo dalla tradizione latina ma anche da quella ebraica e araba, e rielaborate dallo stesso Pico. Alcune di queste tesi vorranno mostrare la possibilità di una convergenza tra le differenti culture e religioni: ed è proprio l’intento di realizzare una pace filosofica universale il motivo di fondo che spinge il filosofo a organizzare e finanziare questo congresso che si sarebbe dovuto tenere dopo l’Epifania del 1487. Tuttavia, l’atteggiamento di Pico desta subito sospetti all’interno della Curia romana, soprattutto in riferimento ad alcune tesi sulla magia e per la sua posizione sincretistica in tema di religione, dovuta alla mescolanza di dottrine pagane e cristiane. La disputa viene così fermata prima che abbia luogo e vengono esaminate le tesi di partenza, tredici delle quali vengono dichiarate in odore di eresia. A tale dichiarazione Pico reagisce in maniera decisa scrivendo una sua Apologia, la quale però avrà come effetto la condanna totale delle sue tesi da parte della Curia. Imprigionato sulla via della fuga verso Parigi, Pico accetta l’invito di Lorenzo il Magnifico a tornare a Firenze per poter continuare tranquillamente i suoi studi. In questi anni gli interessi di Pico continuano a crescere: legge non solo i filosofi platonici, come Proclo e Giamblico, appena tradotti da Ficino, o la “prisca teologia” di Ermete Trismegisto o degli Oracoli caldaici, ma rilegge Avicenna, Averroè, Tommaso d’Aquino, Duns Scoto ed Enrico di Gand, soffermandosi poi, in modo particolare, sulla filosofia ebraica. Pico si dedicherà a lungo a queste letture, studiando soprattutto la cabala [ La cabala], un metodo interpretativo per l’esegesi dei testi biblici (svolta soprattutto nell’Heptaplus, il suo commento al libro della Genesi), con l’intento di dimostrare che le Sacre Scritture possono essere lette come una conferma della sapienza pitagorica e neoplatonica. Nell’intento di Pico le 900 tesi da lui elaborate e poi condannate dovevano essere introdotte da un’Orazione sulla dignità dell’uomo, un mani-

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festo programmatico che diverrà da subito famosissimo e rimarrà uno dei testi più fortunati dell’intero periodo rinascimentale. All’interno dell’Orazione, Pico, partendo da un’affermazione contenuta nel dialogo Asclepio [ 1.3.1] – «Grande miracolo, o Asclepio, è l’uomo» – esprime la sua concezione dell’uomo, collocato da Dio al centro della realtà perché possa, con la sua libertà, scegliere quale vita vivere, se quella degli esseri divini o quella dei bruti propria degli enti materiali. È Dio, poi, che infonde nell’uomo quei semi germinali che lo rendono capace – come un “camaleonte” – di trasformarsi in un essere angelico o in un essere bestiale, divenendo di fatto l’artefice e l’inventore di sé stesso, sia nel senso di una degenerazione sia nel senso di una rigenerazione. Immaginando un dialogo tra Dio e l’uomo appena creato, così Pico conclude il suo discorso:



Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché da te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine. [Orazione sulla dignità dell’uomo]



Nel 1490, su suggerimento di Lorenzo il Magnifico e di Angelo Poliziano, Pico compone il trattato L’ente e l’Uno, nel quale cerca una concordia

La cabala La cabala è una dottrina mistica elaborata nella Spagna del XIII secolo, legata alla teologia ebraica e presentata come speciale rivelazione di Dio attraverso la forza evocativa contenuta nei nomi. Tale dottrina esoterica si basava sulla teoria delle dieci sefirot, vale a dire dei dieci nomi di Dio, che alla fine vengono a formare un unico nome e che corrispondono alle dieci sfere da cui è composto l’Universo. Questi nomi sono ottenuti attraverso diverse composizioni delle ventidue lettere dell’alfabeto ebraico, ma per questo tramite si possono scoprire, attraverso tecniche particolari di tipo numerico, anche i nomi degli angeli che appartengono alle diverse sfere del mondo e che possono essere evocati e invocati come mediatori tra l’uomo e Dio.

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tra il pensierio di Aristotele e quello di Platone – cioè, appunto, tra l’“essere” e l’“Uno”, intesi come gli oggetti peculiari del pensiero dei due grandi filosofi greci – subordinando il primo al secondo, a motivo del fatto che per lui il momento dell’unità è prioritario rispetto a quello dell’alterità: se l’ente, infatti, esprime distinzione, determinazione, moltiplicazione e limite, l’Uno esprime invece un processo di unificazione della molteplicità e di superamento dell’alterità. Tutta l’argomentazione di Pico nasce dalla sua interpretazione del Parmenide di Platone, riguardo ai concetti di essere e non-essere. Il nome di “ente” va negato non solo a ciò che non è ed è nulla, ma anche a ciò che è da sé, tanto da costituire lo stesso essere in sé e per sé, partecipando al quale tutte le cose sono. Di Dio dunque, considerato come un “super ente”, non si può dire che cosa sia, ma solo in che modo Egli sia tutte le cose che è, e in che modo le cose siano a partire da Lui: Dio è pura esistenza in sé, da cui deriva l’esistenza di tutte le cose create. 1. L’interesse di Pico della Mirandola per la cabala è finalizzato: a. ad epurare la tradizione cabalistica da eventuali aggiunte non autentiche. b. a dimostrare che la Bibbia può essere letta come conferma della sapienza pitagorica e neoplatonica. c. a mostrare l’assoluta concordia fra platonismo e aristotelismo. d. a scoprire i nomi degli angeli da invocare come mediatori fra l’uomo e Dio. 2. Per Pico la “dignità” dell’uomo consiste: a. nell’essere stato collocato al vertice della realtà. b. nell’essere dotato della libertà di scegliere di innalzarsi o di abbassarsi nella scala delle creature. c. nell’essere una creatura determinata al meglio da Dio. d. nell’essere il libero artefice e inventore di sé stesso.

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7 L’aristotelismo rinascimentale Durante il periodo rinascimentale, la filosofia aristotelica non svolge, come erroneamente si può essere portati a credere, un ruolo di secondo piano. Di fronte al rinnovarsi degli studi platonici, l’aristotelismo – che continua ad avere un’influenza notevole soprattutto in ambito universi-

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tario – si caratterizza per delle trasformazioni dottrinali importanti. I centri accademici più prestigiosi in Europa, come le Università di Bologna, Padova e Parigi, indirizzano i propri studi prevalentemente su problematiche legate alla logica, alla gnoseologia e alla filosofia naturale. Il privilegio accordato alla Fisica e all’Òrganon (cioè alle opere di logica) rispetto alla Metafisica, la quale costituiva invece il testo-base della teologia scolastica, potrebbe far parlare dell’aristotelismo rinascimentale come di un aristotelismo di marca prevalentemente “empirista”. Questo naturalmente non impedì ai commentatori di Aristotele di avanzare delle precise tesi “metafisiche”. Inoltre, contemporaneamente alla rinascita di Aristotele nelle Facoltà delle Arti (così chiamate perché inizialmente destinate ad assicurare la formazione nelle cosiddette arti liberali: grammatica, dialettica, retorica, aritmetica, geometria, astronomia e musica), il filosofo antico continuava ad essere letto e commentato nelle Facoltà di Teologia, e nella seconda metà del Cinquecento, anche a seguito della fondazione dell’Ordine dei gesuiti, lo studio e il commento delle opere di Aristotele (a partire dalla Metafisica) ebbero un rinnovato impulso all’interno degli studi per il conseguimento degli ordini ecclesiastici. Si tratterà non solo di una ripetitiva esposizione scolastica, ma di una nuova sistematizzazione dell’intero pensiero aristotelico, che avrà importanti influssi sul pensiero moderno [ 6].

7.1 Il problema dell’anima in Pietro Pomponazzi L’esponente di maggior spicco, e il più discusso dell’aristotelismo rinascimentale, è Pietro Pomponazzi (Mantova 1462-Bologna 1525). Il tentativo di Pomponazzi è quello di ricostruire l’intero pensiero di Aristotele in base ai princìpi speculativi della Fisica, riprendendo dall’ambito più specificamente metafisico il solo principio di causalità. Questa posizione è ben evidente nell’opera che ha suscitato le maggiori polemiche in ambito filosofico, L’immortalità dell’anima, pubblicata nel 1516. Dipanando il groviglio delle varie soluzioni offerte dalle scuole aristoteliche e da quelle platoniche al problema della separabilità dell’anima dal corpo, Pomponazzi sostiene la totale impossibilità di dimostrare l’immortalità dell’anima da parte della filosofia.

Qualche anno prima, nel 1513, Papa Leone X aveva proclamato con la bolla Apostolici Regiminis il dogma dell’immortalità dell’anima, basandosi sostanzialmente sulle argomentazioni fornite da Tommaso d’Aquino e riprese nella tradizione aristotelico-scolastica. Pomponazzi ritiene invece che l’interpretazione data da Tommaso sia insostenibile proprio sulla base del testo originale di Aristotele, che giustificherebbe piuttosto l’interpretazione contraria: l’anima intellettiva è per essenza mortale, perché il pensiero consiste nell’elaborazione di un contenuto empirico e ha sempre bisogno del corpo come suo oggetto, sia nel senso che ciò che si conosce è sempre un corpo, sia nel senso che per esercitarsi il pensiero deve sempre appartenere ad un corpo. È quest’ultimo, infatti, che assicura la funzione intellettiva dell’anima, la quale altrimenti non avrebbe alcuna possibilità di agire e di pensare. Il fatto poi che l’anima non sia localizzabile in nessun organo corporeo garantisce solo una maggiore perfezione alle operazioni conoscitive degli uomini rispetto a quelle degli animali – dal momento che l’intelletto umano arriva a conoscere l’universale nel particolare – ma non costituisce affatto il segno di una differente struttura ontologica dell’uomo rispetto all’animale: entrambi naturali e pertanto entrambi mortali. Se dunque l’immortalità dell’anima sfugge inevitabilmente ad ogni dimostrazione razionale, essa potrà valere soltanto come un dogma di fede, il quale viene provato esclusivamente mediante la rivelazione e le Sacre Scritture, e proprio per questo non può pretendere un valore universale. Determinata in tal modo la posizione dell’uomo all’interno del reale, occorre illuminare il senso dell’esistenza umana in una prospettiva puramente terrena, il cui fine immanente è individuato da Pomponazzi nella virtù, cioè nella vita morale. Quest’ultima, tra l’altro, si giustificherebbe maggiormente attraverso la tesi della mortalità dell’anima, piuttosto che con quella della sua immortalità, perché chi è virtuoso in vista dei beni ultraterreni corrompe, in qualche modo, il valore della virtù in quanto tale, il cui scopo è già riposto al suo interno. Le conseguenze di questa posizione antropologica sono tratte da Pomponazzi in due opere, entrambe del 1520, il Libro degli incantesimi e quello su Il fato, il libero arbitrio e la predestinazione, nelle quali discute la questione dell’esistenza delle cause soprannaturali nella forma-

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zione dei fenomeni naturali. Per il filosofo aristotelico non ci sono dubbi: ogni fenomeno, ogni operazione, ogni ente naturale può essere spiegato a partire dalla causalità naturale. In natura, dunque, tutto sarebbe ordinato secondo leggi deterministicamente fissate e immutabili. Ma alla causalità naturale è anche ricondotta la stessa nozione di libero arbitrio. Riprendendo la nozione aristotelica di causa prima, Pomponazzi dimostra la necessità di pensare la natura come una struttura ordinata e necessaria, regolata da un continuo flusso di cause ed effetti. E, così, anche l’evento contingente non è l’indicazione di un certo tipo di fenomeni che possono accadere in un modo piuttosto che in un altro, ma semplicemente un limite gnoseologico dell’uomo: contingente è semplicemente un evento le cui cause ci sono sconosciute. Ogni atto volontario è, dunque, indirizzato da condizioni naturali esterne – note o ignote – che lo determinano: quando sono note è chiara quale sia la causa esterna che ha determinato l’azione, quando invece non sono note, pensiamo – a torto – che l’azione sia stata deliberata da noi senza il concorso di alcuna causa, ma ci sbagliamo perché una tale caratteristica è propria soltanto del primo ente, cioè di Dio. 1. Per Pomponazzi l’immortalità dell’anima è una tesi filosoficamente insostenibile perché: a. le argomentazioni di Tommaso d’Aquino ne dimostrerebbero la mortalità. b. non è supportata né dall’autorità di Tommaso né da quella di tutta la tradizione scolastica. c. l’anima non è localizzabile nell’uomo in nessun organo corporeo. d. l’anima intellettiva è legata sempre al corpo come suo oggetto, secondo l’insegnamento di Aristotele. 2. Per Pomponazzi i fenomeni naturali si spiegano: a. attraverso la causalità naturale stessa. b. attraverso il ricorso alle cause soprannaturali. c. attraverso la pura e semplice contingenza. d. attraverso l’intervento divino che opera in ogni istante.

7.2 Il metodo scientifico di Jacopo Zabarella Un caso particolarmente significativo dell’attenzione riservata dall’aristotelismo del Cinquecento – soprattutto nell’Università di Padova – ai metodi di indagine delle scienze naturali è rappresentato da Jacopo Zabarella (Padova 1533-ivi 1589). Il suo intento è quello di mettere a fuoco i procedimenti che portano all’effettiva conoscenza della natura fisica. Secondo Zabarella lo strumento

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fondamentale della scienza resta la logica aristotelica (importante il suo commento agli Analitici secondi di Aristotele), ma essa non va considerata come una scienza a sé, come ritenevano gli scolastici, bensì va utilizzata per l’elaborazione di un vero e proprio metodo. Il fine di quest’ultimo sarà quello di stabilire, in maniera certa e verificata, il nesso tra i dati dell’esperienza fisica e le loro cause. A questo riguardo sono importanti soprattutto due opere di Zabarella, Sul metodo e Sul regresso (comprese nell’Opera logica del 1578). Il processo del metodo è distinto in due fasi – il metodo compositivo e quello risolutivo – che occorre combinare tra loro in un unico procedimento che Zabarella chiama regressus. Il metodo compositivo (o sintetico) parte dai princìpi e da essi poi procede alla conoscenza delle cose; il metodo risolutivo (o analitico) parte invece dal dato, e da esso procede alla considerazione dei princìpi che lo rendono possibile. Considerato in questo duplice movimento, il metodo del regresso consiste allora nel risalire dai fenomeni osservati ai princìpi in base ai quali essi possono essere spiegati e poi nel ridiscendere da tali princìpi, considerati come cause, agli effetti che essi producono. Si ha conoscenza scientifica quando gli effetti cui si giunge alla fine coincidono con i dati osservati all’inizio. In altri termini, la teoria elaborata nel primo momento è certa solo se verificata e confermata nel secondo momento. Un ruolo fondamentale è svolto poi, secondo Zabarella, da una fase intermedia tra questi due momenti, nella quale vengono elaborate le ipotesi teoriche che appaiono più adeguate ai dati osservativi che devono spiegare. Forse sarebbe azzardato ritenere che tale procedimento si configuri già come una moderna teoria della “scoperta scientifica”; è certo però che questo uso della logica aristotelica avrà una qualche incidenza sul modo in cui di lì a poco Galilei [ 5.9-13] – non a caso sempre nell’Università di Padova – elaborerà il suo nuovo metodo. 1. Per Zabarella il metodo del regresso consiste: a. nel risalire dai fenomeni osservati ai loro princìpi esplicativi e nel ridiscendere dai princìpi agli effetti. b. nella combinazione del metodo compositivo con quello risolutivo. c. nel partire unicamente dai princìpi per giungere alla spiegazione dei fenomeni. d. nell’elaborazione di ipotesi teoriche adeguate ai dati osservati.

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8 Il ritorno dello scetticismo: Michel de Montaigne La diffusione dello scetticismo in epoca rinascimentale – analogamente alla ripresa di altre tradizioni di pensiero – è dovuta al fatto che, a partire dalla prima metà del Quattrocento, vengono tradotti o ritradotti in latino alcuni testi che avranno una grande fortuna in tutta Europa, come i Lineamenti pirroniani di Sesto Empirico (vissuto tra il II e il III secolo, esponente di spicco della corrente che si rifaceva allo scetticismo antico) o le Vite dei filosofi di Diogene Laerzio, il cui penultimo libro è dedicato alle dottrine scettiche di Pirrone (IV secolo a.C.). Ma un ruolo importante è svolto anche dalla ripresa di interesse per lo scetticismo dell’Accademia, in particolare per Cicerone. Accanto a questa motivazione filologica e testuale, tuttavia, bisogna osservare che lo scetticismo si prestava bene ad esprimere alcuni motivi caratteristici della concezione rinascimentale dell’uomo e della vita, e difatti esso fu interpretato dagli autori di quest’epoca in un modo e secondo un tono che non era più antico, ma già tutto moderno. Esempi significativi di questa ripresa e di questa riappropriazione dello scetticismo sono, in Italia, gli scritti di Gianfrancesco Pico della Mirandola (1469-1533) – nipote di Giovanni Pico della Mirandola –, in Spagna, quelli di Francisco Sánchez (1551-1623) e, soprattutto, in Francia, la riflessione di Michel de Montaigne (Montaigne 1533-1592). È in quest’ultimo che ritroviamo il più compiuto tentativo di sintesi tra scetticismo antico e mentalità umanistica, e in particolare lo stretto quanto sorprendente intreccio tra filosofia scettica e fede cristiana. Montaigne, umanista e studioso in “privato” e in pubblico magistrato e amministratore (fu per due volte sindaco di Bordeaux), divenne famoso in tutta Europa come l’autore dei Saggi (apparsi nel 1580, e in una seconda edizione rielaborata nel 1588). Dalla lettura di Sesto Empirico e di Cicerone, Montaigne matura una posizione di profondo scetticismo nei confronti delle capacità della ragione umana, che lo porta a sospendere il giudizio e l’assenso di fronte a ogni conoscenza che venga presentata come certa e assoluta, e ad affidarsi, a livello morale,

ad una fede individuale e privata (senza cioè ragioni che la fondino). Con la conseguenza che anche di fronte agli eventi controversi e spesso drammatici della vita e della storia (come le guerre di religione tra protestanti e cattolici), il miglior atteggiamento scettico è quello di seguire i costumi e le norme vigenti, proprio per l’impossibilità di stabilirne altri che risultino più “veri”. Lo scetticismo sfocia così in una sorta di conformismo pubblico, mentre in privato esso diviene per Montaigne del tutto compatibile con il fideismo (cioè una credenza che non ha motivazioni razionali ma solo sentimentali): contro le pretese della conoscenza razionale e della verità certa, ai suoi occhi il fideismo non si presenta più come un avversario dello scetticismo, bensì come il suo più fedele alleato. Montaigne arriverà anzi a sostenere che la posizione dello scettico è più vicina al cristianesimo di quanto non lo sia quella del razionalista, poiché mostrerebbe la vera natura dell’uomo, la sua costitutiva debolezza e, al tempo stesso, la sua libertà da ogni condizionamento – primo tra tutti quello della ragione –, fino all’intima disponibilità a ricevere l’insegnamento della rivelazione cristiana. Ma si tratta appunto solo di un “insegnamento”, non di una verità, poiché la fede non ha nulla a che fare con un atto conoscitivo. Alla domanda che cosa so? (que sais-je?), che Montaigne proponeva di formulare rispetto ad ogni sapere come permanente interrogativo scettico, si può rispondere solo rinunciando alla ricerca di una verità immutabile e universale, e quindi affidando la risposta ultima esclusivamente ad una fede che non dà risposte. Questo atteggiamento porta Montaigne a ritenere non solo che ogni verità raggiunta dalla nostra conoscenza è sempre contingente e dubitabile, ma anche che all’uomo fondamentalmente non importa – nel senso che non è interessante per la sua vita – che vi sia qualcosa di vero.



Il cielo e le stelle hanno ruotato per tremila anni; tutti avevano creduto così, fino a che Cleante di Samo o, secondo Teofrasto, Niceta di Siracusa, pensarono di sostenere che era la Terra che si muoveva nel cerchio obliquo dello zodiaco, girando attorno al suo asse; e al nostro tempo, Copernico ha così ben stabilito questa dottri-

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na che se ne avvale con perfetta esattezza per tutte le deduzioni astronomiche. Che cosa concluderemo da questo, se non che non deve importarci quale delle due opinioni sia vera? E chi sa che una terza opinione, di qui a mille anni, non rovesci le due precedenti? [Saggi, libro II, cap. 12]



SINTESI CAPITOLO 1

L’unica verità che possiamo conoscere si delinea in quello che Montaigne chiama “il ritratto di me stesso” o l’“autoritratto”, in cui l’uomo appare finalmente per quello che è: «Noi siamo fatti tutti di pezzetti, e di una tessitura così informe e bizzarra che ogni pezzo, ogni momento, va per conto suo. E c’è altrettanta differenza fra noi e noi stessi che fra noi e gli altri» [Saggi, libro II, cap. 1].

L’eredità medievale e la riscoperta dell’“io”. Le categorie di “Umanesimo” e “Rinascimento” indicano una condizione spirituale e una tendenza culturale che si affermano tra gli intellettuali dalla fine del XIV secolo sino ai primi decenni del XVII secolo. Il cambiamento sta nel fatto che gli uomini cominciano a concepire sé stessi non più a partire dal rapporto con qualcosa di più grande di sé, bensì a partire dalla propria natura di uomini. Per i rinascimentali il fatto che l’uomo sia una creatura significa che egli è fornito di certe capacità o abilità che deve sviluppare con le sue proprie forze. Lo studio delle humanae litterae costituisce la cornice dentro la quale torna ad affacciarsi l’ideale della perfezione e dell’autocompimento dell’uomo. La scoperta rinascimentale dell’uomo come “io” matura all’interno della tradizione cristiana, nel momento in cui però la coscienza di essere in rapporto con il creatore si è progressivamente indebolita. Ne consegue una concezione antropologica per la quale la grandezza dell’uomo nasce dall’affermazione della propria riuscita personale, in termini di distacco da ciò che è comune. La condizione dell’io rinascimentale è segnata da una frattura: quella fra la realtà e il suo destino, tra le cose del mondo e il loro significato ultimo, tra la vita e l’ideale. L’uomo del Rinascimento cercherà di colmare da sé questa frattura attraverso una restaurazione integrale della propria statura, finalmente li-

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Non solo dei fenomeni della natura e della storia, ma anche di noi stessi non ci è dato conoscere l’essenza, ma solo l’apparenza che fluisce. O, per meglio dire, nel caso dell’uomo, l’essenza è proprio questo continuo fluire di cui possiamo solo descrivere le abitudini e i costumi, sotto i quali permane – nascosta come un mistero oscuro – la nostra inconsistenza. 1. Per Montaigne la fede cristiana: a. è guadagnata più attraverso lo scetticismo che il razionalismo. b. è il punto di arrivo della ricerca conoscitiva umana. c. è un fatto privato e sentimentale. d. non è compatibile con lo scetticismo.

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berato dai lacci della teologia ecclesiastica e della filosofia scolastica e riportato alle sue autentiche sorgenti naturali, coltivate nella cultura classica.

modo di fare filosofia. Gli studi umanistici furono intesi come lo strumento per affermare questa nuova posizione culturale e filosofica.

Le tendenze fondamentali del pensiero rinascimentale. Il XV e il XVI secolo risultano accomunati dal tentativo di cercare nuove risposte ai problemi dell’epoca nel segno di una rinascita o di una riforma dell’antico. I fattori che concorrono a definire questa svolta furono: 1. la diffusione, a Firenze, degli studia humanitatis e di un nuovo approccio filologico ai testi antichi; 2. la formazione di un nuovo ceto di intellettuali, raccolti attorno ai più importanti centri del potere politico; 3. la ripresa del pensiero di Platone e dei neoplatonici; 4. l’esigenza di una riforma religiosa concepita come un ritorno alla radicalità evangelica dei primi cristiani; 5. una nuova interpretazione della natura come vita dotata di sensibilità e immanente a tutte le cose, e un nuovo impulso alla misurazione del mondo celeste, che porterà dal chiuso cosmo geocentrico verso un Universo eliocentrico e infinito; 6. una rinnovata attenzione alla filosofia di Aristotele; 7. una rifondazione del campo della politica; 8. una ridefinizione del campo del diritto naturale e internazionale. La riflessione intorno all’uomo, che predomina nel XV secolo, e le questioni di filosofia naturale, che predominano nel XVI secolo, concorrono a costruire una nuova immagine dell’io e del mondo, e quindi un nuovo

Da Costantinopoli all’Italia: flussi e influssi della filosofia bizantina. Un elemento distintivo della cultura umanistico-rinascimentale è costituito dalla ricerca dell’antica sapienza: Ermete Trismegisto, Zoroastro e Orfeo sono ritenuti in quest’epoca i profeti pagani da cui scaturisce una ininterrotta tradizione sapienziale che giunge fino a Platone e che, da questo, discenderà fino a Cristo. La dottrina rinascimentale dell’uomo come microcosmo trova nel Corpus hermeticum, tradotto da Marsilio Ficino, una sua fonte diretta: l’essere umano viene collocato al centro del mondo, come “medio” tra i due opposti, Dio e la materia, e per questo è creato con due nature, quella divina e quella umana. Un ruolo importante nella ripresa rinascimentale dell’esoterismo antico è svolto dagli Oracoli caldaici attribuiti a Zoroastro, vissuto nel secolo VII-VI a.C., ma in realtà opera di Giuliano il Teurgo, vissuto nel II secolo d.C. Qui il neoplatonismo e il pitagorismo si colorano di tinte magico-rituali, dove la rivelazione divina è intesa come una vera e propria teurgia. Infine, gli Inni orfici che i filosofi rinascimentali hanno conosciuto, contengono dottrine provenienti dall’orfismo originario ma frammisti a filosofemi stoici e a dottrine appartenenti all’ambiente alessandrino.

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parte I L’alba della modernità N el Quattrocento la rinascita del platonismo ha favorito la circolazione e la traduzione di tutti i dialoghi platonici; tuttavia, viene riscoperto non il Platone originario, ma quello coltivato nei secoli precedenti a Bisanzio, fortemente caratterizzato dalle interpretazioni neoplatoniche. Inoltre, tale rinascita fu favorita sia dall’arrivo in Italia di dotti bizantini, invitati dagli umanisti italiani per insegnare loro il greco, sia dalla convocazione, tra il 1438 e il 1439, del concilio ecumenico a Ferrara e a Firenze, sia dalla caduta di Costantinopoli, nel 1453. Tuttavia, gli scritti platonici furono accolti in una differente prospettiva dai rinascimentali latini rispetto alla tradizione bizantina. Niccolò Cusano. Niccolò Cusano (1401-1464) è una delle personalità più significative del Quattrocento. Il punto di partenza della sua filosofia sta nel riconoscere che la natura del nostro intelletto consiste nella ricerca della verità, ma che questa eccede le capacità limitate della nostra mente. Per Cusano, infatti, la conoscenza non potrà mai annullare la differenza o sproporzione tra il finito e l’infinito: all’uomo è impossibile conoscere con “precisione” la verità; tale precisione può essere raggiunta solo mediante un procedimento all’infinito. Pertanto un modo di entrare in rapporto con la verità infinita è costituito dalla dotta ignoranza. Il cammino di approssimazione all’infinita verità deve raggiungere il principio della coincidenza degli opposti, che può essere oggetto di visione solo da parte dell’intelletto. L’intuizione intellettuale, tuttavia, non annulla la trascendenza dell’infinito rispetto al finito, né trasforma la dotta ignoranza in un sapere compiuto. Il principio della coincidenza degli opposti porta Cusano a pensare Dio come l’essere infinito in atto, nel quale tutte le cose vengono a coincidere, e il mondo come la differenziazione dell’unità divina nella molteplicità delle cose finite. I tre princìpi costitutivi dell’essere di Dio, Massimo assoluto, sono unità, uguaglianza e connessione, mentre l’Universo è infinito “in modo privativo” o “indefinito”, in quanto infinita molteplicità. Per spiegare il rapporto fra i due termini, Cusano utilizza alcune nozioni del pensiero neoplatonico: Dio, nel-

l’unità del suo essere, è la “complicazione” di tutte le cose reali; l’Universo consiste in un’“esplicazione” della complicazione divina; l’essere delle cose finite si spiega con il concetto della “contrazione”. Pertanto Dio è “tutto è in tutto”. Quest’ultimo principio porta Cusano a superare l’immagine del mondo tramandata dalla fisica aristotelico-tolemaica e ad intuire alcune tesi che saranno poi enunciate da Copernico e da Galilei. Il ritorno di Epicuro: Lorenzo Valla. Nella figura di Lorenzo Valla (1407-1457) si intrecciano diversi motivi: la ridefinizione in chiave naturalistica ed edonistica dell’antropologia; la filologia come strumento di critica della tradizione; la critica alla filosofia scolastica e alla teologia ecclesiastica in vista della riforma della religiosità cristiana. Il pensiero di Valla è caratterizzato dal richiamo al principio epicureo del “piacere”, con cui egli confuta l’etica stoica e reinterpreta il cristianesimo stesso, riformulando la visione cristiana in una direzione diversa rispetto alla tradizione dottrinale della Chiesa. Per quanto concerne la filologia, l’intento di Valla è quello di restaurare nella sua purezza originaria la lingua latina classica, imbarbaritasi nell’epoca medievale. Il lavoro sulla lingua è l’arma più potente contro tutte le autorità stabilite per tradizione. Il ritorno di Platone: l’Accademia platonica fiorentina. Marsilio Ficino (1433-1499) è l’emblema del Rinascimento italiano ed europeo. Alla sua opera si deve l’inizio dell’Accademia Platonica fiorentina, un centro di studi, traduzioni e relazioni intellettuali. La grande impresa di traduzione compiuta da Ficino ha permesso la fruizione di opere sino ad allora sconosciute all’Occidente latino e ha contribuito alla diffusione del neoplatonismo nella cultura filosofica dell’epoca moderna. Egli ha tradotto gli Inni orfici, i Commenti di Zoroastro, il Corpus hermeticum, i dialoghi di Platone, le opere di Plotino, Porfirio, Proclo e Dionigi Areopagita. L’ideale di Ficino consiste nel raggiungere l’unificazione della filosofia platonica con la teologia cristia-

na per mettere in luce l’unità originaria e la genealogia della sapienza umano-divina che nasce per divina rivelazione nell’antico Egitto, passa attraverso Pitagora e Platone per giungere a Cristo, e, tramite la mediazione dei filosofi neoplatonici, arriva ai Padri della Chiesa e a Dionigi, e, da questi, giunge sino alla rinascita quattrocentesca. Ficino concepisce l’essere della realtà come un tutto unitario scandito in cinque gradi di perfezione, che si possono percorrere in senso discendente e in senso ascendente: 1. Dio, il principio primo di tutto l’Universo; 2. la mente angelica, cioè gli esseri spirituali assolutamente privi di materia; 3. l’anima, che è un essere che partecipa sia dell’ordine spirituale che di quello corporeo; 4. la qualità, vale a dire le forme dei corpi; 5. il corpo materiale. L’anima costituisce il termine medio di congiunzione tra mondo intelligibile e mondo sensibile; essa consente la comunicazione e l’unione tra questi due mondi, ed è per questo chiamata “il centro della natura”, o “il nodo e la copula del mondo”. L’amore e la magia concorrono all’armonia universale. Pico della Mirandola (1463-1494) contribuisce allo sviluppo del pensiero platonico fiorentino attraverso l’interesse per la cabala; la dottrina della dignità dell’uomo; la posizione sincretistica tra platonismo e aristotelismo. Nelle sue Conclusioni filosofiche, cabalistiche e teologiche, egli elabora 900 tesi intorno all’uomo, la natura e Dio rielaborando motivi della tradizione latina, ebraica e araba al fine di mostrare la possibilità di una convergenza tra le differenti culture e religioni. L’intento di Pico è infatti quello di realizzare una pace filosofica universale, ma le tesi sulla magia e la sua posizione sincretistica in tema di religione gli costano la condanna totale delle sue tesi da parte della Curia. N ell’Orazione sulla dignità dell’uomo egli esprime la propria concezione dell’uomo, collocato da Dio al centro della realtà perché possa liberamente scegliere quale vita vivere, se quella degli esseri divini o quella dei bruti propria degli enti materiali. N el trattato L’ente e l’Uno, Pico cerca una concordia tra il pensiero di Aristotele e quello di Platone subordinando il primo al secondo.

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Dal Quattrocento al Cinquecento: rotture e continuità della tradizione capitolo 1 L’aristotelismo rinascimentale. Durante il periodo rinascimentale, la filosofia aristotelica non svolge affatto un ruolo di secondo piano: infatti, essa continua ad avere un’influenza notevole soprattutto in ambito universitario (Bologna, Padova e Parigi). Tale rinascita si ha sia nelle Facoltà delle Arti, sia nelle Facoltà di Teologia. L’esponente di maggior spicco dell’aristotelismo rinascimentale è Pietro Pomponazzi (1462-1525). Egli intende ricostruire l’intero pensiero di Aristotele in base ai princìpi speculativi della Fisica, riprendendo dall’ambito metafisico il solo principio di causalità. Nell’opera L’immortalità dell’anima, Pomponazzi sostiene la totale impossibilità di dimostrare l’immortalità dell’anima da parte della filosofia. L’anima intellettiva è per essenza mortale, perché il pensiero ha sempre bisogno del corpo: è questo che assicura la funzione intellettiva dell’anima, la quale altrimenti non avrebbe alcuna possibilità di agire e di pensare. Poiché l’immortalità dell’anima sfugge ad ogni dimostrazione razionale, essa potrà valere soltanto come un dogma di fede, il quale viene provato esclusivamente mediante la rivelazione e le Sacre Scritture, e proprio per questo non può pretendere un valore universale. Pomponazzi interpreta il senso dell’esistenza umana

in una prospettiva puramente terrena, il cui fine immanente è individuato nella virtù. Le conseguenze di questa posizione antropologica lo portano ad affermare che in natura tutto è ordinato secondo leggi deterministiche e immutabili. Al principio della causalità naturale è ricondotta anche la nozione di libero arbitrio. Un caso particolarmente significativo dell’attenzione riservata dall’aristotelismo del Cinquecento è rappresentato da Jacopo Zabarella (15331589). Il suo intento è quello di mettere a fuoco i procedimenti che portano all’effettiva conoscenza della natura fisica. In due opere, Sul metodo e Sul regresso, Zabarella elabora il metodo del regresso. Esso è composto da due fasi: il metodo compositivo (o sintetico) che parte dai princìpi e da essi procede alla conoscenza delle cose, e il metodo risolutivo (o analitico) che parte dal dato e da esso procede alla considerazione dei princìpi. Il metodo del regresso consiste dunque nel risalire dai fenomeni osservati ai princìpi in base ai quali essi possono essere spiegati e poi nel ridiscendere da tali princìpi agli effetti che essi producono. Un ruolo fondamentale è svolto, secondo Zabarella, da una fase intermedia tra questi due momenti, nella quale vengono elaborate le ipotesi teoriche.

Il ritorno dello scetticismo: Michel de Montaigne. N ella riflessione di Michel de Montaigne (15331592) ritroviamo un compiuto tentativo di sintesi tra scetticismo antico e mentalità umanistica, e l’intreccio tra filosofia scettica e fede cristiana. Montaigne matura una posizione di profondo scetticismo nei confronti delle capacità della ragione umana, che lo porta a sospendere il giudizio e l’assenso di fronte a ogni conoscenza certa e assoluta, e ad affidarsi, a livello morale, ad una fede individuale e privata. Lo scetticismo sfocia nel conformismo pubblico e nel fideismo privato. Per Montaigne la posizione dello scettico è più vicina al cristianesimo di quanto non lo sia quella del razionalista, poiché mostrerebbe la vera natura dell’uomo, la sua costitutiva debolezza e al tempo stesso la sua libertà da ogni condizionamento. Questo atteggiamento porta Montaigne a ritenere non solo che ogni verità raggiunta dalla nostra conoscenza è sempre contingente e dubitabile, ma anche che all’uomo fondamentalmente non importa che vi sia qualcosa di vero. L’unica verità che possiamo conoscere si delinea in quello che Montaigne chiama l’“autoritratto”, in cui l’uomo appare per quello che è: un continuo fluire di cui possiamo solo descrivere le abitudini e i costumi.

• G. Pico della Mirandola, Oratio de hominis digitate, a cura di E. Garin, Studio Tesi, Pordenone 1994 (ma anche Discorso sulla dignità dell’uomo, a cura di F. Bausi, Guanda, Milano 2003). • M. de Montaigne, Saggi, trad. di F. Garavini, 2 voll., Adelphi, Milano 1992.

rivela e parla ed altri scritti ermetici, trad. di G. Bonanni, Atanor, Todi 1924. • N. Cusano, Scritti filosofici, a cura di G. Santinello, Zanichelli, Bologna, vol. I 1965, vol. II 1980. • N. Cusano, Opere filosofiche, trad. di G. Federici Vescovini, Utet, Torino 1972. • N. Cusano, Opere religiose, trad. di P. Gaia, Utet, Torino 1971. • N. Cusano, Il Dio nascosto, trad. di F. Buzzi, testo latino a fronte, Rizzoli, Milano 2002. • N. Cusano, Il gioco della palla, trad. di G. Federici Vescovini, Città Nuova, Roma 2001.

BIBLIOGRAFIA Fonti • F. Petrarca, Secretum, a cura di U. Dotti, Archivio Guido Izzi, Roma 1993. • F. Petrarca, Le senili, a cura di E. Nota - U. Dotti, Aragno, Torino 2004. • Asclepio, trad. di P. Ponzio, Levante, Bari 1991. • N. Cusano, La dotta ignoranza. Le congetture, trad. di G. Santinello, Rusconi, Milano 1988 (ma anche trad. di G. Federici Vescovini, Città Nuova, Roma 1991). • M. Ficino, Teologia platonica, trad. parziale di M. Schiamone, testo latino a fronte, 2 voll., Zanichelli, Bologna 1965.

Opere • Corpus Hermeticum, trad. di I. Ramelli, testo greco, latino e copto a fronte, Bompiani, Milano 2005. • [Ermete Trismegisto] Il Pimandro, ossia, l’intelligenza suprema che si

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parte I L’alba della modernità • N. Cusano, I dialoghi dell’idiota, trad. di G. Federici Vescovini, Olschki, Firenze 2003. • L. Valla, Scritti filosofici e religiosi, a cura di L. Radetti, Sansoni, Firenze 1953. • L. Valla, L’arte della grammatica, trad. di P. Casciano, Mondadori, Milano 2000. • L. Valla, La falsa donazione di Costantino, trad. di G. Pepe, Ponte alle Grazie, Firenze 1992. • M. Ficino, La religione cristiana, a cura di R. Zanzarri, Città nuova, Roma 2005. • M. Ficino, El libro dell’amore, a cura di S. Niccoli, Olschki, Firenze 1987. • M. Ficino, Scritti sull’astrologia, a cura di O. Pompeo Faracovi, Bur, Milano 1999. • M. Ficino, Sopra lo amore ovvero Convito di Platone, a cura di G. Rensi, Se, Milano 2003. • G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno, testo latino e trad. it. di E. Garin, Vallecchi Firenze 1942. • G. Pico della Mirandola, Le novecento tesi dell’anno 1486, a cura di A. Biondi, testo latino a fronte, Olschki, Firenze 1995. • P. Pomponazzi, Trattato sull’immortalità dell’anima, trad. di V. Perrone Compagni, Olschki, Firenze 1999. • P. Pomponazzi, ll fato, il libero arbitrio e la predestinazione, trad. di V. Perrone Compagni, Aragno, Torino 2004. • J. Zabarella, Opera logica, Colonia 1597, rist. anast. Olms, Hildesheim 1966 (non tradotto in italiano).

Studi critici Per la ricostruzione storico-filosofica del Rinascimento sono fondamentali gli studi di Eugenio Garin. Si vedano in proposito: • E. Garin, Medioevo e Rinascimento, Studi e ricerche, Laterza, Roma-Bari 1993; • E. Garin, L’Umanesimo italiano. Filosofia e vita civile nel Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 1993; • E. Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Ricerche e documenti, Bompiani, Milano 2001; • E. Garin, Umanisti, artisti, scienziati. Studi sul Rinascimento italiano, Editori Riuniti, Roma 1989.

Due altri studiosi di riferimento per comprendere questo periodo sono P.O. Kristeller e Cesare Vasoli, di cui ricordiamo: • P.O. Kristeller, Concetti rinascimentali dell’uomo e altri saggi, La Nuova Italia, Firenze 1978; • P.O. Kristeller, Il pensiero e le arti nel rinascimento, Donzelli, Roma 2005; • C. Vasoli, Umanesimo e Rinascimento, Palumbo, Palermo 19762; • C. Vasoli, Filosofia e religione nella cultura del Rinascimento, Guida, Napoli 1988. Per ricostruire il dibattito sulla discontinuità o la continuità tra Medioevo e Rinascimento restano essenziali: • J. Burckhardt, La cultura del Rinascimento in Italia, Sansoni, Firenze 1984; • W.K. Ferguson, Il Rinascimento nella critica storica, il Mulino, Bologna 1969; • A. Prandi, Interpretazioni del Rinascimento, il Mulino, Bologna 1971; • M. Ciliberto, Il Rinascimento. Storia di un dibattito, La Nuova Italia, Firenze 1975. Un’interessante rassegna a più voci dei “tipi” caratteristici dell’epoca rinascimentale (il principe, il condottiero, il cardinale, il cortigiano, il filosofo e il mago, il mercante, il banchiere, l’artista, la donna) è offerto in: • E. Garin (a cura di), L’uomo del Rinascimento, Laterza, Roma-Bari 20077. Una ricostruzione particolarmente attenta a rilevare le ambiguità e le contraddizioni che attraversano l’intera cultura rinascimentale è quella di: • M. Ciliberto, Pensare per contrari. Disincanto e utopia nel Rinascimento, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2005. Sulla tradizione ermetica e il suo influsso sul pensiero rinascimentale è fondamentale: • F.A. Yates, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Laterza, Roma-Bari, 20069. Per comprendere il contesto delle dottrine magiche del Rinascimento si veda: • D.P. Walker, Magia spirituale e magia demoniaca da Ficino a Campanella, Aragno, Torino 2002.

Sulla ripresa delle filosofie antiche (platonismo, aristotelismo, epicureismo) in epoca umanistica si veda: • E. Garin, Il ritorno dei filosofi antichi, Bibliopolis, Napoli 1994. Sulla portata “filosofica” di Petrarca si veda: • F. Tateo, Dialogo interiore e polemica ideologica nel Secretum di Petrarca, Le Monnier, Firenze 1991; • G. Billanovich, Petrarca e il primo Umanesimo, Antenore, Padova 1996. Una sintetica presentazione del pensiero di Cusano è offerta da: • G. Santinello, Introduzione a Niccolò Cusano, Laterza, Roma-Bari 1987; • G. Federici Vescovini, Il pensiero di Nicola Cusano, Utet, Torino 1998. Sull’opera di Valla si vedano le ricostruzioni dettagliate in: • M. Laffranchi, Dialettica e filosofia in Lorenzo Valla, Vita e Pensiero, Milano 1999; • S. Camporeale, Lorenzo Valla. Umanesimo, Riforma e Controriforma. Studi e testi, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2002. Su Ficino si veda l’ultima ricostruzione di: • P.O. Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, Le Lettere, Firenze 2005. Per comprendere l’opera di Pico come esigenza di un rinnovamento dell’immagine dell’uomo (in profonda unità con la tradizione) e insieme come inizio del distacco tra il nuovo e l’antico si può leggere: • H. De Lubac, L’alba incompiuta del Rinascimento: Pico della Mirandola, Jaca Book, Milano 1977. Sul pensiero di Montaigne si può vedere in sintesi: • N. Panichi, I vincoli del disinganno. Per una nuova interpretazione di Montaigne, Olschki, Firenze 2004. Resta poi un libro di acuta suggestione quello di: • J. Starobinski, Montaigne. Il paradosso dell’apparenza, il Mulino, Bologna 1984. Infine, in un ideale ritorno all’inizio del capitolo si veda: • A. Acciani (a cura di), Petrarca e Montaigne. L’arte imperfetta dell’io, Progedit, Bari 2006.

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ESERCIZI

Dal Quattrocento al Cinquecento: rotture e continuità della tradizione capitolo 1 1. Che rapporto intercorre tra la scoperta dell’io e l’eredità medievale nell’età dell’Umanesimo e del Rinascimento? (max 8 righe) 2. Esplicita i tratti fondamentali della concezione antropologica rinascimentale (max 10 righe). 3. Perché nella poesia di Petrarca è possibile ravvisare la nascita della concezione moderna dell’io? (max 8 righe) 4. Di quali dottrine si nutre la rinascita dell’antico nell’età dell’Umanesimo e del Rinascimento? (max 8 righe) 5. Spiega perché la riflessione sull’uomo e quella sulla natura costituiscono i due volti di un nuovo modo di fare filosofia (max 8 righe). 6. Come si spiega il fascino esercitato sulla cultura umanistico-rinascimentale dai profeti pagani Ermete, Zoroastro ed Orfeo? Quali effetti ha prodotto nella visione dell’uomo e del mondo? (max 10 righe) 7. Quale influenza ha esercitato il Corpus hermeticum sull’antropologia rinascimentale? (max 8 righe) 8.Quali eventi hanno favorito la rinascita del platonismo nel Quattrocento? (max 5 righe) 9. Come si configura il rapporto fra l’intelletto umano e la verità secondo Cusano? E quale metodo di conoscenza ne consegue? (max 15 righe) 10. Completa il brano inserendo le espressioni di seguito riportate: tutte le cose • Dio • nozioni neoplatoniche • contrazione • complicazione • l’infinità di Dio • l’Universo • l’infinità dell’Universo Avvalendosi di ...................................., ripensate all’interno della dottrina cristiana della creazione, Cusano risolve il problema del rapporto fra .................................... e .................................... servendosi dei concetti di complicazione, esplicazione e contrazione. Dio nel suo essere è la ........................................ di tutte le cose reali, per cui

.................................... sono in Dio. ............................, a sua volta, è esplicazione della complicazione, per cui .................... è in tutte le cose ed è ............................, cioè delimitazione, dell’unità nella molteplicità delle cose. 11. Elabora un testo sul rapporto fra Dio e l’Universo in Cusano mostrandone le ricadute in ambito cosmologico (max 15 righe). 12. Chiarisci la differenza fra sapienza, scienza e congettura in Cusano. (max 8 righe) 13. Qual è il fine della ricerca filologica in Valla? (max 5 righe) 14. Esponi la concezione dell’essere in Ficino sviluppando i seguenti punti: a. le articolazioni dell’essere; b. il ruolo dell’anima umana; c. l’apporto dell’amore e della magia (max 15 righe). 15. Su quali basi Pico della Mirandola fonda il tentativo di conciliare il pensiero di Platone e quello di Aristotele? (max 8 righe) 16. Esplicita la concezione dell’anima umana secondo Pomponazzi (max 8 righe). 17. Chiarisci la differenza fra causalità naturale e libero arbitrio in Pomponazzi (max 8 righe). 18. Spiega in che cosa consiste il metodo del regresso elaborato da Zabarella (max 10 righe). 19. Come si spiega la diffusione dello scetticismo in età rinascimentale? (max 8 righe) 20.Chiarisci il nesso fra scetticismo, conformismo e fideismo in Montaigne (max 8 righe). 21. A quale tipo di verità ci consegna l’“autoritratto” di Montaigne? (max 8 righe)

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capitolo 2

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1 La Riforma protestante La Riforma protestante costituisce uno degli avvenimenti più drammatici e insieme più incidenti nella storia dell’Europa moderna: assieme all’ideale umanistico dell’uomo come centro e misura dell’Universo, che si afferma soprattutto nella cultura del Rinascimento italiano, è proprio nella riforma religiosa del protestantesimo che matura infatti l’immagine prettamente moderna dell’io come coscienza individuale. Con la differenza, però, che mentre l’uomo del Rinascimento enfatizza al massimo le sue capacità naturali, l’uomo della Riforma concepisce sé stesso nel segno di una radicale incapacità, quella di un’umanità intrinsecamente corrotta dal peccato e tutta ripiegata nel suo limite. Si tratta in definitiva dell’ambiguità tipica dell’antropologia moderna, in cui il volto “prometeico” dell’uomo (dall’eroe greco Prometeo, colui che compì la straordinaria impresa di rubare il fuoco agli dèi) è l’altra faccia della sua impotenza di fronte a una verità irraggiungibile e ad una salvezza completamente al di fuori della sua portata.

L’istanza di una nuova coscienza religiosa e la disputa sulla libertà e sulla grazia

A dire il vero, la parola “riforma” era sempre stata presente nella storia della Chiesa latina medievale: essa indicava per lo più i fermenti e i movimenti nati al seguito di personalità particolarmente significative – i “santi” o i “puri” – la cui voce profetica si alzava dall’interno del popolo cristiano, arrivando a pressare le stesse gerarchie ecclesiastiche, con l’esigenza di una maggiore radicalità evangelica e la condanna della corruzione dei costumi. Rispetto ai movimenti accolti e pienamente valorizzati dalla sede di Roma come “cattolici”, cioè come un richiamo e un segno di autoriforma indicato a tutti i fedeli (per esempio quello nato dal carisma di Francesco d’Assisi), i movimenti che invece, partendo dall’iniziale esigenza spirituale, arrivavano a sostenere dottrine diverse da quelle ortodosse definite dalla tradizione o addirittura sceglievano di rompere l’unità con l’unico “corpo di Cristo” presente sulla Terra (per esempio i catari o gli albigesi), erano condannati come eterodossi; ma, di fatto, anch’essi non sono mai giunti a una reale spaccatura della Chiesa. La questione della riforma cambia invece totalmente con il protestantesimo. Il termine ha in origine il duplice significato di ‘protesta’ e di ‘testimonianza’ (dal verbo pro-testari), e più esattamente

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L’istanza di una nuova coscienza religiosa e la disputa sulla libertà e sulla grazia capitolo 2

Le religioni in Europa dopo la metà del XVI secolo

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nasce dalle reazioni di alcuni prìncipi tedeschi che rivendicavano la libertà di coscienza e i diritti delle minoranze religiose, contro le misure oppressive ordinate dalla Dieta di Spira nel 1529, che non permetteva più ai prìncipi, come era stato loro precedentemente concesso, di seguire ciascuno la propria religione nella regione da essi controllata (cuius regio, eius religio). Ma, strettamente intrecciato con questo motivo di ordine politico-religioso, la Riforma aveva evidenziato una ragione squisitamente teologico-dottrinale, attraverso una riformulazione del rapporto tra la grazia divina e la libertà umana che rompeva radicalmente con la tradizione cattolica. Questo stretto intreccio tra ragioni politiche e ragioni teologiche trovò il suo punto di più netta espressione nella figura di un uomo che ha segnato non solo la storia della Chiesa e della teologia, ma anche quella della filosofia dell’età moderna: Martin Lutero. 1. Individua la definizione corretta di Riforma protestante: a. un movimento religioso di riforma che condanna la corruzione delle gerarchie ecclesiastiche senza tuttavia produrre una divisione della Chiesa. b. un movimento religioso avviato da Lutero e teso a riabilitare la natura umana secondo l’ideale umanistico. c. un movimento religioso di protesta promosso da alcuni prìncipi tedeschi seguaci di Lutero che produsse una spaccatura della Chiesa. d. un movimento religioso patrocinato da Lutero e confinato a una disputa teologico-dottrinale sul rapporto tra la grazia divina e la libertà umana.

REGNO DI NORVEGIA REGNO DI SCOZIA

Cattolici Luterani REGNO Calvinisti D’IRLANDA

Edimburgo REGNO D’INGHILTERRA

Dublino

Londra Oceano Atlantico REGNO DI PORTOGALLO

Lisbona

Parigi REGNO DI FRANCIA

Nantes

Uppsala REGNO Oslo DI SVEZIA Stoccolma

Amburgo Brema Berlino Utrecht Francoforte Lipsia Praga Strasburgo Norimberga Zurigo Vienna

Ginevra Bordeaux SACRO ROMANO IMPERO Milano Avignone Venezia REGNO Saragozza STATO DI SPAGNA PONTIFICIO Barcellona Madrid Roma Napoli Granada Mar Mediterraneo

2 Gli albori della Riforma in Germania: l’esperienza di Martin Lutero N ato nel 1483 in una città della Sassonia, Lutero riceve un’educazione austera e imperniata su una forte religiosità. Compie i suoi studi a Mansfeld e a Magdeburgo, dove impara mirabilmente il latino ecclesiastico, e frequenta poi l’Università di Erfurt, dove entra subito in conflitto con la classe intellettuale, in parte arroccata sulla tradizione scolastica, in parte coinvolta nel nuovo clima umanistico. La sua attenzione si rivolge soprattutto all’Etica Nicomachea di Aristotele, al nominalismo di Ockham (studiato attraverso il commento dello scolastico Gabriel Biel), agli scritti di Agostino e alle Sentenze di Pietro Lombardo, leggendo le quali comincia a meditare sul peccato originale, considerato come quella legge della carne che, al pari di un’“esca”, suscita la perdita della giustizia originaria. N el 1505 gli accade un fatto che egli interpreta come un segno: nel corso di una grande tempesta, solo per poco non viene ucciso da un fulmine. Scampato alla morte, fa voto di abbracciare la vita monastica, ed entra nel convento agostiniano-eremitano di Erfurt. Accompagnato da una costante “tentazione di tristezza”, tormentato dall’immagine della nullità dell’uomo di fronte a Dio e dal terrore del peccato, Lutero concepisce la vita monastica come una fuga dell’anima alla ricerca di una salvezza fuori di sé. Nel 1507 riceve l’ordinazione sacerdotale e nel 1508 si trasferisce nel monastero di Wittenberg, dove l’anno seguente inizia la sua attività accademica insegnando fisica e dialettica. Nel 1510, in occasione del suo primo viaggio a Roma, resta profondamente turbato dalla corruzione della Chiesa, che gli sembra occuparsi soltanto di affari mondani e strategie politiche. Tornato in Germania, nel 1512 consegue il dottorato in teologia e poco dopo diviene professore di scienze bibliche presso l’Università di Wittenberg: fra il 1513 e il 1518 tiene delle Lezioni sui Salmi e commenta alcune lettere di san Paolo. Dai salmi matura l’idea che “dinanzi a Dio” l’uomo è solo peccatore, e che la parola di Dio può salvarlo unicamente se egli assume la disposizione dell’umiltà; attraverso l’esegesi paolina, invece, si approfondisce il suo sguardo sul peccato: esso non indica soltanto

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parte I L’alba della modernità

un difetto della volontà o un suo mancato slancio, che si possa correggere, bensì una sua “totale mancanza”. L’uomo non solo pecca, ma è peccatore: il peccato non è semplicemente un errore o una debolezza, bensì una condizione ontologica, che risiede nel cuore stesso dell’uomo, un’inversione o perversione permanente della sua natura creata. Segnato in maniera indelebile dalla “concupiscenza”, il cuore dell’uomo risulta così incurvato in sé stesso (incurvitas in se ipsum), vale a dire nella sua costitutiva tendenza al male. Leggendo poi la Lettera ai Romani di san Paolo, Lutero avrà una rivelazione, che sarà ricordata come l’“evento della torre” (giacché il suo studio si trovava nella torre del monastero degli agostiniani eremitani di Wittenberg): l’unica cosa che può giustificare la condizione miserabile – cioè può renderla giusta o può redimerla – è la fede. La giustizia divina si rivela all’uomo, mediante il Vangelo, solo in una modalità passiva: e questo non significa che il peccatore è giustificato dal suo atto di fede (se così fosse si tratterebbe ancora di uno sforzo umano), ma piuttosto che l’uomo riceve la grazia esclusivamente per iniziativa divina. È proprio in questa personale esperienza di fede l’atto di nascita e il cardine della Riforma protestante: la giustizia non deriva mai dalle opere dell’uomo, ma solo dalla fede; e la fede non c’entra nulla con la libertà umana, ma solo con la grazia divina. Di qui nasce lo scandalo di Lutero di fronte alla predicazione del domenicano Johann Tetzel, il quale – sostenuto dall’arcivescovo di Mainz e indirettamente anche dalla Sede di Roma – offriva la possibilità di trasformare la meritata penitenza per i peccati nell’acquisto pecuniario delle indulgenze (cioè della remissione delle pene). Contro il commercio delle indulgenze, nel 1517 Lutero scrive una disputazione costituita da 95 tesi, che – secondo una leggenda – affigge sul portone della chiesa di Wittenberg.



Il Signore e maestro nostro Gesù Cristo dicendo: “Fate penitenza, ecc.” volle che tutta la vita dei fedeli fosse una penitenza [tesi 1]; Questa scandalosa predicazione delle indulgenze fa sì che non sia facile neppure ad uomini dotti difendere la riverenza dovuta al papa dalle calunnie e dalle sottili obiezioni dei laici [tesi 81].



La Chiesa non comprende immediatamente la portata dell’evento, e soltanto un anno dopo inizia un’aperta disputa col monaco agostiniano: una volta ammonito con la bolla papale Exsurge Domine (1520), Lutero viene chiamato in giudizio ed esortato a ritrattare le sue tesi, che egli però difende con fermezza e ostinazione, ottenendo con ciò la scomunica come eretico e l’esilio dall’Impero. Con l’editto di Worms (1521) vengono poi messi al bando i suoi scritti. Protetto dall’elettore di Sassonia, trova rifugio nella fortezza di Wartburg: qui inizia la sua grande opera di traduzione della Bibbia in tedesco. In questi anni Lutero denuncia la condizione “esule” del popolo di Dio sotto il Papato (nello scritto La cattività babilonese della Chiesa), e contemporaneamente approfondisce la sua concezione della libertà umana con lo scritto Il servo arbitrio, in cui entra in polemica con le tesi sul libero arbitrio avanzate da Erasmo da Rotterdam [ 2.3]. Nel 1522 Lutero torna a Wittenberg, dove si dedica a un’opera di consolidamento della nuova Chiesa riformata, nel frattempo diffusasi in tutta la Germania. N el 1524 inizia la cosiddetta “rivolta dei contadini”: una setta ereticale di anabattisti, capeggiata da Thomas Müntzer, insorge in nome della religione contro il servaggio feudale, la proprietà privata e tutte le strutture del sistema sociale, distruggendo castelli, chiese e monasteri. Travolto e turbato dagli avvenimenti, Lutero si schiera con i prìncipi contro le ribellioni brigantesche dei contadini, anche per far fronte al rischio di una restaurazione cattolica. Questa scelta contraddice in qualche modo la spinta libertaria che è all’origine del movimento riformato, ma è coerente con i princìpi enunciati nello scritto intitolato Alla nobiltà cristiana di nazione tedesca (1520) nel quale si esprimeva una concezione dell’autorità schiettamente medievale, secondo cui i popoli sono soggetti in ogni caso alle autorità costituite, che sono da considerarsi emanazione di Dio. Abbandonato definitivamente l’abito monastico, nel 1525 Lutero sposa Katharina von Bora. Nel frattempo divampano le polemiche: a Gotha si costituisce una Lega per la difesa della dottrina evangelica, che risponde alla minaccia dei Turchi ponendo definitivamente la dottrina nelle mani dei signori territoriali; inizia, inoltre, una controversia con il riformatore svizzero Hul-

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L’istanza di una nuova coscienza religiosa e la disputa sulla libertà e sulla grazia capitolo 2

La situazione religiosa in Germania nel 1555

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dreich Zwingli [ 2.4.3] sulla validità dell’eucaristia, anche se a Ginevra le idee della Riforma troveranno diffusione soprattutto per opera di Calvino [ 2.4.3]. Mentre il credo protestante acquista una prima definizione confessionale (ad opera del suo seguace Melantone:  2.4.2), Lutero prosegue la sua attività esegetica – nel 1534 compare la prima edizione critica della Bibbia in tedesco; ma l’apertura del concilio di Trento [ 2.5.1], nel 1545, segna l’inizio della Controriforma cattolica che porterà alla definitiva condanna delle dottrine protestanti da parte della Chiesa. Lutero, ammalatosi durante il suo soggiorno a Smalcalda – sede della Lega degli Stati protestanti tedeschi, che da un lato sostenevano la Riforma ma dall’altro la condizionavano pesantemente – si spegne ad Eisleben nel 1546, non senza aver dato l’ultima pesante stoccata alla Chiesa di Roma con lo scritto Contro il Papato di Roma fondato dal diavolo. 1. La tormentata religiosità luterana si esprime nei seguenti convincimenti: a. la salvezza si offre all’uomo peccatore esclusivamente per iniziativa divina. b. il peccato ha corrotto intimamente la natura dell’uomo votandolo al male. c. il principio di autorità è valido unicamente nel dominio civile. d. il peccato indica appena un indebolimento della volontà umana.

Mare del Nord Utrecht Anversa

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Amburgo Berlino Brema Wittenberg Münster

Colonia Smalcalda Dresda

Mühlberg Metz

Norimberga Ulma Strasburgo

Strasburgo Augusta

Vienna

Monaco Salisburgo

Protestanti Cattolici Protestanti e Cattolici

Trieste

3 Erasmo da Rotterdam e Lutero: libero o servo arbitrio? Erasmo da Rotterdam (1466-1536) sembrerebbe essere per così dire il contraltare di Lutero: umanista di stampo europeo, cattolico romano e difensore della libertà umana. Ma, al tempo stesso, egli condivide e in qualche modo anticipa – da un fronte diverso – la posizione del monaco tedesco. Erasmo è il rappresentante per eccellenza di quello che si può chiamare l’umanesimo evangelico, che con l’umanesimo laico condivide l’insistente richiamo alla purezza delle origini del cristianesimo. Questo significa per lui un’attenzione particolare alle fonti primarie delle Sacre Scritture e dei Padri della Chiesa, e per loro tramite un ritorno alle testimonianze delle primitive comunità cristiane, nelle quali era possibile ritrovare quella genuinità evangelica che poi sarebbe stata soffocata dalle dispute teologiche e filosofiche della Scolastica e dalla corruzione morale della Chiesa. Per Erasmo la figura di Cristo incarna soprattutto un ideale di perfezione morale, che agli occhi del mondo può apparire anche una stoltezza ingenua, ma agli occhi del cristiano è una sana “follia”. E difatti, nel suo scritto Elogio della follia (1511) Erasmo sottolineerà che quest’ultima è in realtà la suprema saggezza del Vangelo, non più intesa come dottrina e come culto, ma come una pratica di vita che rifugge dai conflitti e testimonia, attraverso la tolleranza, la pace di Cristo. Come aveva affermato nel suo Manuale del soldato cristiano (1502), la battaglia va combattuta contro le diatribe teologiche con l’arma della lettura diretta della Bibbia. Ed è proprio l’edizione critica a stampa del Nuovo Testamento, con il testo greco e la traduzione latina, l’opera che guadagnò ad Erasmo una risonanza in tutta Europa, accresciuta poi anche dalle sue edizioni critiche di testi dei Padri della Chiesa. Prima che Lutero facesse scoppiare la sua opposizione alla Chiesa di Roma, Erasmo aveva già espresso delle critiche analoghe, e questo spiega non solo il fatto che all’inizio egli si mostra sostanzialmente concorde con il monaco ribelle, ma anche che nel 1519 lo stesso Lutero abbia cercato il consenso e l’appoggio di Erasmo, attribuendogli addirittura la paternità della sua riforma. L’umanista Erasmo rimane però un semplice spettatore della rivolta luterana, limitandosi ad

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parte I L’alba della modernità

esortare le parti in causa a comporre il dissidio; e se da un lato egli prende le difese di Lutero davanti alla Chiesa di Roma, al tempo stesso cerca di scagionarsi davanti ai vescovi cattolici, affermando più un’ambigua neutralità che una reale pacificazione. Nel suo soggiorno “neutrale” a Basilea, lontano dai tumulti politici divampati attorno alla Riforma, Erasmo si decide – su sollecitazione del clero – a prendere posizione su quello che gli sembra il nucleo essenziale della posizione luterana, vale a dire la svalutazione radicale della libertà umana rispetto alla salvezza che si ottiene solo attraverso la fede, cioè per pura grazia. Di qui nasce lo scritto sul Libero arbitrio, in cui l’umanista, all’indomani della condanna papale delle tesi riformate, cerca pacatamente di arrivare ad una pacificazione, richiamandosi da un lato all’autorità delle Scritture e della tradizione e dall’altro all’autorità della ragione, in nome del buon senso comune. Già in uno scritto del 1520 dedicato alla Libertà cristiana, Lutero aveva distinto tra la posizione dell’uomo carnale, assoggettato al peccato e quindi schiavo di tutte le cose, e quella dell’uomo spirituale che è invece totalmente libero, in quanto rigenerato dalla grazia divina. Di conseguenza, non è la volontà umana a produrre liberamente la fede e la salvezza, ma al contrario è la fede, cioè la grazia, che ha come suo frutto la libertà. Secondo Erasmo, invece, il peccato originale non ha impedito del tutto la libertà del volere, ma l’ha semplicemente indebolita: anche in quanto peccatore, nell’uomo resta ancora la volontà “naturale” di rialzarsi dal proprio peccato. Tuttavia, tale capacità è resa possibile dalla “grazia che previene” o “grazia operante”, la quale insinua nell’uomo il disprezzo di sé e il desiderio della conversione; è seguita poi dalla “grazia cooperante”, che facilita l’adesione ultima ad una decisione già presa, ed è compiuta dalla “grazia che conduce a buon fine”. In sostanza, è l’opera della grazia – in quanto essa sollecita, trascina e compie la libertà – a farci percepire la nostra manchevolezza e a condurci con ciò alla salvezza. La principale preoccupazione dell’umanesimo evangelico di Erasmo risiede dunque nella salvaguardia di una certa autonomia e libertà naturale nell’uomo: seguendo la pedagogia del Vangelo, infatti, la ragione umana scopre in sé la capacità di comprendere il comando morale di Dio e la volontà di metterlo in pratica.

Lutero non lascia cadere la provocazione di Erasmo e gli replica prontamente, scrivendo il Servo arbitrio (1525), nel quale rilancia e radicalizza il carattere non libero della natura umana. Appellandosi all’interpretazione diretta e testuale della “sola Scrittura” e rifiutando decisamente la tradizione teologica della Chiesa (posizione, questa, condivisa in gran parte dallo stesso Erasmo), Lutero considera la libertà più come una prerogativa divina che come una capacità umana: in Dio essa è assoluta e senza alcun vincolo esterno alla stessa volontà divina (in questo Lutero ricalca la posizione di Ockham); nell’uomo invece essa è presente limitatamente alle relazioni che egli instaura con le cose mondane, ma è completamente assente nella relazione con Dio, di fronte al quale l’uomo è radicalmente non libero [ T2]. A differenza della tradizione, tuttavia, per Lutero questa mancanza non è la conseguenza di una “caduta”, bensì è radicata nella stessa creaturalità. In altri termini, il libero arbitrio va pensato solo come una facoltà morale all’interno della sfera mondana: in questo senso esso costituisce come il “seme del bene”, “la cosa più nobile che vi è nell’uomo”. Invece a livello ontologico, cioè considerando non il dovere morale ma l’essere naturale dell’uomo, l’arbitrio non può più essere considerato come “libero”, ma solo come “servo” del peccato, e tutte le volte che l’uomo pretende di legittimarsi da sé stesso (appunto come un essere libero), egli cade inevitabilmente in errore. Ma se la volontà è prigioniera del peccato, la libertà diviene solo un ostacolo alla salvezza, poiché l’uomo può volere propriamente solo il male. 1. L’ideale religioso di Erasmo si configura come: a. una svalutazione radicale della libertà umana. b. la promozione della lettura diretta della Bibbia da parte dei fedeli. c. la ricerca della concordia tra le diverse anime del cristianesimo ispirata al principio dell’unità della Chiesa. d. il recupero dell’originario spirito delle comunità cristiane. 2. Secondo Lutero: a. l’arbitrio dell’uomo è servo del peccato. b. la libertà di Dio è assoluta. c. la libertà dell’uomo è da intendersi come dovere morale. d. la libertà è un connotato ontologico della natura umana.

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L’istanza di una nuova coscienza religiosa e la disputa sulla libertà e sulla grazia capitolo 2

4 Grazia e giustizia nelle dottrine riformate 4.1 La “grazia giustificante” Nella concezione luterana, l’umanità perduta ha come unica chance quella di ricevere l’immeritato favore divino capace di redimerne il peccato e di giustificarla, cioè di rimetterla nel giusto rapporto con Dio. In questa azione divina risiede la “grazia giustificante”. All’inizio Lutero riteneva che la giustizia divina dovesse incontrare una richiesta dell’uomo, e che cioè fosse la risposta ad un’iniziativa umana, la qual varrebbe in tal modo come condizione della salvezza. Successivamente egli rettifica questa dottrina (ritenendola ancora troppo simile a quella di Pelagio:  Il pelagianesimo), e sostiene invece che è Dio stesso ad adempiere le condizioni per la salvezza, donando gratuitamente al peccatore ciò di cui questi ha bisogno per essere giustificato. In altri termini, la promessa di salvezza fatta da Cristo si può realizzare solo se all’uomo è data la possibilità di meritarsela, quasi pagando un prezzo per riscattare la propria umanità perduta. Ma questo è impossibile per l’uomo, e la novità annunciata dal Vangelo risiede proprio nel fatto che tale condizione è stata adempiuta da un altro, il quale si è fatto carico delle colpe dell’uomo e le ha espiate in sua vece: è la dottrina dell’espiazione vicaria di Cristo. In questa prospettiva, non solo le opere buone, ma neanche il pentimento dell’uomo per i propri peccati possono essere intesi come una con-

Il pelagianesimo Eresia sviluppatasi intorno al IV secolo ad opera del monaco Pelagio, il quale, rinnegando la dottrina del peccato originale, affermava la possibilità per l’uomo di salvarsi con le sue sole forze. In questo senso, Pelagio reinterpretava la grazia come la stessa natura donata da Dio nella creazione, depotenziandone il ruolo nella salvezza.

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dizione per ricevere la grazia divina: al contrario, il pentimento costituisce già un segno e un frutto della grazia. 1. La dottrina della grazia dei protestanti prescrive che: a. l’uomo merita la giustificazione attraverso le opere. V b. il desiderio di espiazione dell’uomo è un requisito in vista della salvezza. V c. Dio salva l’uomo esclusivamente in base all’espiazione vicaria di Cristo. V d. la giustificazione che proviene da Dio opera nel senso di un processo graduale di perfezionamento morale dell’uomo. V

F F F F

4.2 La “fede giustificante” La fede, per Lutero, non si basa su una conoscenza storica (gli eventi documentabili della venuta di Cristo sulla Terra) ma è qualcosa che riguarda esclusivamente il singolo individuo: una fede che si accontenti di credere nell’attendibilità storica dei Vangeli, in primo luogo, non sarebbe una “fede giustificante”, cioè che rende giusto l’uomo peccatore. In secondo luogo, essa implica una fiducia incrollabile nelle promesse di Dio, ovvero la capacità di affidarsi totalmente a lui. Tuttavia, l’efficacia della fede non dipende dall’intensità con cui crediamo, bensì dall’affidabilità di colui in cui crediamo. In altri termini, nella giustificazione solo Dio è attivo, mentre l’uomo è “meramente passivo”: è a questo che si riferisce la celebre espressione luterana, secondo cui la salvezza avviene esclusivamente mediante la fede (sola fide), cioè per un dono gratuito di Dio, e senza l’intervento di alcuna opera umana (le opere non sono la causa, bensì il risultato della giustificazione) [ T47]. Nelle Lezioni sulla Lettera ai Romani (1515/16), Lutero sviluppa l’idea di una “giustizia aliena”, cioè puramente esterna, nel senso che la giustificazione divina non trasforma l’essere stesso del credente, ma lo riveste semplicemente come un “manto”. In tal modo, se è vero che la giustizia non viene all’uomo dall’interno ma dall’esterno, cioè da Dio, è anche vero che essa resta anche sempre estrinseca rispetto a lui, cioè non coincide mai con una sua trasformazione ontologica. «Dentro di noi, cioè ai nostri stessi occhi», scrive Lutero, noi uomini rimaniamo tutti peccatori, compresi i santi; è solo «dal di fuori», che possiamo essere giustificati, in base a come «ci giu-

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dica Dio». E Dio ci giudica attraverso un atto di imputazione: non imputandoci più i nostri peccati (cioè come noi siamo realmente) ma imputandoci piuttosto i meriti acquisiti da Cristo (cioè come noi speriamo di essere in virtù della sua grazia), e in tal modo giustificandoci. L’uomo cristiano, dunque, non sarà mai perfettamente giusto, ma «insieme peccatore e giusto: peccatore di fatto, ma giusto nella reputazione di Dio e nella sua sicura promessa di liberarlo dal male fino a completa guarigione. In questi termini si può dire che, nella speranza, è perfettamente guarito» [Lezioni sulla Lettera ai Romani, 4, 7]. Queste idee saranno sviluppate in particolare da Filippo Melantone (1497-1560) un umanista tedesco amico e allievo di Lutero, che abbraccerà la Riforma e ne fornirà il primo sistema dottrinale organico nell’opera sui Luoghi comuni teologici, composta nel 1521 e rielaborata diverse volte sino al 1559. A differenza della dottrina cattolica, secondo la quale il peccatore è reso giusto nel suo intero essere e quindi intimamente santificato (in quanto partecipante alla divinità di Cristo), per Melantone invece egli è solo considerato o dichiarato giusto dinanzi al tribunale celeste (in foro divino). In questo secondo caso si parla dunque non di una giustificazione ontologica, ma solo di una “giustificazione forense”, e la si differenzia chiaramente dalla santificazione dell’uomo, che non è più intesa come un cambiamento già in atto nel presente, ma come un processo graduale nel futuro.

4.3 Potere civile e predestinazione In area svizzera, in particolare con Huldreich Zwingli (1484-1531), il pensiero della Riforma assume un accento spiccatamente etico-civile: Cristo costituisce un mero esempio di moralità e non opera direttamente nell’uomo una rigenerazione della sua natura corrotta, bensì lo induce semplicemente ad imitarlo; e l’uomo, piuttosto che sentire e accogliere su di sé il perdono salvifico, deve fare lo sforzo di adeguarsi al messaggio cristiano attraverso una condotta morale irreprensibile. Per una tale condotta non servono né la Chiesa, che Zwingli cercò di distruggere in tutte le sue forme esterne, né i sacramenti, che non hanno alcuna efficacia reale in ordine

alla salvezza. Staccata completamente dalle forme ecclesiastiche, la religione deve invece identificarsi con il potere civile, con la conseguenza che tutti i seguaci di altre confessioni (soprattutto i cattolici) devono essere perseguitati e annientati con la forza delle armi. Nella dottrina luterana della giustificazione rimanevano aperti diversi problemi e si evidenziavano alcuni aspetti di ambiguità, come per esempio la funzione di Cristo o il rapporto fra la grazia divina e la libertà umana. A tali problemi cercò di dare soluzione Giovanni Calvino (15091564), riformatore francese che ha legato il suo nome alla città di Ginevra, divenuta sotto il suo influsso una città identificata con la nuova Chiesa riformata, vale a dire un ordinamento politico esplicitamente costruito come il Regno di Dio sulla Terra. Nella Ginevra calvinista il potere civile aveva il compito di indirizzare, regolamentare e, nel caso, reprimere non solo i costumi o i divertimenti ma tutte le pratiche sociali, con l’obbligo di espellere dal suo interno ogni dissidente a livello dottrinale e morale (come fu il caso dello spagnolo Michele Serveto, messo al rogo per le sue convinzioni eretiche sulla Trinità). A livello dottrinale Calvino sottolinea il fatto che, prima ancora della giustificazione per fede e della rigenerazione morale, la salvezza dipende innanzitutto dall’unione dell’uomo con Dio. Ma tale unione non è una realtà offerta a tutti: secondo la dottrina calvinista della predestinazione, infatti, Dio stesso avrebbe scelto in anticipo a chi donare e a chi non donare la salvezza. In tal modo si radicalizzano due elementi tipici della Riforma protestante, vale a dire la sottolineatura dell’assoluta sovranità di Dio, da un lato, e quella della sostanziale incapacità dell’uomo dall’altro, così che una teologia sostanzialmente volontaristica (in cui cioè il criterio ultimo è l’assoluta e imperscrutabile volontà divina) si coniuga con un’antropologia fondamentalmente pessimistica, dal momento che la libertà umana è completamente destituita di ogni potere. Nell’Istituzione della religione cristiana (1559) di Calvino la dottrina della predestinazione si presenta come il punto di confluenza tra l’onnipotenza divina e il peccato umano. Già Agostino, nella sua disputa contro i pelagiani, aveva affermato che di per sé l’umanità sarebbe tutta condannata alla dannazione se Dio non avesse scelto un gruppo di eletti; ma la tradizione cattolica aveva sempre inteso la scelta preferenziale operata da Dio

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non come esclusiva, ma come introduttiva alla redenzione universale di tutti gli uomini, e aveva condannato coloro che dividevano l’umanità in senso manicheo (una parte con Dio e una con il demonio). Con Calvino, invece, viene enfatizzata proprio in maniera manichea la dottrina agostiniana dell’elezione divina, come decisione assoluta di redimere alcuni e dannare altri: il «decreto eterno di Dio, per mezzo del quale egli ha stabilito quel che voleva fare di ogni essere umano» [Istituzione della religione cristiana, III.21.5], investe l’uomo in modo imperscrutabile, indipendente da qualsiasi merito. L’intento perseguito da Calvino è eminentemente pedagogico: egli mira a infondere nei cristiani un senso di timore reverenziale di fronte a una disposizione che egli stesso non esita a chiamare «decretum horribile» [Istituzione della religione cristiana, III.23.7]. Va comunque aggiunto che la dottrina della predestinazione, lungi dal significare per il calvinismo la svalutazione di ogni opera umana, paradossalmente porta ad un’enfatizzazione delle attività dell’uomo, soprattutto quelle legate al lavoro e alla convivenza sociale. Ribaltando in qualche modo l’iniziale tendenza luterana, la via “svizzera” alla Riforma porta a considerare nei successi mondani di una vita timorata di Dio il segno certo dell’elezione divina. Gli uomini non possono guada-

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gnarsi la salvezza con le loro opere, ma agli eletti è dato di riuscire nelle loro attività. Così i predestinati hanno la fisionomia degli uomini di successo, sono, come ha detto qualcuno, l’identikit dei “capitalisti” [ Protestantesimo e capitalismo]. 1. Le opere meritorie dell’uomo di fede rivestono per la dottrina calvinista un caratteristico significato in quanto: a. consentono all’uomo di guadagnare la salvezza. b. rappresentano visibilmente lo stato di grazia dell’eletto. c. sono comunque contrassegnate dal male. d. la loro sussistenza è irrilevante in rapporto al tema della salvezza.

5 Dalla Riforma protestante alla riforma cattolica 5.1 Il concilio di Trento

Mentre la Riforma protestante divampa in Germania e si diffonde, con accenti e motivazioni diverse in Francia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra [ I luoghi della cultura rinascimentale, p. 3], non senza dover affrontare scontri dottrinali e politici assai aspri al suo stesso interno; e mentre gli imperatori (prima Carlo V e poi Ferdinando I) cercano con molta difficoltà di giungere ad una pacificazione tra le due confessioni, in campo cattolico si avvia un formidabile contro-movimento di ridefinizione dottrinale Protestantesimo e di espansione missionaria. N on a caso quee capitalismo st’azione di ripensamento e di rinnovamento interno alla Chiesa di Roma è abitualmente L’idea che il protestantesimo abbia costituito un chiamata “Controriforma”, ma il termine è terreno di coltura per la mentalità capitalistica è stastato volutamente caricato di un accento ta proposta per la prima volta da Max Weber, uno degli negativo, soprattutto da parte del pensieesponenti di punta delle scienze sociali del XX secolo, nelro illuminista e idealista, quasi che la l’opera intitolata appunto L’etica protestante e lo spirito del Riforma protestante costituisca di per sé capitalismo (1905). All’interno della sua tesi generale di un inun avanzamento progressivo dello spiriflusso specifico della religione sull’economia, Weber individua nella dottrina calvinista della predestinazione, e nel fatto to umano e della stessa religione cristiana rispetto ai vincoli della tradizione che in essa la riuscita nelle attività mondane fosse consideraantica e soprattutto romana. Una magta un segno della salvezza ultraterrena degli eletti, una circogiore oggettività storica ci porta tuttavia stanza straordinariamente favorevole alla nascita della via riconoscere che la riforma cattolica delisione capitalistica del mondo. L’etica religiosa calvinista, infatti, richiederebbe una rigorosa ascesi intramondaneatasi con il concilio di Trento (1545na e l’assunzione del lavoro professionale come una 1563), sebbene certamente provocata dalla vocazione divina: entrambi fattori determinanti drammatica lacerazione della cristianità per l’organizzazione tecnica e la pianificaeuropea, inaugurò un importante processo di zione lavorativa che stanno al cuore riappropriazione della tradizione, non più del capitale. intesa come un canone stabilito nel passato, ma come una trasmissione vivente della fede, che

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in ogni epoca è chiamata a dar ragione di sé. Non si trattava dunque solo di un arroccamento in difesa di un’istituzione del passato, ma di un momento di rinnovata coscienza dell’origine, della natura e del compito della Chiesa nel mondo. Fatto, questo, che avrà una grande ripercussione, al pari della Riforma protestante, nell’elaborazione di concetti filosofici fondamentali del XVI e del XVII secolo. Per quanto riguarda la dottrina, in particolare la Chiesa romana riabilita la concezione tradizionale della natura umana segnata dal peccato originale: rispetto ai riformatori, che l’avevano intesa come uno stato di corruzione assoluta rispetto all’assoluta trascendenza della grazia soprannaturale, i cattolici riaffermano invece lo stretto rapporto che intercorre fra l’atto salvifico e la libertà di adesione dell’uomo. Il peccato non è solo il sigillo dell’incapacità umana ma è anche segno di un rapporto interrotto con Dio, che questi ricostituisce per grazia attraverso Cristo e la Chiesa, e valorizzando ai fini della salvezza anche il merito che gli uomini si guadagnano con le buone opere. Un altro punto di netto distacco dai riformatori riguarda il rapporto tra le Sacre Scritture e la tradizione. Con il “principio scritturale” (o sola Scriptura), la Riforma aveva affermato con forza che la Bibbia è l’unico tramite nel rapporto dell’uomo con Dio, e questo significava una critica radicale dell’autorità e una violenta contestazione della successione apostolica (ovvero della Chiesa come prolungamento di Cristo nella storia). Il concilio di Trento riafferma invece con altrettanta forza che la verità rivelata non è affidata all’interpretazione individuale della Parola di Dio, ma è “conservata” e vive nella Chiesa attraverso la testimonianza dei successori di Pietro. È la tradizione, quindi, che sta a fondamento dell’interpretazione delle Scritture, non viceversa. A questo si lega direttamente la dottrina dei sacramenti. I riformatori, oltre a denunciare l’abuso di alcuni sacramenti (come la pratica della penitenza per lucrare sulle indulgenze), negavano la validità della maggior parte di essi: solo il battesimo e l’eucaristia erano ritenuti validi, in quanto essi esprimono il rapporto del singolo credente con Dio, ma senza far dipendere in alcun modo la loro validità dal fatto di essere celebrati dai sacerdoti come ministri intermediari tra gli uomini e Dio. Questo portava a svuotare la loro

stessa natura di “segni” sensibili della trasmissione della grazia: il caso estremo era la concezione calvinista dell’eucaristia, in cui veniva negata la transustanziazione, cioè la conversione sostanziale del pane nel corpo di Cristo, e del vino nel suo sangue, e se ne conservava solo il valore di memoria spirituale all’interno della comunità. Il concilio di Trento ripristina invece l’oggettività dei sacramenti, come segni efficaci della presenza reale di Cristo, che hanno bisogno della mediazione concreta di uomini (i sacerdoti) per essere amministrati, al fine di non essere ridotti a pura interiorità soggettiva. 1. In base alle risoluzioni approvate dal concilio di Trento la Chiesa dispone: a. il recupero della tradizione come trasmissione vivente della fede. V F b. che il peccato originale è da interpretarsi come condizione irrimediabile di degrado della natura umana. V F c. la difesa del principio della sola Scriptura. V F V F d. il recupero del valore oggettivo dei sacramenti.

5.2 La risoluzione tridentina alla disputa sulla giustificazione Particolarmente importante in merito alle questioni poste dalla Riforma è il Decreto sulla giustificazione, emanato nel 1547, alla fine del concilio di Trento. Di contro alla giustificazione forense dei protestanti [ 2.4.2], qui si riafferma – in primo luogo – che l’uomo giustificato da Dio è già investito di una novità radicale in tutto il suo essere: strettamente connessa ai sacramenti del battesimo e della penitenza, la giustificazione «non è solo remissione dei peccati, ma anche santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore, mediante la libera accettazione della grazia e dei doni che l’accompagnano» [Decreto sulla giustificazione, cap. 7]. In secondo luogo, la giustizia divina non resta aliena, cioè estrinseca rispetto alla natura umana, bensì viene infusa per mezzo della grazia ed è quindi una giustizia interiore: con essa, cioè, l’interno dell’uomo cessa di essere determinato solo dal peccato, ma è determinato piuttosto dalla redenzione. In terzo luogo, il concilio respinge la posizione luterana secondo la quale «la fede che giustifica non è altro che la fiducia nella divina misericor-

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dia, che rimette i peccati a motivo del Cristo» [Decreto sulla giustificazione, canone 12]. La posizione cattolica, che pure sottolinea la centralità della fede, mette in guardia dall’intenderla in senso intimistico, cioè come staccata dall’obbedienza e dal rinnovamento spirituale. La definizione di fede fornita da Calvino nella sua Istituzione della religione cristiana è riassuntiva delle posizioni riformate:



SINTESI CAPITOLO 2

Una piena definizione della fede è dunque questa: si tratta di una conoscenza stabile e certa della buona volontà di Dio nei nostri confronti, conoscenza fondata sulla promessa gratuita data in Gesù Cristo, rivelata al nostro

La Riforma protestante. La Riforma protestante costituisce uno degli avvenimenti più drammatici e insieme più incidenti nella storia dell’Europa moderna. Il termine ha in origine il duplice significato di “protesta” e di “testimonianza” (dal verbo protestari), e più esattamente nasce dalle reazioni di alcuni prìncipi tedeschi, che rivendicavano la libertà di coscienza e i diritti delle minoranze religiose contro le misure oppressive ordinate dalla Dieta di Spira nel 1529. Ma, strettamente intrecciata con questo motivo di ordine politico-religioso, la Riforma aveva evidenziato una ragione squisitamente teologico-dottrinale, attraverso una riformulazione del rapporto tra la grazia divina e la libertà umana che rompeva radicalmente con la tradizione cattolica. Questo stretto intreccio tra ragioni politiche e ragioni teologiche trovò il suo punto di più netta espressione nella figura di un uomo che ha segnato non solo la storia della Chiesa e della teologia, ma anche della filosofia dell’età moderna: Martin Lutero. Gli albori della Riforma in Germania: l’esperienza di Martin Lutero. Accompagnato da una costante “tentazione di tristezza”, tormentato dall’immagine della nullità dell’uomo di fronte a Dio e dal terrore del peccato, Lutero (1483-1546) concepisce la vita religiosa come una fuga dell’anima macchiata indelebilmente dal peccato originale alla ricerca di una salvezza fuori di sé.

intendimento e suggellata nel nostro cuore dallo Spirito Santo. [Istituzione della religione cristiana, III, 2, 7]



Di fronte ad una fede ridotta a momento privato, a misura umana, a fiducia soggettiva, il concilio di Trento sottolinea invece che la “credibilità” si fonda sulla base oggettiva delle promesse di Dio.



Siamo giustificati mediante la fede, perché «la fede è il principio dell’umana salvezza», il fondamento e la radice di ogni giustificazione, «senza la quale è impossibile essere graditi a Dio» (Ebr. 11,6). [Decreto sulla giustificazione, cap. 8]



Una luce illuminerà la sua travagliata esperienza religiosa quando, leggendo la Lettera ai Romani di san Paolo, Lutero avrà una rivelazione, che sarà ricordata come l’“evento della torre” (giacché il suo studio si trovava nella torre del monastero nero di Wittenberg): l’unica cosa che può giustificare la condizione miserabile – cioè può renderla giusta o può redimerla – è la fede. La giustizia divina si rivela all’uomo, mediante il Vangelo, solo in una modalità passiva: e questo non significa che il peccatore è giustificato dal suo atto di fede (se così fosse si tratterebbe ancora di uno sforzo umano), ma piuttosto che l’uomo riceve la grazia esclusivamente per iniziativa divina. È proprio in questa personale esperienza di fede l’atto di nascita e il cardine della Riforma protestante: la giustizia non deriva mai dalle opere dell’uomo, ma solo dalla fede; e la fede non c’entra nulla con la libertà umana, ma solo con la grazia divina. Di qui lo scandalo di Lutero di fronte alla pratica della compravendita delle indulgenze per denunciare la quale nel 1517 scrive una disputazione costituita da 95 tesi, che – secondo una leggenda – affigge sul portone della chiesa di Wittenberg dando così avvio al movimento di protesta che presto dilagherà per tutta la Germania. La Chiesa non comprende immediatamente la portata dell’evento, e soltanto un anno dopo inizia un’aperta disputa col monaco agostiniano: una volta ammonito con la bolla papale Exsurge Domine (1520),

Lutero viene chiamato in giudizio ed esortato a ritrattare le sue tesi, che egli però difende con fermezza e ostinazione, ottenendo con ciò la scomunica come eretico e l’esilio dall’Impero. Con l’editto di Worms (1521) vengono poi messi al bando i suoi scritti. Protetto dall’elettore di Sassonia, trova rifugio nella fortezza di Wartburg: qui inizia la sua grande opera di traduzione della Bibbia in tedesco. In questi anni Lutero approfondisce la sua concezione della libertà umana con lo scritto Il servo arbitrio, in cui entra in polemica con le tesi sul libero arbitrio avanzate da Erasmo da Rotterdam. Erasmo da Rotterdam e Lutero: libero o servo arbitrio? Erasmo da Rotterdam (1469-1536) sembrerebbe essere per così dire il contraltare di Lutero: umanista di stampo europeo, cattolico romano e difensore della libertà umana. Ma, al tempo stesso, egli condivide e in qualche modo anticipa – da un fronte diverso – la posizione del monaco tedesco. Erasmo è il rappresentante per eccellenza di quello che si può chiamare l’umanesimo evangelico: questo significa per lui un’attenzione particolare alle fonti primarie delle Sacre Scritture e dei Padri della Chiesa, e, per loro tramite, un ritorno alle testimonianze delle primitive comunità cristiane, nelle quali era possibile ritrovare quella genuinità evangelica che poi sarebbe stata soffocata dalle dispute teologiche e filosofiche della Scolastica e dalla corruzione morale della Chiesa.

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parte I L’alba della modernità Nel diretto confronto con la svalutazione luterana del libero arbitrio, Erasmo – nello scritto sul Libero arbitrio – mantiene fermo il punto della dottrina cattolica in base alla quale il peccato originale non ha impedito del tutto la libertà del volere, ma l’ha semplicemente indebolita. Tuttavia, la volontà buona è resa possibile dalla grazia – in quanto essa sollecita, trascina e compie la libertà –, che ci fa percepire la nostra manchevolezza e ci conduce alla salvezza. La principale preoccupazione dell’umanesimo evangelico di Erasmo risiede dunque nella salvaguardia di una certa autonomia e libertà naturale nell’uomo. Lutero replica prontamente ad Erasmo, scrivendo il Servo arbitrio (1525), nel quale rilancia e radicalizza il carattere non libero della natura umana. Appellandosi all’interpretazione diretta e testuale della “sola Scrittura” e rifiutando decisamente la tradizione teologica della Chiesa (posizione, questa, condivisa in gran parte dallo stesso Erasmo), Lutero considera la libertà più come una prerogativa divina che come una capacità umana: in Dio essa è assoluta e senza alcun vincolo esterno alla stessa volontà divina, nell’uomo invece essa è presente limitatamente alle relazioni che egli instaura con le cose mondane, ma è completamente assente nella relazione con Dio, di fronte al quale l’uomo è radicalmente non libero. Grazia e giustizia nelle dottrine riformate. Nella concezione luterana, l’umanità perduta ha come unica chance quella di ricevere l’immeritato favore divino capace di redimerne il peccato e di giustificarla, cioè di rimetterla nel giusto rapporto con Dio. In questa azione divina risiede la grazia giustificante. Lutero sostiene che è Dio stesso ad adempiere le condizioni per la salvezza, donando gratuitamente al peccatore ciò di cui questi ha bisogno per essere giustificato. La novità annunciata dal Vangelo risiede proprio nel fatto che tali condizioni sono state adempiute da un altro, il quale si è fatto carico delle colpe dell’uomo e le ha espiate in sua vece: è la dottrina dell’espiazione vicaria di Cristo. In altri termini, nella giustificazione solo Dio è attivo, mentre l’uomo

è “meramente passivo”: è a questo che si riferisce la celebre espressione luterana, secondo cui la salvezza avviene esclusivamente mediante la fede (sola fide), cioè per un dono gratuito di Dio, e senza l’intervento di alcuna opera umana (le opere non sono la causa, bensì il risultato della giustificazione). Nelle Lezioni sulla Lettera ai Romani (1515/16), Lutero sviluppa l’idea di una “giustizia aliena” cioè puramente esterna, nel senso che la giustificazione divina non trasforma l’essere stesso del credente, ma lo riveste semplicemente come un “manto”. In tal modo, se è vero che la giustizia non viene all’uomo dall’interno ma dall’esterno, cioè da Dio, è anche vero che essa resta anche sempre estrinseca rispetto a lui, cioè non coincide mai con una sua trasformazione ontologica. Queste idee saranno sviluppate in particolare da Filippo Melantone (1497-1560) un umanista tedesco amico e allievo di Lutero, che abbraccerà la Riforma e ne fornirà il primo sistema dottrinale organico nell’opera sui Luoghi comuni teologici, composta nel 1521 e rielaborata diverse volte sino al 1559. A differenza della dottrina cattolica, secondo la quale il peccatore è reso giusto nel suo intero essere e quindi intimamente santificato (in quanto partecipante alla divinità di Cristo), per Melantone invece egli è solo considerato o dichiarato giusto dinanzi al tribunale celeste (in foro divino). In questo secondo caso, si parla dunque non di una giustificazione ontologica, ma solo di una “giustificazione forense”, e la si differenzia chiaramente dalla santificazione dell’uomo, che non è più intesa come un cambiamento già in atto nel presente, ma come un processo graduale nel futuro. In area svizzera, in particolare con Huldreich Zwingli (1484-1531) e con Giovanni Calvino (1509-1564), il pensiero della Riforma assume un accento spiccatamente etico-civile. Prova ne è l’opera del riformatore francese Calvino che ha legato il suo nome alla città di Ginevra, divenuta sotto il suo influsso una città identificata con la nuova Chiesa riformata, vale a dire un ordinamento politico esplicitamente costruito come il Regno di Dio sulla Terra. Nella Ginevra calvinista il potere civile aveva il com-

pito di indirizzare, regolamentare e, nel caso, reprimere non solo i costumi o i divertimenti, ma tutte le pratiche sociali, con l’obbligo di espellere dal suo interno ogni dissidente a livello dottrinale e morale (come fu il caso dello spagnolo Michele Serveto, messo al rogo per le sue convinzioni eretiche sulla Trinità). Con Calvino si radicalizzano due elementi tipici della Riforma protestante, vale a dire la sottolineatura dell’assoluta sovranità di Dio, da un lato, e quella della sostanziale incapacità dell’uomo dall’altro, così che una teologia sostanzialmente volontaristica (in cui cioè il criterio ultimo è l’assoluta e imperscrutabile volontà divina) si coniuga con un’antropologia fondamentalmente pessimistica, dal momento che la libertà umana è completamente destituita di ogni potere. Nell’Istituzione della religione cristiana (1559) di Calvino la dottrina della predestinazione si presenta come il punto di confluenza tra l’onnipotenza divina e il peccato umano: Dio stesso avrebbe scelto in anticipo a chi donare e a chi non donare la salvezza. Tuttavia la dottrina della predestinazione, lungi dal significare per il calvinismo la svalutazione di ogni opera umana, paradossalmente porta ad un’enfatizzazione delle attività dell’uomo, soprattutto quelle legate al lavoro e alla convivenza sociale. Ribaltando in qualche modo l’iniziale tendenza luterana, la via “svizzera” alla Riforma porta a considerare nei successi mondani di una vita timorata di Dio il segno certo dell’elezione divina. Gli uomini non possono guadagnarsi la salvezza con le loro opere, ma agli eletti è dato di riuscire nelle loro attività. Dalla Riforma protestante alla riforma cattolica. Mentre la Riforma protestante divampa in Germania e si diffonde, con accenti e motivazioni diverse in Francia, nei Paesi Bassi e in Inghilterra, in campo cattolico si avvia un formidabile contro-movimento di ridefinizione dottrinale e di espansione missionaria: la Riforma cattolica. Delineatasi con il concilio di Trento (1545-1563), quest’opera di rinnovamento della Chiesa cattolica inaugurò un importante processo di riappropriazione della tradizione,

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SINTESI CAPITOLO 2

L’istanza di una nuova coscienza religiosa e la disputa sulla libertà e sulla grazia capitolo 2 non più intesa come un canone stabilito nel passato, ma come una trasmissione vivente della fede, che in ogni epoca è chiamata a dar ragione di sé. Non si trattava dunque solo di un arroccamento in difesa di un’istituzione del passato, ma di un momento di rinnovata coscienza dell’origine, della natura e del compito della Chiesa nel mondo. Per quanto riguarda la dottrina, in particolare la Chiesa romana riabilita la concezione tradizionale della natura umana segnata dal peccato originale: il peccato non è solo il sigillo dell’incapacità umana ma è anche segno di un rapporto interrotto con Dio, che questi ricostituisce per grazia attraverso Cristo e la Chiesa, e valorizzando ai fini della salvezza anche il merito che gli uomini si guadagnano con le buone opere. Un altro punto di netto distacco dai riformatori riguarda il rapporto tra le Sacre Scritture e la tradizione: il concilio di Trento riafferma con forza che

la verità rivelata non è affidata all’interpretazione individuale della Parola di Dio, ma è “conservata” e vive nella Chiesa attraverso la testimonianza dei successori di Pietro. È la tradizione, quindi, che sta a fondamento dell’interpretazione delle Sacre Scritture, non viceversa. A questo si lega direttamente la dottrina dei sacramenti. I riformatori, oltre a denunciare l’abuso di alcuni sacramenti (come la pratica della penitenza per lucrare sulle indulgenze), negavano la validità della maggior parte di essi: solo il battesimo e l’eucaristia erano ritenuti validi ma senza far dipendere in alcun modo la loro validità dal fatto di essere celebrati dai sacerdoti. Il concilio di Trento ripristina invece l’oggettività dei sacramenti, come segni efficaci della presenza reale di Cristo, che hanno bisogno della mediazione concreta di uomini (i sacerdoti) per essere amministrati, al fine di non essere ridotti a pura interiorità soggettiva.

Particolarmente importante in merito alle questioni poste dalla Riforma è il Decreto sulla giustificazione, emanato nel 1547, alla fine del concilio di Trento. Di contro alla giustificazione forense dei protestanti, qui si riafferma che l’uomo giustificato da Dio è già investito di una novità radicale in tutto il suo essere: strettamente connessa ai sacramenti del battesimo e della penitenza, la giustificazione «non è una semplice remissione dei peccati, ma anche santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore, mediante la libera accettazione della grazia che l’accompagnano». La giustizia divina pertanto non resta aliena, cioè estrinseca rispetto alla natura umana, bensì viene infusa per mezzo della grazia ed è quindi una giustizia interiore: con essa, cioè, l’interno dell’uomo cessa di essere determinato solo dal peccato, ma è determinato piuttosto dalla redenzione.

BIBLIOGRAFIA Fonti

Opere

• M. Lutero, Le 95 tesi, trad. di I. Pin, a cura di S. Quinzio, Edizioni Studio Tesi, Pordenone 1984 (comprende anche La libertà del cristiano e La prigionia babilonese della chiesa). • M. Lutero, Il servo arbitrio, a cura di F. Pintacuda De Michelis, Claudiana, Torino 1993. • M. Lutero, Lezioni sulla Lettera ai Romani (1515-16), a cura di G. Pani, 2 voll., Marietti, Genova 1991-92. • Erasmo da Rotterdam, Il libero arbitrio (testo integrale) - M. Lutero, Il servo arbitrio (passi scelti), trad. di R. Jouvenal, Claudiana, Torino 1969. • F. Melantone, I princìpi di teologia [I luoghi comuni teologici], trad. di S. Caponetto, Istituto Storico Italiano, Roma 1992. • G. Calvino, Istituzione della religione cristiana, trad. di G. Tourn, Utet, Torino 1983. • Conciliorum Oecumenicorum Decreta [per i Decreti del concilio di Trento], ed. bilingue a cura di G. Alberigo et al., Edb, Bologna 1996.

Presso l’editrice Claudiana di Torino dal 1987 è in corso l’edizione delle Opere scelte di Lutero (apparsi finora 13 volumi). Tra questi sono importanti in prospettiva filosofica soprattutto: • M. Lutero, La libertà del cristiano. Lettera a Leone X, trad. di G. Miegge, a cura di P. Ricca, con il testo latino e tedesco, Claudiana, Torino 2005; • M. Lutero, Il servo arbitrio. Risposta a Erasmo, trad. di M. Sbrozi, a cura di F. Pintacuda De Michelis, Claudiana, Torino 1993; • M. Lutero - Filippo Melantone, Gli articoli di Smalcalda. I fondamenti della fede, in appendice: Trattato sul primato e l’autorità del papa, trad. di E. Pizzo e M. Grube, a cura di P. Ricca, Claudiana, Torino 1992. Tra gli altri testi importanti per il profondo influsso di Lutero sul pensiero moderno si vedano: • M. Lutero, La Lettera ai Romani (1515-16), a cura di F. Buzzi, Edizioni Paoline, Milano 1991; • M. Lutero, Discorsi a tavola, trad. di L. Perini, con un saggio

di D. Cantimori, Einaudi, Torino 1999. Tra i testi canonici della Riforma, oltre a quelli di Lutero, Melantone e Calvino citasti nella sezione “Fonti” va ricordato anche: • H. Zwingli, Scritti teologici e politici, trad. di E. Genre e E. Campi, Claudiana, Torino 1985. Di Erasmo vanno visti anche: • Erasmo da Rotterdam, Elogio della follia, trad. di L. D’Ascia, testo latino a fronte, Rizzoli, Milano 1989; • Erasmo da Rotterdam, Manuale del soldato cristiano, in Scritti religiosi e morali, trad. di C. Asso, Einaudi, Torino 2004; • Erasmo da Rotterdam, Colloquia, trad. di C. Asso, Einaudi, Torino 2002.

Studi critici Per uno sguardo sintetico sulla figura e il pensiero di Lutero: • O.H. Pesch, Martin Lutero. Introduzione storica e teologica, Queriniana, Brescia 2007. Sui rapporti della Riforma con il pensiero rinascimentale e sulla sua inci-

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parte I L’alba della modernità denza sul “mondo moderno” si possono vedere: • L. Febvre, Studi su Riforma e Rinascimento, Einaudi, Torino 1966; • M. Miegge, Martin Lutero. La Riforma protestante e la nascita della società moderna, Editori Riuniti, Roma 1983; • G. Cotta, La nascita dell’individualismo moderno. Lutero e la politica della modernità, il Mulino, Bologna 2002. Gli influssi della Riforma in Italia, sono invece trattati in: • M. Firpo, Riforma protestante ed eresia nell’Italia del Cinquecento, Laterza, Roma-Bari 1993, Sul concilio di Trento la ricostruzione più importante resta: • H. Jedin, Storia del concilio di Trento, 4 voll., Morcelliana, Brescia 1973-1982. Per una lettura della reazione cattolica alla Riforma protestante anche in termini di un rinnovamento originale all’interno della Chiesa di Roma: • H. Jedin, Riforma cattolica o

ESERCIZI

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Controriforma?, Morcelliana, Brescia 19874.

Erasmo e Lutero, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2001.

Sulle implicazioni culturali e politiche del concilio rimandiamo a: • P. Prodi - W. Reinhard, Il concilio di Trento e il moderno, il Mulino, Bologna 1996.

Un preciso profilo dottrinale del calvinismo è offerto in: • E. Busch, La teologia di Giovanni Calvino, Claudiana, Torino 2008.

Per una ricostruzione sintetica dei difficili rapporti tra i due fronti: E. Iserloh - J. Glazik - H. Jedin, Riforma e controriforma. Crisi Consolidamento - Diffusione missionaria (XVI-XVII sec.), vol. VI, Storia della Chiesa, Jaca Book, Milano 1975. Su Erasmo da Rotterdam, visto come un “rivoluzionario moderato”, ha scritto pagine ormai classiche: • J. Huizinga, Erasmo, Einaudi, Torino 1975. Per una ricostruzione della sua polemica con Lutero: • R. Torzini, I labirinti del libero arbitrio. La discussione tra Erasmo e Lutero, Olschki, Firenze 2000; • F. Pintacuda De Michelis, Tra

1. Alieno dai fasti dell’umanesimo che celebra le naturali disposizioni dell’uomo, il protestantesimo sembra incarnare l’altro volto della modernità, quello della malinconica consapevolezza di una radicale impotenza. Commenta questa apparentemente inspiegabile ambiguità (max 10 righe). 2. Discuti la tesi luterana della “giustizia aliena” la cui salutare efficacia è rimandata a un graduale perfezionamento morale dell’eletto piuttosto che a un’esperienza presente di “santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore” (max 15 righe). 3. Esponi in breve il tema del rapporto tra libero arbitrio e volontà divina nel confronto dottrinale tra Erasmo e Lutero (max 8 righe).

Per cogliere i termini essenziali di una dottrina teologica al centro del dibattito: • O.H. Pesch, «Giustificazione», in Enciclopedia teologica, Queriniana, Brescia 1989. Sul progressivo mutamento nella coscienza religiosa tra il XV e il XVI secolo, a cui è legata una diversa concezione di termini come “natura”, “ragione”, “libertà” e “grazia” si possono vedere: • D. Cantimori, Umanesimo e religione nel Rinascimento, Einaudi, Torino 1975; • H. de Lubac, Agostinismo e teologia moderna, Jaca Book, Milano 1979; • L. Giussani, La coscienza religiosa nell’uomo moderno, Rizzoli, Milano 1985.

4. Il messaggio dei riformatori evangelici presenta aspetti fortemente innovativi quanto alle questioni dottrinali ma complessivamente moderati quanto ai temi civili e politici. Spiega perché, staccata dalle forme ecclesiastiche, la religione finisce per identificarsi con il potere statuale (max 15 righe). 5. Spiega in che senso si può affermare che la dottrina calvinista della predestinazione rappresenta una radicalizzazione della Riforma protestante (max 8 righe). 6. Esponi la soluzione di parte cattolica della disputa sulla giustificazione (max 8 righe).

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1 L’attenzione alla natura nel Rinascimento Tutta l’attenzione che nell’epoca rinascimentale viene dedicata all’indagine sulla natura nasce da una particolare coscienza di sé e della realtà che matura tra il XV e il XVI secolo e a cui giustamente si dà il nome di “naturalismo”: l’uomo è chiamato a penetrare la natura, ricercandone le leggi fondamentali e spesso nascoste, perché egli stesso è e si sente essenzialmente natura; e di converso – come in uno specchio – la natura è e si mostra come una vita grazie alla quale la materia è dotata di una sua specifica sensibilità ed è attraversata da una segreta tendenza spirituale. Ad uno sguardo superficiale il naturalismo potrebbe sembrare in contraddizione con l’enfasi che nella stessa epoca – fortemente segnata dagli ideali dell’Umanesimo [ 1] – veniva posta sulla centralità dell’uomo, inteso come signore e misura dell’Universo. Ma, a ben vedere, si tratta dell’altra faccia di una stessa medaglia: la natura non costituisce per l’uomo rinascimentale semplicemente un ordine esterno al

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suo io, ma la sorgente profonda da cui derivano tutte le sue energie, una vita cosmica che giunge a suprema espressione nella coscienza del soggetto umano. Si trattava, peraltro, di qualcosa di ben diverso – non tanto come formula ma come accento – dalla signoria dell’uomo sull’intera creazione di cui parlavano le Sacre Scritture e che era sempre stata al centro dell’antropologia medievale. In quest’ultimo caso, l’uomo è signore della natura nella misura in cui riconosce Dio, il creatore, come il proprio signore; ora, invece, sebbene la natura continui ad essere vista come segno di un creatore, quest’ultimo tende a perdere il suo carattere trascendente, e si trasforma progressivamente in una realtà immanente alla natura stessa, fino a casi di vero e proprio panteismo. Se l’uomo è tutto natura, inevitabilmente la natura tenderà ad essere divinizzata. Per questo il naturalismo rinascimentale non ha affatto i caratteri di un materialismo: più che escludere Dio, la natura lo include progressivamente in sé stessa. Da questo punto di vista non solo l’Umanesimo e il naturalismo rinascimentali non si contraddicono, ma si implicano e si supportano

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a vicenda, con importanti conseguenze non solo a livello antropologico, ma anche conoscitivo e morale. Da un lato, infatti, tutto ciò che è “naturale” è considerato intrinsecamente buono e opportuno, perché la natura non potrà essere giudicata e valutata se non in base a sé stessa; dall’altro lato, l’uomo comincia a ritenere l’indagine sulla natura non più come una fuoriuscita dalla propria interiorità, ma come uno strumento indispensabile per realizzare i propri fini nel mondo. Se è vero dunque che il sentimento di sé dell’età rinascimentale è quello dell’“homo faber”, cioè dell’uomo artefice della propria sorte, è altrettanto vero che lo studio della natura, e più radicalmente ancora la compartecipazione alla vita della natura, rientra a pieno titolo in questa costruzione. All’interno della più generale tematizzazione della natura in età rinascimentale è possibile distinguere tre possibili aspetti o momenti, da non intendersi però come fasi successive, giacché molto spesso – e talvolta nello stesso autore – essi risultano strettamente intrecciati fra loro: la magia, la filosofia naturale e la scienza. 1. Il naturalismo dell’epoca rinascimentale: a. consiste nella grande attenzione dedicata all’indagine sulla natura. b. nasce dal fatto che l’uomo concepisce la natura come altro da sé stesso. c. concepisce la natura come vita e sensibilità. d. concepisce la natura come un ordine a cui l’uomo è totalmente contrapposto.

V F V F V F V F

2. L’apparente contraddizione fra la centralità dell’uomo nell’umanesimo e l’attenzione alla natura può sciogliersi considerando che: a. l’uomo è di per sé natura. V F b. la natura viene divinizzata. V F c. la natura è concepita in termini del tutto materialistici. V F d. la realizzazione dell’uomo nel mondo passa attraverso la sua lotta contro la natura. V F

2 L’incerto confine tra magia e scienza È indubbio che la magia abbia giocato un ruolo di primo piano nel formare l’immagine dell’uomo rinascimentale; e benché si possa credere – con una certa legittimità – che essa costituisca

un sapere oscuro e fantastico, non verificabile né comunicabile, e quindi ultimamente irrazionale, si dovrà però riconoscere che essa esprime pienamente un altro volto della pretesa, avanzata in quest’epoca, che l’uomo sia il fulcro, il signore e il manipolatore dell’Universo. I maghi del Rinascimento riprendono e radicalizzano alcuni filosofemi tipici della tradizione pitagorica e neoplatonica, soprattutto l’idea che la natura sia un grande organismo vivente i cui elementi sono legati tra loro da una serie di corrispondenze segrete e numericamente organizzate; o la credenza che le essenze delle cose e degli elementi fisici siano di natura spirituale, e quindi passibili di essere scoperte, indotte e trasformate dalle energie spirituali del mago; o ancora l’idea che vi sia un’anima del mondo che governi la vita della natura intera, attraverso le simpatie e le antipatie con cui le cose si attraggono o si respingono tra loro. L’uomo-mago è il centro di questo intricato sistema di flussi ed influssi: egli è capace di carpire i segreti della natura dominandone le forze, anche attraverso procedimenti prodigiosi, incantesimi e manufatti miracolosi. Inteso come la parte operativa della filosofia della natura, il sapere magico esige che la sua pratica sia immersa totalmente nel mondo, nella materia, nella contingenza della vita di ogni giorno. Le richieste a cui il mago deve rispondere sono molteplici: dal decifrare i destini di uno Stato alla richiesta di una guarigione, dal procurare un favore a corte al causare eventi atmosferici per soccorrere le piantagioni. Perciò il suo sapere comprende sia l’alchimia (un insieme di conoscenze e di pratiche volte a scomporre e ricomporre gli elementi delle sostanze materiali, soprattutto i metalli) sia l’astrologia (studio degli influssi arcani che l’ordine delle stelle esercita sull’ordine del mondo terrestre). Tra i diversi protagonisti di questa tendenza magico-naturalistica, due appaiono particolarmente emblematici: il primo è Cornelio Agrippa di N ettesheim (Colonia 1486-Grenoble 1535), autore di un trattato di Filosofia occulta in cui distingue il mondo in tre ordini: quello elementare (cioè degli elementi materiali sublunari), quello celeste (cioè delle sfere e dei corpi celesti) e quello intelligibile (cioè del principio divino spirituale). Questi tre ordini sono connessi tra loro da un’anima spirituale che li pervade come la luce e li tiene misteriosamente assieme, in ma-

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niera tale che ciò che accade nella parte più alta si ripercuote nella parte più bassa, e viceversa; anzi, ciò che accade in un qualsiasi punto si ripercuote su tutti gli altri. La magia è chiamata a cogliere quest’arcana connessione tra le cose, e si articola in una magia naturale, che manipola e trasforma la materia, una magia celeste, che studia l’astronomia ed elabora anche un sapere astrologico, cioè una divinazione sugli influssi astrali, e una magia religiosa, fatta di pratiche cerimoniali per attirare gli spiriti buoni e scacciare quelli demoniaci. Il secondo protagonista è invece Theophrast von Hohenheim (Einsiedeln 1493-Salisburgo 1541), noto come Paracelso, autore tra le altre di un’opera intitolata Il supremo insegnamento magico. La sua visione della filosofia magica è incentrata sul rapporto di corrispondenza speculare tra il macrocosmo, cioè l’intero Universo naturale, e il microcosmo, cioè l’uomo. Tale corrispondenza è decifrabile dal mago attraverso una conoscenza approfondita di tutti i segni disseminati nel mondo; anzi, ciascuna cosa è “segnata” in maniera tale da rimandare attraverso la sua natura visibile alla sua essenza invisibile. Ogni corpo è formato da tre elementi fisici – sale, zolfo e mercurio – cui corrispondono tre elementi metafisici, cioè il corpo, l’anima e lo spirito. L’alchimia avrà come compito quello di trasformare e purificare il composto materiale delle cose, liberando in esse la parte spirituale che corrisponde all’influsso astrale. Ma l’alchimia viene elaborata da Paracelso all’interno dell’arte medica, la quale viene da lui fondata su “quattro pilastri” (oltre all’alchimia, la filosofia, l’astronomia e la virtù personale del medico): esempio evidente di come la magia venga intesa quale pratica di guarigione, e di come la salute venga identificata nel mutuo influsso degli elementi celesti con quelli terrestri, del macrocosmo con il microcosmo. Ad uno sguardo superficiale potrebbe sembrare che l’arte magica costituisca l’opposto della scienza esatta della natura, e tuttavia è proprio a partire di qui che si giungerà alla formulazione dello sperimentalismo matematico del Seicento [ 5]. Con la scienza della natura la magia avrà in comune due punti fondamentali: l’uso della matematica come strumento di conoscenza della struttura del mondo, e l’idea dell’esperienza (o pratica diretta del mondo) come l’ambito proprio della conoscenza, sebbene nel passaggio dalla magia alla scienza entrambi questi elementi si

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restringano e si precisino in un significato più meccanico che vitalistico. A ciò si aggiunga che sia la magia che la scienza hanno di mira – ciascuna a suo modo e con i suoi strumenti – un’applicazione pratica e un intervento trasformatore sulla natura, di modo che il sapere cessa per entrambe di essere legato solo alla contemplazione, e si apre alla tecnologia, alla vita pratica, al potere culturale e sociale. Si deve infine considerare il fatto che, dall’interno dello stesso sapere magico-esoterico, emerge a un certo punto la necessità di ampliare lo studio della natura in una vera e propria filosofia della natura, che si distacchi completamente dalle deduzioni della fisica aristotelica, ma anche dalle pratiche occulte, e cerchi piuttosto nel libro stesso della natura il suo oggetto specifico, da spiegare in base a soli princìpi naturali: sarà quello che tenteranno di fare i cosiddetti naturalisti rinascimentali (Telesio, Bruno e Campanella), nei quali – come vedremo – la magia conserverà ancora un ruolo molto importante. 1. In età rinascimentale il sapere magico: a. si contrappone fortemente all’idea dell’homo faber. b. si nutre di alcune idee della tradizione pitagorica e neoplatonica. c. non rientra a nessun titolo nella filosofia della natura. d. comprende l’alchimia e l’astrologia.

V F V F V F V F

2. Tra la magia rinascimentale e la scienza sperimentale del Seicento vi sono motivi di continuità perché entrambe: a. condividono un’immagine meccanicistica della natura. b. concepiscono il sapere come conoscenza teoretica e disinteressata. c. condividono il ricorso alla matematica e all’esperienza. d. cercano di avallare l’indagine sulla natura di Aristotele.

3 Bernardino Telesio: la natura studiata secondo i suoi princìpi 3.1 La sensibilità universale Il naturalismo rinascimentale trova una delle sue prime e più consapevoli espressioni in Bernardino Telesio. Nato a Cosenza nel 1509, studia filosofia, medicina e fisica presso la Facoltà delle

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arti di Padova, dove ha modo di conoscere bene il pensiero di Aristotele – soprattutto nella sua versione averroista – di cui rimane profondamente insoddisfatto, tanto da ripensare un’indagine sulla natura in chiave esplicitamente antiaristotelica. Laureatosi nel 1535, soggiorna in vari posti d’Italia, soprattutto a Napoli e a Cosenza, trascorrendo inoltre un lungo periodo di ritiro presso un monastero benedettino. Questo costituisce il segno di un altro aspetto importante del suo pensiero, e cioè il fatto di essersi concepito sempre in accordo con la dottrina cristiana, come è attestato anche dal suo rapporto privilegiato con la Sede di Roma. È anche vero peraltro che dopo la sua morte, avvenuta a Cosenza nel 1588 la sua opera venne messa all’Indice ecclesiastico. L’opera principale di Telesio, il De rerum natura iuxta propria principia, ebbe una lunghissima gestazione, da una prima edizione in due volumi, pubblicata a Roma nel 1565, all’ultima in nove volumi, apparsa a Napoli nel 1586. Già dal titolo si evince quale sia lo scopo del filosofo cosentino: indagare la realtà naturale, non costruendovi sopra dei sistemi, ma osservando direttamente i processi naturali nei loro princìpi costitutivi. Telesio è convinto che chi lo aveva preceduto nello studio della natura – vale a dire i filosofi aristotelici – avesse confidato troppo nelle proprie capacità conoscitive, proiettando sulle cose princìpi e cause immaginate arbitrariamente. Invece che continuare a ingabbiare la natura nei loro schemi precostituiti, i filosofi devono finalmente riconoscere il nuovo compito che si pone alla loro indagine:



scrutare il mondo e le sue parti, le passioni, le azioni, le operazioni, le specie delle parti del mondo e delle cose ivi contenute […]. Abbiamo seguito esclusivamente il senso e la natura che, sempre coerente a sé stessa, fa sempre le stesse cose allo stesso modo, e opera sempre ugualmente. [De rerum natura, I, Proemio]



Già da queste prime parole emergono i due princìpi fondamentali che Telesio intende seguire nella sua indagine: l’uniformità della natura (ovvero il fatto che essa presenti costantemente gli stessi fenomeni) e il valore della sensazione. Rispetto al primo principio, che è il fondamento dell’intera dottrina, egli si richiama al Dio creatore che ha costruito il mondo secondo un disegno razionale, benché imperscrutabi-

le all’uomo: è l’atto creativo di Dio, ciò che garantisce l’uniformità della natura e delle sue leggi. Analogamente, anche il valore della conoscenza sensibile propria dell’uomo troverà il suo fondamento e la sua giustificazione nella legge della sensibilità universale quale principio peculiare della natura stessa. Se è vero che solo l’uomo può interessarsi ai princìpi della natura e può coglierne i particolari, ciò accade perché è egli stesso natura, cioè è capace di sentire la diversità e la contrarietà che sussiste fra le cose. Per questo motivo, il senso per Telesio non va inteso soltanto come il punto di partenza del conoscere, ma anche come la condizione di possibilità di tutto il sapere scientifico. Il primato della sensazione abbraccia, in tal modo, non solo il campo gnoseologico, bensì l’intero ambito metafisico, cioè diviene un principio della stessa realtà [ T18]. È il senso che ci indica dunque quali siano i princìpi fondamentali della natura. Da esso, infatti, apprendiamo che il Sole e i cieli sono fatti di calore, il quale è bianco, riscalda ed è causa di movimento, mentre la Terra è densa, immobile, ed è costituita dal freddo. Tuttavia, il Sole non coincide con il caldo, né la Terra coincide con il freddo. Non sono dunque il Sole e la Terra i due princìpi primi, bensì il caldo e il freddo. Queste due sostanze costituiscono infatti le due nature agenti universali. Essendo tuttavia sostanze incorporee (anche se materiali), esse necessitano di una terza sostanza nella quale poter sussistere e operare: la massa corporea, cioè una natura passiva, inerte, soggetta all’azione continua delle due nature agenti. Qualsiasi ente contiene in sé i tre elementi costitutivi del reale: il caldo e il freddo avranno, così, la capacità di ampliarsi, modificarsi, espandersi, restringersi, diffondersi e penetrare in nuovi sostrati, lottando tra di loro e costituendo cose ora più tenui ora più dense a seconda dell’agente predominante. Tale spiegazione non vale soltanto per la natura inorganica, ma anche per quella organica, in cui il principio-calore si presenta come “spirito”, e per quella animale, in cui il medesimo principio assume la forma dell’“anima”. Un’unica sostanza materiale, comprensiva di spirito e anima, pervade la realtà intera nei suoi diversi gradi: essa non ha bisogno di una causa estrinseca (come il motore immobile di Aristotele) ma si spiega mediante la sola generazio-

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ne naturale dovuta al movimento provocato per forza interna dal calore sulla Terra. Così, l’intero meccanismo naturale porta in sé una finalità che non è mai esterna alla natura ma coincide con lo stesso movimento dei princìpi da cui si generano tutte le cose. La continua lotta del caldo con il freddo determina così la sensibilità e la vita dell’Universo intero. Tutti gli enti sentono naturalmente non perché siano tutti provvisti degli organi di senso e di un’anima, come gli animali, ma perché in essi agisce già lo spirito, che è l’autore di ogni sensazione. Lo spirito che anima tutte le cose è costituito da una materia rarefatta ed estremamente mobile, la quale pervade ogni struttura organica della natura; e la sensibilità universale non è altro che il modo con cui lo spirito (cioè il calore) “percepisce” i movimenti esterni e reagisce ad essi. La sensibilità di cui parla Telesio, dunque, ben prima di essere intesa come la percezione che noi abbiamo della natura, va vista innanzitutto come la percezione che la natura ha di sé stessa. In quanto spirito (sempre però di tipo materiale), la natura è per così dire “onnisciente”, ed è solo in base a questa sensibilità universale che si potrà spiegare la conoscenza propria dell’uomo. La gnoseologia di Telesio consiste dunque nel ricondurre le diverse facoltà conoscitive alla sensibilità, e al tempo stesso nel mostrare come il senso non viene oltrepassato dalla ragione, ma permane sostanzialmente in essa, come una sua forma intelligente. La conoscenza sensibile nasce dunque da un contatto diretto tra chi percepisce e la cosa percepita, ottenuto mediante l’uso dei cinque sensi, e soprattutto del tatto. Ciò che viene sentito imprime nel senziente – cioè nello spirito, che qui svolge la stessa funzione dell’“anima sensitiva” di Aristotele – un’immagine della cosa, e il permanere di tali immagini dà luogo alla memoria. Queste immagini, poi, mescolandosi tra loro attraverso i continui movimenti e cambiamenti cui è sottoposta l’anima, danno luogo all’immaginazione. Di qui ha origine infine la conoscenza intellettiva: in base alla somiglianza che sussiste tra le cose conservate nella memoria e quelle che percepiamo con il senso nel presente, l’intelletto non è altro che la capacità di inferire da ciò che è attualmente noto – cioè percepito sensibilmente qui e ora –

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ciò che non è presente ora, ma era stato già percepito in passato. In questo modo, non vi è alcuna essenziale differenza tra le diverse facoltà e le diverse attività conoscitive, giacché «tutte sono sensibilità e comprensibili col senso»; e, ancora più radicalmente: «la sostanza che ragiona non è affatto diversa da quella che sente». Ne consegue, pertanto, che non solo l’uomo, ma tutti gli esseri animali sono dotati di ragione, e che la validità o universalità della conoscenza non va affatto cercata nelle facoltà che sopravanzano il senso: al contrario, in queste ultime diviene più frequente la possibilità dell’errore, e devono quindi continuamente essere riportate alla loro base sensibile, unico e assoluto criterio di verità.

1. Lo scopo del De rerum natura di Telesio è quello di spiegare la natura: a. in base ai suoi stessi princìpi, escludendo cause immaginate arbitrariamente. b. in base a un solo principio immanente ad essa. c. in base ai princìpi trascendenti ad essa. d. secondo i princìpi della fisica aristotelica. 2. Per Telesio l’uniformità della natura e la sensazione come criteri per l’indagine naturale sono garantite: a. rispettivamente dall’azione creatrice di Dio e dall’universale sensibilità della natura. V b. la prima dal disegno razionale con cui il mondo è stato creato, la seconda dall’essere un principio metafisico. V c. dall’essere entrambe il fine verso cui tende la natura. V d. dall’essere entrambe il semplice punto di partenza della conoscenza umana. V

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3. Per Telesio i princìpi costitutivi della natura sono: a. caldo, freddo, massa incorporea. b. Sole, Terra, movimento. c. caldo e freddo immateriali, massa corporea materiale. d. caldo e freddo materiali, e massa corporea.

3.2 Un’etica naturalistica Coerentemente con tale impostazione, anche l’antropologia, cioè lo studio della “natura dell’uomo”, dovrà essere fondata secondo Telesio sui princìpi propri della natura universale, e cioè in termini sensistici. Lo si comprende bene

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considerando la concezione telesiana della vita morale, nella quale il bene coincide con il piacere conseguito dall’incremento dello spirito (cioè del calore vitale sul freddo mortale) e il male coincide con il dispiacere conseguente invece a un decremento dello spirito. Di conseguenza, la virtù coincide con la naturale disposizione dello spirito a conservare e perfezionare il proprio essere, e il vizio con la tendenza innaturale a distruggerlo. Così si dovrà dire che tutti gli enti sono virtuosi quando raggiungono il grado di conservazione corrispondente alla loro natura. Si tratta di un naturalismo etico, che non riconosce alcun fine trascendente alla vita morale, bensì lo identifica col piacere dell’autoconservazione. Ma è difficile, e non solo per Telesio, dar conto dell’esperienza umana in termini esclusivamente naturalistici, giacché questo non permette di spiegare fattori evidenti che però trascendono i meccanismi della natura, come per esempio la libertà umana. Ed è per questo motivo che Telesio – il quale voleva essere insieme un sensista radicale e un buon cristiano – riconosce che l’uomo, pur facendo parte integrante della natura, possiede qualcosa che va oltre lo spirito-calore, e cioè una specie di anima divina e immortale, divenendo così capace di conoscere e di accogliere o rifiutare liberamente la rivelazione di Cristo. N on essendo evidentemente un prodotto della natura, tale anima è infusa direttamente da Dio come una “mens superaddita”, cioè come una mente che viene ad aggiungersi alla natura. Solo quest’anima soprannaturale può spiegare e orientare la libertà umana a scegliere, qualora fosse necessario per il suo bene soprannaturale, di rinunciare al bene naturale. Il soprannaturale viene così recuperato in extremis rispetto al naturale, ma non ha più molto a che fare con esso. E di lì a poco, con Bruno, sarà totalmente riassorbito nella natura.

1. Per Telesio l’etica poggia: a. sulla presenza nell’uomo della mens superaddita. b. su princìpi soprannaturali imperscrutabili all’uomo. c. sul principio sensistico dello spirito-calore. d. sulla libertà umana.

4 Giordano Bruno Bruno è uno di quei pensatori che ha fatto dell’eresia una scelta di vita, concependola quasi come una vocazione, e per questo – certamente attraverso i suoi meriti filosofici, ma anche al di là di essi – è divenuto una bandiera del libero pensiero avverso al cristianesimo e alla Chiesa. Nato a Nola, in Campania, nel 1548, la sua intera vicenda biografica e gran parte del suo pensiero si capiscono soprattutto a partire dalla sua morte, il 17 febbraio 1600, quando fu bruciato vivo a Roma, in Campo de’ fiori, come condanna infertagli dall’Inquisizione per il suo ostinato rifiuto a ritrattare le sue dottrine. Una condanna cui era giunto partendo da lontano: a 17 anni era entrato nell’Ordine domenicano a Napoli e nel 1573 era diventato sacerdote. Già dagli anni del noviziato erano cominciati i sospetti ed erano state avviate inchieste su alcune sue posizioni in odore di eresia legate all’arianesimo (la dottrina antica che riteneva che Cristo, il Figlio di Dio, fosse solo la più nobile delle creature, e quindi non fosse di sostanza divina ma solo umana). Sulla sua cultura teologica, di stampo tomista, esercitavano una forte influenza le tradizioni antiche riprese dagli umanisti rinascimentali, come il naturalismo di Lucrezio, il neoplatonismo nella sua versione “ermetica”, lì dove esso sconfina nelle pratiche cabalistiche e magiche, infine la tecnica combinatoria iniziata in epoca medievale da Raimondo Lullo. L’approfondirsi sempre più netto di queste venature eterodosse nella sua formazione cattolica, assieme al timore di eventuali condanne ecclesiastiche, induce Bruno a lasciare l’abito domenicano e a cominciare la sua lunga peregrinazione in Europa. Tra gli altri luoghi egli soggiornerà nella Ginevra calvinista [ 2.4.3] (gli sembrava infatti che il protestantesimo potesse essere più consono del cattolicesimo alla sua posizione), poi a Parigi, a Oxford, a Wittenberg e a Francoforte, spesso in contatto diretto con gli ambienti di corte e nobiliari, presso i quali farà valere, con pubblicazioni e mediante l’insegnamento, la sua versatilità nell’arte della memoria o “mnemotecnica” [ L’arte della memoria e la mnemotecnica]. In Inghilterra scrisse, tra il 1584 e il 1585, i suoi dialoghi ita-

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liani (tra i quali vanno ricordati Della causa, principio et Uno, Lo spaccio della bestia trionfante e De gli eroici furori), mentre in Germania compose i suoi scritti latini, come il De triplici minimo et mensura (‘Sul triplice minimo e sulla triplice misura’) e il De monade, numero et figura (‘Sulla monade, il numero e la figura’), pubblicati nel 1590. Invitato poi a trasferirsi a Venezia dal nobile Giovanni Mocenigo, che voleva imparare da lui l’arte della memoria e la magia, fu denunciato poco dopo dallo stesso Mocenigo all’Inquisizione, e nel 1593 fu trasferito a Roma. Qui trascorrerà sette anni in carcere, insistendo ostinatamente sino all’ultimo agli inviti del cardinal Bellarmino perché riconoscesse e ritrattasse alcune sue tesi come eretiche. Si giunse così alla scomunica da parte del papa e alla tragica fine riservata agli eretici che non si pentivano. Ma per Bruno la verità abitava ormai definitivamente nella sua nuova filosofia.

4.1 Dio come natura

Il centro propulsore di tutto il pensiero di Bruno sta nel tentativo di ripensare in termini radicalmente diversi rispetto alla tradizione cristiana il rapporto tra Dio e il mondo, cioè tra l’infinito e il finito, e al tempo stesso di ridefinire su basi nuove anche il rapporto tra la nostra mente e l’Universo intero. L’io, il mondo e Dio non vanno infatti considerati per lui come tre realtà diverse o separate che debbano entrare in relazione tra loro, ma come un’unica realtà originaria, in cui quei tre elementi si unificano continuamente tra loro. Bruno chiama questa realtà dinamica “natura” e la intende come la vita stessa di Dio, un Dio non più visto come il creatore che sta prima e fuori del mondo, ma come il principio infinito totalmente immanente al mondo. Dio non crea semplicemente la natura ma è la natura stessa, come una sorgente inesauribile che, agendo continuamente dall’interno, informa di sé ogni singola realtà, in tutta l’infinita varietà degli enti individuali. A dire il vero, tale novità è intesa da Bruno come un ritorno alle antiche concezioni magiche ed ermetiche delle religioni orientali, peraltro già riportate in auge dalle correnti neoplatoniche del Rinascimento, per esempio L’arte della memoria da Marsilio Ficino [ 1.6.1]. Ma se in e la mnemotecnica quest’ultimo l’antica tradizione magico-ermetica era recuperata come La mnemotecnica è quell’ars memorandi, elaborata sin dai un’anticipazione o una profezia di tempi antichi (per esempio in Cicerone) come un metodo artificiale per serbare nella mente – come in un grande magazzino del sapeCristo, in Bruno essa diventa re – le nozioni apprese. La tecnica è quella di associare un singolo elestrumento per scardinare i fonmento del sapere, e ancor più il nesso che all’interno di un dato ambito damenti e la dottrina della relisussiste tra i diversi elementi, a immagini di luoghi abituali (la città, la stragione cristiana e per costruire da, la chiesa, la casa, e poi all’interno le scale, le singole stanze, le porte e le una nuova concezione della finestre, le colonne, ecc.) o ad immagini di animali più o meno fantastici o alla divinità e del rapporto tra Dio e raffigurazione di eventi famosi, facendo corrispondere nella memoria la concatenazione tra le parti di un luogo o tra le caratteristiche di una figura con la la natura. Una cosa è certa: noi non concatenazione logica della materia della conoscenza. Soprattutto in epoca possiamo conoscere Dio a parrinascimentale, tuttavia, la funzione tecnica dell’arte mnemonica viene caritire dagli enti di natura (passancata di un valore simbolico aggiunto: grazie agli apporti dell’ermetismo e do dalla creatura finita al creatodella cabala si sviluppa l’idea – erudita e magica al tempo stesso – che nella mente dell’uomo sia possibile simbolizzare tutto il sapere univerre infinito), per il fatto che Dio sale, e che la raffigurazione di questo sapere rifletta in maniera spenon è un ente sommo separato dal culare la tessitura dell’Universo intero, quello visibile e quello mondo ma è immanente ad esso; e, invisibile, quello passato ma anche quello futuro. In tal d’altra parte, non possiamo neanche senso la memoria è un’arte che non si limita solo a conconoscere la natura come separata o servare ciò che è stato appreso e ciò che è già altra rispetto a Dio, per il fatto che essa accaduto, ma acquista il potere di crearlo non è un suo effetto, ma coincide con la o ricrearlo nella mente umana. stessa vita infinita di Dio. Si tratta di una concezione cui possiamo senz’altro dare il nome di

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panteismo. Questo però pone tutta una serie di problemi, sia di ordine metafisico che di ordine conoscitivo. Se Dio è nella natura, questo significherà che ogni singola cosa è Dio, pur nella sua condizione limitata e finita? E, di conseguenza, qual è il rapporto fra la conoscenza delle cose della natura e la conoscenza di Dio? Al primo ordine di problemi la risposta di Bruno è che Dio costituisce al tempo stesso la causa e il principio di tutte le cose. La “causa” va intesa come ciò che “concorre alla produzione delle cose esteriormente”, cioè produce un effetto restando però separato da esso, tant’è vero che l’effetto o il prodotto della causa è tale in quanto fuoriesce o risulta da essa. Il “principio” invece è “quello che intrinsecamente concorre alla costituzione della cosa e rimane nell’effetto”, vale a dire ciò che appartiene alla natura della cosa e non può esserne separato, ma permane stabilmente in essa. Ora, secondo Bruno, Dio non è altro che la coincidenza – o meglio l’“unità” o l’“Uno” – della causa che produce tutte le cose e del principio che permane in esse: per questo egli riformula completamente la dottrina aristotelica dei quattro tipi di cause (materiale, formale, efficiente e finale), cercando di compenetrarle intimamente in un unico processo, dal quale risulterebbe appunto il carattere divino della natura. La causa materiale (ciò di cui una cosa è fatta), quella formale (la forma o il principio in base a cui essa è fatta) e quella finale (il fine per cui una cosa è fatta) diventano tutt’uno e confluiscono assieme nella causa efficiente, cioè nella produzione dei singoli effetti. Dio, dunque, non è soltanto la prima causa efficiente da cui derivano tutte le cose, o il fine cui esse tendono, ma anche ciò di cui sono fatte e il modello in base al quale sono fatte. In questo senso Dio è mens insita in omnia, vale a dire principio vitale e insieme misura (mens) immanente a tutte le cose. Al secondo ordine di problemi (quello relativo alla conoscenza della natura e di Dio) Bruno risponde invece che l’intelletto umano non coglie direttamente la natura divina delle cose, giacché – espresso in termini platonici – noi non conosciamo mai direttamente le “idee” ossia le essenze eterne delle cose, ma solo le loro “ombre” o le loro “vestigia”. In questa prospettiva, Dio viene visto come mens super omnia, cioè come la causa trascendente di tutte

le cose. La nostra conoscenza del principio non potrà mai coincidere con il principio stesso, a motivo del carattere infinito di quest’ultimo. Solo mediante una rivelazione Dio potrebbe essere colto nella sua infinità; ma tutto il tentativo di Bruno è appunto quello di ripensare il sapere filosofico come nuova religione, in cui la natura intera, dall’essere “ombra” divenga “specchio dell’infinita deità”. 1. Per Bruno la natura si identifica: a. con l’ordine infinito delle cose esterne all’io. b. con una realtà dinamica in cui trovano unione l’io, il mondo e Dio. c. con Dio quale principio immanente. d. con Dio che crea dall’esterno il mondo. 2. Per Bruno Dio si identifica: a. con ciò che in modo separato produce le cose esteriormente e insieme con ciò che permane nell’effetto. b. con ciò che in modo trascendente produce le cose esteriormente e insieme con ciò che non permane nell’effetto. c. con il principio vitale immanente a tutte le cose. d. con la causa efficiente, finale, materiale e formale della natura.

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3. Per Bruno l’uomo può conoscere: a. Dio a partire dagli enti creati. b. la natura come separata da Dio. c. l’essenza delle cose. d. le ombre delle cose. 4. Per Bruno il fatto che l’uomo non conosca direttamente la natura divina delle cose implica concepire Dio come: a. mens super omnia. b. mens insita in omnia. c. principio infinito. d. principio immanente.

4.2 Unità e infinità dell’Universo Se Dio è la vita immanente della natura, quest’ultima andrà pensata come un “Universo”, cioè come “Uno” infinito. A questo riguardo, oltre agli influssi neoplatonici e magico-ermetici, bisogna considerare un’altra potente ispirazione della filosofia bruniana, vale a dire la dottrina copernicana del moto della Terra. Copernico offre a Bruno la possibilità di scardinare l’antico sistema aristotelico-tolemaico, con

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la Terra immobile al centro e le sfere celesti che le ruotano attorno:  4.3); ma, proprio basandosi sul fatto che la Terra è dotata di movimento come tutti gli altri corpi celesti, Bruno vorrà oltrepassare anche il cosmo copernicano, il quale, pur avendo il Sole e non più la Terra al suo centro, resta tuttavia un Universo chiuso. L’Universo di cui parla Bruno non è geocentrico e non è nemmeno eliocentrico – giacché anche quest’ultimo resta in definitiva un sistema finito – bensì è semplicemente infinito, in tutte le sue dimensioni: nello spazio infinito esistono infiniti corpi celesti, e ciascuno di essi è un mondo che ha in sé infiniti modi di essere, perché la stessa forza infinita che anima l’Universo intero è presente in ogni sua minima parte [ T19]. Ciò non toglie che queste parti ci appaiano di volta in volta determinate e quindi finite, giacché ad essere infinita è la sorgente nascosta o la radice profonda del loro sorgere e del loro divenire. N onostante l’influsso di Copernico, l’Universo bruniano non è infinito su basi astronomiche e tanto meno sperimentali, ma per motivi squisitamente speculativi: esso è pensato come una sostanza unica e infinita, principio eterno e inesauribile di vita. Come si è detto, tale principio non è solo la “forma” della realtà, ma anche la sua “materia”:



è uno Intelletto che dà l’essere a ogni cosa, chiamato da’ Pitagorici e [dal] Timeo [di Platone] datore de le forme; una Anima e principio formale, che si fa e informa ogni cosa, chiamata da’ medesimi fonte de le forme; una materia, dalla quale vien fatta e formata ogni cosa, chiamata da tutti ricetto delle forme [cioè luogo in cui le forme vengono ricevute e accolte]. [De la causa, principio et Uno, dialogo III]



La materia e la forma non possono più essere intese dunque come due princìpi che compongono la sostanza, giacché esse sono radicalmente unificate sin dall’origine. La forma è l’intelletto universale o anima del mondo, che informa dall’interno la materia; è una specie di energia o potenza che – come “artefice interno” – fa germinare e fuoriuscire gli enti dalla materia. E la materia, da parte sua, è già in sé eternamente gravida di queste formazioni, che poi emergeranno e si svilupperanno nel corso del tempo.

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Per far intendere questa formazione immanente dell’Universo da parte dell’intelletto, quale “fabbro del mondo”, Bruno usa la similitudine di una pianta: “da dentro” il seme o la radice si “esplica”, cioè vien fuori il tronco; dal suo interno il tronco “caccia i rami”; dall’interno dei rami si “spiegano” le gemme, i fiori e i frutti. In questa visione bruniana si avverte fortemente la tipica concezione neoplatonica secondo la quale dall’Uno come supremo principio discende l’intelletto, da questo discende l’anima del mondo e dall’anima discende la realtà sensibile. Ma per Bruno il sensibile non è semplicemente una realtà degradata (cioè l’ultimo gradino nella scala dell’essere), poiché dentro ogni cosa della natura è già presente l’Uno. L’unità, dunque, non va intesa solo come il principio supremo (l’Uno di cui parlava Plotino), ma soprattutto come il processo di unificazione o coincidenza degli opposti – atto e potenza, forma e materia, corporeo e incorporeo – alla maniera di Cusano [ 1.4]:



È dunque l’Universo uno, infinito, inmobile. Una, dico è la possibilità assoluta, uno l’atto. Una la forma o anima; una la materia o corpo. Una la cosa. Uno lo ente. Uno il massimo et ottimo: il quale non deve poter essere compreso, e però infinibile et interminabile, e per tanto infinito e interminato; e per conseguenza inmobile. [De la causa, principio et Uno, dialogo V]



1. L’Universo di Bruno: a. è finito in estensione, ma ciclicamente infinito nel tempo. b. è spazialmente infinito e formato da infiniti mondi. c. non presenta la distinzione fra mondo celeste e mondo terrestre. d. coincide con quello descritto da Copernico. 2. Nell’Universo di Bruno, forma e materia: a. coincidono con la sostanza unica e infinita. b. sono due princìpi distinti che compongono la sostanza. c. sono rispettivamente l’intelletto universale e l’anima del mondo. d. sono princìpi unificati fin dall’origine.

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4.3 Dal monismo al molteplice: la teoria del minimo e della monade In questa concezione monistica dell’Universo, per la quale è possibile ridurre tutta la realtà a un unico Dio-natura, si presenta un problema: come conciliare l’unità immutabile del tutto con la molteplicità delle cose reali? Secondo Bruno bisogna innanzitutto operare una distinzione fra “il tutto” (cioè l’essere) e “le cose” (cioè i modi di essere): l’Universo comprende in sé tutto l’essere e i modi di essere, mentre ogni cosa, considerata nella sua particolarità, possiede sì tutto l’essere, ma non tutti i modi di essere. E tuttavia, se l’essere è uno e immutabile, come sono possibili tanti modi di essere? Bruno tenta di dare una risposta a tale interrogativo utilizzando i due concetti matematici di “minimo” e di “monade”. Con il primo egli traccia la via che porta dalla molteplicità all’unità; con il secondo la via che procede dall’unità alla molteplicità. L’approccio di Bruno alla matematica, tuttavia, non è di tipo quantitativo (cioè non riguarda quelle leggi della misurazione che di lì a poco sarebbero diventate il linguaggio universale della scienza della natura), ma di tipo meramente “qualitativo”. In questo certamente si fa sentire l’influsso dall’ermetismo, dalla cabala e dall’arte della memoria, in cui tornavano antiche concezioni pitagoriche e più in generale l’idea che la conoscenza attraverso i numeri costituisse una via esoterica, cioè nascosta ai più, per raggiungere la sapienza. In questa gnosi pitagorica Bruno considera il concetto di “minimo” come grandezza qualitativa di tutte le cose, vale a dire unificazione tra l’uno e il molteplice:

senso fisico esso non è che l’atomo di cui sono formati tutti i corpi. Ognuno di questi minimi specifica, a suo modo, l’unità immutabile dell’Universo, che di volta in volta si differenzia e si qualifica nelle singole cose: in questo modo, il minimo si configura come un unico principio che permette di intendere sia l’unità delle cose nella loro molteplicità, sia la molteplicità nell’unità. Analogo discorso può essere fatto per il concetto di “monade”, utilizzato da Bruno per spiegare il continuo processo con cui dall’uno fluiscono tutte le cose. In questo processo, dall’unità della monade si genera innanzitutto la diade, così come dal punto scaturisce la linea. La diade rappresenta la natura di opposizione presente nei diversi aspetti della realtà, sia a livello fisico che a livello spirituale. Dalla diade, poi, scaturisce la triade, raffigurata dal triangolo e dalle sue proprietà, le quali, tradotte in termini filosofici, rappresentano i tre princìpi dell’unità, della verità e della bontà, da cui scaturisce una triade successiva, quella dell’essere, della vita e dell’intelletto. Analogamente, dalla triade segue la tetrade, la pentade, l’esade, e così via fino alla decade. All’interno di tale processo, Bruno mira a stabilire – non di rado in modo arbitrario – delle corrispondenze simboliche tra i numeri (e le corrispettive figure geometriche) e gli aspetti fondamentali dell’Universo nella sua struttura fisica e metafisica. Attraverso la riduzione dell’Universo a strutture numeriche Bruno vuol mostrare la costitutiva unità del molteplice, così come l’unità monadica è l’origine di ogni numero. Ma è una spiegazione che sconfina – non per caso, ma volutamente – nella magia.



L’oggetto e lo scopo della natura e dell’arte, cioè la composizione e la risoluzione cui esse mirano nell’agire e nel contemplare, nascono dal minimo, consistono nel minimo e si riducono nel minimo. [De minimo, I, 22]



N on esiste infatti un’unica specie di minimo, bensì ve ne sono tanti quanti sono gli aspetti della natura: in senso geometrico il minimo non è altro che il singolo punto di una grandezza; in senso strettamente matematico esso rappresenta la monade o unità numerica; in

1. Bruno utilizza i concetti di minimo e di monade per: a. spiegare rispettivamente l’infinità e l’immutabilità dell’Universo. b. spiegare rispettivamente come la molteplicità dei modi d’essere sia riconducibile all’unità e come quest’ultima si esplichi nella molteplicità. c. giustificare rispettivamente il processo con cui dall’Uno fluiscono tutte le cose e quello con cui dal molteplice si passi all’unità. d. mostrare la composizione dell’Universo in termini quantitativi.

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4.4 La conoscenza e l’eroico furore Tutto il filosofare di Bruno si presenta come una continua lotta contro i limiti, e cioè come un appassionato tentativo di oltrepassare i confini che la natura stessa sembra imporre alle cose e all’uomo. E questo non certo per giungere ad un mondo ultraterreno o soprannaturale, poiché, al contrario, la filosofia si compie proprio nell’assimilarsi completamente alla vita della natura. Come si è già detto, Bruno sostiene l’impossibilità da parte dell’uomo di giungere alla conoscenza delle cose in maniera diretta e immediata, ma solo mediante le “ombre” delle idee di tali cose; al tempo stesso, però, l’uomo è chiamato a intraprendere la via del sapere percorrendo i diversi gradi della realtà – in una sorta di ascesa mistica che richiama Plotino – da quelli più bassi, cioè in cui le cose appaiono solo finite, a quelli più alti, in cui si contempli e ci si unisca alla vita infinita immanente a tutte le cose. Per questo anche tutte le facoltà della conoscenza umana – senso, immaginazione, ragione, intelletto – dovranno trapassare l’una nell’altra:



il senso, in sé, sente soltanto, nell’immaginazione avverte anche di sentire; il senso anche, essendo già una certa immaginazione, in sé immagina, nella ragione percepisce d’immaginare; il senso, che è già ragione, in sé argomenta, nell’intelletto s’accorge d’argomentare; il senso, che è già intelletto, in sé intende, ma nella mente divina intuisce la propria intelligenza; e la mente divina, nella sua essenza viva, possiede e trova tutte le cose e illumina l’intelletto fino al profondo della materia. [Sigillus Sigillorum, I]



Sin dall’inizio il percorso della conoscenza consiste in un processo di unificazione del molteplice mediante alcune regole della nostra mente (come la funzione ordinatrice della memoria); in seguito, man mano che il percorso si svolge, si giunge non solo a dissolvere in unità tutte le differenze presenti nella realtà ma, ancor più radicalmente, a unificare le nostre stesse facoltà con ciò che esse ci permettono di conoscere. Per Bruno, infatti, il valore dell’atto conoscitivo non è tanto quello di evidenziare disparità o diseguaglianze tra le singole cose ma, al contrario, quello di unificarle nel tutto, e di ritrovare, nella pluralità e nelle singolarità delle cose

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naturali, l’unità tendenzialmente indistinta della natura in esse. Il grado più compiuto della conoscenza umana è la sua identificazione con la natura, nel momento in cui il soggetto e l’oggetto del conoscere diventano “uno”, e il sapere si rivela nella sua natura più propria, cioè come amore, fusione mistica tra uomo e natura. Questa brama insaziabile di risalire dal molteplice all’uno, dal finito all’infinito è ciò che Bruno chiama “eroico furore”. Ciò che rende furioso l’uomo è il desiderio divino (o eroico) di trascendersi per unirsi all’oggetto conosciuto, e tramite quest’ultimo riconoscere sé stesso come natura divina. Qui sta il significato del mito che Bruno espone nel dialogo De gli eroici furori: nel momento in cui il cacciatore Atteone giunge a contemplare Diana nuda – quando cioè il conoscente arriva a cogliere l’essenza della natura – egli viene trasformato in cervo, diventando da cacciatore preda, e diviene così il simbolo dell’intelletto umano che si divinizza unificandosi con la natura. L’eroico furioso, dunque, è l’uomo che scopre nel suo intelletto finito una potenza infinita, e che spinge il suo intelletto a quel confine estremo in cui non è possibile scorgere differenze tra l’io e il tutto. Il compimento dell’io si rivela dunque come una perdita di sé, un vero e proprio dissolvimento della propria individualità nell’infinito. L’anima dell’uomo resta così immortale al di là della sua individualità. Cambia così radicalmente il concetto cristiano di un’anima individuale e ad un tempo immortale: Bruno enfatizza l’immortalità ma non la lega più a un’unica singolarità, ammettendo invece la reincarnazione di ogni anima in corpi individuali diversi nel corso del tempo. 1. Per Bruno la conoscenza umana: a. può cogliere direttamente la natura divina delle cose. b. può percorrere in maniera progressiva i gradi del reale. c. è finalizzata a conseguire l’unificazione fra l’io che conosce e la natura conosciuta. d. implica la coincidenza fra tutte le sue facoltà.

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2. L’espressione bruniana “eroico furore” allude: a. al massimo compimento della conoscenza umana coincidente con il desiderio di congiungersi al principio. b. al grado massimo dell’elevazione umana, in cui l’io riconosce le differenze sostanziali fra le cose. c. al massimo compimento dell’io come conquista di sé. d. al riconoscimento della natura mortale dell’anima.

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5 Tommaso Campanella L’apporto di Tommaso Campanella al naturalismo rinascimentale è caratterizzato, oltre che da una notevole originalità nello sviluppo di temi già attraversati da Telesio e da Bruno, anche dal fatto che egli traduce la sua attenzione alla natura in una compiuta metafisica, che comprende al suo interno una teologia, una dottrina della religione e una teoria politica. Ma Campanella costituisce un caso unico anche per aver espresso e trattato nei suoi scritti una molteplicità di interessi, come quelli per la logica, la retorica e la poetica, l’economia e la medicina. Campanella nasce a Stilo di Calabria il 5 settembre 1568 ed entra nell’Ordine domenicano all’età di 14 anni. Durante i suoi studi, incentrati su Aristotele e Tommaso d’Aquino, matura l’esigenza di attingere il suo sapere oltre che dai sistemi dottrinali della tradizione anche e soprattutto attraverso un approccio diretto alla vita della natura. In questo egli viene certamente segnato dalla nuova fisica naturalistica del suo corregionario Telesio, con cui condivide pienamente l’atteggiamento sensistico e antiaristotelico (come risulta dalla Filosofia dimostrata attraverso i sensi, del 1591). Ma Campanella andrà subito oltre Telesio, allargando gli orizzonti della filosofia naturale a considerazioni squisitamente teologiche (come nell’Epilogo magno, del 1589) e facendo ricorso – sulla scia di Bruno – a princìpi di tipo vitalistico e magico per spiegare l’animazione dell’Universo (come nello scritto Del senso delle cose e della magia, del 1604). Questa sua posizione non mancò di attirare su di lui sospetti e procurargli denunce (tra il 1592 e il 1598 ebbe ben quattro processi per sospetta eresia e per magia, tra Padova, Roma e Napoli). Sin dall’inizio, peraltro, Campanella aveva sempre concepito il nuovo sapere che egli andava scoprendo e formulando come una missione non solo di ordine speculativo, ma anche di ordine pratico, arrivando a progettare nuovi assetti di tipo ecclesiastico, civile e politico. Egli presenta spesso le sue analisi e i suoi progetti con un pathos escatologico – come un profeta che annunci la fine dei tempi – e infarcisce le sue dottrine di calcoli astrologici e suggestioni magiche. Non è un caso, dunque, che nel 1599,

vedendo la miseria e la precarietà sociale e politica in cui viveva il suo popolo, e convintosi dell’imminenza di uno sconvolgimento a livello mondiale, si faccia promotore di una congiura contro il governo spagnolo in Calabria, con l’intento di avviare un nuovo Stato teocratico. Scoperta la congiura, Campanella viene imprigionato assieme ai suoi complici e tradotto a Napoli: qui, dopo ripetute torture, simulerà uno stato di pazzia per poter sfuggire alla pena capitale, che infatti gli viene commutata nel carcere a vita. Per ben 27 anni, sino al 1626, il carcere sarà la sua stabile dimora, e in esso maturerà la sua conversione dal naturalismo giovanile a una vera e propria concezione metafisica. Liberato nel 1626, si trasferisce a Roma, dove ha modo di pronunciarsi, con l’Apologia per Galileo, a favore del principio secondo cui le Sacre Scritture vanno considerate estranee rispetto alle indagini sulla natura. Ma, per evitare altre accuse di sovversione antispagnola, nel 1634 Campanella riparerà a Parigi sotto la diretta protezione di Luigi XIII, dove godrà di una certa fama negli ambienti intellettuali e di corte. A Parigi morirà il 21 maggio 1639.

5.1 La filosofia dei sensi e la magia Dai princìpi del naturalismo telesiano Campanella ricava immediatamente l’universale sensibilità delle cose: il mondo naturale è un organismo vivente, le cui parti sono tutte dotate di senso, come si può vedere dal fatto che ciascuna di esse mira alla propria conservazione, in base alla capacità di distinguere tra ciò che giova alla propria natura, e che quindi risulta positivo, da ciò che la distrugge, ed è pertanto negativo. Tale capacità del sentire è posseduta dai singoli enti in modo differente: gli enti celesti possiedono un senso molto più puro ed acuto, mentre gli enti materiali, come i metalli o i minerali, ne possiedono uno più ottuso a causa della pesantezza della loro materia. La sensibilità propria degli esseri animali, poi, viene esercitata da un fluido corporeo, sottile e caldo, chiamato da Campanella “spirito”. Esso ha sede nel cervello e, scorrendo all’interno di tutte le sottilissime cavità nervose, adempie a una serie di funzioni fondamentali, tra cui quelle vitali e conoscitive. È lo spirito infatti che, entrando in contatto con la realtà esterna attra-

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verso i recettori dei sensi, subisce quelle modificazioni o “passioni” che danno origine alla conoscenza umana. L’attività dello spirito è capace di conservare le diverse impressioni ricevute e di confrontarle tra di loro, dando luogo a tutti i momenti del percorso conoscitivo: dalla memoria all’immaginazione e dal discorso (o ragione) all’intelletto. L’eccellenza dell’uomo, rispetto a tutti gli altri esseri animali, è dovuta poi al fatto di possedere, oltre allo spirito, anche una mente incorporea di origine divina, con cui può giungere a desiderare l’infinito, protendendo la sua conoscenza al di là dei limiti della sua autoconservazione. A questa sensibilità universale si lega peraltro l’idea che Campanella ha della magia naturale (non a caso il suo scritto si intitola Del senso delle cose e della magia): essa non deriva direttamente da Dio – come è il caso delle azioni magiche compiute dagli uomini santi in virtù della grazia divina – e non è nemmeno di origine diabolica, ma deriva appunto dalla naturale sensibilità di tutte le cose, che spesso è nascosta, e che il mago riesce invece a intuire, intercettare e manipolare, producendo congiunture favorevoli in tutti i saperi e in tutte le attività umane [ T20]. Tuttavia, almeno nella prima fase della sua filosofia, quella in cui si fa sentire fortemente l’influsso di Telesio, ciò che caratterizza l’intero processo conoscitivo resta per Campanella il primato della conoscenza sensibile:



Ora io trovo che li sensi son certi più di ogni altra conoscenza nostra, tanto d’intelletto, come di discorso, come di memoria, perché ogni lor notizia [cioè ogni conoscenza razionale e intellettuale] dal senso nasce, e quando sono incerte queste conoscenze, col senso s’accertano e correggonsi, et esse non sono altro che senso indebolito o lontano o strano. [Del senso delle cose e della magia, II, 30]



Se una certezza vi è nella nostra conoscenza, essa poggia tutta sui sensi; e quanto più ci si allontana da essi, tanto più la certezza si affievolisce. Del resto la preminenza della conoscenza sensibile rispetto agli altri tipi di conoscenza è indicata dal fatto che lo stesso termine “sapienza” deriva dal latino sapere, che si riferisce ai sapori del gusto, cioè dell’unico senso che non si limita a percepire le qualità estrinseche di un oggetto, bensì la sua natura interna, e con essa si compenetra.

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Il carattere prioritario della conoscenza sensibile non sarà tuttavia sufficiente a risolvere l’intera problematica filosofica, e lo stesso Campanella, dall’interno della sua visione sensistica, arriverà a porre alcune questioni decisive, che segneranno il passaggio al suo vero e proprio discorso metafisico: se ogni cosa è dotata di sensibilità, e se noi conosciamo le cose appunto in quanto le “sentiamo”, come si spiega il fatto che noi abbiamo anche coscienza di questo sentire? In altri termini, la percezione sensibile è solo un movimento di tipo fisico-naturalistico o richiede una consapevolezza di sé diversa e preliminare rispetto alla mera sensazione? 1. L’universale sensibilità delle cose per Campanella implica che: a. tutte le parti della natura siano dotate di senso. b. tutti gli enti naturali sentano allo stesso livello. c. tutte le parti della natura mirino alla conservazione. d. tutti gli enti naturali possiedano lo spirito.

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2. Per Campanella lo spirito svolge la funzione di: a. dare origine alla conoscenza in tutti gli enti. b. far conoscere all’uomo l’infinito. c. originare la conoscenza negli esseri animali. d. mettere in contatto le creature con Dio.

5.2 Il sapere metafisico e la fondazione dell’autocoscienza Campanella affronterà tali questioni nella sua imponente Metafisica, un’opera in 18 libri, la cui redazione aveva occupato molti degli anni da lui passati in carcere, e che dopo alterne vicende sarà pubblicata a Parigi nel 1638. L’opera si divide in tre parti: una prima parte dedicata ai princìpi del sapere, una seconda dedicata ai princìpi dell’essere, e un’ultima parte dedicata ai princìpi dell’operare. Il discorso metafisico di Campanella parte dall’esigenza di delineare le caratteristiche fondamentali del nuovo sapere che egli intende rifondare totalmente sul principio della sensibilità universale. Contrariamente a quanto affermatosi nella concezione aristotelica – o per lo meno nella sua versione scolastica – la scienza non potrà mai essere intesa come stabilita assolutamente una volta per tutte, ma andrà considerata come un percorso evolutivo o “storico”.

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E questo vale non solo quando l’oggetto della scienza è un dato o un fatto sperimentato, e quindi delimitato (come a Campanella sembrava confermato dall’incessante progredire delle scienze tra la fine del XVI e l’inizio del XVII secolo) ma anche quando essa si occupa della rivelazione in cui noi sperimentiamo un’azione divina (e qui si vede il suo tentativo di riformulare la dottrina cristiana in senso antiscolastico). In tutti i casi la scienza è caratterizzata dalla storicità:



I princìpi delle scienze sono per noi le storie: chiamo storia anche ciò che non abbiamo ascoltato da altri, ma è risultato ai nostri occhi e ai sensi; infatti, da ciò che a noi risulta storicamente, procediamo nell’indagare ciò che è ancora nascosto. Se la storia è stata resa nota per intervento divino, si ha la fede, ed è principio della fede teologica […]. Invece, se la storia è nota attraverso interventi umani essa produce scienza, quando è attestata da molte persone degne di fede e può essere sperimentata da noi così come il fatto che sia stato scoperto un Nuovo Mondo. [Metafisica, V, 2, art. 2]



Vi sono dunque soltanto due tipi di “storie”: quella resa nota o “promulgata” dalla rivelazione divina, e quella resa nota attraverso l’intero cammino dell’umanità; pertanto, vi saranno solo due tipi di scienze: la teologia e la micrologia (da intendersi come scienza di ciò che è piccolo o minimo rispetto a Dio). Quest’ultima si divide a sua volta in scienza naturale e scienza morale. Tra queste due scienze si inserisce una “scienza media”, vale a dire la metafisica, che ha il compito di operare una connessione tra la teologia e la micrologia e di stabilire i princìpi delle scienze chiarendo quale sia l’ordine e il fine di tutte le cose. Se, dunque, la scienza si occupa di indagare il come delle singole cose, l’oggetto della metafisica sarà il perché delle medesime cose nella loro struttura universale e nel loro principio supremo. Il compito della metafisica è, innanzitutto, quello di scoprire le ragioni autentiche della realtà in sé e per sé. Per questo motivo, nella prima parte dell’opera, dedicata al problema del sapere, Campanella comincia con l’esame di quei dubbi e di quelle aporie (cioè problemi insolubili) che impediscono una conoscenza certa, e che si possono sintetizzare:

a. nel carattere relativo e non assoluto del conoscere; b. nella relatività che sempre accompagna i sensi; c. nel rapporto problematico tra il conoscente e il conosciuto; d. negli errori che si verificano nelle scienze e nei contrasti che sorgono tra i filosofi a livello linguistico. A tal proposito Campanella riprende esplicitamente la discussione di Agostino con i filosofi accademici (i quali ritenevano che il fatto stesso di dubitare rendeva impossibile la conoscenza e finanche l’esistenza della verità) e la sua famosa confutazione dello scetticismo: se anche io dubitassi o errassi, ciò non di meno io sono e so di esserci. Di qui deriva per Campanella la possibilità di basare la certezza della conoscenza – anche della conoscenza sensibile – sull’autocoscienza. Anche lo scettico, infatti, sa qualcosa di vero, cioè sa di non sapere nulla, e così presuppone una conoscenza fondata su alcuni princìpi universali che sono al di là di ogni dubbio. Alcuni di questi princìpi, o nozioni comuni, derivano da una facoltà innata presente nell’anima stessa, altri dall’esterno, attraverso quella conoscenza che è comune non solo a tutti gli uomini ma a tutte le cose. E in effetti, l’anima conosce sé con una conoscenza di “presenzialità”, cioè in quanto essa è presenza di sé a sé stessa. In questa conoscenza emerge un primo principio certissimo, e cioè che noi siamo in quanto possiamo, sappiamo e vogliamo. In secondo luogo, è certo che noi siamo qualcosa e non tutto, cioè possiamo, sappiamo, vogliamo qualcosa e non tutto né in tutti i modi. L’autocoscienza è dunque una sapienza innata (indita), mediante la quale noi, ma non solo noi, bensì tutte le cose sanno di essere e sono attaccate al loro essere, mentre la conoscenza delle altre cose è una sapienza addotta (illata), cioè una conoscenza che avviene per contatto con le altre cose. La conoscenza di sé non è però mai pura poiché viene sempre indebolita dalle conoscenze che sopraggiungono, le quali offuscano l’autocoscienza così tanto che negli enti inferiori essa rimane del tutto nascosta (abdita). Solo l’uomo, con la sua mente, può giungere a un adeguato livello di autocomprensione, mentre in Dio tale autocoscienza si realizza perfettamente.

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La possibilità fondamentale dell’intero sapere risiede dunque in questa conoscenza innata di sé, in questa consapevolezza originaria [ L’autocoscienza, da Campanella a Descartes], da cui alla fine dipende anche la sensazione. Se è vero infatti quello che Campanella aveva detto sin dall’inizio, e cioè che nella sensazione l’anima “patisce” una modificazione dall’esterno e per questo tramite si assimila con la cosa conosciuta, tale modificazione rimarrebbe del tutto estranea all’anima se, al tempo stesso, essa non conoscesse sé stessa:



L’anima e tutti gli altri enti conoscono originariamente ed essenzialmente sé stessi; e conoscono secondariamente e accidentalmente tutte le altre cose in quanto conoscono sé stessi mutati e resi simili alle cose dalle quali sono mutati. Lo spirito senziente non sente dunque il calore, ma in primo luogo sente sé stesso: sente il calore attraverso sé stesso in quanto è mutato dal calore. [Metafisica, VI, 8, art. 4]



La dottrina campanelliana della conoscenza sviluppa, ma allo stesso tempo ribalta, la posizione di Telesio. Per quest’ultimo, infatti, l’essere delle cose sta tutto nel loro sentire; per Campanella invece il sentire delle cose presuppone un essere che senta sé stesso e le altre cose. Questo spiega

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il perché secondo lui ogni conoscere è sempre un “morire”, dal momento che, per conoscere l’altro essere, occorre perdere un po’ del proprio essere in modo da divenire coscienza di quell’altro che si sta conoscendo. Campanella porta, così, sul piano metafisico quanto in Telesio rimaneva strettamente legato a una pura descrizione naturalistica della conoscenza. 1. Per Campanella la teologia e la micrologia: a. sono scienze stabilite una volta per tutte. b. si occupano rispettivamente della rivelazione divina e di ciò che è minimo rispetto a Dio. c. sono connesse dalla metafisica. d. sono scienze che si occupano rispettivamente del come e del perché.

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2. In Campanella la certezza della conoscenza poggia: a. sulla sensibilità. b. sulla sapienza innata. c. sulla sapienza addotta. d. sul sapere di non sapere.

5.3 La dottrina delle primalità

Parlando dell’autocoscienza, si è detto che essa per Campanella si fonda sulla consapevolezza che ogni ente “può”, “sa” e “vuole”. Il passo successivo che egli compie nella sua Metafisica sarà quello di affermare che l’essenza di tutte le cose è costituita pertanto da tre princìpi: la L’autocoscienza, potentia, o ‘poter essere’, la sapientia, o il ‘saper da Campanella a Descartes essere’ e l’amor, ossia l’‘amare il proprio essere’. Tali princìpi metafisici costituiscono Questo problema dell’autocoscienza come conoquelle che Campanella chiama le primalità scenza del proprio essere è un segno caratteristico deldi ogni essere. La primalità è “ciò da cui l’epoca in cui viveva Campanella, quel Rinascimento in cui l’ente è primariamente essenziato”, o già fermentano gli interrogativi della filosofia moderna. Nel anche la sua “essenziazione”, ciò che lo 1637, solo un anno prima della pubblicazione della Metafisica di Campanella, Descartes aveva pubblicato il suo Discorso sul costituisce intrinsecamente e ne indica metodo [ 8.3.6], in cui proponeva di fondare tutto il sapere a l’origine ontologica e fisica. partire dall’intuizione che il soggetto ha di sé stesso come una Le primalità non sono tre princìpi dif“sostanza pensante” [ 8.5.4]. Nel confronto appaiono le anaferenti tra loro, bensì un principio unico logie ma si notano anche le diversità: Campanella resta pienanell’essenza e triplice nell’aspetto. Il mente uomo del Rinascimento cristiano, quando afferma che potere (posse), il sapere (nosse) e il volere l’autocoscienza è il modo in cui un ente coglie il suo esser(velle), costituiscono una dinamica essenci o esser-dato nella realtà, mentre Descartes, vero zialmente unitaria: ogni ente è infatti qual“moderno”, afferma che il cogito ergo sum non è la cosa di vivo e infinitamente attivo, e dunque scoperta di sé stesso da parte di un ente esise non operasse, se non sapesse e se non amasstente, ma l’atto di un io che non ha altra se ciò che è e ciò che fa – cioè sé stesso e gli enti consistenza se non il suo puro pensare. diversi da sé – non sarebbe affatto concepibile. Tra i vari aspetti della primalità non vi è dunque

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alcuna priorità né cronologica né metafisica, ma una coesistenza essenziale. E siccome l’autocoscienza non appartiene solo all’uomo, ma a tutti gli enti – sebbene nel primo manifestamente e nei secondi nascostamente – allora ad ogni cosa apparterrà una potenza d’essere, una conoscenza o sensibilità universale e un desiderio di conservare il proprio essere. Tuttavia, mentre nel primo ente (Dio) l’essenziazione delle primalità costituisce la stessa sua natura, negli enti finiti tale essenziazione viene ricevuta, vale a dire partecipata, in modo finito. Ogni ente finito, infatti, è composto non solo di essere ma anche di non essere: ad esso competono, perciò, non solo le tre primalità dell’essere, ma anche le tre primalità del non essere (ossia dell’impotenza), dell’insipienza e dell’odio. Queste ultime entrano a costituire l’essenza delle cose finite, le quali non possono essere tutto ciò che potrebbero essere, né conoscono tutto ciò che potrebbero conoscere, né vogliono tutto ciò che potrebbero desiderare. 1. Campanella ritiene che le primalità: a. siano princìpi metafisici di tutti gli enti. b. appartengano agli animali e agli uomini. c. costituiscano tre princìpi realmente differenti. d. degli enti finiti siano soltanto potenza, sapere e amore.

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5.4 La filosofia politico-religiosa Il pensiero speculativo di Campanella non è mai fine a sé stesso: l’opera metafisica e teologica costituisce il fondamento dell’azione pratica che è stata sempre un segno indelebile della personalità di questo autore. Ma se all’inizio Campanella concepiva la missione sociale e politica della sua filosofia a metà strada tra la profezia, la magia e la rivoluzione, in seguito, attraverso la lunga e penosa maturazione della prigionia, tale compito sarà compreso all’interno di un più vasto e articolato progetto di riforma politico-religiosa. Lo scopo di tale progetto era niente di meno che quello di favorire una completa riunificazione dell’intero genere umano entro l’alveo della Chiesa cattolica: a tal fine Campanella impegnerà tutto sé stesso, individuando quegli Stati nazionali (come la Spagna e la Francia) che sembravano di volta in volta più vicini alle posizioni del Papato, e quindi più idonei a condur-

re a termine l’impresa. Come parte integrante di tale compito, Campanella vorrà inoltre impegnarsi in un’intensa azione missionaria volta alla conversione di eretici e scismatici – i luterani, i calvinisti e gli ugonotti – alla fede cattolica. Sin dall’inizio, il modello cui si ispira il progetto politico di Campanella è quello di una teocrazia universale, cioè un sistema in cui il potere politico è dominato dal potere religioso e dai rappresentanti di Dio sulla Terra [ T36]. In due scritti del 1593, andati perduti – La monarchia dei cristiani e il Regno della Chiesa – il filosofo invitava tutti i potenti della Terra a costituire una confederazione che avesse il proprio fondamento nella signoria di Cristo come “razionalità universale”, e nel pontefice un unico capo riconosciuto da tutto il genere umano. L’ideale teocratico, che Campanella perseguirà anche nelle opere più mature, nasce in lui anche dalla preoccupazione di far fronte alla grande crisi che aveva investito tutto il cristianesimo con la scissione delle Chiese protestanti dalla Chiesa di Roma. Per il frate domenicano non si trattava soltanto di una frattura dottrinale intorno ad alcuni dogmi della fede, ma di una vera e propria lacerazione del corpo religioso, sociale e politico dell’intera Europa, sempre più minacciata dalle invasioni turche. Proporre un ritorno all’unità politico-religiosa significa pertanto salvare l’Europa con la forza della fede cristiana, l’unica in grado di riunire realmente gli uomini per far fronte contro i nemici comuni. L’attesa del rinnovamento religioso e la riunificazione politica dei cristiani è dunque il criterio per giudicare gli imperi di questo mondo:



Aggrandire ed esaltare il Papato è il vero rimedio di assicurarci di non esser preda del Re di Spagna e di sostenere insieme la gloria d’Italia e del cristianesimo; e per assicurarci contra il Turco è rimedio unico lasciar crescere, anzi magnificar la monarchia di Spagna. [Discorsi ai prìncipi d’Italia]



Nella Monarchia del Messia (pubblicata nel 1636) questo ideale politico-religioso trova la sua più compiuta espressione. La teocrazia si giustifica all’interno di una prospettiva universale ed ecumenica, che si propone di riavvicinare tutte le Chiese: essa ha la sua origine e il suo centro nella figura di Cristo, il Verbo nel quale

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si unificano la ragione naturale e la ragione divina. Per questo motivo, la ragione naturale, in quanto intrinsecamente divina, non potrà che svilupparsi e compiersi come una religione naturale; e a sua volta la religione naturale, proprio in quanto mira a riportare tutte le cose al loro principio razionale, non potrà che svilupparsi e compiersi nella religione cristiana. Le conclusioni della ragione naturale, e dunque della filosofia, non saranno mai in contrasto con quelle del cristianesimo, poiché dipendono direttamente dall’unico Verbo divino. In questo modo Campanella unisce indissolubilmente natura e religione, e può affermare che non solo gli uomini, ma tutte quante le cose, proprio in quanto “sentono”, provengono e tendono al loro principio divino, cioè al creatore. Tutte le religioni positive, basate su particolari rivelazioni storiche, derivano da questa religione naturale, ma la traducono ogni volta in senso limitato e ingannevole; solo nella religione ebraica, e poi definitivamente in quella cristiana, la religione naturale giunge alla sua massima espressione. Anzi, secondo Campanella la stessa religione naturale non è altro che un cristianesimo implicito. Se infatti Cristo rappresenta la ragione divina sussistente e se si considera la ragione umana come una partecipazione di quella divina, risulta legittimo asserire che tutti gli uomini possono dirsi cristiani – anche se soltanto implicitamente – e possono essere indotti a riconoscere il proprio essere cristiani esplicitamente nel momento in cui viene loro annunziato il messaggio evangelico. Tutto il mondo tende a questa manifestazione esplicita del cristianesimo: di qui l’invito pressante rivolto da Campanella ai prìncipi di questo mondo, agli Stati e alle nazioni perché convergano visibilmente nel corpo politico della religione cristiana: in questo egli si concepiva come interprete del nascosto processo della natura (che arriva a fissare anche attraverso previsioni astrologiche), e al tempo stesso come guida profetica degli avvenimenti storico-politici.

5.5 La città del Sole L’ideale di una riforma politico-religiosa del mondo intero verrà espresso simbolicamente da Campanella nella Città del Sole, un’operetta pubblicata nel 1623 a cui è legata gran parte

della sua fama. In essa l’autore delinea la struttura di una città-Stato idealmente perfetta, governata da un principe-sacerdote, chiamato Sole o Metafisico, che a sua volta viene coadiuvato da tre alti funzionari di Stato, chiamati non a caso Pon, Sin e Mor per sottolinearne la stretta correlazione con i tre aspetti della primalità dell’essere, potenza, sapienza e amore. In questo Stato utopico i cittadini – chiamati “Solari” – vivono solo seguendo i precetti della ragione, e proprio per questo si distinguono per la loro religiosità naturale (non avendo infatti ancora ricevuto la rivelazione cristiana). La città – collocata in un luogo ideale sia per il clima che per la posizione geografica – è strutturata e difesa con sette cerchia di mura, che si innalzano a forma piramidale incorporando al loro interno tutte le altre costruzioni. Riprendendo alcuni aspetti del modello di Stato offerto da Platone, nella città del Sole gli uomini hanno in comune sia i beni materiali che le donne, sebbene queste ultime, oltre ad essere generatrici, condividano gli stessi lavori degli uomini. Uno degli aspetti più interessanti della città, infatti, è proprio la concezione del lavoro: per i Solari nessuna attività, neanche quella più pesante o più umile, va ritenuta vile o indegna; le attività più faticose, anzi, sono quelle maggiormente lodate e onorate, e ad essere considerato indegno è solo l’ozio. Non vi sono schiavi, perché i Solari bastano a sé stessi e adempiono ad ogni loro necessità. Grazie all’equa distribuzione dei compiti e degli oneri, ciascuno è tenuto a lavorare non più di quattro ore al giorno, ma è fondamentale che tutti lavorino: se anche un solo Solare non svolgesse il proprio compito, la sua inattività si ripercuoterebbe sull’intera popolazione. Un elemento spettacolare nella struttura e nell’organizzazione della città sono le mura dipinte. Campanella immagina che ciascuna delle sette cerchie da cui è composta la città sia istoriata secondo un tema particolare: per esempio, nel muro interno della sesta cerchia sono rappresentate tutte le arti meccaniche e i loro inventori. Il filosofo calabrese dà grande importanza all’educazione. N ella Città del Sole, il sapere non è rinchiuso nei libri e nelle biblioteche, ma viene posto davanti agli occhi di tutti: solo vedendo le raffigurazioni murarie, i Solari imparano in un anno quello che gli altri uomini imparano dopo dieci o quindici anni.

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SINTESI CAPITOLO 3

Sono due i princìpi fondamentali dell’educazione proposti qui da Campanella: il primo è la funzione predominante svolta dalla sapienza per il raggiungimento della perfezione dell’uomo; il secondo è il carattere di concretezza del sapere insegnato, cioè un sapere non astratto o dialettico, ma vivo e tutto interno alle cose. Per questo motivo, l’educazione non riguarda soltanto una parte della comunità dei Solari – la scuola – ma riguarda la città nella sua interezza e per tutte le età. La perfezione utopistica di questo modello pedagogico non manca di sollevare un problema di fondo: se la ragione, e insieme la religione naturale degli uomini può vivere e incrementarsi sino alla perfezione solo attraverso

L’attenzione alla natura nel Rinascimento. L’attenzione dedicata nel Rinascimento all’indagine sulla natura prende il nome di “naturalismo”: l’uomo penetra i segreti della natura, ricercandone le leggi fondamentali, poiché egli stesso è natura e, di converso, la natura si mostra come vita dotata di una sua specifica sensibilità e attraversata da una segreta tendenza spirituale. La natura per l’uomo rinascimentale non costituisce appena un ordine esterno al suo io, ma una vita cosmica che sfocia nella coscienza del soggetto umano. Se l’uomo è tutto natura, inevitabilmente la natura tenderà ad essere divinizzata. Pertanto il naturalismo rinascimentale non esclude Dio dalla natura, ma lo include progressivamente in essa (panteismo). Nell’ambito del naturalismo rinascimentale sono presenti tre momenti strettamente intrecciati fra loro: la magia, la filosofia naturale e la scienza. L’incerto confine tra magia e scienza. La magia ha giocato un ruolo di primo piano nel formare l’immagine dell’uomo rinascimentale, esprimendo la pretesa, propria di quest’epoca, che l’uomo sia il signore e il manipolatore dell’Universo. I maghi del Rinascimento riprendono e radicalizzano alcuni filosofemi tipici della tradizione pitagorica e neoplatonica: essi tentano di carpire i segreti della natura dominandone le forze e incanalandole attraverso incantesimi e manufatti miracolosi. Il loro sapere

una pedagogia di Stato, che senso avrà ancora la libertà di ciascuno? Ridotta a progetto politico di tipo teocratico, in Campanella la stessa religione cristiana rischia di trasformarsi in una grandiosa – e irrealizzabile – utopia. 1. Il progetto politico di Campanella consiste: a. nell’affermazione di un sistema sociale teocratico guidato dal papa. b. nel riaffermare l’unità dei cristiani mostrando la continuità tra religione naturale e religione cristiana. c. nel superare i conflitti religiosi, mostrando che le religioni positive possiedono ognuna la propria verità compiuta. d. nell’affermare un modello di società guidato da re-filosofi.

comprende sia l’alchimia che l’astrologia. I più emblematici protagonisti del sapere magico-naturalistico sono Cornelio Agrippa di N ettesheim (1486-1535) e Paracelso (1493-1541). In quest’epoca la magia e la scienza non costituiscono ancora due saperi contrapposti. Infatti, la magia ha in comune con la scienza della natura due elementi fondamentali: l’uso della matematica e l’idea dell’esperienza come orizzonte della conoscenza. Inoltre, entrambe mirano ad un’applicazione pratica e ad un intervento trasformatore sulla natura. Bernardino Telesio: la natura studiata secondo i suoi princìpi. Bernardino Telesio (1509-1588) rappresenta una delle prime espressioni del naturalismo rinascimentale. Nella sua opera principale, il De rerum natura iuxta propria principia, egli intende indagare la natura osservandone direttamente i processi nei loro princìpi costitutivi, al contrario dei filosofi aristotelici che avevano proiettato sulle cose princìpi e cause immaginate arbitrariamente. Egli, nella sua indagine, segue due princìpi fondamentali: l’uniformità della natura e il valore della sensazione, fondata sulla legge della sensibilità universale. Il senso per Telesio non è soltanto il punto di partenza del conoscere, ma un vero e proprio principio metafisico: esso mostra il caldo e il freddo come le due nature agenti universali e incorporee, le quali ineriscono alla massa corporea, cioè ad una natura

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passiva e inerte. Qualsiasi ente contiene in sé i tre elementi costitutivi del reale. La continua lotta del caldo con il freddo determina la sensibilità e la vita dell’Universo intero. Tutti gli enti sentono naturalmente perché in essi agisce lo spirito. La gnoseologia di Telesio consiste nel ricondurre le diverse facoltà conoscitive (memoria, immaginazione, intelletto) alla sensibilità e nel mostrare come il senso non viene oltrepassato dalla ragione, ma permane in essa. Pertanto non solo l’uomo, ma tutti gli esseri animali sono dotati di ragione, e la validità o universalità della conoscenza si fonda sul senso. Anche l’antropologia telesiana poggia sui princìpi propri della sensibilità universale: in ambito etico, egli non riconosce alcun fine trascendente alla vita morale, bensì lo identifica col piacere dell’autoconservazione. Tuttavia Telesio riconosce che l’uomo possiede anche un’anima divina e immortale, infusa da Dio (mens superaddita). Giordano Bruno. Bruno (15481600) è uno di quei pensatori che ha fatto dell’eresia una scelta di vita, tanto da essere stato condannato al rogo dall’Inquisizione per il suo ostinato rifiuto a ritrattare le sue dottrine. Il centro propulsore della sua speculazione sta nel tentativo di ripensare in termini diversi dalla tradizione cristiana il rapporto tra Dio e il mondo, l’infinito e il finito, e di ridefinire il rapporto tra la mente umana e l’Universo. L’io, il

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SINTESI CAPITOLO 3

Alla scoperta dell’essenza del mondo: il naturalismo rinascimentale capitolo 3 mondo e Dio non sono tre realtà separate, ma un’unica realtà originaria che Bruno chiama “natura” ed intende come la vita stessa di un Dio infinito e immanente al mondo (panteismo). Questa concezione pone capo a due interrogativi: se Dio è nella natura, ogni singola cosa è Dio? E, di conseguenza, qual è il rapporto fra la conoscenza delle cose della natura e la conoscenza di Dio? Al primo problema Bruno risponde che Dio costituisce al tempo stesso la causa e il principio di tutte le cose, ove per causa intende ciò che produce un effetto restando però separato da esso, e per principio ciò che appartiene alla natura della cosa e non può esserne separato, ma permane stabilmente in essa. Per Bruno Dio è la coincidenza (l’“Uno”) della causa che produce tutte le cose e del principio che permane in esse. Pertanto la causa materiale, quella formale, quella finale e quella efficiente diventano tutt’uno e Dio è mens insita in omnia. Al secondo problema Bruno risponde che l’intelletto umano non coglie direttamente la natura divina delle cose, ma solo le loro ombre. In questa prospettiva, Dio viene visto come mens super omnia, cioè come la causa trascendente di tutte le cose. Poiché Dio è immanente alla natura, questa costituisce un Universo, cioè un Uno infinito. Accogliendo, ma nello stesso tempo andando oltre la dottrina copernicana, Bruno concepisce l’Universo come infinito, ammettendo infiniti corpi celesti in uno spazio infinito. La materia e la forma sono così unificate sin dall’origine: la forma è l’intelletto universale o anima del mondo, che informa dall’interno la materia; e la materia è già in sé eternamente gravida della forma. L’unità dell’Universo, dunque, è il processo di unificazione o coincidenza degli opposti. Ma come conciliare l’unità immutabile del tutto con la molteplicità delle cose reali? Bruno opera una distinzione fra “il tutto” (l’essere) e “le cose” (i modi di essere): l’Universo comprende in sé tutto l’essere e i modi di essere, mentre ogni cosa possiede tutto l’essere, ma non tutti i modi di essere. Per spiegare l’immutabilità dell’uno e la molteplicità delle cose, Bruno utilizza i concetti matematici di “minimo” e di “monade”: il primo spiega la

via che porta dalla molteplicità all’unità; il secondo la via che procede dall’unità alla molteplicità. Il percorso della conoscenza consiste in un processo di unificazione del molteplice: il valore dell’atto conoscitivo non è tanto quello di evidenziare disparità o diseguaglianze tra le singole cose, bensì quello di unificarle nel tutto, e di ritrovare, nella pluralità e nella singolarità delle cose naturali, l’unità indistinta della natura in esse. Il grado più compiuto della conoscenza umana è il momento in cui il soggetto e l’oggetto del conoscere diventano “uno”, e il sapere si rivela nella sua natura più propria, cioè come amore, fusione mistica tra uomo e natura. Questa brama insaziabile di risalire dal molteplice all’uno è ciò che Bruno chiama “eroico furore”: esso spinge l’intelletto umano al confine estremo in cui non è possibile scorgere differenze tra l’io e il tutto. Tommaso Campanella. L’apporto di Tommaso Campanella (15681639) al naturalismo rinascimentale è caratterizzato dal fatto che l’attenzione alla natura si traduce in una compiuta metafisica, comprendente una teologia, una dottrina della religione e una teoria politica. Campanella concepisce il nuovo sapere che andava formulando come una missione non solo di ordine speculativo, ma anche di ordine pratico, progettando nuovi assetti di tipo ecclesiastico, civile e politico. Da Telesio Campanella ricava l’idea dell’universale sensibilità delle cose: il mondo naturale è un organismo vivente, le cui parti sono tutte dotate di senso, sebbene secondo gradi differenti. La sensibilità negli esseri animali viene esercitata da un fluido corporeo chiamato “spirito”; nell’uomo, oltre allo spirito, vi è anche una mente incorporea di origine divina, con cui egli giunge a desiderare l’infinito. La stessa magia naturale per Campanella deriva dall’universale sensibilità di tutte le cose, che il mago riesce ad intuire, intercettare e manipolare. Dall’iniziale adesione al sensismo di Telesio, Campanella approda al suo vero e proprio discorso metafisico: se ogni cosa è dotata di sensibilità, e se noi conosciamo le cose appunto in quanto le “sentiamo”, come si spiega il fatto che noi abbiamo anche coscienza di questo sentire? Nella sua Metafisica, Campanella delinea le ca-

ratteristiche fondamentali del nuovo sapere: contrariamente all’aristotelismo scolastico, la scienza viene considerata come un percorso “storico”. Egli distingue due tipi di “storie”: quella resa nota o “promulgata” dalla rivelazione divina e quella resa nota attraverso l’intero cammino dell’umanità. Pertanto vi sono due tipi di scienze: la teologia e la micrologia (che si divide a sua volta in scienza naturale e scienza morale). Tra queste si inserisce la metafisica che stabilisce i princìpi delle scienze chiarendo quale sia l’ordine e il fine di tutte le cose. Per Campanella la certezza della conoscenza poggia sull’autocoscienza. Questa è una sapienza innata (indita), mediante la quale tutte le cose sanno di essere e sono attaccate al loro essere; la conoscenza delle altre cose è invece una sapienza addotta (illata), cioè una conoscenza che avviene per contatto con le altre cose. L’intero sapere risiede dunque nella conoscenza innata di sé, da cui dipende anche la sensazione. L’essenza di tutte le cose è costituita da tre princìpi: la potentia, o ‘poter essere’, la sapientia, o il ‘saper essere’ e l’amor, ossia l’‘amare il proprio essere’. Questi costituiscono le tre primalità di ogni essere. Le primalità non sono tre princìpi differenti, bensì un principio unico nell’essenza e triplice nell’aspetto. Lo scopo del progetto politico-religioso di Campanella è quello di favorire una completa riunificazione dell’intero genere umano entro l’alveo della Chiesa cattolica, attraverso un modello politico improntato alla teocrazia universale. Nella Monarchia del Messia la teocrazia si giustifica all’interno di una prospettiva universale ed ecumenica, che si propone di riavvicinare tutte le Chiese. L’ideale della riforma politico-religiosa è presente anche nella Città del Sole, in cui l’autore delinea la struttura di una cittàStato idealmente perfetta, governata da un principe-sacerdote, chiamato Sole o Metafisico, coadiuvato da tre alti funzionari di Stato (Pon, Sin e Mor). Un elemento spettacolare nella struttura e nell’organizzazione della città sono le mura dipinte. In questa città un ruolo importante è rivestito dall’educazione: il sapere non è rinchiuso nei libri e nelle biblioteche, ma viene appreso attraverso le raffigurazioni murarie.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

· B. Telesio, De rerum natura, edizione bilingue latino-italiano, a cura di L. De Franco, Casa del Libro, Cosenza 1965 (libri I-III) e 1974 (libri IV-VI); La Nuova Italia, Firenze 1976 (libri VII-XI). G. Bruno, De la causa, principio et Uno, in Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, Mondadori, Milano 2001. G. Bruno, Il triplice minimo e la misura [De triplici minimo et mensura], in Opere latine a cura di C. Monti, Utet, Torino 1980. G. Bruno, Sigillus Sigillorum [Il Sigillo dei Sigilli], assieme a Le ombre delle idee e Il canto di Circe, trad. di N. Tirinnanzi, Rizzoli, Milano 1997. G. Bruno, De gli eroici furori, in Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, Mondadori, Milano 2001. T. Campanella, Del senso delle cose e della magia, a cura di G. Ernst, Laterza, Roma-Bari 2007. T. Campanella, Metafisica, a cura di G. Di Napoli, Zanichelli, Bologna 1967 (cfr. anche l’ed. critica del vol. I, a cura di P. Ponzio, Levante, Bari 1994). T. Campanella, I discorsi ai prìncipi d’Italia, a cura di L. Firpo, Chiantore, Torino 1945. T. Campanella, La città del Sole, a cura di G. Ernst e L. Salvetti Firpo, Laterza, Roma-Bari 20087.

· · · · · · · ·

Opere Oltre agli scritti di Bruno citati nella sezione “Fonti”, bisogna ricordare anche:

• G. Bruno, Dialoghi filosofici italiani, a cura di M. Ciliberto, Mondadori, Milano 2001 (tra i quali soprattutto: De l’infinito, universo e mondi, La cabala del cavallo pegaseo, La cena de le Ceneri e lo Spaccio della bestia trionfante); G. Bruno, Opere mnemotecniche, tomo I, ed. dir. da M. Ciliberto, a cura di M. Matteoli, N. Tirinnanzi, R. Sturlese, testo latino a fronte, Adelphi, Milano 2004 (tra le quali soprattutto: De umbris idearum [Le ombre delle idee] ); G. Bruno, Opere magiche, ed. dir. da M. Ciliberto, a cura di S. Bassi, E. Scapparone, N. Tirinnanzi, testo latino a fronte, Adelphi, Milano 2000 (tra le quali soprattutto La magia matematica e La magia naturale).

·

·

Di Campanella, invece, oltre ai testi citati sopra, vanno tenuti presenti anche: T. Campanella, Apologia per Galileo, trad. di P. Ponzio, testo latino a fronte, Bompiani, Milano 20012; T. Campanella, Compendio di filosofia della natura, trad. di P. Ponzio, testo latino e nota critica di G. Ernst, Rusconi, Milano 1999; T. Campanella, L’ateismo trionfato, a cura di G. Ernst, Edizioni della Scuola Normale Superiore, Pisa 2005; T. Campanella, La monarchia del Messia, a cura di V. Frajese, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1995.

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Studi critici Per inquadrare complessivamente il pensiero di Telesio si può vedere: R. Bondì, Introduzione a Telesio, Laterza, Roma-Bari 1997.

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Una ricostruzione della figura e del pensiero di Bruno, oltre gli stereotipi del martire e del mago, come emblema dell’ambigua complessità del mondo moderno si trova in: M. Ciliberto, Giordano Bruno, Laterza, Roma-Bari 20072.

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Una più dettagliata ricostruzione della biografia di Giordano Bruno è invece offerta in: M. Ciliberto, Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, Milano 2007.

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Sul significato della mnemotecnica nel pensiero rinascimentale il libro più importante è: P. Rossi, Clavis Universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz, il Mulino, Bologna 1983.

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Sul pensiero di Tommaso Campanella un approccio completo è quello di: G. Ernst, Tommaso Campanella. La vita e le opere, Laterza, Roma-Bari 2002.

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Sulla filosofia della natura e il rapporto con la scienza galileiana si veda: P. Ponzio, Tommaso Campanella. Filosofia della natura e teoria della scienza, Levante, Bari 2001.

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ESERCIZI

Alla scoperta dell’essenza del mondo: il naturalismo rinascimentale capitolo 3 1. Come si spiega l’attenzione alla natura in un’epoca segnata dalla centralità dell’uomo? Chiarisci il nesso che intercorre tra l’uomo e la natura in età rinascimentale (max 8 righe). 2. Perché il naturalismo rinascimentale non può essere ridotto a una forma di materialismo? (max 8 righe) 3. Illustra i tratti salienti dell’indagine sulla natura in età rinascimentale (max 8 righe). 4. Elabora un testo sul rapporto fra la magia e la nascente scienza della natura in età rinascimentale. Nella tua argomentazione sviluppa i seguenti punti: a. le radici filosofiche della figura dell’uomo-mago rinascimentale; b. le finalità che questi persegue; c. gli elementi che accomunano i due saperi (max 15 righe). 5. Illustra i princìpi, il metodo e la finalità dell’indagine sulla natura in Telesio. Nella tua trattazione devi utilizzare i seguenti concetti: sensibilità universale, caldo, uniformità della natura, freddo, massa corporea, anima, sensazione, spirito (max 15 righe). 6. Quale importante significato assume il concetto di sensibilità nell’opera di Telesio? (max 5 righe) 7. Elabora un testo sulla concezione della conoscenza in Telesio mettendo in luce il rapporto fra la sensibilità e le altre facoltà. Nella tua trattazione sviluppa il seguente schema (max 15 righe). Conoscenza sensibile 

Contatto diretto tra soggetto e oggetto

 Immaginazione

 Memoria

   Conoscenza intellettuale  8.Elabora un testo sul naturalismo etico di Telesio che spieghi perché l’autore è costretto a trascendere l’orizzonte della natura attraverso il concetto di mens superaddita (max 10 righe).

11. Ricostruisci la visione metafisica di Bruno sviluppando i seguenti passaggi: a. chiarisci la natura del rapporto fra Dio e il mondo; b. esplicita il differente significato dei concetti di “causa” e “principio”; c. mostra il superamento della dottrina aristotelica delle quattro cause (max 15 righe). 12. Elabora un testo sulla visione cosmologica di Bruno utilizzando i seguenti concetti: sostanza unica e infinita, coincidenza degli opposti, forma, minimo, materia, monade. 13. Il concetto di “eroico furore” riassume in sé la natura del processo conoscitivo in Bruno. Evidenzia come tale approccio gnoseologico sfoci nel rovesciamento della concezione cristiana dell’immortalità dell’anima individuale (max 10 righe). 14. Individua le principali matrici filosofiche del pensiero di Bruno (max 8 righe). 15. Quale importante missione Campanella attribuisce al sapere che egli andava elaborando? (max 5 righe) 16. Elabora un testo sull’iniziale adesione di Campanella al sensismo di Telesio. Nella tua trattazione utilizza le seguenti espressioni: universale sensibilità delle cose, primato della conoscenza sensibile, spirito, magia naturale, mente (max 15 righe). 17. Illustra la concezione metafisica di Campanella. Nella tua trattazione chiarisci i seguenti punti: a. il senso dell’affermazione del filosofo “i princìpi delle scienze sono per noi le storie”; b. il compito della metafisica (max 15 righe). 18. Dopo aver chiarito il rapporto fra l’autocoscienza e la conoscenza delle altre cose, spiega perché la dottrina della conoscenza di Campanella ribalta il sensismo di Telesio (max 10 righe). 19. Qual è la differenza fra l’essenza degli enti finiti e l’essenza del primo ente? (max 5 righe) 20.Illustra il progetto politico di Campanella precisando qual è il modello al quale il filosofo si ispira e il fine al quale esso deve tendere (max 10 righe).

9. Qual è il motivo ispiratore della filosofia di Bruno e perché questa si risolve in una forma di panteismo? (max 5 righe)

21. Nel modello politico proposto da Campanella natura e religione risultano indissolubilmente unite. Spiega in che modo (max 8 righe).

10. Dal panteismo scaturiscono problemi di ordine sia metafisico che gnoseologico. Quali sono e come Bruno li risolve? (max 10 righe)

22.Perché il modello pedagogico proposto da Campanella nella Città del Sole rischia di ridurre il cristianesimo ad una irrealizzabile utopia? (max 8 righe)

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capitolo 4

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Alla scoperta della misura del mondo

1 Un nuovo modo di pensare la scienza Tra il Cinquecento e il Seicento comincia per la scienza una storia del tutto nuova, e si tratta di una novità tale da essere stata tramandata sino a noi con il nome significativo di “rivoluzione”. Per dare solo un’idea di tale cambiamento basti dire che d’ora in poi si restringe in maniera sempre più precisa e univoca il nome stesso di “scienza”: essa non indica semplicemente ogni conoscenza dimostrativa che si basi su princìpi assolutamente certi, ma una conoscenza che: a. formula tali princìpi attraverso assiomi di natura matematica e geometrica; b. utilizza questi assiomi intendendoli essenzialmente come strumenti di misurazione della natura fisica; c. di converso interpreta questa natura non più come una sostanza dotata di certe “essenze” o “qualità” che ne determinano il fine, ma solo come un insieme di dati determinabili quantitativamente; d. infine, non solo elabora teorie che ci facciano

conoscere gli oggetti del mondo fisico, ma arriva in qualche modo a determinare gli stessi oggetti a cui quelle teorie si riferiscono, vale a dire i rapporti meccanici tra i corpi nello spazio. Si tratta di un processo di lunga portata, che da Copernico [ 4.3] arriverà a Keplero [ 4.5] e da Galilei [ 5.9-13] fino a Newton [ 13]. In nessuno di questi scienziati – tranne forse Galilei – questi punti si trovano teorizzati o praticati nella loro totalità, anche perché la novità della scienza moderna ha convissuto alle sue origini con elementi apparentemente contrari (come la magia) o non ancora sufficientemente definiti (come le strumentazioni tecniche per l’osservazione della natura). Ma la tendenza è già chiaramente segnata. La vera e propria “scienza” diventa ora la fisica meccanica, e non è un caso se la sua “rivoluzione” avvenga all’inizio proprio nel campo dell’astronomia, quando con Copernico la Terra non viene più pensata al centro del cosmo e al suo posto subentra il Sole, scardinando con ciò il rapporto tradizionale – fisico e teologico al tempo stesso – tra il mondo celeste e quello terrestre. D’altra parte, proprio su quella Terra che si svin-

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colava dal suo posto fisso e immobile nell’Universo era stato da poco scoperto un “Nuovo Mondo” (Colombo approda a San Salvador nel 1492), e anche questa era stata una rottura radicale con l’immagine sedimentatasi per molti secoli nelle teorie e nel modo di pensare abituale degli uomini, che apriva l’orizzonte della ricerca umana a spazi prima impensabili. A sua volta quest’apertura di orizzonti geografici dava un impulso alla sempre maggiore tecnicizzazione del lavoro e dei commerci, frutto dell’intrapresa dei ceti borghesi che, nati nelle città del Trecento

e organizzatisi nei principati, nelle Signorie e negli Stati del Quattrocento, ora costituivano un polo di attrazione formidabile per sviluppo delle conoscenze, impiego operativo delle scoperte e incremento finanziario. Insomma, nella scienza si ripercuotono gli effetti delle novità geopolitiche ed economiche, ma a sua volta la scienza contribuirà in maniera decisiva alla formazione di una nuova concezione della ricerca teorica e pratica dell’uomo rinascimentale. La nuova scienza nasce spesso in esplicita contrapposizione ai metodi e ai contenuti della filo-

Dal modello geocentrico a quello eliocentrico Uno degli aspetti fondamentali della nuova scienza del XVI e del XVII secolo è l’aver abbattuto i confini del sistema dell’Universo aristotelico-tolemaico. I presupposti e l’impianto dottrinale di tale sistema verranno messi in crisi, a partire dalla metà del Cinquecento, ad opera di astronomi che cercheranno soluzioni alternative, più corrispondenti ai calcoli matematici e più pertinenti a ciò che la natura stessa manifestava all’osservazione. Ma, attraverso questa rottura epistemologica e grazie alla nuova determinazione matematica e osservativa della natura, è un’intera prospettiva filosofica che si viene aprendo. Sistema aristotelico-tolemaico

Sistema copernicano

1. La Terra è al centro dell’Universo. Seguono la Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno e la sfera delle stelle fisse.

1. Spostamento del Sole al centro dell’Universo. Seguono Mercurio, Venere, Terra con la Luna come suo satellite, Marte, Giove con i suoi 4 satelliti (osservati la prima volta da Galileo:  5), Saturno e il cielo delle stelle fisse.

2.Divisione nell’Universo tra due mondi: quello terrestre o sublunare e quello celeste o sopralunare. La materia di cui sono composti i due mondi è del tutto differente. All’acqua, terra, fuoco e aria, i quattro elementi di cui sono composti tutti i corpi del mondo terrestre e la Terra stessa, corrisponde un’unica sostanza celeste incorruttibile ed eterna chiamata etere.

2.Nessuna divisione tra mondo sublunare e mondo celeste. Tutto l’Universo, anche i corpi celesti, è costituito dalla stessa materia con cui sono composti i corpi del mondo terrestre. Tra i due mondi non vi è più alcuna differenza di sostanza e di struttura. Cade così (soprattutto in seguito alle osservazioni lunari di Galileo:  5) la dottrina aristotelica dell’incorruttibilità dei cieli.

3.L’Universo è raffigurato mediante una serie di sfere concentriche solide che si muovono circolarmente. Ogni sfera trasporta un corpo celeste, mentre la prima trasporta le stelle fisse. Ogni fenomeno celeste si svolge all’interno della stessa sfera cui appartiene il corpo cui si riferisce e non vi è alcuna possibilità di interazione tra sfere celesti differenti.

3.In Copernico l’Universo è ancora costituito da sfere concentriche, anche se esse non si muovono più attorno alla Terra, ma attorno al Sole. Con Tycho Brahe si giunge a sostenere l’inesistenza delle sfere celesti solide. Il cielo è composto da sfere fluide e i fenomeni celesti possono attraversare l’Universo da una parte all’altra.

4.La sfera delle stelle fisse – ottava sfera celeste – definisce i contorni chiusi dell’Universo.

4.L’Universo non ha contorni definiti metafisicamente, e la distanza tra il centro dell’Universo e il cielo delle stelle fisse è immensa.

5.Il moto naturale dei pianeti è quello circolare uniforme, tutti attorno alla Terra immobile.

5.La Terra si muove su sé stessa (moto di rotazione diurno) e attorno al Sole (moto di rivoluzione annuo). A partire da Keplero il moto dei pianeti è ellittico e non uniforme.

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2 Esperienza, ragione e tecnologia: il caso di Leonardo da Vinci

Il sistema tolemaico, da Atlas coelestis seu Harmonia macrocosmica di Andreas Cellarius [Bibliothèque municipale, Lille]

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sofia aristotelica, sia quella insegnata nelle Università laiche sia quella elaborata dai commentatori della Scolastica, sebbene anche in questo caso la questione sia molto più complessa e variegata di quanto si possa pensare: se da un lato, infatti, sono soprattutto gli aristotelici laici, i professori di filosofia della natura delle Università italiane, a fare più resistenze nei confronti della nuova scienza matematizzata e meccanica, dall’altro lato, proprio all’interno della tradizione ecclesiastica (si pensi per esempio ai collegi dei gesuiti:  6) venivano sviluppate ricerche teoriche ed empiriche di filosofia naturale molto più prossime allo sperimentalismo matematizzante dei moderni che alle posizioni di tipo qualitativo o essenzialistico degli antichi. 1. Dal Cinquecento in poi il termine scienza indica: a. una concezione che mira a determinare i rapporti meccanici esistenti fra i corpi nello spazio. b. soltanto una conoscenza dimostrativa che parte da princìpi certi. c. una conoscenza che mira alla misurazione matematica dei fenomeni fisici. d. una conoscenza sempre più qualitativa e finalistica della natura.

V F V F V F V F

2. Il primo impulso all’edificazione della nuova scienza viene: a. dall’astronomia. b. dalla filosofia aristotelica. c. dalle scienze matematiche. d. dalla magia.

Prima di occuparci direttamente degli sviluppi astronomici e fisici del XVI e del XVII secolo, occorrerà soffermarsi a considerare il caso di un uomo particolare, che compendia in sé ed esprime alcune delle tendenze tipiche della sua epoca, in una maniera non più eguagliata per bellezza e genialità, tanto da essere stato descritto come il tipo ideale dell’uomo del Rinascimento. Quest’uomo è Leonardo da Vinci, sommo pittore ma anche attento studioso della natura fisica e del corpo umano, oltre che ingegnere e costruttore di macchine. In lui vediamo l’intreccio fra tre elementi decisivi per lo sviluppo dell’atteggiamento scientifico: l’esperienza osservativa della natura, la ragione che dimostra matematicamente ciò che è stato osservato e la tendenza a ricostruire artificialmente, o a facilitare meccanicamente, alcuni fenomeni naturali. Leonardo (Vinci 1452-Amboise 1519) è stato un genio della natura, entrato giovanissimo nella bottega di un altro celebre pittore, Andrea del Verrocchio, e rimasto sempre legato agli ambienti del potere politico che all’epoca erano anche i promotori delle arti e delle tecniche, come quello di Lorenzo e Giuliano de’ Medici e Cesare Borgia a Firenze, o di Ludovico il Moro a Milano, o di Francesco I re di Francia. N ei suoi preziosi, anche se disorganici quaderni di appunti, Leonardo ci ha lasciato frammenti di un metodo – note a margine del suo osservare e del suo fare, più che una teoria compiuta – su come realizzare il nostro rapporto con la natura nel modo più consono alle sue leggi interne e al tempo stesso nel modo più espressivo della razionalità della mente umana. Anzitutto il ricorso all’esperienza come il luogo naturale per eccellenza: «la sapienza è figliola della sperienza», nel senso che il sapere umano non è il mero risultato di procedimenti deduttivi, ma nasce al contrario dalla diretta, continua e attenta osservazione dei fenomeni. Solo così si potrà giungere, attraverso l’uso della ragione, a dimostrare la legge che sottostà a quel dato fenomeno osservato:



mia intenzione è allegare prima l’esperienza, e poi colla ragione dimostrare, perché tale espe-

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rienza è costretta in tal modo ad operare. E questa è la vera regola, come li speculatori delli effetti naturali hanno a procedere, e ancora che la natura cominci dalla ragione e termini nella sperienza, a noi bisogna seguitare in contrario, cioè cominciando […] dalla sperienza, e con quella investigare la ragione. [Manoscritto E, 55 r]



Se dunque non si deve partire dalle teorie per arrivare all’oggetto dell’indagine, ma si deve sperimentare l’oggetto per poterne trovare le

Leonardo da Vinci, L’uomo vitruviano, 1490 [Gallerie dell’Accademia, Gabinetto dei Disegni e delle Stampe, Venezia] Verso i 35 anni Leonardo inizia la traduzione del De architectura di Vitruvio, architetto romano di età augustea. Commentando il testo latino riguardante le proporzioni umane, Leonardo scrive: «Vetruvio architetto mette nella sua opera d’architettura che le misure dell’omo sono dalla natura distribuite in questo modo. Il centro del corpo umano è per natura l’ombelico; infatti, se si sdraia un uomo sul dorso, mani e piedi allargati, e si punta un compasso sul suo ombelico, si toccherà tangenzialmente, descrivendo un cerchio, l’estremità delle dita delle sue mani e dei suoi piedi». Da questa affermazione nasce il disegno qui riprodotto in cui l’uomo, in piedi e con le gambe e le braccia allargate, si iscrive in modo perfetto nelle figure geometriche del cerchio e del quadrato, che alludono rispettivamente all’istanza divina e a quella terrena, in una completa sintesi visiva delle parole dall’architetto romano. L’uomo di Leonardo, nella sua centralità, diventa «misura di tutte le cose» e quindi indagatore e interprete di ogni manifestazione naturale e soprannaturale.

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ragioni, d’altra parte è evidente che senza arrivare a queste ragioni l’esperienza si vanificherebbe, cioè non darebbe luogo ad alcun sapere. E il modo specifico con cui la ragione umana conosce scientificamente i fenomeni della natura è la matematica: «nessuna umana investigazione si può dimandar vera scienza, s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni» [Codice Urbinate, 1270, 1 a-b]. Solo la matematica, infatti, ci consente di cogliere la necessità delle leggi della natura, in quanto essa determina i rapporti esatti e le proporzioni costanti tra le forze che permettono i movimenti dei corpi. E non fa differenza che si tratti della meccanica fisico-biologica del corpo umano o di quella delle cose inanimate. Questa unità tra l’esperienza e le dimostrazioni matematiche è la fonte dell’“invenzione”, nel suo duplice significato di ritrovamento delle dinamiche interne ad ogni corpo in movimento e di scoperta e produzione di nuovi corpi artificiali. L’idea che il sapere non solo possa essere applicato per la soluzione tecnologica di alcuni problemi concreti – per esempio di tipo idraulico o costruttivo o balistico – ma sia in sé stesso un sapere “operativo”, è un’idea tipicamente leonardesca. Ne è un esempio affascinante il suo tentativo di costruire una “macchina per volare”, che riproduca la struttura e il movimento delle ali degli uccelli: e questo perché la stessa osservazione dei prodigi meccanici presenti in natura è già vista come una straordinaria possibilità, per la mente dell’uomo, di operare come la natura. Troviamo qui tutti i singoli elementi che saranno poi utilizzati dalla scienza moderna. Ma mentre in Leonardo essi esprimono la stupefacente genialità di un uomo singolo, nella scienza sperimentale daranno luogo ad un metodo standardizzato, applicabile e verificabile da tutti. In fondo è qui la vera differenza tra l’arte e la scienza.

1. Per Leonardo da Vinci un metodo adeguato per la scienza: a. deve innanzitutto partire dalle teorie. V F b. necessita di un’indagine prevalentemente qualitativa dei fenomeni naturali. V F c. implica il ricorso all’esperienza. V F d. consiste nella stretta unione fra esperienza e dimostrazione matematica. V F

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3 Niccolò Copernico e il modello eliocentrico Gli inizi della scienza moderna possono essere a buon diritto identificati con quella che si è soliti chiamare la “rivoluzione copernicana” (l’espressione è rimasta ancora nel nostro linguaggio per indicare un capovolgimento radicale di situazioni o concezioni invalse per lungo tempo). L’astronomo polacco N iccolò Copernico (Torun 1473-Frauenburg 1543), inverte niente di meno che il modo in cui da secoli si concepiva il cosmo e il posto della Terra al suo interno: contrariamente alla teoria elaborata da Tolomeo (II sec. d.C.) in accordo con i princìpi della fisica aristotelica, il centro del cosmo – quello attorno a cui girano tutti i pianeti e le stelle – non è più la Terra, ma è il Sole; la Terra diviene un pianeta come gli altri, cioè un corpo celeste in movimento. Questo passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo – codificato nel celebre scritto su Le rivoluzioni delle sfere celesti (De revolutionibus orbium cœlestium, 1543) – costituisce una frattura non solo a livello astronomico ed epistemologico in senso stretto, ma anche a livello di concezione culturale e di senso comune: gli uomini, dall’essere al centro del cosmo, si ritrovano abitatori di un corpo celeste tra gli altri. Il fatto potrebbe anche sembrare una smentita del carattere “umanistico” e “antropocentrico” tipico della cultura rinascimentale [ 1]; in realtà, la nuova posizione astronomica si presenta come un’esaltazione delle capacità dimostrative della mente umana, la quale, mediante l’osservazione empirica e soprattutto mediante la deduzione matematica, attinge finalmente a quella verità del reale nella sua totalità – i cieli non meno che la Terra – che alla scienza dei secoli precedenti continuava a sfuggire. Copernico giunge alla teoria eliocentrica seguendo due tracce strettamente connesse tra loro: quella matematica e quella storica. Per quanto riguarda la prima prospettiva, il sistema tolemaico gli sembrava troppo complesso per poter spiegare adeguatamente tutti i problemi riguardanti i movimenti celesti, giacché in esso emergevano problemi di calcolo che in base alla sua impostazione di fondo non potevano essere risolti. Detto in maniera molto schematica, nel sistema tolemaico (arricchito

e anche complicato di ulteriori calcoli da parte delle scuole astronomiche nel corso dei secoli) per spiegare il fatto che i pianeti talvolta risultano più vicini a noi e talvolta sembrano invece allontanarsi dalla Terra si ammettevano due tipi di movimenti, entrambi circolari: un movimento era quello con cui ogni pianeta si muove in modo uniforme lungo un’orbita circolare (detta “epiciclo”); l’altro era quello del centro dell’epiciclo che si muoveva uniformemente lungo un’altra orbita circolare (detta “deferente”) attorno alla Terra. A dire il vero, componendo tra loro questi due movimenti, l’orbita deferente non riesce mai ad avere come proprio centro esattamente la Terra, ma un punto eccentrico rispetto ad essa, detto “equante”, il quale a sua volta descrive un moto circolare uniforme rispetto alla Terra. Solo questo permetterebbe di salvaguardare il moto circolare di tutti i pianeti e il fatto che nel corso dell’anno essi appaiano ciclicamente più o meno vicini alla Terra. Copernico, cercando una soluzione matematica più semplice del problema teorico, legato però anche a questioni pratiche come la definizione precisa dei calendari, comincia a rileggere le opere degli astronomi antichi – ed è questa la seconda traccia della sua ricerca – per vedere se non vi fossero teorie diverse da quella tolemaica per spiegare il movimento dei cieli. In questo, Copernico condivide con la sua epoca il ritorno alle fonti testuali antiche come via obbligata per una riforma del sapere. Come afferma un suo allievo, Georg Joachim Rheticus, che editò nel 1540 una Prima esposizione della nuova dottrina astronomica, «[Copernico] seguendo Platone e i pitagorici, i massimi matematici di quell’epoca divina, pensò si dovessero attribuire alla Terra sferica dei movimenti circolari, per determinare la causa dei fenomeni». Così, le antiche ipotesi che assegnavano un moto anche alla Terra si incontrano con i calcoli moderni: se è il Sole il centro immobile attorno a cui ruotano tutti i pianeti – nell’ordine Mercurio, Venere, la Terra (con la Luna come satellite), Marte, Giove e Saturno – sino a giungere alla sfera, anch’essa immobile, delle stelle fisse che chiude il cosmo, tutto si spiega più facilmente. Sia il moto delle stelle che il moto del Sole saranno solo apparenti, perché in realtà essi dipendono dalla rotazione della Terra intorno a sé stessa (in un giorno) e attorno al Sole (in un anno).

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Anche la soluzione eliocentrica presentò presto ulteriori complicazioni, dovute soprattutto al fatto che per Copernico vigeva lo stesso presupposto platonico che era già di Tolomeo, e cioè che l’unico moto concepibile per le sfere celesti, in quanto l’unico perfetto, era il moto circolare: questo, per esempio, richiedeva ulteriori aggiustamenti teorico-matematici per spiegare come mai l’asse della Terra rimanesse sempre orientato in modo stabile rispetto alle stelle fisse, pur compiendo un moto circolare attorno al Sole; o, detto al contrario, come mai la posizione delle stelle fisse rispetto all’asse della Terra non cambiasse mai di angolo (è il problema della “parallasse”, che sarà risolto solo con la scoperta del moto ellittico dei pianeti, fatta da Keplero:  4.5). Ma Copernico conservava rigorosamente anche l’immagine tolemaica di un Universo chiuso e finito, fatto di sfere solide che ruotano trascinando con sé i pianeti che vi sono incastonati (immagine che sarà messa in discussione solo con Tycho Brahe:  4.4). Tuttavia, il gesto rivoluzionario decisivo, quello da cui sia astronomicamente, sia ancor più

Il sistema copernicano

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Sebbene l’idea mi sembrasse assurda, poiché sapevo che ad altri prima di me era stata data la libertà di immaginare una cosa del genere […], pensai che fosse lecito anche a me di ricercare se, assunto per ipotesi un certo moto della Terra, fosse possibile trovare dimostrazioni più sicure [rispetto a quelle tolemaiche] della rivoluzione delle sfere celesti. Ma una volta assunti i moti che nell’opera io attribuisco alla Terra […], non solo tutti i fenomeni trovano conferma, ma anche l’ordine e la magnificenza di tutte le stelle (compresi i pianeti) e le sfere e il cielo stesso risulta così collegato che in nessuna sua parte si può spostare nulla senza generare confusione delle parti e del tutto. [Le rivoluzioni delle sfere celesti, Lettera dedicatoria]

culturalmente e simbolicamente sarebbero discese tutte le altre tappe della moderna astronomia, era stato compiuto. La novità creò subito sospetto e ostilità non solo negli ambienti accademici più attaccati alla filosofia aristotelica, ma anche negli ambienti teologici, preoccupati per il fatto che seguendo la nuova immagine astronomica del cosmo si sarebbe dovuta contraddire in alcuni passi la lettera della Bibbia (all’inizio insorsero soprattutto i riformati, con Lutero e Melantone). D’altra parte lo stesso Copernico, che era un canonico cattolico, non intendeva affatto mettere in questione con il suo eliocentrismo la validità delle Scritture. Si trattava, tuttavia, di un problema che di lì a poco sarebbe scoppiato anche nella Chiesa cattolica, la quale, nel 1616, mise all’Indice l’opera copernicana e nel 1632 indusse Galilei ad abiurare da alcune tesi, appunto, “copernicane”. D’altra parte, non si può pensare che il contraccolpo filosofico e teologico portato dalla novità di impostazione copernicana potesse essere riassorbito immediatamente: esso richiedeva, soprattutto all’interno della Chiesa, una nuova formulazione del rapporto tra fede, Scritture e ricerca scientifica.

giorni

La soluzione è più sicura matematicamente, più semplice ed essenziale in senso cosmologico, ma anche più bella e più rispecchiante l’ordine provvidenziale del cosmo. Ragioni misurative moderne e ragioni sapienziali antiche (il Sole al centro dell’Universo, come principio divino fonte di luce e di calore che si espande in tutto il cosmo è un motivo neoplatonico) si intrecciano tra loro:

Il Sole è rappresentato al centro ma, per salvare i fenomeni, Copernico ritiene che in realtà la Terra e gli altri pianeti ruotino attorno a un punto geometrico che dista dal Sole 1/25 del raggio terrestre, distanza quasi trascurabile rispetto al raggio della sfera delle stelle fisse.

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È anche vero, peraltro, che già alla vigilia della morte di Copernico il teologo protestante Andreas Osiander scrisse una Prefazione alle Rivoluzioni delle sfere celesti (probabilmente per attutire le reazioni dei teologi protestanti, e forse interpretando male la stessa posizione di Copernico), in cui suggeriva di intendere il sistema eliocentrico più come un’ipotesi teorica che come una spiegazione effettiva della realtà esistente. Qualche anno dopo, il cardinal Bellarmino avanzerà una proposta analoga nei confronti di Galileo, ritenendo la sua teoria un’ipotesi matematica più che una spiegazione effettiva del mondo [ 5.12, 6.3.4]. Sia Copernico che Galilei erano poco propensi ad accogliere questa versione delle loro teorie; e tuttavia, tenendo conto delle rettifiche cui i loro sistemi sono stati sottoposti nel corso della storia (per esempio, il sistema eliocentrico di Copernico sarà del tutto separato dalla concezione di un cosmo chiuso e finito), si deve dire che il valore scientifico delle loro teorie sta effettivamente più nell’ipotesi che nell’assoluta verità. Assoluta invece si rivelerà l’importanza della posizione copernicana nell’aprire una nuova prospettiva alla ricerca scientifica.

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1. Il passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo causa: a. un mutamento sia a livello epistemologico sia a livello antropologico. V F b. un ridimensionamento dell’esaltazione dell’uomo rispetto alla cultura rinascimentale. V F c. una frattura della cultura e del senso comune rispetto alla tradizione. V F d. una diminuita importanza delle capacità dimostrative della mente umana. V F 2. Copernico perviene alla teoria eliocentrica: a. notando l’estrema complessità del sistema degli epicicli e dei deferenti interno al sistema tolemaico. b. considerando la complessità con cui il vecchio sistema tentava di giustificare le anomalie dei moti celesti. c. seguendo le teorie pitagorico-platoniche. d. criticando alcune tesi neoplatoniche che assegnavano alla Terra la centralità nel cosmo. 3. Nel sistema copernicano: a. le sfere celesti si muovono di moto ellittico. b. è negata la finitezza dell’Universo, cardine del sistema aristotelico-tolemaico. c. permane l’esistenza di sfere solide in cui sono incastonati i pianeti. d. si dà soluzione definitiva al problema della parallasse.

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4 Tycho Brahe e l’eccellenza dell’osservazione Scienziato di corte prima del re di Danimarca, Federico II, poi dell’imperatore Rodolfo II, che lo nominò matematico imperiale, l’astronomo danese Tyge Brahe (Skane 1546-Praga 1601), detto alla latina Tycho, è una delle figure più rilevanti della scienza del Cinquecento. La sua fama è dovuta specialmente alla grande perizia nell’osservazione del cielo, e al fatto che egli abbia ideato un modello dell’Universo alternativo, non solo a quello geocentrico ma anche a quello eliocentrico, che sarà denominato “modello tychonico”. Le osservazioni astronomiche compiute da Brahe e dai suoi assistenti ad occhio nudo – senza l’ausilio di alcuno strumento ottico come il cannocchiale – sono risultate di una precisione impressionante, che resterà ineguagliata per più di vent’anni. Egli giunse così alla catalogazione di ben 788 stelle, tra le quali alcune da lui stesso scoperte (come la “stella nuova” della costellazione di Cassiopea), e, grazie alla progettazione di nuovi strumenti di misurazione astronomica nell’osservatorio chiamato Uranjborg (‘castello del cielo’), costruito appositamente per lui sull’isola di Hven, riuscì a misurare esattamente le traiettorie di sei comete. Proprio studiando il percorso compiuto dalle comete, Tycho si convinse della debolezza teorica della cosmologia aristotelico-tolemaica. N el suo libro Sul mondo etereo del 1588 (De mundi aetherei), sulla base di tutto il materiale osservativo raccolto, mette a punto una critica ben fondata di alcune dottrine tipiche del vecchio sistema, prima fra tutte quella della solidità delle sfere celesti. Osservando il passaggio di una cometa nel 1577, Tycho, infatti, si era accorto che la sua traiettoria aveva un’ampiezza tale da dover necessariamente attraversare diverse sfere celesti, tra cui quella sublunare, percorrendo un’orbita assai più grande delle traiettorie di Venere e Mercurio. Se, dunque, corpi celesti quali le comete, possono attraversare liberamente più sfere celesti, non c’è più motivo di credere nella solidità o nella durezza di queste ultime. Al posto delle sfere cristalline subentrava il più funzionale concetto di orbita geometrica. Nel sistema tychonico, elaborato nell’opera La meccanica della nuova astronomia (Astronomiae instauratae mechanica) del 1597, da un lato vengono recepite le critiche e le innovazioni di

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Copernico rispetto al sistema tolemaico, ma dall’altro lato si continua a riservare alla Terra il ruolo di pianeta immobile al centro delle orbite celesti, giacché si ritiene assurdo che essa possa muoversi nello spazio in un modo così veloce senza che i suoi abitatori ne abbiano percezione. Cinque pianeti – Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno – ruotano attorno al Sole, seguendo esattamente le orbite descritte da Copernico; il Sole però ruota a sua volta attorno alla Terra. In tal modo, le orbite di Mercurio e Venere avranno raggi minori rispetto al raggio dell’orbita solare, mentre le orbite di Marte, Giove e Saturno avranno raggi maggiori sempre rispetto al Sole. E, come ulteriore dimostrazione dell’inesistenza delle sfere solide, l’orbita del Sole interseca quelle di Mercurio, di Venere e di Marte. Il sistema di Tycho presenta due vantaggi non trascurabili: innanzitutto, pur essendo un siste-

Il sistema ticonico dell’Universo

ma misto, in realtà verifica e conferma le idee e le misurazioni copernicane riguardo alla rotazione dei pianeti attorno al Sole e quindi contribuisce all’affermazione tra gli scienziati del modello eliocentrico; inoltre, non spostando il centro del mondo, non tocca aspetti legati al senso comune e all’interpretazione di alcuni brani biblici, come quelli in cui si parla del moto del Sole. Insomma, il sistema tychonico ha avuto il merito di mettere tutti d’accordo: tutti, tranne colui che gli succederà nell’incarico di matematico imperiale, Giovanni Keplero, sebbene quest’ultimo abbia fatto tesoro della gran quantità di osservazioni e misurazioni del predecessore danese. 1. La messa in discussione del sistema aristotelicotolemaico operata da Brahe nasce: a. dalla ricezione delle novità introdotte da Copernico. b. dal porre, come Copernico, al centro delle orbite celesti il Sole. c. dalle copiose osservazioni astronomiche compiute ad occhio nudo. d. dall’osservazione delle comete.

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2. Nel sistema tychonico: a. cinque pianeti ruotano attorno al Sole e il Sole ruota attorno alla Terra. b. l’orbita del Sole non interseca l’orbita di alcun pianeta. c. cinque pianeti ruotano attorno alla Terra e la Terra attorno al Sole. d. il Sole è immobile al centro delle orbite celesti.

5 Giovanni Keplero e l’astronomia nuova

Il sistema ticonico dell’Universo è, come si vede, una soluzione “intermedia” fra la proposta tolemaica e quella copernicana: la Terra è al centro dell’Universo e il Sole ruota attorno alla Terra, ma i cinque pianeti del Sistema solare ruotano attorno al Sole. La proposta di Tycho contribuisce ad abbandonare l’idea delle “sfere” cristalline tipiche della cosmologia tradizionale tolemaica e a sostituire il concetto di “orbe” o sfera dotata di una sua consistenza materiale col concetto di “orbita”, una traiettoria circolare attorno alla quale si svolge il moto di rivoluzione degli astri. Come si vede dalla figura le orbite dei pianeti si intersecano in più punti; la cosa non sarebbe possibile se il pianeta fosse posto non su un’orbita, ma su una “sfera materiale” lungo cui muoversi. L’osservazione della grande cometa che apparve nel 1577 lo indusse a fare l’ipotesi che le orbite potessero essere anche ellittiche, non solo circolari.

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L’opera di Johannes Kepler (Weil/Württemberg 1571-Regensburg 1630), italianizzato in Giovanni Keplero, è uno straordinario esempio di come le intuizioni e le verifiche della scienza siano non di rado l’espressione di concezioni metafisiche e teologiche che potrebbero sembrare distanti rispetto al rigore dimostrativo del discorso scientifico, e invece ne costituiscono la radice e il presupposto vitale. Keplero nasce come matematico (nel 1595 aveva accettato l’incarico di docente di matematica e astronomia a Graz) e proprio a partire dalla sua intuizione della matematica come struttura ontologica dell’Universo si svilupperà il suo intero lavoro di astronomo, in cui ritroveremo strettamente intrecciate fra loro l’esplicita ripresa di antiche dottrine pitagoriche e neoplato-

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niche e una fervente fede cristiana (nata e coltivata in ambiente luterano). Certo del fatto che l’intera creazione dell’Universo dipendesse da un disegno divino perfetto, Keplero crede di averne trovato il segreto nell’idea che l’Universo sia costruito sulla base di figure geometriche note sin dalla geometria antica con il nome di “solidi regolari”. Esistono solo cinque solidi regolari – cioè solidi le cui facce sono uguali e sono costituite da figure equilatere – e sono il cubo (composto da 6 quadrati), il tetraedro (composto da 4 triangoli equilateri), il dodecaedro (composto da 12 pentagoni regolari), l’icosaedro (composto da 20 triangoli equilateri) e l’ottaedro (composto da 8 triangoli equilateri). Ciò che contraddistingue questi solidi è il fatto che ciascuno di essi può essere perfettamente inscritto e circoscritto rispetto ad una sfera. Ma c’è di più: da copernicano convinto, Keplero si accorge che questi solidi potevano descrivere A

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Il modello geometrico dei cinque solidi di Keplero La figura B rappresenta l’applicazione dei cinque “solidi regolari”, il cubo, il tetraedro, il dodecaedro, l’icosaedro e l’ottaedro rappresentati nella figura A. In questo modo Keplero giustifica le dimensioni delle sfere planetarie in un ordine che va dal pianeta più esterno a quello interno seguendo quello del sistema copernicano: la sfera di Saturno, la più esterna, è circoscritta dal cubo, la sfera di Giove, che viene immediatamente dopo ed è più interna, è inscritta al cubo, il tetraedro è inscritto alla sfera di Giove, il dodecaedro è inscritto alla sfera di Marte e così via.

geometricamente la distanza precisa che intercorre tra i pianeti all’interno del sistema del mondo che anch’egli peraltro, come Copernico e Brahe, continua a ritenere chiuso e finito. Nasce così il Mistero del cosmo (Mysterium cosmographicum) del 1597, opera nella quale Keplero descrive minuziosamente, attraverso tutta la complessità del calcolo matematico, il risultato di questa architettura geometrica del sistema copernicano, in cui ogni orbita planetaria si alterna con un solido regolare, nel modo seguente: sfera di Saturno / cubo / sfera di Giove / tetraedro / sfera di Marte / dodecaedro / sfera della Terra / icosaedro / sfera di Venere / ottaedro / sfera di Mercurio. Dietro una tale rappresentazione dell’Universo vi è una concezione metafisica ben precisa. Keplero è convinto, infatti, che la stessa mente di Dio sia costituita da idee geometriche originarie di cui la mente dell’uomo diviene partecipe. Questo non significa che noi possiamo arrivare a conoscere le decisioni della mente divina, le quali rimangono in sé impenetrabili; tuttavia possiamo conoscere perfettamente i modelli archetipi e i meccanismi motorii che sono alla base della creazione dell’Universo. Non è un caso che poi Keplero interpreti in senso trinitario l’intera struttura del cosmo: in esso il centro immobile e fonte di movimento corrisponde al Padre, l’enorme sfera delle stelle fisse che lo racchiude e lo preserva è immagine del Figlio, la forza che dal Sole si diffonde lungo tutti i raggi della sfera simboleggia lo Spirito Santo. Subito dopo aver letto il Mistero del cosmo, Tycho Brahe decide di invitare il giovane matematico a unirsi a lui, offrendogli nel 1600 un posto tra i suoi assistenti. Alla morte improvvisa di Brahe, nel 1601, sarà proprio Keplero a essere nominato suo successore. Si apre una stagione di studi intensi: le osservazioni precise compiute per oltre vent’anni da Brahe e dai suoi collaboratori costituiscono una miniera immensa di dati su cui poter controllare e definire i movimenti dei pianeti. In questo lavoro emergerà peraltro la singolare capacità da parte di Keplero di non applicare mai le sue teorie matematiche e metafisiche alla realtà del cosmo senza precise conferme osservative e fattuali (come le misurazioni), e la disponibilità coraggiosa a modificare teorie iniziali alla prova dei fatti. Rivolgendosi, innanzitutto, al movimento di Marte, Keplero si accorge che nonostante tutti gli sforzi che si potevano compiere per aggiustare i

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dati osservativi con epicicli copernicani o tychonici, considerando solo l’ipotesi del moto circolare uniforme non si riusciva mai a ottenere un’esatta corrispondenza tra il calcolo matematico e l’osservazione diretta (che attestava invece un moto non uniforme del pianeta). Keplero sa bene che tutti i filosofi sin dall’Antichità hanno sempre affermato che l’unico moto naturale è quello circolare, e d’altra parte conosceva bene la meticolosità con cui Brahe aveva eseguito le sue osservazioni; ciò nonostante egli decide di puntare tutto sulla corrispondenza tra calcolo e osservazione, per ottenere la quale però si doveva ipotizzare che l’orbita dei pianeti non fosse circolare ma ovale o ellittica, e che il moto non fosse realmente uniforme, ma variasse secondo una norma precisa: la velocità del pianeta aumentava in prossimità del Sole e diminuiva man mano che il pianeta se ne allontanava. Dopo molti tentativi, Keplero giunge alla sua prima legge: ogni pianeta si muove attorno al Sole seguendo una traiettoria ellittica, in cui uno dei due fuochi è il Sole. Ciò lo porta a ritenere la rotazione del Sole su sé stesso ciò per cui i pianeti sono mantenuti in movimento. A questa prima definizione occorre aggiungere subito una seconda legge, la quale afferma che, mentre il pianeta si muove nella sua orbita ellittica, la linea che lo unisce al Sole (cioè il suo raggio vettore) descrive, in intervalli di tempo uguali, aree uguali. Quando cioè il pianeta è più vicino al Sole, e si muove più velocemente, percorre una porzione più lunga di ellisse; mentre, in un tempo uguale, se il pianeta è più lontano dal Sole, e si muove quindi meno velocemente, percorre una porzione meno lunga. Le prime due leggi sono descritte nell’Astronomia nova pubblicata nel 1609, mentre l’ultima legge scoperta da Keplero viene esposta nell’Armonia del mondo (Harmonice mundi) del 1619. Con quest’opera Keplero, riprendendo alcuni temi del Mistero del cosmo, cercherà di trovare una possibile connessione tra i movimenti di rivoluzione dei pianeti e la loro distanza dal Sole, certo che l’Universo non possa che essere regolato in modo perfettamente armonico, così che le stesse orbite dei pianeti possano essere espresse in termini di armonia musicale. Per questo motivo inizia a paragonare non solo le velocità dei pianeti, i tempi e le distanze, ma anche le potenze di tali valori, fino a trovare quella che sarà poi definita come la terza legge di Keplero, secondo cui i quadrati dei periodi di rivoluzione

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dei pianeti sono proporzionali ai cubi delle loro distanze medie dal Sole. Ciò che anima Keplero – è utile ricordarlo – non è tanto la convinzione di un meccanicismo originario, quanto l’idea che l’Universo sia pervaso da un’armonia matematica divina. Tali leggi renderanno più semplici e immediati i calcoli astronomici. Da una parte, infatti, l’orbita ellittica elimina di colpo ogni complicazione matematica dovuta a epicicli, deferenti ed equanti [ 4.3]; dall’altra la terza legge consente facilmente di determinare la distanza di un pianeta dal Sole sapendone la rivoluzione, o viceversa di calcolarne la rivoluzione conoscendo la sua distanza dal Sole. Le tre leggi di Keplero risulteranno decisive per la definizione della legge sulla gravitazione universale di N ewton [ 13]. Prima di allora esse non ricevono il pieno riconoscimento che avrebbero meritato. Per esempio, anche se Keplero vive e lavora negli stessi anni di Galileo, i due scienziati hanno sempre condotto le proprie ricerche l’uno indipendentemente dall’altro; e mentre Keplero, subito dopo l’uscita del Sidereus Nuncius di Galileo, si complimentò con il collega italiano scrivendo addirittura un importante testo di commento alle sue scoperte con cui ne riconosceva il valore e la novità, Galileo non degnò di molta considerazione la legge kepleriana sul moto ellittico dei pianeti ritenendo, da buon scienziato rinascimentale, che non vi potesse essere altro moto naturale che quello circolare. 1. La concezione astronomica di Keplero poggia: a. sulla rivalutazione della fisica aristotelica. b. sull’osservazione del moto retrogrado dei pianeti. c. sulla convinzione di matrice pitagorico-neoplatonica della struttura intrinsecamente matematica dell’Universo. d. sulla critica all’eliocentrismo copernicano. 2. Nel Mistero del cosmo Keplero afferma che: a. l’Universo è costruito sulla base dei cinque solidi regolari. b. la mente di Dio stesso è costituita da idee geometriche. c. l’uomo, grazie agli studi matematici, può conoscere le decisioni della mente divina. d. è possibile conoscere la distanza tra i pianeti. 3. Per Keplero: a. i pianeti si muovono di moto circolare uniforme. b. l’orbita dei pianeti è ellittica. c. i pianeti si muovono più velocemente in prossimità del Sole. d. l’Universo è infinito.

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SINTESI CAPITOLO 4

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parte I L’alba della modernità Un nuovo modo di pensare la scienza. Tra il Cinquecento e il Seicento comincia per la scienza una storia del tutto nuova, una vera e propria “rivoluzione”, consistente nella definizione, più precisa ed univoca, del concetto stesso di “scienza”. Questa, da conoscenza dimostrativa fondata su princìpi assolutamente certi, passerà a designare una conoscenza fondata su assiomi di natura matematica e geometrica, utilizzati come strumenti di misurazione della natura fisica, che interpreta la natura come un insieme di dati determinabili quantitativamente, indagando i rapporti meccanici tra i corpi nello spazio. La scienza moderna ha convissuto, alle sue origini, con elementi apparentemente contrari (come la magia) o non ancora sufficientemente definiti (come le strumentazioni tecniche per l’osservazione della natura) e il suo avvento è stato favorito delle novità geopolitiche ed economiche del tempo. Con la rivoluzione scientifica, la vera e propria “scienza” diventa la fisica meccanica: la “rivoluzione” prende avvio, infatti, nel campo dell’astronomia, quando con Copernico si passa dal geocentrismo all’eliocentrismo. La nuova scienza nasce in contrapposizione ai metodi e ai contenuti della filosofia della natura aristotelica: essa non solo ha abbattuto i confini dell’Universo aristotelico-tolemaico, ma ne ha messo in crisi i presupposti e l’impianto metafisico di fondo, determinando una rottura epistemologica generata dall’introduzione di un metodo osservativo e matematico nello studio della natura. Esperienza, ragione e tecnologia: il caso di Leonardo da Vinci. Leonardo da Vinci (1452-1519) pittore, attento studioso della natura fisica e del corpo umano, oltre che ingegnere e costruttore di macchine, compendia nella sua opera l’intreccio dei fattori decisivi per lo sviluppo della mentalità scientifica. N ei suoi appunti delinea un metodo di conoscenza della natura caratterizzato da tre elementi: 1. il ricorso all’esperienza come osservazione diretta, continua e attenta dei fenomeni naturali; 2. la matematica come specifica modalità di accesso della ragione alle leggi della natura; 3.

l’“invenzione”, come ritrovamento delle leggi del movimento e come scoperta e produzione di nuovi corpi artificiali. È sua anche l’idea della natura operativa del sapere, che è stata poi compiutamente sviluppata dalla scienza moderna. Niccolò Copernico e il modello eliocentrico. Gli inizi della scienza moderna coincidono con la “rivoluzione copernicana”. L’astronomo polacco N iccolò Copernico (14731543) ha invertito il modo in cui da secoli si concepiva il cosmo, ponendo il Sole al centro dell’Universo e facendo della Terra un corpo celeste in movimento come gli altri pianeti. Il passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo, codificato nelle Rivoluzioni delle sfere celesti (1543) ha rappresentato una frattura sia a livello astronomico ed epistemologico, sia a livello di concezione culturale e di senso comune. Copernico giunge alla teoria eliocentrica nel tentativo di dare una soluzione matematica adeguata ai problemi riguardanti i moti celesti rimasti irrisolti nel sistema tolemaico. Egli pone il Sole come centro immobile attorno a cui ruotano tutti i pianeti (Mercurio, Venere, la Terra con la Luna come satellite, Marte, Giove e Saturno) sino a giungere alla sfera, anch’essa immobile, delle stelle fisse che chiude il cosmo. Sia il moto delle stelle che il moto del Sole risultano apparenti, in quanto dipendono dalla rotazione della Terra intorno a sé stessa (in un giorno) e attorno al Sole (in un anno). Come nel sistema tolemaico, l’Universo, chiuso e finito, è fatto di sfere solide che ruotano trascinando con sé i pianeti che vi sono incastonati. La soluzione eliocentrica creò subito sospetto e ostilità sia negli ambienti accademici legati alla filosofia aristotelica, sia negli ambienti teologici, preoccupati perché la nuova immagine astronomica del cosmo contraddiceva l’interpretazione letterale della Bibbia e richiedeva una nuova formulazione del rapporto tra fede, Scritture e ricerca scientifica. Il teologo protestante Andreas Osiander nella Prefazione alle Rivoluzioni delle sfere celesti suggeriva di intendere il sistema eliocentrico più come un’ipotesi teorica che come una spiegazione effettiva della realtà.

Tycho Brahe e l’eccellenza dell’osservazione. La fama dell’astronomo danese Tycho Brahe (15461601) è legata alla grande perizia nell’osservazione del cielo e all’ideazione di un modello astronomico alternativo sia a quello geocentrico che a quello eliocentrico. Le sue osservazioni astronomiche, compiute ad occhio nudo, gli hanno consentito di catalogare numerose stelle e, grazie alla progettazione di nuovi strumenti, di misurare esattamente le traiettorie di sei comete. Studiando il percorso delle comete, Tycho mette a punto una critica ben fondata di alcune dottrine del sistema aristotelico-tolemaico, fra cui quella della solidità delle sfere celesti. Osservando il passaggio di una cometa, ed accorgendosi che la sua traiettoria attraversava diverse sfere celesti, Tycho giunse a sostituire alle sfere cristalline il concetto di orbite geometriche. Nel sistema tychonico cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno) ruotano attorno al Sole, e questo ruota a sua volta attorno alla Terra. Si trattava di un sistema misto che da una parte contribuiva all’affermazione tra gli scienziati del modello eliocentrico e dall’altra non toccava aspetti legati all’interpretazione di alcuni brani biblici, come quelli in cui si parla del moto del Sole. Giovanni Keplero e l’astronomia nuova. L’opera di Giovanni Keplero (1571-1630) mostra come le concezioni metafisiche e teologiche spesso costituiscano la radice e il presupposto delle intuizioni della scienza. L’intreccio fra le antiche dottrine pitagoriche e neoplatoniche e la fede cristiana conduce Keplero all’intuizione della matematica come struttura ontologica dell’Universo. Partendo dalla convinzione che la creazione dell’Universo dipenda da un disegno divino perfetto, Keplero ritiene che l’Universo sia costruito sulla base dei cinque “solidi regolari” noti fin dalla geometria antica: il cubo, il tetraedro, il dodecaedro, l’icosaedro e l’ottaedro. Nel Mistero del cosmo egli descrive questa architettura geometrica dell’Universo, chiuso e finito, in cui ogni orbita planetaria si alterna con un solido regolare. Tale rappresentazione discende da una precisa concezione metafisica: Keplero ritie-

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SINTESI CAPITOLO 4

Alla scoperta della misura del mondo capitolo 4 ne che la mente di Dio sia costituita da idee geometriche originarie di cui la mente dell’uomo diviene partecipe, conoscendo i modelli archetipi e i meccanismi motori che sono alla base della creazione dell’Universo; egli interpreta inoltre in senso trinitario l’intera struttura del cosmo. Nel 1600 Keplero diviene assistente di Tycho Brahe e dopo la morte di

quest’ultimo viene nominato suo successore. In questa stagione di studi intensi e di misurazioni estremamente precise, osservando in particolare il movimento di Marte, Keplero si accorge che l’orbita dei pianeti non può essere circolare, ma ovale o ellittica, e che il loro moto non può essere realmente uniforme, ma varia in relazione alla distanza dal

Sole. Mosso dalla convinzione che l’Universo sia pervaso da un’armonia matematica divina e non dall’idea di un meccanicismo originario, Keplero elabora le sue tre leggi sul movimento dei pianeti che, oltre a semplificare i calcoli astronomici, risulteranno decisive per la definizione della legge sulla gravitazione universale di Newton.

• J. Kepler, Opera omnia, a cura di C. Frisch, 8 voll., Francoforte 1858-71; rist. anast.: Olms, Hildesheim 1971.

• E. Grant, Le origini medievali della scienza moderna, Einaudi, Torino 2001.

Per quanto rigurda invece gli scritti di Tycho Brahe, sono editati in: T. Brahe, Opera omnia, a cura di J.L.E. Dreyer, 15 voll., Libraria Guldendaliana, Copenhagen 1913-29.

Su Leonardo da Vinci va ricordato il profilo fattone da un importante pensatore del Novecento: K. Jaspers, Leonardo filosofo, a cura di F. Masini, Abscondita, Milano 2001.

BIBLIOGRAFIA Fonti

· Leonardo da Vinci, Frammenti letterari e filosofici, a cura di E. Solmi, Barbèra, Firenze 1979. G.J. Rheticus, Prima esposizione, a cura di H. Hugonnard-Roche e J.-P. Verdet, Ossolineum, Warszawa 1982. N. Copernico, La rivoluzione delle sfere celesti, in Opere, a cura di F. Barone, Utet, Torino 1979. G. Keplero, L’armonia del mondo, a cura di C. Scarcella, Edizioni del Cerro, Tirrenia 1995.

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Opere

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Leonardo da Vinci, Trattato della pittura [detto «Paragone»], in Scritti scelti, a cura di A.M. Brizio, Utet, Torino 1966 (riproposto con il titolo Il paragone delle arti, a cura di C. Scarpati, Vita e Pensiero, Milano 1993). Degli scritti di Keplero, oltre all’Armonia del mondo, è tradotto in italiano anche lo scritto sul Sidereus Nuncius di Galilei: G. Keplero, Discussione col Nunzio Sidereo e relazione sui quattro Satelliti di Giove, a cura di E. Pasoli e G. Tabarroni, Bottega d’Erasmo, Torino 1972.

·

Per quanto riguarda invece l’Astronomia nova e il Mistero del cosmo [Mysterium cosmographicum] si trovano in:

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Studi critici Come introduzione sintetica ed efficace alla “rivoluzione scientifica” si consiglia: P. Rossi, La nascita della scienza moderna in Europa, Laterza, Roma-Bari 1997.

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Per un più generale inquadramento della rivoluzione scientifica come matrice della successiva storia delle scienze è molto utile: P. Rossi (a cura di), Storia della scienza moderna e contemporanea, 5 voll., Utet, Torino 1988, in part. vol. I: Dalla rivoluzione scientifica all’età dei Lumi.

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Rispetto alla tesi (dominante) della “rottura” netta tra la scienza del XVIXVII secolo e la tradizione medievale, alcuni studi hanno invece sottolineato una continuità di problemi e di concetti con i secoli precedenti. Si vedano per esempio: A. Funkenstein, Teologia e immaginazione scientifica dal Medioevo al Seicento, Einaudi, Torino 1996;

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È di recente apparso un ampio studio sulla personalità e l’opera di Leonardo, non visto più solo come un genio isolato nella sua grandezza, ma come espressione dell’inquietudine esistenziale di un’intera epoca: G. Fornari, La bellezza e il nulla. L’antropologia cristiana di Leonardo da Vinci, Marietti 1820, Genova-Milano 2005.

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Su Copernico si veda l’importante saggio di: T.S. Kuhn, La rivoluzione copernicana. L’astronomia planetaria nello sviluppo del pensiero occidentale, Einaudi, Torino 2000.

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Una recente ricostruzione del pensiero di Keplero in parallelo a quello di Galilei, nell’intreccio scientifico, culturale, politico e teologico-religioso della sua epoca è offerta da: M. Bucciantini, Galileo e Keplero. Filosofia, cosmologia e teologia nell’età della Controriforma, Einaudi, Torino 2007.

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ESERCIZI

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parte I L’alba della modernità 1. Elabora un testo sull’avvento della rivoluzione scientifica, argomentando i seguenti punti: a. la nuova definizione del concetto di scienza; b. il contesto geografico, politico-sociale ed economico nel quale matura; c. il rapporto con la fisica aristotelica (max 15 righe).

6. Esplicita le caratteristiche fondamentali del sistema tychonico e spiega perché è stato definito un sistema misto (max 10 righe).

2. Esponi in sintesi quali elementi del modo di operare di Leonardo da Vinci offrono una esemplificazione del futuro sviluppo del metodo scientifico (max 10 righe).

8.Spiega qual è il presupposto metafisico che ha guidato il lavoro di Keplero consentendogli di giungere alla definizione delle tre leggi sul movimento dei pianeti (max 8 righe).

3. Esplicita in che cosa consiste la rivoluzione copernicana e come l’astronomo polacco vi è giunto (max 10 righe). 4. Quali conseguenze ha determinato il passaggio dal geocentrismo all’eliocentrismo a livello epistemologico, culturale e teologico? (max 10 righe) 5. Evidenzia i punti di distacco e quelli di continuità fra il sistema copernicano e quello aristotelico-tolemaico (max 10 righe).

7. A quali importanti conclusioni è giunto Tycho attraverso le osservazioni astronomiche? (max 5 righe)

9. Come è giunto Keplero ad ipotizzare che l’orbita dei pianeti fosse ellittica? (max 5 righe) 10. Individua in uno schema sinottico le caratteristiche dei sistemi astronomici elaborati rispettivamente da Copernico, Tycho e Keplero.

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capitolo 5

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Francis Bacon e Galileo Galilei

1 Due protagonisti alle origini della scienza moderna La scienza del Seicento – quella che si è soliti chiamare la scienza “moderna” – è la risultante di diverse tendenze e di molteplici fattori: essa è sperimentale e induttiva, ma insieme anche matematica e deduttiva; aperta all’osservazione misurativa e al tempo stesso fondata su forti basi metafisiche; sviluppata mediante procedimenti controllabili pubblicamente, ma ancora in qualche modo erede delle segrete ambizioni magicoalchemiche del secolo precedente. In questo intreccio di motivi, tuttavia, un ruolo assolutamente privilegiato è svolto – anche se in ottiche differenti tra loro – dalla scienza baconiana e da quella galileiana. Bacon e Galileo rappresentano – insieme a Copernico [ 4.3], Brahe [ 4.4] e Keplero [ 4.5] – le figure che in maniera più rilevante hanno determinato il processo di idee che denominiamo “rivoluzione scientifica” e che poi confluirà nell’opera di Newton [ 13]. In questi due autori giunge in qualche modo a maturazione quel processo di mutamento dell’immagine dell’uomo e del mondo iniziato nel

Quattrocento – e che si era andato consolidando in tutto il Cinquecento anche grazie alla nascita delle accademie rinascimentali – secondo il quale la conoscenza umana si scopriva capace di determinare un nuovo ordine della realtà, fatto di puri rapporti tra le cose, di cui l’uomo diventava l’artefice e il signore. Questo nuovo ordine non annullava certo quello della creazione divina, se è vero che la stessa idea di una signoria dell’uomo sul mondo, attraverso la conoscenza, è di origine biblica; ora però le due prospettive cominciano come a divaricarsi, dando luogo a due piani diversi, che è l’uomo a dover coordinare, bilanciare e armonizzare tra loro. La scienza diviene in questo senso la modalità più rilevante con cui la mente umana è chiamata a connettere il piano divino e il piano naturale, l’ordine della creazione e l’ordine dell’invenzione, i dati empirici e le manipolazioni tecniche. Pezzo per pezzo, vengono così progressivamente eliminate tutte le certezze e i pilastri della logica e della filosofia naturale di Aristotele, a favore di un metodo e di una scienza che mette al primo posto l’esperienza e ciò che essa detta all’uomo. Ed è proprio il richiamo all’esperienza a costituire uno dei denomi-

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parte I L’alba della modernità

natori comuni a Bacon e a Galileo, benché a questo proposito le prospettive dei due autori si rivelino molto diverse: per il primo l’esperienza costituisce solo un’inferenza di tipo induttivo, per il secondo, invece, l’esperienza è guida e si compie in una deduzione matematica. L’identificazione baconiana della conoscenza con l’esperimento, pur rappresentando un punto di svolta determinante per lo sviluppo della scienza moderna, si rivelerà ben presto limitata e incompleta. Il filosofo inglese non ha mai avuto molta consapevolezza della funzione che poteva e doveva esercitare la matematica in ambito fisico-naturale: la sua scienza è tutt’uno con la pratica meccanica, con la costruzione tecnica e con l’organizzazione “industriale”. Per Galileo invece – al pari di Copernico – il faro che, solo, può illuminare il cammino della conoscenza e guidare il progresso della scienza è un altro, vale a dire la figura geometrica e il calcolo. Negli stessi anni in cui Galileo dichiarava che il libro della natura è scritto in caratteri geometrico-matematici, Keplero scriveva che quando Dio crea “geometrizza eternamente”. Tali espressioni sono quanto di più lontano ci possa essere dalla sensibilità di Bacon, il quale al contrario individuava nell’audacia delle ipotesi uno degli errori più gravi che la scienza potesse compiere. Eppure non possiamo considerare il metodo baconiano semplicemente come pre-scientifico: il progresso di molte discipline, dalla botanica all’anatomia, dalla geologia all’embriologia, è dovuto largamente all’insistenza – tutta baconiana – sull’osservazione e sull’esperimento. Resta il fatto che quando parliamo di “scienza sperimentale” moderna non intendiamo più, storicamente parlando, la scienza degli esperi-

menti di Bacon, ma quella matematizzata di Galileo. E se è vero che nel nostro linguaggio l’aggettivo “scientifico” indica la modalità più precisa e concreta che abbiamo per conoscere la natura delle cose, in realtà esso – come si vede proprio nel passaggio da Bacon a Galileo – indica piuttosto il fatto che la realtà viene ridotta ai suoi aspetti quantitativi, misurabili e calcolabili, cioè viene astratta dalla concretezza empirica e viene schematizzata in rapporti precisamente calcolabili. In tal modo, la scienza – come una volta ha detto Edmund Husserl, un importante filosofo vissuto tra il XIX e il XX secolo – costituisce piuttosto un “abito di idee” sovrapposto al mondo vivente, che è appunto fatto di molto altro rispetto ai suoi fattori matematizzabili. Anche se dobbiamo proprio a queste astratte procedure misurative il raggiungimento di risultati concreti formidabili, prima semplicemente inconcepibili. La questione filosofica che si pone dunque sin dall’inizio della scienza moderna è se questa straordinaria modalità di approccio alla natura e al mondo riesca a cogliere la totalità del reale, cioè se essa costituisca l’unica modalità di conoscere e di “realizzare” la verità delle cose, oppure se nella realtà vi siano più cose di quelle che la scienza può formalizzare. 1. Bacon e Galileo sono due protagonisti della scienza moderna perché: a. mettono entrambi in primo piano l’esperienza. V b. attribuiscono entrambi grande valore alla matematica. V c. il primo attraverso l’osservazione e l’esperimento determina il progresso di molte discipline, il secondo riduce la realtà ai suoi aspetti quantitativi. V d. riescono entrambi a cogliere la totalità del reale. V

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Francis Bacon

2 Il sapere al cuore del potere Francis Bacon nasce a Londra il 22 gennaio 1561, secondogenito di sir Nicholas Bacon, lord guardasigilli della regina Elisabetta I, e di Anna

Cooke, figlia del precettore di re Edoardo VI e cognata del lord tesoriere. Dopo aver frequentato il Trinity College di Cambridge e terminati gli studi di diritto nel prestigioso Gray’s Inn di Londra, viene eletto, a soli vent’anni, nella Camera dei Comuni del Parlamento inglese, inaugurando una carriera politica che lo porterà

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Francis Bacon e Galileo Galilei capitolo 5

a ricoprire le più alte cariche dello Stato britannico. Dal 1581 non lascerà più il suo seggio in Parlamento rappresentando, via via, differenti città e contee inglesi. All’attività politica, tuttavia, Bacon abbina il suo interesse per la filosofia e la scienza. Nel 1597 pubblica la prima versione dei Saggi, di argomento morale e politico (che saranno accresciuti in successive edizioni sino al 1625) e le Meditazioni sacre. Il 24 marzo 1603 muore la regina Elisabetta I, alla quale succede Giacomo I. Nel 1605 pubblica La dignità e il progresso del sapere divino e umano. In questi stessi anni inizia ad abbozzare diversi scritti che resteranno inediti: Dell’interpretazione della natura (1603), Il parto maschio del tempo (1603), la Scala dell’intelletto o filo del labirinto (1607), i Prodromi, o anticipazioni della filosofia seconda (1607), i Pensieri e conclusioni sull’interpretazione della natura o sulla scienza operativa (1607). Nel 1609 dà alle stampe Della sapienza degli antichi. N el 1613 viene nominato Attorney General (procuratore generale della corona), nel 1616 entra a far parte del Consiglio dei ministri (il Privy Council), mentre nel 1617 accetta la nomina di Lord Keeper (lord guardasigilli) e l’anno seguente quella di Lord Chancellor (lord cancelliere). Nel 1620 pubblica il Nuovo Organo o indizi veri sull’interpretazione della natura, che comprende la Prefazione alla Grande Instaurazione e la Distribuzione dell’opera, cui seguono il Nuovo Organo e la Parasceve alla storia naturale e sperimentale. Nel 1621 la sua fortuna politica cambia: accusato di corruzione per aver commesso delle irregolarità sulla concessione di alcuni monopoli, viene condannato a un’ammenda di quarantamila sterline, alla detenzione nella Torre di Londra, all’interdizione da ogni carica e all’esclusione dal Parlamento. Ottenuto il perdono del re Giacomo I, Bacon si dedica interamente ai suoi studi e in particolare, a partire dal 1624, all’elaborazione dell’opera che più lo renderà famoso ai suoi tempi, la N uova Atlantide. Nel 1626, ancora convalescente, esce di casa per fare una passeggiata in carrozza sotto una nevicata. Discorrendo con il dottor Witherborne del processo di conservazione e putrefazione, decide di acquistare un pollo da una contadina e di seppellirlo nella neve. Questa esposizione al freddo, purtroppo, gli sarà fatale. Ammalatosi di bronchite, muore il 9 aprile 1626, non prima di aver scritto una lettera in cui racconta della perfetta riuscita del suo ultimo esperimento.

3 La critica alla tradizione

e il nuovo sistema del sapere

Sapere e potere, filosofia e politica: tutta la vicenda biografica e intellettuale di Francis Bacon può essere racchiusa in questa stretta relazione tra una vita segnata dall’impegno pubblico e istituzionale, e una vita dedicata all’interesse per la scienza. Infaticabile politico, non smette – anche durante le lunghe sedute nel Parlamento inglese – di dedicare ogni briciolo di tempo alla ricerca filosofica, scrivendo interi passaggi delle sue opere su fogli di carta sparsi. Per questo la sua opera fondamentale, il Nuovo Organo, pubblicato nel 1620, si distingue per due caratteristiche insolite: l’incompiutezza dello scritto e la sua totale asistematicità e disorganicità. Composta sotto forma di aforismi, quest’opera rappresenta per l’autore solo una parte di un progetto molto più ampio, La Grande Instaurazione (Instauratio Magna), nella quale sarebbero dovuti confluire tutti i saperi dell’uomo rifondati alla luce di una nuova logica, cioè di un nuovo metodo. Il grandioso programma di rifondazione del sapere doveva comprendere – nel suo disegno iniziale ma incompiuto – sei parti nelle quali, dopo un censimento delle conoscenze già raggiunte nelle singole scienze, si sarebbe passati alla costruzione di una “storia naturale e sperimentale” completa, consistente nel riordinamento e nella riclassificazione di tutto il sapere alla luce del nuovo metodo di interpretazione della natura. La realizzazione di questo nuovo sistema del sapere è per il filosofo inglese l’ambizione più alta cui un uomo possa aspirare. Egli distingue infatti tre generi o gradi di ambizione nell’uomo: rafforzare il proprio potere, accrescere la potenza e il dominio della patria fra gli uomini e, infine, estendere la potenza e il dominio del genere umano su tutte le cose. Quest’ultimo, a suo giudizio, costituisce il compito specifico dello scienziato, e può realizzarsi solo attraverso una conformazione sempre più aderente alla natura stessa: «Il dominio dell’uomo sulle cose è riposto solo nelle arti e nelle scienze. Infatti, non si comanda alla natura se non obbedendole» [Nuovo Organo, I, aforisma 129]. Se è vero, dunque, che la concezione della scienza non è più mera contemplazione – dal momento che

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grazie ad essa gli uomini sono chiamati a dominare e a manipolare la realtà –, è altrettanto vero, però, che per Bacon la conoscenza scientifica non può essere concepita come una mera potenza esercitata dall’uomo. La scienza è invece essenzialmente una caccia (venatio), cioè il tentativo di penetrare in territori sconosciuti per decifrare la struttura delle cose, in vista della fondazione del regnum hominis. In questa prospettiva, Bacon abbandona la concezione aristotelica dell’uomo, basata essenzialmente sull’uso della sua ragione, per riprendere, alla lettera, la definizione di uomo propria della tradizione magico-ermetica:



L’uomo, ministro e interprete della natura, opera e comprende solo per quanto, nell’ordine della natura, avrà osservato con l’attività sperimentale e con la teoria; né sa e può niente di più. [Nuovo Organo, I, aforisma 1]



Già da queste prime parole intravediamo l’approccio peculiare di Bacon al problema della conoscenza scientifica: 1. anzitutto egli identifica la scienza con il processo di promozione della potenza umana; 2. al tempo stesso, però, rifiuta la pretesa di onnipotenza che caratterizzava l’immagine dell’uomo-mago e rimane fedele all’insegnamento biblico dell’uomo creato a immagine di Dio; 3. tant’è vero che per lui la scienza – cioè il potere effettivo della conoscenza umana – prolunga in realtà l’opera stessa della natura, e la porta a compimento. Rifondare il sapere significa, allora, realizzare un nuovo metodo alla luce dei limiti e degli errori dei metodi fino ad allora in uso, primo fra tutti quello aristotelico fondato sul sillogismo e su una “esperienza elementare”, vale a dire singola e disordinata. Da un lato, infatti, il sillogismo è ritenuto del tutto inadeguato a conoscere i princìpi delle scienze, applicandosi piuttosto alle parole, alle proposizioni composte di parole e alla deduzione di proposizioni particolari da proposizioni universali; dall’altro, la funzione dell’induzione aristotelica (vale a dire il passaggio dai particolari empirici all’universale) è reputata sterile, poiché pretende di risalire immediatamente alla causa universale di un fenomeno naturale, basandosi solo su pochi dati e su singole esperienze. Il risultato è che i filosofi “dialettici” di forma-

zione aristotelico-scolastica si mostrano sempre più intenti a trovare formule generiche e non ben definite per le loro dispute, piuttosto che applicarsi a una qualsiasi forma di induzione. Agli occhi di Bacon l’aristotelismo si presenta come una teoria da applicare in modo indeterminato e confuso alle questioni naturali, concependosi più come un’anticipazione della natura che come un’interpretazione della natura stessa. Ecco, dunque, il grave errore di tutta la filosofia della natura degli antichi: l’uso di un procedimento avventato e precipitoso della ragione. Del resto l’intero programma di rifondazione del sapere viene presentato dal filosofo inglese come una radicale novità del suo tempo rispetto alle epoche precedenti. Tale programma non è la conseguenza o lo sviluppo dei procedimenti tradizionali, e neanche il semplice prodotto dell’ingegno, ma un vero e proprio «parto maschio del tempo»: è dalle mutate condizioni sociali, economiche, politiche e geografiche del presente che nasce la nuova scienza, e anzi la stessa verità viene concepita da Bacon come “figlia del tempo”. L’avventura del sapere è dunque simile alla costruzione di un edificio, le cui fondamenta si presentano come il percorso di un labirinto e vanno guadagnate proprio attraversando questa via tortuosa:



Per l’intelletto umano che lo contempla, l’edificio di questo Universo, nella sua struttura, è simile a un labirinto, dove da ogni parte si mostrano molte vie ambigue, somiglianze ingannevoli di segni e di cose, dai giri contorti e dai nodi intricati delle nature. Il cammino si deve sempre percorrere all’incerta luce del senso, ora accecante ora opaca, e bisogna aprirsi continuamente la strada attraverso le selve dell’esperienza e dei casi particolari. […] Il cammino deve essere guidato da un filo conduttore: tutta la via, fin dalle prime percezioni dei sensi, deve essere resa praticabile da un metodo sicuro. [La Grande Instaurazione, Prefazione]



Via ed edificio, metodo e fine: sono questi i due poli entro cui si muove la novità della scienza baconiana, ben compendiata dal titolo dell’opera fondamentale – il Nuovo Organo – il cui programma è appunto quello di superare completamente e sostituirsi al vecchio Òrganon di

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Aristotele (cioè l’insieme delle sue opere logiche). Il “vecchio organo” era una via che “anticipava” le leggi della natura, andando «dal senso e dai casi particolari» sino alle teorie più generali, per poi scoprire, in base a questi princìpi universali, i passaggi intermedi della dimostrazione. Il “nuovo organo”, invece, traccia la via che «dal senso e dai casi particolari fa derivare gli assiomi [cioè i gradi intermedi dell’induzione], ascendendo senza interruzione per gradi, fino a giungere da ultimo agli assiomi più generali» [Nuovo Organo, I, aforisma 19]. Pur essendo proiettato verso una nuova frontiera del conoscere, Bacon rimane tuttavia un uomo del suo tempo, come attesta il fatto che per lui il sapere è essenzialmente un sapere di forme, vale a dire di sostanze e non di funzioni o di leggi quantitative. Allo stesso modo egli accetta dalla filosofia rinascimentale l’idea di una certa vitalità presente in tutti i corpi naturali, che si esprimerebbe in una forza di attrazione e repulsione o in una relazione universale tra tutti gli esseri. Per esempio, sia nel Nuovo Organo che nella Storia della vita e della morte (1623), si legge che nei corpi vi è uno spirito o corpo pneumatico che fungerebbe da freno per il processo di degenerazione naturale. La filosofia baconiana è attraversata da alcune idee tipiche del naturalismo cinquecentesco [u 3], come quella del vitalismo universale; così come è fuor di dubbio che l’ideale della scienza come una potenza modificatrice e costruttrice della condizione naturale è un tema caro alla tradizione alchimistica [u 3.2]. E, tuttavia, tali elementi acquistano qui un nuovo significato e un nuovo interesse: il sapere non procede più da cause occulte o da forze segrete della natura, bensì grazie ad un procedimento razionale chiaro e da risultati empirici rigorosamente controllabili. Né arcani saperi, né conoscenze private, dunque. La conoscenza vera è solo quella raggiungibile da tutti ed è, quasi sempre, il frutto di una collaborazione stabile tra ricercatori e del coordinamento operativo delle istituzioni in cui si svolge la ricerca. Se qualche volta il procedimento alchimistico sembrerebbe giungere a uno scampolo di verità, ciò è dovuto solo al caso: il vero sapere si nutre di metodicità e di intersoggettività. È solo la scienza che può realizzare in senso compiuto il programma della magia.

1. La nuova concezione della scienza di Bacon implica: a. il semplice dominio dell’uomo sulla realtà. V b. il tentativo di fondare il regno dell’uomo. V c. il tentativo di penetrare la struttura della realtà. V d. la ripresa della concezione aristotelica dell’uomo come animale razionale. V 2. Per Bacon il nuovo metodo: a. deve poggiare sulla deduzione delle proposizioni particolari da quelle universali. b. deve poggiare sulla induzione che parte da pochi dati e risale alle cause universali. c. deve superare i procedimenti della tradizione fondati più sulle anticipazioni della natura che sulle interpretazioni della stessa. d. presuppone una totale rifondazione del sapere in cui la verità è concepita come “figlia del tempo”.

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3. Per Bacon il sapere: a. coincide con la scoperta delle funzioni e delle leggi quantitative dei fenomeni naturali. b. coincide con la conoscenza delle forze occulte della natura ottenuta da pochi sapienti e con metodi segreti. c. è metodico, intersoggettivo e controllabile. d. non ha nulla a che fare con il vitalismo e l’alchimia.

4 La teoria degli “idoli” Agli occhi di Bacon sarebbe impossibile, anche mettendo insieme tutto il sapere del passato, assicurare un reale progresso delle scienze. Anzi, la nuova “instaurazione” che si richiede a livello metodologico non può limitarsi a un aggiustamento di superficie, ma deve partire dalle reali fondamenta del sapere, cioè da una vera e propria “emendazione dell’intelletto” da tutte quelle false credenze, o idoli, che invadono la mente dell’uomo in maniera tale da influenzare ogni suo giudizio. L’intelletto umano deve ritornare ad essere «liscio e levigato, come una tabula rasa». Solo a quel punto, infatti, si potrà costruire un nuovo metodo di conoscenza, una nuova interpretazione della natura con i mezzi e gli strumenti propri della vera induzione. Per potersi liberare da questi errori gnoseologici è indispensabile però comprenderne la vera natura. Bacon presenta una prima classificazione degli errori della mente già nella Grande Instaurazione, che rappresenta per così dire il

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manifesto programmatico del suo progetto di rifondazione del sapere:



Gli idoli che occupano la mente sono acquisiti o innati. Quelli acquisiti sono entrati nella mente degli uomini o dalle teorie e dalle sette dei filosofi, o dalle cattive regole delle dimostrazioni. Quelli innati, invece, ineriscono alla natura stessa dell’intelletto, che si rivela lungamente più incline all’errore di quanto non lo sia il senso. […] Mentre le prime due specie di idoli si possono eliminare anche se a fatica, quest’ultima non si può eliminare affatto. [La Grande Instaurazione, Distribuzione dell’opera]



Sono due, dunque, le tipologie di errori individuate da Bacon: gli idoli acquisiti e quelli innati. Accanto agli errori propriamente detti, tali perché sono riconosciuti dal nostro intelletto e pertanto possono essere – anche se a fatica – corretti e rettificati, vi è una classe sui generis di errori, quelli innati, i quali, essendo tutt’uno con la natura dell’intelletto, non potranno mai essere eliminati del tutto, a meno che non si voglia sopprimere l’intelletto stesso. Tali idoli, allora, non rappresentano altro se non la fallibilità della conoscenza, la sua limitatezza intrinseca, il suo confine naturale. E tuttavia si deve prendere coscienza e individuare i caratteri anche di questi errori, in modo da non favorire o incrementare la natura “cattiva” della mente. La trattazione baconiana degli errori si sviluppa in modo diverso all’interno del Nuovo Organo. Qui la semplice distinzione tra idoli acquisiti e idoli innati cede il posto a un tipo più articolato di classificazione, presentata come imprescindibile per l’elaborazione di quella tecnica emendativa che renderà l’intelletto immune da ogni forma di errore. La stessa individuazione degli idoli riveste dunque un’importanza strategica: essa infatti, «sta all’interpretazione della natura, come la dottrina degli elenchi sofistici sta alla dialettica tradizionale» [N uovo Organo, I, aforisma 40] (cioè l’esposizione dei possibili difetti del ragionamento rispetto al corretto uso delle regole logiche). Sono quattro i generi di idoli che assediano l’intelletto. a. Gli idoli della tribù (idola tribus) sono fondati sulla “natura umana”, intesa come una “famiglia” o “tribù”. Essi hanno dunque origine

nella natura stessa della mente. Il loro errore consiste nel credere che il senso sia la “misura delle cose”, mentre per Bacon tutte quante le percezioni – sia quelle sensibili che quelle intellettive – «sono in relazione con la natura umana, ma non con la natura dell’Universo» [Nuovo Organo, I, aforisma 45], e quindi hanno bisogno di essere attentamente verificate, per non deformare con i nostri pregiudizi gli elementi costitutivi delle cose. A motivo di questi pregiudizi noi siamo soliti considerare come fondamento della conoscenza ciò che di volta in volta colpisce i sensi o l’intelletto, e partendo da ciò ci immaginiamo un ordine, delle corrispondenze e delle relazioni tra le cose, che invece non esistono nella realtà. Questo succede per esempio quando si pensa che «nei cieli ogni movimento deve avvenire sempre secondo circoli perfetti, mai secondo spirali o serpentine», o quando, più in generale, si ritiene che la speculazione debba limitarsi agli aspetti visibili della natura e tralasciare invece quelli invisibili, sostituendoli con le astrazioni e le “fantasticherie” della nostra mente. Rientrano in questo genere di idoli anche tutte quelle superstizioni magiche o divinatrici che prendono in considerazione soltanto alcuni casi della natura – normalmente quelli che vanno a buon fine, o sono utili per un proprio vantaggio – tralasciando la totalità dei fattori che interessano i fenomeni. b. Gli idoli della caverna (idola specus) sono invece caratteristici del singolo individuo. Alludendo al mito platonico della caverna, Bacon afferma che «ciascuno di noi ha una grotta o caverna particolare, in cui la luce della natura si disperde e si corrompe» [Nuovo Organo, I, aforisma 42]. Questo tipo di errori possono dipendere dunque dalla natura singolare di ciascuno, dall’educazione o dalla conversazione con altri individui, dai libri che si leggono o da chi si riconosce come autorità, e quindi da quanto il nostro animo sia ingombro di pregiudizi o sia libero per la speculazione. Due esempi filosofici tra tutti: la “fantasticheria” di Aristotele, il quale, influenzato dalle dispute verbali, ha ridotto la filosofia naturale alla logica, e il più vicino caso degli alchimisti che «hanno costruito una filosofia naturale del tutto fantastica e di impatto minimo», perché basata su pochissimi esperimenti di laboratorio. c. Gli idoli del foro o del mercato (idola fori) sono originati dai rapporti sociali e dal linguag-

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GLI “IDOLI”

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La pars destruens del metodo baconiano Errori innati

Errori acquisiti

Idola tribus (Idoli della tribù) Errori della natura della mente

Idola specus (Idoli della caverna) Errori della conoscenza individuale Idola fori (Idoli del foro o del mercato) Errori del linguaggio Idola theatri (Idoli del teatro) Errori delle dottrine filosofiche e scientifiche

gio, vale a dire dalle relazioni che si instaurano fra gli uomini in virtù delle parole. Ma poiché «i nomi sono imposti alle cose secondo la comprensione del volgo, basta quest’attribuzione informe e inadeguata dei nomi per sconvolgere in modo straordinario l’intelletto» [Nuovo Organo, I, aforisma 59]. Gli errori di questo genere sono “i più molesti di tutti”, poiché provocano fraintendimenti ed equivoci che corrompono il naturale rapporto tra la mente e le cose. Gli uomini – nota acutamente Bacon – «credono che la loro ragione domini le parole», ma è vero anche il contrario, e cioè che «le parole ritorcono e riflettono la loro forza sull’intelletto», rendendo sofistiche e inattive sia la filosofia che le scienze. Bacon distingue poi due tipi di idola fori: o sono nomi di cose che non esistono (per esempio, il “primo mobile”, la “fortuna”, le “sfere dei pianeti”), o sono nomi di cose che esistono ma la cui definizione è confusa, inesatta, astratta (per esempio il termine “umido” che può essere usato in modo improprio e confuso a seconda di ciò di cui si predica l’umidità). d. Infine, gli idoli del teatro (idola theatri) sono dovuti all’influsso delle opinioni filosofiche e delle cattive regole per le dimostrazioni scientifiche, entrambe intese come «favole preparate per essere rappresentate sulla scena, buone a costruire mondi di finzione e di teatro» [Nuovo Organo, I, aforisma 44]. Qui l’attacco di Bacon è rivolto al fatto che la filosofia – sia quella antica che quella più recente – è sempre stata fondata «su una base troppo ristretta di esperienza e su scarse notizie di storia naturale», pretendendo di sopperire a tutta l’indagine mancante con la sola riflessione del pensiero (l’errore sofistico); oppure, al fatto che essa è partita spesso da pochi e confusi esperimenti e ha preteso di costruire delle dottrine universali ma inverificabili (l’errore empirico); infine, al fatto che essa si

è anche mescolata con la teologia e con le tradizioni di fede, facendo derivare le scienze dagli spiriti o dalle Sacre Scritture (l’errore superstizioso). Con questo, tuttavia, Bacon non intende mettere in discussione la rispettabilità degli antichi, ma solo differenziare il compito proprio della sua filosofia, quello cioè di occuparsi di un metodo nuovo, sconosciuto agli antichi, che però permetterà anche a ingegni meno brillanti degli antichi di superare i loro risultati e di progredire nel sapere. Una volta definiti e classificati, i quattro generi di idoli dovranno essere scrupolosamente esaminati, per comprendere appieno il peso che essi esercitano all’interno della facoltà intellettuale, e portare così a termine l’opera di purificazione della mente. Bacon è convinto che la situazione della mente umana di fronte alla realtà non sia, di fatto, quella che dovrebbe essere per natura. Alla funzione ingannevole degli idoli corrisponde, infatti, una concezione dell’intelletto in quanto «specchio che riflette in modo irregolare i raggi provenienti dalle cose e mescola la propria natura con quella delle cose». Da questo punto di vista, gli idoli costituiscono un ostacolo al ristabilimento delle esatte proporzioni e analogie con il reale, vale a dire al perseguimento della verità. Solo attraverso la loro estirpazione, pertanto, sarà possibile inaugurare il nuovo, grande progetto del sapere:



[Gli idoli] vanno tutti rinnegati e rifiutati con decisione ferma e solenne, e l’intelletto ne deve essere completamente liberato e purificato, cosicché l’ingresso nel regno dell’uomo, fondato sulle scienze, non sia molto diverso dall’ingresso nel regno dei cieli, nel quale non è concesso di entrare se non si torna come bambini. [Nuovo Organo, I, aforisma 68]



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Ciò che Bacon prospetta è dunque un’opera di liberazione totale. L’individuazione dei propri errori, il divenire coscienti di essi e il loro conseguente rifiuto rendono l’uomo atto a realizzare pienamente l’ideale della conoscenza scientifica, e con questo a sperimentare per la prima volta la sua vera natura di uomo. E se è vero che l’errore è in qualche misura inevitabile sia a livello antropologico che a livello psicologico e culturale, è anche vero che alla filosofia è lasciato il compito esaltante e strategico della sua definitiva soluzione. Il regno dei cieli è possibile su questa Terra.

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1. Nella Grande Instaurazione Bacon: a. vuole rifondare il metodo individuando innanzitutto le false credenze della mente umana. b. distingue fra idoli innati, dipendenti dalle errate dimostrazioni, e idoli acquisiti, dipendenti dal senso. c. distingue fra idoli connaturati alla natura stessa dell’intelletto e idoli acquisiti. d. distingue quattro tipologie di idoli.

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2. Per Bacon quando il fondamento della conoscenza è riposto in ciò che colpisce i sensi o l’intelletto parliamo di: a. idoli del foro. b. idoli della tribù. c. idoli della caverna. d. idoli del teatro. 3. Gli idoli della caverna dipendono: a. dai rapporti sociali che si instaurano fra gli uomini. b. dalle opinioni filosofiche come quelle espresse da Platone nel mito della caverna. c. dalle fantasticherie e dalla magia. d. dalla natura singolare di ciascuno. 4. Per Bacon la derivazione della scienza dalle Sacre Scritture: a. è un esempio di idolo del mercato. b. è un errore empirico. c. dipende dal linguaggio. d. è un esempio di errore superstizioso degli idoli del teatro.

5 Tra i ragni e le formiche: l’esperienza delle api

Liberata la mente dagli idoli, cioè sgombrato il campo da ogni possibile anticipazione della natura, occorre dedicarsi allo studio della natura, avendo come filo conduttore l’interpretazione dell’esperienza. Quest’ultima però – come Bacon avverte preliminarmente – non va identificata senz’altro con la sola esperienza sensibile, come avveniva nel “sensismo universale” tipico

delle filosofie naturalistiche rinascimentali [ 3]: i sensi infatti producono errori anche più gravi di quelli causati dal solo uso dialettico dell’intelletto, poiché mentre il senso riesce a valutare di volta in volta la singola esperienza, quest’ultima di per sé “giudica della natura e della cosa stessa”. Tuttavia, anche l’esperienza, senza un ordine preciso e un metodo sicuro – cioè senza l’ausilio dell’esperimento – sarebbe destinata all’errore e alla falsità poiché non seguirebbe il cammino della vera induzione:



La dimostrazione di gran lunga migliore è l’esperienza, a patto che non si prescinda dall’esperimento. Infatti qualora la si voglia applicare ad altri casi che si ritengono simili, se ciò avviene senza metodo né ordine, anche l’esperienza sarà ingannevole. Così, il modo di impiegarla al quale oggi si affidano gli uomini, è cieco e ottuso. [Nuovo Organo, I, aforisma 70]



Tra esperienza ed esperimento si stabilisce così una differenza gnoseologica fondamentale: la semplice esperienza (experientia mera) non costituisce in quanto tale una garanzia di attendibilità e veridicità, che può essere raggiunta invece solo con un vero e proprio experimentum [ Esperienza ed esperimento]. Proprio grazie alla riflessione sui falsi metodi dell’indagine scientifica, emerge con chiarezza il ruolo della nuova epistemologia induttiva di Bacon, che si pone su un livello del tutto differente da quello del semplice empirismo. L’esperimento infatti non solo corregge gli errori della semplice esperienza, non solo modula il percorso conoscitivo nei tempi e con l’ordine dovuti, ma soprattutto modifica radicalmente ed essenzialmente l’esperienza stessa. Solo l’insistente “vessazione” esercitata sulla natura attraverso esperimenti continui potrà produrre le condizioni per un nuovo sapere che non sia già dogmaticamente stabilito, ma abbia anzi i caratteri di una ricerca permanente, sempre attenta al mutare degli assiomi in corrispondenza a nuove osservazioni. Si delineano così le coordinate entro cui si muove la scienza baconiana: non una scienza della sola induzione e neppure una scienza della sola ragione. La prima scienza, propria degli “empirici”, è simile all’occupazione delle formiche che raccolgono una gran quantità di cibo per poterlo consumare; la seconda, quella dei “razionalisti”, è simile all’attività dei ragni che tessono

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la tela ricavandone i fili dalla loro stessa sostanza. La scienza baconiana fa suo, invece, il metodo delle api che si situa a metà strada tra quello delle formiche e quello dei ragni: esso infatti consiste sì nell’estrarre il polline dai fiori, ma tale raccolto viene assimilato e trasformato grazie a un’attività propria. Allo stesso modo, la nuova filosofia naturale non può fare a meno di riporre grande fiducia in una sperimentazione continua, ma quest’ultima a sua volta dev’essere trasformata e dissodata dall’intelletto, attuando così un’unione stretta e indivisibile tra facoltà sperimentale e facoltà razionale [ T27].

6 Tecnologia e sapere delle forme Il continuo impiego dell’esperimento, la costante vessazione della natura conduce il ricercatore a progettare e costruire manufatti del tutto nuovi, a generare “nuove nature” producendo materiali ignoti e originali. Uno dei compiti della scienza baconiana può essere rinvenuto proprio in questa originale capacità dell’uomo, la capacità tecnologica di creare nuovi composti e nuovi prodotti:



L’opera e il fine della potenza umana sta nel generare e introdurre in un corpo dato una nuova natura o più nature diverse. L’opera e il fine della Esperienza ed esperimento scienza umana sta nella scoperta della forma di una natura data, cioè della sua vera differenza, o Così Bacon presenta la differenza fra l’esperienza e natura naturante, o fonte di emanazione. l’esperimento nel Nuovo Organo: «Resta l’esperienza [Nuovo Organo, II, aforisma 1] pura e semplice, la quale, se si presenta da sé, si chiama



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caso, se viene cercata, esperimento. Ma questo genere di Cosa significa introdurre in un corpo dato esperienza (come si suol dire) non è altro che una scopa sfasciauna nuova natura? Bacon si riferisce qui ta e un semplice andare a tentoni, come fanno gli uomini di notte, quando saggiano tutto ciò che incontrano per vedere di indovinaalla messa a punto di alcuni progetti tenre la strada giusta; mentre sarebbe molto più conveniente e saggio denti alla modificazione di oggetti o alla attendere il giorno o accendere il lume, e quindi intraprendere il generazione di nuovi materiali, come per cammino. Al contrario il vero ordine dell’esperienza [verus expeesempio la formazione di nuove leghe di rientiae ordo], innanzitutto, accende il lume, poi con quel lume metalli o la conservazione di prodotti alirischiara la strada, cominciando da un’esperienza ordinata, mentari fuori stagione, o, al contrario, la organizzata [experientia ordinata ed digesta] e per niente maturazione rapida di frutta e ortaggi. confusa o ingannevole; ne deriva poi gli assiomi e dagli Se però l’opera e la potenza umana consistoassiomi così stabiliti ancora nuovi esperimenti; infatno in questa manipolazione delle nature date, ti, neppure il Verbo divino, sulla gran massa ciò è dovuto al fatto che grazie alla scienza si delle cose, ha operato senza ordine.» riesce a conoscere quale sia la forma di queste [Nuovo Organo, I, aforisma 82].

1. L’interpretazione dell’esperienza: a. coincide con la mera esperienza sensibile. b. coincide con qualsivoglia tipo di induzione. c. si identifica con l’esperienza corretta e illuminata dall’esperimento. d. presuppone una compenetrazione fra induzione e deduzione.

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2. Bacon paragona l’attività delle formiche, dei ragni e delle api rispettivamente: a. al suo nuovo metodo, a quello dei razionalisti e a quello degli empiristi. b. a quella degli empiristi, dei razionalisti e al suo metodo. c. a quella dei razionalisti, degli empiristi e al suo metodo. d. al suo nuovo metodo, a quello degli empiristi e a quello dei razionalisti.

stesse nature. Anche per Bacon – che in questo caso non si discosta da Aristotele – la conoscenza è una conoscenza per cause. Ma rispetto alle quattro cause aristoteliche – materiale (che risponde alla domanda: “Di quale materia è fatto un oggetto?”), formale (“Qual è l’idea che ha originato l’oggetto?”), efficiente (“Chi ha prodotto l’oggetto?”) e finale (“A che scopo è fatto l’oggetto?”) – per Bacon l’unica che ci fa conoscere veramente un oggetto è la causa formale. La causa finale, infatti, è talmente lontana da non arrecare alcun giovamento alle scienze, ed è utile solo per conoscere il motivo delle azioni umane, mentre la causa efficiente e quella materiale, pur essendo necessarie, restano ancora estrinseche rispetto alla natura interna di una cosa, e quindi insufficienti rispetto alla

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vera scienza. Rimane solo la causa formale, l’unica che secondo Bacon occorre conoscere per poter “generare e introdurre” nuove nature in un oggetto. Il vero motivo della preminenza accordata alla causa formale è dunque un motivo essenzialmente tecnologico e manipolativo. Conoscere la forma di una cosa significa penetrare il vero segreto di una natura data, e quindi rendere “potente” l’uomo che la conosce. Ma a cosa si riferisce precisamente Bacon quando parla di “forme”? Come le intende? Sono due i significati che confluiscono in questo termine: quello di essenza (definizione o determinazione) e quello di causa o legge:



N oi, infatti, quando parliamo delle forme, non intendiamo altro che quelle leggi e quelle determinazioni dell’atto puro [cioè dell’essenza in sé di una cosa] che regolano e costituiscono qualche natura semplice, come il calore, la luce, il peso, in qualunque materia o soggetto che ne sia suscettibile. Perciò, dire forma del caldo o della luce è lo stesso che dire legge del caldo o della luce. [Nuovo Organo, II, aforisma 17]



Le forme di cui parla Bacon possono essere intese, dunque, come le cause delle nature semplici o le condizioni da cui dipende un fenomeno, vale a dire quelle proprietà della materia che producono determinati stati in un soggetto. Pertanto la forma, in quanto essenza o causa, non va interpretata in senso meramente logico-concettuale, bensì in senso fisico-meccanico. Da questo punto di vista, essa è la stessa struttura del fenomeno e la legge che regola il suo manifestarsi. Per comprendere più a fondo ciò che Bacon intende per forma, è necessario tuttavia considerare due nuovi concetti: quello di “processo latente” e quello di “schematismo latente”. Il processo latente è la serie dei movimenti infinitesimali e impercettibili propri di un fenomeno, una specie di processo continuo attraverso gradi minimi, che sfugge però ai nostri sensi e resta invisibile nella successione delle osservazioni di un dato fenomeno. Lo schematismo latente, invece, analogamente alla struttura atomica di un corpo, costituisce l’ordinamento delle particelle elementari, vale a dire la struttura interna di una natura o l’essenza nascosta di un fenomeno. Dal punto di vista dell’uomo, la conoscenza della forma significa non solo la

scoperta dei processi e degli schematismi che presiedono al realizzarsi della natura semplice in questione, ma anche la possibilità di una trasformazione del corpo dato. In altri termini, il lato “contemplativo” della conoscenza va sempre inteso in strettissima unità con il suo lato “attivo” o operativo, in linea con la prospettiva di fondo per cui il sapere è sempre una forma di potere. Uno degli esempi che Bacon fa a questo proposito è quello dell’oro. Un corpo di oro può essere conosciuto da noi come un insieme o una combinazione di nature semplici (il colore giallo, un dato peso, un certo grado di malleabilità, di solidità, di solubilità, ecc.). Ma colui che conosce queste forme e il modo in cui esse possono essere introdotte nella natura di un corpo, ciascuna con il suo relativo grado, saprà anche «come fare per poter congiungere in un unico corpo queste qualità, affinché possa essere trasformato in oro». Così, da un lato si dà concretezza scientifica al vecchio sogno alchemico della trasformazione artificiale della natura nei suoi elementi costitutivi, ma dall’altro si apre una prospettiva che avrà una lunghissima durata nella successiva storia del pensiero filosofico e scientifico:



Questo metodo di operare, che distingue le nature semplici anche nel corpo concreto, procede da ciò che è costante, universale ed eterno in natura, e apre larghe vie alla potenza umana, così grandi che a mala pena, allo stato attuale, il pensiero umano riesce a comprenderle e a rappresentarle. [Nuovo Organo, II, aforisma 5]



1. Per Bacon “generare e introdurre in un corpo dato nature diverse” vuol dire: a. modificare gli oggetti. b. generare nuovi materiali. c. individuare la causa materiale di un oggetto. d. generare nuovi manufatti, dopo aver stabilito la causa finale di un oggetto.

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2. In Bacon l’attività manipolatrice sugli oggetti e la produzione tecnologica spiegano: a. la preminenza accordata alla causa formale. b. la maggiore importanza del concetto logico di causa. c. il ricorso alle quattro cause aristoteliche per conoscere gli oggetti. d. la critica baconiana al sillogismo aristotelico.

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Francis Bacon e Galileo Galilei capitolo 5 3. Per Bacon la forma è: a. ciò per cui una cosa è fatta. b. la struttura di un fenomeno e la legge che regola la sua manifestazione. c. da intendersi alla luce dello schematismo latente e del processo latente. d. la struttura e la legge fisico-meccanica di un fenomeno.

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7 Il metodo dell’“induzione vera” Stabilito il compito del sapere scientifico, è necessario indicare le vie, ossia le procedure, con cui sarà possibile sviluppare una conoscenza vera. In vista dell’applicazione corretta del “nuovo organo” alla conoscenza determinata delle forme, Bacon comincia con il distinguere l’interpretazione della natura in due parti, una induttiva, che «consiste nel trarre e far sorgere gli assiomi dall’esperienza», l’altra deduttiva, che «consiste nel dedurre e derivare esperimenti nuovi dagli assiomi». A sua volta poi l’interpretazione induttiva fornisce il suo servizio (ministratio) in primo luogo al senso, in secondo luogo alla memoria e in terzo luogo alla mente o alla ragione. A questi tre momenti corrispondono altrettanti risultati, e cioè l’elaborazione di una storia naturale e sperimentale, l’ordinamento e la classificazione in tavole delle osservazioni raccolte nella storia naturale, infine la messa a punto del processo stesso dell’induzione vera. Di questi tre momenti Bacon ha sviluppato solo il terzo, a partire però dai princìpi del secondo, vale a dire dalla funzione e dall’uso della tabulazione nella ricerca della forma di un dato fenomeno. A differenza dell’induzione aristotelica – che agli occhi del filosofo inglese resta una semplice enumerazione di casi particolari e giunge solo a conclusioni precarie e contraddittorie – l’induzione baconiana, legata all’esperimento, è intesa come la “chiave” dell’intera interpretazione della natura. Essa viene condotta attraverso un numero sufficiente di istanze – termine che indica insieme la posizione di un problema e il porsi del fenomeno stesso – con cui poter afferrare la natura, o forma, o essenza, dei fenomeni.

La ricerca della forma di un fenomeno – Bacon porta come esempio la forma del caldo – procede in primo luogo attraverso il mostrarsi, “davanti all’intelletto”, di tutte quelle istanze note che si congiungono in una stessa natura, anche se si trovano in materie molto diverse tra loro. Tale classificazione dovrà poi essere compilata secondo il punto di vista della storia naturale. Così, a proposito del caldo, occorre compilare una tavola di presenza (tabula presentiae) dove registrare tutti i casi e le istanze note che convengono alla forma del calore, come i raggi del Sole, le meteore infuocate, i fulmini, le eruzioni di fiamme dalle cavità dei monti, i diversi tipi di fiamma, e così via. Una volta realizzata la tabulazione delle presenze, occorre procedere alla stesura di una tavola di assenza (tabula absentiae), dove registrare tutti i casi affini ai precedenti, in cui però non si presenta il fenomeno considerato: per esempio, sempre nel caso del caldo, i raggi della Luna, il fatto che i fulmini si riscontrino soprattutto in inverno, le eruzioni nei paesi freddi, i fuochi fatui, ecc. Terminata la redazione di questa seconda tavola si prosegue compilando una terza tavola, detta tavola dei gradi (tabula graduum), dove elencare i casi in cui il fenomeno indagato è presente in misura maggiore o minore, sia nel medesimo oggetto che in oggetti differenti. In tal modo, registrando l’incremento o la diminuzione del fenomeno si comprenderà anche l’incremento o la diminuzione della natura corrispondente: per esempio, i gradi di calore di un animale in inverno e in estate mutano in relazione alla temperatura esterna. Una volta che queste tavole siano state completate, si può mettere in atto l’induzione vera, non subito per via affermativa, poiché ne potrebbero derivare nozioni e assiomi mal determinati, ma per via negativa, in modo da giungere all’affermazione solo dopo un adeguato procedimento di esclusione ed eliminazione di tutte quelle nature che non corrispondono alle corrispettive istanze raccolte. Il primo risultato dell’induzione vera lo si guadagna subito dopo aver completato le tre tavole e valutato i dati raccolti: è ciò che Bacon chiama prima vendemmia (vindemiatio prima), la quale consiste nella formulazione di una prima ipotesi coerente con i dati esposti. Tale prima ipotesi viene considerata da Bacon come il punto di partenza di una ricerca ulte-

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L’“INDUZIONE VERA”

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La pars construens del metodo baconiano Tavole di presenza

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Tavole di assenza

Tavole dei gradi

Prima vendemmia Istanze prerogative (tra cui l’istanza cruciale) Forma del fenomeno

riore che dovrà sottoporsi a una lunga verifica attraverso ben ventisette istanze, chiamate “prerogative”. Il termine ha un’origine giuridica: nell’antica Roma era detta prerogativa quella tribù che aveva il diritto di votare per prima. Allo stesso modo, le istanze prerogative di cui parla Bacon corrispondono ai fenomeni che vanno indagati per primi, poiché rivestono un carattere di decisività nella comprensione della forma del fenomeno osservato. Tali istanze sono espresse con nomi molto fantasiosi, indicanti di volta in volta il loro carattere o la loro funzione: istanze solitarie, istanze migranti, istanze ostensive, istanze clandestine, istanze costitutive, istanze conformi o proporzionate, istanze monadiche, istanze devianti, ecc. Tra queste un particolare rilievo assumono le istanze cruciali (instantiae crucis), denominate così dalle croci erette ai bivi delle strade come indicatori di una biforcazione. Tali istanze corrispondono più di ogni altra a quel criterio di induzione per esclusione caro al metodo baconiano.



La funzione [delle istanze cruciali] consiste in questo: quando, nell’indagare una natura, l’intelletto sta come in equilibrio, incerto a quale tra due, o talvolta più nature si debba attribuire o assegnare la causa della natura indagata, per il concorso frequente e ordinario di più nature, le istanze cruciali mostrano che l’unione di una sola delle nature alla natura indagata è certa e indissolubile, mentre quella delle altre è variabile e separabile. Così la questione è risolta e si accetta come causa la prima natura, mentre l’altra viene eliminata e rifiutata. [Nuovo Organo, II, aforisma 36]



A questo proposito Bacon fornisce tutta una serie di esemplificazioni, riferendosi a ricerche che sono giunte a formulare teorie in concorrenza tra loro, come quelle riguardanti il flusso e il riflusso delle maree, la rotazione della Terra attorno al Sole o del Sole attorno alla Terra, lo spostamento dell’ago magnetico, la natura della sostanza della Luna e il moto artificiale dei corpi. La fiducia in queste istanze cruciali è tale da far dichiarare a Bacon che il processo di interpretazione della natura a volte può fermarsi ad esse e con esse concludersi. Tale affermazione – che del resto è tutt’uno con la fiducia nell’infallibilità del suo metodo – dipende dal fatto che Bacon è convinto della finitezza della natura e, quindi, della possibilità di poter giungere a enumerazioni complete delle nature semplici, in una corrispondenza diretta della natura con la forma. Segno ulteriore di come l’apporto di Bacon alla scienza sia stato tanto carico di novità, quanto portatore di consuetudini. Nella sua filosofia sono compresenti elementi di continuità e di discontinuità, e questo d’altronde ci testimonia che ogni idea nuova nella storia del pensiero può emergere e portare frutto proprio in quanto si inserisce in un contesto tradizionale, e solo nel suo rapporto di derivazione da quest’ultima si può comprendere il vero senso della sua rottura con il passato. Per questo Bacon è molto più che uno scienziato di transizione o un filosofo a cavallo di due epoche – tra il naturalismo rinascimentale e il matematismo galileiano – come a volte lo si presenta, perché la netta inversione di tendenza nell’interpretazione della natura che egli ha proposto resterà un fattore essenziale del pensiero scientifico moderno almeno sino a Newton.

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Francis Bacon e Galileo Galilei capitolo 5 1. L’induzione baconiana: a. è un’induzione per semplice enumerazione dei casi particolari. b. è il procedimento proprio delle anticipazioni della natura. c. è condotta attraverso le cosiddette istanze. d. è finalizzata a scoprire la forma dei fenomeni.

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2. La prima vendemmia consiste: a. in una prima ipotesi di spiegazione del fenomeno cui segue ulteriore verifica. b. nelle ventisette istanze prerogative. c. nella formulazione delle istanze cruciali. d. nella vera e propria induzione per esclusione.

8 Sapere scientifico e società politica: la Nuova Atlantide

Il nuovo metodo scientifico, con la prospettiva che esso apriva di un progresso inarrestabile nella conoscenza della natura, era inteso da Bacon non solo come l’instaurazione di un nuovo sistema del sapere, ma anche – almeno virtualmente – come l’inaugurazione di un nuovo assetto sociale e di una nuova mentalità politica. Il punto essenziale in questa prospettiva era proprio il sostegno offerto dallo Stato alla ricerca scientifica: è solo in quanto rende possibile un sempre maggiore sviluppo delle conoscenze e una loro adeguata applicazione tecnologica che il potere politico conserva secondo Bacon la sua piena dignità. E non è un caso che, dopo la condanna per corruzione del 1621 e l’immediato crollo della sua gloriosa carriera politica, l’ex lord cancelliere, isolato fisicamente e politicamente dalla Corte inglese, abbia deciso di scrivere quell’operetta che più di ogni altro suo scritto lo renderà famoso ai suoi tempi, vale a dire la Nuova Atlantide. Riemersa dopo un diluvio catastrofico, l’isola di Atlantide viene immaginata da Bacon come il luogo in cui torna a vivere un’antica, sommersa civiltà – quella di “Bensalem” – che è precedente all’avvento del cristianesimo ma al tempo stesso si presenta come un moderno esperimento sociale, culturale e politico illuminato dalla nuova scienza. A differenza di altre “utopie” politiche [ 7], Bacon non ha come obiettivo la migliore forma di governo e di organizzazione sociale: ciò che soprattutto gli interessa è

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mostrare la stretta unione che si riscontra in tale civiltà tra i costumi moralmente ineccepibili per la loro severità, una diffusa tolleranza religiosa, fonte di concordia sociale, e una pratica scientifica perseguita e onorata come il vero motore dell’ordine e del benessere dei cittadini. Gli scienziati neoatlantici, il cui compito è quello di adoperarsi per trasformare la natura a vantaggio dell’uomo, vivono in una comunità isolata dal resto degli abitanti dell’isola, in una vera e propria cittadella della ricerca: un grande laboratorio condiviso di idee, osservazioni, selezioni, esperimenti, verifiche, all’interno del quale tutti collaborano vicendevolmente mettendo in comune i risultati delle loro indagini e le loro scoperte. N ell’immaginazione di Bacon, tuttavia, la comunità scientifica, quella cioè che detiene le chiavi del sapere, non deve mai occuparsi dei problemi e delle difficoltà della gente comune e anzi deve conservare fermamente nelle sue mani il potere di decidere quali scoperte rivelare alla popolazione e quali applicazioni permettere, giudicando essa sola dell’opportunità e del bene sociale. Ciò sta a dire che, dietro la gloriosa immagine di una scienza che permette di conoscere veramente la natura delle cose, Bacon riconosce – con un realismo che spesso sconfina in acuto pessimismo – che il potere prodotto dalla scienza non è mai di per sé innocente: esso cioè può essere impiegato in maniera buona e utile ad una civiltà, ma può anche aprire prospettive di male e di distruzione. Se il sapere è potere, quest’ultimo a sua volta può essere moralmente buono o cattivo; e se la nuova scienza è chiamata a costruire il vero “regno dell’uomo”, non per questo renderà superflua la responsabilità umana, ma anzi la renderà ancora più necessaria.

1. Per Bacon il potere: a. deve essere funzionale allo sviluppo delle scienze e della tecnologia. b. deve mirare alla migliore forma di organizzazione sociale. c. è nelle mani di coloro che “sanno” di più. d. è ben esercitato quando il conseguimento del benessere sociale passa attraverso la pratica scientifica.

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Galileo Galilei

Galileo Galilei è il nome proprio di uno scienziato e di un epistemologo del XVII secolo, ma è anche la denominazione di un dossier, o di un “caso”, che da oltre tre secoli continua a far parlare e a dividere la storia del pensiero filosofico e scientifico, nel quale egli è stato spesso presentato come il difensore della laicità e dell’autonomia della scienza di contro all’ingerenza della fede e della Chiesa. Ma per comprendere in maniera più fedele il pensiero e il ruolo svolto da Galileo, e con ciò valutare anche le discussioni e le polemiche divampate in suo nome, bisogna partire da alcune domande preliminari: qual è stato il suo sguardo nell’osservare un Universo così differente da quello appreso nei libri della sua epoca? In che modo le nuove scoperte hanno determinato una nuova posizione intellettuale ed “esistenziale” nel concepire la pratica scientifica? Quali sono state le conseguenze delle sue osservazioni scientifiche nel campo filosofico e in quello teologico?

9 Un nuovo sguardo sul mondo Galileo nasce a Pisa il 15 febbraio 1564, primogenito di sette figli, da Vincenzo Galilei e Giulia Ammannati. Nel 1581, per volere del padre, si iscrive alla Facoltà di Medicina dell’Università di Pisa, ma per questa disciplina non nutrirà mai alcun interesse, tanto da seguire, a partire dal 1583, le lezioni di matematica di Ostilio Ricci, seguace della scuola di Niccolò Tartaglia. Durante la sua permanenza a Pisa approfondisce il problema del centro di gravità dei solidi e della determinazione idrostatica del peso specifico dei corpi, e i suoi risultati saranno poi descritti nel breve trattato La bilancetta, pubblicato postumo nel 1644. Tornato a Firenze, inizia a occuparsi di meccanica e di idraulica, impartendo lezioni private e cercando di farsi conoscere nel mondo accademico fiorentino. Nel 1589, con l’appoggio del marchese Guido-

baldo Del Monte, riesce a ottenere la cattedra di matematica all’Università di Pisa. Sono questi gli anni nei quali Galileo lavora intensamente allo studio del pendolo, giungendo a stabilire la legge dell’isocronismo nelle oscillazioni, dei piani inclinati e dei moti dei corpi materiali (del 1590 è il breve trattato De motu). Morto nel 1591 il padre, a Galileo spetterà di occuparsi della madre e dei fratelli. Lo stipendio pisano e, soprattutto, le prospettive di carriera inducono Galileo a chiedere all’amico Del Monte un nuovo aiuto per poter ottenere la cattedra di matematica a Padova, dove si trasferisce nel settembre del 1592. A Padova Galileo rimane 18 anni, divenendo in brevissimo tempo uno dei professori più stimati e più seguiti dell’intero ateneo. L’attività di questi anni, che Galileo stesso considera i più belli della sua vita, è molteplice. In qualità di professore commenta l’Almagesto di Tolomeo e gli Elementi di Euclide, mentre i suoi interessi si orientano su aspetti di fisica sperimentale: tra il 1592 e il 1593 compone la Breve istruzione all’architettura militare, il Trattato sulle fortificazioni e le Meccaniche (queste ultime saranno pubblicate in una versione francese soltanto nel 1634). A Padova incontra anche Marina Gamba, da cui avrà tre figli: Virginia e Livia, che si faranno monache, e Vincenzo, l’unico figlio legittimato dallo stesso Galileo. Nel 1597, ad uso degli studenti, compone un Trattato della sfera o Cosmografia, che è una limpida esposizione del sistema geocentrico di Tolomeo. Sappiamo, però, da un’importante lettera a Keplero dello stesso anno, che lo scienziato pisano aveva già abbracciato da diversi anni l’ipotesi copernicana. Il suo studio a Padova è un vero e proprio laboratorio sperimentale dove Galileo costruisce apparecchi e strumenti utili a coltivare i suoi numerosi interessi, tra cui quelli di ingegneria idraulica, di meccanica e di balistica, ecc. Ma ciò che più lo appassiona è la costruzione di strumenti di misurazione, nei quali al rigore matematico si abbina la genialità tecnica: sono di questo periodo il compasso geometrico militare, vari tipi di bussola e un termo-baroscopio.

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Il 1609 è l’anno della “rivoluzione”. Dopo che gli era giunta dalle Fiandre la notizia di un nuovo strumento di osservazione realizzato attraverso una combinazione di lenti, tale da avvicinare gli oggetti lontani, riesce – nonostante le sue esigue conoscenze in campo ottico – a ricostruirlo autonomamente. Nasce così il suo cannocchiale, che egli presenta al Consiglio dei Dieci della Serenissima Repubblica di Venezia, da cui dipendeva anche l’Università di Padova. Il successo fu enorme: innanzitutto i Dieci, comprendendo l’importanza dell’utilizzo commerciale e militare del cannocchiale, decidono di aumentare in modo consistente lo stipendio di Galileo. Inizia così una nuova vita per lui, e non solo dal punto di vista economico. N ell’autunno dello stesso anno, infatti, egli decide di puntare il nuovo strumento verso il cielo: questa sarà la vera svolta. Si apre uno spazio mai osservato prima: le scoperte fatte in quei mesi e descritte nel Sidereus N uncius, pubblicato a Venezia nel marzo del 1610, convincono Galileo ad assumere con decisione il ruolo di annunciatore (nuncius, appunto) di un nuovo sistema cosmologico. Sempre nel 1610 Galileo si trasferisce a Firenze con il titolo di filosofo e matematico del granduca di Toscana, dedicandosi ininterrottamente alla ricerca (tra l’altro, osserva Saturno e le fasi di Venere attorno al Sole). Nel 1611 viene invitato nel Collegio romano per illustrare le sue scoperte di fronte ai matematici gesuiti. L’esito è trionfale: i gesuiti confermano tutte le sue scoperte, egli incontra molti prelati importanti – tra cui Roberto Bellarmino e Maffeo Barberini – e viene invitato a partecipare come socio fondatore all’Accademia dei Lincei, presieduta da Federico Cesi. Del 1612 è il Discorso intorno alle cose che stanno in su l’acqua, o che in quella si muovono, mentre del 1613 è l’Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti. Tuttavia, già alla fine del 1612 Galileo, dopo le prime reazioni polemiche da parte dei suoi colleghi dell’Università di Padova, viene attaccato anche dai domenicani fiorentini per eresia e nel 1613, messo al corrente di una disputa avvenuta in casa del granduca circa la relazione tra le Sacre Scritture e il moto della Terra, scrive una lettera – indirizzata a Benedetto Castelli, suo fedele allievo nello studio di Pisa, ma resa pub-

blica – nella quale affronta esplicitamente il rapporto tra verità delle Scritture e verità scientifica. A questa prima “lettera copernicana” ne seguono altre tre: due indirizzate a Piero Dini, e l’ultima indirizzata alla granduchessa madre Cristina di Lorena. Nel 1615 il Sant’Uffizio, in seguito alle denunce dei domenicani Caccini e Attavanti, attiva un procedimento giudiziario nei confronti dello scienziato pisano. In questo stesso periodo il padre carmelitano Paolo Antonio Foscarini pubblica una Lettera sopra l’opinione de’ Pitagorici e del Copernico, nella quale si sostiene da un punto di vista strettamente teologico l’accordo tra le verità contenute nella Bibbia e il copernicanesimo. Galileo torna a Roma nella speranza di poter, con la sua presenza, evitare una qualsiasi forma di divieto da parte delle autorità ecclesiastiche. Tuttavia, questa volta non ha fortuna: il 24 febbrario 1616 il Sant’Uffizio condanna come assurda la proposizione che il Sole sia immobile “al centro del mondo”, e come eretica la proposizione che la Terra giri attorno al Sole. Papa Paolo V blocca tuttavia ogni provvedimento, rimandando il caso alla Congregazione dell’Indice, che decide di proibire, tra l’altro, il De revolutionibus dello stesso Copernico («fino a quando non sia corretto») e senz’appello invece la Lettera di Foscarini. L’unica conseguenza a carico di Galileo fu un ammonimento privato da parte del cardinale Bellarmino a non insegnare e difendere in alcun modo la dottrina copernicana. N el 1623, a seguito di una controversia con un altro gesuita, Orazio Grassi, relativa alla natura delle comete, Galileo pubblica il Saggiatore. Le comete, secondo Galileo, sono fenomeni ottici, e non corpi celesti come affermava Grassi, sulla scorta dell’interpretazione di Tycho Brahe. Non è un caso che Galileo dedichi quest’opera al papa: sul soglio pontificio era salito, infatti, un vecchio estimatore e amico dello scienziato, Maffeo Barberini, con il nome di Urbano VIII. Recatosi una terza volta a Roma, nel 1624, Galileo ha la possibilità di incontrare in diverse occasioni il nuovo papa, dal quale, oltre ad un sostegno economico, riceve anche l’incoraggiamento a continuare i suoi studi riguardo al sistema copernicano, a patto che quest’ultimo fosse trattato come una semplice ipotesi e non come dottrina definitiva. Con questi auspici

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Galileo scrive il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano, e chiede l’assenso romano per la pubblicazione. L’imprimatur viene concesso, a condizione che prima di essere pubblicata, l’opera fosse rivista da Federico Cesi insieme a padre N iccolò Riccardi. Ma Galileo, appresa la notizia della morte improvvisa di Cesi, e contravvenendo alla richiesta di stampare a Roma il Dialogo, ottiene dall’Inquisizione fiorentina che il libro venga stampato a Firenze. Il papa fa ordinare allora il ritiro delle copie dell’opera e intima a Galileo di comparire davanti al tribunale dell’Inquisizione nel 1632. Il 22 giugno 1633 Galileo, ritenuto colpevole di «aver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alle Sacre e divine Scritture, ch’il Sole [...] non si muova da Oriente ad Occidente, e che la Terra si muova e non sia centro del mondo» [Sentenza di condanna], abiura alla presenza dei cardinali del Sant’Uffizio. La pena del carcere viene tramutata da subito nell’obbligo di risiedere prima all’interno della villa dell’ambasciatore di Toscana a Roma, poi nella casa dell’arcivescovo Piccolomini di Siena e, infine, nella villa di Galileo ad Arcetri (dove per un certo periodo è accompagnato dalla presenza amatissima di sua figlia Virginia, divenuta suor Maria Celeste). N el 1638 pubblica i Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze. Morirà quattro anni dopo, l’8 gennaio 1642, e sarà sepolto nella Basilica di Santa Croce a Firenze.



Inoltre, abbiamo un ottimo ed eccellente argomento per eliminare gli scrupoli di coloro che, accettando con animo disteso nel sistema copernicano la rivoluzione dei pianeti intorno al Sole, sono però così turbati dalla sola rotazione della Luna intorno alla Terra – mentre intanto ambedue compiono il giro annuo intorno al Sole – da ritenere che si debba rifiutare come impossibile questa struttura dell’Universo; ora, infatti, non abbiamo un solo pianeta che ruota intorno a un altro, mentre ambedue percorrono una grande orbita intorno al Sole, bensì quattro stelle l’esperienza sensibile ci mostra vagare intorno a Giove, come la Luna intorno alla Terra, mentre tutte insieme con Giove, nello spazio di 12 anni, percorrono un orbita intorno al Sole. [Sidereus Nuncius]



Galileo è convinto che l’eccezionalità delle sue scoperte risieda in questa nuova modalità “fisica” di indagare i fenomeni astronomici, descrivendo la loro realtà effettiva e non limitandosi a mere ipotesi matematiche sul moto dei cieli; e questo non sarebbe stato possibile senza

Le scoperte astronomiche di Galileo novembre - dicembre 1609 Osservazione della Luna e scoperta della sua superficie irregolare.

10 Le scoperte astronomiche Le osservazioni astronomiche della Luna e della Via Lattea effettuate attraverso il telescopio permettono a Galileo la fondazione di una nuova astronomia, aprendo nuove possibilità di spiegazione fisica del sistema copernicano. N e è convinto lo stesso scienziato, il quale, al termine del resoconto delle osservazioni che lo avevano portato a scoprire i quattro satelliti di Giove, da lui chiamati “pianeti medicei”, scrive:

dicembre 1609 - gennaio 1610 Quattro pianeti medicei e loro rivoluzione attorno a Giove; nuove stelle nella costellazione delle Pleiadi e nelle nebulose di Orione e Presepe. 1610 Osservazione di Saturno e scoperta dei suoi anelli; fasi di Venere attorno al Sole. 1612-13 Osservazione e scoperta delle macchie solari.

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l’utilizzo del nuovo strumento ottico di osservazione. Ma vediamo più da vicino una di queste “grandi scoperte” astronomiche, e cioè l’osservazione della Luna e delle sue fasi. È interessante comparare l’osservazione della Luna effettuata da Galileo con quella compiuta nel 1609 – dunque solo un anno prima – dal matematico e astronomo inglese Thomas Harriot. Quest’ultimo infatti vede la Luna con gli occhi di Aristotele – vale a dire come un elemento celeste perfettamente sferico, senza alcuna corruzione interna – e in tal modo arriva a confermare sia la teoria della solidità delle sfere celesti, sia quella dell’incorruttibilità dei cieli. Al di sopra della sfera terrestre, Harriot continua ad osservare – o meglio crede di osservare – la natura incorruttibile dei corpi celesti, ciascuno incastonato all’interno della sua sfera, e arriva a giustificare le imperfezioni lunari, visibili anche a occhio nudo, come un effetto di riflessione che impedisce all’occhio di osservare la “vera” superficie del pianeta. Totalmente diversa è invece la Luna vista con il telescopio da Galileo: egli vi osserva la presenza di monti e valli, anfratti e caverne, e arriva a ipotizzare la presenza dell’acqua su di essa. La Luna, in altre parole, gli appare come un corpo celeste del tutto simile alla Terra, proprio perché egli non la vede più con gli occhi della scienza del suo tempo, ma con occhi diversi: i suoi. L’osservazione astronomica di Galileo risulta talmente acuta e accurata, che ancor oggi, se si osservasse la superficie lunare con un telescopio simile a quello usato da lui, si otterrebbero gli stessi risultati. Risultati che, peraltro, risultarono ben presto decisivi anche per altri scienziati del suo tempo, se è vero che lo stesso Harriot, dopo aver letto il Sidereus Nuncius, torna ad osservare la Luna, questa volta vedendola non più con gli occhi di Aristotele, ma con quelli di Galileo – cioè con i suoi propri. Cosa era cambiato in un anno? Certamente non la Luna, bensì, come detto, il modo di osservarla. E se, a tal proposito, ha avuto senza dubbio un ruolo determinante il diverso utilizzo dello strumento di osservazione, questo non basta ancora per spiegare la novità dell’approccio. Ciò che muta è soprattutto il punto di vista dell’osservatore, il quale comincia a non essere più legato in maniera vincolante a sche-

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mi precostituiti e a determinate teorie di riferimento. Anzi, il fatto stesso di utilizzare il cannocchiale come strumento scientifico, più che la causa è la conseguenza di un nuovo modo di concepire la sperimentazione scientifica. La scoperta del carattere corruttibile della superficie lunare, accanto a quella dei satelliti di Giove e di altri corpi celesti (nebulose, costellazioni, le fasi di Venere, le caratteristiche di Saturno, ecc.) riveste per Galileo un’importanza fondamentale nella battaglia a favore dell’eliocentrismo e per l’abbandono della visione aristotelico-tolemaica. A queste scoperte si aggiungerà, nel 1612, l’osservazione – sempre con il cannocchiale – delle macchie solari, le quali vengono interpretate da Galileo come fenomeni reali appartenenti alla superficie del Sole, in aperto contrasto con le tesi aristoteliche sull’incorruttibilità dei cieli, tanto da far dire allo scienziato pisano – in una lettera a Federico Cesi – che tali macchie rappresentano «il funerale o piuttosto l’estremo e ultimo giudizio della pseudofilosofia». Galileo infatti interpreta questa sua attività di ricerca astronomica come una vera e propria operazione di cambiamento della mentalità culturale, da contrapporre alle dottrine filosofiche tradizionali, assegnando allo scienziato – cioè a sé stesso – il compito di «sradicare i principali dogmi della dottrina hoggidì magistrale, contr’il Maestro di color che sanno» [Lettera di F. Cesi a Galileo, 3 novembre 1612], cioè Aristotele.

1. La diversa descrizione della Luna fatta da Galileo rispetto a quella di Harriot è imputabile: a. all’elaborazione di ipotesi matematiche sui moti della Luna. b. all’utilizzo del cannocchiale. c. alla preminenza assegnata all’osservazione invece che alle teorie tradizionali. d. all’adesione di Galileo al geocentrismo.

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2. La scoperta delle macchie solari segna: a. l’abbandono da parte di Galileo del geocentrismo. b. la dimostrazione dell’infinità dell’Universo. c. la dimostrazione della falsità della tesi dell’incorruttibilità dei cieli di Aristotele. d. il passaggio di Galileo dal sistema aristotelico-tolemaico a quello copernicano.

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Iconografia della Luna al tempo di Galileo L’innovazione scientifica è strettamente legata alla capacità osservativa da parte dello scienziato. Nel caso dell’osservazione della Luna, prima di Galileo gli scienziati hanno sempre tenuto conto da una parte dell’immaginario letterario e poetico, dall’altra delle dottrine astronomiche prevalenti, come nel caso di Thomas Harriot (1609) [fig. 1]. Galileo, invece, non vede la Luna con gli occhi della tradizione scientifica o letteraria: quando punta il suo cannocchiale al cielo, egli segue un’ipotesi del tutto differente, e cioè che i pianeti siano conformi alla struttura della Terra. Pertanto anche la Luna ha monti e valli, anfratti e caverne [fig. 2]. Le osservazioni astronomiche di Galileo influiranno da subito sulle descrizioni della Luna da parte degli altri scienziati, a partire dallo stesso Harriot [fig. 3], che cambia la raffigurazione dopo aver letto il Sidereus Nuncius, come faranno pure Giuseppe Biancani [fig. 4] e il gesuita Christoph Scheiner, ipotizzando non più un pianeta perfettamente sferico e incorruttibile – come voleva la dottrina aristotelico-tolemaica – ma un corpo del tutto simile alla Terra.

Fig. 1. Thomas Harriot (1609)

Fig. 2. Galileo (1610)

Fig. 3. Thomas Harriot (1610)

Fig. 4. Biancani (1620)

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uguali incrementi di velocità. Seguendo lo stesso approccio, ma con un dispositivo sperimentale diverso, Galileo si interessa anche del movimento dei corpi applicato al pendolo, giungenMa non sono solo le scoperte astronomiche a do a stabilire l’isocronismo delle oscillazioni, costituire il presupposto per un ripensamento vale a dire l’uguaglianza della durata tra due sistematico della scienza e della sua metodolomovimenti ritmici. gia. Sin dal periodo padovano, Galileo conduce Per poter raggiungere la verità scientifica della una serie di indagini in campo fisico, idraulico natura, il metodo della conoscenza, oltre a cene meccanico, che lo portano a formulare con trarsi sull’esperimento, dev’essere il più possibile precisione una nuova modalità osservativa, che adeguato all’oggetto dell’indagine. Ma l’oggetto ha nella scelta dell’esperimento il suo nodo fisico, a sua volta, non è solo qualcosa che sta centrale [ T28]. In questo modo, i fenomeni fuori di noi, bensì qualcosa di cui noi facciamo fisici sono studiati a partire da situazioni speriesperienza, e che quindi richiede l’intervento mentali costruite appositamente come le più attivo della nostra osservazione e delle nostre favorevoli all’indagine. deduzioni. L’atteggiamento di fondo da parte di È il caso, per esempio, dello studio della Galileo è quello di rinunciare a considerazioni di caduta dei gravi e del moto naturalmente accetipo prettamente “metafisico”. Come scriverà a lerato, per il quale Galileo costruisce appositamargine delle Considerazioni al libro del Sig. mente nel suo laboratorio un dispositivo, il Vincenzo Di Grazia: «Io stimo più il trovare un piano inclinato, lungo il quale fa rotolare una vero benché di cosa leggiera, che ’l disputar delle pallina di bronzo. In tal modo, egli crea delle massime questioni senza conseguir verità nescondizioni favorevoli per poter controllare spesuna» [Considerazioni, vol. IV]. rimentalmente l’osservazione e giunge a forÈ una nuova forma di conoscenza che viene mulare una legge generale sul moto naturalproposta qui, distinta sia da quella filosofica mente accelerato, stabilendo che, in spazi sucche da quella teologica, e che tuttavia Galileo cessivi uguali, un corpo in movimento assume non ritiene affatto assoluta o alternativa rispetto alla metafisica. Lo scienziato pisano è consapevole che lo spettro delle domande della ragione umana è più ampio rispetto alle risposte che può fornire il metodo sperimentale. Galileo ha rinunciato Queste risposte infatti si possono raggiungere solo restringendo l’attenzione ad alcune affea ricercare le essenze delle cose zioni che esprimono le proprietà quantitative della materia, come sono lo spazio, il O noi vogliamo specolando tentar di penetrar tempo, il moto e la quiete. Tali affezioni l’essenza vera ed intrinseca delle sustanze naturali; o costituiscono l’oggetto delle sensate noi vogliamo contentarci di venir in notizia d’alcune loro affezioni. Il tentar l’essenza, l’ho per impresa non meno esperienze, e queste ultime vanno elaboimpossibile e per fatica non men vana nelle prossime rate matematicamente attraverso delle sustanze elementari che nelle remotissime e celesti: e a me necessarie dimostrazioni. Consideriamo innanzitutto le prime. pare essere egualmente ignaro della sustanza della Terra che della Luna, delle nubi elementari che delle macchie del Già in alcuni trattati di filosofia naturale e di logica dell’epoca di Galileo veniva Sole; né veggo che nell’intender queste sostanze vicine adoperata l’espressione experientia, in un aviamo altro vantaggio che la copia de’ particolari, ma duplice significato: per indicare che il tutti egualmente ignoti, per i quali andiamo vagando, nostro approccio sensibile ai fenomeni trapassando con pochissimo o niuno acquisto dalnaturali non si esaurisce nel mero contatto l’uno all’altro. materiale, ma richiede un’elaborazione da [Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie parte dell’intelletto, e quindi un vero e proprio solari, vol. V] esperimento (experimentum sensatum); oppure per designare quella specie di consuetudine con le cose materiali che viene assicurata dalla

11 Il metodo della scienza galileiana





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facoltà della memoria e che rende possibile a sua volta il nesso tra le esperienze passate e quelle future (longa experientia). Galileo riprende entrambi questi significati di “esperienza” o “esperimento”, insistendo a sua volta sul fatto che quest’ultimo va sempre condotto sulla base di un’esperienza teorica. E difatti, se all’inizio del procedimento metodico lo scienziato formula un’ipotesi per spiegare un fenomeno osservato casualmente, in seconda battuta, per mettere alla prova la spiegazione iniziale egli deve riprodurre artificialmente quel fenomeno in contesti e in condizioni approntate ad hoc, cioè deve farne un vero e proprio “esperimento”. L’esperimento va inteso dunque come una sintesi di ragione ed esperienza. Ma perché la verifica sperimentale possa essere compiuta con assoluta certezza e portare alla formulazione di una legge necessaria riguardo al fenomeno osservato, occorre che essa venga formalizzata attraverso le “necessarie dimostrazioni” di tipo matematico. Così le conoscenze empiriche iniziali spingono a formulare ipotesi le cui conseguenze verificate sperimentalmente ed elaborate matematicamente costituiranno nuove ipotesi e suggeriranno nuove verifiche. Nei casi più elementari, infatti, le ipotesi assumono il ruolo di semplici criteri per l’organizzazione dei dati; ma poi esse vanno progressivamente sostituite con ipotesi più generali che acquistano un ruolo simile a quello dei postulati in matematica: a partire da quelle ipotesi, o leggi fondamentali, si costruisce in modo puramente deduttivo un edificio teorico sempre più complesso e organico. È questo il merito maggiore che va riconosciuto a Galileo nella storia del pensiero scientifico: aver attribuito alla matematica il ruolo di linguaggio specifico della filosofia della natura. La fisica sperimentale, infatti, è tale non semplicemente perché procede per mezzo di esperimenti, ma a motivo del codice matematico con cui quegli esperimenti vengono realizzati. È la matematica, infatti, che fornisce gli strumenti concettuali per le dimostrazioni certe; e può farlo nella misura in cui, secondo Galileo, è la stessa natura ad essere strutturata secondo un ordine matematico-geometrico. Il manifesto programmatico di questa matematizzazione della scienza è riportato in una

famosa pagina del Saggiatore (l’opera del 1623 nella quale viene delineata, anche se non in modo sistematico e rigoroso, la metodologia scientifica galileiana):



La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’Universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche, senza i quali mezzi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto. [Saggiatore, vol. VI]



I caratteri in cui è scritto il libro della natura sono caratteri diversi dal nostro alfabeto, e non tutti sono in grado di leggerli. Su questa convinzione Galileo fonda il presupposto della irriducibilità della verità scientifica: la scienza non si limita a fornire delle ipotesi per giustificare i fenomeni, bensì riesce a fornire delle verità sulla loro costituzione reale, e cioè a rappresentarsi l’essenziale struttura fisica del mondo. Di qui la distinzione metodologica tra qualità primarie e qualità secondarie. Le prime ineriscono alla struttura ontologica del fenomeno e cor-

Metodo scientifico galileiano Il metodo di Galileo si articola nei seguenti passaggi, non necessariamente in questa successione. a. Studio delle affezioni Affezioni = Proprietà della materia = spazio, tempo, moto, quiete b. Sensate esperienze Riproduzione artificiale di un fenomeno naturale e sua osservazione c. Matematiche dimostrazioni Ipotesi, controllo dell’esperienza e spiegazione in termini matematici del fenomeno

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rispondono a quelle che potremmo chiamare proprietà matematico-fisiche (il peso di un corpo, la sua estensione, la sua figura, ecc.), mentre le qualità secondarie rappresentano quelle proprietà sensibili che non sono costitutive della realtà ma dipendono dal nostro apparato percettivo (i colori, gli odori, i sapori, i suoni, ecc.). Il significato della posizione galileiana fu ben interpretato da coloro che considerarono pericolosa l’idea di una conoscenza scientifica che, per il suo grado di obiettività, era paragonabile alla sapienza divina. È lo stesso Galileo che lo rivela:

1. Il metodo scientifico galileiano poggia: a. sull’osservazione dei fenomeni a partire da situazioni sperimentali appositamente costruite. b. sullo studio delle affezioni e sulle necessarie dimostrazioni. c. sul ricorso a preliminari ipotesi metafisiche verificate dalle sensate esperienze. d. sulla ricerca dell’essenza dei fenomeni fisici.

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2. La fisica galileiana è sperimentale perché: a. si avvale semplicemente di esperimenti appositamente costruiti. b. non rappresenta la reale struttura fisica del mondo ma elabora ipotesi. c. poggia sulle cosiddette qualità secondarie. d. si avvale dell’esperimento realizzato attraverso un codice matematico.



L’intendere si può pigliare in due modi, cioè intensive, o vero extensive: e che extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune cosí perfettamente, e ne ha cosí assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di piú, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore. [Dialogo sopra i due massimi sistemi, I giornata]



Su questo punto si misura tutta la distanza che separa l’epistemologia galileiana da quella dei suoi critici teologi, tra i quali spicca il nome del cardinale gesuita Roberto Bellarmino [ 6.3.4]: per quest’ultimo la scienza deve muoversi soltanto sul piano delle ipotesi, dal momento che per ogni effetto naturale sarà sempre possibile dare spiegazioni differenti rispetto a quella che oggi sembrerebbe la più adatta o la migliore. In questo senso, anche il sistema copernicano andava visto solo come un’ipotesi di spiegazione matematica dell’Universo. Per Galileo, invece, la scienza sperimentale-deduttiva ci fornisce il carattere necessario della stessa realtà naturale.

12 L’ipotesi copernicana

al vaglio della teologia

La comunicazione pubblica delle scoperte scientifiche di Galileo, accompagnata da una critica precisa nei confronti della cosmologia tradizionale, suscitò da subito una serie di reazioni polemiche, riguardanti soprattutto le conseguenze teologiche dell’osservazione scientifica del mondo. Si apre così quella questione galileiana che – anche al di là delle vicende biografiche e dei problemi teorici direttamente affrontati dallo scienziato pisano – ha continuato nei secoli successivi a indicare la più vasta problematica dei rapporti tra scienza e fede o tra la libera ricerca razionale e l’autorità dell’istituzione ecclesiastica. I primi attacchi tuttavia non provengono a Galileo da ambienti ecclesiastici o romani, bensì da un ambiente accademico e laico come quello dell’Università di Padova, tradizionalmente legato alla filosofia aristotelica. Da questo fronte vengono avanzate – in maniera tendenziosa – non tanto delle obiezioni di carattere scientifico, quanto obiezioni di carattere teologico che sostengono l’impossibilità di interpretare le Sacre Scritture al di fuori dei canoni della cosmologia aristotelica. Messo in guardia circa l’ostilità dei suoi colleghi, e spinto da alcune voci provenienti dalla curia romana, Galileo ritiene opportuno verificare se l’argomento scritturistico sia poi così determinante nella scelta del sistema cosmologi-

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co. A questo fine sceglie di confrontarsi con un esperto di esegesi, il cardinale Carlo Conti, conosciuto durante il soggiorno romano del 1611, in occasione del quale aveva esposto le sue scoperte astronomiche ai matematici gesuiti e a diversi altri prelati. All’interrogativo posto da Galileo – «se la Sacra Scrittura favorisca a’ princìpi de Aristotele intorno alla costitutione dell’Universo» [Lettera di C. Conti a Galileo, 7 settembre 1612] – Conti risponde che la dottrina aristotelica dell’incorruttibilità dei cieli poteva essere tranquillamente avversata, senza timore di incorrere in clamorose smentite da parte della Bibbia o dei Padri della Chiesa. Si tratta di un primo segnale, che Galileo svilupperà nel suo tentativo di rovesciare le accuse mosse contro di lui. Questa contromossa viene portata avanti da Galileo con le cosiddette lettere copernicane, scritte a seguito di una discussione – avvenuta nel salotto di Cristina di Lorena, granduchessa di Toscana – tra l’amico e scienziato Benedetto Castelli e il filosofo aristotelico Cosimo Boscaglia. Il problema di partenza è netto: se sia legittimo ritenere «non poter mai la Scrittura Sacra mentire, o errare, ma essere i suoi decreti d’assoluta ed inviolabile verità». Il fatto è che la veridicità della Scrittura non implica sempre un’analoga veridicità dell’interpretazione, e può ben capitare che quest’ultima cada in errore, soprattutto se resta attaccata al “puro significato delle parole”. In altri termini, l’esegesi letterale non offre una garanzia di verità assoluta, e soprattutto non ci esime dall’impegno a ricercare i “veri sensi” e indicare «le ragioni particolari per che siano sotto cotali parole stati profferiti». Senza questa interpretazione del senso vero dei termini si rischierebbe infatti di pronunciare «gravi eresie e bestemmie». Che la Scrittura non possa mai sbagliare è fuor di dubbio; il problema è la natura del suo linguaggio e come poterlo intendere correttamente:



Stante, dunque, che la Scrittura in molti luoghi è non solamente capace, ma necessariamente bisognosa d’esposizioni diverse dall’apparente significato delle parole, mi par che nelle dispute naturali ella doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo: perché, procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come

dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; ed essendo, di più, convenuto nelle Scritture, per accomodarsi all’intendimento dell’universale, dir molte cose diverse, in aspetto e quanto al significato delle parole, dal vero assoluto; ma, all’incontro, essendo la natura inesorabile e immutabile e nulla curante che le sue recondite ragioni e modi d’operare sieno o non sieno esposti alla capacità de gli uomini, per lo che ella non trasgredisce mai i termini delle leggi imposteli; pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura. [Lettera a Benedetto Castelli]



Il vero contrasto non è dunque quello tra fede e ragione o tra teologia e filosofia, quanto piuttosto quello tra Scrittura e natura. E si tratta essenzialmente di un contrasto tra due linguaggi, i quali, pur essendo originati entrambi dal “Verbo divino”, seguono tuttavia modalità espressive differenti: il linguaggio della natura è quello necessario della matematica [ T21], il linguaggio della rivelazione biblica è quello della storia, sempre bisognoso di essere interpretato nei suoi diversi sensi. Nell’indagine fisica, dunque, il primato va assegnato senz’altro al linguaggio divino – cioè matematico – della natura rispetto al linguaggio spirituale e simbolico della Scrittura: si produce in tal modo una vera e propria separazione di ambiti disciplinari – l’ambito della fede e quello della scienza – e si ridimensiona la competenza dell’interpretazione biblica soltanto agli argomenti del primo ambito. Perciò, secondo Galilei, è più prudente non utilizzare, come sostegno alle conclusioni della scienza naturale, quei passi della Bibbia che potrebbero essere dimostrati errati dal punto di vista dell’indagine sperimentale. Anzi, rovesciando il canone tradizionale, egli sostiene che in tutti quei casi in cui la Bibbia presenta argomentazioni di tipo fisico, l’esegesi dovrà essere portata avanti sul modello del linguaggio naturale. Prendiamo uno degli esempi classici utilizzato come conferma del geocentrismo, e cioè la famosa frase di Giosuè: «Férmati Sole!»

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[Giosuè, 10, 12], per poter allungare la durata del giorno. La spiegazione che ne dà Galileo è esattamente inversa all’interpretazione tradizionale: nel sistema tolemaico, infatti, la lunghezza del giorno non dipende dal moto del Sole, ma dal movimento del primo mobile (cioè la sfera celeste che imprime il movimento a tutti gli altri cieli sottostanti); e quindi proprio in tale sistema quella frase non può essere presa in senso letterale, perché se il Sole fermasse il suo moto la notte non sarebbe ritardata, ma giungerebbe ancor prima. Paradossalmente, è nel sistema copernicano che più si salva il senso letterale del passo biblico, a ulteriore conferma del principio di inesorabilità del linguaggio della natura. Quanto poi questo linguaggio debba fare i conti con ipotesi e probabilità, è lo stesso Galileo a indicarlo. Per esempio, riguardo alla rotazione del Sole sul proprio asse, egli non sembra avere più dubbi, avendola già “scoperta e necessariamente dimostrata” mediante l’osservazione delle macchie solari. Riguardo invece al movimento dei pianeti attorno al Sole, non vi è la stessa certezza: ecco allora affacciarsi un’idea filosofica, di marca chiaramente neoplatonica (lo stesso Galileo si riferisce esplicitamente allo Pseudo-Dionigi), secondo la quale è più ragionevole «che il Sole, come strumento e ministro massimo della natura, quasi cuor del mondo, dia non solamente, com’egli chiaramente dà, luce, ma il moto ancora a tutti i pianeti che intorno se gli raggirano» [Lettera a Mons. Piero Dini, 23 marzo 1612]. La dottrina copernicana professata da Galilei viene riassunta in due proposizioni: la prima dice che il Sole, immobile, è al centro dell’Universo; la seconda che la Terra ruota attorno al Sole e intorno al proprio asse. Ed è in base a queste proposizioni che nel 1615 egli viene denunciato all’Inquisizione da parte del domenicano Tommaso Caccini. I teologi consultori del Sant’Uffizio applicano alle due proposizioni una doppia censura: entrambe sarebbero assurde dal punto di vista filosofico, mentre dal punto di vista teologico la prima viene considerata formalmente eretica, la seconda solo erronea. Ma a Galileo – anche grazie all’intervento diretto del papa Paolo V – viene solo rivolto un ammonimento privato da parte del cardinale Bellarmino a non insegnare e difendere in alcun modo la dottrina copernicana.

1. Le scoperte scientifiche di Galileo: a. subiscono innanzitutto le obiezioni della Chiesa. b. subiscono obiezioni di natura teologica dal mondo accademico. c. aprono alla questione se sia possibile interpretare la Bibbia al di fuori della cosmologia aristotelica. d. spingono lo scienziato a confrontarsi con il cardinale Conti. 2. Galileo risolve il contrasto fra Scrittura e natura: a. distinguendo fra linguaggio storico-simbolico e linguaggio matematico. b. separando gli ambiti disciplinari della fede e della scienza. c. assegnando una nuova interpretazione ai passi biblici che hanno per oggetto questioni fisiche. d. assegnando il primato alla Scrittura in ambito scientifico.

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13 Il Dialogo sopra i due massimi sistemi e il processo del 1633

Nel 1624 Galileo riceve dal papa Urbano VIII (il cardinale Maffeo Barberini, suo amico da lunga data) il consenso a scrivere un libro in cui si paragonino i sistemi astronomici in discussione, a patto però che entrambi vengano presentati come ipotesi equidistanti. Il libro si intitolerà Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. In esso viene rappresentata una conversazione fra tre interlocutori: Filippo Salviati, nobile fiorentino e amico di Galileo, al quale lo scienziato affida il compito di esporre il proprio pensiero, Francesco Sagredo, patrizio veneziano, che svolge il ruolo che oggi chiameremmo del moderatore, e Simplicio, un personaggio irreale che funge da rappresentante della filosofia aristotelica (e già il suo nome sta ad indicare ironicamente il giudizio di Galileo). L’opera non costituisce un vero e proprio trattato di astronomia o di cosmografia (come in quegli anni aveva fatto Keplero): l’unica preoccupazione galileiana è quella di chiarire le ragioni che rendono imprescindibile l’abbandono della vecchia cosmologia aristotelico-tolemaica a favore della nuova cosmologia copernicana. Il Dialogo si svolge in quattro giornate, ognuna dedicata a un argomento specifico. N ella prima giornata, Salviati critica la “fabbrica del mondo” aristotelica che comporta l’esistenza in natura di due tipi di sostanze differenti: quella

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del mondo celeste, incorruttibile e ingenerata, e quella corruttibile del mondo degli elementi (aria, acqua, terra, fuoco) che forma i corpi terrestri. L’uso del cannocchiale ha reso possibile l’osservazione delle realtà celesti, della Luna e delle macchie solari, costringendo a rivedere l’immagine tradizionale dell’Universo e a confermare l’idea che anche i corpi sopralunari siano costituiti da una materia del tutto simile a quella della superficie terrestre. La seconda giornata è invece dedicata al movimento di rotazione della Terra attorno al proprio asse. Per provare l’immobilità della Terra, la scienza aristotelica adduceva alcune prove sensibili, come la caduta di un grave lungo una verticale o l’osservazione del moto di un proiettile che risulta identico sia che venga sparato lungo un parallelo verso est, sia verso ovest. Galileo fa leva invece sul suo principio di relatività, secondo cui non è possibile che un osservatore collocato all’interno di un sistema, e quindi partecipe di un moto comune a tutti i corpi di quel sistema, riesca a rilevare gli influssi reciproci tra gli stessi corpi e a dimostrarli all’interno dello stesso sistema. Grazie all’intuizione del principio di inerzia, Galileo dimostra che tutte le prove addotte dagli aristotelici sarebbero valide anche nel caso la Terra non fosse immobile, e stabilisce che il moto che si svolge a velocità costante (che per lui è solo quello circolare) è uno stato naturale nel quale il corpo permane sino a che non intervengano cause esterne che ne modifichino la condizione. N ella terza giornata si passa a discutere del moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole. Salviati dimostra l’impossibilità di stabilire se l’Universo abbia o meno un centro, e che tuttavia, qualora occorra che vi sia un centro, è più plausibile che sia occupato dal Sole piuttosto che dalla Terra. Qui emerge apertamente la predilezione di Galileo per il sistema copernicano, che ai suoi occhi risulta maggiormente attinente alle osservazioni astronomiche effettuate negli anni precedenti, le quali confermano la rivoluzione attorno al Sole di almeno altri due pianeti, cioè Venere e Marte. La quarta giornata è dedicata infine al fenomeno delle maree che Galileo assume quale dimostrazione fisica del moto della Terra. Se si parte dall’osservazione di un corpo liquido presente in un vaso in movimento, si vedrà che qualora il

vaso subisca un improvviso rallentamento, il liquido in esso contenuto si alzerà seguendo il senso del moto e tenderà ad abbassarsi nel verso opposto. Le maree sono dovute, secondo Galileo, allo stesso fenomeno: la rotazione della Terra attorno al suo asse e la sua rivoluzione intorno al Sole provocano una combinazione di movimenti diversi e contrari tra loro, in cui si susseguono momenti di accelerazione e momenti di rallentamento. Galileo individua una soluzione del tutto meccanica, per quanto errata, al fenomeno delle maree, e rifiuta, in modo per noi sorprendente, ogni possibile influsso della Luna sulla massa acquosa della Terra, considerandolo come il retaggio di una mentalità magica e prescientifica. Tuttavia, occorre notare che secondo la teoria esposta dallo scienziato le maree dovrebbero alzarIl testo

dell’abiura di Galileo



Io Galileo, fìg.lo del q. Vinc.o Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, constituto personalmente in giudizio, e inginocchiato avanti di voi Emin.mi e Rev.mi Cardinali, in tutta la Republica Cristiana contro l’eretica pravità generali Inquisitori; avendo davanti gl’occhi miei li sacrosanti Vangeli, quali tocco con le proprie mani, giuro che sempre ho creduto, credo adesso, e con l’aiuto di Dio crederò per l’avvenire, tutto quello che tiene, predica e insegna la S.a Cattolica e Apostolica Chiesa. Ma perché da questo S. Off.o, per aver io, dopo d’essermi stato con precetto dall’istesso giuridicamente intimato che omninamente dovessi lasciar la falsa opinione che il Sole sia centro del mondo e che non si muova e che la Terra non sia centro del mondo e che si muova, e che non potessi tenere, difendere ne insegnare in qualsivoglia modo, ne in voce ne in scritto, la detta falsa dottrina, e dopo d’essermi notificato che detta dottrina è contraria alla Sacra Scrittura, scritto e dato alle stampe un libro nel quale tratto l’istessa dottrina già dannata e apporto ragioni con molta efficacia a favor di essa, senza apportar alcuna soluzione, sono stato giudicato veementemente sospetto d’eresia, cioè d’aver tenuto e creduto che il Sole sia centro del mondo e imobile e che la Terra non sia centro e che si muova; Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d’ogni fedel Cri-

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si ogni dodici ore, mentre nel Mediterraneo il periodo di successione delle maree è di sei ore. Una volta completata la stesura del Dialogo, inizia il lungo iter per ottenere l’imprimatur del Sant’Uffizio, ma una serie di avvenimenti porterà Galileo ad anticipare le decisioni di Roma (che in ogni caso erano già orientate a favore della pubblicazione con alcune osservazioni cautelative) e a far stampare l’opera a Firenze. Il famoso processo romano del 1633 viene istruito proprio con l’accusa di aver estorto in modo fraudolento l’imprimatur a Firenze, senza far presente a chi lo concedeva l’esistenza del precetto del 1616 che vietava a Galileo di insegnare o difendere in qualsiasi modo la dottrina copernicana. Si trattava di un’imputazione chiaramente utilizzata dai nemici di Galileo per screditarlo di fronte al

stiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non fìnta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più ne asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. Giuro anco e prometto d’adempire e osservare intieramente tutte le penitenze che mi sono state o mi saranno da questo S. Off.o imposte; e contravenendo ad alcuna delle dette mie promesse e giuramenti, il che Dio non voglia, mi sottometto a tutte le pene e castighi che sono da’ sacri canoni e altre constituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgate. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani. Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633. Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria.



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papa, ma che lo porterà alla condanna e all’abiura formale del copernicanesimo. Il processo a Galileo avrà delle inevitabili ripercussioni nel contesto della sua epoca e nella storia successiva, ma la vicenda ha inciso più profondamente nelle coscienze dei singoli che nell’effettivo sviluppo della ricerca scientifica. È vero che Descartes rinuncerà per prudenza a pubblicare il suo trattato Il Mondo perché gli era giunta la notizia della condanna di Galileo, ma è anche vero che, negli stessi anni, alcuni scienziati in Italia e all’estero – si pensi a Bonaventura Cavalieri, al gesuita Giambattista Riccioli, a Pierre Gassendi e a Ismael Bovilleaud – erano liberi di insegnare e difendere le teorie copernicane senza subire alcuna conseguenza disciplinare. L’idea di un Galileo libero pensatore schiacciato dall’oscurantismo della Chiesa, cara a gran parte della storiografia ottocentesca, sembra essere tramontata. Dopo l’apertura degli Archivi vaticani e il riesame critico da parte della Chiesa cattolica (dovuto anche al rinvenimento di nuovi documenti) si può riportare tutto il “caso” a dimensioni più oggettive e storiche. Dal punto di vista delle idee filosofiche e scientifiche, noi non potremmo parlare di fisica sperimentale senza il contributo essenziale dello scienziato pisano. Un contributo che tuttavia ha avuto un’influenza soprattutto a livello metodologico, più che dottrinale. Basti pensare che Galileo non è mai arrivato a formulare una vera e propria dimostrazione scientifica della rotazione della Terra, pur avendo davanti a sé quasi tutti gli elementi necessari per farlo. Gli stessi elementi che, 50 anni dopo, porteranno Newton a stabilire la legge sulla gravitazione universale. 1. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi: a. è un breve trattato di astronomia di ispirazione copernicana. b. contiene la spiegazione delle maree attraverso le forze di attrazione e repulsione. c. contiene la dimostrazione precisa del principio di inerzia. d. mira a mostrare le ragioni per le quali si deve abbandonare il sistema aristotelico-tolemaico. 2. Il processo subito da Galileo nel 1633 fu determinato precisamente: a. dalla diffusione della dottrina copernicana. b. dal non aver reso noto il precetto del 1616 al momento della concessione dell’imprimatur al Dialogo. c. dalla condanna operata dalla Chiesa ai primi scritti di Galileo. d. dall’atteggiamento tendenzialmente anticattolico di Galileo.

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SINTESI CAPITOLO 5

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parte I L’alba della modernità Due protagonisti alle origini della scienza moderna. La scienza “moderna” è, al suo sorgere, sperimentale e induttiva ed insieme matematica e deduttiva; aperta all’osservazione misurativa e fondata su basi metafisiche; sviluppata mediante procedimenti controllabili pubblicamente, e in qualche modo erede delle segrete ambizioni magico-alchemiche del Rinascimento. Bacon e Galileo rappresentano le figure più rilevanti che hanno dato vita alla “rivoluzione scientifica”. In questi due autori giunge a maturazione la nuova concezione della conoscenza umana come capace di determinare un nuovo ordine della realtà, fatto di puri rapporti tra le cose, di cui l’uomo diventa l’artefice e il signore. Vengono progressivamente eliminati i pilastri della logica e della filosofia naturale di Aristotele, a favore di un metodo che mette al primo posto l’esperienza e ciò che essa detta all’uomo. Ma se per Bacon l’esperienza costituisce solo un’inferenza di tipo induttivo, per Galileo l’esperienza si compie in una deduzione matematica. La critica alla tradizione e il nuovo sistema del sapere. Il progetto filosofico di Francis Bacon (1561-1626) consiste in un grandioso programma di rifondazione del sapere (La Grande Instaurazione, opera rimasta incompiuta) alla luce di una nuova logica, cioè di un nuovo metodo di interpretazione della natura, che miri ad estendere la potenza e il dominio del genere umano su tutte le cose. Il nuovo metodo si oppone a quello aristotelico fondato sul sillogismo e sull’esperienza elementare. Se il sillogismo è inadeguato a conoscere i princìpi delle scienze, applicandosi piuttosto alle parole, alle proposizioni composte di parole e alla deduzione di proposizioni particolari da proposizioni universali, l’induzione aristotelica è reputata sterile, poiché pretende di risalire immediatamente alla causa universale di un fenomeno naturale, basandosi solo su pochi dati e su singole esperienze. L’aristotelismo è quindi per Bacon un’anticipazione della natura più che un’interpretazione della natura stessa. La novità della scienza baconiana è compendiata nell’opera Nuovo Organo il cui programma è appunto quello di so-

stituirsi al vecchio Òrganon di Aristotele. Tuttavia, Bacon rimane un uomo del suo tempo: per lui il sapere è essenzialmente un sapere di forme, vale a dire di sostanze e non di funzioni o di leggi quantitative. Inoltre, egli mantiene, della filosofia rinascimentale, la concezione vitalistica della natura e l’ideale della scienza come una potenza modificatrice della condizione naturale, caro alla tradizione alchimistica. Ma il sapere non procede più da cause occulte o da forze segrete della natura, bensì da un procedimento razionale, chiaro e controllabile. La teoria degli “idoli”. Per Francis Bacon la nuova “instaurazione” deve partire dall’emendazione dell’intelletto da tutte le false credenze, o idoli. Nel Nuovo Organo Bacon distingue quattro generi di idoli che assediano l’intelletto: a. gli idoli della tribù, radicati nella natura umana, consistono nel credere che il senso sia la misura delle cose; b. gli idoli della caverna, caratteristici del singolo individuo, dipendono dall’educazione, dai libri che si leggono o da chi si riconosce come autorità; c. gli idoli del foro o del mercato, originati dai rapporti sociali e dal linguaggio; d. gli idoli del teatro, dovuti all’influsso delle opinioni filosofiche e delle cattive regole per le dimostrazioni scientifiche. Tra i ragni e le formiche: l’esperienza delle api. Liberata la mente dagli idoli ci si può dedicare allo studio della natura, avendo come filo conduttore l’interpretazione dell’esperienza. Questa non va identificata con la sola esperienza sensibile, cara all’empirismo, ma con il ricorso all’esperimento che corregge gli errori della semplice esperienza. Per Bacon la scienza non scaturisce né dalla sola induzione, né dalla sola ragione. Infatti, l’induzione propria degli empiristi è simile all’occupazione delle formiche che raccolgono una gran quantità di cibo per consumarlo; mentre la scienza dei razionalisti è simile all’attività dei ragni che tessono la tela ricavandone i fili dalla loro stessa sostanza. La scienza baconiana fa suo il metodo delle api: esso consiste nell’estrarre il polline dai fiori per poi trasformarlo grazie a un’attività propria.

Tecnologia e sapere delle forme. Uno dei compiti della scienza baconiana coincide con la capacità tecnologica di creare nuovi composti e nuovi prodotti. Questa manipolazione delle nature è dovuta al fatto che la scienza riesce a conoscere la forma di queste stesse nature. Per Bacon, come per Aristotele, la conoscenza è una conoscenza per cause, ma l’unica causa che ci fa conoscere veramente un oggetto è quella formale. La forma è sia l’essenza che la causa o legge di un fenomeno e si comprende a partire da due concetti: il processo latente, che è la serie dei movimenti infinitesimali e impercettibili propri di un fenomeno; e lo schematismo latente, che costituisce l’ordinamento delle particelle elementari di un oggetto. La conoscenza della forma implica, dunque, la possibilità di trasformare un corpo dato. Il metodo dell’“induzione vera”. Bacon distingue l’interpretazione della natura in due parti, una induttiva, che trae gli assiomi dall’esperienza, l’altra deduttiva, che deriva esperimenti nuovi dagli assiomi. A differenza dell’induzione aristotelica, che resta una semplice enumerazione di casi particolari, l’induzione baconiana, legata all’esperimento, è intesa come la “chiave” dell’intera interpretazione della natura. Essa viene condotta attraverso un numero sufficiente di istanze con cui poter afferrare la forma dei fenomeni. La conoscenza della forma procede in primo luogo attraverso la compilazione della tavola di presenza, dove registrare tutti i casi e le istanze note che convengono alla forma del fenomeno ricercata; poi occorre procedere alla stesura di una tavola di assenza, dove registrare tutti i casi affini ai precedenti, in cui però non si presenta il fenomeno considerato; e si prosegue compilando una terza tavola, detta tavola dei gradi dove elencare i casi in cui il fenomeno indagato è presente in misura maggiore o minore, sia nel medesimo oggetto che in oggetti differenti. Si giunge così alla prima vendemmia, che costituisce il punto di partenza di una ricerca ulteriore che dovrà sottoporsi a una lunga verifica attraverso le ventisette istanze, o “prerogative”. Tra queste un particolare rilievo assumono le istanze cruciali, denominate così dalle croci erette ai

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SINTESI CAPITOLO 5

Francis Bacon e Galileo Galilei capitolo 5 bivi delle strade come indicatori di una biforcazione.

smo e per l’abbandono della visione aristotelico-tolemaica.

Sapere scientifico e società politica: la Nuova Atlantide. Il nuovo metodo scientifico comporta anche l’avvento di un nuovo assetto sociale e di una nuova mentalità politica. Nella Nuova Atlantide, Bacon presenta un moderno esperimento sociale, culturale e politico illuminato dalla nuova scienza: egli vuole così mostrare la stretta unione che si riscontra nell’immaginaria civiltà di Atlantide tra i costumi moralmente ineccepibili e una diffusa tolleranza religiosa da una parte e la pratica scientifica perseguita come il vero motore del benessere dei cittadini dall’altra. Gli scienziati neoatlantici, il cui compito è quello di adoperarsi per trasformare la natura a vantaggio dell’uomo, vivono in una comunità isolata dal resto degli abitanti dell’isola, in una vera e propria cittadella della ricerca: un grande laboratorio condiviso di idee, osservazioni, selezioni, esperimenti, verifiche, all’interno del quale tutti collaborano vicendevolmente mettendo in comune i risultati delle loro indagini e le loro scoperte. N ell’immaginazione di Bacon la comunità scientifica deve conservare fermamente nelle sue mani il potere di decidere quali scoperte rivelare alla popolazione e quali applicazioni permettere, giudicando essa sola dell’opportunità e del bene sociale.

Il metodo della scienza galileiana. Le indagini in campo fisico, idraulico e meccanico portano Galileo a formulare una nuova modalità osservativa che ha nell’esperimento il suo nodo centrale. I fenomeni fisici sono studiati a partire da situazioni sperimentali costruite appositamente come nello studio della caduta dei gravi e del moto naturalmente accelerato. Per poter raggiungere la verità scientifica sulla natura, il metodo della conoscenza, oltre a centrarsi sull’esperimento, dev’essere il più possibile adeguato all’oggetto dell’indagine. Ma dell’oggetto fisico è possibile indagare solo le affezioni che esprimono le proprietà quantitative della materia, come lo spazio, il tempo, il moto e la quiete. Queste costituiscono l’oggetto delle sensate esperienze che, a loro volta, vanno elaborate matematicamente attraverso le necessarie dimostrazioni. Il merito maggiore di Galileo, nella storia del pensiero scientifico, risiede nell’aver attribuito alla matematica il ruolo di linguaggio specifico della filosofia della natura. Il manifesto programmatico della matematizzazione della scienza è contenuto nel Saggiatore (1623). La scienza riesce a rappresentare l’essenziale struttura fisica del mondo: questa risiede nelle qualità primarie, distinte dalle qualità secondarie. Le prime ineriscono alla struttura ontologica del fenomeno e corrispondono alle proprietà matematico-fisiche, mentre le seconde rappresentano quelle proprietà sensibili che dipendono dal nostro apparato percettivo (i colori, gli odori, i sapori, i suoni, ecc.).

Le scoperte astronomiche. Le osservazioni astronomiche della Luna e della Via Lattea, effettuate da Galileo Galilei (1564-1642) attraverso il telescopio, permettono la fondazione di una nuova astronomia legata al sistema copernicano e basata sulla descrizione effettiva dei fenomeni astronomici e non più su mere ipotesi matematiche. In particolare, l’osservazione della Luna compiuta nel 1610 rivela a Galileo la presenza di monti e valli, anfratti e caverne: la Luna appare quindi come un corpo celeste simile alla Terra. La scoperta del carattere corruttibile della superficie lunare, accanto a quella dei satelliti di Giove e di altri corpi celesti, nonché l’osservazione delle macchie solari, rivestono per Galileo un’importanza fondamentale nella battaglia a favore dell’eliocentri-

L’ipotesi copernicana al vaglio della teologia. La comunicazione pubblica delle scoperte scientifiche di Galileo, accompagnata dalla critica nei confronti della cosmologia tradizionale, suscitano una serie di reazioni polemiche: i primi attacchi provengono dall’ambiente accademico dell’Università di Padova, legato alla filosofia aristotelica, e consistono in obiezioni di carattere teologico dovute all’impossibilità di interpretare le Sacre Scritture al di fuori dei canoni della cosmologia aristotelica. Nelle lettere copernicane Galileo af-

ferma che la veridicità delle Sacre Scritture non implica sempre un’analoga veridicità dell’interpretazione: l’esegesi letterale non offre una garanzia di verità assoluta e soprattutto non esime dall’impegno di ricercarne il vero senso. Scrittura e natura, pur essendo originate entrambe dal “Verbo divino”, seguono modalità espressive differenti: il linguaggio della natura è quello necessario della matematica, il linguaggio della rivelazione biblica è quello della storia, sempre bisognoso di essere interpretato nei suoi diversi sensi. Nell’indagine fisica, pertanto, il primato va assegnato al linguaggio divino-matematico della natura rispetto al linguaggio spirituale e simbolico delle Scritture. Si produce in tal modo una vera e propria separazione di ambiti disciplinari, l’ambito della fede e quello della scienza. La dottrina copernicana professata da Galilei si riassume in due proposizioni: la prima dice che il Sole, immobile, è al centro dell’Universo; la seconda che la Terra ruota attorno al Sole e intorno al proprio asse. In base a queste proposizioni nel 1615 Galileo viene denunciato all’Inquisizione da parte del domenicano Caccini. Ma a Galileo, anche grazie all’intervento diretto del papa Paolo V, viene solo rivolto un ammonimento privato a non insegnare e difendere in alcun modo la dottrina copernicana. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi e il processo del 1633. Nel 1624 Galileo riceve da papa Urbano VIII il consenso a scrivere un libro in cui si paragonino i sistemi astronomici in discussione. Nasce il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano dove viene rappresentata una conversazione fra tre interlocutori: Filippo Salviati, al quale lo scienziato affida il compito di esporre il proprio pensiero, Francesco Sagredo, che svolge il ruolo del moderatore e Simplicio, che funge da rappresentante della filosofia aristotelica. La preoccupazione galileiana è quella di chiarire le ragioni che rendono imprescindibile l’abbandono della vecchia cosmologia aristotelicotolemaica a favore della nuova cosmologia copernicana. Il Dialogo si svolge in quattro giornate, ognuna dedicata a un argomento specifico:

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SINTESI CAPITOLO 5

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parte I L’alba della modernità nella prima, Salviati critica la “fabbrica del mondo” aristotelica che comporta l’esistenza in natura di due tipi di sostanze differenti; la seconda è dedicata al movimento di rotazione della Terra attorno al proprio asse; nella terza giornata si passa a discutere del moto di rivoluzione della Terra intorno al Sole; la quarta giornata è dedicata infine al fenomeno

delle maree, che Galileo assume quale dimostrazione fisica del moto della Terra. Una volta completata la stesura del Dialogo, Galileo decide di farlo stampare a Firenze. Il famoso processo romano del 1633 viene istruito proprio con l’accusa di aver estorto in modo fraudolento l’imprimatur a Firenze, senza far pre-

sente a chi lo concedeva dell’esistenza del precetto del 1616 che vietava a Galileo di insegnare o difendere in qualsiasi modo la dottrina copernicana. Si tratta di un’imputazione chiaramente utilizzata dai nemici di Galileo per screditarlo di fronte al papa, ma che lo porterà alla condanna e all’abiura formale del copernicanesimo.

• Bacon, La dignità e il progresso delle scienze, in Opere filosofiche, trad. di E. De Mas, Laterza, Bari 1965, vol. II (ma anche in Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, Utet, Torino 1975); F. Bacon, Della sapienza degli antichi, in Uomo e natura. Scritti filosofici, trad. di E. De Mas, introd. di P. Rossi, Laterza, Roma-Bari 1994.

• P. Rossi, Francesco Bacon. Dalla magia alla scienza, il Mulino, Bologna 2004.

Per quanto riguarda gli scritti galileiani, l’edizione di riferimento è quella nazionale completata nel 1909: Le opere di Galileo Galilei, a cura di A. Favaro, 20 voll., Giunti, Firenze 1968.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

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F. Bacon, La Grande Instaurazione [Prefazione] e il Nuovo Organo, in Opere filosofiche, trad. di E. De Mas, Laterza, Bari 1965, vol. I (ma anche in Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, Utet, Torino 1975, nonché la trad. di M. Marchetto, testo latino a fronte, Bompiani, Milano 2002). F. Bacon, Nuova Atlantide, trad. di L. Punzo, testo inglese a fronte, Bulzoni, Roma 2001. G. Galilei, Sidereus Nuncius, trad. di M. Timpanaro Cardini, a cura di A. Battistini, Marsilio, Venezia 20013. G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi, a cura di L. Sosio, Einaudi, Torino 2002. G. Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, in Le opere di Galileo Galilei, vol. V, a cura di A. Favaro, Giunti, Firenze 1568. G. Galilei, Il Saggiatore, a cura di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 19923. G. Galilei, Lettera a Benedetto Castelli, in Le opere di Galileo Galilei, vol. V, a cura di A. Favaro, Giunti, Firenze 1968 (ma anche in Opere, a cura di F. Brunetti, Utet, Torino 1996).

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Opere Oltre al già citato Nuovo Organo di Bacon, che costituisce una parte della Grande Instaurazione, tra gli scritti che rientrano nello stesso progetto va ricordato:

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Oltre ai singoli scritti galileiani citati in precedenza vanno ricordati: G. Galilei, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti ala meccanica e ai movimenti locali, a cura di E. Giusti, Einaudi, Torino 1990; G. Galilei, Istoria e dimostrazioni intorno alle macchie solari e loro accidenti, a cura di M. Montanari, Teoria, Roma 1982.

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Sul processo attorno a cui si è formato il “caso Galileo”, si può vedere: S.M. Pagano - A. Luciani (a cura di), I documenti del processo di Galileo Galilei, Pontificia Accademia delle Scienze, Città del Vaticano 1984.

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Studi critici Sull’opera di Bacon la ricostruzione più completa è:

Un’altra ricostruzione complessiva è quella di: M. Fattori, Introduzione a Francis Bacon, Laterza, Roma-Bari 20053.

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Un’agile ricostruzione del pensiero e della vicenda di Galilei è offerta da: S. Drake, Galileo, il Mulino, Bologna 1998. Tra gli studi più recenti, in cui la figura dello scienziato è contestualizzata nell’intrico delle discussioni accademiche, scientifiche e teologiche, spiccano: M. Camerota, Galileo Galilei e la cultura scientifica nell’età della Controriforma, Salerno, Roma 2004; M. Bucciantini, Galileo e Keplero. Filosofia, cosmologia e teologia nell’età della Controriforma, Einaudi, Torino 2007.

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Una ricostruzione documentaria e contestuale dei due processi a Galilei è offerta da: M. D’Addio, Il caso Galilei. Processo, scienza, verità, Studium, Roma 1993. Per mettere a fuoco il rapporto tra teologia e scienza galileiana si veda: P. Ponzio, Copernicanesimo e teologia. Galileo, Campanella e Foscarini, Levante, Bari 1998.

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Francis Bacon e Galileo Galilei capitolo 5 1. Elabora un testo sulla scienza moderna che metta in luce: a. l’intreccio di motivi e tendenze che ne hanno segnato l’origine; b. quale nuovo compito assume in essa la conoscenza umana; c. che cosa accomuna e che cosa separa la riflessione scientifica di Bacon e Galileo (max 15 righe).

10. Il fine della “potenza umana” consiste, per Bacon, nella produzione di nuove nature: esso è reso possibile dalla conoscenza scientifica della causa formale dei fenomeni. Spiega quale significato il filosofo inglese attribuisce al concetto di “forma” (max 8 righe).

2. Spiega il senso dell’affermazione di Edmund Husserl secondo il quale la scienza sperimentale costituisce un “abito di idee” sovrapposto al mondo vivente (max 8 righe).

12. Completa il testo inserendo le espressioni qui di seguito elencate: gradazioni fenomeno natura istanze forma tavola di assenza istanze note tavola di presenza casi tavola dei gradi La ....................... di un fenomeno si ottiene mostrando le ................................. che si congiungono in una stessa ........................ . La classificazione delle istanze si ha compilando la ............................... in cui si registrano tutte le ......................... in cui si presenta la forma del fenomeno, la ................... in cui non si presenta il ................... considerato; infine la .................. , in cui si elencano i ............. in cui il fenomeno è presente secondo ................... differenti.

3. Il Nuovo Organo costituisce per Bacon parte di un ampio progetto filosofico. Spiega di che cosa si tratta (max 8 righe). 4. Qual è per Bacon il compito dello scienziato e come è possibile realizzarlo? Rispondi alla domanda mettendo in luce a quale tradizione si rifà il filosofo (max 8 righe). 5. Esplicita la differenza fra il “vecchio“ e il “nuovo organo” evidenziando i limiti del metodo aristotelico e i tratti di fondo del metodo baconiano. Nella tua trattazione utilizza i seguenti concetti: sillogismo, anticipazione della natura, casi particolari, esperienza elementare, interpretazione della natura, induzione aristotelica, sensi, assiomi. 6. Bacon è insieme un uomo del suo tempo e il precursore della nuova frontiera del sapere scientifico: evidenzia gli elementi di continuità e quelli di rottura con la tradizione filosofica del naturalismo rinascimentale (max 10 righe). 7. Elabora un testo sulla pars destruens del programma di rifondazione del sapere di Bacon utilizzando lo schema sugli “idoli” a p. 79. Nella tua trattazione chiarisci: a. qual è la natura degli idola; b. perché è necessario emendare l’intelletto (max 15 righe). 8.Chiarisci il nesso che intercorre tra esperienza ed esperimento nell’orizzonte baconiano della vera induzione. Puoi aiutarti facendo riferimento alla metafora degli “uomini di notte” [ Esperienza ed esperimento, p. 81] (max 10 righe): 9. Completa lo schema sottostante e riassumi la differenza fra i tre tipi di scienza (max 15 righe). Scienza degli empirici  Procede attraverso ............................. .............................  opera come .............................

Scienza Scienza baconiana dei razionalisti (Nuova filosofia naturale)   Procede attraverso Procede attraverso ............................ ............................ ............................ ............................   opera come opera come .............................. ............................

11. Elabora un testo sulla pars construens del metodo baconiano. Puoi aiutarti con lo schema a p. 84.

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13. Aiutandoti con lo schema seguente presenta in sintesi il progetto baconiano di rifondazione del sapere nei suoi momenti fondamentali (max 20 righe). La Grande Instaurazione

Pars destruens  Teoria degli idola Pars construens  Interpretazione dell’esperienza Induzione vera Esperienza esperimento

14. Nella Nuova Atlantide Bacon presenta una forma ideale di società: spiega di che si tratta e in che cosa differisce dalle utopie politiche del passato (max 8 righe). 15. Perché il 1609 per Galileo è l’anno della rivoluzione? (max 5 righe) 16. A chi erano indirizzate e qual era il contenuto delle Lettere copernicane? (max 5 righe) 17. Riassumi le tappe più importanti della vicenda “giudiziaria” del filosofo pisano ripercorrendo la seguente sequenza cronologica: 1611  1615-1616  1623  16321633 (max 10 righe). 18. Dopo aver chiarito in cosa risieda l’eccezionalità delle scoperte astronomiche di Galileo esplicita quali elementi del sistema aristotelico-tolemaico esse mettono in crisi (max 10 righe). 19. In che cosa consiste la novità dell’approccio galileiano all’osservazione della Luna? (max 5 righe) 20.Attraverso quali studi Galileo perviene alla definizione di una nuova modalità di osservazione della natura? E questa su quale principio si fonda? (max 5 righe)

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parte I L’alba della modernità 21. Aiutandoti con lo schema seguente, elabora un testo sul metodo sperimentale di Galileo (max 15 righe). METODO SPERIMENTALE  Sensate esperienze  hanno per oggetto le AFFEZIONI  Ipotesi  Esperimento  Elaborazione nel linguaggio della matematica  Necessarie dimostrazioni 22.Qual è il più grande merito di Galileo nella storia del pensiero scientifico? Rispondi alla domanda chiarendo il differente approccio di Galileo all’esperimento rispetto a Bacon (max 10 righe). 23. Perché per Galileo la scienza non elabora semplici ipotesi sui fenomeni della natura? (max 8 righe) 24.Chiarisci la differenza fra qualità primarie e qualità secondarie in Galileo e specifica quale delle due è oggetto della conoscenza scientifica (max 8 righe).

25. Perché, come Galileo afferma nella Lettera a Benedetto Castelli, nelle dispute naturali la Sacra Scrittura «dovrebbe essere riservata nell’ultimo luogo»? Nella tua risposta spiega in che modo lo scienziato pisano risolve il contrasto fra Scrittura e natura (max 10 righe). 26.Nel 1615 il domenicano Caccini denuncia Galileo all’Inquisizione. Perché e come si conclude la vicenda? (max 5 righe) 27. Da quali ambienti provengono i primi attacchi a Galileo? E su quali obiezioni fanno leva? (max 5 righe) 28.Quale problema Galileo solleva circa il rapporto fra Sacre Scritture e interpretazione? (max 5 righe) 29.Quali elementi della cosmologia aristotelico-tolemaica Salviati critica nel Dialogo sopra i due massimi sistemi? (max 8 righe) 30.Con quale accusa è stato istruito il processo romano del 1633 contro Galileo e come si è risolto? (max 5 righe) 31. Qual è stato il maggiore contributo di Galileo alla fisica sperimentale? (max 3 righe)

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capitolo 6

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La tarda Scolastica europea: metafisica, ontologia, teologia

1 Tradizione filosofica e pensiero moderno Quando si parla del pensiero “moderno” si intende abitualmente un momento di radicale rottura con la tradizione filosofica, e in particolare con la Scolastica sviluppatasi nelle Università, nei collegi e nei centri di studio e di formazione della Chiesa cattolica (e successivamente anche delle Chiese protestanti). Ma se si guarda con maggiore attenzione agli ultimi decenni del XVI e i primi del XVII secolo, non si potrà fare a meno di notare come la storia del pensiero e della cultura sia molto più compatta di quanto si possa credere sulla base delle consuete divisioni di campo. Queste divisioni ci sono, innegabilmente, ed esercitano tutto il loro peso: ne abbiamo già descritte almeno tre, vale a dire quella tra pensiero umanistico e tradizione aristotelico-scolastica [ 1], quella tra teologia riformata e istituzione cattolica [ 2], quella tra rivoluzione copernicana e astronomia antica [ 4, 5]. Tuttavia, la linea che separa di volta in volta i campi contrapposti non va vista solo come un’alternativa secca o un’esclusione

vicendevole, ma anche come una linea di passaggio, di trasfusione e di contaminazione da un campo all’altro. Come succede spesso nella storia del pensiero, le novità più radicali e significative nascono all’interno di una lunga tradizione e costituiscono una nuova formulazione di elementi antichi, i quali acquistano una fisionomia e un ruolo diversi grazie alla mutata prospettiva in cui sono considerati. E così in molti casi i concetti e i termini “moderni” sono i termini e i concetti “scolastici” al cui interno è avvenuto un cambiamento o addirittura una totale inversione di significato e di uso. N ozioni come quelle di “essere” e di “verità”, di “concetto” e di “idea”, di “natura” e di “anima”, di “realtà” e di “causa”, di “individuo” e di “Dio” costituiscono perciò altrettanti momenti di continuità e insieme di rottura della tradizione [ 1.1]; e la novità consiste il più delle volte nella sottolineatura o nell’assolutizzazione di singoli elementi o aspetti che facevano parte di un insieme diverso o di una diversa prospettiva. Al tempo stesso, si deve osservare anche un altro fenomeno, e cioè che quando in un contesto da lungo tempo consolidato si producono

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parte I L’alba della modernità

delle fratture ed emergono nuovi problemi o soluzioni alternative, proprio allora anche le forme tradizionali del sapere devono ripensarsi e mettersi alla prova: o si è capaci, infatti, di affermare nel tempo la verità permanente di un’idea e l’efficacia attuale di una dottrina, oppure esse sono destinate a soccombere sotto il peso del loro passato come qualcosa di dogmatico. Come esempio significativo del rapporto incrociato tra pensiero rinascimentale e moderno da un lato, e filosofia scolastica dall’altro, si può pensare al ruolo assegnato al pensiero di Aristotele come canone per la ricerca e per l’insegnamento della filosofia. N el Rinascimento tale funzione-guida era stata messa radicalmente in discussione dalla massiccia ripresa del platonismo, mentre in ambito scientifico, se essa resisteva nelle Facoltà laiche delle Arti [ 1.7], era stata abbandonata dalla nuova astronomia [ 4.3-5]. Dove invece il tradizionale canone aristotelico rimaneva ben saldo era l’ambito teologico (specie cattolico), nel quale la Metafisica di Aristotele continuava ad essere considerata la migliore introduzione possibile alla teologia rivelata. Eppure, paradossalmente, è proprio fra i teologi – specie quelli gesuiti, particolarmente impegnati nel rivalutare il nesso tra la ragione naturale e la grazia soprannaturale dopo la Riforma luterana – che la metafisica aristotelica viene riformulata in maniera sostanzialmente autonoma rispetto alla rivelazione, e di lì passerà direttamente nei sistemi filosofici moderni come quello di Descartes e dei cartesiani [ 8]. Un altro esempio del profondo ripensamento cui il pensiero scolastico fu costretto dalle mutate condizioni dell’epoca riguarda la tradizionale dottrina del diritto naturale e del diritto positivo (il primo stabilito direttamente da Dio, il secondo promulgato dagli uomini nelle società storiche), che viene riformulata a seguito delle nuove problematiche giuridico-politiche nate dalla colonizzazione spagnola del N uovo Mondo, lasciando la sua impronta diretta o indiretta nel pensiero politico moderno [ 7.2]. Il pensiero rinascimentale e moderno non può dunque essere inteso soltanto come un momento di distacco e di affrancamento dalla tradizione scolastica, giacché esso matura per alcuni versi già all’interno della tarda o seconda Scolastica (chiamata così per distinguerla da quella medievale); d’altro canto, proprio tenendo conto di questo fenomeno si potrà compren-

dere il motivo per cui il pensiero scolastico, pur essendo predominante in gran parte delle istituzioni formative dell’epoca, perda progressivamente la sua forza propulsiva: esso infatti, oltre che essere contestato dall’esterno, è stato soprattutto minato dal suo stesso interno. Considerata come sistema dottrinale, la tarda Scolastica continuerà ancora per molto tempo nell’ambito della formazione teologico-ecclesiastica (almeno sino all’Ottocento); ma, al tempo stesso, alcune delle sue concezioni di fondo, e soprattutto buona parte della sua terminologia, andranno ritrovate proprio all’interno della filosofia moderna, quella che – almeno nelle intenzioni – starebbe nel campo avversario rispetto alla Scolastica, e per di più in ambito protestante. I nuovi pensatori europei (da Descartes a Spinoza a Leibniz) hanno spesso studiato nelle scuole dominate dalla filosofia scolastica o hanno imparato la filosofia sui suoi testi e manuali, e quindi in qualche modo le sono tutti debitori, anche i più critici – o forse proprio essi – sino a quella che non a caso si chiamerà la “scuola” metafisica razionalista del XVIII secolo, con Wolff e Baumgarten [ 20.2].

2 La rinascita del pensiero scolastico e il Gaetano L’affermazione più diffusa e più originale della tarda Scolastica ebbe il suo epicentro nella Penisola iberica, ma i suoi prodromi furono italiani. Tale rinascita riguardò in primo luogo le dottrine teologiche, le quali però erano strettamente legate a tutta una serie di dottrine filosofiche, sia perché nella ratio studiorum – ossia nell’organizzazione degli studi per la carriera ecclesiastica – lo studio della filosofia precedeva come introduzione quello della teologia, sia perché la stessa teologia rivelata utilizzava princìpi e concetti filosofici per illustrare i suoi oggetti. Il concilio di Trento [ 2.5.1] aveva costituito certamente un formidabile impulso per tutta la teologia cattolica in chiave antiprotestante, ma è anche vero che la ristrutturazione della teologia scolastica era già iniziata in precedenza, risentendo anch’essa delle nuove esigenze “umanistiche” maturate tra il Quattrocento e il

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La tarda Scolastica europea: metafisica, ontologia, teologia capitolo 6

Cinquecento, come quella di ritornare ai testi originali degli autori assunti come “autorità”, commentandone direttamente le dottrine. D’altra parte, lo stesso sforzo di rielaborazione e di assestamento dottrinale compiuto a Trento non sarebbe stato possibile senza le diverse scuole teologiche, prima fra tutte quella che si rifaceva a Tommaso d’Aquino, fiorita nell’ambito dell’Ordine domenicano. Proprio a partire dalla prima metà del XVI secolo nell’insegnamento scolastico diviene preponderante la scelta di accoppiare strettamente la filosofia di Aristotele alla teologia di Tommaso: una decisione importante, tenendo conto che all’interno della Scolastica postmedievale erano fiorite anche altre correnti, come quella che si rifaceva a Duns Scoto o quella che si fondava sul pensiero di Ockham, affermatesi soprattutto all’interno dell’Ordine francescano e predominanti nel Trecento e nel Quattrocento. Fra i teologi domenicani che hanno svolto un ruolo di primo piano nella rinascita della Scolastica vi è il cardinale Tommaso De Vio, detto il Gaetano (Gaeta 1469-Roma 1534): di particolare rilievo è il fatto che egli, a soli venticinque anni, difese alcune tesi tomiste in una disputa pubblica tenutasi a Ferrara con l’umanista Pico della Mirandola [ 1.6.2], il quale, impressionato dalle capacità del giovane avversario, propose di affidargli immediatamente una cattedra di teologia. Ma è anche importante ricordare che il Gaetano fu inviato in Germania come plenipotenziario del papa Leone X per cercare, senza riuscirci, di risolvere il contenzioso apertosi con Lutero. A livello filosofico, è di grande rilievo la riflessione del Gaetano sul problema dell’analogia, svolta all’interno del suo celebre commento all’Ente e l’essenza di Tommaso d’Aquino e poi in uno scritto esplicitamente dedicato all’Analogia dei nomi. L’analogia è un modo particolare di risolvere un’antica questione nata all’interno della tradizione aristotelica e amplificata in ambito teologico che prende spunto dal fatto che il termine “ente” sia utilizzato per indicare tutte quante le cose, nonostante esse siano diverse tra loro, e in alcuni casi radicalmente differenti, come è radicalmente differente Dio – l’ente che esiste per sé stesso e che crea tutte le cose – dalle creature, cioè gli enti che ricevono da altro il proprio essere. La questione che ne nasce è se il significato del termine ente sia lo

stesso in tutti i casi, cioè se sia “univoco”, come affermava Duns Scoto, oppure si diversifichi a seconda dei casi, cioè sia “analogo”, come affermava la scuola tomista (ma, anche all’interno di questa scuola, l’analogia si prestava a diverse interpretazioni). La soluzione del Gaetano è quella di distinguere tra due tipi diversi di analogia: 1. l’analogia di attribuzione, che consiste nel fatto che a tutti i termini che sono chiamati “enti” viene attribuito realmente questo nome, ma ad uno soltanto di essi è attribuito nella sua pienezza (cioè a Dio inteso come l’ente primo), agli altri in maniera determinata, cioè appunto per analogia rispetto al primo: in questo caso, dunque, le creature sarebbero chiamate enti in virtù della loro relazione con qualcosa di esterno ad esse, cioè appunto con Dio; 2. l’analogia di proporzionalità, che consiste invece nel fatto che a tutti i termini che sono chiamati “enti” questo nome viene attribuito non in senso reale, ma secondo una certa proporzione di rapporti: in questo caso si dovrà dire che il rapporto tra Dio e il suo proprio essere è proporzionale al rapporto tra una creatura e il suo proprio essere. La differenza è che nel primo tipo di analogia l’“essere” esprime la relazione di una cosa con la sua causa e quindi con altro da sé; nel secondo tipo, invece, esprime solo il rapporto di una cosa con la sua stessa natura interna. Secondo il Gaetano, l’unica vera analogia è quella di “proporzionalità”. Questa tesi si fonda su motivi strettamente teologici, perché solo così si salverebbe la differenza tra Dio e le creature, che invece nel modello dell’attribuzione rischierebbe di essere annullata in uno stesso, univoco concetto di ente. Ma, paradossalmente, l’esito dell’analogia di proporzionalità è quello di concepire l’essere di ogni cosa a prescindere dalla sua origine divina, ovvero come qualcosa che si spiega autonomamente. Proprio per questo motivo la scelta del Gaetano solleverà molte polemiche, che daranno luogo a discussioni sottili ed estenuanti. Resta il fatto, però, che d’ora in avanti la riflessione su quale sia il significato del termine “essere” o “ente”, non solo da parte dei teologi ma anche dei metafisici, sarà profondamente influenzata dalla terminologia e dall’impostazione datane dal Gaetano.

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parte I L’alba della modernità 1. Il primato dell’analogia di proporzionalità su quella di attribuzione stabilito dal Gaetano è motivato: a. dal pericolo di una concezione univoca del concetto di ente. b. in quanto ente si dice realmente di tutti i nomi. c. in quanto ente si dice univocamente di Dio e delle realtà create. d. in quanto ente si dice in senso pieno di Dio e in maniera determinata degli altri enti.

3 La Scolastica del “Secolo d’oro” La tarda Scolastica trovò il suo più favorevole terreno di coltura nella Penisola iberica, e questo almeno per tre motivi: 1.per il sostegno e l’incremento dato alla ricerca e all’insegnamento della teologia direttamente dal potere imperiale – Carlo V e Filippo II – nel cosiddetto “Secolo d’oro” (Siglo de oro), il lungo periodo di splendore culturale e politico che va dai primi del Cinquecento sino a buona parte del Seicento; 2. per il fatto che la Spagna diviene dopo la scoperta dell’America il centro di irradiamento della cristianità; 3. infine, e non da ultimo, per il fatto che in Spagna e in Portogallo fiorisce con particolare vivacità la nuova Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola e istituita ufficialmente nel 1540 alle dirette dipendenze del papa, in nome del quale i gesuiti si concepiranno come i difensori e i diffusori del cristianesimo nel Vecchio come nel Nuovo Mondo. Se si tiene conto che nel 1547 Ignazio assegna alla sua Compagnia il compito speciale dell’insegnamento non solo della teologia, ma anche della filosofia, della matematica e delle scienze naturali, si comprende l’enorme influenza che l’Ordine ebbe dovunque arrivasse, fondando collegi rimasti giustamente famosi – come il Collegio romano o quelli di Salamanca e di Clermont – o occupando le più importanti cattedre in celebri Università, come quelle di Salamanca, di Alcalà, di Coimbra, di Ingolstadt e di Lima. Inoltre, accanto ai gesuiti, in questo periodo, intensificano la loro presenza accademica anche altri Ordini come i francescani, gli agostiniani e i carmelitani.

3.1 La Scolastica domenicana: Vitoria e Cano Anche nella Penisola iberica la Scolastica gesuitica fu preceduta e avviata da quella domenicana. Tra i domenicani spagnoli un posto di assoluto rilievo va assegnato a Francisco de Vitoria (Burgos 1483-Salamanca 1546), che tenne a lungo la principale cattedra di teologia presso l’Università di Salamanca ed è ricordato come il fondatore di quella “Scuola di Salamanca” che ebbe tra i suoi meriti il fatto di adottare come testo di riferimento nei corsi teologici non più le Sentenze di Pietro Lombardo (come avveniva nel Medioevo) ma direttamente la Somma di teologia di Tommaso d’Aquino. Inoltre, Vitoria è colui che ha iniziato una riflessione sistematica sul diritto naturale, che sta a fondamento di ogni comunità umana, anche di quelle formate dalle popolazioni degli indios del N uovo Mondo colonizzato, e sul diritto delle genti (o internazionale), chiamato a regolamentare i rapporti tra Stati, nazioni e popoli diversi all’interno di un’unica grande comunità universale [ 7.2.1]. Fra gli altri teologi domenicani si deve ricordare anche Melchior Cano (Tarancón 1509Toledo 1560): egli partecipò al concilio di Trento come teologo imperiale, ma non seguì la tendenza dominante nella reazione antiluterana da parte della teologia cattolica, la quale mirava a ribadire e a rafforzare la congruenza della fede rivelata con la ragione naturale. Cano si impegnò piuttosto a invertire l’ordine tradizionale del discorso teologico, che partiva dai “preamboli” filosofici per poi procedere all’esposizione degli articoli di fede; egli propose invece di partire dai dati della rivelazione, detti anche luoghi teologici (le Sacre Scritture, la tradizione apostolica, la Chiesa cattolica, i concilii, la Chiesa romana, i Padri e i santi, i teologi e i canonisti), per aggiungere poi le questioni filosofiche riguardanti la ragione naturale e la storia. Nell’opera intitolata appunto Sui luoghi teologici (1536), Cano vuole contestare radicalmente qualsiasi pretesa di fondare la teologia su argomenti di ragione – una polemica tipica della Riforma protestante contro la teologia scolastica – con l’idea che un’argomentazione razionale senza i dati della rivelazione non sarebbe assolutamente sufficiente. D’altra parte, però, egli finisce per intendere i dati rivelati a prescindere dalla ragione naturale, portando così all’interno

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della teologia cattolica il principio di fondo della teologia protestante. Proprio con Cano ha inizio un’aspra polemica, tutta intra-cattolica, tra domenicani e gesuiti, esemplificativa dei temi e delle tendenze del dibattito filosofico e teologico dell’epoca. I gesuiti, infatti, sottolineavano l’autonomia della ragione naturale e della metafisica rispetto alla teologia rivelata, ma con un intento opposto a quello di Cano, e cioè per evidenziare la pertinenza e la continuità tra l’ordine naturale della ragione e l’ordine soprannaturale della grazia. Possiamo esemplificare questa posizione attraverso l’analisi di due casi emblematici.

3.2 La Scolastica gesuita: Perera e Fonseca

La presenza dei gesuiti in Europa fino allo scioglimento dell’Ordine (1773)

Il primo caso riguarda la particolare cura con cui i gesuiti leggono e commentano le opere di Aristotele, cercando non solo di esporle ma di

elaborarle come un sistema razionale compiuto. Quanto più compiuto era il sistema, tanto più evidente sarebbe stata la connessione con la teologia. In questa prospettiva emergono soprattutto le figure di Perera e di Fonseca. Benito Perera (Valencia 1535-Roma 1610) si dedicò in particolare alle relazioni che sussistono tra filosofia, matematica e scienze naturali. In un’opera di fisica, intitolata Dei princìpi e delle affezioni comuni a tutte le cose naturali, sostenne che matematica e geometria non possono essere considerate delle scienze perfette, come invece lo è la filosofia naturale, perché esse non riguardano le cause che determinano la natura delle cose. Le cause sono invece oggetto della filosofia naturale, la quale si serve delle dimostrazioni matematiche per spiegare i dati dell’esperienza (non a caso quest’opera fu citata più volte da Galilei). Il portoghese Pedro da Fonseca (Cortiçada 1528-Lisbona 1599) fu invece il principale

Città con collegi o residenze dei gesuiti 1764 Anno di espulsione

Danzica

Braunsberg

Torun

Anversa

Maastricht Bruges Gand Aquisgrana Colonia Bonn Erfurt Bruxelles Coblenza Rouen Reims Treviri

Rennes

Praga

Parigi

Lomza Pultusk Varsavia Lukow Rawa Lublino Sandomierz Cracovia Brno

FRANCIA 1764 Ratisbona Augusta Linz Trnava Nevers Monaco Vienna Bourges Digione Saintes Innsbruck Besançon Lamoges Lione Bordeaux Milano Lubiana Oviedo Agen Chambery Torino Venezia Santander Zagabria Tolosa Carpentras DUCATO DI PARMA 1768 Bilbao Porto Valladolid Genova Nimes Avignone Burgos Bologna Coimbra Pamplona Nizza Medina Firenze Perpignan SPAGNA 1767 PORTOGALLO 1759 Madrid Perugia Barcellona Lisbona Toledo Roma Sassari REGNO DI NAPOLI 1767 Barletta Valencia Molfetta Alghero Napoli Siviglia Salerno Bari Monopoli Taranto Cadice Lecce Cagliari Malaga Poitiers

Tropea Palermo Messina Catanzaro Marsala Reggio Calabria Catania Modica

Siracusa

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ispiratore di un’impresa editoriale di grande respiro, cioè un corso di commenti all’opera di Aristotele intitolato Commentarii Collegii Conimbricensis, appunto perché redatto presso l’Università di Coimbra, e pensato come manuale filosofico per gli studenti dei collegi gesuiti. Di questo corso furono editi tra il 1592 e il 1606 cinque volumi, comprendenti i commenti alla Fisica, agli scritti di filosofia naturale, all’Etica, al De anima e agli scritti di logica. La sua diffusione fu enorme, sia in Europa che nel N uovo Mondo e in Asia (una parte dell’opera fu tradotta anche in cinese). Mancava il commento alla Metafisica, ma esso venne di fatto sostituito con quello che – indipendentemente dal corso – era stato composto e pubblicato dallo stesso Fonseca, con un metodo filologico-critico del tutto innovativo: esso scorre infatti parallelo al testo – di cui è offerto l’originale in greco, affiancato da una nuova traduzione latina, assai fluida (sempre ad opera di Fonseca) – ed è ricchissimo di riferimenti alla lunga tradizione antica e medievale.

3.3 La controversia sulla grazia e sulla libertà: Molina e Báñez Il secondo caso esemplificativo delle accese dispute tra domenicani e gesuiti è quello della controversia sugli aiuti (de auxiliis) forniti dalla grazia divina alla libertà delle azioni umane. La polemica era stata accesa dal gesuita Luis de Molina (Cuenca 1535-Madrid 1600) con la pubblicazione di un’opera sulla Concordia del libero arbitrio con il dono della grazia, in cui si sostiene che, sebbene la volontà umana non possa essere libera in sé stessa, ma solo in quanto creata da Dio e in virtù della grazia divina, quest’ultima però non è tale da pre-determinare nello specifico le azioni umane, poiché esse hanno nella volontà libera il loro agente proprio. E se è vero che Dio conosce tutto dall’eternità, quindi anche le azioni degli uomini (con un atto di “prescienza”), questo non vuol dire però che essi siano “predestinati” alla dannazione o alla salvezza a prescindere dai loro meriti. Tanto bastò per far gridare allo scandalo il domenicano Domingo Báñez (Valladolid 1528Medina del Campo 1604), il quale accusò Molina e i gesuiti di “pelagianesimo” (per aver

ritenuto le capacità naturali dell’uomo sufficienti per la sua salvezza), mentre, a sua volta, Molina contrattaccò la posizione di Báñez e dei domenicani accusandoli di “calvinismo” [ 2.4.3], per aver sacrificato alla prescienza divina la libertà di scelta e la stessa coscienza con cui l’uomo è stato creato da Dio. La controversia (in cui entrerà con una posizione intermedia e conciliatrice anche un confratello di Molina, Francisco Suárez:  6.4) è indicativa di due tendenze tipiche non solo della teologia scolastica ma, anche per suo tramite, dell’intera filosofia moderna: da un lato, si afferma il ruolo assolutamente decisivo della grazia divina e quindi l’incapacità dell’uomo, caduto a causa del peccato, di realizzare la propria libertà; dall’altro, si enfatizza questa libertà con tutti i meriti di cui essa è capace, rischiando però di rendere superflua la grazia divina. L’impressione che se ne ricava è che questi due fattori non stiano più insieme sin dall’inizio e che tra di essi si sia creata una frattura – con il Rinascimento e la Riforma protestante – che si cerca in tutti i modi di sanare. Ma è ormai difficile riunificare a valle ciò che nasce diviso a monte. Anche per questo, nella filosofia laica dell’epoca moderna la libertà umana, come volontà puramente naturale, correrà parallela alla volontà divina.

3.4 Libere discussioni e battaglie teologiche: la via media di Bellarmino La soluzione probabilmente più realista della controversia sugli aiuti fu quella proposta dal cardinale Roberto Bellarmino (Montepulciano 1542-Roma 1621), il quale raccomandò di non chiuderla con una soluzione dottrinale definitiva, ma di lasciarla aperta alla libera discussione tra le diverse scuole di pensiero, senza condanne reciproche. In altri termini, egli vide chiaramente che se si considerano le due posizioni come puramente alternative l’una rispetto all’altra si rischia di perdere la cosa più importante, vale a dire l’intimo legame tra la grazia e la libertà. In questa posizione si riflette senza dubbio la preoccupazione principale di Bellarmino – che teneva la cattedra di “controversie teologiche” presso il Collegio romano – e cioè quella di comporre in una sintesi nuova le diverse tendenze del pensiero cattolico, per

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contrastare in maniera più efficace il vero avversario, vale a dire la teologia protestante, come emerge dalle sue Disputazioni sulle controversie della fede cristiana con gli eretici del nostro tempo. L’opera, pubblicata in tre volumi tra il 1586 e il 1593, ebbe un’enorme risonanza come punto di riferimento delle discussioni dottrinali dell’epoca, tanto che alla fine del Seicento in campo protestante vennero istituite delle cattedre appositamente dedicate alla contro-confutazione delle sintesi dottrinali di Bellarmino. Questo singolare connubio tra libertà di discussione e fermezza nella dottrina si ritrova peraltro in un altro celebre caso della vita di Bellarmino, vale a dire nel suo confronto con Galilei [ 5.11], con il quale ebbe uno scambio epistolare e che ebbe il compito di valutare a livello teologico. Secondo il cardinale, una teoria scientifica che fosse in contrasto con le Sacre Scritture, ma non ancora dimostrata in maniera definitiva, dovrebbe essere presa solo come un’ipotesi della ricerca; qualora invece quella teoria fosse definitivamente provata si dovrebbe interpretare le Scritture in accordo con essa.

4 Francisco Suárez e la nascita dell’ontologia moderna

N onostante l’ampio spettro delle discussioni e delle tendenze interpretative presenti nella tarda Scolastica europea – non sempre conciliabili in un quadro d’insieme – l’autore che ha impresso l’impronta dominante in questo ambito di pensiero è stato senza dubbio il gesuita Francisco Suárez (Granada 1548-Lisbona 1617). Teologo di professione, docente presso il Collegio romano, in seguito ad Alcalà e a Salamanca, infine stabilmente presso l’Università di Coimbra, Suárez decide nel 1597 di interrompere i suoi scritti teologici – vale a dire i suoi commenti alle diverse parti della Somma di teologia di Tommaso d’Aquino – per pubblicare un’opera esplicitamente dedicata alla metafisica, che potesse servire ai suoi studenti di teologia per individuare quei fondamenti razionali senza dei quali non si poteva diventare “un valente teologo”. N ascono così le Disputazioni metafisiche, il primo trattato autonomo di

metafisica che non segue più il metodo del “commento” all’opera aristotelica, ma il metodo della “questione”: i problemi metafisici vengono presentati, discussi a fondo in un confronto serrato con le diverse scuole e infine risolti in una forma che si presenta come canonica e soprattutto in un ordine sistematico. Le Disputazioni suareziane costituiranno il prototipo dei tanti corsi filosofici o manuali di metafisica pubblicati nel XVII e nel XVIII secolo, non solo riguardo al metodo espositivo, ma anche e soprattutto riguardo all’impostazione di fondo del discorso. Riprendendo un’antica discussione sorta nel Medioevo tra i commentatori arabi e latini di Aristotele circa l’autentico “oggetto” della metafisica, nata dal fatto che Aristotele ne individuava due – l’“ente in quanto tale” con le proprietà che gli appartengono, e il “genere più elevato dell’ente”, cioè il divino –, Suárez ritiene che l’oggetto adeguato di questa scienza sia l’ente in quanto tale. Questo oggetto viene inteso dunque come un concetto universale e astratto – o meglio come un “concetto oggettivo”, vale a dire un puro contenuto della nostra mente – che «non dice espressamente né la sostanza né l’accidente, né Dio né la creatura, ma tutte queste cose al modo di una sola, vale a dire in quanto sono in qualche modo simili tra di loro e convengono nell’essere» [Disputazioni metafisiche, II, 2, 8]. Il concetto di ente precede dunque non solo quello dei singoli enti finiti, ma anche il concetto di Dio, e dev’essere già presupposto dalla nostra mente per poter pensare Dio come “ente” sommo; a sua volta Dio, come creatore di tutti gli enti, rientra nella metafisica, ma solo come oggetto principale, quello cioè più elevato – non come oggetto adeguato, giacché, come si è visto, in quest’ultimo si astrae sia da Dio che dalle creature e si pensa ciò che è comune ad entrambi. In tal modo, Suárez articola la metafisica in due parti: 1. una prima parte che tratta dell’ente, delle sue proprietà e delle sue cause in quanto tali, cioè in senso generale o astratto (ed è la parte che pochi anni dopo le Disputazioni metafisiche altri autori indicheranno, anche per influsso suareziano, con il nome di “ontologia”); 2. una seconda parte in cui vengono trattati gli enti determinati o particolari, cioè l’ente infinito o Dio e gli enti finiti ossia le creature.

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Riprendendo un’idea di Duns Scoto, anche per Suárez il concetto di ente precede la divisione tra il finito e l’infinito, e a loro volta questi ultimi presuppongono quel concetto e lo implicano già in sé. Il concetto di ente è unico e molti sono gli enti che ricadono sotto di esso, o come li chiama Suárez, i suoi “inferiori” (anche Dio dunque è un inferiore dell’ente in generale). In questo senso, anche se si dichiara fedele all’analogia dell’ente di cui parla Tommaso d’Aquino (che per la ratio studiorum dei gesuiti era l’autorità teologica accanto ad Aristotele come autorità filosofica), in realtà Suárez sembra più prossimo all’univocità di cui parla Scoto. Questo ha due conseguenze di grande rilievo: la prima è che il significato più importante di “ente” non è quello di “esistenza” (“ente” come participio del verbo essere) ma quello che si riferisce all’“essenza” (“ente” come un semplice nome verbale, che designa ciò che una cosa è, non tanto il fatto che essa sia). Qui però non si parla ancora dell’essenza o natura di una cosa rispetto ad un’altra, visto che il concetto generale di ente astrae ancora da tutte le sue determinazioni, bensì dell’essenza in generale che coincide con il fatto che qualcosa possa essere pensato senza contraddizione, e cioè “capace” o “atto” ad essere. Non l’“essere di fatto”, ma l’attitudine (cioè il “poter essere”) è ciò che caratterizza la metafisica. La seconda conseguenza sarà dunque che l’essenza non è più distinguibile dall’esistenza. Certo, in senso teologico o fisico è sempre Dio la fonte dell’essere e la causa prima di ogni esistenza effettiva; ma in senso metafisico (o meglio, ontologico) l’esistenza va pensata come possibilità interna alla stessa natura dell’ente, senza dover ricorrere a una causa ester-

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Tradizione filosofica e pensiero moderno. Quando si parla del pensiero “moderno” si intende abitualmente un momento di radicale rottura con la tradizione scolastica ma, se si guarda con maggiore attenzione, non si potrà fare a meno di notare come le novità più radicali e significative nascono all’interno di una lunga tradizione e costituiscono in verità una nuova formulazione di elemen-

na. Per questo motivo, Suárez conclude che il principio supremo della metafisica non è tanto quello della “causalità”, cioè della provenienza e dipendenza di un ente dalla sua origine, quanto quello della “non-contraddizione”, che ci dice come pensare qualcosa nella sua pura possibilità logica. Le Disputazioni metafisiche divennero ben presto uno dei manuali di metafisica più utilizzati dell’epoca, non solo in ambito cattolico, ma anche nelle Università della Germania protestante, sia luterana che calvinista. La cosa potrebbe sembrare strana, se è vero che il teologo spagnolo era uno dei protagonisti di punta nelle battaglie teologiche della Chiesa cattolica post-tridentina; ma si spiega per il fatto che la metafisica proposta da Suárez è un discorso per così dire “neutro”, che si può applicare a teologie anche radicalmente diverse tra loro. Dai collegi cattolici e dalle Università protestanti l’impostazione dei problemi e la terminologia filosofica suareziana si diffonderanno in tutta la filosofia moderna, arriveranno sino a Wolff [ 20.2.1] – con l’idea della partizione della metafisica in una metafisica generale (ontologia) e una metafisica speciale (psicologia, cosmologia e teologia) – e verranno riprese in senso critico da Kant [ 23]. 1. L’oggetto adeguato della metafisica secondo Suárez è: a. il genere più elevato dell’ente. b. Dio. c. Dio insieme alle creature. d. il concetto di ente in quanto ente. 2. L’oggetto principale della metafisica secondo Suárez è: a. l’insieme degli enti finiti. b. Dio. c. Dio insieme alle creature. d. il concetto di ente in quanto ente.

ti antichi. Il pensiero rinascimentale e moderno non può dunque essere inteso soltanto come un momento di distacco e di affrancamento dalla tradizione scolastica, giacché esso matura per alcuni versi già all’interno della tarda o seconda Scolastica. La rinascita del pensiero scolastico e il Gaetano. Fra i teologi domenicani che hanno svolto un ruolo

di primo piano nella rinascita della Scolastica vi è il cardinale Gaetano (1469-1534). A livello filosofico è di grande rilievo la riflessione del Gaetano sul problema dell’analogia. Noi utilizziamo il nome “ente” per definire tutte quante le cose, nonostante esse siano diverse tra loro, e in alcuni casi radicalmente differenti, come è radicalmente differente Dio dalle creature.

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La tarda Scolastica europea: metafisica, ontologia, teologia capitolo 6 La questione che ne nasce è se il significato del termine ente sia lo stesso in tutti i casi, cioè sia “univoco”, oppure si diversifichi a seconda dei casi, ovvero sia “analogo”. La soluzione del Gaetano è quella di distinguere tra due tipi diversi di analogia: l’analogia di attribuzione che consiste nel fatto che a tutti i termini che sono chiamati “enti” è attribuito realmente questo nome, ma ad uno soltanto di essi – Dio – è attribuito nella sua pienezza, e l’analogia di proporzionalità che stabilisce che a tutti i termini che sono chiamati “enti” questo nome è attribuito secondo una certa proporzione di rapporti. La differenza è che nel primo tipo di analogia l’“essere” esprime la relazione di una cosa con la sua causa e quindi con altro da sé; nel secondo tipo invece esprime solo il rapporto di una cosa con la sua stessa natura interna. Secondo il Gaetano l’unica vera analogia è quella di “proporzionalità”. Ma paradossalmente l’esito dell’analogia di proporzionalità è quello di concepire l’essere di ogni cosa a prescindere dalla sua origine divina, ovvero come qualcosa che si spiega autonomamente. La Scolastica del “Secolo d’oro”. La tarda Scolastica trovò infine il suo più favorevole terreno di coltura nella Penisola iberica, e questo almeno per tre motivi: 1. per il sostegno e l’incremento dato alla ricerca e all’insegnamento della teologia direttamente dal potere imperiale; 2. per il fatto che la Spagna era divenuta, dopo la scoperta dell’America, il centro di irradiamento della cristianità, 3. infine, e non da ultimo, per il fatto che in Spagna era fiorita con particolare vivacità la nuova Compagnia di Gesù fondata da Ignazio di Loyola. Anche nella Penisola iberica la Scolastica gesuita fu comunque preceduta e avviata dalla Scolastica domenicana. Tra i domenicani spagnoli un posto di assoluto rilievo va assegnato a Francisco de Vitoria (1480-1560). Vitoria è colui che ha iniziato una riflessione sistematica sul diritto naturale che sta a fondamento di ogni comunità umana, anche di quelle formate dalle popolazioni degli indios del Nuovo Mondo colonizzato, e sul diritto delle genti (o internazionale), chiamato a rego-

lamentare i rapporti tra Stati, nazioni e popoli diversi all’interno di un’unica grande comunità universale. Fra gli altri teologi domenicani si deve ricordare anche Melchior Cano (1509-1560): egli partecipò al concilio di Trento come teologo imperiale, ma non seguì la tendenza dominante nella reazione antiluterana da parte della teologia cattolica. Cano volle infatti contestare radicalmente qualsiasi pretesa di fondare la teologia su argomenti di ragione con l’idea che un’argomentazione razionale senza i dati della rivelazione non sarebbe assolutamente sufficiente. Proprio con Cano ha inizio un’aspra polemica tra domenicani e gesuiti: i gesuiti sottolineavano, infatti, l’autonomia della ragione naturale e della metafisica rispetto alla teologia rivelata, ma con un intento opposto a quello di Cano, e cioè per evidenziare la pertinenza e la continuità tra l’ordine naturale della ragione e l’ordine soprannaturale della grazia. Possiamo esemplificare questa posizione attraverso due casi emblematici. Il primo caso riguarda la particolare cura con cui nell’ambito della Scolastica gesuita vengono lette e commentate le opere di Aristotele, cercando non solo di esporle ma di elaborarle come un sistema razionale compiuto. In questa prospettiva emergono soprattutto le figure di Perera e di Fonseca. Benito Perera (1535-1610) si dedicò in particolare alle relazioni che sussistono tra filosofia, matematica e scienze naturali. In un’opera di fisica, intitolata Dei princìpi e delle affezioni comuni a tutte le cose naturali, sostenne che matematica e geometria non possono essere considerate delle scienze perfette, come invece lo è la filosofia naturale, perché esse non riguardano le cause che determinano la natura delle cose. Le cause sono invece oggetto della filosofia naturale, la quale si serve delle dimostrazioni matematiche per spiegare i dati dell’esperienza. Il portoghese Pedro da Fonseca (1528-1599) fu invece il principale ispiratore di un’impresa editoriale di grande respiro, cioè un corso di commenti all’opera di Aristotele intitolato Commentarii Collegii Conimbricensis pensato come manuale filosofico per gli studenti dei collegi gesuiti. In quest’opera mancava il commento alla

Metafisica, ma esso venne di fatto sostituito con quello che era stato composto e pubblicato dallo stesso Fonseca, con un metodo filologicocritico del tutto innovativo: esso scorre infatti parallelo al testo – di cui è offerto l’originale in greco, affiancato da una nuova traduzione latina assai fluida – ed è ricchissimo di riferimenti alla lunga tradizione antica e medievale. Il secondo caso esemplificativo delle accese dispute tra domenicani e gesuiti è quello della controversia sulla grazia e sulla libertà – detta sugli “aiuti” (de auxiliis) in riferimento agli aiuti forniti dalla grazia divina alla libertà delle azioni umane. La polemica era stata accesa dal gesuita Luis de Molina (1535-1600) con la pubblicazione di un’opera sulla Concordia del libero arbitrio con il dono della grazia, in cui si sostiene che, sebbene la volontà umana non possa essere libera in sé stessa, ma solo in quanto creata da Dio e in virtù della grazia divina, quest’ultima però non è tale da predeterminare nello specifico le azioni umane, poiché esse hanno nella volontà libera il loro agente proprio. Tanto bastò per far gridare allo scandalo il domenicano Domingo Báñez (1528-1604), il quale accusò Molina e i gesuiti di “pelagianesimo” (per aver ritenuto le capacità naturali dell’uomo sufficienti per la sua salvezza), mentre a sua volta Molina contrattaccò la posizione di Báñez e dei domenicani accusandoli di “calvinismo”, per aver sacrificato alla prescienza divina la libertà di scelta e la stessa coscienza con cui l’uomo è stato creato da Dio. La soluzione probabilmente più realista della controversia sugli aiuti fu quella proposta dal cardinale Roberto Bellarmino (1542-1621), il quale vide chiaramente che se si consideravano le due posizioni come puramente alternative l’una rispetto all’altra si rischiava di non riconoscere l’intimo legame tra la grazia e la libertà. L’opera fondamentale del cardinale, intitolata Disputazioni sulle controversie della fede cristiana con gli eretici del nostro tempo, ebbe un’enorme risonanza come punto di riferimento delle discussioni dottrinali dell’epoca, tanto che alla fine del Seicento in campo protestante vennero istituite delle cattedre appositamente dedicate alla contro-confuta-

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parte I L’alba della modernità zione delle sintesi dottrinali di Bellarmino. Questo singolare connubio tra libertà di discussione e fermezza nella dottrina si ritrova peraltro in un altro celebre caso della vita di Bellarmino, vale a dire nel suo confronto con Galilei, con il quale ebbe uno scambio epistolare e che ebbe il compito di valutare a livello teologico. Secondo il cardinale una teoria scientifica che fosse in contrasto con le Sacre Scritture, ma non ancora dimostrata in maniera definitiva, dovrebbe essere presa solo come un’ipotesi della ricerca; qualora invece quella teoria fosse definitivamente provata si dovrebbero interpretare le Scritture in accordo con essa.

do teologo di professione, Suárez nel 1597 decide di pubblicare le Disputazioni metafisiche, il primo trattato autonomo di metafisica. Riprendendo un’antica discussione circa l’autentico “oggetto” della metafisica, visto che Aristotele ne individua due – l’“ente in quanto tale” con le proprietà che gli appartengono, e il “genere più elevato dell’ente”, cioè il divino o Dio –, Suárez ritiene che l’oggetto adeguato di questa scienza sia l’ente in quanto tale. In tal modo Suárez articola la metafisica in due parti: una prima parte che tratta dell’ente, delle sue proprietà e delle sue cause in quanto tali, cioè in senso generale o astratto; una seconda parte in cui vengono trattati gli enti determinati o particolari, cioè l’ente infinito o Dio e gli enti finiti ossia le creature. Questo ha due conseguenze di grande rilievo: la prima è che il

significato più importante di ente non è quello di “esistenza” (ente come participio del verbo essere) ma quello dell’essenza (ente come un semplice nome verbale, che designa ciò che una cosa è, non tanto il fatto che essa sia). La seconda conseguenza sarà che l’essenza non è più distinguibile dall’esistenza. Certo, in senso teologico o fisico è sempre Dio la fonte dell’essere e la causa prima di ogni esistenza effettiva; ma in senso metafisico (o meglio ontologico) l’esistenza va pensata come possibilità interna alla stessa natura dell’ente, senza dover ricorrere a una causa esterna. Per questo motivo Suárez conclude che il principio supremo della metafisica non è tanto quello della “causalità”, cioè della provenienza e dipendenza di un ente dalla sua origine, quanto quello della “non-contraddizione”, che ci dice come pensare qualcosa nella sua pura possibilità logica.

Opere

Studi critici

F. Suárez, Disputazioni metafisiche I-III, trad. di C. Esposito, testo latino a fronte, Bompiani, Milano 2007.

Sulla tarda Scolastica sono ancora utili gli studi di: C. Giacon, La seconda Scolastica, 3 voll. ripubblicati da Aragno, Torino 2004.

Studi sul tardo Rinascimento spagnolo, Levante, Bari 1995.

Francisco Suárez e la nascita dell’ontologia moderna. L’autore che ha impresso l’impronta dominante nell’ambito della tarda Scolastica è stato senza dubbio il gesuita Francisco Suárez (1548-1617). Pur essen-

BIBLIOGRAFIA

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In questo volume si potranno trovare i riferimenti alle edizioni latine, e non ancora tradotte in italiano, di diversi autori della tarda Scolastica citati in questo capitolo, quali Tommaso de Vio (Gaetano), Benito Perera e Pedro da Fonseca, che sono a loro volta citati nell’opera di Suárez. I riferimenti ad altri autori, come Melchior Cano, Francisco de Vitoria, Luis de Molina, Domingo Báñez e Roberto Bellarmino, potranno essere reperiti nelle bibliografie delle opere citate fra gli “Studi critici”. È opportuno poi segnalare le opere del fondatore dei gesuiti, uno dei più rilevanti movimenti di diffusione e di sistematizzazione del sapere tra XVI e XVII secolo: Ignazio di Loyola, Gli scritti, trad. di M. Gioia, Utet, Torino 1988.

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Negli ultimi decenni si è accresciuta enormemente l’attenzione degli studiosi a livello internazionale per la seconda o tarda Scolastica, vista non più come un momento semplicemente contrapposto ma strettamente intrecciato al pensiero moderno. Uno degli studi che hanno contribuito a questo interesse è stato quello di: J.-F. Courtine, Il sistema della metafisica: tradizione aristotelica e svolta di Suárez, trad. di C. Esposito e P. Porro, a cura di C. Esposito, Vita e Pensiero, Milano 1999.

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In ambito italiano va ricordato soprattutto il volume collettivo: A. Lamacchia (a cura di), La filosofia nel Siglo de oro.

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Tra i problemi più rilevanti di questa Scuola, peraltro molto variegata al suo stesso interno, si possono approfondire: F. Riva, Analogia e univocità in Tommaso de Vio “Gaetano”, Vita e Pensiero, Milano 1995; F. Motta, Bellarmino. Una teologia politica della Controriforma, Morcelliana, Brescia 2005; C. Esposito, Ritorno a Suárez, Le Disputationes metaphysicae nella critica contemporanea, in appendice a F. Suárez, Disputazioni metafisiche I-III, trad. di C. Esposito, Bompiani, Milano 2007, pp. 745-853.

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Sul ruolo determinante dei gesuiti nell’insegnamento e nella elaborazione teologica, filosofica e scientifica tra XVI e XVII secolo: U. Baldini, Saggi sulla cultura della compagnia di Gesù, Cleup, Padova 2000.

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ESERCIZI

La tarda Scolastica europea: metafisica, ontologia, teologia capitolo 6 1. Spiega in che senso la tarda Scolastica ha costituito il crogiolo dei concetti e del lessico della filosofia moderna (max 8 righe). 2. Spiega perché la corretta collocazione di Aristotele nella ratio studiorum rappresenta un tema così aspramente dibattuto tra gli autori della tarda Scolastica (max 10 righe).

6. Completa le sottostanti frasi relative alla “controversia sugli aiuti” con i seguenti nomi: Molina, Báñez e Bellarmino. a. ................. sostenne l’accordo tra la grazia e la libertà. b. ................. affermò che la grazia divina non è tale da predeterminare le azioni umane. c. ................. accusò i gesuiti di aver ritenuto le capacità naturali dell’uomo sufficienti per la sua salvezza.

3. Chiarisci il motivo per cui la scelta di accoppiare strettamente la filosofia di Aristotele alla teologia di Tommaso diviene canonica con la tarda Scolastica (max 8 righe).

7. Con Suárez diviene canonica l’articolazione tra ontologia regionale e ontologia generale: descrivi in breve le diverse pertinenze dei due rami della filosofia (max 8 righe).

4. Spiega perché la tarda Scolastica trovò il suo più favorevole terreno di coltura nella Penisola iberica (max 8 righe).

8.Chiarisci perché, opzionata la soluzione dell’univocità dell’ente, diviene conseguente articolare il sistema della filosofia, come proporranno i seguaci di Suárez, in ontologia generale e ontologia regionale (max 15 righe).

5. Individua ed esponi in breve i termini del confronto tra la Scolastica domenicana e quella gesuitica sul tema del rapporto tra ragione naturale e teologia rivelata (max 8 righe).

9. Descrivi il ruolo che il “principio di non-contraddizione” svolge nella metafisica di Suárez (max 15 righe).

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capitolo 7

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Nuove teorie della politica e del diritto

1 Il Rinascimento politico La concezione che i pensatori del Rinascimento ebbero della politica e dello Stato si muove tra due poli all’apparenza contrastanti, ma in realtà complementari: il realismo e l’utopia, vale a dire, da un lato la descrizione scientifica di come si formano effettivamente i corpi politici, dall’altro la fissazione di prototipi perfetti o modelli ideali irrealizzabili concretamente, ma a cui la politica dovrebbe conformarsi. Tra questi due poli quello che si è affermato come preponderante e infine vincente è stato senz’altro il primo – soprattutto nelle figure di Machiavelli e di Bodin – dal momento che esso ha orientato e insieme ha espresso la più rilevante realizzazione della politica rinascimentale, vale a dire la nascita e il consolidamento degli Stati moderni (Francia, Spagna e Inghilterra). Di contro, l’utopia, o più in generale la determinazione di canoni ideali assoluti e trascendenti rispetto all’effettualità storica, ha forse inciso meno e infine è risultata perdente rispetto alla potente e prepotente

affermazione del nuovo ordine politico europeo (e poi anche extraeuropeo, cioè nel Nuovo Mondo da poco scoperto). Ma il rapporto stesso che si instaura tra questi due poli ci dice molto sulla nuova mentalità che si afferma all’inizio del XVI secolo e che rispecchia fedelmente la frattura che già l’Umanesimo aveva provocato nella tradizione tardomedievale del Quattrocento [ 1]. Da un lato, il realismo politico viene presentato come aderenza ai fatti e alle condizioni storiche, ma fatti e condizioni a loro volta sono pensati come meri accadimenti dovuti alla legge naturale di tutti i corpi o semplicemente al caso – la dea “fortuna” – e come tali vanno spiegati, senza dover ricorrere a princìpi, valori o fini che li precedano come origine o costituiscano il loro fine trascendente. Dall’altro lato, il senso ideale della politica è divenuto nel frattempo il regno dell’utopia: realismo e idealismo si sono ormai scollati tra loro e – almeno all’inizio – procedono paralleli l’uno rispetto all’altro, per poi arrivare a confliggere: la legge naturale che presiede alla vita della società e dello Stato ha certamente ancora un’origine divina, ma tale origine è sempre più remota e i fenomeni di cui

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tratta la scienza politica sono sempre più delimitabili nella loro autonomia; inoltre il fine della vita politica diviene sempre più decisamente la politica stessa, intesa come gestione moralmente spregiudicata e tecnicamente regolata del potere. È appunto il problema del potere che sta al cuore della riflessione politica rinascimentale – e da allora esso vi resterà, ben fermo, lungo tutto il corso della filosofia politica moderna. Non che in precedenza il tema del potere non si fosse posto – tutt’altro –, ma era stato inteso prevalentemente come il problema della sorgente della “potestà” (vale a dire: da che cosa deriva la legittimità del potere politico?) e insieme del suo fine (vale a dire: in vista di che cosa viene esercitato il potere?). In entrambi i casi tutto si giocava nei diversi modi di intendere il rapporto dell’uomo e dell’umana società con Dio, cioè con un fattore più grande della politica: di qui tutta una serie di specifici problemi di ordine teologico-politico, come quello del rapporto tra la Chiesa e l’Impero, dell’assolutezza del potere politico rispetto a quello religioso, dell’origine divina dell’ordinamento giuridico-politico, risolti di volta in volta in modi diversi, ma sempre all’interno di un unico orizzonte di riferimento. Sia che ci si rifacesse alla tradizione del pensiero politico agostiniano, in cui la forma della “città degli uomini”, o “città secolare”, dipende dalla condizione decaduta dell’umanità dopo il peccato, e la malizia originaria dev’essere impedita o contenuta dagli stessi ordinamenti politici; sia che si seguisse l’antica tradizione aristotelica ripresa da Tommaso d’Aquino, secondo cui l’origine della società sta nella natura politica degli uomini e il suo fine consiste nella realizzazione di un bene comune, in entrambi i casi il potere non ha la sua ragion d’essere in sé stesso. Ora invece, nel Rinascimento, è proprio l’autonomia del potere la cifra caratteristica del pensiero politico, e questo sia che si intenda la politica come una tecnica per conservare il potere, libera da altri criteri di valutazione, metafisici o morali, sia che la si intenda come il modello perfetto in base al quale realizzare la morale in Terra. Proprio in questo carattere autoreferenziale della politica il realismo e l’utopia rinascimentali si trovano pienamente d’accordo.

1.1 Machiavelli: la politica come tecnica del potere N iccolò Machiavelli (Firenze 1469-ivi 1527) è colui che per primo e più di ogni altro ha teorizzato la fondazione della politica su sé stessa e la giustificazione del potere in base al potere stesso. Impegnato in prima persona nell’attività politica (fu segretario alla seconda Cancelleria della Repubblica di Firenze e suo rappresentante diplomatico nei contatti con altri Stati dal 1498 al 1512, anno in cui tornarono al potere i Medici), trarrà dalle sue esperienze dirette non solo un’acuta lettura dei problemi e delle esigenze della situazione politica italiana del suo tempo, ma anche una più universale riflessione sugli elementi costitutivi del potere politico, trattando in particolare del nascere e del perire degli Stati e delle condizioni per cui è possibile conservare il loro dominio. Quest’ultimo costituisce il grande tema di un’opera tanto piccola di mole, quanto enorme negli effetti esercitati su tutto il pensiero politico moderno, vale a dire Il principe (1513), a cui bisogna affiancare i Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio (1519). Da uomo pienamente calato nelle vicende e nella cultura del suo tempo, Machiavelli nutre questa sua passione per l’analisi e per la pratica politica con la lettura dei testi antichi, soprattutto gli storici greci (da Tito Livio a Senofonte, da Plutarco a Polibio), e guarderà sempre alla storia dell’antica Roma come il modello assoluto, non solo delle diverse forme possibili dello Stato (monarchia, aristocrazia, democrazia) ma anche dell’atteggiamento virtuoso che deve assumere un principe se davvero vuole conservare il potere. “Virtù” va intesa in senso rigorosamente naturalistico, come la capacità di carpire l’occasione propizia offerta dalla natura degli uomini e dai casi della storia, per costruire il “principato” con la rapace determinazione di chi sa bene cosa vuole ed è abbastanza spregiudicato da non frapporre tra sé e la sua opera nessun altro criterio che la volontà di potenza. Ma qui i reggitori di Roma prendono ormai per Machiavelli le sembianze dei “nuovi prìncipi” rinascimentali, quei capitani di ventura – come Francesco Sforza o Cesare Borgia, detto il Valentino – veri e propri artefici dei loro principati “per virtù o per fortuna”. Un elemento tipico del discorso di Machiavelli è infatti quello di tenere strettamente

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unite tra loro l’analisi precisa delle dinamiche con cui gli Stati nascono e periscono – con la stessa freddezza e lo stesso disincanto di chi stia descrivendo la formazione e la decomposizione di un organismo naturale – e la dolente consapevolezza che tutto però dipende dai casi della fortuna, di modo che la scienza della politica e le sue leggi funzionano soltanto quando si incarnano nella decisione fortuita degli uomini di genio, di armi e di potere. Anzi, Machiavelli concepisce i suoi scritti come una riflessione sul funzionamento del potere offerta – quasi come un invito o un appello – a coloro che vogliano tentare l’impresa di diventar “prìncipi nuovi”. Scardinando l’impostazione tradizionale, secondo Machiavelli non si deve partire da un modello ideale (il principe buono) a cui conformare o in base al quale giudicare le realizzazioni concrete, ma al contrario bisogna partire da queste ultime – cioè da come è successo sempre o il più delle volte sin dall’Antichità – per stabilire in maniera scientifica che cosa vuol dire far bene il principe, cioè conquistare e conservare il potere. Così egli descrive il metodo seguito nel suo discorso politico:



sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero. Perché […] colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua: perché uno uomo, che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a poter essere non buono e usarlo e non l’usare secondo la necessità. [Il principe, cap. XV]



In altri termini, essere un buon principe non significa affatto essere un principe buono, anzi, se le condizioni lo richiedono, significa essere un principe cattivo per irreggimentare la cattiveria degli uomini. Si può dire allora che l’esercizio del potere stia al di qua del bene e del male, e che questi ultimi non sono i criteri ideali o i valori cui la politica debba ispirarsi (o dai quali rifuggire), ma siano semplicemente il prodotto del potere [ T35].

Analogo discorso va fatto per le “qualità” proprie del principe: esse per Machiavelli non consistono tanto nelle reali disposizioni dell’animo e del comportamento, ma nel fatto che il principe sappia mostrare di averle – cioè che egli «paia, a vederlo, e udirlo, tutto pietà, tutto fede, tutto integrità, tutto umanità, tutto religione» – e al momento necessario sappia abbandonarle se «i venti della fortuna e le variazioni delle cose» lo comandano. Solo allora le qualità del principe diventano vere e proprie “virtù”, cioè quando egli sia «disposto […] a non partirsi dal bene, potendo, ma saper entrare nel male, necessitato» [Il principe, cap. XVIII]. Di qui deriva la doppia natura – umana e ferina – del principe, il quale in quanto uomo deve governare con le leggi, in quanto bestia con la forza, e dunque deve saper usar bene di entrambe. Questo è il vero motivo per cui gli scrittori antichi scrivono che Achille e gli altri prìncipi furono allevati dal centauro Chirone, mezzo cavallo e mezzo uomo, perché l’una natura «senza l’altra non è durabile». Tuttavia, la bestialità del principe non è per Machiavelli sinonimo di pura istintività – in questo caso, infatti, egli sarebbe preda e non signore delle sue azioni – ma è forza temperata dall’astuzia, la qualità della volpe unita a quella del leone:



Sendo adunque uno principe necessitato sapere bene usare la bestia, debbe di quelle pigliare la golpe e il lione, perché il lione non si defende da’ lacci, la golpe non si defende da’ lupi. Bisogna adunque essere golpe a conoscere e lacci, e lione a sbigottire e lupi. Coloro che stanno semplicemente in sul lione, non se ne intendano. [Il principe, cap. XVIII]



Il caso più eclatante di questa implacabile legge del potere è quello riguardante il tener fede ai patti e alle promesse: nei «nostri tempi», nota Machiavelli, «si vede per esperienza» che i prìncipi che hanno fatto grandi cose non sono stati affatto quelli più leali, ma piuttosto quelli che hanno aggirato gli impegni presi e la fiducia data. Se il mantenersi fedele ai patti si ritorce contro il principe, questi non sarebbe certo “prudente” ad osservarli. O meglio, «se li uomini fussino tutti buoni, questo precetto non sarebbe buono: ma perché e’ sono tristi [cattivi] e non la osservarebbono a te, tu etiam non l’hai a osservare a loro».

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Al tempo stesso, non deve meravigliare se agli occhi di Machiavelli uno tra i fattori più rilevanti per garantire il principato sia il mantenimento della religione del popolo, perché una «repubblica religiosa» sarà «per conseguente, buona e unita»: e così, anche se un principe giudicasse false le pratiche religiose, deve tuttavia «favorirle e accrescerle» per prudenza e per conoscenza delle «cose naturali». Sin dagli antichi Romani la religione è dunque un fattore dell’ordine politico da tenere in massimo conto, e questo anzi porta Machiavelli a sostenere che il punto dolente della Chiesa romana ai suoi tempi è quello di essere diventata “senza religione”, perché divide i regni con la sua presenza, invece di essere un docile strumento per il potere del principe. Quando si entra nel campo della politica, tutto in realtà si riduce a politica. N on basta dunque dire che in Machiavelli la politica diventa autonoma rispetto alla morale, ma si dovrà aggiungere che la politica fonda un nuovo tipo di moralità, fatta consistere nella coerenza estrema della conservazione del potere per nessun altro scopo che il potere stesso. Quest’ultimo, cioè, non è un mezzo per raggiungere fini più grandi di esso – come la felicità degli uomini (secondo l’ideale aristotelico) o il bene comune della società (secondo la teologia cristiana) – ma è fine a sé stesso. La morale tradizionale non viene certo negata, ma viene semplicemente neutralizzata: essa non ha più incidenza sulla vita concreta degli uomini e degli Stati e quindi resta come un dominio di valori astratti, cioè puramente interiori. Questo è il senso della celebre dottrina di Machiavelli, secondo la quale in politica non bisogna giudicare i mezzi che si usano, ma solo i fini per cui li si usa: una posizione che non a caso ancora oggi nel linguaggio comune è espressa dall’aggettivo “machiavellico”. Giustificare i mezzi malvagi per i fini buoni (e qui “buono” significa utile al potere dello Stato) è la nuova morale politica. Ecco dunque il compito che Machiavelli assegna alla scienza della politica: cercare di arginare la fortuna mediante la virtù, adeguando di volta in volta la virtù alle occasioni favorevoli o sfavorevoli dei tempi, e quindi tentando l’impossibile, cioè prevedere l’avversità della fortuna e, nel caso, ridurla in proprio potere. E se «la fortuna è donna […] è necessario, volendola tenere sotto, batterla e urtarla», ben sapendo

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d’altronde che essa «come donna è amica de’ giovani, perché sono meno respettivi, più feroci, e con più audacia la comandano» [Il principe, cap. XXV]. Qui sta l’obiettivo più ambizioso del politico rinascimentale: esercitare il suo potere sull’ultimo e più difficile degli avversari, il destino. 1. Secondo Machiavelli: a. la virtù è da intendersi come una disposizione naturalistica dell’uomo. b. l’imponderabile gioca un ruolo nell’ostacolare il controllo delle vicende politiche. c. per stabilire che cosa vuol dire conquistare e conservare il potere occorre partire dal modello ideale di principe buono. d. la religione deve farsi strumento del potere politico.

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1.2 Thomas More: la politica come utopia del potere Un tono e un approccio nettamente diversi al problema del potere sono presenti nella riflessione “utopistica”, che è l’altro lato del pensiero politico rinascimentale [ 7.1]. E tuttavia, a ben guardare, anche in questo versante troviamo alcuni elementi tipici dell’approccio realistico o scientifico della politica, e, più al fondo, l’idea che essa sia un’attività fine a sé stessa. Un esempio di “utopia” l’abbiamo già incontrato nella Città del Sole di Tommaso Campanella [ 3.5.5], ma è nell’opera intitolata appunto Utopia o della miglior forma di repubblica (1516) di Thomas More che essa dà maggiormente prova di sé. Thomas More (Londra 1478-ivi 1535) rientra a buon diritto tra gli esponenti dell’Umanesimo europeo: fu amico personale e corrispondente di Erasmo da Rotterdam [ 2.3] e con gli umanisti condivise la passione per gli studi classici e la teologia, oltre all’impegno attivo nella politica: tra le diverse cariche pubbliche che assunse, fu amministratore delle Università di Oxford e Cambridge e lord cancelliere, incarico da cui si dimise per non voler accettare la sottomissione della Chiesa di Inghilterra al re Enrico VIII e per rimanere fedele alla Chiesa cattolica romana. Questa sua decisione in particolare lo porterà all’accusa di alto tradimento, alla prigionia nella Torre di Londra e alla decapitazione. Per

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questo motivo egli sarà dichiarato santo dalla Chiesa cattolica. La riflessione di More nasce dunque da una pratica diretta nell’esercizio del potere politico e nella cura della cosa pubblica, e il suo scritto del 1516 sull’utopia si presenta come una ben precisa critica alle condizioni socio-economiche e giuridico-politiche dell’Inghilterra del tempo, gravata da un diffuso impoverimento, specie in campo agricolo, accresciuto dal frequente ricorso alla guerra da parte della corona. In contrasto clamoroso con tale situazione, More dialoga con un immaginario marinaio portoghese, il quale racconta di un’isola chiamata appunto Utopia, dal greco u-tòpos, che vuol dire ‘in nessun luogo’: un’isola che di fatto non esiste, ma che può servire da modello ideale per giudicare i limiti del presente, ben sapendo che, in quanto tale, essa resterà sempre irrealizzabile nella realtà effettiva. Da questo dialogo emerge che le ruberie e i crimini che nascono dalla drammatica situazione di accattonaggio a cui molti sono ridotti, non possono essere semplicemente contrastati con l’applicazione di leggi severe che non fanno distinzioni tra i singoli casi – comminando per esempio la stessa pena a chi uccide come a chi ruba – e soprattutto non tengono conto dei motivi reali per cui gli uomini sono indotti a delinquere. In questo caso ci sarebbe sì giustizia, ma non equità. Piuttosto, si dovrà cercare di rimuovere alla base i motivi di quelle azioni, perché gli uomini non le compiano più. E il primo motivo consiste nella drammatica disuguaglianza economica e sociale tra gli uomini: essa è dovuta al fatto stesso che esiste una proprietà privata e che quindi «ogni cosa si commisuri con il denaro», impedendo così la naturale uguaglianza e comunione di beni tra tutti gli uomini. La conseguenza è molto netta: «non è possibile distribuire i beni in maniera equa e giusta, o che prosperino le cose dei mortali, senza abolire del tutto la proprietà privata» [Utopia, libro I]. L’isola di Utopia è interamente strutturata attorno a questa uguaglianza sociale, dovuta al fatto che nessuno possiede niente per sé, ma tutto – i beni materiali, le case, i prodotti del lavoro – è in comune. La base naturale della società è la famiglia patriarcale e nell’economia familistica tutti possono soddisfare i loro bisogni in modo sobrio, senza cioè desiderare o pre-

tendere soddisfazioni maggiori degli altri. Come infatti sono uguali e ricorrenti i bisogni, così saranno uguali e comuni i modi di soddisfarli. Tutti lavorano (non più di sei ore al giorno) soprattutto nei campi e tutti usufruiscono di una comune distribuzione degli utili. Non vi è insomma alcuna differenza tra ciò che è “pubblico” e ciò che è “privato”, e ciò che avviene secondo natura è sempre di per sé razionale, giacché gli abitanti di Utopia non sono gravati dal peso del peccato originale, e la loro libertà non può fare naturalmente se non il bene. Di conseguenza, nessun piacere è proibito, tranne quelli che, escludendo gli altri, possano ingenerare una qualche disparità tra gli uomini. Anche il governo dell’isola risente dell’egualitarismo di fondo: tutte le cariche di governo sono elettive e le poche leggi vigenti nella società hanno la sola funzione di garantire la permanenza di questa assoluta uguaglianza. Peraltro qui il vero e proprio potere politico viene riassorbito completamente nel potere amministrativo, e quindi nella perfetta gestione degli uomini e dei beni, in cui si realizza il bene comune, spartendolo equamente tra tutti. Un siffatto ideale si riflette anche nella più completa tolleranza religiosa che vige tra gli “utopiani”: ciascuno può scegliere la religione che gli è più congeniale, giacché al fondo tutte le dottrine e tutte le fedi – compresa quella cristiana – si uguagliano nell’affermazione di due princìpi razionali: l’immortalità dell’anima e l’esistenza di una divinità che giudica, premia e punisce in una vita ultraterrena la condotta degli uomini in questo mondo, e così facendo garantisce in maniera stabile l’osservanza delle leggi (cioè della comunanza di tutto) e di conseguenza il pacifico ordine civile dello Stato. La posizione di More, come personaggio letterario all’interno del dialogo, resta tuttavia ambigua: egli infatti non manca di rilevare come un perfetto egualitarismo porterebbe all’estinzione dell’interesse personale e alla demotivazione nel lavoro, producendo così non tanto una ricchezza condivisa da tutti, quanto piuttosto un impoverimento collettivo. Al tempo stesso, la sua Utopia fu vista dagli umanisti del tempo come il tentativo di far rivivere – di contro al processo di distacco delle ragioni politiche dagli ideali cristiani – l’ideale di un cristianesimo ricondotto ad egualitarismo, e per questo fondamento di concordia universale.

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Non è chiaro se anche il Thomas More autore dell’opera (e non più solo personaggio) la pensasse esattamente così, se è vero che qualche anno più tardi la sua fede cristiana lo porterà a marcare nettamente le differenze rispetto ad un potere politico che voleva salvaguardare la concordia dello Stato e la supremazia del re chiedendogli di sconfessare la sua obbedienza al papa. Tra la confessione cristiana e la salvaguardia del potere politico, More scelse la prima, affermando in tal modo una verità trascendente che dà significato alla pratica politica. Nella sua Utopia, invece, il valore trascendente era tutto quanto calato e anzi riassorbito nella politica. N ell’intenzione di More cristianesimo e politica sono uniti in uno stesso ideale, ma di fatto nella Repubblica di Utopia è la politica dell’egualitarismo naturale la vera salvezza degli uomini e delle società. 1. Nell’Utopia Thomas More propende per: a. un sistema economico basato sull’appagamento dei bisogni primari. b. l’uguaglianza sociale e l’abolizione della proprietà privata. c. la forma monarchica dello Stato. d. la tolleranza.

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1.3 Jean Bodin: la sovranità dello Stato Con Jean Bodin (Angers 1530-Laon 1596) il pensiero politico rinascimentale giunge a teorizzare uno dei concetti più rilevanti della moderna teoria dello Stato, quello di “sovranità”. Bodin fu giurista, storico e parlamentare, in un momento in cui in Francia era all’ordine del giorno il problema drammatico degli scontri religiosi tra cattolici e calvinisti ugonotti. In un primo momento egli sottoscrisse il giuramento di fedeltà alla Chiesa cattolica, che nel 1569 rinnegò, finendo in carcere. In generale fu un teorico dell’unità religiosa dello Stato, considerando anch’egli la religione un momento tutto interno alla politica, tanto che la sua posizione formalmente cattolica in realtà si sviluppò in direzione di una più generica religiosità, in cui le diverse confessioni si fondevano e la divinità presente nella natura si unificava con il Dio delle Scritture. Tutta l’attività di scrittore e di teorico di Bodin risente profondamente di questo sfondo politico-religioso, e non è un caso se per lui la ricer-

ca di una concordia tra le diverse confessioni vada di pari passo con una concezione della sovranità statale in termini sempre più assolutistici. Già come storico egli aveva intuito che l’oggetto di studio dovevano essere non i singoli individui, ma le forme istituzionali e giuridiche degli Stati – visti non solo nelle loro vicende storiche, ma anche nelle loro specifiche connotazioni geografiche e climatiche – all’interno delle quali vanno comprese le vicende dei popoli, i loro costumi e le loro religioni. L’opera più importante di Bodin sono i Sei libri sullo Stato (1576), dove il termine ‘Stato’ traduce il francese République, che allude in senso etimologico alla ‘cosa pubblica’ (res publica). In questo testo troviamo la prima codificazione moderna del lessico politico, in cui sono certamente riprese le dottrine antiche (Aristotele, i giuristi romani) e quelle medievali (riguardo alla legittimità dell’Impero e soprattutto del potere assoluto del papa), ma con uno spirito nuovo e soprattutto in una nuova prospettiva, portando in primo piano il carattere della sovranità come struttura impersonale del potere. «Per Stato – scrive Bodin – si intende il governo giusto che si esercita con potere sovrano su diverse famiglie e su tutto ciò che esse hanno in comune»: qui si vede che l’origine naturale della compagine statale è ancora la famiglia patriarcale, ma mentre in quest’ultima il padre governa ciò che è proprio della famiglia, nello Stato, invece, il sovrano governa ciò che è comune e pubblico. E «per sovranità s’intende quel potere assoluto e perpetuo che è proprio dello Stato»: potere indivisibile e anche immodificabile nel tempo. In altre parole, il sovrano è tale proprio perché non è mai soggetto ad un potere più grande o più alto del suo:



Chi è sovrano non deve essere in alcun modo soggetto al comando altrui, e deve poter dare la legge ai sudditi, e cancellare o annullare le parole inutili in essa per sostituirne altre, cosa che non può fare chi è soggetto alle leggi o alle persone che esercitino potere su di lui. Per questo la legge dice che il principe non è soggetto all’autorità delle leggi. [Sei libri sullo Stato, libro I, 8]



Il sovrano, dunque, è “sciolto dalle leggi” che egli stesso promulga e che «dipendono unicamente dalla sua pura e libera volontà». Questo

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però non vuol dire mai per Bodin riduzione all’arbitrio o al capriccio del sovrano, poiché – con una posizione decisamente antimachiavellica – «il potere assoluto dei prìncipi e delle signorie sovrane non si estende in alcun modo alle leggi di Dio e della natura». Inoltre il sovrano non può intaccare il diritto sacro alla proprietà privata delle famiglie, e quindi la loro libertà nel possedere ciò che gli appartiene (per esempio il sovrano non può imporre le tasse senza il consenso degli organi consultivi). Ci troviamo così di fronte a una strana situazione: il sovrano è tale perché non dipende da altro potere o da altra legge ed è l’unica fonte della legge per i suoi sudditi; allo stesso tempo il potere che egli esercita non solo non può contraddire alla legge divina, ma è addirittura voluto dalla stessa volontà di Dio. Viene posta qui tutta una serie di problemi che verranno affrontati e sciolti nella filosofia politica dei secoli successivi. La nascita della sovranità moderna, infatti, è ancora evidentemente debitrice dell’idea medievale dell’origine divina del potere, e questo significa che il sovrano trova la sua garanzia metafisica in un principio superiore. Inoltre lo Stato ha per Bodin una funzione, ben più che politicoamministrativa, squisitamente etica: esso deve assicurare l’ordine sociale, in modo che i cittadini possano dedicarsi al “bene supremo”, vale a dire alla «contemplazione delle cose naturali, umane e divine, riferendone le lodi al gran principe della natura», cioè a Dio. Al tempo stesso – in linea con il più generale orientamento del pensiero rinascimentale – anche il riferimento alla legge di natura o alla legge divina non significa più l’appello ad un criterio superiore rispetto alla stessa sovranità dello Stato, tant’è vero che pur valendo per qualsiasi regime – monarchico, aristocratico o democratico – la sovranità per Bodin si incarna soprattutto nella monarchia assoluta:



Così come il gran Dio sovrano non può fare un altro Dio simile a lui, poiché egli è infinito e non vi possono essere due infiniti, come si dimostra secondo ragioni naturali e necessarie, così possiamo dire che quel principe che abbiamo detto essere l’immagine di Dio non può rendere un suddito uguale a sé stesso senza con ciò annullare anche il suo stesso potere. [Sei libri sullo Stato, libro I, 9]



1. Nell’opera di Bodin i Sei libri sullo Stato la sovranità: a. è da intendersi come potere incomunicabile e perenne. V b. deve garantire la sicurezza interna. V c. ha facoltà di derogare alle leggi ordinarie. V d. deve essere soggetta all’autorità delle leggi naturali e divine. V

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2 Diritto e politica tra Vecchio e Nuovo Mondo Un ruolo di grande rilievo nella riflessione politica tra Cinquecento e Seicento viene svolto dalle discussioni interne alla teologia scolastica [ 6], la quale costituisce un punto cruciale di incontro e di passaggio di antiche tradizioni e nuove urgenze storico-politiche. Da un lato, infatti, venivano coltivate le teorie politiche medievali, prima fra tutte quella di Tommaso d’Aquino, ma dall’altro si cercava di corrispondere sul piano della dottrina dello Stato e del potere sovrano e poi soprattutto su quello del diritto alle mutate condizioni dell’Europa – con Stati nazionali sempre più indipendenti rispetto alla Chiesa – e del Nuovo Mondo, con tutti i problemi aperti riguardo alla legittimità della sottomissione delle popolazioni indie. Si tratta di una tendenza apparentemente contrapposta alla riflessione “moderna” sulla sovranità tendenzialmente assoluta del potere e sul modello utopistico dello Stato [ 7.1]. Nelle dottrine degli scolastici – soprattutto domenicani e gesuiti spagnoli, spesso direttamente legati in senso non di rado critico agli ambienti del potere imperiale – troviamo tuttavia una straordinaria capacità di ripensare le idee provenienti dalla tradizione in una modalità nuova, all’altezza delle sfide geopolitiche dell’epoca e che lascerà la sua impronta diretta o indiretta nel pensiero politico moderno.

2.1 La filosofia del diritto negli scolastici spagnoli tra Cinquecento e Seicento L’Università di Salamanca nel XVI secolo può essere considerata come un centro propulsore della riflessione politica a livello mondiale, soprattutto grazie alla presenza del teologo domenicano Francisco de Vitoria [ 6.3.1].

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Tutto nasce – in linea con lo spirito umanistico rinascimentale, ben presente anche nelle scuole teologiche tradizionali – da un ritorno ai testi originali degli autori trattati e commentati (primi fra tutti Aristotele e Tommaso d’Aquino). Lo Stato, per Vitoria, è una “comunità perfetta” o una “totalità” sovrana e autosufficiente, cioè indipendente da altri poteri politici, il cui scopo è quello di promuovere il bene comune e garantire i diritti dei cittadini. Pur essendo in Dio la sorgente del potere, la comunità politica e lo Stato sono dotati di una loro specifica autonomia nell’esercizio del potere temporale, che si struttura soprattutto nel diritto di comunicazione (ius communicationis), vale a dire nella possibilità – all’interno di uno Stato, ma anche tra più Stati o comunità politiche – di libera circolazione, scambio di beni e di idee, anche religiose. Quest’autogoverno della comunità politica è basato sul fatto che l’autorità di uno Stato risiede direttamente, secondo le norme del diritto naturale, nell’intera comunità, la quale trasferisce poi ad una o più persone il compito storico e delimitato del governo politico. La sovranità dello Stato, dunque, non risiede affatto – come in Bodin [ 7.1.3] – nel potere assoluto di emanare delle leggi che valgono solo per i sudditi e non per il sovrano. Le leggi riguardano l’intero corpo della comunità, nessuno escluso, e quindi lo Stato non è solo autore della legge, ma anche sottomesso alla legislazione, se non altro perché per natura lo Stato è voluto da Dio per procurare il bene degli uomini. Ma c’è un ulteriore motivo per cui il potere dello Stato non è assoluto, ed è il fatto che la legislazione non è solo da intendersi come interna al singolo Stato, ma anche in un senso sovrastatale e sovranazionale, come diritto comune a quella comunità universale – chiamata da Vitoria “orbe”, cioè il mondo intero – in cui rientrano tutti gli Stati, o meglio tutte le “genti”. Il diritto delle genti (ius gentium) costituisce l’apporto più originale di Vitoria alla riflessione giuridico politica della sua epoca e dell’epoca successiva, perché qui sono gettate le basi del diritto internazionale, secondo il quale il rapporto tra gli Stati non va visto nella prospettiva di una semplice autoaffermazione o autodifesa mediante la guerra, ma va regolamentato secondo accordi che si basino sulla comune appartenenza ad un ordine geopolitico più vasto.

N ell’orbe universale, che riunisce in sé genti diverse, rientrano anche le popolazioni del N uovo Mondo, quegli indios che erano stati sottomessi alla corona di Spagna e che spesso venivano costretti a rinunciare alla loro “potestà” naturale adducendo il fatto che rifiutavano la fede cattolica proposta o imposta. Di fronte a questa spinosa problematica, Vitoria compirà delle scelte di tipo giuridico-politico di grande importanza [ 7.2.2]. Sarà poi con Francisco Suárez [ 6.4] che il diritto internazionale troverà la sua codificazione definitiva, all’interno di un più generale sistema della legge. Nel trattato De legibus il teologo gesuita, commentando Tommaso d’Aquino, definisce la legge come «un precetto comune giusto e stabile, promulgato in maniera sufficiente» [De legibus, I.12, 5]: il suo fondamento consiste nel suo carattere di “obbligazione” o di “forza coercitiva”. Su questa base si dovrà distinguere tra due tipi di diritto: 1. un diritto naturale, che riguarda la “legge di natura” inscritta nel cuore di ogni uomo – il quale sa discernere di per sé tra il bene e il male – e a rigore non è una vera e propria legge, perché si identifica con la stessa natura dell’uomo, senza che nessuno gliela imponga (un tema che verrà ripreso nel “giusnaturalismo” del XVII secolo:  11); 2. un diritto positivo, che riguarda invece la legge posta e imposta – per questo “legge positiva” – dalla volontà di un legislatore, sia esso Dio o un’autorità umana. Questo vuol dire che la legge positiva, divina o civile che sia, non discende dalla legge naturale, ma è aggiunta rispetto ad essa. All’interno poi di questo sistema, un ruolo particolare è svolto dal diritto delle genti, il quale è di tipo positivo e umano ma, a motivo della sua universalità, si avvicina molto al diritto naturale. Il diritto delle genti infatti comprende in sé: a. una parte di norme comuni a tutti i popoli e a tutte le nazioni, le quali costituiscono delle leggi non scritte (cioè derivanti dalla natura dell’umanità) rispetto al diritto civile scritto e valido per ciascuna nazione; b. l’insieme delle norme che devono regolare le relazioni tra le nazioni.

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Anche per Suárez, come per Vitoria, l’immagine di Stato che emerge da questo quadro giuridico è tale da possedere una sovranità di tipo non assoluto. Il potere non è mai dato da Dio direttamente ad un singolo (tranne nel caso del papa), bensì all’intera società civile, che la conferisce ad un’autorità particolare, la quale dunque è di diritto umano, non di diritto divino, ed è soggetta alle leggi come tutte le altre persone e, nel caso si riveli indegna di governare, può essere rimossa con la forza dal popolo. Si tratta in definitiva della netta affermazione del carattere storico, umano e sempre modificabile delle formazioni politico-statali, all’interno di una tradizione come quella scolastica che – proprio in virtù del suo riferimento ad un ordine trascendente – si trova impegnata a limitare e in alcuni casi a combattere la tendenza assolutistica degli Stati moderni. Se c’è un assoluto, quello è Dio, non Cesare (ovvero l’autorità politica civile). A partire da questa impostazione si capiscono anche gli esiti più estremi e sorprendenti che la Scolastica gesuita generò in campo politico, se si pensa a un autore quale Juan de Mariana (Talavera de la Reina 1535-Toledo 1624). Nello scritto intitolato Sul re e sull’istituzione della monarchia egli ricostruisce la nascita di questo sistema politico come conseguenza dell’antagonismo nato in seno alla società nel momento in cui alla libera e pacifica comunione dei beni, propria della condizione naturale dell’umanità, sono subentrate la proprietà individuale, la cupidigia, l’ingiustizia sociale e le continue discordie. Di qui nasce la volontà degli appartenenti ad una comunità civile di fare un patto per l’instaurazione di un ordine politico, da affidare alla garanzia di un sovrano. Ma quest’ultimo è, appunto, strettamente legato a tale patto, ha l’obbligo di accettare e sottomettersi egli stesso alle leggi promulgate da un’assemblea rappresentativa dei cittadini, e, nel caso risulti indegno a governare trasformandosi addirittura in un tiranno, può essere non solo legittimamente rimosso (come per Suárez), ma senz’altro ucciso. E, nel caso tale esecuzione non potesse essere compiuta pubblicamente, sarebbe legittima anche l’uccisione per mano di un privato, il quale avrebbe pur sempre dietro di sé il mandato morale e politico di una condanna pubblica del re. Proprio per salvaguardare la sovranità divina e la libertà del popolo viene dunque legittimato il tirannicidio, cioè il rovesciamento

e l’eliminazione fisica di un sovrano che si comporti revocando quella legge e conculcando quella libertà. N on è un caso che l’opera di Mariana, dopo l’uccisione dei re francesi Enrico III ed Enrico IV, fu condannata dal Parlamento di Parigi ma l’autore fu assolto dall’Inquisizione spagnola. 1. Nell’opera di Vitoria vi è la negazione dello Stato assoluto in quanto: a. Dio comunica l’autorità prima al popolo e poi al sovrano. b. lo stesso sovrano è sottomesso alla legislazione. c. lo Stato è sottomesso alle leggi del diritto internazionale. d. lo Stato è sottomesso al diritto positivo di Dio.

V F V F V F V F

2.2 La controversia sugli indios Un caso esemplificativo di grande valore dottrinale e simbolico è la disputa che sorse tra teologi, giuristi e missionari intorno al problema dei diritti naturali delle popolazioni indie d’America – primo fra tutti quello alla libertà individuale e al possesso della terra natia – nonché al problema del legittimo dominio su di essi da parte del re di Spagna, ossia dell’imperatore. La questione era particolarmente delicata per diversi, importanti fattori, come quello riguardante la conversione più o meno forzata – mediante una “guerra giusta” – dei popoli pagani alla fede cristiana, i titoli in base ai quali si potesse esercitare la “potestà” su di essi da parte del papa e dell’imperatore, e più radicalmente la stessa legittimità della “conquista” e del “dominio” sugli indios. Tra le diverse voci dei teologi e dei giuristi che intervengono sul problema, si impose da subito quella di Francisco de Vitoria, che in una sua celebre conferenza pubblica del 1539 sulla questione degli indios (Relectio de indis) aveva sostenuto il diritto di questi ultimi ad essere i veri padroni dei beni che possedevano prima dell’arrivo degli spagnoli. E questo perché «per diritto naturale gli uomini sono tutti liberi» e nessuno di essi – né l’imperatore e neppure il papa – possiede “l’impero del mondo”, il quale è stabilito solo per diritto umano e positivo, non per diritto naturale. Da questo punto di

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vista il Papato – che ha una potestà temporale solo in ordine alle cose spirituali – può essere garanzia della salvaguardia della libertà degli indios rispetto all’imperatore. La questione verrà riproposta in una celebre controversia svoltasi a Valladolid tra il 1550 e il 1551, dinanzi a una commissione formata da teologi, giuristi, esperti militari e consiglieri reali, nella formulazione seguente:



se sia lecito a Sua Maestà fare guerra a quegli indios prima che sia stata predicata loro la fede, al fine di assoggettarli al proprio impero; e se, una volta assoggettati, possano più facilmente e comodamente essere istruiti e illuminati dalla dottrina evangelica nella conoscenza dei propri errori e della verità cristiana. [dal Sommario di Domingo de Soto, n. 2]



Due tesi si fronteggiano, la prima è dello storico e giurista Juan Ginés de Sepúlveda (Pozoblaco, Cordoba 1490-ivi 1573), il quale risponde positivamente alla questione posta, motivando la propria risposta in virtù: a. della gravità dei delitti compiuti dagli indios, come l’idolatria e i peccati contro natura; b. della rozzezza della loro intelligenza, che li rende per natura gente barbara e servile, obbligata a sottomettersi ai popoli più intelligenti; c. dell’utilità che un assoggettamento degli indios avrebbe per l’evangelizzazione; d. dell’ingiustizia che esiste tra quelle genti, avvezze a compiere sacrifici umani e antropofagia. La tesi contrapposta è quella del domenicano Bartolomé de Las Casas (Siviglia 1484- Madrid 1566), vescovo del Chiapas, chiamato “il difensore degli indios”, secondo il quale nessuno di quei quattro argomenti è sufficiente a giustificare una guerra di conquista e di sottomissione delle popolazioni del N uovo Mondo: a livello

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antropologico, infatti, egli afferma l’uguaglianza naturale degli uomini e dei popoli; a livello politico la libertà e la sovranità delle comunità indie a tutti i livelli – tra cui quello economico e quello religioso –, e la loro federazione in un’organizzazione sovranazionale. Solo vent’anni dopo la disputa di Valladolid, Filippo II porrà fine alle guerre di “conquista” e avvierà un processo di pacificazione con le popolazioni del Nuovo Mondo. Resta però, in ambito filosofico-teologico, il problema del rapporto tra la verità della fede cristiana e la libertà degli uomini e dei popoli, e più ancora tra diritto naturale (libertà e proprietà), diritti religiosi e diritti civili. A questo riguardo è interessante ancora una volta la posizione di Vitoria, per il quale gli indios non vanno considerati infedeli o peccatori prima di aver udito l’annuncio della religione di Cristo. Certo, se gli indios si rifiutassero di ascoltare ciò che venisse loro proposto pacificamente dai predicatori, per Vitoria cadrebbero nel peccato; ma d’altra parte la fede dev’essere proposta «in modo persuasivo, vale a dire con argomenti razionali e con la testimonianza di una vita onesta e vigile in conformità alla legge naturale» [Relectio de indis, I.2, 18]. Ad ogni modo, «anche se la fede sia stata annunciata agli indios in maniera persuasiva e sufficiente ed essi non l’hanno voluta accogliere, non è lecito per questa ragione far loro guerra e spogliarli dei loro beni». E questo perché «il credere è un atto della volontà, mentre il timore diminuisce di molto l’atto volontario. E per di più è un sacrilegio accostarsi ai misteri e i sacramenti di Cristo per timore servile» [Relectio de indis, I.2, 20]. 1. La controversia di Valladolid sui diritti naturali degli indios mira a stabilire: a. la priorità della evangelizzazione. b. il primato papale per il controllo del territorio. c. la legittimità della guerra. d. la legittimità della lotta contro gli infedeli.

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parte I L’alba della modernità Il Rinascimento politico. La concezione che i pensatori del Rinascimento ebbero della politica si muove tra due poli all’apparenza contrastanti, ma in realtà complementari: il realismo e l’utopia. Da un lato, la descrizione scientifica di come si formano e si conservano effettivamente i corpi politici (Machiavelli e Bodin), dall’altro lato, lo sviluppo del senso ideale della prassi politica che diviene il regno dell’utopia (Thomas More). È il problema del potere che sta al cuore della riflessione politica rinascimentale. In precedenza questo tema era stato inteso prevalentemente come il problema relativo al modo di intendere il rapporto dell’uomo e dell’umana società con Dio e pertanto il potere non aveva la sua ragion d’essere in sé stesso. Ora invece, nel Rinascimento, è proprio l’autonomia del potere la cifra caratteristica del pensiero politico e proprio in questo carattere autoreferenziale della politica il realismo e l’utopia rinascimentali si trovano pienamente d’accordo. Machiavelli: la politica come tecnica del potere. N iccolò Machiavelli (1469-1527) è colui che per primo ha teorizzato la fondazione della politica su sé stessa e la giustificazione del potere in base al potere stesso, trattando in particolare del nascere e del perire degli Stati e delle condizioni per cui è possibile conservare il loro dominio. Quest’ultimo costituisce il tema di un’opera tanto piccola di mole quanto enorme negli effetti esercitati su tutto il pensiero politico moderno, vale a dire Il principe (1513). Da uomo pienamente calato nelle vicende e nella cultura del suo tempo, Machiavelli s’interroga sull’atteggiamento virtuoso – in senso rigorosamente naturalistico – che deve assumere un principe per costruire il “principato”, con la rapace determinazione di chi sa bene cosa vuole ed è abbastanza spregiudicato da non frapporre tra sé e la sua opera alcun altro criterio che la volontà di potenza. Un ulteriore elemento tipico del discorso di Machiavelli è la dolente consapevolezza che tutto è sospeso ai casi della fortuna, di modo che la scienza della politica e le sue leggi funzionano soltanto quando s’incarnano nella decisione fortuita degli uomini di genio, di armi e di potere.

Scardinando l’impostazione tradizionale, secondo Machiavelli non si deve partire da un modello ideale (il principe buono) a cui conformare o in base al quale giudicare le realizzazioni concrete, ma al contrario bisogna partire da queste ultime per stabilire in maniera scientifica che cosa vuol dire far bene il principe, cioè conquistare e conservare il potere. In altri termini, essere un buon principe non significa affatto essere un principe buono e infatti l’esercizio del potere sta al di qua del bene e del male. Quando si entra nel campo della politica, tutto in realtà si riduce a politica. N on basta dunque dire che in Machiavelli la politica diventa autonoma rispetto alla morale, ma si dovrà aggiungere che la politica fonda un nuovo tipo di moralità, fatta consistere nella conservazione del potere per nessun altro scopo che il potere stesso. Questo è il senso della celebre dottrina di Machiavelli, secondo la quale in politica non bisogna giudicare i mezzi che si usano, ma solo i fini per cui li si usa: una posizione che non a caso ancora oggi nel linguaggio comune è espressa dall’aggettivo “machiavellico”. Thomas More: la politica come utopia del potere. Thomas More (1478-1535) rientra tra gli esponenti dell’Umanesimo europeo con i quali condivise la passione per gli studi classici e l’impegno attivo nella politica: tra le diverse cariche pubbliche fu anche lord cancelliere, incarico dal quale si dimise per non voler accettare la sottomissione della Chiesa di Inghilterra al re Enrico VIII e per rimanere fedele alla Chiesa cattolica romana. Questa sua decisione lo porterà all’accusa di alto tradimento, alla prigionia nella Torre di Londra e alla decapitazione. Per questo motivo egli sarà dichiarato santo dalla Chiesa cattolica. La riflessione di More nasce da una pratica diretta nell’esercizio del potere politico e il suo scritto sull’utopia si presenta, per contrasto, come una ben precisa critica alle condizioni socio-economiche e giuridico-politiche dell’Inghilterra del tempo. More dialoga infatti con un immaginario marinaio portoghese, il quale racconta di un’isola chiamata appunto Utopia, dal greco u-tòpos, che vuol dire ‘in nessun luogo’. L’isola di

Utopia è interamente strutturata attorno all’idea di uguaglianza sociale, dovuta al fatto che nessuno possiede niente per sé, ma tutto è in comune e le stesse cariche di governo elettive, con le poche leggi vigenti nella società, hanno la sola funzione di garantire la permanenza di questa assoluta uguaglianza. Un siffatto ideale si riflette anche nella più completa tolleranza religiosa che vige tra gli “utopiani”: ciascuno può scegliere la religione che gli è più congeniale, giacché al fondo tutte le dottrine e tutte le fedi – compresa quella cristiana – si uguagliano. Jean Bodin: la sovranità dello Stato. Con Jean Bodin (1530-1596) il pensiero politico rinascimentale giunge a teorizzare il concetto di “sovranità”. Bodin fu giurista, storico e parlamentare, in un momento in cui in Francia era all’ordine del giorno il problema drammatico degli scontri religiosi. Tutta l’attività di scrittore e di teorico di Bodin risente profondamente di questo sfondo politico-religioso, e non è un caso se per lui la ricerca di una concordia tra le diverse confessioni vada di pari passo con una concezione della sovranità statale in termini sempre più assolutistici. L’opera più importante di Bodin sono i Sei libri sullo Stato (1576). In questo testo troviamo la prima codificazione moderna del lessico dello Stato, in cui sono riprese le dottrine antiche e quelle medievali, ma con uno spirito nuovo, portando in primo piano il carattere della sovranità come struttura impersonale del potere. Il sovrano è, infatti, «sciolto dalle leggi» che egli stesso promulga e che «dipendono unicamente dalla sua pura e libera volontà». Questo però non vuol dire mai per Bodin riduzione all’arbitrio o al capriccio del sovrano, poiché «il potere assoluto dei prìncipi e delle signorie sovrane non si estende in alcun modo alle leggi di Dio e della natura». Diritto e politica tra Vecchio e N uovo Mondo. Un ruolo di grande rilievo nella riflessione politica tra Cinquecento e Seicento è svolto dalle discussioni interne alla teologia scolastica: da un lato, infatti, sono coltivate le teorie politiche medievali, ma dall’altro si cerca di corrispondere, sul piano della dottrina dello Stato e del

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SINTESI CAPITOLO 7

Nuove teorie della politica e del diritto capitolo 7 potere sovrano, alle mutate condizioni dell’Europa – con Stati nazionali sempre più indipendenti rispetto alla Chiesa – e del Nuovo Mondo, con tutti i problemi aperti riguardo alla legittimità della sottomissione delle popolazioni indie. La filosofia del diritto negli scolastici spagnoli tra Cinquecento e Seicento. L’Università di Salamanca nel XVI secolo può essere considerata come un centro propulsore della riflessione politica a livello mondiale, soprattutto grazie alla presenza del teologo domenicano Francisco de Vitoria. Lo Stato per Vitoria è una “comunità perfetta”, il cui scopo è quello di promuovere il bene comune e garantire i diritti dei cittadini. L’autorità di uno Stato risiede direttamente nell’intera comunità, la quale trasferisce poi ad una o più persone il compito storico e delimitato del governo politico. La sovranità dello Stato, dunque, non risiede affatto – come in Bodin – nel potere assoluto di emanare delle leggi che valgono solo per i sudditi e non per il sovrano. Sarà poi con Francisco Suárez che il diritto internazionale troverà la sua codificazione definitiva, all’interno di un più generale sistema della legge. N el trattato De legibus il teologo gesuita definisce la legge come «un precetto comune giusto e stabile, promulgato in maniera sufficiente». Su questa base si dovrà distinguere tra due tipi di diritto: 1. un diritto naturale, che riguarda la “legge di natura”; 2. un diritto positivo, che riguarda invece la legge imposta dalla volontà di un legislatore, sia esso Dio o un’autorità umana. Questo vuol dire che la legge positiva, divina o civile che sia, non discende dalla

legge naturale, ma è aggiunta rispetto ad essa. Anche per Suárez, come per Vitoria, l’immagine di Stato che emerge da questo quadro giuridico è tale da possedere una sovranità di tipo non assoluto. A partire da questa impostazione si capiscono anche gli esiti più estremi e sorprendenti che la Scolastica gesuita generò in campo politico, se si pensa a un autore quale Juan de Mariana (1535-1624). N ello scritto intitolato Sul re e sull’istituzione della monarchia egli ricostruisce la nascita di questo sistema politico come conseguenza dell’antagonismo nato in seno alla società nel momento in cui alla libera e pacifica comunione dei beni sono subentrate la proprietà individuale, la cupidigia, l’ingiustizia sociale e le continue discordie. Di qui nasce la volontà degli appartenenti ad una comunità civile di fare un patto per l’instaurazione di un ordine politico da affidare alla garanzia di un sovrano. Ma quest’ultimo è, appunto, strettamente legato a tale patto, ha l’obbligo di accettare e sottomettersi egli stesso alle leggi promulgate da un’assemblea rappresentativa dei cittadini, e nel caso risulti indegno a governare trasformandosi addirittura in un tiranno, può essere non solo legittimamente rimosso (come per Suárez), ma senz’altro ucciso (tirannicidio). La controversia sugli indios. Un caso esemplificativo di grande valore dottrinale e simbolico è la disputa che sorse intorno al problema dei diritti naturali delle popolazioni indie d’America, nonché al problema del legittimo dominio su di essi da parte dell’imperatore. Tra le diverse voci dei teologi e dei giuristi che intervennero

sul problema, si impose da subito quella di Francisco de Vitoria, che in una sua celebre conferenza pubblica del 1539 sulla questione degli indios (Relectio de indis) aveva sostenuto il diritto di questi ultimi ad essere veri padroni dei beni che possedevano prima dell’arrivo degli spagnoli. La questione sarà riproposta in una celebre controversia svoltasi a Valladolid tra il 1550 e il 1551: due tesi si fronteggiano, la prima è dello storico e giurista Juan Ginés de Sepúlveda (1490-1573), il quale ritiene sia lecito far guerra agli indios e dominarli 1. per la gravità dei delitti compiuti dagli indios, come l’idolatria e i peccati contro natura, 2. per la rozzezza della loro intelligenza, che li rende per natura gente barbara e servile, obbligata a sottomettersi ai popoli più intelligenti, 3. per l’utilità che un assoggettamento degli indios avrebbe per l’evangelizzazione, 4. per l’ingiustizia che esiste tra quelle genti, avvezze a compiere sacrifici umani e antropofagia. La tesi contrapposta è quella del domenicano Bartolomé de Las Casas (1484-1566), secondo il quale nessuno di quei quattro argomenti è sufficiente a giustificare una guerra di conquista e di sottomissione delle popolazioni del N uovo Mondo: a livello antropologico, infatti, egli afferma l’uguaglianza naturale degli uomini e dei popoli; a livello politico la libertà e la sovranità delle comunità indie a tutti i livelli e la loro federazione in un’organizzazione sovranazionale. Solo vent’anni dopo la disputa di Valladolid Filippo II porrà fine alle guerre di “conquista” e avvierà un processo di pacificazione con le popolazioni del Nuovo Mondo.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

Opere

N. Machiavelli, Il principe, a cura di G. Inglese, Einaudi, Torino 1995. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, a cura di G. Inglese, introd. di G. Sasso, Rizzoli, Milano 19962. Th. More, Utopia o la migliore forma di repubblica, trad. di T. Fiore, Laterza, Roma-Bari 2008. J. Bodin, I sei libri sullo Stato, a cura di M. Isnardi Parenti e D. Quaglioni, 3 voll., Utet, Torino 1964, 1984, 1997. F. de Vitoria, Relectio de Indis La questione degli indios, a cura di A. Lamacchia, testo latino a fronte, Levante, Bari 1996. F. Suárez, De legibus [Sulle leggi], a cura di L. Pereña et al., 11 voll., Madrid 1971-77. «La Giunta di Valladolid del 1550: il Sommario di Domingo de Soto», in: B. Las Casas - J.G. de Sepúlveda, La controversia sugli Indios, a cura di S. Di Liso, Edizioni di Pagina, Bari 2007.

Di Vitoria, oltre alle lezioni sugli indios, va tenuto presente un breve scritto che mette a fuoco la dottrina sulla liceità e le condizioni della guerra: • F. de Vitoria, De iure belli, trad. di C. Galli, Laterza, Roma-Bari 2005.

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ESERCIZI

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Studi critici Un racconto avvincente della vita e dell’ambiente di Machiavelli è offerto da: M. Viroli, Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Laterza, Roma-Bari 2000.

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Un’introduzione agile e chiara al pensiero di More è quella di: E.-M. Ganne, Tommaso Moro. L’uomo completo del Rinascimento, San Paolo, Cinisello Balsamo 2004. Per un primo approccio alle categorie di fondo del pensiero di Bodin: D. Marocco Stuardi, La République di Jean Bodin. Sovranità, governo, giustizia, Franco Angeli, Milano 2006.

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Sul pensiero politico di Machiavelli lo studio più completo in italiano è quello di: G. Sasso, Niccolò Machiavelli: I. Il pensiero politico, II. La storiografia, il Mulino, Bologna 1993.

Una limpida introduzione al pensiero teologico-politico di Francisco de Vitoria, tra il Vecchio e il Nuovo Mondo, è offerta da: A. Lamacchia, Francisco de Vitoria e l’innovazione moderna del diritto delle genti, introd. a: F. De Vitoria, Relectio de Indis - La questione degli indios, cit. (in “Fonti”), pp. IX-XCIV.

Per approfondire il realismo politico di Machiavelli come fattore fondamentale del mondo moderno: G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello Stato, la cognizione delle storie, Carocci, Roma 2006.

Per comprendere il tipo di problematica discusso dai teologi politici dell’epoca si consiglia: D. Ferraro, Tradizione e ragione in Juan de Mariana, Franco Angeli, Milano 1989.

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1. Descrivi il processo di trasformazione della politica all’inizio dell’età moderna in una pratica autoreferenziale che ha la sua esclusiva ragion d’essere in sé stessa (max 10 righe). 2. Spiega perché, alle soglie dell’età moderna, la politica sembra trasformarsi in una tecnica di conservazione del potere mentre le finalità ideali dell’agire politico, quali la ricerca della felicità degli uomini o del bene comune, sono relegate nel regno dell’utopia (max 10 righe). 3. Spiega perché il compito che Machiavelli assegna alla scienza della politica consiste nel cercare di arginare la fortuna mediante la “virtù” (max 10 righe). 4. Illustra il senso della dottrina di Machiavelli secondo la quale in politica non bisogna giudicare i mezzi che si usano ma solo i fini per cui li si usa (max 10 righe).

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5. Contro i teorici dell’assolutismo politico, l’autorità per la tarda Scolastica spagnola non è esclusiva prerogativa del sovrano. Commenta questo assunto (max 15 righe). 6. Discuti la tesi di Suárez secondo la quale la legge positiva non discende dalla legge naturale ma è aggiunta rispetto ad essa (max 10 righe). 7. Descrivi la genesi dello Stato secondo Juan de Mariana (max 10 righe). 8.Confronta le posizioni contrastanti assunte in merito al problema dei diritti naturali degli indios (max 15 righe).

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parte II

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L’ORIZZONTE CARTESIANO E I NUOVI SISTEMI DELLA METAFISICA RAZIONALISTICA

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capitolo 8

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René Descartes

1 Il desiderio del vero e le misure della ragione Tutto il pensiero di René Descartes (noto anche con il nome italianizzato di Cartesio) nasce dal senso acuto di una perdita e dall’ostinato tentativo di riconquistare quello che sembrava irrimediabilmente perso: l’evidenza della realtà, ossia la presenza del vero. Ciò che nelle epoche precedenti sembrava essere un dato acquisito – il rapporto dell’io con il reale – ora appariva in tutta la sua problematicità; e tale condizione non era dovuta soltanto, come in passato, agli inevitabili contrasti tra dottrine filosofiche o concezioni del mondo diverse tra loro. La natura della crisi era più radicale, perché non si trattava più di stabilire e giustificare la verità di una teoria rispetto a quella di un’altra, ma della possibilità stessa che si desse la verità. Da qui rinasce il desiderio che sta all’origine del tentativo di Descartes, e che lui stesso ha descritto in questi termini: «e avevo sempre un estremo desiderio d’imparare a distinguere il vero dal falso, per vedere chiaro nelle mie azioni e procedere con sicurezza in questa vita» [Discorso sul metodo, parte I].

Dalla perdita il desiderio e dal desiderio la ricerca che mira a ritrovare – attraverso l’io e nell’io – quello che non è più evidente fuori di esso. La ragione umana ha smarrito l’evidenza del mondo: non la constatazione immediata che le cose ci sono, così come quotidianamente si affollano attorno a me e dentro di me, ma la certezza del loro essere, il senso stesso della loro verità; un senso che nessuna esperienza riusciva più a restituire, né le percezioni sensibili, né le idee intellettuali e nemmeno la fede religiosa. Tutte queste modalità continuavano a sussistere, ma come svuotate della loro consistenza ontologica. Che cosa veramente percepisco con i miei sensi? Immagini cangianti e inaffidabili. Qual è la certezza che mi assicurano le mie idee? Niente più che una serie di opinioni probabili. Qual è l’oggetto della teologia? Una prescrizione morale per guadagnare il cielo, non la conoscenza di ciò che veramente esiste sulla Terra. Senza immedesimarsi con la dolente consapevolezza di questa crisi – che peraltro Descartes condivide con alcuni degli spiriti più acuti vissuti in Europa tra il Cinquecento e il Seicento, da Shakespeare a Cervantes, da Montaigne [ 1.8] a Pascal [ 11.4-7] – non si compren-

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René Descartes capitolo 8

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derebbe quella che viene giustamente definita la novità rivoluzionaria del suo pensiero. Una novità con la quale si è soliti far cominciare l’“età moderna” in filosofia. Con Descartes, infatti, prende forma quella pretesa tipica della ragione moderna di costituire in sé stessa la misura assoluta della realtà, in base alle regole dell’evidenza matematica. E tuttavia questa sua concezione non risolve affatto la crisi da cui era nata, ma continua a portarla dentro di sé: d’ora in avanti il pensiero dell’uomo indicherà per lo più una sfera racchiusa in sé stessa e separata rispetto alla corporeità, così come la natura fisica sarà ridotta a puro meccanismo geometrico, e l’unità del mondo sarà irrimediabilmente scissa nel dualismo tra la sostanza pensante e la sostanza estesa. La crisi di partenza ha lasciato le sue cicatrici nello spirito che ha cercato di superarla con le sue sole forze; e si tratta di ferite che continueranno a riaprirsi nel corso di tutta l’epoca moderna. 1. L’intera ricerca di Descartes muove: a. dalla perdita dell’evidenza del mondo. b. dalla perdita della certezza ontologica della realtà. c. dalla perdita della constatazione immediata e quotidiana dell’esistenza delle cose. d. dal desiderio di conciliare tra loro dottrine filosofiche e concezioni del mondo contrastanti.

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2. La “novità rivoluzionaria” della speculazione di Descartes consiste nell’aver dato vita: a. all’indagine razionale sulla realtà in filosofia. b. all’indagine matematico-razionale sulla realtà. c. alla ragione moderna, intesa come facoltà di calcolo matematico. d. alla ragione moderna, intesa come misura assoluta della realtà.

2 Un pensiero in prima persona È stato lo stesso Descartes a presentare la sua vita non solo come una biografia individuale, ma come l’itinerario esemplare di una scoperta filosofica. Come scrive all’inizio del Discorso sul metodo:



Il mio scopo qui non è di insegnare il metodo che ciascuno deve seguire per ben condurre la

propria ragione, ma solamente di far vedere in quale maniera ho cercato di condurre la mia. Coloro che si prendono la briga di dare dei precetti devono considerarsi più abili di coloro ai quali li danno, e se mancano nella più piccola cosa sono da biasimare. Ma, proponendo questo scritto semplicemente come una storia, o se preferite come una favola, nella quale, insieme ad alcuni esempi che si possono imitare, se ne troveranno forse molti altri che si avrà ragione di non seguire, spero che esso sarà utile a qualcuno, senza esser nocivo a nessuno, e che tutti mi saranno grati della mia franchezza. [Discorso sul metodo, parte I]



Nato il 31 marzo 1596 a La Haye, nella regione francese della Turenna, nel 1604 Descartes entra nel collegio dei gesuiti di La Fléche, una delle scuole migliori dell’epoca. Vi resterà nove anni, seguendo i corsi previsti dalla “ratio studiorum” (vale a dire il piano di studi) di quel tipo di collegi: dopo un primo anno preparatorio, tre anni erano dedicati allo studio della grammatica, il quinto e il sesto alla retorica e i restanti tre allo studio della filosofia, nella quale rientravano per tradizione la logica, la filosofia naturale, la matematica, la metafisica e la morale. Le discipline filosofiche erano insegnate sulla base dei testi di Aristotele, con l’integrazione di celebri commenti e manuali scolastici (come quelli di Fonseca:  6.3.2, di Toledo e di Suárez:  6.4). Questa esperienza di formazione segnerà il terreno di coltura della decisione filosofica ed esistenziale più importante della vita di Descartes: da un lato, infatti, egli è ben consapevole di aver studiato con i maestri migliori, eredi di una grande tradizione filosofica, e di aver appreso al massimo livello il sapere disponibile nel quadro delle discipline umanistiche e scientifiche dell’epoca; dall’altro lato, ricava da questa esperienza una profonda delusione riguardo all’aspettativa di guadagnare «una conoscenza chiara e sicura di tutto ciò che serve nella vita». Così:



non appena ebbi compiuto tutto quel corso di studi, alla conclusione del quale si è di solito accolti nel rango dei dotti, cambiai completamente parere. Infatti mi trovai imbarazzato da tanti dubbi ed errori che mi parve di non aver tratto altro profitto dai miei tentativi di istruirmi, che quello di aver scoperto sempre di più la mia ignoranza. [Discorso sul metodo, parte I]



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Non che egli non apprezzasse tutte le discipline studiate: lo studio delle lingue e delle “favole antiche”, e quello della storia certamente risvegliano ed elevano lo spirito. Tuttavia, l’eloquenza e la poesia gli apparivano «più doni dello spirito che frutti dello studio», tant’è vero che coloro che hanno dei pensieri razionali, cioè chiari e intelligibili da comunicare, possono farlo efficacemente «quand’anche parlassero solo il basso bretone», senza saper nulla di retorica. Le matematiche invece gli piacevano «per la certezza e l’evidenza dei loro ragionamenti», ma si stupiva che dei fondamenti così fermi e solidi servissero solo come supporto e strumento per le arti meccaniche (come le discipline tecnico-applicative degli ingegneri). Anche gli scritti degli antichi sui costumi e sulle virtù gli apparivano alla stregua di magnifici palazzi costruiti sulla sabbia, perché non basati su una vera conoscenza delle umane passioni. La teologia, poi, prendendo in considerazione le verità rivelate che “conducono al cielo”, costituiva una via aperta “ai più ignoranti non meno che ai più dotti”, giacché tali verità sopravanzano nettamente le capacità della nostra intelligenza. E che dire della filosofia se non che, pur essendo stata coltivata nei secoli passati da eccellenti ingegni, non ha ancora stabilito nulla che non sia oggetto di continua disputa, e quindi rimane dubbia. Così, «considerando quante opinioni diverse possano esserci su uno stesso argomento, tutte sostenute da dotti, mentre non ve ne può essere mai più di una che sia vera, considerai come se fosse falso tutto ciò che era solo verosimile». Allo stesso modo quelle scienze che prendono i loro princìpi dalla filosofia, come la giurisprudenza e la medicina, promettono e procurano onori, posizione sociale e guadagni, ma mancano di veri fondamenti.



Ecco perché, non appena l’età mi permise di uscire dalla tutela dei miei precettori, abbandonai interamente lo studio delle lettere. E, risoluto a non cercare più altra scienza che quella che potessi trovare in me stesso o nel gran libro del mondo, impiegai il resto della mia giovinezza a viaggiare, a vedere corti ed armate, a raccogliere esperienze diverse, a mettere me stesso alla prova delle diverse occasioni che la sorte mi offriva e a riflettere in ogni circostanza sulle cose che mi capitavano, in modo da poterne trarre qualche profitto. [Discorso sul metodo, parte I]



E così, dopo aver preso i due gradi accademici del baccellierato e della licenza in diritto a Poitiers nel 1616, nel 1618 Descartes si arruola nell’esercito olandese comandato dal principe Maurizio di Nassau-Orange. Nello stesso anno scrive il suo primo saggio, il Compendium musicae che dedica all’amico Isaac Beeckman (convinto sostenitore della riducibilità di tutti i problemi di fisica a puri processi meccanici) e coltiva studi di meccanica e di geometria, connessi con le arti militari. Nel frattempo, dopo aver acquisito una certa esperienza dei differenti usi e costumi degli uomini e dei popoli – senza peraltro trovare in essi più certezza di quanta ne trovasse nelle discussioni dei filosofi – arriva alla decisione «di studiare anche in me stesso e di impiegare tutte le forze del mio ingegno a scegliere le vie da seguire». N el 1919 cambia esercito, arruolandosi in quello del duca Massimiliano di Baviera, quando era già iniziata la guerra dei Trent’anni, e assiste all’incoronazione dell’imperatore Ferdinando II a Francoforte. Di ritorno da questo viaggio, bloccato dal rigore della stagione, è costretto a fermarsi a N euberg, presso Ulm, e qui soggiorna, senza parlare o distrarsi con nessuno, libero da passioni e da preoccupazioni; come scrive lui stesso: «rimanevo tutto il giorno solo, chiuso in una stanza scaldata da una stufa, dove avevo tutto l’agio di intrattenermi con i miei pensieri». È in una di queste giornate, il 10 novembre 1619, che Descartes scopre, pieno di entusiasmo, «i fondamenti di una scienza meravigliosa», e quella stessa notte fa tre strani sogni, che gli confermano il carattere straordinario della sua intuizione di un nuovo metodo, grazie al quale il suo cammino incerto e traballante alla ricerca del vero avrebbe trovato finalmente un appoggio stabile e un criterio di giudizio irrevocabile. Nel 1620 lascia l’esercito e riprende a viaggiare. Tra il 1625 e il 1628 risiede a Parigi, entrando in contatto – anche tramite Marino Mersenne, appartenente all’Ordine dei “minimi” e diventato punto di riferimento nel vivacissimo ambiente intellettuale parigino – con scienziati, soprattutto medici e ingegneri, con matematici e con teologi. In questi anni Descartes si dedica a studi di ottica sulla rifrazione e compone, senza concluderle, le Regole per la guida dell’intelligenza, che saranno pubblicate solo dopo la sua morte. Nel 1628 sceglie di trasferir-

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dove morirà di polmonite l’11 febbraio 1650. Le sue spoglie sono conservate nella chiesa di Saint-Germain-des-Prés, a Parigi.

1. Il fine esplicitamente indicato da Descartes con cui nasce il Discorso sul metodo è quello: a. di insegnare il metodo che tutti devono seguire per usare correttamente la propria ragione. b. di mostrare il metodo con cui egli ha personalmente condotto la propria ragione. c. di giungere per via teorica al metodo da seguire per distinguere il vero dal falso. d. di mostrare come la sua personale formazione a La Fléche gli abbia indicato il metodo da seguire per distinguere il vero dal falso. 2. Dopo l’esperienza formativa a La Flèche, Descartes matura la decisione di: a. cercare la scienza in sé stesso e nel libro della natura. b. dedicarsi all’approfondimento degli studi iniziati al collegio. c. accantonare lo studio della filosofia per dedicarsi a quello delle arti militari. d. integrare lo studio delle lettere con le scienze che avrebbe potuto apprendere viaggiando per il mondo.

3 Il problema del metodo 3.1 La critica alla logica scolastica Quando ci si accosta per la prima volta allo studio del pensiero di Descartes difficilmente può sfuggire la sua insistenza sulla questione del metodo. In effetti, questa prima impressione coglie in pieno la natura del progetto cartesiano: fondare una scienza in cui la verità dei risultati conseguiti dipenda da una ricerca e da un’indagine condotte metodicamente, cioè sulla base di un metodo capace di portare la conoscenza umana al suo più alto grado di perfezione. A questo progetto sono dedicati due dei principali scritti cartesiani: le Regole per la guida dell’intelligenza e il Discorso sul metodo. L’esigenza di un metodo capace di garantire alla scienza progressi certi nasce prestissimo in Descartes. Come si è visto, la convinzione maturata alla fine del suo corso di studi a La Fléche è che l’intero sapere tradizionalmente impartito nelle Scuole non meritasse affatto il nome di scienza. E questo non solo a motivo

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si definitivamente in Olanda, luogo più tranquillo per il suo lavoro, dove comunque intesserà una ricca trama di rapporti con uomini dotti delle diverse discipline a Leida, a Utrecht e ad Amsterdam. Nei primi anni Trenta scrive un trattato di fisica meccanicistica intitolato Il Mondo, in cui tra l’altro viene sostenuta decisamente la concezione eliocentrica dell’Universo, ma che non pubblica per prudenza, dopo aver appreso della condanna di Galileo avvenuta nel 1633 [u 5.13]. Nel 1637 appare la sua prima opera a stampa, il Discorso sul metodo, seguito da tre saggi scientifici in cui tale metodo viene applicato, cioè La diottrica, Le meteore e La geometria. La condizione di studioso appartato ed estraneo alle istituzioni accademiche, tipica di Descartes, andrà sempre di pari passo con un costante e intenso scambio con l’ambiente intellettuale dell’Europa del tempo. Basti pensare che la sua principale opera metafisica, le Meditazioni sulla filosofia prima, fu pubblicata tra il 1641 e il 1642 con in appendice una serie di ben sette Obiezioni da parte di altri filosofi e teologi assieme alle relative e puntuali Risposte di Descartes. Tuttavia, sin dall’inizio la filosofia cartesiana, oltre a suscitare grande interesse e approvazione, fu anche duramente osteggiata e in alcuni casi vietata, come per esempio nell’Università di Utrecht, con l’accusa di pelagianesimo (l’eresia secondo la quale la natura umana non è corrotta dal peccato originale e quindi per salvarsi non necessita della grazia, ma solo del retto uso della volontà naturale) e addirittura di ateismo da parte di ambienti calvinisti. Va detto comunque che Descartes ebbe come convinti sostenitori diversi teologi di ambito protestante e soprattutto cattolico. N el 1644 appaiono i Princìpi della filosofia, opera in cui Descartes presenta in maniera sistematica la sua metafisica assieme alla sua fisica. L’opera è dedicata alla principessa Elisabetta, figlia di Federico V del Palatinato, divenuta nel frattempo corrispondente e amica del filosofo. Su sollecitazione di Elisabetta inizierà a comporre, nel 1645, le Passioni dell’anima, che saranno pubblicate quattro anni più tardi. N el 1647, a Parigi, Descartes visita Pascal infermo. Nel 1649 accetta l’invito della regina Cristina di Svezia – che voleva apprendere direttamente da lui la sua filosofia – e si trasferisce a Stoccolma,

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della permanente incertezza delle dottrine insegnate – dal momento che ciascuna di esse poteva sempre essere falsificata da un’altra – ma, soprattutto, perché nel sapere impartito nelle Scuole risultava del tutto assente ciò che invece costituiva per lui l’essenziale: un metodo capace di acquisire e di garantire la verità dei risultati di una scienza. È in questa prospettiva che si spiega il rifiuto cartesiano della logica scolastica. Gli scolastici – seguendo Aristotele – ritenevano che il momento più importante della logica si trovasse nel sillogismo, vale a dire in una forma mediata di ragionamento in cui, partendo da due premesse, si ricava, grazie ad un termine medio presente in entrambe, una conclusione necessaria. Ma proprio per questo, agli occhi di Descartes, quella della Scolastica non è una vera e propria logica, ma soltanto una dialettica (o scienza dell’argomentazione): essa, infatti, non permette di scoprire nuove verità e di ampliare di conseguenza la conoscenza, ma serve esclusivamente a spiegare o ad esporre ciò che è già noto o, peggio ancora, a parlare inopportunamente e senza giudizio di cose che si ignorano. In altri termini, Descartes interpreta il sillogismo come un mezzo esplicativo, ossia come una modalità argomentativa – cioè, appunto, uno strumento della dialettica – e non lo ritiene, come preteso dalla Scolastica aristotelica, uno strumento logico effettivamente capace di garantire al sapere uno sviluppo necessario. Questo non vuol dire che secondo lui le conclusioni alle quali permette di accedere il sillogismo non siano vere, o formalmente corrette, ma soltanto che esse mancano di fecondità, cioè non aggiungono nulla al sapere già posseduto prima. La vera logica per Descartes è invece «quella che insegna a ben condurre la propria ragione per scoprire le verità che si ignorano». In quanto tale, essa è dunque una logica della scoperta e in questo senso costituisce l’essenziale del suo metodo. La scienza, ai suoi occhi, non è infatti la semplice esposizione o ripetizione di un sapere scoperto da altri, già in sé compiuto, e di cui si debbano solo ricordare i risultati, ma è l’orizzonte in cui si inscrive una ricerca del vero che è sempre individuale e personale. Per chiarire questo aspetto, ci si può servire di un esempio che figura nella III delle Regole per la guida dell’intelligenza: “matematico”, per

Descartes, non è chi conosce tutte le dimostrazioni della matematica, ma piuttosto chi è in grado di scoprirne di nuove e possiede il metodo che occorre seguire per farlo; e, allo stesso modo, non è “filosofo” colui che conosce tutte le dottrine di Aristotele o di Platone, ma solo colui che è in grado condurre la propria ragione alla verità senza essere indotto in errore dalla mancanza di un metodo adeguato. A cosa servirebbe, infatti, possedere una conoscenza senza sapere come vi si è pervenuti o senza essere in grado di riutilizzare tale metodo per giungere a nuove e più estese conoscenze? 1. La critica che Descartes muove al sapere tradizionale consiste: a. nell’incertezza delle dottrine insegnate. V b. nel fatto che una dottrina potesse essere falsificata da un’altra. V c. nell’assenza di un metodo. V d. nell’assenza di un rigoroso metodo sillogistico. V

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2. La critica che Descartes muove alla logica sillogistica scolastica consiste: a. nell’essere semplicemente uno strumento esplicativo che mette capo a conclusioni vere o formalmente corrette. b. nell’essere semplicemente uno strumento esplicativo che mette capo ad acquisizioni nuove, ma di dubbia consistenza. c. nell’essere semplicemente una logica alternativa alla dialettica. d. nell’essere semplicemente una logica assai differente dalla “scienza dell’argomentazione”. 3. La vera logica per Descartes: a. è strumento che fa guadagnare nuove conoscenze tramite un corretto uso della ragione. b. è strumento che fa guadagnare in modo definitivo la totalità delle conoscenze nei vari ambiti del sapere. c. è strumento che non tanto estende le conoscenze quanto mostra gli errori della ragione umana. d. è strumento che mostra in modo esaustivo tutto ciò che si conosce intorno ad un sapere.

3.2 Il metodo come esigenza della ragione La scienza dunque, prima ancora che conoscenza di verità, è conoscenza del metodo. Senza il metodo, infatti, la stessa verità sarebbe inaccessibile. Questa connessione tra il metodo e i risultati che esso permette di conseguire è tale, secondo Descartes, che è preferibile non dedicarsi mai alla ricerca della verità, piuttosto che farlo senza disporre di un metodo. La ricerca della verità senza l’ausilio del metodo comporta infatti un

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doppio limite: da un lato, essa non è caratterizzata da alcuna certezza e sistematicità, in quanto fa affidamento esclusivamente sul favore del caso e della fortuna (e non, come dovrebbe, sull’ordine delle ragioni). Dall’altro lato, poi, essa disabitua la ragione – il lume naturale – a distinguere il vero dal falso, e la disabitua a tal punto che, quand’anche la ragione si imbattesse in un oggetto massimamente evidente, non sarebbe comunque in grado di ben giudicare e quindi di riconoscerlo:



Ed è molto meglio non pensar mai alla ricerca della verità di alcuna cosa, che farlo senza un metodo: poiché è certissimo che per tali studi disordinati e oscure meditazioni, si confonde il lume naturale e si acceca l’intelligenza; e tutti quelli che così si assuefanno a camminare nelle tenebre indeboliscono talmente la forza degli occhi, che di poi non possono sopportare la piena luce. Il che è provato anche dall’esperienza, quando molto di frequente vediamo che coloro i quali non si sono dedicati per nulla agli studi letterari giudicano, delle cose che si presentino loro, con molta maggior solidità e chiarezza di quanto facciano coloro che hanno sempre frequentato le scuole. [Regole per la guida dell’intelligenza, regola IV]



Il metodo della conoscenza non è dunque un problema di cultura o di scuola; al contrario, una formazione culturale che non avesse in sé sin dall’inizio il criterio metodologico per ben giudicare le cose, sortirebbe un effetto opposto, cioè impedirebbe, piuttosto che facilitare, il retto giudizio della ragione. Tale giudizio è una capacità naturale della nostra intelligenza – l’ingenium o lumen naturale – che il metodo deve appunto servire a realizzare. Da questo punto di vista, per Descartes, il metodo non è semplicemente ciò che permette di fare scienza, ma più radicalmente è ciò che costituisce la natura della mente umana. In altri termini – come si dice esplicitamente nelle Regole per la guida dell’intelligenza – il metodo è innato, cioè costituisce una sorta di capacità o talento naturale che ci troviamo addosso, e che non può essere insegnato o appreso dal di fuori. E la ragione principale di questo sta nel fatto che il metodo non è altro che l’elaborazione concettuale, in forma prescrittiva (ossia mediante regole), della maniera naturale di proce-

dere della mente umana. Esso, in altri termini, non è una collezione di regole imposte alla mente dall’esterno, ma si radica nella presa di coscienza da parte della mente umana della sua propria natura. Quello che Descartes ritiene di avere scoperto non è quindi un metodo, cioè una tra le possibili strategie per conseguire la conoscenza della verità, ma piuttosto il metodo, il solo che sia capace di realizzare interamente l’esigenza e le virtualità proprie della ragione. Ma in cosa consiste questo metodo?

3.3 I caratteri della scienza: unità, certezza, evidenza Per poter intendere appieno in che consista e come funzioni il metodo di cui parla Descartes, bisogna dunque innanzitutto chiarire in che consista e come funzioni la natura della mente umana. Tale natura consiste nella capacità di sapere che si realizza compiutamente nella scienza. Per questo, se non si capisce prima cosa sia la scienza e quali siano le sue caratteristiche di fondo, non si capisce il metodo. Ora, per dirla con una formula sintetica, la scienza per Descartes è caratterizzata soprattutto dall’essere una totalità certa ed evidente. Questa concezione della scienza non è affatto ovvia, come potrebbe sembrare, ma costituisce al contrario una delle tesi più proprie dell’epistemologia cartesiana, tant’è vero che è proprio da essa che prende le mosse la sua trattazione del metodo. La I delle regole per la guida dell’intelligenza esordisce infatti con una critica della consuetudine di concepire la scienza come la somma di una molteplicità di discipline fra loro incomunicabili. Anche qui, come nel caso del sillogismo e della logica, il bersaglio della critica cartesiana è la filosofia scolastica. Secondo gli scolastici, le scienze si costituiscono come discipline autonome, in quanto ciascuna di esse ha un oggetto specifico che richiede un metodo proprio: in altri termini, per gli scolastici esistono tante scienze autonome, e dunque tanti metodi, quanti sono i possibili oggetti di scienza. Secondo Descartes, al contrario, la principale caratteristica della scienza consiste nel fatto che essa è unica, unitaria e identica, e ciò a prescindere dalla diversità degli oggetti di cui si occupa di volta in volta. Questa tesi, agli occhi di

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Descartes, si giustifica in base all’unità della conoscenza umana – che egli chiama “sapere umano” (humana sapientia), “buona mente” (bona mens) o “sapienza universale” (sapientia universalis) – la quale garantisce l’unicità e l’unità della conoscenza scientifica:



Infatti, poiché tutte le scienze non sono nient’altro che l’umano sapere, il quale permane sempre uno e medesimo, per differenti che siano gli oggetti a cui si applica, né prende da essi maggior distinzione di quanta ne prenda il lume del Sole dalla varietà delle cose che illumina, non c’è bisogno di racchiudere la mente in alcun limite. [Regole per la guida dell’intelligenza, Regola I]



Da questa tesi, che già da sola costituisce uno degli elementi più originali della sua epistemologia, Descartes ricava un caposaldo del suo metodo: la necessità che, nella scienza, le singole verità siano connesse strettamente le une alle altre. Di conseguenza, è necessario apprendere le scienze particolari tutte assieme e conformemente ad un solo e identico metodo. Infatti, dal momento che la ragione umana è unica, sarà unico di conseguenza anche il suo metodo; e colui che si applicasse alle scienze in maniera separata, non farebbe che dissolvere il legame che connette tra di loro tutte quante le verità.



Ed è da ritenere che tutte [le scienze] sono così connesse tra loro, che è di gran lunga più facile impararle tutte insieme, che separare una sola di esse dalle altre. Se uno pertanto vuole indagare sul serio la verità delle cose, non deve scegliere una qualche scienza particolare, poiché sono tutte congiunte tra loro e dipendenti ciascuna dalle altre; ma pensi soltanto ad aumentare il lume della ragione. [Regole per la guida dell’intelligenza, Regola I]



La definizione cartesiana della scienza non si esaurisce però nella tesi dell’unità del sapere umano. Oltre che dall’unità e dall’unicità, infatti, la scienza è caratterizzata anche dalla certezza e dall’evidenza. A queste proprietà della scienza è dedicata la II delle regole per la guida dell’intelligenza; ma, come vedremo, l’evidenza costituirà anche il principale precetto che Descartes enuncerà, qualche anno più tardi, nella II parte del Discorso sul metodo. Basando la definizione della scienza sui caratteri dell’evidenza e della certez-

za, il fine di Descartes è quello di depurarla nettamente da ogni conoscenza probabile. La scienza, ai suoi occhi, non è una collezione di contenuti probabili, ma è l’insieme o il sistema delle verità che la mente umana è in grado di conoscere con il massimo di certezza e facendo affidamento sulla sola evidenza delle ragioni: «E così […] respingiamo tutte le cognizioni soltanto probabili, e giudichiamo che non si deve prestar fede se non a quelle perfettamente note e delle quali non si può dubitare» [Regole per la guida dell’intelligenza, Regola II]. Da questo deriva una conseguenza di fondamentale importanza. Se la scienza, qual è definita da Descartes, consiste esclusivamente nella conoscenza certa ed evidente, essa può occuparsi soltanto di quegli oggetti che la mente umana è in grado di conoscere perfettamente. E dunque, la prima cosa alla quale deve prestare attenzione chi si avvii alla ricerca della verità è di occuparsi soltanto di quegli oggetti alla cui conoscenza certa e indubbia sembra essere sufficiente l’intelligenza umana. In questa tesi troviamo inoltre un principio che risulterà poi decisivo per tutto il pensiero cartesiano, cioè l’esclusione definitiva di ciò che è dubitabile dall’ambito della scienza. La dubitabilità di una conoscenza – che è poi l’altra faccia del suo carattere probabile e non ancora certo – non significa mai per Descartes esercizio del giudizio: al contrario, essa coincide con l’incapacità di giudicare bene e in definitiva con l’ignoranza e con l’errore:



Ogni scienza è cognizione certa ed evidente; né chi dubita di molte cose è più dotto di chi non ha mai pensato ad esse, ma nondimeno appare più ignorante di esso, se di alcune concepisce falsa opinione; e sicuramente è meglio non studiare affatto che occuparsi di argomenti così difficili, che, non essendo noi capaci di distinguere il vero dal falso, si sia costretti ad ammettere cose dubbiose per certe. [Regole per la guida dell’intelligenza, Regola II]



1. Per Descartes la scienza: a. può occuparsi di una pluralità di oggetti d’indagine probabili. b. è sempre certa ed evidente, a prescindere dagli oggetti che indaga. c. non include nel suo ambito le conoscenze probabili. d. include nel suo ambito conoscenze indubitabili e conoscenze probabili.

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3.4 Le matematiche come modello di conoscenza certa ed evidente Una volta posta l’identità tra scienza e conoscenza certa ed evidente, ci si deve domandare se agli occhi di Descartes vi siano state o meno, nel corso della tradizione, delle discipline capaci di soddisfare questa definizione di scienza. Ora, tra le discipline tradizionali, solo nell’aritmetica e nella geometria – che nel Seicento erano complessivamente definite con l’appellativo plurale di “matematiche” – Descartes vede realizzato il suo ideale di scienza: e questo perché esse sole rifuggono quell’incertezza che egli rintraccia invece in tutte o quasi tutte le altre discipline che si arrogano del nome di scienza, ma in realtà si occupano solo di conoscenze probabili e dubitabili. Le matematiche costituiscono di conseguenza il modello normativo della scienza cartesiana. Per comprendere la ragione dell’esemplarità delle matematiche, ci si deve però chiedere da cosa dipenda la loro certezza e la loro evidenza.



Da queste cose si comprende chiaramente perché l’aritmetica e la geometria risultino di gran lunga più certe delle altre discipline; per il motivo cioè che esse sole vertono intorno ad un oggetto così puro e semplice, che non suppongono proprio alcuna cosa che l’esperienza abbia reso incerta, ma consistono interamente nel dedurre logicamente delle conseguenze. Esse sono pertanto fra tutte massimamente facili e chiare, e hanno un oggetto quale lo ricerchiamo, sì che sembra quasi non umano sbagliare in esse fuorché per inavvertenza. [Regole per la guida dell’intelligenza, Regola II]



Il carattere di semplicità e purezza degli oggetti dell’aritmetica e della geometria dipende dal fatto che essi sono costituiti da una concatenazione di ragioni in cui non rientra per nulla l’esperienza, e quindi non c’è il pericolo di offuscare l’evidenza della deduzione con ciò che per definizione è incerto o mutevole, appunto perché legato alla sensibilità. Così si cade in errore solo quando non si presta sufficiente attenzione a ciò che è semplice, e lo si evita quando si riconduce ciò che è complesso a ciò che è semplice. È questo che fa dunque delle matematiche il modello normativo della scienza certa ed evidente.

Descartes non si limita però ad attribuire un siffatto primato alle matematiche, cioè a rintracciare in esse il paradigma dell’evidenza; ma, dopo averlo fatto, si domanda se e in che modo la certezza e l’evidenza delle matematiche possano essere conseguite anche nelle altre discipline. Questa esigenza muove l’intera indagine cartesiana: valutare in che misura tutte le branche del sapere possano aspirare al titolo di conoscenze certe ed evidenti e, se possibile, definire un metodo che consenta di trasferire l’evidenza delle matematiche all’intero sapere. Per far ciò Descartes si interroga ulteriormente sulle ragioni del primato delle matematiche. Dire che le matematiche vertono su un oggetto semplice, puro e indipendente dall’esperienza significa ancora limitarsi ad una constatazione di fatto. Ciò che si deve fare, invece, è chiedersi cosa, nelle matematiche, fa sì che esse siano tali da essere colte dalla mente con la massima evidenza. Si deve cioè arrivare a chiedersi che cosa giustifichi – di diritto, non solo di fatto – la loro evidenza. Ebbene, Descartes rintraccia la radice dell’evidenza delle matematiche nel fatto che ciascuna di esse non è altro che un’applicazione particolare di una scienza più generale, detta mathesis universalis, che costituisce, rispetto alle singole discipline matematiche, una sorta di scienza fondamentale e prima. La peculiarità di questa scienza è che essa non si occupa di una materia particolare (come l’aritmetica, che si occupa dei numeri, o la geometria, che si occupa delle figure), ma di un oggetto che le accomuna tutte. Descartes rintraccia questo oggetto generale – valido per tutte le matematiche, ma al tempo stesso irriducibile ai loro oggetti propri e particolari – nell’ordine e nella misura:



A chi rifletta con maggiore attenzione diventa infine chiaro che si riferiscono alla mathesis solamente tutte quelle cose nelle quali si fa oggetto di esame l’ordine come pure la misura, e che non ha importanza se tale misura è da cercare nei numeri, o nelle figure, o negli astri, o nei suoni, o in qualunque altro oggetto; e quindi deve esserci una scienza generale, che spieghi tutto quello che si può desiderare circa l’ordine e la misura non riferita ad una materia specifica, ed essa sia chiamata mathesis universalis. [Regole per la guida dell’intelligenza, Regola IV]



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Tutte le scienze matematiche (non solo quelle pure, come l’aritmetica e la geometria, ma anche quelle applicate, come l’astronomia o la musica o la meccanica), quale che sia l’oggetto specifico di cui ciascuna di esse si occupa, si accordano nel fatto di avere a che fare, ciascuna in maniera diversa, con l’ordine e la misura. Non è dunque esatto dire che Descartes prenda il modello e le regole del suo metodo dalla matematica intesa come una scienza già stabilita e codificata; al contrario, aritmetica e geometria costituiscono ai suoi occhi due scienze paradigmatiche in quanto in esse si evidenzia con chiarezza la matrice fondamentale di tutti i nostri ragionamenti corretti, vale a dire la mathesis, quale struttura universale della nostra mente. Questa tesi non figura soltanto nelle Regole, ma costituisce una costante dell’epistemologia cartesiana. Essa sarà ribadita, in termini un po’ diversi, anche nel Discorso sul metodo [T10], dove Descartes tematizzerà la possibilità di trascendere la specificità degli oggetti delle scienze matematiche particolari e proporrà una scienza generale dei rapporti e delle proporzioni:



Così, dalla constatazione del primato delle matematiche e attraverso la transizione da esse alla mathesis universalis, Descartes può mettere a fuoco la struttura matematica (o matesica) di ogni scienza certa ed evidente: qualunque disciplina, quale che sia il suo oggetto, potrà essere certa ed evidente solo se si costituirà, sul modello delle matematiche, come una scienza dell’ordine e della misura o, come si dice nel Discorso, come una scienza delle proporzioni in generale. Solo organizzando ogni sapere conformemente a questo modello sarà possibile riprodurre, anche nelle altre scienze, la certezza e l’evidenza che caratterizzano le matematiche. E non è un caso che, come primo esempio di questa rifondazione del sapere in base a un sistema di puri rapporti e proporzioni, Descartes citi la sua stessa scoperta di una geometria analitica, sintesi geniale del calcolo algebrico e della figurazione geometrica, in cui delle grandezze discontinue, quali sono i numeri, vengono raffigurati tramite grandezze continue, cioè le linee, in un quadro di riferimento che, ancora oggi, chiamiamo gli “assi cartesiani” [ La geometria analitica cartesiana].

considerando che tra tutti coloro che prima d’ora hanno cercato la verità nelle scienze, non La geometria analitica ci sono stati che i soli matematici che hanno cartesiana potuto trovare alcune dimostrazioni, cioè dei ragionamenti certi ed evidenti, non Descartes è considerato, assieme a Pierre de Fermat, il ebbi alcun dubbio che ciò si dovesse fondatore della geometria analitica. L’obiettivo di quest’ultima fare a partire da quelle che essi hanè quello di elaborare una “costruzione geometrica” non servendono esaminato […]. Non per questo si principalmente di figure, come era stato fatto sino ad allora, quanprogettai di cercare di apprendere to piuttosto di procedimenti algebrici, come le equazioni: un problema tutte quelle scienze particolari geometrico va tradotto in simboli algebrici e, a loro volta, le operazioni che si chiamano comunemente algebriche vanno tradotte in figure geometriche. Quella che si afferma, dunmatematiche; e vedendo che, que, è una convertibilità delle relazioni geometriche con i rapporti algebrici. sebbene i loro oggetti siano di- La configurazione più famosa della geometria analitica è data dalle coordinate versi, tuttavia esse sono comun- geometriche o “assi cartesiani”: tra le diverse linee che si possono tracciare su que concordi nel non prenderne un piano, due di esse vengono prese come assi, uno inteso come variabile indiin considerazione altro che i di- pendente (x) e l’altro come variabile dipendente (y); tracciando da un punto versi rapporti o proporzioni che dato sull’asse y la perpendicolare a quest’ultimo, essa si incontrerà in un punto preciso con la perpendicolare all’asse x, e le linee o le curve che si vi si trovano, pensai che fosse potranno tracciare tra i diversi punti in cui si incrociano le perpendicolari meglio che io mi limitassi a esamicostituiranno delle “coniche” (iperboli, parabole ed ellissi). nare soltanto queste proporzioni in A differenza delle curve geometriche tracciate sensibilmente in generale, supponendole solo in queuno spazio dato con gli strumenti sensibili (riga e compasso), gli oggetti che servissero a rendermele curve “algebriche” permettono infatti di determinare e ne più agevole la conoscenza, senza corisolvere anche classici problemi irresolubili come munque vincolarle ad essi, per poterle poi la quadratura del cerchio o la trisezione deltanto meglio applicare a tutti gli altri cui l’angolo. convenissero. [Discorso sul metodo, parte II]



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René Descartes capitolo 8 1. Per Descartes le matematiche costituiscono il modello normativo della scienza perché: a. consistono in una concatenazione di argomentazioni rigorosamente dedotte dall’esperienza. V F b. il loro oggetto è puro e semplice, ovvero è slegato dalla sensibilità che è fonte di incertezza. V F c. la loro evidenza poggia su una scienza fondamentale e prima, detta mathesis universalis. V F d. si costituiscono come scienze dell’ordine e della misura. V F 2. La certezza e l’evidenza delle matematiche dipendono dal fatto che: a. le matematiche non hanno nulla a che fare con ciò che è mutevole. V F b. le matematiche costituiscono il modello normativo delle scienze. V F c. le matematiche non hanno nulla a che fare con l’esperienza. V F d. le matematiche sono scienze che deducono logicamente delle conseguenze. V F 3. La mathesis universalis in Descartes: a. giustifica di diritto l’applicazione del metodo matematico all’intero sapere. b. giustifica di fatto l’evidenza e la certezza delle matematiche. c. giustifica la purezza delle matematiche. d. giustifica il carattere unicamente deduttivo delle matematiche. 4. La mathesis universalis: a. è una scienza generale con un oggetto generale coincidente con l’ordine e la misura cercate nei numeri. b. è una scienza che costituisce un’applicazione particolare di una scienza più generale. c. è una scienza prima che ha per oggetto l’ordine e la misura colte al di là di ogni materia particolare. d. è una scienza particolare che ha per oggetto i rapporti e le proporzioni fra numeri o fra figure.

3.5. Gli operatori del metodo: l’intuito e la deduzione Dopo aver chiarito i caratteri definitori della scienza ed aver individuato nella mathesis il paradigma al quale l’intero sapere deve conformarsi, Descartes si domanda in che modo la mente umana debba procedere per guadagnare una conoscenza certa ed evidente non solo nell’ambito delle matematiche, ma anche in altre discipline. In risposta a questo interrogativo, nelle Regole egli prende in considerazione le diverse opera-

zioni della mente al fine di selezionare, tra di esse, quelle che permettono di conseguire in ogni scienza la certezza delle matematiche. Tali operazioni sono soltanto due: l’intuito (intuitus) e la deduzione (deductio). Dell’intuito Descartes fornisce la seguente definizione:



per intuito intendo non la incostante attestazione dei sensi o l’ingannevole giudizio dell’immaginazione malamente combinatrice, bensì un concetto della mente pura ed attenta tanto ovvio e distinto, che intorno a ciò pensiamo non rimanga assolutamente alcun dubbio; ossia, il che è il medesimo, un concetto non dubbio della mente pura ed attenta, il quale nasce dalla sola luce della ragione. [Regole per la guida dell’intelligenza, Regola III]



Subito dopo, Descartes enuncia alcuni esempi al fine di chiarire quali siano le conoscenze conseguite per intuito: «Così ciascuno può intuire con la mente che egli esiste, che il triangolo è delimitato da tre linee soltanto, che la sfera lo è da un’unica superficie e cose simili». Tutte intuizioni, queste, che sono presenti in gran numero nella nostra mente, ma a cui noi non prestiamo quasi mai attenzione, perché ci sembrano molto facili, quasi ovvie. È su tali conoscenze, invece, che si fonda tutto il nostro sapere, e ad esse quest’ultimo dev’essere ogni volta ricondotto. L’intuito costituisce l’operazione fondamentale di una conoscenza certa ed evidente poiché racchiude in sé tutti i caratteri che Descartes, analizzando le matematiche, attribuisce alla scienza autentica; infatti l’intuito: a. non ha nulla a che fare con l’esperienza sensibile, la quale, come sappiamo, può rendere incerto il sapere; b. non ha nulla a che fare con l’immaginazione, che, combinando arbitrariamente i dati conoscitivi, non può condurre alla conoscenza del vero; c. consiste in un atto di conoscenza del tutto indubitabile. Eppure, l’intuito presenta un limite: da solo esso non sempre è sufficiente, poiché non tutte le verità conoscibili sono immediatamente alla sua portata. È per questo che, quando non sia possibile cogliere il vero mediante l’intuito, si deve ricorrere a un’altra operazione della mente, che

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Descartes individua nella deduzione. In effetti, vi sono molte conoscenze che, pur essendo assolutamente certe, non sono tuttavia anche immediatamente evidenti; e ciò perché esse includono, oltre all’intuizione, anche una sorta di ragionamento. La deduzione è precisamente questo tipo di conoscenza che non procede, come l’intuito, mediante una visione immediata dell’oggetto da conoscere, ma perviene gradualmente, cioè per tappe, a cogliere delle verità evidenti e per questo è detta discorsiva:



Di qui può esser già sorto il dubbio intorno al perché, oltre all’intuito, abbiamo aggiunto un altro modo di conoscenza, che avviene per deduzione: per la quale intendiamo tutto ciò che viene concluso necessariamente da certe altre cose conosciute con certezza. Ma ciò si è dovuto fare, perché moltissime cose si sanno con certezza, nonostante che non siano di per sé evidenti, solo che vengano dedotte da veri e noti princìpi mediante un moto continuo e mai interrotto del pensiero intuente chiaramente le singole cose [Regole per la guida dell’intelligenza, Regola IV]



Ora, sebbene la deduzione sia differente dall’intuito, non si deve credere che essa sia tutt’altra cosa rispetto a quest’ultimo. In realtà, secondo Descartes, tra le due operazioni vi è un rapporto strettissimo, dal momento che la deduzione è costituita da una serie di atti intuitivi che si succedono nel tempo. La differenza tra l’uno e l’altra sta dunque nel fatto che l’intuito è immediato e consiste nell’apprensione diretta dell’oggetto conoscibile, mentre la deduzione perviene al proprio oggetto in maniera mediata, percorrendo cioè delle tappe progressive. Ma, proprio per questa ragione – cioè a causa della mancanza di immediatezza nella deduzione – l’apprensione del vero per suo tramite richiede maggiore attenzione. Essa può infatti essere certa come l’intuito, ma a condizione che i vari passaggi intuitivi in cui consiste siano percorsi con un solo e continuo movimento del pensiero, senza interruzioni e senza presupporre nulla che non sia garantito dallo stesso intuito. Per spiegare come si debba intendere questo movimento ininterrotto del pensiero, Descartes fa il paragone di una catena, in cui ciascun anello, visto nel suo rapporto con l’anello che immediatamente lo precede e con quello che immediatamente lo segue è colto per intuito;

mentre il rapporto del primo anello con l’ultimo, non potendo essere colto con un solo sguardo della mente, è appreso facendo ricorso alla memoria, la quale permette di ripercorrere l’intera catena intuitiva assicurandosi della legittimità di ciascun passaggio. Di conseguenza, la differenza tra l’intuito e la deduzione non sta nella maggiore o minore certezza che essi permettono di conseguire, ma consiste solo nel fatto che l’intuizione non presuppone mai un qualche movimento progressivo del pensiero né un intervento della memoria, mentre la deduzione li implica sempre.

3.6 Le quattro regole Descartes non portò mai a compimento le Regole per la guida dell’intelligenza, le quali furono pubblicate dopo più di trent’anni dalla sua morte. N on per questo, però, rimasero sconosciuti i fondamenti del suo metodo. Nel 1637, infatti, pubblica il Discorso sul metodo, la cui II parte è interamente dedicata all’esposizione del metodo. Il Discorso riprende alcuni assunti fondamentali delle Regole: la definizione del metodo come un insieme di regole da applicarsi nella ricerca della verità, la tesi dell’unità della scienza, la critica della conoscenza probabile e della logica tradizionale, l’elezione dell’evidenza a principale criterio del metodo e, infine, l’elevazione delle matematiche a modello della conoscenza certa. Il Discorso, tuttavia, va ben oltre la semplice esposizione del metodo: ad esso Descartes allega tre saggi – La diottrica, Le meteore e La geometria – al fine di mostrare al lettore quanto fecondo fosse il metodo da lui esposto. Descartes iniziava così a realizzare quello che riteneva essere il suo compito principale: ricostituire il sapere dalle fondamenta, sulla base di un metodo sicuro [ T29]. A fronte della complessità del metodo delle Regole, che consta di 21 precetti (ma Descartes ne aveva progettati ben 36), il metodo formulato nella II parte del Discorso ne annovera invece soltanto quattro. Il primo di essi – regola dell’evidenza – consiste nel non accettare mai nulla per vero che non sia attestato dall’evidenza:



Il primo [precetto] era di non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi con

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evidenza essere tale: vale a dire, di evitare accuratamente la precipitazione e la prevenzione, e di non comprendere nei miei giudizi nulla di più di ciò che si presentasse alla mia mente in modo così chiaro e distinto, che io non avessi occasione alcuna di metterlo in dubbio. [Discorso sul metodo, parte II]



L’evidenza è dunque una condizione necessaria per la verità. Qui però essa non viene semplicemente ribadita come una caratteristica dell’oggetto della conoscenza vera, ma viene proposta – proprio in senso metodico – come una regola fondamentale del giudizio, cioè di quell’atto fondamentale in cui consiste la conoscenza scientifica. Difatti, l’atteggiamento più consueto, ma anche quello più deleterio di una mente come la nostra, legata sempre a un corpo e soggetta a impulsi naturali, è quello che ci porta a giudicare senza soppesare le ragioni e seguendo preconcetti non verificati: il più delle volte formuliamo i nostri giudizi senza attenerci a ciò che l’evidenza mostra indubitabilmente (e di cui noi non ci accorgiamo), e cadiamo in errore. In tal senso, ponendo a fondamento del metodo l’identità tra verità ed evidenza, Descartes vuole sottolineare soprattutto la necessità di costringere il giudizio nei limiti che gli sono imposti dall’evidenza. Ma in cosa consiste questa evidenza che Descartes chiama in causa per qualificare tanto la scienza nel suo complesso quanto le singole percezioni? L’evidenza di una percezione consiste a un tempo nella sua chiarezza e nella sua distinzione, ove la chiarezza denota la presenza manifesta della nozione dell’oggetto conosciuto alla mente che lo conosce, mentre la distinzione designa l’assenza di confusione tra la nozione dell’oggetto concepito e le nozioni delle altre cose:



La conoscenza sulla quale si può stabilire un giudizio indubbio deve essere non solo chiara, ma anche distinta. Io chiamo chiara quella che è presente e manifesta ad uno spirito attento: come noi diciamo di vedere chiaramente gli oggetti, quando, essendo presenti, agiscono abbastanza fortemente, e i nostri occhi sono disposti a guardarli. E distinta, quella che è talmente precisa e differente da tutte le altre, da non comprendere in sé se non ciò che appare manifestamente a chi la considera come si deve. [Princìpi della filosofia, I, § 45]



Di conseguenza, perché una conoscenza sia certa occorre far sì che il giudizio (in cui consiste la scienza) sia formulato esclusivamente sulla base della percezione evidente, ossia sulla base della chiarezza e della distinzione, in maniera tale da evitare che, per precipitazione o a causa di pregiudizi infondati, esso valichi i limiti impostigli dall’evidenza stessa. Non sempre, però, l’evidenza è facile da conseguire. Se nei problemi semplici essa è a portata di mano, lo stesso non accade qualora si debbano risolvere dei problemi complessi: in tal caso, infatti, non è agevole cogliere con evidenza le singole verità che li costituiscono. È per questo che, al fine di ovviare a tale difficoltà, secondo Descartes è opportuno distinguere le parti semplici di tali questioni, considerarle separatamente e insistere su ciascuna di esse sino a che tutte non siano colte con il massimo di evidenza. E in effetti, il secondo precetto formulato da Descartes – regola dell’analisi – prescrive per l’appunto di dividere le questioni di cui ci si occupa in modo da poterle meglio risolvere:



Il secondo [precetto era] di dividere ciascuna delle difficoltà che esaminassi in tante piccole parti quanto fosse possibile e necessario per risolverle meglio. [Discorso sul metodo, parte II]



Il fine del secondo precetto è dunque quello di garantire, anche nel caso dei problemi complessi, le condizioni necessarie perché si possa dare una percezione evidente. Il terzo precetto – regola della sintesi – prescrive invece di condurre i propri pensieri con ordine, muovendo dagli oggetti più semplici e facili da conoscere, per pervenire poi, gradualmente, a quelli più complessi e difficili. Una volta intese con evidenza le singole parti delle verità complesse – che nel secondo precetto, appunto, Descartes suggeriva di dividere in elementi semplici – si devono ricostituire i problemi o le proposizioni con la certezza di disporre di una conoscenza sufficiente a coglierli nella loro complessità:



Il terzo [precetto era] di condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere, per risalire a poco a poco, come per gradi, fino alla conoscen-

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za dei più complessi, supponendo un ordine anche tra quelli tra cui non vige alcuna precedenza naturale. [Discorso sul metodo, parte II]



Il quarto precetto – regola dell’enumerazione – prevede infine che si facciano dei controlli esaurienti delle procedure adottate, in modo da esser certi di aver preso in considerazione e di aver verificato adeguatamente tutti i fattori in gioco nella soluzione di un problema complesso.



E l’ultimo [precetto era] di fare dappertutto delle enumerazioni così complete e delle rassegne così generali, da essere sicuro di non omettere nulla. [Discorso sul metodo, parte II]



Dopo aver analizzato le singole parti che compongono una questione complessa, intendendole ciascuna nella sua evidenza (II precetto), e dopo aver ricostituito la complessità della questione attraverso la sintesi di quelle parti (III precetto), ora, mediante l’enumerazione, si deve verificare di non aver tralasciato nessuna delle parti che si erano distinte, e pervenire in tal modo ad una comprensione evidente anche delle verità complesse.

4 La scienza cartesiana tra fisica e fisiologia 4.1 La favola del mondo meccanico L’acquisizione di un metodo stabile per il raggiungimento della verità – vale a dire per la realizzazione di una scienza degna di questo nome – è solo il primo passo del progetto cartesiano. Una volta attestato il metodo, infatti, per Descartes si tratta di procedere ad applicarlo effettivamente alle scienze particolari, al fine di costituire un sistema di conoscenze il più esteso possibile. Già al principio degli anni Trenta Descartes aveva iniziato a dedicarsi alla filosofia naturale (quella parte della filosofia dedicata allo studio della natura fisica), lavorando ad un trattato di fisica generale, Il Mondo, che però non verrà mai pubblicato: informato della condanna del Dialogo sopra i due massimi sistemi di Galileo

Galilei, Descartes – sostenitore, come il pisano, della tesi eliocentrica – rinunciò al progetto di pubblicare il suo scritto, che di conseguenza vedrà la luce solo dopo la sua morte. Ma in cosa consiste la fisica di Descartes? E come è fatto il “mondo” cartesiano? Nel Mondo egli “suppone”, chiedendo al lettore di aderire alla sua supposizione, che il mondo reale non esista e che al suo posto ve ne sia un altro con caratteristiche del tutto differenti: quella che Descartes intende proporre non è quindi la descrizione della realtà naturale quale essa è effettivamente, ma una “favola del mondo”, ossia la descrizione di un mondo esistente solo negli spazi immaginari [ T22]. Il mondo che Descartes mette in scena nella sua “favola” differisce totalmente dal mondo qual era stato descritto dalla scienza aristotelicoscolastica. La materia di cui esso è costituito è caratterizzata dalla sola estensione in lunghezza, larghezza e profondità; quindi ad essa appartengono esclusivamente le proprietà dell’estensione: la grandezza, la figura, l’ordine delle parti, il moto, la divisibilità infinita. Tutte le altre “qualità” – come il colore, la durezza, il suono, ecc. – possono essere spiegate a partire dalle prime, e cioè come altrettante risultanti del contatto tra la percezione e le proprietà dell’estensione. Questa distinzione tra le proprietà dell’estensione e le qualità sensibili costituisce una ripresa della distinzione galileiana tra qualità oggettive e soggettive ed una anticipazione della distinzione tra qualità primarie e qualità secondarie quale sarà esplicitamente formulata da Locke. La materia, ridotta ad estensione, è secondo Descartes omogenea, continua, illimitata, divisibile all’infinito. Il fatto che essa sia continua non toglie che sia al tempo stesso costituita di particelle, che possono assumere tutte le figure e le grandezze immaginabili. Componendosi e dividendosi, tali particelle vengono a costituire i corpi particolari, i quali non sono altro che degli aggregati, anch’essi caratterizzati dai soli attributi dell’estensione spaziale. Da un lato, dunque, il mondo descritto da Descartes sembra essere del tutto inventato, rispetto a ciò che ci attestano le concrete percezioni sensibili; ma dall’altro egli insiste fortemente sul fatto che tutti gli elementi di cui è composto il suo mondo, a partire dalla materia «immaginata dal libero gioco della nostra fantasia», sono «conoscibili da chiunque al massimo della perfezione». È dunque il fatto

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che un elemento sia conoscibile con evidenza dalla nostra ragione, non il fatto che esso venga attestato empiricamente dall’esperienza, il fondamento per la descrizione vera del mondo. Qui si consuma tutto il distacco polemico nei confronti dei filosofi scolastici:



a questo punto devo dir loro che, se non mi sbaglio, tutte le loro difficoltà a proposito della materia prima vengono dal volerla distinguere dalla sua quantità e dalla sua estensione esteriore, cioè dalla sua proprietà di occupare un certo spazio. […] E il mio intento non è di spiegare, come loro, le cose che in effetti si trovano nel mondo vero, ma solo di fingere un mondo a piacere, dove non sia niente che gli spiriti più grossolani non siano capaci di concepire, e che possa tuttavia esser creato proprio come l’avrò immaginato. [Il Mondo, cap. 6]



Quella proposta da Descartes è una fisica corpuscolare, da non confondere tuttavia – come pure fecero i suoi contemporanei – con l’atomismo di ascendenza democritea. A differenza di quanto sostenevano gli atomisti, infatti, secondo Descartes le particelle che costituiscono la materia sono divisibili all’infinito. Identificandosi con l’estensione, che per definizione include un’infinita divisibilità, la materia può infatti essere sempre ulteriormente divisa. Anche nell’ipotesi che l’uomo non disponga della capacità proporzionata a cogliere o ad operare tale divisione infinita, essa può essere ascritta senz’altro a Dio, il quale, in virtù della sua potenza, potrà dividere infinitamente la materia. N on è questa, però, l’unica ragione per cui il corpuscolarismo cartesiano si rivela irriducibile all’atomismo tradizionale. Quando gli atomisti sostengono, accanto agli atomi e tra gli atomi, l’esistenza del vuoto, agli occhi di Descartes essi formulano una tesi contraddittoria. Infatti, dal momento che la materia si identifica con l’estensione – e di conseguenza con il luogo e lo spazio, che da essa sono distinti solo razionalmente –, uno spazio vuoto, cioè non esteso, si rivela assolutamente impensabile. Ammettere l’esistenza di uno spazio vuoto, infatti, significherebbe per Descartes ammettere l’esistenza di un’estensione non estesa: il che implicherebbe una contraddizione evidente. Le particelle che compongono il mondo sono inoltre caratterizzate da un movimento

continuo. Questo movimento, però, non è una proprietà intrinseca delle particelle stesse, le quali di per sé sono inerti, ma è prodotto da Dio, che lo ha impresso nella materia all’atto della creazione. La quantità del moto impressa è immutabile: può mutare senz’altro, cioè può aumentare o diminuire, la quantità di movimento di un singolo corpo, ma a condizione che essa sia contestualmente acquisita da un altro corpo o ceduta ad esso. Ciò che muta, di conseguenza, non è la quantità complessiva del movimento, ma solo la sua distribuzione: se infatti mutasse la quantità del movimento si dovrebbe ammettere che anche l’essenza di Dio – cioè di colui che imprime il moto al mondo – sia mutevole. Così, nel Mondo, come più tardi nei Princìpi della filosofia, Descartes deduce dall’immutabilità divina le tre “regole” o leggi fondamentali del movimento. Esse derivano solo dal fatto che



Dio è immutabile e con l’agire sempre alla stessa maniera produce sempre lo stesso effetto. Infatti, supponendo che nell’atto stesso di crearla Dio abbia posto in tutta la materia in generale una certa quantità di movimenti, a meno di negare che egli agisca sempre allo stesso modo, bisogna ammettere che ne conservi sempre la stessa quantità. Supponendo pure che da quel primo istante le diverse parti della materia in cui i movimenti si sono trovati variamente distribuiti abbiano cominciato a conservarli o a trasmetterli dall’una all’altra, a seconda della loro forza, bisogna necessariamente concludere che Dio le fa continuare sempre allo stesso modo. [Il Mondo, cap. 7]



La prima legge stabilisce che «ciascuna parte della materia conserva sempre lo stesso stato finché le altre, urtandola, non la costringono a cambiarlo». Questa legge non vale soltanto per la grandezza o la figura, ma – e in ciò sta principalmente l’originalità cartesiana – anche per il movimento: se una determinata quantità di materia è ferma in un luogo, essa non prenderà a muoversi se a ciò non sarà indotta dall’urto e dal contatto con altre parti di materia; e, una volta messasi in movimento, continuerà a farlo fino a che altre parti di materia non la rallentino o la fermino del tutto. La seconda legge stabilisce che «quando un corpo ne spinge un altro non può trasmettere o

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sottrarre ad esso alcun movimento senza perderne o acquistarne nello stesso tempo una eguale quantità». La terza legge, stabilisce infine che, sebbene il movimento – preso nel suo complesso come movimento di tutta la materia – sia tendenzialmente circolare, «tuttavia ciascuna delle sue parti, presa separatamente, tende sempre a continuare il proprio movimento in linea retta». Prese nel loro insieme, queste leggi costituiscono la prima formulazione storica di quello che, dopo Newton, sarà qualificato come “principio di inerzia”: esse, infatti, estendono al movimento rettilineo l’inerzialità che Galilei aveva riferito al solo moto pendolare. Così, da un lato l’intero meccanismo fisico dipende dal fatto che inizialmente Dio abbia impresso il movimento nella materia, dando per così dire l’avvio al mondo; ma dall’altro lato il mondo gira in virtù delle sue sole cause meccaniche, nella più completa assenza di cause finali, cioè di uno scopo per cui il mondo sarebbe stato fatto. Il finalismo e la fisica costituiscono ormai, per Descartes, due linee che non potranno più incontrarsi. 1. La fisica corpuscolare di Descartes è un prodotto: a. della sola conoscenza evidente della ragione. b. della conoscenza empirica dell’esperienza in quanto evidente. c. della nostra fantasia che non mette capo ad una descrizione vera del mondo. d. della nostra fantasia che poggia però sulle concrete percezioni sensibili. 2. Per Descartes il movimento continuo delle particelle: a. è una proprietà intrinseca della materia V che altrimenti sarebbe inerte. b. ha una quantità complessiva mutevole, ovvero legata alla quantità di movimento acquisita o ceduta dai singoli corpi. V c. è una proprietà immutabile della materia. V d. non è in grado di spiegare l’intero meccanismo fisico del mondo, rendendo necessario il ricorso alle cause finali. V

F F F F

4.2 L’uomo macchina Il mondo dunque è concepito da Descartes come una grande macchina, che in quanto tale è intelligibile a partire dalle sole leggi dell’estensione e del movimento.

Ma la concezione meccanicistica investe anche la spiegazione del corpo umano: anch’esso infatti, al pari del mondo, è riducibile a estensione, e di conseguenza è governato dalle stesse leggi meccaniche che governano la materia. Le funzioni del corpo umano, secondo Descartes, dipendono infatti dalla sola disposizione degli organi, proprio come il funzionamento di un orologio o di un qualunque automa si riduce in ultima istanza al funzionamento delle molle, dei pesi e dei contrappesi che li compongono. Questa tesi costituisce uno dei punti di più netto distacco del pensiero cartesiano dalla tradizione aristotelico-scolastica. Mentre gli scolastici, per spiegare il funzionamento del corpo umano, dovevano ammettere l’esistenza di un’anima vegetativa e di un’anima sensitiva, immettendo di conseguenza nel mondo naturale princìpi non riducibili alla materia, Descartes, grazie al fatto di aver ridotto il corpo umano ad estensione, riconduce anche i fenomeni relativi ad esso alle leggi meccaniche che governano il mondo naturale. La volontà di escludere dall’ambito della fisiologia (la scienza che studia il funzionamento degli organi dei corpi viventi) tutto ciò che è irriducibile alle proprietà e alle leggi meccaniche, è anche all’origine della critica mossa da Descartes alla spiegazione della circolazione del sangue fornita da William Harvey nel 1628. Secondo Harvey la circolazione del sangue dipende dal potere contrattile del muscolo cardiaco, il quale la produrrebbe contraendosi e distendendosi come una pompa idraulica. Opponendosi a questa tesi, invece, Descartes identifica come unica causa della circolazione sanguigna il calore presente nel cuore. La storia della medicina confermerà, a discapito dell’ipotesi cartesiana, la tesi di Harvey. Tuttavia, dal punto di vista della storia della filosofia, ciò che importa rilevare è la motivazione addotta da Descartes per giustificare il suo rifiuto della spiegazione di Harvey: ai suoi occhi essa concede ancora troppo al vitalismo e all’animismo. Visto sotto questa luce, il contributo cartesiano, pur erroneo nella sostanza, risulta di fondamentale importanza, poiché mostra come, gradualmente ma ormai in maniera inarrestabile, anche la fisiologia e l’anatomia (la scienza che studia la morfologia dei corpi viventi) andavano liberandosi dai retaggi della medicina galenica e dell’animismo rinascimentale, per aprir-

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si – nel bene o nel male – alla novità della scienza moderna. Come la fisica, dunque, anche la fisiologia, agli occhi di Descartes, non è altro che meccanica: scienza del moto dei corpi. Ma se ciò vale per il corpo umano, che è una macchina molto complessa, a maggior ragione vale per l’animale. Anzi, nel caso degli animali, è ancora più estremo quello che è stato definito come il riduzionismo cartesiano, ovvero il tentativo di ridurre la vita biologica alle mere leggi della meccanica: se, infatti, quando si tratta dell’uomo, il meccanicismo è in grado di spiegare i fenomeni relativi al solo corpo – poiché la mente, per sua natura, sfugge alla riduzione meccanicistica – nel caso degli animali il modello meccanicistico si rivela sufficiente a dar conto anche di quegli aspetti che potrebbero far pensare alla presenza, in essi, di un’anima. Agli occhi di Descartes, l’animale non è che una macchina priva di anima: ogni sua reazione, fisica o psichica che sia, è spiegabile a sufficienza senza ricorrere ad un principio spirituale, ma solo alla disposizione degli organi.

5 La metafisica 5.1 Dalla scienza alla filosofia prima Il problema della metafisica nasce in Descartes all’interno della sua elaborazione di un metodo per la ricerca della verità e, ancor più, a partire dall’applicazione di esso agli specifici problemi di scienza della natura. Già nel 1629, mentre iniziava la stesura dei Saggi e del Mondo, egli stava lavorando a un piccolo trattato, oggi perduto, in cui si occupava delle questioni dell’io e di Dio. Ma è con il Discorso sul metodo che si pone esplicitamente il problema di un passaggio dal funzionamento del metodo – inteso come procedura che garantisce lo svolgimento del discorso scientifico – alla fondazione metafisica del procedimento e degli stessi princìpi metodici: è come se non bastasse più radicare la possibilità di raggiungere il vero nella sola natura razionale della mente umana e nella sua struttura matematica, ma la ragione stessa, e

quindi la stessa mathesis, avessero bisogno di un sostegno più radicale. È vero che la bona mens – ossia l’intelligenza naturale di cui sono dotati tutti gli uomini – porta infallibilmente ad una conoscenza vera, se solo si fa attenzione a seguire correttamente l’ordine necessario delle ragioni, così come si presentano nell’intuito e nella deduzione. Ma, a sua volta, è come se essa non riuscisse a portare su di sé tutto il peso della conoscenza della verità: in altri termini, la ragione umana può conoscere la verità, solo se questa, prima ancora di essere raggiunta come conclusione di un percorso conoscitivo, si presenta con evidenza all’io conoscente come una certezza iniziale, come un’evidenza originaria – cioè non prodotta dal ragionamento metodico – sulla base della quale poter sviluppare ogni altro ragionamento vero. Questo passaggio sarà oggetto del più importante scritto metafisico di Descartes, vale a dire le Meditazioni sulla filosofia prima, che è poi il nome tradizionale, di origine aristotelica, assegnato alla metafisica come la scienza che fonda e sostiene tutte le altre scienze. E non è un caso che, nella sua copiosa corrispondenza, Descartes si riferirà ripetutamente a questo testo del 1641, definendolo semplicemente «la mia metafisica», la quale sarà poi ulteriormente esposta nella I parte dei Princìpi della filosofia, del 1644. Perché, dunque, dopo aver progettato una scienza universale fondata sul metodo e sull’evidenza, Descartes ritiene necessario costituire una metafisica? Ciò che giustifica la transizione cartesiana dal metodo alla metafisica è l’ipotesi, affacciatasi ad un certo punto del suo percorso di pensiero, che l’evidenza matematica non coincida in maniera pura e semplice con la verità; e che, di conseguenza, l’intero dispositivo metodico, che poggiava proprio su quella identità, richieda una fondazione di natura diversa – appunto, metafisica. A questa precedenza del sapere metafisico sulla procedura metodologica, si accompagna anche il riconoscimento del suo carattere fondativo rispetto a tutte le altre branche del sapere:



Così tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica e i rami che nascono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale. [Princìpi della filosofia, Lettera-Prefazione]



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La tesi di Descartes è chiara: come non può darsi un albero senza radici, allo stesso modo non sono possibili le scienze particolari senza un fondamento metafisico. In tal senso, oltre che scienza fondamentale, la metafisica è anche scienza radicale in senso etimologico, poiché costituisce per il discorso scientifico ciò che le radici costituiscono per l’albero. La radicalità o fondamentalità della metafisica, dunque, è duplice: essa consiste, da un lato, nel fatto che solo la metafisica può garantire la verità del metodo e del criterio dell’evidenza; e, dall’altro, nel fatto che la metafisica si pone a fondamento di tutte le scienze particolari, e in primo luogo della fisica. 1. La metafora dell’albero, usata da Descartes per descrivere la filosofia, serve unicamente per mostrare: a. la precedenza della metafisica sul metodo e il carattere fondativo di tale scienza. b. la verità del metodo. c. che la metafisica è il fondamento di tutte le scienze particolari. d. la preminenza della metafisica sulla fisica.

5.2 Il percorso delle Meditazioni La principale opera metafisica di Descartes è costituita da sei meditazioni, alle quali si aggiungono le obiezioni di alcuni dotti – ai quali Mersenne, su richiesta di Descartes, aveva sottoposto il manoscritto – e le rispettive risposte di Descartes: le prime sono di Jan de Kater; le seconde di un gruppo di teologi e filosofi (anche se, di fatto, esse furono redatte dallo stesso Mersenne); le terze di Thomas Hobbes; le quarte di Antoine Arnauld (in una versione più estesa di quella presente nell’edizione del 1641); le quinte di Pierre Gassendi; le seste di un gruppo di filosofi, teologi e scienziati; le settime del gesuita Pierre Bourdin. Diversamente dal Discorso, che aveva scritto in francese, Descartes compone le Meditazioni sulla filosofia prima in latino. La scelta della lingua non è però casuale. Il Discorso era concepito e argomentato come un’opera destinata a tutti, anche a coloro che non avessero condotto studi sistematici, e seguiva il decorso lineare dell’ingegno naturale, proiettato a cogliere il mondo nella sua evidenza grazie alle regole di natura matematica. Le Meditazioni si presentano al contrario

come un’opera filosofica in senso stretto, in cui lo spirito umano si piega a meditare su sé stesso, per trovare una verità che non solo soddisfi la correttezza delle regole della conoscenza, ma coincida con la sostanza ultima delle cose. In quanto tale, la seconda opera è destinata ad un pubblico meno esteso: quello dei filosofi, degli scienziati e dei teologi di professione, ossia, come lo si chiamava all’epoca, il pubblico dei “dotti”. Nonostante, però, questo scritto sia destinato ad un pubblico di dotti, abituati al modo di procedere dei trattati scolastici, esso non assume la forma del manuale o del trattato. Il titolo dell’opera, a tal proposito, indica perfettamente tutta la novità dell’approccio cartesiano alla metafisica: Descartes non scrive un trattato sulla metafisica o un manuale di metafisica, ma preferisce esporre la propria dottrina ricorrendo al genere della meditazione, più adatto, a suo parere, ad esprimere la dinamica interna che governa la ricerca dei princìpi e dei fondamenti. Diversamente dal trattato, infatti, la meditazione comporta che il lettore non debba limitarsi a recepire, quasi in senso passivo, quanto è stabilito dall’autore, ma debba essere un soggetto attivo, chiamato a compiere, sulle orme dell’autore, un percorso suo proprio. Diversamente da quanto accade nel caso del trattato o del manuale, nella meditazione il lettore viene messo in gioco in modo personale: non si tratta, per lui, semplicemente di apprendere, ma di seguire l’autore in un percorso che si propone sin dal principio come una sorta di “ascesi”. Lo scopo della meditazione – così come questa pratica era stata codificata negli “esercizi spirituali” di Ignazio di Loyola, il fondatore dell’Ordine gesuita presso il quale Descartes aveva ricevuto la sua formazione – era quello di condurre l’uomo, attraverso un percorso guidato, dal peccato alla redenzione, ossia alla salvezza. Il senso che Descartes attribuisce alla scelta del genere meditativo è proprio questo: condurre passo dopo passo il lettore a immedesimarsi, come se fosse il proprio, nel cammino percorso dall’autore, fino alla liberazione spirituale. Ciò non vuol dire, però, che la finalità di Descartes sia di natura religiosa. La salvezza alla quale egli vuole condurre il lettore è una salvezza esclusivamente teoretica o filosofica: se, infatti, nella meditazione religiosa, il percorso muove dal peccato per guadagnare la redenzione dell’anima (e con essa la salvezza del corpo), nel caso

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delle Meditazioni cartesiane, il peccato è sostituito dallo stato di incertezza o di dubbio in cui versa la mente umana quando vive nell’ignoranza dei fondamenti della conoscenza e la salvezza coincide con una certezza che può essere fondata solo nella stessa mente umana. Le Meditazioni, dunque, vanno intese come un’opera dinamica e personale: dinamica, perché implica un movimento dall’incertezza alla certezza della conoscenza; personale, per il fatto che il lettore è implicato e chiamato in prima persona ad arrischiarsi nell’avventura del conoscere. E difatti tutta l’opera sarà svolta, quasi raccontata – come un diario dell’anima – da parte di un meditante, cioè da una voce in prima persona che rintraccia in sé stessa il percorso ascetico per la verità.

5.3 Il test del dubbio Come abbiamo visto in precedenza, il progetto di fondazione di una scienza certa ed evidente costituisce la grande aspirazione di Descartes. Anche le Meditazioni rientrano in questo progetto generale, anzi lo radicalizzano all’estremo, in quanto cercano una certezza che possa essere più evidente e indubitabile, non solo delle conoscenze sensibili, ma delle stesse verità matematiche. Al fine di realizzare questo progetto, anche le Meditazioni prendono le mosse da una critica dell’intera conoscenza finora acquisita, intendendo comunque tale momento “distruttivo” come una leva per sollevare la grande questione della certezza della verità.



Già da qualche tempo mi sono reso conto di quanto numerose fossero le cose false che, fin dai miei primi anni, avevo ammesse come vere, e quanto dubbie fossero tutte quelle che in seguito avevo costruito su di esse, cosicché almeno una volta nella vita bisognava distruggerle dalla base, e ricominciare tutto di nuovo dalle fondamenta, se desideravo stabilire una buona volta qualcosa di saldo e duraturo nelle scienze. [Meditazioni sulla filosofia prima, I Meditazione]



Conformemente a questo progetto, esplicitamente dichiarato al principio dell’opera, la I Meditazione costituisce una sorta di “laboratorio” in cui Descartes sottopone la totalità delle

conoscenze acquisite ad un test che serva a valutare quali di esse possano essere considerate del tutto certe e quali invece vadano respinte come dubbie. In questa indagine, Descartes muove da una delle tesi che aveva sostenuto nelle opere dedicate al metodo, e cioè che il vero è per sua natura indubitabile. Rispetto a quanto aveva ammesso in precedenza, però, nelle Meditazioni egli radicalizza la coincidenza tra “verità” e “indubitabilità”: adesso infatti non si limita più a denunciare l’incertezza delle conoscenze probabili, come sospendendole in una sorta di limbo, ma si spinge fino a identificarle esplicitamente con le conoscenze false. L’identificazione del “dubitabile” e del “falso” costituisce un potentissimo strumento epistemologico: se si rifiuteranno tutte quelle conoscenze di cui è possibile anche minimamente dubitare, non resteranno allora che conoscenze del tutto certe e fondate. Qui emerge il carattere peculiare del dubbio cartesiano. Diversamente da quello degli scettici, che mira ad una generale distruzione della certezza, il dubbio cartesiano è finalizzato alla scoperta della verità. La sua funzione è in un certo senso paradossale: mettendo in questione le conoscenze probabili, esso non fa che rafforzare l’evidenza del vero. Il dubbio di Descartes si configura così, a un tempo, come un dubbio metodico e iperbolico: metodico, perché costituisce lo strumento principale di un’indagine sistematica condotta sulla totalità delle conoscenze acquisite; iperbolico, perché è così radicale da identificare ciò che è solamente probabile con ciò che è completamente falso. Inoltre, proprio in virtù di questa sua radicalità, esso si configura anche ed essenzialmente come un dubbio antiscettico, poiché in ultima analisi, lungi dal contraddire l’aspirazione al vero, esso costituisce l’unica via e l’unica strategia che possa realmente condurvi. Così, se si vuole intraprendere una ricostituzione del sapere a partire dalle sue fondamenta, il primo passo che secondo Descartes si deve compiere sarà proprio quello di sottoporre tutte le conoscenze al test del dubbio, in modo da pervenire – se mai ve ne siano – alle conoscenze assolutamente vere, che nessun dubbio potrebbe far vacillare [ Dubbio scettico e dubbio metodologico, p. 146]. La prima classe di conoscenze che Descartes sottopone al test del dubbio è quella delle conoscenze acquisite per mezzo dei sensi. È questa infatti la fonte principale da cui il meditante

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dichiara di aver ricavato la maggior parte del proprio sapere:



Tutto ciò che finora ho ammesso come assolutamente vero, l’ho ricevuto dai sensi, o per mezzo dei sensi; talvolta però ho provato che i sensi erano ingannatori, ed è regola di prudenza non fidarsi mai interamente di quelli che ci hanno ingannati anche una volta sola. [Meditazioni sulla filosofia prima, I Meditazione]



uno sforzo maggiore; e tuttavia, anche in questo caso, osserva Descartes, non c’è alcuna ragione per credere che quanto si percepisce sia vero. In effetti, per mettere in dubbio la percezione attuale dei corpi prossimi e del proprio corpo sarà sufficiente supporre o ipotizzare di vivere in un sogno:



Quante volte di notte mi è accaduto di sognare le cose consuete, che io ero in questo luogo, che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mio letto? È vero che ora guardo questo foglio di carta con occhi certamente svegli, che questa testa che sto muovendo non è addormentata, che stendo di proposito questa mia mano, e la sento: a chi dorme queste cose non accadrebbero in maniera così distinta. Ma non ricordo forse di essere già stato ingannato altre volte da simili pensieri mentre dormivo? Quando rifletto su queste cose con maggiore at-

Qui Descartes si riferisce a quella che per esperienza quotidiana ci sembra essere la più immediata delle certezze, vale a dire la diretta percezione sensibile delle cose. Al tempo stesso egli allude anche ad uno dei princìpi basilari della gnoseologia scolastica, vale a dire che i sensi costituiscono la prima, insostituibile fonte di tutte le nostre conoscenze, senza la quale anche l’azione dell’intelletto girerebbe a vuoto. E qui vediamo già all’opera la strategia radicale del dubbio: se è vero, come tutti possiamo constatare, che talvolta i sensi ci ingannano, dovremo conDubbio scettico cludere che essi sono sempre inaffidabie dubbio metodologico li e che le conoscenze che essi ci forniscono sono tutte false. Due sono le principali tendenze con cui il dubbio è stato temaTuttavia – obietta il meditantizzato nella storia del pensiero prima di Descartes. Da un lato, esso te – se ciò sembra essere vero è stato visto, in senso metodologico, come un momento essenziale nella per i corpi più piccoli o per conoscenza della verità da parte della ragione umana. Già Socrate individuaquelli lontani (come una va nel dubitare un fattore importantissimo dell’arte maieutica, e Platone riconotorre quadrata che a una sceva nella messa in discussione continua e radicale delle opinioni correnti una lunga distanza può condizione ineliminabile perché l’anima possa giungere a ciò che possiede assoluta apparire rotonda), forse certezza, sia in campo teoretico che in campo pratico. Aristotele, da parte sua, suggenon si potrà dire altret- riva che il dubbio, cioè lo stato di indecisione di fronte a due argomenti contrari ma equitanto della conoscenza valenti, può costituire un motore della ricerca, sebbene esso non possa mai estendersi ai di ciò che è vicino a primi princìpi evidenti alla mente umana. noi, per esempio del Dall’altro lato, il dubbio è visto invece come una negazione sistematica della possibilità di fatto che abbiamo un conoscere l’essere delle cose e della stessa esistenza della verità. Si tratta della posiziocorpo e che ci trovia- ne degli scettici, i quali o si limitavano – come Pirrone e Sesto Empirico – a sospendere il mo in determinate cir- giudizio e in definitiva a rinunciare a qualsiasi pretesa o desiderio di affermare qualcosa costanze attualmente di vero o di buono, assumendo un atteggiamento di impassibilità e indifferenza; oppure – come Arcesilao o Carneade – teorizzavano che il criterio della verità andava sostipercepite: «per esempio tuito con il semplice criterio della probabilità e della verosimiglianza. che sono ora qui, che Di particolare importanza, anche per capire l’uso cartesiano del dubbio, è poi la siedo accanto al fuoco, che posizione di Agostino, il quale da un lato contestava vigorosamente la dottriindosso un abito invernale, na dei filosofi accademici, sostenendo che “se io dubito, sono”, e quindi che tocco questa carta con le proprio il dubbio funge da prova della mia esistenza, e dall’altro lato affermava che il dubitare stesso è possibile solo perché noi siamo mani». Se il dubbio intorno fatti per la verità; anzi, in quanto esistiamo, sappiamo di esiagli oggetti che si trovano distanstere e amiamo la nostra esistenza e la nostra conoti da noi costituisce un’esperienza scenza, siamo già da sempre in rapporto con alla portata di ciascuno, dubitare dei la verità, che è Dio. corpi vicini, e per giunta del proprio stesso corpo e delle proprie sensazioni, richiede

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tenzione, vedo così manifestamente di non poter mai distinguere mediante indizi certi la veglia dal sonno, che ne resto attonito, e questo intontimento è come la conferma dell’opinione che sto sognando. [Meditazioni sulla filosofia prima, I Meditazione]



Così, attraverso l’argomento dell’inganno dei sensi e l’argomento del sogno, Descartes perviene al primo risultato della sua indagine: le conoscenze sensibili – sia quelle dei corpi lontani e minuti, sia quelle dei corpi prossimi o del proprio corpo, nella veglia come nel sonno – non sono in grado di superare il test del dubbio; di conseguenza, pur non essendo ancora deciso definitivamente se esse sono veraci o ingannevoli, e presentandosi a noi solo come probabili, vanno respinte come se fossero del tutto false [ «La vita è sogno», pp. 148-149]. Eppure – continua il meditante – anche nel sogno sembra che qualcosa resista agli assalti del dubbio. In effetti, se da un lato è vero che l’io può dubitare di trovarsi effettivamente dinanzi al fuoco, coperto da una vestaglia e con delle carte fra le mani, dall’altro non potrà negare che esistano, in generale, una testa, delle mani, degli occhi, cioè tutti quegli elementi che sono compresi nell’esperienza onirica. Anche questa obiezione, però, non regge alla potenza distruttiva del dubbio: basta infatti supporre che il sogno sia in grado di produrre immagini del tutto simili alla realtà, o a ciò che si ritiene essere la realtà, per rendersi conto che quegli elementi semplici – testa, mani, occhi – debbono essere considerati anch’essi dubitabili. Di fronte a questo ulteriore assalto del dubbio, un’altra possibilità sembra proporsi all’io che medita. È senz’altro vero, infatti, che questi elementi semplici possono facilmente essere messi in dubbio attribuendo al sogno un potere creativo illimitato, ma di certo tale creatività del sogno non potrà mai esser tale da produrre da sola le nozioni della corporeità, dell’estensione, della forma, della grandezza e del numero: almeno queste nozioni generali e semplici, assieme alle verità matematiche, dovranno essere assolutamente certe, sia che si dorma, sia che si vegli. Ma cosa rende queste nozioni intrinsecamente capaci di sottrarsi all’assalto dei primi due argomenti introdotti da Descartes? Diversamente dalle nozioni delle cose composte, le verità mate-

matiche e le nozioni semplici sono evidenti: è dunque l’evidenza, ossia la chiarezza e la distinzione, ciò che le sottrae sia alla presa delle obiezioni riguardo all’inganno dei sensi sia all’illusione dei sogni. Evidenza e semplicità sono infatti i caratteri che sottraggono le nozioni semplici della geometria (estensione, forma, grandezza, numero) e le verità dell’aritmetica (per esempio 2+3=5) alla forza distruttiva del dubbio:



Per questo, forse, da ciò non concluderemo male, se diremo che la fisica, l’astronomia, la medicina e tutte le altre discipline che dipendono dall’esame delle cose composte, sono senz’altro dubbie; ma che l’aritmetica e la geometria e le altre simili, che non trattano se non di cose semplicissime e generali in sommo grado, e poco si curano se tali cose esistano o meno in natura, contengono qualcosa di certo e di indubitabile. Infatti, sia che sia sveglio, sia che dorma, la somma di due e tre fa sempre cinque, e il quadrato non avrà mai più di quattro lati; e non sembra possibile che delle verità così manifeste possano essere sospettate di falsità. [Meditazioni sulla filosofia prima, I Meditazione]



Tuttavia, secondo Descartes, è possibile dubitare anche di esse; e per farlo è sufficiente ipotizzare che il Dio onnipotente, creatore dell’uomo, lo abbia creato tale da ingannarsi anche a proposito di ciò che percepisce con evidenza. Alla luce di questa ipotesi, comunemente definita ipotesi del Dio ingannatore, è possibile che l’uomo si inganni anche quando somma 2 e 3 o quando conta i lati di un quadrato, o ancora quando pensa le nozioni semplici di cui si occupa la geometria; e cioè anche quando pensa quelle verità e quelle nozioni che gli argomenti precedenti non riuscivano a mettere in questione:



Tuttavia è radicata nella mia mente una certa antica opinione, secondo la quale vi è un Dio che può tutto, e dal quale sono stato creato così come sono. Ora, come posso sapere se questo Dio non abbia fatto in modo che non ci fosse nessuna terra, nessun cielo, nessuna cosa estesa, nessuna figura, nessuna grandezza, nessun luogo, e che tuttavia tutte queste cose mi sembrassero esistere non diversamente da come le vedo? Anzi, proprio come talvolta giudico che altri errano su cose che ritengono di sapere perfettamente, così io potrei sbagliarmi tutte le volte che faccio la

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somma di due e tre o conto i lati di un quadrato, o qualcos’altro di ancora più facile, posto che vi sia cosa più facile di questa. [Meditazioni sulla filosofia prima, I Meditazione]



Con questo nuovo argomento, Descartes tocca il punto più estremo cui potesse giungere il test del dubbio: ora infatti non sono messe in questione soltanto una serie di nozioni e di verità – le nozioni semplici e le verità matematiche, ormai destituite del primato che esse avevano in precedenza per lo stesso Descartes nelle Regole e nel Discorso – ma la stessa evidenza quale criterio della verità. Se negli argomenti dell’inganno sensibile e del sogno, il dubbio verteva in ultima analisi sulla insufficiente quantità di evidenza che connota la percezione delle cose extramentali, nel caso dell’argomento del Dio ingannatore ad essere messa in dubbio è l’evidenza in quanto tale, anche nel suo grado massimo, che è quello delle matematiche. Nelle Meditazioni, dunque, Descartes non riconosce più nell’evidenza il criterio sufficiente della verità: almeno nel caso dell’ipotesi del Dio onnipotente, infatti, all’evidenza potrebbe non corrispondere la verità. L’ideale normativo del sapere è scosso così dalle sue fondamenta, e porta con sé la distruzione dell’intero edificio del sapere. Tutte le conoscenze, infatti, risultano gravate da un’ipoteca molto pesante: non soltanto non è più possibile sapere se le cose siano come l’uomo se le rappresenta quando pensa, ma addirittura non si può sapere neppure se esse esistano in assoluto. Ciò che resta alla prova del dubbio non è che pura e semplice probabilità. In una tale situazione però – incalza il meditante – anche la sola probabilità può risultare pericolosa, poiché favorisce la precipitazione del giudizio. Così, piuttosto che cadere in errore affermando la verità delle conoscenze acquisite, è preferibile – in virtù di una sorta di autoinganno – considerarle tutte false. In tal modo, se pure non si farà alcun passo avanti nella ricerca della verità, quanto meno si eviterà il rischio dell’errore. Questa strategia, però, richiede uno sforzo notevole da parte dell’io che medita: il fatto che in passato egli abbia considerato come vere delle conoscenze che poi si sono rivelate dubbie, continua sempre a spingere la sua volontà a giudicarle come vere, e di conseguenza lo espone continuamente al rischio dell’errore. Così, al

fine di scongiurare questo pericolo e di tener ferma la decisione di giudicare falsa ogni conoscenza, Descartes introduce la figura del genio maligno: supponendo l’esistenza di un tale genio, «sommamente potente e astuto, che abbia posto tutto il suo zelo a ingannarmi», il meditante potrà considerare false le rappresentazioni che pure egli vorrebbe considerare vere: il cielo come la terra, le figure come i suoni ed i colori, e crederà di essere «senza mani, senza occhi, senza carne, senza sangue, senza alcuna sensibilità», perché il credere di avere tutto ciò potrebbe essere un errore. Con l’introduzione di questa estrema ipotesi negativa, dunque, Descartes opera un ulteriore

«La vita è sogno»: Calderón de la Barca, Shakespeare, Descartes Il tema del sogno attraversa come un motivo dolente e malinconico la cultura europea tra Cinquecento e Seicento, segno di una condizione umana smarrita, di fronte al venir meno della certezza delle cose. È come se la realtà fosse accompagnata dall’ombra inquietante di un dubbio: il dubbio che quello che ci appare manchi di vera consistenza e in fondo sia solo un’illusione della nostra mente, e che noi stessi siamo solo le comparse di una grande messa in scena. Questo non vuol dire affatto che venga negata o rifiutata l’evidenza antica, portata soprattutto dalla tradizione cristiana, secondo la quale dietro ogni cosa e dentro ogni evento si rende presente il rapporto con il creatore che tutto sostiene nell’essere. Tale riferimento è conservato, certo, ma diviene sempre più distante dal sentimento della vita e del mondo dell’uomo moderno, e anche per gli spiriti religiosi diviene come un paradiso perduto che si deve riconquistare attraverso un percorso travagliato. Significativi a questo riguardo sono soprattutto due autori teatrali. Il primo è William Shakespeare (15641616), che fa dire a un suo personaggio, in uno dei momenti più struggenti della sua drammaturgia: «Siamo fatti anche noi della materia di cui son fatti i sogni; e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita» [La tempesta, Atto IV, scena 1]; mentre un altro, dando voce alla drammatica consapevolezza della perdita di senso di sé e del mondo intero, afferma: «La vita è una favola raccontata da un idiota, piena di frastuono e di foga, che non significa nulla» [Macbeth, Atto V, scena 5].

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slittamento nel suo percorso dal probabile al falso: le conoscenze acquisite, che gli argomenti dell’inganno dei sensi, del sogno e del Dio onnipotente rendevano probabili, attraverso l’argomento del genio maligno vengono infine considerate assolutamente e permanentemente false (si potrebbe anche dire, false per principio). E l’unica cosa di certo che l’io potrà sapere è che non c’è nulla di certo. 1. Nelle Meditazioni Descartes identifica: a. le conoscenze probabili con le conoscenze incerte. b. le conoscenze dubitabili con le conoscenze probabili. c. le conoscenze probabili con le conoscenze false. d. le conoscenze probabili con le conoscenze dubbie.

Anche lo spagnolo Pedro Calderón de la Barca (1600-1681), nel dramma teatrale La vita è sogno, parla del principe Sigismondo, imprigionato da suo padre, che alla fine viene liberato perché riconosce il suo destino all’interno di un sogno sognato da Dio, e nel quale ognuno è chiamato a scoprire il ruolo che gli spetta: «Di che vi meravigliate? Di che stupite, se fu mio maestro un sogno e sto tuttavia temendo nelle mie ansie di dovermi svegliare e trovarmi ancora una volta nel mio chiuso carcere? E se pur ciò non avvenga basta il sognarlo soltanto, perché così sono giunto a sapere che tutta la felicità umana infine passa come un sogno... Ed ora voglio farne buon uso per tutto il tempo che mi dura, chiedendo perdono degli errori, poiché è proprio dei nobili cuori il perdonare» [La vita è sogno, Atto III, scena 14]. Per questo anche Descartes, quando all’inizio della I Meditazione cerca di definire l’identità dell’uomo che sta dubitando di tutte le sue certezze, non ha niente di più certo da affermare se non il fatto che «sono uomo, e come uomo sono solito dormire e provare nei sogni tutte quelle cose, o a volte anche di meno verosimili, che si provano da svegli». Ma in questo sentimento onirico della vita risuona, accanto alla disillusione o al disincanto, anche una profonda nostalgia: che il mondo torni ad essere reale, evidente, consistente, e che la nostra coscienza, sola di fronte all’abisso del nulla, possa tornare a far esperienza della verità, cioè del fatto che ci sono le cose e del motivo per cui siamo al mondo.

5.4 La verità del cogito Ma è proprio a partire dalla paradossale situazione indotta dal dubbio che, secondo Descartes, si potrà guadagnare la prima certezza. E non perché all’io accada finalmente qualcosa di reale che si imponga sull’ipotesi negativa che avvolge l’essere del mondo e il suo proprio essere; piuttosto, il fatto stesso che egli dubiti su tutto si tramuterà nella prova più evidente della sua esistenza. Nel nulla cui è ridotta l’intera realtà, emerge così un primo essere: l’io esiste; e ciò anche se il mondo e la sua esistenza sono messi in dubbio e ritenuti non solo meramente probabili, ma anche del tutto falsi. È senz’altro possibile che tutte le idee delle cose sensibili di cui l’io si scopre dotato siano false, che nulla esista al mondo di ciò che si credeva in precedenza, che le stesse nozioni della geometria e le verità matematiche siano del tutto immaginarie; ma ciò che è certo, anche all’interno di questa convinzione, è che l’io esiste almeno tutte le volte in cui pensa, anche se pensa il falso:



Mi ero convinto che al mondo ci fosse proprio niente, nessun cielo, nessuna terra, nessuna mente, nessun corpo; forse allora anch’io non esistevo? Al contrario, io esistevo di certo, se mi ero convinto di qualcosa. [Meditazioni sulla filosofia prima, II Meditazione]



E a nulla vale, a questo punto, anche l’argomento dell’inganno. Infatti, se esso aveva messo in crisi la certezza delle cose pensate dall’io, non può nulla invece riguardo alla certezza dell’esistenza dell’io, anzi la rafforza: quanto più si ammette la possibilità di ingannarsi, e addirittura quanto più si ammette che ci sia qualcuno che mi inganni sempre, tanto più, e con più certezza, si dovrà ammettere che chi è ingannato esiste veramente. Ecco il punto preciso in cui Descartes opera il passaggio dal dubbio all’esistenza dell’io come un “io pensante” (cogito):



Ma vi è un non so quale ingannatore, sommamente potente, sommamente astuto, che di proposito mi inganna sempre. Ma allora di certo non v’è dubbio che io esisto, se egli mi inganna; e mi inganni pure quanto può, ma non riuscirà mai a far sì che io non sia niente, almeno fintanto che penserò di essere qualcosa. Così dunque, dopo

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avervi riflettuto a lungo, si deve infine stabilire fermamente che questa affermazione: io sono, io esisto, è necessariamente vera ogni qual volta la pronuncio o la concepisco nella mia mente. [Meditazioni sulla filosofia prima, II Meditazione]



Nelle Meditazioni la formula usata da Descartes è: «io sono, io esisto» (ego sum, ego existo), mentre nel Discorso sul metodo e nei Princìpi della filosofia tale proposizione è espressa con la formula: «penso, dunque sono» (Je pense, donc je suis, o cogito ergo sum). In entrambi i casi si tratta di un tipo particolare di enunciato, quello che i linguisti del Novecento chiamerebbero un “atto performativo”, vale a dire una proposizione che non si limita a constatare o a informare su una data situazione o su uno stato di cose (per esempio: “oggi piove”), ma produce o realizza esso stesso quello che dice (per esempio: “vi dichiaro marito e moglie”). Così, quando l’io pensante pronuncia o anche solo pensa l’enunciato “io sono” – e questo accade indirettamente ogni qual volta l’io pensa qualcosa – esso realizza la propria esistenza. In altri termini, per Descartes non esiste un uomo o un soggetto-io che, tra le altre sue attività o facoltà, pensa, ma l’io “è” sé stesso in quanto pensante, e solo nella misura in cui pensa. Infatti, qualunque cosa egli pensi, giusta o sbagliata che sia, realizza la sua esistenza come pensante [ T3]. Una volta dimostrata l’esistenza dell’io, Descartes, sempre attraverso la figura del meditante, si domanda che cosa esso sia. Usiamo non a caso il pronome neutro “esso”, perché la natura dell’io cui si è giunti finora prescinde ancora totalmente da qualsiasi proprietà corporea, in base alla quale identificarlo come un soggetto concreto e individuale, per così dire “in carne ed ossa”. L’io di cui il meditante ha dimostrato l’esistenza, invece, non ha né può avere alcun corpo, a motivo del dubbio ancora in vigore su ogni natura corporea: anzi, la certezza del cogito si basa solo sul fatto che si sia separato nettamente l’esercizio del pensiero dal corpo di colui o di colei che pensa. Per paradossale che possa sembrare, è solo perché io non posso dimostrare di avere un corpo che potrò invece dimostrare di esistere come pensiero. Insomma, l’io che nella II Meditazione scopre di esistere non è altro che pensiero: esso è una cosa vera o veramente esistente solo come cosa pensante – res cogitans –

che può essere chiamata anche come “una mente” o “un animo” o “un intelletto” o “una ragione”. Inoltre, qui il pensare non va inteso solo nel senso della riflessione teoretica, perché esso include in sé tutte le attività spirituali dell’io. Così una cosa che pensa è anche «una cosa che dubita, che intende, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente», anche se non si sa ancora se ciò che si sa, si vuole o si sente esista o meno. Ma la dimostrazione cartesiana dell’esistenza dell’io porta con sé una seconda implicazione, non meno radicale della prima. Se l’io scopre di esistere, supponendo che il corpo non esista, e determina la sua essenza a partire da una esclusione delle proprietà corporee, ciò significa che la mente può essere conosciuta “prima e più facilmente” del corpo. Questa è forse la tesi più originale della II Meditazione: essa capovolge sia la tesi secondo cui la conoscenza dei corpi precede la conoscenza riflessiva dell’io, sia la tesi secondo cui la conoscenza dell’io, a sua volta, non è possibile se non a partire dalla conoscenza delle cose esterne. 1. Io sono, io esisto è un enunciato performativo perché: a. fa venire all’essere ciò che pronuncia. b. compie un’operazione d’informazione su uno stato dell’essere. c. impone uno stato dell’essere. d. deduce l’essere dal pensiero. 2. Per Descartes la mente può essere conosciuta più facilmente del corpo perché: a. la mente si conosce con chiarezza e distinzione. b. l’esclusione delle proprietà corporee determina il fatto che l’io scopre di esistere. c. la scoperta dell’esistenza dell’io determina l’esclusione delle proprietà corporee. d. per conoscere la mente occorre aver già conosciuto le cose estese.

5.5 Dall’io a Dio L’esistenza dell’io ha fornito a Descartes il principio in base al quale sarà possibile ricostituire una scienza universale. N ella serie concatenata in cui deve consistere questa scienza, la conoscenza della res cogitans rappresenta il primo anello; da sola, però, essa non è sufficiente a garantire l’acquisizione di nuove conoscenze. Dopo aver attraversato il lungo percorso del dubbio e dopo aver acquisito la prima, e finora

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unica, certezza, l’io non ha neanche una ragione in più, rispetto a prima, per credere che le idee che trova in sé stesso rappresentino le cose così come sono, né per ritenere che un mondo di cose esista realmente al di là delle idee che lo rappresentano. L’io sa con certezza di esistere, ma del mondo in cui era certo di essere, prima del dubbio, ormai non sa più nulla. Il problema che si pone a questo punto del percorso è dunque: come fuoriuscire da questa condizione di solipsismo – in cui l’io è certo soltanto del proprio pensiero e di nient’altro – per poter conseguire nuove conoscenze certe? Finora l’io sa con certezza solo che nella sua mente sono realmente presenti delle idee, ma non sa affatto se esse siano vere o false. Per fare questo passo in più, l’io deve darsi allora un criterio di verità, una norma per giudicare il contenuto a cui si riferiscono le idee che esso trova nel suo spirito. Ma da cosa mai l’io potrebbe trarre una regola di verità, dal momento che ha dubitato di tutto? La sola possibilità che gli rimane è quella di analizzare la prima proposizione certa in cui si è imbattuto – ego sum, ego existo – e rilevare che cosa la renda così certa da sottrarla a qualsiasi dubbio o supposizione. Ebbene, in quella prima certezza, dice Descartes, non c’è altro che una percezione chiara e distinta di quel che è affermato e giudicato; pertanto, d’ora in avanti ci si dovrà attenere, come regola generale, a un’identificazione di evidenza (cioè chiarezza e distinzione) e verità: l’io, in altri termini, dovrà ammettere per vero solo ciò che gli si presenterà con evidenza. In fondo, si tratta dello stesso criterio affermato da Descartes sin dall’inizio del suo pensiero e temporaneamente sospeso con il dubbio radicale. Ora, questa regola torna in scena grazie alla conoscenza indubitabile dell’io, ma ciononostante non è ancora del tutto fondata, poiché sulla sua validità incombe ancora l’ipotesi che un Dio onnipotente, creando l’io, lo abbia dotato di una natura tale da ingannarsi sempre, anche quando le sue percezioni presentano la massima evidenza. In altri termini, la regola dell’evidenza funziona nuovamente per l’io, ma non ancora per il mondo. Questa ipoteca graverà sulla ricerca fino a che l’io non sarà riuscito a dimostrare falso l’argomento del Dio onnipotente: perché la regola di verità possa sottrarsi definitivamente al sospetto della falsità, occorrerà dimostrare in primo luogo che Dio esiste e, in secondo luogo, che

non ha disposto la mente umana ad ingannarsi sempre. Bisognerà dimostrare l’esistenza di Dio per assicurarsi della verità del mondo che sta fuori dal cogito. È quanto Descartes farà nella III e nella V Meditazione [ T3].

5.6 Le dimostrazioni a posteriori dell’esistenza di Dio Descartes nella III Meditazione offre due dimostrazioni a posteriori dell’esistenza di Dio che seguono due vie diverse: l’una parte dal dato della presenza, in noi, dell’idea innata di infinito, l’altra dall’analisi della possibile causa dell’esistenza dell’io stesso. 1. L’idea innata dell’infinito. Se il mondo esterno all’io è ancora sottoposto al dubbio, arrivando addirittura ad essere negato come falso, questo vuol dire che per dimostrare l’esistenza di Dio l’io non potrà più partire dagli enti che sono presenti nella realtà fuori di sé, come affermavano le tradizionali vie “a posteriori” – quelle cioè che partono da qualcosa di già esistente – codificate soprattutto da Tommaso d’Aquino. È piuttosto in sé stesso, dunque, che l’io deve cercare per sapere se esista una verità diversa da sé. Il punto di partenza dell’indagine che porterà Descartes a dimostrare l’esistenza di Dio consiste in un esame dell’unico esistente di cui siamo certi, cioè l’io, e del suo contenuto proprio, vale a dire le sue idee. La sola cosa di cui l’io è certo, oltre che della propria esistenza, è infatti l’esistenza di pensieri (cogitationes) o idee (ideae) che rappresentano il mondo: il mondo può benissimo non esistere, ma è tuttavia certo che nell’io vi sono delle idee o dei pensieri che gli rappresentano qualcosa. La via da seguire, in assenza di altre possibilità, è quindi quella di prendere in esame e classificare queste idee per verificare se, in esse, si possa rintracciare una via che permetta di accedere alla dimostrazione dell’esistenza di Dio o di qualche altro ente. Descartes classifica i pensieri distinguendoli in due grandi generi: da un lato abbiamo le idee propriamente dette, che sono come “immagini delle cose”, come quando si pensa “un uomo”, o “una chimera”, o “il cielo”, o “un angelo”, o “Dio”; dall’altro, abbiamo quei pensieri che assumono altre forme oltre alla semplice rappresentazione di oggetti: per esempio «quando voglio,

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La classificazione delle idee in Descartes Idee avventizie Idee Pensieri (cogitationes)

Idee innate Idee fattizie

Pensieri che, oltre a rappresentare qualcosa, includono anche un atto ulteriore

quando temo, quando affermo, quando nego, concepisco sempre qualcosa come oggetto del mio pensiero, ma abbraccio con il pensiero anche qualcosa in più della raffigurazione di questa cosa». Di questo secondo gruppo di pensieri fanno parte gli atti del volere e i giudizi. Prese in sé stesse, senza considerare ciò a cui si riferiscono, le idee non possono mai essere false, perché è sempre vero che esse esistono come atti di pensiero: «sia che immagini una capra sia una chimera, immagino l’una non meno che l’altra». Anche gli atti della volontà non potranno mai essere falsi, perché è sempre vero che si sta desiderando o avversando qualcosa, quale che sia, buona, cattiva, esistente o inesistente. Solo i giudizi sono invece passibili di errore (cioè possono essere falsi in sé): e l’errore più frequente consiste nel «giudicare che le idee che si trovano in me siano simili o conformi a certe cose che stanno fuori di me». Per evitare gli errori del giudizio si dovrà dunque esaminare scrupolosamente la natura e la provenienza delle nostre idee. Le idee propriamente dette (cioè i pensieri del primo genere) possono essere di tre tipi: a. le idee avventizie sono quelle idee che derivano, o sembrano derivare, dall’esterno (per esempio l’idea del Sole o dei colori); b. le idee innate sono quelle che l’io trova in sé stesso e che trae dalla sua stessa natura (per esempio l’idea di pensiero, di cosa, di verità); c. infine le idee fattizie (o “fatte da me”) sono quelle idee che l’io stesso produce componendo arbitrariamente parti di altri idee (per esempio l’idea dell’ippogrifo). In sé stesse queste divisioni non permettono all’io di trovare un punto fermo per dimostrare l’esistenza reale di ciò a cui di volta in volta le

Volizioni Giudizi

idee si riferiscono. Queste ultime, infatti, potrebbero essere tutte quante fattizie, cioè prodotte arbitrariamente dalla mente. Così, al meditante «viene in mente un’altra via per ricercare se alcune cose, le cui idee sono in me, esistano fuori di me». Si tratta di una seconda distinzione, questa volta non più tra i diversi tipi di idee, ma tra gli elementi costitutivi all’interno di ciascuna di esse. Abbiamo detto che le idee possono essere prese come semplici “modi della mente”, cioè come atti compiuti dall’io quando pensa qualcosa; esse però possono anche essere considerate in base a ciò che rappresentano. Come modi o operazioni della mente, le idee non differiscono minimamente tra di loro: l’idea di un colore e l’idea di una verità matematica sono entrambe operazioni della mente, e in quanto tali sono dotate degli stessi caratteri. Riguardo invece a ciò che rappresentano, esse si rivelano differenti tra loro: l’idea di un colore, in quanto rappresenta quel determinato colore di cui è idea, differisce totalmente dall’idea di una verità matematica. Descartes però non si limita a registrare tali differenze, ma vuole determinare in cosa consista la differenza di un’idea dall’altra: a suo parere, essa risiede precisamente nella quantità di realtà rappresentata di volta in volta in un’idea. La realtà rappresentata da un’idea, quindi non la realtà esterna cui l’idea si riferisce ma ciò che essa rappresenta internamente, viene chiamata da Descartes (con un’espressione appresa dalla filosofia scolastica) “realtà oggettiva”. Così, l’idea che rappresenta una sostanza (per esempio, una pietra) contiene una quantità di realtà oggettiva maggiore di quella che è invece contenuta nell’idea di un modo della sostanza (per esempio, la sua forma), così come l’idea di una sostanza infinita contiene una quantità di realtà oggettiva maggiore di quella contenuta nell’idea di una sostanza finita.

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La realtà oggettiva di un’idea indica solo un’esistenza mentale, non ancora qualcosa di esistente effettivamente fuori dall’idea, ciò che invece Descartes chiama – adoperando ancora una volta il lessico scolastico – “realtà formale”. Tuttavia, anche la realtà oggettiva o puramente mentale, come tutte le realtà, non deriva dal nulla, ma deve avere una causa che ne spieghi l’esistenza; e tale causa deve contenere in sé almeno tanta realtà, quanta ve ne è nel suo effetto, se non di più. Inoltre, se nel nostro caso l’effetto è la realtà oggettiva dell’idea, la causa non può essere solo un’altra idea (e quindi un’altra realtà oggettiva), perché a sua volta quest’ultima richiederebbe un’altra causa ancora, e così si andrebbe all’infinito, senza giungere mai a una spiegazione soddisfacente. Per questo motivo la causa adeguata della realtà oggettiva di un’idea deve contenere in sé quella stessa realtà, ma in senso formale, cioè esistente effettivamente fuori dall’idea, o addirittura in senso eminente, cioè possedendo quella realtà in misura maggiore o massima rispetto a come essa è presente nell’effetto [ Realtà formale, realtà oggettiva, realtà eminente]. Si deve notare che tutto questo Descartes lo afferma solo seguendo ciò che appare chiara-

mente e distintamente alla sua riflessione, anche se ancora non sa con certezza se tale realtà formale della causa di un’idea esista veramente in noi o fuori di noi. Per il momento è solo arrivato a dire che, avendo delle idee in noi, esse devono avere evidentemente una causa dotata di realtà formale. Questo però gli permetterà il passo successivo:



Ma infine, che cosa concluderò da tutto ciò? Sicuramente che se la realtà oggettiva di qualcuna delle mie idee è tale che io sono certo che essa non si trova in me, né formalmente né eminentemente, e che di conseguenza non posso essere io stesso la causa di quell’idea, ne consegue necessariamente che io non sono solo al mondo, ma che esiste anche qualche altra cosa, che è la causa di quest’idea. [Meditazioni sulla filosofia prima, III Meditazione]



In altri termini, se si troverà un’idea che contenga una realtà oggettiva maggiore della realtà dell’io stesso, ciò vorrà dire che non è l’io ad aver creato quell’idea, ma, al contrario, che essa gli deriva da altro e che, di conseguenza, questo altro deve esistere. Ora, secondo Descartes, tale è solo l’idea di Dio, un’idea innata con cui noi ci rappresentiamo «una certa sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, somRealtà formale, mamente potente, e dalla quale io stesso, come realtà oggettiva, pure tutto ciò che esiste – se mai esiste – oltre realtà eminente me, siamo stati creati». Come potrebbe una tale sostanza – infinita appunto – essere Nel lessico della Scolastica tardo medievale (tra i cui autori prodotta dall’io, che è invece una sostantroviamo Pedro da Fonseca e Francisco Suárez), si intende per za finita? A ciò, in linea di principio, si realtà formale la presenza effettiva o esistenza attuale di qualcopotrebbe obiettare che forse quella di sa, mentre per realtà oggettiva si intende ciò che di qualcosa viene “infinito” è solo un’idea nata dalla pensato nella nostra mente, vale a dire il suo contenuto essenziale. A negazione di un’idea precedente, cioè Descartes la suddivisione tra questi due tipi di realtà interessa soprattutto riguardo allo statuto delle nostre idee, in particolare dell’idea di l’idea di “finito”, come l’idea di “quieDio. In senso formale l’idea è un atto della nostra mente, mediante il te” è la negazione di quella di “moto” quale noi pensiamo di volta in volta certe cose; e se anche ciò che pen- e l’idea di “tenebre” la negazione di siamo fosse falso, tuttavia in senso formale la nostra idea sarebbe semquella di “luce”. Ma la risposta di pre vera, in quanto esiste di fatto nella nostra mente. In senso oggetDescartes è netta:

tivo, invece, l’idea dev’essere giudicata nella sua verità o falsità, e per questo Descartes individua i diversi tipi di idee (avventizie, fatal contrario, io comprendo in modo tizie e innate) a seconda della loro origine. Infine si chiama realmanifesto che c’è maggior realtà in una tà eminente di una cosa, quella in cui questa cosa è esistensostanza infinita che in una finita, e che te o presente attualmente al suo massimo grado (ed è il quindi in me la percezione dell’infinito è in caso dell’esistenza di Dio come causa della realtà qualche modo antecedente a quella del finito, oggettiva contenuta nella nostra idea di infinicioè quella di Dio a quella di me stesso. In qual to o di somma perfezione).



maniera infatti sarei consapevole di dubitare, di desiderare, cioè di esser mancante di qualcosa, e

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di non essere del tutto perfetto, se in me non ci fosse l’idea di un ente più perfetto, paragonandomi con il quale riconoscessi le mie mancanze? [Meditazioni sulla filosofia prima, III Meditazione)



domandare da dove provenga la sua esistenza. Descartes prospetta due possibilità: l’io può aver ricevuto la propria esistenza da sé stesso oppure da altro. Da sé stesso è certo che non può averla ricevuta, poiché, se si fosse dato l’esistenza, l’io si sarebbe dato anche tutte le perfezioni pensabili. Ciò, però, implicherebbe a sua volta due conseguenze che contraddicono l’esperienza: in primo luogo, esso non desidererebbe nulla, poiché nulla gli mancherebbe di ciò che di fatto desidera; in secondo luogo, esso non dubiterebbe di nulla, poiché non gli mancherebbe alcuna conoscenza. L’io, dunque, non può essersi creato da sé: se non è capace di darsi le perfezioni suddette, a maggior ragione non è in grado di darsi quella particolare perfezione, l’esistenza, che fonda e rende possibili tutte le altre. A questo punto, esclusa l’ipotesi che l’io sia al principio del suo stesso essere, si deve con-

Se l’idea dell’infinito non precedesse dunque quella del finito, l’io non potrebbe nemmeno pensare la propria finitezza. Inoltre, lo stesso dubitare, che finora appariva l’attività più radicale e propria dell’io, assieme al desiderio del vero da cui essa nasceva, sono il segno di una presenza all’io più grande dell’io. A questo punto, di fronte alla consapevolezza di non poter produrre da sé l’idea della sostanza infinita, l’io risale dalla presenza di questa idea – mediante l’applicazione del principio di causalità – all’esistenza reale di ciò da cui essa proviene. L’origine di questa idea non può che essere che lo stesso Dio: dal momento, infatti, che nella causa dell’idea ci deve essere altrettanta o più realtà formale di quanta realtà oggettiva si trova nell’idea, allora il solo ente dotato di tutta la realtà contenuta oggettivamente nell’idea di Dio è Dio stesso. È così che Descartes prova l’esistenza di Dio e la creazione Dio a posteriori, partendo cioè da un delle verità eterne dato esistente, da cui inferire la causa. La novità sta nel fatto che, Dio svolge un preciso ruolo strategico nel pensiero cartesiano: per la prima volta, una prova a far sì che le verità della fisica non restino esposte al dubbio, come posteriori non parte dai dati opinioni soggettive, ma siano garantite metafisicamente, in quanto Dio dell’esperienza, e quindi dai assicura la correttezza del metodo con cui noi conosciamo le cose e il fatto che le cose siano effettivamente come noi le conosciamo. fenomeni esistenti nel Al tempo stesso però, con l’idea di Dio fa irruzione nel pensiero cartesiano la premondo, ma da una realtà senza dell’infinito come un’apertura: essa è il segno enigmatico che il nostro sapepuramente mentale [

re resta limitato e finito, e che la verità resta sempre qualcosa che ci supera. Si tratta di una vera e propria ambivalenza del pensiero cartesiano: da una parte è affermata la 2. La causa dell’esisten- potenza dell’io, il quale trova nel suo stesso pensiero la chiave per superare il dubbio e la misura della verità; ma dall’altro lato l’io riconosce l’esistenza di qualcosa da cui esso za dell’io. Quella appe- dipende come “io”. na esposta non è però Un documento importante di questa duplice posizione cartesiana è la dottrina della creal’unica dimostrazione a zione delle verità eterne, cioè il fatto che il fondamento del carattere assoluto del vero posteriori dell’esistenza sta nel fatto di essere creato da Dio: «Per quanto riguarda le verità eterne, ripeto che di Dio fornita da sono vere e possibili soltanto perché Dio le conosce come vere e possibili, e non, al contrario, che sono conosciute come vere da Dio quasi fossero vere indipendenteDescartes, il quale ne mente da lui. […] Non bisogna dunque dire che se Dio non esistesse queste verioffre anche un’altra, semtà sarebbero comunque vere; l’esistenza di Dio, infatti, è la prima e la più eterpre a posteriori. Diversana di tutte le verità che possono essere e la sola da cui procedano tutte le mente dalla prima, che altre» [Lettera a Mersenne, 6 maggio 1630]. Si tratta in fondo di una tesi muoveva dall’idea di Dio in sorprendente per un autore che ha concepito tutto il suo pensiero quanto realtà oggettiva, la come una ricerca delle condizioni di certezza assoluta della seconda prende invece le mosse verità, e che al tempo stesso concepisce la verità come dall’io stesso che è dotato di queldipendente da un essere supremo che l’ha penl’idea. sata e per ciò stessa l’ha voluta e l’ha Posto che l’io esiste – come sappiamo in creata [ T48].

Dio e la creazione delle verità eterne].

virtù dell’ego sum, ego existo – ci si deve

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siderare un’ultima possibilità, e cioè che l’io esista dall’eternità e che, di conseguenza, la stessa indagine sull’origine della sua esistenza sia priva di senso. Anche questa possibilità, però, è infondata. Agli occhi di Descartes, infatti, l’atto creativo con cui la causa dispensa l’esistenza all’effetto non è limitato al primo istante in cui l’effetto inizia ad esistere, ma si estende all’intera durata della sua esistenza: la creazione, cioè, è una creazione continua. Ciò implica che l’io, come ogni altra creatura, deve essere creato in ogni istante; sicché, lungi dall’essere priva di senso, l’indagine sull’origine dell’esistenza dell’io è fondata anche qualora si ammetta la sua eternità. Allora ci si dovrà chiedere se l’io sia o non sia in grado di esercitare questo influsso creativo continuo su sé stesso. Agli occhi di Descartes, ciò è del tutto impossibile: se l’io fosse in ogni istante il creatore di sé stesso, egli, in quanto cosa pensante, non mancherebbe di esserne cosciente; ma siccome nell’io non c’è alcuna coscienza di essere causa di sé, si deve escludere che egli effettivamente lo sia, anche se esistesse dall’eternità. Esclusa questa eventualità, la sola possibile conclusione è che l’io riceva il suo essere da altro. Tale alterità, però, dev’essere tale da spiegare non soltanto l’esistenza dell’io, ma anche il fatto che questo io abbia in sé l’idea di Dio. Per questo la causa ricercata dovrà essere anch’essa una cosa pensante come l’io, e dovrà avere in sé l’idea di tutte le perfezioni che l’io attribuisce a Dio. E, a tal proposito, non si può neanche dire che la causa adeguata del mio io siano i miei genitori, perché a loro volta essi richiederebbero un’altra causa, e così all’infinito; mentre l’unica causa adeguata all’io è una causa incausata, cioè che riceva da sé il proprio essere. Per questo



in definitiva bisogna concludere che, dal solo fatto che esisto, e che in me si trova una certa idea dell’ente perfettissimo, cioè di Dio, è anche dimostrato nel modo più evidente che Dio esiste. [Meditazioni sulla filosofia prima, III Meditazione]

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1. Per Descartes le idee sono sempre vere: a. se considerate in sé stesse. b. se considerate al di là di ciò a cui si riferiscono. c. se considerate come elementi di un giudizio. d. se considerate come atti del pensiero.

V V V V

F F F F

2. Per Descartes un’idea differisce dall’altra: a. se considerata come operazione della mente. b. se considerata in base al contenuto rappresentato internamente. c. se considerata in base alla realtà esterna cui il contenuto mentale si riferisce. d. se considerata in base alla quantità di realtà rappresentata.

V F V F V F V F

5.7 La dimostrazione a priori dell’esistenza di Dio Nella V Meditazione Descartes formula infine una terza prova per dimostrare l’esistenza di Dio, questa volta però a priori, nel senso che non parte dagli effetti (l’idea di Dio o l’esistenza dell’io) per risalire a Dio come loro causa, bensì dalla semplice analisi concettuale dell’essenza di Dio. Il punto di partenza è ancora una volta il principio dell’evidenza, o meglio una sua conseguenza: tutte le volte che io traggo dal mio pensiero l’idea chiara e distinta di una cosa, posso anche esser certo che tutti gli attributi che percepisco chiaramente e distintamente appartenere a quella cosa gli appartengono effettivamente. Dunque, io ho in me l’idea di Dio come dell’“ente sommamente perfetto”, così come ho anche l’idea di una figura o di un numero, e con la stessa chiarezza e distinzione con le quali intendo le proprietà di una figura o di un numero, intendo anche che alla “natura” di Dio, cioè alla sua essenza, “appartiene di esistere sempre”. Quindi «l’esistenza di Dio dovrebbe possedere per me quanto meno lo stesso grado di certezza che fino ad oggi hanno posseduto le verità matematiche». È vero, aggiunge Descartes, che questo potrebbe sembrare non del tutto evidente, dal momento che noi siamo abituati per tutte le altre cose che pensiamo a tenere distinte l’essenza – cioè il “che cos’è” di una cosa – dall’esistenza – cioè il fatto che essa sia – e dunque potremmo credere che anche in Dio esse vadano distinte.



Ma a chi osservi con maggiore attenzione appare manifesto che l’esistenza non può essere separata dall’essenza di Dio, più di quanto si possa separare dall’essenza di triangolo che l’ampiezza dei suoi tre angoli sia uguale a due retti, o l’idea di valle dall’idea di montagna: cosicché pensare

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un Dio (l’ente sommamente perfetto) a cui manchi l’esistenza (cioè a cui manchi una perfezione) è una contraddizione non minore di quanto lo è pensare un monte a cui manchi la valle. [Meditazioni sulla filosofia prima, V Meditazione]



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Dunque, io non posso pensare un triangolo senza pensare necessariamente che la somma interna dei suoi angoli è pari a 180°, né posso pensare un monte senza pensare necessariamente alla sua vallata, sebbene questo non significhi che il triangolo o la montagna debbano anche esistere necessariamente per il fatto che io li pensi. Nel caso di Dio, invece, dal fatto stesso che io non posso pensarlo se non come esistente, «consegue che l’esistenza è inseparabile da Dio» [ La prova a priori: Anselmo, Descartes, Kant]. 1. La novità della prima prova a posteriori dell’esistenza di Dio di Descartes consiste nel partire: a. dall’esperienza quando questa è evidente. b. dalla realtà formale dell’idea di sostanza infinita. c. dalla realtà oggettiva dell’idea di sostanza infinita. d. dall’esistenza dell’io. 2. La terza prova dell’esistenza di Dio è a priori perché parte: a. dall’idea di Dio. b. dall’esistenza dell’io. c. dal concetto dell’essenza di Dio. d. dalla realtà formale di Dio.

5.8 Verità ed errore C’è ancora un passo però da compiere per poter fondare in maniera indubitabile il sapere scientifico, assunto da Descartes come il grande obiettivo della sua ricerca. Finora il meditante dispone di due certezze: egli sa di esistere e sa che esiste Dio. A queste due certezze egli può senz’altro aggiungerne una terza, perché dispone anche della cosiddetta regola di verità, secondo la quale il vero coincide con ciò che è evidente alla mente. Ciò che resta da stabilire in maniera definitiva – connettendo tra loro queste tre certezze – è che il Dio che è stato dimostrato esistente ci ha anche creati in maniera tale da non farci ingannare, o almeno da non farci ingannare sempre. In altri termini, bisogna che il Dio esistente annulli totalmente l’ipotesi del Dio ingannatore

emersa all’inizio del percorso. Si deve cioè dimostrare, oltre all’esistenza, anche la “veracità” di Dio, vale a dire che egli non ci inganna e non ci ha fatti per ingannarci, in modo da poter fondare da questa certezza la verità necessaria di tutte le cose che noi conosciamo con evidenza. Ora, la veracità di Dio è una conseguenza necessaria della sua stessa essenza quale ente sommamente perfetto, cioè dotato di tutte le perfezioni pensabili:



Innanzitutto riconosco infatti che non può mai accadere che egli mi inganni: in ogni inganno o fallacia si trova infatti un che di imperfetto, e per quanto il poter ingannare appaia come un segno di acume o di potenza, non c’è dubbio che il voler ingannare attesti malizia o debolezza, e di conseguenza non può aver luogo in Dio. E poi sento che in me vi è una certa facoltà di giudicare, che senza dubbio, come tutte le altre cose che si trovano in me, ho ricevuto da Dio; e poiché egli non vuole ingannarmi, certamente non me l’ha data così fatta che, se io la uso correttamente, possa errare. [Meditazioni sulla filosofia prima, IV Meditazione]



Coerentemente alle dimostrazioni fin qui sviluppate, dunque, e cioè in base al fatto che tutto quello che è in me l’ho ricevuto da Dio, «sembrerebbe che io non possa mai errare». Ma qui i conti non tornano più, poiché per esperienza noi ben sappiamo di essere sempre esposti a innumerevoli errori. Quale ne sarà la causa? Perché sbagliamo? Il quadro diventa più complesso, perché da un lato c’è in me l’idea positiva di un Dio perfetto che non può avermi fatto imperfetto, perché la perfezione della causa porta a pensare alla massima perfezione possibile anche nell’effetto; ma dall’altro lato c’è in me l’idea negativa del nulla o del non-ente, segno della mia finitezza e della possibilità di essere mancante, privo di perfezione. Qui sta l’enigma dell’errore, nello scoprire che l’io è in fondo “qualcosa di intermedio” tra Dio e il nulla. Se dunque Dio non ha dotato l’io di una natura che lo induca sistematicamente in errore, com’è possibile che di fatto, ciò nonostante, esso cada in errore almeno qualche volta? Ciò si spiega, secondo Descartes, mostrando che non c’è, nell’io, una facoltà destinata esplicitamente all’errore, ma che quest’ultimo dipende esclusivamente dal fatto che non sempre l’io usa come dovrebbe le facoltà conferitegli da Dio per conoscere.

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L’io dispone di due facoltà: l’intelletto e la volontà. L’intelletto, che è finito e limitato, ha la sola funzione di percepire le idee: esso è cioè passivo, poiché non fa che conoscere quanto gli è esibito dalle idee. La volontà, invece, ha la funzione di giudicare, cioè di dare il proprio assenso a quello che si è conosciuto, e in quanto tale è libera e attiva. Essa è libera perché, quando sceglie o giudica, non è determinata da nulla a scegliere una cosa piuttosto che un’altra; ed è attiva, poiché la sua funzione non si esaurisce nel ricevere qualcosa come dall’esterno, ma nello scegliere e nel giudicare. Non a caso secondo Descartes è proprio la volontà, ben più che l’intelletto, a rappresentare in noi la più evidente “immagine e somiglianza di Dio”. La volontà, intesa come libero arbitrio, non è infatti solo possibilità di scegliere una cosa rispetto all’altra: questa sarebbe solo una “libertà di indifferenza”, perché partirebbe appunto dal fatto che le alternative tra cui scegliere sarebbero alla pari o

indifferenti. Essa è soprattutto la “propensione” a indirizzarci verso una delle possibilità di scelta, abbracciandola liberamente, senza costrizione. In ogni caso, qui Descartes non parla mai della volontà e dell’errore in senso morale o legato al comportamento dell’uomo, ma in senso esclusivamente conoscitivo. Alla luce di questa concezione del nostro libero arbitrio, l’errore si spiega per Descartes osservando che la volontà non sempre si limita a ratificare ciò che le viene mostrato con evidenza dall’intelletto, ma, spingendosi al di là di esso, può emettere giudizi infondati – cioè può dare il proprio assenso a ciò che non è sufficientemente evidente – e indurre di conseguenza in errore:



tutte le volte che, dovendo esprimere un giudizio, contengo la volontà in modo che essa si estenda solo fino a quelle cose che le vengono presentate in maniera chiara e distinta dall’intelletto, certamente non può accadere che io cada in errore. […] E oggi non ho appreso soltanto da che cosa devo guardarmi per non sbagliare mai, ma anche che cosa devo fare per raggiungere la verità: io La prova a priori: infatti la raggiungerò certamente se presteAnselmo, Descartes, Kant rò sufficiente attenzione soltanto a quelle cose che comprendo perfettaLa prova a priori cartesiana per dimostrare l’esistenza di Dio mente e le separerò dalle altre, che viene chiamata abitualmente prova “ontologica”, sebbene non sia apprendo in modo più confuso e stato Descartes, bensì Kant (che pure la ritiene errata e anzi impossibipiù oscuro. le) a definirla così, indicando come suoi autori Descartes e il teologo [Meditazioni sulla filosofia medievale Anselmo d’Aosta. Quest’ultimo, nel suo Proslogion, aveva formuprima, IV Meditazione]



lato un “unico argomento” per dimostrare l’esistenza di Dio, che suonava così: noi abbiamo nella nostra mente l’idea di un essere di cui non possiamo pensare L’errore, dunque, dipende niente di più grande; se dunque ciò che pensiamo in questo modo non esistesse, soltanto dal rapporto – vuol dire che non sarebbe la realtà più grande che possiamo pensare, ma ce ne sarebbe un’altra ancora più grande, tale da essere anche esistente. Nel nostro pensie- interno all’io – tra le due ro si annuncia dunque inevitabilmente l’esistenza di qualcosa che supera infinitamen- facoltà che Dio gli ha dato al fine di fargli conoscere te il nostro stesso pensiero, e con cui esso è in intimo rapporto dialogico. La dimostrazione cartesiana può invece essere ricondotta al seguente sillogismo: Dio la verità e scegliere ciò che è un ente sommamente perfetto, dotato cioè in sommo grado di tutte le perfezioni si deve o non si deve fare. (premessa maggiore); l’esistenza è una perfezione (premessa minore); dunque Dio È solo con la spiegazione esiste (conclusione). Tuttavia per Descartes tale ragionamento – a differenza degli della genesi dell’errore che esponenti della Scuola razionalista tedesca del XVIII secolo, come Wolff e Descartes può definitivaBaumgarten, che lo riprenderanno massicciamente – non è una mera costrumente sottrarre Dio al sospetzione logica del pensiero umano, ma quasi un’obbedienza alla realtà: to di essere ingannatore. quando io penso Dio, non posso pensarlo se non come esistente, «ma L’uomo ha tutto quanto potrebnon perché il mio pensiero possa far sì che la cosa vada in questi be desiderare per pervenire alla termini, né perché esso imponga una qualche necessità ad conoscenza della verità. L’acalcunché: al contrario, è la necessità della cosa stessa, corgimento che dovrà usare a tal fine cioè dell’esistenza di Dio, che mi determina a pensarla così» [Meditazioni sulla filososarà quello di mantenere sempre la fia prima, V Meditazione]. volontà entro i limiti dell’intelletto e, qualo-

ra l’evidenza non sia sufficiente, di sospendere il

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giudizio (è preferibile non giudicare che cadere in errore): usando questo accorgimento, l’errore si rivela assolutamente impossibile. 1. Poste le tre certezze (l’esistenza dell’io, l’esistenza di Dio, l’identità fra verità ed evidenza) per fondare il sapere scientifico in modo indubitabile Descartes deve dimostrare che: a. il Dio esistente sia anche verace. V F b. il Dio verace esiste senza dubbio. V F c. l’ipotesi del Dio ingannatore sia distrutta dal Dio esistente. V F d. l’ipotesi del Dio esistente sia contraddetta dal Dio ingannatore. V F

5.9 Essenza ed esistenza dei corpi Ora che sa di esistere e di essere in possesso di un criterio di verità valido assolutamente, e che di conseguenza ha la certezza che una conoscenza veridica del mondo è possibile, l’io può riguadagnare quel mondo che gli era stato sottratto dal dubbio. È una specie di ritorno circolare a quella concezione meccanicistica della realtà fisica che Descartes aveva già presentato nello scritto intitolato Il Mondo, e che poi era stata messa radicalmente in dubbio, ma che ora – una volta superato il dubbio tramite il cogito e Dio – viene nuovamente presa in considerazione nel suo fondamento metafisico ultimo. Nella V Meditazione Descartes identifica l’essenza del corpo come res extensa, ‘cosa’ o ‘sostanza estesa’. Essa coincide con la quantità continua o – che è lo stesso – con l’estensione in lunghezza, larghezza e profondità: posto che è vero tutto ciò che è evidente, e che nel corpo ciò che è evidente è l’estensione, si deve concludere che solo essa costituisce l’essenza del corpo. Certo, quando noi percepiamo i corpi, oltre alla loro estensione abbiamo anche l’evidenza di altri caratteri, come la figura e il movimento. N on per questo, tuttavia, essi costituiscono l’essenza del corpo al pari dell’estensione, ma solo i suoi modi, vale a dire le diverse configurazioni che essa può assumere. Ma se la figura e il movimento – assieme a ciò che ne consegue, e cioè la divisibilità in parti, la numerabilità delle parti, l’attribuzione a queste parti di grandezze e durate determinate – appartengono alla natura propria dei corpi, ciò significa

che la geometria e la matematica sono ormai del tutto liberate dal sospetto di falsità che su di esse aveva gettato il dubbio iperbolico. La quantità costituisce dunque per Descartes sia l’oggetto delle matematiche che l’oggetto della fisica. In questo senso, egli può ritenere compiuto il suo progetto di elaborare una metafisica che servisse da fondamento della fisica meccanicistica. Dopo aver stabilito quale sia l’essenza delle cose materiali, occorre però dimostrare anche l’esistenza dei corpi, cioè il fatto che nella realtà esistano effettivamente cose estese. È quello che Descartes fa nella VI Meditazione, in tre tappe. 1. Innanzitutto, egli afferma che le cose materiali sono possibili, per il semplice motivo che possono essere pensate con evidenza dalla mia mente. Grazie al fatto di aver appoggiato definitivamente la matematica e la geometria su di un fondamento metafisico, Descartes può formulare il seguente principio: «non vi è dubbio che Dio sia in grado di produrre tutte quelle cose che io sono in grado di concepire in maniera chiara e distinta». 2. In un secondo momento, le cose materiali sono invece ammesse come probabili, per la presenza in noi della facoltà di immaginazione, che è una facoltà di tipo corporeo: a differenza della pura intellezione – cioè l’atto della mente che «si rivolge in qualche modo a sé stessa e osserva qualcuna delle idee che le ineriscono» –, con l’immaginazione la mente «si rivolge al corpo, e in esso vede qualcosa di conforme all’idea che ha concepito essa stessa o che ha percepito con il senso». È dunque probabile che vi siano corpi, ma non si tratta ancora di una certezza, poiché potremmo sempre ipotizzare che l’immaginazione non faccia effettivamente parte dell’io, dal momento che di quest’ultimo sappiamo con assoluta certezza solo che è una sostanza pensante, dunque non legata in alcun modo al corpo. 3. Solo con un terzo passo Descartes arriva a dimostrare in maniera necessaria che le cose materiali sono effettivamente esistenti. All’inizio del percorso, prima che si introducesse il dubbio, l’io credeva nell’esistenza delle cose materiali, proprio basandosi sulla passività del sentire, cioè sul fatto che l’io, quando ha delle sensazioni, non è padrone di sentire o di non sentire ciò che sente: esso percepisce la durezza

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e il calore, la luce e i colori, gli odori, i suoni e i sapori, senza che questi ultimi chiedano il suo permesso. L’io, però, aveva giudicato infondata quella credenza ipotizzando che tali sensazioni fossero prodotte inconsciamente da lui stesso. Un’eventualità, questa, che ora si rivela però del tutto impossibile: dal momento che l’io è pensiero (res cogitans), se veramente esso disponesse di una facoltà capace di produrre le idee, dovrebbe pure pensarla, cioè dovrebbe esserne cosciente; ma, siccome nell’io non si dà alcuna coscienza di questa presunta facoltà, allora non c’è alcuna ragione di credere che essa sia reale. Da questo Descartes conclude che le cose materiali derivano effettivamente da una sostanza distinta dall’io. Ma qui si pone ancora un’alternativa: o le idee derivano effettivamente dalle cose materiali, oppure esse sono poste nell’io da Dio o da qualche sostanza più perfetta dell’io. Questa seconda eventualità, però, non è ammissibile: dal momento che nell’io si dà una propensione a credere che le idee provengano dalle cose materiali, se a metterle nell’io fosse invece Dio (o qualche sostanza più perfetta dell’io), Dio stesso mi ingannerebbe facendomi credere che esse provengano effettivamente dai corpi. Ma, come sappiamo, Dio non è ingannatore, bensì verace. L’unica soluzione necessaria al nostro problema sarà dunque che i corpi esistono: solo essi permettono infatti di conciliare la passività del sentire con la veracità di Dio. Così, dunque, Descartes dimostra l’esistenza dei corpi che era stata messa in dubbio dall’argomento del sogno. Ma quali corpi, precisamente, sono stati dimostrati esistenti? Solo quelli che la nostra mente può definire in base all’estensione e ai suoi modi: i corpi matematizzati, vale a dire ridotti alla sola quantità continua e spogliati da tutte quelle qualità che la sensibilità induce invece ad attribuire loro. Questo vuol dire che allora tutte le qualità sensibili (i colori, i rumori, gli odori, i sapori, ecc.) non esistono nelle cose, ma soltanto nel soggetto percipiente o senziente:



Dunque le cose corporee esistono. Forse, tuttavia, non tutte esistono esattamente come le percepiamo per mezzo dei sensi, poiché la percezione dei sensi in molte cose risulta alquanto oscura e confusa; ma tra di esse vi sono per lo meno tutte quelle cose che concepisco chiara-

mente e distintamente, vale a dire tutte quelle cose che, considerate in generale, rientrano nell’oggetto della pura mathesis. [Meditazioni sulla filosofia prima, VI Meditazione]



Ciò, tuttavia, non significa che, rispetto agli elementi quantitativi (estensione, figura, movimento, numero), le qualità sensoriali non abbiano alcun valore. Sebbene sul piano della conoscenza del corpo tali qualità (colori, odori, sapori, ecc.) non siano affatto utili, il loro valore è enorme sul piano pratico: sono infatti proprio esse che consentono di distinguere ciò che è vantaggioso da ciò che è nocivo e di modulare di conseguenza la propria condotta.

5.10 Il rapporto tra la mente e il corpo nell’uomo Solo dopo aver conseguito un’idea chiara e distinta dell’essenza del corpo e aver dimostrato l’esistenza effettiva dei corpi – come qualcosa di evidentemente altro rispetto all’io –, Descartes può passare a dimostrare, in maniera assolutamente certa, la distinzione reale che sussiste tra la res cogitans e la res extensa. In altri termini, solo ora può provare con ragioni evidenti l’immortalità dell’anima. Ancora una volta, dunque, per comprendere cosa sia l’io – l’anima, la mente, lo spirito, il cogito o come lo si voglia chiamare – bisogna differenziarlo da tutto ciò che non è l’io, cioè non è pensiero, ma corpo. In questo senso a Descartes basta il fatto che noi percepiamo, con chiarezza e distinzione, la mente come “sostanza pensante e non estesa” e il corpo come “sostanza estesa e non pensante”, per poter affermare con assoluta certezza che il corpo non è mente e la mente non è corpo, e concludere quindi che essi sono ontologicamente distinti tra di loro. È di qui che nasce la formula con cui si è soliti contrassegnare la metafisica del nostro autore, parlando appunto di “dualismo cartesiano”. Resta comunque un problema: se mente e corpo sono realmente separati, come si spiega che, di fatto, nell’esperienza umana essi sono sempre uniti? In che modo potremmo pensare un uomo concreto – che è sempre un’unità psico-fisica – come composto di due realtà irriducibili l’una all’altra? La risposta di Descartes a

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questo proposito è che l’unione effettiva tra la mente e il corpo non toglie nulla al fatto che essi possono essere separabili. In altri termini, quando si parla di una distinzione reale tra mente e corpo non si indica una distinzione di fatto tra le due cose, ma, al contrario, solo che queste due cose, pur essendo unite di fatto, possono essere concepite da noi come ontologicamente distinte, e quindi, in linea di principio, possono essere anche realmente distinte da Dio in virtù della sua onnipotenza. Se dunque Descartes identifica l’io con il solo pensiero o mente, ciò non toglie che esso abbia un corpo: le sensazioni provenienti dal corpo – da quel corpo che l’io sente come proprio – ne costituiscono la prova evidente. Se l’io sta male quando prova dolore, o ha bisogno di cibo o di acqua quando ha fame o sete, allora tra la mente e il corpo è innegabile che si dia una strettissima unità, tale da giustificare che le due sostanze, pur del tutto eterogenee, possano influenzarsi reciprocamente. Per questo motivo, alla tesi della distinzione reale tra le due sostanze si deve affiancare quella dell’unione sostanziale tra di esse, proprio per salvaguardare i dati dell’esperienza. 1. Nell’esperienza mente e corpo sono sempre uniti perchè la distinzione fra questi: a. non è reale sebbene sia fattuale. b. non è fattuale sebbene sia reale. c. è solo pensata da Dio. d. non dipende dall’onnipotenza divina.

morale provvisoria; e ciò non soltanto perché non si impegnò più a elaborarne una definitiva, ma anche perché, in fondo, questa morale provvisoria conteneva già, anche se in forma sintetica e non sistematica, tutte quelle convinzioni etiche che lo avrebbero accompagnato durante l’intero corso della sua vita. Anche quando tornerà a occuparsi di questioni di morale, infatti, Descartes non farà che confermare, nell’essenziale, i princìpi stabiliti in precedenza. La morale provvisoria, che Descartes espone nel Discorso sul metodo, consta di tre massime:



La prima era di obbedire alle leggi e ai costumi del mio paese, conservando fedelmente la religione in cui Dio mi ha fatto la grazia di essere educato fin dall’infanzia, e regolandomi in tutto il resto secondo le opinioni più moderate, più lontane da eccessi, quelle comunemente praticate dalle persone fornite di maggiore buon senso fra quelle con cui mi sarei trovato a vivere. […] La mia seconda massima era di agire con quanta più ferma risolutezza mi fosse possibile, e di seguire con altrettanta costanza, una volta orientato in un certo senso, anche le opinioni più dubbie come se fossero certissime. […] La mia terza massima era di cercare sempre di vincere me stesso piuttosto che la fortuna, e di mutare i miei desideri piuttosto che l’ordine del mondo; e, in genere, di abituarmi a credere che non vi è nulla, al di fuori dei nostri pensieri, interamente in nostro potere; cosicché, quando a proposito delle cose esteriori abbiamo fatto del nostro meglio, tutto ciò che non ci riesce resta, per quel che ci concerne, assolutamente impossibile. [Discorso sul metodo, parte III]



6 L’etica 6.1 La morale provvisoria L’interesse cartesiano per l’etica risale agli anni della sua giovinezza, quando, avendo deciso di dedicarsi alla ricerca della verità, egli sentì l’esigenza di elaborare una “morale provvisoria” alla quale attenersi fino a che la ricerca intrapresa non gli avesse fornito gli strumenti per formularne una definitiva. In realtà, però, anche dopo aver portato a compimento la sua indagine filosofica, Descartes non si emancipò mai da questa

Il conformismo espresso dalla prima massima non va inteso, però, come un atto di sfiducia nelle capacità della ragione, né come una riduzione dell’agire individuale alle convenzioni – etiche, culturali e religiose – dell’uomo comune, ma risponde al contrario ad un’esigenza che è intrinseca al progetto cartesiano. La conformità alle convenzioni, a ben vedere, è la sola possibilità che si offra a chi, come Descartes, progetti un’indagine generale sul sapere umano: fino a che la determinazione di nuovi fondamenti certi non permetta di formulare un’etica definitiva e fondata sulla ragione, la scelta più ragionevole non può che essere quella di attenersi alle opinioni sostenute ordinariamente; e, fra

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esse, alle opinioni più moderate e lontane dagli eccessi, poiché, anche nel caso in cui si rivelassero erronee, seguendole non ci si allontanerebbe mai dal vero, come si farebbe se si seguissero opinioni estreme ed eccessive. Il fatto però che si debbano seguire le opinioni più probabili, non toglie che nel farlo – come stabilisce la seconda massima – occorra essere il più possibile fermi e risoluti, come se queste opinioni fossero certissime ed evidenti. Se è vero, infatti, che decisioni basate come queste sulle opinioni altrui potrebbero in seguito rivelarsi erronee, è vero anche che, mancando provvisoriamente l’evidenza della ragione, la costante e perseverante fedeltà ad esse farà sì che chi le segua, in primo luogo, non si trovi incerto e irrisoluto nelle azioni e, in secondo luogo, non abbia a pentirsi delle scelte fatte. La terza massima, infine, con il suo richiamo esplicito all’etica stoica, punta l’attenzione sui limiti che la natura impone all’uomo, e in ciò fa emergere lo strettissimo rapporto tra la felicità e l’estensione dei desideri umani. Spesso, infatti, la felicità non deriva da circostanze oggettive, quanto piuttosto dalla sproporzione sussistente tra il desiderio dell’uomo e ciò che effettivamente egli può conseguire: per questo, secondo Descartes, affinché l’uomo possa garantirsi la felicità e il dominio di sé che sono necessari all’azione, occorre che egli moduli i propri desideri in base all’effettiva possibilità che essi trovino realizzazione. Bisogna cioè che l’uomo desideri soltanto ciò la cui realizzazione è possibile. Sarebbe inutile, dice Descartes, desiderare di godere una buona salute quando si è malati o di avere le ali come gli uccelli: un desiderio sproporzionato rispetto alla possibilità della sua realizzazione non fa che condannare l’uomo alla schiavitù della passione e all’impossibilità di governarsi secondo ragione.

6.2 La fisiologia delle passioni Dal 1637, anno di pubblicazione del Discorso sul metodo, fino al 1643, Descartes non tornerà mai, o quasi mai, su questioni di morale. È a partire dal 1643, a seguito dell’incontro con Elisabetta di Boemia, principessa del Palatinato, che egli mostrerà un rinnovato interesse per l’etica. A partire dal 1643, infatti, ha luogo un ricco scambio epistolare con la stessa principes-

sa Elisabetta, con Hector-Pierre Chanut e con la regina Cristina di Svezia, nel quale vengono dibattuti soprattutto i temi della felicità, della beatitudine, del sommo bene e dell’amore. È proprio in questi anni che Descartes decide di dedicarsi alla stesura di un trattato sulle passioni dell’anima. Al di là del titolo, che farebbe pensare ad un tradizionale trattato di etica, Le passioni dell’anima è un testo dedicato invece al tema dell’unione sostanziale di anima e corpo. Nelle Meditazioni, in effetti, Descartes si era occupato quasi esclusivamente della distinzione reale tra l’anima e il corpo – nella sua terminologia, tra l’io come res cogitans, ossia come mente, e il corpo umano come res extensa – lasciando invece aperta la grande questione della reciproca influenza che sussiste tra di essi. Per Descartes, quindi, non si tratta tanto di mettere a tema le passioni in una prospettiva etica, quanto piuttosto di mostrare quali siano, in esse, i meccanismi psico-fisiologici che regolano la corrispondenza tra i fenomeni mentali e la meccanica del corpo. Il suo proposito, come egli scrive, «non è stato quello di spiegare le passioni come un oratore e neppure come un filosofo morale, ma soltanto come un fisico» [Le passioni dell’anima, Prefazione]: dal momento, infatti, che la morale riguarda l’uomo inteso come complesso di mente e corpo, l’indagine sulle passioni non può che essere realizzata sul piano della filosofia naturale. In altri termini, la vera e propria filosofia morale dovrà essere intesa come una fisica della vita morale o una fisiologia delle passioni. Ora, per comprendere la possibile unione di anima e corpo, si deve esaminare in che modo la corporeità entri nei pensieri, cioè nella sola cosa che appartiene all’anima, e in che modo questi pensieri siano le modalità con cui l’anima si riferisce al corpo. A questo proposito, Descartes distingue due classi di pensieri: 1. da un lato vi sono le azioni dell’anima, ossia gli atti volontari che hanno origine nell’anima e dipendono da essa; 2. dall’altro lato vi sono le sue passioni o affezioni (da non confondere con le “passioni” menzionate nel titolo dell’opera), le quali coincidono con tutte quelle percezioni e conoscenze che si producono sì nell’anima, ma non per sua volontà.

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La classificazione dei pensieri: azioni e passioni Azioni o atti volontari

Pensieri

Azioni dell’anima che hanno come termine l’anima stessa

Es.: l’amore di Dio o il pensiero di enti immateriali

Azioni dell’anima che hanno come termine il corpo

Es.: il fatto che alla volontà di muovere il corpo segue, nel corpo, un movimento

Passioni o affezioni

Passioni causate dall’anima

Es.: la percezione che accompagna gli atti volontari (coscienza)

= Percezioni o conoscenze

Passioni causate dai corpi

Le azioni, poi, possono essere di due specie: quelle che hanno nell’anima stessa il loro termine, come quando si ama Dio o si pensa un oggetto immateriale; e quelle che hanno il loro termine nel corpo, come quando alla volontà di compiere una certa azione consegue nel corpo l’azione stessa. Anche le percezioni o passioni possono essere di due tipi: alcune sono causate dall’anima stessa, come la percezione degli atti volontari; altre sono invece causate dal corpo, vale a dire indotte nella mente dall’azione dei nervi. Tra le percezioni o passioni causate dal corpo, poi, alcune si riferiscono agli oggetti esterni che, muovendo gli organi di senso, provocano dei movimenti che attraverso i nervi si producono anche nel cervello, che in tal modo “sente” gli oggetti; altre, invece, si riferiscono al corpo, come la fame, la sete e tutte le affezioni simili; altre, infine, si riferiscono all’anima sola, come la gioia, la collera e simili. Sono queste ultime – causate dal corpo ma riferite alla sola anima – quelle che Descartes chiama, in senso stretto le “passioni dell’anima” e alle quali è dedicato lo scritto omonimo. È vero che anche le percezioni degli oggetti esterni e le affezioni del proprio corpo costituiscono, rispetto al pensiero, delle “passioni”; ma

Passioni riferite ai corpi esterni

Es.: percezione degli oggetti esterni

Passioni riferite al proprio corpo

Es.: sete, fame, dolore

Passioni riferite all’anima sola

Es.: collera, gioia, tristezza

ciò vale se ci si riferisce al termine “passione” preso in senso lato, mentre in senso più preciso esso indica quegli stati passivi che si riferiscono alla sola anima. Descartes definisce le passioni dell’anima come



percezioni, o sensazioni, o emozioni dell’anima, che si riferiscono ad essa in particolare e che sono causate, mantenute, rafforzate, da qualche movimento degli spiriti. [Le passioni dell’anima, I, § 27]



Esse possono essere definite percezioni, nella misura in cui non sono delle azioni dell’anima o atti di volontà (bensì, appunto, passioni); sensazioni, in quanto l’anima le riceve come riceve le sensazioni delle cose esterne; infine emozioni, perché esse “agitano” o “muovono” l’anima più di qualunque altro stato percettivo. Oltre a ciò, anche al fine di evitare confusioni terminologiche, Descartes sottolinea i due fattori che caratterizzano essenzialmente le passioni dell’anima. Il loro primo carattere, come si è già detto, è quello di essere riferite alla sola anima: questo le differenzia dagli altri stati passivi, come le percezioni degli oggetti esterni o le affezioni del corpo; il loro secondo carattere è inve-

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ce di essere causate dagli spiriti, intendendo per “spiriti” delle parti materiali sottilissime proprie della macchina umana, e questo le differenzia invece dalle azioni e dagli atti volontari che sono causati invece dall’anima stessa. Una volta stabilito il legame essenziale tra le passioni e gli spiriti, si capisce per quale motivo l’indagine psico-fisiologica, agli occhi di Descartes, sia la sola che possa dar conto della complessità delle passioni: queste ultime, infatti, lungi dall’essere “sentimenti” indipendenti dal corpo, sono esattamente degli stati passivi eccitati, rafforzati, ma soprattutto causati dal corpo stesso. La novità dell’approccio cartesiano, in questa direzione, sta proprio nell’aver distinto azioni e passioni della mente e nell’aver collocato le passioni in una zona di reciproca appartenenza di corpo e anima. In tal senso, l’introduzione della ghiandola pineale, quale luogo corporeo deputato a essere la sede dell’anima, è la riprova che l’intento di Descartes, trattando delle passioni, è stato esattamente quello di mostrare in che modo il corpo e l’anima siano congiunti in una unità così stretta che nulla potrebbe prodursi sul piano delle passioni senza una compartecipazione dell’elemento corporeo e dell’elemento mentale: la causa prossima delle passioni è infatti il movimento indotto dagli spiriti nella ghiandola pineale. La funzione positiva delle passioni è per Descartes quella di permettere all’uomo di distinguere ciò che è vantaggioso e va perseguito da ciò che è svantaggioso e va evitato. Tra queste passioni ve ne sono alcune che egli definisce “primitive”: la meraviglia, l’amore, l’odio, il desiderio, la gioia e la tristezza. Tutte le altre passioni per Descartes sono derivate, o perché composte da due o più passioni primitive, o perché ne sono delle specie. La prima di queste passioni primitive, la meraviglia, ha luogo quando, incontrando un oggetto, lo si giudica nuovo e non si è nella condizione di stimarlo né vantaggioso né nocivo. Quando invece l’oggetto che ha indotto la meraviglia viene stimato conveniente o nocivo, allora cessa lo stato di meraviglia e sorgono l’amore e l’odio: l’amore verso ciò che appare buono e conveniente; l’odio, invece, nei confronti di ciò che appare nocivo e dannoso. All’amore e all’odio si accompagna poi il desiderio. Esso non si limita al solo presente, come desiderio di conservare i beni che si possie-

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dono, ma si protende verso il futuro: si desidera infatti che in futuro accada ciò che è ritenuto conveniente e che non accada invece ciò che è ritenuto dannoso. Alla percezione dei beni presenti o futuri sono infine legate le passioni della gioia e della tristezza: la gioia è la passione suscitata dal possesso di un bene, mentre la tristezza deriva dalla percezione che ciò che si possiede è un male o un difetto. Ma qual è il potere dell’uomo rispetto agli stati psico-fisiologici in cui consistono le passioni? Secondo Descartes, le passioni non possono essere dominate “direttamente e totalmente” dalla ragione, né l’uomo può impedire a sé stesso di provarle. Il massimo che si possa fare è governarle “indirettamente”, cercando di gestirne gli effetti: e questo perché le passioni non sono solo causate inizialmente dagli spiriti, ma sono anche mantenute e rafforzate nel tempo da essi; di conseguenza, in quanto dipendenti anche dal corpo, non possono mai essere completamente dominate dalla volontà. Il governo delle passioni, dunque, consiste in ultima istanza nel parziale potere di moderare i loro effetti, limitando le azioni e i movimenti che da esse potrebbero conseguire. Ma ciò, per Descartes, è quanto basta a che la vita sia felice, poiché è nelle passioni che risiede ultimamente la dolcezza della vita:



gli uomini che la passione può far vibrare di più, sono capaci in questa vita di gustare le maggiori dolcezze. È vero che possono anche trovarvi le maggiori amarezze, se della passione non sanno fare buon uso, e se hanno contraria la fortuna. Ma la saggezza proprio in questo torna utile: nell’insegnare a rendersi talmente padroni delle passioni, a dirigerle con tale abilità, da far sì che esse cagionino soltanto mali molto sopportabili, e perfino tali che sia sempre possibile volgerli in gioia. [Le passioni dell’anima, III, § 212]



1. Il fine del trattato Le passioni dell’anima è quello di: a. descrivere la dinamica della vita morale dell’uomo. b. indicare possibili modi con cui disciplinare le passioni umane. c. trattare le passioni in una prospettiva eminentemente etica. d. fornire una descrizione fisiologica delle passioni umane.

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SINTESI CAPITOLO 8

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parte II L’orizzonte cartesiano e i nuovi sistemi della metafisica razionalistica Il desiderio del vero e le misure della ragione. Il pensiero di René Descartes (1596-1650) nasce dal senso di una perdita e dal tentativo di riconquistare l’evidenza della realtà, la presenza del vero. La natura della crisi è per Descartes più radicale che in passato: si tratta della possibilità stessa che si dia la verità. Con il filosofo francese si è soliti far cominciare l’“età moderna” in filosofia: con lui, infatti, prende forma quella pretesa tipica della ragione moderna di costituire in sé stessa la misura assoluta della realtà, in base alle regole dell’evidenza matematica. Il problema del metodo. Il progetto filosofico cartesiano mira alla fondazione di una scienza in cui la verità dei risultati conseguiti dipenda da una ricerca e da un’indagine condotte metodicamente. A questo progetto sono dedicati due scritti: le Regole per la guida dell’intelligenza e il Discorso sul metodo. L’esigenza di un metodo nasce in Descartes fin dagli anni del suo corso di studi a La Fléche dove si accorge che il sapere impartito nelle scuole risulta privo di un metodo capace di garantire la verità dei risultati di una scienza. Di qui il rifiuto della logica scolastica che non permette di scoprire nuove verità e di ampliare la conoscenza, ma serve solo ad esporre ciò che è già noto. La vera logica per Descartes è una logica della scoperta e la scienza, prima ancora che conoscenza di verità, è conoscenza del metodo. Il metodo della conoscenza, a sua volta, non è un problema di cultura o di scuola: esso costituisce la natura della mente umana, è innato, cioè costituisce una sorta di capacità naturale che ci troviamo addosso, e non può essere insegnato o appreso dal di fuori. La natura della mente umana si realizza compiutamente nella scienza. Quest’ultima per Descartes presenta le seguenti caratteristiche: è una totalità certa ed evidente, come si evince dalla I delle regole per la guida dell’intelligenza; è unica, unitaria e identica, a prescindere dalla diversità degli oggetti di cui si occupa di volta in volta (questa tesi si giustifica in base all’unità della conoscenza umana); è certa ed evidente, come si evince dalla II delle regole per la gui-

da dell’intelligenza. Pertanto, occorre escludere dalla scienza ciò che è dubitabile: sono le “matematiche” (aritmetica e geometria) a costituire il modello normativo della scienza cartesiana. Esse sono costituite da una concatenazione di ragioni in cui non rientra per nulla l’esperienza e quindi non c’è il pericolo di offuscare l’evidenza della deduzione con ciò che è incerto e mutevole, perché legato alla sensibilità. La ragione del primato delle matematiche risiede nel fatto che ciascuna di esse è un’applicazione particolare di una scienza più generale, la mathesis universalis, che non si occupa di una materia particolare, ma di un oggetto che le accomuna tutte. Tale oggetto generale coincide con l’ordine e la misura. Qualunque disciplina, quale che sia il suo oggetto, potrà essere certa ed evidente solo se si costituirà, sul modello delle matematiche, come una scienza dell’ordine e della misura, o come una scienza delle proporzioni in generale. Sulla scia di questa rifondazione del sapere in base a un sistema di puri rapporti e proporzioni, Descartes giunge alla scoperta di una geometria analitica, sintesi geniale del calcolo algebrico e della figurazione geometrica. Due operazioni della mente permettono di conseguire in ogni scienza la certezza delle matematiche: l’intuizione e la deduzione. L’intuito è immediato e consiste nell’apprensione diretta dell’oggetto conoscibile; la deduzione perviene al proprio oggetto in maniera mediata, percorrendo cioè delle tappe progressive. L’esposizione del metodo è contenuta compiutamente nel Discorso sul metodo (1637) in cui Descartes individua quattro regole fondamentali. La prima è la regola dell’evidenza, che consiste nel non accettare mai nulla per vero che non sia attestato dall’evidenza. Essa poggia sulla chiarezza, che denota la presenza manifesta della nozione dell’oggetto conosciuto alla mente che lo conosce, e sulla distinzione, che designa l’assenza di confusione tra la nozione dell’oggetto concepito e le nozioni delle altre cose. La seconda è la regola dell’analisi che prescrive di dividere le questioni di cui ci si occupa in modo da poterle meglio

risolvere. La terza è la regola della sintesi che prescrive, invece, di condurre i propri pensieri con ordine, muovendo dagli oggetti più semplici e facili da conoscere per pervenire poi, gradualmente, a quelli più complessi e difficili. La quarta è la regola dell’enumerazione che prevede che si facciano dei controlli esaurienti delle procedure adottate. La scienza cartesiana tra fisica e fisiologia. Nel trattato di fisica generale, Il Mondo, Descartes propone non una descrizione della realtà naturale quale essa è effettivamente, ma una “favola del mondo”, ossia la descrizione di un mondo esistente solo negli spazi immaginari. La materia di cui esso è costituito è caratterizzata dalla sola estensione in lunghezza, larghezza e profondità; tutte le altre “qualità” (il colore, la durezza, il suono, ecc.) possono essere spiegate come risultanti del contatto tra la percezione e le proprietà dell’estensione, secondo la distinzione galileiana tra qualità oggettive e soggettive. La materia è inoltre omogenea, continua, illimitata, divisibile all’infinito e al tempo stesso costituita di particelle che, componendosi e dividendosi, vanno a formare i corpi particolari. Essa è caratterizzata da un movimento continuo: la quantità del moto è immutabile in quanto impressa da Dio al momento della creazione. Dall’immutabilità divina Descartes deduce le tre leggi del movimento. Quella proposta da Descartes è una fisica corpuscolare guadagnata non mediante l’esperienza empirica, ma attraverso la sola evidenza della ragione, nella quale il mondo gira in virtù delle sole cause meccaniche, nella più completa assenza di cause finali. La concezione meccanicistica del mondo investe anche la spiegazione del corpo umano. Mentre gli scolastici, per spiegare il funzionamento del corpo umano, ammettevano l’esistenza di un’anima vegetativa e di un’anima sensitiva, immettendo nel mondo naturale princìpi non riducibili alla materia, Descartes riconduce anche i fenomeni relativi ad esso alle leggi meccaniche che governano il mondo naturale. Come

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SINTESI CAPITOLO 8

René Descartes capitolo 8 la fisica dunque, anche la fisiologia e tutta la vita biologica sono riducibili alle mere leggi della meccanica. La metafisica. Il passaggio dal problema metodologico a quello metafisico, affrontato nelle Meditazioni sulla filosofia prima, matura in Descartes dall’ipotesi che l’evidenza matematica non coincida in maniera pura e semplice con la verità e, di conseguenza, che l’intero dispositivo metodico, che poggiava proprio su quella identità, richieda una fondazione di natura metafisica. La tesi di Descartes è chiara: come non può darsi un albero senza radici, allo stesso modo non sono possibili le scienze particolari senza un fondamento metafisico. La radicalità della metafisica è duplice e consiste, da un lato, nel fatto che solo essa può garantire la verità del metodo e dall’altro che essa è a fondamento delle scienze particolari. Descartes compone le Meditazioni sulla filosofia prima in latino in quanto destinate ad un pubblico di “dotti”; pur tuttavia sceglie il metodo della meditazione, e non quello del trattato, poiché nella meditazione il lettore viene messo in gioco in modo personale, non limitandosi a recepire in modo passivo delle informazioni. Il senso che Descartes attribuisce alla scelta del genere meditativo è quello di condurre il lettore a immedesimarsi nel cammino percorso dall’autore, fino alla liberazione spirituale. Questa non ha però carattere religioso, ma esclusivamente teoretico o filosofico. Nelle Meditazioni sulla filosofia prima Descartes radicalizza la coincidenza tra “verità” e “indubitabilità”: di conseguenza tutte le conoscenze probabili vengono identificate con le conoscenze false. In tal modo, il dubbio cartesiano è: metodico, perché costituisce lo strumento principale di un’indagine sistematica condotta sulla totalità delle conoscenze acquisite; iperbolico, perché è così radicale da considerare ciò che è solamente probabile con ciò che è completamente falso; e antiscettico, poiché mira all’acquisizione della verità. La prima classe di conoscenze che Descartes sottopone al test del dubbio è quella delle conoscenze acquisite per mezzo dei sensi: se è

vero che talvolta i sensi ci ingannano, dovremo concludere che essi sono sempre inaffidabili e che le conoscenze che essi ci forniscono sono tutte false. Tale dubbio investe finanche la percezione dei corpi vicini e del proprio corpo: è sufficiente infatti ipotizzare di vivere in un sogno in cui ciò che ci rappresentiamo appare come vero pur non essendo tale. Eppure, anche nel sogno sembra che qualcosa resista agli assalti del dubbio: le nozioni della corporeità, dell’estensione, della forma, della grandezza e del numero, in quanto generali e semplici, assieme alle verità matematiche, risultano assolutamente certe, sia che si dorma, sia che si vegli. E ciò in ragione della loro evidenza e semplicità. Tuttavia, secondo Descartes, è possibile dubitare anche di esse: per farlo è sufficiente ipotizzare che il Dio onnipotente abbia creato l’uomo tale da ingannarsi anche a proposito di ciò che percepisce con evidenza (ipotesi del Dio ingannatore). Pertanto, Descartes nelle Meditazioni non riconosce più nell’evidenza il criterio sufficiente della verità: almeno nel caso dell’ipotesi del Dio onnipotente, infatti, all’evidenza potrebbe non corrispondere la verità. Al fine di tener ferma la decisione di giudicare falsa ogni conoscenza, Descartes introduce la figura del genio maligno: le conoscenze acquisite, che gli argomenti dell’inganno dei sensi, del sogno e del Dio onnipotente rendevano probabili, attraverso l’argomento del genio maligno vengono considerate assolutamente e permanentemente false e l’unica cosa di certo che l’io può sapere è che non c’è nulla di certo. Da questa situazione paradossale si potrà guadagnare la prima certezza: il fatto stesso che l’io dubiti su tutto è infatti la prova più evidente della sua esistenza. N elle Meditazioni la formula usata da Descartes è: «io sono, io esisto», mentre nel Discorso sul metodo e nei Princìpi della filosofia tale proposizione è espressa con la formula: «penso, dunque sono». Ora, l’io che scopre di esistere non è altro che una cosa pensante (res cogitans), ovvero «una cosa che dubita, che intende, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente». La

conoscenza della res cogitans da sola non è sufficiente a garantire l’acquisizione di nuove conoscenze: l’io sa con certezza di esistere, ma del mondo in cui era certo di essere, prima del dubbio, ormai non sa più nulla. Bisognerà dimostrare l’esistenza di Dio per assicurarsi della verità del mondo che sta fuori dal cogito. È quanto Descartes fa nella III e nella V Meditazione. Il punto di partenza dell’indagine che porta Descartes a dimostrare l’esistenza di Dio consiste in un esame dell’io e delle sue idee. Le idee sono di tre tipi: a. le idee avventizie sono quelle idee che derivano dall’esterno; b. le idee innate sono quelle che l’io trova in sé stesso e che trae dalla sua stessa natura; c. le idee fattizie sono quelle che l’io stesso produce componendo arbitrariamente parti di altre idee. Inoltre, le idee possono essere considerate o come atti del pensiero o in base a ciò che esse rappresentano. A tal proposito, Descartes distingue fra la realtà oggettiva e la realtà formale di un’idea: la prima corrisponde alla quantità di realtà rappresentata in un’idea; la seconda indica qualcosa di esistente effettivamente fuori dall’idea. La realtà oggettiva deve avere una causa che ne spieghi l’esistenza ed essa deve contenere in sé almeno tanta realtà quanta ve ne è nel suo effetto, se non di più. Ora, secondo Descartes, il contenuto oggettivo dell’idea innata di Dio non può essere prodotto dall’io che è invece una sostanza finita. Pertanto l’origine di questa idea è Dio stesso. È questa la prima prova a posteriori dell’esistenza di Dio. La seconda dimostrazione a posteriori dell’esistenza di Dio prende le mosse dall’io stesso che è dotato di quell’idea. Per Descartes l’io riceve il suo essere da altro e propriamente da una causa incausata, che riceva da sé il proprio essere. Nella V Meditazione Descartes formula una dimostrazione dell’esistenza di Dio a priori, partendo dalla semplice analisi concettuale dell’essenza di Dio. Accanto all’esistenza, Descartes dimostra la veracità di Dio che gli consente di annullare l’ipotesi del Dio ingannatore. L’uomo è stato dunque creato con facoltà conoscitive non imperfette. Qual è dunque la

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SINTESI CAPITOLO 8

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parte II L’orizzonte cartesiano e i nuovi sistemi della metafisica razionalistica causa dell’errore? Esso dipende dal fatto che la conoscenza risulta dal concorso dell’intelletto, che in sé non sbaglia mai, e della volontà che non sempre si limita a ratificare ciò che le viene mostrato con evidenza dall’intelletto, ma può dare il proprio assenso a ciò che non è sufficientemente evidente. N ella V Meditazione Descartes si occupa dell’essenza del corpo intesa come res extensa, ‘sostanza estesa’. Essa coincide con la quantità continua o con l’estensione in lunghezza, larghezza e profondità. La quantità costituisce sia l’oggetto delle matematiche che l’oggetto della fisica. La metafisica diventa il fondamento della fisica meccanicistica. N ella VI Meditazione, infine, Descartes dimostra l’esistenza dei

corpi stessi e la distinzione reale tra la res cogitans e la res extensa (dualismo cartesiano), giungendo a provare l’immortalità dell’anima. Alla tesi della distinzione reale tra le due sostanze Descartes affianca quella dell’unione sostanziale tra di esse, proprio per salvaguardare i dati dell’esperienza. L’etica. La morale provvisoria, esposta da Descartes nel Discorso sul metodo, consta di tre massime: la prima prescrive di obbedire alle leggi, ai costumi ed alla religione del proprio paese; la seconda di agire con quanta più risolutezza possibile; la terza di cercare sempre di vincere sé stessi piuttosto che la fortuna e di mutare i propri desideri piuttosto che l’ordine del mondo. N el trattato Le passioni dell’anima, Descartes si occupa del te-

ma dell’unione sostanziale di anima e corpo mostrando quali siano i meccanismi psico-fisiologici che regolano la corrispondenza tra i fenomeni mentali e la meccanica del corpo. Dal momento che la morale riguarda l’uomo inteso come complesso di mente e corpo, l’indagine sulle passioni non può che essere realizzata sul piano della filosofia naturale. Per passioni dell’anima Descartes intende propriamente quelle percezioni causate dal corpo e riferite alla sola anima. Esse possono essere distinte in percezioni, sensazioni ed emozioni. Le passioni si collocano in una zona di reciproca appartenenza di corpo e anima. La ghiandola pineale costituisce il luogo corporeo deputato ad essere sede dell’anima, favorendo così la stretta unità di corpo e anima.

BIBLIOGRAFIA Fonti Descartes [Cartesio], Discorso ·sulR.metodo, in Opere filosofiche, vol. I, trad. di E. Garin et al., Laterza, Roma-Bari 20036 (ma anche trad. di L. Urbani Ulivi, testo francese a fronte, Bompiani, Milano 2002). R. Descartes [Cartesio], Regole per la guida dell’intelligenza, in Opere filosofiche, vol. I, cit. (ma anche trad. di L. Urbani Ulivi, testo latino a fronte, trad. francese in appendice, Bompiani, Milano 2000). R. Descartes [Cartesio], I princìpi della filosofia, in Opere filosofiche, trad. di E. Garin et al., vol. III, Laterza, Roma-Bari 20054. R. Descartes [Cartesio], Il Mondo, in Opere filosofiche, vol. I, cit. R. Descartes [Cartesio], Meditazioni metafisiche [o Meditazioni di filosofia prima] con le Obbiezioni e risposte, in Opere filosofiche, trad. di E. Garin et al., vol. 2, Laterza, Roma-Bari 2oo51o (ma anche trad. di L. Urbani Ulivi, testo latino a fronte, trad. francese in appendice, Bompiani, Milano 2001). W. Shakespeare, La tempesta, trad. di A. Lombardo, Garzanti, Milano 2008. W. Shakespeare, Macbeth, trad. di N. D’Agostino, Garzanti, Milano 2008.

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• P. Calderón de la Barca, La vita è sogno, trad. di A. Gasparetti, a cura di C. Acutis, Einaudi, Torino 1980. R. Descartes [Cartesio], Le passioni dell’anima, in Opere filosofiche, trad. di E. Garin et al., vol. IV, Laterza, Roma-Bari 19995 (ma anche trad. di S. Obinu, testo francese a fronte, Bompiani, Milano 2003). R. Descartes [Cartesio], Tutte le lettere. 1619-1650, trad. di G. Belgioioso et al., testo latino, francese e olandese a fronte, Bompiani, Milano 2005.

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Opere L’edizione originale di riferimento degli scritti cartesiani, di carattere sia scientifico che metodologico e metafisico è: R. Descartes, Œuvres de Descartes, a cura di Ch. Adam e P. Tannery, nuova ed. in 11 voll., Vrin, Parigi 196474. Questa edizione è universalmente indicata con la sigla AT (dalle iniziali dei due curatori).

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Oltre alle edizioni citate nelle “Fonti” si segnalano anche: R. Descartes, Opere filosofiche, trad. di E. Lojacono, 2 voll., Utet, Torino 1996; R. Descartes, Opere scientifiche, vol. I, trad. di G. Micheli; vol. II, trad. di E. Lojacono, Utet, Torino 1967 e 1982.

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Studi critici Il saggio più accessibile sulla biografia di Descartes è quello di: • E. Garin, Vita e opere di Cartesio, Laterza, Roma-Bari 19994. Una chiara presentazione complessiva al pensiero cartesiano è offerta da: G. Crapulli, Introduzione a Descartes, Laterza, Roma-Bari 2005. Ma si può leggere anche l’agile saggio di: J. Cottingham, Cartesio, il Mulino, Bologna 1991.

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Per quanto riguarda la ricostruzione dei problemi fondamentali dell’opera filosoficamente più importante di Descartes, si raccomanda: S. Di Bella, Meditazioni metafisiche. Introduzione alla lettura, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1997. Ma si può vedere con molto profitto anche: E. Scribano, Guida alla lettura delle Meditazioni metafisiche di Descartes, Laterza, Roma-Bari 2006.

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Per approfondire il nesso strettissimo che si instaura nel pensiero cartesiano tra scienza e metafisica si consiglia: F. Alquié, Lezioni su Descartes. Scienza e metafisica in Descartes, Ets, Pisa, 2006.

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René Descartes capitolo 8 1. Descartes nutre una profonda delusione riguardo all’aspettativa che le discipline apprese nel collegio dei gesuiti da lui frequentato gli abbiano fatto guadagnare “una conoscenza chiara e sicura”. Infatti: la retorica è insufficiente a quello scopo perché ............. ........................................................................................; le matematiche ……………………………………………………..……..... ........................................................................................; la teologia …………………………………………………………………….... ........................................................................................; la filosofia ……………………………………………………………..……….. ........................................................................................; la giurisprudenza e medicina .......................................... ....................................................................................... . 2. Partendo dalla critica della logica scolastica, Descartes giunge alla definizione della vera logica. Componi un breve testo utilizzando i seguenti concetti: sillogismo, dialettica, fecondità, modalità argomentativa, logica della scoperta (max 15 righe). 3. Completa il brano seguente inserendo negli spazi vuoti i termini appropriati presenti nell’elenco. Considera che non tutti sono inerenti. un oggetto la Scolastica unitaria la conoscenza umana la ragione identico particolare unico la sensibilità il metodo procedimento la scienza Secondo Descartes, per conoscere ..................... occorre capire cosa sia ........................... . Diversamente da quanto sosteneva ......................., secondo cui ogni scienza possiede ...................... d’indagine specifico e quindi un suo ......................, Descartes considera la scienza come un sapere ...................... e ......................, poiché a sua volta ........................... è .............................. .

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4. Esplicita in un breve testo il nesso che intercorre tra unicità del metodo, natura della mente umana e caratteri della scienza (max 8 righe). 5. L’intuizione e la deduzione sono le due operazioni della mente che consentono di conseguire una conoscenza certa ed evidente. Dopo aver esplicitato i caratteri di ciascuna, chiarisci quale rapporto sussiste tra le due. 6. Nel Discorso sul metodo Descartes riduce a quattro i precetti da seguire per ben condurre la propria ragione. Assegna alle definizioni la regola corrispondente e numerale secondo la giusta progressione. sintesi enumerazione evidenza rassegne analisi primo secondo terzo quarto «Il .............. precetto era di condurre con ordine i miei pensieri, cominciando dagli oggetti più semplici e più facili da conoscere, per risalire a poco a poco, come per gradi fino alla conoscenza dei più complessi.» Regola della ......................... . «Il ............... precetto era di non accogliere mai come vera nessuna cosa che non conoscessi con ................. essere tale; vale e dire, di evitare accuratamente la precipitazione e la prevenzione, e di non comprendere nei miei giudi-

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zi nulla di più di ciò che si presentasse alla mia mente in modo così chiaro e distinto, che io non avessi occasione alcuna di metterlo in dubbio.» Regola della .................... . «Il ........................ precetto era di fare dappertutto delle ......................... così complete e delle ............................... così generali, da essere sicuro di non omettere nulla.» Regola della .................................... . 7. Esplicita in un testo il nesso che secondo Descartes intercorre tra metodo, verità, giudizio, evidenza, chiarezza e distinzione (max 15 righe). 8.Chiarisci la differenza cartesiana tra le proprietà dell’estensione e le qualità sensibili, ricollegandola alla distinzione galileiana tra qualità soggettive ed oggettive (max 8 righe). 9. Dopo aver esplicitato le caratteristiche della fisica corpuscolare di Descartes spiega perché essa non è riducibile all’atomismo tradizionale (max 15 righe). 10. Come il mondo, anche il corpo umano per Descartes è riducibile ad una macchina. Dopo averne spiegato il funzionamento, chiarisci la differenza tra il meccanicismo cartesiano e la tradizione aristotelico-scolastica (max 8 righe). 11. La critica di Descartes alla tesi di William Harvey si è rivelata erronea nella storia della medicina. Ciò nondimeno essa evidenzia come la fisiologia e l’anatomia del tempo stessero cambiando. Spiega in che senso (max 8 righe). 12. Dopo aver letto il paragrafo 5 completa il brano seguente. Descartes non scrive un ....................... di metafisica, ma usa il genere della ................................ , perché .............. ....................................................................................... . Scopo tradizionale della meditazione è quello di ............. ....................................................................................... . Descartes, però, nelle Meditazioni intende la salvezza in senso esclusivamente teoretico o filosofico, ovvero ....................................................................................... . 13. Nella I Meditazione Descartes sottopone tutte le conoscenze acquisite al test del dubbio. Esplicita la natura paradossale del nesso dubbio-verità e i caratteri del dubbio cartesiano (max 8 righe). 14. Elabora un testo filosofico che ripercorra le tappe fondamentali della dinamica del dubbio cartesiano che dal probabile approda al falso, utilizzando i seguenti concetti: sensibilità argomento dell’inganno dei sensi argomento del sogno verità matematiche e nozioni semplici Dio ingannatore evidenza genio maligno

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15. Perché Descartes, dopo esser giunto alla certezza dell’io, procede indagando sull’esistenza di Dio? (max 8 righe) 16. Considerando la classificazione dei pensieri e quindi delle idee formulata da Descartes, inserisci i seguenti ter-

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parte II L’orizzonte cartesiano e i nuovi sistemi della metafisica razionalistica mini nella tabella sottostante secondo la categoria corrispondente. la falsità la sedia il desiderio di un cavallo alato la sirena la mano ha cinque dita Idee avventizie ........................................................... Idee fittizie ........................................................... Idee innate ........................................................... Atti del volere ........................................................... Giudizi ...........................................................

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17. Indica con una crocetta il concetto che, tra quelli contenuti in parentesi, completa correttamente il testo. Descartes, utilizzando il lessico scolastico, chiama il contenuto mentale di un’idea (realtà formale, realtà oggettiva, realtà eminente). L’esistenza concreta esterna di un contenuto mentale è, invece, chiamata (realtà formale, realtà oggettiva, realtà eminente). La causa adeguata della realtà oggettiva di un’idea deve contenere in sé la stessa (realtà formale, realtà oggettiva, realtà eminente) dell’idea causata o addirittura la stessa realtà ma in senso (formale, oggettivo, eminente). 18. Ricostruisci in un breve testo l’argomentazione usata da Descartes nella seconda dimostrazione a posteriori dell’esistenza di Dio (max 15 righe). 19. Illustra in un breve testo le funzioni delle due facoltà dell’io, intelletto e volontà, spiegando l’origine dell’errore (max 8 righe). 20.Esplicita la differenza fondamentale esistente fra l’essenza dei corpi e i loro modi (max 8 righe).

21. Dopo aver assegnato a ciascuna regola l’ordine corrispondente, produci un testo filosofico sulla morale provvisoria che chiarisca (max 15 righe): a. il senso del conformismo cartesiano; b. la necessità di un agire risoluto; c. il rapporto tra felicità e desiderio. MORALE PROVVISORIA ......... Regola: Essere fermi e risoluti nelle proprie azioni e seguire anche le opinioni più dubbie una volta accettate. ......... Regola: Vincere piuttosto sé stessi che la fortuna e voler modificare piuttosto i propri desideri che l’ordine delle cose del mondo. ......... Regola: Obbedire alle leggi e al costume del proprio paese prestando fede alla religione nella quale si è stati educati fin dalla nascita. 22.Scrivi un breve testo filosofico sulle “passioni dell’anima” che spieghi l’origine, la funzione e il potere dell’uomo su di esse (max 15 righe). Puoi aiutarti utilizzando la scaletta seguente: a. differenza tra azioni e passioni della mente; b. ghiandola pineale; c. spiriti; d. vantaggioso/svantaggioso; e. passioni primitive; f. governare gli effetti; g. dolcezza della vita.

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capitolo 9

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Baruch de Spinoza

1 La mente umana e la sostanza divina Una volta Henri Bergson (un importante pensatore francese vissuto nel primo Novecento) ha scritto che ogni filosofo possiede almeno due filosofie, la sua e quella di Spinoza. Questo giudizio potrebbe sembrare paradossale, ma indica senz’altro una caratteristica di fondo del pensiero spinoziano, che è sempre stato inteso non solo come una posizione tra le altre, ma più radicalmente come un’attitudine o una tendenza del pensiero filosofico in quanto tale. Ogni filosofo, suggerisce Henri Bergson, in qualche modo è (o ha la tentazione di essere) “spinozista”, perché avverte in tutto il suo fascino e in tutta la sua radicalità l’invito di Spinoza a che l’uomo, esercitando il suo pensiero, possa liberarsi da ciò che è mortale e vivere sotto la specie dell’eternità. Quando la mente umana giunge alla conoscenza adeguata della natura, e scopre la causa necessaria di ogni cosa, essa può dimostrare – e in ciò consiste la sua grande pretesa – la stessa sostanza di Dio.

La filosofia di Spinoza porta in sé due grandi pretese, apparentemente contrapposte. Da un lato essa persegue con accanito rigore l’intento di smantellare tutte quelle dottrine metafisiche e teologiche che concepiscono la realtà – l’anima, la natura, Dio – in base alle immagini forgiate dall’uomo: per lui infatti queste immagini sono sempre condizionate dalla loro origine sensibile, dalle opinioni del volgo, dai pregiudizi sociali, religiosi e politici, e per questo non possono valere come descrizioni vere di ciò che è, ma solo come modi in cui gli uomini di volta in volta hanno espresso le loro confuse aspettative o i loro desideri di potere. Da questo punto di vista la filosofia è chiamata a destituire l’uomo dalla sua posizione centrale di soggetto del pensiero, e a privilegiare decisamente la “sostanza” delle cose, che non dipende dalle capacità della nostra conoscenza e si mostra invece – a chi sappia guardarla con gli strumenti della deduzione matematica – come una necessità sovrana ed eterna, in una parola: divina. È Dio – sostanza unica e assoluta – a costituire il vero oggetto della filosofia di Spinoza, ma anche il suo reale soggetto, perché quando

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parte II L’orizzonte cartesiano e i nuovi sistemi della metafisica razionalistica

l’uomo vero, cioè il filosofo, arriva a contemplare e ad amare questo Dio, scopre che Dio coincide in realtà con questa sua contemplazione e con questo suo amore. In altri termini, l’autentica libertà dell’uomo consiste nel riconoscimento della necessità geometrica di tutto ciò che è: per questo motivo, da allora in poi il termine “spinozismo” è diventato sinonimo di panteismo (sebbene questo termine non sia mai usato dal nostro autore), a indicare appunto che tutto ciò che è, è Dio o è in Dio; e, all’inverso, che Dio è la natura stessa di tutte le cose. La seconda pretesa della filosofia di Spinoza si basa proprio sul fatto che tutto – e cioè ogni singola cosa – viene ad assumere un carattere di necessità e di eternità, anche ciò che è transeunte e mortale. Non di fatalismo si tratta, né di mera accettazione dell’esistente – se è vero che tutto il pensiero di Spinoza nasce anche da un atto di rifiuto della sua tradizione religiosa e civile; piuttosto si tratta di una vera e propria concezione salvifica del conoscere. La nostra mente, infatti, liberandosi dalle pastoie che la tengono schiava delle sue passioni, giunge a intuire che ogni cosa (comprese le sue passioni) ha di per sé un valore eterno, senza bisogno di essere riferita a un’origine o ad un fine che trascenda il suo posto preciso e necessario nella grande trama meccanica del mondo. Ogni cosa ha valore non più perché in rapporto con il creatore, ma perché è una modalità necessaria di essere Dio. E solo in questo risiede la salvezza, cioè la felicità dell’uomo saggio. Così Spinoza può essere visto come colui che dissolve gli enti finiti e gli stessi individui umani nell’impersonale necessità della sostanza divina, ma anche come colui che enfatizza il profilo necessario di ogni cosa, compresa la libertà umana, in quanto eterna. La centralità dell’idea di Dio, dunque, in lui coincide paradossalmente con una delle più impegnate critiche – anche su base filologica – all’idea stessa di rivelazione divina, soprattutto quella ebraico-cristiana, e non è un caso che la filosofia di Spinoza sia stata assunta sino ad oggi come la vera alternativa filosofico-teologica a questa rivelazione, divenendo a volte il vessillo di una religiosità filosofica senza Dio, quella che più sembra adatta a supportare l’ordine sociale e politico dello Stato.

2 L’esercizio del pensiero come scelta di vita Ma non sarebbe possibile immedesimarsi con questo grandioso tentativo filosofico, senza partire dall’origine ebraica del suo autore. Baruch de Spinoza o de Espinosa (chiamato anche Bento, in portoghese, o Benedictus, in latino) nasce il 24 novembre 1632 ad Amsterdam da una famiglia della comunità sefardita di Amsterdam (i sefarditi erano ebrei chiamati così per la loro provenienza dalla Spagna, in ebraico Sefarad, da cui erano stati cacciati nel 1492 e costretti a emigrare in diversi paesi; nel caso della famiglia de Espinosa,

L’Olanda di Spinoza La famiglia di Spinoza si era trasferita – come diverse altre – dal Portogallo nei Paesi Bassi, per scampare ai sospetti che gravavano spesso sui “marrani”, cioè gli ebrei convertiti più o meno forzatamente al cristianesimo, ma che continuavano a coltivare nascostamente la religione dei Padri. Per gli aderenti alla comunità sefardita, tra tutte le altre Province confederate nei Paesi Bassi, era l’Olanda, e in maniera particolare la città di Amsterdam, il luogo ideale dove stabilirsi, a motivo dell’apertura e della tolleranza che vi regnavano. L’Olanda dei primi decenni del XVII secolo era uno dei paesi più ricchi al mondo, a motivo del fiorentissimo commercio internazionale, gestito dalle potenti Compagnie delle Indie e assicurato da una flotta di guerra che esercitava il suo dominio su tutti i mari. Tale floridezza economica si accompagnava a un’organizzazione politica flessibile, dovuta alla confederazione in Stati generali dei singoli Stati provinciali, governati da parlamenti elettivi e dotati di una relativa autonomia legislativa, che si rifletteva anche nell’autonomia amministrativa delle singole città. Dopo la dominazione spagnola i Paesi Bassi avevano assunto un’organizzazione statale di tipo repubblicano, e dal 1631 la funzione di Statolder, cioè di capo militare, la figura più importante accanto a quella di Gran Pensionario, era stata assicurata alla famiglia degli Orange, che divenne una dinastia per legge. Ad Amsterdam, non a caso chiamata la “Gerusalemme del Nord”, la comunità ebraica non occupava un “ghetto”, ma un quartiere vivacissimo, pullulante di commerci e di idiomi di diverse provenienze. Le persone perseguitate per motivi religiosi trovavano qui un contesto liberale di accoglienza, che richiedeva

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in Portogallo e infine nei Paesi Bassi). Nella scuola della comunità apprende l’ebraico e studia l’Antico Testamento e i testi del Talmud. Nel 1640 l’eterodosso Uriel Da Costa, già convertitosi al cattolicesimo, viene riammesso nell’ebraismo mediante un rito comprendente anche una flagellazione, cui pare abbia assistito il giovane Baruch. Dal 1649 Spinoza affianca il padre Michael nell’attività commerciale di famiglia (importazione di frutta esotica) e alla morte di quest’ultimo, nel 1654, assieme al fratello Gabriel continua l’impresa, nel frattempo gravata da molti debiti per il naufragio di una nave. Nel 1655 entra in contatto con Juan de Prado, un ebreo eterodosso di orientamento deista

soltanto l’osservanza delle leggi e il pagamento delle tasse. La ricchezza e la convivenza pacifica assicuravano una tranquillità tale che lo stesso Descartes vi trovò un posto ideale per continuare indisturbato le sue ricerche. Nel Trattato teologico-politico Spinoza celebrerà la città di Amsterdam come esempio di libertà realizzata, in cui cioè l’espressione di opinioni contrastanti in campo religioso non compromette il potere dello Stato e quest’ultimo garantisce che gli uomini non si danneggino a vicenda a motivo di tali opinioni: «In questo Stato assai fiorente e in questa città notevolissima tutti gli uomini, di qualunque nazione o setta essi siano, vivono in grande concordia. E per affidare i loro beni a qualcuno si preoccupano soltanto di sapere se è ricco o povero, e se sia solito agire con lealtà o con inganno. Per il resto non si curano affatto né di religione né di setta, poiché questo non giova in nulla a vincere o a perdere una causa davanti al giudice. E purché non facciano del male a nessuno, diano a ciascuno il suo e vivano onestamente, non c’è setta, per quanto odiosa sia, i cui seguaci non siano protetti e difesi dalla pubblica autorità dei magistrati» [Trattato teologico-politico, XX, 15]. Sono gli anni in cui è Gran Pensionario Jan de Witt, del partito repubblicano, sostenitore di Spinoza anche a livello economico, e ricambiato dal filosofo con la redazione del Trattato. Ma dopo l’invasione francese e l’assassinio dei fratelli De Witt, Guglielmo III d’Orange concentra in sé le cariche di capitano militare e governatore, incrinando di fatto il clima liberale degli anni precedenti, dando inizio a una stagione in cui si assisterà al tentativo sempre crescente della comunità calvinista di orientare le scelte del potere giudiziario.

[ Il deismo, p. 294]. L’anno successivo, dopo essere stato indagato per sospetta eterodossia e dopo aver subìto l’attentato di un ebreo fanatico che voleva ucciderlo, viene colpito – il 27 luglio 1656 – dalla scomunica (Cherem) da parte dei rabbini della sinagoga di Amsterdam a motivo delle sue idee sull’immortalità dell’anima, la natura della divinità e l’origine delle Sacre Scritture. Di conseguenza viene espulso dall’intero popolo d’Israele. Si tratta senz’altro di un evento drammatico, considerando anche il fatto che tale rottura implicava l’interdizione di ogni tipo di relazione, non solo personale, ma anche lavorativa ed economica. Ma se è vero che tale evento ha certamente condizionato Spinoza nel compiere la sua scelta di vita, esso costituisce anche il momento in cui le convinzioni filosofico-religiose, e più ancora esistenziali, che egli stava già maturando, trovano una definitiva espressione. Spinoza non si oppone alla condanna, e forse proprio a partire dal rifiuto di ogni rapporto di appartenenza con la comunità dei Padri e con la sua stessa origine storico-religiosa, matura in lui l’idea che l’uomo saggio – cioè il filosofo – non debba dipendere da nient’altro che dall’ordine eterno e necessario della propria mente. Un ordine totalmente altro rispetto a quello invalso sino ad allora nella tradizione giudaico-cristiana. A seguito dell’espulsione dalla comunità, Spinoza cambia mestiere (dedicandosi alla molatura delle lenti), ma continua ad approfondire lo studio dei classici latini e soprattutto la filosofia di Descartes, frequentando la scuola di latino dell’ex gesuita Franciscus van den Enden (anch’egli teologicamente e filosoficamente un eterodosso). Tra il 1657 e il 1658 compone il Trattato sull’emendazione dell’intelletto. Nel 1661 si trasferisce a Rijnsburg, dove termina il Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene. N el 1663 pubblica i Princìpi di filosofia di Descartes e le Riflessioni metafisiche. Nello stesso anno incontra Jan de Witt, il Gran Pensionario repubblicano, che lo sostiene con una pensione annua, e si trasferisce a Voorburg, nei pressi dell’Aja. Sin dall’inizio, intorno al solitario pensatore si era intanto formato un piccolo gruppo di fedeli amici, molti dei quali appartenenti a correnti liberali del protestantesimo olandese (come i collegianti, i mennoniti ed i quaccheri). In questo circolo saranno lette e diffuse per circa vent’anni le opere di Spinoza, nella maggior parte

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dei casi stampate come scritti anonimi, per non incorrere, oltre che nella censura ebraica, anche e soprattutto in quella esercitata dai teologi calvinisti, sempre pronti a influenzare il governo civile. Sin dal 1662 Spinoza inizia la redazione dell’Etica, che interrompe nel 1665 per scrivere il Trattato teologico-politico, pubblicato anonimo nel 1670. In questo stesso anno Spinoza si trasferisce all’Aja. Dopo l’invasione francese dell’Olanda, Jan de Witt si dimette (sarà poi assassinato assieme al fratello) e il potere ritorna alla dinastia d’Orange con Guglielmo III, che segna la fine della repubblica e l’inizio di una monarchia di tipo parlamentare, con il ritorno in grande stile della censura calvinista. N el 1673 Spinoza rifiuta l’invito ad insegnare nell’Università di Heidelberg, per timore di essere limitato nella sua libertà di ricerca. Sino al 1674 porta a compimento il testo dell’Etica, che cerca di pubblicare ad Amsterdam nel 1675, rinunciandovi per il timore di scatenare un odio teologico. Nel 1674, infatti, il governo olandese aveva già condannato il Trattato teologico-politico. In questi anni compone un altro Trattato politico e riceve la visita di Leibniz. Muore di tisi il 21 febbraio 1677 all’Aja. Sempre nel 1677 escono le Opere postume in latino e nederlandese, con il suo nome riportato con le sole iniziali: B.D.S.

3 Un metodo per l’emendazione dell’intelletto 3.1 Il vero bene dell’uomo L’idea che il pensiero umano sia chiamato a una vera e propria conversione alla filosofia risalta con molta nettezza nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, composto da Spinoza tra il 1657 e il 1658. Così egli tratteggia il movente originario della sua decisione:



Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutte le cose che frequentemente si incontrano nella vita comune sono vane e futili, e quando vidi che tutti i beni che temevo di perdere e tutti i mali che temevo di ricevere non avevano in sé nulla né di bene né di male, se non in quanto l’animo

ne era turbato, decisi infine di ricercare se si desse qualcosa che fosse un bene vero e condivisibile, e dal quale soltanto, respinti tutti gli altri, l’animo fosse affetto; anzi se esistesse qualcosa grazie al quale, una volta scoperto e acquisito, godessi in eterno una gioia continua e suprema. [Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 1]



La decisione essenziale dell’uomo riguarda dunque il riconoscimento di ciò che è il suo vero bene: ma questa mossa della volontà non è innanzitutto di tipo morale, perché la sua motivazione profonda va trovata nell’ordine della conoscenza. Quando infatti noi cerchiamo di conoscere in maniera più precisa quelli che sono considerati abitualmente i beni più desiderabili per la vita – «le ricchezze, i successi, il piacere dei sensi» – ci rendiamo conto che essi non sono per nulla dei beni in sé, come attesta il semplice fatto che la loro ricerca e il loro godimento è sempre esposto ai casi della fortuna e all’inevitabile decadimento. Essi, in definitiva, non portano alla felicità piena, ma ad un’illusoria soddisfazione cui segue la tristezza della perdita. Solo quando si ama una cosa eterna e infinita l’animo raggiunge la vera gioia. Ma cos’è questo bene per Spinoza? Esso non va inteso come una proprietà assoluta inerente alle cose, ma solo come un concetto “relativo”: in natura, infatti, non esiste niente che sia in assoluto buono o cattivo, perfetto o imperfetto, giacché tutto è di per sé necessario, cioè accade secondo un ordine eterno e secondo determinate leggi naturali. Il bene e il male deriverebbero dunque dal nostro modo di rapportarci alle cose, e in particolare dal nostro essere o non essere in grado di conoscere la necessità eterna di ogni cosa. Solo che, per raggiungere questo obiettivo, l’uomo deve «escogitare un modo di guarire l’intelletto» dalle inclinazioni e dai desideri verso le cose futili e vane. Questo modo di usare l’intelletto, vale a dire il “metodo” che ci permette di realizzare la sua “emendazione”, è lo strumento per conseguire l’unione della mente con tutta la natura. Questa unione costituisce non solo il nesso tra il pensiero dell’uomo e la natura, ma anche contemporaneamente quello tra il pensiero di ogni singolo uomo e il pensiero degli altri uomini:



Questo è dunque il fine al quale tendo: acquisire tale natura e sforzarmi affinché molti l’acquisi-

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scano con me. Ciò significa che è costitutivo della mia felicità anche adoperarmi a che molti altri intendano la stessa cosa che intendo io, affinché il loro intelletto e i loro desideri convengano pienamente con il mio intelletto e i miei desideri. [Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 14]



Quest’idea accompagnerà tutto il percorso filosofico di Spinoza: la ricerca e la fruizione della felicità comporta sempre una dimensione di “socialità”, non solo per un motivo “politico”, ma ancor prima per un motivo “ontologico”, cioè a causa della stessa natura della nostra mente.

3.2 I quattro modi della percezione Il metodo per “guarire”, cioè per emendare l’intelletto, riveste dunque un ruolo essenziale nel pensiero di Spinoza, che in ciò si ricollega al progetto, già avanzato da Bacon [ 5], di una riforma del sapere che parta dalla purificazione della nostra mente dai pregiudizi dovuti alla natura e alla cultura. Per poter giungere ad un metodo adeguato, lo si deve quindi ricavare dalla stessa natura del nostro intelletto, tenendo conto delle quattro diverse modalità di conoscenza che quest’ultimo possiede «per affermare o negare qualcosa senza dubbio» [Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 19]. Esse sono: a. la percezione per sentito dire o per qualche segno convenzionale (con la quale, per esempio, io so con certezza in che giorno sono nato o chi sono i miei genitori); b. la percezione per esperienza vaga, cioè un’esperienza non determinata dall’intelletto, ma capitataci per caso (in questo modo io so per esempio che morirò avendo visto altri miei simili morire, anche se la lunghezza della vita di ciascuno è stata diversa e diversa la causa della morte); c. la percezione nella quale l’essenza di una cosa è conclusa da un’altra cosa, ma in maniera ancora inadeguata, come quando si inferisce una causa a partire dal suo effetto, cioè per induzione (per esempio, poiché percepiamo sensibilmente il nostro corpo, concludiamo che l’anima è unita al corpo, ma non ne conosciamo l’essenza), o quando si inferisce un’essenza particolare a partire dall’universale, cioè per deduzione;

d. infine, la percezione nella quale la cosa è colta mediante la sua sola essenza o mediante la conoscenza della sua causa prossima (come quando, conoscendo l’essenza dell’anima, sappiamo che essa è unita al corpo, o quando sappiamo che due più tre fa cinque, o che due linee parallele ad una terza sono parallele anche tra loro). Finora, osserva Spinoza, solo “pochissime cose” sono state conosciute con questa quarta modalità di percezione. E l’esempio che adduce aiuta a chiarirne il perché. Poniamo il seguente problema: dati tre numeri, trovarne un quarto che stia al terzo come il secondo sta al primo. La prima modalità di conoscenza è quella dei mercanti, i quali sanno senz’altro come fare, solo ricordandosi delle operazioni imparate a scuola; altri invece (seconda modalità) partono da un caso particolare in cui il quarto numero risulta evidente di per sé – per esempio nella proporzione tra 2, 4, 3 e 6 –, poi scoprono che al medesimo numero – cioè il 6 – si arriva moltiplicando il secondo per il terzo e dividendo il prodotto per il primo, e infine giungono a formulare un assioma universale da cui poter ricavare sempre il quarto numero proporzionale rispetto ad altri tre. Va detto, tuttavia, che senza il caso evidente assunto come esempio di base, tale inferenza non sarebbe possibile. Al contrario (terza modalità), i matematici sanno con certezza quali numeri sono proporzionali tra loro, solo in base alla dimostrazione di una proposizione di Euclide (quella secondo cui il prodotto del primo e del quarto numero è uguale a quello del secondo e del terzo); ma in tal modo essi vedono la proporzione tra i numeri solo in virtù di quella proposizione. Per vedere invece tale proporzione in sé stessa (quarta modalità), non c’è bisogno di alcuna operazione o inferenza del ragionamento, ma è sufficiente un atto diretto di intuizione. Per Spinoza il metodo richiesto per compiere l’emendazione dell’intelletto – da lui definita il vero bene – e con ciò giungere alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose, definita il sommo bene, unica via alla felicità, non può che basarsi sul quarto modo di percepire la realtà. Quando noi conosciamo l’essenza adeguata di una cosa, sappiamo al tempo stesso che significa conoscere questa cosa (in altri termini, sappiamo che ciò che conosciamo per intuizione intellettuale è la conoscenza adeguata dell’essenza). Il metodo dunque non è il semplice ragionamento che ci fa

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conoscere le cause delle cose (appannaggio delle scienze), e non coincide nemmeno con questa conoscenza stessa. Piuttosto, «esso consiste nell’intendere che cosa sia l’idea vera» [Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 37], distinguendola da altri tipi di idee inadeguate – come quelle conseguite con i primi tre generi di percezione, i quali possono fornire anche idee finte, o false o dubbie – e quindi sarà “una conoscenza riflessiva”, ossia un’“idea dell’idea”. Questo spiega il motivo per cui secondo Spinoza il metodo non potrà mai essere inteso come un procedimento astratto della nostra mente, o come la semplice applicazione di una nostra facoltà. Al contrario, esso dovrà avere un punto di partenza preciso, costituito da un’“idea vera” originariamente “data”, cioè immanente al pensiero umano. Questa idea è l’idea di Dio. Senza di essa non sarebbe possibile alla nostra mente cogliere l’idea adeguata della natura, perché le mancherebbe l’idea adeguata della causa della natura. Così, lo stesso metodo «sarà perfettissimo quando avremo l’idea dell’ente perfettissimo» [Trattato sull’emendazione dell’intelletto, § 49].

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1. Nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto Spinoza afferma che il metodo per purificare l’intelletto consiste: a. nell’unione della mente con tutta la natura. b. nell’unione del mio pensiero con il pensiero degli altri uomini. c. nel distinguere ciò che è in assoluto buono o cattivo. d. nel guarire l’intelletto dalle inclinazioni e dai desideri verso ciò che è futile e vano. 2. Il metodo si identifica: a. con un procedimento astratto della mente che porta alla conoscenza delle cause delle cose. b. in una semplice applicazione della facoltà della percezione. c. nell’intendimento di cosa sia l’essenza di una cosa per induzione o deduzione. d. nella conoscenza dell’idea vera di una cosa conseguita attraverso l’intuizione intellettuale della sua essenza.

4 L’idea di Dio e la geometria 4.1 A partire da Descartes La stretta connessione tra il funzionamento del metodo e l’idea di Dio è senza dubbio di origine cartesiana. In Spinoza tuttavia il nesso diventa

più radicale: mentre in Descartes la mathesis, con le sue quattro regole [ 8.3.4], era considerata una procedura assolutamente valida di per sé, e Dio garantiva poi che quel metodo potesse essere applicato alla conoscenza della natura fuori di noi; in Spinoza, invece, l’idea vera di Dio è già presente all’origine del metodo, e senza di essa non potrebbe nemmeno essere concepito in quanto tale. Detto in altro modo, non è la mente umana che fa ricorso all’idea di Dio per garantirsi la conoscenza adeguata del mondo, ma è quell’idea che costituisce il modo originario con cui la nostra mente conosce la realtà. La differenza tra le due posizioni emerge anche riguardo alla necessità di dimostrare l’esistenza di Dio. In Descartes l’idea di Dio è innata nella nostra mente e a partire da essa si deve dimostrare l’esistenza di Dio come causa di quell’idea. Questo invece non è richiesto da Spinoza, dal momento che per lui la stessa idea innata di Dio esprime immediatamente e originariamente l’intuizione dell’esistenza necessaria (cioè, pensando Dio pensiamo un ente che non può non esistere). Certo, anche Descartes aveva parlato di una prova a priori secondo cui all’essenza di Dio appartiene necessariamente la sua esistenza, ma qui è lo stesso impianto cartesiano ad essere capovolto: non si parte dal cogito per arrivare a Dio, ma si parte da Dio come l’idea che costituisce l’essenza della mente. Nella prospettiva spinoziana, infatti, l’idea vera di Dio non è altro che l’unificazione compiuta della mente con la natura intera.

4.2 L’idea vera di Dio In uno scritto databile verso la fine del 1661, il Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, Spinoza afferma chiaramente, tra le altre, due idee che risulteranno decisive per tutto il suo pensiero: 1. Dio è «un essere del quale viene affermato tutto, cioè infiniti attributi, ciascuno dei quali infinitamente perfetto nel suo genere» [Breve trattato, cap. 2, § 1], vale a dire che Dio, e solo Dio, è una vera “sostanza”, per il semplice motivo che, essendo la sostanza infinita, non potranno mai esistere due sostanze infinite; 2. di conseguenza, Dio non va più pensato come creatore di sostanze finite, per l’altrettanto sem-

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plice motivo che le cose finite non possono essere di per sé delle sostanze, ma solo “modi” della sostanza, come vedremo più ampiamente in seguito [ 9.6.3].

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In altre parole, non vi è più differenza sostanziale o ontologica tra Dio e il mondo, ma la sostanza divina (cioè l’unica sostanza) coincide con il tutto della natura. D’ora in poi in filosofia la via spinoziana sarà sinonimo di negazione del carattere trascendente di Dio e del divino. Naturalmente non si tratta di una novità assoluta: basti ricordare alcuni momenti significativi della filosofia greca, in cui il divino era stato inteso come l’intelligenza che muove il cosmo e a quest’ultimo costitutivamente appartiene (il motore immobile di Aristotele, pensiero puro e causa prima, ma non trascendente l’ordine della natura), oppure era inteso (nel neoplatonismo) come l’unità originaria da cui proviene per emanazione tutta la realtà e a cui quest’ultima tende a ritornare, ma anche come l’anima del mondo. E soprattutto non si deve dimenticare il pensiero naturalistico affermatosi in età rinascimentale, con la sua tendenza a concepire la natura come vivente, senziente e spirituale, sino a quel Deus sive natura (‘Dio come natura’) di cui aveva parlato Giordano Bruno [ 3.4.1], e che ritornerà alla lettera nelle pagine di Spinoza. Ma la cifra caratteristica di quest’ultimo nel pensare la sostanza divina come natura, e dunque la natura come Dio, sta nel fatto che si tratta di un pensiero forgiato per così dire al fuoco della filosofia cartesiana. In altri termini, l’identificazione di Dio e natura non implica più una concezione di tipo “qualitativo” della natura stessa, tanto meno una concezione vitalistica di essa, ma si basa all’opposto su una concezione rigorosamente meccanicistica. E difatti, quando Spinoza parla dell’essenza necessaria di una cosa non si riferisce in alcun modo alle sue qualità sensibili, quelle che si generano e si corrompono, ma esclusivamente ai rapporti geometrici della meccanica cartesiana. 1. Per Spinoza Dio: a. è la sola sostanza capace di creare le cose finite. b. in quanto infinito, è la vera sostanza. c. in quanto infinito, coincide con la totalità della natura. d. è l’unica sostanza infinita e trascendente.

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4.3 Al di là di Descartes Di Descartes, tuttavia, Spinoza riprende e sviluppa soprattutto l’idea (a suo dire non sviluppata adeguatamente dallo stesso Descartes) di poter dimostrare tutto il contenuto della filosofia in maniera geometrica. Particolarmente significativo è il fatto che Spinoza pubblichi nel 1663 i Princìpi della filosofia di Descartes, l’unico scritto che porti stampato ufficialmente il suo nome. In quest’opera egli cerca da un lato di presentare nella forma più rigorosa possibile il pensiero cartesiano come la via regia per un radicale rinnovamento della filosofia dell’epoca e dall’altro inserisce in questo solco la sua stessa prospettiva metodologica e ontologica, presentandola come l’unica capace di affrontare i problemi metafisici posti da Descartes, ma da questi non completamente risolti. L’opera, nata dalle lezioni di filosofia cartesiana impartite da Spinoza al suo giovane allievo Casearius, fu pubblicata su insistente sollecitazione del circolo dei suoi amici e seguaci, come una messa a punto delle nuove soluzioni prospettate dal suo autore. Il punto di partenza è quanto lo stesso Descartes aveva scritto nelle Meditazioni sulla filosofia prima (in particolare nelle Risposte alle seconde obiezioni) sui due modi in cui è possibile compiere delle dimostrazioni: a. uno è quello «per mezzo di analisi o risoluzione», in cui si mostra la via seguendo la quale una cosa è stata trovata servendosi del metodo matematico; b. l’altro è quello «per mezzo della sintesi o composizione», in cui quella stessa cosa viene fissata matematicamente attraverso «una lunga serie di definizioni, domande, assiomi, teoremi e problemi», seguendo il prototipo degli Elementi di Euclide e dei trattati di geometria. Solo che, tranne il caso delle suddette Risposte, Descartes si era attenuto solo al primo tipo di dimostrazioni. E Spinoza, da parte sua, non intende far altro che esporre con metodo geometrico i Princìpi della filosofia pubblicati da Descartes vent’anni prima: in questo egli si attiene scrupolosamente alle dottrine cartesiane, anche qualora esse non coincidano con le sue proprie tesi, e si impegna nella ridefinizione in senso rigorosamente deduttivo di tutte le nozioni di cui egli stesso si servirà nella sua filo-

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sofia (l’ente, l’essenza, il necessario, il possibile, il tempo, l’ordine, l’uno, il vero, il bene, gli attributi di Dio, ecc.). Per cogliere la prospettiva filosofica originale che sta dietro a questo scritto volutamente divulgativo, vale la pena riportare quanto viene affermato nella Prefazione da Lodewijk Meyer, uno dei più stretti sodali e discepoli dell’autore (e certo con la sua autorizzazione): quando il lettore troverà scritto che «questa o quest’altra cosa superano la comprensione umana», deve intenderla come una posizione di Descartes, non di Spinoza. Quest’ultimo, invece, ritiene che tutte queste cose, anche quelle più sublimi e sottili, «non solo possono essere concepite da parte nostra in modo chiaro e distinto, ma possono anche essere spiegate nel modo più facile»: a condizione però che l’intelletto umano venga condotto «per una via diversa da quella che è stata aperta e spianata da Descartes nella ricerca della verità e nell’indagine delle cose». La via cartesiana non giunge dunque al culmine della conoscenza, e «i fondamenti delle scienze gettati da Descartes» non sono ancora sufficienti per risolvere tutte le più difficili questioni della metafisica. A questo fine si richiedono altri fondamenti, ed è esattamente questo il punto di passaggio dalla matrice cartesiana ai sistemi del razionalismo moderno. Questi nuovi fondamenti saranno offerti da Spinoza nell’Etica.

5 Nell’orizzonte dell’Etica 5.1 Difendere la verità dall’assalto del mondo La redazione dell’Etica, l’opera senza dubbio più rilevante per comprendere il sistema filosofico spinoziano, ha avuto una lunga storia: iniziata nei primi anni Sessanta, sospesa tra il 1665 e il 1670 per la composizione del Trattato teologicopolitico, fu rielaborata in diverse fasi fino al 1674, ma non più pubblicata per timore delle censure in cui sarebbe incorsa; infine apparve postuma nel 1677. Grazie a una famosa lettera scritta a Spinoza da Simon De Vries apprendia-

mo che nel 1663 (anno di pubblicazione dello scritto su Descartes), gli amici del “circolo” spinoziano stavano già leggendo e studiando la I parte dell’Etica. De Vries era un agiato mercante appartenente ai “collegianti”, una comunità aperta ai cristiani di tutte le confessioni e professante un ideale di tolleranza e libertà religiosa, alcuni membri della quale erano in stretto rapporto personale e in comunione spirituale con Spinoza. Significativo del clima e del contesto in cui nasce e comincia a circolare l’Etica, è il brano seguente:



Per quanto concerne il circolo, il lavoro è organizzato in questo modo: uno (ma a turno) legge, dà una spiegazione secondo la sua comprensione e mostra tutto secondo la serie e l’ordine delle tue proposizioni. Quando accade che l’uno non possa soddisfare l’altro, abbiamo ritenuto importane annotare la questione e scriverti, affinché, se è possibile, ci sia resa più chiara e, sotto la tua guida, possiamo difendere la verità contro quelli che sono religiosi e cristiani in modo superstizioso, resistendo all’assalto di tutto il mondo. [Lettera 29]



Il tono che emerge da queste righe dà un’idea dell’esercizio deduttivo e del rigore argomentativo richiesto dalla filosofia di Spinoza, ma anche della fascinazione profonda che essa ha esercitato sin dall’inizio, come una vera e propria esperienza di liberazione interiore e di affermazione coraggiosa della verità. N on abbiamo più a che fare con l’esercizio professionale o accademico della filosofia, tipico della tradizione scolastica, né con il filosofo umanista delle corti e delle accademie rinascimentali; ma il clima è diverso anche rispetto alla solitaria ricerca di Descartes, il quale accompagnava la sua attività individuale con un confronto assai intenso e strutturato con altri filosofi o teologi o scienziati. Spinoza, anche a motivo dei difficili rapporti con gli ambienti religiosi e civili e senza dubbio a seguito della sua scelta di vita – seguire la vocazione esigente e assoluta della ricerca filosofica rispetto a qualsiasi altro impedimento o condizionamento – non si impegna in discussioni pubbliche, per prudenza o per rifuggire dall’“odio teologico”, rifiutando addirittura un invito ad insegnare nell’Università di Heidelberg per non compromettere la sua libertà. Ciò non impedirà che i suoi scritti e la sua

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fama si diffondano in Europa, e soprattutto che il suo pensiero divenga punto di riferimento di una comunità spirituale in cui si enfatizza il carattere esclusivo della pratica geometrico-filosofica come iniziazione alla vera sapienza e compimento etico della conoscenza.

5.2 Il metodo geometrico della dimostrazione Questo percorso – geometrico e sapienziale insieme – è evidente nella stessa articolazione dell’Etica in cinque parti: si comincia dalla considerazione di “Dio” come unica sostanza (I), si procede poi alla trattazione della “mente umana” (II) e a quella degli “affetti” (III), per giungere alle due possibilità che si aprono in questo quadro, e cioè “la schiavitù umana” dovuta alla forza degli affetti (IV) e “la libertà umana” dovuta alla potenza dell’intelletto (V). Ciascuna di queste cinque parti prende le mosse dagli elementi fondamentali di ogni geometria, vale a dire dalle “definizioni”, dagli “assiomi” o dai “postulati” – princìpi evidenti di per sé e indimostrabili – e si sviluppa attraverso tutta una serie di “proposizioni” dedotte e dimostrate sulla base di quegli elementi fondamentali. Le definizioni sono concepite da Spinoza come idee chiare e distinte con cui intendiamo la “natura” o l’essenza di una cosa, e cioè la sua verità. Egli peraltro distingue tra due tipi di definizioni: quelle che spiegano la cosa «in quanto è fuori dall’intelletto» e quelle che spiegano la cosa «in quanto è concepita o può essere concepita» [Lettera 30] all’interno del nostro intelletto. In altri termini, la verità del primo

L’ordine geometrico dell’Etica Il modello argomentativo dell’Etica di Spinoza è il trattato di geometria di Euclide, gli Elementi (IV-III secolo a.C.), nel quale si muove da princìpi primi (definizioni, assiomi e postulati) e si procede derivando in maniera deduttiva le conseguenze di queste stesse proposizioni.

tipo di definizione consiste nella corrispondenza all’oggetto determinato cui essa si riferisce, mentre il secondo tipo di definizione non possiede di per sé altra verità che la non-contraddizione logica dei termini con cui noi la concepiamo, e quindi «viene proposta solo per essere esaminata», cioè per fungere da elemento base di una deduzione. Le definizioni dell’Etica sono di questo secondo tipo, e in quanto tali esse sono sempre necessariamente vere. Le definizioni filosofiche non indicano infatti l’essenza di qualcosa di già dato realmente (questa sarebbe, appunto, la semplice spiegazione di una cosa, e partirebbe dall’esperienza che noi già abbiamo di quest’ultima), bensì mostrano solo la necessità con cui l’intelletto può pensare l’essenza o la natura di una cosa. A partire da queste definizioni e mediante l’ausilio degli assiomi e dei postulati, cioè dei princìpi primi della nostra conoscenza, la filosofia avrà dunque come compito quello di dimostrare la verità ontologica di tutto ciò che esiste. Tale dimostrazione viene espressa in una rigorosa concatenazione di proposizioni, ma in diversi casi il rigore delle secche formule viene accompagnato da corollari (affermazioni che derivano direttamente dagli assiomi e che ne specificano delle conseguenze), spiegazioni, e soprattutto da una nutrita serie di scolii (cioè annotazioni in forma argomentativa), oltre che da lunghe prefazioni e appendici alle diverse parti dell’opera. Questi apparati hanno la funzione di chiarificare e di esplicitare alcuni passaggi cruciali della dimostrazione e soprattutto di sottolineare i punti di contrasto tra queste verità dedotte geometricamente e il modo comune di pensare, nonché le opinioni tradizionali dei filosofi, da cui il più delle volte Spinoza invita a staccarsi [ L’ordine geometrico dell’Etica]. Il titolo completo dell’opera maggiore di Spinoza (Ethica ordine geometrico demonstrata) non va inteso in riferimento a quella parte speciale dell’indagine filosofica che è la morale, ma indica l’intero percorso della sua filosofia (e infatti nei primi abbozzi il suo titolo era appunto Filosofia). In tale percorso il pensiero, giungendo a conoscere con ordine necessario la realtà intera, realizza compiutamente la vera libertà dell’uomo. Anzi, si può dire che l’intento di quest’opera è quello di superare come del tutto apparente il contrasto tra l’ordine necessario delle ragioni stabilite dall’intelletto e il libero arbitrio che caratte-

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rizza la volontà. L’etica è ordine geometrico demonstrata – ‘dimostrata con ordine geometrico’ – appunto perché la necessità della natura è in quanto tale la realizzazione della libertà. Ma andiamo con ordine – come richiesto dal nostro autore – nel seguire tale percorso.

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1. Nell’Etica Spinoza si avvale di quelle definizioni che: a. sono sempre necessariamente vere. V b. poggiano sulla corrispondenza tra l’idea e l’oggetto fuori dell’intelletto. V c. poggiano sulla non-contraddizione logica dei termini con cui le concepiamo. V d. indicano l’essenza di qualcosa di già dato realmente. V

F F F F

6 «Deus sive natura» 6.1 La sostanza La I parte dell’Etica, intitolata Dio, rappresenta in un sol colpo d’occhio l’intero orizzonte dell’ontologia spinoziana. Il punto assolutamente primo è costituito dalla definizione della causa sui: «Per causa di sé intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente» [Etica, I, def. I]. All’inizio dell’intero sistema troviamo dunque la capacità, connaturata alla nostra mente, di pensare con evidenza l’assoluta necessità di qualcosa: di qualcosa cioè che non deve dipendere da altro per esistere, e che di per sé – cioè per la sua stessa essenza o natura – non può non esistere. Come già era avvenuto con Descartes, anche per Spinoza il filosofare non parte più dall’esistenza di semplici dati di fatto o dagli oggetti dell’esperienza, ma dall’evidenza inconfutabile di un’idea della nostra mente. Solo che, a differenza di Descartes, qui non si deve più attraversare la prova radicale del dubbio per arrivare alla certezza piena di ciò che è (la sostanza), perché al contrario tale certezza costituisce il punto originario di ogni altra deduzione del pensiero. E difatti, prendendo le mosse dall’idea di un essere perfettissimo, la nostra mente non intende soltanto un’essenza possibile – cioè che si può pensare senza contraddizione –, bensì l’unione necessaria dell’essenza e dell’esistenza – ciò che è veramente ed effettivamente.

A differenza della causa sui, si dice invece «finita nel suo genere» una «cosa che può essere determinata da un’altra cosa della stessa natura» [Etica, I, def. 2]: un corpo, per esempio, può essere limitato da un altro corpo e un pensiero da un altro pensiero, senza che il primo tipo di natura possa essere limitato dall’altro tipo. Dopo queste due definizioni Spinoza introduce quella di sostanza:



Per sostanza intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé, ossia ciò il cui concetto non esige il concetto di un’altra cosa, a partire dal quale debba essere formato. [Etica, I, def. III]



“Sostanza”, in senso rigoroso, è la natura di ciò che non dipende da altro per essere e per esser conosciuto. In altri termini, potremmo dire che sostanza è ciò che possiede, immanente a sé, la ragione esauriente di sé stessa. Dunque, la definizione spinoziana di sostanza può essere applicata solo alla causa di sé, non alle cose finite. Ma una volta negata per principio la possibilità di chiamare sostanze anche gli enti finiti (come faceva, su base aristotelica, la dottrina scolastica della creazione), si dovrà concepire un altro rapporto tra la sostanza come causa di sé, necessariamente infinita ed unica, e le cose finite, molteplici ma non sostanziali. La soluzione di Spinoza è quella di far rientrare le cose finite nella sostanza, come i suoi attributi ed i suoi modi.

6.2 Gli attributi «Per attributo – scrive Spinoza – intendo ciò che l’intelletto percepisce di una sostanza come costituente la sua essenza» [Etica, I, def. IV]. Certo, se la sostanza è causa di sé, ne discende che essa, non essendo circoscritta da nient’altro, possiede infiniti attributi, ma anche che ogni attributo della sostanza sarà infinito, cioè realmente distinto e non limitato dagli altri, ma con essi costituente l’essenza dell’unica sostanza. Ogni attributo non è una parte o un elemento della sostanza accanto agli altri, ma ciascuno di essi costituisce la sostanza nella sua infinita natura; e viceversa questa natura è presente tutt’intera in ciascuno degli attributi, che sarà a sua volta infinito ed eterno come la sostanza.

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Tuttavia, si è detto che per Spinoza l’attributo è per definizione ciò che l’intelletto concepisce della sostanza. Come potrà il nostro intelletto finito concepire l’infinità degli attributi, e addirittura concepire l’infinità di ciascuno di essi? Spinoza risolve l’apparente contraddizione, da un lato identificando in due soli attributi quelli che la nostra mente riesce a concepire della sostanza, vale a dire il pensiero e l’estensione (quelle che per Descartes erano due sostanze), e arriva a dire che Dio stesso è «cosa pensante» e «cosa estesa» [Etica, II, prop. I-II]; dall’altro lato dimostrando che il nostro stesso intelletto che concepisce gli attributi appartiene all’attributo “pensiero”, così come il nostro corpo appartiene all’attributo “estensione”, e quindi la nostra capacità finita di comprendere non è altro che un modo della stessa sostanza che viene compresa.

6.3 I modi «Per modo intendo le affezioni di una sostanza, ossia ciò che esiste in altro, per mezzo del quale è anche concepito» [Etica, I, def. V]. È con la dottrina dei modi che Spinoza cerca di rendere conto del rapporto tra la sostanza infinita e la molteplicità delle cose finite, alla cui essenza non appartiene necessariamente di esistere, ma che esistono solo in “altro” (cioè nella sostanza). Per far questo egli dapprima concepisce l’idea di una modificazione o affezione della sostanza, naturalmente non nel senso che la sua essenza necessaria possa essere alterata da alcunché, ma nel senso che tale modificazione appartiene alla stessa potenza naturale della sostanza, la quale si esplica sempre attraverso i suoi attributi. Per essere più precisi, l’attributo del pensiero e quello dell’estensione sono «necessariamente e infinitamente», modificati il primo sotto forma di attività conoscitiva, il secondo sotto la forma delle relazioni che sussistono tra il moto e la quiete. A loro volta poi da queste modificazioni necessarie ed eterne derivano tutte le idee che in assoluto si possono concepire con la mente e tutti i corpi che possono sussistere nelle relazioni meccaniche di un Universo esteso. È solo all’interno dei modi infiniti che si possono conoscere adeguatamente le cose singole – le singole menti e i singoli corpi considerati di per sé – quali modi finiti dell’infinita sostanza. Concepito in questo senso, il “modo” non rappresenta af-

fatto un depotenziamento o una degradazione della pienezza della sostanza (possibilità assurda, vista la definizione della sostanza), ma una sua attività immanente, quindi necessaria ed eterna. I singoli enti finiti, dunque, non sono affatto negati da Spinoza a favore della sostanza, ma sono “dedotti” dall’infinita modificazione degli attributi della sostanza. Tutto ciò avrà come diretta conseguenza il fatto di non considerare più (come nel creazionismo) ciò che è “finito” come “contingente”, cioè dipendente da chi lo fa essere, ma come necessario: un modo necessario, appunto, della sostanza.

6.4 Dio come natura A questo punto, e solo a questo punto, Spinoza può dare il nome adeguato a questa sostanza, con i suoi attributi ed i suoi modi. Tale nome è “Dio”:



Per Dio intendo l’ente assolutamente infinito, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita. [Etica, I, def. VI]



Il centro di questa definizione sta in quell’avverbio: assolutamente infinito. Esso evidenzia che il Dio di cui stiamo parlando non è più la persona divina rivelatasi storicamente nell’ebraismo e nel cristianesimo, e quindi non può essere pensato in rapporto a ciò che è finito come “creatore” o come “salvatore”, ma al contrario è infinito perché sciolto (ab-solutus) da ogni rapporto con altro da sé. O meglio, questo altro (il finito, il creato) è inteso come del tutto immanente alla “natura” stessa di Dio. È alla filosofia, dunque, che spetta di cogliere in maniera adeguata questa natura di Dio, cioè la sostanza necessaria, infinita ed eterna. Tutto ciò riformula in modo sostanziale lo stesso termine “natura”. Essa non va più intesa solo come l’essenza di un ente determinato nei suoi elementi costitutivi (natura in senso logico, come contenuto della definizione), né solo come l’insieme degli enti che si trovano al di fuori di noi (natura in senso fisico), ma soprattutto come la totalità di ciò che è secondo una legge necessaria, e quindi come sostanza unica, perfetta, infinita e necessariamente esistente. Dio non è più il creatore della natura, ma è natura esso stesso, cioè

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ATTRIBUTI

SOSTANZA

Descartes e Spinoza a confronto DESCARTES

SPINOZA

«Una cosa che esiste in tal modo da non aver bisogno di un’altra cosa per esistere» [Princìpi della filosofia, I, 51].

«Ciò che è in sé ed è concepito per sé, ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa, a partire dal quale debba essere formato» [Etica, I, def. III].

Ma «una sostanza che non abbia affatto bisogno di un’altra cosa, può essere intesa solo come unica, cioè come Dio. E invece percepiamo che tutte le altre cose possono esistere soltanto per l’azione diretta di Dio. Quindi il termine sostanza non si addice a Dio e alle creature in modo univoco» [Princìpi della filosofia, I, 51].

Quindi può essere sostanza solo ciò che è causa di sé, vale a dire «ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente» [Etica, I, def. I]. E questo è Dio.

Tra le creature si chiamano sostanze «le cose che per esistere hanno bisogno del solo concorso ordinario di Dio» [Princìpi della filosofia, I, 52]. In questo senso sono sostanze solo lo spirito e il corpo: res cogitans e res extensa.

«Oltre a Dio non si può dare né si può concepire alcun’altra sostanza» [Etica, I, prop. XIV].

Ciò da cui «si conosce con certezza la sostanza». Ma «ciascuna sostanza ha una sola proprietà principale, che costituisce la sua natura e la sua essenza, e alla quale si riferiscono tutte le altre proprietà» [Princìpi della filosofia, I, 53]. Essa è l’attributo primario.

«Ciò che l’intelletto percepisce di una sostanza come costituente la sua essenza» [Etica, I, def. IV].

Le due diverse sostanze create sono quindi definite e distinte da attributi primari diversi:

Essendoci un’unica sostanza, che è Dio, gli attributi sono propri solo di essa. Essi sono infiniti, come la sostanza, ma il nostro intelletto ne conosce solo due:

• l’attributo primario della sostanza corporea è l’estensione; • l’attributo primario della sostanza pensante è il pensiero.

• «il pensiero è un attributo di Dio, cioè Dio è cosa pensante; • l’estensione è un attributo di Dio, cioè Dio è cosa estesa» [Etica, II, propp. I e II].

MODI

Di conseguenza, «la sostanza pensante e la sostanza estesa sono una sola e medesima sostanza che è compresa ora sotto questo ora sotto quell’attributo» [Etica, II, prop. VII, scolio]. Non significano altro che «gli attributi o le qualità» di una cosa. Questi ultimi sono chiamati modi «quando consideriamo che la sostanza è affetta, o variata da essi», vale a dire quando ineriscono semplicemente alla sostanza (attributi) o quando ne determinano una natura diversa (qualità) [Princìpi della filosofia, I, 56]. «Dunque diciamo propriamente che in Dio non vi sono modi o qualità, ma soltanto attributi, non potendosi concepire in lui alcuna variazione» [Princìpi della filosofia, I, 56].

«Le affezioni di una sostanza, ossia ciò che esiste in altro, per mezzo del quale è anche concepito» [Etica, I, def. V]. Essi si differenziano in modi infiniti e modi finiti. I modi dipendono dall’unica sostanza divina, in quanto manifestano infinitamente i suoi attributi «in maniera certa e determinata» [Etica, II, prop. I, dim.]. Il modo infinito dell’attributo estensione è la relazione assoluta moto-quiete, di cui sono modi finiti i singoli corpi. Il modo infinito dell’attributo pensiero è l’attività del conoscere, di cui sono modi finiti le singole idee.

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sostanza di tutto ciò che è; e la natura di tutte le cose consiste nel loro “essere” in Dio: Deus sive natura [ T23]. Questa identificazione significa che «dalla natura divina devono seguire infinite cose in infiniti modi» [Etica, I, prop. XVI], e che dunque «tutte le cose sono determinate dalla necessità della natura divina ad esistere e ad operare in un certo modo» [Etica, I, prop. XXIX]. 1. In Spinoza l’identificazione di Dio e natura sottende: a. una concezione di tipo qualitativo della natura. b. una concezione vitalistica della natura. c. una concezione creazionistica della natura. d. una concezione meccanicistica della natura. 2. Per “natura” Spinoza intende : a. l’essenza o il quid di un ente determinato. b. la totalità degli enti che si trovano fuori di noi. c. una sostanza unica, perfetta, infinita e necessariamente esistente. d. il prodotto della creazione divina.

6.5 La causalità della sostanza divina Per spiegare in che modo si debbano intendere tutte le cose come determinate in maniera necessaria dalla e nella sostanza divina, Spinoza deve però riformulare lo stesso concetto di causalità. E difatti Dio è innanzitutto inteso come:

La sostanza divina è la sola sostanza libera, ma non perché Dio produca i suoi effetti con un atto di volontà, tanto meno con un atto di arbitrio: un Dio che possedesse intelligenza e volontà, come nella tradizione ebraico-cristiana, sarebbe impensabile per Spinoza, perché si manterrebbe indebitamente la trascendenza del creatore rispetto al mondo creato. La causalità divina è libera non perché crea il mondo, ma, al contrario, solo perché non è determinata da altro, cioè è causa necessaria di sé stessa – e per questo di tutto ciò che esiste. Così quelli che sembrerebbero due termini contrapposti, la “libertà” e la “necessità”, vengono a coincidere in Dio. Per questo motivo secondo Spinoza in Dio la causa efficiente non può che essere al tempo stesso causa immanente di tutto ciò che esiste, nel senso che in essa non permane più una differenza tra la causa e l’effetto (come avviene nella sola causa transitiva), ma si realizza una coincidenza essenziale tra di essi. O meglio, la differenza permane, ma non a livello sostanziale, bensì solo a livello “modale”. La legge necessaria della natura divina è quella di un’unica sostanza, che esiste secondo infiniti attributi e si esplica nelle infinite determinazioni dei modi finiti. O, come Spinoza aveva scritto già nel Breve trattato, «soltanto Dio possiede l’essere e tutte le altre cose non sono esseri, ma modi» [ La potenza].

a. «causa efficiente di tutte le cose che possono cadere sotto un intelletto infinito» (cioè sempliLa potenza cemente di tutto); b. «causa per sé e non per accidente»; Nel pensiero di Spinoza il concetto di “potenza” (potentia) esprime il “poter esistere” della soc. «causa assolutamente prima» [Etica, I, stanza, e non va inteso nel senso della mera possibilità prop. XVI, corollari 1-3].

rispetto all’attualità reale, ma come la dinamica ontologica o l’attività intrinseca di tutto ciò che è. La potenza infatti coincide con la stessa “essenza di Dio”, inteso come causa di sé e di tutte le cose. Dio ha da sé stesso una potenza assolutamente infinita di esistere, che agisce infinitamente e simultaneamente in tutti gli attributi, senza essere delimitata o circoscritta in nessuna delle sue determinazioni. In queste ultime invece, vale a dire nei singoli corpi e nelle singole menti, la potenza consiste nella tendenza a perseverare nel proprio essere, e in quanto tale coincide con la propria natura, quindi con la stessa potenza di Dio. Nell’uomo perciò la potenza non è altro che la virtù, cioè «vivere sotto la guida della sola ragione», mentre l’impotenza è lad. Dio è «causa libera», in quanto esiste ed sciarsi determinare dalle cose esterne. Sarà agisce «per sola necessità della sua natura»; perciò la “potenza dell’intelletto” a e. e infine «è causa immanente, e non transiticonseguire la vera libertà va, di tutte le cose» [Etica, I, prop. XVII, corolumana.

In altri termini, la potenza della sostanza divina è una potenza unica e infinita, che si esplica però in infiniti effetti. Tali effetti, a loro volta, non sono accidentali ma necessari, nel senso che la sostanza, causando sé stessa, causa contemporaneamente tutti i suoi infiniti effetti. Ma la questione si precisa ulteriormente quando Spinoza aggiunge che:

lario 2 e prop. XVIII].

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6.6 «Natura naturans» e «natura naturata» Abbiamo detto che la causa sui si esplica in maniera necessaria come causa efficiente/immanente di tutte le cose. Questo, però, non vuol dire affatto che Dio è la causa prossima e delimitata, cioè finita, di ogni singolo effetto finito della natura, ma che è “divina” l’assoluta necessità della concatenazione delle cause prossime, con i relativi effetti, in quanto tutti contemporaneamente modificazioni degli infiniti attributi di Dio. L’essenza divina, come si è visto sin dalla prima definizione dell’Etica, va concepita in termini di causalità, e quest’ultima costituisce l’infinita “potenza” della sostanza. Tale sostanza andrà dunque concepita come una natura naturante (intendendo con questa espressione gli attributi eterni e infiniti della sostanza, ossia Dio come causa libera), e al tempo stesso come natura naturata (espressione che si riferisce a tutto ciò che segue dalla necessità della natura divina, cioè tutti i modi degli attributi di Dio) [ Dio e la natura]. Se tutte le cose sono in Dio e non possono essere concepite senza Dio, allora non è più possibile ritenere alcune di esse “buone” e altre “cattive”, alcune “perfette” e altre “imperfette”, perché esse sono semplicemente quello che sono, cioè necessarie e immanenti all’unica sostanza divina. Il bene o la perfezione coincidono dunque con l’essenza stessa di ogni cosa; considerati al di fuori di questo, come valori o fini in sé, essi esprimono soltanto i nostri pregiudizi (che Spinoza chiama meri “enti di ragione”). Il motivo ultimo di questo si trova, secondo Spinoza, in un’idea assai diffusa tra gli uomini (ma a suo avviso completamente errata), secondo la quale tutte le cose ed essi stessi agiscono in vista di un fine, e anzi lo stesso Dio avrebbe creato e dirigerebbe tutte le cose in vista dell’uomo, e l’uomo stesso perché lo adorasse. Si tratta per il nostro autore di un “pregiudizio” che non ha tardato a mutarsi in “superstizione”, perché coloro che si sono affannati a dimostrare che la natura non farebbe niente invano, ma tutto in vista e per l’utilità dell’uomo, hanno semplicemente dimostrato che «la natura e gli dèi delirano come gli uomini» [Etica, I, Appendice], facendo accadere alcuni eventi terribili nella natura come segno della loro collera e come punizione per la condotta degli uomini.

Tutte le cause finali in realtà non sono altro che “finzioni umane”, prodotti fallaci dell’immaginazione piuttosto che conoscenze rigorose dell’intelletto. Se si affermasse che Dio agisce per un fine lo si concepirebbe mancante di qualcosa che desidererebbe raggiungere: e un Dio desiderante è per Spinoza assolutamente contraddittorio. Ma anche concepire la conoscenza umana come desiderio inarrestabile di giungere alle ultime cause finali sarebbe soltanto una giustificazione dell’ignoranza. Rifugiarsi nella “volontà di Dio” o credere nei “miracoli” significa solo che si ignorano ancora le cause vere delle cose, e coloro che vi si appellano mirano in realtà a far leva sullo “stupore” degli ignoranti per assicurarsi un dominio teologico e un controllo ecclesiastico-politico su di essi. Invece, per Spinoza, una volta «eliminata l’ignoranza, vien meno anche lo stupore» [Etica, I, Appendice]. 1. Per Spinoza la natura naturans (o natura naturante) è la natura: a. quale creata dalla libera volontà di Dio. b. come causa libera, cioè Dio e i suoi attributi. c. come effetto, cioè l’insieme dei modi. d. come insieme di attributi e modi.

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Dio e la natura Tra natura e Dio, sostiene Spinoza, non c’è alcuna differenza, né alcuna distanza. Questo significa che non è possibile considerare Dio come una causa transitiva (una causa cioè che rimane esterna e separata dall’effetto) della realtà naturale, ma come causa immanente (una causa che coincide con l’effetto). Per chiarire in che senso Dio coincida con la natura, Spinoza usa i termini, già adoperati nella Scolastica del suo tempo, di natura naturante e natura naturata, intendendo con la prima «Dio considerato come causa libera» e con la seconda «tutto ciò che segue dalla necessità della natura di Dio» [Etica, I, prop. XXIX, scolio] e che non può esistere né essere concepito senza Dio.

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7 La natura della mente e l’idea del corpo 7.1 Ordine delle idee e ordine delle cose La II parte dell’Etica ha come titolo La natura e l’origine della mente, ed è dedicata alla dimostrazione di quei modi che derivano necessariamente dall’essenza divina. Certo, non sarà possibile rendere conto delle infinite cose che vengono determinate dagli infiniti attributi di Dio, ma ci si dovrà limitare ai due attributi percepiti dal nostro intelletto, cioè il pensiero e l’estensione, con i relativi modi della mente e del corpo. Il fatto che il tema esplicito di questa parte dell’opera sia la mente non significa che essa sia intesa (come succedeva in Descartes) quale sostanza separata rispetto alla sostanza corporea. E questo per la semplice ragione che secondo Spinoza i due suddetti attributi si coappartengono (insieme agli infiniti altri) all’interno dell’unica sostanza divina, dal momento che in Dio la potenza di pensare è uguale all’attuale potenza di agire. Come dice una delle più celebri proposizioni dell’opera, infatti, «l’ordine e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione delle cose» [Etica, II, prop. VII]. Si deve dunque affermare che «Dio, l’intelletto di Dio e le cose comprese dallo stesso intelletto di Dio sono un solo e medesimo essere». Spinoza fa l’esempio del cerchio esistente in natura, che è una sola e medesima cosa con l’idea del cerchio esistente, anch’essa in Dio: sia che concepiamo la natura sotto l’attributo dell’estensione, sia che la concepiamo sotto l’attributo del pensiero, si tratta di un solo e medesimo ordine, e Dio in quanto cosa pensante sarà causa dell’idea del cerchio, mentre lo stesso Dio, in quanto cosa estesa, sarà causa del cerchio effettivamente esistente. Così, se è vero che in Dio gli attributi sono realmente differenti l’uno dall’altro, è unica però la sostanza cui essi appartengono e unica la potenza che agisce e che pensa per loro tramite. Allo stesso modo, analogicamente, si deve considerare come un unico individuo quello in cui l’attributo del pensiero si modifica come “mente” e in cui parallelamente l’attributo dell’estensione si modifica come “corpo”. Due modi finiti e una sola identità ontologica, perché una sola è la causa sostanziale che li deter-

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mina simultaneamente nello stesso individuo. E così ad ogni modificazione della mente corrisponderà sempre una modificazione del corpo, e viceversa. 1. In Spinoza l’ordine delle idee coincide con l’ordine delle cose perché: a. le idee e le cose sono entrambe create da Dio. b. come aveva dimostrato Descartes estensione e pensiero sono gli attributi delle due sostanze (corporea e pensante). c. gli attributi pensiero ed estensione sono co-appartenenti alla medesima sostanza divina. d. idee e cose sono unificate dal concetto di modo.

7.2 La mente come idea del corpo Per questo motivo, quando deve dimostrare la natura della mente umana, Spinoza afferma che l’essere attuale di quest’ultima «non è altro che l’idea di una cosa singola esistente in atto», e più precisamente che «oggetto dell’idea che costituisce la mente umana è il corpo, ossia un certo modo dell’estensione esistente in atto, e nient’altro» [Etica, II, prop. XIII]. Il problema cartesiano di giustificare e fondare il rapporto tra le nostre idee e le cose fuori di noi viene risolto all’origine, perché non si tratta più del rapporto tra due sostanze diverse, bensì della connessione perfetta e del necessario parallelismo tra gli attributi (e i relativi modi) all’interno di un’unica sostanza. Così:



la mente umana [cioè un modo finito del pensiero] è parte dell’intelletto infinito di Dio [cioè è parte del modo infinito del pensiero, che è un attributo della sostanza divina]. Perciò quando diciamo che la mente umana percepisce questo o quello, non diciamo altro se non che Dio, non in quanto è infinito, ma in quanto si esplica mediante la natura della mente umana, ossia in quanto costituisce l’essenza della mente umana, ha questa o quell’idea. [Etica, II, prop. XI, corollario]



La mente umana non è perciò da intendersi come un “io” universale o come una funzione astratta del pensiero, ma sempre come la mente individuale dei singoli uomini. Anzi, la mente umana è per sua stessa essenza individuale, proprio perché essa consiste nell’idea di un corpo.

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Se poi si considera che il corpo è composto da numerosissime parti di diversa natura (ciascuna composta a sua volta), e che ogni corpo finito sta sempre in una trama di relazioni con altri corpi finiti che lo modificano di continuo, si dovrà concludere che anche l’essere formale della mente non è semplice, bensì composto da moltissime idee, corrispondenti alle molteplici parti del corpo e alle sue molteplici relazioni. D’altra parte, la mente di ciascun uomo sta anche in rapporto costitutivo con le menti degli altri uomini. L’idea di fondo che Spinoza vuole affermare, qui, è la perfetta coincidenza tra l’individualità di ogni singola cosa (nella realtà infatti esistono solo cose particolari) e la sua immanenza agli attributi infiniti della sostanza, arrivando a sostenere che solo tale appartenenza ontologica rende ragione della necessità di ogni singola cosa e di ogni singola idea, le quali occupano un posto necessario nella concatenazione delle cause dell’Universo [ Corpi e menti].

7.3 I tre generi della conoscenza

è vera, cioè di non dubitarne assolutamente. E questo significa considerare le cose non come contingenti (come fa invece l’immaginazione), bensì come necessarie [ T11]. Si tratta tuttavia di una conoscenza che, per quanto adeguata, considera la necessità delle cose identificandola con ciò che è comune a tutti i corpi e non arriva ancora a considerare chiaramente e distintamente la necessità dell’essenza di ogni singola cosa. A questo traguardo potrà giungere solo il terzo genere di conoscenza, quello che Spinoza chiama scienza intuitiva, la quale – come vedremo a conclusione dell’Etica – permette di considerare tutte le cose, singolarmente prese, sotto una certa specie di eternità. Ma questo è possibile perché «la mente umana ha una conoscenza adeguata dell’essenza eterna e infinita di Dio» [Etica, II, prop. XLVII], e la possiede non in sé e per sé (il nostro intelletto resta pur sempre finito!) ma in quanto percepisce sé stessa, il suo corpo e i corpi esterni come esistenti in atto. Da questa natura della mente deriva il fatto che essa non potrà mai essere libera di volere o non volere quello che pensa, giacché ogni idea è determinata da una causa necessaria e questa a sua volta da un’altra causa, e così all’infinito. Anzi, secondo Spinoza si deve decisamente

In questo contesto Spinoza riprende le considerazioni sulle diverse modalità di percezione che aveva già svolto nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto. A differenza di questo scritto, nell’Etica si parla non di quattro, ma di tre generi di conoscenza, con i quali noi percepiamo le cose e formiamo nozioni universali. Corpi e menti Il primo genere è quello dell’opinione o immaginazione, e si basa sulle rappresentazioni Sostenendo il parallelismo fra l’ordine delle sensibili delle cose, cioè su un’“esperienza idee e l’ordine delle cose, Spinoza afferma che vaga”, in quanto costituisce un modo di percenon vi è cosa, o meglio non vi è “corpo” di cui non si pire «mutilato, confuso e senza ordine per l’india un’idea e che, viceversa, non vi è idea che non sia allo telletto» [Etica, II, prop. XL, scolio II]. In esso stesso tempo idea di un corpo. E quest’ultima sarà la rientrano anche le conoscenze ricavate dai mente di quel corpo. Ma se il corpo umano è composto di segni (come per esempio le parole), per mezzo varie parti, e dunque ci saranno tante idee/menti per ciascudei quali noi ci ricordiamo delle cose, in na di esse, come concepire la mente di un singolo individuo maniera analoga a come fa l’immaginazione. È umano? importante rilevare che secondo Spinoza nel- Per comprenderlo dobbiamo capire cosa intenda Spinoza per l’opinione e nell’immaginazione si ritrova individuo: quando molti corpi hanno dei rapporti reciproci costanti e regolari di moto e quiete, allora essi costituisco«l’unica causa della falsità». no un individuo (il quale persiste fino a quando persistoIl secondo genere di conoscenza è invece no tali rapporti). La mente di un uomo è appunto la quello della ragione, la quale ci procura «noziomente di un individuo concepito in questo modo, ni comuni e idee adeguate delle proprietà delle ovvero l’idea di una cosa singola che consta cose». Soltanto con la ragione, non certo con la di un aggregato di corpi che sono fra sensibilità, noi possiamo distinguere il vero dal loro in rapporti costanti. falso, proprio perché la ragione ha la capacità non solo di avere un’idea vera, ma di sapere che

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negare nell’uomo l’esistenza della volontà considerata come una facoltà autonoma – cioè una causalità libera, propria soltanto alla sostanza divina – e si deve identificare senz’altro la volontà umana con l’intelletto. Certo, anche l’intelletto compie degli atti di volizione (come quando afferma o nega una cosa, cioè dà il suo assenso libero), ma tali atti sono del tutto dipendenti dalle idee della mente e quindi non richiedono alcuna facoltà distinta di volere o non volere. La volontà resta per Spinoza una finzione, un ente di ragione che non esiste realmente. Vedremo quanta importanza avrà questa sua posizione nel concepire la vera libertà dell’uomo nella realizzazione piena della conoscenza intellettuale.

8 La meccanica degli affetti: dalla schiavitù alla liberazione 8.1 La natura degli affetti Alla dottrina degli “affetti”, considerati nella loro natura e nella loro forza è dedicata rispettivamente la III e la IV parte dell’Etica. La V e ultima parte tratterà invece della potenza liberatrice dell’intelletto rispetto alle passioni. Coerentemente a quanto affermato circa il parallelismo tra l’ordine delle idee e l’ordine delle cose e circa il fatto che l’essenza della mente è l’idea del corpo, Spinoza intende anzitutto descrivere gli affetti distanziandosi nettamente dal modo in cui essi sono stati affrontati nella tradizione filosofica e teologica. N on si tratta, cioè, di considerarli come un fenomeno specificamente umano rispetto alle più generali leggi dell’intera natura, tanto meno di assumere come punto di partenza della loro analisi l’errato pregiudizio che l’uomo costituisca un’eccezione rispetto alla natura, in quanto dotato di un potere assoluto sulle proprie azioni, senza essere determinato da altro rispetto a sé stesso. Questa posizione di tipo antropocentrico risulta stonata e illusoria agli occhi di Spinoza, proprio in base ai presupposti della sua ontologia. Ma ancora più inaccettabile risulta per lui il fatto che si voglia spiegare la schiavitù degli affetti, vale a dire «l’impotenza e l’incostanza»

degli uomini, come l’effetto di «un presunto vizio della natura umana» [Etica, III, Prefazione]: e qui il riferimento è alla concezione di una natura decaduta e alla dottrina del peccato originale. Vi è stato qualcuno, secondo Spinoza, che ha cercato di comprendere maggiormente la natura e le forze degli affetti, intravedendo anche la via della saggezza con cui la mente può dominarli (come gli stoici e soprattutto Descartes), ma il tentativo non ha mai ottenuto successo. E quindi il campo resta dominato da coloro che «preferiscono detestare o deridere gli affetti e le azioni umane, più che comprenderle». È invece esattamente quest’ultima cosa che intende fare Spinoza: «trattare i vizi e le stoltezze degli uomini con metodo geometrico», e cioè dimostrare con un ragionamento certo ciò che sembrerebbe essere irrazionale e assurdo.



Questo è il mio ragionamento: in natura non si dà nulla che possa essere attribuito a un suo difetto. La natura, infatti, è sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire sono ovunque una e medesima. […] Dunque gli affetti dell’odio, dell’ira, dell’invidia, ecc., considerati in sé, conseguono dalla stessa necessità e potenza della natura dalla quale conseguono le altre cose singole. Perciò ammettono cause certe mediante le quali si comprendono, e hanno proprietà determinate degne della nostra conoscenza al pari delle proprietà di qualunque altra cosa, dalla cui sola contemplazione traiamo diletto. Tratterò dunque della natura e delle forze degli affetti, come anche del potere della mente su di essi, con lo stesso metodo con il quale nelle parti precedenti ho discusso di Dio e della mente, e considererò le azioni e gli appetiti umani come se si trattasse di linee, di superfici o di corpi. [Etica, III, Prefazione]



Tutto, ancora una volta, dipende dalla definizione. Il termine “affetto”, secondo Spinoza, si riferisce alle «affezioni del corpo, dalle quali la potenza di agire dello stesso corpo è aumentata o diminuita, favorita o inibita», ma al tempo stesso si riferisce anche alle «idee di queste affezioni» presenti nella mente [Etica, III, def. III]. Ora, la potenza del corpo aumenta se la causa delle affezioni risiede nella stessa natura dell’uomo, e in tal caso l’affetto è chiamato azione; la potenza invece diminuisce quando le affezioni

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derivano da una causa esterna a tale natura, e allora l’affetto è chiamato passione. Ma in maniera simultanea, anche la mente in certe cose agisce, quando cioè possiede idee adeguate del corpo, in altre cose patisce, quando le sue idee sono inadeguate. Ancora una volta va sottolineato che la corrispondenza corpo/mente non vuol dire affatto che l’una possa interferire sull’altra (esse rimangono differenti nel loro genere), ma solo che azione e passione riguardano il corpo in quanto oggetto della mente e la mente in quanto idea del corpo [ Affetti e passioni].

autoverifica

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1. Per Spinoza gli “affetti”: a. devono essere studiati come fenomeni fondamentalmente umani. b. devono essere considerati come fenomeni derivanti da un difetto della natura umana. c. devono essere studiati mediante il medesimo metodo con cui si giunge a indagare Dio e la mente. d. devono essere distinti in base alla conoscenza o meno delle cause necessarie che li hanno prodotti.

V F V F V F V F

8.2 Il desiderio di essere Ora, l’“azione” fondamentale che sta a fondamento di tutte le altre – e non solo nell’uomo ma in tutte le cose esistenti in natura – è il conatus: «ogni cosa, per quanto sta in essa, è spinta a perseverare nel suo essere» [Etica, III, prop. VI]. Questo “sforzo”, o meglio questa “pulsione”, non è un elemento occasionale che può esserci come non esserci, ma è la stessa «essenza attuale della cosa». Quando essa si riferisce solo alla mente, si chiama volontà, quando invece è riferita, insieme, alla mente e al corpo, si chiama appetito. L’appetito è un concetto fondamentale per comprendere la descrizione spinoziana degli affetti, in quanto esso mostra che l’essenza dell’uomo consiste fondamentalmente nell’impulso naturale alla propria conservazione. Questo appetito, dunque, è del tutto determinato da parte della propria natura, per nulla libero o arbitrario; nel momento però in cui l’uomo ne diventa consapevole, l’appetito si mostra come desiderio o cupidità (cupiditas), che è appunto «l’appetito unito alla coscienza di sé» [Etica, III, prop. IX, scolio]. Esso ha come suo oggetto la perseveranza, la conservazione e il perfezionamento del proprio essere da parte dell’uomo, e

non dipende come origine dal mero istinto della sopravvivenza o da un semplice movente psicologico: in realtà sono questi che dipendono dalla cupiditas come la legge ontologica necessaria, quasi si trattasse di una “meccanica” neutra e impersonale della natura umana. E lo stesso concetto di “perfezionamento” non implica qui l’adeguazione ad un modello universale o a un ideale di vita, ma indica la conoscenza perfetta del proprio modo di essere. La cupiditas costituisce la tendenza fondamentale attorno a cui si raccolgono e da cui sono veicolati tutti gli impulsi, gli appetiti, le volizioni – in una parola: tutti gli affetti – che possono mutare a seconda di come muta di volta in volta la disposizione di uno stesso uomo in relazione a qualche altra causa. Questo fa sì che gli affetti si trovino spesso in contrasto tra loro, tanto che «l’uomo è trascinato in direzioni diverse e non sa dove volgersi» [Etica, III, «Definizione degli affetti», I, spiegazione]. Tale opposizione tra gli affetti e la conseguente mutevolezza dell’uomo fa sì che l’esistenza di quest’ultimo possa sempre passare da una minore ad una maggiore perfezione ma anche compiere il percorso inverso da una maggiore a una minore perfezione. Quando si incrementa il perfezionamento del proprio essere, l’esistenza umana si modifica con l’affetto della gioia (laetitia), quando invece il perfezionamento si decrementa essa si modifica con l’affetto della tristezza (tristitia). La laetitia e la tristitia non vanno mai considerate per Spinoza come stati sentimentali, ma come atti percettivi,

Affetti e passioni Nella tradizione filosofica, per affetto (affectus) si intende lo stato o la qualità prodotta dal subire un’azione e dall’esserne stati quindi modificati o influenzati. Sebbene spesso il termine sia stato considerato come una traduzione del greco pàthos (‘passione’), Spinoza distingue l’affetto dalla passione, considerando quest’ultima come l’affetto di cui non si conoscono le cause. Allorché di un affetto si sappia, invece, la causa necessaria che l’ha prodotto, allora non lo si subisce più passivamente, ma si è attivi nei suoi riguardi; per tale ragione Spinoza chiama questa condizione dell’affetto azione.

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L’“azione” fondamentale dell’uomo Conatus sforzo di ogni cosa tesa a perseverare nel proprio essere, cioè a conservare sé stessa e ad accrescere la propria potenza





Volontà conatus considerato solo rispetto alla mente

Appetito conatus considerato rispetto alla mente e al corpo Desiderio o cupidità appetito del quale si è consapevoli

cioè stati conoscitivi della maggiore o minore realizzazione ontologica della propria natura. La controprova sta nel fatto che quando si parlerà di un affetto inteso come sentimento (o “patema d’animo”) ci si riferirà solo a un’idea confusa con cui la mente percepisce il corpo. Tutti gli altri affetti poi – dall’ammirazione al disprezzo, dall’amore all’odio, dalla speranza all’ammirazione e così via – sono dedotti da Spinoza a partire da quest’unica matrice, cioè dalla dinamica del “desiderio di essere” che viene affetta ogni volta da gioia o da tristezza per la propria maggiore o minore perfezione.

gioso) che nella IV parte dell’Etica Spinoza parla di un’inevitabile «schiavitù umana», dovuta alle «forze degli affetti», in particolare di quelli “passivi”. Si dice schiavo un uomo, allorquando egli risulta umanamente impotente a «governare e inibire gli affetti». Ma perché mai egli dovrebbe controllarli? Per la sola ragione che se l’uomo si sottomettesse ad essi, cesserebbe di essere «il signore di sé» [Etica, IV, Prefazione] e cadrebbe inevitabilmente in balìa della fortuna. Considerato nella sua essenza, l’uomo non può che essere passivo, per il semplice fatto che, come parte della natura, egli non può mai stare senza le altre parti di essa. Inoltre, nella natura, posta una singola cosa, se ne può sempre trovare un’altra più potente, che potrebbe distruggere la prima. E così anche la pulsione con cui l’uomo persevera nell’esistenza è limitata e «superata infinitamente dalla potenza delle cause esterne» [Etica, IV, prop. III]. Ma se tale passività – con il connesso, permanente rischio della schiavitù – è un dato necessario di natura, nient’altro che la natura potrà fornirci la possibilità di contrapporre ad un affetto passivo un affetto attivo più forte, anzi addirittura di trasformare la stessa passività in attività. Questo avviene se noi ci formiamo un’idea chiara e distinta di quella passione: è solo la conoscenza e nient’altro (né una religione rivelata, né una

8.3 Il governo delle passioni Se è vero che tutti questi affetti – sia quelli attivi che quelli passivi – derivano in maniera necessaria, anzi geometrica, dalla natura essenziale dell’uomo (la quale a sua volta esprime in maniera cosciente una tendenza presente in tutte le cose), come sarà possibile giudicare alcuni di essi buoni e altri cattivi? Per poterlo fare è necessario, secondo Spinoza, intendere il “bene” e il “male” come ciò che giova o rispettivamente nuoce alla conservazione del proprio essere, e quindi come utile e dannoso. È proprio in questo senso (non certo in senso morale, tanto meno in quello reli-

La geometria degli affetti Tristezza (tristitia) Passaggio da maggiore a minore perfezione

Gioia (laetitia) Passaggio da minore a maggiore perfezione

Odio Tristezza accompagnata dall’idea di una sua causa esterna: l’oggetto dell’odio

Amore Gioia accompagnata dall’idea di una sua causa esterna: l’oggetto dell’amore





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morale prescrittiva, né una semplice saggezza mondana) il punto decisivo di inversione naturale dalla passività all’attività. Questo non vuol dire affatto che d’ora in poi l’uomo cesserà di essere determinato dalle altre parti della natura, e cioè dalle cause esterne a sé, ma solo che egli ne sarà pienamente consapevole. Solo rendendosi conto della necessità con cui è sottomesso alle passioni, l’uomo giungerà a “governare” realmente i suoi affetti. Perciò la vera, unica virtù umana è quella di agire, vivere e conservare il proprio essere sotto la guida della ragione, e il bene coincide con ciò che è “utile” per la propria essenza, vale a dire con la comprensione della meccanica dei propri affetti.

8.4 La potenza dell’intelletto e l’amore intellettuale di Dio Ma cosa vuol dire per l’uomo – modo finito dell’infinita sostanza – comprendere la necessità delle sue stesse affezioni, se non intuire questa stessa natura come “Dio”? Questo, ancora una volta, non significherà affatto riferirsi a un fattore trascendente come giustificazione della propria limitata potenza, ma al contrario assumere come perfettamente naturale la nostra impotenza nei confronti delle cause che sono fuori dal nostro controllo e «desiderare solo ciò che è necessario». Anche se la conseguenza sarà quella di dover sopportare la limitazione, moderare i nostri impulsi e riequilibrarli serenamente rispetto agli impulsi contrari e più grandi dei nostri. Così l’impotenza degli affetti viene illuminata dalla potenza dell’intelletto:



Nella vita dunque è utilissimo perfezionare, per quanto possiamo, l’intelletto e la ragione, e in questo soltanto consiste la suprema felicità o beatitudine dell’uomo. E la beatitudine certamente non è altro che lo stesso acquietamento dell’animo, che nasce dalla conoscenza intuitiva di Dio. Ma perfezionare l’intelletto non è altro che intendere Dio, gli attributi di Dio e le azioni che seguono dalla necessità della sua natura. Perciò il fine ultimo dell’uomo guidato dalla ragione, ossia il supremo desiderio mediante cui si adopera a moderare tutti gli altri desideri, è quello dal quale è portato a concepire adeguatamente sé stesso e tutte le cose che possono cadere sotto la sua intelligenza. [Etica, IV, appendice, cap. IV]



È dunque «la potenza dell’intelletto» ciò che costituisce la «libertà umana» (come dice il titolo della V parte dell’Etica) [ T11]. La mente giunge alla sua massima attività quando conosce, con il terzo genere di conoscenza, cioè l’intuizione intellettuale, la necessità di ogni singola cosa. In tal modo la cosa è considerata appunto sub specie aeternitatis, perché intesa come modo finito degli attributi infiniti di Dio. La soddisfazione che l’intelletto riceve da questa intuizione lo porta a trasformarsi in vero e proprio “amore”: un amore intellettuale, vale a dire frutto dell’intuizione di una necessità non più intesa come costrizione ma come pienezza dell’essere. L’intelletto, conoscendo in questa maniera, libera la mente; la mente liberata è piena della comprensione di Dio e in tal senso lo ama; questo amore è dunque la libertà come “acquiescenza” nella necessità. L’amor Dei intellectualis di Spinoza non ha più nulla dell’esperienza amorosa di Dio affermata dall’ebraismo e dal cristianesimo, e cioè non è più inteso come rapporto tra l’“io” finito (l’uomo) e il “tu” infinito (Dio). E questo per un motivo essenziale: il Dio-sostanza di Spinoza non potrà mai amare per primo l’uomo, e quest’ultimo non potrà in alcun modo pensare di amare per essere riamato. Tutto è già da sempre e per sempre in Dio, e l’idea stessa che nella storia possa essere accaduta una rivelazione porterebbe a negare per Spinoza l’assoluta necessità, infinità ed eternità della sostanza. In altri termini, l’uomo non ha bisogno di altro rispetto alla propria natura, non ha bisogno di un Dio altro da sé, per essere salvato (cioè per raggiungere la felicità); egli è invece chiamato a comprendere la sua natura, con tutta la sua finitezza e il suo limite, come eterna e necessaria in Dio e solo in virtù di questa comprensione essere felice. Ma soprattutto è Dio, per Spinoza, che non ha bisogno dell’uomo, poiché la sostanza divina si è già determinata nell’uomo come un suo modo finito. L’amore intellettuale di Dio non è dunque un atto della volontà, ma un acuirsi dell’intelletto, tanto che Spinoza può dire che l’amore della mente verso Dio è «parte dell’amore infinito con il quale Dio ama sé stesso» [Etica, V, prop. XXXVI]: riverbero cosciente dell’assoluta necessità di sé e di ogni singola cosa che esiste nell’Universo. Per questo solo il saggio può raggiungere compiutamente la beatitudine, perché solo a lui si è aperto il regno della contemplazione intel-

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lettuale delle cose. La beatitudine non è il premio per essere stati virtuosi, ma coincide con la stessa virtù del saggio. In altri termini, solo il filosofo può davvero salvarsi, cioè liberarsi dalla morte: o meglio, può liberarsi dal timore della morte, perché la morte vera – quella che nessuno può risparmiarsi, neanche il saggio – fa parte della necessità della natura, e quindi dev’essere accettata serenamente come modalità inevitabile della “gloria” di Dio. Questa via – Spinoza lo riconosce – è davvero ardua, il che spiega perché la si trovi così raramente: «se infatti fosse facile e la si potesse trovare senza grande applicazione, come potrebbe accadere che la salvezza venga trascurata da quasi tutti? Ma tutte le cose preziose sono tanto difficili quanto rare» [Etica, V, prop. XLII, scolio].

9 Esegesi e politica 9.1 Critica della rivelazione e interpretazione storica delle Scritture Eppure nella storia degli uomini a un certo punto è sembrata possibile una via più facile rispetto a quella difficile del saggio. Questa via è quella delle rivelazioni storiche di Dio, la via da cui peraltro proviene Spinoza, figlio eterodosso del popolo ebraico. Ed è questa via che egli cerca di riattraversare alla luce della dottrina geometrica della sostanza e degli affetti, sia perché intende demistificare la pretesa delle rivelazioni storiche – e soprattutto delle Chiese che se ne proclamano uniche rappresentanti – di costituire la vera via della salvezza; sia anche perché è proprio da questo fronte che giungevano le censure e le polemiche più aspre, a partire dalla rottura con la comunità sefardita di Amsterdam sino alle ritornanti accuse di ateismo da parte di ambienti cristiani. Non è un caso che a partire dal 1665, interrotta la redazione dell’Etica, Spinoza abbia deciso di scrivere un’opera con questo esplicito intento decostruttivo, che pubblicherà anonima nel 1670 con il titolo di Trattato teologico-politico. Già il lungo sottotitolo è significativo dell’impresa, e cioè dimostrare «non soltanto che la libertà di filosofare si può concedere senza dan-

no per la pietà e la pace dello Stato, ma anche che essa non si può togliere senza togliere la pietà e la pace dello Stato». Contro le critiche, Spinoza alza il tiro, affermando che il libero esame delle Sacre Scritture non solo non mina l’ordine sociale, ma è proprio ciò che potrebbe salvaguardarlo. È questo connubio tra la rivendicazione del libero pensiero filosofico rispetto ai canoni teologici ed ecclesiastici, da un lato, e la sollecitudine per l’ordine politico e la pace civile dall’altro, a costituire la caratteristica di quest’opera, da subito portatrice di polemiche accesissime e di aspre censure, ma al tempo stesso assunta come vessillo dai liberi pensatori nelle lotte contro i diversi tipi di dogmatismo politico-religioso. La prima parte del Trattato teologico-politico si impegna in una critica serrata alla presunta origine divina dell’elezione e della rivelazione del popolo ebraico (da Mosè ai profeti sino a Gesù), attraverso una ricostruzione critica e un’interpretazione filosofica delle Sacre Scritture. L’intento è quello di mostrare che Dio non potrebbe mai rivelarsi mediante parole, immagini e segni storici, perché tutti questi mezzi rientrano nell’ambito della conoscenza per immaginazione (il primo dei tre generi di cui parla l’Etica), e quindi non permettono di conoscere ciò che è proprio di Dio, vale a dire la sua infinità e la sua eternità, ma solo l’intenzione e il temperamento morale degli stessi profeti, o al limite il valore dell’obbedienza alla legge. La legge ritenuta di origine trascendente ha come unico contenuto un richiamo di ordine morale alla giustizia e alla carità, che il popolo (fatto in massima parte da ignoranti) non riesce a riconoscere per la sua necessaria evidenza razionale – come non riesce a conoscere intellettualmente Dio – ma può seguire solo sotto forma di un comando dall’alto. Così pure non si può parlare degli ebrei come del popolo eletto, dal momento che tutti i popoli sono ugualmente eletti sulla base dell’intelletto naturale chiamato alla conoscenza di Dio. Per non parlare dei miracoli, letteralmente impensabili senza negare l’immutabilità divina, dal momento che nel miracolo Dio derogherebbe alle eterne leggi della natura; nonché dei riti e dei cerimoniali, utilizzati dalla casta sacerdotale per tenere sottomesso il popolo con il vincolo della superstizione. Ma sono i capitoli dedicati all’esegesi biblica quelli in cui il progetto critico spinoziano dà

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maggior prova di sé. Le Sacre Scritture, afferma Spinoza, sono considerate comunemente «parola di Dio», ma non vengono trattate come tali, se è vero che i teologi si adoperano per estorcere ad esse «le loro proprie finzioni e verità», facendo loro dire ciò che vogliono. A fronte di queste manipolazioni, bisognerà invece adottare un rigoroso metodo di interpretazione testuale, che si accordi al metodo di interpretazione della natura. Cambiano gli oggetti (da una parte i dati naturali, deducibili dai princìpi dell’intelletto, dall’altra i racconti storici, le rivelazioni e i miracoli non deducibili razionalmente), ma il metodo è analogo: «la conoscenza di […] quasi tutte le cose contenute nelle Scritture dev’essere domandata alle stesse Scritture, come la conoscenza della natura alla stessa natura» [Trattato teologico-politico, VII, 4]. In altri termini, se le Scritture sono testimonianza di una rivelazione storica, è esclusivamente come un prodotto storico che esse vanno interpretate, per esempio ricostruendo le loro origini linguistico-culturali, l’identità e le intenzioni degli autori, mettendo in discussione l’autenticità di alcuni libri sulla base della storia della loro redazione e trasmissione, ecc. Solo questa operazione permetterà, secondo Spinoza, di giungere al vero senso delle Scritture, che è quello di insegnare la fede in «un ente supremo, che ama la giustizia e la carità e a cui tutti, per esser salvi, sono tenuti ad obbedire, adorandolo nel culto della giustizia e dell’amore del prossimo» [Trattato teologico-politico, XIV, 10]. Da questo punto di vista bisogna separare nettamente la fede dalla filosofia: scopo della filosofia è la verità, scopo della fede (che Spinoza identifica senz’altro con la teologia) è l’obbedienza e la pietà. Fintanto che i due ordini restano separati si eviterà che l’obbedienza al vero senso delle Sacre Scritture divenga sottomissione ad una superstizione [ T49]. E come non si potrà più sostenere che la filosofia sia l’ancella della teologia, così non si potrà nemmeno dire che la teologia deve esserlo della filosofia. Tuttavia un innegabile primato va riconosciuto per Spinoza alla filosofia, dal momento che essa è in grado di mostrare che il nòcciolo di verità delle Scritture può essere attinto anche per sola luce intellettuale, cioè in base alla sola evidenza naturale: ma allora i racconti storici e le rivelazioni, i miracoli e i riti – pur necessari per il volgo – non avrebbero più molto significato per il saggio. Resta comunque

come giudizio finale quello che a ciascuno dev’essere lasciata la libertà di pensiero e di parola nell’interpretare i princìpi della fede, «secondo ciò che sente».

9.2 La libertà del pensiero e l’ordine dello Stato In una seconda parte del Trattato teologico-politico Spinoza affronta il problema – assai vivo e spinoso nell’Europa del tempo – se sia possibile concedere tale libertà di pensiero senza recar danno, come da più parti si temeva, alla pace civile e al diritto dell’autorità sovrana. La sua tesi è che non solo tale concessione non è dannosa, ma che anzi essa sola può garantire l’ordine della convivenza e l’autorità dello Stato. Ogni cittadino infatti – scrive Spinoza riferendosi idealmente ad Hobbes [ 12] – ha per natura «pieno diritto su ciò che è in suo potere, ossia […] il diritto di ciascuno si estende sin dove si estende la sua determinata potenza» [Trattato teologicopolitico, XVI, 2]. Per questo nessuno può essere obbligato a vivere se non per il suo stesso desiderio, non per il volere di altri. E quando il singolo individuo aliena nelle mani di altri (il sovrano) il suo diritto alla difesa e a vivere in pace senza coercizioni per la sua libertà di pensiero e di parola, è tenuto ad agire secondo il volere del sovrano, ma non potrà mai privarsi del tutto del suo diritto naturale, e se questo gli venisse impedito o tolto, lo Stato stesso cadrebbe in grave pericolo. A questo si aggiunga che in tutti i suoi scritti Spinoza non manca mai di sottolineare che per raggiungere la felicità piena si richiede, oltre all’affinamento della mente, anche e sempre l’instaurazione di una convivenza sociale e politica, considerata come un fattore concomitante e imprescindibile per il perfezionamento della propria natura. Alla felicità del singolo concorre sempre e inevitabilmente quella degli altri uomini. Il punto sarà dunque come concepire e perseguire questa naturale socialità. La risposta di Spinoza è quella di un’enfatizzazione del ruolo ordinatore dello Stato, soprattutto nella sua forma repubblicana [ T39]. E difatti, se da un lato all’autorità dello Stato può essere revocato il potere, qualora non garantisse più la libertà dei sudditi, dall’altro la condizione migliore per conservare ed esercitare la propria libertà da parte degli individui è uno

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Baruch de Spinoza capitolo 9

SINTESI CAPITOLO 9

La mente umana e la sostanza divina. La filosofia di Spinoza porta in sé due grandi pretese: da un lato vuole smantellare tutte quelle dottrine metafisiche e teologiche che concepiscono la realtà (l’anima, la natura, Dio) in base alle immagini forgiate dall’uomo, ponendo Dio (sostanza unica e assoluta) come oggetto e soggetto della sua filosofia; dall’altro attribuisce ad ogni singola cosa un carattere di necessità e di eternità, anche a ciò che è transeunte e mortale. Ogni cosa, infatti, ha valore perché è una modalità necessaria di essere di Dio e solo in questa consapevolezza risiede la salvezza, cioè la felicità dell’uomo saggio. L’esercizio del pensiero come scelta di vita. Il pensiero di Baruch de Spinoza (1632-1677) non sarebbe comprensibile senza partire dall’origine ebraica del suo autore che, nato da una famiglia della comunità sefardita di Amsterdam, il 27 luglio 1656 viene colpito dalla scomunica da parte dei rabbini della Sinagoga a motivo delle sue idee sull’immortalità dell’anima, la natura della divinità e l’origine della Sacre Scritture. Espulso dall’intero popolo d’Israele ed interdetto da ogni tipo di relazione sociale, Spinoza si lega a correnti liberali del protestantesimo olandese, pubblicando i suoi scritti come anonimi, per non incorrere nella censura ebraica e in quella calvi-

come suprema condizione dell’esercizio di quest’ultima il potere ed il controllo da parte dello Stato nei confronti della religione. Qualcuno ha notato dietro queste posizioni l’appoggio al governo repubblicano di De Witt, ma al di là di questo è forse una specie di imprinting della concezione spinoziana della libertà quello di risultare una cosciente accettazione della necessità che tutto governa. Anche la libertà in fondo, anzi soprattutto la libertà, appartiene al regno della geometria. 1. Per Spinoza lo Stato: a. deve garantire la libertà dei sudditi. b. deve essere garante della sicurezza dei sudditi. c. non può intervenire nelle questioni delle autorità religiose. d. può revocare in ogni momento il diritto naturale.

nista, e rifiutando l’invito ad insegnare nell’Università di Heidelberg, per timore di essere limitato nella sua libertà di ricerca. Un metodo per l’emendazione dell’intelletto. Il Trattato sull’emendazione dell’intelletto (1657-1658) ha per oggetto la conversione del pensiero umano alla filosofia per giungere al riconoscimento del suo vero bene. Questo non va inteso come una proprietà assoluta inerente alle cose giacché in natura tutto è di per sé necessario. Il bene e il male dipendono dunque dal nostro essere o meno in grado di conoscere la necessità eterna di ogni cosa. Per raggiungere tale conoscenza, l’intelletto ha bisogno di un «metodo di emendazione» che gli consenta di giungere alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose (sommo bene), unica via alla felicità: questo coincide con la percezione nella quale la cosa è colta mediante la sua sola essenza o mediante la conoscenza della sua causa prossima (intuizione intellettuale). Il punto di partenza del metodo coincide con un’“idea vera”, immanente al pensiero umano: l’idea di Dio. L’idea di Dio e la geometria. Mentre in Descartes Dio garantisce che il metodo possa essere applicato alla conoscenza della natura fuori di noi, in Spinoza l’idea vera di Dio è

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già presente all’origine del metodo, in quanto essa costituisce il modo originario con cui la nostra mente conosce la realtà. Inoltre per Spinoza pensando Dio pensiamo un ente che non può non esistere. In definitiva, nella prospettiva spinoziana non si parte dal cogito per arrivare a Dio, ma si parte da Dio come l’idea che costituisce l’essenza della mente e l’idea vera di Dio non è altro che l’unificazione compiuta della mente con la natura intera. N el Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene (1661), Spinoza afferma che solo Dio è una vera “sostanza”, essendo sostanza infinita; di conseguenza le cose finite sono solo “modi” della sostanza. Non vi è più differenza ontologica tra Dio e il mondo: la sostanza divina coincide con il tutto della natura. Questa identificazione di Dio e natura si basa su una concezione rigorosamente meccanicistica di matrice cartesiana. Spinoza riprende e sviluppa l’idea di Descartes di dimostrare tutto il contenuto della filosofia in maniera geometrica. N ei Princìpi della filosofia di Cartesio (1663) egli da un lato si impegna a ridefinire in senso rigorosamente deduttivo tutte le nozioni cartesiane di cui si servirà nella sua filosofia, dall’altro evidenzia che i fondamenti delle scienze gettati da Descartes non sono ancora sufficienti per risolvere tutte le più difficili questioni della metafisica.

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Stato che assicuri l’ordine e la sicurezza, e a cui per questo si deve sempre obbedire. Il diritto inalienabile alla libertà di pensiero e di parola va dunque limitato a tutti i casi in cui non si leda l’integrità del patto sociale, ma solo ad essi. Per questo le autorità religiose non devono mai interferire con il potere dello Stato, mentre i governanti civili devono poter regolamentare gli affari ecclesiastici, proprio per salvaguardare l’ordine e la pace della società. Anzi, non dipende dalle autorità religiose nemmeno stabilire cosa sia “pio” e cosa “empio”, né esse sono competenti nel regolare la giustizia e la carità, che possono diventare legge della convivenza solo in virtù dei decreti del potere civile. Con una posizione che potrebbe forse sembrare in contrasto con la sua appassionata difesa della libertà individuale, Spinoza finisce dunque per identificare

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SINTESI CAPITOLO 9

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parte II L’orizzonte cartesiano e i nuovi sistemi della metafisica razionalistica N ell’orizzonte dell’Etica. L’Etica (1677) offre un chiaro esempio dell’esercizio deduttivo e del rigore argomentativo della filosofia di Spinoza, nonché dell’esperienza di liberazione interiore e di affermazione coraggiosa della verità. L’opera si articola in cinque parti: la considerazione di “Dio” come unica sostanza (I), la trattazione della “mente umana” (II) e quella degli “affetti” (III), le due possibilità che si aprono all’uomo e cioè “la schiavitù umana” dovuta alla forza degli affetti (IV) e “la libertà umana” dovuta alla potenza dell’intelletto (V). Ciascuna di queste cinque parti prende le mosse dagli elementi fondamentali di ogni geometria, (definizioni, assiomi o, postulati). Le definizioni dell’Etica sono idee chiare e distinte con cui intendiamo l’essenza di una cosa e consistono nella non-contraddizione logica dei termini con cui noi le concepiamo; pertanto mostrano soltanto la necessità con cui l’intelletto può pensare l’essenza o la natura di una cosa. Compito della filosofia è dimostrare la verità ontologica di tutto ciò che esiste attraverso una rigorosa concatenazione di proposizioni, accompagnate da corollari, spiegazioni, e scolii. Il titolo dell’opera indica l’intero percorso della filosofia spinoziana in cui il pensiero, giungendo a conoscere con ordine necessario la realtà intera, realizza compiutamente la vera libertà. «Deus sive natura». La I parte dell’Etica muove dalla definizione della causa sui come ciò la cui essenza implica l’esistenza; di contro si dice “finita nel suo genere” una «cosa che può essere determinata da un’altra cosa della stessa natura». La sostanza viene definita come ciò che è in sé ed è concepito per sé. Sostanza è dunque la natura di ciò che non dipende da altro per essere e per esser conosciuto. La definizione spinoziana di sostanza può essere applicata solo alla causa di sé, non alle cose finite che rientreranno in essa come i suoi attributi ed i suoi modi. Per attributo Spinoza intende ciò che l’intelletto percepisce di una sostanza come costituente la sua essenza. Poiché la sostanza è causa di sé, essa possiede infiniti attributi ed ogni suo attributo è infinito. Il nostro

intelletto finito, tuttavia, concepisce della sostanza i soli attributi del pensiero e dell’estensione. Per modo Spinoza intende le affezioni della sostanza, ossia ciò che esiste in altro, per mezzo del quale è anche concepito. Con questo concetto egli spiega il rapporto tra la sostanza infinita e la molteplicità delle cose finite, distinguendo tra modi infiniti e modi finiti (le singole menti e i singoli corpi) dell’infinita sostanza. I singoli enti finiti, dunque, sono “dedotti” dall’infinita modificazione degli attributi della sostanza: ne consegue che il finito non è più contingente, ma necessario. A questo punto Spinoza può chiamare tale sostanza Dio: il Dio spinoziano non è più la persona divina dell’ebraismo o del cristianesimo, creatore o salvatore, non è più il creatore della natura, ma “è” natura esso stesso, cioè sostanza di tutto ciò che è; e la natura di tutte le cose consiste nel loro “essere” in Dio: Deus sive natura. Spinoza riformula il concetto di causalità affermando che Dio è: a. causa efficiente di tutte le cose; b. causa per sé e non per accidente; c. causa assolutamente prima; d. causa libera; e. causa immanente, e non transitiva, di tutte le cose. Pertanto libertà e necessità in Dio coincidono. Per chiarire in che senso Dio coincida con la natura, Spinoza distingue tra natura naturante, cioè gli attributi eterni e infiniti di Dio come causa libera, e natura naturata, cioè tutti i modi degli attributi di Dio. Per effetto di questa coincidenza il bene o la perfezione coincidono con l’essenza stessa di ogni cosa e le cause finali non sono altro che finzioni umane, prodotti fallaci dell’immaginazione piuttosto che conoscenze rigorose dell’intelletto. Dio, infatti, non persegue alcun fine. La natura della mente e l’idea del corpo. La II parte dell’Etica è dedicata alla dimostrazione di quei modi (mente e corpo) che derivano necessariamente dagli attributi divini del pensiero e dell’estensione. Per Spinoza i due suddetti attributi si coappartengono all’interno dell’unica sostanza divina; pertanto non vi è, come in Descartes, dualismo di sostanze, ma l’ordine delle idee coincide con quello delle cose: ad ogni modifica-

zione della mente corrisponde sempre una modificazione del corpo, e viceversa. Il problema cartesiano di giustificare e fondare il rapporto tra le nostre idee e le cose fuori di noi viene risolto all’origine, perché non si tratta più del rapporto tra due sostanze diverse, bensì della connessione perfetta e del necessario parallelismo tra gli attributi (e i relativi modi) all’interno di un’unica sostanza. N ell’Etica Spinoza distingue tre generi di conoscenza: l’opinione o immaginazione che si basa sulle rappresentazioni sensibili delle cose, cioè su un’“esperienza vaga”; la ragione, che ci consente di distinguere il vero dal falso; la scienza intuitiva, che permette di considerare tutte le cose, singolarmente prese, sotto una certa specie di eternità. La meccanica degli affetti: dalla schiavitù alla liberazione. Gli “affetti” non sono considerati da Spinoza come un fenomeno specificamente umano rispetto alle più generali leggi dell’intera natura, ma, seguendo il metodo geometrico, come le affezioni del corpo e nel contempo le idee di esse presenti nella mente. La potenza di agire del corpo aumenta se la causa delle affezioni risiede nella stessa natura dell’uomo (azione); diminuisce quando le affezioni derivano da una causa esterna a tale natura (passione). L’azione che sta a fondamento di tutte le altre, in ogni cosa esistente in natura, è il conatus ovvero la pulsione a conservare il proprio essere. Quando essa si riferisce solo alla mente, si chiama volontà, quando invece è riferita alla mente e al corpo, si chiama appetito. Se l’appetito nell’uomo diviene consapevole si mostra come desiderio o cupidità: attorno ad essa si raccolgono tutti gli affetti. Ciò fa sì che gli affetti si trovino spesso in contrasto tra loro e l’uomo sia trascinato in direzioni diverse. Quando si incrementa il perfezionamento del proprio essere, l’esistenza umana si modifica con l’affetto della gioia, quando invece il perfezionamento si decrementa essa si modifica con l’affetto della tristezza. Di conseguenza, il “bene” e il “male” coincidono con ciò che giova o nuoce alla conservazione del proprio essere (utile o dannoso).

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SINTESI CAPITOLO 9

Baruch de Spinoza capitolo 9 La schiavitù umana dipende dall’impotenza a governare e inibire gli affetti. Ma se tale passività è un dato necessario di natura, è la natura stessa a fornire all’uomo la possibilità di trasformarla in attività attraverso la conoscenza della passione. Dunque la potenza dell’intelletto costituisce la libertà umana: la mente giunge alla sua massima attività quando conosce, mediante l’intuizione intellettuale, la necessità di ogni singola cosa. In tal modo la cosa è considerata appunto sub specie aeternitatis, perché intesa come modo finito degli attributi infiniti di Dio. Ne deriva un amore intellettuale: la mente liberata è piena della comprensione di Dio e in tal senso lo ama; questo amore è dunque la libertà come “acquiescenza” nella necessità (amor Dei intellectualis).

Esegesi e politica. Nel Trattato teologico-politico (1670) Spinoza sostiene che il libero esame delle Sacre Scritture non solo non mina l’ordine sociale, ma potrebbe salvaguardarlo: caratteristica dell’opera è lo stretto connubio tra la rivendicazione del libero pensiero filosofico e la sollecitudine per l’ordine politico e la pace civile. N ei capitoli dedicati all’esegesi biblica, Spinoza afferma che occorre adottare un rigoroso metodo di interpretazione testuale essendo le Scritture un prodotto storico. Egli sostiene che bisogna separare nettamente la fede dalla filosofia: scopo della filosofia è la verità, scopo della fede è l’obbedienza e la pietà. Tuttavia va riconosciuto un primato alla filosofia, in quanto essa è in grado di mostrare che il nòcciolo di veri-

tà delle Scritture può essere attinto anche per sola luce intellettuale. N ella seconda parte del Trattato teologico-politico Spinoza sostiene che la libertà di pensiero non reca danno alla pace civile e al diritto dell’autorità sovrana. Sebbene il singolo individuo alieni nelle mani del sovrano il diritto alla difesa e a vivere in pace senza coercizioni per la sua libertà di pensiero e di parola, non potrà mai privarsi del suo diritto naturale; e se questo gli venisse tolto, lo Stato stesso cadrebbe in grave pericolo. Per questo le autorità religiose non devono mai interferire con il potere dello Stato, mentre i governanti civili devono poter regolamentare gli affari ecclesiastici, proprio per salvaguardare l’ordine e la pace della società.

maniera particolare anche dei primi scritti del filosofo, è quello di: F. Mignini, Introduzione a Spinoza, nuova ed., Laterza, Roma-Bari 2006.

• L. Strauss, La critica alla religione in Spinoza. I presupposti della sua esegesi biblica (sondaggi sul Trattato teologico-politico), Laterza, Roma-Bari 2003.

BIBLIOGRAFIA Fonti

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B. de Spinoza, Trattato sull’emendazione dell’intelletto, in Opere, a cura di F. Mignini, trad. di F. Mignini e O. Proietti, Mondadori, Milano 2007. B. de Spinoza, Epistolario, in Opere, cit. B. de Spinoza, Etica, in Opere, cit. (ma anche trad. di E. Giancotti Boscherini, Editori Riuniti, Roma 2002, con un ottimo commento). B. de Spinoza, Trattato teologicopolitico, in Opere, cit. (ma anche trad. di A. Droetto e E. Giancotti Boscherini, a cura di E. Giancotti Boscherini, Einaudi, Torino 2007).

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Opere Oltre agli scritti di Spinoza già citati, bisogna tener presenti anche i seguenti: B. de Spinoza, Breve trattato su Dio, l’uomo e il suo bene, in Opere, cit. (in “Fonti”); B. de Spinoza, Principi di filosofia di Cartesio e Riflessioni metafisiche, in Opere, cit.; B. de Spinoza, Trattato politico, in Opere, cit.

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Studi critici Lo studio introduttivo più completo e più documentato al pensiero di Spinoza, nel quale si tiene conto in

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Un’avvincente ricostruzione della vita e delle dottrine di Spinoza, considerate sempre nella fitta trama intellettuale, religiosa e politica del suo tempo è offerta da: S. Nadler, Baruch Spinoza e l’Olanda del Seicento, Einaudi, Torino 2002.

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Dello stesso autore è anche un altro studio particolarmente utile per decifrare i diversi significati della scomunica di Spinoza da parte della comunità ebraica di Amsterdam e per cogliere i legami e le rotture del filosofo con la sua tradizione religiosa: S. Nadler, L’eresia di Spinoza. L’immortalità e lo spirito ebraico, Einaudi, Torino 2005.

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Per agevolare e approfondire la lettura dell’opera principale di Spinoza è consigliabile: E. Scribano, Guida alla lettura dell’Etica di Spinoza, Laterza, Roma-Bari 2008.

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Un testo classico per cogliere il rapporto tra la critica della religione, l’esegesi biblica e la filosofia politica di Spinoza, essenziale per tutta la dottrina moderna dello Stato è:

Un’altra interpretazione “d’autore” è offerta da un filosofo francese contemporaneo, che coglie molto bene il fatto che l’Etica di Spinoza non è una “morale” nel senso tradizionale, ma una scienza pratica in cui si studiano gli “affetti” che determinano la ragione: G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, Guerini e Associati, Milano 1998.

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Un esempio di straordinaria intensità su come la figura di Spinoza abbia rappresentato, anche al di là degli studi filosofici, una visione della vita e dell’uomo è nel racconto di: I.B. Singer, Lo Spinoza di via del Mercato, in Racconti, Mondadori, Milano 1998.

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Uno sguardo completo al pensiero teologico è in: G. Di Luca, La critica della religione in Spinoza, Japadre, L’Aquila 1982.

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Sempre dello stesso autore si veda: G. Di Luca, La teologia razionale di Spinoza, Japadre, L’Aquila 1993.

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ESERCIZI

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parte II L’orizzonte cartesiano e i nuovi sistemi della metafisica razionalistica 1. Perché per Spinoza l’uomo, per giungere al riconoscimento del vero bene, è chiamato a convertirsi alla filosofia? (max 8 righe) 2. In che cosa consiste il metodo per emendare l’intelletto e qual è il suo fondamento? (max 8 righe) 3. Dopo aver letto il paragrafo 4, esplicita la diversa connessione tra il metodo e l’idea di Dio in Spinoza e in Descartes (max 8 righe). 4. Illustra i passaggi che conducono l’autore del testo all’affermazione che la via spinoziana è sinonimo di negazione del carattere trascendente di Dio (max 8 righe). 5. Dopo aver analizzato la tabella comparativa concernente il lessico spinoziano e cartesiano a p. 180 svolgi i seguenti esercizi. a. Definisci la differenza fra attributi e modi della sostanza spinoziana e, dopo aver distinto i tipi di modi, chiarisci a quale categoria appartengono: il pensiero, l’estensione, l’attività del conoscere, la volontà, la relazione motoquiete, l’idea di cane, il cane (max 8 righe). b. Ora fai lo stesso per Descartes. Dopo aver definito il concetto di sostanza e chiarito la differenza rispetto a quello di Spinoza, illustra la differenza tra attributi e modi e chiarisci a quale categoria appartengono il pensiero e l’estensione (max 15 righe). 6. Dopo aver negato alle cose finite lo status e il concetto di sostanze, come Spinoza pensa e spiega il rapporto tra l’unica e infinita sostanza (Dio=Natura) e gli oggetti empirici? (max 8 righe) 7. Spiega il significato del titolo completo dell’opera Ethica ordine geometrico demonstrata chiarendo le ragioni del nesso tra conoscenza e libertà (max 8 righe). 8.Completa le seguenti definizioni inserendo i concetti corrispondenti tra i seguenti: modo modo infinito causa sui modo finito attributo Dio sostanza natura «Per ......................... intendo ciò la cui essenza implica l’esistenza, ossia ciò la cui natura non può essere concepita se non come esistente.»

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«Per ......................... intendo ciò che è in sé ed è concepito per sé, ossia ciò il cui concetto non esige il concetto di un’altra cosa, a partire dal quale debba essere formato.» «Per ......................... intendo una cosa che può essere determinata da un’altra cosa della stessa natura.» «Per ......................... intendo l’ente assolutamente infinito, ossia la sostanza che consta di infiniti attributi, ciascuno dei quali esprime un’essenza eterna e infinita.» «Per ......................... intendo le affezioni di una sostanza, ossia ciò che esiste in altro, per mezzo del quale è anche concepito.» «Per ......................... intendo ciò che l’intelletto percepisce di una sostanza come costituente la sua essenza.» 9. Esplicita le diverse accezioni del concetto di causalità in Spinoza e spiega come libertà e necessità in Dio coincidano (max 8 righe). 10. Nell’Etica Spinoza distingue tre gradi della conoscenza: spiega in che cosa consistono e chiarisci qual è il grado più alto (max 15 righe). 11. Posto il seguente schema, definisci i singoli termini ed elabora un testo che esplichi la meccanica degli affetti e il ruolo della gioia e della tristezza in Spinoza (max 15 righe). 

Volontà

Conatus



Appetito  Desiderio

12. Elabora un breve testo sulla concezione spinoziana della libertà in cui siano presenti le seguenti espressioni: potenza dell’intelletto, libertà umana, amore intellettuale di Dio, saggezza, beatitudine e salvezza (max 15 righe). 13. Nel Trattato teologico-politico Spinoza afferma che occorre separare la fede dalla filosofia. Spiega le ragioni di questa tesi (max 8 righe). 14. Spiega le ragioni della tesi secondo cui la libertà di pensiero non costituisce una minaccia alla pace civile e all’autorità sovrana (max 15 righe).

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capitolo 10

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Gottfried Wilhelm Leibniz

1 Un pensiero barocco L’impressione che si prova, di fronte alla filosofia di Leibniz, è analoga a quella che nasce davanti a un’architettura barocca: quando entriamo per esempio in una Chiesa barocca ci troviamo avvolti da uno spazio per così dire dinamico, il cui disegno non si presenta mai come una struttura fissa dinanzi a noi, ma come un movimento continuo di linee e di curve che sgorga da un centro propulsore di luce – quasi sempre l’altare o una finestra che lo sovrasta – e si dispiega nei singoli elementi architettonici. Questi elementi vengono come disegnati dalla luce – nel contrasto con le loro ombre – e da essa vengono tenuti assieme. Così nel pensiero leibniziano un principio metafisico fondamentale si dispiega, si curva, si inflette sino a irradiare la sua forza in ogni singolo aspetto, in ogni piega della realtà; ma vale anche l’inverso, e cioè che ogni particolare esprime, richiama e rispecchia la ragione del tutto. La grande ambizione del pensiero di Leibniz è quella di cogliere, come in trasparenza attraverso tutte le cose,

la razionalità che governa l’Universo e di cui la ragione umana costituisce il più nitido specchio. È questa ragione che tiene insieme tutto, Dio e l’uomo, ciò che è possibile logicamente e ciò che esiste effettivamente, l’infinito e il contingente. E questo si riflette anche nella stupefacente poliedricità della sua riflessione, che va dalla logica alla metafisica, dalla teologia all’epistemologia, dall’etica al diritto, dalla storiografia alla politica. Fortemente ancorato alla tradizione aristotelica e attento conoscitore della scienza moderna, Leibniz parte dalla scoperta che «la sorgente della meccanica è nella metafisica». I meccanicisti si fermavano alla considerazione della realtà come qualcosa di inerte e di geometrico, concependola come una grande macchina, intelligibile a partire dalle sole leggi dell’estensione e del movimento e, quindi, escludendo ogni finalità. Leibniz arriva a individuare nella stessa realtà fisica un principio spirituale, una “vita” che anima dall’interno la materia universale. Così, attraverso la metafisica cambia profondamente la stessa immagine fisica del mondo: non più corpi che occupano una certa estensione nello spazio e che si muovono cambiando di posizione a seguito di urti

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parte II L’orizzonte cartesiano e i nuovi sistemi della metafisica razionalistica

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esterni, ma sostanze dinamiche o “forze” elementari, grazie alle quali la materia del mondo si manifesta come pura energia. Grazie a questa energia – fisica e metafisica insieme – che sta al fondo di ogni sostanza, e a cui Leibniz darà il nome di “monade”, ogni singolo individuo è capace di rispecchiare l’ordine divino dell’Universo, un ordine che abbraccia tutto, anche ciò che sembra dissonante o malvagio, in una imperscrutabile armonia. Il fatto che tutto si tenga nella filosofia di Leibniz è anche il motivo per cui ogni singolo aspetto o problema del suo pensiero può essere compreso adeguatamente solo in quanto rimanda a tutti gli altri e si intreccia con loro. Dall’interno di ciascuno di essi infatti si dipana un unico filo conduttore, vale a dire la capacità delle sostanze individuali – da Dio, ente supremo, alla più infima creatura – di portare in sé il mondo intero, esprimendolo ciascuno alla sua maniera. Queste molteplici espressioni sono tenute insieme dal pensiero logico. È infatti proprio la logica – da intendersi, insieme, come il procedimento argomentativo della mente umana e il decreto con cui l’intelligenza divina governa il mondo – il framework, ossia l’intelaiatura che sostiene e muove l’intero sistema di Leibniz. 1. La logica per Leibniz è: a. la legge attraverso cui Dio governa l’intera realtà. b. la scienza che si occupa dei presupposti razionali del pensiero. c. il modo attraverso cui la mente umana conosce la realtà. d. la scienza che indaga l’esattezza formale degli enunciati.

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2 Una vita per la scienza Uomo di incontestabile genialità, Leibniz contempera gli interessi e le abilità più disparate. Logico e metafisico, matematico e fisico, giurista e politico, la sua poliedrica attività è tuttavia sempre al servizio di una profonda unità di intenti e di ragioni: in un’epoca fortemente segnata da aspri contrasti, a livello scientifico, filosofico, religioso e politico, la sua posizione ridà potentemente voce all’esigenza di un universalismo filosofico.

Nato a Lipsia il 1° luglio 1646, Leibniz impara precocemente il latino da autodidatta e attinge alla biblioteca paterna leggendo voracemente, oltre ai classici latini, la letteratura patristica. Compie i suoi primi studi a Lipsia, Jena e Altdorf, seguendo un curriculum di discipline filosofiche e giuridiche: la conoscenza del vero si accompagnerà sempre per lui all’azione pragmatica e all’influsso concreto sulla vita degli uomini e della società. In particolare, studia a fondo la logica aristotelica e concepisce l’idea di un «alfabeto dei pensieri umani» – quello che più tardi costituirà il progetto di una characteristica universalis, ovvero una sintassi universale costruita su basi algebriche. Legge inoltre gli autori della tarda Scolastica, quali Fonseca e Suárez [ 6]. N el 1663 si laurea in Filosofia presso l’Università di Lipsia, discutendo una Disputazione metafisica sul principio di individuazione. Contemporaneamente si cimenta con la teoria della conoscenza dei nominalisti e con la teoria corpuscolare in fisica. Dopo aver studiato matematica a Jena, nel 1666 si laurea in giurisprudenza ad Altdorf con una Disputazione sui casi incerti nel diritto. N ello stesso anno, con la Dissertazione sull’arte combinatoria, lancerà pubblicamente la sfida di tradurre algebricamente tutte le possibili verità logiche, riducendo la veridicità delle proposizioni alla combinazione di termini “primitivi” o concetti semplici. Dopo aver conseguito il dottorato in Diritto oltre che in Filosofia, nel 1667, si trasferisce a N orimberga, dove entra nella Società dei Rosacroce (di cui diverrà segretario) e, grazie al barone von Boineburg, è introdotto alla corte del Grande elettore di Magonza, l’arcivescovo Filippo von Schönborn. A questo periodo risalgono (spesso sotto pseudonimi) dei pamphlets di argomento giuridico e politico, nei quali difende gli interessi dei regnanti. Divenuto egli stesso giudice dell’Alta Corte d’Appello, promuove una riforma del diritto secondo princìpi razionali, allo scopo di stabilire un codice giuridico universale per tutte le nazioni cristiane, richiamandosi al diritto naturale di Grozio e di Pufendorf [ 11]. Nel 1671 pubblica anonimamente – dedicandola alla Royal Society e all’Accademia delle Scienze di Parigi – l’Ipotesi fisica nuova, nella quale discute i problemi relativi al moto e all’urto dei corpi. N el frattempo, ricopre numerosi

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Gottfried Wilhelm Leibniz capitolo 10

incarichi presso la corte di Magonza, svolgendo missioni diplomatiche a Parigi e a Londra. Qui, nel 1673, davanti alla Royal Society esibisce il primo modello funzionante di macchina calcolatrice, immaginata da lui come uno strumento privilegiato per risolvere definitivamente ogni tipo di controversia filosofica e teologica, tramite la riduzione dei ragionamenti utilizzati ad un calcolo di natura aritmetica [ Gli scritti leibniziani di logica, pp. 200-201]. N el suo soggiorno parigino tra il 1672 e il 1673, Leibniz aveva avuto l’occasione di interloquire con Arnauld [ 11.2.1], Malebranche [ 11.9], Huygens [ 13.1] e Tschirnhaus, ma anche di leggere le opere di Galileo [ 5], Descartes [ 8], Boyle [ 13.1] e Pascal [ 11]. Aveva inoltre affinato le sue conoscenze matematiche e soprattutto aveva iniziato a elaborare la sua teoria del calcolo differenziale e integrale, come risulta dal suo epistolario con Newton [ 13], il quale da parte sua aveva già scoperto il calcolo infinitesimale, ma con una procedura diversa da quella impiegata da Leibniz e senza che quest’ultimo ne fosse a conoscenza. L’esposizione del calcolo infinitesimale fu pubblicata da Leibniz in un articolo del 1684 sugli Acta eruditorum. Frattanto, nel 1676, dopo la scomparsa di Schönborn, Leibniz è costretto a congedarsi da Magonza e ad accettare un incarico di bibliotecario dal duca Johann Friedrich di Hannover. Da questo momento, nella sua attività si intrecciano in maniera ancor più fitta interessi scientifici, storiografici, diplomatici e politico-religiosi: sostiene il diritto di sovranità del suo

Leibniz, Macchina per la moltiplicazione, 1683 [Deutsches Museum, Monaco di Baviera] Con questo strumento per il calcolo Leibniz perfeziona la calcolatrice già costruita da Pascal qualche decennio prima: introducendo un cilindro a gradini rese possibile la moltiplicazione diretta.

principe, caldeggia la riunificazione delle chiese cristiane (a questo scopo scrive un opuscolo intitolato Dimostrazioni cattoliche), progetta la fondazione di accademie scientifiche, oltre a dedicarsi a problemi di chimica, di ingegneria mineraria e di statistica. Come consigliere segreto di giustizia prosegue poi la sua attività di storico e diplomatico per la corte di Hannover, cosa che non gli impedisce di avere rapporti anche con il trono inglese, con l’elettorato del Brandeburgo e con la corte viennese. In questi anni si impegna in una serrata critica della filosofia cartesiana (che culminerà con la pubblicazione nel 1686 di una Breve dimostrazione dell’errore memorabile di Cartesio) e nell’attenta lettura delle opere di Spinoza (che incontrerà di persona a L’Aja). Sempre nel 1686 offrirà una prima esposizione sistematica del suo pensiero nel Discorso di metafisica. Pur nella frenetica e multiforme attività, Leibniz non mostra mai di esser mosso da mera ambizione personale, quanto piuttosto dall’urgenza di diffondere la ricerca scientifica. Già durante l’attività a Magonza egli, promuovendo la fondazione di un’accademia tedesca delle scienze sul modello di quelle francese e inglese, aveva perseguito il progetto di una scientia generalis che avesse come strumento metodico una logica universale; successivamente, fra il 1687 e il 1690, progetta a Vienna l’istituzione di un Collegium Historicum e di una Società delle Scienze; inoltre, nel 1700 si impegna per la fondazione a Berlino dell’Accademia Prussiana delle Scienze, di cui è nominato primo presidente a vita; negli anni successivi progetta anche altre accademie, per esempio a Dresda (1703) e a Pietroburgo (1711). In dialogo con Locke [ 14] compone nel 1704 i N uovi saggi sull’intelletto umano, che saranno pubblicati postumi nel 1765. Tra le opere più significative della maturità troviamo infine i corposi Saggi di teodicea (1710) e i più brevi Princìpi della natura e della grazia (1713) e la Monadologia (1714). N el 1715 comincia inoltre l’importante disputa con il newtoniano Samuel Clarke, in particolare sulla natura dello spazio e del tempo. Intanto, già dal 1705, anno della scomparsa della sua protettrice a Berlino, la principessa Sophie Charlotte, alcuni rapporti decisivi avevano cominciato a incrinarsi per Leibniz. Il colpo di grazia gli fu dato probabilmente dal-

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l’accusa di plagio giuntagli dalla Royal Society a proposito della questione se fosse lui o Newton l’inventore del calcolo infinitesimale (ma il giudizio accusatorio era stato scritto dallo stesso N ewton, e i documenti da cui risulta che Leibniz aveva compiuto una scoperta autonoma rispetto all’inglese saranno resi noti solo nel XIX secolo). Colui che era vissuto da protagonista negli ambienti intellettuali più prestigiosi dell’Europa e della Russia si spegne a Hannover nel 1716, ricevendo modestissime esequie, nell’indifferenza della città e della corte.

3 La sostanza come forza 3.1 L’individualità della sostanza In una lettera del 1669 a Jakob Thomasius, suo maestro all’Università di Lipsia, Leibniz scrive di aver trovato più verità nella Fisica di Aristotele che nelle Meditazioni di Descartes: un’affermazione, questa, che apre uno squarcio su quella disputa fra scolastici e moderni che caratterizzava il contesto filosofico e accademico a lui contemporaneo. In effetti Leibniz aveva ricevuto una formazione scolastica, che non tradirà mai, ma che sottoporrà strenuamente alla verifica delle istanze scientifiche moderne, in special modo del cartesianesimo: anzi, è proprio lo studio di Descartes che gli farà maturare l’esigenza di approfondire la radice metafisica della fisica attraverso un ripensamento di quella che gli scolastici chiamavano forma sostanziale. Aristotele aveva sostenuto che le sostanze sono sempre enti individuali, i quali constano dell’unione di una materia e di una forma, e aveva considerato la forma come il principio fondamentale in base a cui una sostanza è quello che è. A differenza di quanto riteneva Platone, la forma non è mai qualcosa di separato rispetto alla materia, ma è la natura o l’essenza immanente alle cose sensibili. Allo stesso tempo, tuttavia, due sostanze si distinguono tra loro non per la forma, bensì per la materia: per esempio Callia e Socrate hanno in comune la stessa forma – sono entrambi uomini – e sono diversi per i loro aspetti materiali. In altri termini, la forma è

universale e indivisibile, e per questo noi diciamo che sotto un’unica specie (per esempio quella di “animale”) sono compresi più individui particolari; tuttavia, nel nostro mondo, che è sempre un mondo sensibile, la forma non esiste mai in sé al di fuori dalla materia, ma è sempre unita di volta in volta con essa (tranne, appunto, il caso delle intelligenze celesti). Che relazione vi è dunque tra la forma sostanziale di una cosa – grazie alla quale noi possiamo conoscere quella cosa in quanto appartenente a un certo genere o a una certa specie – e la sua individualità, cioè il principio che la rende unica o differente da tutte le altre? È da tale questione che prende le mosse e si sviluppa l’intero pensiero di Leibniz: egli cercherà infatti di pensare in maniera nuova e più radicale rispetto alla stessa tradizione aristotelica e scolastica, il rapporto indissolubile tra la forma e la materia della sostanza, vale a dire tra ciò che è universale e ciò che è individuale, e darà a questa unità il nome proprio di “monade”. Non è un caso dunque che il primissimo scritto di Leibniz sia proprio una Disputazione metafisica sul principio di individuazione, con la tesi fondamentale del carattere individuale della sostanza. In passato si erano affermate due soluzioni del problema. La prima era quella di Tommaso d’Aquino, il quale sosteneva che il principio di individuazione delle realtà corporee consiste nella quantità di materia da cui esse sono contrassegnate di volta in volta nella loro esistenza effettiva, mentre per le realtà puramente spirituali (come gli angeli) non vi è differenza alcuna tra specie e individuo. L’altra celebre soluzione del problema era invece quella di Duns Scoto, il quale riteneva che il principio di individuazione fosse il medesimo per ogni tipo di realtà, sia materiale che spirituale, e che esso non risiedesse né nella materia né nella forma, ma nell’haecceitas (‘ecceità’), cioè nel fatto che la materia e la forma sono sempre questa (haec) materia e questa (haec) forma. Nella sua soluzione dell’intricata controversia, Leibniz parte dalla critica di Scoto a Tommaso, affermando – in linea con un altro famoso scolastico rinascimentale, Francisco Suárez – che il principio di individuazione di una cosa coincide con la sua “entità intera”, vale a dire con l’unità inscindibile che in ogni cosa di volta in volta si realizza tra la materia e la forma. N ella materia di una cosa, e quindi nei suoi elementi

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particolari o contingenti, sottoposti al nascere e perire, è contenuta, o meglio è incarnata perfettamente la sua forma, che non va più pensata come comune ad altre cose della stessa specie, ma assolutamente unica e individuale (come sarà ogni singola monade). Per tornare all’esempio precedente, Callia e Socrate non saranno più diversi per le loro rispettive determinazioni materiali (avendo invece in comune la forma dell’“essere uomo”), ma saranno assolutamente diversi, cioè unici e irripetibili nella loro individualità, in virtù della loro stessa forma di “uomo”. L’universale non è più inteso da Leibniz come l’opposto dell’individuale, ma come la sua immanente realtà.

3.2 Il concetto di forza e i fenomeni del mondo fisico

ne” che sussiste tra le sue parti, né la resistenza che esso oppone al movimento, cioè la sua “inerzia”. L’ipotesi che si affaccia è che invece ogni fenomeno fisico dipende ultimamente da un principio vitale – il “movimento” non solo esterno, ma interno ad ogni corpo – e che dunque lo stesso meccanicismo non può che fondarsi su di una metafisica della natura. Così, nella Breve dimostrazione di un errore memorabile di Cartesio (1686) Leibniz rigetterà la teoria avanzata da quest’ultimo sulla conservazione costante del movimento nella natura, perché nella fisica cartesiana ciò che si conserva sarebbe solo la quantità di moto di un corpo, e il suo cambiamento di posizione nello spazio. Per Leibniz invece per spiegare un effetto come il moto costante di un corpo si deve risalire ad una causa adeguata, cioè ad un’azione immanente al corpo stesso: e questa può essere solo la forza viva ossia l’energia cinetica. È solo da questa forza – o conatus, come viene anche chiamata da Leibniz – producentesi all’interno della stessa materia, che si genera il movimento dei corpi [ La quantità di moto, tra Descartes e Leibniz].

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Partendo da questa concezione della sostanza individuale, Leibniz giunge a concepire la materia dei corpi fisici non più come un sistema statico e geometrico – come aveva fatto Descartes identificando corporeità ed estensione – ma come una forza dinamica immanente a tutto ciò che esiste. In altri termini, l’estensione di un corpo La quantità di moto, nello spazio non coincide più con la stessa tra Descartes e Leibniz “sostanza” di quel corpo (la res extensa cartesiana), ma rappresenta piuttosto un suo Sia in Galileo che in Descartes la meccanica, vale a dire la “fenomeno”, vale a dire il modo in cui scienza che studia le leggi del moto, viene concepita come lo esso si presenta alle nostre percezioni. studio delle proprietà dei corpi in movimento, spiegate esclusivaDunque, non solo le sue qualità mente in base agli urti meccanici tra i corpi. Non esistono dunque in secondarie (l’odore, il colore, il senso proprio delle forze esterne che agiscano sui corpi, ma solo le aziosapore, ecc.), ma anche le sue qua- ni reciproche fra i corpi. Di conseguenza il movimento è spiegato non in lità primarie e misurabili (il peso, termini di forza (che secondo questi autori era un concetto ancora legato l’impenetrabilità, la velocità, ecc.) alla fisica qualitativa e alla magia), ma in termini di mera quantità di moto che sono strettamente legate al modo si trasmette da un corpo all’altro. Tale quantità rimane costante in tutto l’Universo e si ridistribuisce di volta in volta tra i singoli corpi a seguito dei loro con cui noi lo percepiamo. Non per questo però tali quali- rispetti urti. Essa può essere misurata come il prodotto della massa di un tà vanno ridotte a conoscenze corpo per la sua velocità (mv). Leibniz invece torna a parlare di forza, non puramente soggettive: si tratta intendendola però in senso meccanico, ma vivente: il corpo è nella sua infatti di “fenomeni ben fondati” essenza movimento. La forza posseduta da un corpo in movimento non coincide dunque con la sua quantità di moto, bensì con l’energia cinetinella natura. Di conseguenza chi ca, ovvero con la forza viva insita nel corpo stesso. Per questo Leibniz considera l’estensione di un corpo propone di cambiare la formula cartesiana in mv2/2. Newton introdeve necessariamente presupporre la durrà nella spiegazione dei fenomeni meccanici un concetto di nascosta sostanza che si manifesta forza radicalmente diverso: non più come proprietà dei attraverso di essa, come pure chi studia il corpi, bensì come un’entità esterna ad essi e agente a moto deve sempre presupporre l’azione da distanza (come nella gravitazione), che si aggiungerà ai concetti cartesiani di cui quel moto ha origine. E difatti, qualora la materia e movimento. sostanza di un corpo sia identificata con la mera estensione, non si potrà spiegare né la “coesio-

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Proprio in virtù di questo concetto di sostanza intesa come forza ed energia, si comprende perché l’estensione è per Leibniz solo una qualità fenomenica, come l’arcobaleno, che è la forma a noi visibile di un aggregato di goccioline d’acqua che riflettono la luce bianca componendola. Di qui deriva anche il convincimento che lo spazio e il tempo non siano enti assoluti, come li pensava N ewton, ma costituiscano nella loro essenza solo due ordini di relazioni: lo spazio è «l’ordine delle coesistenze», mentre il tempo è «l’ordine delle successioni» tra le sostanze individuali. Non sarebbe dunque corretto affermare che tali sostanze esistono in uno spazio inteso come un contenitore di per sé vuoto, all’interno del quale si collocherebbero le cose, e in un tempo inteso come una serie consecutiva di eventi già avviata prima che vi subentri una singola cosa. Al contrario, è perché ci sono le sostanze individuali, e dunque forza ed energia nell’Universo, che può esservi del tempo e dello spazio. La confutazione dei concetti fissi di spazio e tempo pensati da N ewton accompagnerà l’intera riflessione di Leibniz (ne è testimonianza l’importante epistolario con un allievo di Newton, Samuel Clarke). 1. Spazio e tempo per Leibniz sono: a. fenomeni ben fondati della realtà fisica. b. entità assolute esprimenti l’ordine delle coesistenze e l’ordine delle successioni. c. due ordini di relazioni tra le sostanze individuali. d. due ordini di relazioni che fondano le sostanze individuali.

V F V F V F V F

2. Il fenomeno per Leibniz coincide con: a. la materia dei corpi fisici. b. la sostanza individuale dei corpi fisici. c. la forza viva o conatus. d. le qualità primarie e misurabili dei corpi fisici.

4 Logica e metafisica: l’universo delle monadi 4.1 Il fondamento logico della metafisica A partire dalla nozione di sostanza come un ente individuale dotato di una propria forza immanente si svilupperà tutta la concezione metafisica del mondo propria di Leibniz e,

insieme ad essa, la sua teoria della conoscenza. E se la fisica, come si è visto, richiedeva la metafisica, la metafisica andrà esposta a partire dalla struttura logica del nostro pensiero. A questo riguardo bisogna sottolineare il fatto che per Leibniz la logica costituisce già di per sé un mondo compiuto, o meglio un universo ordinato in base alle leggi interne del pensiero: in tal senso essa rappresenta una sorta di matrice fondamentale di ogni nostro ragionamento e una struttura permanente che ritroviamo costante in tutta la varietà dei discorsi. Dove però la logica dà prova più significativa di sé è nel suo nesso strettissimo con l’ontologia.

Gli scritti leibniziani di logica Con la pubblicazione del volume Opuscoli e frammenti inediti di Leibniz, curato dal logico francese Louis Couturat nel 1903, è emersa una nuova immagine della logica leibniziana, per lungo tempo intesa esclusivamente come propedeutica della conoscenza metafisica. In questi manoscritti – alcuni dei quali risalenti già al periodo giovanile – la logica si presenta agli occhi di Leibniz come lo strumento principale per l’analisi dei nostri pensieri, per la verifica del loro rigore e quindi per la soluzione di ogni tipo di disputa filosofica. Più che come uno strumento propedeutico alla metafisica, dunque, essa ne costituiva uno discriminatorio (in quanto fornisce un criterio per discriminare tra ragionamenti corretti e ragionamenti fallaci). L’idea principale che sta alla base della riflessione logica leibniziana è la seguente: tutto il sapere umano è riportabile ad alcune verità fondamentali, dette “verità prime”, da cui esso si genera seguendo i metodi deduttivi dell’analisi. Di ogni conoscenza sarà così possibile esibire – seguendo il modello della geometria – una gerarchia di pensieri o di ragionamenti, che procede da quelli più semplici ed elementari fino a quelli più complessi e derivati. Leibniz, tuttavia, è ben conscio degli equivoci che comunemente si generano nei nostri discorsi e per questo decide di aggiungere a questo modo naturale di procedere un accorgimento fittizio in grado di eliminare ogni possibile errore: un linguaggio simbolico artificiale, la characteristica universalis, fatto di segni grafici (o “caratteri”), in grado di catturare e controllare la struttura formale del

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Per Leibniz infatti la sostanza metafisica e il soggetto logico sono due aspetti strettamente correlati di una medesima realtà, e in tal modo le leggi fondamentali del pensiero vengono a coincidere con la struttura ontologica del mondo. Dunque: cos’è in senso logico una sostanza individuale? Un unico soggetto a cui vengono attribuiti molti predicati, e che a sua volta non è predicato di nient’altro. E in che modo si possono attribuire dei predicati ad un soggetto? Ossia, in che modo possiamo giudicare la verità delle cose? Due sono per Leibniz i princìpi che reggono ogni umano ragionamento e che, al tempo stes-

nostro sapere, vale a dire la “sintassi” dei pensieri e dei ragionamenti, a prescindere dal loro contenuto specifico, cioè dalla loro struttura “semantica” (vale a dire ciò che significano) [ T12]. Questo linguaggio artificiale è pensato sul modello dell’aritmetica e lo stesso pensiero viene visto come una sorta di calcolo del tutto simile a quello che in genere svolgiamo con le operazioni aritmetiche fondamentali: ad ogni pensiero si fa corrispondere un carattere e ad ogni carattere si fa corrispondere un numero. In tal modo, ogni ragionamento, almeno idealmente, potrà essere riportato al controllo di una procedura di calcolo e ogni controversia potrà dileguarsi grazie a questo meccanismo di controllo. Per facilitare tale funzione della logica, Leibniz arrivò a concepire la costruzione di una macchina calcolatrice, che evidentemente egli intendeva come una vera e propria macchina pensante. Nel Novecento la riflessione logica leibniziana è stata vista sia come un’anticipazione del tentativo di Gottlob Frege (uno dei più importanti logici e matematici del secolo XX) di individuare un linguaggio simbolico universale, in grado di eliminare attraverso i metodi dell’analisi logica gli equivoci del linguaggio naturale, sia come il primo vero progetto di intelligenza artificiale, fondato sul procedimento di meccanizzazione del pensiero e sulla sua simulazione mediante un meccanismo calcolatore (per esempio mediante la cosiddetta “macchina di Turino”, dal nome del matematico contemporaneo Alan Turing).

so, esprimono la natura delle sostanze e i rapporti reali fra di esse [ T30]. Il primo è il principio di contraddizione, quello per cui «giudichiamo falso ciò che implica contraddizione e vero ciò che è opposto o contraddittorio al falso» (“A non è non-A”) [Monadologia, § 31]. Esso, a sua volta, si basa sul principio di identità, con il quale si verifica la coincidenza piena di soggetto e predicato (“A è A”). E così una proposizione di inerenza o di inclusione, quella cioè in cui il predicato è contenuto senza contraddizione nel concetto del soggetto (come “il triangolo ha tre angoli”), tende a risolversi in una proposizione reciproca, nella quale i due termini sono assolutamente identici (“il triangolo è triangolo”). Ma se la proprietà o l’attributo di una cosa è già incluso nel concetto di quella cosa, allora il criterio fondamentale della verità sarà per Leibniz un criterio analitico, perché solo mediante un’analisi del concetto del soggetto si potranno ricavare i predicati che gli appartengono [ Il procedimento analitico da Descartes a Leibniz, p. 202]. Il problema nasce quando si applichi tale criterio non solo ai concetti della geometria o a quelli della fisica, ma anche ai concetti degli individui razionali dotati di libertà, cioè agli uomini e alle loro azioni. Cosa vuol dire per il soggetto umano che in esso sono già inclusi i suoi predicati? Questo può avvenire, secondo Leibniz, o in maniera esplicita, cioè espressamente, o in maniera implicita, cioè virtualmente: per esempio, nel primo modo diciamo che ad Alessandro Magno è attribuita la qualità di “re”, nel secondo modo diciamo che ad esso è attribuito, tra le altre cose, il fatto di essere il vincitore nella battaglia contro Dario. In questa prospettiva si capisce perché Leibniz ritenga che non basti il principio di contraddizione per poter spiegare la necessità logica, cioè la razionalità di tutto ciò che esiste o può esistere, ed elabori perciò un secondo principio da affiancare al primo, chiamandolo principio di ragion sufficiente:



Sinora non abbiamo parlato che da semplici fisici; ora bisogna innalzarsi alla metafisica, servendoci del grande principio, solitamente poco applicato, che comporta che nulla si fa senza una ragione sufficiente, cioè non accade nulla senza che sia possibile, a chi conosca sufficientemente le cose, indicare una ragione che basti per determinare perché è stato così e non altrimenti. Posto tale principio, il primo interrogativo che si ha il

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diritto di sollevare è: perché vi è qualcosa piuttosto che nulla? Giacché il nulla è più semplice e più facile rispetto al qualcosa. Anzi, supposto che Il procedimento analitico debbano esistere delle cose, bisogna che si da Descartes a Leibniz possa indicare la ragione perché devono esistere così e non altrimenti. L’analisi costituisce uno dei procedimenti fondamentali e [Princìpi della natura e della grazia, maggiormente utilizzati nel pensiero di Leibniz. Già in fondati nella ragione, § 7]



Descartes (regola II del metodo) l’analisi svolgeva un ruolo essenziale per risolvere in maniera chiara e distinta dei problemi complesIl principio di ragion sufficiente risul- si. In questi ultimi infatti, a differenza dei problemi semplici, l’evidenta così il principio logico che fornisce za dei concetti non è immediata e pertanto essi vanno “risolti” nelle sinla ragione metafisica di eventi con- gole parti semplici che li compongono, fino a che tutte non siano colte tingenti, cioè di ciò che avviene nella con il massimo di evidenza. In tal modo ciascuno può intendere una cosa storia del mondo, e che il più delle come se l’avesse scoperta lui stesso. volte a noi uomini risulta ignota. In maniera analoga, in Leibniz l’analisi è il procedimento per cui «data una Una considerazione propriamente qualche conclusione o posto un problema, ricerchiamo i princìpi mediante i quali mostrare la conclusione o risolvere il problema» [Lettera a metafisica della realtà non si limita a Conring, 19 marzo 1678]. L’analisi però non vale solo per la risoluziospiegare le cose considerandole di ne di problemi complessi, ma anche per la perfetta comprensione volta in volta come effetti o come cause dei concetti, delle definizioni e degli enunciati. Ogni concetto di altre cose, ma vuole arrivare al motivo complesso, ossia tutte le notiones compositae dell’intera esauriente – ossia al perché ultimo – esse realtà vengono ridotte a poche notiones simplices; e a esistano invece di non esistere: «e questa loro volta tutti i concetti semplici sono quelli in cui ragione ultima delle cose è chiamata Dio». tramite l’analisi si scopre che i predicati, o Tale ragione, dunque, non indica soltanto attributi, sono già contenuti nel l’essenza di una sostanza, cioè il fatto che a soggetto.

quest’ultima ineriscano senza contraddizione determinati attributi, bensì ne indica l’esistenza, cioè il fatto che quella sostanza, assieme a tutti i suoi attributi, accada o non accada di fatto. Per esempio, il principio di ragion sufficiente non serve tanto per pensare che Pietro o Paolo, in quanto uomini, sono animali dotati di ragione (che è appunto la loro essenza), quanto piuttosto il perché essi esistano di fatto, quando potevano anche non esistere. E difatti, «nulla accade senza che vi sia una causa, o almeno una ragione determinante, ossia qualcosa che possa servire a rendere ragione a priori del perché questo esista anziché non esistere e del perché esista così anziché in un altro modo» [Saggi di teodicea, I, § 44]. A questi due princìpi logici se ne deve aggiungere, quale loro coerente conseguenza, ancora un altro, noto come il principio dell’identità degli indiscernibili. Ogni sostanza ha un’identità propria assolutamente unica e irripetibile, di modo che in natura non esistono e non esisteranno mai due enti perfettamente sovrapponibili – cioè che differiscano tra loro solo numericamente – così come in un giardino non si troveranno mai due foglie o due fili d’erba assolutamente identici.

1. Perché la metafisica deve essere esposta a partire dalla struttura logica del pensiero? a. Perché la fisica implica la metafisica. b. Perché le leggi della realtà non sono altro che le leggi proprie della metafisica. c. Perché le leggi del pensiero coincidono con le leggi della realtà. d. Perché la logica è una scienza propedeutica alla metafisica. 2. Che cosa spiegano propriamente i princìpi di contraddizione e di ragion sufficiente? a. i concetti geometrici. b. i concetti fisici. c. i concetti analitici. d. la necessità logica. 3. Il principio dell’identità degli indiscernibili di Leibniz: a. sostiene che se vi fossero due sostanze indistinguibili, esse sarebbero un’unica e identica sostanza. V F b. sostiene che ogni monade è identica alle altre, tanto che nessuna può distinguersi dalle restanti. V F c. è un principio che giustifica l’individualità di ciascuna sostanza e la varietà infinita del creato. V F d. è un principio metafisico secondo cui in natura non vi sono due cose assolutamente uguali fra loro. V F

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4.2 Verità di ragione e verità di fatto Come sono due i princìpi fondamentali in base a cui noi ragioniamo (contraddizione e ragion sufficiente), così saranno due le specie possibili di verità, quelle di ragione e quelle di fatto [ T30]: «Le verità di ragionamento sono necessarie e il loro opposto è impossibile, le verità di fatto sono contingenti e il loro opposto è possibile». Il criterio del primo tipo di verità risulta chiaro: «quando una verità è necessaria, se ne può trovare la ragione mediante l’analisi, risolvendola in idee e verità più semplici, fino a pervenire a quelle primitive» [Monadologia, § 33], come quando in matematica si riducono i teoremi alle definizioni, agli assiomi e ai postulati, che sono appunto “princìpi primitivi” indimostrabili, cioè non bisognosi di prova. Evidentemente tale criterio non può valere anche per le verità di fatto, ossia quelle non necessarie, bensì contingenti. Leibniz tuttavia non si accontenta di distinguere i due tipi di verità, ma cerca di mostrare come – almeno tendenzialmente – le verità di fatto possano essere riportate alle verità di ragione. Per far questo deve mostrare che nel concetto di un soggetto, vale a dire nella stessa essenza di una cosa, sono inclusi non solo i suoi attributi necessari (il cui contrario sarebbe impossibile), ma anche tutti i suoi infiniti attributi contingenti (il cui contrario sarebbe sempre possibile). L’esempio che fa Leibniz è il celebre enunciato: “Cesare ha attraversato il Rubicone”. Si tratta di una proposizione che attesta un evento storico preciso, che avrebbe potuto anche non accadere (l’attraversamento del Rubicone), ma che al tempo stesso inerisce analiticamente al soggetto di cui si predica (Cesare), cioè ne realizza l’essenza individuale. Un esempio analogo è: “Adamo ha peccato”. Per tali eventi noi possiamo certamente indicare delle cause determinate, e tuttavia essi non sono esaurientemente spiegabili con il solo principio di causalità. Di qui nasce la domanda: c’è dunque una ragione che sia, appunto, sufficiente perché tali eventi ineriscano al loro soggetto? Leibniz tenta due risposte. La prima è che la verità di fatto di una realtà stia nel decreto, cioè nella libera decisione con cui Dio ha fatto sì che essa accadesse. Tale decreto non va inteso però in senso volontari-

stico e arbitrario da parte del Creatore, perché in tal caso qualcosa sarebbe necessaria per il solo fatto che Dio l’ha voluta così; al contrario Dio ha voluto che la cosa fosse così perché questa è la migliore delle possibilità. L’ipotesi metafisica fondamentale di Leibniz è che, tra le diverse possibilità, Dio faccia accadere sempre la più perfetta, e che anche l’uomo da parte sua scelga sempre liberamente ciò che gli appare come il meglio. In tal modo anche ciò che è contingente arriva a possedere una sua misura di necessità: non una necessità assoluta ma, appunto, una necessità ipotetica e quasi accidentale. La regola con cui Dio sceglie tra le cose che potranno accadere – cioè i “futuri contingenti” – è sempre la regola dell’ottimo. Questo però non significa che ciò che non accade realmente cessi di essere possibile, cioè «non impedisce che quanto è meno perfetto sia e rimanga in sé stesso possibile, anche se non avverrà» [Discorso di metafisica, § 13]: infatti, il motivo per cui gli mancherà l’esistenza «non è la sua impossibilità, ma la sua imperfezione». Adamo avrebbe potuto non peccare, così come Cesare avrebbe potuto non varcare il Rubicone: ma ciò sarebbe stato possibile solo in un altro mondo, ovvero è incompossibile con il mondo esistente. Per esistere, infatti, non basta che qualcosa sia possibile in sé, ma occorre soprattutto che essa sia compossibile con l’insieme del mondo reale, secondo l’ordine di congiunzione più perfetto tra tutti i fenomeni, passati, presenti e futuri. Così nella mente di Dio sarà possibile un Adamo che non pecchi o un Cesare che non varchi il Rubicone, anzi, saranno possibili infiniti altri Adami e infiniti altri Cesari, all’interno di infiniti altri mondi possibili, ma nessuno potrà essere migliore di quello che per decreto divino, e insieme per libertà umana, si è realizzato. Anche la libertà dell’azione umana, infatti, dev’essere sempre pensata in relazione ai criteri di scelta divini, cioè seguire l’ordine di un’armonia tra gli eventi che sia prestabilita come la più perfetta. La ragione sufficiente di ciò che accade di fatto non potrà essere determinata se non in riferimento a tutte le possibilità che il soggetto in questione potrebbe realizzare; e siccome tali possibilità sono logicamente infinite, l’analisi degli attributi inclusi o inerenti al soggetto non potrà giungere mai alla fine: «tutto ciò che è in

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questa serie può essere visto a fondo soltanto da Dio», perché «solo Dio conosce a Il calcolo infinitesimale priori le verità contingenti e vede la loro infallibilità altrimenti che Il calcolo infinitesimale è lo studio degli elementi infinitamediante l’esperienza» [Sulla mente piccoli – o infinitesimi – di cui possiamo pensare siano libertà, la contingenza e la composte delle grandezze numeriche o geometriche. Nella sua verserie delle cause, sulla provsione moderna tale calcolo nasce come soluzione a due ordini di problevidenza]. mi, già rinvenuti in autori quali Torricelli, Fermat, Barrow e Pascal. Il primo proQuest’ultima affermablema è: come si può calcolare, in un sistema di coordinate cartesiane (ascisse zione ci introduce alla e ordinate), l’area esatta di una figura che non sia delimitata solo da linee rette, ma anche da linee curve? Sarà necessario suddividere tale figura in un numero infinito di seconda risposta data altre figure più piccole e sommarne le aree. Si immagini per esempio un trapezio il cui da Leibniz al problelato obliquo sia parte di una curva: per calcolarne l’area si può dividere la sua superficie ma della verità di in un numero infinito di rettangoli sempre più piccoli, per potersi approssimare alla curva fatto, vale a dire e coprire così l’intera superficie. Di qui nasce l’idea del calcolo integrale, per misurare l’inl’analisi infinita (ditegrazione o inclusione di figure infinitesime in un’area. scussa solo negli Il secondo problema è: posta una retta tangente ad una curva in un punto dato, come se ne scritti di carattere può misurare il coefficiente angolare (cioè la sua pendenza rispetto all’asse orizzontale delle privato e nelle corri- ascisse)? Anche qui si può procedere per approssimazione. In geometria analitica, per poter spondenze). Tale so- calcolare il coefficiente angolare di una retta servono le coordinate di due punti di essa. luzione viene penImmaginiamo dunque che la retta non sia tangente, ma tagli la curva in due punti. Il coefsata in analogia con il ficiente angolare di questa seconda retta si può calcolare come rapporto tra le differenze delle ordinate dei due punti e le differenze delle loro ascisse (y2 – y1 / x1 – x2). calcolo infinitesimale. Supponiamo che questo rapporto muti progressivamente, sino a che la retta che Quest’ultimo infatti passa da due punti della curva si approssimi alla tangente, cioè arrivi a passasviluppa in termini mare per un punto solo: di qui nasce l’idea del calcolo differenziale, per misutematici un’idea squisirare la differenziazione infinitesima di due punti su una retta. tamente filosofica: l’infinito Leibniz scopre che il problema della tangente e il problema delpuò essere analizzato non l’area sono strettamente legati tra loro, e che i calcoli in tanto seguendo la semplice sucbase a cui risolverli – quello differenziale e quello cessione numerica delle grandezze, integrale – sono esattamente inversi tra loro. quanto piuttosto cogliendo le “funzioni”, cioè i rapporti tra grandezze che tendono, senza mai raggiungerlo, al punto zero. In tal modo il finito (o contingente) non è più pensato come un punto di arresto o di interruzione di una serie infinita, né l’infinito come 1. Le verità di ragione sono tali che: una negazione del finito. Il contingente resta a. il loro opposto è possibile. irrimediabilmente finito (verità di fatto), ma è b. il loro possibile è l’opposto. pensabile come infinitesimo, vale a dire come il c. coincidono con il necessario. punto in cui il finito tende a trasformarsi in infid. coincidono con il contingente. nito, e il contingente in necessario (verità di 2. Le verità di fatto sono: ragione), senza che questo possa mai avvenire, a. quelle il cui opposto non è impossibile. V F se non in una prospettiva infinita. Il passaggio b. quelle il cui opposto è impossibile. V F reale tra le due grandezze resterà sempre indic. tendenzialmente riportabili mostrabile per l’uomo, e solo Dio potrà vederlo. alle verità di ragione. V F Ma tra i due estremi non c’è cesura o salto, d. quelle che realizzano nel contingente bensì un flusso continuo. l’essenza individuale di un ente. V F Questa prospettiva infinitesimale ipotizzata 3. Per Leibniz nel concetto di un soggetto sono inclusi: da Leibniz è stata vista come una delle più a. solo gli attributi necessari. V F significative espressioni logico-matematiche b. solo gli attributi il cui contrario è possibile. V F della sua visione “barocca” del mondo, a cui c. gli attributi il cui contrario è impossibile. V F egli darà il nome di “monadologia” [ Il calcod. anche gli attributi il cui contrario è possibile. V F lo infinitesimale].

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4.3 Le monadi Monade è il nome del concetto utilizzato da Leibniz per indicare la sostanza reale delle cose. In esso confluiscono e si intrecciano intimamente tutti i fili della sua speculazione: dalla logica all’ontologia, dalla fisica alla metafisica, dalla psicologia all’etica. Il termine di origine greca (monàs) significa ‘l’unità’ o ‘ciò che è uno’ e indica la sostanza individuale considerata come un soggetto che contiene in sé tutti i suoi predicati, passati, presenti e futuri. Riprendendo un termine aristotelico, Leibniz la chiama anche entelechia, per indicare appunto che essa ha il suo fine e il suo compimento in sé stessa (èn-tèlos-èchein). Le monadi costituiscono dei punti metafisici inestesi, i “veri atomi della natura” ossia i più semplici “elementi delle cose”, quelli che danno origine – per aggregazione – ai cosiddetti composti. Esse non possono avere un inizio naturale (che implicherebbe sempre una composizione), né possono perire naturalmente (cioè per decomposizione), in quanto sono state create tutte assieme e di colpo con l’Universo intero, e

potranno cessare di esistere solo per annichilimento. Per lo stesso motivo esse non sono soggette ad aumentare o a diminuire di numero, ma possono solo subire delle trasformazioni [ La monade]. N on avendo estensione, le monadi non hanno nemmeno parti – cioè non sono divisibili – né hanno una figura determinata, e si distinguono tra loro solo per le rispettive qualità interne. Pur essendo punti ultimi di unità, semplici e indivisibili, esse implicano in sé una pluralità di stati e una molteplicità di rapporti, e tali qualità costituiscono il principio del loro dinamismo, cioè del mutamento continuo che avviene all’interno di ciascuna di esse. In altri termini, esse sono insieme princìpi di unità e princìpi di attività. Per spiegare questa natura propria di ogni monade Leibniz fa l’analogia con l’anima umana, la quale pur essendo una implica in sé diverse idee e molteplici funzioni; e lo stesso avviene in ogni suo minimo pensiero, che implica sempre «una varietà del suo oggetto» [Monadologia, § 16]. L’attività delle monadi non dipende da cause meccaniche esterne, né esse possono comunicare tra loro dall’esterno:



Non si può neppure spiegare come una monade possa essere alterata, ovvero cambiata al La monade proprio interno da qualche altra creatura, perché non vi si potrebbe trasporre nulla, né si poIl termine “monade” appare per la prima volta nel trebbe concepire in essa alcun movimento inpensiero dei pitagorici (in particolare Archita di terno che possa essere eccitato, diretto, auTaranto), a indicare il principio da cui si originano tutti i mentato o diminuito, come si può fare nei numeri, i quali appunto derivano dalla limitazione dell’uno composti, nei quali si dà mutamento tra assoluto. Per il neoplatonico Proclo la monade costituisce, dopo le parti. Le monadi non hanno finestre, l’Uno, che è essere assoluto, un principio intelligibile di limitazione (nel senso che l’Uno può essere compreso solo in quanto delimitato dalle quali possa entrare o uscire qualcome monade). Sempre nel solco del platonismo, nella filosofia araba cosa. Gli accidenti non possono stac(in particolare in al-Kindi) si presenta un altro significato di monade carsi e passeggiare fuori dalle sostanze, come una realtà che è “specchio del tutto”; in questo senso il termine come facevano un tempo le specie sensi ritrova nel pensiero rinascimentale: Niccolò Cusano indica con esso sibili degli scolastici. Così, né sostanza il fatto che ogni creatura rispecchia a suo modo, come microcosmo, il né accidente possono entrare dal di fuomacrocosmo; Giordano Bruno parla delle monadi come gli elementi ri in una monade. “minimi” che compongono tutti i corpi e rappresentano l’essenza [Monadologia, § 7]



stessa delle cose; ed Henry More intende per “monadi fisiche” gli elementi spirituali e inestesi della natura. Questo non vuol dire assolutamente che Leibniz mette a tema il concetto di monade per la prima le monadi non abbiano rapporti con l’estervolta nello scritto giovanile Sulla resurrezione dei no o con altre sostanze, ma solo che tali rapcorpi (1671) in cui parla di nuclei vitali inestesi porti nascono, per così dire, dal loro stesso che permangono anche dopo la corruziointerno, in un regime di “autarchia” che le ne corporea.

rende uniche fonti delle loro azioni e quindi sufficienti a sé stesse.

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Solo dall’interno, dunque, può avvenire il cambiamento delle sostanze semplici: esso è dovuto alla facoltà, propria di ogni monade, di avere rappresentazioni – quindi per un principio di tipo spirituale. Il grado minimale di queste rappresentazioni è costituito dalle percezioni, che è il modo con cui ciascuna monade si rappresenta le cose esterne, o meglio il composto esterno cui appartiene, e dalle appetizioni, cioè dalle tendenze continue che spingono una percezione a passare in un’altra. A differenza della fisica cartesiana, quindi, nella quale le percezioni appartengono solo alle anime spirituali, cioè coscienti di sé, e dunque non sono presenti negli animali, intesi come pure macchine, per Leibniz esse caratterizzano tutte le monadi, anche quelle non dotate di coscienza. La percezione «è inesplicabile mediante ragioni meccaniche, cioè mediante figure e movimenti» [Monadologia, § 17]: essa è piuttosto energia immanente, forza viva che agisce anche quando non è distintamene avvertita. Così avviene in quelle che Leibniz chiama le piccole percezioni, ovvero quelle che continuamente fluiscono al di sotto della coscienza e di cui riescono ad accorgersi solo le monadi che giungono alla sensazione, cioè ad una percezione accompagnata da memoria. Le monadi di questo tipo sono quelle dotate di un’anima, e cioè viventi come animali. Quando una monade giunge poi alla “coscienza o conoscenza riflessiva” delle proprie percezioni sensibili – cioè del proprio stato interiore – si dice che essa è dotata di appercezione. Quest’ultima non è data a tutte le anime, e neanche è data sempre ad una stessa anima, ma in maniera specifica a quelle monadi la cui anima è dotata di ragione e, più in particolare, nei momenti in cui esse si rappresentano in maniera cosciente la totalità dell’Universo.

1. Monade per Leibniz: a. è un concetto esclusivo della fisica. b. indica la totalità dei predicati di una sostanza individuale. c. indica la realtà incompiuta di una sostanza individuale. d. è il nome con cui Aristotele chiama l’entelechia.

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4.4 Una natura piena di vita Tutte le monadi presenti nell’Universo sono dotate di percezioni, di modo che Leibniz può affermare non solo che «tutto è pieno nella natura», ma anche che in essa «c’è vita ovunque», pure nei corpi inorganici, oltre che naturalmente nel regno vegetale e in quello animale. Ma alcune monadi sono dominanti rispetto ad altre e questo ordine gerarchico dipende dal grado delle percezioni, delle sensazioni e delle appercezioni presenti in esse. In virtù di un’unica dinamica metafisica, che innerva dall’interno l’intero Universo – dall’infima particella di materia sino agli esseri razionali, per arrivare a Dio “monade suprema” – l’organizzazione del mondo dipende dalle rappresentazioni sempre più distinte e sempre più estese che le monadi producono al loro interno. Sorge però la domanda: se la sostanza è un principio di attività semplice, inesteso e indivisibile, come fa a costituire una realtà corporea, cioè un aggregato o un composto? Si tratta inoltre di spiegare la base materiale del mondo a partire dalla vita spirituale delle monadi. Leibniz lo farà sulla base del principio per cui la sostanza è di per sé pura attività, di modo che anche i corpi materiali non andranno mai intesi come corpi meramente inerti o in stato di quiete. Se è vero infatti che lo stato interno di una monade è costituito dalle sue percezioni, questo vuol dire che – per quanto inestesa – essa percepisce sempre una sorta di “materia” in sé stessa, qualcosa di oscuro e impenetrabile senza del quale non percepirebbe niente. In altri termini, la materia prima della percezione non è esterna alla monade, ma è la sua stessa “potenza passiva primitiva”, che è come il lato oscuro e nascosto della sua forza ed energia, cioè della sua “potenza attiva primitiva”. Ma nel momento in cui una pluralità di monadi si aggrega a formare un composto, si forma una materia seconda, che costituisce un ente per aggregazione e può consistere o in un semplice accumulo di parti, oppure nell’organizzazione delle singole parti attorno a una monade dominante: e questo è il caso dei corpi organici dominati dall’anima sensitiva o di quelli dominati dall’anima razionale (gli uomini). N essun organismo nasce dal caos, dal momento che sin dall’inizio ogni sostanza – non solo il composto, ma anche i singoli elementi,

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vale a dire l’anima come monade dominante di un corpo, e il corpo in tutti i suoi ulteriori componenti – ha la forma di un “germe” o di un “seme preformato”; e lo sviluppo della natura organica avviene attraverso la continua «trasformazione di esseri viventi preesistenti». Tutte le sostanze create si connettono e si adattano tra loro, e questo non dipende solo dal fatto che un unico creatore le abbia pensate, volute e composte tutte insieme, ma soprattutto dal fatto che tale legame non è esterno, ma è immanente a ciascuna delle monadi:



ogni sostanza è come un mondo intero e come uno specchio di Dio, oppure di tutto l’Universo, che ciascuna esprime a suo modo, pressappoco come una stessa città è rappresentata diversamente a seconda delle differenti collocazioni di chi la guardi. Così l’Universo, in certo modo, è moltiplicato tante volte quante sono le sostanze, e la gloria di Dio è parimenti raddoppiata da ciascuna delle rappresentazioni della sua opera, tutte differenti. [Discorso di metafisica, § 9]

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1. Per Leibniz che un principio inesteso possa dar luogo ad una realtà corporea si spiega in base alla: a. sola monade dominante. b. sola materia prima. c. materia prima e alla materia seconda. d. monade dominante e all’anima sensitiva. 2. La materia prima è: a. interna alla monade. b. ciò che una monade percepisce. c. la potenza attiva primitiva. d. la potenza passiva primitiva. 3. La materia seconda: a. consiste nell’acquisizione di singole parti. b. è ciò che una monade percepisce. c. consiste nell’accumulo di monadi secondarie. d. consiste nell’aggregato di monadi non dotate di coscienza.

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ha creato il mondo come una “macchina divina” o un “automa naturale”, cioè come un insieme connesso e reciprocamente adattato di corpi viventi. Ogni minima parte di questo macchinario è a sua volta composta da altre macchine viventi, senza che ci si possa mai arrestare ad elementi primi che fungano da base statica, giacché la materia è divisibile all’infinito e le infinite sostanze semplici che la compongono sono a loro volta specchi dell’infinito. Per queste ragioni secondo Leibniz non solo il creatore è un ente infinito, ma anche ogni monade creata è infinita (per rispecchiamento) al suo interno.



Da ciò si vede che vi è un mondo di creature, di viventi, di animali, di entelechie, di anime in ogni minima parte di materia. Ogni porzione di materia può essere concepita come se fosse un giardino pieno di piante o come uno stagno pieno di pesci. Ma ogni ramo della pianta, ogni membro dell’animale, ogni goccia dei suoi umori è ancora un tale giardino o un tale stagno. E benché la terra e l’aria inframmezzate alle piante del giardino, o l’acqua inframmezzata ai pesci dello stagno, non siano né pianta né pesce, tuttavia ne contengono a loro volta, ma per lo più di una sottigliezza per noi impercettibile. [Monadologia, §§ 66-68]



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4.5 L’armonia prestabilita Un nesso essenziale lega tra loro il singolo individuo e la totalità del mondo; e colui che riuscisse a vedere tutto (cioè Dio) potrebbe leggere in ogni punto dell’Universo quel che avviene, che è avvenuto e che avverrà nell’Universo intero. Dio

Questo risolve agli occhi di Leibniz il problema lasciato aperto da Descartes riguardo all’«unione o conformità dell’anima e del corpo organico». Non è esatto parlare, come facevano gli scolastici, di un “influsso reciproco” tra i due, e nemmeno, come faceva Malebranche, di un intervento occasionale da parte di Dio per regolare l’“orologio” del corpo su quello dell’anima (l’immagine dell’orologio allude all’idea di un qualcosa il cui funzionamento si riduce a quello di una macchina, al meccanismo delle molle, dei pesi e dei contrappesi che lo compongono). «L’anima segue le proprie leggi, e anche il corpo le sue, e s’incontrano in virtù dell’armonia prestabilita tra tutte le sostanze, poiché tutte sono rappresentazioni di uno stesso Universo» [Monadologia, § 78]. Dio ha sincronizzato i due orologi fin dal principio della creazione, in modo tale che ad ogni moto dell’anima corrispondesse un moto o un insieme di moti del corpo, e viceversa. E se le anime agiscono secondo le leggi delle cause finali, cioè per uno scopo, mentre i corpi agiscono secondo le leggi delle cause efficienti o dei

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“moti”, anche questi due regni – quello della finalità e quello dell’efficienza – risulteranno pienamente «armonici tra loro». Da ultimo, nell’Universo monadologico si realizza l’armonia prestabilita non solo tra l’anima e il corpo, ma tra le anime razionali – gli “spiriti” – e la monade suprema, cioè Dio, proprio perché gli spiriti, oltre a rispecchiare in sé l’Universo intero, «sono anche immagini della stessa divinità o dell’autore stesso della natura»: anzi, «ogni spirito è come una piccola divinità nella sua giurisdizione» [Monadologia, § 83]. L’insieme delle anime razionali forma per Leibniz la «città di Dio», ovvero «lo Stato più perfetto che sia possibile sotto il più perfetto dei monarchi». Questa «monarchia veramente universale» costituisce «un mondo morale nel mondo naturale», e cioè realizza, oltre all’armonia tra cause efficienti e cause finali, anche quella «tra il regno fisico della natura e il regno morale della grazia» [Monadologia, § 87]. Se Dio non è solo l’architetto della macchina dell’Universo, ma anche il legislatore degli spiriti, farà coincidere la sua grazia non con ciò che è soprannaturale, ma con l’ordine stesso della natura. 1. L’armonia prestabilita si spiega in base al fatto che: a. ogni singola monade è specchio dell’Universo intero. b. esiste un influsso reciproco fra la monade anima e la monade corpo. c. Dio sincronizza in ogni momento le anime e i corpi. d. le anime e i corpi agiscono secondo una legge comune. 2. Nell’Universo monadologico l’armonia prestabilita: a. spiega la corrispondenza tra ogni moto dell’anima V e il moto del corpo e viceversa. b. include la corrispondenza tra gli spiriti e la monade suprema. V c. fa coincidere il regno morale della grazia con il regno delle finalità. V d. fa coincidere il regno fisico della natura con le leggi delle cause efficienti. V

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5 La dinamica del conoscere 5.1 Le idee come espressioni del mondo Sin dall’inizio del suo percorso Leibniz aveva mostrato simpatia per la teoria della conoscenza tipica della “scuola nominalistica”, quella tendenza che, nata nel Medioevo con Gu-

glielmo di Ockham, era giunta in età moderna sino ad Hobbes. La tesi di fondo dei nominalisti è così semplificata da Leibniz: in base alla regola aurea secondo la quale «non si devono moltiplicare gli enti oltre il necessario», «ogni cosa in natura può essere spiegata facendo completamente a meno degli universali e delle formalità reali», di modo che, «ad eccezione delle sostanze singolari, tutto si riduce a meri nomi» [Dissertazione preliminare al De veris principiis di M. N izolio]. In altri termini, gli universali non sono cose, ma puri nomi; in quanto tali essi costituiscono solo delle entità mentali, ed esistono soltanto negli enti singolari. Tuttavia Leibniz apporta una piccola, ma decisiva correzione all’argomento nominalista, ammettendo un ambito di possibili, che precede e in qualche modo garantisce quello degli enti singolari: «quand’anche i singolari scomparissero dal mondo, nondimeno la proposizione universale conserverebbe la sua verità nei possibili». Questo vuol dire che la verità non può mai ridursi a mera convenzione – cioè ai nomi che noi diamo alle cose –, come invece rischia di succedere con i nominalisti: contro un tale pericolo Leibniz sostiene che la verità, pur essendo espressa dal linguaggio, non dipende ultimamente da esso, tanto è vero che sistemi linguistici differenti portano alle medesime verità. Questa posizione determinerà in maniera evidente la teoria leibniziana del conoscere. N el delineare la dinamica della conoscenza, egli parte infatti dall’osservazione che le nostre idee sono «qualcosa che si trova nella nostra mente», e non dipendono dall’azione delle cose esterne sul nostro cervello. D’altra parte non possiamo nemmeno considerarle come semplici “atti del pensiero”: esse consistono piuttosto nella stessa facoltà di pensare a qualcosa. Tale facoltà va intesa come possibilità o disposizione naturale della nostra mente; e anche se non sempre abbiamo in noi l’idea come un contenuto oggettivo, certamente possiamo pensarla quando se ne presenti l’occasione dall’esterno. L’idea come disposizione della mente non sarebbe infatti sufficiente, se non si connettesse con la disposizione della cosa e se la prima non esprimesse la seconda attraverso dei segni. Il concetto di espressione sta dunque a indicare «una certa analogia delle disposizioni reciproche», ossia una corrispondenza dei segni esprimenti la cosa e delle disposizioni della cosa da esprimere:

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Una cosa esprime un’altra, nel mio linguaggio, quando vi è un rapporto costante e regolato tra ciò che si può dire dell’una e dell’altra. […] L’espressione è comune a tutte le forme ed è un genere di cui la percezione naturale, la sensazione animale e la conoscenza intellettuale sono specie. N ella percezione naturale e nella sensazione, basta che ciò che è divisibile e materiale, e si trova disperso in molteplici esseri, sia espresso o rappresentato in un solo essere indivisibile, ossia nella sostanza dotata di vera unità. E nell’anima razionale questa rappresentazione è accompagnata da coscienza, ed è allora che la si chiama pensiero. Ora, questa espressione giunge dappertutto, perché tutte le sostanze simpatizzano con tutte le altre e ricevono qualche mutamento proporzionale, corrispondente al minimo mutamento che accade in tutto l’Universo. [Lettera ad Arnauld, 9 ottobre 1687]



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Un’idea della nostra mente può dunque esprimere la cosa a cui si riferisce, perché già nella cosa si esprime a suo modo l’Universo intero; e così i segni mediante i quali noi conosciamo possono esprimere le diverse realtà perché ogni realtà è strutturata come un processo che esprime a sua volta la totalità. Tra l’“esprimente” (vale a dire ciò che esprime qualcos’altro) e ciò che per suo tramite viene “espresso”, sussiste una stretta continuità, e se anche i rispettivi ordini differiscono nettamente tra loro – come un’idea spirituale può differire da un corpo materiale – l’analogia tra di loro è molto più radicale e originaria di ogni altra differenza. Ma vediamo come si realizza questa disposizione della conoscenza che esprime la cosa. 1. La verità per Leibniz: a. risiede nei nomi che noi diamo alle cose. b. è espressa dai nomi ma non coincide con essi. c. coincide con la sfera della possibilità logica. d. muta a seconda dei sistemi linguistici.

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5.2 I gradi della conoscenza Diverse sono le modalità attraverso le quali si esplica la conoscenza umana, e Leibniz le descrive seguendo l’intera gamma delle disposizioni naturali della nostra anima. Vediamo innanzitutto il quadro completo:



trovo opportuno spiegare brevemente ciò che mi sembra doversi stabilire intorno alle distinzioni e ai criteri delle idee e delle conoscenze. La conoscenza, dunque, è oscura o chiara; quella chiara è poi confusa o distinta, e quella distinta è inadeguata o adeguata, nonché o simbolica o intuitiva; e se è insieme adeguata e intuitiva, è senz’altro perfettissima. [Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee]



Si dirà conoscenza oscura una «nozione che non è sufficiente a far riconoscere la cosa rappresentata: come quando rammento più o meno un fiore o un animale visto una volta, ma non quanto basterebbe a riconoscerlo qualora mi venga esibito, e a distinguerlo da un altro simile»; al contrario, si dice chiara una conoscenza grazie alla quale ho modo di «riconoscere la cosa rappresentata». Una conoscenza chiara potrà essere, a sua volta, confusa o distinta: chiara e confusa, «quando non sono in grado di enumerare uno per uno i caratteri sufficienti a distinguere una cosa dalle altre, sebbene essa possieda veramente tali caratteristiche e requisiti, nei quali si possa risolvere la sua nozione». In questa maniera noi riconosciamo abbastanza chiaramente i colori, i sapori e gli odori, distinguendoli l’uno dall’altro, ma «per la semplice attestazione dei sensi, non mediante caratteristiche enunciabili»; tanto che, per esempio, non possiamo spiegare ad un cieco che cosa sia il rosso, giacché un uomo acquista tale nozione solo se viene portato davanti alla cosa stessa o se viene richiamato ad una percezione avuta nel passato, simile a quella presente. Chiara e distinta è invece una nozione «come quella che i periti hanno dell’oro», dal momento che attraverso le loro analisi essi riescono a conoscere le caratteristiche che distinguono una cosa rispetto a tutte le altre cose simili ad essa. Normalmente, afferma Leibniz, noi abbiamo conoscenza distinta delle «nozioni comuni a più sensi, come quella del numero, della grandezza, della figura, e pure di molti affetti dell’animo, come la speranza e il timore». Di tutte le nozioni chiare e distinte noi abbiamo una definizione nominale, nel senso cioè che possiamo enumerare tutte le note caratteristiche sufficienti a definire tale nozione. Ma abbiamo conoscenza chiara e distinta anche di nozioni che non si possono definire – perché

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I gradi della conoscenza 1. Conoscenza oscura 2. Conoscenza chiara 2.1. chiara e confusa 2.2. chiara e distinta 2.2.1. inadeguata: simbolica (nozioni definibili) 2.2.2. adeguata: intuitiva (nozioni primitive)

sono note di per sé stesse, non per l’enumerazione delle loro caratteristiche interne – e che quindi chiamiamo primitive (quali l’uno o l’essere). Quando invece abbiamo a che fare con nozioni composte, il più delle volte succede che tra le caratteristiche che rientrano a comporre tale nozione ve ne siano alcune chiare e confuse (come per esempio il peso e il colore nell’oro), e in questo caso si tratterà di una conoscenza inadeguata; se invece «tutto ciò che entra in una notizia distinta è a sua volta conosciuto distintamente», si tratterà di una conoscenza adeguata: un caso, questo, molto difficile a realizzarsi per l’intelletto umano, tranne forse che nell’analisi dei numeri. Se infatti la conoscenza perfetta è quella intuitiva, che però è riservata solo alle nozioni primitive totalmente chiare e distinte, normalmente invece, trovandoci di fronte a nozioni molto complesse, noi esercitiamo una conoscenza che Leibniz chiama simbolica:



così, quando penso al chiliogono, o al poligono di mille lati uguali, non sempre considero la natura del lato, e dell’uguaglianza, e del mille (cioè del cubo di dieci), bensì adopero nel mio animo questi vocaboli (il cui senso si presenta alla mente, almeno in modo oscuro e imperfetto) in luogo delle idee che possiedo di essi, in quanto ricordo di possedere il significato di quei vocaboli, ma non giudico al momento necessaria la loro spiegazione: sono solito chiamare cieco, o anche simbolico, tale pensiero, del quale facciamo uso sia nell’algebra sia nell’aritmetica, e anzi quasi ovunque. [Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee]



La conseguenza di questo è che spesso noi utilizziamo certi termini credendo erroneamente di avere nel nostro animo le idee delle cose di cui parliamo, mentre abbiamo solo dei vocabo-

li non spiegati a sufficienza. Solo un pensiero intuitivo può infatti fornirci delle idee vere. La verità delle idee, a sua volta, può essere conosciuta sia a priori, mediante un’analisi delle note caratteristiche di una nozione e delle cause che possono produrla, sempre seguendo il criterio della non-contraddizione logica; sia a posteriori, cioè «quando sperimentiamo che la cosa esiste attualmente», dato che «tutto ciò che esiste o è esistito attualmente è senza dubbio possibile». Ma la conoscenza dell’intelletto umano non è secondo Leibniz indipendente da quella propria dell’intelletto divino. Esistono infatti delle verità eterne che non coincidono semplicemente con le essenze chiare e distinte delle cose, ma risiedono «in una regione delle idee», o più propriamente «in Dio stesso, fonte di ogni essenza e dell’esistenza di ogni altra cosa» [L’origine radicale delle cose]. Sintetizzando la concezione platonica delle idee e quella agostiniana della verità, Leibniz designa Dio come “fonte” delle idee, le quali risultano così dagli infiniti atti di riflessione compiuti dalla mente divina. Le idee sono principalmente «in mente Dei», e trovano un corrispettivo nelle disposizioni naturali della mente umana, attualizzandosi poi di volta in volta, a seconda delle occasioni che si presentano al soggetto conoscente.

5.3 Tra empirismo e innatismo Sulla base di questi elementi fondamentali, Leibniz descriverà la dinamica del conoscere attraverso un confronto serrato con la gnoseologia di Locke: e difatti, proprio partendo dall’opera di quest’ultimo, scriverà i N uovi saggi sull’intelletto umano (1704), un dialogo filosofico in cui due personaggi, Filalete e Teofilo, sostengono rispettivamente la posizione di Locke e quella di Leibniz. Particolarmente interessante è il modo in cui Leibniz si misura con i problemi sollevati dal filosofo inglese, mostrando però che solo una fondazione metafisica del conoscere può dare vera risposta alle questioni dell’empirismo. Se è vero infatti che Leibniz fa suo l’antico motto, divenuto la vera e propria bandiera dell’empirismo, secondo cui «non vi può essere nulla nell’intelletto che prima non sia passato dai sensi» (nihil est in intellectu quod prius non fuerit in

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sensu), lo corregge però con un’importante postilla: «tranne l’intelletto stesso» (praeter intellectus ipse), rivendicando così la spontaneità della vita della mente rispetto alla passività dei sensi. I dati dell’esperienza dipendono da ragioni e verità a priori, e quindi l’induzione e la generalizzazione non bastano a fondare la necessità di una proposizione: occorre cioè che a fondamento dell’esperienza vi sia una verità necessaria. Locke si era scagliato contro coloro che – come i cartesiani – ammettevano l’esistenza di idee innate e sosteneva che una tale eventualità andrebbe negata anche qualora alcuni princìpi speculativi o morali riscuotessero il “consenso” di tutti gli uomini. Il filosofo inglese contestava qualsiasi «verità impressa originariamente nell’anima», giacché le idee o avrebbero origine o dalle sensazioni o dalla riflessione della nostra mente su di esse. A questo si attacca Leibniz per ribaltare la questione:



Ora, la riflessione non è altro che un’attenzione a ciò che è in noi, e i sensi non ci danno in alcun modo ciò che già portiamo con noi. Ma se le cose stanno così, si potrà mai negare che nel nostro spirito vi sia molto di innato, dal momento che noi siamo, per così dire, innati a noi stessi, e che dunque ci sono in noi: essere, unità, sostanza, durata, mutamento, azione, percezione, piacere e mille altri oggetti delle nostre idee intellettuali? […] La nostra anima è dunque in sé stessa così vuota che senza le immagini mutuate dall’esterno non è nulla? […] Perché dunque non potremmo fornire a noi stessi qualche oggetto di pensiero dal nostro proprio fondo, quando volessimo scavarci? [Nuovi saggi sull’intelletto umano, Prefazione]



È proprio uno “scavo” del genere quello che vuole tentare invece Leibniz. E lì dove Locke e gli empiristi paragonavano l’anima a una tabula rasa o ad un foglio bianco sul quale non sia stato impresso alcun carattere, egli preferisce piuttosto paragonare l’anima ad un blocco di marmo e le verità presenti in essa alle venature che prefigurano l’immagine che ne verrà ricavata dallo scultore (per esempio quella di Ercole). Tale immagine, come le idee, sarebbe dunque già contenuta nel blocco di marmo come una predisposizione, anche se poi si avrà bisogno del lavoro della politura per farla emergere. Le idee quindi non sono

delle “azioni”, cioè semplici atti mentali, ma «inclinazioni, disposizioni, abitudini o virtualità naturali». È quanto suggerisce l’analogia della nostra mente con una camera oscura:



Per rendere maggiore la somiglianza, bisognerebbe supporre che nella camera oscura vi fosse una tela per ricevere le immagini, una tela che non fosse liscia, ma variegata da pieghe rappresentanti le conoscenze innate; e che per di più questa tela o membrana, essendo tesa, avesse una sorta di proprietà elastica o forza di agire, e pure un’azione o reazione corrispondente tanto alle pieghe passate che a quelle nuove, derivate dalle impressioni delle immagini. E tale azione dovrebbe consistere in certe vibrazioni o oscillazioni, simili a quelle che si vedono in una corda tesa quando la si tocca, in modo che producesse una specie di suono musicale. […] Questo paragone spiegherebbe passabilmente ciò che avviene nel cervello, ma quanto all’anima, che è una sostanza semplice o monade, essa rappresenta senza estensione queste medesime varietà delle masse estese, e ne ha la percezione. [Nuovi saggi sull’intelletto umano, II, cap. 12]



Seguendo l’esempio della stanza, le immagini verrebbero sì dal di fuori, ma in quanto costituiscono l’occasione per l’attualizzarsi di inclinazioni già presenti all’interno di essa: «tutti i pensieri e le azioni della nostra anima provengono dal suo proprio fondo». E quando l’idea, seguendo l’occasione esterna, si attualizza, essa diviene un vero e proprio “concetto”. La soluzione fornita da Leibniz al problema dell’origine delle idee risulta dunque mediana rispetto a quella empirista e a quella innatista: egli ammette l’esistenza di idee e verità innate in senso virtuale, considerando “attuali” solo le nozioni acquisite per esperienza. La mente è naturalmente predisposta all’esperienza, e l’esperienza è un’espressione della facoltà originaria della mente. Lo si vede per esempio da come Leibniz ribalta la critica lockiana al concetto di sostanza, che per l’inglese era solo un’idea complessa costruita dalla mente umana per poter pensare il “sostrato” o il “sostegno”, cui ineriscono contemporaneamente diverse qualità. Per Leibniz, al contrario, non è possibile cogliere le qualità di una cosa prescindendo dall’esistenza di quest’ultima, la quale a sua volta è resa possibile grazie all’idea di

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sostanza innata nella nostra mente. Anzi, a ben guardare, è più facile comprendere le qualità astratte delle cose – come «il sapore, il colore, la luce, ecc.» – piuttosto che il «concretum come sapido, caldo, lucente». Le nozioni concrete sono «assai più difficili da comprendere», perché richiedono i sensi e si presentano alla nostra mente mediante le immagini che ricaviamo dalle cose – quindi implicano anche oscurità e confusione –, mentre le idee astratte o universali sono chiare e distinte, perché noi possiamo «conoscerne molte verità con prove a priori». Del resto, nell’ottica di Leibniz l’universalità non è mai opposta alla particolarità, giacché nella sua concezione di sostanza individuale queste due dimensioni sono intimamente intrecciate tra loro. L’origine del carattere universale delle idee sta nel fatto che ogni mente singolare rispecchia la totalità e che anzi ogni cosa singolare porta dentro di sé il tutto: «l’individualità racchiude l’infinito, e solo colui che è capace di comprenderlo può avere la conoscenza del principio di individuazione di questa o quella cosa» [Nuovi saggi, II, cap. 23]. 1. Per Leibniz nella teoria della conoscenza l’empirismo è una teoria: a. totalmente falsa. V F b. in parte vera se corretta. V F c. vera posto che l’intelletto stesso non derivi dai sensi. V F d. vera perché l’anima è una tabula rasa. V F

6 Dio, la possibilità del male, la finalità del mondo 6.1 Dal possibile al necessario: l’esistenza di Dio Quella di Dio è una presenza che attraversa l’intera riflessione di Leibniz e ne indica l’interesse fondamentale: comprendere il passaggio dalla mera possibilità all’esistenza, quel passaggio in cui si mostra la ragione per cui qualcosa esiste invece di nulla. Le cose possibili diventano esistenti grazie ad un decreto della volontà divina; ma lo stesso Dio può essere dimostrato necessariamente esistente a partire dalla sua possibilità.

In primo luogo l’esistenza di Dio può essere dimostrata a priori. In uno schizzo del 1676 (L’ente perfettissimo esiste), indirizzato personalmente a Spinoza e poi ripreso in vari altri scritti, Leibniz parte dal concetto di perfezione – intendendo con questo termine «ogni qualità semplice che sia positiva e assoluta» – e, dopo aver dimostrato che «tutte le perfezioni sono compatibili tra loro, ossia possono trovarsi in un medesimo soggetto», conclude che «dunque esiste, ovvero è intelligibile, il soggetto di tutte le perfezioni, cioè l’essere perfettissimo», dal momento che «l’esistenza è compresa nel novero delle perfezioni». Anche Descartes, nella sua prova a priori, era partito dalla possibilità della nozione di Dio (l’ente che possiede tutte le perfezioni) e ne aveva inferito immediatamente l’esistenza (perché sarebbe contraddittorio che esso mancasse di una delle sue perfezioni, cioè l’esistenza); ma per Leibniz in questa prova la nozione di “possibile” è solo presupposta, non ancora dimostrata chiaramente; mentre è su di essa che si deve puntare per comprendere l’esistenza di Dio. Se è possibile pensare un ente che esista in virtù della sua stessa essenza, allora si dovrà concludere che esso sarà necessariamente esistente. Le proposizioni dimostrative sarebbero dunque le seguenti: a. «se l’ente necessario è possibile, allora esiste»; qualora invece tale ente fosse impossibile sarebbero impossibili pure tutti gli enti che dipendono da esso, vale a dire: b. «se l’ente necessario non è, allora non c’è ente possibile» [Sulla dimostrazione cartesiana dell’esistenza di Dio del R.P. Lamy]. Alla nozione di possibilità si rifà anche la dimostrazione a posteriori dell’esistenza di Dio, quella cioè che procede dal piano contingente a quello necessario. Essa si basa sul principio secondo cui ogni realtà possibile ha “la pretesa di esistere”, ovvero ogni essenza tende con pari diritto all’esistenza, in ragione della sua perfezione e tenendo conto della compossibilità con le altre essenze. Ora, tra «le infinite combinazioni e le possibili successioni dei possibili» che possono realizzarsi in un tempo e in un luogo del mondo, accade sempre inevitabilmente quella per cui si avrà il massimo della perfezione, cioè “il massimo effetto” possibile in una data condizione. Per esempio, scrive Leibniz, poniamo che i possibili A, B, C e D siano tutti uguali nella loro esigenza di esistere, e che D sia

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incompatibile con A e con B, mentre A sia compatibile con ciascuno tranne D, e lo stesso avvenga per B e per C: ciò che ne segue è che deve esistere necessariamente solo la combinazione ABC con l’esclusione di D. Se infatti esistesse D, esso potrebbe coesistere solo con C; ma la combinazione CD è «più imperfetta» di ABC: «pertanto è palese che le cose esistono nel modo più perfetto».



Abbiamo dunque così la ragione ultima della realtà, sia delle essenze che delle esistenze, in uno; ed è comunque necessario che sia maggiore, superiore e anteriore al mondo stesso, poiché per suo tramite non soltanto le cose esistenti, che sono comprese nell’Universo, ma anche i possibili hanno realtà. Ma non si può reperire ciò se non in un’unica fonte, a causa della connessione di tutte le cose tra loro. Risulta palese che da questa fonte le cose esistenti promanano di continuo e sono prodotte, e sono state prodotte […]. Risulta altresì palese che Dio agisca non solo fisicamente, ma anche liberamente, e in lui vi sia non soltanto la causa efficiente ma anche il fine delle cose; e come in lui non si trovi soltanto la ragione della grandezza o potenza nella macchina dell’Universo già costituita, ma anche della bontà e della sapienza nel costruirla. [L’origine radicale delle cose]



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In altri termini, come Leibniz dice altrove, «c’è una causa per cui l’esistenza prevale sulla nonesistenza, ovvero l’ente necessario è esistentificante» [Ventiquattro tesi metafisiche, § 4].

1. Dimostrare l’esistenza di Dio a priori per Leibniz implica partire dalla considerazione che i suoi attributi devono essere: a. infiniti. b. compatibili. c. perfetti. d. necessari. 2. Tra le infinite possibilità di un ente se ne realizzano solo alcune. Questo per Leibniz è il punto di partenza della dimostrazione a posteriori dell’esistenza di Dio, in quanto il contingente: a. implica una causa necessaria. b. esiste in ragione della sua perfezione. c. esiste in quanto possibile. d. esiste in ragione della compossibilità con gli altri contingenti.

6.2 Il migliore dei mondi possibili Nei Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male (1710) Leibniz approfondisce la dottrina dei possibili, parlando di infiniti mondi, ognuno dei quali si compone di tutte le probabilità che non implicano fra loro contraddizione, e afferma che Dio sceglie il mondo che deve passare dalla possibilità all’esistenza in base alla sola “regola del meglio”, cioè individuando la compossibiltà ottimale fra tutte le esistenze. Questo mondo sarà dunque il migliore fra i mondi possibili. L’affermazione di questa regola ha fatto sì che quella di Leibniz fosse giudicata una visione “ottimistica” del mondo, vale a dire un provvidenzialismo in cui avviene solo ciò che è meglio in assoluto, e quindi in definitiva una sorta di necessitarismo. In effetti, la tesi metafisica secondo cui Dio creerebbe solo il mondo migliore tra tutti quelli possibili nella sua mente, pone inevitabilmente un problema: tale volontà divina è libera o è necessitata? Vale a dire, essa può scegliere o deve per forza scegliere il meglio? Leibniz suggerisce che la scelta da parte di Dio è di tipo morale, cioè non è legata solo al fatto che egli calcola il risultato più perfetto possibile nella coesistenza delle sostanze che compongono il mondo, ma è determinata dalla sua bontà, cioè dal fatto che egli vuole il bene e la salvezza delle creature come il fine del mondo. Ma se questo è vero, come si spiega il male nel mondo? Esso non dovrebbe essere escluso da un ordine identificato come il migliore? Leibniz spiega questa dissonanza tra il meglio e il male, proprio facendo leva sul rapporto tra ciò che si realizza di fatto e ciò che avrebbe potuto realizzarsi, e individua come discriminante tra i due un fattore che fa realmente la differenza, vale a dire la libertà umana. Ciò che accade nel mondo passa anche attraverso le libere decisioni degli uomini ed è questo che secondo Leibniz permette di trovare una vera e propria “giustificazione” di Dio – come dice la parola di origine greca teo-dicea – di fronte all’esistenza del male: egli infatti non vuole la realizzazione del male, ma permette soltanto un mondo in cui esso sia possibile. N on è senza significato che Leibniz abbia scritto i suoi Saggi di teodicea a partire da una controversia con Pierre Bayle, un razionalista

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scettico che si era già opposto alla teoria leibniziana dell’armonia prestabilita, e che contestava anche i contenuti dogmatici della tradizione cristiana (l’esistenza di Dio, l’immortalità dell’anima, il peccato originale) in quanto non dimostrabili dalla ragione. Più in particolare, Bayle definiva l’esistenza del male ingiustificabile razionalmente e incompatibile con l’esistenza di Dio. Di fronte a questo problema, Leibniz decide di dare una risposta squisitamente teoretica: non è per fede, ma è per ragione – cioè mediante un’analisi filosofica – che ci sarà possibile penetrare nelle profondità della saggezza divina e dare spiegazione al male. D’altra parte proprio all’inizio dei Saggi di teodicea Leibniz afferma che la fede possiede una sua propria “conformità” alla ragione, per il semplice fatto che i rispettivi oggetti sono entrambi delle verità, e due verità non potranno mai contraddirsi tra loro: così l’oggetto della fede è «la verità rivelata da Dio in una maniera fuori dall’ordinario», mentre la «vera e retta ragione» non è altro che «il concatenarsi di quelle verità che lo spirito umano può raggiungere naturalmente, senza essere aiutato dai lumi della fede» [Saggi di teodicea, Discorso preliminare, § 1]. Se dunque l’accordo tra fede e ragione è garantito dal fatto che entrambe riguardano la verità, bisognerà però distinguere tra le verità eterne, assolutamente necessarie in quanto il loro opposto sarebbe contraddittorio, e le verità positive, vale a dire le leggi che Dio ha voluto dare alla natura con un atto di libera scelta, seguendo l’ordine della convenienza, e dalle quali egli può – se lo vuole – dispensare le creature, come nel caso dei miracoli, sulla cui testimonianza si basa la fede rivelata. Mentre i primi tipi di verità seguono una necessità geometrica, i secondi seguono una necessità fisica o morale; e se la fede non potrà mai essere in disaccordo con le verità eterne (perché in tal caso essa sarebbe semplicemente falsa), potrà invece risultare in contrasto con le verità positive, dal momento che queste ultime sono «soggette a deroga da parte del legislatore» . La fede dunque viene giustificata in quanto si basa su condizioni straordinarie rispetto alle leggi ordinarie della natura, nei casi in cui queste ultime vengono modificate o interrotte per motivi di ordine morale.

1. Nella scelta del mondo esistente come il migliore dei mondi possibili Dio è: a. libero, perché non agisce in vista di un fine. b. libero, perché agisce in vista della salvezza del mondo. c. necessitato, perché la sua natura è perfetta. d. necessitato, perché agisce calcolando la compatibilità ottimale fra tutte le esistenze.

V F V F V F V F

2. Leibniz concilia la presenza del male nel mondo con il fatto che questo sia il migliore dei mondi possibili affermando che: a. ciò assicura la libertà dell’uomo. V F b. Dio vuole che il male si realizzi in vista di un’armonia più grande. V F c. Dio permette che il male sia solo possibile. V F d. Dio in tal modo chiama l’uomo alla fede. V F

6.3 Perché il male? La conformità della fede con la ragione è chiamata a dar prova di sé soprattutto in quel caso limite che è costituito dal problema del male: «se Dio esiste, da dove viene il male? Se non esiste, da dove viene il bene?». Gli antichi attribuivano la causa del male alla materia, increata e indipendente da Dio; ma «noi che deriviamo ogni essere da Dio, dove troveremo la fonte del male?»



La risposta è che tale fonte dev’essere cercata nella natura ideale della creatura, in quanto siffatta natura è racchiusa nelle verità eterne che sono nell’intelletto di Dio, indipendentemente dalla sua volontà. Bisogna considerare infatti che c’è un’imperfezione originaria nella creatura, prima del peccato, poiché la creatura è essenzialmente limitata. E da ciò consegue che essa non può saper tutto, e che si può sbagliare e commettere altri errori. […]: è là dentro [cioè nell’intelletto divino] che si trova non soltanto la forma primitiva del bene, ma anche l’origine del male. Si tratta della regione delle verità eterne. [Saggi di teodicea, I, § 20]



La natura costitutivamente finita della creatura è una verità eterna che non può essere in alcun modo contraddetta. In essa risiede dunque «la causa ideale del male, oltre che del bene». Solo che anche per Leibniz, come per la tradizione teologica, il male non consiste in una realtà o in

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una sostanza, ma solo in una privazione d’essere, e quindi non avrà una causa efficiente, ma solo una “causa deficiente”, nel senso che è provocato da una mancanza. Proprio per il fatto di appartenere alla natura degli esseri contingenti, il male non potrà essere imputato a Dio: egli non ha creato il male, ma ha creato il mondo in cui l’uomo liberamente sceglie e in cui il male è semplicemente “permesso”. Nell’ottica leibniziana, allora «il male metafisico consiste nella semplice imperfezione» ed è tutt’uno con la costitutiva finitezza delle creature. Il male fisico consiste invece nella “sofferenza”, vale a dire nel dolore e nella malattia, che spesso Dio permette «come una pena dovuta alla colpa, e spesso anche come un mezzo adatto a un fine, vale a dire per impedire mali più grandi o per ottenere beni più grandi» (come il grano di cui parla il Vangelo, che deve marcire per germogliare). Infine il male morale consiste nel “peccato”, vale a dire l’unico male di cui l’uomo sia direttamente responsabile, perché si origina in un difetto di conoscenza del bene ed è inseparabile dalla sua libertà. Il male morale è permesso da Dio solo in quanto è considerato come l’inevitabile conseguenza di un ordine o di un dovere più elevato. Un esempio lo fa capire bene:



Nessuno approverà mai che una regina voglia salvare il suo Stato commettendo o permettendo un crimine. Il crimine infatti è certo, mentre il male dello Stato è dubbio. […] Per quanto riguarda Dio, invece, niente è dubbio, niente potrebbe essere opposto alla regola del meglio, che non è soggetto ad alcuna eccezione né dispensa. Ora, è esattamente in questo senso che il peccato è permesso da Dio: egli verrebbe meno a ciò che deve a sé stesso, a ciò che deve alla propria saggezza e alla propria bontà e perfezione, se non seguisse il grande risultato delle sue tendenze al bene e se non scegliesse ciò che è assolutamente il migliore, nonostante il male di colpa che vi si

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trova implicato in virtù della suprema necessità delle verità eterne. [Saggi di teodicea, I, § 25]



Nella regione delle verità eterne vi sono un’infinità di mondi possibili, e di conseguenza nella mente di Dio sono contenuti «tutti i futuri condizionali», vale a dire tutti gli eventi contingenti che potranno realizzarsi nel futuro, i quali, essendo appunto contingenti, portano in sé la possibilità del male fisico e morale. E tale possibilità permane anche nel mondo migliore che Dio sceglie di far esistere. Che il male sia permesso, sebbene non voluto, da parte di Dio, significa per Leibniz conciliare la libertà dell’uomo – mai decisa a priori – e la conoscenza che Dio ha del mondo e del corso degli eventi nel tempo, oggetto di una “precognizione” o di una “prescienza” che non ne predetermina gli esiti, ma appunto li permette soltanto. Il che vuol dire che non è ammessa alcuna predestinazione del singolo uomo e del singolo atto libero da parte di Dio: l’unica cosa che viene determinata è l’obiettivo del meglio, che sarà certamente raggiunto anche attraverso il limite, la sofferenza ed il peccato degli uomini. Anche nella piega più oscura e drammatica dell’esistenza si insinua dunque il principio razionale che informa e innerva di sé l’Universo intero. Così la bontà di Dio non esclude la sua giustizia, vale a dire il fatto che tutto, anche il male, ottenga la sua ragione e venga risarcito, cioè giustificato e salvato. E infatti la grazia di Dio non è altro che la ragione dispiegata nel mondo, unità compiuta di bontà e giustizia. 1. Per Leibniz, la presenza del male nel mondo fonda la possibilità di: a. conciliare libertà umana e prescienza divina. b. ammettere la predestinazione da parte di Dio delle scelte che l’uomo opera. c. conciliare libertà e necessità nell’uomo. d. Dio di decidere a priori il male che gli uomini realizzeranno.

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parte II L’orizzonte cartesiano e i nuovi sistemi della metafisica razionalistica Un pensiero barocco. Nel pensiero di Leibniz (1646-1716) un principio metafisico fondamentale si dispiega sino ad irradiare con la sua forza ogni singolo aspetto della realtà e, inversamente, ogni particolare esprime e rispecchia la ragione del tutto. L’ambizione di Leibniz è quella di cogliere la razionalità che governa l’Universo e di cui la ragione umana costituisce il più nitido specchio. Questa ragione tiene insieme Dio e l’uomo, ciò che è possibile logicamente e ciò che esiste effettivamente, l’infinito e il contingente. La poliedricità della sua riflessione va dalla logica alla metafisica, dalla teologia all’epistemologia, dall’etica al diritto, dalla storiografia alla politica. Partendo dalla scoperta che «la sorgente della meccanica è nella metafisica», Leibniz arriva ad individuare nella realtà fisica un principio spirituale, una “vita” che anima dall’interno la materia universale. In un’epoca segnata da aspri contrasti, a livello scientifico, filosofico, religioso e politico, la sua posizione esprime l’esigenza di un universalismo filosofico. La sostanza come forza. Leibniz, inserendosi nella disputa fra scolastici e moderni, attraverso lo studio di Descartes matura l’esigenza di approfondire la radice metafisica della fisica rivisitando il concetto di forma sostanziale. Egli cerca infatti di pensare in maniera nuova rispetto alla tradizione aristotelica e scolastica il rapporto indissolubile tra la forma e la materia della sostanza, vale a dire tra ciò che è universale e ciò che è individuale, e dà a questa unità il nome di “monade”. Nella Disputazione metafisica sul principio di individuazione, Leibniz sviluppa la tesi di Duns Scoto affermando che il principio di individuazione di una cosa coincide con la sua “entità intera”, vale a dire con l’unità inscindibile tra la materia e la forma. Nella materia di una cosa è contenuta la sua forma, che non va più pensata come comune ad altre cose della stessa specie, ma assolutamente unica e individua. L’universale non è più inteso da Leibniz come l’opposto dell’individuale, ma come la sua immanente realtà. In questa prospettiva egli concepisce la materia dei corpi fisici non più cartesianamente come un sistema statico e geometrico, ma come una forza di-

namica immanente a tutto ciò che esiste. L’estensione di un corpo non coincide più con la “sostanza” (la res extensa cartesiana), ma rappresenta un suo “fenomeno”, vale a dire il modo in cui esso si presenta alle nostre percezioni: si tratta di “fenomeni ben fondati” nella natura. Ogni fenomeno fisico dipende da un principio vitale e dunque lo stesso meccanicismo si fonda su di una metafisica della natura. N ella Breve dimostrazione di un errore memorabile di Cartesio (1686) Leibniz rigetta la tesi cartesiana che a rimanere costante nei fenomeni fisici è la quantità di moto: egli ritiene che il moto costante di un corpo sia l’effetto di un’azione immanente al corpo stesso, denominata forza viva (energia cinetica). Di qui deriva anche il convincimento che lo spazio e il tempo non siano enti assoluti, come li pensava N ewton, ma costituiscano solo due ordini di relazioni: lo spazio è «l’ordine delle coesistenze», mentre il tempo è «l’ordine delle successioni» tra le sostanze individuali. Logica e metafisica: l’universo delle monadi. La nozione di sostanza come ente individuale dotato di una propria forza immanente è alla base sia della metafisica che della logica. Per Leibniz la sostanza metafisica e il soggetto logico sono due aspetti strettamente correlati di una medesima realtà e in tal modo le leggi fondamentali del pensiero vengono a coincidere con la struttura ontologica del mondo. In ambito logico la sostanza individuale è un soggetto a cui vengono attribuiti molti predicati, e che a sua volta non è predicato di nient’altro. Questa attribuzione avviene attraverso due princìpi. Il primo è il principio di contraddizione, che si basa sul principio di identità, per il quale la proprietà o l’attributo di una cosa è già incluso nel concetto della cosa stessa. Tale principio riguarda però solo i concetti della geometria o della fisica, e non quelli degli individui razionali dotati di libertà, cioè gli uomini e le loro azioni per i quali Leibniz elabora un secondo principio chiamato principio di ragion sufficiente. Quest’ultimo fornisce la ragione metafisica di eventi contingenti e quindi non indica soltanto l’essenza di una sostanza, bensì ne indica l’esistenza, cioè il fatto che quella sostanza acca-

da o non accada di fatto. A questi due princìpi Leibniz ne aggiunge un terzo: il principio dell’identità degli indiscernibili secondo cui ogni sostanza ha un’identità propria assolutamente unica e irripetibile, di modo che in natura non esistono due enti perfettamente sovrapponibili. Ai due princìpi in base a cui noi ragioniamo (contraddizione e ragion sufficiente) Leibniz fa corrispondere due specie di verità: quelle di ragione e quelle di fatto: le prime sono necessarie e il loro opposto è impossibile, le seconde sono contingenti e il loro opposto è possibile. Egli, inoltre, cerca di mostrare come le verità di fatto possano essere riportate alle verità di ragione, in primo luogo facendo riferimento alla libera decisione con cui Dio ha fatto sì che esse accadessero. La regola con cui Dio sceglie tra le cose che potranno accadere è la regola dell’ottimo. In secondo luogo, facendo riferimento all’analisi infinita: il contingente resta irrimediabilmente finito (verità di fatto), ma è pensabile come infinitesimo, vale a dire come il punto in cui il finito tende a trasformarsi in infinito, e il contingente in necessario (verità di ragione), senza che questo possa mai avvenire, se non in una prospettiva infinita. Il termine “monade” significa ‘l’unità’ o ‘ciò che è uno’ e indica la sostanza individuale considerata come un soggetto che contiene in sé tutti i suoi predicati, passati, presenti e futuri. Leibniz la chiama anche entelechia, per indicare che essa ha il suo fine e il suo compimento in sé stessa. Le monadi costituiscono dei punti metafisici inestesi, che non hanno un inizio naturale, né possono perire naturalmente, che non sono divisibili, e si distinguono tra loro solo per le rispettive qualità interne. Tuttavia esse implicano in sé una pluralità di stati e una molteplicità di rapporti che costituiscono il principio del mutamento continuo che avviene all’interno di ciascuna di esse. Il cambiamento è dovuto alla facoltà di avere rappresentazioni che Leibniz distingue in percezioni, appetizioni e appercezioni. Queste ultime sono proprie delle monadi la cui anima è dotata di ragione. Tutte le monadi presenti nell’Universo sono dotate di percezioni, ma alcune monadi sono dominanti rispetto ad altre e ciò

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SINTESI CAPITOLO 10

Gottfried Wilhelm Leibniz capitolo 10 dipende dal grado delle rappresentazioni sempre più distinte e sempre più estese che le monadi producono al loro interno. La base materiale del mondo deriva dalla vita spirituale delle monadi: infatti la materia prima della percezione non è esterna alla monade, ma è la sua stessa «potenza passiva primitiva», il lato oscuro e nascosto della sua forza ed energia. N el momento in cui una pluralità di monadi si aggrega a formare un composto, si forma una materia seconda, che costituisce un ente per aggregazione e può consistere o in un semplice accumulo di parti, oppure nell’organizzazione delle singole parti attorno a una monade dominante. Un nesso essenziale lega tra loro il singolo individuo e la totalità del mondo, avendo Dio creato il mondo come un insieme connesso e reciprocamente adattato di corpi viventi. Perciò non solo il creatore, ma anche ogni monade creata è infinita al suo interno. Il problema di Descartes relativo all’«unione o conformità dell’anima e del corpo organico» è risolto da Leibniz in virtù dell’armonia prestabilita tra tutte le sostanze: Dio ha sincronizzato i due orologi fin dal principio della creazione, in modo tale che ad ogni moto dell’anima corrispondesse un moto o un insieme di moti del corpo, e viceversa. La dinamica del conoscere. Nella teoria della conoscenza Leibniz condivide la posizione della scuola nominalistica: gli universali non sono cose, ma puri nomi; in quanto tali essi costituiscono solo delle entità mentali, ed esistono soltanto negli enti singolari. Per Leibniz le idee consistono nella facoltà di pensare a qualcosa. Tale facoltà è una disposizione naturale della nostra mente e si connette con la disposizione della cosa conosciuta, attraverso dei segni. Un’idea della nostra mente può dunque esprimere la cosa a cui si riferisce, perché già

nella cosa si esprime a suo modo l’Universo intero; e così i segni mediante i quali noi conosciamo possono esprimere le diverse realtà, perché ognuna è strutturata come un processo che esprime a sua volta la totalità. I gradi della conoscenza umana sono: la conoscenza oscura, cioè una nozione che non è sufficiente a far riconoscere la cosa rappresentata; la conoscenza chiara, cioè quella che consente di riconoscere la cosa rappresentata. Questa può essere, a sua volta, confusa o distinta: chiara e confusa, quando non si è in grado di enumerare tutti i caratteri sufficienti a distinguere una cosa dalle altre; chiara e distinta è una nozione di cui si conoscono le caratteristiche che distinguono una cosa rispetto a tutte le altre cose simili ad essa. N elle nozioni composte, se tra le caratteristiche che rientrano a comporre tale nozione ve ne sono alcune chiare e confuse, si ha una conoscenza inadeguata; se invece tutto ciò che entra in una notizia distinta è a sua volta conosciuto distintamente, si ha una conoscenza adeguata. La conoscenza perfetta è quella intuitiva, relativa alle nozioni primitive totalmente chiare e distinte; la conoscenza simbolica riguarda nozioni molto complesse. Attraverso un confronto serrato con la gnoseologia di Locke, Leibniz scrive i N uovi saggi sull’intelletto umano (1704): egli condivide la tesi dell’empirismo secondo cui non vi può essere nulla nell’intelletto che prima non sia passato dai sensi, ma l’intelletto stesso possiede una propria spontaneità rispetto alla passività dei sensi. I dati dell’esperienza dipendono quindi da ragioni e verità a priori. Egli paragona l’anima ad un blocco di marmo e le verità presenti in essa alle venature che prefigurano l’immagine che ne verrà ricavata dallo scultore. La soluzione di Leibniz al problema dell’origine delle idee è mediana tra quella empirista e quella innatista: egli ammette l’esi-

stenza di idee e verità innate in senso virtuale, considerando “attuali” solo le nozioni acquisite per esperienza. Dio, la possibilità del male, la finalità del mondo. Per Leibniz l’esistenza di Dio può essere dimostrata a priori: egli parte dal concetto di perfezione e, dopo aver dimostrato che «tutte le perfezioni sono compatibili tra loro», conclude che «il soggetto di tutte le perfezioni, cioè l’essere perfettissimo» esiste perché l’esistenza è compresa nel novero delle perfezioni. La dimostrazione poggia, cioè, sul concetto di possibile: se è possibile pensare un ente che esista in virtù della sua stessa essenza, allora si dovrà concludere che esso sarà necessariamente esistente. Alla nozione di possibilità si rifà anche la dimostrazione a posteriori: ogni realtà possibile ha «la pretesa di esistere»; ora tra le infinite combinazioni e le possibili successioni dei possibili che possono realizzarsi in un tempo e in un luogo del mondo, accade sempre quella per cui si avrà il massimo della perfezione. Nei Saggi di teodicea sulla bontà di Dio, la libertà dell’uomo e l’origine del male (1710) Leibniz afferma che Dio sceglie il mondo che deve passare dalla possibilità all’esistenza in base alla regola del meglio, realizzando il migliore fra i mondi possibili. Ma se questo è vero, come si spiega il male nel mondo? Esso dipende dalla libertà umana nel senso che Dio non vuole la realizzazione del male, ma permette soltanto un mondo in cui esso sia possibile. Il male non consiste in una realtà o in una sostanza, ma solo in una privazione d’essere, e quindi non ha una causa efficiente, ma solo una causa deficiente. Il male metafisico consiste nella semplice imperfezione derivante dalla finitezza delle creature; il male fisico consiste nella sofferenza; infine il male morale consiste nel peccato, l’unico male di cui l’uomo sia direttamente responsabile.

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BIBLIOGRAFIA Fonti

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G.W. Leibniz, Monadologia, in Scritti filosofici, trad. di M. Mugnai e E. Pasini, 3 voll., Utet, Torino 2000, vol. III (ma anche Monadologia. Causa Dei, trad. di G. Tognon, Laterza/Collezione scolastica, Roma-Bari 1992). G.W. Leibniz, Princìpi della natura e della grazia, fondati nella ragione, in Scritti filosofici, cit., vol. III. G.W. Leibniz, Saggi di teodicea, in Scritti filosofici, cit., vol. III. G.W. Leibniz, Due lettere a Hermann Conring, in Scritti filosofici, cit., vol. I. G.W. Leibniz, Discorso di metafisica, in Scritti filosofici, cit., vol. I. G.W. Leibniz, Sulla libertà, la contingenza e la serie delle cause, sulla provvidenza, in Scritti filosofici, cit., vol. I. G.W. Leibniz, Dissertazione preliminare al De veris principiis et vera ratione philosophandi di Mario Nizolio, brani tradotti nell’Introduzione di M. Mugnai a Scritti filosofici, cit., vol. I, §§ 2-3. G.W. Leibniz, Carteggio con Antoine Arnauld, in Scritti filosofici, cit., vol. I. G.W. Leibniz, Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, in Scritti filosofici, cit., vol. I. G.W. Leibniz, L’origine radicale delle cose, in Scritti filosofici, cit., vol. I. G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, in Scritti filosofici, cit., vol. II. G.W. Leibniz, L’ente perfettissimo esiste, in Scritti filosofici, cit., vol. I. G.W. Leibniz, Sulla dimostrazione cartesiana dell’esistenza di Dio del R.P. Lamy, in Scritti filosofici, cit., vol. I.

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• G.W. Leibniz, Ventiquattro tesi metafisiche, in Die philosophischen Schriften, a cura di C.I. Gerhardt, Hildesheim, Olms 1961-62, vol. VII.

Opere La prima opera pubblicata da Leibniz è: G.W. Leibniz, Disputazione metafisica sul principio di individuazione, trad. di G. Aliberti, testo latino a fronte, Levante, Bari 1999.

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Una selezione di scritti sulla logica è raccolta in: G.W. Leibniz, Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità e altri scritti di logica, trad. di Massimo Mugnai, Edizioni della Normale, Pisa 2008.

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I documenti della famosa discussione sulla scoperta del calcolo infinitesimale sono raccolti in: La disputa Leibniz-Newton sull’analisi, a cura di G. Cantelli, Bollati Boringhieri, Torino 2006.

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Una raccolta di scritti sul linguaggio è offerta in: G.W. Leibniz, L’armonia delle lingue, trad. di S. Gensini e T. De Mauro, Laterza, Roma-Bari 1995.

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Studi critici Il profilo più completo per farsi un’idea dei molteplici interessi, delle svariate occupazioni e dei diversi campi del sapere che Leibniz ha attraversato, sempre lasciando un segno, è quello di: M.T. Liske, Leibiniz, il Mulino, Bologna 2007.

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Sulla biografia si può vedere:

• E.J. Aiton, Leibniz, Il Saggiatore, Milano 1991. Per un primo approccio ai problemi fondamentali del pensiero leibniziano resta molto utile anche l’agile volume di: V. Mathieu, Introduzione a Leibniz, Laterza, Roma-Bari 20089.

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Ma per allargare il quadro storico e filosofico si suggerisce soprattutto lo studio di: M. Mugnai, Introduzione alla filosofia di Leibniz, Einaudi, Torino 2001.

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Un classico profilo di Leibniz, scritto da un famoso logico e matematico del Novecento, Bertrand Russell, in cui si può vedere anche un esempio del profondo influsso avuto dal filosofo sul pensiero successivo, è: B. Russell, La filosofia di Leibniz, Longanesi, Milano 1987.

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Sul pensiero teologico si veda il volume di: • D. Poma, Impossibilità e necessità della teodicea: gli Essais di Leibniz, Mursia, Milano 1995. Sul ruolo rilevante svolto nel pensiero leibniziano dall’idea di calcolo e dalla sua innovativa elaborazione: E. Pasini, Il reale e l’immaginario: la fondazione del calcolo infinitesimale nel pensiero di Leibniz, Sonda, Casale Monferrato 1993.

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Un’affascinante interpretazione del pensiero leibniziano sotto il segno della “piega”, vista come l’emblema dell’epoca barocca è stata proposta da: G. Deleuze, La piega. Leibniz e il Barocco, Einaudi, Torino 2004.

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ESERCIZI

Gottfried Wilhelm Leibniz capitolo 10 1. In che cosa consiste la cifra barocca del pensiero di Leibniz? (max 8 righe) 2. Nella Disputazione metafisica sul principio di individuazione Leibniz affronta il problema del rapporto tra l’intelligibilità di una cosa e la cosa nella sua singolarità. Tale questione era già stata trattata da filosofi precedenti. Collega il filosofo alla soluzione corrispondente: Duns Scoto Leibniz Tommaso Per …………………… il principio di individuazione delle realtà corporee consiste nella quantità di materia contrassegnata. Per …………………… il principio di individuazione è ciò che fa di un sinolo questo sinolo. Per …………………… il principio di individuazione consiste nell’entità completa di materia e forma.

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3. Qual è l’errore memorabile di Descartes che consente a Leibniz di fondare il meccanicismo sulla metafisica della natura? (max 8 righe) 4. Associa ad ogni proposizione il principio che ne spieghi la necessità logica: “Bruto ha ucciso Cesare” ................................................; “la somma degli angoli interni di un triangolo è uguale a 180°” ..............................................................................; “la lava è incandescente” ................................................; “la lava scende lungo il fianco destro del vulcano”......... ........................................................................................; “il vento soffia” ...............................................................; “il fuoco brucia” ............................................................. . 5. Esplicita in un breve testo in che modo i predicati si possono attribuire a un soggetto, spiegando la differenza tra i tre princìpi della logica di Leibniz (max 15 righe). 6. Illustra le due modalità con cui Leibniz spiega la ragione sufficiente attraverso cui eventi contingenti ineriscono al soggetto, utilizzando i seguenti concetti: necessità assoluta, necessità ipotetica, regola dell’ottimo, compossibile, incompossibile, analisi infinita (max 15 righe).

Per Leibniz la .......................................... ha rapporti con l’............................................. solo a partire dal proprio ............................... . L’attività della .............................. è la ................................ . La semplice ............................... delle cose esterne è detta ...........................; la capacità che una ..................................... ha di passare da una .......................... all’altra è detta .................................. . Se, infine, la monade ha .......................................... delle proprie ......................................... vuol dire che è dotata di .................................................... . 10. Il problema del rapporto tra anima e corpo è stato affrontato, con soluzioni diverse, da Descartes, Malebranche e Leibniz. Individua l’autore corrispondente a ciascuna soluzione proposta: a. Anima e corpo si influenzano a vicenda perché pur essendo separabili costituiscono un’unione sostanziale. ............................ b. Anima e corpo sono regolati da un intervento divino occasionale. .................................. c. Fin dall’origine della creazione i due ordini di realtà sono regolati in modo identico. .................................. 11. Qual è la correzione di Leibniz alla concezione della conoscenza della scuola nominalistica? (max 8 righe) 12. Descrivi in un breve testo l’origine delle idee per Leibniz utilizzando tutte le espressioni seguenti: disposizione della cosa, facoltà di pensare a qualcosa, espressione, disposizione della mente (max 15 righe). 13. Considerando lo schema sui gradi della conoscenza a p. 210, elabora un breve testo che riassuma la teoria della conoscenza di Leibniz (max 15 righe). 14. Esplicita la differenza tra verità a priori, verità a posteriori e verità eterne (max 8 righe). 15. Dopo aver esplicitato la differenza tra l’empirismo e l’innatismo tradizionali, esponi in che modo Leibniz rivisita tali concezioni in una sintesi originale (max 15 righe).

8.Descrivi le principali caratteristiche della monade (max 8 righe).

16. Nei Saggi di teodicea Leibniz risponde al problema sollevato dal razionalista scettico Bayle ammettendo, da un lato, la possibilità di giustificare la presenza del male con la ragione e, dall’altro, confermando la fede. Riproponi in un breve testo la sua soluzione, utilizzando i seguenti concetti: ragione, miracoli, verità eterne, fede, necessità fisica, necessità geometrica, verità positive (max 15 righe).

9. Completa il seguente testo inserendo i seguenti concetti (un medesimo concetto può essere usato più volte): appetizione percezione coscienza appercezione monade rappresentazione interno esterno

17. «Se Dio esiste, da dove viene il male?» Esponi in un breve testo la risposta di Leibniz a questa domanda, chiarendo la differenza tra male metafisico, male fisico e male morale (max 15 righe).

7. Spiega quale nesso esiste per Leibniz fra il problema delle verità di fatto e l’analisi infinita (max 8 righe).

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Nell’orizzonte del cartesianesimo

1 Il canone cartesiano Già dalla sua prima apparizione, la filosofia di Descartes [ 8] aveva assunto la fisionomia di un vero e proprio orizzonte problematico, un ambito di discussione filosofica che si affiancava e progressivamente sostituiva quell’orizzonte secolare della tradizione filosofica che era stato il sistema aristotelico nella sua versione scolastica. Con Descartes si definisce infatti una nuova idea di razionalità, un nuovo modello di filosofia e un nuovo paradigma concettuale, con cui tutti in qualche modo devono fare i conti, i seguaci come gli avversari. In una parola, la filosofia cartesiana diviene ben presto il “canone” dell’intera filosofia moderna, non nel senso che tutti la pensino come Descartes – anzi, i grandi filosofi contemporanei e successivi lo contesteranno su diversi punti – ma nel senso che il suo

pensiero diviene il metro di giudizio e il paradigma di riferimento di tutti gli altri sistemi, anche di quelli opposti al suo. La centralità dell’io nella costituzione del sapere, il metodo dell’evidenza come criterio di verità, la riduzione del mondo naturale ad estensione meccanica, la negazione delle cause finali e delle forme sostanziali sono tesi che hanno fatto storia tra il XVII e il XVIII secolo. Ma più ancora di queste singole tesi, la colorazione cartesiana del pensiero moderno si manifesta nel fatto che d’ora in avanti la conoscenza umana è intesa soprattutto come conoscenza di idee. Nessuno, dopo Descartes, metterà in discussione l’identificazione dell’oggetto immediato della conoscenza nell’idea: questa tesi costituirà il punto di partenza della ricerca di tutti coloro che dopo di lui si occuperanno del problema gnoseologico. Nonostante il suo grande influsso, tuttavia, la filosofia di Descartes incontrò non pochi ostacoli, suscitando sempre discussioni, dissensi e

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scandali, sempre contesa tra sostenitori entusiasti e detrattori accaniti. N ata fuori dal mondo accademico, inoltre, la sua circolazione fu pesantemente ostacolata proprio dalle istituzioni universitarie, ancora molto legate alla tradizione aristotelico-scolastica (già nel 1656, per esempio, essa fu messa al bando nelle Province Unite dei Paesi Bassi).

2 Giansenisti, libertini, “moderni” La Francia del Seicento – un’età che non a caso viene definita “cartesiana” – è attraversata da tendenze intellettuali ed esperienze spirituali che nei loro intrecci e ancor più nei loro contrasti la

Caravaggio, La vocazione di san Matteo, 1598 [Cappella Contarelli, San Luigi dei Francesi, Roma] Il fascio di luce che invade la scena permette di svelare il gesto di Cristo, che – emergendo dal fondo misterioso, come dal nulla –

rendono in qualche modo unica. Potremmo paragonarla a un dipinto – di quelli caravaggeschi che hanno fatto scuola proprio nella pittura secentesca europea – in cui la luce rende visibili le cose e i volti facendoli emergere dall’ombra velata o dal buio densissimo dello sfondo, dove l’oscurità non è soltanto mancanza di luce, ma è appunto il luogo misterioso in cui la realtà viene illuminata. Il punto è: da dove proviene questa luce? Essa è solo la forza naturale dell’intelligenza, come dicono i razionalisti cartesiani, oppure è l’illuminazione che viene da Dio, come dicono i metafisici cristiani, anch’essi tuttavia nel nome di Descartes? E cos’è quest’ombra? È solo l’ignoranza o la confusione dello spirito non ancora illuminato dalla luce dell’intelligenza, o la finitudine e la miseria della condizione umana, che solo la grazia divina può superare?

indica Matteo e lo chiama, e permette a quest’ultimo di distogliersi dalle sue occupazioni e di essere illuminato – o rivelato – a sé stesso. La luce è dunque il significato che fa emergere le cose dal buio, e le staglia nella loro verità. È la grazia che svela la ragione delle cose.

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Per comprendere queste due tendenze, apparentemente opposte, ma in realtà complementari e dialetticamente congiunte tra loro, volgiamo lo sguardo a due correnti di pensiero che lasciano la loro impronta inconfondibile nella vita intellettuale francese del XVII secolo: il giansenismo e il libertinismo.

2.1 Il giansenismo a Port-Royal “Giansenismo” è il nome di una corrente teologica e religiosa sorta in Francia – all’interno del cattolicesimo ma sempre avversata e condannata dalla Chiesa ufficiale – sotto l’influenza del teologo olandese Cornelius Jansen o Giansenio (1585-1638), studioso dei Padri della Chiesa, docente di esegesi all’Università di Lovanio e infine vescovo cattolico di Ypres, in Belgio. Le idee fondamentali cui si ispira questa corrente sono contenute nell’opera Augustinus di Giansenio, pubblicata postuma nel 1640. Tutto gira attorno al rapporto tra la libertà umana e la grazia divina. Secondo Giansenio (che in questo riprendeva la posizione di Michele Baio, anch’egli docente di esegesi a Lovanio cinquant’anni prima) la natura umana è irrimediabilmente decaduta dopo il peccato originale, in maniera talmente radicale che il libero arbitrio dell’uomo, lasciato a sé stesso, non può far altro che peccare. Anche la grazia che Dio aveva infuso nell’uomo al momento della creazione, perché egli potesse seguire la volontà del creatore, dopo la caduta non è più “sufficiente”, e dunque la salvezza è dovuta solo all’azione della “grazia efficace” che Dio nei suoi imperscrutabili disegni ha deciso di donare ad alcuni predestinati. L’obiettivo polemico di Giansenio era il pelagianesimo (l’eresia risalente all’antico monaco Pelagio), secondo il quale la libertà umana sarebbe di per sé in grado di realizzare la salvezza attraverso un’autonoma decisione di accogliere o non accogliere la grazia e attraverso la capacità morale di compiere opere buone. In particolare agli occhi di Giansenio apparivano semi-pelagiane le posizioni dei gesuiti, soprattutto quelle elaborate nel XVI secolo da Luis de Molina [ 6.3.3], il quale aveva teorizzato che l’uomo è capace di meritarsi la salvezza mediante la sua libera volontà. Di qui discendeva quella teologia “casuistica” tipica

dei gesuiti – e del tutto errata per i giansenisti – secondo cui le responsabilità umane vanno soppesate caso per caso, considerando di volta in volta quello di cui il singolo sarebbe stato capace, ciò che ha fatto e ciò che invece non ha fatto. Per i giansenisti (in questo vicino ai protestanti) la grazia non dipende mai da una qualche capacità umana di realizzarla, anche se l’uomo predestinato può concorrere con le sue buone opere alla salvezza divina: a patto però di ritenere la stessa grazia, e non la libertà umana, l’artefice di queste azioni buone. Per la salvezza, dunque, non serve la volontà dell’uomo, e neanche la sua ragione, ma solo la fede e la memoria della rivelazione storica di Cristo. Il giansenismo si diffuse come movimento – soprattutto negli ambienti dell’alta borghesia intellettuale francese – grazie all’opera di Jean du Verger de la Houranne, abate di SaintCyran (1581-1643), che propagò le idee di Giansenio da Port-Royal, località vicino Parigi e sede di un famoso monastero di suore cistercensi, presso il quale si formò anche un gruppo di laici detto dei “solitari”. Da questo gruppo emergeranno figure importanti, come il filosofo e scienziato Blaise Pascal [ 11.4-7] e i teologi e logici Antoine Arnauld (1612-1694) e Pierre Nicole (1625-1695). Affonda le sue radici nella tipica sensibilità giansenista anche uno testi più diffusi a livello scolastico, non solo in Francia ma anche in Inghilterra, fino al XIX secolo, ossia la Logica o arte di pensare, apparsa anonima nel 1662, ma scritta da Arnauld e Nicole e nota semplicemente come Logica di Port-Royal. Il principio di fondo di quest’opera è che la ragione umana è una facoltà che va educata ad esercitarsi in modo rigoroso, giacché il “buon senso” diffuso ugualmente in tutti gli uomini, di cui aveva parlato Descartes, lasciato a sé stesso rischia di non saper come raggiungere la conoscenza del vero. La logica non dev’essere più intesa – secondo quanto affermava la tradizione aristotelica e scolastica – solo come lo studio delle leggi formali del ragionamento o sillogismo, o come una semplice definizione dei termini linguistici di cui consta il discorso scientifico (come generi e specie), bensì soprattutto come un “metodo” per pensare bene, e quindi come un procedimento corretto e tecnicamente controllato per poter discernere il vero dal falso, non solo ad un puro livello teoretico, ma anche a livello della vita pratica. In altre paro-

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autoverifica

le, la logica è «l’arte di ben condurre la propria ragione nella conoscenza delle cose, per istruire sia sé stessi che gli altri», e cioè non solo studio delle forme astratte, ma del modo in cui esse ci conducono alla verità. La riuscita di tale procedimento dipende da come si compiono le operazioni fondamentali dell’intelletto umano, vale a dire il percepire (o conoscenza delle cose mediante le idee), il giudicare (enunciare un predicato di un soggetto), il ragionare (argomentare sulla validità dei giudizi tramite i sillogismi) e l’associare (connettere tra loro diverse proposizioni in riferimento alle cose). La logica dunque permette di verificare in maniera rigorosa la corrispondenza tra quello che pensiamo e come lo pensiamo, e più in particolare tra il pensiero e il linguaggio: problema quest’ultimo a cui Arnauld (in collaborazione con Claude Lancelot) aveva già dedicato una Grammatica generale e ragionata (1660), detta anch’essa Grammatica di Port-Royal, in cui si mostra che, al di sotto delle regole grammaticali tipiche delle diverse lingue, vi sono strutture universali del discorso che dipendono direttamente dalle strutture logiche del nostro pensiero. 1. Quale dottrina della grazia propugna il giansenismo? a. La grazia elargita all’atto della creazione è sufficiente a far guadagnare all’uomo la salvezza. b. L’uomo è in grado di salvarsi con le sue sole forze. c. L’efficacia dell’azione salvifica dipende dalla capacità umana di assecondarla. d. La grazia è efficace per far guadagnare all’uomo la salvezza.

2.2 Il libertinismo erudito Dall’altra parte rispetto ai giansenisti, sul campo di battaglia delle idee e delle tendenze filosofiche, stanno i libertini; e sebbene a prima vista sembrerebbe che tra i due fronti vi sia solo inimicizia, essi in realtà condividono alcune idee di fondo. Più che una vera e propria corrente di pensiero, il “libertinismo” è una mentalità o una concezione culturale invalsa negli ambienti intellettuali francesi – e più in particolare nei circoli aristocratici parigini – che accomunava filosofi, letterati e artisti in una condivisa critica alle forme e ai valori della tradizione religiosa, morale e filosofica.

Questi autori, chiamatisi libertini, si concepivano appunto come liberti, gli schiavi dell’età antica che conquistavano la libertà dopo una lunga soggezione: e così appariva ai loro occhi soprattutto la religione cattolica, potentemente riaffermata nella sua ortodossia teologica e nella sua organizzazione ecclesiastica dopo l’età della Controriforma, e la filosofia scolastica, che sembrava veicolare nelle formule aristoteliche un sapere ormai vetusto e inutile alla vita, a fronte delle novità del cartesianesimo e della scienza sperimentale. Superato il filtro teologico e scolastico, i libertini “eruditi” intendono ritornare – in nome di una piena libertà di pensiero e con le armi della critica storica – alle fonti pagane della filosofia: la fisica naturalistica di Aristotele, lo scetticismo di Pirrone, l’atomismo di Democrito ed epicureo, l’etica razionalista degli stoici. La battaglia culturale condotta dai libertini in nome dell’autonomia della ragione e del ripudio dell’autorità – che verrà poi ripresa, quasi senza soluzione di continuità, dall’Illuminismo del XVIII secolo [ 17] – in alcuni casi conduce alla negazione dell’esistenza di Dio e alla delegittimazione della fede, con la conseguente demolizione dell’etica fondata sulla religione; mentre in altri casi porta al tentativo di fondare la stessa fede religiosa sul piano razionale, anticipando così quello che più tardi sarà il contenuto proprio del deismo [ 18.3]. Dal punto di vista teorico quello dei libertini è un pensiero sincretistico, che amalgama cioè concezioni e dottrine, o spunti di esse, di diversa provenienza: dal naturalismo rinascimentale di un autore come Campanella [ 3.5] al pensiero magico ermetico e al panteismo di Bruno [ 3.4], dallo scetticismo di Montaigne [ 1.8] al meccanicismo di Descartes e allo sperimentalismo di Galileo [ 5]. Tra i principali rappresentanti del libertinismo erudito troviamo François de La Mothe le Vayer (1588-1672), autore dei Quattro dialoghi composti a imitazione degli antichi (1630) e dei Soliloqui scettici (1670), nei quali la critica della tradizione sfocia nella professione di uno scetticismo e di un relativismo che lo avvicinano molto a Montaigne. Gli stessi temi, assieme ad una forte attenzione al fatto storico e al valore documentario delle testimonianze, ricorrono nel pensiero di Gabriel N audé (1600-1653), autore di un’Apologia di tutti i grandi personaggi falsamente sospettati di magia (1625) e anticipatore per molti versi

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del pensiero illuminista quale si troverà codificato per esempio in Pierre Bayle [ 19.1.1]. L’autore libertino più celebre è però Hector Savinien de Cyrano (1619-1655), noto come Cyrano de Bergerac, scrittore di romanzi fantastici di tono filosofico – Gli Stati e gli imperi della Luna e Gli Stati e gli imperi del Sole, pubblicati postumi rispettivamente nel 1657 e nel 1662. In lui le voci degli atomisti antichi e di Lucrezio assieme a quelle provenienti dal rinascimento italiano (specialmente Pomponazzi:  1.7.1) e dalla fisica moderna vengono a fondersi in una critica serrata e organica all’intera tradizione teologico-metafisica. Come gli altri liberi pensatori, ai quali lo unisce anche un relativismo scettico, Cyrano prende di mira soprattutto la dottrina dell’immortalità dell’anima, l’idea di miracolo, la convinzione che il mondo sia retto dalla provvidenza divina, la tesi della creazione divina del mondo e quella della centralità dell’uomo nell’Universo. Pur minoritario rispetto ai grandi sistemi filosofici, il libertinismo non mancherà di lasciare la sua impronta – soprattutto come atteggiamento culturale delle avanguardie intellettuali – in tutto il XVII e il XVIII, non solo in positivo, ma soprattutto come obiettivo polemico di autori quali Pascal [ 11.6] e Berkeley [ 15.6].

2.3 Moderni versus antichi I filosofi moderni avevano coscienza di sé come “moderni”? Senza dubbio, già dall’epoca umanistica e rinascimentale [ 1] era emersa una precisa consapevolezza del carattere innovativo e antitradizionale del pensiero rispetto soprattutto alla tradizione scolastica. Epistemologi come Bacon [ 5], scienziati come Galileo, filosofi come Descartes avevano inteso sin dall’inizio la propria ricerca come una rottura rispetto al passato, in cui non più il principio di autorità ma l’evidenza delle ragioni e le prove dei fatti valevano come criterio di misura; non più il grande tesoro della tradizione ma l’avanzamento progressivo del sapere diventavano l’ideale del pensiero. Ma è nel XVII secolo – soprattutto in ambienti letterari, prima in Italia, poi in Francia e in Inghilterra – che diventa canonico il significato di “moderno” in senso valutativo: d’ora in poi ciò che è moderno viene concepito come

altro rispetto a ciò che è tradizionale e viene giudicato, quasi per definizione, migliore di quest’ultimo. Essere “moderni” acquista così un significato programmatico: non è più una constatazione cronologica, ma un obiettivo da perseguire e da costruire. Il documento più significativo nella formazione di questo canone del moderno è la cosiddetta “Disputa degli antichi e dei moderni” svoltasi in Francia nella seconda metà del Seicento: essa vide contrapporsi da un lato letterati e filosofi di spicco (come Racine, La Fontaine e Arnauld) che ritenevano l’Antichità un modello di perfezione compiuto e ineguagliabile, che si può soltanto imitare, e dall’altro autori come Charles Perrault (1628-1703) e Bernard le Bovier de Fontenelle (1657-1757) che invece teorizzavano l’oggettiva superiorità dei tempi presenti rispetto agli antichi. Quando Perrault – il celebre autore di favole – nel poema Il secolo di Luigi il Grande (1687) canta la Francia a lui contemporanea come l’apice del progresso inarrestabile dell’umanità, avviato con il Rinascimento e culminato nel regno trionfante di Luigi XIV, tematizza anzitutto il fatto che gli uomini antichi non sono affatto irraggiungibili nella loro perfezione: non solo si possono comparare tra loro, senza soggezione di sorta, il secolo di Augusto a quello del Re Sole, ma si può vedere che il succedersi dei tempi dal primo al secondo ha portato necessariamente ad un avanzamento positivo dell’umanità. Alle polemiche suscitate da questa sua posizione presso i difensori della cultura antica, Perrault rispose con un Parallelo tra gli antichi e i moderni (1688) in cui teorizzava che i moderni – al pari degli uomini più avanti con l’età – sono necessariamente più esperti e più saggi dei giovani, cioè degli antichi: «Leggete i giornali di Francia e d’Inghilterra, le pubblicazioni delle accademie e vi renderete conto che negli ultimi venti o trent’anni si sono fatte più scoperte nella scienza della natura che in tutto il periodo dell’Antichità. […] Gli ultimi venuti hanno raccolto l’eredità dei loro predecessori e hanno aggiunto a essa un gran numero di nuove acquisizioni dovute al loro lavoro e alla loro faica» [Parallelo tra gli antichi e i moderni]. Sarà poi Fontenelle, con la sua Digressione sugli antichi e sui moderni (1688) ad esplicitare in maniera definitiva il nesso tra “modernità” e “progresso”: il fatto stesso di venire dopo altre

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epoche significa che le conoscenze si accrescono, la ragione si perfeziona sempre di più e la cultura può progredire senza potersi mai arrestare. Il criterio di giudizio non è più la verità delle conoscenze ma la loro evoluzione, e il procedere delle epoche è una marcia inarrestabile verso il meglio. La modernità non è più dunque un concetto storico-cronologico ma un giudizio filosofico, non più l’indicazione del tempo presente ma il destino del pensiero. Sarà poi l’Illuminismo a rilanciare e radicalizzare questo concetto di progresso [ 19.6].

1. Nella “Disputa degli antichi e dei moderni” quanti sostenevano l’oggettiva superiorità dei tempi presenti rispetto agli antichi facevano ricorso alle seguenti argomentazioni: a. la constatazione che i moderni hanno accumulato più esperienze degli antichi. V V b. lo sviluppo evolutivo delle conoscenze. c. la veridicità delle conoscenze attuali. V d. l’identificazione della modernità con il progresso. V

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3 Gassendi Molto vicina per certi versi al pensiero dei libertini – tanto che essi vi troveranno una fondazione delle loro convinzioni – la filosofia di Pierre Gassendi se ne allontana però per altri versi, giacché non solo non li segue nella distruzione del contenuto dottrinale della fede e dell’etica cristiana, ma anzi cerca di conciliare tra loro la critica alla filosofia scolastica, le acquisizioni della scienza moderna, una visone atomista del mondo fisico e le verità della fede cristiana. Gassendi nasce a Champtercier, in Provenza, il 22 gennaio 1592. Dopo aver conseguito il dottorato in teologia viene ordinato sacerdote nel 1616 e insegna filosofia all’Università di Aix-en-Provence sino al 1622. Influenzato dal pensiero rinascimentale e dalle acquisizioni della nuova scienza, matura una profonda avversione nei confronti della filosofia scolastica di ascendenza aristotelica. Dopo aver compiuto alcuni viaggi in Olanda e in Inghilterra ed

aver ricoperto la carica di canonico della Cattedrale di Digne, a partire dal 1645 è chiamato a insegnare matematica ed astronomia presso il Collegio Reale di Parigi, dove morirà il 24 ottobre 1655.

3.1 La critica della tradizione scolastica Non si può intendere la filosofia di Gassendi al di fuori della sua ferma opposizione alla filosofia aristotelico-scolastica, di cui sono testimonianza le Esercitazioni in forma di paradossi contro gli aristotelici del 1624. Della Scolastica Gassendi critica soprattutto il metodo: la conoscenza non può essere intesa come una deduzione a partire da definizioni date, e cioè come il risultato di un mero ragionamento sillogistico, bensì va fondata sull’esperienza, sull’osservazione empirica di ciò che appare concretamente. L’oggetto della conoscenza umana è il fenomeno sensibile, e al di là di esso la mente non ha alcun potere conoscitivo. Questo porta Gassendi a contestare la pretesa scolastica di sviluppare una scienza delle essenze: non avendo noi alcuna conoscenza diretta di ciò che sta sotto i fenomeni, delle essenze potremmo avere solo una conoscenza nominale e vuota. Il che non significa che al di là delle apparenze sensibili non si diano sostanze, ma solo che esse non sono conoscibili da noi. Si opera così il passaggio da un modello di conoscenza essenzialmente basato sulle categorie della metafisica – quello che Aristotele chiamava un “sapere attraverso le cause” – ad un modello noetico, quello dell’osservazione e dell’esperienza, che è l’unico che possa garantire all’uomo una conoscenza feconda ed efficace del mondo esterno. Anche Gassendi tuttavia fonda questa sua scelta gnoseologica su un fondamento squisitamente metafisico. Che la mente umana non possa accedere alla conoscenza delle essenze dipende secondo lui dal fatto che le essenze delle cose possono essere conosciute solo da chi le ha fatte, cioè da Dio, mentre l’uomo deve limitarsi a registrare la serie delle loro apparizioni empiriche concrete. Quello che invece all’uomo è dato di conoscere essenzialmente sono le cose che egli stesso produce, cioè gli artefatti, ma anche ciò che egli riesce a scomporre e a ricomporre mentalmente, come accade nel caso della matematica.

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parte II L’orizzonte cartesiano e i nuovi sistemi della metafisica razionalistica 1. L’empirismo radicale di Gassendi suggerisce che: a. la conoscenza delle essenze è esclusiva di Dio. b. la conoscenza delle essenze è possibile anche all’uomo. c. le essenze non esistono. d. la conoscenza umana è confinata nel campo della matematica e degli oggetti artificiali.

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3.2 Gassendi e Descartes Anche Descartes, agli occhi di Gassendi, finisce per ricadere nella concezione essenzialista della conoscenza propria della Scolastica. Venuto in possesso delle Meditazioni sulla filosofia prima per il tramite di Marino Mersenne, Gassendi redige le Quinte Obiezioni, che saranno pubblicate, con le risposte di Descartes, nella prima edizione dello scritto cartesiano [ 8.5.2]; ma alle risposte di Descartes, Gassendi replicherà ancora con la pubblicazione di una monumentale Disquisizione metafisica, ossia dubbi e repliche contro la metafisica cartesiana (1644). La prima notazione critica riguarda il cogito: secondo Gassendi, Descartes sarebbe passato indebitamente da una concezione del pensiero come operazione dell’io (cogito/cogitatio) alla posizione di una sostanza pensante (res cogitans) intesa come fondamento o sostrato di quella operazione. In altri termini, egli avrebbe commesso lo stesso errore degli scolastici, ammettendo – al di là di ciò che appare – l’esistenza di forme sostanziali o essenze inconoscibili. Ma in linea con la sua idea di conoscenza empirica, Gassendi critica anche il fatto che secondo Descartes nella nostra mente vi siano delle idee innate, cioè non provenienti dai sensi, e che sulla base di una di esse – l’idea di Dio come essere infinito – si possa addirittura dimostrare la stessa esistenza di Dio. Si tratta per Gassendi di una conclusione inammissibile, per il fatto che la mente umana è limitata alla sola conoscenza di ciò che finito, e che l’infinito è ricavabile solo attraverso una negazione del finito.

3.3 La ripresa dell’atomismo Basata su un empirismo radicale, che individua nella percezione sensoriale delle cose l’unica fonte del conoscere, la filosofia di Gassendi

vuol essere quindi una filosofia antidogmatica, antiscolastica e antimetafisica. Strettamente connesso con questo programma, è il recupero da parte sua dell’atomismo antico. In particolare, nel pensiero di Epicuro egli trova i fondamenti di una gnoseologia basata sull’immediata evidenza dell’esperienza e una fisica coerente con il meccanicismo assai diffuso al suo tempo e che egli stesso condivideva nelle sue linee essenziali. N e sono testimonianza scritti come La vita e i costumi di Epicuro, del 1647, e il Trattato filosofico del 1658. Nel pagano Epicuro, tuttavia, Gassendi trovava anche la tendenza a negare qualsiasi principio trascendente che non fosse riducibile alla materia. Per questa ragione, il recupero e la restaurazione dell’atomismo epicureo si accompagna in lui al tentativo di correggere la filosofia materialista – che Gassendi, uomo di fede, non poteva condividere – al fine di renderla compatibile con la verità cristiana. Così, se per Epicuro gli atomi (cioè le particelle indivisibili di materia che si muovono nel vuoto) sono ingenerabili e incorruttibili, quindi eterni, per Gassendi essi dipendono invece dall’atto creativo di Dio, che conserva il potere di annientarli, anche dopo la creazione. Lo stesso vale anche per il loro movimento: se Epicuro lo considerava eterno, Gassendi non può che farlo dipendere da Dio, dal quale esso viene impresso originariamente a tutti gli atomi. E questa dipendenza da Dio non riguarda soltanto l’origine e il moto dell’Universo, ma anche la sua finalità: così, laddove Epicuro riduceva l’ordine dei fenomeni naturali a leggi meccaniche senza scopo, Gassendi coniuga questo stesso meccanicismo – che pure egli condivide – con un finalismo tale per cui è Dio stesso che governa il mondo naturale nella sua totalità, compresi i processi biologici che vi si producono. Da questa considerazione del finalismo della natura, Gassendi ricava anche una dimostrazione dell’esistenza di Dio: dal momento che ogni ordine suppone un ordinatore, è innegabile che Dio esista quale ordinatore del mondo. E per quanto riguarda poi una delle questioni più problematiche all’interno di una concezione atomistica, ma anche tra le più importanti nel contesto del pensiero cristiano, vale a dire l’immortalità dell’anima, Gassendi cercherà di emendare e integrare ancora una volta il pensiero di Epicuro: oltre all’anima sensitiva e vegeta-

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tiva, che resta mortale in quanto costituita di atomi corruttibili, bisogna infatti ammettere anche un’anima intellettiva, che, in quanto immateriale, sia per ciò stesso anche immortale. Dopo aver percorso così una via diametralmente opposta a quella degli scolastici e a quella dello stesso Descartes, Gassendi arriva a riaffermare quello che anch’essi sostenevano: ma ci arriva, appunto, non in virtù di presupposti metafisici, ma in compagnia di Epicuro. Il

razionalismo atomistico si sposa dunque in lui con il fideismo cristiano. 1. Il tentativo di rendere compatibile l’atomismo antico con il cristianesimo si realizza con: a. la tesi che gli atomi non sono eterni. V b. l’esclusione di ogni finalità dalla considerazione dell’Universo. V c. l’introduzione dell’anima intellettiva. V d. l’ipotesi che il movimento sia impresso dall’origine a tutti gli esseri. V

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Blaise Pascal

4 Un pensiero paradossale Nella storia della filosofia moderna il pensiero di Pascal occupa un posto centrale e al tempo stesso eccentrico, e proprio di questa situazione paradossale vive il suo pensiero. Con gli uomini del suo secolo egli condivide un acuto interesse scientifico, la considerazione delle matematiche come modello metodologico della scienza, l’importanza dell’esperienza nell’ambito della ricerca naturale. Al tempo stesso, però, la sua filosofia costituisce anche una reazione e un’alternativa rispetto a questa tradizione, proponendo un modello di razionalità irriducibile a quello promosso dal razionalismo classico. E ciò non tanto perché Pascal non condivida le teorie o le risposte date dai suoi contemporanei alle questioni filosofiche tradizionali, quanto piuttosto perché nel suo pensiero si fanno avanti questioni e domande che, ai suoi occhi, i suoi predecessori non avevano adeguatamente tematizzato o percepito. La questione che più di tutte è stata trascurata, secondo Pascal, è quella riguardante la condizione umana, e