L'Italia centro-settentrionale in età longobarda. Atti del Convegno (Biblioteca di archeologia medievale #13) 8878141267, 9788878141261 [PDF]


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L'Italia centro-settentrionale in età longobarda. Atti del Convegno (Biblioteca di archeologia medievale #13)
 8878141267, 9788878141261 [PDF]

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Zitiervorschau

I Longobardi nelle Marche. Problemi di storia dell'insediamento e delle istituzioni (secoli VI-VIII) 1. Il problema delle fonti Le fonti sulla presenza dei Longobardi entro un quadro geografico marchigiano, relative al periodo della loro dominazione in Italia, sono estremamente scarse. L'Historia Langobardorum di Paolo Diacono, che rimane la principale fonte narrativa sulla storia del regno longobardo da Alboino a Liutprando, prende in considerazione la Flaminia, il Piceno e le province circostanti solo per ricordare eventi di importanza militare, qualificando così quest'area come zona di attrito tra Longobardi e Romani (termine, quest'ultimo, col quale si indicavano allora i sudditi dell'Impero d'Oriente). Dal punto di vista istituzionale lo storico dei Longobardi, meglio al corrente delle vicende concernenti il ducato friulano, la corte di Pavia e il ducato di Benevento, si interessa del ducato di Spoleto, che includeva buona parte delle attuali Marche, unicamente per registrare alcuni avvicendamenti nella carica ducale. Si diffondono di più sulle prime fasi dell'invasione longobarda nell'Italia centrale le fonti romane utilizzate dallo stesso Paolo, vale a dire, per citare le più importanti, le epistole e i Dialogi di Gregorio Magno e le biografie dei pontefici raccolte nel Liber pontificalis. Gregorio I fu testimone a distanza dei momenti più drammatici dell'occupazione longobarda della penisola, nonché l'iniziatore dell'opera di conversione di quel popolo al cattolicesimo e fautore della pace tra Longobardi e Romani. Il suo punto di osservazione rimane però Roma, mentre i suoi interlocutori sono rappresentati in primo luogo da esponenti delle chiese locali, quindi da magistrati cittadini, funzionari e comandanti militari dell'esarcato d'Italia: individui orientati secondo una visuale romana e antibarbarica, sconcertati perciò di fronte alle profonde tràsformazioni in atto nei territori occupati dal nemico. Anche il Liber pontificalis espone i principali eventi politici, diplomatici e militari - che toccarono marginalmente, alla fine del secolo VI e quindi nell'VIII, I'area pentapolitana - con decisa pregiudiziale antilongobarda, rivelando altresì una crescente ostilità nei confronti della stessa corte di Costantinopoli. Le fonti geografiche greche e latine si dimostrano le più insicure in tema di geografia politica marchigiana, o perché poco o per nulla aggiornate rispetto ai testi dai quali dipendono oppure perché malamente interpolate con dati di dubbia valenza amministrativa e di difficile datazione. A loro volta le fonti documentarie non sono in grado, a causa della loro assoluta penuria, di colmare i vuoti delle altre fonti scritte. Anche nel campo della produzione documentaria l'invasione longobarda determinò nei territori conquistati una rottura significativa rispetto alla preesistente tradizione giuridica e scrittoria, mentre nella Romània sembra che non si registri soluzione di continuità nella redazione dei documenti e, più in generale, nella pratica scrittoria: al punto che lo iato nella produzione documentaria nella Langobardia dalla seconda metà del VI fino al pieno secolo VIII - pur con l'eccezione di alcune aree circoscritte in cui i documenti ricompaiono già verso la metà del VII appare come uno dei caratteri distintivi di quest'area rispetto ai territori bizantini. Il cospicuo fondo arcivescovile ravennate, da cui provengono i papiri documentari magistralmente pubblicati dal Tjader, le pergamene e il Breviarium (meglio noto come "Codice Bavaro"), sta a confermare tale assunto. Ovviamente a beneficiare di tali fonti è quasi unicamente lo studio del settore pentapolitano, ivi comprendendo anche Rimini, Gubbio e Perugia. Un quadro ben diverso presenta l'Italia longobarda, nella quale l'eccezione è rappresentata da Lucca, dal cui archivio arcivescovile sono stati tratti ben 156 dei 266 documenti editi nei primi due volumi del Codice diplomatico longobardo dallo Schiaparelli per il periodo che va dal 685 al 774. Non è il caso di affrontare in questa sede l'analisi delle cause, legate ad ogni modo alla persistenza dell'urbanesimo antico, che determinarono così diversi atteggiamenti culturali tra Romània e Langobardia. Converrà piuttosto far rilevare come il territorio marchigiano sia probabilmente rimasto per lungo tempo estraneo alla rinascita della cultura scritta verificatasi precocemente nella Tuscia Langobardorum. Gli scarsi documenti, riguardanti in qualche modo territori marchigiani toccati dall'insediamento longobardo, sono infatti costituiti da due diplomi regi di Desiderio e Adelchi, redatti rispettivamente a Pavia e a

Brescia; inoltre da pochi altri documenti farfensi già editi più di un secolo fa da Giorgi e Balzani ne Il Regesto di Farfa, alcuni dei quali ripubblicati da H. Zielinski nei successivi volumi del Codice diplomatico longobardo. Per completare il quadro delle fonti scritte del periodo si aggiungerà che anche l'apporto delle epigrafi marchigiane è piuttosto modesto. Il campo delle fonti non scritte si presenta più ricco, ma non per questo rneno problematico. Premesso che il lavoro storiografico debba necessariamente prevedere l'esercizio combinatorio di fonti di vario genere, ivi compresi i relitti linguistici (in particolare i toponimi, ma anche le dedicazioni delle chiese) e i resti manufatti, va ribadito che l'utilizzo di queste testimonianze si presenta irto di insidie. Alcuni studiosi marchigiani hanno battuto la strada della toponomastica, ma i dati tratti da una ricerca di questo tipo si rivelano insicuri se non sorretti da un più variegato contesto di fonti. Diverse voci germaniche si sono fissate sul territorio lungo un arco di tempo assai ampio, a volte dopo la fine del regno longobardo. Esse perciò non presuppongono di necessità un insediamento longobardo risalente alle prime fasi della conquista o ad una qualche fase databile sulla sola base linguistica. L'unico settore della ricerca longobardistica da cui si attendono ancora risultati e sorprese è quello dell'archeologia 1. Bisogna però notare con rammarico che, dalla scoperta della necropoli di Castel Trosino nel 1893 ad oggi, non si è fatto molto nelle Marche per sviluppare la ricerca sul campo. D'altronde le prospettive future sembrano in gran parte compromesse dagli effetti devastanti di un uso distorto del territorio urbano e rurale (espansione edilizia, lavori agricoli in profondità), un processo che negli ultimi decenni è proceduto in questa regione con ritmi impressionanti. 2. L’assetto amministrativo della regione alla vigilia dell'inuasione longobarda Va premesso che l'attuale regione delle Marche costituisce in questa sede un mero quadro di riferimento geografico, non corrispondendo ad alcuna ripartizione amministrativa dell'Impero romano. Questo settore dè`1 versante adriatico, pur rivelando notevole uniformità dal punto di vista fisico, ha conosciuto sin da fasi protostoriche un netto confine etno-linguistico tra area gallica e area picena, confine che correva all'incirca all'altezza di Ancona e che fu fissato dalle autorità romane sul fiume Esino. A nord di tale fiume l'imperatore Augusto pose la regio V7 (Umbria et ager Gallicus) 2, mentre a sud si estendeva la regio V (Picenum) 3. Con la riforma amministrativa di Diocleziano le due regioni furono unite nell'unica provincia della Flaminia et Picenum 4, nella quale, però, ognuna delle due parti conservava il proprio coronimo. Ma al più tardi all'inizio del secolo V avvenne lo smembramento della regione in Flaminia et Picenum annonarium includente anche Ravenna, e Picenum suburbicarium, il quale si estendeva fino ad Adria e Penne, con confine di nuovo all'Esino 5. Tale divisione, oltre a riflettere l'antico confine etno-linguistico, ricalcava anche i confini di una frattura economica e sociale fra Italia settentrionale, gravitante attorno a Milano e Ravenna e caratterizzata dall'assetto annonario in virtù della sua importanza militare ed economica, e Italia centro-meridionale, gravitante su Roma e che aveva mostrato più precocemente i segni di un declino economico e demografico 6, quantunque alcuni indizi rivelino che la produzione agraria e silvo-pastorale del Piceno riuscisse a conservare in quest'ambito una sua autosufficienza 7. Ma questa situazione di relativa floridezza mutò radicalmente durante la guerra goto-bizantina quando scontri, assedi e devastazioni investirono in maniera particolarmente intensa il settore adriatico da Rimini ad Ascoli, producendo «il collasso economico di una regione agricola» 8. 3. I primi momeni dell'occupazione militare Questa rapida puntualizzazione delle differenziazioni esistenti tra Nord e Sud dell'area marchigiana, rilevabili per il periodo che precede immediatamente la data del 568-69, torna utile quando si affronta il tema specifico dell'insediamento longobardo nelle Marche. I dati delle fonti narrative utilizzabili per ricostruire le fasi e le modalità dell'ingresso dei Longobardi nelle province Flaminia

et Picenum annonarium e Picenum suburbicarium sono assai lacunosi e si prestano ad interpretazioni divergenti. Tuttavia gli eventi ai quali essi si riferiscono sono concentrati in un lasso di tempo abbastanza circoscritto, gli ultimi tre decenni del secolo VI; per cui è pensabile che gruppi germanicu siano effettivamente penetrati in alcune vallate marchigiane in questo periodo. D'altronde anche i materiali della necropoli di Castel Trosino sembrano confermare tale cronologia 9. L'unico evento sul quale l'Historia Langobardorum si diffonde è la vittoria sui Bizantini conseguita a Camerino da Ariulfo, secondo duca di Spoleto, attorno al 591 10. Ma ciò che colpisce l'autore non è tanto il fatto militare in sé, quanto le sue implicazioni di carattere religioso: la prodigiosa apparizione del martire Sabino accanto al ducaspoletino durante lo scontro e il riconoscimento del celeste protettore da parte di Ariulfo nella basilica a questo dedicata in Spoleto 11. Perciò Paolo Diacono potrebbe aver ignorato o passato sotto silenzio altri eventi militari accaduti negli anni precedenti o seguenti la battaglia di Camerino. Il nome del condottiero e il luogo dello scontro, come anche l'attacco alla fortezza di Petra Pertusa al passo del Furlo riferito da Andrea Agnello ai primi anni del pontificato di Pietro seniore vescovo di Ravenna (c. 570-578) 12, fanno ritenere che i Longobardi provenissero dalla zona appenninica. D'altronde il ducato di Spoleto rappresentava nel 591 una forza reale, seppure dai contorni istituzionali ancora in via di definizione. Significativo è il fatto che proprio in quegli anni Gregorio Magno attesti l'interruzione della Flaminia, la via fondamentale per i collegamenti tra Roma e la costa adriatica, pro interpositione hostinm 13. Oal suo epistolario si apprende che i Longobardi avevano catturato alcuni cittadini di Fano, città adriatica posta su un punto nodale del medesimo percorso 14. Si suppone che nello stesso torno di anni sia stata occupata Osimo, di cui lo stesso pontefice ricorda la restituzione all'Impero per effetto della tregua del 598 15. È presumibile che anche Fano sia stata abbandonata dagli occupanti negli anni precedenti la stipulazione della tregua o per effetto di essa. Sulla base del testo di Paolo Diacono non è possibile, per i motivi detti poc'anzi, appurare se i Longobardi spoletini si siano aperta la strada verso il versante adriatico proprio grazie al successo di Camerino. Alcuni dati farebbero pensare che un episodio analogo a quello fanese (cattura di uomini e loro liberazione a seguito di pagamento di riscatto) si fosse già verificato a Fermo attorno al 580 16 e, d'altro canto, non si può escludere una direttrice di penetrazione più meridionale, per esempio lungo la via Salaria verso Ascoli e Castel Trosino. Ammettendo tuttavia che le schiere longobarde fossero nel 591 padrone della zona di Camerino, collegata al tratto umbro della Flaminia attraverso il passo di Colfiorito-Plestia, è lecito ipotizzare che di lì riuscissero a penetrare nell'alta valle dell'Esino 17 - un territorio che farà poi parte del gastaldato di Castel Petroso - e che quindi, attraverso la zona di Sentinum (presso l'odierna Sassoferrato), entrassero nell'alta valle del Cesano. Ed è probabile che l'incursione verso Fano sia stata attuata discendendo lungo quest'ultima vallata, e non lungo il Metauro dove, grazie alla presenza di gole e della strettoia fortificata del Furlo, era possibile bloccare la Flaminia in caso di avanzata nemica, come dimostrano alcuni episodi della guerra goto-bizantina 18. Altre possibili direttrici di penetrazione da Camerino sono le vallate fluviali del Potenza, che i Longobardi potrebbero aver scorso per giungere fino a Osimo e lungo la quale è attestato un altro gastaldato, quello di Settempeda 19, e del Chienti. 4. La Pentapoli In tali frangenti ciò che in queste regioni rimaneva dell'antico ordinamento provinciale fu definitivamente spazzato via. Cominciavano ad emergere due nuove realtà politico-istituzionali, la Pentapoli e il ducato di Spoleto, nel quadro della divisione della penisola italica in due grandi aree: quella occupata dai Longobardi (Langobardia) e l'altra rimasta sotto il dominio dell'Impero (Romaria). Nei territori romanici si avviò un riassetto amministrativo che, rispondendo alle necessità di una efficiente difesa militare, mirava all'accentramento delle funzioni civili e militari nelle stesse mani, mediante la subordinazione dei funzionari civili ai comandanti militari 20, Si trattava, nondimeno,

di una riforma svolgentesi nell'alveo della tradizione tardo-romana, quindi in sostanziale continuità con l'organizzazione economico-fondiaria e con l'intera vita sociale delle popolazioni, che continuavano a far perno sulle città 21, Già negli anni 80 del secolo VI appare costituito l'esarcato d'Italia 22, da cui dipendeva tutta l'Italia bizantina, fatta eccezione per le isole maggiori. Della provincia della Pentapoli, invece, si ha notizia soltanto dal 649 23, ma la sua istituzione dovrebbe essere coeva o di pochi anni posteriore a quella dell'esarcato 24, Compilare un elenco di città e centri minori facenti parte della Pentapoli, per cercare di intuirne l'estensione spaziale, è compito assai arduo 25, poiché una fonte geografica, come Giorgio di Cipro 26, Si riferisce a momenti non determinabili con sicurezza, ponendo altresì seri problemi di identificazione dei toponimi; mentre altre, come il Geografo Ravennate, sembrano rifarsi ad assetti anteriori al 568 quando intercalano città pentapolitane a municipi, a volte scomparsi, della Langobardia 27 Non meno ingannevole è l'elenco di città e castelli restituiti da re Astolfo a seguito del nuovo foedus di Pavia del 756, di cui l'abate Fulrado, incaricato da Pipino, prese possesso per consegnarli al beato Pietro e al suo vicario 28. Sembra tuttavia assodato che Rimini occupasse una posizione preminente all'interno della provincia, data la presenza in questa città di un dux, attestato nel 591 e poi ancora nel secolo VIII 29. Altre città lungo la costa adriatica, il cui governo sarebbe stato di norma affidato a un tribunus 30, dovettero essere Pesaro, Fano, Senigallia, Ancona e Numana. In effetti dalle sottoscrizioni dei vescovi agli atti del sinodo romano del 680 risultano quali città pentapolitane Rimini, Pesaro, Fano, Ancona, Numana e Osimo, mentre ne è esclusa Jesi, il cui vescovo sottoscrive immediatamente dopo il presule di Spoleto e prima di quello di Camerino 31: ciò non apparirà strano, qualora si ponga mente al fatto che i Longobardi si erano incuneati nella valle dell'Esino già alla fine del VI secolo. Espressioni del tipo civitates urarumque Pentapoleos o Decapolis, rare nelle fonti dell'VIII secolo 32, le quali più sovente attestano la dizione unitaria di Pentapolis, non vanno intese come un riferimento alla divisione o sdoppiamento della provincia: esse rappresentano, sul piano letterario, il tentativo di approssimarsi alla consistenza poleografica della stessa. Le città della provincia pentapolense o ducatus Pentapolitanus non furono perciò cinque, e probabilmente nemmeno dieci, in quanto tali cifre sono state dedotte da termini puramente convenzionali esemplati dalla geografia del mondo antico 33. Pertanto la tesi circa l'esistenza di due distinte Pentapoli, l'una marittima e l'altra interna o annonaria, non risulta a mio avviso suffragata dalle fonti di età longobarda 34. Ci si dovrà chiedere, semmai, per quale ragione questo raggruppamento di città, le quali insistono all'incirca sul territorio della tardo-romana provincia della Flaminia, non abbia conservato quest'ultimo coronimo, come avrebbe imposto quel rispetto programmatico del mondo antico caratteristico della cultura medievale 35. L'unica spiegazione plausibile del cambiamento di denominazione è che la Flaminia avesse perso, per effetto dell'occupazione di alcune aree e della minaccia di ricorrenti incursioni da parte dei Longobardi, la sua originaria estensione e quindi la sua continuità territoriale. Occorreva pertanto un nome nuovo per indicare una realtà amministrativa assolutamente inedita: un sistema di città spesso private di un proprio territorio e funzionanti, quelle marittime, come teste di ponte per le comunicazioni da e per il mare; quelle interne, come fortezze lungo i percorsi stradali che collegavano la capitale esarcale Ravenna a Roma 36. Si può ben comprendere, allora, come sia parimenti arduo o forse impossibile, date l'incerta appartenenza di città e castelli e la fluidità della situazione nel corso di due secoli, tracciare precisi confini del ducato pentapolitano in un dato momento. Nel tentare l'impresa, il DieLl attribuì eccessivo territorio a «le Città» 37 (questo il significato storico-geografico di Pentapolis), mentre di recente il Baldetti, pur intuendo la vera natura della provincia, ha probabilmente ecceduto in senso contrario, oltre che nella ricostruzione particolareggiata 38. 5. I caratteri dell'insediamento longobardo La sottolineatura urbana del termine Pentapoli suggerisce un raffronto con i mutamenti intervenuti nel Piceno occupato dai Longobardi e con i caratteri dell'insediamento attuato da questo popolo. A

tutta prima appare in evidenza il fenomeno della scomparsa, o decadenza, dei centri urbani nelle Marche longobarde, mentre nella parte settentrionale della regione si registra la persistenza del fenomeno urbano. Fermo restando che tale persistenza costituisca uno dei principali tratti distintivi dell'intera area esarcale rispetto alla Langobardia 39, occorre meglio precisare i termini del confronto per non trarne deduzioni fuorvianti. Vi è da tener presente, innanzitutto, che il declino demografico e la crisi dell'urbanesimo sono fenomeni che hanno, nell'Italia antica, origini e cause assai lontane 40; inoltre che gli stessi fenomeni si manifestarono in modo più accentuato nelle regioni suburbicarie della penisola 41. I1 Piceno suburbicario è stato visto in questo senso come una regione a vocazione agricola. Già prima dell'invasione longobarda si verificava in alcune sue parti, come l'area compresa fra l'Aso e il Tesino 42 o come il territorio montano a nord-ovest di Ascoli 43, la scarsità o l'assenza di centri municipali. Per questi motivi sarebbe semplicistico incolpare i Longobardi della scomparsa di 12 città picene e di altre situate entro il frammentario dominio bizantino della Pentapoli, molte delle quali, rovinate durante la guerra goto-bizantina, apparivano in grave crisi nella seconda metà del VI secolo 44. D'altro canto tali vicende rivelano pure aspetti contraddittori poiché, se è vero che le città vescovili delle Marche di dominio longobardo rimasero appena tre (Camerino, Fermo e Ascoli), va aggiunto che soprattutto due di esse, Fermo e Camerino, assunsero nel corso dell'alto medioevo un ruolo politico-istituzionale ben più incisivo rispetto alle città pentapolitane, quasi che questi centri avessero polarizzato su di sé la vita e le istituzioni cittadine dell'intera regione picena. Ma vi è un altro aspetto sul quale conviene soffermarsi, l'altrettanto evidente decadenza delle città dell'area pentapolitana. Alcune di esse furono abbandonate (Cupra Montana e Planina nella valle dell'Esino, Ostra nella valle del Misa, Suasa nella valle del Cesano, Pitinum Mergens nella valle del Metauro-Candigliano, Pitinum Pisarense nella valle del Foglia); altre subirono una netta perdita di importanza (soprattutto Tifernum Mataurense e, in maniera meno accentuata, Forum Sempronii nella valle del Metauro) 45. Da quel poco che ci dicono le fonti si ricava l'impressione che nemmeno la situazione delle città marittime, e di quelle situate lungo il collegamento stradale Roma-Ravenna, fosse molto diversa 46. Ma queste ultime furono tenute in vita dalle autorità bizantine per esigenze strategico-militari e preservate così dal rischio di estinzione. Il loro carattere di piazzeforti risalta dal fatto che gran parte di esse vengono ormai equiparate a dei castra 47. E fu per la stessa ragione strategico-militare che i Longobardi abbandonarono al loro destino le città della costa a sud di Numana, ritenendole ormai indifendibili da attacchi dal mare, mentre le caratteristiche del loro insediamento e la cultura di cui essi erano portatori non lasciavano adito a interventi di rivitalizzazione delle morenti città dell'interno 48. Sul piano dell'evidenza archeologica il caso di Castel Trosino suggerisce l'ipotesi di un insediamento longobardo per castra nelle Marche 49; un'ipotesi che riceve conferma dall'ordinamento territoriale, se è vero che Castel Petroso (l'odierna Pierosara), sito alla confluenza dell'Esino con il suo affluente Sentino, divenne in seguito il centro di un gastaldato 50. Allo stesso modo che in altre regioni, i Longobardi si limitarono probabilmente ad occupare centri fortificati già esistenti, organizzati dall'Impero nel periodo in cui le prime incursioni barbariche avevano acuito l'esigenza della difesa territoriale in Italia 51. Un'ulteriore conferma della tendenza all'insediamento accentrato in luoghi naturalmente o artificialmente muniti è data dall'intenso processo di incastellamento che si manifesterà nei territori marchigiani di antico dominio longobardo almeno a partire dal secolo X. Tuttavia, se una caratteristica fondamentale di tale forma di insediamento consisteva nell'utilizzo di strutture già esistenti più che nella creazione di nuove, fermo restando il criterio di scelta strategicomilitare agli invasori si sarà offerta l'opportunità dell'occupazione di ville e fattorie, di villaggi rurali 52 e, da ultimo, delle città superstiti. Queste ultime, del resto, in quanto luoghi fortificati garantivano un ruolo non secondario nel contesto della difesa e del controllo dei territori su cui i Longobardi estesero il dominio. Esse poi, con il passaggio graduale dall'occupazione militare

all'insediamento stabile e con la trasformazione dei liberi longobardi in possessores e cives, ricominciarono ad esercitare nell'intera Langobardia un'attrazione verso la popolazione rurale 53. I relitti linguistici non offrono un contributo decisivo all'individuazione degli insediamenti barbarici nelle Marche. Presenti nella toponomasticama in misura piuttosto esigua se raffrontata con quella di altri territori del ducato di Spoleto - le voci longobarde fara e sala 54, Si nota invece una larghissima diffusione dei toponimi del tipo gualdo (dal germanico wald “bosco”) 55, il che potrebbe significare una prevalenza delle attività silvo-pastorali su quelle agricole, ma anche il perdurare di preoccupazioni di ordine strategicomilitare e giuridico-amministrativo, che non avrebbero consentito ai nuovi dominatori di familiarizzare con territorio e popolazione locale 56, Va notato d'altronde che queste tre voci sono attestate, nella stessa proporzione, anche nel Nord della regione, in particolare in quelle zone in cui la lontananza dai porti pentapolitani e dalle vie di comunicazione tra Ravenna e Roma consentirono una stabile occupazione longobarda. Ad esse si aggiungono qui i toponimi derivanti dall'etnico bulgaro 57, i quali hanno fatto discutere storici e linguisti, in quanto alcuni ne sostengono l'origine da burgus, altri li mettono in relazione con stanziamenti di foederati dell'Impero 58. Tuttavia la loro localizzazione per lo più in aree caratterizzate dalla presenza di toponimi di origine germanica nonché da strutture economicofondiarie tipiche della Langobardia fanno propendere, nel nostro caso, per la tesi che vede nei Protobulgari di razza mongolica una popolazione guerriera alleata dei Longobardi 59. La riprova che il criterio strategico-militare fosse seguito, pur con differenti risultati, da entrambi i contendenti nel valutare il ruolo dei centri urbani è fornita dal singolare caso di Cagli, che ascese al rango di città proprio nel periodo di transizione tra tarda antichità e alto medioevo 60. I1 toponimo Callis è inequivocabilmente legato alla viabilità montana: la sua ubicazione sulla Flaminia, prima che la strada si infili fra le due dorsali appenniniche del monte Falterona e del Catria superando una barra trasversale al passo della Scheggia, faceva risaltare l'importanza che il controllo di questo territorio rivestiva 61, Cagli del resto, era collegata al castrum di Luceolis, la cui prima attestazione è significativamente in relazione con la liberazione, da parte dell'esarco Romano nel 592, del ramo occidentale della Flaminia, la via Amerina 62. Da Luceoli, situata nei pressi di Pontericcioli a sud della dorsale del Catria e quindi in posizione opposta a quella di Cagli, si staccava appunto la via Amerina. Città e castello formavano dunque un unico sistema di controllo del punto chiave in cui la Flaminia, dopo aver valicato l'Appennino, si staccava dal suo ramo orientale, caduto nelle mani dei Longobardi spoletini. Ancor più singolari furono, sul fronte opposto, le circostanze che avrebbero favorito il sorgere della diocesi di Montefeltro, I'odierna San Leo. Conquistato dai Longobardi di Arezzo nel primo ventennio del VII secolo, quando questi invasero la media e alta valle del Tevere, questo castello divenne poco dopo, secondo il Lombardi 63, sede vescovile con il preciso compito di intraprendere un'azione missionaria tra i Longobardi ariani in un territorio compreso fra la riva destra dell'alto Savio e la sponda sinistra dell'alto Foglia. 6. Il ducato di Spoleto e le sue articolazioni periferiche in area marchigiana Poiché, tra i Longobardi, furono gli Spoletini i protagonisti del conflitto che li oppose, al di qua e al di là dell'Appennino umbro-marchigiano, all'Impero dei Romani fin dagli anni 70 del secolo VI, è opportuno richiamare brevemente la questione della fondazione del ducato di Spoleto. Su di essa intervenne nel dopoguerra G.P. Bognetti, formulando una tesi originale sui tempi e sui modi di una tale genesi 64. La quale tesi non è senza conseguenze sulla visione complessiva dell'insediamento longobardo nelle Marche, poiché coloro che hanno sviluppato l'idea bognettiana fanno derivare la fondazione del ducato da un ripiegamento di federati barbarici ribelli dalla costa adriatica, dove sarebbero stati stanziati dai Bizantini, e non da una avanzata dei Longobardi di Alboino da nord lungo la dorsale àppenninica 65. Stante tuttavia l'assoluta carenza di dati relativi al complesso degli eventi, una tesi siffatta ST muove su un piano in larga parte congetturale traendo spunti da notizie troppo frammentarie, di cui cerca di forzare l'interpretazione. La si può accettare, con riserva, solo

per ciò che riguarda la cronologia della presenza di contingenti longobardi nell'Italia centrale (dal 576) e per la consideràzione del carattere autonomo e disordinato delle conquiste compiute in quel frangente dagli stessi invasori. In quest'ottica l'insuccesso dell'offensiva guidata dal curopalate Baduario nel 575-576, posto come evento determinante la ribellione di Faroaldo e dei gruppi longobardi federati, sposterebbe di qualche anno più avanti la fondazione del ducato spoletino 66, mentre la tradizione storiografica ne scorgeva le origini già al tempo del regno di Alboino (571) 67. Le vicende del ducato, sulle quali cala il silenzio delle fonti per ciò che attiene al secolo VII, si svolsero comunque sulla linea della completa autonomia dal regno longobardo almeno sino al re Grimoaldo, il quale riuscì a porre in Spoleto un duca di sua fiducia, Trasmondo, già conte di Capua 68. Più che una certa dinamica istituzionale ancora legata alle strutture tribali dei Longobardi, era la collocazione geografica di Spoleto, separata dal regnum da barriere naturali e da sia pur frammentari domini bizantini, a fomentare la tendenza all'autonomismo. È legittimo, allora, chiedersi quale sia stata la posizione dei duchi spoletini di fronte alle tregue o alle paci sottoscritte dagli esarchi e dai sovrani longobardi. Se la restituzione di Osimo lascia intendere che la tregua del 598 impegnasse anche Spoleto, un'epistola di Gregorio Magno chiarisce a questo proposito che Ariulfo, il quale aveva già raggiunto un accordo col pontefice nel 592 ricevendone probabilmente forti somme di denaro 69, giurò il mantenimento della tregua separatamente dal re e ponendo condizioni particolari 70. Perciò il pontefice aveva motivo di dubitare della fides di Ariulfo: scrivendo infatti alla fine del medesimo anno al re Agilulfo, lo esortava ad ordinare ai duchi, et maxime in bis partibus constitutis, di rispettare la pace 71. È parimenti dubbio che, dal 603 fino alla pace del 680, con analoghi accordi di tregua sia stata garantita la cessazione di ogni sorta di ostilità fra ducato ed esarcato 72. La conquista di Jesi da parte dei duchi di Spoleto nel corso del VII secolo, anteriormente al 680, presuppone nuove ondate offensive degli Spoletini ai danni delle città della Pentapoli 73. In seguito, la notizia, riferita da Paolo Diacono (e sulla quale in verità è stato espresso più di un dubbio) 74 circa la temporanea presa di Classe, forse nel 712-713, daparte del duca Faroaldo II 75, rappresenta comunque un indizio del protrarsi, o della ripresa, di uno stato di guerra nell'Italia centrale nonché una prova della consapevolezza che i Longobardi del regno avevano dell'autonomia spoletina e dell'estraneità del ducato ai trattati e accordi che impegnavano i loro sovrani. Fu soltanto con Liutprando che la monarchia longobarda riuscì ad aprire reali prospettive di controllo politico e militare se non, in maniera stabile, sulla stessa sede ducale, almeno sul settore spoletino ad est dell'Appennino e sulla Pentapoli 76. Prima di allora i rapporti dei gruppi longobardi insediatisi in territori marchigiani con il regnum dovettero essere assai limitati, mentre emergono indizi di legami politico-istituzionali con Spoleto e con il resto del ducato. Il Geografo Ravennate chiama provincia Spolitium Sanciensis il settore adriatico a ridosso della Pentapoli pertinente al ducato longobardo. Lo Schnetz ha proposto la correzione dell'attributo Sanciensis in Savinensis (=Sabinensis) 77. Altro indizio della presenza spoletina nel Piceno è offerto dalla dedicazione di due chiese del Fermano a san Savino, il santo patrono dei Longobardi spoletini, durante il pontificato di Gregorio Magno 78. Tale agionimo, d'altronde, è assai diffuso su tutto il territorio marchigiano. Bisogna attendere la documentazione farfense relativa al pieno secolo VIII per avere utili elementi onde tentare di delineare la struttura periferica del ducato e le sue articolazioni in ambito marchigiano. Da fonti così tarde è arduo farsi un'idea del peso esercitato dalle strutture tribali dei Longobardi, prima fra tutte la fara 79, sull'evoluzione istituzionale dell'entità politica spoletina, dalle forme di insediamento, nei castra e nelle civitates, sino alla definizione di competenze territoriali dei funzionari ducali. Alcuni comites risultano presenti in qualità di testimoni in un documento redatto nel palazzo ducale di Spoleto nel 748: uno di questi, Rabenno, era con tutta probabilità conte di Fermo 80. Sono noti altri due comites aventi sede in città marchigiane, Lupo di Fermo e un altro Lupo di Ascoli nel 776 81, quando reggeva ancora il ducato il longobardo Ildeprando. Mancano invece dati sicuri sulla contemporanea esistenza di gastaldi nella regione.

Secondo il Gasparri la figura del comes spoletino rappresenterebbe semplicemente uno sviluppo tardivo e contraddittorio del gastaldo, il quale rimane, pur con alcune eccezioni, difficilmente associabile a un determinato territorio 82. I1 Bertolini collega la ripresa e la sistemazione dell'istituto comitale all'avvento in Spoleto del duca Lupo attorno al 745. Da allora i comites furono preposti a grandi circoscrizioni amministrative, con sede stabile nei rispettivi capoluoghi e con funzioni che spaziavano dall'ambito civile a quello militare 83. Anche Camerino potrebbe essere stata la sede di qualcuno di quei comites dell'VIII secolo, di cui le fonti farfensi non specificano il luogo di appartenenza 84: in questa città è comunque attestata la presenza del gastaldo in età carolingia 85. Oltre ai gastaldati-contee delle tre città picene, solo nel secolo X si ha menzione di altri gastaldati, i quali trovano sede in alcuni castra. Si tratta appunto del gastaldato di Castel Petroso, di cui tuttavia si può supporre l'esistenza già in età carolingia 86, mentre il suo ambito territoriale ricadeva nell'alto bacino dell'Esino e nelle valli degli affluenti Sentino e Giano, affacciandosi nell'alto Misa e coprendo in definitiva l'estremo lembo settentrionale della diocesi di Camerino 87; e del gastaldato Subtempidano il quale, pur traendo il nome dalla decaduta città di Septempeda, aveva probabilmente il suo centro nel vicino castello qui dicitur ad Sanctum Severinum (San Severino Marche), contestualmente documentato 88. Esso si distendeva lungo il fiume Potenza e sempre entro la diocesi di Camerino, occupandone presumibilmente l'estremità orientale in direzione dello sbocco vallivo. Questi particolari inducono a ritenere che si tratti di due gastaldati minori 89, organizzati attorno a luoghi fortificati (llvenutl, si Ignora quando precisamente, centro della circoscrizione. La circoscrizione di castello è ad ogni modo un organismo riscontrabile altrove per l'età longobarda 90 non esclusi i territori romanici (esempi vicini sono costituiti da Luceoli 91 e da Conca nel Riminese 92): la sua esistenza appare connessa con un sistema di difesa limitanea che possa nel contempo costituire la premessa per future azioni di conquista dei territori vicini. In questo caso, tuttavia, potrebbe trattarsi di suddivisioni del territorio di Camerino inglobanti alcune zone appartenute a civitates decadute o scomparse (Attidium e Tuficum per Castel Petroso e Septempeda per il gastaldato omonimo), su cui la città aveva in seguito esteso la sua giurisdizione. Il Baldetti e, sia pur in forma dubitativa, il Villani 93, prendono in considerazione un terzo organismo territoriale, il gastaldato Frisiano che, menzionato in un unico documento del 1066 94 sembrerebbe situato nel comitato di Nocera ai confini con il gastaldato di Castel Petroso ed estendentesi su alcuni lembi del territorio marchigiano. Tuttavia il suddetto documento è spurio e non anteriore al secolo XII: il che lo rende sospetto, poiché la creazione di una circoscrizione poteva in quel momento rispondere agli interessi di un comune (o di un monastero) impegnato in qualche conflitto territoriale o patrimoniale. Il Baldetti ipotizza inoltre un'origine regia dei tre gastaldati di Castel Petroso, di Settempeda e Frisiano; ma ciò non sembra fondato, se si considera, per esempio, che il territorio di Castel Petroso è compreso nel ducato di Spoleto ancora nel secolo XI, come dimostrano decine di carte dell'abbazia di San Vittore delle Chiuse 95. Se la tendenza del ducato, nel corso dei secoli dall'alto al pieno medioevo, è quella di perdere - e non di acquistare - i territori a est dell'Appennino, sarebbe davvero strano che verso la fine dell'età longobarda o durante l'età carolingia Spoleto riuscisse ad espandere la sua influenza su aree controllate, secondo l'ipotesi del Baldetti, dalla monarchia longobarda fin dal regno di Autari o di Agilulfo, senza nel contempo scontrarsi con la politica di Carlo Magno e dei suoi successori, assai diffidenti nei confronti di un ducato periferico ed impegnati a ridimensionarne l'ambito territoriale mediante suddivisioni che favorivano proprio il distacco dei distretti fermano e camerte. Ancora più controversi sono i ministeria del territorio fermano, attestati dalla fine dell'età carolingia sino alla metà del secolo XII. La Taurino ha creduto di scorgervi una persistenza della distrettuazione minore di età longobarda 96, ma altri studiosi hanno proposto ipotesi diverse circa la natura e soprattutto i tempi di costituzione di tali organismi, che sarebbero molto più tardi 97. 7. Gli interventi dei sovrani longobardi e l'istituzione dei ducati marchigiani

Gli interventi dei sovrani longobardi nella regione, attuati a seguito di spedizioni organizzate di conquista nel corso dell'VIII secolo, produssero sostanziali modificazioni nell'assetto giuridicoamministrativo sia del settore pentapolitano, dove i re erosero, fino ad eliminarle, le ultime sopravvivenze dell'amministrazione esarcale e bizantina, sia del Piceno spoletino. Qui comincia a farsi strada la tendenza al distacco da Spoleto e alla formazione di ducati di gastaldati-contee nei centri nevralgici delle Marche longobarde, vale a dire Fermo e Camerino. Liutprando, approfittando del moto di ribellione suscitato dall'estensione all'Occidente del decreto iconoclasta di Leone III l'Isaurico, attuò nel 727 un piano che mirava alla conquista del triangolo strategico Ancona-OsimoNumana, attraverso il quale erano soliti afiluire via mare dall'Oriente rifornimenti e truppe per l'esarcato 98. Qui - ma le fonti non sono così esplicite al riguardo 99 - egli avrebbe istituito i due ducati indipendenti di Ancona e di Osimo 100. L'altro obiettivo che il re si proponeva era infatti quello di sbarrare la strada ad ogni ulteriore velleità espansionistica dei duchi di Spoleto a nord del Musone 101, mettendo così in chiaro che la Pentapoli sarebbe stata, d'ora in avanti, terreno di conquista della monarchia longobarda. Più tardi lo stesso sovrano, pur incontrando resistenze da parte dei Romani e degli Spoletini, marcia alla testa delle sue truppe tra Fano e Fossombrone, proprio lungo il ramo principale della Flaminia 102 e, durante una sosta nella Pentapoli, riceve doni e benedizioni da parte degli abitanti e delle chiese del luogo 103. Risulta dunque assodato che la monarchia longobarda, di cui Liutprando rappresenta la massima espressione, riuscì ad infliggere colpi durissimi all'autonomismo spoletino, imponendo di fatto la nomina ducale da parte del re 104. Emblematiche, a questo riguardo, la deposizione, dopo alterne vicende, del duca Transamondo II da parte dello stesso Liutprando nel 742 e la sua sostituzione con il nipote del re Agiprando 105. Quest'ultimo non riuscl a reggersi dopo la morte dello zio (744), ma il suo successore Lupo fu uno dei duchi più legati a Pavia 106. È in questa fase che ritroviamo a Fermo il conte Rabenno, ancora legato al palatium di Spoleto 107. Nella seconda metà del secolo, tuttavia, I'evoluzione dei rapporti fra duca spoletino e territori marchigiani procedette in direzione del distacco di questi ultimi dall'antica sede ducale. Sotto il regno di Astolfo un Bacaudanis exercitalis chiese all'arcivescovo Sergio di Ravenna sei once di tre fondi situati nel territorio di Osimo 108. Il documento, unica testimonianza d'età longobarda relativa a un exercitalis 109 insediato in territorio marchigiano, costituisce altresì una spia della presenza regia in questo settore strategico della Pentapoli, oltre che dei buoni rapporti instauratisi fra il sovrano longobardo e il presule ravennate all'indomani della conquista della capitale dell'esarcato da parte dello stesso Astolfo 110. Ancor più esplicita è l'iscrizione di Falerone del 770, datata ai tempi di Tasbuno duca di Fermo posposto agli anni di regno di Desiderio e di Adelchi 111: si tratterebbe pertanto della più antica testimonianza relativa al ducato di Fermo, istituito nell'ambito del regnum Langobardorum e operante sotto la diretta autorità del re. Nel 772 Adelchi, nel confermare i possessi del monastero di San Salvatore di Brescia, accennava alle possessiones et curtes provenienti dal fisco regio e ducale, situate anche nel Fermano e nell'Osimano 112: il diploma riconosce un posto preminente, nella geografia politica longobarda, ai fines Firmani e Ansemani, dal momento che li equipara a quelli spoletini e beneventani. Come si vede, l'istituto ducale si diffonde ora in città marchigiane appartenenti ad entrambi i settori geo-politici della regione. E ancora, fonti documentarie ci mostrano un certo Sergio duca di Senigallia e suo figlio Tommaso, che non è più duca, quali donatori di terre situate nel territorio di quella città a favore di due monasteri settentrionali, San Michele Arcangelo di Brondolo presso Chioggia e Santa Maria di Sesto nel Friuli, negli anni 800, 808 e 809 113. Si hanno fondati motivi per ritenere che Sergio, noto anche alla cronachistica veneziana 114, discenda da una stirpe longobarda friulana, o comunque austriana, insediata nella città pentapolitana da Ratchis o, più probabilmente, da Astolfo 115. La sua famiglia sarebbe riuscita a resistere a due successivi interventi di Desiderio, nel 764 circa e nel 772, contro Senigallia e altre città pentapolitane, o comunque a ritornarvi a seguito della sconfitta di Desiderio ad opera di Carlo Magno e della fine del regno longobardo indipendente l16.

Spregiudicatezza politica e autonomismo locale furono i due fattori che animarono, nelle Marche e altrove, lo scenario di una delicata fase di transizione dalla dominazione longobarda alla renovatio Imperii carolingia. Il duca Ildeprando ne è l'esempio più clamoroso 117. Ma la sottomissione al papa dei rappresentanti dell'aristocrazia spoletina, allorché si profilava la disfatta di Desiderio, fu immediatamente seguita da quella dei Longobardi dei ducati di Fermo, Osimo e Ancona 118. Si ha l'impressione che questo scarno elenco di ducati - agli occhi della curia romana i più importanti dal punto di vista politico e militare e oggetto delle più recenti rivendicaziopi da parte dei papi - sia puramente indicativo e che nasconda una più larga diffusione di organismi grandi e piccoli nati dalla dissoluzione dell'amministrazione bizantina al nord e da spinte centrifughe al sud della regione. Tali spinte sembrano temporaneamente frenate negli anni 776-781, se si tengono presenti i documenti attestanti di nuovo la presenza dei comiles a Fermo ed Ascoli, nonché il loro legame con la corte di Spoleto 119; ma ciò dovrebbe essere il risultato della politica accentratrice dell'ultimo duca longobardo Ildeprando, che dalla tradizione spoletina traeva motivi per rivendicare il controllo dei territori orientali del ducato; e costituisce altresì la riprova che i ducati marchigiani rispondevano all'interesse della monarchia longobarda di ridimensionare l'autorità ducale di Spoleto 120. Non appena, però, la monarchia franca ebbe preso le misure nei confronti del ducato e dopo l'insediamento del primo duca franco a Spoleto, venne sancita la separazione, gravida di conseguenze per i futuri assetti politico-amministrativi della Marca medievale, fra i ducati di Spoleto e di Fermo 121. 8. Verso la Marca Il ducato di Fermo, che diventerà marca fermana in età postcarolingia, fu la più importante eredità lasciata dai Longobardi alla regione, denominata Marca fino agli inizi del secolo scorso. Il primato della scuola di questa città, sottolineato dal capitolare olonense di Lotario I dell'825 122, rispecchia quindi una consolidata preminenza di Fermo sugli altri centri delle Marche meridionali, inclusa la stessa Camerino 123. Basti osservare che le scuole ivi menzionate trovano sede nelle città politicamente più importanti dell'Italia longobarda, cominciando da Pavia per finire a Forum Iulii. A1 termine dei due secoli longobardi l'aristocrazia funzionariale, di cui l'omonimo figlio del conte Rabenno e sua moglie Alerana rappresentano - pur nel coinvolgimento in tragici eventi 124 l'espressione matura, si avviava a divenire aristocrazia fondiaria, grazie ai suoi legami con l'abbazia di Farfa, un'istituzione monastica protetta dai duchi di Spoleto, poi dai re longobardi e quindi dalla monarchia franca 125, e con altri enti ecclesiastici, fra cui la stessa chiesa vescovile fermana. La penuria di fonti non permette di andare oltre nell'indagine sulla società longobarda della regione. Ma i successivi documenti vi testimoniano la presenza di famiglie di possessores di estrazione longobarda e, infine, l'organizzazione di strutture di potere signorile che da questi prese origine. ROBERTO BERNACCHIA

1 P DELOGU, Longobardi e bizantini in Italia, in La storia. I grandi problemi dal medioevo all'età contemporanea, 11/2, Torino 1986, PP. 145-169, Cfr. PP. 149-151. 2 R THOMSEN, The Italic Regions from Augustus to the Lombard Invasion, Copenaghen 1947, PP.120-124.

3 THOMSEN, op. cit., PP. 109-112; N. ALFIERI, La regione V dell'ltalia augustea nella Naturalis historia, in Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario, Como 1982, PP.199219. 4 THOMSEN, op. cit., PP.217-221; N. ALFIERI, Le Marche e la fine del mondo antico, in Istituzioni e società nell'alto medioevo marchigiano, Atti e memorie della Deputazione di storia patria per le Marche,86 (1981), Ancona 1983, PP.934, cfr. pp. 10-11; A. CHASTAGNOT Notes chronologiques sur l'Histoire Auguste et le Laterculus de Polemius Silvius, Historia IV (1955), PP.173-188, cfr. in part. le pp. 176-180 e ID., L'administration du Diocèse Italien au BasEmpire, «Historia», Xll (1963), PP.348-379, in part. le pp. 360-362. 5 THOMSEN, Op. cit., PP. 221-230; ALFTERT, Le Marche cit., pp. 13-14; G. CLEMENTE, La creazione delle province di Valeria e di Picenum suburbicarium, «Rivista di filologia e di istruzione classica», 96 (1968), PP. 439-448 e ID., Ancora sulle province di Valeria e Flaminia et Picenum «Rivista di filologia e di istruzione classica», 97 (1969), PP. 179-184. 6 A CARTLE, Dal Vall'VIII secolo, in Storia della Emilia Romagna, a cura di A. Berselli, Bologna 1976, PP. 333-363, cfr. pp. 333-337; P.M. CONTI, Il ducato longobardo di Spoleto e la storia istituzionale dei Longobardi, Spoleto 1982, PP. 12-15. 7 ALFIERI, Le Marche cit., pp. 20-21. 8 Ibidem, p. 29. 9 O. VON HESSEN, Alcuni aspetti della cronologia archeologica riguardanti i Longobardi in Italia, in Atti del 6° Congresso internazionalc di studi sull'alto medioevo, 1, Spoleto 1980 PP. 123-130, ID., Testimonianze archeologiche longobarde nel ducato di Spoleto, inAtti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, I, Spoleto 1983, PP. 421-428, cfr. p. 425. Si veda in proposito in questi atti la relazione di L. Paroli. 10 PAULT Historia Langobardorum, IV, 16, edd. L. Bethmann et G. Waitz, in M.G.H Script. rer. Lang et Ital., Hannoverae 1878, PP. 121-122; cfr. B. FELTCTANGELT, Longobardi e Bizantini lungo la via Flaminia nel secolo VI. Appunti di corografia storica, Camerino 1908, 11 GASPARRT, I duchi longobardi, Roma 1978, p. 75. 12 AGNELLI QUI ET ANDREAS Liber pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 95, ed. O. HolderEgger, in M.G.H., Script. rer. Lang. cit., p. 338; cfr. FELTCTANGELT, op. cit., pp. 10-ll. 13 GREGORII I PAPAE Registrum epistolarum, il, 28, edd. R Ewald et L.M. Hartmann, in M.G.H., Epist., I, 23ed., Berolini l9S7, pp. 124-125: v.a. II, 7 (pp. 105-106), II, 32 (pp. 128-129) e II, 33 (pp. 129-130). 14 Reg. ep., II, 45, ed. Cit., pp. 143-146; cfr. FELCIANGELI, op. cit., pp. 71 -73, e R. BERNACCHIA, L'assetto territoriale della bassa valle del Cesano nell'alto medioevo, in Istituzioni e società Cit. (a nota 4), pp. 683-714, a p. 704. 15 Reg. ep., IX, 66, 67, 99 e 1OO, ed. L.M. Hartmann, in M.G.H., Epist., II, 2° ed. Berolini 1957, pp. 85-88 e 108-109; PAULT Hist. Lang., IV, 8, 9, 12, ed. cit., pp. 118-120 e 121 16 GREGORTT Reg. ep., IX, 51 e 52, ed. cit., II, pp. 76-77; cir. FELCIANGELI, op. cit., pp. 29-30. 17 N. ALFTERT, La Pentapoli bizantina d'ltalia, «Corsi di cultura sull'arte ravennate e bizantina», XX (1973), pp. 7-18, cfr. p. 16: l'A. mette in rilievo «il punto critico della linea del confine bizantino» nel territorio di Fabriano e nell'alto bacino dell'Esino. Sulla via della 8pina, che collegava direttamente Spoleto aPlestia, e sull'importanza nevralgica di quest'ultimo centro di valico cfr. G. SCHMIEDT, Contributo della foto-interpretazione alla conoscenza della rete stradale dell'Umbria nell'alto medioevo, in Aspetti dell'Umbria dall'inizio del secolo VIII alla fine del secolo Xl (Atti del III Convegno di studi umbri), Perugia 1966, pp. 177-210, part. pp. 192-195. 18 PROCOPIO DI CESAREA, La guerra gotica, II, 11 e IV, 28, a cura di D. Comparetti, II, Roma 1896, pp. 69-74; III, Roma 1898, pp. 218-219. 19 Sul percorso stradale Nuceria-Ancona v. K. MILLER, Itineraria Romana. Romische Reisewage an derHandder TabulaPeutingeriana, Roma 1964, col.305, G. RADKE, Viae publicae Romanae, Bologna 1981, pp. 235-239, cfr. FELCIANGELI, op. cit., p. 45 e ALFIERI, La Pentapoli Cit., p. 16. Secondo E. BALDETTI, Le basse valli del Musone e del Potenza nell'alto medioevo, in E BALDETTI et al., Le basse valli del Musone e del Potenza nel medioevo, Recanati 1983, pp. 7 -18, cfr. p. 8, i Longobardi conquistarono il basso Potenza già attorno al 580. 20 Ch. DIEHL, Études sur l'administration byzantine dans l'exarchat de Ravenne (568 751), Paris 1888, pp.7-23; CARTLE, Dal VII VIII secolo cit., pp.346-351, V. VON FALKFNHAUSEN, I Bizantini in Italia, in I Bizantini in Italia, Milano 1982, pp. 1-136, cfr. pp.32-36.Si rimanda a T.S. BROWN, The Interplay between Roman et Byzantine Traditions and Local Sentiment in the Exarchate of Ravenna, in Bisanzio, Roma e l'ltalia nell'alto medioevo (Settimane C.I.S.A.M., XXXIV), II,Spoleto 1988, pp.127-160, in part.alle pp.127-131 per la bibliografia sull'esarcato e alle pp. 135-137 sulla costituzione dell'esarcato e la militarizzazione della società. 21 Un efficace inquadramento sul ruolo delle Città e sull'emergere di una aristocrazia rnilitare in età esarcale è ora in A. CARTLE, Materiali di storia bizantina, Bologna 1994, pp. 93 22 CARTLE, Dal V all’VIII secolo Cit., p. 347 (fra 572 e 582); VON FATKENHAUSEN, op. cit., pp. 12-13 (primi anni dell'imperatore Maurizio); BROWN, op. cit., p. 135 (attorno al 584). 23 MIGNE, P.L., 87, coll. 103-106 (Mauri, Ravennatensis archiepiscopi, epistola unica, ad Martinum pontificem Romanum adversus monothelitarum haeresim), part. col. 103 (greco) e col. 104 (latino). 24 DIEHL, Op. cit., pp. 24-26; A. GUILIOU, Régionalisme et indépendance dans l'Empire byzantin au VIIe siècle. L'exemple de l'Exarchat et de la Pentapole d'ltalie, Roma 1969, pp. 147-149; ALFIERI, La Pentapoli cit., p. 11. 25 Il DIEHL, OP. cit., pp. 60-62, distingueva 1'Auximanum, separato dalla Pentapoli e comprendente Osimo e Numana, la Pentapoli marittima (Rimini, Pesaro Fano, Senigallia Ancona), la Pentapoli annonaria (Urbino, Fossombrone, Jesi,

Cagli, Gubbio) e, collegata a quest'ultima la provincia castellorum (S. Marino, Montefeltro, Pennabilli, Petra Pertusa Luceoli, Tadinum-Validum, Acerrengium, Serra e Conca). Il GUILLOU, Régionalisme cit., pp. 56-58 redige un elenco assai confuso di civitates, castra e altre località (nel quale appaiono identificazioni piuttosto discutibili), in parte riprendendo dal Diehl, ma senza specificare la loro provincia di appartenenza. Più cauto l'ALFIERI, La Pentapoli cit., pp.11-12, che già rilevava la non corrispondenza numerica delle città della Pentapoli marittima e l'incertezza sulle civitates e castella della Pentapoli interna. Ritorna all'attribuzione all'originaria Pentapoli marittima delle cinque città portuali già indicate dal Diehl E. BALDETTI, Per una nuova ipotesi sulla conformazione spaziale della Pentapoli. Rilievi topografico-storici sui toponimi di area pentapolitana, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 779-894, cfr. pp. 842-843 e 857 mentre (pp. 860-861, v.a. nota 213) assegna alla Pentapoli mediterranea Sarsina, Città di Castello, Urbino, Fossombrone e Gubbio, pur con il dubbio riguardante Città di Castello la quale, agli inizi del sec. VIII (periodo nel quale si sarebbe costituita questa seconda Pentapoli) poteva essere già sede di gastaldato longobardo: in questo caso la quinta città dovrebbe ricercarsi in Cagli. ll Baldetti ritiene altresì possibile che la seconda denominazione di Pentapoli possa essere stata coniata ad imitazione della precedente e non corrispondere necessariamente a un complesso di cinque città. 26 GEORGII CYPRI Descriptio orbis Romani, ed. H. Gelzer, Lipsiae 1890, pp. 31-32, Le Synekdèmos d'Hiéroblès et l'opuscule geographique de Georges de Chypre, texte, introduction, commentaire et cartes par E. Honigmann, Bruxelles 1939, pp. 53-54, cfr. PM. CONTI, L'Italia bizantina nella "Descriptio orbis Romani" di Giorgio di Cipro, estratto da «Memorie della Accademia lunigianese di scienze "G. Cappellini"», XL (1970), La Spezia 1975, pp. 11-12 e 21-26: le città che sarebbero entrate a far parte della Pentapoli vengono assegnate, insieme ad altri centri dell'Italia bizantina, alla provincia detta Annonaria comprendente, al tempo di Tiberio II, la regione nord-adriatica della penisola. L'opera di Giorgio di Cipro, che sarebbe anteriore alla costituzione dell'esarcato d'ltalia, si riferirebbe infatti a tale periodo. 27 RAVENNATIS ANONYMI Cosmographia (IV, 31 e V, 1) et GUIDONIS Geographica (21 e 69-70), ed. J. Schnetz, Lipsiae 1840, pp. 68 e 84, 117 e 129. 28 Le Liber pontificalis (Stephanus II, 252-254), texte, introduction et commentaire par L. Duchesne, I, Paris 1955, pp. 453-454. 29 GREGORII Reg. ep., I, 56, ed. cit., I, p. 80, cfr. DIEHL, op. cit., pp. 9 e 25-26. Sul duca Maurizio dell'anno 769 v. Liber pontificalis, Stephanus III, 282, ed. cit., p.477, cfr. A. CARILE Continuità e mutamento nei ceti dirigenti dell'esarcato fra VII e IX secolo, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 115-145, a p. 120. Si riscontra un altro duca, Martino, a Rimini in due registrazioni del Breviarium Ecclesiae Ravennatis (Codice Bavaro). Secoli VII-X a cura di G. Rabotti, Roma 1985, p. 23 n. 39 e pp. 39-41 n. 76, databili, con qualche dubbio, al sec. VIII, ma che CARILE, Continuità e mutamento cit., p. 141, data all'850-878. 30 CARILE, Continuità e mutamento cit., pp. 127-131. 31 J.D. MANSI, Sacrorum conciliorum nova et amplissima collectio, XI, Florentiae 1765, coll. 301 -304, 311-314, 773 e 775. O. BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, II, Rivista di storia della Chiesa in Italia, VIII (1954), pp. 1-22, part. p. 19, non considera il vescovo di Jesi fra i nove provenienti dal ducato di Spoleto, trascurando però il fatto che nei succitati atti tutti e dieci i vescovi delle diocesi spoletine sottoscrivono in ordine compatto subito dopo il presule di Spoleto, mentre i sei vescovi "provinciae Pentapolis" formano un altrettanto compatto raggruppamento. Questo particolare non è preso in considerazione nemmeno da A. CHERUBINI, Presenza longobarda nel territorio jesino, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp.515550, che pure ammette l'avanzata longobarda spoletina lungo la vallata dell'Esino alla fine del VI o agli inizi del VII secolo, mentre Jesi sarebbe stata recuperata dai Bizantini in seguito alla tregua del 680, dopo la quale sarebbe iniziata una sorta di coesistenza pacifica tra i due settori nei quali era rimasto diviso il territorio jesino. 32 Liber pontificalis, Zachanas, 213, ed. cit., p. 429, M.G.H. Epist., III, Epistolae Merowingici et Karolini aevi, 2a ed., Berolini 1957, p. 580 n. 55; MIGNE, PL., 89, col. 519. 33 ALFIERI, La Pentapoli cit., pp. 7-8 e 10-11. 34 Lo sdoppiamento della Pentapoli, postulato dal DIEHL, op. cit., pp. 60-62, il quale aggiunge l'Osimano come circoscrizione specifica, è stato più o meno accettato dai successivi studlosl e, per ultimo, anche dal BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 859-861. Si nota in Baldetti, come anche in F.L. LOMBARDI, Il Montefeltro nell'alto medioevo. Congetture sull'origine della diocesi, «Studi montefeltrani», 2 (1973), pp. 21-59, cfr. pp. 26-32, la tendenza a forzare l'interpretazione di un passo della Cosmographia dell'Anonimo Ravennate, IV, 29, ed. cit. pp. 65-66 (item Annonaria Pentapolensis est super ipsam Pentapolim id est provincia castellorum, quae ab antiquis ita vocabatur), per trovarvi la prova concreta dell'organizzazione di una ben distinta Pentapoli interna. La migliore interpretazione del suddetto passo, prima che esso subisse ulteriori passaggi nel corso della tradizione manoscritta, ad onta delle arbitrarie integrazioni dello Schnetz è stata data proprio da Guido ravennate (sec. XII), 66, ed. cit., p. 128: Quinta provinciarum Italiae Annonica Pentapolensis est, super quam regio est quae castellanorum appellata est ab antiquis; dal cui testo risulta evidente che esiste una sola Pentapoli, geograficamente contigua ma distinta da una regio castellanorum (la provincia castellorum del Ravennate). Quest'ultima andrebbe identificata con la provincia delle Alpi Appennine, estendentesi dalle Alpi Cozie al Montefeltro, di cui parlano il Catalogus provinciarum Italiae, in M.G.H., Script. rer. Lang. et Ital. cit., pp. 188-189, anche in Itineraria et alia geographica, Turnholti 1965 (C.C.S.L., CLXXV), pp. 366-368, part. p. 367, il De terminatione provinciarum Italiae, in Itineraria et alia geographica cit., pp. 347-363, part. p. 355, e PAULI Hist. Lang., II, 18, ed. cit., p. 83.

35 Il coronimo Flaminia è usato dal Geografo Ravennate per designare l'Esarcato in senso stretto o provincia Ravennate, mentre viene recuperato l'attributo Annonaria per accompagnare il termine Pentapoli o un suo derivato: RAVENNATIS ANONYMI Cosmographia, IV, 29, ed. cit., pp. 65-66; v.a. GUIDONIS Geographica, 66, ed. cit., p. 128. Non convincente appare la tesi del LOMBARDI, Il Montefeltro cit., p.31, secondo cui la nuova provincia si sarebbe chiamata "annonaria" in quanto in essa le "annonae" erano destinate al mantenimento dei soldati. Considerando la qualità e l'antichità delle fonti di cui il Ravennate disponeva, come non vedere in questo termine un preciso ricordo del Picenum annonarium: 36 Liber pontificalis, Gregorius, 113, ed. cit., p. 312; PAULI Hist. Lang., IV, 8, ed. cit., p. 118. Cfr. ALFIERI, La Pentapoli cit., p. 17. 37 DIEHL, Op. cit., pp. 59-63: i confini erano costituiti secondo l'A. dal Marecchia a nord, dal Musone e dall'Esino a sud, dallo spartiacque appenninico a ovest, ma includendo Gubbio e, in certi momenti, Perugia. Segue sostanzialmente queste indicazioni l'ALFIERI, La Pentapoli cit., pp. 13- 18. 38 BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 807-821, ma v.a. p. 859, dove l'A. precisa che la Pentapoli si componeva di tre o quattro gruppi di città fra loro separati: Rimini-Sarsina, Pesaro-Fano-Fossombrone-Urbino, Ancona-OsimoNumana e, forse, Città di Castello-Gubbio-Perugia, mentre Senigallia era completamente isolata. 39 V FUMAGALLI, "Langobardia" e "Romania": l'occupazione del suolo nella Pentapoli altomedioevale, in Ricerche e studi sul "Breviarium Ecclesiae Ravennatis" (Codice Bavaro) Roma 1985, pp. 95-107. 40 Ph. JONES, L'ltalia agraria nell'alto medioevo: problemi di cronologia e di continuità in Agricoltura e mondo rurale in Occidente nell'alto medioevo (Settimane C.I.S.A.M., XIII) Spoleto 19óó, pp. 57-92, cfr. pp. 65-73; P DELOGU, Longobardi e romani: altre congetture, in Langobardia, a cura di P Cammarosano e S. Gasparri, Udine 1990, pp.111167, cfr. pp.145-157. 41 V. nota 7. 42 G. PACI, Considerazioni storiche sul territorio compreso tra i fiumi Aso e Tronto «Archeopiceno», a. I-II, n. 4-5 (ottobre-dicembre 1993/gennaio-marzo 1994), pp. 3-ó. 43 ALFIERI, La Marche cit., p. 24. 441bidem, pp. 24-29. 45 V. LANCIARINI, ll Tiferno Mataurense e la provincia di Massa Trabaria, Roma 1895, pp. 105-127: la città sarebbe stata distrutta durante la guerra goto-bizantina e subito dopo sarebbe stato costruito sulle sue rovine il castello di S. Angelo in Vado (affermazione, questa, che l'A. non può provare in alcun modo). Di Tifernum non si conosce alcun vescovo, mentre la diocesi di S. Angelo in Vado fu istituita da Urbano VIII nel 1636 (ibidem, pp. 792-798). Su Forum Sempronii che, sita nel fondovalle sulla Flaminia, fu progressivamente abbandonata e trasferita su un colle soprastante, v. A. VERNARECCI, Fossombrone dai tempi antichissimi ai nostri, I, Fossombrone 1903, pp. 126-130 e 139-140. Non si conoscono vescovi della chiesa locale tra Paolino (a. 555) e Leopardo (a. 826): PB. GAMS, Series episcoporum Ecclesiae catholicae, Ratisbonae 1873, p.698, cfr. VERNARECCI, op. cit., pp.141-142. È possibile che la non menzione di Forum Sempronii nell'elenco di città restituite al beato Pietro nel 756 (v. nota 28) rispecchi una situazione di crisi corrispondente alla fase di trasferimento del centro dal fondovalle all'altura. 46 Le città a nord del Conero, già colpite dalla crisi demografica e provate dalle precedenti invasioni, subirono gli effetti della guerra goto-bizantina (ALFIERI, Le Marche cit., p. 29). PROCOPIO, La guerra gotica, III, 11, ed. cit., II, pp. 275-276, ricorda l'incendio delle case di Pesaro e Fano, per le quali usa il termine “polismata” ("cittadine"), ad opera di Vitige, che aveva abbattuto anche le mura dei due centri. Le mura di Pesaro furono poi ricostruite in tutta fretta da Belisario nel 545. Lo stesso PROCOPIO, La guerra gotica, IV, 23, ed. cit., III, p. 174, chiama “corion” ("località") Senigallia, la quale sarà poi designata come “Kastron” nella Descriptio orbis Romani, ed. cit., p. 32. Ed ancora PROCOPIO, La guerra gotica, II, 11 e IV, 23, ed. cit., II, p. 70 e III, p. 172, qualifica Ancona come castello (“frurion”). L'incendio che distrusse Fano nel 565, causando la morte di numerosi cittadini, è collocato da Agnello ravennate (Liber pontificalis Ecclesiae Ravennatis, 90, ed. cit., p. 336) in un contesto di eventi prodigiosi che avrebbero accompagnato la morte dell'imperatore Giustiniano, ciò nonostante il fatto potrebbe essere realmente avvenuto, quantunque il cronista sembri enfatizzarne le conseguenze. Sull'abbandono della città antica e sulla probabile vacanza della cattedra vescovile a Fossombrone in età longobarda v. nota precedente. 47 G. RAVEGNANI, Kastron e Polis: ricerche sull'organizzazione territonale nel Vl secolo, «Rivista di studi bizantini e slavi», 2 (1982), pp. 271-282, cfr. part. Ie pp. 280-282, A. CARILE Introduzione alla storia bizantina, Bologna 1988, pp. 68 e 76-77. 48 N. ALFIERI, L'insediamento urbano sul litorale delle Marche durante l'antichità e il medioevo, in Thèmes de recherches sur les villes antiques d'Occident (Colloques internationaux du Centre national de la recherche scientifique, n. 542), Paris 1977, pp. 87-96, cfr. p. 93. Circa le ripercussioni dell'invasione longobarda sulla vita delle città cfr. DELOGU, Longobardi e romani cit., pp. 157-160, il quale sottolinea la coincidenza tra aree di crisi delle città e frontiere longobardo-bizantine. 49 G.P. BOGNETTI, S. Maria foris portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, in ID., L'età longobarda, II, Milano 1966, pp. 11-673, cfr. pp. 131-132. 50 Sulla struttura di Castel Petroso, il cui impianto è fatto risalire al tardo-antico, v. A. FIECCONI, Luoghi fortificati e strutture edilizie del Fabrianese nei secoli XI-XIII, «Nuova rivista storica», LIX (1975), pp. 1-54, part. pp. 32-48. 51 F. SCHNEIDER, Die Reichsvermaltung in Toscana von der Grundung des Langobardeureiches bis zum Ausgang der Stanfer (568-1268), I, Die Grundlagen, Rom 1914 pp. 36-38. Sulle fortificazioni d'origine antica e altomedievale,

sul limes bizantino e sui sistemi difensivi longobardi v. G. SCHMIEDT, Le fortificazioni altomedievali in Italia viste dall'aereo, in Ordinamenti militari in Occidente nell'alto medioevo (Settimane C.I.S.A.M., XV), II, Spoleto 1968, pp. 859-927, part. pp. 893-918. 52 DELOGU, Il Regno longobardo, in P. DELOGU-A. GUILLOU-G. ORTALLI, Longobardi e Bizantini, Torino 1980, pp. 1-216, cfr. pp. 72-75. 53 Ibidem, pp. 107-110. 54 F. SABATINI Riflessi linguistici della dominazione longobarda nell'ltalia mediana e meridionale, Atti dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria", XXVIII (19631-964), pp. 123-249, cfr. pp. 146-158; C.A. MASTRILLI, Tracce linguistiche della dominazione longobarda nell'area del ducato di Spoleto, in Atti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, II, Spoleto 1983, pp. 655-667, cfr. p. 660. 55 SABATINI, op. cit., pp. 171-] 84. 56 MASTRILLI, Op. cit., p. 662. 57 SABATINI, op. cit., pp. 166-167; MASTRILLI, op. cit., p. 660, BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 793794. 58 GUILLOU, Régionalisme cit., pp. 98-108. 59 Le fonti sul possibile ingresso (in due distinti momenti: con la spedizione di Alboino nel 568-69 e sotto la guida di Alzeco poco prima del 668) dei Protobulgari in Italia sono: PAULI Hist. Lang., II, 26 e V, 29, ed. cit., pp. 86-87 e 154; THEOPHANIS Chronographia (297) rec. C. de Boor, I, Lipsiae 1883, p.357, NICEPHORI, Opuscula historica, ed. C. de Boor, Lipsiae 1880, p. 34; LANDOLFI SAGACIS Historia Romana, XXI, 19, a cura di A. Crivellucci, II, Roma 1913, pp. 153-154. Riferendosi alla grande Bulgaria ticinese F. SCHNEIDER, Die Entstehung von Burg und Landgemeinde in Italien. Studien zur historischen Geographie, Verfassungs- und Sozialgeschichte, Berlin 1924, pp.3435, ritiene la testimonianza di Paolo Diacono attendibile. Secondo BOGNETTI, S. Maria fp. di Castelsepno cit., pp. 336, 338 e 342-343, i Bulgari entrati in Italia non facevano parte dell'esercito di Alboino ma, venuti al servizio dei Bizantini nel sec. VII, avrebbero tradito l'Impero passando dalla parte di re Grimoaldo, che li avrebbe fatti stanziare in molti luoghi strategici, dal Comasco al Molise. Per una disamina della Bulgaria ticinese e delle questioni connesse v. A. CAVANNA, Fara sala arimannia nella storia di un vico longobardo, Milano 1967, pp. 75-118, il quale, accogliendo in parte le osservazioni linguistiche del Serra, ritiene impossibile che i numerosi toponimi italiani del tipo Bulgaro e Bulgaria abbiano tutti una origine etnica, e del resto un gruppo barbarico esiguo (come i Bulgari del condottiero Alzeco al tempo di Grimoaldo) non avrebbe potuto essere disperso su un'area così vasta, ma solo nel Sannio e, in misura minore, nell'Esarcato: va notato tuttavia che l'A. espone con dovizia di particolari una serie di caratteristiche del distretto fiscale e militare (a quanto pare acefalo e dotato di una catena di castra) oggetto del suo studio, le quali mostrano significative analogie con la Bulgaria della bassa valle del Cesano, per la quale v. BERNACCHIA, L'assetto territonale cit., pp. 683-714. 60 Gli itinerari romani pongono sulla Flaminia la mutatio ad Calem, definita vicus nell'Antoniniano: MILLER, Itineraria Romana cit., col. 306, RADKE, Viae publicae Romanae cit., pp. 230-232. Si registra nel contempo il silenzio delle fonti su un municipio di Callis postulato dagli storici locali. Soltanto nel 359 è attestato il vescovo Grecianus a Calle (MIGNE PL., 10, col. 697), che F. LANZONI, Le diocesi d'Italia dalle origini al principio del secolo VII (an. 604), I, Faenza 1927, pp. 188-189 e 494, assegna a Calvi in Campania; nel contempo Servio equipara Cagli in Flaminia ad una civitas (SERVI GRAMMATICI Qui feruntur in Vergilii carmina commentarii, II, rec. G. Thilo, Hildesheim 1961, p. 188). 61 ALFIERI, La Pentapoli cit., pp. 16-17. 62 V nota 36. Cfr. anche O. BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati di Spoleto e di Benevento, I, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», VI (1952), pp. 1-46, a p. 17. 63 LOMBARDI, Il Montefeltro cit., pp. 21-59: la tesi qui esposta è stata sostanzialmente ribadita in ID., Storicità e antistoricità di un territorio di confine: il Montefeltro, in Territori, strade e comunità d'insediamento attraverso la lunga durata (Atti del 4° Convegno di storia territoriale, Pavullo nel Frignano (Mo), 20-21 ottobre 1984), Modena 1986, pp. 77-87, cfr. pp. 83-86. 64 G.P BOGNETTI, Tradizione longobarda e politica bizantina nelle origini del ducato di Spoleto, in ID., L'età longobarda, III, Milano 1967, pp. 439-475: v.a. nello stesso volume Il ducato longobardo di Spoleto pp. 485-505. La tesi del Bognetti è stata accolta da C.G. MOR, Gli ordinamenti territoriali dell’Umbria alto-medioevale, in Aspetti dell'Umbria cit. (a nota 17), pp.103-125; ma a sostegno di essa lo studioso friulano non ha recato un grosso contributo limitandosi a segnalare (pp. 105-111) i titoli "romani" assunti dai duchi e alcuni aspetti peraltro controversi, dell'ordinamento territoriale come caratteristici della formazione politica spoletina. 65 CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 29-31. 66 BOGNETTI, Tradizione longobarda cit., pp. 459-463. 67 La tradizione risale a C. SIGONIO, Historiarum de regno Italiae libri quindecim, Bononiae 1580, p. 19; per le opinioni degli altri eruditi e studiosi v. F. FELICIANGELI, op. cit., pp. 5-ó. 68 PAULI Hist. Lang., V, 16, ed. cit., p. 151, cfr. CONTI, Il ducato di Spoleto cit., p. 305; F. GASPARRI, II ducato longobardo di Spoleto. Istituzioni, poteri, gruppi dominanti, in Atti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, 1, Spoleto 1983, pp. 77-122, part. pp. 83-84.Il BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, II, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», VIII (1954), pp. 1-22, part. pp. 4-12, pur ammettendo un comprensibile atteggiamento ostile del precedente duca Atto nei riguardi della spedizione a

Pavia di Grimoaldo, ancora duca di Benevento, nel 662, giudica infondata l'ipotesi del BOGNETTI, S. Maria fp. di Castelseprio cit., p. 521, che parla di segrete intese tra papa Vitaliano e il suddetto duca al tempo dello sbarco a Taranto di Costante II nel 663 poiché non risulta una vera defezione di Atto dopo che Grimoaldo divenne re, né si ha notizia dl una sua morte violenta o di sua deposizione. Pare invece che sia Grimoaldo che Trasmondo di Capua trovassero amicos et adiutores nello Spoletino e nella Tuscia nel corso della spedizione di cui sopra. 69 GREGORII Reg. ep., V, 36, ed. cit., I, pp. 317-320 (giugno 595); V, 39, ed. cit., I, pp. 326-329 (l giugno 595); cfr. BERTOLINI, I papi cit., I, pp. 11-13 e 30-31. 70 GREGORII Reg. ep., IX, 44, ed. cit., II, pp. 70-72 (ottobre 598), cfr. FELICIANGELI, Op. cit., pp. 41-45, BERTOLINI, I papi cit., I, pp. 35-36, e GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 75. 71 GREGORII Reg. ep., IX, 66, ed. cit., II, pp. 85-86; cfr. BERTOLINI, I papi cit., I, pp. 35-38. 72 Suppone razzie di Longobardi spoletini in territorio emiliano nel corso di tregue fra esarcato e regno longobardo CARILE, Dal V all’VIII secolo cit., p. 35, anche LOMBARDI, Il Montefeltro cit., pp.31-32, vede un perdurare della guerra fra Bizantini e Longobardi oltre la fine del sec. VI, nonostante le tregue e i trattati di pace, specie nei distretti montani, con inevitabili continue variazioni della linea di frontiera. 73 v nota 31. 74 O. BERTOLINI, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati longobardi di Spoleto e di Benevento, III, Rivista di storia della Chiesa in Italia, IX (1955), pp. 1-57, part. pp. 1012, ritiene l'evento possibile. Al contrario il CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 308-309, considera la notizia dell'impresa di Faroaldo II come il riflesso di un'aspirazione politico-ideale, la quale legasse il nome di costui alla città che l'omonimo fondatore del ducato aveva un giorno tenuto. 75 PAULI Hist. Lang., VI, 44, ed. cit., p. 180. 76 DELOGU, Il Regno longobardo cit., pp. 152-163. 77 RAVENNATIS ANONYMI Cosmographia, IV, 29, ed. cit., p. 66. V.a. GUIDONIS Geographica, 66, ed. cit., p. 128: «provincia Picinum Spoletii Sauciensis». 78 GREGORII Reg. ep., IX, 58, 59 e XIII, 18, ed. cit., II, pp. 81, 82 e 385, cfr. E ALLEVI, Nell'alto medioevo fermano per un dramma di amore e di morte, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 961-1116, part. pp. 981-982, P. BOGLIONI, Spoleto nelle opere di Gregorio Magno, in Atti del 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, I, Spoleto 1983, pp. 267-318, alle pp. 314 e 315. 79 Nei riguardi del significato tecnico di fara come presidio di un castrum o castellum o di località avente comunque valore strategico esprime perplessità O. BERTOLINI, Ordinamenti militari e strutture sociali dei Longobardi in Italia, in Ordinamenti militari cit. (a nota 51), pp. 429-607, alle pp. 508-510, pur accettando l'ipotesi che i Longobardi, nei primi decenni della conquista e degli stanziamenti, combattessero in gruppi formati sulla base dei legami parentali detti appunto farae; il CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 86-93, dalla dislocazione delle fare m tutta Italia, nonché dalla loro costante connessione con castra e castella, trae la convinzione che questa fondamentale struttura demica dei Longobardi «divenisse altresì la struttura basilare del loro dominio militare e quindi politico», nel mentre respinge l'interpretazione del termine nel senso di "corpo di spedizione". Sulla collocazione delle fare cfr. anche CAVANNA, Fara sala arimannia cit., pp. 82-83. 80 Codice diplomatico longobardo, V/1, a cura di H. Zielinski, Roma 1988, pp. 48-53 n. 11, e IV/1, a cura di C. Bruhl, Roma 1981, pp. 112-115 n. 38: «Rabenno, fil(ius) quondam Rabennonis comitis civ(itatis) Firmane» (a. 787). 81 Codice diplomatico longobardo, IV/1, ed. cit., pp. 78-83 n. 28. 82 GASPARRI, II ducato longobardo di Spoleto cit., pp. 89-93, sulla dialettica comes-gastaldus cfr. G.P BOGNETTI, Il gastaldato longobardo e i giudicati di Adaloaldo, Arioaldo e Pertarido nella lite fra Parma e Piacenza, in ID., L'età longobarda, I, Milano 1966, pp. 219-274, alle pp. 262-270. Su posizioni vicine a quelle del Gasparri, riguardo ai comites, è CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 49-50, il quale, tuttavia (pp. 42-49), crede piuttosto a un ordinamento territoriale del ducato spoletino imperniato sui gastaldati. 83 BERTOLINI, Ordinamenti militari cit., pp. 484-487. 84 Nel doc. del 748 (cit. a nota 80) accanto a Rabenno sottoscrivono come testimoni altri due conti, Ansualdo e Teutprando. Al giudicato di Ildeprando del 776 (cit. a nota 81) presenzia anche “Halo com(es)”. Quest'ultimo, di cui non si specifica mai l'appartenenza territoriale, potrebbe identificarsi con «Alo» presente con «Lupo ... comites» ad un altro giudicato di Ildeprando del 777 (Codice diplomatico longobardo, IV/1, ed. cit., pp. 83-87 n. 29) e con «Halone, Lupone ... gastald(iis) et comitib(us)» figuranti nel 781 fra gli iudices di un giudicato dello stesso duca (Codice diplomatico longobardo, IV/1, ed. cit., pp. 99-104 n. 35). 85 I placiti del "Regnum Italiae", a cura di C. Manaresi, I, Roma 1955, pp. 74-77 n. 24 (a. 811) e pp. 123-125 n.39 (a. 829). Sui gastaldi, poi conti, di Camerino nel sec. IX cfr. MOR, Gli ordinamenti territoriali dell'Umbria cit., pp. 121123, il quale si rifà tuttavia a date diverse rispetto ai succitati documenti. Il BALDETTI, Le basse valli del Musone e del Potenza cit., pp. 16-17, avanza l'ipotesi dell'esistenza, nell'ultima età longobarda, del gastaldato di Osimo, fondandosi sulla peticio libelli che Giovanni gastaldo rivolge ad un arcivescovo ravennate di cui non si conosce il nome, per un suolo di terra entro la città di Osimo (Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., pp. 79-80 n. 146). Pur essendo questa registrazione priva di elementi di datazione, lo stesso Baldetti ammette che essa si riferisce ad un periodo immediatamente successivo al 774 e, dal momento che si ignora la natura dei poteri eventualmente esercitati da tale gastaldo, appare azzardato risalire da questo al gastaldato longobardo. D'altronde nemmeno la peticio del gastaldo Radigisi all'arcivescovo Valerio (806-810), relativa a 4 once di terra del fondo Lotaciano nel territorio di Osimo

(Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., p. 75 n. 135), ci aiuta a risolvere il problema, rivelandoci generiche tracce di una presenza e influenza dei Longobardi nell'Osimano. 86 E. ARCHETTTI GIAMPAOLINI, Aristocrazia e chiese nella Marca del Centro-Nord tra IX e XI secolo, Roma 1987, pp. 40-42. 87 FIECCONI, Luoghi fortificati cit., pp. 2-3 nota 5; V. VILLANI, Nascita di un comune. Serra dei Conti nel comitato di Senigallia (sec. X-XIII), [Serra de' Conti] 1980, pp. 6-15, ID. Serra de' Conti. Origine ed evoluzione di un'autonomia comunale (secoli X-XV), [Serra de' Conti] 1995, pp. 64-71; BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 840-841 e 850852. 88 Archivio capitolare di S. Severino Marche, Chiese diverse, cas. XXXV, n. 1 (a. 944). Il doc. è pubblicato in G. CONCETTI, La canonica di S. Severino in Sanseverino Marche, 944-1586, Falconara M. 1966, Appendice, pp.193195 n. I, e in R. PACIARONI, Qualche ipotesi sull'evoluzione della pieve di Settempeda, «Miscellanea settempedana», V (1991), pp. 133-152, Appendice, pp. 148-149 n. 1. 89 Sui gastaldati minori nello Spoletino v. E. TAURINO, L'organizzazione territonale della contea di Fermo nei secoli VIII-X. La persistenza della distrettuazione minore longobarda nel ducato di Spoleto: i gastaldati minori, «Studi medievali», s. III, XI (1970), pp. 659-710, part. pp. 699-710; E. SARACCO PREVIDI, Lo sculdhais nel territono longobardo di Rieti (sec. VIII e IX). Dall'amministrazione longobarda a quella franca, «Studi medievali», s. III, XIV (1973), pp. 627-676, part. pp. 661-667 J.-P. BRUNTERC'H, Les circonscriptions du duché de Spolète du VIIIe au XIIe siècle, in Atti dei 9° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo, I, Spoleto 1983, pp. 207-230, part. pp. 212225. 90 Per una panoramica sui castelli longobardi e bizantini con proprio distretto amministrativo si veda SCHNEIDER, Burg und Landgemeinde cit., pp. 3-69. Sul distretto del Seprio v. BOGNETTTI, S. Maria f. p. di Castelseprio Cit., pp. 80-90. 91 V. nota 36. 92 Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., pp. 39-41 n. 76 (registrazione di peticio forse del sec. VIII), cfr. A. CARILE, Katholikà / Catholica / La Catolga, in A. CARILE-M.L. DE NICOLÒ Cattolica / Katholikà. Un arsenale dell'Esarcato, Milano 1988, pp.7-23, part. pp. 10-14; ID. Materiali Cit., pp. 240-241. Conca e Luceoli rientrano nell'elenco di civitates che l'abate Fulrado consegnò al beato Pietro nel 756 (Liber pontificalis, Stephanus II, 254, ed. cit., p. 454). Su di esso v.a. F. V. LOMBARDI, "Crustumium a quo oppidum". (Note storiche sul fiume e sul castello di Conca), in Natura e cultura nella valle del Conca, a cura di P Méldini-P.G. Pasini-S. Pivato. [Cattolica-Rimini] 1982, pp. 145-163. 93 V. nota 87. 94 Carte di Fonte Avellana, a cura di C. Pierucci e A. Polverari, 1 (975-1139), Roma 1972, pp. 55-57 n. 22. 95 R SASSI, Le carte del monastero di S. Vittore delle Chiuse sul Sentino, Milano 1962. 96 TAURINO, op. cit., pp. 659-710. 97 La SARACCO PREVIDI, op. cit., pp. 666-667, è del parere che in età carolingia si possano cogliere i primi spunti di un'articolazione del territorio che si attuerà nella sua pienezza solo in età postcarolingia; D. PACINI, I "ministeria" nel territorio di Fermo (secoli X-XII), «Studi maceratesi», 10 (1974), pp. 112-172, part. pp. 116-117, avanza l'ipotesi che i ministeria siano distretti amministrativi della diocesi fermana organizzati dalla fine del sec. X in coincidenza col passaggio dal potere comitale a quello vescovile; secondo G. FASOLI, La Pentapoli fra il papato e l'Impero nell'alto medio evo, in Istituzioni e società cit. (a nota 4), pp. 55-88, cfr. p. 62, la denommazlone di ministerium sa più di carolingio che di longobardo o di bizantino. 98 BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., pp. 842-843. 99 Liber pontificalis, Gregorius ll, 184-185, ed. cit., pp. 404-405, PAULI Hist. Lang., VI 49, ed. cit., p. 181. Un indizio sull'esistenza dei ducati longobardi di Ancona e di Osimo verso la metà del sec. VIII è dato dall'assenza delle due città, oltre che di Numana, dall'elenco dei centri restituiti al beato Pietro nel 756, per cui v. qui a nota 28. L'elenco delle civitates da restituire alla res publica è il risultato di trattative intercorse tra Romani Franchi e Longobardi (O. BERTOLINI, Astolfo, re dei Longobardi, in Dizionario biografico degli Italiani, 4, Roma 1962, pp.467-483, cfr. pp.477-478): questi ultimi apparirebbero perciò interessati a mantenere il controllo del triangolo strategico costituito dalle tre città pentapolitane. Del resto la loro conquista, come fa osservare O. BERTOLINI, Roma di fronte a Bizanzio e ai Longobardi, Bologna 1941, p. 574, non era stata opera di Astolfo, bensì risaliva appunto ai tempi di Liutprando: per questa ragione esse furono escluse in un primo tempo dalle trattative, divenendo solo in seguito oggetto di rivendicazione da parte della Chiesa di Roma. Sulla permanenza di Ancona Osimo e Numana nelle mani dei re longobardi dopo la seconda pace di Pavia v. FASOLI, La Pentapoli cit., pp. 60-61. 100 BERTOLINI Roma di fronte a Bisanzio cit., p. 684; FASOLI, La Pentapoli cit., pp. 59-60. Tuttavia, secondo lo stesso BERTOLINI, I papi cit., III, pp. 33-40, la resa volontaria di Osimo avrebbe permesso ai guerrieri di Liutprando di valicare il Musone e di impadronirsi anche di Numana e di Ancona. Le schiere del re, pertanto, sarebbero penetrate da sud - e non da nord - nella Pentapoli, occupandone soltanto l'estremità meridionale. L'A. ritiene anche (p. 37 nota 63) che queste operazioni non comportassero il passaggio delle truppe regie nei territori del ducato di Spoleto (due affermazioni che risultano, a mio avviso, difficilmente conciliabili. 101 BERTOLINI, I papi cit., III, p. 48. 102 PAULI Hist. Lang., VI, 56, ed. cit., p. 185.

103 PAULI Hist. Lang., VI, 54, ed. cit., pp. 183-184: qui l'A. vuol ricordare le poche sconfitte subite da Liutprando ad opera dei Romani, fra cui quella patita, in sua assenza, dal suo esercito in Rimini. Il particolare è notevole e orienta a ritenere che la via abituale percorsa dal re per penetrare nella Pentapoli fosse quella che scendeva da nord. 104 CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 310-315. 105 PAULI Hist. Lang., VI, 57, ed. cit., p. 185. 106 CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 144 e 3 l3-314. GASPARRI, I duchi longobardi cit., pp. 80-81, ritiene il duca Lupo (745-751) un partigiano di Ratchis, ma lo suppone ostile ad Astolfo, che probabilmente nel 751 prese ad esercitare in prima persona i diritti ducali nella regione. 107 V. nota 80. 108 Breviarium Ecclesiae Ravennatis cit., p. 74 n 132. Sull'antroponimo germanico Bacaudanis v. S. LAZARD, Studio onomastico del "Breviarium ", in Ricerche e studi sul "Breviarium Ecclesiae Ravennatis" cit. (a nota 39), pp. 33-61, part. p. 39. Altre tracce della presenza longobarda nell'Osimano, dal Breviarium Ecclesiae Ravennatis, sono il fondo Longobaldie (pp. 67-68 n. 119 [850c.-878 o 905c.-914]), il fondo Sala Rupta (p. 86 n. 163 [927-971] e p. 68 n. 120 [971-983]), la "casa et curte Honorii sculd(ascii)" (pp. 79-80 n. 146), Leopardo q(ui) voc(atur) Maripassus (pp. 80-81 n. 149 [850c.-878 o 905c.-914]): su questo ed altro si veda BALDETTI, Per una nuova ipotesi cit., p. 836. Sulla questione dei gastaldi e del presunto gastaldato di Osimo si rinvia a nota 85. 109 I più recenti studi sull'argomento sono tornati a riaffermare l'equivalenza dei termini exercitalis e arimannus nelle fonti d'età longobarda, equivalenza che era stata negata da BERTOLINI, Ordinamenti militari cit., pp. 572-580. Essi hanno inoltre affermato l'infondatezza della teoria classica, elaborata dalla scuola storico-giuridica, che vedeva negli arimanni un ceto particolare di coloni-soldati insediati su terra fiscale, l'arimannia appunto, proponendo invece l'identificazione degli arimanni-exercitales con tutti indistintamente i membri del popolo-esercito dei Longobardi, con l'unica esclusione dei liberi homines romani. Non essendo questa la sede per riassumere i termini della vexata quaestio, mi limito a rimandare a quei lavori, comprensivi di bibliografia sull'argomento, che hanno marcato più profondamente gli ultimi sviluppi del dibattito: G. TABACCO, I liberi del re nell'ltalia carolingia e postcarolingia, Spoleto 1966; ID., Dai possessori dell'età carolingia agli esercitali dell'età longobarda, «Studi medievali» s. III, X (1969), pp. 221-268; S. GASPARRI, La questione degli arimanni, «Bullettino dell'lstituto storico italiano per il medio evo e Archivio muratoriano», n. 87, Roma 1978, pp. 121-153. C'è da aggiungere, però, che dopo la svolta impressa all'impostazione del problema dai contributi del Tabacco il CONTI, II ducato di Spoleto cit., pp. 247-282, senza mettere in dubbio l'equipollenza semantica tra arimannus ed exercitalis è tornato a sostenere la tesi di un uso specifico dei due termini, che indicherebbero i membri delle sequele dei re e degli iudices, in ciò riavvicinandosi alle posizioni cosiddette prefeudali del Bertolini. 110 A. SIMONINI, Autocefalia ed Esarcato in Italia, Ravenna 1969, pp. 150-151, CARILE Dal V all'VIII secolo cit., p. 358. 111 P. RUGO, Le iscrizioni dei sec. VI-VII-VIII esistenti in Italia, IV, Cittadella 1978, p. 28 n. 8; cfr. GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 62; ALLEVI, Nell’alto medioevo fermano cit., pp. 1057-1062. 112 Codice diplomatico longobardo, III/1, a cura di C. Bruhl, Roma 1973, pp. 251-260 (part. p. 256) n. 44. 113 A POLVERARI, Senigallia nella storia, 2, Evo medio, Senigallia 1981, Appendice documentaria, pp. 215-221 nn. 1-4; SS. Trinità e S. Michele Arcangelo di Brondolo, 11, a cura di B. Lanfranchi Strina, Venezia 1981, pp. 13-14 n. 1 (a. 800). Il monastero di S. Maria di Sesto era stato fondato da Erfo, Marco e Anto, figli del duca Pietro del Friuli, poco prima del 762: Codice diplomatico longobardo, II, a cura di L. Schiaparelli, Roma 1933, pp. 98-109 n. 162. Particolarmente importante, quindi, si rivela il legame che unisce la famiglia di Sergio al monastero friulano e alla stessa stirpe ducale del Friuli. 114 ANDREAE DANDULI Chronica per extensum descripta aa. 46-1280 d.C., a cura di E. Pastorello, in RR.II.SS., n. ed., XII/1, Bologna 1938, pp. 1-327, part. pp. 124-125. Sulla cronachistica veneziana riguardante il duca Sergio e sulle cronache senigalliesi (in particolare su quella più antica di G.E Ferrari del 1564 circa) v. A. POLVERARI, Una Bulgaria nella Pentapoli. Longobardi, Bulgari e Sclavini a Senigallia, Senigallia 1969, pp. 21-24 e 30-31, inoltre ID., Senigallia nella storia cit., pp. 53-57: il Ferrari presenta Sergio, figlio del duca Arioldo, come l'ultimo di una quasi ininterrotta serie di duchi longobardi di Senigallia dalla fine del secolo VI alla fine dell'VIII, di questi duchi, però, Sergio rimane l'unico storicamente accertato. Diversa è invece la ricostruzione degli eventi in L. SIENA, Storia della città di Sinigaglia, Sinigaglia 1746, pp. 77-84, il quale fa iniziare la dominazione longobarda nella città con la spedizione di Liutprando del 727 considerando implicitamente Arioldo, di nazione longobarda, come il primo duca di Senigallia, confermato in questa carica dal pontefice romano. 115 Sull'egemonia dell'aristocrazia friulana nel periodo di regno di Ratchis e Astolfo v. GASPARRI, I duchi longobardi cit., pp. 32-34. 116 Liber pontificalis, Hadrianus, 303, ed. cit., pp. 491-492, Pauli Continuatio tertia, in M.G.H., Script. rer. Lang. cit., p. 212. Sembrerebbe plausibile l'inimicizia tra il padre di Sergio (v. qui a nota 114), in quanto esponente dell'aristocrazia veneto-friulana, e Desiderio, che invece rappresenterebbe la reazione dell'elemento tosco-padano allo strapotere dei gruppi parentali dell'Austria: cfr. GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 34. 117 GASPARRI, I duchi longobardi cit., pp. 84-85; CONTI, Il ducato di Spoleto cit., pp. 315-317. 118 Liber pontificalis, Hadrianus, 311-313, ed. cit., pp.495-496; cfr. FASOLI, La Pentapoli cit., pp. 63-64. 119 note 81 e 83. 120 GASPARRI, I duchi longobardi cit., p. 26.

121 M.G.H., Dipl. Karol., I, 2° ed., Berolini 1956, pp. 213-216 n. 158 (diploma di Carlo Magno al monastero di Montecassino, a. 787): «... intra ambobus ducatibus nostris Spoletino atque Firmano»; cfr. GASPARRI, Il ducato longobardo di Spoleto cit., pp. 114-122. 122M.G.H., LL., II, Capit. regg. Franc., I, Hannoverae 1883, pp. 326-327 n. 163. 123 La suprema autorità giusdicente in Camerino era, agli inizi del sec. IX, un gastaldo (v. nota 85): i placiti da questi presieduti sono datati agli anni di un duca (Eccideo e Gerardo), che non è quello di Spoleto. Tali duchi rinviano pertanto ad una sede ducale che, per i motivi suesposti, non è nemmeno Camerino, bensì Fermo. Altri due documenti camerinesi, dell'821 e 834, sono datati «temporibus gerardi ducis» e «temporibus escrotoni et garardi comitum, anno ducatus eorum in dei nomine j. » (Il Regesto di Farfa di Gregorio di Catino, pubblicato da I. Giorgi e U. Balzani, II, Roma l879, p.210 n.254, p.230 n.279). Discutibile, a tal proposito, la definizione di "duchi a Camerino" proposta dal GASPARRI, Il ducato longobardo di Spoleto cit., p. 119, il quale pure ammette che un "duca di Camerino" come tale non è mai nominato nelle fonti. 124 ALLEVI, Nell'alto medioevo fermano cit., pp. 1084-1115. 125 GASPARRI, Il ducato longobardo di Spoleto cit., pp. 102-112.

Segni di distinzione. Dai corredi funerari alle donazioni 'post obitum' nel regno longobardo

DE THESAURO IN COELO COLLOCANDO Aurea regna tenet supero thesaurus in aevo; Illic angelica praefulgida vestis habetur. Incorrupta manens semper sine fine beatis. Illic gemma nitet, pendentia pallia lucent Anulus, armillue, torques, dextralia, mitra, Aurea cuncta micant, lucentia cuncta coruscant. (Versus quod Smaragdus ad unum de filii Ludovici Pii misit, xii b.)

1. I doni di Rottopert Nel 745 Rottopert vir magnificus di Agrate affida a un atto scritto il destino delle sue sostanze 1. La sua principale preoccupazione è di prefigurare alle numerose donne della sua famiglia un futuro che non pregiudichi l'integrità del suo patrimonio. Le sorelle Galla e Rodelinda, le figlie Anselda e Galla, riceveranno in usufrutto alcune terre soltanto se conserveranno l'abito religioso, e cioè se non daranno alla famiglia una discendenza indesiderata. Solo per una figlia, Gradana, Rottopert ha pianificato un futuro di madre e di sposa, e considera una sventura che essa rimanga in cabello, cioè nubile nella casa paterna 2. L'atto comprende anche una serie di donazioni fondiarie a enti ecclesiastici locali, ma non riguarda gli eredi legittimi di Rottopert, ai quali spettano le sostanze tramandate a Rottopert dall'eredità paterna. Oltre agli aspetti che riguardano direttamente la pianificazione del futuro del nucleo parentale, l'atto si volge parallelamente a prefigurare la posizione di Rottopert nell'aldilà: una serie di clausole precisa infatti il modo in cui egli desidera essere ricordato nel giorno della sua morte. Egli stabilisce che alcuni suoi oggetti preziosi, un bacile e un gorale, cioè un calice d'argento 3, siano spezzati e distribuiti ai poveri. La cintura d'oro di Rottopert, denominata ringa mea aurea, dovrà essere invece riscattata dal figlio al prezzo di cento soldi, ma se egli non la vorrà anch'essa dovrà essere spezzata e distribuita in elemosina. Il rituale della rottura e della distribuzione degli oggetti sarà amministrato dalla moglie di Rottopert, Ratruda, il giorno stesso della morte del marito: suo compito sarà anche di distribuire ai poveri metà del vestitum del defunto 4. Questo documento testimonia con eccezionale chiarezza una serie assai rilevante di aspetti: esso non ci fornisce solo un esempio di strategia patrimoniale familiare, volta a limitare i danni di un eccessivo numero di donne all'interno della stessa famiglia, ma ci informa che alcuni degli oggetti che componevano un secolo prima il corredo funebre dei defunti erano utilizzati come dono ai poveri pro anima. Infine che il rituale della distribuzione e il rituale funebre non sono, come si potrebbe sulle prime ritenere, amministrati da un ecclesiastico, bensì da una donna, la moglie di Rottopert. La donazione di Rottopert può quindi costituire un utile punto di partenza per esaminare il processo attraverso il quale le aristocrazie del regno longobardo utilizzarono i documenti scritti in previsione della morte e le modificazioni nel rituale funebre che ne scaturirono. L'atto di Rottopert riguarda per giunta il territorio di Trezzo sull'Adda, il sito di una delle più importanti necropoli di età longobarda venute alla luce nel secondo dopoguerra 5. Voglio qui presentare i risultati di una ricerca ancora in corso sugli atti di tipo testamentario effettuati nel regno dei Longobardi fino alla piena età carolingia. Lo scopo consiste nell'esaminare quali esigenze e quale tipo di rapporto essi tendano a esprimere sia nei confronti del patrimonio familiare, sia nei confronti degli enti ecclesiastici che risultano ricevere i beni, globalmente oppure soltanto in parte 6. L'aspetto che intendo sviluppare in questa sede si riferisce in particolare al ruolo dei mobilia elencati nelle donazioni dell'VIII secolo e dei mobilia che normalmente si rinvengono nelle sepolture della prima età longobarda in Italia. Fonti per questo lavoro sono le donazioni post obitum (aventi

cioè valore solo dopo la morte del donatore) redatte in Italia nel corso dell'VIII secolo e la composizione dei corredi funerari utilizzati dai Longobardi nei due secoli precedenti 7. Di solito si afferma che la scomparsa dei corredi con armi dalle tombe dei Longobardi è dovuta alla conversione al cattolicesimo di questi ultimi. Mi sembra tuttavia che le linee di tale mutamento necessitino di ulteriori riflessioni. Infatti, anche per i Longobardi, non solo la mort du crétien divenne mort chrétienne 8, ma al contempo le istituzioni ecclesiastiche svilupparono un linguaggio e delle strategie atti a cooptare i Longobardi stessi. In questo processo convergente, alla cristianizzazione della morte dei Longobardi si accompagnò una 'germanizzazione' del cristianesimo, vale a dire una modificazione delle forme e dei modi attraverso i quali il cristianesimo fu vissuto e interpretato 9. Così come i cambiamenti nel corredo funebre dei Longobardi non consistettero in un supino e passivo processo di acculturazione - cioè nel progressivo adattamento agli usi della popolazione locale 10 anche l'adozione dei riti cristiani della morte sottintende una prospettiva di utilizzazione di essi radicalmente nuova, derivata dal convergere degli interessi patrimoniali delle aristocrazie con quelli di affermazione delle gerarchie ecclesiastiche nel disciplinare il funzionamento della società. Complessivamente il mutamento dei rituali funerari dei Longobardi è parte integrante del mutamento dell'aristocrazia e delle forme di trasmissione della proprietà nella società longobarda nel suo insieme: le istituzioni ecclesiastiche furono in grado di indirizzare tale cambiamento perché si presentarono, e furono intese, quale strumento di rafforzamento patrimoniale dell'aristocrazia stessa. Anni fa, in un volume ancora stimolante, Jack Goody ha proposto una stretta connessione tra il cambiamento della struttura della famiglia, i mutamenti della politica patrimoniale nei confronti della discendenza, e infine l'adozione del testamento nella società anglo-sassone. Questi tre aspetti sono interpretati come il frutto di un'azione coercitiva e disciplinante della chiesa nei confronti dell'aristocrazia laica: limitando fortemente il matrimonio endogamico - attraverso il quale i gruppi parentali erano in grado di mantenere compatto il patrimonio fondiario - la chiesa sarebbe riuscita a convogliare verso di sé le donazioni fondiarie, presentandosi quale ente in grado di far fruttare i beni stessi su due piani e in due mondi distinti. Se nel mondo ultraterreno i doni alla chiesa avrebbero guadagnato al donatore la salvezza dell'anima, nel mondo dei vivi essi avrebbero assicurato uno stabile rapporto di patronage tra i gruppi familiari e gli enti ecclesiastici. La stabilità sociale dei laici sarebbe stata garantita dalle donazioni dirette a enti dai beni inalienabili, impedendo la dispersione del patrimonio stesso 11. Anche se il modello proposto da Goody prospetta una opposizione del tutto astratta tra gli interessi dei laici e quelli delle gerarchie ecclesiastiche, vedendo i due gruppi separati assai più rigidamente di quanto non fossero in realtà 12, nondimeno risulta convincente la prospettiva di ricerca che osserva nella loro reciproca connessione le strategie di rafforzamento patrimoniale, l'azione delle istituzioni ecclesiastiche nel definire i modelli di famiglia legittima e incestuosa, e infine i mutamenti nella trasmissione della proprietà. Se l'attenzione di Goody e di coloro che si sono soffermati in seguito a definire i fenomeni di mutamento sociale nell'Europa altomedievale si è concentrata prevalentemente sui beni fondiari e sulle strategie per conservarli all'interno del gruppo familiare, io mi soffermerò invece sul ruolo dei beni mobili e sul cambiamento della loro funzione in relazione ai rituali connessi alla morte. Osserverò cioè lo slittamento dell'investimento familiare dal donare al morto un ricco corredo di armi o di gioielli all'elencare per scritto degli oggetti da distribuire pro anima. 2. Le donazioni 'post obitum': caratteristiche formali e strutturali Vale anzitutto la pena di chiarire quali siano le caratteristiche della documentazione scritta presa in esame. Nonostante il tema della morte e dei testamenti sia stato molto à la page negli ultimi vent'anni 13, manca ancora uno studio di insieme, sia diplomatistico, sia strutturale, sugli atti fatti in previsione della morte nell'Italia altomedievale. Una delle ragioni di tale disinteresse è stata motivata per il fatto che, come spesso è stato evidenziato dagli storici del diritto 14, durante l'alto medioevo non si fece più ricorso al testamento romano, un istituto formalmente codificato da clausole specifiche quali l'istituzione dell'erede, la presenza di sette testimoni, la possibilità della revocabilità espressa dal

codicilium 15. L'abbandono del testamento romano non significò tuttavia il venir meno di ogni forma di documento scritto avente valore soltanto dopo la morte: il testamento fu infatti sostituito da atti di tipo 'paratestamentario', noti attraverso i nomi di donatio pro anima, donatio post obitum, charta iudicati. Anche se dal punto di vista giuridico le donazioni post obitum non sono veri e propri testamenti romani, questa non appare una buona ragione per non esaminare affatto le forme con cui l'aristocrazia, maschile e femminile, laica ed ecclesiastica, volle pianificare il futuro dei propri beni e lo status del proprio gruppo parentale. Tali documenti rappresentano anzi un aspetto caratteristico, anche dal punto di vista formale, della trasmissione dei beni durante l'alto medioevo, cosicché “accentrare l'indagine su[i testamenti romani] e ricordare marginalmente [gli atti paratestamentari] significa non solo coartare tale realtà, ma rinunciare a coglierne i motivi di fondo” 16. Gli atti testamentari sono inoltre uno straordinario strumento di analisi sociale, la cui peculiarità non è soltanto formale ma anche di sostanza. La prospettiva del testatario è infatti duplice, come abbiamo visto nel caso appena esaminato di Rottopert: il documento è contemporaneamente volto a stabilire ciò che succederà dopo la morte sia su un piano ultraterreno (le modalità attraverso le quali il defunto dovrà essere ricordato pubblicamente dalla famiglia), sia su un piano rigorosamente terreno, delineando non solo le prospettive patrimoniali e di carriera dei singoli figli ma anche formalizzando per scritto i rapporti che la famiglia stessa intrattiene con alcuni enti ecclesiastici. I testamenti, insomma, sono miroir de la mort e al contempo miroir de la vie 17. Occorre poi sottolineare che se tecnicamente le donazioni pro anima e le donazioni post obitum sono negozi a titolo gratuito 18, dal punto di vista concreto esse si configurano come vere e proprie transazioni economiche. A fronte dei doni indirizzati a un ente ecclesiastico e ad alcuni membri del proprio gruppo parentale, il donatore si aspetta di ricevere in cambio la salvezza della propria anima e il rafforzamento patrimoniale della sua discendenza. La volontà del testatario non riguarda allora la legittima linea successoria, che in base al diritto longobardo, viene automaticamente a spartirsi i beni famigliari 19, bensì è volta a stabilire delle eccezioni, soprattutto per i beni che sono stati da lui acquisiti durante la sua vita 20. Come ha ben rilevato Adriano Prosperi, i testamenti servono a creare delle eccezioni, si inseriscono negli interstizi lasciati liberi dalla legge per condizionare il futuro, cosicché “a chi muore preme soprattutto regolare la successione dei suoi beni al di fuori delle norme successorie che altrimenti entrerebbero automaticamente in vigore” 21. Occorre tuttavia precisare che nell'alto medioevo il numero di individui che decise di affidare a un atto scritto il destino dei beni famigliari è assai esiguo e socialmente ristretto all'aristocrazia: esso comprende non soltanto gli ecclesiastici, ma anche laici (uomini e donne) e vedove in particolare. Si può allora ritenere che la stessa scelta di redigere un testamento faccia parte integrante degli strumenti di differenziazione di stile di vita dell'aristocrazia ed esprima, insieme ad altri aspetti, il bisogno di distinzione delle élites 22. Dunque, le donazioni post obitum sono uno dei molteplici strumenti scritti che esprimono la volontà di rafforzare i legami consolidati da un gruppo parentale, proiettandoli anche nel futuro. Tali esigenze sono pienamente espresse dal punto di vista formale, nella produzione di un tipo documentario largamente aperto a variazioni locali, ma che presenta una ossatura costante. Essa si compone di un protocollo, variamente articolato, in cui il donatore specifica le circostanze che lo hanno spinto a redigere l'atto; la dispositio può essere incentrata sia sull'elenco dei singoli beni, specificando il destinatario per ciascuno di essi, oppure, all'inverso, avere come elenco prevalente quello dei destinatari, specificando per ognuno di essi quali sostanze egli verrà in possesso. Queste variazioni nella struttura dell'elenco sono un fattore importante da considerare, perché nel primo caso il testo appare indirizzato a formalizzare per scritto le peculiarità patrimoniali, nel secondo sono invece sottolineati le relazioni sociali e i legami del donatore: la prospettiva del primo elenco è di consolidamento dello status acquisito, quella del secondo appare volta invece a delinearne una possibile evoluzione. Parte integrante della dispositio, sono infine le modalità rituali con cui il donatore dovrà essere ricordato sia immediatamente dopo la sua morte, sia negli anni successivi; l'escatocollo comprende infine la proibizione a venir meno alla irrevocabile volontà espressa dal donatore, e, come di norma, la serie dei sottoscrittori e la sottoscrizione del redattore dell'atto.

Rispetto alla struttura diplomatistica dei testamenti transalpini di età merovingia, esaminata in una serie di lavori recenti 23 le carte italiane presentano una maggiore ricchezza nel formulario del protocollo in cui costantemente si precisa il motivo che ha spinto il donatore a far redigere l'atto: la partenza per la guerra 24, la mancanza di figli maschi 25 o più semplicemente il desiderio di assicurare a sé e ai propri defunti una posizione stabile nell'al di là 26, e assai più raramente il timore della morte imminente 27, o la malattia 28. Di recente si è supposto che tali puntualizzazioni siano una diretta spia della novità che per i Longobardi rappresentava il far uso di documenti scritti per stabilire le proprie volontà dopo la morte: nell'Italia meridionale bizantina, dove si continuò semplicemente la tradizione precedente, le motivazioni che avevano spinto il testatario a redigere l'atto non compaiono quasi mai 29. Tuttavia, il fatto che le donazioni post obitum appaiano molto raramente in connessione con l'imminenza della morte, pone in rilievo che il loro valore principale fosse quello di garantire al testatario, durante il resto della sua vita, l'usufrutto e la disponibilità di alcuni suoi beni al sicuro da contestazioni. Torneremo più avanti sul problema. Le donazioni post obitum presentano una sorprendente uniformità, anche al di là delle variazioni che ho prima sottolineato, nelle categorie dei beni menzionati, cioè quelli che sono giudicati rilevanti per qualificare lo status del donatore: all'elenco dei beni fondiari, segue costantemente la menzione degli animali, dei servi (di cui si ordina la liberazione nel giorno della morte del donatore), e infine dei mobilia o scherpa, che possono sia essere elencati con precisione mentre si stabilisce chi ne verrà in possesso, sia essere menzionati cumulativamente, riservandosi la facoltà di donarli pro anima 30. Terra, animali, servi e mobilia vengono dunque a comporre la peculiarità patrimoniale di un'élite, che trova nel testamento l'occasione di elencare per scritto i beni che definiscono la posizione sociale, affermando le proprie caratteristiche attraverso uno strumento destinato a durare nel tempo. Elencare, prevedere e condizionare furono le opportunità offerte ai Longobardi dalla parola scritta, le cui molteplici funzioni e potenzialità essi avevano imparato ad apprezzare e a utilizzare attraverso la mediazione degli ecclesiastici. 3. I rituali funerari e le loro variazioni in età longobarda Occorre anzitutto soffermarsi, in generale, sul significato sociale della morte e dei rituali ad essa connessi. Per società non strutturate gerarchicamente attraverso un cursus honorum pubblico, quale fu inizialmente quella del regno longobardo 31, il mantenimento di uno status privilegiato è affidato non al ricoprire una carica pubblica, come nel mondo romano, bensì a una continua negoziazione 32: nell'alto medioevo un dives non può permettersi di essere parsimonioso, poiché l'ostentazione e la spartizione della ricchezza con i propri sodali rappresentano gli strumenti di consolidamento e conferma della ricchezza stessa e della posizione di centralità sociale dell'individuo 33. In questo contesto di relativa instabilità, la morte di un individuo costituisce un momento di potenziale di crisi per il gruppo parentale: esso tende pertanto a sviluppare un rituale atto a ribadire lo status del defunto, trasferendone le peculiarità su di sé 34. Le variazioni nei rituali della morte sono perciò strettamente connesse con i modi di trasmissione del potere e della rilevanza sociale nella società dei vivi. In età romana, si sa, le élites demandavano la continuità familiare alle iscrizioni e alle tombe famigliari anche monumentali, nei confronti di un'audience soprattutto urbana 35. Invece sepolture senza evidenti segni della loro presenza nel territorio, prive del ricordo scritto dell'identità dei sepolti - se non forse cumuli di pietre e, in casi eccezionali e urbani, le pertiche ricordate da Paolo Diacono fuori Pavia 36 ma che contengono al loro interno un defunto riccamente abbigliato pongono chiaramente l'accento sul momento dell'interramento come momento chiave della trasmissione delle peculiarità del defunto a coloro che, amministrando il rituale funebre, si proclamano suoi successori. Il momento dell'interramento è cioè quello nel quale la comunità ha la possibilità di vedere il defunto riccamente abbigliato e una famiglia ha di proclamare la continuità del suo status. I corredi funebri di armi e gioielli sono la prova che, almeno fino alla metà del VII secolo, i Longobardi affidavano al momento della sepoltura e delle cerimonie a essa collegate un grande valore simbolico e celebrativo, volto ad assicurare ai discendenti le prerogative sociali del defunto espresse e definite attraverso il suo

corredo. Si tratta cioè di un rituale amministrato dal gruppo parentale, privo di forme esteriori durevoli nel tempo, che si indirizza a una comunità locale e affida alla tradizione orale il ricordo delle cerimonie funebri e la memoria del prestigio familiare 37. Le variazioni nelle componenti del corredo, attraverso il ricorso a oggetti più o meno suntuosi, in stile 'germanico' o 'bizantino', sono la spia più efficace di quanto mutevoli e soggetti ai modelli elaborati in sede locale fossero gli strumenti con cui lo status era affermato e percepito 38: gli elementi del corredo funebre non erano stabiliti rigidamente per sottolineare l'appartenenza etnica, ma scelti di volta in volta per ostentare il prestigio sociale negoziato localmente. Non c'è dubbio che lo stanziamento in Italia da parte dei Longobardi costituì un forte mutamento: come ha brillantemente sintetizzato Paolo Cammarosano, oltre che di un mutamento per la storia d'Italia si trattò di una importante frattura per la storia dei Longobardi stessi 39. Per l'aspetto che qui ci interessa, a partire degli ultimi anni del VI secolo e fino almeno al primo venticinquennio del VII secolo, essi accentuarono fortemente il carattere di ostentazione sociale delle sepolture con corredo, moltiplicando gli oggetti preziosi tesaurizzati 40. Si potrebbe dire che nel momento del radicamento territoriale nel mondo latino, le forme peculiari di sepoltura dei gruppi Longobardi furono ulteriormente enfatizzate e presentate come attributo distintivo delle élites. Rispetto alle deposizioni della Pannonia e del primo periodo italiano, le élites del III secolo sono seppellite con oggetti che si riferiscono a tre classi tipologiche: l'abito funebre (decorato da fibule, cinture, vesti di broccato d'oro), le armi (se si tratta di sepolture maschili), i gioielli (se si tratta di sepolture femminili) e infine gli oggetti riferibili al banchetto, generalmente deposti ai piedi. Questi ultimi comprendono recipienti di vetro, bacili e brocche di bronzo, e infine recipienti di ceramica. L'arricchimento del corredo può essere spiegato attraverso il processo di progressiva trasformazione dei mezzi di ostentazione sociale da parte dell'aristocrazia longobarda: il radicamento territoriale aveva infatti profondamente mutato i valori e le azioni in base alle quali un uomo libero poteva dimostrare e conservare la propria specificità in una società semi-sedentaria, quali l'abilità nella razzia e nel raccogliere un ricco bottino, e il diritto di partecipare all'exercitus. Con l'insediamento in Italia, la nuova condizione di proprietari fondiari, pur permanendo la partecipazione all'exercitus come attività principe dell'uomo libero, sembra aver comportato una ridefinizione e un arricchimento della social persona: le sole armi - la componente principale dei corredi maschili pannonici - non risultarono cioè sufficienti a definire la più ampia sfera di relazioni delle aristocrazie. Ricche vesti, guarnizioni da cintura di oro e di argento, cioè oggetti di ornamento personale, si accompagnarono sempre più frequentemente a oggetti relativi al banchetto che sottolineavano la prodigalità del defunto e della famiglia nello spartire le proprie ricchezze in occasioni collettive e conviviali, volte a consolidare la fama e il rispetto 41. La stessa selezione delle armi tesaurizzate si ampliò, venendo a comprendere anche armi difensive quali l'elmo e la corazza, e parimenti potenziando gli elementi decorativi delle armi tradizionali, la spada e lo scudo 42. Se questo processo di ostentazione e stravaganza funeraria sembra riguardare nel complesso le sepolture in Europa, specie tra quelle popolazioni che non avevano ancora instaurato uno stabile rapporto di collaborazione politica con le élites ecclesiastiche, è da notare come, a differenza di AngloSassoni 43, Alamanni 44 e Visigoti 45, i Longobardi tesero a sottolineare il proprio rango equestre: a partire dagli ultimi anni del VI secolo, compaiono infatti alcune sepolture in cui si può riconoscere l'intenzione di qualificare il sepolto come uomo armato a cavallo. Gli oggetti utilizzati si riferiscono all'equipaggiamento del cavaliere e alla bardatura del cavallo (gli speroni, le briglie, il morso del cavallo) e comprendono talvolta vere e proprie sepolture di cavalli, poste accanto a quelle umane, oppure in fosse separate 46. Se sicuramente i cavalieri ebbero una rilevante funzione militare oltre che uno status sociale elitario già nella fase pre-italiana dei Longobardi 47, le sepolture ritrovate in Pannonia, anch'esse con corredo, presentano soltanto in casi eccezionali gli arredi 'da cavaliere': il morso del cavallo e le guarnizioni delle briglie furono inoltre i principali oggetti utilizzati per definire tale condizione 48. L'esigenza di qualificare alcuni defunti come cavalieri sembra scaturire, o per lo meno essere accentuata, dallo stanziamento in Italia, quando il corredo tradizionale maschile (formato da una

semplice cintura con guarnizioni di ferro, spada e scudo) non risultò più adeguato a esprimere con la dovuta efficacia la peculiarità di un'élite di possessori armati 49. Il confronto con la cronologia europea della distribuzione spaziale e temporale delle tombe da cavaliere permette di proporre, se non altro come ipotesi di lavoro, l'interpretazione fornita da Klaus Randsborg per i corredi equestri che si diffusero, in soluzione di continuità con la tradizione precedente, nella Danimarca del X secolo: essi paiono infatti esprimere l'ostentazione di un nuovo strato sociale di leaders armati, formatosi in concomitanza al processo di distribuzione delle terre che accompagnò il consolidarsi del regno 50. L'ostentazione equestre sarebbe allora ricollegabile a forti mutamenti nella composizione sociale delle élites e coloro che tendono a manifestarla si presentano come veri e propri parvenus. Si è detto che i corredi equestri si accompagnano, di norma, con un apparato ridondante di corredo, che testimonia il notevole investimento effettuato dalla famiglia (anche in termini economici) nel dotare il morto di oggetti volti a caratterizzare appieno le qualità e il rilievo della sua social persona e del gruppo parentale. Vale la pena di notare che, parallelamente al cambiamento che si è finora delineato, se ne affiancò un secondo, finora non sufficientemente messo in rilievo. Mentre le deposizioni femminili pre-italiane e relative al periodo immediatamente successivo alla migrazione dei Longobardi presentano corredi assai semplici, in genere limitati a scarsi ornamenti di abbigliamento (in genere la coppia di fibule ad S 51) le tombe equestri sono puntualmente accompagnate da tombe femminili che presentano un parallelo carattere di eccentricità. Accanto ai monili trovano cioè posto offerte funebri del tutto simili, quantitativamente e tipologicamente, a quelle dei cavalieri. Se nel VI secolo appare assai problematico individuare, sulla sola base dei corredi femminili, dei caratteri precipuamente distintivi di diverso stato sociale, all'inizio del VII secolo pare manifestarsi l'intenzione di indicare con chiarezza un modello di deposizione femminile che potremmo chiamare 'le donne del cavaliere' intendendo con questa espressione gli elementi femminili collegati in vario modo (moglie, figlia, sorella) con il defunto. In questa fase di mutamento, le donne paiono poter utilizzare, condividere, ma soprattutto contribuire ad affermare i simboli di status del loro gruppo parentale 52. 4. La Chiesa e le donne E in questo contesto, in cui assistiamo alla formazione di un nuovo ceto di possessori, che si può inserire una variante in controtendenza. Narra la Vita di Gertrude, badessa del monastero regio di Nivelles e figlia di Pipino e Itta, scritta alla fine del VII secolo, che all'approssimarsi della morte ella volle che “in ipso sepulture loco nullum laneum nec lineum vestitum super se misissent praeter unum velum vile multum [...] et ipsum cilicium: in sepulcro, ubi in pace quiescit, nullo alio velamine cooperire, exceptis his duobus, cilicio, quae induta fuerat, et panno vetere, quod ipsum cilicium tegebatur. Dicebat autem quod res superflua nihil morientibus nec viventibus adiovare potuisset” 53. Per contrapposizione alle ricche sepolture con corredo che avevano, per esempio, accompagnato le sepoltura di Baltilde, badessa di Chelles, e di Teodechilde, badessa di Jouarre 54, Gertrude volle sottolineare 1'umilitas, il disprezzo per le forme di ostentazione dell'origine sociale, quali le ricche vesti funebri. Giustamente si è rilevato quanto tale atteggiamento minimalista fosse proficuo nel definire il nuovo orientamento dell'aristocrazia merovingia nei confronti della morte 55. L'ostentato disprezzo delle usuali forme di celebrazione del prestigio sociale sottolineava infatti, attraverso il ribaltamento dei comportamenti tradizionali, la continua rielabolazione delle celebrazioni della morte di un gruppo sociale alla costante ricerca e ridefinizione della propria specificità. Il nuovo orientamento, che negava esplicitamente ogni valore simbolico agli oggetti sepolti con il morto, appare come una risposta aristocratica alla diffusione generalizzata dei corredi funebri, nel frattempo sempre più frequentemente composti da oggetti che semplicemente evocavano quelli tesaurizzati nelle ricche deposizioni dell'inizio del secolo 56.

Anche se riferita al peculiare contesto della società merovingia, ove la compenetrazione di ruoli e di interessi tra carriere laiche e carriere ecclesiastiche poteva certamente contare su una consuetudine di maggiore durata rispetto al caso italiano 57, la scelta di Gertrude può essere un utile punto di riferimento per comprendere in che termini si manifestò l'influenza ecclesiastica nel promuovere l'abbandono dell'uso del corredo tra i Longobardi, fenomeno ormai generalizzato durante il secolo VIII. Di recente Giovanni Tabacco ha sottolineato il peculiare rapporto che si era instaurato tra i Longobardi e le istituzioni ecclesiastiche locali, a partire dall'inizio del VII secolo. Nel regno dei Longobardi “le comunità monastiche si offrivano come ancora di salvezza religiosa, mezzo di acquietamento morale, garanzia di conservazione sociale per i possessori più trepidanti, mentre vescovi e abbaziati mantenevano aperte all'inquieta aristocrazia longobarda le vie della promozione individuale e parentale” 58: I'aggregazione attorno agli enti monastici dei gruppi parentali aristocratici non era però stata incentivata dall'intervento regio, così come era invece avvenuto nel regno dei Franchi, ma si era invece manifestata in modo del tutto spontaneo 59. Le istituzioni ecclesiastiche avevano cioè acquisito un ruolo non nel funzionamento del regno, bensì nel rafforzamento patrimoniale delle aristocrazie, esercitando una spontanea attrazione nei confronti dei laici grazie al rigore delle proprie tradizioni e alla gamma di strumenti culturali e di mezzi concreti di potenziamento che esse sole parevano offrire: il loro fascino risiedeva nell'essere rimasto un mondo governato da altre leggi, che aveva perpetuato lettura e scrittura come strumenti della propria specificità 60, Vi sono alcuni indizi per poter ritenere che tale 'fascino' si esercitò anzitutto sulle donne, offrendo ad esse, ai margini delle leggi consuetudinarie che regolamentavano i rapporti patrimoniali, l'opportunità di investire alcune delle loro sostanze come doni alla chiesa, salvaguardando sia una parte degli stessi beni per il proprio sostentamento sia la loro posizione in rapporto ai conflitti interni alla propria famiglia 61. L'esempio veniva dall'alto, come si può osservare dai rapporti epistolari intercorsi tra papa Gregorio Magno e la regina Teodelinda, e, successivamente, dalle donazioni fondiarie promosse dalle regine a favore di vari monasteri del regno 62. Il rapporto tra istituzioni ecclesiastiche ed elemento femminile della società si venne saldando grazie a una serie di rapporti di natura patrimoniale, che non furono necessariamente in antagonismo alle strategie patrimoniali parentali. Un censimento, recentemente effettuato, sull'andamento delle fondazioni monastiche femminili nell'Italia altomedievale, ha dimostrato che essi sono in grandissima parte fondati da laici, mentre i monasteri maschili presentano una percentuale assai più ampia di fondatori ecclesiastici 63: se in molti casi, come in quello di Rottopert e delle sue figlie, la monacazione serviva a orientare lo sviluppo famigliare e a limitare il numero dei discendenti, in altri la facoltà di donare alla Chiesa alcune sostanze poteva agire come strumento di rafforzamento individuale per le donne stesse. È infatti circa la possibilità di donare liberamente per le donne che l'Editto di Rotari interviene in maniera impositiva, quasi certamente sulla spinta delle pressioni di un conflitto esistente all'interno dei gruppi famigliari, stabilendo in modo irrevocabile il controllo maschile sulle attività patrimoniali delle donne 64. I contatti tra Chiesa e aristocrazia in Italia compresero, come è stato più volte sottolineato, una profonda modificazione culturale che consistette anzitutto nell'iniziazione alla parola scritta e al suo valore di testimonianza di prova nei conflitti, ma non solo. Dalla nostra angolazione ci interessa sottolineare che l'intensificarsi dei rapporti tra aristocrazia e gerarchie ecclesiastiche favorì, durante l'VIII secolo, l'immissione dei rituali funerari nell'ambito ecclesiastico, attraverso i crescenti rapporti che venivano stringendosi tra le donne e gli enti monastici. Ne derivò, anzitutto, un nuovo approccio alla commemorazione del defunto che interpretava la messa come mezzo per alleviare la sofferenza delle anime nell'aldilà e per espiare i peccati dopo la morte, favorendo la creazione di una serie speciale di messe commemorative, esplicitamente indirizzate a questo obiettivo 65. I riti funerari incominciarono cioè a orientarsi verso forme ecclesiastiche di celebrazione e di perpetuazione della memoria.

Il crescente peso dei monaci in questo ambito si manifestò su piani diversi: da un lato incoraggiò l'impiantarsi delle necropoli all'interno degli edifici ecclesiastici 66, dall'altro stimolò il ritorno della parola scritta come parte integrante della celebrazione della memoria individuale dei defunti, come testimoniano le numerose iscrizioni di regine e di aristocratiche pavesi, di recente riesaminate da Franca Ela Consolino 67; infine suggerì l'utilizzazione di alcuni mobilia come strumento di negoziazione del destino del defunto. Come la moglie di Rottopert, anche Ansa, moglie di Tenderacio di Rieti, ebbe dal marito il compito di distribuire pro anima caldaria II, concas de auricalco II, caballum maurum I et alium cavallum graum ed altri animali e servi, e di donare un cavallo ciascuno a tre preti minuziosamente indicati 68. Il rapporto tra figure femminili, enti monastici e celebrazione del rituale funerario risulta anche dal fatto che il compito di assolvere al rituale post mortem appare riservato alle donne anche nel caso che il testatario non abbia moglie o sorelle: è il caso di Anspaldo di Lucca che incarica Rattruda ancilla Dei parente mea, oltre che di reggere la chiesa di S. Maria fondata da Anspaldo stesso, anche di liberare i servi e di assegnare i monoilia (composti da ceramenta, ferramenta usitilia lignae) per la sua anima 69. Sembra allora che si possa supporre che le donne, tradizionali amministratrici del rituale funerario, abbiano contribuito in maniera non irrilevante nel promuovere una direzione ecclesiastica ai mutamenti nella celebrazione dei defunti, eleggendo i monasteri locali, e non i loro sepolcri personali, come i più efficaci custodi dei loro beni mobili. I rapporti tra donne e chiese locali si manifestarono anzitutto attraverso le donazioni dei propri beni individuali. Si tratta del morgencap, il dono che il marito faceva alla donna il giorno delle nozze, consistente in una serie di beni mobili 70 e beni fondiari 71, e del faderfio, cioè i beni famigliari donati alla donna dal padre come parte legittima dell'eredità in die votorum, il giorno in cui veniva stipulato il contratto matrimoniale 72. Sebbene più raramente, è attestata quale parte della donazione la quota ricevuta in eredità, alla morte del padre e della madre 73. Alcuni documenti, oltre a presentare la normale indicazione dei beni mobili indicati in modo globale con il nome di scherpa, presentano anche un elenco piuttosto dettagliato degli oggetti assegnati. Ne è esempio la serie di gioielli d'oro di abiti e di mantelli donati da Optileopa, moglie di Warnefrit, gastaldo di Siena nel 730, al monastero famigliare di S. Eugenio, fondato “pro redemptione animarum genitori et genitrici nostre et remedio anime nostre et pro animalus parentorum nostrorum qui iam fuere et qui per futura tempora fuerint” 74. In quest'occasione lo stesso Warnefrit coglie l'opportunità di elencare una serie di oggetti di metallo, di utensili di bronzo, di attrezzi agricoli che diventeranno in possesso del monastero 75, ponendo anche in rilievo la rarità di quegli stessi oggetti tra i normali utensili domestici 76. L'elenco scritto dei beni fondiari, dei mobilia, dei servi, degli animali, trasformava il testamento in un'occasione per elencare i beni stessi, ove cioè lista dei beni veniva ad assumere un valore altrettanto importante della loro destinazione, poiché definiva il rango del testatore stesso. Se non esiste alcuna proibizione a seppellire con un corredo funebre, esistono invece delle esortazioni precise ad affidare la continuità della famiglia non più nei doni al morto bensì in doni mediati dalla Chiesa, che si fa garante del patrimonio e del prestigio famigliare. La distribuzione dei mobilia in elemosina ai poveri viene ad assumere il valore di investimento per l'anima del defunto, ed è a volte sostituita, nella seconda metà dell'VIII secolo, con una quantificazione in moneta. Nel 765 il prete lucchese Risolfo si riservava 250 solidi dalle sue sostanze per ottemperare la commemorazione dei genitori: 150 per 1'anima del padre, solo 100 per la madre 77. Si noti in particolare l'affinità del rituale di rottura degli oggetti per l'elemosina funebre, utilizzato da Rottopert 78, con il rituale che aveva luogo al momento della monacazione: anche le regine merovingie Baltilde e Radegonda, al momento della loro entrata in monastero, deposero sull'altare alcuni oggetti preziosi stabilendo che il proprio “cingulum auri ponderatum fractum” fosse distribuito “in pauperum” 79. Sia per il defunto, sia per il monaco, il cambiamento di status è dunque sottolineato attraverso la privazione, la donazione e la distribuzione degli status symbols, quali anzitutto le cinture 80. Con le proprie preghiere, chierici e monaci si presentavano come ricettori efficacissimi di doni, poiché essi promettevano in cambio l'eternità e l'espiazione dei peccati: tra i compiti di Muntia,

Perterada e Ratperta, rispettivamente` madre, moglie e sorella di Ratperto di Pistoia, destinate alla monacazione presso il monastero dei SS. Pietro Paolo e Anastasio, vi è quello di pregare “pro anima mea gravata ponderis peccatis meis die noctuque” 81; Altiperga nel donare la sua casa alla chiesa di S. Salvatore di Valdottavo, chiede che il prete Lopardo dopo la sua morte “pro me peccatrice et indigna missas et orationes cottidie proficiscat” 82; Tenderacio, in partenza per la guerra, stabilisce che il monastero famigliare e i suoi beni siano destinati al monastero di Farfa, i cui monaci già “canunt pro antecessore nostro” affinché essi “pro anima nostra orent et pro nobis” 83. Tale rapporto si andava cioè strutturando in un organico scambio bilaterale di doni e di controdoni: da un lato i doni di terre e mobilia a chiese e monasteri permettevano alle aristocrazie di investire una parte delle loro sostanze in enti sotto il loro controllo; dall'altro, le donazioni incrementavano la credibilità degli enti stessi come efficaci intermediari con Dio 84, Il legame tra lo status sociale della famiglia, i riti funerari volti a perpetuarlo e il ruolo monastico nel suggerire le modalità più efficaci allo scopo, avrà come compiuta realizzazione, nella prima età carolingia, la disposizione scritta del luogo in cui si desidera essere sepolti: una voce che nelle carte longobarde non compare mai e fa la sua prima apparizione nel 768 a Rieti, quando il chierico Ilderico stabilisce che i suoi eredi “in ipsa ecclesia et in atrius ipsius ecclesie sepulturas sibi faciant”. La chiesa è quella di proprietà di Ilderico stesso, la donazione viene effettuata “pro anima fratris mei Valerini”, l'amministrazione dei beni della chiesa è affidata alla moglie Gutta “cum filiaLus suis”: si tratta dunque di un vero e proprio centro di commemorazione dinastica 85. D'altronde, proprio l'efficacia dell'investimento è l'elemento che viene costantemente e opportunamente utilizzato nelle arenghe delle donazioni. Esse, prendendo spunto da opportune citazioni evangeliche, esortano: “nolite thesaurizare vobis super terram, ubi furis effodiunt et furantur, sed thesaurizate vobis thesaurum in caelum, ubi fur, id est diabolus, non adpropinquat” 86, Come spiegare in modo più convincente a un longobardo, uso a concepire i doni come gli indispensabili strumenti delle proprie relazioni sociali, I'efficacia dei doni a Dio? Abbiamo già accennato che dal punto di vista del formulario i testamenti redatti nel regno dei Longobardi sono estremamente più ricchi e articolati di quelli transalpini: i notai e gli ecclesiastici che provvidero a redigerli esprimevano appieno, attraverso quel solenne e ridondante apparato di citazioni bibliche, le ragioni profonde che spingevano i testatori. 5. L’ambiguità delle vedove Lo stabile rapporto di protezione nei confronti di un ente ecclesiastico fungeva inoltre da involontario veicolo di autonomia per una categoria sociale molto diffusa anche in età longobarda, quella delle vedove. Come ha giustamente sottolineato Karl Leyser, l'altomedioevo è fitto di vedove attive, data la frequentissima forte disparità di età tra marito e moglie e il maggiore rischio di mortalità maschile che comportava l'esercizio dell'attività militare 87, In quasi ognuno degli atti post obitum che ho esaminato, le vedove compaiono o come diretto attore documentario, oppure risultano, in qualità di vedove a venire, usufruttuarie di una parte dei beni del marito 88, a patto che esse non si risposino per una seconda volta: in questo caso, si afferma, la donna torni in possesso del morgengap e dei suoi doni nuziali “et faciat quod vult” 89. Ma quest'ultima possibilità, a giudicare dalle carte coeve, non doveva risultare molto allettante, né fu frequentemente praticata, nonostante le comprensibili pressioni della famiglia di origine della vedova. È noto infatti che le donne sposate o laiche potevano intrattenere tali rapporti sociali soltanto attraverso la mediazione del proprio mundoaldo, che le rappresentava giuridicamente e pubblicamente: si è giustamente supposto che in tutte le carte ove compare una coppia di donatori (moglie e marito, più raramente padre e figlia, fratello e sorella) i beni donati siano quelli di proprietà della donna 90. Ben più fruttuoso, dal punto di vista dell'autonomia personale, risultava il discreto mundio ecclesiastico, grazie al quale le vedove sono di fatto in grado di avere rapporti sociali e di stringere legami clientelari 91 attraverso donazioni 92, vendite 93, permute e acquisti 94 di terra: le carte fatte redigere dalle ancillae Dei, non presentano infatti, in molti casi, la presenza di un componente maschile della famiglia di appartenenza che figuri acconsentire al negozio

stipulato 95; là dove tale certificazione formale è presente, le ancillae Dei compaiono comunque come attori documentari, appongono il proprio signum manus in testa alla lista dei sottoscrittori e sono denominate con gli appellativi che normalmente individuano la piena volontà e riconoscimento giuridico, traslati dal vocabolario maschile 96. L'esempio più noto, e forse più significativo nella sua eccezionalità, è d'altronde fornito dall'attività documentaria ed economica intrapresa dalla figlia del re Desiderio, Anselperga in qualità di badessa del monastero regio di S. Salvatore di Brescia, la quale, almeno dal punto di vista formale, appare come autonomo attore giuridico 97. Sullo stesso piano delle vedove compaiono poi le concubine di laici e di ecclesiastici, anch'esse designate quali usufruttuarie dei beni delle singole chiese, quando il donatore morirà 98. Lo stato di liminalità in cui le vedove si venivano a trovare comprendeva sia aspetti che ne accentuavano la debolezza, sia potenzialità di assicurare il proprio futuro. In particolare la possibilità di velarsi e di indossare la “nigram vestem quasi religiosam” 99, rimanendo non sposate, permetteva alle vedove di continuare a risiedere nella propria abitazione: esse risultavano di fatto sottratte alle pressioni dei gruppi parentali d'origine e d'acquisto, perché formalmente sottoposte all'autorità religiosa 100; d'altro canto l'impossibilità dell'obbligo a risiedere all'interno di un monastero permetteva loro una certa autonomia di vita, al riparo delle stesse costrizioni che la vita ecclesiastica imponeva 101. Nonostante le pressioni esercitate dall'autorità regia in età longobarda a non affrettare il momento della velatio e ad attendere almeno un anno dalla morte del coniuge 102, e poi inversamente dalle gerarchie episcopali carolingie a entrare in un monastero entro un mese 103, questi sforzi rimasero in gran parte inefficaci. Proprio l'ambito liminale della velatio entro la propria casa faceva delle vedove una categoria che l'autorità pubblica doveva proteggere ma anche tentare di controllare, poiché attirava su di sé il sospetto e l'antagonismo sociale: come intendere altrimenti il lungo capitolo 12 delle leggi di Arechi dedicato a reprimere con la monacazione entro un anno certe attività peccaminose delle muliercule velate di Benevento? Esse, si dice, “defunctis viris, maritalis dominaturae solutae” approfittano della loro condizione di libertà per recarsi alle terme, per pranzare e bere, per aggirarsi agghindate e truccate per la città, scatenando il desiderio di chi le vede. La promiscuità sessuale, seppur “non facile comprobatur”, viene allora indicata come una delle probabili conseguenze di tale fluida e flessibile condizione, esplicitando la profonda diffidenza e ostilità nei confronti dei comportamenti pubblici delle vedove, tanto da qualificarli come pestis execranda 104. Lo stato vedovile doveva riguardare molte donne ancora giovani (a giudicare dall'attrazione che esse esercitavano in pubblico) e fertili 105, la cui velatioimpediva al nucleo parentale nuovi collegamenti attraverso un secondo matrimonio. Non è un caso se tra tutte le carte redatte nell'Italia longobarda soltanto una volta assistiamo esplicitamente a seconde nozze e che l'esempio si riferisca a un elevatissimo grado sociale. Natalia clarissima femina, moglie dapprima di Alchis gasindio regio, e poi di Adelberto “antepor domne regine” 106 è infatti imparentata con una serie di personaggi collegati alla famiglia regia e specialmente alla clientela della regina Ansa 107: il suo matrimonio si può quindi collocare in una più ampia dimensione di alleanze patrimoniali direttamente correlate alla politica di rafforzamento della famiglia regia e degli enti ecclesiastici da questa controllati 108. Molto frequente è pertanto il caso di vedove che diventino ancillae Dei e che, attraverso le disposizioni pro anima del proprio marito, vengano a essere nominate usufruttuarie e reggenti di enti ecclesiastici: nel caso in cui il marito avesse disposto altrimenti, risultava perfettamente accettabile produrre una carta falsa in cui tale disposizione comparisse. È il caso di Ratruda, che riesce a vedere riconosciuta la propria autorità sullo xenodochio fondato dal marito nonostante l'opposizione del fratello del defunto. Infatti la donazione scritta (che Ratruda aveva probabilmente fatto confezionare) precisava che sarebbe stata lei stessa ad amministrare l'ente ove il vescovo di Pisa l'avesse retto indegnamente, e che sarebbe stato suo compito distribuire i mobilia del marito “in die obitus sui” 109. Le vedove ricorsero assai frequentemente a donazioni post obitum: non per il timore della morte imminente, ma per certificare attraverso un elenco scritto i loro possessi e il loro futuro sulla terra. Il momento della redazione dell'atto sembra cioè coincidere con la morte del marito stesso 110.

Il rapporto tra enti monastici e l'aristocrazia femminile si realizzava concretamente attraverso la normale procedura delle donazioni, specie quelle rivolte ai monasteri famigliari, che spesso destinavano al velo tutte le donne della famiglia: esse, di fatto, si trovavano perciò ad amministrare il patrimonio e le relazioni sociali dei monasteri stessi, attraverso le possibilità di usufrutto dei beni contenute nelle clausole delle donazioni stesse 111. Un esempio dell'elasticità con cui la vedova poteva agire, in accordo con il proprio gruppo parentale, nell'interpretare le donazioni, viene ancora una volta dalla famiglia di Natalia: sua madre, Radoara, dopo essere rimasta vedova dello strator Gisulfo e destinataria dell'usufrutto della metà dei suoi beni, chiede e ottiene da re Desiderio il permesso di vendere la metà della corte di Alfiano per potere ottemperare al suo dovere rituale di distribuire le elemosine a nome del marito. È il vescovo stesso di Lodi, nominato da Gisulfo esecutore testamentario, ad acconsentire a tale procedura: si tratta però, almeno in parte, di una vendita endogamica, poiché gli acquirenti sono il monastero regio di S. Maria e Arioald, fratello di Radoara; sottoscrivono all'atto i due fratelli e il genero di Radoara, indicando chiaramente il ramo della famiglia che sostiene la transazione 112, In altri casi, come quello di Magnerada di Campione, la donazione vedovile confluisce a rafforzare il patrimonio di monasteri privati, fondati dalla famiglia di origine della vedova, obbedendo a una logica di potenziamento interno l13. La debole condizione vedovile offriva, attraverso l'ambiguità della posizione sociale, gli strumenti per ottenere la protezione regia o ducale dalle pressioni esercitate dall'interno del nucleo parentale: Taneldis, vedova di Pando, ottiene dal duca di Spoleto Teodicio il permesso di donare al monastero di Farfa ciò che le era stato assegnato in usuirutto alla morte del marito. Il figlio Benedictus viene privato dell'eredità per il suo comportamento vessatorio nei confronti della madre, alla quale “multas (...) iniurias et amaritudines atque damnietates fecit, quod multis cognitum est” l14. La protezione monastica che Taneldis otteneva attraverso il dono di alcune terre, le permetteva cioè di raccordarsi direttamente con il più potente proprietario fondiario della zona e di liberarsi dall'invadenza di un figlio “rebellis et contrarius vel inobediens”. Il fascino ambivalente esercitato dalla chiesa, sia come rafforzamento del gruppo parentale, sia come veicolo di autonomia personale, è d'altronde direttamente visibile nelle fondazioni religiose femminili che numerose sorsero, specie all'interno delle mura urbane, nelle città longobarde 115: enti, si badi bene, sia fondati dalla coppia congiuntamente, ma anche da donne in prima persona. Detentrici del rituale funerario e svincolate, almeno formalmente, dall'autorità del gruppo parentale, le vedove 'di fatto' e le vedove probabili sembrano aver agito, come Rotruda, la moglie di Rottopert, sia in modo aperto e evidente, sia attraverso suggerimenti, come protagoniste dell'abbandono dei corredi prima per sé e poi per i loro famigliari, dimostrando loro l'efficacia pratica e ultraterrena di tale agire. D'altro canto, vedove, mogli e ancillae Dei costituirono per gli ecclesiastici un importante veicolo per la cristianizzazione dei rituali della morte e, infine, nella piena età carolingia, per giungere ad amministrare essi stessi il rituale, affiancandosi e poi sostituendosi alle donne 116. Il cambiamento nel rituale funerario fu dunque il frutto di una collaborazione tra élites ecclesiastiche e laiche, le quali si trovarono concordi nel sottolineare, come nel caso di Gertrude, la scelta di una morte austera, allo stesso modo in cui un secolo prima essi avevano invece ostentato la propria esuberante ricchezza. Lo straordinario elenco di 88 carte, composto da vendite, donazioni, permute, che documentavano l'attività economica di Alabis, fu consegnato da Tenspert di Pisa a Ghitta ancilla Dei e alle sue figlie, comprovando la legittimità dei possessi del monastero in cui Ghitta risiedeva. All'elenco delle carte, segue un elenco, purtroppo mutilo, di mobilia, dello stesso Alahis: accanto a monete, un petium de auro, troviamo anche le guarnizioni della cintura (“uno baltio cum banda et fibula de argento inaurato”) un armilla, cucchiai e speroni d'argento 117. Carte scritte e oggetti personali definivano compiutamente la personalità e lo status sociale della famiglia che Ghitta stessa, in quanto religiosa, doveva celebrare e perpetuare. 6. Conclusione

L'abbandono dei corredi funebri da parte dei Longobardi non comporta allora la perdita di valore dei mobilia, né il semplice passaggio di essi come doni alla Chiesa. I mobilia appaiono rivestire una funzione specifica che rimane m un primo tempo strettamente correlata all'ambito dei riti di passaggio all'aldilà, mantenendo anche la specifica caratterizzazione individuale dell'originario proprietario degli oggetti. La rottura delle cinture e la distribuzione pro anima ai pauperes individua nell'oggetto che più di ogni altro qualificava lo status sociale del suo proprietario, lo strumento di negoziazione della posizione del defunto nel mondo dei morti. In questa modificazione gli enti ecclesiastici appaiono non i diretti destinatari dei mobilia, bensì coloro che indirizzano, attraverso la cooperazione delle ancillae Dei, delle viduae santimoniales, e in generale, delle donne della famiglia del defunto, il rituale della morte a conformarsi ai riti che precedevano la monacazione. I1 cambiamento non fu né repentino né il frutto di un'azione coercitiva da parte della Chiesa, esplicitamente e consciamente progettata per inglobare nei propri 'tesori' gli oggetti preziosi. Tantomeno consistette nel passivo adattamento alle pratiche sociali della popolazione romana. Esso appare piuttosto come indicatore propositivo per il mutamento della società longobarda, che gradualmente si abituò a investire il proprio futuro in carriere laiche e carriere ecclesiastiche, utilizzando gli strumenti di continuità familiare come mezzo di scambio per l'eternità. La redazione delle liste scritte, attraverso le quali i donatori e le donatrici, oltre che designare i loro successori, potevano anzitutto elencare la serie dei loro beni, costituiva un'opportunità per elencare le aspettative individuali nei confronti del futuro sulla terra. CRISTINA LA ROCCA

1 Il documento, edito in CDL, I, 82 è conservato presso l'Archivio di Stato di Milano ed è tramandato in copia autenticata del XIII secolo. La sua struttura e il contesto sono stati analizzati, anche se sotto una prospettiva diversa da quella che qui si presenta, da AMBROSIONI LUSUARDI STENA 1986, pp. 175-179. 2 Cfr. Liutprandi Leges, 2, 3, 4, 14, 145. 3 E non una corazza, come proposto da AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA 1986, pp. 178-179: cfr. infatti quanto suggerito da RICHÈ 1972, nota 39 p. 43 e i garales facenti parte del paramentum capellae nostrae nel testamento di Everardo, conte del Friuli (863-864) edito in DE COUSSEMAKER (ed.) 1885, I. 4 “Si Ratruda conius mea me superadvixerit, in eius sit potestatem ipso (sc. argentum et aurum) frangendi et pauperibus pro anima mea et sua distribuendi habeat potestatem ex mea plenexima largidate, tam pro nostra anima quam et pro bone memorie Dondoni germano meo; et vestimento meo, omnia quod in illo tempore illo reliquero, omnia metietatem pauperibus distribuatur pro suprascripta Ratruda coniuge mea” (CDL, I, 82, p. 242). 5 La necropoli è pubblicata in ROFFIA (ed.) 1986, il nuovo sito di S. Martino è presentato da Silvia Lusuardi Siena in questo volume. 6 Per l'esame di un tipo particolare di donazione, diretta, secondo il modello pubblico carolingio, a suddividere equamente le sostanze tra i figli, cfr. il caso di Everardo conte del Friuli e di sua moglie Gisla (863-864) esaminata da LA ROCCA-PROVERO c.s. 7 Le carte sono edite in CDL, I, II,III/1, In presenza di carte conservate in originale o copta coeva, ho provveduto anche a controllare l'edizione sui vari volumi delle Chartue Latinae Antiquiores (ChLA, XXVI-XL). 8 FEVRIER 1987, pp. 881-883. 9 I più recenti lavori su questi temi, che non prendono però in esame l'Italia longobarda sono PAXTON 1990 e RUSSEL 1994. 10 Si veda, per esempio, l'interpretazione della necropoli di Castel Trosino presentata in questo volume da Lidia Paroli con le osservazioni in PAROLI 1995.

11 GOODY 1983, pp.95,103,209. 12 Cfr. le osservazioni di DAUPHIN et al. 1986. NELSON 1990b, pp. 330-332, NELSON 1995, PP.83-90; e in particolare ROSSETTI 1986, PP.166-170. 13 L'interesse sul tema si è esplicitato in un'amplissima bibliografia, riferibile al periodo compreso tra l'XI secolo e l'età contemporanea. A titolo puramente indicativo, occorre almeno ricordare come studio quantitativo EPSTEIN 1984; come esempio di studio orientato a cogliere le peculiarità religiose RIGON 1985; esamina invece gli aspetti istituzionali il lavoro di CHIFFOLEAU 1980; una rassegna storiografica sugli orientamenti interpretativi è BERTI 1988. 14 AMELOTTI 1966, P. 15; GIARDINA 1971, PP. 727-748; VISMARA 1988, PP. 109-146. 15 AMELOTTI 1970, PP. 18-25; VACCARI 1971, PP. 231-233. 16 AMELOTTI 1970, PP. 15-17. 17 CHIFFOLEAU 1980, PP. 36-38, RIGON 1985, PP. 44-45. L’accento sulle relazioni sociali espresse in tali donazioni è sviluppato da WHITE 1988, PP. 16-17, 26-34. 18 Cfr. ad esempio, GIARDINA 1971, PP. 727-748. 19 Il problema è esaminato da DELOGU 1977, PP. 77-82, con le fonti ivi citate. 20 Il divieto a diseredare la discendenza legittima è espresso in Edictum Rothari, 168 successivamente modificato in Liutprandi Leges, 6. 21 PROSPERI 1982, p. 404 22 Gli strumenti di distinzione delle élites rurali dell'Europa alto medievale sono oggetto del lavoro di WICKHAM 1994. 23 NONN 1972; SPRECKELMEYER 1977; GEARY 1985; KASTEN 1990. 24 CDL, II, 230 (769, Pisa); CDL,V, 52 (768, Rieti). 25 CDL,I, 90 (747, Lucca); 96 (748, Pistoia); CDL, II, 163 (763, Pavia); 171 (763 Pisa). 26 CDL, II, 133 (769, Gurgite); CDL,V, 100 (786, Rieti): “considerantes simulque expavescentes voracitatem ignis”. 27 CDL, II, 287 (773, Lucca) 28 CDL, II, 171 (763, Pisa); CDL,V, XVI (785, Benevento). 29 SKINNER 1993, pp. 135-136. 30 Esempi di esplicita esclusione dei mobilia dalla donazione post mortem sono: CDL II, 157 (761, Gurgite): donazione di Pettula alla chiesa di S. Paolo di Lucca “excepto scherpa mea quod pauperibus vel sacerdotibus pro anima mea potestatem habeam dispensandi”. Cfr inoltre ChLA, XL, 1158 (797); 1164 (798); 1166 (798); 1180 (800); ChLA, XXXIX, 1145 (795); ChLA, XXXVIII, 1089 (783); 1102 (786); 1114 (787); ChLA, XXXVI, 1045 (773) 1057 (776); n. 1059 (777). Nel 771 il chierico lucchese Guntelmo permette alla figlia Rachiperga “si ipsa filia mea de res mobile vel ischerpa, si abueret, et dare volueret pro anima sua et filii mei ipsei consintire non volueret, ut ipse filia mea aveas dando pro anima sua comodo volueret”: CDL, II, 254 (771, Lucca); così anche in CDL, II, 230 (Pisa, 769), 287 (Lucca, 773). La scherpa è definita da locuzioni del tipo “omnem schirpas meas, pannos usitilia, lignea, vel ferrea, ramentea, auricalca, aurum, argentos” (ChLA, XXXVIII,1102 (786) p. 26); CDL, I, 73 (740, Lucca), p. 220: “omnia usitilia, seo scherpam meam, tam pannis, eramen, vel auricalco, codicis”; CDL, II, 293 (774, Bergamo): “mobilia vero rebus meis, hoc est scherpa mea, aurum et argentum, simul et vestes atque caballi”. 31 L'evoluzione dell'apparato statale longobardo è stata delineata da GASPARRI 1990 pp. 237-305. 32 La differenza della funzione delle cariche pubbliche nel mondo romano e nei regna dell'alto medioevo è lucidamente precisata da WICKHAM 1984, pp. 23-25. 33 Il tema è stato di recente riproposto da WICKHAM 1994; LE JAN 1995, pp. 60-76. 34 MORRIS 1987, pp.29-42 con la relativa bibliografia. 35 Cfr. HOPKINS 1983, pp.235-253. 36 PAULI Historia Langobardorum, V, 34. 37 Studi recenti sul valore politico delle cerimonie e dei rituali funebri sono ARCE 1988; CANNADINE-PRICE (eds.) 1987, ma soprattutto, sul ruolo dei mobilia, HEDEAGER 1992, pp.31-70. 38 Mi riferisco, in particolare alla situazione della Toscana, e dunque al contributo di Carlo Citter, in questo volume, e ai recenti ritrovamenti all'interno della fase di VII secolo nello scavo romano della Crypta Balbi che documentano la produzione a Roma di parti di armi e guarnizioni da cintura sia con agemina sia con decorazioni 'a virgola', presentati da Marco Ricci in questo volume, e parzialmente presentati da RICCI 1994, pp. 19-22; SAGUI’-MANACORDA 1995, pp. 121-134. Queste osservazioni hanno precisi riscontri nell'ltalia meridionale longobarda, ove la caratterizzazione 'etnica' della dominazione politica si configurò, dal punto di vista dei corredi funebri, con caratteristiche del tutto peculiari e locali: PEDUTO 1990, pp. 307-373. 39 CAMMAROSANO 1990, pp. X-XIII. 40 Indicazioni in questò senso sono generalmente osservabili in tutte le necropoli rinvenute in Italia e databili in questo arco cronologico: cfr., per esempio, i casi di Nocera Umbra e Castel Trosino, di recente riesaminati da RUPP 1995 e da PAROLI 1995. Per il Veneto cfr. LA ROCCA 1989; per il Friuli, TAGLIAFERRI 1990, PP. 364-475. 41 Cfr. PAULI Historia Langobardorum, 1, 24; Il, 28; V, 2, 5; VI, 8, 35 3 8, e le osservazioni di LE JAN 1995, PP. 62-63, 85-86. Si veda infine lo studio specialistico li ENRIGHI 1988. 42 Una recente analisi sul rapporto tra armi tesaurizzate nelle tombe e armi utilizzate in vita è COUPLAND 1990. 43 HARKE 1990,pp.22-43; HARKE 1993,pp. 433-436. 44 Sintesi quantitativa in FEHRING 1991, PP. 57-79, fig. I ]. 45 RIPOLI 1993, PP. 301-327 con la bibliografia precedente.

46 Un esame complessivo delle sepolture equestri tra V e VII secolo è in GHENNE DUBOIS 1991, PP. 23-70, a cui occorre aggiungere lo straordinario contesto ritrovato a Campochiaro (Campobasso), esaminato, seppur in via preliminare, da CEGLIA 1990, PP. 213-217, GENITO 1991, PP. 335-338. 47 Cfr. GASPARRI 1983. 48 Cfr. MENKE 1990 e la rapida sintesi, con bibliografia locale, di BONA 1990. 49 Per i casi italiani di sepoltura equestre, cfr. anche lo straordinario esempio di Campochiaro, che presenta cavallo e uomo sepolti nella stessa fossa in ben 10 casi: cfr. GENITO 1991. I. Ahumada Silva sta preparando uno studio complessivo sulle sepolture con cavallo rinvenute in Italia. 50 Cfr. RANDSBORG 1980, PP. 129-132; RANDSBORG 1981, PP. 112-117. 51 cfr. BONA 1990, P. 19; MENKE 1990, PP. 98-103 entrambi con la relativa bibliografia. 52 Vale la pena di notare che anche nei casi danesi si è riscontrato un analoga condivisione di status symbols tra uomini e donne nella fase delle sepolture equestri del X secolo: cfr. RANDSBORG 1981; HAEDEGER 1992, PP. 154-156. 53 Vitue sanctue Geretrudis, p. 461. 54 VIERCK 1978, PP. 521-570. 55 YOUNG 1986, PP. 379-407, che è un lavoro fondamentale su questo tema. 56 Sulle caratteristiche dei corredi della seconda metà del VII secolo, cfr. BIERBRAUER 1984, PP. 473-489 57 Un recente riesame dei rapporti tra élites laiche ed ecclesiastiche nel regno merovingio è WOOD 1994, PP. 102-119, sulla produzione agiografica, riflesso della compenetrazione di interessl e carriere, FOURACRE 1990, PP. 3-38. 58 TABACCO 1990, PP. 382-387 (citazione a p. 382). 59 GASPARRI 1980, pp. 433 -441. 60 PETRUCCI-ROMEO 1992, pp. 35-56. 61 NELSON 1990b, p. 331, mette opportunamente l'accento sulla flessibilità dei diritti femminili sulla proprietà, e la maggiore possibilità per i gruppi famigliari di negoziarli a seconda delle situazlom e delle opportunità. 62 L'epistolario di Gregorio Magno a Teodelinda è edito in GREGORII MAGNI Registrum, IV, 4, 33, 37; V, 52; IX, 68, XIV, 12. Sui rapporti di mutua collaborazione tra il papa e la regina, cfr. da ultimo GASPARRT, c.s. I diplomi delle regine longobarde sono in gran parte perduti. Cfr. CDL, III/1, n. 24 (749-751): donazione di Astolfo alla Chiesa di Modena su richiesta della regina Giseltruda “gloriosissima atque praccellentissima (...) dilecta coniux nostra”; CDL, V, VII (766, Benevento), in cui si menziona il diploma perduto di Scaniperga e Llutprando per il monastero di S. Vincenzo al Volturno; sono anche perduti i diplomi di Ansa per ll monastero di S. Salvatore di Brescia (CDL, IIV1, pp. 274-275), di Teodelinda per la chiesa di S. Giovanni di Monza e di S. Dalmazzo di Pedona (CDL, III/1, pp. 289, 300~, di Rotari e Gundiberga per il monastero di Bobbio e la chiesa di S. Giovanni Domnarum a Pavia (CDL, III/1, pp. 298, 309), di Rachi e Tassia al monastero dei SS. Silvestro e Nonnoso sul Monte Soratte (CDL, IIV1, p. 302) e di Tassia e la figlia Ratruda (CDL, III/I, p. 311). 63 VERONESE 1987, pp. 355-416. 64 Cfr. Edictum Rothari, 204. La sintassi delle leggi longobarde in materia di donazioni sarà oggetto di una mia prossima ricerca, dal titolo Les femmes et la /oi et la loi pour les femmes; m ambito anglosassone è fondamentale WORMALD 1995. Sul mundio femminile, cfr. da ultimo POHL RESL 1993, pp. 201-211. 65 ANGENENDT 1983, pp. 153-221; PAXTON 1990, pp. 66-69, con le fonti ivi citate. 66 Cfr., per esempio, i casi piemontesi illustrati da Egle Micheletto e Luisella Pejrani, e quello di S. Martino di Trezzo studiato da Silvia Lusuardi, esaminati in questo volume. 67 CONSOLINO 1987, pp. 166- 170. 68 CDL, V, 52 (768, Rieti), p. 187. 69 CDL, II, 175 (764, Lucca). Sul ruolo delle donne nella commemorazione dei defunti in età carolingia NE~soN 1990a, pp. 53-78; GEARY 1994, pp. 51-73. 70 Un elenco dei beni che componevano il morgencap è in CDL, 1, 70 (739, Lucca): “In primis lectum de soledos decem, Magnifredulu, Magnitrudola et Fermusiula pro soledos tricenta, tunica de soledus dece, mantus de soledos dece, nauri de soledos tricenta, caballum stratum pro soledos centum et pro centum soledos casa Valentiniani in Veturiana”. 71 CDL, I, 30 (722, Lucca): Urso dona alla chiesa da lui fondata “casas duas in Novole de morgincaput mulieri meae”; CDL, I, 67 (738, Lucca): Anstrualda Dei ancilla, dona alla chiesa di S. Giorgio di Montecalvoli, da lei fondata, una casa che “data est morgangab per domino bone memorie Barutta iocale meo”; CDL, I, 120 (755, S. Cassiano): Cleonia, ancella di Ostripert, offre alla chiesa di S. Cassiano da lei fondata “tertia portione ex omnibus rebus mois quod morghincap mihi datum est”. 72 Gradana, figlia di Rottopert di Agrate, riceverà in die uotorum le case tributariae di Trezzo e di Clapiate, “300 solidos in auro ficurato e vestito vel ornamento eius atque frabricato auro”, ma se il denaro sarà già stato precedentemente lasciato agli eredi maschi, essa riceverà in cambio la casa tributaria “in fundo Rocelle” (CDL, I, 82 (74s, Monza)); CDL, I, 73 (740, Lucca): l'arciprete Sichimund dona alla chiesa di S. Pietro di Lucca anche “res illas qui fuet quondam Sindi socero meo qui mibi oLvinet per coniuge mea Auria, tam casas, terra, vinea oliveta, cultis et incultis”; CDL,I, 104 (7s2): Arnifredo abita “in pecunia de socero meo Mastalone cuius filia mihi in coniugio sociabit”; CDL, II, 162 (762): i fratelli Erfo e Auto donano al monastero friulano di Sesto in Silvis terra e case