Cinquanta ritratti biblici [PDF]

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Zitiervorschau

PAUL BEAUCHAMP

CINQUANTA RITRATTI BIBLICI Introduzione di l'Ves Simoens

prima ristampa

CITI ADELLA EDITRICE - ASSISI

titolo originale CINQUANTE PORTRAITS BIBLIQUES traduzione di HILVA MARTORANA revisione di ESTER ABBATTISTA cura redazionale di Antonio Lova © ÉDITIONS DU SEUIL Paris 2000 per la lingua italiana ©CITTADELLA EDITRICE-ASSISI 1a edizione: maggio 2004 1a ristampa: settembre 2007 ISBN 978-88-308-0789-1 stampa Studio VD Città di Castello (PG) Fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall'art. 68, comma 4, della legge 22 aprile 1941 n. 633, ovvero dall'accordo stipulato tra SIAE, AIE, SNS e CNA, CONFARTIGIANATO, CASA, CLAAI, CONFCOMMERCIO, CONFESERCENTI il 18 dicembre 2000. Le riproduzioni per uso differente da quello personale potranno awenire solo a seguito di specifica autorizzazione rilasciata dall'editore.

EREDE DELLA BIBBIA Per leggere l'opera di Paul Beauchamp Introduzione di Yves Simoens

Premessa

La parola di Dio nella Sacra Scrittura, dal Pentateuco fino a Gesù e viva ancora oggi, alterna racconti e leggi. Lo stesso vale per la parola umana trascritta dall'uomo e i due ultimi libri di Paul Beauchamp appartengono a questi due generi. Questa introduzione alla sua opera vuole metterne in risalto i due assi portanti: i Cinquanta ritratti biblici sono classificati come "Racconti", mentre La legge di Dio appartiene ovviamente alla categoria "Legge".

I. Il racconto

1. L'universale non è immediato Spesso le ultime righe di un grande libro ne forniscono la chiave. È il caso di Cinquanta ritratti biblici. Raramente Paul Beauchamp è stato così esplicito nell'esporre il suo progetto. «La fede cristiana crede e annuncia che Gesù è venuto non solo a mantenere la promessa ma ad entrare nello spa-

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zio prodotto da questa attesa, senza peraltro chiuderlo. I primi lettori ci hanno dato la loro chiave del Libro, dicendo di averla ricevuta da Gesù stesso: "Era necessario" che il Messia soffrisse per mano dei peccatori perché nel suo Nome fosse esercitato il "ministero della riconciliazione"» (2 Co 5,18) 1• Il primo capitolo dell'opera - Abramo l'eletto - non è meno eloquente. Presenta il dispositivo di differenziazione, destinato a dispiegarsi: «L'elezione (poiché di questo si tratta) non è né assurda né oscura. Inventiamoci per un momento un altro testo: "Dio dice a tutti gli uomini: 'Amo tutti gli uomini"'. Noi saremmo nell'immaginario e nell'insignificante: nessuno ascolta o non si muove nessuno. Poniamo allora che: "Dio dica a qualcuno: 'Amo tutti gli uomini, diglielo"'. Non è abbastanza. Rimarremmo vittime di un'astrazione: sarà sufficiente agli uomini il venire a sapere di essere amati, e su che cosa si baserà l'inviato per dare questa informazione? In realtà, con Abramo, Dio dice ad un individuo: "Ti amo e quindi mi prendo cura di te e voglio che tutti gli uomini lo sappiano e che, sapendolo, ti benedicano!"»2 • Ritornando alla fine del libro, vediamo che tre sfide si affermano nitidamente. Si tratta di dare alla promessa uno spessore umano tanto forte che "mantenere la promessa" basti a suscitare e a coltivare il desiderio di accedere personalmente alla promessa mantenuta. Il rischio di ricercare la promessa senza rispettarne le condizioni non è affatto illusorio. Infatti, nella Bibbia il termine in quanto tale non esiste se non sotto la forma di fedeltà a un giuramento in cui Dio s'impegna per primo. Da qui la necessità - seconda sfida- di "entrare nello spàzio prodotto dall'attesa" del1 2

Cinquanta ritratti biblici, pp. 249-250. Ibidem, p. 35.

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la promessa. Terza sfida: non chiudere né la promessa né l'attesa né lo spazio così aperto saturandoli di contenuti anestetizzanti che non concedano loro libertà sufficienti al dispiegarsi della vita. L'interesse di aprire il Libro biblico consiste allora in un paziente riappropriarsi del modo con cui la promessa ha visto la luce, come sia stata mantenuta prima di Cristo e con Lui, e come sia a tutt'oggi capace di orientare le esistenze. È proprio questo che rende interessante l'opera di Paul Beauchamp, ed in particolare la novità della sua lettura dell'insieme dell'Antico Testamento alla luce del Nuovo. Percorso di Storia sacra aggiornato per ritrovare e ridare il gusto di una lettura d'insieme della Bibbia che onori l'esegesi moderna per meglio ritrovare il senso delle Scritture nei differenti possibili livelli di comprensione. La semplicità dei capitoli è solo apparente. Ognuno può trovarvi nutrimento, dal lettore più colto o più esigente all'appassionato soprattutto desideroso di essere avviato alla letteratura biblica. Non mancano le opere tecniche introduttive. Rare sono quelle che stimolano il desiderio di saperne di più andando a guardare da più vicino. Qui si tratta di una questione di vita o di morte della fede. Beauchamp ne era consapevole. Il suo orizzonte non era solamente la società francese, europea o più largamente quella occidentale contemporanea. Era anche la Cina. Come trasmettere fedelmente l'eredità biblica a tutti, da Occidente a Oriente nel rispetto, allo stesso tempo, della peculiarità ebraica e della sua apertura costitutiva alle Nazioni? Tale è la questione, tale rimane per chiunque si lasci interpellare da Gesù e dal vangelo. Si tratta quindi di rispettare le lunghe mediazioni per non mollare mai il testo biblico prima che abbia rivelato almeno uno dei suoi segreti. P. Beauchamp chiamava «il lavoro dell 'Uno» 3, 3 «Compimento, opera dell'Uno: l'ipotesi suggerisce di porre la lettura di tutta la Genesi sotto il segno di una domanda: Cos'è essere Uno? È il problema

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in L'uno e l'altro Testamento, Il. Compiere le Scritture, l'arte con cui gli autori biblici si alternavano per cercare di esaudire questo desiderio dell'Uno che abita in tutti noi. Il testo della seconda epistola di san Paolo ai Corinzi, citato in conclusione dei Cinquanta ritratti biblici, rende anche sensibili a una dimensione di riconciliazione. Le questioni poste in gioco non sono astratte. Hanno sollevato i conflitti più sanguinosi del XX secolo, che non si sono del tutto risolti nel XXI. Questo spiega l'attuale interesse del messaggio biblico e l'importanza di un'opera che ci aiuta a scoprirne sempre più le sfide e le mediazioni, necessarie perché la Bibbia possa continuare a operare nella cultura e nel mondo. Non mancano gruppi settari, anche all'interno della comunità cristiana, che corrono sempre il rischio di sequestrare la Bibbia per fini ideologici. Vi sono anche mode intellettuali che non dovrebbero confinare la Bibbia a cerchie troppo ristrette di iniziati o di specialisti. Per tutti questi motivi Paul Beauchamp guida con mano fraterna da maestro umile, ma competente - nel cuore delle questioni più scottanti e più tradizionali. Per prevenire una possibile obiezione a questa insistenza sulle lunghe mediazioni della Sacra Scrittura per accedere al senso, occorre sottolineare che il lavoro sui testi presuppone e conduce all'immediatezza con Dio, caratteristica della Nuova Alleanza. «E tutti saranno ammaestrati da Dio» (Is 54,13 citato da Gv 6,45)4 rimane un'acquisizione inalienabile. Ma per realizzare il Dono così offerto, per midi Dio, è il problema dell'uomo» in BEAUCHAMP P., L'uno e l'altro Testamento. Compiere le Scritture, Glossa, Milano 2001, p. 239. La domanda va in questo senso oltre i limiti della Genesi e invade tutto il corpus biblico; si veda anche p. 295, a proposito della Pasqua: «La contrazione o concentrazione dei simboli attraverso il travaglio dell'Uno sfocia in un'esperienza dell'indicibile, riconosciuta da tutti come inseparabile dall'accesso a Dio». 4 Fusione con Ger 31,34: «Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri, dicendo: Riconoscete il Signore, perché tutti mi riconosceranno, dal più piccolo

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surame la portata, «l'ampiezza, la lunghezza, l'altezza e la profondità» (Ef 3,18), nessun esercizio appare più importante o più urgente di assiduamente visitare e rivisitare, ripercorrendole in lungo e in largo, le tradizioni fondatrici dell'Antico Testamento, ancora così poco conosciute dalla maggioranza dei cristiani.

2. La ricerca del senso Il genio di P. Beauchamp esplode quando si tratta di conciliare la competenza intellettuale e l'umiltà più evangelica nell'affrontare, per esempio, la morte di Mosè. Un velo è steso nel Deuteronomio sulle circostanze di questa morte. La stessa carenza d'indizi è mantenuta riguardo al luogo della sepoltura. L'enigma sorge appena il Signore vieta a Mosè di entrare nella Terra promessa (Dt 43,21-28; 31, 1-2). Il lettore, anche quello più ben disposto, non può fare a meno di essere impressionato dalla gravità della sanzione. L'ira legittima provocata da una ricaduta così repentina del popolo nell'idolatria in occasione dell'episodio del vitello d'oro, doveva proprio costare un simile castigo a Mosè, «l'uomo più umile Ghe la terra abbia mai avuto» (Nm 12,3), «che vedeva il Signore faccia a faccia» (Es 33, 11.20)? Conosciamo il principio interpretativo proposto da Freud in Mosè e il monoteismo, come nella sua impresa psicanalitica. «Freud crede di poter stabilire che Mosè sia stato messo a morte da schiavi ebrei trascinati oltre il Mar Rosso. Facendo leva sul ricordo inconscio dell'omicidio primitivo, questo delitto avrebbe violentemente dilaniato la coscienal più grande, dice il Signore; poiché io perdonerò la loro iniquità e non mi ricorderò più del loro peccato». Il "tutti" che indica qui in prima istanza i membri del popolo eletto, rimanda potenzialmente all'intera umanità.

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za ebraica tra l'attesa di una elezione massimale e la necessità di sottomettersi alla legge divina. Ne sarebbe risultata una tensione etica senza pari controbilanciata da un'identità interamente fondata sull'esaltazione e il lavoro dell'intelligenza»5. P. Beauchamp ha sempre avuto in grande considerazione la psicanalisi e alcuni suoi influenti esponenti nella cultura francese del nostro tempo 6• Ma si è sempre astenuto dal fare una lettura psicanalitica della Bibbia. La prudenza e l'onestà impongono di rispettare i ruoli e le sfere di competenza. Si tratta anche di rischiare l'atto personale dell'interpretazione nella fede viva. Un primo principio di spiegazione della statura di cui Mosè è oggetto viene da: «Dt 4,21 dove Mosè dice a Israele "Il Signore si adirò contro di me per causa vostra"( ... ) Mosè è stato contaminato dalla tenace incredulità del popolo. ( ... )Ma( ... ) Dt 4 tace sulle motivazioni dell'ira di Dio ( ... ). Sin dalla più antica tradizione rabbinica, l'usanza dei commentatori è di prestare attenzione ai vari modi di comprendere. Eccone una. La legge stessa non è forse un luogo intorno al quale impazzano tempesta e bufere? Il fatto che a Mosè sia stato imposto di tirarsi indietro non significa una certa distanza tra la legge stessa e la promessa? Il Sinai "[ ... ] era tutto fumante perché il Signore era sceso nel fuoco; e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace e tutta la montagna tremava violentemente" (Es 19, 18). L'uomo che trasmette il messaggio così temibile del Sinai non è in tutto e per tutto simile a Dio. E questo uomo non può essere in tutto e per tutto diverso dai destinatari, né del tutto estra5 GAGEY J., «Freud», in LACOSTE J.-Y., Dictionnaire critique de théologie, P.U.F., Paris 1998, p. 488. 6 Buon esempio di una larga volgarizzazione in BEAUCHAMP P., VASSE D., La violence dans la Bible (Cahiers Évangile 76), Cerf, Parisl991, pp. 24-34.

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neo al loro peccato. Anche se egli è solo in minima parte peccatore, non è su di lui, il peccatore minore, che apparirà meglio la distanza tra noi e la legge, la distanza tra la legge e la promessa? "Per causa vostra ... " perché sappiate che non meritate quello che vi è promesso. Notiamo che il testo è così reticente, così segreto, per farci misurare l'impossibilità di dire in termini adeguati, di formulare in una teoria, il legame che unisce il giusto punito, che Dio non lascia entrare, e i colpevoli risparmiati, ai quali la porta è aperta. Ma quanto è preziosa la percezione, in una luce calibrata ma sicura, che questo legame ci sia veramente! Il giusto e i peccatori sono chiamati a scambiarsi i posti (... ). La storia di Mosè ci lascia intuire quanto sia umanamente impossibile che l'aggressore non lasci qualcosa di sé all'aggredito, che la durezza della legge non si trasformi nella durezza del giudice. Il denso fumo del Sinai nasconde il segreto dell'amore, ma rivelandoci che in esso c'è un segreto» 7 •

3. La serialità dei testi Occorre ripercorrere i testi riprendendo l'essenziale dei due primi punti di metodo e di interpretazione già menzionati, sia per rispettare le mediazioni in vista dell'universale sia per accedere a un senso che spieghi quanti più dati possibile, ma che coinvolga soprattutto la persona del credente. Un testo non è isolabile dall'insieme biblico. Ha senso se è collegato ad altri. Questo è l'apporto essenziale degli approcci strutturali, applicati alla Bibbia. Il principio emerge all 'intemo dei differenti capitoli dedicati al medesimo personaggio, al medesimo ritratto:

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Cinquanta ritratti biblici, pp. 88-90.

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Abramo, Giacobbe, Mosè. Vediamone un esempio nel capitolo dedicato a Ezechiele, osservando come operi in modo da mettere in gioco l'uno e l'altro Testamento. In un paragrafo, tutta una teologia e, come sempre, tutta un'antropologia trovano il loro posto. «Nel 573, "al principio dell'anno, il dieci del mese" Ezechiele vide la gloria che tornava a Gerusalemme e "il suo rumore era come il rumore delle grandi acque" (Ez 43,2). L'angelo lo conduce sul monte da dove vede il Tempio, così come sarà un giorno. Dal santuario esce un fiume verso oriente. Sempre presente nelle sue visioni, Ezechiele lo attraversa e, di mille cubiti in mille cubiti, l'acqua (primo) gli giunge alla caviglia, poi (secondo) ai fianchi, finché (terzo) non riesce più a toccare il fondo. Allora l'angelo lo riporta a riva: "Hai visto?", e aggiunge che sulle sponde ci saranno molti alberi, che l'acqua scenderà fino al mar Morto, e sarà così pulita e pescosa che si vedranno pescatori dappertutto. I frutti degli alberi guariranno gli ammalati. Questa visione, che ci sembra fiabesca, sarà letta un giorno per noi in tutta la sua profondità profetica. Il Corpo del Salvatore, dice il vangelo di Giovanni, sarà il vero Tempio (Gv 2,21); dalla ferita del suo costato usciranno sangue e acqua (Gv 19,34). L' Apocalisse di Giovanni si ispira molte volte ad Ezechiele e riprende la sua visione: per il veggente di Patmos si tratta di frutti che guariranno le Nazioni (Ap 22, 1-2). Acqua, sangue, cibo: i Padri della Chiesa li intenderanno come i sacramenti cristiani»8 • In fondo, il metodo è semplice. Si tratta di entrare quanto basta nella logica simbolica dei testi per metterli in rapporto gli uni con gli altri, senza presupporre di conoscerli troppo. L'esperienza della lettura, soli o in gruppo, convin-

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Ibidem, pp. 202-203.

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ce di quanto non conosciamo la Bibbia! Essa propone una riscoperta incessante come Parola di Dio sempre nuova, che cresce con il lettore o la lettrice9• Pur rispettando la consistenza propria dell'Antico, si tratta anche e sempre di integrarne il rapporto con il Nuovo Testamento, in modo tale che il principio di una lettura tipologica sia rispettato. Dato che la tipologia tesse già il contenuto dei testi e del rapporto tra i testi nell'Antico, questo lo si ritrova attuato sia dallo stesso Gesù sia dalla Tradizione neotestamentaria dei suoi testimoni. Per dare un'idea della fecondità di un tale approccio, vale la pena soffermarsi su un altro libro, uscito appena un anno prima di Cinquanta ritratti biblici. Rappresenta il coronamento di una lunga riflessione sulla Legge nell'uno e nell'altro Testamento, e proietta una luce complementare alla comprensione dell'opera di Beauchamp. Mi riferisco a La legge di Dio 10 • Non si può dire che questo esegeta, così sensibile al compimento, non sia riuscito a compiere il suo progetto di articolare i due Testamenti. Cristo vi ha un posto centrale, ma, come nel nostro mondo e come nella Chiesa di tutti i tempi, in particolare nella sua relazione con gli Ebrei, il legame di Cristo alla Legge non appare meno assiale. Attraversa da parte a parte anche i nostri rapporti tra confessioni cristiane divise. È sembrato essenziale di rendergli qui giustizia per sintetizzare una riflessione lunga e personale, decisiva e allo stesso tempo tradizionale 11 •

9 BORI, P.C., L'interpretazione Infinita. L'ermeneutica cristiana antica e le sue trasformazioni, Il Mulino, Bologna 1987. L'autore sviluppa le implicazioni di un principio di lettura che risale a Gregorio Magno (Hom. VII in Ez; Mor. In lob, XX, 1). 10 BEAUCHAMP P., La Legge di Dio, Piemme, Casale Monferrato 2000. 11 Per completare il dossier, vanno menzionate altre pubblicazioni che sviluppano l'interpretazione sempre nello stesso senso: «Accomplir les Écritures.

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Il. LA LEGGE

1. Un 'opera unificata, un 'opera unificante I Cinquanta ritratti biblici, lo indica il titolo, non affrontano i testi legislativi del Pentateuco né ciò che i Profeti e la Sapienza affermano riguardo alle modalità di rilettura o interpretazione. La Legge di Dio assicurava già l'assunto di questo polo maggiore. Ricordiamone l'intenzione:« lo vorrei soprattutto soddisfare il desiderio di capire quali sono i fondamenti biblici della legge morale, ma non a carico della semplificazione» 12 • L'opera mostra in modo eccellente il rapporto, in effetti complesso, che lega storia e creazione, legge rivelata e quella iscritta nell'essere creato. Questo approccio risale alla tesi espressa in Création et séparation 13 • L'argomentazione in proposito è spesso troppo lacunosa ed è necessario approfondirla. L'insegnamento del Nuovo Testamento mette in guardia contro qualsiasi richiamo alla legge che non sia accompagnato dai mezzi volti a metterla in pratica. L'ingiunzione della legge, senza fornire l'aiuto necessario per adempierla, ottiene l'effetto contrario a quello cui essa mira, ossia il

Un chemin de théologie biblique», RB 9911 (1992) 132-162; «Les catégories en oeuvre dans la rencontre du judaisme et du christianisme», in L 'Unique et ses témoins. Judaisme, christianisme, et islam, histoire et théologie d'une rencontre, Médiasèvres, Paris 1996, pp. 29-46; «La typologie dans l'évangile de Jeam>; «Remarques additives sur l'antijudaisme», in Radici dell'antigiudaismo in ambiente cristiano. Colloquio Intra-Ecclesiale, Atti del simposio teologico-storico, Città del Vaticano, 30 ottobre- I novembre 1997, Libreria editrice vaticàna, Città del Vaticano 2000, pp. 95-109; 110-126; «Lecture christique de l'Ancien Testament», Bib 81/1 (2000) 105-115. 12 La Legge di Dio, pp. 7-8. 13 Etude exégétique du chapitre premier de la Genèse (Bibliothèque de Sciences religieuses), Éditions du Cerf, Delachaux & Niestlé, Desclée de Brouwer, Aubier Montaigne 1969.

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peccato. La Scrittura, vista secondo l'Antico Testamento, impone pertanto questa istanza della legge a tal punto che non rispettarla è non rispettare la Scrittura stessa. L'argomentazione de La Legge di Dio fornisce sia ciò che è indispensabile a una società perché sia umana sia il modo per comprenderla per meglio viverlo. La legge è vitale in quanto fa parte del progetto creativo e salvifico di Dio. Nella Bibbia, questo progetto non è espresso in modo semplice. Fa parte delle più antiche tradizioni del Pentateuco e dei Profeti. Ma non si dispiega veramente in tutta la sua ampiezza se non alla luce dell'esilio e della Sapienza che seguirà. Per la verità, questo rapporto tra storia e creazione sfugge a ciò che può essere verificato attraverso l'informazione prettamente storica. È materia di fede. Meglio, rileva nella storia ciò che la storia tesse: l'approfondimento da parte di Dio della sua opera permanente nell'umanità. Questo solo i credenti possono percepirlo e tematizzarlo. La Sapienza biblica risulta essere il luogo per eccellenza dove la storia si allea alla creazione, dove la legge rivelata si articola alla legge cosmica. A questo punto, la mediazione sapienziale è sollecitata per unire questo senso della creazione a ciò che, attraverso i meandri delle vicissitudini storiche dell'Alleanza, nutre la speranza nella risurrezione, la quale, come è noto, si trova soprattutto annotata nell 'Apocalisse. Ci vuole questo sforzo d'intelligibilità del rapporto tra tali componenti dell'esistenza umana, individuale e collettiva, secondo la Bibbia, per fondare e rendere tutta la sua fecondità alla nuova Alleanza (Gr 31,31-34; Ez 36,27). Nella mentalità cristiana e, in particolare, nella confessione di fede cattolica, la nuova Alleanza rischia di restare troppo formale, di principio, senza una sufficiente manifestazione delle sue condizioni di realizzazione nella storia di Israele. Infatti, a mano a mano che si verifica la fallibilità

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dell'uomo, si conferma la fedeltà di Dio alla sua Alleanza: è la sua fedeltà al proprio progetto creatòre. Dio è capace di creare ininterrottamente del nuovo, perché è l'indefettibile Creatore. Sarà ancora lui ad assicurare la fedeltà dei suoi. L'evidenza diventa sempre più chiara per coloro che entrano in questo modo nelle vie di Dio. Ciò nonostante essa non si smarrisce neppure nelle complessità sempre più inestricabili che sorgono al di fuori dalla luce fornita da una fede viva. Questa fede non ha tuttavia niente di esoterico. Raggiunge la realtà di qualsiasi .uomo e di qualsiasi donna facente parte della società. Questa fede opera per mezzo della carità, scrive Paolo (Ga 5,6), al termine di una riflessione sul rapporto tra fede e legge. Per noi, questa carità di Dio culmina in quella di Cristo. Suscita continuamente anche quella delle persone che si lasciano toccare da questa fiamma, poiché nulla è vissuto fuori dall'incontro. L'Alleanza è questo incontro. È il nerbo della Bibbia, tanto da darle il suo nome nel contesto cristiano. L'Antico e il Nuovo Testamento rappresentano il protocollo dell'antica e della nuova Alleanza compiuta in Cristo. Tutta la Bibbia dispiega questo mondo dell'Alleanza. Si tratta allora di ritrovare il metodo adeguato per tenerla in considerazione. Paul Beauchamp ha sempre espresso la sua preferenza per un metodo tradizionale, pur tenendo conto della cultura del nostro tempo: la tipologia. Un accenno è già stato fatto in proposito e vi ritorneremo. Pur volendo essere fedele alla lettera biblica, questo approccio si rivela autenticamente spirituale. Oltre che negli Esercizi di Ignazio di Loyola, l'aforisma di Giovanni della Croce viene ripreso nelle Leçons sur I' exégèse del 1971, a Fourvière, al fine di evitare qualsiasi cedimento a mode o tecnicità troppo formali: «Per arrivare a ciò che non sai, devi passare per dove non sai» (Salita del Carmelo, I, XIII). Avventurati nelle vie che Dio stesso escogita in noi per andare a Lui. Un simile principio è costruito proprio

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per rispettare, meglio di quanto fecero gli Antichi, «Le récit, la lettre et le corps» 14, e per onorare l'antropologia contemporanea. Siamo in debito verso C. Lévi-Strauss, per i suoi lavori sul tabù dell'incesto, a Freud e a Lacan, rivisitati da D. Vasse, per il loro esame clinico del carattere costitutivo della legge e del «nome del Padre» nella strutturazione della personalità. Questa antropologia del nostro tempo si concilia con quella di tutti i tempi. Nella Bibbia, si tratta in definitiva, per Gesù e i suoi antesignani come per coloro che si rifanno a Lui, soltanto di essere fedeli alla sola Legge del Padre con una "P" maiuscola. Senza essere del mondo, questa antropologia è nel mondo. A questo titolo essa non può che mettere in opera, come Gesù ha fatto di persona, le coordinate del desiderio, della parola e della legge, nella consapevolezza che nulla accade fuori dal corpo. Ciò che fa Gesù, lo fa già tutta la Bibbia, per dargli sostegno e sicurezza fornendogli i criteri necessari per un discernimento sapienziale permanente. Vorrei adesso dimostrare questo punto partendo dalla prima parte de La legge di Dio.

2. La legge del/ 'incontro Il punto di partenza scelto è rivelatore. È un incontro, quello che ci viene raccontato dai Sinottici, tra Gesù e l 'uomo ricco (Mc 10,17-22). Gesù evita subito la relazione "duale". «Gesù mette un ''terzo uomo" tra sé e il suo interlocutore. La legge è questo terzo uomo, o piuttosto colui al guale essa rinvia. Essa indica il Padre, da dove proviene» 15 • E Gesù a ricordarci il Decalogo.

14 Essais bibliques, Nouvelle édition augmentée (Cogitatio Fidei 114), Cerf, Paris 1992. 15 La Legge di Dio, p. 15.

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«Siamo ... lontani da una recitazione integrale. Il testo, così come è formulato, se ne allontana in tre modi: omissione dei comandamenti concernenti Dio; inversione molto marcata dell'ordine mosaico: "Onora tuo padre e tua madre" è posto al termine, mentre è all'inizio dei comandamenti riguardanti il prossimo nel Decalogo mosaico; omissione dello shabbat» 16 • Le numerose osservazioni sono mirate a farci entrare nella pedagogia di Gesù. Una in particolare è pertinente. Eccola: «La scena che leggiamo è una scena d'amore, la scena che attende ogni "giovane uomo" oppure una "giovane donna". Siamo così rinviati al racconto dell'Eden in cui è scritto che L'uomo lascerà suo padre e sua madre (Gen 2,24)» 17 • Anche se non si tratta qui dell'uomo e della donna: «Esiste un amore al principio di tutto e ... questo amore arriva da più lontano di tutte le forme particolari del1' amore» 18. Il riferimento alla creazione è continuo. Letti alla luce della creazione, i testi e gli eventi che essi riferiscono trovano la loro densità. La Bibbia opera nello stesso modo. E poiché l'Alleanza ne è la leva, essa affiora continuamente. Come potrebbe non sorgere dal cuore dell'incontro? Per apprezzare l'esattezza delle osservazioni e del tono con cui sono annotate si deve leggere tutto il libro. Basandosi sull'incontro evocato nel primo capitolo: Nel cuore della legge, il decalogo, comincia prendendo in considerazione la versione deuteronomista. Si sviluppa così una riflessione che si sofferma al testo per se stesso, per leggerlo, comprenderlo e appropriarsene, nella convinzione che non è veramente conosciuto e che rimane inesauribile.

Ibidem, p. 16. Ibidem, p. 22. 18 Ibidem, p. 23. 16 17

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3. Il decalogo «Leggendo il Decalogo, si ascolta ciò che Dio vieta. Ma l'altra faccia, correlata alla prima, consiste nel fatto che Dio non obbliga( ... ). Non domanda neppure di essere adorato. E tuttavia, lo spazio che così si apre è uno spazio di adorazione, un appello silenzioso verso il dono di sé a Dio» 19 • Vale la pena ora ritornare sullo shabbat, pezzo forte del Decalogo: «Tenuto conto della sua prima "parola" e dello shabbat, il Decalogo è in realtà una mescolanza di parole valide per tutti i popoli, dunque universali, e di parole specificamente destinate a Israele, dunque particolari»20 • Va salvaguardato l'equilibrio, in ambito cristiano, tra l'universale e il particolare, anche e soprattutto quando pensiamo di muoverci nell'ambito di un universale immediato. Ritroviamo il primo punto già messo in risalto in queste pagine. Dopo aver rivisitato il Decalogo e il suo precetto sabbatico, il «metodo» consiste nel metterlo, a sua volta, in serie o in prospettiva con diversi altri testi che lo presuppongono ma che rischiano di non manifestare abbastanza questo presupposto. «Laddove i testi legali si esprimono con una lista, i racconti stabiliscono, con la coerenza che è loro propria, un legame che coordina tra di loro i vari peccati (... ) E non commettono un'imprudenza, se fanno intervenire un profeta, dapprima Natan, poi Elia» (Cap. III: La Bibbia commenta il Decalogo)2 1• La rilettura del Decalogo attraverso i profeti e la Sapienza, in particolare nei Salmi, meriterebbe di essere maggior-

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Ibidem, pp. 33-34. Ibidem, p. 39. Ibidem, p. 45.

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mente considerata. Accontentiamoci di ritornare sulla versione del Decalogo nell'Esodo, secondo lo scrittore sacerdotale, per leggervi di nuovo la pertinenza del rapporto con la creazione. Affrontando il rapporto tra shabbat e creazione secondo l'Esodo, l'approfondimento antropologico dello shabbat nella sua dimensione necessariamente relazionale si fa ulteriormente più profondo. È l'oggetto del capitolo IV: La legge del Decalogo e l'immagine di Dio. «Ma l'alienazione umana risale più indietro di quella dello schiavo: anche il padrone ha bisogno di essere liberato dalla schiavitù in cui si imprigiona quando è "il proprio padrone". È tutto qui! ( ... ). La schiavitù di sé operata da se stessi è una delle migliori definizioni possibili del1'idolatria. Non essere idolatra, dice la legge del sabato, non essere schiavo di te stesso! L'uomo risponde: "Voglio essere il mio padrone!". La Legge gli ribatte: "Sì, ma se sei sdoppiato, sarai tuo padrone e tuo schiavo e morirai per il tuo sdoppiamento". Questo è l'idolatria»22 • «Non è necessario, per essere idolatra, rappresentare Dio come un toro, un'aquila, o una colomba. Basta pensarlo forte senza dolcezza, o "amoroso" senza potenza, o terribile senza pazienza, o "tenero" senza saggezza... Ma vedere tutte queste qualità riunite, non equivale a vedere. Esse appartengono al mondo( ... ); la loro unità non proviene dal mondo( ... ). Per il Dio di verità, il Dio "Uno" - questa immagine nella quale si esprime -, può diventare surrettiziamente "Uno e..."? L'"Uno" non è immobile. L'uomo è creato "Uno e Altro'', uomo e donna, ma questa coppia fa ritorno all'Uno con la propria unione. Dio Uno si ferma in onore dell'uomo Uno, raccoglitore del molteplice. Per molteplici che siano i mondi, sono stati creati per essere richia-

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Ibidem, p. 60.

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mati al Dio Uno dalla sua immagine che ha creato unica. Convocati eternamente dalla voce, la conoscenza, il poema. Ma non da un gesto che li circoscriva. Non convocati una volta per tutte, ma continuamente sotto appello, "verso il seno del Padre" (Gv 1,18), alla voce del Figlim>23 • Si riconoscono i grandi viali frequentati e ripercorsi dalla connessione in serie dei testi fondatori. La Legge di Dio come Legge dell'incontro rende conto della relazione ogni volta unica. Questo principio si trova allargato in tutta la sua estensione. Si applica in effetti sia all'incontro tra le culture del mondo sia al dialogo interreligioso, in particolare del cristianesimo con il giudaismo. Ed opera in primo luogo in Dio stesso. In Giovanni, riceve la qualificazione de «la grazia e la verità» per designare Gesù Cristo nella sua relazione al Padre e a tutti (Gv 1, 17). Paolo non esita a parlarne in termini di «la legge dello Spirito» (Rm 8,2). L'unica domanda che porrei perché a più riprese mi è venuta in mente nel corso della mia lettura è: non sarebbe il caso di trarre profitto dalle sfumature apportate dagli autori del Nuovo Testamento al vocabolario della Legge per meglio circoscrivere l'esatto suo posto nel contesto della nuova Alleanza compiuta da Cristo? Penso per esempio al binomio: «La Legge e i profeti» in Mt (5,17), «comandamento di Dio e tradizione degli uomini» in Mc (7 ,8), «Mosè e i Profeti» in Le ( 16,29.31) a proposito del ricco e Lazzaro. In Giovanni, la terminologia si diversifica ugualmente nel senso della Legge di Mosè (Gv 1, 17), distinta dal nuovo comandamento (Gv 13,34-34), dai comandamenti, dalle parole o dalla parola di Gesù (Gv 14, 21.23-24). Percepiamo che Gesù e i suoi discepoli hanno cercato, pur rispettando quello che la Legge comporta di essenziale, di evitare la fusione con altre pratiche e altre concezioni del-

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Ibidem, pp. 65, 67.

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Cinquanta ritratti biblici

la Legge, rappresentate non solo in certi filoni ebraici, ma anche tra i discepoli di Giovanni il Battista. Dobbiamo anche essere riconoscenti a La Legge di Dio per avere evidenziato la santità che deriva, dalla Legge per l'uomo, dato che questa procede da Dio. E il tema dei bei capitoli dedicati al Levitico (cap. V e VI), che ci conducono, attraverso il cap. VII: Assomigliare ali 'idolo, alla soglia del Nuovo Testamento e alla sua interpellanza al soggetto della Legge. Ricordiamone la conclusione: «L'ultimo rifugio dell'idolo: la legge», «La legge è preceduta da un "Sei amato" e seguita da un "Amerai". "Sei amato": fondazione della legge, e "Amerai": il suo superamento. Chiunque astrae la legge da questo fondamento e da questo termine, amerà il contrario della vita, fondando la vita sulla legge invece di fondare la legge sulla vita ricevuta» 24 •

4. La croce e la legge Questo è quindi già il contenuto del Primo Testamento. Nella seconda parte (1. Gesù; 2. San Paolo), il Nuovo Testamento rivela il proprio asse. Gesù non si è mai presentato né si trova mai citato come un trasgressore della legge. Egli stigmatizza gli eccessi causati da una idolatria della legge, contrari alla sua intenzione profonda. Non lo fa mai per situarsi ai margini della legge né nella sua periferia, né in contraddizione con essa ma per occuparne il centro. Sin dal primo shabbat di Gesù, nel suo primo racconto in Mc (1,21-24) 25 , Gesù si muove nell'ambito della sinagoga, quindi del decalogo e dello shabbat. Egli è nella sua persona, nel suo corpo e nella sua parola, il centro dello shab-

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Ibidem, pp. 116-117. Ibidem, p. 184.

Introduzione

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bat, soprattutto secondo Marco. Viene allora raffigurato come colui davanti al quale non si può rimanere neutrale, ne-utrum, né l'uno né l'altro26 , né sì né no. Se non vi è decisione, l'indeterminatezza persiste e prosegue la sua devastazione. La croce e la legge, ultimo capitolo del libro e, a mio parere, il più forte, cerca di tutelare la complessità del Messia crocifisso in rapporto alla legge, approfondendo ulteriormente la nostra comprensione della fede. Più di ogni altro autore del Nuovo Testamento, Paolo cerca di non esonerare l'uomo dalla sua responsabilità nei confronti del male27 • E meglio di ogni altro, circoscrive, con la maggiore precisione possibile, quello che resta del «mistero d'iniquità» (2 T 2, 7). Questo mistero, in definitiva, sfugge - per fortuna - alla comprensione, rimanendo inspiegabile. Poiché il peccato «viene all'uomo dal di fuori. È il solo tratto conservato in Rrn 7 [ma è decisivo], di ciò che le antiche tradizioni trasmettevano sull'origine del male: "Non sono più io a compiere l'azione, ma il peccato che abita in me" (Rrn 7, 17-20)»28 • Paolo può scriverlo dando voce alla sua esultanza di Ga 2,20: «Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me!». Riecheggiano gli accenti di Salmi notte e giorno29 : «Il male più forte dell'uomo è vinto da Dio, stratega del bene che, più forte del male, non rifiuta di lasciarsi stringere da esso, come Gesù si lascia condurre da Satana (Mt 4, 5.8) per il deserto dove lo Spirito lo aveva portato»30 • La croce è il luogo di questa suprema identificazione del giusto con la maledizione dell'empio per liberarlo da essa per sempre. Ibidem, p. 145. Ibidem, p. 242. 28 Ibidem, p. 243. 29 P. BEAUCHAMP, Salmi notte e giorno, Cittadella Editrice, Assisi 2002 2. 30 La Legge di Dio, p. 262. 26 27

Cinquanta ritratti biblici

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«Quando colui che occupa il posto del peccato è anche colui che ha ricevuto da Dio la giustizia fin dall'origine dei tempi, tutto si capovolge: la messa in scena fa posto alla verità. L'innocente esibisce la colpa di tutti e, se la sua giustizia è amore, li guarisce da essa, senza approfittare del fatto di essere loro vittima, senza accusarli» 31 •

Commiato: un cammino ignaziano ed ecclesiale

Per concludere, mi sia permesso di segnalare altri due tratti di questo cammino. Il primo è che esso ricolloca quelli e quelle che gli sono debitori, nel vivo della tradizione ignaziana. I Cinquanta ritratti biblici mostrano le scene contemplate facendole attualizzare nei nostri sensi. La Legge di Dio mette in atto il principio secondo il quale uno stesso Spirito che ha conferito i dieci comandamenti continua a dirigere la Chiesa (n. 365). A tal proposito, La Legge di D,io orchestra gli Esercizi. Reciprocamente, gli Esercizi ci insegnano a leggere come è trattata la legge di Dio nella Scrittura, secondo la sua totalità, l'unica ispirata! L'ultimo tratto è il completamento del precedente. Questa lettura è ecclesiale. Non è da poco il contributo di P. Beauchamp nel rimettere l'Alleanza al centro de L'uno e l'altro Testamento. Le relazioni tra ebrei e cristiani trovano un orientamento più giusto quando si stabilisce meglio, con l'appoggio dei testi, che la prima alleanza non è mai stata revocata, secondo l'espressione di Giovanni Paolo II a Magonza, che ha fatto epoca. Perciò conviene portare avanti il racconto biblico fino alla necessaria conversione 31

Ibidem, p. 246.

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del testimone attuale nella Chiesa, sempre tentato, come innesto di ulivo selvatico, di inorgoglirsi a· discapito dell'ulivo vero che rimane Israele nelle vicissitudini dell 'Alleanza. La Legge di Dio, i Cinquanta ritratti biblici e tutta l'opera di Paul Beauchamp tracciano una strada per farci andare più lontano in questo senso. Forse era il desiderio più caro che nutriva a favore di quelli e quelle che avrebbero raccolto il suo messaggio.

YVEs SIMOENS, nato nel 1942 a Kinshasa (Congo), è stato ordinato sacerdote della Compagnia di Gesù nel 1973. Ha conseguito il dottorato in Scienze bibliche all'Istituto biblico di Roma. Insegna Sacra Scrittura all'Institut d'Études théologiques di Bruxelles, al Centre Sèvres di Parigi, all'Istituto Biblico di Roma.

PREFAZIONE

Come ricordarsi la storia dell'Israele biblico, quella che precede la venuta di Cristo? Proporre una serie di cinquanta "ritratti" mi è sembrato il modo più vivo di abbreviare senza lasciare lacune troppo grandi. C'è necessariamente una discontinuità tra un ritratto e l'altro. Ascoltiamo un gesuita del XVIII secolo: «L'azione divina [... ] ha fatto degli Abele, dei Noè, degli Abramo in base a idee diverse. Isacco sarà un originale, Giacobbe non sarà la sua copia né Giuseppe la sua; riguardo a Mosè non c'è un altro come lui tra i suoi padri; Davide, e i profeti hanno altre fattezze rispetto ai patriarchi; Giovanni li supera tutti[ ... ]. Gesù Cristo non ha imitato se stesso, non ha seguito alla lettera tutte le sue massime»'. L'imprevedibile è presente in ogni scritto. A maggiore ragione quando si tratta delle azioni di Dio. Dio si nasconde, è scritto. Possiamo anche dire: «Dio si traveste». La sfida della storia biblica - Dio manterrà la sua promessa e quale è alla fine questa promessa? -, questa sfida si arrischia ogni volta in modo tale da sventare l'attesa. Allo stesso tempo, le figure bibliche non sono solamente allineate una dopo l'altra. Sono solidali da un se1 J.-P. de CAUSSADE, L'Abandon à la Providence divine, Paris, Desclée de Brouwer, coli. «Christus», n. 22, 1966, p. 137.

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Cinquanta ritratti biblici

colo all'altro. Tutta la storia ricomincia con ciascuno, si arrotola intorno all "'ora" unica data a ciascuno. Numerosi, molto numerosi sono gli avvenimenti che accadono più di una volta: ciò appare maggiormente in una veduta d'insieme relativamente breve. Bisogna stare attenti a questi ritorni perché in essi la novità vi trova il suo migliore nascondiglio. La nostra serie non abbrevia soltanto la storia del popolo, nel prendere in considerazione un numero limitato di nomi propri. Abbrevia anche, abbrevia molto, il ritratto di ogni personaggio. Ma il rispetto verso il lettore ci ha impedito di semplificare troppo. Si tratterà occasionalmente di diverse "scuole", di una "tradizione" giustapposta a un'altra sulla stessa pagina, di "divergenze", di versioni poco compatibili che s'intrecciano. Sbrogliare queste matasse non rientrava nel nostro progetto, che è pur sempre una prima lettura dei testi. Ma la nostra speranza è di condurre o di ricondurre verso le stesse Scritture. In modo che il lettore vi trovi molte sorprese, sorprese infinite, più complessità che nelle nostre pagine, ma che non lo sconcertino tanto quanto prima•.

' Una trentina di capitoli di questo libro sono stati pubblicati nella rivista Croire aujourd'hui in una prima versione. Ringrazio calorosamente la sig.na Marie-Béatrice Mesnet, che ha riletto le bozze.

VEDUTA D'INSIEME

I personaggi di cui il lettore troverà un ritratto nelle nostre pagine si susseguono in un ordine molto vicino a quello dei libri della Bibbia. Il tempo che va da Abramo a Davide occupa la metà della nostra lista. La storia dell'Israele dei tempi biblici può così suddividersi.

I Patriarchi Il tempo dei patriarchi, che comincia da Abramo (XIX secolo a.C.), va da Abramo a Giacobbe (chiamato anche Israele) e a Giuseppe, suo figlio. Giuseppe segna una rottura stabilendosi in Egitto, dove è vicino al Faraone. I suoi discendenti, come pure i suoi nipoti lo raggiungeranno in questo paese, prima di essere resi schiavi dal faraone che succede al protettore di Giuseppe e dove perderanno il gusto della libertà.

Dall'uscita dall'Egitto (intorno al 1250) a Canaan, terra promessa (fine del XIII secolo) Gli «Ebrei» saranno liberati, spesso loro malgrado, da Mosè il cui nome, sebbene gli sia stata attribuita una ascendenza levitica, è come staccato dalla stirpe dei patriarchi.

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Cinquanta ritratti biblici

Sotto la sua guida inizia la marcia della libertà («Esodo»), inaugurata dalla notte pasquale e celebrata in Egitto, in ogni casa dei figli di Israele. Il prodigio del passaggio del mar Rosso autentifica la missione di Mosè. Dio, sul monte Sinai, contrae un'alleanza con il popolo dandogli, per il tramite di Mosè, la sua Legge. L'attraversamento del deserto conduce il popolo fino al Giordano, frontiera che Mosè non varca. Egli muore al di qua della Terra promessa, terra di Canaan. Giosuè assume il suo posto alla guida del popolo, che conduce attraverso Canaan verso Sichem. Le tribù si stabiliranno dalla Giudea fino alle sorgenti del Giordano.

Insediamento delle tribù, periodo dei «Giudici» (1200-1030). La schematizzazione del racconto biblico lascia indovinare due cose. Primo, appena lasciato l'Egitto, il corteo che segue Mosè non è composto unicamente dai figli di Abramo. Secondo, la formazione di dodici tribù, tutte della stirpe di Giacobbe, è solo una schematizzazione di comodo. Il popolo costruisce lentamente la sua identità, partendo da popolazioni che si radunano nel corso di varie epoche, includendo il territorio di Canaan. Il periodo detto dei «Giudici» (come Sansone o, alla fine Samuele) vede il potere circolare da una tribù all'altra, senza mai raccoglierle tutte. Il principale nemico è adesso un altro invasore della terra cananea, il Filisteo. Senza la necessità di unirsi contro di lui, chissà quando Israele avrebbe conosciuto la monarchia.

I Re, il Tempio, i Profeti (1030-587) fino all'esilio Nonostante gli inconvenienti della monarchia denunciati da Samuele, l'ora di Davide si è rivelata essere il passaggio decisivo dall'istabilità al radicamento, il trono, la terra

Veduta d'insieme

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finalmente conquistata, il Tempio (con Salomone) hanno simboleggiato la promessa, hanno offerto agli occhi l'immagine di un Dio presente tra gli uomini. Israele vive le condizioni comuni dello scambio tra i popoli, in una «Sapienza» di cui Salomone è l'emblema. Israele supera Israele e riflette sull'umano universale attraverso la figura di Adamo. Qoelet insisterà (molto più tardi) sull'altra facciata della gloria di Salomone. Sin dalla fine di questo regno, Israele si divide subito in due monarchie. Al nord, separato dal trono di Gerusalemme da Geroboamo, le dinastie sono di breve durata. Elia, che vive nel Nord, nel IX secolo, vede vacillare la fedeltà del suo paese al Dio di Mosè. I prodigi di cui le gesta d'Elia sono ricche, sono i segni di una prossimità di ciò che non può essere raggiungibile all'uomo. Elia ha rivolto i cuori verso l'invisibile e fino ai limiti dell'avvenire. La lista dei profeti continua fino al VI secolo, si conclude con i due profeti che hanno subìto nella loro carne la sventura di Israele: Geremia, Ezechiele. Questa sventura è l'esilio, altro Esodo che va da una immagine di gloria alla gloria senza immagine, dal radicamento allo sradicamento. Il tempo della monarchia è stato il tempo dei profeti: furono i conduttori di questo nuovo Esodo, mettendo a repentaglio, come un tempo Mosè, la loro vita. Nel crogiuolo della disgrazia, furono i testimoni che si riproposero la speranza un tempo data ad Abramo per il suo popolo e tutti i popoli.

Ritorno dall'esilio, secondo Tempio, costruzione del Libro L'esilio ha fine grazie al Persiano Ciro ("editto di Ciro", nel 538). Neemia e Esdra riprendono speranza. È il tempo del Libro, che si costruisce o si ricostruisce nello stesso momento in cui si ricostituisce la memoria del popolo. I libri dei profeti continuano ad accrescere, per la maggior par-

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Cinquanta ritratti biblici

te, dopo la loro morte. Il Tempio sarà al centro dello spazio terrestre per coloro che non sono potuti tornare dall'esilio, ma il libro li riunirà tutti, con l'evolversi del processo che farà di tutti i libri, molto antichi e nuovi, un solo libro, la Bibbia d'Israele. Grazie alla monarchia e grazie anche ali' esilio, la Bibbia, lungi dal confondersi con la storia d'Israele, dice piuttosto, quasi pagina dopo pagina, la storia della relazione che si costruisce tra Israele e i popoli, tra i figli di Abramo e i figli di Adamo. Travaglio prettamente interiore e travaglio rischioso. Giobbe prima, ma anche Giona, Tobia, Ester, Giuditta sono figure di frontiera. Daniele (scritto intorno al 164) testimonia in un linguaggio criptico l'esperienza del martirio e la speranza della risurrezione.

1 ABRAMO L'ELETTO

Secondo la Genesi, il popolo di Israele ha inizio con la chiamata di uno solo, di un individuo. Questo termine "individuo" segna un punto fermo: anche se si prendessero in considerazione un miliardo di miliardi di uomini, costoro sarebbero sempre tante volte un individuo, un'unità. Il mondo può commuoversi per un grande sportivo, un'attrice, e spesso anche per un condannato a morte. Il constatarlo, l'esserne colpito, non è il segno di una preferenza attribuita alla dimensione individuale, è la,semplice dimostrazione dell'importanza del numero. L'individuo è niente senza la comunità, ma la comunità non può sacrificarlo a suo vantaggio. Tutto si gioca sulla linea della differenza che passa tra l'individuo e la comunità, la quale permette una continua articolazione dell'uno sull'altra. Abramo non è solo. In pochi versetti tutto si popola in fretta intorno a lui, e persino si organizza. Abramo aveva un padre, di nome Terach. Prima di lui, questo padre aveva lasciato Ur dei Caldei. Vi è dunque un preludio alla storia di Abramo. Perché lo si dimentica così spesso quando si racconta la storia biblica? È utile vedere la migrazione religiosa di Abramo inserirsi in una migrazione precedente, prolungandola. Una migrazione non intrapresa a causa di una chiamata da parte di Dio, e che, in tutti i casi, nella Bibbia non è così presentata. Terach serviva «altri Dei. Io pre-

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Cinquanta ritratti biblici

si Abramo» dice il Signore (Gs 24,2-3). Terach è quindi il "nonno dei credenti" senza avere creduto. Questa è la preistoria di Abramo. Che ne sarà del seguito, che ne sarà della discendenza dell'eletto? Quel grande conforto del migrante, che consiste nella famiglia, nei figli, è per Abramo, invece, un motivo di angoscia: sua moglie è sterile (Gen 11,30). L'Abramo individuo è Abramo figlio ... Abramo marito ... Abramo zio ... ma non è ancora Abramo padre. Ora Abramo sarà, per sempre e per eccelleriza padre. Quando una voce lo chiama, siamo portati ad aspettarci la promessa di una posterità. Invece la voce gli dice: «ti farò diventare una grande nazione». Dobbiamo aspettare il capitolo quindicesimo perché Dio gli prometta un figlio. In realtà la promessa va oltre una famiglia ed una nazione: «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». "Famiglia della terra" vuol dire qui, tutte le nazioni, chiamate "famiglie" perché il personaggio di Adamo avvalora simbolicamente, con una forza estrema, la certezza che l'umanità è una «come un solo uomo». Si può dire che l'aver concepito la figura di Adamo in un luogo e un tempo in cui le differenze di razza e di religione erano all'ordine del giorno, rappresenta una grande vittoria dello spirito umano. Di fronte alla figura di Adamo, simbolo di universalità, Dio pone adesso Abramo, figura di differenza. L'eletto è l'unico per eccellenza, il benedetto, ma è benedetto per tutti. Intorno a questo individuo, a questo separato, si giocherà il destino di tutte le famiglie della terra, quindi dell'umanità. «Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno condannerò» (Gen 12,3). Domanda: Gli uomini dovranno riconoscere l'autorità di Abramo, onorarlo, adottarne comunque la credenza? - Risposta: Dovranno soltanto benedirlo. L'unica alternativa è "benedire o maledire", si concluderà che "maledire" è una vera possibilità. Gli uomini saranno tentati di maledirlo e di

Abramo l'eletto

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maledire Dio attraverso lui. Infatti, perché averne benedetto uno solo, "perché non io" oppure - rimprovero più indiretto (più "corretto") - perché non tutti? È lo scandalo del1' elezione di Israele, lo scandalo di ogni elezione divina. Risposta: Tutti sono benedetti - tutti, se benedicono uno solo. È una condizione. Domanda: Alla promessa che è stata fatta a lui, ad Abramo, non è stata posta alcuna condizione! È giusto? - Risposta: Qui subentra la gelosia che impedisce di benedire. È allora di Dio e della sua vita che si è gelosi. La vita che comincia in Dio e che si dona, non ha altra causa se non se stessa. L'amore divino è senza causa. Egli ama le famiglie della terra e vuole che lo sappiano tramite Abramo. Fermiamoci su questo procedimento, su questo metodo di Dio, le cui ragioni non ci sono forse del tutto inaccessibili «In lui non ci sono tenebre» ( 1 Gv 1,5). L'elezione (poiché di questo si tratta) non è né assurda né oscura. Inventiamoci per un momento un altro testo: «Dio dice a tutti gli uomini: "Amo tutti gli uomini"». Noi saremmo nell'immaginario e nell'insignificante: nessuno ascolta o non si muove nessuno. Poniamo allora che: «Dio dice a qualcuno: "Amo tutti gli uomini, diglielo"». Non è abbastanza. Rimarremmo vittime di un'astrazione: sarà sufficiente agli uomini il venire a sapere di essere amati, e su che cosa si baserà l'inviato per dare questa informazione? In realtà, con Abramo, Dio dice ad un individuo: «Ti amo e quindi mi prendo cura di te e voglio che tutti gli uomini lo sappiano e che, sapendolo, ti benedicano!». Riconosciamolo, Dio chiede l'impossibile; la storia di Caino che uccide Abele perché Dio preferiva le sue offerte, lo aveva già dimostrato. Ma è irriducibilmente attraverso il segmento che va da una sola nascita ad una sola morte, e attraverso lo stesso stretto supporto di un corpo e della sua storia che passa ogni messaggio e ogni verità. Le condizioni di credibilità di qualsiasi esperienza non posso-

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no sfuggire a questa verifica limite: «In te» (Gen 12,3). «In te si diranno benedette tutte le famiglie della terra». Nel suo solito modo laconico - in poche battute - la Bibbia ci fa arrivare da soli alla conclusione che un uomo che Dio ha tanto amato saprà dame testimonianza e farsi amare dagli uommi. .. La prova per Abramo, a cui è dato di sapere che Dio lo ama, sarà di saperlo soltanto attraverso una lunga storia che innescherà la gelosia delle Nazioni! L'amore divino si gioca in quello che succede tra gli uomini, in relazione alle loro differenze. Una prova da prevedersi per Abramo ma una prova anche per le Nazioni tentate, strappate dalla loro solitudine e dal loro orgoglio per accogliere un messaggio che non può venire che da un altro, attraversando una frontiera! Il seguito promette di essere movimentato.

IL SIGNORE DISSE AD ABRAMO:

«V ATTE-

NE ... BENEDIRÒ COLORO CHE TI BENEDIRANNO E CONDANNERÒ COLORO CHE TI MALEDIRANNO, IN TE SI DIRANNO BENEDETTE TUTTE LE FAMIGLIE DELLA TERRA».

GEN

12,1-3

2 ABRAMO: IN PRINCIPIO ERA IL PLURALE

La sfolgorante chiamata di Abramo apre uno scenario di pericolo. Dio ha chiesto alle Nazioni di benedirlo (cf. Gen 12,1-3). Dobbiamo già preoccuparci per Abramo e vedere in anticipo allungarsi un'ombra sul futuro delle Nazioni, che Dio sottopone a dura prova chiedendo loro la benedizione del suo eletto? Essere benedetto non è faticoso né dovrebbe essere faticoso benedire ... Ma quante insidie in vista! Certo, l'inerzia e le vecchie abitudini del pensiero collettivo c'impediscono di soffermarci sulla complessità della Bibbia, di rispettare le pieghe del testo, le sue sinuosità e i suoi anfratti, e anche le sue zone d'ombra. Per cui ci sembra sufficiente seguire con atteggiamento di ammirazione, irreprensibilmente abituati come siamo da tante prediche, Abramo che lascia il suo paese, in seguito alla chiamata di Dio. Ma la zona d'ombra non tarda ad oscurare questa immagine. Nonché ad approfondirla. L'ombra ha una sua tremenda ambiguità. «Farò di te una grande nazione», aveva detto Dio. Indimenticabile glorificazione dell'individuo in questo momento decisivo della storia umana. Ed ecco che il testo diventa intralcio a se stesso, nel ricordarci che un popolo non sorge mai da un individuo. Nell'episodio immediatamente successivo alla chiamata (Gen 12,10-20), Sara, (il cui nome è ancora Sarai),

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Cinquanta ritratti biblici

cioè la moglie, è il personaggio principale. Questo popolo non sorge da uno, ma bensì da due individui. Da una coppia. E se la nazione deriva da una coppia, vuol dire che prima di questa coppia non c'era questa nazione, e che, quindi, i due primi coniugi provengono da due diverse nazioni. Se provengono da due diverse nazioni, vuol dire che la mescolanza etnica è al principio, all'origine, è iscritta per sempre nella tessitura genetica di questa nazio~e, come di tutte le altre. Esiste un mezzo per aggirare questa conclusione. È che la prima coppia, i primi coniugi, siano, nel medesimo tempo, anche fratello e sorella. Ma questo equivale a porre un incesto all'origine della nazione.

È rilevante il fatto che la Genesi si accanisce intorno a questo dilemma con tre episodi 1 in cui il rapporto maritomoglie e il rapporto fratello-sorella si raffrontano pericolosamente. Eccoci di fronte a una di quelle zone d'ombra di cui avevamo parlato. Abramo era il marito di Sara o era suo fratello? Se fosse il fratello, Terach (Gen 11,31) sarebbe il vero padre di Israele. Eppure non è questa la parte scelta attraverso la promessa di Dio. Egli non ha scelto né Terach, di cui non conosciamo la moglie, né Abramo separato da sua moglie, ma ambedue come coppia (Gen 17,15). Quello che abbiamo chiamato macchia d'ombra è in realtà un fascio di luce sulle origini di un popolo. Il popolo della Bibbia dichiara egli stesso l'ambiguità di ogni nazione. Cosa che non impedisce alla nazione di essere necessaria, di una necessità alla quale, possiamo dire, si sottomette il piano di Dio. Sin dall'inizio, nel porre un uomo, una

1 Abramo e Sara in Egitto: Gen 12,10-20; presso i Filistei: Gen 20; Isacco e Rebecca: Gen 26,1-14.

Abramo: in principio era il plurale

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nazione, il racconto biblico pone, con estrema crudezza, l'ineluttabile necessità della differenza e, partendo dalla differenza, della relazione. Un uomo, una donna. Una nazione, le altre nazioni. L'opera di Dio, il seme di vita non potrà mai essere iscritto altrove che nel solco che passerà tra gli uni e gli altri. Leggiamo che tutto ciò non avverrà in modo indolore: la verità non si fa di colpo. Abramo non giungerà di colpo alla verità: egli inizia con il mentire al faraone ... Infatti, se Sara è la sorella di Abramo, il faraone può prenderla tra le sue donne. Ma se Sara è la moglie di Abramo, l'Egiziano non dovrà forse uccidere Abramo per prendergliela? «Quando gli Egiziani ti vedranno e diranno: costei è sua moglie, mi uccideranno e lasceranno te in vita. Dì dunque che tu sei mia sorella, perché io sia trattato bene per causa tua e io viva per riguardo a te» (Gen 12,12-23). Una situazione davvero impossibile. Abramo non può cavarsela senza mettere a repentaglio la sua vita. In luogo di questa lascia, invece, al faraone sua moglie facendole dire che è sua sorella, e finendo con l'essere espulso quando la bugia viene scoperta. Ed ancora scopriamo in Gen 20,12 la via mediana adottata: Sara è ... la sorellastra di suo marito! Quindi Abramo ha solo detto una mezza bugia. Nemmeno questa volta Abramo sarà benedetto presso le Nazioni. Non sarà nemmeno maledetto. Dio ha compassione di Abramo. Questo è certo il punto di vista del narratore il quale ci vuole fare capire che Dio non avrà compassione di noi, lettori, se non ci apriamo a questo sentimento. Dio ha compassione di Abramo che riprende la sua strada, per altre avventure, attraverso altre nazioni: «Il Faraone diede ordine al suo riguardo ad alcuni uomini di espellere dal paese lui, sua moglie e tutto ciò che possedeva» (Gen 12,20). Sarà invece benedetto da un abitante di Canaan, da un re di nome Melchisedek (Gen 14,17). Il racconto ci fa co-

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nascere questo «sacerdote del Dio altissimo» e, nel medesimo tempo, re di Salem, uscito dall'ombra e dalla notte dei tempi per dire «Benedetto sia Abramo dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra!» (Gen 14,19). Quale modo migliore per sottolineare che la conoscenza di Dio non è privilegio degli eletti. Melchisedek conosceva Dio prima di conoscere Abramo. Ma Dio vuole anche che conosca il suo eletto. Gli storici identificano generalmente "Salem" con Gerusalemme. Ciò implicherebbe che nella città sacra una tradizione d'Israele onori una- santità più antica di Israele. Ed è un grande onore per Israele l'essere stato capace di un tale riconoscimento: Abramo non versa forse la «decima» a Melchisedek (Gen 14,20)? Questa benedizione dell'uno, questa decima dell'altro, in contrappunto all'episodio del Faraone anticipano la salvezza per tutta l'umanità. L'umanità resterà attraversata dalla differenza: varcarla non è cancellarla.

ABRAMO RISPOSE AL RE:

«lo MI

SONO DET-

TO: CERTO NON VI SARÀ TIMOR DI DIO IN QUESTO LUOGO E MI UCCIDERANNO A CAUSA DI MIA MOGLIE. INOLTRE ESSA È VERAMENTE MIA SORELLA, FIGLIA DI MIO PADRE MA NON FIGLIA DI MIA MADRE, ED È DIVENUTA MIA MOGLIE».

GEN 20,11

3 ABRAMO: LA VITA, LA MORTE

Abramo nella luce: ascolta la promessa. Abramo nel1' ombra: il faraone gli prende Sara. Poi, nuova tappa, alle "querce di Mamre": «mentre egli sedeva all'ingresso della tenda nell'ora più calda del giorno». Ha più di cento anni, sua moglie è sterile. Ma siamo in pieno mezzogiorno e la promessa di un figlio sta per realizzarsi. Sorprendente: la tradizione delle Chiese d'Oriente designa la scena con il termine greco «philoxénie» (ispirato da Eb 13,2) che significa "amore per lo straniero". Ci vuole poco a capire che "philoxenia" è il contrario di "xenophobia". «Egli alzò gli occhi e vide tre uomini davanti a lui». Non li ha visti arrivare, non li conosce. Sono stranieri. Vale la pena annotare i dettagli dell'ospitalità di Abramo (come procura del "pane" e fa uccidere un vitello, ecc.). Questa philoxenia, senza dubbio, è la prima Annunciazione di tutta la Bibbia. E il figlio annunciato è la promessa di una "grande nazione". La nazione sarà benedetta dagli stranieri, ed ecco ora il figlio è annunciato dagli stranieri. La "proverbiale ospitalità dei nomadi" è giustamente motivo di commento. Pertanto, non dobbiamo distogliere la nostra attenzione da questa folgorante associazione tra "aprire la porta allo straniero" e "ricevere un figlio". Il figlio, la figlia: estranei per il padre, per la madre. Estranei, cioè altri, nuovi. Novità davanti alla quale ogni padre e ogni madre si sorprendono sulla difensiva.

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Abramo non è solo. La sua vita si giocherà nel suo rapporto con le Nazioni (Gen 12,2-3). I suoi visitatori non hanno nazionalità. Il loro status è mantenuto segreto: quando parlano, si sente a volte la loro voce (Gen 17 ,8), a volte la voce del Signore (Gen 18,10 e 13). Tre dimensioni si sovrappongono: 1. ricevere degli stranieri; 2. ricevere un figlio; 3. ricevere questo straniero: Dio. Uno straniero che condivide la nostra mensa: «Mangiarono. Poi gli dissero: "Dov'è Sara tua moglie?"». L'annuncio di un figlio fa ridere Sara, ride davanti all'impossibile; Non impossibile per il Signore, gli viene risposto. San Luca, intenzionalmente, ha voluto farci ritornare in mente questa scena, Gabriele rivolgerà la stessa parola a Maria: «Nulla è impossibile a Dio» (Le 1,37). Ma c'è una gradazione nell'impossibile. Mamre e Sodoma: la prima Annunciazione della Bibbia è inseparabile dalla scena seguente (Gen 18,16 e 19,29) che è inaugurata dalla parola «Sodoma» (Gen 18,16; cf. più avanti: Sodoma e Gomorra). È uno shock! L'effetto di contrasto si inscrive nell'accurata composizione dei capitoli 18 e 19, sotto il segno della "visita'', visita che Abramo accoglie, e visita che la gente di Sodoma rifiuta avventandosi contro i nuovi arrivati come su una loro preda. Questa lettura è corroborata dal Nuovo Testamento. Per due volte Gesù paragona a Sodoma e Gomorra, le città che rifiutarono la "visita" di Dio, l'atteggiamento di rifiuto verso di sé o verso i suoi inviati (Mt 10,15; 11,23-24). In ebraico, "angelo" si dice "messaggero'', "inviato". I profeti hanno esteso questa stessa comparazione a Gerusalemme (ls 1,10; Ez 16). Oggi, tuttavia, questi richiami evocano in noi pratiche e comportamenti sessuali associati a Sodoma e Gomorra. Ora la tradizione della Bibbia è costante: queste due città simboleggiano in primo luogo altro. Evocano una chiusu-

Abramo: la vita, la morte

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ra su se stessi che si collega alla sazietà di beni e genera la violenza. Il paese di Sodoma è caratterizzato per l'opulenza (Gen 13, 10). Per Geremia, Moab (legato a Sodoma: cf. Gen 19,30-37) «riposava sulla sua feccia, non era stato mai travasato» (Ger 48,11). Ez 16,49 traccia l'immagine completa di «tua sorella Sodoma: superba, ingorda, oziosa e indolente [... ],ma la mano del povero e dell'indigente non sosteneva. Esse sono divenute pretenziose e hanno commesso ciò che è abominevole davanti a me». La lettera ai Romani espliciterà quello che l'apostolo Paolo designa come "abominevole" nell'ordine sessuale (Rm 1,26-27), ma sarà per mostrare l'ultima fase di una serie di chiusure, un sintomo corporale di una resistenza più profonda e recondita. Si è spesso rimarcata la dolorosa contraddizione tra questo slancio allo stesso tempo corporeo e contrario all'umiltà del corpo, poiché è «l'angelo» (immagine ideale dell'altro) che vuole raggiungere: questa è la vera dimensione del problema. Questo sintomo è l'emergere di un sistema. Ora i testi citati non lo imputano però a degli individui, ma alle scelte che una civiltà adotta. In questo Paolo è fedele all'atteggiamento dei profeti e di Gesù i cui paragoni sono tra città, non tra persone. Detto questo, l'episodio delle querce di Mamre dice dov'è la vita, l'episodio delle città distrutte dice dov'è la morte. Il dittico è quello del Giudizio. Anche nei confronti di Sodoma e Gomorra Abramo resta l'eletto per tutti, il benedetto per coloro che benedicono. Non è mai stato così vicino alle Nazioni se non in quel momento in cui accompagnando i visitatori stranieri fino a quell'alto luogo da dove appaiono alla loro vista le due città, comincia il dialogo durante il quale Abramo intercede, con astuzia, presso il Signore a favore di Sodoma e Gomorra. Quanti giusti ci vogliono perché siano salvate: cinquanta, quarantacinque, quaranta, trenta, venti, dieci? Ci si domanda per quale ragione Abramo non sia arrivato fino al

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numero «uno». Forse perché ci vuole un'alleanza tra parecchi giusti per salvare la città: «Non è bene che l'uomo sia solo» ha detto il Creatore (Gen 2,18).

GUARDA IN CIELO E CONTA LE STELLE SE RIESCI A CONTARLE[ ... ] TALE SARÀ LA TUA DISCENDENZA. GEN

15,5

4 ABRAMO: LEGATURA E SCIOGLIMENTO

Dio «provò» Abramo (Bibbia di Gerusalemme) o, più chiaramente, «lo mise alla prova» (Bibbia ecumenica). Dopo questo test Dio dice: «ora so ... » (Gen 22,12). Le immagini si susseguono nella nostra mente. Dio chiede ad Abramo di sacrificare suo figlio Isacco («offrirlo in olocausto»). Ma gli ferma la mano all'ultimo momento. Un ariete prende il posto di Isacco. I commentatori ci dicono un po' di più. La pratica di sacrificare i primogeniti era in uso in Israele. Lo si faceva proprio perché era proibito. Si trattava di offerte al Dio Moloch ("il Moloch"). La legge dice che coloro che «avranno chiuso gli occhi» davanti a questo atto saranno eliminati dal popolo (Lv 20,4). Preziosa indicazione sul compiacimento, forse sull'ammirazione, così ottenuta. Nel libro dei Giudici, che è la migliore esposizione dei costumi dell'Israele più arcaico (prima dell'anno «meno mille»), leggiamo che il guerriero lefte aveva fatto il voto di «offrire in olocausto», se fosse tornato vittorioso, la prima persona che sarebbe uscita «fuori dalla sua casa». Tremendo rischio! Uscì per prima la sua unica figlia e la sacrificò (Gdc 11,20-40). Presso i Greci, Agamennone immola sua figlia Ifigenia per essere esaudito dagli dei. Nella storia di Gdc 11, una tradizione di questo genere è stata senza dubbio edulcorata (e resa poco verosimile) al fine di attribuire

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al cieco destino la scelta della vittima. Lo scenario è lo stesso, ma in questa versione il padre non aveva previsto quale sarebbe stata la vittima. Questo, per rendere più accettabile la scena a una civiltà meno insensibile. Iefte, giudice di Israele, si presta alla nostra ammirazione? Il racconto è come l'acqua di un lago senza increspature. Imperturbabile, egli racconta un evento, cosa ne pensa non ci sarà dato di saperlo. Siamo in grado di accettare, di assumere questo silenzio dei testi? Una specie di sonda scende nelle falde più profonde della storia umana, attraverso i secoli. Ora discende in noi. In ogni uomo sono ancora presenti tutti gli strati della storia umana. Iefte non costituisce il nostro modello. Ma illuminando il passato degli uomini mi dà modo di chiarire me stesso. Torniamo ad Abramo perché è lui «nostro padre» (Rm 4,16). Seguiamo uno dei tanti modi di leggere Gen 22. Un tempo, gli antichi offrivano a Dio il loro primogenito. Adesso offrono un animale, come quell'ariete di Gen 22,13, «al posto» del figlio. Ne concludiamo che i costumi sono meno duri. La storia avanza. Ma il racconto può capovolgersi: «Oggi sacrificate animali, ma non offrivate di più una volta?». Si concluderà che questa vittima animale nasconde qualcos'altro. Il gesto primordiale non viene del tutto cancellato. Al contrario viene ricordato tutte le volte che il sangue di un animale viene sparso per Dio, nel Tempio o per la Pasqua. Questo ariete impigliato in un cespuglio ci impedisce di liquidare il testo con una banalità del tipo: «ci sono stati dei progressi dal sacrificio umano in pom. Poiché questo inizio non è veramente nascosto, ma piuttosto colmato da questa vicenda dell'ariete, che dire? Si diceva allora che ogni primogenito «di uomini o di animali» appartenesse a Dio (Es 13,2; 13,11-16; racconto della Pa-

Abramo: legatura e scioglimento

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squa). L'individuo conta poco: ci saranno ancora molte nascite, nella famiglia e nel gregge. L'interrogativo permane: perché questo sangue versato? È il versamento di una tassa per avere il diritto di dare la vita, per sentirsi autorizzato a darla una seconda volta? Questo figlio non è il mio prolungamento. Non sono io che do la vita. Il sangue per far capire che il generare non è una continuità, il manifestare con una specie di terrore che deriva dall'ignorare quello che la vita è, di cui avvertiamo soltanto che la sua provenienza è più remota dell'uomo. Questo sangue che il rito della circoncisione chiederà ancora. Per ricordare? Il narratore che ci ha tramandato Gen 22 è molto distante da questa epoca remota. Innanzitutto nel suo racconto, si tratta di un figlio unico. Agli antipodi della famiglia-gregge. Leggiamo: «[ ... ] tuo figlio, il tuo unico, quello che tu ami, Isacco». In seguito, Abramo non rinuncia soltanto a un figlio, rinuncia alla promessa! Sono passati venticinque anni da quando ha ricevuto questa promessa di diventare una «grande nazione». Poi è arrivato il giorno dell"'ospitalità" (philoxenia), la prima Annunciazione. Abramo aveva raggiunto l'età di cento anni senza che sua moglie gli avesse dato un figlio. Ciò che gli era stato dato per mezzo di un miracolo, oggi gli è richiesto indietro! Un autore del Nuovo Testamento dà la sua interpretazione: Abramo non ha rinunciato alla promessa. Si è detto: il dono promesso, che proviene da più lontano dell'uomo, va anche ben oltre e non può essere tolto: «Dio è capace di far risorgere anche dai morti. Così in una sorta di prefigurazione, egli ritrova suo figlio» (Eh 11, 19). Ma questa interpretazione non deve farci immaginare che Abramo abbia visto in anticipo l'epilogo del suo dramma: «Per fede, Abramo, messo alla prova, offrì Isacco» (Eh 11, 17). Ora la fede è notte. Nel racconto, il monte si chiama «il Signore vedrà» (Gen 22,14; cf. anche il versetto 8). Dio vede-Abramo non vede.

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Il padre «riebbe suo figlio». Ma è diventato un altro padre. In quanto al figlio, nella tradizione ebraica il titolo del racconto mette l'accento sul suo dramma: l'episodio non si chiama "sacrificio", ma "legatura" di Isacco. Se Abramo non ha creduto che Dio volesse la morte, Isacco non ha creduto che suo padre volesse ucciderlo ... Ma non è tutto. Lo scioglimento di questa legatura libera nel lettore questo sentimento di un debito di sangue, schiavitù antica e quotidiana. L'audacia del racconto è di attribuire a Dio l'antica imposizione. Come se Dio dicesse: tu hai dato di me questa immagine di crudeltà, ma sono venuto ad abitarla perché non c'era altro modo per liberartene.

DIO MISE ABRAMO ALLA PROVA E GLI DISSE: «ABRAMO». RISPOSE: «ECCOMI!» [ ... ] ISACCO DISSE A SUO PADRE ABRAMO: «PADRE MIO!». E ABRAMO RISPOSE: «ECCOMI, FIGLIO MIO».

GEN 22,1E7

5 ISACCO SI CHIAMA "RISATA"

È cosa buona che un personaggio della Bibbia si chiami "Risata". Isacco, figlio di Abramo, è colui che si chiama "Risata"! Il racconto ci lascia nell'incertezza quanto alle ragioni per cui c'è da «ridere» su di lui. Infatti, ne dà parecchie, legate all'ambiguità della parola e a quella propria del ridere. La parola si ripete nel corso del racconto. Un vegliardo, Abramo, viene a sapere nel suo centesimo anno di età che sarà padre: ed egli "ride" (Gen 17, 17). Sua moglie Sara, che stava ascoltando la notizia sotto la sua tenda (la tenda della philoxenia), "ride" dentro di sé (Gen 18,12). Presa sul fatto, sostiene di non avere "riso" (Gen 18,15). Quando nasce il bambino, immagina il "ridere" del vicinato (Gen 21,6). La parola "risata" in ebraico, vuole dire anche "giocare". Giochi di bambini, del piccolo Isacco con il fratellastro Ismaele (Gen 21,9): giochi amorosi d'Isacco con sua moglie Rebecca (Gen 26,8). La parola è propria dell'uomo. Lo è certamente di più la risata, mentre la serietà degli animali (uccelli, pesci, fino ai mammiferi evoluti) è uno dei loro tratti distintivi. Il riso e la parola sono in realtà inscindibili. Il riso nasce nel cuore della primissima esperienza del bambino. Nasce dall'angoscia e dal piacere che accompagnano il manifestarsi del

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significato. Angoscia e piacere che consistono essenzialmente nel superare il pericolo di sbagliare e di essere ingannato. Il pericolo c'è, perché non c'è segno che non abbia diversi significati, per cui capire è, come minimo, scegliere tra due significati. È quindi rischiare: passando così dalla contrazione del rischio alla dilatazione del successo. Ingannarsi è la forma d'insuccesso a cui c'è più rimedio, e a cui, di fatto, poniamo quotidianamente rimedio: anzi è necessaria. Al contrario, l'insuccesso del piccolo uomo che non supera la paura di essere ingannato lo mette radicalmente in situazione di pericolo. Questo insuccesso è tanto più radicale e misterioso in quanto non è automaticamente imputabile all'esperienza di essere stato ingannato. Capire, è rischiare di credere che non si è ingannati, che colui che emette il segno non è mosso dalla menzogna ma da una verità che non può essere separata dalla benevolenza. L'emittente riceve allora una risposta, che è il sorriso del neonato. «Cominciai poi a sorridere», scrive Sant' Agostino nelle Confessioni ( 1,8), non perché ricordi, precisa, il suo primo sorriso ma a partire da quello che ha potuto constatare negli altri. Isacco resta sempre, in qualche modo, colui che nasce. Con questo voglio dire che in lui si vedono soprattutto i tratti che lo ricollegano al padre e alla madre. Il critico storico di oggi trova una causa a questa scarsità di ricordi a proposito di Isacco, deducendone che nei suoi riguardi le tradizioni sono labili e non abbondano: una figura così poco impressa nella memoria di un popolo trova una giustificazione nel1'utilità di assicurare una transizione tra Abramo e Giacobbe, figure ambedue meglio dotate e più colorite. Delle nozze di Isacco abbiamo solo una descrizione dei preparativi, completamente affidati, in assenza del principale interessato, alle cure del servo di Abramo, suo padre. La scena è, a dire il vero, un incanto (Gen 24). Ma questo capolavoro letterario ha soprattutto lo scopo di evocare, con l'ausilio di

Isacco si chiama "risata"

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mezzi letterari e senza base documentale, un lungo momento radioso, che servirà meglio a mettere in risalto, alcuni capitoli più avanti, la grande amarezza delle nozze contrastate di Giacobbe (Gen 29 e 30). Non c'è alcun ostacolo alla felicità di Isacco: non c'è ragazza più avvenente né più consenziente a questo matrimonio di Rebecca. La famiglia se ne rallegra e Dio lo conferma con un segno. La singolarità di Isacco si concentra su due sole scene. Conosciamo la prima: Isacco è portato da suo padre sul monte del sacrificio. Torneremo sulla seconda, quella in cui suo figlio Giacobbe mente per sviare la benedizione diretta a Esaù. Prima scena: «Prendi tuo figlio, il tuo unico figlio, Isacco, quello che ami, va nel territorio di Moria e offrilo in olocausto ... » (Gen 22,2). Accettiamo che Abramo sia sempre celebrato come l'eroe di questo episodio. Ma se vi è un figlio che più di ogni altro ha superato il timore di essere ingannato dalla parola del padre, questo è Isacco. Ci colpiscono le prime parole che si scambiano: «Isacco si rivolse a suo padre Abramo e disse: "Padre mio!". E Abramo rispose: "Eccomi, figlio mio"» (Gen 22,7). La ragione di vita di questi due personaggi si racchiude in queste parole: "Padre" per l'uno, "Figlio" per l'altro. Il padre, Abramo, non può credere che Dio abbia voluto annullare la sua promessa chiedendo la vita d'Isacco. Non può credere che il Dio della vita promessa sia diventato un Dio a cui piaccia la morte. Crede piuttosto che il suo Dio sfidi la morte per mezzo del suo eletto. In quanto al figlio Isacco non può credere che suo padre gli voglia del male, e con questa premessa, è disposto a lasciarsi legare e porre sopra l'altare, sopra la legna, senza che la sua fiducia venga meno. Tutti e due superano la paura di essere ingannati, il primo dal suo Dio, il secondo da suo padre. Così si abbandonano pienamente al manifestarsi del significato: non è il termine "sacrificio" o "olocausto" da respingere. Qualsiasi segno ha

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diversi significati e comprendere significa scegliere, al minimo, tra due sensi. Il "sacrificio" offerto da Abramo, è la sua obbedienza. Nello stesso momento, il medesimo sacrificio è offerto da suo figlio Isacco. Questo connubio dei due fa sì che non saranno più padre e figlio nel senso in cui lo erano prima. L'obbedienza del figlio lo innalza all'altezza del padre. A questo punto si cancella l'immagine che proiettiamo nelle parole. Una tradizione rappresenta Isacco con gli occhi bendati sull'altare dove l'ha posto suo padre, nella notte attraversata dalla fede. La loro unione è tale che le immagini di "padre" e di "figlio" si dissolvono. Nella seconda scena decisiva della sua vita, Isacco è un vecchio divenuto cieco. Si stabilisce una corrispondenza sotterranea tra le due scene. Isacco, che neppure per un istante ha creduto di essere ingannato da suo padre, è adesso ingannato dal figlio, da Giacobbe! Non è la risata ad accogliere questo episodio, ma uno spasmo: «un tremito estremamente violento» (Gen 27 ,33). Ora questa convulsione non è senza relazione alla risata, ne rivela piuttosto il lato nascosto. Si ride di avere sfiorato il baratro. Dobbiamo abituarci a cogliere questa convulsione, questa spasmodica alternanza di terrore e di gioia nei numerosi racconti biblici, tanto è vero che Dio prende l'uomo a rovescio, sia che i suoi pensieri siano palesemente più elevati dei nostri, sia, al contrario, che ci appaiano più bassi, immettendosi in quello che c'è di meno elevato nelle nostre vite umane. La storia del1' eletto, Giacobbe, inizierà nella violenza e nell'inganno.

ABRAMO AVEVA CENTO ANNI QUANDO GLI NACQUE SUO FIGLIO ISACCO. «ALLORA SARA DISSE: DIO HA FATIO PER ME DI CHE RIDERE: CHIUNQUE LO SAPRÀ RIDERÀ DI ME».

GEN 21,6

6 GIACOBBE L'INGANNATORE

Rebecca, moglie di Isacco divenne incinta di gemelli. I figli si urtavano già nel suo seno materno. Esaù uscì per primo, ma Giacobbe teneva in mano il tallone di Esaù. Sebbene fossero gemelli non si assomigliavano: Esaù era peloso, Giacobbe tutto liscio. Isacco preferiva Esaù, Rebecca amava di più Giacobbe. Avendo fatto cuocere delle lenticchie, e approfittando del fatto che Esaù ne andasse pazzo e che, essendo molto affamato, le volesse mangiare subito, Giacobbe gliele lasciò a condizione di farsi cedere il diritto di primogenitura. Capita ai giovani di non cogliere l'ingiustizia che soggiace a questo tipo di patteggiamento. Esaù è da biasimare perché ha agito da ebete ingordo, ma da parte sua Giacobbe si rivela un calcolatore anche a discapito dell'altro. Molto tempo dopo, Isacco, ormai cieco e sentendo avvicinarsi la morte, pensò che fosse giunto il momento di dare la sua benedizione a Esaù 1• Isacco, quindi, ha due figli e un bel giorno si propone di benedirne uno solo. A questo punto una breve spiegazione s'impone. "Genesi" significa "genealogie". Ma le 1 Potrebbe sembrarci strano, poiché Esaù aveva già perso il suo diritto di primogenitura, come egli stesso lo ricorderà in Gen 27 ,36. Ma questo richiamo è piuttosto un modo, per il redattore, d'introdurre un legame logico tra due racconti distinti che circolavano a proposito di Giacobbe e che vuole riunificare in uno solo.

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figliolanze di cui tratta questo libro hanno una duplice dimensione: una procede secondo la carne, l'altra secondo la parola. Questa parola è la benedizione del Padre. Secondo Gen 1,27-28, Dio, in qualità di Padre, benedice la prima coppia umana subito dopo averla creata. Questa benedizione sarà tramandata di padre in figlio, tant'è che il libro della Genesi potrebbe essere chiamato il "libro delle benedizioni". Mentre il seme umano trasmette la vita corporea, la parola che benedice è come un seme di vita divina, che assicura benevolenza e promette fecondità e crescita. Di generazione in generazione, di padre in figlio, le benedizioni che si susseguono trasmettono la prima patema benedizione di Dio. Ma perché Isacco vuole benedire uno solo dei suoi figli? La domanda si poneva già con Abramo, l'eletto, l'unico tra le Nazioni: se il dono non va a "tutti" e "dappertutto" non c'è ingiustizia? E tuttavia, laddove non c'è differenza non c'è indifferenza? L'esperienza dell'amore si fonda sempre nell'incontro con qualcuno di particolare. Se Isacco non prevede (come ci sembrerebbe naturale) di dare la sua benedizione ai suoi due figli, è anche perché Dio vuole illuminarci su quello che egli stesso è: Egli è unico: «Non avrai altri dèi che me» (Es 20,3). Unico, cioè imprevedibile, libero. Dio è l'unico e, allo stesso tempo, come sappiamo, l'amore per uno solo è il cammino che egli intraprende perché si manifesti il suo amore per tutti. Isacco benedirà Giacobbe come Dio aveva benedetto Abramo: «benedetto chi ti benedirà» (Gen 27,29). Qui c'è certamente un mistero, ma anche alcune luci nonché zone d'ombra. Questo aspetto lacunoso e incompiuto, discontinuo, fa precisamente della Bibbia quel libro di largo respiro che ci tiene con il fiato sospeso. Isacco, dicevamo, voleva benedire Esaù. Ma Giacobbe si fece passare per Esaù e prendendone il posto, fu benedetto. Giacobbe era astuto, ma l'idea proveniva da sua madre

Giacobbe /'ingannatore

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Rebecca. Seguendo le istruzioni materne, Giacobbe ricopre le sue mani con la pelle del capretto per avere l'aspetto peloso di suo fratello. Farà finta di tornare dalla caccia, dove suo fratello è andato. Porterà per Isacco un piatto di cacciagione. Dirà: «Sono Esaù». Isacco lo annuserà, poi tasterà i peli del capretto - ma un cieco non si sbaglia sulla voce. Diffidente, vuole sentirla di nuovo. «Sei proprio tu, mio figlio Esaù?». Tratteniamo il fiato, insieme a Giacobbe e Rebecca. L'esitazione, poi l'insistenza d'Isacco obbligano Giacobbe a mentire spudoratamente. Annuisce: è proprio Esaù. Questo rallentamento dell'azione rischia di far arrivare Esaù, mandando tutto a monte. Scoperto, Giacobbe sarebbe stato maledetto, anziché benedetto. Quando il cacciatore arriva è troppo tardi: Giacobbe è stato appena benedetto. A Giacobbe quindi viene assicurata benevolenza, viene promessa fecondità e supremazia. Grida e pianti di Esaù. «Padre, non hai un'altra benedizione per me?». Commovente. Ma il centro nascosto di questo strano racconto è altrove, ci viene indicato attraverso l'indizio del tremito, il «grande tremore d'Isacco» (Gen 27,33). Il vacillare di un'identità ha prodotto questo effetto. Si può essere se stessi e un altro, si può essere due allo stesso tempo come vorrebbe fare credere questa apparizione di un essere composito, di questo Giacobbe-Esaù, nella notte di un cieco? Antico terrore che causano i gemelli. Come in parecchie scene carnevalesche, il burlesco si mescola al tragico. La benedizione mette in gioco il sacro. Ma la storia ha il suo punto di partenza in una farsa: quei peli di un capretto che possono passare per quelli di Esaù, il rischio di essere scoperti, la sconfitta dell'uomo forte e ottuso, le sue trepidazioni. Parecchie versioni di questo racconto sono dovute circolare prima che la nostra lasciasse intuire che si tratta della storia di Dio con gli uomini. La benedizione del padre reca quella di Dio, essa è quella di Dio. Ma, senza la madre, che ha voluto tutto e trama-

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to tutto, non sarebbe mai arrivata. Il padre rappresenta una sovrana istanza di autorità. Dichiarando che non ci saranno due benedizioni, dice la legge, e la dice contro se stesso. Poiché, pur preferendo Esaù, non si crede autorizzato ad annullare la benedizione di Giacobbe, a causa dell'inganno. Ma, su un altro piano, la bontà della scelta è opera della madre: la verità è che Esaù non era all'altezza di prendere il testimone di Abramo. Tutto il racconto si conclude con un bilancio: qui si stabilisce una formula complessa. La buona scelta riesce, ma Giacobbe ha contratto un debito. Tutto finisce bene per lui, eccetto che il suo gemello defraudato si prepara ad assassinarlo. Ed è la loro madre che invia Giacobbe lontano con queste parole: «Perché dovrei venir privata dei miei due figli in un solo giorno?» (Gen 27 ,45). Il racconto si conclude con questa notevole riflessione. Stupenda davvero. Non solo Rebecca ostacola la scelta del padre, ma non si accontenta pienamente nemmeno della regola che vuole che uno solo sia benedetto. Questi due figli, concepiti «lo stesso giorno» e portati insieme nel suo grembo non siano separati da lei, per sempre, «lo stesso giorno» se uno arrivasse ad assassinare l'altro! L'arbitrio paterno pensa in termini di unicità. La maternità conciliatrice, che vuole favorire uno senza fare a meno dell'altro, pensa prima di tutto in termini di totalità. Dio, in questo senso, è padre e madre. Per quanto definitiva, l'elezione cela un altro progetto, lo cela soprattutto a chi non ne avesse mai sentito parlare. Ma per chi ha dimestichezza con il Nuovo Testamento, leggendo Gen 27, può venire in mente una frase dell'apostolo Paolo: «Egli (Cristo) infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo cioè l'inimicizia: [... ]per creare in se stesso, dei due, un solo uomo nuovo, facendo la pace» (EfJ,14). I «due» che saranno «creati in uno» rappresentano, da una parte, l'unicità

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Giacobbe /'ingannatore

d'Israele e, dall'altra, la totalità delle Nazioni. Non che l'autore del racconto abbia voluto dichiarare questo, ma qualcosa di questo si voleva che fosse in qualche modo già presente nel racconto, sotto l'effetto di quello che la dottrina chiama «ispirazione». Si trattava di questo mistero: lariconciliazione dell'eletto e dei suoi fratelli. Era là e non lo sapeva, ma era dove lo conduceva il suo desiderio.

GIACOBBE SI AVVICINÒ AD !SACCO SUO PADRE, IL QUALE LO TASTÒ E DISSE: «LA VOCE È QUELLA DI GIACOBBE, MA LE MANI SONO

QUELLE DI ESAÙ». Così NON LO RICONOBBE, PERCHÉ LE SUE MANI ERANO PELOSE COME QUELLE DI SUO FRATELLO ESAÙ; E LO BENEDISSE». GEN

27,22-23

7 GIACOBBE (seguito)

Giacobbe è sulla strada dell'esilio, in fuga da suo fratello. Alla prima tappa si addormenta su una pietra e vede in sogno una scala che collega il suo guanciale al cielo, e dalla quale salivano e scendevano degli angeli. «La terra sulla quale sei coricato sarà tua proprietà. Ti ci riporterò. In te e nella tua discendenza saranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 28, 13-15). Queste parole Abramo le aveva udite un tempo. Cosa significa la scala del sogno? Le parole sono come le sbarre e la scala che collega il cielo e la terra è come la parola. Le sbarre non cambiano né la scala si muove. Non sono altre parole, non è in un altro linguaggio che talvolta gli angeli portano all'uomo la parola di Dio e talvolta portano a Dio la parola dell'uomo. Come le sbarre della scala reggono bene, così quelle del linguaggio, casa dell'uomo e casa di Dio, casa che Dio abita con l'uomo. Le sue fondamenta sono più sicure della terra creata per essere salda e della pietra dove, fiduciosa, riposa la testa di Giacobbe. L'affidabilità del linguaggio è il principio sacro di ogni alleanza. Colui che s'impegna con la menzogna sa che questo sopruso rende malferme le fondamenta della sua qualità di uomo. Attraverso la strada degli angeli che salgono, Giacobbe risponde che al suo ritorno la pietra del suo guanciale sarà la prima pietra di un santuario e dà al luogo il nome di Bethel, ossia "casa di Dio" Commenta: «Dio è qui e io non lo sapevo».

Giacobbe (seguito)

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Dopo Bethel Giacobbe conoscerà poche tappe felici. Ormai molto vecchio, presenterà così la sua storia: «Pochi e tristi sono stati gli anni della mia vita» (Gen 47,9). Le sue nozze ci sono raccontate come a volerle contrapporre a quelle d'Isacco, suo padre. Rebecca, per salvare la vita di suo figlio Giacobbe, gli aveva detto: «Fuggi verso mio fratello». Dove Giacobbe si sposerà. Dobbiamo fare un passo indietro per comparare il matrimonio d'Isacco con quello di Giacobbe_. Il fratello di Rebecca, questo Labano verso il quale è diretto Giacobbe, abita il paese che Abramo aveva lasciato, per ubbidienza a Dio. Il patriarca aveva però insistito perché suo figlio Isacco non vi tornasse. Non faccia, per trovare una fidanzata, la strada di suo padre in senso inverso, contrariamente alla chiamata di Dio! Perciò aveva incaricato il fedele Eliezer di invitare la giovane eletta, Rebecca a "partire", anche lei, dal suo paese per andare incontro al giovane. Alla fine del suo viaggio, Eliezer aveva incontrato Rebecca accanto al pozzo: aveva gentilmente fatto bere il messaggero 1 senza dimenticare i dieci cammelli. In questo gesto aveva riconosciuto un segno di Dio. Nella generazione seguente vediamo Giacobbe arrivare allo stesso pozzo, ma senza scorta. Solo il pozzo non è cambiato, il resto è tutto alla rovescia. Giacobbe si muove da servitore. Sapendo che la ragazza che si sta avvicinando è Rachele, figlia di Labano, con prontezza solleva da solo l'enorme sasso che ricopre il pozzo per fare bere le pecore di sua cugina (Rebecca aveva fatto bere i cammelli del suo ospite).

1 «Per piacere, fammi bere un po' d'acqua dalla tua anfora» (Gn 24,17) aveva detto Eliezer alla giovane fanciulla. È presso il pozzo, chiamato «pozzo di Giacobbe» che Gesù dirà alla Samaritana: «Dammi da bere» (Gv 4,7). La stessa vita che viene da Dio riunisce nei secoli dei secoli gli attori di un unico racconto.

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Dopodiché si scioglie in lacrime. Per venti anni svolgerà questo ruolo di servitore. Rachele era «bella di forme e avvenente di aspetto». Non lo era Lea, sua sorella maggiore. Giacobbe ama Rachele a tal punto da proporre lui stesso questo contratto oneroso: lavorare per sette anni alle dipendenze di suo zio e futuro suocero prima che Rachele gli venga data in sposa. Finalmente arriva il giorno delle nozze. Ma l'indomani mattina Giacobbe trova accanto a lui non Rachele, bensì Lea. Così Giacobbe l'ingannatore è questa volta ingannato. Aveva ingannato suo padre, suo suocero lo inganna. Aveva approfittato della notte di un cieco, Labano approfitta della notte di nozze. Si era fatto passare per Esaù, ha scambiato Lea per Rachele. La necessità di mantenere uno schema prevale qui sulla verosimiglianza. Il narratore non prova affatto la necessità di sottolineare in questa sconfitta di Giacobbe un castigo del suo inganno. Questo capovolgimento di situazione è piuttosto un riequilibrio dei destini. O, al medesimo tempo, un ritorno di squilibrio tra chi è amato e chi non lo è, come lo dimostrerà la rivalità delle due sorelle. Il suocero assume il tono della concessione: «Trascorri con Lea i-sette giorni di festa e poi Rachele ti sarà donata in cambio della promessa di servirmi ancora sette anni». Così Giacobbe ha due mogli, ma Rachele la sua preferita, la più giovane, è sterile, mentre Dio rende feconda Lea, che Giacobbe ama di meno. Notiamo qui che l'essere meno amata (o meno amato) di per sé è vissuto come non esserlo affatto. Giacobbe sarà padre di dodici figli e di una figlia. Lea gli donerà Ruben, Simeone, Levi, Giuda, Issacar, Zàbulon, Dina e - per interposta serva - Gad e Aser. Rachele, sempre per mezzo della serva, gli donerà Dan e Nèftali. Resa finalmente feconda partorisce Giuseppe. Molto tempo dopo morirà dando alla luce l'ultimo di tutti, Beniami-

Giacobbe (seguito)

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no. I dodici fratelli saranno gli antenati delle dodici tribù d'Israele. Ogni nascita è un motivo di competizione tra le due sorelle: Lea ricupera il vantaggio con il numero dei suoi figli. Alcuni commentatori hanno potuto pensare che, pur non biasimando la poligamia, il narratore nemmeno l'incoraggi. Giacobbe e suo suocero gareggiano in birbanterie finché Giacobbe, finalmente ricco, decide di fuggire con le sue due mogli, le quali si sentono autorizzate a commettere qualche furtarello a spese del loro padre. La colpa è attenuata dal brutto ricordo che hanno di lui: «Ci ha vendute». Ma c'è l'aggravante del furto dei piccoli idoli della famiglia patema, sui quali si sono sedute, nascondendoli sotto la sella dei loro cammelli. Questo tratto comico lascia intendere che un oggetto di culto meriterebbe un posto più onorabile, ma che gli idoli sono insensibili in quanto non sono niente di vivo. Più o meno visibili, questi idoli accompagneranno Israele per un lungo lasso di tempo. Se cercassimo l'onestà in queste pagine della Bibbia, la troveremmo pura e intatta solo in due punti. Riguardo Dio: nella sua promessa. Riguardo gli uomini: nel narratore, che non dissimula le furbizie dei suoi antenati, e il fatto ci colpisce tanto più che non li guarda dall'alto in basso. Non pensa che gli uomini di una volta fossero migliori, né che noi siamo migliori di loro: egli vede soprattutto quanto erano dure le loro battaglie e precari i loro successi.

8 GIACOBBE IL LOTTATORE

La scala del sogno di Giacobbe attraversava tutta la distanza che separa il cielo e la terra e, nello stesso tempo, li metteva in comunicazione. Poi la scala è stata tolta e tutto da allora avvenne a livello del suolo. Un emigrante, Giacobbe1, per fuggire il fratello intenzionato a ucciderlo, ritorna nella casa di uno zio rimasto in paese, di cui sposa le due figlie, e da cui è sfruttato per venti anni. Alla fine tra i due chi si arricchisce di più è lui e, senza preavviso, ritorna con tutto quello che ha verso il paese che era stato costretto a lasciare e che Dio gli ha promesso. Dopo venti anni suo fratello Esaù vuole ancora vendicarsi, sta in agguato per ucciderlo? Giacobbe non ha alcuna possibilità per evitare l'incontro. Alla guida di un'imponente carovana, costituita da donne, bambini, servi e serve, greggi, si dirige verso la sua destinazione. Poco più in là c'è Esaù a capo di un esercito di quattrocento uomini. I due gruppi si muovono l'uno incontro all'altro.

1 Dt26,5-10 si presenta come un piccolo catechismo della storia d'Israele, da tenere in mente per la liturgia delle feste. Molti ritengono che le prime parole «Mio padre era un Arameo errante» fanno riferimento a Giacobbe piuttosto che ad Abramo. Poiché non è in un solo colpo che i nomi dei patriarchi hanno trovato il loro posto su un albero genealogico per esprimere quello che il popolo sentiva riguardo la sua propria unità, di età in età, secondo l'opinione di Dio.

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Tutte le vicende del libro della Genesi sono raccontate sotto diverse angolature, partendo da diverse tradizioni, che non provengono soltanto da diverse scuole, ma da epoche successive. Le versioni più antiche erano ritenute troppo preziose dagli ultimi arrivati per essere semplicemente cancellate. Gli ultimi redattori completavano quindi, interpretavano, magari correggevano le antiche tradizioni, più preoccupati di non perdere nulla che di conciliare il tutto. Per cui unità narrative originariamente disgiunte sono state così poste l'una accanto all'altra-senza preoccuparsi troppo di armonizzarle. Diciamo che comunicano piuttosto dalla base come se una forza magnetica le avesse attratte le une verso le altre. Altro che l'abilità di uno scriba. Il racconto di questo pericoloso frangente della vita di Giacobbe assume la forma di due crisi, ognuna delle quali è stata sicuramente raccontata, per un certo periodo, senza l'altra, finché un redattore non ne ha fatto un solo racconto2. In una Giacobbe incontra Dio, nell'altra Giacobbe incontra Esaù. Giacobbe, quindi, incontra Dio. Non c'è racconto senza desiderio e non c'è desiderio senza che vi si frapponga un ostacolo. Tra Giacobbe e il paese promesso, scorre un torrente chiamato labbok. È un ostacolo naturale, ma nella fattispecie simboleggia tutte le forze che sovrastano l'uomo, al di sotto e al di sopra di lui. Il guado dello labbok è un passaggio tanto aperto quanto aleatorio. In questo guado Giacobbe restò solo. Per fermarlo, un uomo «lottò con lui fino allo spuntare dell'aurora» (Gen 32,25). Giacobbe, con il torrente, trascorre un'altra delle sue notti, che cela un'altra incognita: l'identità di questo avversario ... Se la sua for-

2 Nella ricerca delle fonti, la difficoltà deriva dal fatto che la coerenza di ciascuna tradizione isolata non si sovrappone necessariamente all'omogeneità letteraria (lessicale, stilistica) dei "documenti" che li collegava già.

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za non avesse limiti non chiederebbe a Giacobbe: «Lasciami andare, perché è spuntata l'aurora» (Gen 32,25). Giacobbe non vuole. Allora l'uomo cede e lo benedice. Giacobbe, insaziabile (come se tutte le benedizioni finora ottenute non gli bastassero) vuole anche sapere il nome del1'uomo, il quale a sua volta rifiuta. In compenso dà a Giacobbe il nome di "Israele", l'eletto per eccellenza, poiché gli dice: «Hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto» (Gen 32,29). Chi era i'avversario, un uomo o Dio? La sua risposta c'induce a credere che tutto ciò che era stato messo in gioco finora con gli uomini, in audacia o astuzia, si metteva in gioco con Dio. Sorge l'aurora, tutto appare più chiaro a Giacobbe che dice quando l'uomo se ne è andato via: «Ho visto Dio faccia a faccia ... ». Però, nemmeno questa volta, lo sapeva. Un mito molto arcaico soggiace a questo racconto. Non c'è frontiera che il destino dell'uomo debba attraversare senza che una potenza superiore, genio delle acque o della notte, reclami il dovuto, reclami al viandante la sua vita. Ma il motivo (universale) è, a causa del contesto, in linea con la serie di benedizioni forzate che costellano la storia di Giacobbe-Israele. Se Giacobbe-Israele è l'eletto, è perché ha voluto più di chiunque altro, con tutto se stesso, essere eletto. Lo voleva già nel grembo materno. Con caparbietà. Se Esaù fosse stato mosso da un desiderio più forte, sarebbe tornato prima dalla caccia! La separazione tra cielo e terra si dissolve nella polvere dove tutti e due, lottando, si rotolano e si amalgamano nello spazio di una notte. Essere eletto è volerlo essere. Questo concetto non sostituisce il mistero con una banale equivalenza. È un'ulteriore discesa: più penetriamo il desiderio dell'uomo, più la priorità di Dio ci è resa, giustamente, invisibile. Mentre l'altezza del cielo ce ne dava un'immagine, la profondità

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del torrente nasconde il luogo in cui lo stesso Dio dà all'uomo questo desiderio che vuole colmare. D'altronde, da dove proveniva questo desiderio di Giacobbe? Giacobbe incontra Esaù. Secondo episodio, di carattere umanista e morale. Solo Esaù, il fratello nemico che si avvicina, muovendosi con i suoi quattrocento uomini, è un guerriero. Non può esserlo Giacobbe con tutto quel seguito di donne, bambini, e greggi. Non gli rimane altro che lasciare l'uomo armato spingersi verso i suoi. Tuttavia prima di passare il guado aveva preso la precauzione di dislocarli in gruppi perché non perissero tutti insieme in quanto sarebbero giunti prima di Giacobbe alla presenza di Esaù. Per osare questo rischio confida nella capacità di Esaù di ammansirsi alla vista di un corteo disarmato, inoffensivo. Sorprende invece l'emozione del guerriero, del nemico, il quale corre per primo a gettarsi al collo del fratello, a perdonare senza che nulla lo abbia spinto a farlo. Allora i due racconti, i due incontri si riuniscono intorno alle parole di Giacobbe: «Sono venuto alla tua presenza come si viene alla presenza di Dio, e tu mi hai gradito» (Gn 33,10). Sono ispirate al redattore dall'episodio precedente in modo che si possa leggere la riconciliazione con il fratello in sovrimpressione all'incontro con Dio. Questi due passaggi diventano uno solo, senza il quale la Terra promessa non si aprirebbe. Ma dopo il loro breve abbraccio è necessario che Giacobbe e Esaù riprendano non le ostilità, ma le distanze.

NON TI CHIAMERAI PIÙ GIACOBBE, MA ISRAELE, PERCHÉ HAI COMBATTUTO CON CON GLI UOMINI E HAI VINTO!

GEN 32,29

Oro

E

9 GIUSEPPE

Due sogni del piccolo Giuseppe, figlio di Giacobbe e di Rachele, annunciavano per immagini che suo padre e i suoi fratelli si sarebbero prostrati un giorno davanti a lui. Perché il sogno diventi realtà, il Faraone dovrà prima conferire a Giuseppe i massimi poteri sull'Egitto (Gen 41,41). Se ne avvarrà per salvare i suoi fratelli dalla carestia, nonostante un tempo costoro lo avessero venduto. Farà sì che si stabiliscano in Egitto dove cominceranno a moltiplicarsi (Es 1,7). La storia di Giuseppe conclude il libro della Genesi e ci incammina verso quello dell'Esodo. Ecco i momenti più grandi di questa storia. Giacobbe ebbe in tarda età un figlio da Rachele, Giuseppe per l'appunto, bello come sua madre (Gen 39,6). Giacobbe lo preferisce ai suoi dieci figli nati da Lea o dalle serve. Con Giuseppe la figura dell "'eletto" assume una forma completamente nuova. Dio non interviene mai direttamente nel corso della sua vita: sono i personaggi del racconto che dichiarano di riconoscervi la sua mano e vedono nell'interpretazione dei sogni un dono concesso a Giuseppe da Dio. Eletto, Giuseppe lo è certamente, ma è solo l'eletto di suo padre (che gli fa fare una bella tunica) e questa è la sua sfortuna. Infatti, i suoi fratelli lo prendono a malvolere quando candidamente racconta loro quei due sogni che li rappresentano sotto il suo dominio. Da quel momento il

Giuseppe

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destino di Giuseppe è una tragedia per se stesso, ma soprattutto per suo padre. Dopo averlo gettato in un pozzo, i fratelli, non riuscendo a mettersi d'accordo per ucciderlo, lo vendono a delle carovane. Per spiegare al padre la sua scomparsa, gli fanno vedere la sua bella tunica intrisa nel sangue di un capro e gli raccontano che è stato divorato da una bestia feroce. Durante tutti gli anni che Giuseppe trascorrerà in Egitto dove i carovanieri alla fine lo vendono a Potifar, coppiere del Faraone, questa immagine rimarrà impressa nel cuore di Giacobbe. Qualche tempo dopo, accusato per un fatto non commesso dalla moglie del padrone, è messo in prigione, da dove la sua fama d'interprete di sogni salirà fino alle orecchie del faraone, che gli sottopone i propri sogni. Il metodo di Giuseppe, interprete di sogni, merita la nostra attenzione per come spiega al faraone i due principi. Primo: «I due sogni sono uno solo» gli dice e secondo: «Se il sogno si è ripetuto due volte significa che si avvererà» (Gen 41,25-32). Validi motivi inducono a applicare queste due regole ai racconti della Genesi. Pur non essendo sogni, come i sogni, traspongono un passato scomparso e nascondono un desiderio che non è in grado di conoscersi da se stesso, ma che è l'unico a non trarre in inganno: sono scritti sotto il presentimento di un avvenire. Applicando il primo principio, i nomi e i costumi adottati dai personaggi cambiano da uno all'altro, ma non cambiano le funzioni, come un fante è sempre un fante, che sia di cuore o di picche, fermo restando che il rapporto di base rispetto alle altre carte rimane immutato. Quanto al secondo principio: la ripetizione è allo stesso tempo un fattore di immobilità e di insistenza. L'insistenza, quando non ottiene il compimento (cioè quello che si desidera) fa almeno sentire che si sta avvicinando.

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Così è dell'uso ripetuto dello schema "perdita del figlio": Abramo, poi Giacobbe perdono e poi ritrovano il loro figlio. La prima immagine, che viene da molto più lontano, s'imprime più in profondità. La seconda è più vicina di quello che possiamo aver visto e che ci sembra privo di mistero. I due racconti appartengono a due momenti successivi della stessa cultura e traducono esperienze diverse. Ma la sovrimpressione dei due racconti, la loro messa in serie produce l'effetto del rilievo. Se ancora non capiamo veramente la verità in essi nascosta, abbiamo perlomeno la sensazione di entrare e avanzare in essa. Mentre Abramo è davvero lontano e pressoché unico, abbiamo potuto conoscere vari Giacobbe. Questo effetto ottico di avvicinamento attraverso due piani è un segnale che dona il compimento. La stessa cosa può verificarsi con il motivo della riconciliazione: quella di Giacobbe con Esaù si ripercuote e si trasforma in quella di Giuseppe con i suoi fratelli. Le due parti sono tuttavia insostituibili. La crudeltà del primo racconto (benedizione rubata) ha l'effetto di pulitura sugli ideali del lettore. La sensibilità del secondo dà una visione meno selettiva del reale. La crudeltà non è assolutamente assente: conserva la sua apparenza e perde soltanto la sua realtà. Il come, ce lo dirà la storia del momento in cui si realizzano i due sogni di Giuseppe. Del fratellino di Giuseppe si era parlato soltanto per annunciarne la nascita (Gen 35,16-20) nello stesso giorno della morte di sua madre. Beniamino (così si chiama) non è mai stato geloso del fratello maggiore. Il suo ruolo di bambino innocente è tenuto in serbo per l'ultimo atto, quando finalmente si compiranno i primi sogni di Giuseppe. Giuseppe è diventato il Primo ministro del Faraone. Con grande saggezza aveva saputo stipare il grano per i sette anni di carestia, di cui aveva letto l'annuncio nei sogni del faraone. La carestia che venne ad infierire «su tutta la terra» (Gen 41,47) spinge i fratelli di Giuseppe fino in Egitto, fino

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ai suoi piedi. Prostrati, ma senza riconoscerlo, lo implorano per ottenere di che vivere. A questo punto Giuseppe, nascondendosi sotto la maschera di crudeltà di un potente di questo mondo prende in ostaggio uno di loro, Simeone, che non sarà liberato prima che non siano andati a riprendere Beniamino, che il padre ha trattenuto con sé per paura di perderlo, pure lui. Dovranno strapparlo al padre. Peggio, Giuseppe fa in modo che Beniamino, una volta in sua presenza, venga accusato di un furto di cui è innocente: lo stesso Giuseppe ha fatto mettere la sua coppa d'argento nel sacco del ragazzo. Sarà quindi preso come schiavo, allontanato per sempre dai suoi fratelli e da suo padre. Mentre si svolge la storia il lettore viene a sapere quello che non vedono i fratelli di Giuseppe. Tra le diverse peripezie delle sue macchinazioni Giuseppe si nasconde e piange. Finché non ce la fa più: butta giù la maschera e scoppia in singhiozzi 1• Il lettore scopre allora la chiave del dramma: si trattava ancora una volta di un perdono, ma, dopo la riconciliazione di Giacobbe e di Esaù, su un altro registro. Giacobbe ingannatore poi ingannato. Giuseppe che induce i suoi fratelli a ripercorrere il loro delitto per esserne guariti. Come avviene in parecchi racconti: il diavolo che entra in una casa non può uscirne che da dove è entrato. È lo stesso per i fratelli di Giuseppe che per uscire devono tornare indietro. Coloro che avevano strappato a Giacobbe il figlio prediletto sono indotti a reclamargli colui che nel suo cuore è un nuovo Giuseppe: il loro passato, per la prima volta, si trasforma in verità. Non è che il perdono debba essere comprato con le sofferenze, ma che senso ha se colui che perdona schiaccia l'offeso sotto la sua immagine 1 Giuseppe «singhiozzava così forte che gli egiziani lo udirono, così la casa del faraone» (Gen 45,2).

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di uomo giusto? Giuseppe non accusa. I suoi fratelli, presentandosi davanti a Giacobbe per chiedergli Beniamino, finiscono col vedersi come erano stati quando gli annunciarono la morte di Giuseppe. Giuseppe il medico, che ha il coraggio di infliggere questa sofferenza, piange in segreto per il male inflitto. Alla fine, messa giù la maschera, il giudice lascia vedere che ama, offrendo egli stesso la chiave di tutto: «Non temete, sono io forse al posto di Dio? Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato di farlo servire a un bene, per compiere quello che oggi si avvera: far vivere un popolo numeroso» (Gen 50,19-20). È lecito pensare che Giuseppe, nonostante quello che dice o sa, è al posto di Dio. Giuseppe, il giudice, e Beniamino, l'innocente condannato, sono per Giacobbe il medesimo figlio. Il cielo e la terra si avvicinano sempre più. Dio si toglie la sua maschera impietosa quando Giuseppe si toglie la sua per scoppiare in pianto. Gli eventi qui riportati: un uomo li ha guidati, un uomo ne ha nascosto il senso e alla fine lo rivela.

VOI

AVEVATE TRAMATO DI FARMI DEL MALE,

DIO HA TRAMATO DI FARNE DEL BENE. GEN

50,20

10 MOSÈ TRA DUE POPOLI

Mosè nasce su una linea di frattura nella storia di Israele. Il faraone regnante «non aveva conosciuto Giuseppe» (Es 1,8), il pronipote di Abramo e di Sara. Tanto tempo prima, l'Egitto aveva salvato questi nomadi dalla carestia (Gen 12,10), poi questi nomadi gli avevano dato Giuseppe, un economista geniale (Gen 41,22-36) grazie al quale gli anni di "vacche magre" non erano stati catastrofici per il grande paese né per quelli confinanti (Gen 41,57 - 42,2). Un salvataggio reciproco. Ma il nuovo faraone non sa più molto bene quale è la storia degli stranieri che abitano il suo paese. E Israele sa ancora da dove proviene? La Bibbia registra molte cesure di questo tipo. Ci viene detto (Es 2,1) che Mosè discende dalla famiglia di Levi, che si dice discendere da Abramo. Ma Mosè non è l'uomo delle genealogie. Il nome "Mosè'', secondo l'etimologia biblica - etimologia popolare - vuol dire «io l'ho salvato dalle acque» (Es 2,10), e questo conferisce un nuovo significato alla sua nascita. In questo libro, le immagini parlano spesso più forte di tutto il resto. Mosè è nato dal fiume. In altre parole: con lui, il libro delle genealogie, riparte da zero. È finita la Genesi, si apre l'Esodo. Con questo bambino si disegna un "engramma" nel senso che i suoi primi giorni iscrivono già nella sua carne il grande momento che vivrà tutto il popolo quando il bambino sarà cresciu-

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to: anche Israele sarà «salvato dalle acque». Vi scenderà, ne uscirà: sarà un battesimo. L'Esodo ricomincia dove cominciava la Genesi: sulle acque primordiali. Mosè nasce dalle acque. Ma quella che dice: «l'ho salvato dalle acque» è la figlia del faraone. Lo ha trovato in un cesto che galleggiava tra i giunchi sulla sponda del fiume. All'epoca questo racconto ha forse fatto sorridere i maligni. Sta di fatto che la figlia del faraone si prende cura del bambino e gli trova una nutrice (Es. 2,8-9) la quale sarà chiamata sua madre. Ma esistono nascite semplici? Lasciamo da parte i maligni che hanno avuto il merito di risvegliare la nostra attenzione. Una cosa è chiara: Mosè ha due madri. La prima è, come il suo sposo, della tribù di Levi. È lei che ha lasciato il bambino all'età di tre mesi (Es 2,2) senza che questi abbia un nome - fra i giunchi in una cassetta di papiro spalmata di bitume e di pece per renderla impermeabile. Notiamo che lo stesso rivestimento aveva protetto l'arca di Noè (Gen 6,14). La figlia del faraone apre la cassetta (Es 2,6). Le due donne si divideranno il bambino. La prima a titolo di nutrice al soldo dell'Egiziana (Es 2,9), si presume per pochi anni. In quanto all'Egiziana, il testo parla del suo rapporto con il bambino con una preposizione che significa pressappoco "a titolo di figlio", comunque più di "come un figlio" 1• È l'Egiziana a dargli il nome. Nella Bibbia l'adozione è una cosa seria. Mosè ha davvero due madri. Presagi e motivi fiabeschi accompagnano svariati racconti di nascita. Il re mesopotamico Sargon I, fu messo, appena nato, in una cesta spalmata di catrame e deposto da sua madre nel fiume, un mezzo millennio prima di Mosè. Ma ogni motivo leggendario è ripreso in una storia singo-

1

Bibbia di Gerusalemme «Egli divenne un figlio per lei» (TOB).

Mosè tra due popoli

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lare, una serie che lo trasforma. Il motivo delle due madri, soprattutto, è originale. In ordine al linguaggio e alla cultura in cui viene scritto il suo nome, Mosè è un egiziano. Agli occhi di uno storico se c'è un dato non provato è proprio quello della nascita di Mosè in una delle tribù di Israele. Ma prendiamo per buono il tema della doppia appartenenza. L'appartenenza egiziana ha una forte incidenza. L'episodio che segue la fine dell'infanzia lo suggerisce, in due giorni: è il momento in cui Mosè «si reca verso i suoi fratelli». I suoi fratelli sono gli Ebrei. Mosè uccide un egiziano che picchiava un ebreo, poi lo seppellisce credendo di non essere stato visto. Un senso di sgomento può assalire il lettore: Mosè salvato dall'Egitto uccide un egiziano, e crede di poterlo seppellire di nascosto (Es 2,12). Occultare un cadavere non è cosa di poco conto. Dove e quando riemergerà la violenza che la storia umana non smette di seppellire? Scoperto, Mosè fugge all'estero, dove viene indicato come un «Egiziano» (Es 2, 19) e dove sposerà Zippora (Es 2,21), una donna non ebrea. Ma c'è qualcosa di più importante. A questo Mosè dal nome straniero sarà affidata la missione di fare servire e adorare Dio da Israele sotto un nome finora totalmente sconosciuto dai figli d'Israele. Egli dovrà convincerli che si tratta dello stesso Dio. L'arguzia degli storici scopre che questo nome era conosciuto prima di Mosè e che non è stato pronunciato per la prima volta davanti a lui né da lui. Si intuisce, infatti, che la parola che dirà il nome divino non scende direttamente dal cielo. È come se avesse le sue radici nel suolo in cui sorge: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» (Es 3,5). La parola si leva su un recinto, per designare il tracciato che una popolazione locale aveva evidentemente stabilito. Il gregge del suocero di Mosè (