La storia dell'alto Medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell'archeologia. Convegno internazionale (Siena, 2-6 dicembre 1992) (Biblioteca di archeologia medievale #11) 8878140112, 9788878140110 [PDF]


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Italian Pages 759 [427] Year 1994

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La storia dell'alto Medioevo italiano (VI-X secolo) alla luce dell'archeologia. Convegno internazionale (Siena, 2-6 dicembre 1992) (Biblioteca di archeologia medievale #11)
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Premessa

La pubblicazione della tesi di Pierre Toubert ha suscitato, nell'ultimo ventennio, Un notevole incremento di indagini, sia sulle fonti scritte che sul terreno della ricerca archeologica, volte a precisare il processo dell’incastellamento. I risultati di tali indagini hanno inoltre dato luogo a colloqui che si sono svolti a intervalli regolari (Castelli:storia e archeologia, Cuneo, 1981; Structures de l'habitat et occupation da sol dans les pays méditerranérs: les méthodes et l'apport de l'archéologie extensive, Parigi, 1984; Lo scavo archeologico di Mortarrerti e i problemi dell'incastellamento medievale. Esperierze a confronto, Siena, 1988; L'incastellamento virtarysdeprés, Girona 1992). Le domande poste dall'incremento delle problematiche, messe in campo attraverso relazioni e discussioni, hanno rapidamente suscitato, presso un certo numero di ricercatori che lavorano nell'ambito della storia socio-economica e delle dinamiche insediative in Italia, un crescente interesse per il periodo immediatamente anteriore all’incastellamento" e per la stessa fase di transizione fra tarda antichità e l'alto medioevo. Nel corso degli ultimi anni si è contestualmente sviluppato un ampio dibattito storiografico sull'alto medioevo in generale, grazie soprattutto ai primi risultati qualitativamente e quantitativamente significativi della ricerca archeologica sia nell'ambito rurale che urbano: rimangono comunque aperti vasti problemi la cui interpretazione suscita talvolta un vivace confronto. La costruzione dei nuovi documenti e la loro interpretazione sono frequentemente oggetto di riflessione nel corso di seminari o di incontri settoriali o di pubblicazioni con carattere specialistico, e recentemente sono stati alla base di approfondimenti in ambito regionale o di elaborazioni di aspetti materiali ben definiti, ma non hanno ancora raggiunto un grado di elaborazione suscettibile di giungere a tentativi di sintesi. Per questo motivo il Dipartimento di Archeologia e Storia delle Arti dell'Università di Siena e l'École francaise de Rome hanno giudicato che fosse il momento opportuno per organizzare, un collaborazione con la rivista Archeologia Medievale, in convegno internazionale dal titolo “La Storia dell'Alto Medievo italiano (secoli VI-X) alla luce dell'archeologia'' che si è tenuto a Siena da mercoledì 2 a domenica 6 dicembre 1992. Negli intenti degli organizzatori del convegno e dei curatori del volume vi è stato quello di dar luogo ad una pubblicazione che offrisse non tanto un quadro sintetico ed esaustivo, quanto piuttosto lo stato dell'arte sul problema. Gli atti raccolgono infatti le relazioni e gli interventi svolti nelle sei intense mezze giornate di convegno. L'incontro si è incentrato, come già sottolineato, sull'Italia e sulle sue diverse componenti etniche e/o politiche (gote, bizantine, longobarde, carolingie, ottoniane, arabe), senza escludere tuttavia l'introduzione puntuale di elementi comparativi riguardanti le stesse sfere culturali, del bacino orientale del Mediterraneo. Quanto ai limiti cronologici, sono stati fissati in modo da coprire nella maniera più completa possibile il passaggio dall'assetto tardo-antico al sistema medievale, fino all'incastellamento", senza per altro affrontare organicamente quest'ultimo problema. L'occasione è stata offerta da una collaborazione tra specialisti della tarda antichità e dell'alto medioevo, che, lavorando in campi tradizionalmente separati, non si incontrano sistematicamente ed in questo caso invece sono stati invitati a confrontare le loro problematiche e i loro metodi. L'incontro aveva l'obiettivo di costruire un quadro di riferimento utile per una storia socio-economica globale del periodo, associando i dati documentari con quelli della ricerca sul campo. Si è tentato inoltre di dare un largo spazio alle ricerche testuali, ma aperte all'archeologia, e assemblare la considerevole informazione che è stata fornita in questi ultimi anni dalla ricerca estensiva e da quella intensiva, evitando, quanto più possibile, i contributi che si limitassero a fornire informazioni su singoli casi.

L'aspetto interdisciplinare è stato posto in primo piano, facendo appello ai più recenti sviluppi delle diverse tecniche in questi campi, per un confronto di obiettivi, metodi e risultati. Con queste premesse le comunicazioni, che sono state intenzionalmente ridotte nel numero, dovevano essere finalizzate a presentare quadri generali e problematici e stimolare quindi una discussione collettiva, alla quale sono stati invitati a partecipare un notevole numero di studiosi. I temi, individuati come particolarmente significativi riguardo alle ricerche e all'attuale dibattito, sono stati: le nuove etnie, lo stato e le strutture "macro-economiche"; la produzione e gli scambi; la città e gli assetti rurali, cercando di tenere sempre ben presente come gli elementi di trasformazione dell'alto medioevo sono segnati dalla dinamica dei rapporti tra i centri di potere politico, amministrativo, religioso, e lo spazio dominato, e dalla dialettica dei movimenti di concentrazione e dispersione degli insediamenti, con l'obiettivo di mettere a fuoco anche il terreno su cui si innestò il processo di "incastellamento". Si è ritenuto inoltre opportuno stimolare la presentazione di alcuni quadri regionali, allo scopo di valorizzare e poter valutare più compiutamente in una scala accettabile una grande quantità di ritrovamenti locali e di studi particolari ancora inediti o pubblicati in maniera dispersa e poco accessibile. Quando è stato possibile questi quadri regionali sono stati presentati da più ricercatori, invitati ad operare in forma di gruppo: I'Italia è stata così divisa in aree geografiche e gli interventi relativi a queste sono stati simmetrici al grado di avanzamento della ricerca e alle prospettive inizialmente impresse all'indagine sul campo. È per questi motivi che gli interventi, durante il convegno, sono stati articolati in giornate a carattere tematico e a carattere geografico. Va da sé che gli altri problemi fondamentali, quali quelli relativi ai luoghi di culto e alle inumazioni, come alle singole situazioni e strutture materiali, sono stati affrontati nei diversi settori prestabiliti. In sostanza i risultati acquisiti nel corso del convegno ci pare che abbiano contribuito a rinsaldare quel dialogo essenziale che deve caratterizzare l'operare degli storici che abitualmente si confrontano sulle fonti scritte e quelli che lavorano prevalentemente sulle fonti materiali. Hanno fatto parte del comitato scientifico dell'incontro G.P. Brogiolo, R. Francovich e D. Manacorda, docenti dell'Università di Siena e L. Pani Ermini, dell'Università di Roma "La Sapienza" per la parte italiana e J. Dalarun, direttore degli studi medievale all'École francaise de Rome, con G. Noyé e P. Pergola, ricercatori del C.N.R.S. e collaboratori dell'École, con il concorso di C. Wickham, dell'Università di Birmingham. RICCARDO FRANCOVICH GHISLAINE NOYÉ

La fine del mondo antico e l'inizio del medioevo: nuovi dati per un vecchio problema

Se dovessi definire sinteticamente il contributo della recente ricerca archeologica alla conoscenza dell'alto medioevo italiano, direi che consiste nell'aver riproposto con nuovi argomenti un problema che già aveva impegnato la storiografia italiana a partire dall'Ottocento: quello della rilevanza conservata da aspetti essenziali del mondo antico nelle origini del medioevo; il problema, cioè, della continuità. Nel secondo dopoguerra, la storiografia italiana sembrava aver sostanzialmente chiuso la questione, pronunziandosi per una cesura fra l'età antica e quella medievale, determinata dall'invasione longobarda, cui essa addebitava non solo il sovvertimento dell'organizzazione politica della penisola, ma anche profonde trasformazioni della società, dell'economia, dell'insediamento. All'origine di questa lettura è la riflessione di Giampiero Bognetti, il che vale quanto dire che essa coinvolge direttamente anche la ricerca archeologica. Bognetti, nel quale credo che si debba riconoscere ancor oggi il capostipite di quanti si sforzano di coniugare storia e archeologia medievale in Italia, giunse infatti a formulare la sua interpretazione non solo attraverso le testimonianze relative al diritto ed alla politica, ma anche, e in egual misura, attraverso la documentazione materiale ed artistica, che al suo tempo si veniva identificando e sistemando sulla base del metodo archeologico 1. Tuttavia il giudizio di cesura da lui formulato era frutto di una concezione che riteneva oggetto proprio della storia la civiltà, intesa come realtà etica. Il significato storico dell'alto medioevo italiano era da lui posto nel drammatico e fecondo scontro tra due mondi culturali e morali antagonisti: quello dei germani invasori e quello ellenistico-mediterraneo variamente rappresentato sul suolo italiano: I'esito dello scontro sarebbe stato l'Italia dei comuni, tutt'altra cosa rispetto all'Italia dei municipi romani, proprio per il principio germanico che le si era incorporato e la rendeva europea. Durante e dopo la seconda guerra mondiale, Bognetti si era infatti dovuto cimentare col problema di definire l'unità della civiltà europea, così gravemente lacerata dalla guerra, e in particolare il ruolo che in essa andava riconosciuto alla componente germanica. Nonostante le circostanze rendessero assai problematico tale riconoscimento, Bognetti nobilmente trasferì nella valutazione di un'altra, più remota epoca barbarica, la reverenza per la grande cultura tedesca dell'Ottocento e del Novecento, e sostenne che il principio germanico ebbe un ruolo creativo, accanto ai principi trasmessi dall'eredità classica, fin dal momento in cui si presentò con le invasioni. Per questo l'innesto dei germani nella storia d'Italia non poteva che segnare l'inizio di una nuova era. L'impostazione odierna degli studi pone in primo piano i mutamenti di struttura, anziché quelli di civiltà. Mi sembra che questo possa essere un riflesso, nell'indagine sul passato, dell'interesse per i macrosistemi politico economici che nel mondo attuale sovrastano ed inglobano le collettività e condizionano l'esistenza delle economie regionali. Il mondo tardoantico si presenta come un esempio evoluto e complesso di tali macrosistemi e sembra possibile incorporare tra le sue componenti anche i conflitti di sottosistemi culturali quali diventano, in questa prospettiva, le società di tradizione romana e quelle di tradizione barbarica 2. I termini della periodizzazione mutano: il mondo antico sembra prolungare la sua esistenza oltre le scansioni suggerite dai fenomeni etico-politici, mentre l'alto medioevo come periodo storico identificato da strutture nuove, ritarda sempre più il proprio inizio. Una prospettiva che ha trovato recentemente espressione perfino provocatoria in saggi storici che hanno sostenuto la durata di essenziali aspetti dell'organizzazione tardo antica nel campo sociale, produttivo, fiscale e finanziario, fino all'età carolingia e anche oltre; fin quando cioè non sia sembrato agli storici sufficientemente maturo un sistema di relazioni sociali ed istituzionali, che per la sua novità può essere finalmente considerato medievale. Un tempo che per l'Italia potrebbe corrispondere addirittura a quello dell'incastellamento e della signoria locale 3. La ricerca archeologica non ha prodotto ricostruzioni tanto radicali; tuttavia sia per la natura dei fenomeni con cui ha attinenza la sua documentazione specifica, sia per il ruolo di primo piano che

hanno avuto in essa studiosi di formazione antichistica, ha spesso letto la sequenza dei fenomeni in chiave di trasformazione del mondo antico, piuttosto che di genesi di quello medievale. L'Italia poi, dove l'impronta della civiltà antica ha avuto rilevanza e tenuta particolari, costituisce un campo propizio per osservazioni di tale genere, sicché nei numerosi studi ad essa recentemente dedicati, il rapporto tra antichità e medioevo perde il carattere di drammatica contrapposizione e l'alto medioevo si configura piuttosto come un lungo processo di trasformazione dei rapporti tra le componenti della struttura antica che non come catastrofica sostituzione di un sistema con un altro 4. In questa introduzione prenderò dunque in esame alcune linee rilevanti seguite dalla ricerca archeologica negli ultimi vent'anni, per vedere come attraverso di esse si congiurino i grandi processi di trasformazione e fino a che punto sia ancora possibile individuare una periodizzazione in cui i primi secoli del medioevo possano essere considerati un'epoca di esordi, anziché di sopravvivenze 5. Uno degli aspetti archeologici più minuziosamente indagati relativamente alle trasformazioni del sistema tardo antico in Italia, è costituito dalla progressiva riduzione, fino alla cessazione completa, dell'importazione di merci provenienti da vari paesi del bacino del Mediterraneo. Il processo, ricostruito sulla base della quantità e della distribuzione dei resti di ceramica da mensa africana e di anfore da trasporto africane e orientali, presenta un andamento ormai ben conosciuto grazie a numerose e convergenti indagini regionali; fra il III e la metà circa del V secolo, le importazioni appaiono consistenti e distribuite in tutta la penisola, anche se con prevalenza delle regioni centro-meridionali; dalla seconda metà del V e sempre più marcatamente nel corso del VI secolo, la diffusione delle merci importate si riduce e la loro quantità diminuisce anche nei centri in cui continuano ad esser presenti; nel VII secolo quantità e diffusione si contraggono ulteriormente fino a cessare completamente nella seconda metà del secolo 6. Il processo ha dato luogo ad interpretazioni diverse ed in parte contrastanti. Sulle prime, quando il fenomeno venne percepito nella sua consistenza e coerenza, fu messo in relazione con una crisi della società italiana delineatasi già a partire dal IV secolo, e caratterizzata dal progressivo spopolamento delle campagne e dal probabile impoverimento dei consumatori, riflesso nella curva discendente della ceramica importata, soprattutto del vasellame da mensa 7. Questa interpretazione, pur largamente accolta, ha suscitato in seguito riserve basate su due ordini di considerazioni. Relativamente al rapporto tra scomparsa della ceramica da mensa africana nel territorio rurale e ipotesi dello spopolamento, si è osservato che esso non è affatto scontato, perché la popolazione rurale potè disporsi sul territorio in maniera diversa senza per questo diminuire; inoltre il semplice venir meno della ceramica importata non rimanderebbe necessariamente alla scomparsa dell'insediamento, dato che essa potè venir sostituita da produzioni locali ancora poco o niente conosciute per il VI e VII secolo 8. Relativamente poi al significato economico generale del declino delle importazioni di ceramica da mensa e derrate trasportate in anfore, si è osservato che esso non può essere interpretato facendone esclusivamente la conseguenza della caduta della domanda in Italia, perché le importazioni, nel tempo della loro massima espansione, non dipendevano dall'iniziativa di imprenditori commerciali operanti su un libero mercato, ma erano sostenute in misura essenziale dal traffico navale organizzato dallo stato romano per rifornire l'Italia e Roma del grano africano. Quel traffico consentiva il trasporto di merci aggiuntive abbattendone i costi, con vantaggio anche dei mercanti privati. La conquista vandalica dell'Africa avrebbe messo fine al sistema dei trasporti statali, con ciò eliminando anche i vantaggi sul prezzo e sulla disponibilità delle merci, che divennero più costose. La caduta delle importazioni africane dopo la metà del V secolo, dipenderebbe dunque prevalentemente da un'alterazione esterna, anziché da trasformazioni interne della società italiana 8. Le due argomentazioni convergono nel sostenere che dalle variazioni di quantità e distribuzione della ceramica africana recuperata sul territorio italiano non è possibile dedurre linearmente trasformazioni dell'insediamento, della consistenza demografica o del funzionamento economico della società italiana fra IV e VII secolo. L'ipotesi della continuità non verrebbe dunque pregiudicata da questa documentazione archeologica.

E tuttavia ci si può ancora chiedere se la riduzione delle importazioni in Italia sia davvero priva di ogni relazione con trasformazioni strutturali della società italiana. Per quanto riguarda la tenuta dell'insediamento rurale, si può osservare che l'ipotizzata sostituzione del vasellame importato con altro di fabbricazione locale potrebbe esser priva di implicazioni solo se fosse avvenuta simultaneamente dappertutto; ma poiché al contrario sembra che la ceramica africana venga meno in modo progressivo ed irregolare a partire dal IV secolo, una spiegazione consequenziale deve comunque ammettere che il vasellame importato cessò di arrivare e venne sostituito in alcuni siti, mentre continuava a raggiungerne altri, e perciò deve considerare che tra il IV ed il VII secolo si siano determinate differenze di importanza e ricchezza tra gli insediamenti rurali, le quali rimandano comunque a trasformazioni nell'organizzazione economica e sociale delle campagne, se non alla scomparsa degli abitati. Questo dando provvisoriamente per buono l'assunto principale, che cioè l'insediamento rurale non conoscesse sostanziali contrazioni in quei secoli, il che resta peraltro da dimostrare 10. Lo spostamento verso il consumo di manufatti prodotti localmente è esso stesso circostanza rilevante sotto il profilo dell'attività economica, in quanto se da un lato può significare potenziamento della produzione locale, dall'altro può però anche manifestare limitata circolazione dei prodotti, e non solo di quelli ceramici: cioè orientamento verso l'autosufficienza. Una circostanza che rimanda anch'essa a trasformazioni di larga portata. Essenziale per precisare queste implicazioni potrebbe essere l'analisi dei resti di contenitori da trasporto nel territorio, tenuta in secondo piano dalla maggiore evidenza della ceramica da mensa. Queste osservazioni si collegano alle altre che è possibile fare circa il valore da attribuire, nella ricostruzione dei fenomeni d'insieme, all'organizzazione del trasporto e della distribuzione che convogliava in Italia i prodotti di altre terre mediterranee. L'afflusso di merci africane continuò in realtà anche dopo la cessazione dei collegamenti sostenuti dallo stato romano, sebbene i rifornimenti di grano per l'Italia cambiassero provenienza; sembra assai probabile che prendesse allora maggior rilievo l'iniziativa di imprenditori privati, più sensibili alle richieste del mercato. Con queste si può spiegare l'irregolare distribuzione dei resti archeologici nel VI e VII secolo, che non sono diffusi in modo omogeneo sul territorio, ma limitati in misura sempre maggiore alle città e, in progresso di tempo, alle sole città costiere. Inoltre è divenuto più evidente, col precisarsi delle osservazioni, il rilievo percentuale che assumono nel VI e VII secolo le importazioni dall'Egeo e dall'Asia Minore, che sembrano consistere soprattutto in vini ed in altri prodotti non primari 11. Poiché non si ha motivo di credere ad una rinata annona imperiale per l'Italia con provenienza mediorientale, queste importazioni vanno probabil-mente attribuite anch'esse ad imprenditori privati che in parte almeno provenivano dalle stesse regioni da cui giungevano le merci, ed operavano all'interno dei rinnovati rapporti politico-istituzionali fra l'Italia e l'Oriente, ma in relazione al mercato 12. Anche sotto questo punto di vista, la concentrazione delle importazioni nelle città, il carattere suntuario dei consumi, e contemporaneamente la riduzione quantitativa e la successiva cessazione delle importazioni nella seconda metà del VII secolo, debbono essere in rapporto con trasformazioni in corso nella distribuzione, consistenza e ricchezza della società italiana, nonché con la trasformazione dell'organizzazione produttiva interna, costretta a far fronte da sola ai bisogni essenziali e dipendente dall'esterno solo per prodotti sussidiari. Sembra dunque che pur senza discutere gli assunti di base delle tesi ricordate, sia possibile concludere che la curva disegnata dalla quantità e dalla distribuzione della ceramica importata in Italia, abbia comunque rapporto con l'evoluzione delle situazioni interne. La prosecuzione delle importazioni dopo la fine dei trasporti statali fra l'Africa e l'Italia consente di collegare sintomi quali l'esclusione di una parte crescente del territorio dalla circolazione delle merci importate; la mutata natura delle merci stesse e la loro costante diminuzione anche nei centri cittadini; la successiva, pressoché completa cessazione delle importazioni durante la seconda metà del VII secolo, a concomitanti trasformazioni della società italiana, quali la diminuzione dei consumi o dei consumatori; il crescente peso dell'autosufficienza produttiva e, nell'ultima fase del processo, turbamenti del mercato o delle condizioni dei trasporti 13. Se ciò è corretto, se ne trae l'impressione che l'asserita continuità si configuri in realtà come un processo secolare di semplificazione ed impoverimento della fisionomia

culturale ed economica della società italiana, nonché di crescente isolamento all'interno del mondo mediterraneo, almeno sotto il profilo della circolazione dei beni; processo giunto a termine nella seconda metà del VII secolo. Resta sospesa, ma non esclusa, l'ipotesi di un rilevante calo demografico. Assai più ricco di informazioni dirette sulle condizioni interne dell'Italia può essere un altro fenomeno messo in luce dalla ricerca archeologica recente, consistente nelle trasformazioni delle città in un periodo di tempo press'a poco corrispondente a quello definito dalla contrazione delle importazioni di merci, cioè tra il V ed il VII secolo, sebbene anche su esso non solo le interpretazioni, ma la stessa ricostruzione dei fatti siano fortemente divergenti. Gli scavi compiuti in alcune città dell'Italia settentrionale hanno suscitato due diverse proposte di spiegazione globale delle situazioni riscontrate, e nonostante i successivi approfondimenti del dibattito, tali spiegazioni sono rimaste in gran parte contrapposte. Quel che è singolare è che le situazioni di cui si discute sono in larga parte le stesse: trasformazione delle abitazioni cittadine, con diminuzione del decoro e dell'articolazione interni; contrazione della superficie urbana edificata e creazione di spazi aperti, probabilmente destinati a colture agricole, all'interno delle insulae; sepoltura dei morti dentro la città, in aree già destinate ad uso pubblico o anche negli spazi aperti fra le abitazioni 14. Le differenze tra le osservazioni fatte nelle due città che hanno suscitato la discussione, cioè Verona e Brescia, sembrano piuttosto di grado che di natura, in quanto a Verona non si sono riscontrati ulteriori aspetti della trasformazione urbana, quali l'abbandono di quartieri degradati con gli edifici in rovina, o l'obliterazione di percorsi stradali, che concorrono invece a caratterizzare il panorama di Brescia. Le interpretazioni sono peraltro fortemente divergenti proprio nel giudizio sul significato dei fatti. Com'è noto, si è proposto da un lato di intenderli come segno di un processo intenzionale e controllato di trasformazione della città antica operato da una società urbana che conservava autocoscienza, risorse e capacità decisionale; dall'altro come testimonianza di un crescente dissesto determinato da fattori esterni, subito dalla società cittadina, che venne in gran parte dissolta, tanto che ai primi del VII secolo l'abitato in città era ormai rarefatto e caratterizzato da forme di vita rurale, come l'abitazione in capanne e le colture agricole. In questa seconda interpretazione solo verso la fine del VII secolo si possono riscontrare sintomi di ripresa del controllo e dell'organizzazione del territorio urbano che vanno poi rafforzandosi nell'VIII. La discussione sulla bontà dei modelli è stata complicata dal richiamo che entrambi hanno fatto al ruolo dei longobardi nelle trasformazioni ricordate, valutato attraverso la discussione della loro maggiore o minore attitudine ad utilizzare e salvaguardare l'abitato urbano e lo stile di vita cittadino. Indagini archeologiche più recenti, compiute in città dove i longobardi non arrivarono mai o ebbero una presenza poco significativa, consentono di liberare la discussione almeno da questa complicazione, nonchè di definire su una campionatura più consistente i processi di trasformazione delle città italiane. A Roma, che tra l'antichità ed il medioevo rimase certamente la città più popolata d'Italia ed una tra le più assistite e controllate dai poteri statali, un complesso di ricerche svolte recentemente in più settori del territorio urbano ha consentito di riconoscere la presenza di fenomeni analoghi, nella sostanza, a quelli rilevati nelle città dell'Italia settentrionale. Vi si sono constatati infatti l'abbandono delle grandi istallazioni pubbliche come le terme, e la perdita delle funzioni di altre strutture di servizio municipali; lo spopolamento e il degrado, fino al crollo degli edifici, di quartieri residenziali periferici; I'apertura di nuovi tracciati viari attraverso aree monumentali che avevano perso le funzioni originarie; la diffusione dell'uso di seppellire i morti all'interno delle mura, spesso nel perimetro dei monumenti pubblici abbandonati. Tutto ciò nella già identificata cronologia che va dal V al VII secolo e nonostante episodiche iniziative di restauro e ricostruzione 15. Anche a Roma si è constatata la riduzione della superficie abitata complessiva e la concentrazione degli abitanti in quartieri separati da aree in abbandono. D'altra parte il reticolo stradale antico venne almeno parzialmente conservato anche nelle aree abbandonate e degradate, sebbene il livello d'uso delle strade si innalzasse progressivamente e il rivestimento non fosse più in basoli, ma in terra battuta 16.

Una situazione diversa, una piccola città di provincia come Pescara, dov'è stata condotta un'indagine articolata che ha investito larga parte del territorio urbano, ha messo in luce un processo analogo: contrazione dell'abitato con abbandono dei quartieri periferici lasciati rovinare, impoverimento delle tecniche di manutenzione delle strutture restate in uso, tra cui le strade, degenerazione dell'abitazione privata fino alla costruzione, agli inizi del VII secolo, di capanne in legno, anche nell'area centrale e ancora abitata della città. Sintomi che anche in questo caso si associano alla conservazione dei tracciati stradali principali nelle aree abbandonate, la quale dunque perde molto di quel carattere di prova della continuità degli impianti urbani, che le si è spesso attribuito 17. L'esempio di queste due città, cui si potrebbero aggiungere altri dati meno sistematici, ma affini, provenienti da centri dell'Italia meridionale come Napoli e Salerno o da Cagliari 18, mostra che il processo di trasformazione delle città non ha connessioni causali con l'invasione e l'insediamento longobardi, giacché anch'esso si avvia in tutta l'Italia molto prima dell'invasione stessa, e si sviluppa poi tanto nelle regioni longobarde che in quelle romano-bizantine con una cronologia sostanzialmente eguale. Le modalità e i caratteri con cui tale processo si manifesta invitano a chiamare le cose col loro nome, cioè a riconoscere che si trattò di un processo di degrado dell'ambiente urbano, accompagnato da una diminuzione della popolazione. Più ancora della pratica delle colture ortive nel territorio intramurano, mi sembra che autorizzino il termine "degrado", sintomi quali la contiguità di quartieri abitati e quartieri diroccati, il rimpicciolimento e l'impoverimento dell'abitazione privata, l'abbandono dei complessi monumentali già destinati a funzioni pubbliche e servizi collettivi. D'altra parte le nuove osservazioni danno forza all'ipotesi che il processo dovette avere evoluzione diversa nelle varie città, ed essere in alcune più controllato, in altre più devastante, tanto da giungere, in casi estremi, alla cancellazione quasi totale delle strutture urbane. Ciò si accorda bene del resto con la constatazione che circa un terzo delle città romane attestate in età imperiale non esiste più nel medioevo 19; se il rapporto è a favore delle città sopravvissute, va comunque rilevato che una città estinta su due sopravvissute costituisce un fenomeno consistente e che dagli scavi recenti si deve dedurre che anche le città sopravvissute poterono conoscere, nel periodo in questione, e cioè fra il V ed il VII secolo, momenti di accentuato degrado, da cui si ripresero successivamente; come sembra essere stato il caso, oltre che di Brescia, anche di Milano 20. L'andamento che il generale processo di indebolimento urbano assunse in ciascuna città andrà spiegato con la situazione locale. In questa prospettiva si può riconoscere un ruolo anche ai longobardi, soprattutto per gli atteggiamenti che i gruppi ed i potenti locali presero nei confronti della città presso cui si stanziarono, più che per un orientamento culturale proprio di tutto il popolo. Anche nell'area romano-bizantina le città ebbero fortune diverse: quelle che furono sede di poteri politici e amministrativi si mantennero meglio degli insediamenti minori e provinciali: i casi estremi di disgregazione sono probabilmente individuati dalle cattedrali rurali istituite nei territori già facenti capo ad un municipio romano 21. Dunque non tanto l'autocoscienza o la preminenza delle società urbane in quanto dato strutturale immutabile dell'organizzazione territoriale italiana, quanto un complesso di mutevoli circostanze tra cui il rilievo istituzionale e strategico dei singoli centri spiegano il complessivo andamento della trasformazione. Restano, certamente, da individuare le cause generali che avviarono e sostennero questa tendenza all'indebolimento dell'abitato urbano. Ma una tale indagine, che non può valersi di testimonianze dirette, dà luogo a troppe ipotesi, tutte di natura teorica, perché sia il caso di soffermarcisi in questa sede, e d'altra parte non influenza la descrizione dei fenomeni. Su questo più modesto livello si può ritenere che nel momento in cui il degrado fu più accentuato, probabilmente agli inizi del VII secolo, la fisionomia culturale dell'insediamento urbano in Italia fosse, oltre che variegata, sostanzialmente mutata, non solo in quei centri in cui una popolazione rarefatta viveva in un e in rovina ed in condizioni di ridottissimo scambio di beni e servi-zi, ma anche in quelli che conservavano una significativa concentrazione di popolazione, un'attività produttiva

specializzata ed una certa manutenzione dell'ambiente urbano. Anche in essi infatti decadeva l'organizzazione municipale, si era deteriorato l'arredo urbano, si contraeva la disponibilità dei beni c la stessa manutenzione consisteva piuttosto nella conservazione che nella costruzione del nuovo 22. Due distinte serie di osservazioni - quelle sulle importazioni di merci mediterranee e quelle sulle strutture urbane - si sommano dunque nel suggerire che dal V secolo in poi l'Italia fosse investita da un processo che combinando probabilmente cause esterne e cause interne, logorava progressivamente le situazioni strutturali antiche relative all'acquisizione delle risorse, alla consistenza dell'insediamento, alla fisionomia culturale della società. In questo processo il ruolo che sembra di dovere attribuire ai longobardi è quello di essersi inseriti nelle trasformazioni in atto, influenzandole, piuttosto che di averle provocate. Il postulato fondamentale che Bognetti derivò dalla ricerca archeologica tedesca, quello cioè della separazione consapevole e rigida degli invasori germanici dai vinti romani, fondato essenzialmente sull'isolamento dei loro cimiteri e sull'originalità degli usi funerari e della cultura materiale, è messo in discussione oggi dall'identificazione di alcuni cimiteri in cui sembrano seppelliti insieme longobardi e romani, ancora con contrassegni culturali diversi; l'interpretazione corrente che vuole frutto dell'acculturazione dei germani in territorio italiano le trasformazioni dei loro corredi funebri, potrebbe rivelarsi inadeguata alla complessità delle situazioni reali, di fronte agli indizi che fanno ritenere che gli stessi romani accogliessero tratti culturali dei conquistatori, sicché i materiali di corredo non sembrano più costituire un criterio assoluto di identificazione etnica degli inumati 21. Anche un cimitero noto da tempo, come quello di Castel Trosino, promette originali indicazioni in questo senso, se analizzato rinunciando all'ipotesi che contenga solo defunti di stirpe longobarda 24. Anche le trasformazioni indotte dalla conquista longobarda nell'organizzazione sociale ed economica delle regioni conquistate sono state interpretate recentemente come effetto piuttosto di un comportamento politico che di un atteggiamento culturale germanico: lo stato longobardo avrebbe rinunziato ad imporre le tasse sulla proprietà e la produzione della terra, che erano state fondamento della finanza pubblica nell'impero tardoantico, determinando con questo una sostanziale redistribuzione delle risorse economiche interne, da cui vennero modificate sia le attività statali in tutto quel che comportava spesa, sia il tenore di vita delle popolazioni rurali, che migliorò sostanzialmente. Le forme strutturali dell'insediamento e della produzione non si sarebbero perciò modificate per l'innesto delle tradizioni degli occupanti, ma piuttosto, liberate dal peso dei prelievi fiscali, avrebbero più liberamente esplicato le loro tradizionali funzioni 25. In realtà, quest'interpretazione va ancora discussa, dato che, qualunque cosa si debba concludere circa il rilascio di ricchezza in favore dei produttori agricoli - forme di tassazione pubblica e prelievo di rendite signorili poterono continuare ad esistere dopo l'occupazione longobarda - sembra che il passaggio della proprietà fondiaria nelle mani dei conquistatori si accompagnasse a mutamenti nella distribuzione dell'insediamento e nelle tecniche di gestione, se non proprio nel sistema agrario, che poterono risentire delle concezioni sociali tipiche dei longobardi anche se presentano analogie con evoluzioni attestate nei territori bizantini, sicché non si può nemmeno escludere che si collegassero alle trasformazioni già in corso prima dell'invasione 26. I longobardi comunque dovettero influenzare l'organizzazione economica della penisola, intesa come spazio organico, attraverso i limiti imposti alla circolazione dei beni dalla loro attività militare e politica. In questo senso l'occupazione dovette influenzare l'evoluzione non solo nei territori occupati, ma anche in quelli restati romani. Lo stanziamento fu seguito da uno stato di guerra tra l'area longobarda e quella imperiale bizantina, che durò, sia pure con intermittenza, per circa cent'anni. Ho cercato di dimostrare altrove che esso influenzò in modo consistente l'insediamento delle regioni in cui venne a cadere la frontiera, provocandovi la scomparsa di molti centri abitati 27. Ci si può dunque domandare quanto una frontiera gestita con criteri militari abbia condizionato anche la circolazione degli uomini e dei beni, ostacolandola e di conseguenza accentuando quelle diversificazioni regionali che già si manifestavano negli ultimi secoli del governo imperiale. Dopo la conquista longobarda, sembra ad esempio accentuarsi l'isolamento della regione padana rispetto alla circolazione delle merci

mediterranee, che cessano di affluirvi mentre ancora arrivavano nella Liguria e probabilmente anche nella Romagna, restate nell'area bizantina 28; all'inverso, le produzioni originali della Padania longobarda, come la ceramica invetriata di tradizione romana, se continuò ad essere prodotta dopo il VI secolo, e soprattutto la caratteristica ceramica longobarda a stampigliature, o le crocette d'oro con decorazione a volute e ad animali, non hanno diffusione fuori di essa 29. In questo caso la dominazione longobarda sembra avere accentuato ed irrigidito quegli aspetti di autosufficienza che la regione già maturava nella tarda età imperiale 30. Anche nell'area centro-meridionale la configurazione politica e militare determinata dai longobardi sembra avere riflesso nella produzione e circolazione dei beni: reperti ceramici delle regioni longobarde, pur testimoniando la sopravvivenza locale di officine di tradizione romana, mostrano differenze tecnologiche e tipologiche rispetto alle produzioni delle regioni costiere 31. Per quanto riguarda la stessa società longobarda, i pochi cimiteri scavati nel territorio dell'antico ducato di Benevento, Boiano in provincia di Campobasso e Pratola Serra in provincia di Salerno, hanno restituito, accanto a caratteristici materiali longobardi, altri, riconducibili all'orizzonte bizantino mediterraneo, che non hanno riscontro nelle sepolture longobarde dell'Italia del nord 32. Sembra dunque di poter dedurre, per il VI e VII secolo, la regionalizzazione dell'evoluzione culturale ed economica, con elaborazione di forme, sistemi produttivi e distributivi sostanzialmente autonomi nelle diverse regioni, e scarsi contatti tra l'area longobarda e quella romano-bizantina, ma anche all'interno delle stesse terre occupate dai longobardi. Il rilievo delle frontiere interne non dovette significare necessariamente penuria di risorse nelle regioni longobarde. Tuttavia l'isolamento accentuò il peso delle situazioni locali anche congiunturali; sottrasse alternative e sbocchi alla produzione agricola e potè concorrere a quella accentuata ruralizzazione dell'attività economica che caratterizza l'orizzonte dell'editto di Rotari ed all'impoverimento della cultura materiale più volte riscontrato negli scavi. Ancora, l'isolamento potrebbe, in certa misura, concorrere a spiegare i cambiamenti di fisionomia e funzione delle città nell'area longobarda cui si è già fatto riferimento. Anche nelle regioni romano-bizantine, la divisione interna della penisola dovette condizionare l'attività economica. Il dominio imperiale, ridotto ad una serie di territori discontinui lungo le coste, si organizzò come una catena di regioni di varia estensione, gravitanti ciascuna sulle città sede delle autorità istituzionali, Roma e Ravenna innanzi tutto, che erano tutte collegate a scali marittimi. Questo rende ragione di molti fenomeni già ricordati, che si riferiscono principalmente ai territori bizantini: la tenuta complessivamente migliore delle città, la maggior consistenza della loro popolazione, la prosecuzione delle importazioni via mare. Ma altri aspetti concomitanti dimostrano che anche nell'area romanica le economie regionali avevano possibilità limitate. L'attività artigianale a Roma, dov'è stata meglio osservata, riduce e semplifica la produzione, tanto nella ceramica che nella vetreria, abbandonando tipi pregiati e limitando la varietà delle forme 33; diversi indizi fanno pensare che i bisogni primari venissero soddisfatti in misura crescente dalle risorse agrarie regionali 34; le importazioni di merci orientali, probabilmente già destinate a consUmatori privilegiati, diminuirono, come si è visto, fino a cessare. I collegamenti marittimi non vennero per questo del tutto meno, ma sembrano ridurre portata ed ampiezza, per limitarsi alla scala interregionale, come lasciano pensare i nuovi contenitori per derrate alimentari che dal tardo VII secolo, e soprattutto nell'VIII si trovano con caratteristiche simili tanto nel territorio romano che in Campania, Calabria e Sicilia, possibile indice di traffici fra quelle regioni 35. La produzione di anfore a Miseno, presso Napoli, e ad Otranto nel VII secolo è un altro indizio dello stesso fenomeno 36. In sostanza, l'occupazione longobarda dovette agire sulla struttura economica dell'Italia, più ancora che con l'innesto di tradizioni e mentalità antagoniste a quelle romane, con l'ostacolare le comunicazioni tra le diverse regioni, accentUando e irrigidendo tramite la frontiera politica, tendenze alla ridUzione ed alla localizzazione della produzione e circolazione dei beni economici che già si andavano profilando prima dell'invasione. Un processo che sembra avanzato nella prima metà del VII secolo, quando lo stato di guerra tra longobardi e bizantini e il frazionamento interno del regno longobardo furono particolarmente acuti.

Questo complesso di osservazioni induce a concludere che, sotto il profilo dell'evoluzione delle strutture, non è necessario attribuire ai longobardi una rottura qualitativa ed una ricostituzione dell'organizzazione economica e culturale su basi diverse: come già si è detto, il loro ruolo potè consistere nell'accentuazione data ai processi in corso, già volti alla decomposizione dell'organizzazione tardo imperiale. Pertanto anche sotto questo profilo, la valutazione del rapporto dell'antichità con il medioevo in chiave di continuità si presenterebbe come appropriata descrizione delle trasformazioni che si sono fin qui evocate, quando si precisi che si trattava di continuità nel senso della decomposizione e dello snaturamento. Tuttavia, riconosciuto questo, nasce il problema di valUtare fino a quando il processo conservi questa tendenza; se e quando sia possibile individuare un cambiamento della sUa direzione. Problema che assume rilievo quando si passa ad esaminare il rapporto tra il VII e l'VIII secolo. In questa ulteriore fase si deve peraltro tener conto di una nuova circostanza, cioè del fatto che nell'VIII secolo ricompare la documentazione scritta, che nel VII è pressoché assente. Quello che potrebbe sembrare un vantaggio, in quanto viene arricchita e consolidata la base documentaria della ricostruzione storica, in realtà complica la percezione degli svolgimenti in corso. Nella documentazione scritta dell'VIII secolo figurano infatti molti termini tecnici relativi a istituzioni giuridiche ed a situazioni sociali ed economiche, identici a quelli usati nella tarda antichità fino al VI secolo, suggerendo una sopravvivenza che oltre ai termini potrebbe riguardare le cose. Un esempio di queste circostanze, assai rilevante per la vicenda dell'economia e dell'insediamento, è la menzione, nelle carte longobarde, dei fundi come articolazioni normali del territorio rurale, e dei vici come centri insediativi, che sembra documentare la sopravvivenza, fino al IX secolo avanzato, della parcellizzazione catastale e dell'organizzazione delle campagne definite in età imperiale 37. Dunque non solo la continuità potrebbe prolungarsi fino all'VIII secolo, ma si creerebbe anche un contrasto tra l'interpretazione che si è data dei fenomeni risultanti dalla documentazione archeologica e quella suggerita dalle fonti scritte, che metterebbero in rilievo l'invariata persistenza di aspetti essenziali dell'organizzazione tardo antica. Per cercare di appianare queste difficoltà, si deve verificare se i termini tecnici utilizzati nelle carte dell'VIII e IX secolo rimandino davvero alla continuità delle strutture romane o se la terminologia istituzionale di origine antica non venisse allora applicata ad una realtà trasformata e sostanzialmente diversa. Per quanto riguarda l'esempio richiamato, indagini relative ad alcune aree lombarde ben documentate hanno accreditato questa seconda soluzione. Almeno una parte dei vici attestati nel IX secolo ebbe origine dopo l'invasione longobarda, attraverso la creazione di nuovi insediamenti rurali, che organizzarono un proprio territorio, anch'esso indicato come fundus, ma privo di relazioni con la parcellizzazione catastale romana. Lo stesso termine fundus non doveva più far riferimento all'organizzazione romana del territorio, ma alla nuova rete dei territori vicanici 38. Non sembra riconducibile a questa stessa spiegazione la situazione della Sabina, dominio longobardo in territorio intensamente romanizzato, che nella documentazione scritta risulta pure articolato in fundi. Sono meno presenti in questo caso i vici, che in Lombardia sembrano essere stati i poli della trasformazione dell'insediamento, e la toponomastica dei fondi, di evidente impronta romana, non offre spunti per ritenere che l'occupazione longobarda abbia influenzato l'organizzazione del territorio 39 . Tuttavia si nota che il territorio agrario appare diviso sistematicamente in fundi solo nelle solenni conferme del patrimonio fondiario rilasciate dai papi e dagli imperatori del IX secolo all'abbazia di Farfa. Tutte le altre carte relative alla gestione della proprietà fondiaria, fin dagli inizi dell'VIII secolo, mostrano territorio, insediamento e proprietà organizzati prevalentemente per "casali". Il rapporto di questi con i fundi, nei casi in cui è percepibile, si configura in vario modo: talvolta sembra che i casali coincidano con i fundi; ma la loro sostanziale diversità risulta dagli stessi diplomi di conferma delle proprietà del monastero, che distinguono le due entità fondiarie elencandole separatamente. In alcune occasioni risulta che i casali potevano essere insediamenti rurali nuovi, nati dalla colonizzazione dei gualdi pubblici 10. Inoltre si nota che i casali normalmente non vengono localizzati in rapporto ai fundi, e perciò non figurano come articolazioni di essi. In

sostanza il casale si presenta come l'organizzazione fondamentale dell'insediamento rurale nella Sabina dell'VIII e IX secolo, e infatti ad esso, non al fundus, fanno capo i coltivatori dipendenti e in esso sono localizzate le dimore rurali. Il fundus invece sembra non unità di gestione, ma quadro formale della proprietà. La documentazione della pratica nell'VIII e IX secolo prestò attenzione esclusivamente all'organizzazione insediativa e gestionale del territorio, ricordando oltre ai casali le curtes e le casae massariciae; anche se è probabile che parte dei casali coincidesse di fatto con un fundus, resta significativo che nelle registrazioni legali venisse messa in evidenza la forma nuova e concreta dell'organizzazione rurale, trascurando il riferimento catastale di antica origine. È dunque necessario approfondire ulteriormente il valore che ha quest'ultimo quando compare, non potendosi nemmeno escludere che esso fosse un recupero intenzionale suggerito dalle tendenze classicheggianti della cultura romana del IX secolo. In ogni caso, mi pare ancora possibile ritenere che l'organizzazione dell'insediamento rurale e dell'attività produttiva in Sabina, nell'VIII e IX secolo, presentasse differenze significative rispetto all'ordinamento catastale romano 41. Per quanto riguarda la ricomparsa dei termini tecnici antichi nella documentazione dell'VIII secolo, si deve in generale osservare che le fonti scritte altomedievali forniscono la definizione istituzionale, cioè convenzionale, delle situazioni cui si riferiscono, le quali possono essere conosciute nella loro concreta realtà solo attraverso il ricorso ad altri tipi di documentazione. Per questo ritengo opportuno proseguire l'indagine sull'evoluzione strutturale in Italia fra VII ed VIII secolo ricorrendo preferenzialmente ad una documentazione omogenea a quella di natura archeologica già utilizzata. Un'evidenza che può offrire una guida è data dalla numismatica e consiste nella comparsa simultanea, nelle varie regioni politico-economiche in cui si era frazionata l'Italia dopo la conquista longobarda, di monete nuove, diverse dalla moneta imperiale bizantina che fino a quel momento domina direttamente o indirettamente, in quanto modello della moneta longobarda, il panorama monetario italiano. Attraverso di essa è possibile individuare, verso la fine del VII secolo, una situazione che non sembra possibile inserire nella stessa linea dei processi di dislocazione strutturale e culturale dell'Italia fin qui osservati. Con singolare contemporaneità, nell'ultimo decennio del secolo vennero creati e messi in circolazione: i nuovi tremissi aurei del re Cuniperto nell'area longobarda padana; la monetazione anonima da 30 nummi in bronzo e le frazioni di silique d'argento col monogramma dei papi a Roma, i tremissi ed i solidi aurei di Gisulfo I a Benevento, di tipo bizantino, ma recanti l'iniziale del nome del duca; probabilmente anche i tremissi aurei toscani contraddistinti da un monogramma 42. La sostanziale contemporaneità di queste emissioni nuove, dopo brevi periodi di sperimentazione anch'essi sincroni, sollecita una spiegazione unica di un fenomeno in cui affermazioni di autonomia politica delle diverse autorità, si uniscono alla previsione di un impiego economico della moneta. Questo secondo aspetto sembra discendere dalla varietà di natura e valore delle monete stesse. A Roma si trattò di coniazioni forse d'urgenza, con nominali di valore contenuto, adatte ad una circolazione quotidiana, che si affiancavano alla moneta d'oro imperiale ancora battuta dalla zecca cittadina. Nel regno longobardo fu un tremisse portato, con successivi aggiustamenti, all'equivalenza con la corrispondente moneta bizantina; e invece a Benevento due tipi, uno sottomultiplo dell'altro, di moneta aurea, anch'essa bene agganciata a quella bizantina. Sembra insomma che le nuove monete fossero predisposte in relazione ad esigenze differenti, proprie delle aree per cui erano emesse. Queste iniziative di diverse autorità indipendenti si inquadrano in un periodo che fu ricco di cambiamenti politici ed istituzionali in Italia. Nel 6801'imperatore Costantino IV vi aveva concluso due paci di grande rilevanza: una con il regno longobardo, la prima pace formale dopo l'invasione, che mise fine allo stato di guerra; l'altra, in materia religiosa, col papato, mediante la rinunzia alla dottrina monotelitica. I1, cronista bizantino Teofane scrisse che allora una gran pace si era stabilita in Oriente e in Occidente. L'impero ne aveva bisogno per riorganizzarsi dopo i disastri dell'espansione araba, culminata in un assedio di Costantinopoli durato cinque anni e dopo l'altrettanto devastante invasione dei Bulgari nel territorio dell'antica Mesia 43.

La conclusione della pace col regno longobardo consentì di allentare la difesa militare e decentrare l'organizzazione del dominio imperiale in Italia, attribuendo autonomia di governo alle provincie sotto i ceti; egemoni locali, saldamente radicati nei territori e nelle società provinciali. Sembra infatti da riferire a questo periodo l'istituzione dei ducati di Roma, di Calabria e delle Venezie; la organizzazione della Sicilia in tema, retto da uno stratego, e la sostanziale riduzione dell'autorità centrale dell'esarca di Ravenna 44. Nelle stesse circostanze sembra che al papa venissero conferiti poteri ufficiali nell'amministrazione pubblica di Roma 45. Per quanto riguarda i territori longobardi, la conclusione della pace con l'impero costituiva un riconoscimento della fısionornia sovrana del loro re, legittimando anche sue iniziative in materia monetaria. La pace del 680 con la riorganizzazione dei rapporti tra terre romane e terre longobarde in Italia può spiegare dunque il fondamento istituzionale delle iniziative monetarie prese dalle autorità provinciali negli anni seguenti; non ne spiega, evidentemente, la necessità. Se non che, negli ultimi due decenni del VII secolo si riscontrano numerosi altri sintomi di rinnovamento e riorganizzazione interni, sia nelle regioni romano-bizantine, che in quelle longobarde. Essi sono particolarmente evidenti nell'ambito delle attività politico-istituzionali, in cui si coglie una nuova intraprendenza dei ceti e delle autorità regionali. A Roma dalla seconda metà del VII secolo, l'exercitus si presenta come un corpo cittadino, che partecipa con propri orientamenti di fazione alla scelta della persona dei papi; trasformazioni analoghe avvengono, anche se con evidenza minore, a Ravenna 46. Egualmente nei corso degli anni Ottanta nell’attività dei papi prendono rilievo funzioni civiche con implicazioni economiche: un forte intervento nella manutenzione della città, soprattutto delle grandi basiliche, e il servizio di assistenza pubblica per l'innanzi completamente taciuto nel Liber Pontificalis 47. Nel regno longobardo dell'Italia settentrionale un progressivo rafforzamento dell'autorità regia ed una riorganizzazione degli strumenti attraverso i quali veniva esercitata si coglie in vari episodi della vita di Cuniperto e può essere simbolicamente riassunto dalla conclusione dello scisma dei Tre Capitoli che ricostituì l'unità ecclesiastica nel regno e rinnovò le relazioni canoniche col papato 48. Contemporaneamente il ducato di Benevento realizzò l'ultima significativa espansione del dominio longobardo in Italia, annettendosi importanti territori bizantini nella Puglia meridionale con i porti di Taranto e Brindisi 49. Anche su altri piani si colgono indizi di un'attività nuova: una riorganizzazione del territorio rurale sotto il profilo ecclesiastico è in corso tanto in Toscana che nel ducato beneventano 50; gli scavi di Brescia hanno datato allo stesso momento una ripresa dell'organizzazione urbana, che è attestata in forme più indirette anche a Roma 51; tra la fine del VII ed i primi anni dell'VIII secolo vennero fondati o rifondati i monasteri di Farfa, San Vincenzo al Volturno e Montecassino, in posizioni confinarie tra le regioni longobarde e quelle romane, probabilmente a seguito di nuovi criteri nella gestione dei confini. La stessa ricomparsa della documentazione scritta si inquadra in quest'insieme coerente di indizi di riorganizzazione e ripresa di attività. Probabilmente nello stesso lasso di tempo si istituirono anche contatti economici fra regioni appartenenti a domini politici diversi, come quei rapporti commerciali fra la pianura padana longobarda e le terre bizantine del delta del Po, che vennero rinnovati e regolati dal re longobardo Liutprando nel 715; il consolidamento dei legami di Roma con i centri costieri della Campania e la Sicilia, e il probabile collegamento delle regioni interne del principato beneventano con le linee di navigazione adriatica implicito nella conquista dei porti pugliesi 52. È in relazione a questi fatti che la monetazione nuova dell'ultimo decennio del VII secolo assume più pieno significato di iniziativa non soltanto politica, ma economica e la data del 680, che ne è la premessa e che individua il momento da cui i nuovi fenomeni si infittiscono, guadagna il valore simbolico di riferimento epocale. Certo non è nella pace tra longobardi e bizantini che si può vedere la causa ultima del mutato tono delle attività risultanti dalla documentazione. Essa potè al massimo sopprimere vincoli e condizionamenti all'iniziativa di una società che in modo autonomo e per evoluzione interna andava ricostruendo i propri assetti e cominciava a raggiungere una nuova capacità di iniziativa economica.

Quali siano state queste ragioni è - come per quelle del precedente declino - materia di argomentazioni ipotetiche. Piuttosto che addentrarvisi, si può cercar di definire quanto più correttamente e compiutamente possibile, gli aspetti della riorganizzazione. Inizialmente più che l'avvio di una situazione strutturale nuova, essa sembra consistere nel raggiungimento di un equilibrio interno delle diverse regioni, in rapporto ai quadri territoriali ed alle condizioni economiche concretatesi nel corso del VII secolo. Soltanto lentamente si poterono acquisire novità culturali e occasioni economiche nuove, all'interno di una crescente capacità di iniziativa manifestata in modo più evidente dai poteri politici, ma probabilmente diffusa in tutta la società. L'archeologia non fornisce ancora, a mia conoscenza, serie documentarie continue e coerenti sui processi in corso tra la fine del VII e la metà dell'VIII secolo, ma è da essa che si ricava almeno una prima testimonianza di innovazione dell'organizzazione produttiva, con la comparsa, dopo la metà dell'VIII secolo, della ceramica a vetrina pesante, attestata a Roma e probabilmente anche a Ravenna e a Napoli: ritorno di una produzione di qualità che non si pone come continuità delle attività tardoantiche 53. Inoltre lavori recentissimi cominciano a delineare le prospettive archeologiche proprie del IX secolo in Italia. Il fenomeno più significativo sembra essere ancora l'incremento delle produzioni artigianali di vario tipo, utilitarie e suntuarie, risultante tanto dalle ricerche compiute a Roma e nel territorio romano, quanto dal monumentale scavo dell'abbazia di San Vincenzo al Volturno 54. A questa crescita sembra collegarsi una aumentata vitalità delle reti di distribuzione regionali. Peraltro le nuove osservazioni si riferiscono a siti privilegiati, quali sono la città sede del papato e un monastero protetto dall'impero carolingio al confine della sua area di influenza in Italia. Esiste dunque il problema della rappresentatività dei fenomeni constatati, che potrebbero almeno in parte dipendere dal sistema imperiale carolingio, piuttosto che essere l'esito di uno sviluppo locale fondato su risorse proprie. Ricerche anch'esse recenti sull'uso della moneta nelle diverse regioni italiane hanno messo in evidenza che l'eventuale espansione produttiva nel IX secolo sembra accompagnarsi alla contrazione della massa monetaria ed alla riduzione dell'uso della moneta nelle transazioni correnti, ponendo il problema di definire adeguatamente le modalità dello scambio economico, tra l'altro in relazione a probabili varietà e specializzazioni regionali 55. Diventa inoltre necessario identificare l'estensione e l'integrazione delle diverse reti territoriali di distribuzione dei beni. La ricerca storica ha affrontato da tempo questi difficili aspetti dell'età carolingia, sortendo però risultati talvolta contraddittori, per la difficoltà di misurare i fenomeni economici sulla sola base delle fonti scritte. Al momento neanche l'archeologia sembra disporre per il IX secolo di un indicatore ben identificabile e largamente diffuso, com'è la ceramica per l'età tardoantica, in base al quale formulare valutazioni dei grandi movimenti economici e culturali. Una constatazione che deve valere da stimolo per l'orientamento e il progresso della ricerca. Avendo esordito con un nome illustre della medievistica italiana, vorrei concludere col nome di un maestro della medievistica europea: quello, cioè, di Henri Pirenne. Viene spontaneo osservare che la scansione periodizzante che sembra di poter desumere dallo svolgimento dei fenomeni esaminati, coincide con quella formulata da Pirenne nella sua interpretazione del passaggio dal mondo antico all'Europa medievale 56. Ciò dipende in parte dal fatto che l'indicatore più evidente in entrambe le prospettive è lo stesso, e consiste nelle testimonianze dei traffici internazionali, rintracciate da Pirenne nella documentazione scritta e dalla recente archeologia in quella materiale. Si può a questo proposito commentare solo che il ritmo di sviluppo accertato da Pirenne essenzialmente in relazione alla Gallia, mostra di essere valido anche per l'Italia. Peraltro accanto alle vicende del commercio internazionale ha avuto essenziale rilevanza, nel delineare il processo che si è presentato, un complesso di altri fenomeni che depongono per la progressiva trasformazione strutturale della società tardoantica e romano-barbarica. Ma a questo proposito va sottolineato che anche Pirenne, spesso sommariamente riassunto da esegeti e critici, ebbe chiara coscienza che un processo degenerativo era in corso nelle antiche provincie dell'impero d'occidente già durante i secoli precedenti l'invasione araba, ed egli lo qualificò mediante il concetto di "barbarizzazione" che riguardava tutti gli aspetti

della vita sociale. Pirenne mise in rilievo tra l'altro il progressivo indebolimento e isolamento delle città nell'epoca merovingia e la crescente importanza delle relazioni socio-economiche fondate sul possesso della terra e sulla produzione agraria locale. Diverso è il modo in cui si possono descrivere oggi le caratteristiche dei due sistemi strutturali dominanti rispettivamente prima e dopo il VII secolo; il modo in cui se ne prospetta il rapporto; anche se bisogna osservare che proprio il fatto che di due sistemi diversi si tratta, venne nitidamente affermato da Pirenne. Ma mentre egli li concepì come antitetici, obbligandosi così a spiegare il passaggio dall'uno all'altro con un evento capace di alterare in modo radicale una componente fondamentale della struttura, da lui individuata nel mercato, e cioè con l'espansione araba, sembra oggi di dover ritenere che la degenerazione del sistema antico si sia fermata quando venne raggiunto un equilibrio delle situazioni su basi nuove a livello locale e regionale, e che successivamente si innestasse in quest'equilibrio un fattore propulsivo, ancora da definire, che provocò un'espansione inizialmente modesta, ma continua, sulla quale si costruì il sistema economico che per comodità si può chiamare carolingio. Nella nuova prospettiva anche la conquista dell'Africa da parte dei musulmani torna ad avere un ruolo credibile, come alterazione esterna della praticabilità di alcune linee di traffico. Il nuovo sistema che si delinea a partire dall'VIII secolo dovette risentire in Italia di due peculiarità ambientali: il ruolo delle città come centri di organizzazione del territorio, ristabilito dopo la grande crisi del VI e VII secolo, e la posizione della penisola come area di contatto tra il continente europeo organizzato dai franchi ed il bacino mediterraneo rinnovato nei suoi assetti e nelle sue relazioni, da cui nel corso del IX secolo provennero sollecitazioni e influenze di nuovo segno e sempre più consistenti. Questo è il quadro che ritengo di poter proporre in apertura del Congresso. Un quadro probabilmente già invecchiato nel momento in cui lo delineo. Le ricerche in corso sono molte e i problemi debbono essere continuamente ridefiniti man mano che si identificano nuovi materiali e nuove situazioni. È probabile dunque che le prospettive che ho presentato vengano in parte o in tutto corrette e aggiornate dalle successive relazioni; ma questo sarà una testimonianza in più della vitalità di questo filone di ricerche sull'alto medioevo in Italia. PAOLO DELOGU

1 Fondamentale BOGNETTI 1968. Per più recenti formulazioni del giudizio di cesura: TABACCO 1979, pp.93 ss.; WICKHAM 1981, p.28; GASPARRI 1988. Sul pensiero storico di Bognetti, oitre ai testo autocritico già Citato, cfr. TABACCO 1966; TABACCO 1970; SINATTI VIOLANTE 1978 DEEOGU 1981. 2 Suggestioni sulla tarda antichità come "economia-mondo": CARANDINI 1 986; CARANDINI 1989. Problematica generale del rapporto tra le strutture tardoimperiali romane e la genesi del medioevo sotto il profilo archeologico: HODGES-WHITEHOUSE 1983, WICKHAM 1984, W[CKHAM 1988; RANDSBORG 1989; First Millennium 1989. 3 Cfr. ad esempio gli esperimenti di Bois 1989; DURLIAT 1990a. 4 Ad esempio WARD PERKINS 1984; individuazione del problema in MARAZZI 1993. 5 Sull aproblematica della periodizzazione dell'altomedioevo Cfr.Periodi e contenuti l988. 6 Prime sistemazioni complessive: POTTER 1985 (ma 1979 nell'edizione inglese); ARTHUR 1984; WHTTEHOUSE 1985; PANELLA 1986a; PANELLA 1986b; TORTORELLA 1986. Successivi arricchimenti e precisazioni: FENTRESS-PERKINS 1988; ARTHUR l989; PANELLA 1989 MILELLA LO VECCHIO 1989 a,b. Quadri d insieme aggiornati: PACETTI-SFRECOLA 1989, CIPRIANO et al. 1991; PANELLA 1993. 7 POTTER 1985, pp. 155 ss.; HODGES-WHITEHOUSE 1983, pp. 36 ss.

8 Ad esempio MORELAND 1986, p. 338; MORELAND et al. 1993, pp. 212 ss. 9 WICKHAM 1988 a, b. 10 Il caso del sito rurale di San Donato che in MORELAND et al. 1993 sembra interpretato come un esempio di insediamento permanente caratterizzato da ceramica locale diversa dalla ceramica africana, può in realtà appartenere al tipo degli insediamenti nuovi sorti tra VII e VIII secolo alterando le maglie dell'antica struttura fondiaria romana, di cui si dirà più avanti. Ciò almeno fin quando non sia meglio precisata la cronologia della ceramica. 11 Cfr. WHITEHOUSE 1985; ARTHUR 1989; ARTHUR 1991, PATTERSON 1993 PANELLA 1993; inoltre i recenti rinvenimenti nell'esedra della Cripta di Balbo per cui SAGUI’ i993b. 12 Testimonianze di mercanti siriani ed ebrei in Italia nel Vl secolo: RUGGINI 1959; GALASSO 1965, p. 66; ARTHUR 1991, p. 774; qualche dato anche in PIRENNE 1937, pp. 66 ss. Gregorio Magno chiede al vescovo di Alessandria di inviargli una qualità di vino orientale che i mercanti non importano a Roma: Gregorii Magni Epistolae, VII,37 (Ediz. Hartmann, M.G.H., Epistolae I, p.486). 13 Può essere significativo rilevare che ad Otranto la presenza di anfore da trasporto orientali, documentata fino al secolo VII, successivamente cessa, sebbene la Città restasse probabilmente in mano bizantina; cfr. ARTHUR 1992, p.216, e per la storia istituzionale, BROWN 992, pp. 28 S. 14 Dati di scavo e interpretazioni in BROGIOLO 1984, BROGIOLO 1987 a, b, BROGIOLO 1989 BROGIOLO 1992a, LA ROCCA 1986 a, b, LA ROCCA 1989, LA ROCCA 1992. Interventi nel dibattito WICKHAM 1988c, GASPARRI 1989; DELOGU 1990; BIERBRAUER 1991. 15 MANACORDA ZANINI 1989, MANACORDA 1993; MENEGHINI SANT’ANGELI 1993, REA 1993 PAVOLINI 1993. Cfr. anche WHITEHOUSE 1988. 16 PAVOLINI 1993, pp.63 s. 17 STAFFA 199l. Sulla continuità dei tracciati v. WARD PERKINS 1988. 18 Cfr. rispettivamente ARTHUR 1985, ARTHUR 199l, PEDUTO 1989, MONGIU 1986 MONGIU 1989. A Ravenna si è riscontrato un deterioramento della città nel V-VI secolo e la cessazione delle grandi costruzioni urbane dopo la metà del Vl secolo: cfr. MAIOLI 1991, P. 223; GELICHI 1991, p. 160. 19 WARD PERKINS 1988, P. 16; SCHMIEDT 1974, P. 505. 20 Forte degenerazione del territorio milanese è risultata dalle osservazioni archeologiche per gli scavi della metropolitana milanese, per cui v. ScaviMM3 1991. Per quanto detto nel testo, mi sembra che non colgano nel segno affermazioni della continua vitalità della città in Italia tra il VI e l'VIII secolo come quelle, ad esempio di LA ROCCA 1992, ma anche di WICKHAM 1988, basate sull'accostamento di testimonianze scritte che si collocano ai due estremi del periodo cronologico predetto. Il problema non è dimostrare che le città sono in genere sopravvissute mutando fisionomia, cosa della quale nessuno dubita, ma ricostruire con sufficiente dettaglio l'andamento della loro evoluzione tra VI e VII secolo in circostanze politiche, economiche e culturali particolari; su questo non ci sono però testimonianze scritte coeve, né sembra corretto utilizzare le testimonianze posteriori, perché si deve lasciare aperta la possibilità di trasformazioni nella seconda metà del VII secolo, su cui si tornerà più oltre nei testo. 21 Questa sembra una possibile interpretazione di casi come la cattedrale di Sabiri, distante dall'abitato, per cui LEGGIO 1989, P. 171, ed il complesso episcopale di Pratola Serra, per cui PEDUTO 1992. 22 In questo senso le osservazioni in DELOGU 1990 e, relativamente al caso di Roma, DELOGU 1988. 23 I termini della questione proposti in VON HESSEN 1978 a; cimiteri con sepolture contigue riferibili a romani e longobardi di recente identificazione: Sovizzo (per cui R1GONI et al. 1988); Romans d'Isonzo (per cui Ro~.2a'.2s d'lsoi.2220 1989). In questo contesto recuperano interesse i cimiteri misti di Cividale, per cui BROZZI 1974; BIERBRAUER 1991, p. 19, e il fondamentale caso di Grancia, per cui VON HESSEN 1971, pp. 53 ss. Sul rapporto tra corredo funebre e identificazione etnica v. anche LA ROCCA-HUDSON 1987 e LA ROCCA 1989.

24 L'interpretazione della varietà culturale dei corredi funerari in chiave di acculturazione dei longobardi formulata da BIERBRAUER 1978, BIERBRAUER 1984, soprattutto in relazione al cimitero di Castel Trosino, è discussa da MARTIN 1988, che ipotizza la presenza di sepolture con corredo romane fra quelle longobarde. Cfr. le osservazioni di BIERBRAUER 1991, p.52, nota 233, che peraltro non chiude il problema. La recente originale lettura dei cimiteri di Nocera Umbra e Castel Trosino fatta da JOERGENSEN 1992 non affronta il problema delle relazioni etniche nelle popolazioni di inumati; invece indicazioni per una nuova interpretazione di Castel Trosino sotto questo aspetto si trovano in L.PAROLI c.s.. 25 WICKHAM 1984; 1988b. 26 Trasformazioni della gestione agraria dopo l'insediamento longobardo: MODZELEWSKI 1978; prelievi longobardi sulla produzione agraria dei romani: GOFFART 1980, pp. 176 ss.; DELOGU 1990, pp.116 ss.; tributi pubblici net regno longobardo dell'VIII secolo: GASPARRI 1990, pp. 262 ss.; semplificazione dell'organizzazione rurale in area bizantina nel corso del VI secolo: RUGGINI 1961, pp.406 ss.; RUGGINI I 964 pp.283 ss.; trasformazioni dell'organizzazione fondiaria tardoantica nel ravennate: CASTAGNETTI 1991. Un'interpretazione del sistema economico dell'età longobarda in chiave di regressione, discordante da quella di Wickham, in FUMAGALLI 1985; FUMAGALLI 1989, pp. 70 ss. 27 DELOGU 1990, pp. 158 ss. 28 Rarefazione e scomparsa del vasellame africano a Brescia e Milano dopo il VI secolo: MASSA 1990, p. 159; ScaviMM3, I, pp. 357 s. Rarità a Castelseprio: BROGIOLO-LUSUARDl 1980, p 486 ss.; a Invillino: MACKENSEN 1987, p. 236. In generale sulla rarità della terra sigillata africana in Lombardia BROGIOLO-GELICHI 1992, p. 28. Prosecuzione di importazioni africane fino alla metà del VII secolo in Liguria: Murialdo in BONORA et al.1988, p.346; MURIALDO 1992, pp.765.;LUSUARDISIENA-MURIALDO-SFRECOLA 199I;CHRISTIE 1990 PP-236 ss. Per la Romagna indicazioni in MAIOLI 1983; MAIOLI 1991. 29 Ceramica invetriata di tradizione romana: BROGIOLO-GELICHI 1992, pp. 27 ss.; distribuzione della ceramica longobarda: VON HESSEN 1978b, p. 263: distribuzione della decorazione ad animali e volute: ROTH 1973, pp. 287 ss. Sembrerebbe fare eccezione a quest'isolamento l'esportazione di pietra ollare verso l'Italia centro meridionale, che però sembra datare tra la fine del VII e l'VIII secolo, in un contesto di relazioni interitaliane mutato, di cui si parlerà più avanti: cfr. ad esempio STAFFA 1991, p. 354 (Abruzzo); ARTHUR 1991, p. 776 (Napoli); ma anche GELICHI 1987, p.205. Sulla pietra ollare in generale cfr. MANNONI-MESSIGA 1980 e La pietra ollare 1987. 30 Sull’organizzazione dell’Italia annonaria v. RUGGINI 1961, pp. 1 ss.; CLEMENTE 1984; RUGGINI 1984; GIARDINA 1986. 31 PEDUTO 1986, p. 568; STAFFA 1992, pp. 825 s. 32 Cfr. rispettivamente GENITO 1988; PEDUTO 1992. 33 Fine della produzione di ceramica invetriata a Roma nel VII secolo: PAROLI 1992, p, 35; semplificazione della produzione vetraria: SAGUI’ 1993a. 34 DELOGU 1993, 35 PAROLI 1992, pp. 360 ss.; PAROLI 1993, pp. 235 ss.; PATTERSON 1993, pp. 313. 36 Miseno: ARTHUR 1989, pp. 85,88; 1991 a, p. 774. Otranto: ARTHUR et al. 1992, pp. 103 SS.; PAROLI 1993, p. 237. 37 Il fenomeno, già rilevato da BOGNETTI 1954, PP. 751 S. relativamente al territorio milanese, è stato approfondito da ROSSETT} 1968. Più recentemente è stato riproposto per la Sabina da MIGLIARIO 1988. 38 ROSSETTI 1968, PP. 36 SS. 39 MIGLIARIO 1988, PP. 60. 40 G.D.L., V, nr. 88, possibile identificazione di casale e fundus; R.F. Il, nr. 224, P. 185, elenchi separati di fundi e casali; C.D.L., V, 6 e 8, casali ricavati nel gualdo pubblico. Il caso archeologico di San Donato ricordato sopra alla nota 10 potrebbe rappresentare proprio un esempio di nuovo insediamento destinato a diventare casale.

41 La soluzione della Migliario, che propende per la conservazione delle strutture catastali imperiali sia nel territorio che nella memoria istituzionale, può dunque essere sfumata nel senso esposto nel testo. Un interessante caso di comparazione è offerto dalla organizzazione fondiaria del Ravennate per cui v. CASTAGNETTI 1991. Recentemente DURL[AT 1993 ha sostenuto che il fundus in Italia sia stato tanto in età imperiale che bizantina, un'unità impositiva fiscale tenuta in proprietà eminente da un possessor e articolata sotto il profilo della gestione in minori proprietà agrarie. Quest'interpretazione presenta analogie con quanto esposto sopra nel testo, e farebbe risalire indietro nel tempo la coesistenza di strutture della proprietà eminente e di più piccole e mutevoli forme della proprietà utile. Poiché peraltro suscita sostanziali riserve l'ipotesi della continuità dell'organizzazione impositiva romana fino al IX secolo, andrebbe comunque spiegata la funzione del fundus come entità di riferimento della proprietà nei diplomi papali e imperiali di quell'epoca. 42 Per la moneta Longobarda cfr. BERNAREGGI 1983; inoltre, per le situazioni dell’Italia settentrionale, ARSLAN 1984; ARSLAN 1986; per quelle del Mezzogiorno ODDY 1974; BERTOLINI 1978. Per Roma ROVELLI 1989. 43 Sulla pace tra longobardi e impero DELOGU 1980, pp.99 s.; sul concilio e i rapporti con Roma ARNALDI 1987, pp. 67 ss. Il passo di Teofane è 356, 2. 44 CARILE 1986, p. :390, ARNALDI 1992, pp. 4278 s. L ipotesi che I istituzione dei ducati nell'organizzazione dell'Italia bizantina risalga alla fine del VI secolo, sostenuta da BAVANT 1979, è discussa in DELOGU 1989, P. 104 nota 17 e DELOGU 1993, p. 22 nota 33. 45 LLEWELLYN 1986, pp. 45 ss. 46 Cfr. BERTOL1NI 194i, pp. 298 s.; PATLAGEAN 1974. In generale BROWN 1 984, pp. 101108. Per Ravenna anche CARILE 1986, p. 380. 47 Manutenzione DELOGU 1988, P. 34, assistenza pubblica: BERTOLINI 1947, ancora fondamentale nonostante le divergenti posizioni di DURLIAT 1990 b, pp. 164 ss. 48 DELOGU 1980, PP. 113 55. 49 GASPARRI 1988 a, p. 102; Paolo diacono, Historia Langobardorum, Vl,l. 50 Per la Toscana: 1982, PP.38, 53; VIOLANTE 1982; per Benevento: GASPARRI I988 a, p. 102; VITOLO 1990, PP. 92 55. 51 BROGIOLO 1992, PP. 202 SS.; per Roma DELOGU 1988, PP. 32 SS. 52 Sul patto di Liutprando v. da ultimo MONTANARI 1986. La datazione dei primi accordi alla prima metà del VII secolo proposta da MOR 1977, S; fonda su argomentazioni che non sembrano risolutive. E’ probabile che la prima stipulazione del patto rinnovato nel 715 fosse più recente. Per i rapporti tra Roma e Napoli cfr. ARTHUR 1991, P.776. Immigrazioni consistenti di siciliani a Roma tra fine VII ed i primi decenni dell'VIII secolo, DELOGU 1993, PP.21. In questo quadro di ripresa delle relazioni e dei traffici si possono spiegare anche le esportazioni di pietra ollare ricordate più sopra. 53 PAROLI 19921 PP.43 ss. 54 Cfr. rispettivamente PAROLI 1990; PATTERSON 1993; San Vincenzo al Volturno 1993. 55 ROVELLI 1992. 56 Per la ricostruzione del pensiero di Pirenne è opportuno tener conto, oltre che del celebre Maometto e Carlomagno (1937), anche della Storia d'Europa dalle invasioni al XVI secolo (1915-18) e delle Città del medioevo (1925) che ne costituiscono le premesse.

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Germnen des 5. und 6. Jahrhunders in Italien Uber dieses hema, insbesondere uber die Ostgoten und Langobarden in Italien, ist schon oft und viel geschrieben worden; Nenes zu erarbeiten, fallt daher schwer. Nicht behandelt werden hier wegen des begrenzten Umfanges dieses Beitrages die Langobardent. Da anch einige wenige Nenfunde nichts Grundsatzliches an dem 1975 publizierten Bild zur Atchaologie der Ostgoten andern2 (s.u.) und inzwischen auch die damals von mir nicht ausreichend behandelte Frage der Trennung jenes Fundstoffes nachgeholt wurde, der mit den germanischen Einwanderern unter Odoaker 469/70 und/oder mit den ostgotischen Einwanderern unter Theoderich (488) verbunden werden kann3, sollen diese Ausfuhrungen starker anf andere Aspekte ausgerichtet sein: anf germanischen Fundstoff, der gesichert oder wahrscheiulich noch in die Zeitvordie germanischen Landnahmen unterOdoaker(469/79) und Theoderich (488) gehort und anf germanische Fremdgruppen im italischen Ostgoteureich: Alamannen und Gepiden, zumal hierzu auch einige wichtige Nenfunde in den letzten Jahren bekanut wurden. AbschlieBend werden nochmals karz und zusammenfassend die nach 1975 bekannt gewordenen ostgotischen Neufunde zusammengestellt. Nach wie vor grundet die Archaologie zu den Germanen des 5. und 6. Jahrhunderts anf Grabfunden, da entsprechende Siedlungen bzw. Siedlungsbefundc - mit Ausuahme des ostgotischen Castrum auf den Monte Barro am Sudostende des Comer Sees (s.u.) - niche bekanut sind. Germanischer Far~dstoff; dergesichrt oder rfradrsche~nlich vor die ()doakerar~d Ostgotenzeitgedort Der nach wie vor zoitlich alteste und ethnisch gesicherte germanische Grabfund ist das Franengrab von Villafontar~a bei Verona, das bereits 1888 und leider ohne Kenutuis der Fundumstande ins Museum gelangte, moglicherweise nicht vollstandig ist und vielleicht aus einem Graberfeld des S. 7. JahrhUnderts stammt 4. Die nur 9 cm langen Fibeln aus Silberblech (Fig.1,1 - 2) gehoren zur Gruppe von ostgermanischen Silberblochf~beln, die als Typ - jedoch noch wesentlich kleiner wahrend der Zeitstufe C3 in der im Kern gotischen Cerniachow- bzw. Sintana de Mures,-Kultur in der Ukraine und in bestimmten Teilen Rumaniens schon vor der Mitte des 4. Jahrhunderts ausgebildetworden; innerhalb derChronologie des ostgermanischen Fundstoffs der Zeitstufen C3-D3 (4. Jahrhandert - 470/80) dieser beiden Kulturen und des ostgermanischen Fundstoffs in Sudostouropa sind sie kenuzoichnende Vertreter der Stufe D1 (= Phase Villafontana; ca.370/80-400/410)S. Das Herkonftsgebiet der Dame von Villafontana mit ihrer (ost-)germanischen Zweif~beltracht (zum Heften eines mantelartigen Umhanges auf ihrem Kleid?)6 umfal3te wegen der Verbreitung der Graber mit diesem Blochfibeltyp in D1 die sudliche und sudostliche Peripherie der 376 wegen der reiternomadisch-hunnischen Westexpansion untergegangenen (ostgotischen) Cerniachow-Kultur (Schwarzmoerkuste, Krim, Nordkaukasus = versprengte Ostgoten) sowie dann anch den weiteren Migrationsraum der Populationen dieser Kultur und der (westgotischen) S~ntana de Mures,-Kultur nach 375 weiter westlich in Sudostouropa7. Wegen dieser kulturgeschichtlich-ethnischen Zusammenhange, der Datierung des Grabes von Villafontana und besonders der schriftlichen Uberlieferung ist es moglich, die in Oberitalien wegen ihrer Tracht fremde Dame mit den Migrationen der Westgoten unter Alarich zwischen 401 und 402 und 408-410/12 in Italien inVerbindung zu bringen8. Trifft dies zu, so ware das Franengrab von Villafontana nicht nur die einzige gesicherte positive archaologische Evidenz fur die 40jahrige Migrationszoit derWestgoten zwischen 376-418, sondern anch bis zu ihrer Landuahme in Spanien ab dem Ende des 5. Jahrhunderts (spatestens 507); ist fehlende positive achaologische Evidenz fur die Wanderzoit bzw. wegen der Kurzlebigkeit der westgotischen Fooderateureiche bis 418 keineswegs sonderlich verwunderlich, so bleibt das weitere Fehlen westgotischer Bestattungsplatze auch wahrend des knapp 90jahrigen tolosanischen Reiches ohne Beispiel in der fruhgeschichtlichen Archaologies. Aus einem (zerstorten?) Mannergrab stammt die kostbare goldene kloisonnierte Gurtelschnalle mit rundem almandinverziertem Beschlag mit zwei strahlen bzw. winkelformig angeordueten Stegen und drei seitlich des Zellwerks in Osen sitzenden Nieten (Fig.1,3-3a); sie wird im Musco Civico in Bologna aufbewahrt. Ihr Fundort und ihre Fundumstande sind unbekanutió; da das Muscum - etwa

im Gegensatz zu anderen Sammlungen, z. B. dem Musco Nazionale di Bargello in Florenz- keine uberregionalen Ankaufe (aus dem Kunsthandel) vorgenommen zu haben scheint, durfte die Goldschnalle vermutlich aus der Emilia-Romagna stammen. Funktional gehorten diese Schnallen mit rundem Beschlag je nach GroBe (Lange zwischen 3,1 und 5,5 cm) entweder zum Gurtel oder zu Schuhschnallen- bzw. Stiefelgarnituren (nicht selten rnit dazogehorigen Riemenzongen); eine funktionale Entscheidung ist gesiGhert nur moglich durch Lagebefunde im Grab oder durch ihr paarweises Vorkorumen (ScLuhschnallen). Kennzoichnend ist anch die Befestigungsart am Lederriemen, da tlas Leder zwischen Zellkasten und Ruckseitenblech geschoben worde. Sind eiurnal Angaben vorhanden, so liegt das reine Goldgewicht dieser Schnallen etwa zwischen 7 und knapp 40 g, von Ausuahmen wie die besonders schwere Gurtelschnalle von F`urst in Bayern mit 52,8 g einmal abgescheni2. Vergleichbare Langen von gesicherten Gurtelschnallen lassen auch fur das Exemplar aUs dem Museom Bologna (Lange 4,5 crn) anf eine gleichartigè Verwendung arn Eeibriemen schlieBen. Die Datierung dieser Goldschnallen in die l. Halfte des 5. Jahrhunderts ist schon seit langem gesichert, anf die dann nach der Mitte des 5. Jahrhunderts andere Goldschnallen mit ovalem bzw. nierenforrnigem Beschlag und weiteren anderen Merkmalen folgen (z.B. im frankischen Childerich-Grab von Tournai oder im gepidischen Ornhatus-Grab von Apahida). Eine feinere Chronologie fur diese Goldschnallen des besprochenen Typs ist - trotz Neufunden nach wie vor schwierig: Gleichwohl plidieren die ungarische Forschung, aber auch andere Autorèn heute zunchmend mehr oder weniger entschieden dafur, Fundkomplese rnit diesen Gurtel- und Schuh- bzw. 9tiefelschnallen im Karpatenbocken rnit ihrer anffallenden Konzontration in den pannonischen Provinzon Valeria und Pannonia I erst in die Zeit nach der vermuteten ~bergabe von (grol3en?l Teilen der pannonischen Provinzon an die Hunnen 433 bzw. in die drei Jahrzehnte zwischen 425 und 455 zu datieren'3. Ein Rekurrieren auf diese und ahnliche Schriftquellen zur Stutzung archaologischer Datierungen kann und sollte in diesem Zusammenhang áber besser unterbleiben, da bis heute in der historischen Forschung kein befriedigender Konsens zu diesern seit alters her umstrittenen Problem der it~bergabe von Pannonien oder Teile von Pannonien' an die Hunnen (433) erzielt werden konutet4. Der archaologische Befund ist heute ohnchin eindeutig genug, da rciternomadische Fundkomplexe (Totenopfer) und reiternornadisch gepragte gerrnanische Bestattùngen prinzipiell in den Ptovinzen Pannonia I und Valeria gesichert sind Und dies mehrheitlich rnit archaologischen Beweisfuhrungen fur das 2. Viertel des 5. Jahrhunderts; zu diesen Fundkomplexen und Grabern gehoren anch die Goldschnallen mit runder Beschlagplatte. Dies schlieBt aber nicht aus, daB einzelue Graber mit diesen SGhnallen - wie z.B. Lébény in Nordwestungarn (Pannonia I) und vielleicht auch Untersiebenbrunn (Familiengrablege] im Marchfeld (Niederosterreich) auch etwas alter sein konnen (1. Viertel des 5. Jàhrhunderts)~S. Die Sitte, ScLuh- bzw. Stiefelschnallen (mit Riemenzungen) aus Cold mit und ohne Almandinverzierung zu tragen (und deren Typen, anch als Gurtelschnalle) geht im Karpatenbeeken anf Reiternomaden zuruck (Hunnen/ Alanen)~ó; entgegen I. Bóna, der diese Tracht ` dann auch im Karpateoraurn von Germaninnen ubernommen wurden44, sind nach moiner Auffassung in betrachtlicher Zahl anch germanische Tragerinnen gesichert, vor allem dann, wenn sie paarweise funktional in der Franentracht (Schulterlage im Grab) verwendet wurden, so z.B. beim Madchen in der ostgermanischen Familiengrablege von Untersiebenbrunn im niederosterreichischen Marchfeld (Fig. 4,5-ó)4s oder im Kindergrab von Intercisa (Dúnaujváros)4~; die ZiRadenf~beln in Untersiebenbrunn wie z.B. auch die ornamentgeschichtlich eng mit dem Pferdegeschirr aus dieser Familiengrablege verbundene ZiRadenf~bel von Dúmbravioara (Sáromberke, Rumanien; fig. 4,4)47 sind gute Belege bereits fur die Zeitstufe D2a (= Phase Untersiebenbrunn/ Hochfelden; ca, 400/410-420/430). Da - wie erwahnt - aber die moisten gut datierbaren Graber mit Zikadenfibeln ohne Zweifel der 1. Halfte und der Mitte des 5. Jahrhunderts angehoren, durfte dies auch anf das Orab von Ladispoli zutreffen; gesichert ist dies naturlich nicht, da ja in Einzelfallen auch noch eine spatere Datierung (2. Halfte des 5. Jahrhunderts) moglich ist. Ostgotisehe Stammeszugehorigkeit e wie von Frau Cosentino angenommen4a - ist wegen der oben schon mehrfach angesprochenen Schwierigkeiten der ethnischen Auswertbarkeit ostgermanischer Graber des 5. Jahrhunderts in weiten Teilen Sudostouropas nicht zu erweisen, schon gar nicht um die Mitte des 5. Jahrhunderts in Russia Meridionale 5 da dort zu dieser Zeit keine Ostgoten mehr siedelten4s. Zammenfassarg za Jem germaischen Far~dstoff; derges ahert oder drsheiich iz die Zeit vor die germanischer Landrahmer anter adoaker ard Theaderch gehart Mit Ausnahme von LadispQIi und vielleicht noch von Castelbolognese sind alle anderen (Grab-)Funde gesichert in die erste Halfte bis maximal um die Mitte des 5. Jahrhunderts datierbar; anch fur Castelbolognese ist dies ebenfalls hochst wahrscheiulich56 und fur Ladispoli immerbin moglich. Peutlich wurde anch, daB kein zoitlich einheirlicher germanischer Fundhorizont vorliegt:

der Fundstoff gehort sowohl in das erste Viertel (Villafontana und Carpignago) als anch in das zweite Viertel des 5. Jahrhunderts (Schnalle aus 'Bologna', 'Brescia', 'Desana' und hochstwahrscheinlich anch Castelbolognese, dazu vielleicht noch Ladispoli). Wahrend die Dame aus Villafontana vielleicht den Westgoten Alarichs zugeorduet werden kann (401/402 und 408/410-412), sind ethnische ZuweisUngen fur das ubrige Trachtzubehor nicht mehr moglich; Germanen bzw. Germaninnnen aUs dem sudosteUropaischen Raum waren sie aber allemal, Stammeszugehorigkeiten sind jedoch nicht zu ermitteln. Dies erschwert somit zusatzlich natUrlich jeden Versuch, diese Germanen in einen historischen Kontext in Italien einorduen zu wollen. Lal3t man sich auf dieses riskante Unterfangen dennoch ein, so ergeben sich zwei prinzipielle Moglichkeiten: 1. eine mogliche Verbindung mit Germanen-Einfallen, eher unwahrscheinlich wegen der zoitlichen Befristung dieser UnternchmUngen Und 2. eine VerbindUng mit in Italien garnisonierenden germanischen Solduertruppen mit langerer Verweildauer, wofur auch archaologische Kriterien sprechen; eine gesicherte Entscheidung zwischen beiden Moglichkeiten Uberfordert jedoch die geschilderte Befundlage. Germanische Einfalle sind fur den in Betracht kommenden Zeitraum mehrere bekannt: die Westgoten wie ervvahnt unter Alarich zwischen 401 und402undindenJahren408-410/412,derebensovehecrendeGoten-Einfall unter Radagais 405/406 sowie dann Attilas HUnnen (mit fooderierten Germanen)451/452s~. Liel3e sich die Verbergung des Schatzfundes von Carpignago (t.p. 404), dessen Besitzer ein germanischer Torques-Trager war, noch am ehesten mit den Invasionen in den beiden ersten Jahrzehnten des 5. Jahrhunderts verbinden, so fehlen solche Bezugspunkte fur die Zeit danach bis 451/452. Will man also uberhaUpt nach historischen Erklarungsmoglichkeiten suchen, so lage die VerbindUng dieses germanischen FUndstoffes mit in Italien iiber langere Zeit garnisonierenden germanischen Soldaten bzw. Off~zieren und ihren Familien naher, wie sie besonders deutlich dann fur die Zeit des suebischen Comes (456-459) bzw. magister militUm (459-472) Ricimer uberliefert sind (Skiren, Alanen Und Goten)s2; gleiches gilt sicher auch fur die Zeit des comes Und magister militUm Aetius ab 425s3 und fur die Zeit Stilichoss4. Diese “inneren foederati>~, wie L. Várady sie nannteSs, sind es wohl, die den germanischen Fundstoff der 1. Halfte des 5. Jahrhunderts am besten erklaren konnten. Die Graber von Castelbolognese und Ladispoli, die einzigen, zu denen Befund Und Kontext bekannt sind, verdeUtlichen, dah die hier beigesetzten (Ost-)Germaninnen bereits langere Zeit hier gelebt haben durften, da sie nach romischer Sitte in Ziegelgrabern Und wohl anch in Graberfeldern der einheimisch-rornanischen BevolkerUng beigeserzt wUrden. Germanische Fremdgrappen, im italischea Ostgotereich AlamaHHeH im UStgotisC/8H /tali§H 1974 veroffentlichte ich Material aUs gestorten Manner- und Frauengrabern von vier FUndorten, deren trachtgeschichtliche Und formenkUndliche Analyse klare Bezuge zum sudwestdeUtschen alamannischen Stammesgebiet ergab; dies Und seine Datierung “in das lerzte Drittel des 5. und in das 1. Drittel des 6. Jahrhunderts” fuhrten ZU dem Ergebuis, die in den Grabern von Alcagnano, Fornovo di San Giovanni, Villa Cogozzo und 'Verona' (Fig. 10,1, nn. 1-4) Bestatteten mit jenen Alamannen ZU verbinden, die sich schon 496 nach der EinverleibUng derpatr~a Alaman,nor~m durch die Franken unter Chlodwig oder 505/06 nach einem mil3glUckten Aufstand gegen die Frankenherrschaft aulSer Landes begaben; als Fluchtgebiet dieser Alamannen - in den Schriftquellen nicht klar ZU ermitteln, aber Unter ostgotischer Schutzherrschaft (S.U. ) - kam dUrch diesen gesicherten archaologischen BefUnd auch das ostgotische Oberitalien selbst in Betrachtsó. Drei weitere Fundorte konnen nun hinzugefUgt werden: Ficarolo bei Gaiba am Po, also in unmittelbarer Nahe ZU Alcagnano, Und ein Grabfund “aus der Gegend von Florenz”, beides Franengraber sowie ein Mannergrab von Testona im Piemont (Fig. 10,1, nn. 5-7). In der Gemarkung Chiunsana von Ficarolo wurde 1992 im Rahmen planmaBiger Grabungen des Instituts fur Archaologie der Ruhr-Universitat Bochum unter der Leitung von Prof Dr. Hermann BUsing das Grab einer adult verstorbenen Dame ausgegraben, die aus dem sUdwestdeutsch-alamannischen Stammesgebiet nach Oberitalien gelangte; bestattet wurde sie anf dem Gelande einer im 1.-2. Jahrhundert als Werkplatz und Siedlung genutzten Flaches7. Gemoinsam

mit H. Busing und Andrea Busing-Kolbe wird demnachst ein nur diesem Franengrab gewidmeter und starker begrundend auswertender Beitrag erscheinenS9; die Ausfuhrungen an dieser Stelle zu den noch nicht konservierten Objekten konnen daher auf die nur unbedingt notwendigen Grundaussagen in der Bewertung dieses auch kulturgeschichtlich hochst interessanten Grabfundes beschrankt werden. Das Frauengrab (Grab l)s~ enthielt: 1. eine silberne Haarnadel mit vergoldetem massiven EndstUck von quadratischem Querschnitt mit Rillendekor an beiden Enden, Lage hinter der rechten Kopfpartie, Lange 14,1 cm (Fig. 5,5; die Spitze ist abgebrochen); 2. am linken Unterarm ein massiver silberner Arrnreif mit verdickten unverzierten Enden (gro~te lichte Weite 6,8 cm) (Fig. 5,1); 3. an der linken Hand ein silberner (?) Fingerring mit quadratischer Kastenfassung und vier Eckrundeln, offensichtlich mit Almandinen (lichte Weite 1,7 cm) (Fig. 5,2). Nicht in Funktions- bzw. Trachtlage fanden sich: 4. eine silbervergoldete Gurtelschnalle mit ovalem BUgel mit einem Dorn von dachformigem Querschnitt mit plastischem 'Augendekor' an der Doruspitze und verdicktem, gerilltem Dornende sowie mit quadratischer Beschlagplatte mit rankenartigem DeLor mit vier Eckrundeln mit Almandinen und mit einem vertieften Mittelfeld (mit hinterlegtem Bloch mit vier zellgefal3ten Almandinen, Lange 7 cm) (Fig. 5,4); 5. eine gegossene kerbschnittverzierte Bugelfibel mit halbrunder Kopfplatte und drei Knopfen und einer rhombischen Fui3platte, jeweils mit spiralrankenartigem Volutendekor, Lage zwichen den Ful3en, Lange 7,1 cm (Fig. 5,3); ferner: neben dem rechten Oberarm zwei Bronzeringe und eine groBe blane Glaspastenperle mit roten und weien millefioriartig eingearbeiteten Punkten. Nadel und Armreif weisen klare Bezuge zum alamannischen Stammesgebiet auf: Fur die Nadel (Fig. 5,5) - mit exakten Gegenstucken anch in Alcagnano - hatte ich dies 1974 bereits nachgewiesen6u; ahnliches gilt fur den silbernen Armreif (Fig. 5,1) in der fur das alamannisch-frankische Gebiet kennzoichnenden Trageweise eines eilz~elr~en Armreifes am linken Handgelenk, wahrend im ostgermanischen Stammesgebiet - so auch bei den Ostgoten - Kolbenarmreife paarweise getragen wurdenóó. Hier im alamannischen Stammesgebiet hatte am Ende des 5. Jahrhunderts die in Ficarolo bestattete Dame ganz ohne Zweifel wegen dieser trachtgeschichtlich hochrangigen SpezifiRa eine Zeit lang gelebt, aber sie mu6, ja durfte keine Alamannin gewesen sem. Dies ergibt die Bewertung ihrer Fibel (Fig. 5,3), die enge, ja mustergleiche Parallelen sowohl im Karpatenbocken, besonders im gepidischen TheilOgebiet, als anch im alamannischen Stammesgebiet in Grabern von Basel-Kleinhuningen und Basel-Gotterbarmweg besitzt; als Beispiele sei auf die werkstatt-, ja vermutlich gul3gleichen Fibeln von Csongrád-Kettoshalom an der mittleren Theil3 (Ungarn) (Fig. 7, 5-ó)62 Und Basel-Kleinhuningen, Grab 75 (Fig. 7,1-2)63 verwiesen, einziger Unterschied zur Fibel von Ficarolo ist nur die Anzahl der Knopfe. Diese Fibeln gehoren innerhalb der Fibelentwicklung Sudostourops in die 2. Halfte des 5. Jahrhunderts und in die Zeit um 500, dies auch mit Blick anf verwandte Dreiknopffbelnóó. In die gleichen ostgermanisch-sudostouropaischen Zusammenhange etwa derselben Zeit fuhrt der silberne almandinverzierte Fingerring (Fig. 5,2) mit Parallelen im ostgermanischen Frauengrab von Bakodpuszta (Ungarn)ós, im ostgermanischen (gepidischen?) Schatzfund von Cluj-Someseni (Rumanien)66 von Lorrach in Sudbaden (mit einem ostgotisch-italischen Fibelpaar) andererseits6s. Diese Gemoinsamkeiten zwischen dem ostgermanischen mittleren Donauraum und den Alamannen vor allem am Basler Rheinknie sind schon lange'bekanut, dank einer umEanglichen Studie von J. Werner, der anch schon auf die genannten Ubereinstimmungen bei den Fibeln hinwiesóóó: “Diese Bezichungen spiegeln Verbindungen der donaulandischen Germanen zum frankisch-alamannischen Gebiet in der Zeit nach dem Zusammenbruch des Attila-Reiches (453) und vor der Abwanderung der Ostgoten nach Italien (488) wider ” , die noch “ aUf der Linie gepidisch-alamannischer Gemoinsamkeiten~~ bis in das fruhe 6. Jahrhundert fortwirken70. Da Trachtzubehor regelhaft nicht als'Import' interpretierbar ist, sind die genanuten so spezifischen Verbindungen zwischen den Alamannen am Basler Rheinknie und dem Donauraum nur durch unmittelbare personenbezogene Kontakte, also durch Mobilitat von Personengruppen sinnvoll erklarbar. Von dort also, aus dem

(gepidischen?) Mitteldonauraum, durfte die Dame von Ficarolo in der 2. Halfte des 5. JahrhUnderts an das Basler Rheinknie bzw. in das alamannische Sudwestdeutschland gekommen sein, wo sie einige Zeit lebte und alamannisiert wurde (Haarnadel, einzeln getragener Armreif). Aber anch dies war nicht ihre letzte Station: Zusammen mit anderen Alamannen gelangte sie als alamannischer Fluchtlingvorden Franken Chlodwigs 496 oder 505/06 nach Oberitalien (s.o.), ein bewegtes Schicksal also, das sich anf archaologischem Wege einmal gut rckonstruieren und anch interessante akkulturationsgschichtliche Verhaltensweisen erkennen la[3t; in ihrer nenen Heimat in Oberitalien behielt sie zwar ihre alamannischen Spezif~ka bei, trug aber - der alamannischen f ranentracht vollig fremd - das kenuzoichnend grolle Gurtelschlob der ostgotischen Frauentracht (Fig. 5,4). Aber auch dieses GurtelschloB eroffnet Probleme, sowohl in seiner Datierung als auch in der ethnischen Interpretation; die Gurtelschnalle findet ihre nachsten mustergleichen(!) Parallelen namlich in drei Gurtelschnallen sowohl im Donauraum als auch in Italien: von unbekanntem italischen Fundort (Fig. 10,4), aus Oradea (Nagyvárad) am KorBs in Nordwestrumanien (Fig.10,3) und aus Kapolcs an der Nordwestecke des Plattensees in Westungarn (Fig.10,2)7~; nur die Schnalle aus dem Grab einer jungen erst 15-18jahrigen(!) Frau in Kapolcs ist durch Beifunde gut datierbar und zwar in die Zeitstufe D2/D3 und/ oder fruh in Zeitstufe D3 (etwa um die Mitte oder in das 2. Viertel des 5. Jahrhunderts), weswegen anch die Tragerin der Schnalle aus 'Italien' unter Odoaker (469/70) oder Theoderich (488) nach Italien eingewandert sein kanni2. Wegen ihres Fundortes kann die junge Frau aus Kapolcs also eine Ostgotin wahrend der Zeit des pannonischen Ostgoteureiches (456-473) gewesen sein, wahrend der Fundort Oradea im fruhgepidischen Siedelgebiet ~u liegen scheint73. Es ist also gut moglich, dal3 die adult verstorbene Dame von Ficarolo ihr Gurtelschlol3 nicht erst in Italien erworben hat, sondern - als Ostgotin oder Gepidin(?) - bereits im Donaugebiet. Merkwurdig ist jedoch die nicht funktionale Grablage der Fibel (zwischen den FuBen) und der Schnalle (neben dem linken Knie) sowie das Vorhandensein nur einer Fibel. Das zweite, in diesem Zusammenhang nachzutragende Grabensemble ist das (HoRN-BoRN 1979, vol. i, p. 22). Hardly surprisingly, this paradigmatic model has becn challenged. Substantive criticisms have becn presented by Paul Meyvaert (1980), Dom Adalbert de Voguè (1984; 1987) and Warren Sanderson (1985) (see also JACOBSEN 1992; NEES 1986 and ZETTLER 1990). They contend that the dedicatory inscription on the plan, which Horn and Born took to be axiomatic evidence that the plan is (i) a copy, and (ii) off~cially prescribed, indicates quite the contrary. The critics have shown convincingly that the plan concerned a specific building project at St. Gall, and therefore cannot be interpreted as paradigmatic. Lawrence Nees (1986) in his review of Horn and Born goes a step further. The central tenet of Horn and Born's study, he writes, is “severely antiquated” (1986 p. 5); there is no overarching Carolingian model giving rise to this so-called renaissance concept, only a colloction of loosely connected regional traditions (cfr. SULLIVAN 1989 pp.306). Like Sullivan, Nees questions the ability of Charlemagne and his court to devise a programme for western Europe. In this essay I propose to examine the Carolingian debate lanuched by Sullivan, using the archacological evidence from three estate centres, the monasteries of Farfa, Monte Cassino and San Vincenzo al Volturno, to develop the argument beyond the transalpine monastery of St. Gall. The issues, I shall contend, are wider than Sullivan recognized, and bring us back to Pirenne's thesis. Karl Schmid has identifed a monastic conquest of Italy by the Franks before their military takeover (SCHMID 1972; NOBLE 1984 pp. 159). This conquest, to quote Panofsky (1960 p. 40), involved reforming “political and ecclesiastical administration, communications and the calendar, art and literature, and - as a basis for all this - script and language”; the guiding idea was to bocome crystallized in the renovatio imperii romani. A generation later this conquest was reinforced by the monastic reforms of 816-17. The driving force behind these reforms was Benedict of Aniane, sometimes described as the viceregent of Louis the Pious (cfr. NOBLE 1976 p. 249). Benedict, according to his biographer, Ardo, set out to establish a rule shared commonly by all monasteries. According to Ardo, his intention was to create “such a state of unity that it seemed as thongh they had becn instructed by one master and in one place” (NOBLE 1976 pp.249). Ardo makes it sound like the Treaty of Rome. Did the monastic conquest change Italy, or were places like San Vincenzo al Volturno too remote, as Nees has argued, from the Carolingian court to be affected? Schmid's motif of monastic conquest was based upon the written sources. In each monastery there were debates betwecn the Frankish and Lombard factions as Charlemagne entered Italy. San Vincenzo al Volturno, for example, had a Frankish abbot, the philosopher, Ambrosius Autpert. Each of the three monasteries under scrutiny here was granted immunities and privileges by Charlemagne

as he swept down through Italy in the 780s. Each then appointed Frankish abbots, who for f fty years or so, stoered the political directions of their institutions. Finally, during this age, each monastery built up huge blocks of territory. As Del Treppo showed for San Vincenzo (1954-55), and PierreToubert for Farfa and Montecassino (1973; 1976), the monasteries enlarged their economic operations significantly at this time. Convincing though these details are, it is still difOcult to imagine these monastic legionaries bringing Carolingian order to the upper Volturno or the Sabina. We need a model that can be measured; an estate centre which can be compared with the results from the huge excavations at places like Dorestad, Hedeby, Ispwich, Ribe and Southampton. The model necessarily depends upon San Vincenzo al Volturno bocause in that remote, unlikely place we have had the opportunity to excavate over half a hectare of the early medieval monastery. At Farfa David Whitohouse and Charles McClendon have made limited excavations (MCCLENDON 1986; WHITEHOUSE 1985), and at Monte Cassino Don Angelo Pantoni carried out rescue excavations in the 1950s before the new monastery was built (PANTONI 1973; 1981). the abbey's apse, was situated the lay cemetery. On a mighty terrace crowning the hill lies another complex with its own church. The colloctive workshops ran in a line for perhaps 200m along the south side of the abbey, terminating at a church situated by the river. On the eastern side of the river are remains of another part of the monastery, possibly its vicas where seasonal exchange took place. This monastery is staggering for its use of material culture. In the construcrion yard under the east end of the complex, brick and tile kilus were found, furnishing the thousands of tiles needed to roof and pave this and many of the other building. A glassmaker's workshop was also discovered here. Glass was manufactured on a vast scale. Most of the buildings were glazed; glassware was in common use in the monastery. Pottery from many different sources (PATTERSON 1990), including two Abbasid dishes, occurs in prodigious quantities. Every part of the monastery was richly painted, even dark corridors. The prevailing idiom of these paintings betrays the marked influence of Beneventan painters who shared a common idiom with artists working in north Italy and the transalpine region (BELTING 1968; MITCHELL 1985). Spolia was also used at every conspicuous point. Finally, the literacy of the monastery was promoted in an extraordinary way: 38% of the tile pavements bear one of 70 or so initials; painted inscriptions occur in many rooms; and an elegant script was developed for terracotta and stone tombstones (MITCHELL 1990). By any 9th-century standards San Vincenzo al Volturno was a town. Its greatest feature, however, was an abbey-church that ranked in size with the great churches built by members of Charlemagne's own court. 3. A generation later the monastery was remodelled for a third time in the span of the high Carolingian age. Abbot Epyphanius was responsible for these works. To judge from the ~lraHicoH, it is most likely that the rebuilding occured in c.833, judging from the intense level of benefactions to the monastery at that time. A massive new atrium with, a kind of westwerk, was added to the front of San Vincenzo Maggiore. The new atrium is distinguished by its vaulted rooms, and the elegance of its painting. In the cloisters, the monks' refectory, which had had a seating capacity for 300 persons, was enlarged. The distinguished guests' hall was completely transformed. Its western end was rebuilt and a new apse was created. These changes provided the opportunity to alter the buildings either side of it. The church to its north was furnished with a decorated cryptand a small atrium: it became a public place of worship. Immediately south of the guests' hall lay the vestibule leading to the cloisters. This was covered, remodelled and painted. On the other side of the monastery in the workshops there were still more changes. One of the workshops was made into a richly furnished apartment. The new apartment had a passage, leading off of which was a living room with painted walls and a kitchen containing a toilet. The south-facing facade of the apartment was decorated with decorated terracotta corbels (cfr. HODGES 1991). Abbot Epyphanius' monastery adhered to the lay-out made by abbot Joshua. Nevertheless, the alterations were ambitious. Almost every building was substantially remodelled. In many vaulting was introduced for the flrst time. A distinctive new style of painting, closer to the idiom known in Rome, superceded the earlier phase 4 paintings (MITCHELL 1985).

About 5% of San Vincenzo al Volturno has becn excavated. The archaeology indicates that abbot Paul's monastery in the 780s and 790s covered about half a hectare. Paul the Deacon described it as a great community of monks (FOULKE 1974 pp. 283). Yet it was essentially made around a single ritual monument, the abbey-church of San Vincenzo Minore with its pronounced ring crypt. AbbotJoshua's monastery was altogether on another scale. It was as much as ten times larger and laid out like a new town. Unlike the 8th-century monastery, it was a centre of production. It was designed on terraces, linked by corridors, with two majorfocal points: SanVincenzoMaggiore and the palace for distinguished guests. In other words, this plan was not like the plan of St. Gall with its single focal point. The 1 2th-century chronicler of San Vincenzo lamented the eclipse of the monastery. In the 9th century it had becn a place of European status. After the 9th-century sack by the Saracens, San Vincenzo was a ruinous place. When rebuilt in the 11 th century, however, it continued to possess a huge abbey, but the great guest-house was demolished. The 12th-century chronicler's reflections need also to be considered. In his mind, the precursor of the 12th-century Romanesque abbey was abbot Joshua's San Vincenzo Maggiore, not San Vincenzo Minore, the flrst abbey church made by the founders within the ruins of the Late Roman villa. His reasoning was simple. Excavations of the 12thcentury abbey, occupying a fortifled site 400m from the old monastery, show that it was made of spoils taken from San Vincenzo Maggiore (cfr. PANTONI 1980). This memory existed amongst the contadini of the area until modern times. Monte Cassino The archacology of Monte Cassino is very limited. Angelo Pantoni's invaluable excavations made betwecn 1947-53 provide some basis for drawing comparisons with San Vincenzo al Volturno (PANTONI 1973; 1981). Like San Vincenzo's Late Roman estate centre, St. Benedict's 5thcentury oratory was made within the remains of an earlier settlement. The entire hilltop at Monte Cassino was enclosed by a Samnite fortiflcation. Within it are remains of several Samnite buildings (PANTONI 1973). The Later Roman community occupied the upper knoll on the hilltop. The oratory, dedicated to St. John the Baptist, discovered by Pantoni, measured 15.25m. Iong x 7.60m. wide. When the Benedictine community was refounded in the 8th century the settlement appears to have spread out across the west-facing flank of the knoll. The massive Samnite temple situated on this flank was used as the base on which the church of San Martino was built. For much of the 8th century this was the principal church at Monte Cassino. As at San Vincenzo, however, the impact of the Carolingians was considerable. The Frankish abbot Gisulf (797-812) rebuilt St. John as a much larger aisled basilica (PANTONI 1981 pp. 126). The exterior of the new church was decorated with pilasters, reminiscent of the facade of the eastwork at San Vincenzo Maggiore (PANTONI 1973 pp. 21). This now superceded San Martino as the principal church. Pantoni's excavations show that the 9th-century church had some kind of narthex or ~estYoerk. Was this added in the 830s, as at San Vincenzo? Abbot Gisulf also established a new community - possibly a vicus of some kind - on the Via Casalina immediately east of the ruined Roman town of ~asiHam' at the foot of the hill on which the monastery is situated. This roadside settlement was gathered around the large basilican church of Santa Maria delle Cinque Torre built by Abbot Teodemar (778-97) (cfr. CARBONARA 1979), and included a splendidly decorated basilica dedicated to the Saviour. Was this the sum of Monte Cassino's expansion as a monastic settlement in the Carolingian age? Inevitably, we are bound to ask whether Monte Cassino was eclipsed by Abbot Joshua's extraordinary works at San Vincenzo? The answer must be speculative. The only clue is the massive later 8th-Gentury terracing built out from the Samoite temple on the west flank of the knoll (PANTONI 1973). The terracing is as substantial as any found at San Vincenzo. Was this terracing designed to support the enlarged cloisters of the monastery? Did the building works extend beyond the knoll occupied in the 8th century, and later the hub of the fortifled monastery from the 11th century until

the present day? From an early date the entrance of Monte Cassino lay beside the church of S. Agata (cfr. PANTONI 1981). S. Agata occupies a pivotal position on the hilltop. Betwecn S. Agata and the knoll lies more than a hectare of ground in which secular parts of the monastery might have been located. West of S. Agata, lies the Piano di S. Agata, an area large enough to accommodate, for esample, the monastery's lay cemetery. In other words, did Monte Cassino resemble San Vincenzo by spreading out to fll the area once occupied in preRoman times? Further, was it distinguished by terracing and corridors which separated the modolar form of the monastery? Finally, was the vicus of San Germano on the Via Casalina the equivalent of the proposed vicus at San Vincenzo on the east bank of the river Volturno? Two points need to be borne in mind. First, St. John was a modest church by comparison with San Vincenzo Maggiore. In size it resembles San Vincenzo Minore, and the abbey-churches of Farfa (see below) and Novalesa (WATAGHIN 1988). One reason for this was the restriction of space. On the other hand, Abbot Gisulfs new church, unlike either the oratory or San Martino, wonld have dominated the skyline, attracting the attention of pilgrims and princes taking the road from Rome to the towns of the Principate of Benevento. By contrast, San Vincenzo Maggiore was, despite its size, a much less prominent building because of its situation (see below). Second, Pantoni kept virtually no flnds from his excavations. Those that do survive, however, strike a chord following the San Vincenzo excavations. There are several hundred tombstones, illustrating not surprisingly, a high level of literacy. Then there are a few tiles with inscribed initials like those from San Vincenzo (MITCHELL 1990 pp.201). Monte Cassino and San Vincenzo clearly shared a common tile-making tradition. Did they share other crafts? Farfa The abbey of Farfa has becn the subject of antiquarian study for nearly a century. Since Ildefonso Schuster published a mounmental history of the abbey in 1921 it has becn one of the best-known abbeys in Western Europe (SCHUSTER 1921). New light was thrown on the archacological record of the monastery by David Whitohouse's excavations made betwecn 1978-85. These were located between the western apse of the early medieval church and the late medieval tower associated with the residence of the commendatory abbots (WHITEHOUSE 1985). Whitohouse and his collaborator, Charles McClendon, have proposed a radical reassessment of the 9th-century phase of the principal abbey church. They contend that the monastery was refounded, like San Vincenzo and Monte Cassino, within a Late Roman settlement. No trace survives of the early 8th-century monastery. They argue, however, that during the later 8th century, when the monastery had a succession of at least three Frankish abbots - Ragambaldus (781-86), Albertus (786-90) and Mauroaldus (790-802), it took a distinctive Carolingian form (MCCLENDON 1986 pp. 7). McClendon and Whitohouse believe that the monastery at this time was entered from the west, the tower forming part of an imperial guest-house. The abbey-church, had an atrium in front of a west facade which has long since becn removed. The eastern apse, so their argument goes, has becn removed by a later 1 lth-century rectangular sanctuary flanked by two towers. A section of pavement made of opassertile survives in the nave, and part of the decorated east nave wall also survives. The cloisters, in their view, lay on the terraced eastern side of the narrow church. The mid-9th-century Constructio Farfensis, however, is clear that the major changes to the abbey were made by Abbot Sichardus (83042). McClendon and Whitobouse ascribe to him the western end of the church, the apse, trancept and ring-crypt, and the creation of a classic Carolingian basilica with an apse at either end. As the excavations are unpublished, this radical interpretation remains to be demonstrated. This has left scope for other interpretations of the excavated results. Tersilio Leggio, for example, contends that the early Carolingianperiod church was approached from the east not the west (1992). The abbeychurch was certainly approached from this direction in the 11 th- 15th centuries. Leggio proposes that the earliest apse was none other than the outer wall of Sichardus' later crypt. Beyond it, Leggio proposes, the area excavated contains a garden bounded by a portico and two other buildings

including possibly the small chapel of St. Peter's (1992). Leggio contends that abbot Sichardus radically transformed the church with a substantial eastwork that contained a hall crypt (Leggio proposes that the rectangolar sanctuary belongs to the 9th not the 11 th century) as well as the painted ring-crypt within the pre-existing apse. This interesting line of argument lays emphasis upon the Lombard origins of the abbey (in the Duchy of Spoleto) rather than its 9th-century, Carolingian, refurbishment. Further excavations and analysis by a team from the British School at Rome in 1993 have confrmed some aspects of Leggio's thesis. To judge from its painted decoration, the western apse, trancept and ring-crypt are the earliest preserved part of the early medieval church and date to the 8th century, arguably to the abbacy of Probatus (770-81). The area to the west was a cemetery, Iying behind the apse of the church. There is no convincing evidence that it served as an atrium and that the abbey-church was entered from this end. The nave of the church may have becn rebuilt and was certainly painted in the years around 800. Abbot Sichardus (830-42) is recorded as having built onto the abbey-church an oratory dedicated to the Saviour with a crypt for relics beneath. It is likely that this formed an eastwork at the entrance end of the building. Archacological evidence and pavement levels indicate that this was probably located in the position of the existing late 1 lth-century towered eastwork, and that it formed an important architectural and devotional focus at the entrance end of the church. The architectural articulation and the programme of painted imagery of the late 11 th-century eastern structure show that it cannot have becn designed as a presbytety as McClendon proposed (1986). This remarkable ediflce is best explained as an early Romanesque elaboration of an already existing devotional and liturgical focus within the church, a magnificent replacement of Sichardus' oratory and crypt. Conversely, the western apse, trancept and ring-crypt at the other end of the building, have nothing to do with Sichardus, as McClendon and Whitohouse believed. They are the sanctuary end of the early medieval church, constructed, not in the 830s, but in all likelihood in the second half of the 8th century, evidently in imitation of Old St. Peter's, and must be explained in the context of Farfa's pivotal, liminal, position in relations betwecn the Lombard Duchy of Spoleto and the Papal Duchy of Rome during this period (NOBLE 1984 pp. 156-59). Farfa lay on the border betwecn these two polities, which during these years were disputing lordship over the surrounding Sabina. Certain important conclusions can be drawn from the investigations of the last twenty years into the physical remains of the early medieval monastery at Farfa. First, the 8th- and 9th-century church itself was surprisingly modest, measuring about 37m long x 95m. wide. Like San Vincenzo, it was lavishly painted in most parts. Second, like San Vincenzo the abbey-church was aggrandized in the 830s. Third, unlike San Vincenzo it appears to have had a restricted material culture. Fourth, terracing, as at Monte Cassino and San Vincenzo al Volturno, is a major feature at Farfa. The monastery, rather like Monte Cassino, overlies classical remains which have becn buried beneath deep terraces. Fifth, the disputed walls within the large excavated area immediately north west of the abbey-church suggest the careful modularisation of space, as at San Vincenzo. The monastic precinct was evidently packed with buildings by the early 9th century. Lastly, like San Vincenzo, too, there are signs of an earlier 9th-century phase when the abbey-church enjoyed a certain splendour. It paintings from this era (MCCLENDON 1983); and the Frankish abbot Ingoaldus was commemorated with a inscription made of gilded bronze letters. But the scale of Farfa is hard to judge. Did it cover only 1-2 hectares in area, covering the present terrace, or did it possess outlying chapels and facilities as well? Only further excavations will resolve these intriguing questions. One point, however, is clear. The Lombard abbey-church resembled San Salvatore at Brescia, San Salvatore at Spoleto, St. John the Baptist at Monte Cassino and Novolesa in size, and was only a little grander than the original abbey-church at San Vincenzo al Volturno. All of these churches were dwarfed by Abbot Joshua's San Vincenzo Maggiore. The monastic territories

It has long been assumed that the Carolingian 'monastic conquest'led to increased development of the monastic estates. Did these bocome the overpopulated islands within occans of under-developed landscape, as Duby (1968) believed? Del Treppo's study of the terra of San Vincenzo al Volturno leaves scope fordoubt(1955-56; see alsoW~cKHAM 1985). The monastery's hinterland was neither densely populated nor highly productive in the 9th century. On the other hand San Vincenzo possessed numerous estates in the heartlands of the principate of Benevento. One of these, Del Treppo shows, provisioned San Vincenzo with metals (1968 pp. 35 ff.; cfr. ALsARELLA-ARTHuR-WAYMAN 1989).This appears to have becn acHrtis-a demense farm in the north European form (cfr. TOUBERT 1983). Wickham has also shown that San Vincenzo obtained cHrtis settlements in the Valva valley in the Abruzzo, to the north. These provisioned the monastery with pastoral foodstuffs (1982). San Vincenzo in this respect is, of course, not unique. Toubert, in his classic study of the Sabina, identifes a massive growth in the size of Farfa's population during the Carolingian age (1973). But he lays limited emphasis upon the significance of cHrtis-type settlements in the changing fortunes of the monastery (cfr. TOUBERT 1983). The territory of Monte Cassino, he believes, shares the same agrarian history as that of Farfa and San Vincenzo (TOUBERT 1976). Again, these estate histories need to be measured by archaeological means. The archacology of San Vincenzo's terra provides the model. In a survey, followed by escavations, of the upperVolturno valley, two types of Carolingianperiod settlements have becn found (cfr. HODGES 1992): i small farms built on terraces on the middle slopes of hills, practising a domestic mode of production. There is limited evidence of access to certain pottery and glass types made at San Vincenzo; tiles were scavenged from derelict local classical sites. ii tiny chapels, probably founded in the late 8th century. These were wellmade, decorated with frescoes, and in the case of Colle San Angelo, lit with glass lamps. They were not furnished with window panes, despite the abundance of glass at San Vincenzo. These places appear to be the coHdmae and pleb,. Their material poverty is striking in contrast to the monastery's affluence. A contrast must be made, too, with the relative material affluence of the 9th-century cartis-like settlement excavated in Molise near the Adriatic sea, Santa Maria in Civita (D85) - a frontier site just inside Beneventan territory (HoDGEs-BARKER-WADE 1980; HODGES-WICKHAM forthcoming). This hilltop site was enclosed by a lengthy defensive circuit; it possessed a church of substantial proportions; and, its material archacology indicates that it was in reccipt of goods, foodstuffs and cereals from regional and inter-regional sources. In other words, unlike the Upper Volturno settlements, it participated in a regional marketing system as opposed to practising a domestic mode of production. Is Santa Maria in Civita rather than the settlements of the Upper Volturno an image of the 'monastic conquest' introduced to the heartlands of Beneventum? Was San Vincenzo al Volturno being supplied with labour and metals, for example, from sites of this kind occupying the richer lands of the coastal littorals of the Principate of Benevento? If so, the territory of Monte Cassino, encompassing the coastal plain of Lazio and Campania, might have becn richly endowed with settlements of this type. By contrast, the f~rst archacological investigations of the Sabina show that its settlement system, despite its proximity to Rome, resembled the Upper Volturno at this date (DE MIN[CISHUMBERT 1991; MORELAND 1987; MORELAND-PLUCIENNIK 1991). In both cases great change occured during the later 10th century, when the settlement form and material characteristics of Santa Maria in Civita were adopted by villages everywhere (cfr. HODGES 1990; HODGES-WICKHAM forthcoming). At that time, after a break of half a millennium mountainous and hill regions such as the iuland territories of the Upper Volturno and the Sabina were once more integrated into the economy of the Mediterranean basin. II

Betwecn 768 and 855, according to Carol Heitz, the following were built in the Carolingian Empire: 27 new cathedrals, 417 monasteries and 100 royal palaces (HEITZ 1983 pp. 5). Such statistics illustrate why historians have becn attracred to the Carolingian age. All the evidence from across Latin Christendom reinforces the long-held belief that the renaissance was a discrete period of development rather than a continnum (pace Sullivan) encompassing all types of settlement including emporia (cfr. HODGES 1982; 1988; 1989; forthcoming) and estate centres (see above; see also HEIDINGA 1987; HODGES 1990; THEUWS 1991). The monasteries of San Vincenzo al Volturno, Monte Cassino and Farfa, as we have noted, were not exceptions so far as this familiar pattern is concerned (see JACOBSEN 1988; 1992 for a recent overview of Carolingian Renaissance churches). The archacology, however, reveals that this pattern is more complex than has becn often appreciated. Two types of abbey-churches have becn identified. The first type includes San Vincenzo Minore, abbot Gisulf's St. John at Monte Cassino and Farfa. We might speculate that abbey-churches like San Salvatore at Brescia (BROGIOLO 1992), San Salvatore at Spoleto, and the recently-excavated abbey-church of Novolesa (WATAGHIN 1988) also belong to this groop of major cult-centres. Each is a typical basilican building belonging to the age of Charlemagne, fundamentally made possible by the signiOcant empire-wide re-discovery of lime mortar (GUTSCHER 1979). Churches of similar dimensions were being restored in Milan (BERTELLI 1987) and Rome (DELOGU 1988; KRAUTHEIMER 1980) at this time. The second type might be described as court abbey-churches: gigantic expressions of a renaissance ideal, more roma~zo (HEITZ 1980; 1983; PARSONS 1983). San Vincenzo Maggiore unlike San Vincenzo Minore it would appear, belongs to this type. Lawrence Nees' belief that places like San Vincenzo al Volturno lay outside the mainstream tradition of Carolingian architecture cannot be sustained. The model for this church, so it would appear to be a mixture of either Lombard or trans-alpine and the notion of St. Peters. In other words, this complex comprised a large version of the basilican form, and an atrium with a great facade. Abbot Gisulf built a similar complex at San Salvatore at Monte Cassino (CARBONARA 1979), The emphasis in this type of church was upon an imperial liturgy. Long before the 830s at San Vincenzo, we may now surmise, as Kelly has shown, 'the eminent Carolus ordered all the holy churches everywhere to sing the Roman song; whercupon throughout Italy there arose much contention, and the status of the holy church was everywhere in mourning' (KELLY 1989 pp. 24). It is unlikely that Beneventan chant was ever heard in these buildings. The Gregorian chant was one of a number of instruments deployed in this monastic conquest. Literacy was another (MITCHELL 1990; NOBLE 1990). Another, as Deshman has shown, was the notion of service as defined in the iconography of painted murals (1989). Deshman uses the paintings in the crypt at San Vincenzo to illustrate how service, a common feature of high medieval painted cycles, was first illustrated. It occurs in other forms at San Vincenzo. The new Benedictine rule specif ed that craftsmen "be instructed to perform their work henceforth not outside but inside the monastic enclosure". Artisans were now recognized as servants of the monastery. It marks what Le Goff terms the Carolingian renaissance of labour; the beginnings of three orders (LE GOFF 1980). The plan of St. Gall indicates that a chamberlain was charged to supervise the work within the Colloctive Workshop. Shortly afterwards at San Vincenzo a fine apartment was inserted into the workshop complex (cfr. HODGES 1991). As Del Treppo observed, San Vincenzo's new settlements were marshalled to provide raw materials for these craftsmen. Professor Sullivan might have his doubts, given the Italian idiom of the paintings or the Italian shapes of the pottery (1968). Undeniable provincial elements temper this model of Carolingian imperialism. Besides, why were the Carolingians using monasteries to conquer parts of Italy that had tenaciously defed Charlemagne's armies? So how are we to explain the Carolingian status of San Vincenzo and Monte Cassino, and the surprisingly limited status of Farfa? Who wonld have believed that San Vincenzo, by the standards familiar at Farfa, was so staggering a place? Like Farfa, San Vincenzo was not on a major route. Like Farfa, San Vincenzo did not have a cult for a major saint (cfr. GEARY 1978 pp. 166-67). In common with Monte Cassino, however, it occupied the northern frontier of the Principate of Beneventum, bordering Carolingian territory. In the 9th century these were Carolingian

centres inside Beneventan territory. Joshua's great skill was to obtain huge tracts of land in the heartlands of Beneventum (WICKHAM 1994). These provided resources for the abbey: the labour, foodstuffs and materials for the workshops. The palace for distinguished guests was used to entertain the Beneventan donors. Later, in abbot Epyphanius' period, these donors were buried within the complex. At San Vincenzo and Monte Cassino it appears that Frankish abbots diffused a Carolingian ideology with which they patently controlled the Beneventans. Clearly, the archacology of the terra of San Vincenzo shows that the monastery's objective was not to stimulate regional development as, for example, St. Gall was doing at this time. Abbots Joshua and Epyphanius, so it wonld seem, had limited interest in reviving the connections betwecn the mountains and the littoral. Instead, the building of San Vincenzo Maggiore illustrates a more ambitious objective lay behind the 'monastic conquest'. Charlemagne needed vast resources for his renaissance. The refurbishing of churches, as theLiberPortifralisindicates, was a hugelyexpensive operation (DELOGU 1988). Yet this was overshadowed by the enlarged production of a silver-rich Carolingian currency to serve a European-wide community (cfr. GRIERSON-BLACKSURN 1986 pp. 262-63). Some historians believe these resources existed in the treasuries of Christendom; some believe that the Carolingian coins bearing the EX NOVO METALLO signature indicate the discovery of great new silver mines. In Italy this is the Black Economy model. It may work now; but did it work then? Such models do not explain the extraordinary revival in Rome's fortunes, for esample, with the coming of the Carolingian age (cfr. DELOGU 1988) let alone the Carolingian-period transformation of San Vincenzo with its Fulda-sized abbey. It is necessary to return to the discussion lanuched earlier where the motor of regional development in northern Europe appears to have becn commerce around the North Sea. As we noted above, Carolingian ventures in the Mediterranean, due to an absence of archacological research, leave us as mystifed as Pirenne was in the 1920s about North Sea economics. At the moment we possess only clues. On the one hand, for esample, excavations in Constantinople show that despite a reduction of its commercial activities, it remained a major Mediterranean centre producing commodities (cfr. the excavations at Sarachane, Istanbul: HARRISON 1986). The Arab communities, by contrast, were engaged in a phase of expansion, which certaiuly led to increased commerce betwecn the Abbasids of Bagdad and the Aghlabids of the Maghreb (cfr. NOONAN 1984). On the other hand, the Frankish sources provide a clear picture of Charlemagne's persistent concern to conquer Italy (WICKHAM 1981; NICOL 1988). Early in his reign he invaded Lombardy and advanced upon Beneventum. His armies conquered Istria, and on several occasions confronted the Venetians. The reccived interpretation of these wars is that Charlemagne was a great imperialist, seeking to re-establish the Roman Empire. This necessiated some control of Rome, and therefore Italy. We need not question the signifcance of Rome to Charlemagne's imperial vision. Antique motifs sustained the renaissance across the length and breadth of the Empire not only in great architectural and cultural works, but also in the revival of everyday commodities like pottery (cfr. COUTTS_ HODGES 1992). But were there other motives for the determined Carolingian ventures in Italy, and, more signiOcantly, for the negotiated treaties with the Beneventans and Venetians? The archacology of early medieval Italy is perplexing. Urban archacology is in its infancy. Excavations in ports like Naples, Otranto and Portus (the port of Rome) show a level of minimal activity similar to the discoveries made in iuland centres such as Brescia and Verona. Rome itself is perplexing for different reasons: it appears to have enjoyed a staggering revival in the Carolingian age, and there are indications that Milan was also transformed at this time (BERTELLI 1987). In sum, the archacological evidence is too fragmentary bocause we possess no evidence of a commercial centre. The picture resembles the largely deserted classical ports of Anatolia (cfr. Foss 1977). There is a temptation to believe that the Mediterranean lay dormant at this time, as Pirenne believed, and the new-found wealth of Benevento (PEDUTO 1990), Milan (cfr. BERTELLI 1987), Rome (KRAUTHEIMER 1980) and Salerno (PEDUTO 1990), for example, was either derived from resources wealth stored within the peninsula or introduced by the Carolingians (cfr. DELOGU 1988).

The discovery of San Vincenzo Maggiore confounds this hypothesis. It tempts us to advance beyond the shadow of Pirenne. The written sources offer some indication of intense commercial activity concentrated in two places: the lagoon of Venice and the ports of the principate of Benevento. The excavations on theVenetian island of San Lorenzo illustrate beyond doubt that during the 8th and 9th centuries there were farflung connections to the Arabic and Byzantine worlds (FERSOUCH CANAL-SPECTOR ZAMBON 1989; cfr. DORIGO 1983). The excavations have revealed a sequence of Late Roman graves, covered by a timber buildings, covered in turn by a 9thcentury church. It is a tiny sample, possibly a microcosm of a huge emporium that had sustained a certain independence since the 7th century. These discoveries are hardly surprising. The history of Venice, including the theft of the body of St. Mark from Egypt, revolves around its commercial activities. The lagoon communities, it would appear, maintained an independence so that they might participate in the global trading networks ranging as far east as China, created by the Abbasid caliphs (cfr. HODGES and WHITEHOUSE 1983). Charlemagne's prolonged and unsuccessful bid to conquer the lagoon, followed by the treaty of 810 with the Venetians (NICOL 1988) may be paralleled with his treaty of the same year with the Danes. In both cases, we might surmise, he was pragmatically seeking commercial advantages: from Venetian trade with the East, and from Danish access to the Baltic Sea. Venice, in other words, might be envisaged as a much larger (though more diffuse) version of Hedeby, the planned Danish emporium on the northern Carolingian frontier. But the Beneventans lay too far to the south to respect treaties of this kind, as Charlemagne appreciated during the later 8th century (WICKHAM 1981). Other methods were needed if the commercial wealth of the principate was to be siphoned off to support the rebuilding of Rome, and indeed, Charlemagne's own treasury. San Vincenzo Maggiore possesses the hallmark of being the Fulda of the South. Was it built for a political purpose, as Fulda had becn in the newly conquered eastern Frankish lands? In essence, it was a gigantic exhibition of Carolingian ideology. Beneventans were woven into this great enterprise from its inception. Beneventan lands produced the materials (the Chror~icon V~lterne~se describes how the columus used in the church were plundered from a Roman temple at Capua); Beneventan labour was responsible for the work (cfr. WICKHAM 1994); and Beneventan painters carefully made the pictures that conveyed the Carolingian messages (BELTING 1968; DESHMAN 1989; MITCHELL 1985; 1990). Like Fulda, it was designed to use the Church in place of legions in order to enlarge the resource base of the Empire. Monte Cassino, we may speculate, was no less a centre. Like San Vincenzo, it owed its wealth in the early 9th century to a political strategy that had an European scale to it. Certaiuly, the description of its treasury leaves us in no doubt of the monastery's reccipt of Arabic and Byzantine exotica and luxuries, gifts from the Beneventan aristocracy (CITARELLA-WILLARD 1982). The evidence is insufficient to reconstruct the means by which the gold and silver as well as other luxuries traded in Beneventan ports found their way northwards. We can only offer hypotheses at present that monasteries like Monte Cassino and San Vincenzo reccived gifts that flled their treasuries and churches; that the Carolingian court intermittently received tributary puyments; and that the effect of this interaction lead indirectly to the investment in monasteries like Farfa and Novalesa which formed the ancillary routoway fortresses of this age. Is this farfetched? The Beneventan investment in Monte Cassino and San Vincenzo is indisputable (cfr. WICKHAM 1994). It is more diffcult to demonstrate the flow of tributes to the Carolingian court, though intermittently, the sources inform us, this occurred. Perhaps the Reno river hoard (Bologna) containing 23 Byzantine solidi, 5 Beneventan solidi, and 11 Abbasid dinars provides a small glimpse of the passage of wealth from Beneventum northwards (GORINI 1989, pp.187-188). As for the 'trickle effect' as the wealth generated in Beneventum or Venice reached smaller, established monasteries such as Farfa, San Salvatore at Brescia or Novolesa, we can only point to the results of Stephane Lebocq's study of Neustrian monasteries that participated and benefited from commerce at Quentovic and Ronen (1989). Theuws has illustrated the same interaction betwecn Flemish monasteries and emporia such as Dorestad (THEUWS 1991). In this way, throngh the medium of a

controlled coinage minted from the silver procured from these connections reaching back to the great silver mines of the Abbasid caliphate, an underdeveloped economy, hitherto dependent to a greater degree upon ranked spheres of gift-giving and of plunder (cfr. REUTER 1985), was enlarged and transformed. This model is now reinforced by a new study of the coinage of Louis the Pious (COUPLAND 1990). Let us recall that up until the 790s Italy used a poor quality special-purpose money. With Charlemagne's reforms this changed. A generation later, Italian coins played a major part in Carolingian monetary circulation. To quote Marx, money was