Ritratti a memoria [PDF]

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Zitiervorschau

Questo libro può essere considerato come un’introduzione ai volumi dell’autobiografia di Bertrand Russell, già definita come una delle più importanti del mondo, oppure come un documento che si può soltanto paragonare alle classiche Confessioni di Rousseau. In verità, fin dagli anni della giovinezza, Bertrand Russell è sempre stato conscio di appartenere alla storia e, infatti, tutti i personaggi avvicinati da lui hanno avuto una parte rilevante o nella filosofia o nella letteratura o nella politica del la nostra epoca. Nei suoi Ritratti a memoria egli viene guidato, oltre che da questa visione, da quella di un uomo a cui non sfugge nulla, né l’aneddoto brillante, né la vicenda drammatica, né quelle particolari circostanze che lasciano un segno nel carattere delle persone.

» I

SUPER POCKET « VOLUME 99

(Volume

210

della serie Pocket)

RITRATTI A MEMORIA di

BER TRAND

R USSELL

TRADUZIONE RAFFAELLA

DI

PELLIZZI

LO NGA NESI & MILA'NO

C.

PROPRIETÀ

LETTERARIA

RISERVATA

Longanesi & C., © 1969, 20122 Milano, Via Borghetto, 5 Traduzione dall'originale inglese Portraits from Memory and other Essays di Raffaella Pellizzi

©

George Al/en & Unwm. 1956

ADATTAMENTO: UN'EPITOME

AUTOBIOGRAFICA

PER coloro che sono troppo giovani per ricordare il mondo di prima del 1914, dev'essere difficile immaginare il contrasto, per un uomo della mia età, fra i ricordi infantili e il mondo d'oggi. lo cerco, ma con mediocre successo, di assuefarmi a un mondo di imperi in sfacelo, di comunismo, di bombe atomiche, di emancipazione dell'Asia, d'aristocrazia in rovina. In questo strano e insicuro mondo dove nessuno può sapere se sarà vivo domani, e dove gli antichi Stati svaniscono come bruma mattutina, non è facile, per coloro che in gioventù erano abituati alla solidità di un vecchio mondo, credere che ciò di cui essi stanno ora facendo esperienza sia la realtà e non un effimero incubo. Ben poco sussiste di quelle istituzioni e di quei modi di vita che, quand'ero ragazzo, sembravano non meno incrollabili del granito. Crebbi in un ambiente impregnato di tradizioni. I miei genitori morirono quand'ero troppo piccolo per poterli ricordare, e fui allevato dai nonni. Mio nonno era nato nei primi anni della Rivoluzione francese, ed era già al Parlamento quando Napoleone era ancora imperatore. Come Whig della corrente di Fox, egli riteneva eccessiva l'ostilità inglese nei confronti della Rivoluzione francese e di Napoleone, e visitò l'imperatore esiliato all'Elba. Fu lui che, nel 1832, introdusse la riforma elettorale che avviò l'Inghilterra sulla strada della democrazia. Fu primo ministro durante la guerra messicana e la rivoluzione del 1848. Come tutti nella famiglia Russell, egli ereditò quel tipo particolare di liberalismo aristocratico che caratterizzò la rivoluzione del 1688, nella quale un suo antenato aveva avuto una parte importante. Mi fu insegnata una specie di repubblicanismo teorico che era pronto a tollerare un monarca finché questi riconoscesse di non essere che un impiegato del popolo, soggetto quindi a licenziamento qualora non si dimostrasse soddisfacente. Mio nonno, che non guardava in faccia nessuno, era solito esporre questo suo punto di vista alla regina Vittoria, ma lei non era eccessivamente entusiasta: gli regalò, tuttavia, quella casa di Richmond

4

Park, in cui ho trascorso tutta la mia giovinezza. Assorbii certi princìpi e previsioni politiche, e nell'insieme ho conservato i primi, benché sia stato costretto a respingere le seconde. Ci si doveva attendere in tutto il mondo un progresso bene ordinato, nessuna rivoluzione, una graduale cessazione delle guerre, e un estendersi del Governo parlamentare a tutte quelle sfortunate regioni che ancora non ne godevano. Mia nonna soleva ridere di una conversazione che aveva avuto con l'ambasciatore di Russia: lei gli aveva detto: « Forse, un giorno avrete un parlamento in Russia», ed egli aveva risposto: « Dio ce ne salvi, mia cara Lady John ». L'odierno ambasciatore di Russia potrebbe dare la stessa risposta se solo cambiasse la prima parola. Le speranze di quel periodo sembrano oggi un po' assurde. Ci doveva essere la democrazia, ma si presupponeva che il popolo sarebbe stato sempre pronto a seguire il parere di saggi ed esperti aristocratici. Ci doveva essere la scomparsa dell'imperialismo, ma le razze soggette in Asia e in Africa, che i britannici avrebbero volontariamente smesso di governare, avrebbero imparato i vantaggi di una legislatura a due Camere, composte di Whigs e di Tories in un numero quasi uguale, e avrebbero riprodotto nelle zone tropicali i duelli parlamentari di Disraeli e di Gladstone, che erano nella fase più brillante della loro carriera al tempo in cui io assorbivo i miei pregiudizi politici dominanti. L'idea di una qualunque mancanza di sicurezza della potenza britannica non passò mai per il capo a nessuno. La Gran Bretagna regnava sui mari, e questo era tutto! C'era, è vero, Bismarck, che mi fu insegnato di considerare come un furfante, ma si riteneva che le influenze civilizzatrici di Goethe e Schiller avrebbero preservato i tedeschi dal venire sempre condotti su strade sbagliate da quel barbaro campagnolo. Si ammetteva altresì che c'erano state violenze in un passato non troppo lontano. I francesi, nella loro Rivoluzione, avevano commesso eccessi che bisogna deplorare, mentre si insisteva, allo stesso tempo, che i reazionari li avevano enormemente esagerati, e che essi non ci sareb-

5 bero stati affatto senza la folle ostilità del resto dell'Europa contro le idee progressiste della Francia. Poteva forse anche essere ammesso che Cromwell aveva esagerato nel tagliare la testa al re, ma, in generale, qualsiasi cosa fatta contro il re era da applaudire, a meno che, naturalmente non fosse fatta dai preti, come Becket, nel qual caso si parteggiava per il re. L'atmosfera in casa aveva un carattere di profonda religiosità e di austerità puritana. La famiglia si riuniva in preghiera ogni mattina alle otto in punto. Benché vi fossero otto domestici, il cibo era sempre di una semplicità spartana, e anche quello che c'era, se era appena appena piacevole, era considerato troppo buono per i bambini. Per esempio, se c'era torta di mele e budino di riso, mi era concesso soltanto il budino di riso. Si insisteva che tutto l'anno si dovesse prendere il bagno freddo, e io dovevo esercitarmi al piano ogni mattina dalle sette e mezzo alle otto, benché i caminetti non fossero ancora accesi. Mia nonna non si concedeva mai di sedersi in una poltrona prima di sera. L'alcool e il tabacco eran visti di malocchio, benché una rigida convenzione ci costringesse a servire un po' di vino ag1i ospiti. Solo la virtù era apprezzata, la virtù a scapito dell'intelletto, della salute, della felicità. lo mi ribellai contro questa atmosfera, prima di tutto in nome dell'intelletto. Ero un ragazzo solitario, timido, pedante. Non avevo esperienza dei piaceri sociali dell'infanzia e non ne sentivo la mancanza. Ma mi piaceva la matematica, e la matematica era sospetta, perché priva di ogni contenuto etico. Finii anche col dissentire dalle convinzioni teologiche della mia famiglia, e crescendo m'interessai sempre più alla filosofia che essi disapprovavano profondamente. Ogni volta che l'argomento saltava fuori, essi ripetevano invariabilmente: « Che cos'è lo spirito? Non importa. Che cos'è la materia? Non importa ». 1 Dopo forse cinquanta o sessanta ripetizioni, l'osservazione smise di divertirmi. ' Gioco di parole intraducibile: ve diceva: « Gli uomini di Trattenbach sono malvagi». Gli risposi: « Tutti gli uomini sono malvagi ». Egli replicò: « ~ vero, ma gli uomini di Trattenbach sono più malvagi degli uomini di qualsiasi altro luogo ». Ribattei che il mio senso logico si ribellava a una simile affermazione; e la questione restò insoluta finché egli dopo aver abitato altri luoghi non allargò le sue vedute circa la prevalenza del peccato in un luogo piuttosto che in un altro. Negli ultimi anni della sua vita egli fu professore di filosofia a Cambridge e la maggior parte dei filosofi sia là, sia a Oxford diventarono suoi discepoli. Io stesso sentii molto l'influenza delle sue prime dottrine, ma negli anni seguenti le nostre vedute andarono sempre più divergendo. Lo vidi pochissimo negli ultimi anni della sua vita, ma al tempo in cui lo frequentavo molto egli faceva una grandissima impressione per il fuoco, la penetrazione e la purezza intellettuale che possedeva in misura straordinaria. Un uomo che mi colpì, non tanto per il suo ingegno quanto per la sua capacità di concentrarsi risolutamente nella filosofia, perfino nelle circostanze più ardue, fu l'unico filosofo jugoslavo del nostro tempo, che si chiamava Branislav Petronievic. Lo incontrai una sola volta nell'anno 1917. L'unica lingua conosciuta da entrambi era il tedesco, e fummo costretti a servircene, benché la gente per la strada ci guardasse con sospetto. I serbi avevano effettuato da poco la loro eroica ritirata in massa di fronte ai tedeschi invasori, e io desideravo molto di avere da lui un resoconto di

29 prima mano di questa ritirata; ma egli desiderava soltanto spiegarmi la sua teoria secondo la quale il numero dei punti nello spazio è un numero finito e può essere calcolato per mezzo di considerazioni derivate dalla teoria dei .numeri. Da questa diversità d'interessi risultò una conversazione piuttosto curiosa. Io chiedevo: « Vi siete trovato nella grande ritirata? » ed egli rispondeva: « Sì, ma vedete, il modo di calcolare il numero dei punti neHo spazio è ... » Io dicevo: « Eravate a piedi?>> Ed egli: «Sì, vedete, deve essere un numero primo ». Io insistevo: « Non avete cercato di procurarvi un cavallo? )) e lui: «Sono partito a cavallo, ma caddi, e non dovrebbe essere difficile trovare qualche numero primo ... » Nonostante tutti i miei sforzi, non riuscii a ottenere da lui niente di più su un argomento così futile come la grande guerra. Ammirai la sua capacità di distacco intellettuale dagli avvenimenti della sua esistenza fisica, nella quale mi sembrò che pochi degli antichi stoici avrebbero potuto rivaleggiare con lui. Dopo la grande guerra egli ebbe l'incarico dal Governo del suo paese di curare una magnifica edizione del filosofo jugoslavo del diciottesimo secolo Boscovic, ma che cosa gli sia successo dopo di ciò non ho mai saputo. Questi sono soltanto alcuni degli uomini che hanno avuto un'influenza su di me. Vi sono due uomini che hanno avuto su di me un'influenza anche maggiore. Essi sono l'italiano Peano, e il mio amico G. E. Moore.

III

ESPERIENZE DI UN PACIFISTA NELLA PRIMA GUERRA MONDIALE LA mia vita si è divisa nettamente in due periodi, l'uno prima e l'altro dopo lo scoppio della prima guerra mondiale la quale spazzò via molti dei miei pregiudizi e mi portò a esaminare molti problemi fondamentali. Come molti altri anch'io avevo osservato ·con sgomento il crescente pericolo di una guerra. Ma approvavo la politica dell'Intesa, che avevo sentito difendere per la prima volta nel 1902 da Sir Edward Grey in un ristretto circolo di discussioni del quale facevo parte. La politica dell'Intesa non era stata adottata e Sir Edward Grey non faceva allora parte del Governo, ma ne conosceva le intenzioni e le condivideva. Io protestai risolutamente. Non mi piaceva trovarmi dalla stessa parte della Russia zarista, e non credevo che ostacoli insormontabili rendessero impossibile un modus vi vendi con la Germania del Kaiser. Prevedevo che una grande guerra avrebbe segnato la fine di un'epoca e avrebbe drasticamente abbassato il livello generale della civiltà. Per questi motivi avrei desiderato che l'Inghilterra rimanesse neutrale. La storia successiva mi ha confermato in questa opinione. Durante i caldi giorni della fine di luglio ero a Cambridge, e discutevo la situazione un po' con tutti. Non potevo credere che l'Europa sarebbe stata così folle da gettarsi in una guerra, ma ero convinto che, se vi fosse stata una guerra, l'Inghilterra vi sarebbe stata coinvolta. Raccolsi le firme di un gran numero. di professori e di altri insegnanti che apparvero sotto una dichiarazione in favore della neutralità sul Manchester Guardian. Il giorno della dichiarazione di guerra, quasi tutti costoro cambiarono idea. Ripensandoci, sembra straordinario che non ci si rendesse conto con maggior chiarezza di ciò che sarebbe avvenuto. Passai la sera del 4 d'agosto ad aggirarmi per le

31 strade, specialmente nelle vicinanze di Trafalgar Square, osservando la folla plaudente, e cercando di percepire le emozioni dei passanti. Durante quel giorno e i giorni seguenti scoprii con sorpresa che uomini e donne di tipo medio erano deliziati alla prospettiva di una guerra. Avevo molto amato l'idea, sostenuta dalla maggior parte dei pacifisti, che le guerre siano imposte ai popoli riluttanti da Governi dispotici e machiavellici. Ero tormentato dal patriottismo. I successi dei tedeschi prima della battaglia della Mama mi apparivano spaventosi. Desideravo la sconfitta della Germania con l'ardore di un colonnello a riposo. L'amore per l'Inghilterra è forse il mio più forte sentimento e, per il fatto di metterlo apparentemente da parte in un simile momento, facevo una difficilissima rinuncia. Ciò nonostante, non ebbi mai un momento di dubbio su quanto avrei dovuto fare. Lo scetticismo mi ha a volte paralizzato, in altre occasioni sono stato un cinico e in altre ancora indifferente, ma, quando venne la guerra, fu come se avessi udito la voce di Dio. Sentii che era mio dovere protestare, per quanto futile la protesta potesse essere. Ero impegnato con tutto me stesso. Come amante della verità, la propaganda nazionale di ciascuna delle nazioni belligeranti mi dava la nausea. Come amante della civiltà, il ritorno alla barbarie mi atterriva. Come uomo i cui sentimenti familiari erano stati frustrati, il massacro dei giovani mi straziava il cuore. Non avevo molte speranze che qualche cosa di buono venisse dal far opposizione alla guerra, ma sentivo che per l'onore della natura umana coloro che non erano travolti dalla passione del momento dovevano dare una dimostrazione della propria fermezza. Dopo aver visto treni carichi di truppe partire dalla stazione di Waterloo, avevo strane visioni di Londra come se fosse un luogo irreale. Vedevo con l'immaginazione i ponti crollare e venire sommersi e l'intera metropoli svanire come la nebbia del mattino. Gli abitanti cominciarono a sembrarmi allucinazioni, e mi domandavo se il mondo nel quale credevo di aver vissuto non

32 fosse che un prodotto dei miei incubi febbrili. Simili condizioni di spirito tuttavia non duravano molto e vi poneva termine la necessità di lavorare. Tenni discorsi in molte riunioni pacifiste, generalmente senza incidenti, ma ve ne fu una, in difesa della rivoluzione di Kerenski, più violenta delle altre. Ebbe luogo nella chiesa di Brotherthood, in Southgate Road. I giornali patriottici distribuivano volantini in tutte le osterie dei dintorni (il quartiere è molto povero) ove si diceva che noi eravamo in contatto con i tedeschi e segnalavamo ai loro aerei i luoghi da bombardare. Questo ci rese piuttosto impopolari nel vicinato, e una folla inferocita circondò la chiesa. La maggior parte di noi credeva che ogni resistenza sarebbe stata ingiusta o imprudente poiché alcuni di noi erano convinti fautori della non-resistenza, e gli altri si rendevano conto che eravamo troppo pochi per opporci all'intera popolazione del miserabile quartiere. Alcuni di noi tentarono di resistere: tra di essi Francis Meynell, e lo vidi tornare daHa porta col viso rigato di sangue. La folla inferocita condotta da alcuni ufficiali forzò l'entrata; tutti, eccettuati gli alti ufficiali, erano più o meno ubriachi. Le più feroci erano alcune megere armate di assi di legno piene di chiodi rugginosi. Gli ufficiali per prima cosa tentarono d'indurre le donne ch'erano tra noi a ritirarsi, per poi trattarci nel modo che essi credevano appropriato per i pacifisti, che consideravano tutti vigliacchi. Mrs. Snowden si comportò in questa occasione in maniera davvero ammirevole. Essa rifiutò recisamente di lasciare la sede a meno che non fosse permesso agli uomini di uscire nello stesso tempo. Le altre donne presenti furono d'accordo con lei. Questo fu piuttosto sconcertante per gli ufficiali che capeggiavano la marmaglia, perché non era proprio nei loro piani di assalire le donne. Ma ormai la folla era scatenat::1, e scoppiò un pandemonio. Tutti dovemmo cercar di salvarci alla meglio mentre la polizia osservava con calma. Due megere ubriache mi attaccarono con le loro assi chiodate. Mentre mi chiedevo come ct st potesse difendere da questo tipo di attacco, una delle

33 signore che erano con noi andò dai poliziotti e disse che avrebbero dovuto difendermi. I poliziotti, tuttavia, semplicemente si strinsero nelle spalle. « Ma è un eminente filosofo », disse la signora, e i poliziotti si strinsero ancora nelle spaUe. « Ma è famoso in tutto il mondo come studioso», essa continuò. I poliziotti non si mossero. « Ma è il fratello di un conte», ella gridò alla fine. l poliziotti si precipitarono allora in mio aiuto. Tardi, tuttavia, per essermi di qualche utilità, e devo la vita a una giovane donna che si interpose tra me e le megere finché potei fuggire. Per fortuna ella, protetta dalla polizia, non fu assalita. Ma molti di noi, comprese alcune donne, nell'aprirsi un varco fuori dell'edificio ebbero gli abiti strappati. Il priore della chiesa della Brotherhood era un pacifista di notevole coraggio. Nonostante simili esperienze, m'invitò in una occasione successiva a tenere un discorso nella sua chiesa. Quella volta, tuttavia, la folla inferocita diede fuoco al pulpito e il discorso non fu più tenuto. Furono queste le sole occasioni nelle quali subii violenze personali; tutti gli altri comizi passarono indisturbati. Ma la propaganda giornalistica è così potente che i miei amici non pacifisti vennero a dirmi: « Perché vi ostinate a tenere comizi che vengono sempre mandati all'aria dalla folla? » Per quattro anni e mezzo, nel 1918, sono stato in prigione per propaganda pacifista; ma, per l'intervento di Arthur Balfour, fui messo riel primo reparto, così che durante il tempo trascorso in prigione potei leggere e scrivere a volontà, a patto però di non far propaganda pacifista. La prigione mi sembrò gradevole per molti rispetti. Non avevo impegni, nessuna difficile decisione da prendere, nessuna paura di visitatori, nessuna interruzione nel mio lavoro. Leggevo enormemente; scrissi un libro, Introduzione alla filosofia matematica, e cominoiai il lavoro per l'Analisi del pensiero. Mi interessavano molto i miei compagni di prigione, che mi sembravano moralmente per nessun riguardo inferiori al resto della popolazione, sebbene essi fossero nell'insieme leggermente al disotto del normale li-

34 vello d'intelligenza, come dimostrava il fatto che li avevano presi. Per chi non stia nel primo reparto, e specialmente per una persona che ha l'abito di leggere e di scrivere, la prigione è una punizione severa e terribile; ma per me, grazie ad Arthur Balfour, non fu così. Al mio arrivo fui molto confortato, all'entrata, dal guardiano, il quale doveva scrivere i dati che mi riguardavano. Quando domandò quale religione avessi, risposi: « Agnostico >>. Mi chiese come si scrivesse, e osservò con un sospiro: « Bah! Ci sono molte religioni, ma suppongo che tutte adorino lo stesso Dio )). Questa osservazione mi tenne allegro per quasi una settimana. Usoii dalla prigione nel settembre del 1918, quando era ormai chiaro che la guerra stava per finire. Ma durante quelle ultime settimane, come quasi tutti, fondai le mie speranze su Wilson con i suoi Quattordici Punti e la sua Società delle Nazioni. La fine della guerra fu così improvvisa e drammatica che nessuno ebbe tempo di adattare i propri sentimenti alle nuove circostanze. Appresi la mattina dell'11 novembre, alcune ore prima che la notizia fosse diffusa, che l'armistizio era imminente. Uscii in strada, e diedi la notizia a un soldato belga, che disse: « Tiens, c'est chic! >> Entrai da un tabaccaio e ripetei la notizia alla commessa che mi serviva. « Mi fa piacere)), disse lei, « perché così ora potremo sbarazzarci degli internati tedeschi. >> Alle undici, quando l'armistizio fu annunciato pubblicamente, ero in Tottenham Court. Nel giro di due minuti, tutta la gente dei negozi e degli uffici era scesa per la strada. Si impossessavano degli autobus e li facevano andare dove volevano loro. Vidi un uomo e una donna, del tutto sconosciuti l'uno all'altra, che si incontrarono in mezzo alla strada e, passando, si baciarono. La folla era giubilante, e io pure. Ma rimasi solitario come prima.

IV

DALLA

LOGICA

ALLA

POLITICA

LA prima guerra mondiale mi strappò a viva forza dai miei pregiudizi e mi costrinse a ripensare un gran numero di problemi fondamentali; mi procurò anche una nuova specie di attività, la quale non mi dava quel senso di uggia e di stantio che mi dominava tutte le volte che cercavo di ritornare alla logica matematica. Perciò mi sono abituato a vedere me stesso come una specie di Faust non soprannaturale, per il quale Mefistofele fu rappresentato dalla prima guerra mondiale. Senza mai abbandonare del tutto la logica e b. filosofia astratta, il mio interesse fu preso sempre più dalle questioni sociali, e specialmente dalle cause della guerra e dei possibili modi di prevenirla. Ho trovato che il mio lavoro su questi argomenti era molto più difficile, e molto più povero di risultati, che non il mio precedente lavoro sulla logica matematica: è difficile perché la sua utilità dipende >. Ogni singolo pallino, secondo l'opinione mia di allora, ha confini duri e precisi ed è altrettanto assoluto quanto l'Assoluto di Hegel. Egli aveva professato di poter dimostrare con la logica che il numero, lo spazio, il tempo e la materia sono illusioni, ma io sviluppai una nuova logica che mi consentiva di pensare che queste cose siano altrettanto reali quanto potrebbe desiderarlo un qualunque matematico. Presentai un contributo a un congresso filosofico tenutosi a Parigi nel 1900 in cui sostenni che ci sono realmente punti e istanti. In generale, il mio atteggiamento era questo: tutte le volte che la prova data da Hegel dell'inesistenza di qualche cosa non regge, si può assumere che il qualcosa in questione esista realmente; per lo meno, quando tale assunto è conveniente per il matematico. Pitagora e Platone avevano lasciato che le loro opinioni sull'universo venissero foggiate dalla matematica, e io li seguivo allegramente. Il serpente in questo paradiso di chiarezza mediterranea fu rappresentato dal Whitehead. Una volta mi disse: « Tu pensi che il mondo sia quale appare a mezzogiorno in una bella giornata; io penso che sia quale ci si presenta di prima mattina, appena uno si risveglia da un sonno profondo». Questa osservazione mi sembrò orrenda, ma non riuscivo a vedere come avrei potuto dimostrare che la mia prospettiva fosse da preferire alla sua. Alla fine egli mi fece vedere in che modo si potesse applicare la tecnica della logica matematica al suo mondo vago e scombinato, e mettergli addosso vestiti da festa suscettibili di essere guardati senza scandalo da un matematico. Questa tecnica, che imparai da lui, mi piacque moltissimo, e non ebbi mai più la pretesa che la nuda verità debba presentarsi così bene come la verità rivestita dei suoi migliori abiti da festa matematici. Sebbene ancor oggi io pensi che questa è la maniera scientificamente giusta di trattare le cose del mondo, sono arrivato a concludere che le rivestiture materna-

44 tiche e logiche nelle quali noi avviluppiamo la nuda verità raggiungono strati assai più profondi che non avessi allora pensato, e che certe cose che io avevo giudicato essere pelle, in realtà sono soltanto rivestimenti ben fatti. Prendete i numeri, per esempio: quando contate, contate delle « cose » ma « le cose » sono state inventate dagli esseri umani per il comodo loro. Questo non appare evidente sulla superficie della terra perché, a causa della bassa temperatura, v'è un certo grado di apparente stabilità. Ma sarebbe ovvio se si potesse vivere nel sole, dove non c'è nient'altro che vortici di gas in ·perpetuo cambiamento. Se viveste sul sole, non avreste mai formato l'idea delle « cose >>, e non vi sarebbe mai venuto in mente di contare, perché non ci sarebbe niente da contare. In un ambiente di quel genere la filosofia di Hegel ci apparirebbe come una questione di senso comune, e ciò che noi assegniamo al senso comune ci apparirebbe come una fantastica speculazione metafisica. Simili riflessioni mi hanno portato a vedere l'esattezza matematica come un sogno dell'uomo, e non come uno degli attributi di una realtà approssimativamente conoscibile. Ero solito pensare che, beninteso, ci dev'essere una verità esatta a proposito di qualunque cosa, benché possa essere difficile e magari impossibile accertarla. Supponete, per esempio, di avere una misura che sapete essere lunga circa un metro. Ai tempi felici in cui ancora conservavo la mia fede matematica, avrei detto che la vostra misura certamente è più lunga di un metro o più corta di un metro, oppure esattamente un metro. Oggi sarei costretto ad ammettere la possibilità di sapere che certe misure sono più lunghe di un metro e di sapere che certe altre sono più corte di un metro; ma non è possibile sapere che una misura esattamente è un metro, e anzi, la frase « esattamente un metro » non ha nessun senso definito. In realtà l'esattezza è un mito ellenico che Platone situò in paradiso. Aveva ben ragione di pensare che essa non può trovar posto sulla terra. Per la mia anima matematica, intonata per natura alle visioni di Pitagora e di Pla-

45 tone, questo è un vero dispiacere. Cerco di consolarmi pensando che la matematic-a rimane uno strumento necessario alla manipolazione della natura. Se volete fabbricare una corazzata o una bomba, se volete sviluppare una specie di grano che possa maturare più al nord di ogni varietà precedente, è alla matematica che vi dovete rivolgere. Potete uccidere un uomo con un'accetta o con un bisturi: l'una cosa sarà altrettanto efficace quanto l'altra. La matematica, che aveva dato l'impressione d'essere simile al bisturi, in realtà è piuttosto simile all'accetta. Ma è soltanto nelle sue applicazioni al mondo reale che la matematica ha la rozzezza dell'accetta. Entro la sua sfera, essa conserva l'esattezza nitida della lancetta chirurgica. Entro il suo proprio dominio, il mondo della matematica e della logica rimane delizioso: ma è il dominio dell'immaginazione. La matematica deve vivere, con la musica e con la poesia, nella regione delle bellezze fabbricate dall'uomo, non in mezzo alla polvere e al sudiciume del mondo. Ho detto un momento fa che, in ribellione contro Hegel, ero venuto a pensare il mondo come cosa piuttosto simile a un mucchio di pallini che a un vaso di melassa. Ancor oggi penso che, tutto sommato, questa visione sia giusta; ma a poco a poco ho scoperto che certe cose da me prese per solidi pallini dal mucchio non meritano questa dignità. Nel primo entusiasmo della mia fede negli atomi separati, pensai che ogni parola che possa venire usata in modo significante dovesse significare qualcosa, e questo lo prendevo nel senso che essa dovesse significare qualche cosa. Ma le parole che più interessano i logicisti sono assai difficili da questo punto di vista. Sono •parole come si chiamava chi riteneva che la politica britannica dovesse limitarsi ai problemi diretti della sola metropoli. (N.d.T.)

49 do mio zio sposò la figlia di un grande magnate dell'industria, mia nonna si sentì fiera della sua liberalità nel non fare opposizione al fatto ch'egli sposasse una persona appartenente a ciò ch'essa chiamava « il commercio ». Fuori , ella aveva esclamato, « io ho settantadue nipoti, e se dovessi rattcistarmi ogni volta che mi separo da uno di loro avrei una ben sciagurata esistenza. » «Madre snatura/e », 1 aveva risposto lui. Ma parlando come uno di quei settantadue, devo dire che preferisco la ricetta di mia nonna. Dopo gli ottanta ella si accorse di avere qualche difficoltà nel prender sonno, e perciò, di solito, tra la mezzanotte e le tre del mattino si occupava con la lettura di testi popolari di scienza. Non credo che abbia mai avuto il tempo di accorgersi che stava invecchiando. Penso che questa sia la ricetta giusta per rimaner giovani. Se avete interessi larghi e intensi e ' Così nel testo. (N.d.T.)

58 attività che potete ·Svolgere in modo efficace, non avrete nessuna ragione di ruminare attorno al fatto puramente statistico del numero d'anni che avete già vissuto, e meno ancora della probabile brevità del vostro avvenire. Riguardo alla salute, non ho da dire niente di utile perché ho ·pochissima esperienza deHa malattia. Mangio e bevo quello che mi piace, e dormo quando non riesco a stare sveglio. Non faccio mai assolutamente una cosa per la ragione che si tratta di una cosa buona per la salute, sebbene, per la verità, le cose che mi piace fare siano per lo più mo1to sane. Psicologicamente, nella vecchiaia bisogna guardarsi da due pericoli. Uno di questi consiste nel lasciarsi indebitamente prendere dal passato. Non è bene vivere nelle proprie memorie, nel rimpianto dei ,bei tempi passati, o nella tristezza eausata dalla morte degli amici. Il pensiero dev'essere proteso nel futuro, e questo non è sempre facile; il proprio passato è un peso che si accresce gradualmente. ~ facile che accada di pensare dentro di sé che le proprie emozioni solevano essere più vivide che non lo siano ora, e la propria mente più acuta. Se questo è vero dovrebbe essere dimenticato; e se viene dimenticato, probabilmente non è vero. L'altra cosa da evitare è di aggrapparsi alla gioventù nella speranza di succhiar vigore ·dalla sua vitalità. Quando i vostri figH son cresciuti, essi vogliono vivere la loro vita; e .se continuate a interessarvi a loro come facevate quand'erano più piccoli, è facile che diventiate per loro un peso, a meno che essi non siano particolarmente insensibili. Non voglio dire che uno dovrebbe esser privo d'interesse nei loro riguardi, ma questo interesse dovrebbe essere contemplativo e, se possibile, filantropico, ma non indebitamente emotivo. Gli animali diventano indifferenti nei riguardi dei loro piccoli non appena questi sono in grado di badare a se stessi, ma le creature umane, a causa della lunga durata dell'infanzia, trovano difficoltà a fare la stessa cosa. Penso che una vecchiaia ben riuscita sia più facile per coloro che hanno forti interessi impersonali, i quali

59 implichino attività corrispondenti. Una lunga esperienza è serenamente fruttuosa proprio in questa sfera, ed è in questa sfera che la saggezza, frutto dell'esperienza, può essere esercitata senza diventare opprimente. E inutile dire ai figli diventati grandi che non debbono commettere errori, perché intanto essi non vi crederebbero, e poi perché gli errori fanno parte essenziale dell'educazione. Ma se siete incapace di interessi non personali, troverete forse che la vostra vita è vuota se non vi occupate dei figli e dei nipoti. In questo caso dovete rendervi conto del fatto che, mentre voi potete ancora rendere loro servizi materiali, come per esempio concedere un assegno o lavorare a maglia per loro, non dovete attendervi che la vostra compagnia li diverta. Certi vecx:hi sono oppressi dalla paura della morte. Nei giovani c'è una giustificazione per questo sentimento. Un giovane che abbia motivo di temere di rimanere ucciso in battaglia sarà giustificato se sente una certa amarezza al pensiero di essere stato defraudato delle migliori cose che la vita possa offrire. Ma in un vecchio che ha conosciuto le gioie e i dolori umani e ha portato a compimento quella qualsiasi opera che era nella capacità sua dii fare, Ia paura della morte ha in sé qualcosa di abbietto e di ignobile. Il miglior modo per superarla, almeno così mi sembra, consiste nell'al'largare gradualmente i nostri interessi e renderli più impersonali, finché, un po' alLa volta, le mura dell'ego si allarghdno e la vostra vita venga a confondersi progressivamente con la vita universale. Una esistenza individuale umana dovrebbe essere come un fiume: minuscolo da principio, strettamente contenuto dalle sue rive, e che scorre ansioso oltre i macigni del greto e giù per le cascate. Man mano il firume si fa pdù largo, le rive si allontanano, le acque scorrono più quiete, e, alla fine, senza ·alcun distacco visibile, vengono a essere mescolate col mare, e perdono senza alcuna pena la loro esistenza individuale. L'uomo che, nella sua vecchiaia, è capace di contemplare la vita in questo modo, non soffrirà per la paura della morte, poiché le cose alle quali porta interesse continueranno. E se, col deoo-

60 dere della vitalità, la ·Stanchezza dovesse crescere, il pensiero del riposo non verrà del tutto sgradito. A me piacerebbe morire trovandomi ancora al mio lavoro, sapendo che altri continueranno ciò che io non posso ormai più fare, e contento di poter pensare che quanto era possibile è stato fatto. [Ristampato da New Hopes for a Changing World].

OTTANT'ANNI

RAGGIUNGENDO gli ottant'anni è ragionevole supporre che uno abbia ormai fatto la maggior parte del proprio lavoro, e che quello che rimane da fare sia meno importante. La parte seria di tutta la mia vita dopo l'infanzia è stata dedicata a due obbiettivi diversi, che rimasero separati per lungo tempo, e solo negli anni recenti si sono uniti in un tutto unico. Da un lato, volevo sapere se sia possibile conoscere cosa alcuna; e dall'altro volevo fare quanto stava in me per creare un mondo più felice. Fino all'età di trentotto anni ho dedicato il più delle mie energie al primo di questi compiti. Ero tormentato dallo scetticismo, e costretto, contro mia voglia, a concludere che la maggior parte di ciò che passa per conoscenza è esposta a un dubbio ragionevole. Volevo la certezza nello stesso modo in cui la gente vuole la fede religiosa. Ritenevo che la certezza sia da trovare più facilmente nella matematica che non altrove. Ma scoprii che molte dimostrazioni matematiche, che i miei insegnanti pensavano dovessi comunque accettare, erano piene di erròri, e che, se veramente la certezza fosse da scoprire nella matematica, questo accadrebbe in una nuova specie di matematica con fondamenta più solide di quelle che fino a quel momento erano sembrate sicure. Ma, via via che il mio lavoro procedeva, ero costretto di continuo a ricordare la favola dell'elefante e della tartaruga. Avendo costruito un elefante su cui avrebbe potuto poggiare il mondo matematico, trovai che l'elefante vacillava, e presi a costruire una tartaruga per impedire all'elefante di vacillare; dopo una ventina d'anni di sfoni veramente ardui, giunsi alla conclusione che io, per parte mia, non avrei potuto far niente di più per rendere indubitabile la conoscenza matematica. Poi venne la prima guerra mondiale, e i miei pensieri si concentrarono sulle umane miserie e follie. Né la miseria né la follia mi sembrano far parte inevitabile del destino dell'uomo e sono convinto che l'intelligenza, la pazienza e l'eloquenza, prima o poi, possano liberare la razza umana dalle torture che essa stessa si è imposte purché nel frattempo essa non si stermini da sé.

64 Sulla base di queste convinzioni, ho sempre avuto una certa misura di ottimismo, benché, invecchiando, il mio ottimismo si sia fatto più guardingo, e il felice risultato finale sia venuto ad apparirmi più lontano. Ma resto del tutto incapace di andar d'accordo con coloro che accettano fatalisticamente l'opinione che l'uomo sia nato per l'infelicità. Le cause dell'infelicità umana nel passato e nel presente non sono difficili da accertare. Sono state la povertà, la peste e la carestia, le quali erano dovute al fatto che l'uomo possedeva sulla natma un dominio inadeguato. Ci sono state guerre, oppressioni e torture dovute all'ostilità di certi uomini per altri uomini. E vi sono state morbose infelicità fomentate da cupe credenze, le quali hanno indotto gli uomini a forme profonde di discordie interiori, cosicché tutta la loro prosperità esteriore non poteva servire a nulla. Nessuna di queste cose è inevitabile. Nei confronti di ciascuna di esse, si conoscono i mezzi per vincerle. Nel mondo moderno, se le comunità sono infelici, è perché lo vogliono essere. O, per parlare con maggior precisione, perché hanno forme d'ignoranza, abitudini, credenze e passioni, che tengono più care della felicità, o persino ·della vita. In questa nostra epoca pericolosa trovo molti uomini che sembrano innamorati della sventura' e della morte, e vanno su tutte le furie quando vengono loro suggerite ragioni di speranza. Pensano che la speranza sia irrazionale e che, standosene immobili nella loro ignava disperazione, essi non facciano altro che guardare le cose come sono. Non riesco a consentire con costoro. Conservare la speranza, nel mondo nostro, impone sforzi alla nostra intelligenza e alla nostra energia. In coloro che disperano, è molto spesso l'energia che fa difetto. Ho vissuto l'utima metà della mia vita in una di quelle penose epoche della storia umana in cui il mondo peggiora, e le vittorie passate, che eran parse definitive, si sono rivelate solo provvisorie. Quand'ero giovane, l'ottimismo vittoriano era accettato come una cosa ovvia. Si pensava che la libertà e la prosperità si sarebbero diffuse gradualmente in tutto il mondo in un

65 bene ordinato processo, e si sperava che la crudeltà, )a tirannia e l'ingiustizia sarebbero andate continuamente decrescendo. Quasi nessuno era tormentato dalla paura di grandi guerre. Quasi nessuno pensava che il secolo decimonono sarebbe stato un breve interludio tra la barbarie passata c quella futura. Per coloro che crebbero in quell'atmosfera, l'adattamento al mondo odierno è stato difficile. ~ stato difficile non solo emotivamente, ma anche intellettualmente. Certe idee, che si erano ritenute adeguate, hanno dimostrato di non esserlo. In certe direzioni, si è dimostrato molto difficile salvare alcune forme importanti di libertà. In altre direzioni, specialmente per ciò che concerne i rapporti tra nazioni, certe libertà cui prima si attribuiva un valore hanno dimostrato di essere grandi cause di disastri. Nuovi pensieri, nuove speranze, nuove libertà e nuove restrizioni della libertà sono necessari se si vuole che il mondo venga fuori dallo stato pericoloso in cui si trova. Non posso pretendere che ciò che ho fatto nel campo dei problemi sociali e politici abbia avuto una grande importanza. ~ relativamente facile ottenere effetti immensi per mezzo di un credo dogmatico e preciso, quale è quello del comunismo. Ma, per parte mia, non posso credere che ciò

  • >. Lasceremo la parola « penso >>, ma senza soggetto poiché il soggetto incorpora una credenza nella sostanza che dobbiamo tener lontana dai nostri pensieri. Le parole « dunque io sono >> non soltanto ripetono il peccato metafisica che si contiene nella parola >, ma commettono l'ulteriore peccato, rigorosamente messo alla berlina in tutte le opere del Camap, di confondere una parola tra virgolette con una parola senza virgolette. Quando dico « io sono >>, oppure « Socrate è esistito >>, o una qualunque affermazione del genere, in realtà io sto dicendo qualcosa a proposito della parola « io >> o della parola « Socrate >>: parlando all'ingrosso, dico in ciascuno dei due casi che questa parola è un nome. Poiché è ovvio che, se pensate a tutte le cose che ci sono nel mondo, esse non possono venir divise in due classi: quelle che esistono, e quelle che non esistono. La non-esistenza, in realtà, è una prOprietà rarissima. Tutti sanno la storia dei due filosofi pessimisti tedeschi, uno dei quali esclamava: « Che felicità sarebbe non essere mai nato! >> al che l'altro rispondeva con un sospiro: «Vero! Ma come son pochi coloro che raggiungono un . destino così fortunato! >> Jn realtà, non potete dire in modo significante, di una cosa qualsiasi, che essa esiste. Ciò che potete dire in modo significante è che la parola che la denota denota qualcosa; il che non è vero di una parola come « Amleto ». Ogni affermazione relativa ad Amleto in quella

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    tragedia contiene implicita l'affermazione falsa: « 'Amleto' è un nome», e questa è la ragione per cui non potete prendere la tragedia· come se fosse una parte della storia danese. Così, quando Cartesio dice « Io sono », ciò che dovrebbe intendere è: « 'Io' è un no. me»; che è senza dubbio un'affermazione molto inte~ ressante, ma non ha tutte le conseguenze metafisiche che Cartesio vorrebbe fame derivare. Questi però non sono gli errori che desidero qui mettere in evidenza nella filosofia di Descartes. Ciò che desidero mettere in evidenza è l'errore implicito nel dire: «Sono una cosa che pensa». Qui viene presa per dimostrata la filosofia della sostanza. Vi si assume che il mondo è fatto di oggetti più o meno permanenti con stati mutevoli. Tale opinione fu sviluppata da quei metafisici originari che inventarono il linguaggio, e . che erano molto colpiti dalla differenza tra il loro nemico in battaglia e il loro nemico dopo che era stato ucciso, benché fossero persuasi che si trattasse della stessa persOna, che dapprima avevano temuta, poi mangiatl:!. t da simili origini che il senso comune deriva i suoi dogmi. E mi rincresce di dover dire che troppi pro. fessori di filosofia considerano loro dovere farsi i sicofanti del senso comune, e così, involontariamente senza dubbio, fare profondo atto di omaggio alle seivagge superstizioni di quei cannibali. Cosa dovremmo sostituire alla credenza di Cartesio di essere una cosa che pensa? C'erano, naturalmente, due Descartes, e la distinzione tra i due è ciò che dà origine al problema che voglio discutere. C'era Descartes per se stesso e Descartes per i suoi amici. Egli si preoccupa qui di ciò che era per se stesso. Ciò che egli era per se stesso non è descritto nel modo migliore come un'entità singola con stati mutevoli. L'entità singola è un'affermazione del tutto oziosa, bastano gli stati mutevoli. Descartes avrebbe dovuto apparire a se stesso come una serie di eventi, ciascuno dei quali potrebbe essere chiamato un pensiero, purché si interpreti questa parola un po' elasticamente. Per il momento non mi occuperò di ciò che egli era per gli altri. Ciò che

    169 costituiva lo « spirito » di Descartes era questa serie di « pensieri >>, ma il suo « spirito » non era un'entità separata, più che la popolazione di New York sia una entità separata, indipendentemente dai singoli abitanti. Invece di dire· « Descartes pensa », dovremmo dire: « Descartes è una serie i cui componenti sono pensieri ». E invece di « perciò Descartes esiste », dovremmo dire: « poiché 'Descartes ' è il nome di questa serie, ne consegue che 'Descartes' è un nome». Ma all'affermazione « Descartes è una cosa che pensa » non dobbiamo sostituire assolutamente nulla, poiché l'affermazione non contiene altro che sintassi sbagliata. F. tempo di chiederci ciò che intendiamo per « pensieri », quando diciamo che Descartes era una serie di pensieri. Sarebbe più convenzionalmente corretto dire che lo spirito di Descartes era una serie di pensieri, dato che, generalmente, si suppone che il suo corpo fosse qualcosa di diverso. Il suo spirito, possiamo dire, è ciò che Descartes era per lui stesso e per nessun altro; mentre il suo corpo era pubblico e appariva agli altri oltre che a lui stesso. Descartes usava la parola « pensieri » in un senso alquanto più largo di quanto non sarebbe usata ai nostri giorni, ed eviteremo, forse, di creare confusione se le sostituiamo la frase « fenomeni mentali ». Prima di giungere a quello che, comunemente, viene chiamato «pensare », incontriamo eventi più elementari, che vanno sotto i nomi di « sensazione » e « percezione». Il senso comune osserverebbe che la percezione ha sempre un oggetto, e che, in generale, l'oggetto della percezione non è mentale. La sensazione e la percezione nel discorso comune non conterebbero come « pensieri ». I pensieri consisterebbero in elementi quali i ricordi, le credenze e i desideri. Prima di considerare i pensieri in questo senso più ristretto, vorrei dire qualche parola a proposito della sensazione e della percezione. Sia la « sensazione » sia la « percezione » sono concetti alquanto confusi, e nel modo in cui vengono comunemente definiti, si può dubitare se veramente queste cose esistono. Evitiamo quindi, per il momento, di

    170 usare tali parole, e proviamoci a descrivere quello che accade con il minor numero possibile di supposizioni malcerte. Accade frequentemente che, se un certo numero di persone si trovano nello stesso luogo, esse abbiano esperienze simili, press'a poco allo stesso tempo. Un certo numero di persone può udire lo ste!SSo scoppio di tuono, o lo stesso discorso di un uomo politico; e le stesse persone possono vedere il fulmine, o l'uomo politico battere il pugno sul tavolo. Ci accorgiamo, riflettendoci sopra, che accade, vicino a queste persone, un fatto che non si identifica con ciò che è udito o veduto. C'è un solo oratore politico, ma, in ciascuno di coloro che lo ascoltano e lo vedono, si verifica un evento mentale, separato dagli altri. In questo evento mentale, l'analisi psicologica distingue due elementi: uno di essi dipende da quelle parti nella struttura dell'individuo che egli ha in comune con gli altri individui normali che appartengono alla sua specie; l'altro elemento include in sé i risultati delle sue passate esperienze. Una certa frase pronunciata dall'uomo politico provoca in uno degli ascoltatori la reazione: « Questo si chiama mettere quei mascalzoni al loro posto », e in un altro la reazione totalmente diversa: « In tutta la mia vita non ho mai udito qualcosa di così mostruosamente ingiusto ». E non solo queste reazioni alquanto indirette sono diverse, ma spesso le persone udranno parole diverse a causa dei loro pregiudizi o delle loro passate esperienze. Mi trovavo alla Camera dei Lord in un'occasione in cui il Keynes sentì la necessità di rimbeccare Lord Beaverbrook per alcune statistiche presentate a quella Camera dal nobile giornalista. Ciò che il Keynes disse fu: > e che c'è una sedia, e che il percepire sia un rapporto tra i due. Ho già parlato dell'« io », ma la sedia appartiene al mondo fisico, che, per il momento, cerco di ignorare. Per il momento dirò solo questo: il senso comune suppone che la sedia che io percepisco sarebbe ancora là se io non la percepissi, per esempio, se chiudessi gli occhi. La fisica e la fisiologia, tra loro due, mi assicurano che ciò che è là, indipendentemente

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    dal mio vedere, è qualcosa di molto diverso da un'espe. rienza visiva: è una folle danza di miliardi di elettroni che subiscono miliardi di transizioni quantiche. Il rap. porto in cui io mi trovo con questo oggetto è indiretto, ed è conosciuto solo per induzione. Non è qualcosa di cui io faccia diretta esperienza ogni volta che ci sia quell'evento che chiamo «vedere una sedia )). In realtà, tutto ciò che accade quando ho l'esperienza che chiamo « vedere una sedia)), dobbiamo considerare che appartenga al mio mondo mentale. Se c'è una sedia che si trova fuori del mio mondo mentale, come io credo fermamente, si tratta di qualcosa che non è oggetto dirètto dell'esperienza, ma cui si arriva mediante un processo di induzione. Questa conclusione ha conseguenze assai strane. Dobbiamo distinguere tra il mondo fisico della fisica e il mondo fisico della nostra espe~ rienza quotidiana. Supponendo che la fisica abbia ragione in ciò che afferma, il mondo fisico della fisica esiste indipendentemente dalla mia vita mentale. Da un punto di vista metafisica, esso è solido e sussiste per suo conto. Viceversa, il mondo fisico della mia esperienza quotidiana fa parte della mia vita mentale. A differenza del mondo fisico della fisica esso non è solido, e non ha in sé più sostanza di quanta ne abbia il mondo che vedo nei sogni. D'altro lato, esso è indubitabile, in un modo in cui non lo è invece il mondo fisico della fisica. L'esperienza di vedere una sedia è una cosa che non posso eliminare con alcuna farnia di argomentazione. ~ ben certo che io ho questa esperienza, anche se sto sognando. Ma la sedia della fisica, sebbene sia certamente solida, forse non esiste. Non esiste se sto sognando. E anche se sono sveglio può non esistere, se ci sono errori in certe specie di induzioni alle quali vado soggetto, ma che non sono probanti. In breve, come direbbe Mr. Micawber, il mondo fisico della fisica è solido ma non è indubitabile, mentre il mondo fisico dell'esperienza quotidiana è indubitabile ma non è solido. In questa affermazione uso la parola « solido )) nel senso di « esistente indipendentemente dalla mia vita mentale )).

    173 poniamoci una domanda molto elementare: qual è la differenza tra le cose che accadono agli esseri senz;ienti e le cose che accadono alla materia inanimata'? E evidente che ogni sorta di cose accadono agli oggetti inanimati. Si muovono e subiscono varie trasfonnazioni. ma non « fanno esperienza » di questi eventi, mentre noi facciamo esperienza delle cose che ci succedono. La maggior parte dei filosofi hanno trattato l'« esperienza » come qualcosa di indefinibile, il cui significato sia ovvio. Per me, questo è un errore. Non credo che quel significato sia ovvio, ma nemmeno credo che esso sia indefinibile. Ciò che caratterizza l'esperienza è l'influsso che gli eventi passati hanno sulle reazioni presenti. Quando offrite una moneta a una macchina automatica, essa reagisce esattamente come ha reagito in occasioni precedenti. Non arriva ad apprendere che l'offerta di una moneta significa il desiderio di un biglietto, o che altro sia, e non reagisce con maggiore prontezza di quanto abbia mai fatto prima. L'uomo che sta allo sportello dei biglietti, al contrario, impara con l'esperienza a reagire più rapidamente e a stimolazioni meno dirette. Questo è ciò che ci induce a chiamarlo intelligente. Questo complesso di cose è ciò che costituisce l'essenza della memoria. Vedete una certa persona, la quale dice una certa cosa. La prossima volta che la vedete ricordate la cosa che ha detto. Questo è essenzialmente analogo al fatto che quando vedete un oggetto che sembra duro vi attendete una certa specie di sensazione tattile nel toccarlo. E queste sono le cose che distinguono un'esperienza da un semplice evento. La macchina automatica non ha esperienza; l'uomo allo sportello dei biglietti ha esperienza. Questo vuoi dire che uno stimolo dato produce sempre la stessa reazione da parte della macchina, ma reazioni differenti da parte dell'uomo. Voi raccontate un aneddoto, e il vostro ascoltatore risponde: « Avreste dovuto sentire quanto ho riso la prima volta che ho sentito raccontare questa storia! » Se, invece, aveste costruito una macchina automatica capace di ridere al sentir raccontare una facezia, potreste essere

    174 certo che riderà ogni volta, per quanto spesso abbi gi4 udito la facezia prima d'allora. Troverete, forsea consolazione in questo pensiero, se siete tentato di adot: tare una filosofia materialistica. Credo che sarebbe giusto dire che la caratteristica più essenziale dello spirito è la memoria, usando questa parola in un senso larghissimo, che includa ogni in. fluenza della passata esperienza sulle reazioni presenti La memoria include quella specie di conoscenza che è comunemente chiamata conoscenza della percezione Quando semplicemente vedete qualche cosa, questo puÒ difficilmente contare come conoscenza .. Diviene conQ.. scenza quando dite a voi stessi che la vedete, o che è là. Questa è una riflessione sul semplice atto del ve. dere. Questa riflessione è conoscenza, e, poiché essa è possibile, il vedere conta come un'esperienza e non come un semplice evento, quale potrebbe accadere a una pietra. L'influenza delle passate esperienze è inclusa nel principio dei riflessi condizionati, secondo il quale, in adatte circostanze, se A produce originariamente una certa reazione, e A avviene !ii frequente in connessione con B, B da solo produrrà alla fine la reazione che A produceva originariamente. Per esempio: se VQ.. lete insegnare a ballare agli orsi, li ponete sopra una piattaforma così calda che essi non possano sopportare di restare con le zampe sopra essa per più di un momento, e intanto fate sonare « Rule Britannia » all'orchestra. Dopo un certo tempo basterà sonare « Rule Bri_tannia » perché gli orsi si mettano a ballare. La nostra vita intellettuale, perfino nei suoi più alti voli, è basata su questo principio. Come tutte le altre distinzioni, la distinzione tra ciò che è vivo e ciò che è morto non è assoluta. Ci sono alcuni virus a proposito dei quali gli specialisti non pos· sono decidere se considerarli vivi o morti, e il prin· cipio del riflesso condizionato, sebbene caratteristico degli esseri viventi, trova esempi in altre. sfere: se svolgete un rotolo di carta, si arrotolerà nuovamente su se stesso appena lo lascerete. Ma, a parte casi di questo genere, posstamo prendere i riflessi condizionati

    175 come caratteristici della vita, specialmente nelle sue forme più alte, e soprattutto come caratteristici dell'intelligenza umana. Il rapporto tra spirito e materia raggiunge qui il suo punto decisivo. Se il cervello ha da avere qualche caratteristica corrispondente alla memoria, deve essere in ~ualche senso modificato da ciò che gli accade, in. maniera tale da far pensare a una riproduzione nell'occasione di un appropriato stimolo. Questo può anche essere illustrato, sebbene in grado minore, dal comportamento della materia inorganica. Un corso d'acqua che per lo più è secco, durante i periodi del suo scorrere scava un solco lungo un fossato, e le piogge susseguenti seguono ·un corso che è come una reminiscenza dello scorrere dell'acqua in tempi passati. Potete dire, se volete, che il letto del fiume « ricorda » le esperienze dello scorrere dell'acqua, fatte in precedenti occasioni. Questo sarebbe considerato un volo della fantasia. Voi direste che è un volo della fantasia perché siete' dell'opinione che i fiumi e i letti dei fiumi non « pensano ». Ma se il pensare consiste in certe modificazioni del comportamento dovute a eventi precedenti, dovremo dire allora che i letti dei fiumi pensano, benché il loro modo di pensare sia alquanto rudimentale. Non potete insegnar loro la tavola pitagorica, per quanto piovoso possa essere il clima. A questo punto, temo, che vi sentirete mossi a sdegno. Vorrete dirmi: « Ma, caro signore, come potete essere così tonto? Sicuramente anche voi dovete sapere che i pensieri, i piaceri e i dolori non si possono spingere qua e là come palle da biliardo, mentre possiamo farlo con le cose materiali. La materia occupa spazio. f> « tòcco » e « cronico » sono tutte parole usate second~ l'uso comune. Non sono però usate così nelle pagine della rivista « Mind >> da coloro che pretendono che l'uso comune sia la cosa in cui credono. La cosa in cui credono, realmente, non è l'uso comune, come può venire determinato mediante osservazioni di massa, statistiche, medie, deviazioni tipo, e tutto il rimanente dell'apparato. La cosa in cui essi credono è l'uso seguito da quelle persone che hanno il loro stesso livello d'istruzione, non più né meno. Meno è anàlfabetismo, più è pedanteria: questo è quanto ci vien predicato. 2. Una scusa per l'ignoranza. Ogni automobilista è abituato ai tachimetri e agli acceleratori, ma se non ha imparato la matematica non attribuisce nessun significato preciso a « velocità>> o accelerazione». Se attribuisce un significato preciso a queste parole saprà che la sua velocità e la sua accelerazione sono, in qualunque momento, inconoscibili; e che, se gli danno una multa per troppa velocità, la condanna sarà necessariamente fondata su prove insufficienti se essa faccia menzione del tempo in cui si sostiene che egli ha ecceduto in velocità. Fin qui sarò d'accordo con lo zelatore dell'uso comune, e ammetterò che una parola come «velocità », quando è usata nella vita quotidiana, dev'essere usata nel modo della vita quotidiana e non nel modo della matematica. Ma poi bisognerebbe rendersi conto del fatto· che « velocità >> è una nozione assai vaga e che un'egual misura di veridicità può ritrovarsi in tutt'e tre le seguenti affermazioni: « Ero fermo >> (l'automobilista). « Andavate a trenta chilometri all'ora » (un amico).

    191 Correva a novanta chilometri all'ora >> (la polizia). Siccome questo stato di cose è un rompicapo per i magistrati, i matematici hanno abbandonato l'uso comune. 3 Coloro che sostengono l'uso comune in filosofia parlano talvolta in un modo che fa pensare a una mistica dell'« uomo comune )). Potranno ammettere che nella chimica organica ci sia bisogno di parole lunghe, e che la fisica quantica richieda formule difficili da tradurre nel linguaggio ordinario, ma la filosofia, secondo loro, è un'altra cosa. Non è funzione della filosofia, così essi affermano, insegnare qualcosa che le persone non istruite ignorano, al contràrio, la sua funzione è di insegnare alle persone superiori che esse non sono tanto superiori quanto pensano di essere, e che coloro che sono realmente superiori possono dar prova della loro abilità dicendo cose sensate secondo il senso comune. Naturalmente, è una cosa terribile in questi tempi pretendere a una qualunque specie di superiorità se non nello sport, nel cinema, o nel far quattrini. Tuttavia mi arrischierò ad affermare che nei secoli passati il senso comune ha creduto in cose che noi oggi consideriamo errori. Si pensava allora che non ci potesse essere nessuno agli antipodi perché la gente, da quelle parti, sarebbe caduta giù, oppure se avesse evitato questo guaio si sarebbe sentita girare la testa perché stava coi piedi in su. Si considerava assurdo affermare che la terra gira, perché tutti possono vedere che non gira affatto. La prima volta che venne suggerito che il sole fosse grande quanto il Peloponneso, il senso comune si ribellò, ma tutto questo succedeva molto tempo fa. Non so in quale data il senso comune abbia cominciato ad aver ragione in ogni' cosa. Forse fu nel 1776; forse nel 1848; oppure nel 1870, quando venne approvata la legge per l'educazione popolare. O forse fu soltanto quando alcuni fisiologi come Adrian o Sherrington cominciarono a fare incursioni scientifiche nelle idee che avevano i filosofi a proposito delia percezione. 4 La filosofia, quale è concepita dalla scuola che qui si discute, mi sembra una disciplina priva di rilievo e > « Sì. » « La strada più corta? » « Sì. » «Non so.» Voleva conoscere con chiarezza la natura della domanda, ma non aveva alcun interesse a rispondere. Questo è esattamente ciò che fa la filosofia moderna per coloro che cercano appassionatamente la verità.

    193 Sorprende forse che i giovani si volgano ad altri studi? 5 Il senso comune, benché vada perfettamente per le occorrenze di ogni giorno, rimane facilmente confuso anche da semplici domande come: «Dov'è l'arcobaleno?» Quando udite una voce in un disco del grammofono, udite la voce dell'uomo che ha parlato oppure una riproduzione? Quando sentite un dolore in una gamba che è stata amputata, dov'è il dolore? Se dite che è nella vostra testa, sarebbe nella testa se la gamba non fosse stata amputata? Se rispondete di sì, allora che ragione potrete mai avere per pensare di avere una gamba? E così. via. Nessuno vuoi modificare il linguaggio del senso comune così come noi non vogliamo certo rinunciare a discorrere del sole che sorge e che cade. Ma gli astronomi trovano migliore un linguaggio diverso, e io sostengo che un linguaggio diverso è preferibile anche in filosofia. Prendiamo un esempio. Una filosofia, come la nostra, che contiene un così vasto elemento linguistico non potrà fare abbiezione alla domanda: che cosa s'intende con la parola « parola »? Ma non vedo come si possa rispondere a questa domanda rimanendo dentro il vocabolario del senso comune. Prendiamo la parola « gatto » e, per amore di precisione, prendiamo la parola scritta. È chiaro che ci sono molti esempi della parola, nessuno dei quali è la parola. Se io dico: discutiamo la parola « gatto », la parola conoscere un qualche assieme di fatti storici, ma coloro che leggono nello stesso spirito con il quale si legge la poesia o un buon romanzo. Per questo è necessario prima di tutto che lo storico abbia

    233 sentimenti al riguardo degli avvenimenti che racconta e dei personaggi che rappresenta. Naturalmente è doveroso che Io storico non alteri i fatti, ma non è necessario che egli non parteggi per l'una o l'altra parte degli scontri e conflitti che riempiono le sue pagine. Uno storico che sia imparziale, nel senso di non preferire un partito a un altro e di non concedersi di dare ad alcuni tra i suoi personaggi caratteri di eroi o di malvagi, sarà uno scrittore scialbo. Se il lettore deve prendere interesse, bisogna concedergli di parteggiare per qualcuno nel dramma. Se questo fa sì che uno storico sia unilaterale, il solo rimedio è di trovare un altro storico che abbia una parzialità opposta. La storia della Riforma, per esempio, può essere interessante se scritta da uno storico protestante, e può essere non meno interessante quando è scritta da uno storico cattolico. Se volete sapere che cosa provavano coloro che vissero al tempo delle guerre di religione, questo forse vi riuscirà se leggerete storie tanto protestanti quanto cattoliche; ma non vi riuscirà se leggerete soltanto autori che contemplano tutta quella serie di eventi con un completo distacco. Carlyle diceva della sua storia della Rivoluzione francese che il libro stesso era una specie di Rivoluzione francese. Questo è ben vero, e conferisce al libro un certo merito durevole, benché esso sia alquanto imperfetto come resoconto storico. Leggendolo, capite perché i vari personaggi fecero ciò che fecero, e questa è una delle qualità più importanti che un libro di storia dovrebbe avere. Una volta lessi ciò che Diodoro Siculo ha da dire di Agatocle, facendolo apparire come un assoluto mascalzone. Più tardi andai a leggere ciò che aveva da dire di Agatocle una moderna opera storica, e qui lo trovai rappresentato come un uomo mite, con i tratti del vero uomo di Stato e, con ogni probabilità, innocente di tutti i delitti imputatigli. Non ho modo di sapere quale dei due ritratti sia più veritiero, ma so che quello che presentava il personaggio sotto una buona luce non m'interessò affatto. Non mi piace la tendenza, alla quale propendono certi storici moderni, di abbassare il tono di tutti i fatti drammatici, far vedere che

    234 gli eroi non erano poi così eroici e i farabutti non così farabutti. Senza dubbio, 1'amore del drammatico può condurre uno storico fuori strada; ma c'è sempre abbastanza dell'elemento drammatico nella storia che non ha nessun bisogno di falsificazioni, benché soltanto l'abilità letteraria dell'autore possa farlo sentire a chi legge. « L'abilità letteraria » è un'espressione ampia e generale, e può valer la pena di darle un significato più specifico. C'è anzitutto lo stile nel senso stretto della parola, e specialmente l'eloquio e il ritmo. Certe parole, specialmente quelle inventate a scopi scientifici, hanno soltanto un significato lessicale. ·Se trovaste sulla pagina la parola « tetraedro », comincereste subito a sentire la noia. Ma la parola « piramide » è una ricca, bella parola, che porta ad aleggiare nello spirito i Faraoni e gli Aztechi. Il ritmo è una cosa che dipende dall'emozione: ciò che è fortemente sentito si esprimerà naturalmente in una forma ritmica e varia. Per questo motivo, tra altri, si richiede nello scrittore una certa freschezza di sentimento, che facilmentè sarà distrutta dalla stanchezza e dall'esigenza di consultare le sue autorità. Ritengo (benché questo sia forse un consiglio di perfezione) che lo storico, prima di mettersi a stendere un capitolo, dovrebbe essersi talmente familiarizzato col suo materiale, che ia penna non debba mai arrestarsi per consentire un riscontro ddle cose che sta dicendo. Non voglio dire che il riscontro sia superfluo, perché la memoria può fare brutti scherzi a chiunque, ma dico che dovrebbe venirt~ dopo e non durante la composizione. Lo stile, quando è buono, è un'espressione personalissima del modo di sentire dell'autore, e per questa ragione, tra altre, imitare lo stile di un altro, anche il più ammirevole, è sempre fatale. In un punto della Storia della cristianità del Milman, è detto (cito a memoria): « La rettorica era ancora studiata come una bella, sebbene fosse considerata come una semplice, arte ». L'ombra del Gibbon, se in quel momento stava guardando sopra la spalla di Milman, deve aver provato dolore nel vedere questo periodo.

    235 Se la prosa narrativa vuoi essere interessante, dopo che la conoscenza necessaria è stata acquisita, dev'esserci un periodo di incubazione, nel quale i fatti nudi e crudi verranno a rivestirsi di quelle associazioni che sono loro appropriate, analogiche, o patetiche, o ironiche, o che altro, e in cui si comporranno nell'unità di un disegno, come in un dramma. Questa trasformazione difficilmente si verificherà in modo adeguato se l'autore non può godere di una misura legittima di agio nel suo lavoro e d'una misura non eccessiva di stanchezza. Gli autori coscienziosi tendono a lavorare troppo e, in questo modo, a sciupare il loro lavoro. Il Bagehot parla in qualche luogo di certe persone che egli conosceva nella City, le quali fecero fallimento perché lavoravano otto ore il giorno, ma che si sarebbero arricchite se si fossero limitate a quattro ore. Penso che molti studiosi potrebbero trarre profitto da questa analogia. Nell'ambito della storia come arte, ci sono varie specie di storia, ciascuna delle quali ha il suo merito peculiare. Una di queste specie di merito trova esempio soprattutto nel Gibbon, che ci offre una processione maestosa di personaggi marcianti attraverso le età, tutti in alta tenuta, ma tutti ben individuati. Non molto tempo fa leggevo la voce riguardante Zenobia nella Cambridge Ancient History. ma mi spiace dover dire che essa sembrava del tutto priva d'interesse. Ricordavo, un po' confusamente, una rappresentazione molto più vivace dello stesso personaggio nel Gibbon. L'andai a rileggere, e subito la dominante figura di quella signora riprese vita. Gibbon aveva avuto i propri sentimenti nei riguardi di lei, e aveva immaginato che cosa dovesse essere la vita alla sua corte. Aveva scritto con la fantasia sbrigliata, e non soltanto con la fredda intenzione di stendere la cromica dei fatti conosciuti. È strano che, nel leggerlo, non ci avvenga di irritarci molto di più per il fatto che tutti i suoi personaggi debbano venire adattati in uno stampo del secolo decimottavo. Ricordo che in qualche luogo, parlando dei Vandali, dopo il tempo di Genserico, egli parla dei « raftìnati tiranni

    236 dell'Africa ». Non posso assolutamente credere che costoro fossero dei raffinati, benché non abbia difficoltà a credere che fossero dei tiranni. Però, in qualche modo, e a dispetto di questi suoi limiti, il Gibbon ci dà un senso straordinariamente vivido del marciare degli eventi attraverso i secoli di cui tratta. Il suo libro illustra un principio della cui verità sono fermamente persuaso, e cioè che la grande storia dev'essere ogni volta l'opera di un unico uomo, e non può mai venire ottenuta facendo un compendio in cui ciascun collaboratore tratta della propria specialità. La conoscenza è diventata così multiforme e complessa che si è ritenuto impossibile per un qualunque spirito singolo abbracciare un campo assai vasto. Sono sicuro che questo è un infelicissimo errore. Un libro, se deve avere un valore diverso da quello di un'opera di consultazione, dev'essere il prodotto di un unico spirito. Deve risultare da una grande molteplicità di cose tenute assieme entro l'unità di un singolo temperamento., Ammetterò subito che questo va diventando sempre più difficile, ma penso che si possano inventare mezzi coi quali s~rà ancora possibile, e penso che questi mezzi debbano essere inventati, se non si vuole che le grandi storie siano una cosa del passato. Quello che si richiede è la divisione del lavoro. Gibbon trasse profitto dall'opera di Tillemont, altrimenti non avrebbe potuto probabilmente compiere tutta l'opera sua nell'intero corso della sua vita. L'archeologo, oppure colui che si sprofonda nel materiale manoscritto inedito, probabilmente non avrà né il tempo né l'energia per fare opera storica di grandi dirriensioni. Da chi deve scrivere opere di questo genere non ci si dovrebbe attendere che faccia lui stesso il lavoro minuto di ricerca. Nelle scienze, questa situazione è ben riconosciuta. Le leggi di Keplero si fondarono sulle osservazioni di Tycho Brahe. Le teorie di Clerk Maxwelt erano basate sugli esperimenti del Faraday. Einstein non fece lui stesso le osservazioni su cui sono fondate le sue dottrine. Si può dire per grandi linee che una cosa è accumulare i fatti, altra cosa digerirli. Quando i fatti

    23ì sono molti e complessi, è quasi impossibile che un uomo solo faccia le due cose. Supponiamo, per esempio, che vogliate conoscere l'effetto della civiltà minoica sulla civiltà classica della Grecia. Non potrete davvero attendervi l'opinione più equilibrata o meglio informata da chi si sia occupato dell'opera difficilissima di accertare i fatti riguardanti la civiltà minoica. Lo stesso vale per problemi meno reconditi, come, ·per esempio, l'influsso di Plutarco sulla Rivoluzione francese. Il nome di Plutarco ci fa pensare. a un altro reparto della storia. La storia non si occupa solo di grandi eventi spettacolari, né di delineare diverse specie di società. La storia s'interessa anche, e a egual titolo, degli individui che sono per conto proprio degni di nota. Le Vite degli uomini illustri greci e romani di Plutarco hanno ispirato, a molti giovani dotati di ambizioni, carriere generose nelle quali non si sarebbero avventurati se non fosse stato per quel libro. Penso che nel nostro tempo ci sia tendenza a dedicare troppo poca attenzione all'individuo e troppa alla massa. Siamo così persuasi di vivere nell'Epoca dell'Uomo Comune, che gli uomini diventano comuni anche quando potrebbero non esserlo. C'è stato un movimento, specie nell'insegnamento della storia ai giovani, verso l'accentuazione dei tipi di cultura in contrapposizione agli atti dei singoli eroi. Fino a un certo punto, la cosa è del tutto lodevole. Otteniamo un senso migliore del procedere degli eventi se ci vien detto qualcosa intorno al modo di vivere dell'uomo di Cromagnon o dell'uomo di Neanderthal, ed è cosa mentalmente sana farsi un'idea delle case popolari di Roma in cui vivevano quei romani di cui Plutarco non fa menzione. Un libro come il Lavoratore del villaggio, degli Hammond, presenta tutto un periodo da un punto di vista di cui non è traccia nelle storie precedenti di tipo convenzionale. Tutto questo è vero e importante. Ma ciò che, sebbene importante, non è vero, bensì molto perniciosamente falso, è l'impressione, che si forma facilmente quando la storia è studiata soltanto in questo modo, che gli individui non contino, e che coloro che sono stati considerati come eroi siano

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    soltanto incarnazioni di forze sociali, il cui lavoro sarebbe stato fatto da qualcun altro se non fosse stato fatto da loro, e che, parlando all'ingrosso, nessun individuo può far di meglio che lasciarsi trascinare dalla corrente del suo tempo. Quello che c'è di peggio in tale opinione è che, se viene accettata, essa tende a diventare vera. Le vite eroiche sono ispirate da eroiche ambizioni, e il giovane che pensa che non c'è niente d'importante da fare quasi certamente non farà niente d'importante. Per queste ragioni penso che il genere di storia di cui ci danno esempio le Vite di Plutarco è assolutamente necessario quanto la storia a temi più generali. Pochissime persone possono costruire a modo loro una comunità. Lenin e Stalin sono gli unici che abbiano ottenuto questo nei tempi moderni. Ma un numero immensamente più vasto di uomini può attuare una vita individuale che sia significante. Ciò si applica non soltanto a quelle figure che possiamo considerare come modelli da imitare, ma a tutti coloro che forniscono materiale nuovo alla nostra immaginazione. L'imperatore Federico Il, per esempio, non merita assolutamente di essere imitato, ma nello scenario della nostra vita mentale costituisce un pezzo stupendo. La Méraviglia del Mondo che vagabondava qua e là con il suo serraglia, il quale alla fine si completò con l'aggiunta del suo primo ministro chiuso in gabbia che discuteva coi sapienti musulmani, e vinceva crociate benché fosse scomunicato, è un tipo sul quale mi dispiacerebbe di non avere qualche informazione. Tutti pensiamo che valga la pena di sapere qualche cosa a proposito dei grandi eroi della tragedia: Agamennone, Edipo, Amleto e gli altri; ma ci sono stati uomini veri la cui vita ebbe la stessa qualità di quella dei grandi eroi tragici, ed ebbe in più il merito di essere esistita realmente. Tutte le forme di grandezza, siano esse divine o diaboliche, partecipano di una certa qualità e io non vorrei vedere questa qualità soppressa o appiattita dal culto del mediocre. La prima volta che visitai l'America, quasi sessant'anni fa, conobbi una signora che da poco tempo aveva avuto un bambino. Qualcuno, casualmente osser-

    239 vò: « Forse sarà un genio». La signora, in un tono di orrore profondamente sentito, rispose: « Oh, spero di no! » Purtroppo il suo desiderio fu esaudito. Non intendo sottoscrivere al culto degli eroi di Carlyle, e meno ancora alla forma esagerata che esso trova in Nietzsche. Non voglio suggerire nemmeno per un istante che l'uomo comune non abbia importanza o che lo studio delle masse umane sia meno degno di essere perseguito che non lo studio degli individui notevoli. Vorrei soltanto che si mantenesse un giusto equilibrio tra i due. Penso che gli individui notevoli abbiano molto contribuito a foggiare la storia. Penso che, se i cento migliori uomini della scienza del secolo decimosettimo fossero tutti morti nell'infanzia, la vita dell'uomo comune in ogni comunità industriale sarebbe oggi molto diversa da quella che è. Non credo che se Shakespeare e Milton non fossero esistiti qualcun altro avrebbe composto le loro opere. Eppure questa è proprio la specie di convinzione che certi storici « scientifici » hanno l'aria di volerei. trasmettere. Andrò anche un passo più in là nell'accettare l'opinione di coloro che accentuano l'importanza dell'individuo. Ritengo che le cose più degne di essere conosciute e ammirate nelle faccende umane riguardino gli individui piuttosto che le comunità. Non credo nel valore indipendente di un raggruppamento di esseri umani, oltre e sopra il valore che si contiene nelle loro singole vite, e ritengo pericoloso che la storia trascuri il valore individuale per glorificare uno Stato, una Nazione, una Chiesa, o qualunque altra simile entità collettiva. Ma non mi spingerò oltre su questo argomento per non cadere nella politica. Penso che l'interesse del comune lettore per la storia sia diminuito nel nostro secolo, e per parte mia deploro grandemente questo declino. Esso si spiega con molte ragioni. In primo luogo, la lettura tutta quanta è in declino. La gente va al cinema, o ascolta la radio o guarda la televisione. La gente si abbandona a una curiosa passione per gli spostamenti sulla superficie della terra, e li vuole quanto più rapidi possibile, e unisce

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    questa passione allo sforzo di far sì che tutte le parti della superficie della terra prendano esattamente lo stesso aspetto. Ma persino coloro che persistono nell'ambito delle serie letture impiegano minor tempo nelle letture storiche che non i lettori seri dei tempi passati. Ci fu un tempo in cui il mio amico Whitehead usava la Storia del Concilio di trento di Paolo Sarpi come livre de chevet. Mi domando se ci sia oggi una sola persona vivente che faccia altrettanto. Non c'è più quell'interesse per la storia che c'era una volta, in parte perché il presente è così pieno di fatti importanti, e così fitto di cambiamenti rapidi, che molta gente non trova né il tempo né l'inclinazione a rivolgere la propria attenzione ai secoli passati. Una vita di Hitler o di Lenin o di Stalin o di Trotzki può essere altrettanto interessante per se stessa quanto una vita di Napoleone e ha, in più, maggior rilievo rispetto ai problemi del nostro tempo. Dovremo ammettere, temo, che il declino nella lettura delle opere di storia, abbia anche un'altra causa, ed è il declino nell'arte dello scrivere storia alla grande maniera. Non so con quanta passione fossero letti Erodoto, o Tucidide, o Polibio, o Plutarco, o Tacito dai loro contemporanei, ma tutti sappiamo che le opere degli storici erano accolte appassionatamente nel diciottesimo e nel diciannòvesirno secolo. In Inghilterra vi fu una lunga serie d'opere storiche dalla Storia della Ribellione del Clarendon fino al Macaulay. In Francia, dal tempo di Voltaire in poi, la storia è stata il campo di battaglia di filosofie rivali. In Germania, sotto l'influsso di Hegel, gli storici, nelle loro opere, mescolarono genialità e cattiveria in eguali proporzioni. Non credo che sarebbe ingiusto verso Mornmsen dire che la sua storia ebbe due terni: uno, grandezza di Cesare perché distrusse la libertà; l'altro che Cartagine era come l'Inghilterra e Roma come la Germania, e che le future guerre puniche, ch'egli si augurava, avrebbero avuto un esito analogo alle antiche. L'influenza di Treitschke nel diffondere un mito pernicioso è generalmente riconosciuta. Quando parliamo dell'importanza della storia, dobbiamo ammettere che essa è impor-

    241 tante per il male come per il bene. Questo vale specialmente per quei miti popolati che sono divenuti gradualmente parte del folclore. Una volta andai in Irlanda con i miei due bambini. Mia figlia, che aveva cinque anni, fece amicizia con una contadina che la trattava con grande gentilezza. Ma, mentre stavamo partendo, la donna disse: « B una graziosa bambina, malgrado Cromwell »·. B un peccato che quella donna non conoscesse qualcosa di più della storia, oppure qualcosa di meno. La decadenza della tradizione delle grandi opere storiche è solo una parte della decadenza nella produzione di grandi libri. Gli uomini di scienza non scrivono, oggi, libri comparabili ai Principia di Newton o all'Origine della specie di Darwin. I poeti non scrivono più poemi epici. Nel mondo della cultura, ogni cosa si muove così velocemente che un libro ponderoso sarebbe invecchiato prima ancora di essere pubblicato. I contributi agli studi escono nei periodici, non in volumi separati, e pochi, in ogni ramo della cultura, hanno l'impressione che vi sia tempo per quella distesa visione d'insieme dalla quale sorgevano in altri tempi i grandi libri. Ci sono naturalmente eccezioni. Una delle più notevoli è rappresentata dal professar Toynbee, la cui opera è altrettanto ponderosa quanto quelle comparse in altri tempi. Ma le eccezioni non sono abbastanza numerose da dimostrare l'inesistenza di questo andazzo generale. Suppongo che questa tendenza durerà finché il mondo non si assesti in qualche forma di progresso meno confusionario della presente corsa verso l'abisso. Credo che la storia abbia una parte importante da svolgere nel ridare la sanità dello spirito a questo mondo ubriaco. Non voglio dire che questo ci debba essere apportato da una qualche « lezione della storia )), né certamente da qualcosa che si possa esprimere con una facile formula verbale. Ciò che la storia può e dovrebbe fare, non soltanto per gli storici, ma per tutti coloro che hanno ricevuto dall'educazione qualche larghezza di vedute, è di dare un certo tono allo spirito, un certo modo di pensare e di sentire nei confronti degli avve-

    24? nimenti contemporanei e del loro rapporto con il passato e con il futuro. Non so se dovremmo accettare la tesi di Cornford, che Tucidide modellò la sua storia sulla tragedia attica; ma, se lo fece, gli avvenimenti che descrisse giustificavano pienamente questo suo procedimento, e gli ateniesi, se si fossero visti nella luce di attori di una possibile tragedia, avrebbero potuto avere la saggezza di evitare il tragico esito della loro condotta. E: antica dottrina che la tragedia venga dalla sfrenata violenza, ma non è meno vera per essere antica, e la violenza ricorre in ogni epoca, tra coloro che hanno dimenticato i disastri ai quali essa ha sempre condotto. Nel nostro tempo, il genere umano collettivamente si è abbandonato a un grado di violenza bestiale, che sorpassa tutto quanto si sia mai visto nelle epoche precedenti. In passato, Prometeo era considerato un potenziale liberatorè, limitato nel suo compito benefico dalla tirannia di Zeus, ma ora cominciamo a desiderare che ci fosse uno Zeus a tenere a dovere i moderni seguaci di Prometeo. Prometeo si proponeva di servire il genere umano: i suoi moderni seguaci servono le passioni del genere umano, ma solo quelle folli e distruttive. Nel mondo moderno ci sono uomini intelligenti nei laboratori e pazzi al potere. Gli uomini d'ingegno sono schiavi, come i ginni nelle Mille e una notte. Il genere umano collettivamente, sotto la guida dei pazzi e per l'ingegnosità degli schiavi intelligenti, è impegnato nella grande impresa di preparare il proprio sterminio. Vorréi ci fosse un Tucidide che trattasse questo tema come merita. Non posso fare a meno di pensare che gli uomini al potere, se fossero imbevuti di senso storico, troverebbero il modo di evitare la catastrofe che tutti vedono avvicinarsi e che nessuno desidera, poiché la storia non è soltanto il racconto dei fatti di questa o di quella nazione, e nemmeno di questo o di quel continente; il suo tema è l'Uomo, quello strano prodotto dell'evoluzione che si è sollevato per mezzo dell'intelligenza fino al dominio su tutte le altre forme di vita, e perfino, con suo grande pericclo, al dominio sulle forze della natura inanimata. Ma l'Uomo,

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    a dispPtto della sua intelligenza, non hll imparato a pensare alla. famiglia umana come a una sola famiglia. Sebbene abbia abolito la giungla, egli si hscia ancora governare dalla legge della giungla. Possiede scarsamente il senso dei compiti comuni a tutta l'umanità, delle sue opere nel passato e dei suoi possibili e ancor maggiori successi nell'avvenire. Egli vede gli altri uomini, non come collaboratori in un'impresa comune, ma come nemici che uccideranno se non verranno uccisi. Quale che sia la sua setta o il suo partito, crede che esso incarni l'ultima ed eterna saggezza, e che il partito contrario incarni l'ultima e assoluta follia. Per chiunque abbia una qualche cultura storica, un'opinione come questa è assurda. Nel passato, nessuna parte dell'umanità è stata mai così eccellente come ha creduto di essere, né così malvagia come è stata giudicata dai suoi nemici; ma nel passato, l'umanità ha potuto attuare le sue finalità comuni a dispetto di tante lotte, benché l'abbia fatto con. grandi indugi e con ritorni indietro che furono, per un certo tempo, disastrosi. Ma nell'epoca nostra, la conoscenza che abbiamo delle cose è compatibile con la nostra sopravvivenza solo se sia accompagnata da una nuova saggezza. La saggezza che si richiede è nuova solo in un senso: che deve essere sentita dalle masse e, soprattutto, da coloro che hanno in mano un grande potere. Essa non è nuova nel senso che non sia stata mai proclamata nel passato. E stata prociamata da uomini saggi per secoli e secoli, ma alla loro saggezza non si è dato ascolto. Ora, è passato il tempo in cui la saggezza poteva essere trattata come nient'altro che un sogno ozioso di visionari. A volte, quando mi sento più oppresso dal timore del disastro incombente, sono tentato di pensare che il mondo ha bisogno di un profeta il quale proclami, con una voce in cui si uniscano le potenze del tuono e il più profondo senso di compassione, che la strada su cui sta andando l'umanita è una strada sbagliata, una strada che porta alla morte dei nostri figli e all'estinzione di ogni speranza, ma che c'è un'altra strada che gli uomini possono prendere se lo vogliono e quest'altra strada porta a

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    un mondo migliore di quanti ne siano mai esistiti in passato. Ma, sebbene questa visione di un profeta possibile sia tale da offrirei una momentanea consolazione, ciò di cui il mondo abbisogna è qualcosa di più difficile, di più raro. Se un profeta sorgesse nell'Oriente, verrebbe liquidato; se un profetta sorgesse nell'Occidente, la sua parola non verrebbe udita nell'Oriente, e nell'Occidente sarebbe predestinato a ogni specie di maldicenza. Non è con l'azione di un solo ir..dividuo, per quanto grande e per quanto eloquente egli sia, che si può salvare il mondo. Lo si potrà salvare solo quando, nei paesi più potenti del mondo, i governanti e i seguaci loro si renderanno conto di avere perseguito fino a questo momento un miraggio che li trascina unicamente verso una morte ignominiosa, in un marasma di odio insensato. La follia collettiva non è ancora universale. Alcune nazioni ne rimangono completamente fuori, alcune ne sono vittime solo in parte. Non è troppo tardi per la speranza che l'umanità possa avere un avvenire e non solo un passato. Penso che, se vogliamo che gli uomini sentano questa speranza con una chiarezza tale da conferirle un potere dinamico, la coscienza della storia sia una delle maggiori forze di cui debba venire avvertito il richiamo benefico.

    COME

    SCRIVO

    NoN posso pretendere di sapere come si dovrebbe scrivere, o che cosa mi consiglierebbe un critico sapiente per migliorare il mio modo di scrivere. Tutto quello che posso fare è di riferire certe cose che riguardano i miei sforzi in materia. Fino a ventun anni, desideravo scrivere più o meno nello stile di John Stuart Mill. Mi piacevano la struttura dei suoi periodi e la sua maniera di sviluppare un tema. Però avevo già un ideale diverso, che derivavo, suppongo, dalla matematica. Desideravo dire ogni cosa col minor numero di parole in cui potesse venir detta chiaramente. Forse, pensavo, bisognerebbe imitare il Baedeker piuttosto che un qualunque altro modello più letterario. Passavo ore intere a cercare il modo più breve per dire una certa cosa senza ambiguità, e a questo ideale ero pronto a sacrificare qualunque tentativo di raggiungere una perfezione estetica. A ventun anni, però, caddi sotto un nuovo influsso, ossia quello del mio futuro cognato, . Logan Pearsall Smith. A quel tempo egli si preoccupava esclusivamente dello stile, come cosa distinta dalla materia trattata. Le sue divinità erano Flaubert e Walter Pater, e io fui del tutto pronto a credere che per imparare a scrivere la via giusta consistesse nel copiare la loro tecnica. Egli mi fornì alcune regole semplici di cui ne ricordo solo due: « Metti una virgola ogni quattro parole», e ;, ossia cose che sono fatte semplicemente perché divertono, e non perché servono a un qualche fine serio. La cornice stabile deve concretare in sé impulsi abbastanza costanti: per esempio, quelli legati alla famiglia o al lavoro. Se la famiglia è diventata decisamente odiosa, o il lavoro uniformemente repulsivo, essi non potranno più dare- felicità; ma vale la pena di sopportare o odiosità o repulsività occasionati, a patto che non le sentiamo come continuative. Ed è molto meno probabile che noi le sentiamo come continuative se si approfitta di quelle opportunità che si presentano per il « gioco ». A mio giudizio, tutto quanto il tema della felicità è stato sempre trattato in modo troppo solenne. Si è pensato che gli uomini non possono essere felici senza una teoria della vita o una religione. Forse, coloro che sono stati resi infelici da una cattiva teoria possono aver bisogno di una teoria migliore che li aiuti a riprendersi, così com-e potete aver bisogno di un tonico quando siete stati malati. Ma, a cose normali, uno dovrebbe essere sano senza tonici e felice senza teorie. Sono le cose semplici quelle che importano realmente. Se un uomo trae diletto da sua moglie e dai figli, ha successo nel lavoro, e trova piacere nell'alternarsi del giorno e della notte, della primavera e dell'autunno, sarà felice quale che possa essere la sua filosofia. Se viceversa trova che la moglie è odiosa, il chiasso dei bambini insopportabile e l'ufficio un incubo; se durante il giorno desidera la notte e di notte sospira la luce del giorno, allora quello che gli ci vuole non è una nuova filosofia, ma un nuovo regime, una diversa dieta, o più esercizio fisico o che so io. L'uomo è un animale e la sua felicità dipende dalla sua fisiologia più che egli non ami pensare. Questa è un'umile conclusione, ma non posso convincermi che sia errata. Sono convinto che molti uomini d'affari molto infelici aumenterebbero la loro feli-

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    cità assai più se facessero a piedi dieci chilometri tutti i giorni che non per mezzo di un qualunque cambiamento di filosofia. Questa, sia detto per inciso, era l'opinione di Jefferson che, per tali motivi, deplorava l'uso del cavallo. Se avesse potuto prevedere l'automobile, gli sarebbero mancate le parole sufficienti a dire quel che provava.

    SINTOMI

    DEL

    »1984«

    DI

    ORWELL

    IL 1984 di George Orwell è un libro sinistro che giustamente ha fatto rabbrividire i suoi lettori. Eppure non ha avuto l'effetto che, senza dubbio, il suo autore voleva. La gente osservò che Orwell era malatissimo quando lo scrisse, e infatti morì poco dopo. Il frisson che provarono leggendo quegli orrori piacque loro abbastanza e pensarono: « Oh be', si capisce che la cosa non sarà mai così brutta, tranne in Russia! t:. evidente che l'autore se la spassa in mezzo alle cose sinistre; e anche noi ci divertiamo, a patto di non prenderlo sul serio ». Essendosi consolata con queste comode falsità, la gente continuò a marciare per quella via che può portare i pronostici di Orwell a diventar veri. Pezzo per pezzo, un passo dopo l'altro, il mondo ha marciato verso l'attuazione degli incubi di Orwell; ma poiché la marcia è stata graduale, la gente non si è resa conto di quanto cammino abbia già fatto su questa strada fatale. Solo coloro che ricordano il mondo prima del 1914 possono rendersi conto in modo adeguato di quanto già si sia perso. In quell'epoca felice, si poteva viaggiare senza passaporto, dappertutto tranne in Russia, si poteva esprimere liberamente qualunque opinione politica tranne in Russia. La censura della stampa era sconosciuta, tranne in Russia. Qualunque uomo bianco poteva emigrare liberamente in qualunque parte del mondo. Le limitazioni della libertà nella Russia zarista erano guardate con orrore in tutto il resto del mondo civile, e il potere della polizia segreta russa era considerato un abominio. La Russia è ancor oggi peggio del mondo occidentale, non perché il mondo occidentale abbia conservato le sue libertà, ma perché, mentre esso le andava perdendo, la Russia si è spinta nella direzione della tirannia più di quel che uno zar abbia mai pensato di fare. Per molto tempo dopo la Rivoluzione russa si era soliti dire: « Senza dubbio il nuovo regime ha i suoi difetti, ma in ogni caso è meglio di quello che ha soppiantato )), Era una ·completa illusione. Quando si rileggono le storie delle deportazioni in Siberia sotto gli zar, è impossibile ritrovare quel senso di revulsione con

    262 cui le si leggevano molto tempo fa. Gli esiliati godevano di una misura di libertà, sia mentale sia fisica molto considerevole, e la loro sorte non era in nessu~ modo paragonabile a quella di coloro che vengono mandati ai lavori forzati sotto il governo sovietico. I russi colti potevano viaggiare liberamente e godere contatti con europei dell'Occidente che oggi sono impossibili. L'opposizione al Governo, sebbene facilmente venisse punita, era possibile, e la punizione, di regola, non poteva essere nemmeno paragonata, per severità, a quella che è diventata ora. Né la tirannia aveva allora un'estensione anche solo paragonabile a quella che ha oggi. Ho letto recentemente la storia della vita giovanile di Trotzki quale viene riferita dal Deutscher, ed essa rivela un grado di libertà politica e intellettuale che non trova nulla di pÌuagonabile nella Russia di oggi. C'è ancora un grande iato tra la Russia e l'Occidente, come c'era ai tempi degli zar, ma non credo che la distanza sia maggiore di quella che era allora, perché, mentre la Russia ha peggiorato, anche l'Occidente ha perso molto di quella libertà di cui un tempo godeva. Il problema non è nuovo se non quantitativamente. Dal principio della civiltà in poi, le autorità della maggior parte degli Stati hanno perseguitato i migliori uomini tra i loro sudditi. Siamo tutti sdegnati per la maniera in cui furono trattati Socrate e Cristo, ma i più non si rendono conto del fatto che questo è stato il destino di gran numero degli uomini che nei tempi successivi sono stati considerati particolarmente ammirevoli. Per la maggior parte dei filosofi greci dell'antichità furono fuorusciti. Aristotele fu protetto, nei confronti dell'ostilità di Atene, soltanto dagli eserciti di Alessandro, e, quando morì Alessandro, Aristotele dovette fuggire. Nel diciassettesimo secolo gli innovatori nel campo delle scienze furono perseguitati quasi dappertutto, tranne in Olanda. Spinoza non avrebbe avuto nessuna possibilità di fare il suo lavoro se non fosse stato olandese. Descartes e Locke ritennero prudente fuggire in Olanda. Quando l'Inghilterra, nel 1688, si ebbe un re olandese, essa adottò la tolleranza olandese

    263 ed è stata, da allora in poi, più liberale della maggior parte degli altri Stati, tranne nel periodo delle guerre contro la Francia rivoluzionaria e Napoleone. Nella maggior parte dei paesi e in quasi tutti i tempi, tutto ciò che in seguito venne a essere considerato eccellente fu, nel suo tempo, guardato con orrore da quelli che erano al potere. Ciò che è nuovo nel nostro tempo è l'accresciuto potere che hanno le autorità di costringere gli altri a subire i loro pregiudizi. Dappertutto la polizia è molto più potente di quanto non sia mai stata; e la polizia, mentre serve a uno scopo utile nel reprimere i delitti ordinari, tende a essere altrettanto attiva nella repressione di ogni merito straordinario. Il problema non è limitato a questo o quel paese, benché l'intensità del male non sia distribuita egualmente. Nel mio paese le cose si fanno più alla chetichella, e con minore agitazione, che non negli Stati Uniti, e il pubblico ne è molto meno informato. Ci sono state epurazioni nei servizi civili britannici, condotte senza che ci avessero nulla a vedere i comitati parlamentari, come negli Stati Uniti. Il Ministero degli Intemi di Londra, che controlla l'immigrazione·, è profondamente illiberale, tranne quando l'opinione pubblica può essere mobilitata contro di esso. Un mio amico polacco, scrittore molto brillante che non era mai stato comunista, chiese la propria naturalizzazione in· Inghilterra dopo aver vissuto a lungo in quel paese, ma dapprincipio la sua domanda venne respinta perché egli era amico dell'ambasciatore polacco. La richiesta fu accolta soltanto, alla fine, in seguito alla protesta di varie persone di ineccepibile reputazione. Il diritto d'asilo per i rifugiati politici, di cui l'Inghilterra soleva vantarsi, è stato ora abbandonato dal Ministero degli Interni, sebbene possa venire forse ripristinato in seguito ad agitazioni dell'opinione pubblica. Questo generale peggioramento nei riguardi della libertà ha la sua ragione. Tale ragione è l'accresciuto potere delle organizzazioni e la misura sempre crescente in cui le azioni degli uomini sono controllate da questo o

    264 quel grande organismo. Ogni organizzazione ha due scopi: primo, lo scopo manifesto per cui l'organizzazione esiste; secondo, l'accrescimento del potere dei suoi funzionari. ~ facile che questo secondo scopo interessi i funzionari in questione più che non la funzione pubblica e generale cui essi sono chiamati a servire. Se cadete in disgrazia presso la polizia cercando di smascherare qualche iniquità di cui essa si è resa colpevole, dovete attendervi la sua ostilità; e, in tal caso, è molto probabile che abbiate a soffrime duramente. In molte persone di spirito liberale ho trovato una convinzione secondo la quale tutto va bene fin tanto che le corti di giustizia decidono in modo corretto quando una causa viene portata davanti a loro. Questa opinione è interamente irrealistica. Supponiamo, per scegliere un caso che non è affatto ipotetico, che un professore venga licenziato in seguito a una falsa accusa di slea!tà. Se per caso ha amici ricchi potrà riuscire a dimostrare in tribunale che l'accusa è falsa, ma probabilmente questo prenderà anni, durante i quali egli morirà di fame, o dovrà dipendere dalla carità altrui. Alla fine, egli è sempre un uomo segnato. Le autorità universitarie, rese più astute dall'esperienza, diranno che è un cattivo insegnante e che non fa abbastanza lavoro di ricerca. Egli si troverà a· essere nuo~amente licenziato, e questa volta senza scampo, ché pochi gli offrirebbero un posto. ~ ben vero che vi sono alcuni istituti educativi in America i quali, finora, hanno avuto la forza di resistere. Questo, però, è solo possibile per un istituto che abbia un grande prestigio e la cui politica sia condotta da uomini coraggiosi. Considerate, per esempio, ciò che il senatore McCarthy ha detto di Harvard. Egli ha detto che « non .poteva concepire come qualcuno mandasse i propri figli all'Università di Harvard, dove sarebbero stati e!!posti a venire addottrinati da professori comunisti ». A Harvard, egli ha detto, c'è una « maleodorante confusione, di cui dovrebbero essere informati coloro che vi mandano i propri figli e le proprie figlie ». Un'istituzione meno eminente di Harvard difficilmente avrebbe potuto far fronte a un simile attacco.

    265 II potere della polizia, però, è un fenomeno p!U serio e più universale che non fosse il senatore McCarthy. S'intende che esso è grandemente accresciuto dall'atmosfera di paura che esiste da tutt'e due i lati della cortina di ferro. Se vivete in Russia e cessate di solidarizzare con il comunismo, ne avrete a soffrire, a meno che non conserviate il silenzio anche nell'intimità della vostra famiglia. In America, se siete stato comunista e cessate di esserlo, siete esposto anche qui a sanzioni: non legali, a meno che non siate caduto nella trappola di un'accusa di spergiuro, ma economiche e sociali. C'è una sola cosa che potete fare per sfuggire a tali sanzioni, e consiste nel vendervi al Ministero della Giustizia come informatore; e in tal caso il vostro successo dipenderà dalle storie incredibili che riuscirete a far credere al FBI. Il crescente potere dell'organizzazione nel mondo moderno rende necessarie nuove istituzioni se vogliamo che si salvi qualcosa di ciò che è la libertà! La situazione è analoga a quella che si creò nel sedicesimo secolo in seguito al crescente potere dei monarchi. Tutta la battaglia del liberalismo tradizionale fu combattuta e vinta contro il loro eccessivo potere. Ma dopo che il loro potere era svanito, sorsero nuovi poteri almeno altrettanto pericolosi, e il peggiore di questi, ai tempi nostri, è il potere della polizia. Per quanto io possa vedere, c'è un solo rimedio possibile, ed è l'isti· tuzione di una seconda forza di polizia intesa a provare l'innocenza, non la colpevolezza. Si dice spesso che è meglio che novantanove colpevoli sfuggano alla punizione piuttosto che venga condannato un solo innocente. Le nostre istituzioni sono fondate sulla concezione opposta. Se un uomo è accusato, per esempio, di un omicidio, tutte le risorse dello Stato, sotto forma di poliziotti e detectives, vengono impiegate per dimostrare la sua colpevolezza, mentre viene lasciata ai suoi sforzi individuali la dimostrazione della sua innocenza. Se egli impiega detectives, questi dovranno essere privati, e pagati di tasca sua o dagli amici. Quale che sia stata fino ad allora la sua occupazione, non avrà né il tempo né le possibilità di continuare a guadagnare denaro

    266 con quella. Gli avvocati d'accusa sono pagati dallo Stato. I suoi avvocati devono essere pagati da lui, a meno che non protesti la sua povertà, nel qual caso è probabile che essi siano meno eminenti di quelli che sosterranno l'accusa. Tutto ciò è assolutamente ingiusto. f: per lo meno altrettanto consono all'interesse pubblico dimostrare che un uomo innocente non ha commesso un delitto, quanto lo è dimostrare che un cofpevole lo ha commesso. Una forza di polizia istituita per dimostrare l'innocenza non dovrebbe mai tentar di dimostrare la colpevolezza di nessuno, tranne in una categoria di casi: ossia, quando sono le autorità che vengono sospettate di un delitto. Penso che la creazione di una siffatta seconda forza di polizia potrebbe consentirci di salvare qualcuna delle nostre libertà tradizionali, ma non credo che nessuna misura meno importante di questa otterrebbe un tale risultato. Una delle peggiori cons~uenze del moderno accrescimento del potere delle autorità è la soppressione del vero e la diffusione del falso per mezzo di organismi pubblici di divulgazione. I russi vengono tenuti per quanto possibile all'oscuro circa i paesi occidentali, a tal punto che la gente di Mosca immagina che la loro ferrovia sotterranea sia la sola nel mondo. Gli intellettuali cinesi, dopo che la Cina è diventata comunista, sono stati sottoposti a un orribile processo chiamato « lavaggio del cervello ». Uomini dotti che hanno acquisito tutta la conoscenza che si può ottenere nella loro disciplina dall'America o dall'Europa occidentale, sono obbligati a fare abiura di ciò che hanno imparato e a dichiarare che tutto ciò che vale la pena di conoscere deve provenire da fonti comuniste. Vengono assoggettati a una tale pressione psicologica che ne escono moralmente spezzati, e solo capaci di ripetere come tanti pappagalli le rozze formule impartite dai loro superiori della burocrazia ufficiale. In Russia e in Cina questa specie di trattamento viene amministrato coercitivamente con la minaccia di punizioni dirette, non soltanto agli individui che recalcitrano, ma anche alle loro famiglie. In altri paesi questo stesso sviluppo di cose non è an-

    267 cora andato così lontano. Coloro che riferirono la verità sui mali che affliggevano il regime di Ciang Kaishek durante gli ultimi anni del suo predominio in Cina non vennero liquidati, ma fu fatto tutto il possibile per impedire che le loro relazioni veritiere fossero credute, e divennero sospetti in misura diversa, che variava secondo la loro eminenza. Riferendo la verità al proprio Governo sulle cose che trova in un paese straniero, un uomo, se il suo rapporto non concorda coi pregiudizi ufficiali, non solo si espone a un rischio personale assai grave, ma sa che le sue informazioni verranno ignorate. Naturalmente, non c'è niente di nuovo in questo se non nella misura in cui esso si manifesta. Nel 1899 il generale Buller, che era al comando delle forze britanniche in Sud Africa, riferì che ci sarebbe voluto un esercito di almeno duecentomila soldati per sottomettere i boeri. Per avere espresso quest'opinione im~ popolare, egli venne dimesso, e rton gli fu dato nessun credito quando si dimostrò che la sua opinione era giusta. Però, seppure questi malanni non siano nuovi, essi hanno un'estensione molto maggiore di quella che avevano un tempo. Anche tra coloro che si considerano più o meno liberali, non c'è più la convinzione che sia bene studiare tutti gli aspetti di una questione. L'epurazione delle biblioteche degli Stati Uniti in Europa, e delle biblioteche scolastiche in America, è fatta per impedire che la gente conosca più di un solo aspetto di tutte le questioni. L'lndex Expurgatorius è diventato una parte riconosciuta della politica di coloro che dicono di combattere per la libertà. A quanto sembra, le autorità non sono più abbastanza convinte della giustizia della loro causa per ritenere che essa possa sopravvivere al cimento della discussione libera. Solo a patto che non venga ascoltata l'altra parte esse hanno fiducia di venir credute. Ciò dimostra una triste decadenza nel rigore della nostra fede per quanto riguarda le nostre istituzioni. Durante la guerra, i nazisti non permettevano ai tedeschi di ascoltare la radio britannica, ma a nessuno in Inghilterra veniva impedito di ascoltare la radio tedesca, perché la nostra fede nella

    268 nostra causa era incrollabile. Finché impediamo ai comunisti di farsi ascoltare, produciamo l'impressione che essi debbano avere fortissimi argomenti a proprio favore. La libertà di parola veniva sostenuta un tempo perché si affermava che la discussione libera avrebbe portato alla vittoria dell'opinione migliore. Si va perdendo questa convinzione sotto l'influsso della paura. Il risultato è che la verità è una cosa e la