Il territorio tra Tardoantico e Altomedioevo. Metodi di indagine e risultati. Atti del Seminario (Biblioteca di Archeologia medievale #9) 8878140406, 9788878140400 [PDF]


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Il territorio tra Tardoantico e Altomedioevo. Metodi di indagine e risultati. Atti del Seminario (Biblioteca di Archeologia medievale #9)
 8878140406, 9788878140400 [PDF]

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Presentazione

Dopo i due precedenti seminari, tenutisi a Villa Vigoni di Menaggio (Como), il primo (1988) sulle fortificazioni e l’altro (1989) sui materiali e pubblicati in «Archeologia Medievale» (XVII 1990, pp. 7-234) si è inteso in questo terzo incontro, svoltosi presso l’Eremo di Monte Barro in comune di Galbiate, ospiti del Consorzio del Parco, affrontare il problema della transizione tra Tardo-antico e Altomedioevo in ambito rurale. L’area focalizzata è stata ancora una volta quella dell’Italia settentrionale e dell’Arco Alpino, cui si è aggiunto un inatteso contributo sul territorio basco di A. Azkarate, gradito ospite al seminario. Scopo dell’incontro era di mettere a confronto metodi e risultati delle ricerche nelle specifiche regioni in cui si suddivide, con grande varietà di situazioni topografiche e ambientali, il territorio in esame. Dopo una premessa storica di P.M. Giusteschi Conti sugli aspetti sociali e sulla conduzione agraria nella vicenda degli insediamenti rurali, i contributi degli archeologi si sono suddivisi, per metodo e scala geografica di indagine, in due gruppi principali. Da un lato, le ricerche regionali che si sono avvalse di fonti di vario genere (toponomastiche, archeologiche, scritte ecc.) per delineare trasformazioni e continuità nelle strategie del popolamento (C. La Rocca per il Veneto, V. Bierbrauer per il Trentino, S. Ciglenecki per la Slovenia e, sul versante dell’origine dei centri religiosi cristiani, M. Sannazaro per la Lombardia). Dall’altro indagini più puntuali in aree micro o medio-regionali (M. Buora per l’Agro di Aquileia, W. Dorigo per la Laguna di Venezia, S. Salvatori per Eraclia, E. Cavada per il Basso Trentino, S. Lusuardi Siena per Trezzo, E. Giannichedda per la Liguria). Un contributo a sé stante, ma di particolare interesse, in quanto propone per la prima volta classificazione, cronologia e reciproche relazioni riguardo alla ceramica tardo-antica e altomedievale tra Italia settentrionale, Carinzia e Slovenia è infine quello di H. Rodriguez. Infine rimane confermata la validità della formula dei seminari organizzati nell’ambito delle campagne di ricerche a Monte Barro caratterizzati da un ristretto ma geograficamente vario numero di partecipanti e dalla specificità del tema di ciascun incontro. Ringraziamo in particolare la Regione Lombardia per il contributo finanziario che ha reso possibile il seminario, il Presidente del Parco, prof. Giuseppe Panzeri e il Consiglio Direttivo del Parco stesso per il sostegno finanziario e logistico all’iniziativa, la Padus Cooperativa Archeologica per la sponsorizzazione del presente volume, la dr.ssa Marina Uboldi, conservatrice del Museo Archeologico di Comò che ha avuto un ruolo importante nella organizzazione e nello svolgimento del seminario. GIAN PIETRO BROGIOLO - LANFREDO CASTELLETTI

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Proprietà e possesso, requisizioni e confische, conduzione agraria e mobilità sociale nella vicenda degli insediamenti rurali altomedioevali

Se è vero che la storia locale costituisce il vaglio delle teorie e delle ipotesi generali, come molti decenni or sono scriveva Francesco Brandileone, è altrettanto vero e palese che vi sono fenomeni e processi storici (e sono forse i più numerosi, per lo meno tra quelli di portata generale) l’analisi dei quali non può assolutamente prescindere da un’ampia base di osservazione, pena i fraintendimenti più fuorvianti, come lo scambio delle cause con gli effetti, del contingente o transitorio con il generale e costante. A tutto ciò si aggiunga che nella perenne ed universale dialettica della storia la medesima circostanza può a seconda dei luoghi e dei tempi esser causa od effetto, premessa o conseguenza. Accade sempre e par quasi fatale che dinanzi alle oscillazioni demografiche, ad esempio, (tanto più se relativamente forti e repentine) gli storici si dividano diametralmente nell’individuare le connessioni di queste con gli eventi coevi, dando vita a dispute, che sovente si trascinan per lustri, nessuno riuscendo a trovare la prova solutiva o l’argomento dirimente, per la semplice ragione che nella realtà ... quella non c’è e questo è irreperibile. Si prenda il caso, che tra l’altro ha stretta e diretta attinenza con l’assunto, della crisi demografica da cui sarebbero state colpite e travagliate le campagne dell’Impero tra la fine del secolo IV e gli esordi del V. In vero che la popolazione si sia drasticamente e generalmente ridotta è conclusione del tutto induttiva, fondata sulla crescente penuria di mano d’opera agricola, che questa sola emerge dalle fonti1. Or è intuitivo come un’insufficienza di forze lavorative in un settore non sia automaticamente e necessariamente riconducibile ad un regresso demografico, potendo dipendere da uno squilibrio tra domanda ed offerta, determinato magari dall’attrazione di altre attività produttive. In anni non molto lontani (è la vita maestra degli storici e non la storia maestra di vita, giacché in tal caso gli uomini avrebbero da millenni smesso di sbagliare) l’agricoltura italiana fu tra l’altro danneggiata dall’inarrestabile e quasi frenetico calo degli addetti, benché la popolazione del paese fosse al momento ancor in forte espansione. Pur ridotto, dunque, il fenomeno dell’abbandono delle campagne nel tardo Impero a termini più propri e plausibili, rimane aperta ed immutata la questione se la pressione tributaria gravante sull’agricoltura crebbe per garantire all’erario gli introiti che altrimenti gli sarebbero venuti a mancare per la diminuzione dei soggetti (come suppose Boak 2 ), ovvero se il pro-

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Cfr. L. RUGGINI , Economia e società nell’”Italia Annonaria”, Milano 1961, pp. 60 ss. 2 A.E.R. BOAK, Manpower Shortage and the Fall of the Roman Empire, Oxford 1965.

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gressivo inasprimento fiscale determinò un’estesa fuga dall’agricoltura (come in sostanza pensò Jones 3 ). Non è certo un accomodante pirronismo storiografico, bensì è l’analisi comparativa delle situazioni e delle vicende delle diverse province a suggerire come la prima al pari della seconda teoria colga nel segno. Osservazioni limitate o parziali avrebbero, invece, condotto ad assegnare indebitamente la palma all’una piuttosto che all’altra, con l’inevitabile conseguenza di coartare con uno schema precostituito le testimonianze ricavabili dalle fonti come da qualsiasi altro mezzo di informazione storica. Strettamente analogo, per non dire identico, è il caso della continuità rurale (come di quella urbana, del resto), che deve essere individuata nella sua multiforme e dinamica fisionomia al di sotto ed al di là della statica omogeneità sostanziale del diritto e dell’amministrazione del tardo Impero, che per molti rispetti venne ad uniformare contrade come l’Italia, ove la preminenza urbana, per quanto ridotta e provata, non è mai del tutto cessata, ad altre, come le Gallie ed anche la penisola iberica, ove le città sono state più presto e più largamente abbandonate ed ove, soprattutto, le dimore rurali dei potentes hanno gradualmente e non soltanto di fatto assunto una netta preponderanza economica, giuridica, militare e finalmente politica4. Vi si scorga la fine del mondo antico o, magari proprio per ciò, vi si ravvisino i simultanei inizi del medioevo 5, nella sclerosi tendenziale e progressiva degli assetti e degli ordinamenti della proprietà fondiaria tardoromana e nella persistente rudimentalità pressoché primordiale del suo sistema di conduzione agraria, troppo poco o quasi mai toccato dallo stimolo vivificatore della ricerca di una maggiore produttività, si annidano le vere matrici del mondo rurale altomedioevale, che da esse è rimasto segnato con un’indelebilità cui è davvero difficile trovar uguali. I vagheggiamenti poetici e retorici, che talora con sottintesi moralistici ne sono stati fatti dai contemporanei e che nel loro insistente rimpianto per una sobria e frugale rusticità arcaica propriamente mai esistita rivelano una persistente incomprensione ed una generale avversione per l’industria ed il commercio, ossia rivelano quella mentalità e quella cultura sfrenatamente anti-economica, poi tra le principali cause del dissesto e della rovina dell’Impero, hanno dissimulato o gettato nell’oblio la cruda realtà dell’agricoltura romana, esizialmente minata da una cronica esiguità di mano d’opera e da una bassa produttività altrettanto perenne. Sinché le guerre di conquista hanno garantito un afflusso di schiavi relativamente costante fu alla prima più o meno sopperito e, riuscendo la seconda compensata dal basso costo del lavoro servile, un equilibrio economico in sostanza accettabile fu mantenuto. In seguito, quando le braccia divennero in breve scarse od insufficienti, ai piccoli proprietari la tenuità e l’aleatorietà dei redditi, nonché la pressione tributaria vie più spietata, sottrassero le risorse, ai grandi la miopia, o meglio la totale ignoranza economica, ed il pregiudizio interdissero la predisposizione per fare gli investimenti necessari alla creazione dei 3

A.H.M. JONES, Ancìent Economie History, London 1948, pp. 12 ss. Cfr. F. L OT , La fin du monde antique et le début du moyen âge, Paris 1951, pp. 90 ss.; 147 ss. 5 L OT, op. cit., p. 92. 4

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mezzi con i quali la produzione potesse essere continuata e soprattutto migliorata. Salvo, così, nelle zone particolarmente fertili, come la pianura padana6, ove la redditività era elevata, od in quelle ove la contiguità con i pochissimi agglomerati urbani appena consistenti, attenuando il costo disastrosamente proibitivo dei trasporti e consentendo una più facile ed economica collocazione delle derrate, rendeva rimunerativa anche una coltivazione a basso rendimento unitario, i piccoli proprietari non sfuggirono ad una rapida e generale rovina; molte terre tornarono incolte, mentre le file del patronato si infoltirono insperatamente per i potentes alla ricerca affannosa di coltivatori per i loro latifondi, nei quali la contrazione delle colture aveva seguito quella della servitù. Con poche, isolate eccezioni7 , mancano notizie dirette; si può non di meno arguire come non debbano essere stati pochi i vici scomparsi tra il IV ed il V secolo. Generalizzare il fenomeno o circoscrivere ipoteticamente le sopravvivenze di essi alle zone singolarmente ubertose sarebbe, però, indebito; nelle Gallie come in Italia i vici che hanno raggiunto e superato il secolo VI si contano a centinaia8, tanto più in quanto il latifondo, cui da Salviano in poi sono stati attribuiti misfatti ai quali non ha in vero concorso o lo ha fatto in misura parziale o minima, in nessuna delle terre occidentali dell’Impero ha determinato la completa scomparsa della piccola proprietà con la conseguente riduzione di tutti i vici in villae. La preponderanza e l’attrazione del latifondo non sono state, infatti, così soverchianti, come è stato creduto o supposto, perché esso, fuor dell’estensione, non aveva una fisionomia ed una struttura molto dissimili da quelle della piccola azienda che avrebbe dovuto sopraffare, come questa, sia pur per ragioni diverse, carente di investimenti, come questa diretto alla produzione per il consumo, sia pur dovizioso, e per lo scambio delle eccedenze, anziché per un commercio continuo ed organizzato, come questa ancorato a sistemi colturali frazionati e quindi poco redditizi, come questa, finalmente, per lo più riluttante o rifuggente dinanzi alle spese della grande manutenzione come della piccola miglioria. Ciò è certo più e meglio evidente laddove il latifondo, ovvero il grande patrimonio fondiario, appare per lo più costituito dalla concentrazione nella proprietà di uno solo di tante unità prediali, che, eccezionalmente contigue e talora remote, conservavano la loro povera autonomia colturale, onde era tra l’altro più facile affidarne la conduzione ai coloni con i quali si trovava un rincalzo crescente alla mano d’opera servile. Certo più duttili nell’uniformarsi ad un paesaggio agrario di costituzione già allora plurisecolare, certo più semplici da amministrare, tanto che in Italia, ove prevalsero, il ceto degli intendenti, così sviluppato, forte e protervo altrove, mancò quasi del tutto, quantunque l’aristocrazia, conservando in genere residenza urbana, si tenesse lontana dalle sue terre, tali strutture erano tuttavia più vulnerabili dalle traversie, sia naturali che belliche. Non caso dopo la metà del secolo IV nell’Aemilia, ove per le condizioni del suolo, largamente

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R UGGINI , op. cit., pp. 29 ss. R UGGINI , op. cit., pp. 527 ss. 8 LOT, op. cit., p. 426; R. LATOUCHE, Les origines de l’economie occidentale, Paris 1956, pp. 78 s. 7

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bonificato, l’agricoltura era più dipendente dall’opera continua dell’uomo, proprietari piccoli e grandi sottostettero alla medesima catastrofe economica quando gli elementi naturali, non più frenati, presero il sopravvento 9 , inducendo uno spopolamento, cui l’autorità imperiale, ne è testimone Ammiano Marcellino 10 suggestivamente confermato dalla toponimia, tentò di por riparo con lo stanziamento di barbari. Molto più tardi, poi, quando, anziché condottivi od indottivi dall’Impero, ma mossi invece dalla rottura di qualsiasi foedus o patto con esso, altri barbari, vale a dire i Longobardi, penetrarono in Italia e vi si acquartierarono come l’opportunità veniva via via a suggerir loro, fu inevitabile che, dinanzi ad un sistema in cui la centralizzazione amministrativa era scarsa ed in cui i domini restavano lungi dalle loro campagne (solo nel Bruttium Cassiodoro aveva osservato e deprecato la fuga dell’aristocrazia verso di esse11), il diritto di proprietà di costoro, non solo estraneo alla mentalità dei nuovi venuti, ma troppo astratto perché potesse esser da questa percepito, andò di fatto obliterato a vantaggio del possesso, ovvero della Gewere, che il coltivatore con il suo lavoro dimostrava sul fondo12. La fuga in territorio bizantino, donde sognarono a lungo un ritorno impossibile (si pensi all’oro raccolto ai tempi di Tiberio II per finanziare una spedizione contro i Longobardi), fu certo ai grandi proprietari suggerita dal timore di nuove violenze - e sicuramente ve ne furono, per lo meno ai tempi di Clefi13 -, ma non da parte dei Longobardi soltanto, perché proprio dinanzi al loro incalzare i ceti meno elevati avevano ai maggiorenti bruscamente imposto la loro volontà (onde tante città avevano schiuso le porte14. La fuga, però, era anche l’espediente più semplice per l’immediata percezione dei cespiti dei beni sfuggiti all’invasione (quasi tutti possedevano in più province), le derrate ed i censi dei quali sarebbe stato forsennatamente costoso e pericoloso far viaggiare. Chi a tutto questo, che vi ha indubbiamente concorso, attribuisse la minor incidenza storica del latifondo nel corso dell’alto medioevo in Italia, trascurerebbe quella che ne è stata invece la causa determinante: la vitalità incoercibile delle città, in un paese che sin dalle età più remote ne è stato disseminato e caratterizzato. Nella penisola iberica, al contrario, ove il declino urbano è già progredito ed inarrestabile nel secolo III15 e, ne fosse causa od effetto, o come è più probabile e verisimile, ne fosse dialetticamente l’una e l’altro insieme, il ritiro dei potentes nelle loro dimore rurali è del pari precoce e la rapida scomparsa delle vecchie magistrature toglie di fatto ogni pur labile argine legale all’instaurazione della loro potenza. Alle vicende successive di Spagna (l’avvento dei barbari, la conversione dei Visigoti al cattolicesimo con

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Cfr. loc. cit. a nota 1. XXXI, 9, 4, ed. W. S EYFARTH, IV Berlin 1971, p. 274. 11 Var., VIII, 31, 4 (MGH, Aa., XII, p. 259). 12 Cfr. G.P. BOGNETTI, S. Maria f. p. di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, BOGNETTI, CHIERICI, DE CAPITANI, S. Maria di Castelseprio, Milano 1948, pp. 64 ss.; P.M. CONTI , II ducato di Spoleto e la storia istituzionale dei Longobardi, Spoleto 1982, p. 20. 13 P AUL. DIAC, H. L, II, 31; MARII A VENTIC., Chron., a. 573 (MGH, Aa., XI, p. 238). 14 BOGNETTI, op. cit., pp. 403 s. 15 C. SÁNCHEZ ALBORNOZ, Estudios visigodos, Roma 1971, pp. 19 ss. 10

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la distruzione delle memorie scritte dell’età precedente, l’espansione degli Arabi e la ritirata precipitosa di quanti non volevano sottostarle) soprattutto si deve se sull’aristocrazia romano-iberica ed il suo regime fondiario mancano testimonianze dirette, sia letterarie che documentarie. I resti delle sue sedi lasciano, però, intravvedere un’opulenza pari, se non superiore a quella dei potentes della Gallia meridionale16, onde l’esplosione e l’attrazione della loro forza debbono esser state inarrestabili; giacché tra questa e la ricchezza vi è stata ognora ed ovunque una relazione diretta. Per quanto dotata di un’intrinseca plausibilità e di un’alta probabilità, la conclusione resterebbe meramente induttiva, se non soccorresse un indizio, davvero eloquente nella sua connessione con i reperti archeologici. Dalle disposizioni date da Teoderico l’Amalo, allorquando accanto al piccolo nipote Amalarico si trovò per consortiuml7 a reggere il regno visigoto, si ricava che persino i vilici, vale a dire gli intendenti di condizione servile posti a capo dei latifondi, potevano imporre quel patrocinium, cui, pur quando invece sollecitato, l’autorità pubblica aveva per secoli invano tentato di opporsi18. Ogni generalizzazione totalizzante sarebbe non di meno ancora una volta arbitraria; i possessores contemplati dalla Lex Visigothorum sono ben lungi dall’essere tutti annoverabili tra i potentes, ovvero tra le maioris loci persone 19 , e neppure son Goti soltanto, come è irrefutabilmente palese20 , né, infine, per l’espressa menzione della loro ferita21, è ragionevolmente ipotizzabile che tutti i Romani avessero costituito o ricostituito i loro patrimoni dopo l’avvento dei conquistatori. La proprietà piccola e media ha dunque superato la pressione del latifondo anche laddove si ha ragione di credere fosse questa particolarmente intensa. Altrettanto, del resto, era avvenuto nella Gallia. L’esistenza di vici alle soglie dell’alto medioevo, incomparabilmente più numerosi di quanto ebbe un giorno a supporre Fustel de Coulange22 (solo nell’opera di Gregorio di Tours se ne contano settanta, per lo più situati in due provincie appena – l’Auvergne e la Touraine – e molti altri ancora possono esservi aggiunti23), certo estranei ai grandi domini fondiari e nei secoli VIII e IX popolati ancora da coltivatori che lavoravano le loro terre, dimostra che, magari fortunosamente ed avventurosamente, gli antenati di costoro erano riusciti a superare con danni patrimoniali, sociali e giuridici piuttosto limitati non solo il turbine del passaggio e dell’insediamento dei barbari, ma erano altresì riusciti a resistere agli attacchi ed alle sopraffazioni dei potentes. L’incertezza, o piuttosto la duplicità di designazione osservabile per alcu-

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SÁNCHEZ Cfr. Laterculus reg. visig., 18 (MGH, Aa., XIII, p. 465). Var., V, 39, 15 (MGH, Aa., XII, p. 166). Cfr. Lex Visigothorum, II, 1, 26; V, 4, 19 e 20; VIII, 1, 2; IX, 1, 21; X, 2, 6; X, 3,

4. 20

Cod. Euric, CCLXXVI, CCCXII; L. Vis., IX, 2, 9; X, 1, 8; X, 1, 16, X, 2, 1. Cod. Euric, CCLXXVI, CCLXXVII; L. Vis., X, 1, 9; X, 1, 16; X, 2, 1. 22 Cfr. LATOUCHE, op. cit., p. 76. 23 LATOUCHE, op. cit., pp. 78 ss. 21

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ne località nell’alto medioevo indicate or villa or vicus24, costituisce, invece, la traccia residuale di tutte le volte nelle quali il conflitto tra la piccola e la grande proprietà si era risolto a favore di quest’ultima, fosse stato il patrocinium forzosamente imposto, fosse esso stato ricercato come estrema salvezza da coloro che l’autorità imperiale da un canto si sforzava di proteggere, ma dall’altro stremava senza misericordia con il fardello dei suoi tributi e, più, con le angherie ed i soprusi onde l’esazione di essi era aggravata ad opera dei curiales, che delle città alle quali erano loro malgrado inesorabilmente avvinti danno gli ultimi tragici segni di vitalità amministrativa. L’urto dei barbari, che esse inevitabilmente avevano attratto su di sé (nelle guerre di tutti i tempi, anche dei presenti, le città sono sempre state esposte a danni e distruzioni ben più delle campagne; non a caso anche durante l’ultima guerra mondiale si cercò scampo in esse), fu per molte pressoché esiziale. Estranee alle tradizioni autoctone, vale a dire a quelle che riaffiorano o prorompono ogni qual volta l’imperio di un’autorità centrale si allenti o vacilli, le città galliche, tutte modeste25, situate a giorni di cammino l’una dall’altra e quindi in caso di attacco destinate a contar solo sulle loro esigue forze, erano state di buon ora disertate da molti dei loro abitanti onde, assottigliatosi il numero dei difensori, era stato drasticamente ridotto il perimetro dei loro baluardi 26 . I grandi, ritiratisi nelle loro dimore rurali, le avevano fortificate e, circondati dalle loro milizie, avevano potuto persino tener testa ai barbari (chi non ricorda le gesta di Sidonio Apollinare?), mentre tutti gli altri, i fuggitivi privi di grandi sostanze, erano dal pericolo come dalle residue rivendicazioni del fisco sospinti sotto la loro egida, ovvero nel loro patrocinium, a molti - si diceva - non di meno imposto insieme a forme di soggezione e di dipendenza più mediate o larvate, ma non per questo più effimere. Di fatto sostituitisi, pertanto, alle città, delle quali hanno talora avocato, più spesso usurpato le funzioni, i grandi domini fondiari hanno sin all’età moderna determinato l’assetto rurale di Francia, anche tramite i limiti della loro azione, segnati non solo dalla sopravvivenza della proprietà terriera minore, ma dalla persistenza del vecchio impianto colturale (giacché anche colà alla concentrazione della proprietà corrispose la parcellizzazione delle coltivazioni) e da una mobilità sociale qualitativamente modesta ai danni di coloro che, siccome poveri, non erano più del tutto liberi, come con sagacia pari all’amarezza noterà una celebre formula turonense di qualche secolo posteriore27 . Quantunque con proporzioni variabili, in tutte le terre centrali dell’Occidente già romano la proprietà fondiaria ha, dunque, conservato due consistenze, piuttosto che due fisionomie, radicalmente diverse, la prima diretta ripercussione delle quali si percepisce nel regime della tertia. Questa, che ha goduto di una fortuna storiografica davvero sproporzionata alla sua incidenza storica, era stata disciplinata, se non introdotta

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LATOUCHE, op. cìt., p. 81. OT op. cit., L ATOUCHE, op.cit., pp. 114 s. Formulae turonenses n. 43 (MGH, Legum s. I, II, 1, pp. 88 ss.).

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da una legge del 39828 ove, ad evitar soperchierie, si stabiliva che di ogni domus, ovvero di ogni patrimonio immobiliare, fossero fatte tre parti, la prima delle quali fosse a sua preferenza ritenuta dal dominus, la seconda fosse scelta dall’hospes di cui doveva rimunerare il servizio e la residua fosse conservata dal primo. Il legislatore, poi, mentre mandava generalmente immuni gli edifici commerciali, non trascurava di prevedere che, ove nella tertia del miles non fosse stato incluso il ricetto per gli animali ed il cedente non avesse provveduto altrimenti, fosse questo ricavato a carico di essi giusta la consistenza del bestiame e del patrimonio. Nel caso, infine, che l’hospes avesse appartenuto alla categoria dei viri illustres, la quota attribuitagli ascendeva alla metà, che poteva esser determinata da lui come dal cedente, all’altro restando la facoltà di scelta. Or non v’è chi non veda come il sistema, romano nel suo impianto teorico, fosse intrinsecamente destinato ad un’applicazione pratica propriamente altomedioevale, nell’accidentalità fortuita delle diverse misure onde a parità di capacità contributiva ne sarebbe stato dai singoli sopportato il gravame. L’onere pubblico in questa guisa istituito o codificato si traduceva inoltre in una coperta confisca, giacché per la sovvenzione di una funzione statuale – la difesa – l’autorità toglieva ai privati parte dei loro averi, senza che fosse previsto indennizzo di sorta o che, come nell’esproprio, fosse corrisposto un prezzo, magari d’imperio, o che fosse contemplata la restituzione una volta cessata la necessità contingente. Doppiamente iniqua per quanti a differenza di tanti altri la subivano (l’applicazione della tertia era circoscritta alle province degli acquartieramenti militari, ovvero dell’insediamento dei barbari) in ragione dell’ubicazione del loro patrimonio ed in aggiunta eventualmente anche in ragione del rango del percipiente o del ... suo numero di animali, la tertia era ingiusta pur nei confronti di coloro che ne beneficiavano, siccome, ad onta degli sforzi degli storici per immaginare accordi od espedienti temperativi, ognuno di loro restava ben lungi dal ricevere la stessa rimunerazione per il medesimo compito: il grande latifondista come il possessore di pochi iugeri era chiamato a corrispondere direttamente un terzo delle sue sostanze. È opinione comune, scaturita forse dalle espressioni encomiastiche da Ennodio rivolte a Liberio 29, che l’imposizione della tertia fosse in genere ben sopportata dai sudditi dell’Impero, perché l’esiguità del numero dei barbari a fronte di quello dei possessori e la disponibilità di terre vacue ne avrebbero reso il peso appena percettibile. La prima considerazione è insipiente e la seconda incongruente. Poiché non si procedeva alla ripartizione del carico complessivo delle tertiae tra gli assoggettabili delle singole province, onde alla costituzione di poche di esse – scarsi essendone i destinatati – avrebbero concorso moltissimi proprietari con un onere individuale che scendeva in ragione del numero, bensì avveniva che il proprietario trovatosi ad esser messo a contribuzione dovesse rispondere in ragione del terzo dei suoi beni, non si vede qual motivo avrebbe dovuto avere di letizia ad essere stato tra i pochi che subivan tal sorte!

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Ove. invece, come è pur verisimile sia molto spesso accaduto, fossero state ai barbari conferite le terre abbandonate, propriamente non aveva più luogo l’irrogazione della tertia ed i proprietari potevano se mai rallegrarsi di non doverla sopportare. In realtà l’atteggiamento dei provinciali dinanzi alla tertia, accettata magari come la iattura minore, sembra più che altro dettato dalle prospettive di pacifica convivenza offerte dai nuovi venuti, a fronte delle quali la misura effettiva del prelievo appare virtualmente irrilevante. I casi degli Alani e dei Burgundi sono davvero emblematici ed illuminanti. I primi, ai quali nel 442 erano state da Aezio nella regione di Orléans conferite terre cum incolis dividendae30 (nella misura legale del terzo, è sottinteso e si deve credere, date le circostanze), debbono far ricorso alle armi contro la resistenza degli abitanti, che si opponevano all’insediamento e che ad una spartizione tra le meno amare fatta ragion dei tempi preferivano il rischio di perdite ben più disastrose. Nell’anno seguente, vale a dire nel 443, i Burgundi sopravvissuti allo scempio del loro regno, fatto dagli Unni inviati dallo stesso patrizio, erano coattivamente trasferiti nella Savoia e, quantunque con ogni probabilità e verisimiglianza non subito, ottenevano ben due terzi delle terre, la metà dei boschi e dei pascoli ed un terzo degli schiavi 31. Trasformati in reverenti foederati dell’Impero, cui non potevano più veramente nuocere e cui, anzi, potevano render preziosi servigi strategici a presidio delle Alpi, erano accolti favorevolmente dalle popolazioni romanizzate e romaniche, o per lo meno erano pacificamente subiti; è al riguardo sintomatico che di lì a poco l’espansione del loro regno sulle sponde della Saône e nel lionese sia avvenuta con il consenso dei Romani, che certo non potevano ignorare quali sarebbero pur state per loro le conseguenze patrimoniali dell’avvento 32 . Per quanto ora ne sfuggano molti particolari dell’attuazione concreta, l’attribuzione delle quote doveva esser ancor fatta con una regolarità ufficiale e sistematica, che in un certo senso costituiva una garanzia dei diritti individuali; la legislazione burgunda, in ciò concorde con gli indirizzi di Teoderico l’Amalo 33, è tassativa nell’escludere che le requisizioni arbitrarie dei singoli potessero essere consentite od ammesse34. Anche i Visigoti, alla convivenza con i quali l’aristocrazia gallo-romana si acconciò dopo un breve periodo di insofferenza, avevano ottenuto ben più di quanto prevedesse la legge del 398, senza che – a quanto pare – ciò avesse dato luogo a lacerazioni insanabili con la popolazione preesistente. La facoltà di scelta del terzo di terre lavorative e di selve lasciatogli35 poteva, infatti, tutelare accettabilmente il Romano, che, come tra i Burgundi, poteva forse conservare i due terzi dei coloni e degli schiavi, preziosi in quanto scarsi. In Italia l’opposizione al conferimento della tertia, onde si scatenò la

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Chron. gall., 127 (MGH, Aa., IX, p. 660). Leges Burgund., Lib. constit., tit. LIV (MGH, Legum s. I, II, 1, pp. 88 ss.). 32 Cfr. E. STEIN, Histoire du bas-Empire, I, Paris-Bruxelles-Amsterdam 1959, p. 374. 33 Var, I, 18, 2 (MGH, Aa., XII, p. 24). 34 Leges Burgund., Lib. const., LIV, 1 (MGH, Legum s. I, II, 1, pp. 88 ss.). 35 Cfr. S TEIN, op. cit., I, p. 268. 31

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celebre rivolta militare dell’agosto del 476, era venuta dal governo e non dai proprietari, che neppure quando esso fu poi concesso da Odoacre vi si opposero, tanto più in quanto potevano contare sulla remissione di tributi assai più gravosi, a principiar dalla praebitio tironum, superata dalla germanizzazione pressoché totale dell’armata36. Con il trionfo di Teoderico e l’eliminazione e la dispersione di molti dei guerrieri di Odoacre, gran parte delle tertiae potè essere recuperata e destinata a nuovi beneficiari, ancora una volta poco numerosi. Ciò naturalmente facilitò il compito a Liberio ed ai suoi collaboratori nell’emissione dei famosi pittacia con i quali era rigidamente regolata l’attribuzione delle terre37 , attuata – si può concedere a Teoderico ed Ennodio 38 – senza che i Romani virtualmente percepissero alcun aggravio. Quando dopo un sessantennio circa il regno ostrogoto ebbe fine, furono revocati i trasferimenti immobiliari dei suoi ultimi tempi39, dall’Impero considerati di ribellione e quindi di totale illegalità, ma non gli altri sicché si deve pensare che i discendenti dei primi detentori trattenessero le loro sortes, tanto più se si ponevano al servizio del vincitore, mentre quelle rimaste adespote tornavano disponibili per un nuovo avvicendamento di beneficiari, l’ultimo, perché l’occupazione dei Longobardi determinò di fatto e di diritto condizioni radicalmente diverse e nelle terre rimaste bizantine l’antico sistema, ormai obsoleto, non ebbe ulteriori applicazioni. Atteso, dunque, il modo in cui si è esplicato, il regime della tertia non ha creato un nuovo ceto di possessori, ma ha piuttosto infoltito le schiere preesistenti dei proprietari piccoli e grandi. In ciò trova il suffragio migliore la congettura, fatta per i Visigoti, ma in vero estensibile ad Ostrogoti e Burgundi, che al momento della ripartizione delle terre le sortes degli ottimati fossero maggiori delle altre40 . La dottrina si è rammaricata di non averne raggiunto la prova ostensibile; eppure sarebbe paradossale che ciò non fosse avvenuto, ossia che gli ottimati barbarici di fronte alle sterminate ricchezze dell’aristocrazia romanica non si fossero valsi della loro potenza e del loro Heil per ritenere per sé la porzione di esse destinata al loro popolo, venendosi a porre a fianco e ben presto alla pari di quella, con la quale rapidamente si assimilarono. Con il volger dei lustri, del resto, la tertia smarrisce gran parte della sua fisionomia originaria ed a sua volta si assimila ad un patrimonio di diritto ordinario; l’ultima conseguenza dell’antico regime resta nella durevole limitazione effettiva della disponibilità delle sortes, nel regno visigoto (gli altri sono stati troppo effimeri per aver potuto dare sanzione ad un principio forse pur in essi invalso) circoscritta ai casi che non avessero comportato detrimento per il fisco 41 . Potendo egli sempre accampare la sua esenzione tributaria42 , era al Visigoto interdetta l’acquisizione delle terre dei

36

Cfr. S TEIN, op. cit., II, Paris-Bruxelles-Amsterdam 1949, p. 43.

37 38 39 40 41 42

Pragmatica sanctio, cc. I e 2 (MGH, Leges V, p. 171). SÁNCHEZ ALBORNOZ, op. cit., pp. 160 ss. L. Vis., X, 1, 16. SÁNCHEZ ALBORNOZ, op. cit., pp. 134 ss.

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Romani, che potevano invece accedere a quelle appartenute un giorno ai dominatori; a meno di artifizi od espedienti elusori, il commercio, ovvero il mercato immobiliare restava così bisecato in due circuiti, la comunicazione tra i quali poteva avvenire in un solo senso, che, al di fuori di fattori attenuativi (la munificenza regia, la spoliazione dei soccombenti nelle lotte intestine) si sarebbe risolto in un generale ed inesorabile depauperamento del gruppo inizialmente privilegiato. Del tutto anomala la natura e quindi diversa la vicenda della tertia longobarda cui, ad onta di quanto se ne è scritto, mai si trova nelle fonti cenno espresso, l’unica allusione restando quella fattane da Paolo Diacono, ovvero da Secondo di Non, nel celeberrimo, tormentato e tormentoso passo: reliqui vero, per hospites divisi ut terciam partem suarum frugum Langobardis persolverent, tributarii effìciuntur43. Il carattere generale dell’assunto vieta che si torni qui ad addentrarsi nei particolari di una disamina44 , cui per altro la sommarietà nuoce come a poche. Senza che ve ne fosse alcuna necessità logica, storica e narrativa, una tradizione secolare ed illustre ha collegato le parole or ricordate a quelle di un altro passo, non meno famigerato e famoso, nell’opera di Secondo ugualmente raccolto da Paolo, il primo – è da credere – cui esso apparve sibillino, e cioè Populi tamen adgravati per Langobardos hospites partiuntur 45 . Il nodo gordiano artificiosamente stretto tra i due, lungi dal facilitarne la comprensione, ha indotto a ricostruzioni storiche che già nella loro rigida sistematicità cozzano contro il modo caotico e proteiforme onde avvenne il primo insediamento dei Longobardi in Italia. La rottura delle intese e delle collusioni sin lì avute con l’Impero, segnata dall’abbandono della Pannonia, si era mutata in ostilità aperta allorquando, contro ogni loro aspettativa, a Costantinopoli era stato deciso che l’avanzata dei nuovi occupanti fosse contenuta e fermata. Alboino, dopo l’espugnazione di Pavia e la sospensione delle conquiste, ritirandosi in Verona, si era in certo senso piegato alla situazione, senza che per questo i suoi avversari cessassero di perseguire con ogni mezzo la sottomissione e l’espulsione della sua gente. Il re viene eliminato e così il suo successore, che aveva cercato con energia disperata di contrastare gli attacchi che gli erano inferti; dopo questo secondo omicidio i Longobardi rimasero per un decennio sotto il governo dei duchi, che intuirono come il miraggio di sedi transalpine fosse irraggiungibile o dissolto e quindi, profilandosi una mora indefinita nelle contrade dell’Italia superiore, fosse conveniente e necessario trovare forme di sostentamento che non ne inaridissero in breve le fonti, lasciando senza cibo tutti, vincitori e vinti. Le reminiscenze dei servizi federali vecchi e nuovi, come le contingenze degli accordi onde gli invasori poterono talvolta espandersi senza combattere suggerirono di far ricorso ad un sistema largamente sperimentato: dai nobiles superstiti fu pretesa la consegna di derrate nella misura del terzo.

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P AUL . D IAC, H. L, II, 32. P.M. CONTI, L’imposizione della “tertia” ai “nobiles” padani e la divisione dei “populi” del regno longobardo, in «Atti dell’Accademia Roveretana degli Agiati», s. VI, XXV (1985), pp. 203 ss. 44

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L’esazione, più o meno forzosa a seconda dei luoghi e dei momenti, mancando uno stato che la potesse legalmente imporre (che la compagine longobarda tale ancora non era) od un foedus donde potesse discendere, aveva il carattere di una transitoria requisizione militare, anziché quello di un onere pubblico, ovvero di un’imposizione tributaria. La tertia longobarda, per quanto forma rozzamente imitativa ed iterativa del vecchio regime della hospitalitas, ha quindi con la vicenda della continuità rurale avuto una relazione alquanto indiretta, non foss’altro per la sua natura mobiliare. Ben diversa, come è intuitivo, è stata certo l’incidenza della costituzione della proprietà fondiaria longobarda, sulla quale manca qualsiasi informazione diretta ed esplicita. Alla fine del secolo VI, tuttavia, accanto ai grandi locupletati dalla munificenza regia46 , il ceto dei piccoli possessori longobardi appare già costituito persino là dove l’occupazione non è stata subitanea47. La constatazione rende più plausibile e verisimile che, a parte il recupero delle terre vacue od adespote, a parte spoliazioni ed usurpazioni, i Longobardi, specie nelle contrade ove sono stati introdotti dai Bizantini e poi sono rimasti dopo l’abbandono delle insegne di costoro (nell’Italia centrale, soprattutto) o dove sono gradualmente penetrati con l’acquiescenza delle popolazioni locali (le valli alpine), siano diventati proprietari in seguito a frammentari accordi contingenti e spesso taciti con i quali hanno trovato una sistemazione relativamente stabile le pendenze di una hospitalitas di fatto, ovvero è stata individuata una determinazione vagamente definitiva del gravame di essa, per la popolazione romano-italica ormai ineluttabile. Può darsi che in quelle spartizioni, via via negoziate in condizioni molto meno drammatiche di quelle volentieri immaginate dalla storiografia tardo-romantica italiana, ci si orientasse per lo più verso una cessione che ricalcava e rinnovava una misura cristallizzata e consacrata da una consuetudine veneranda; ma non per questo è davvero esistita una tertia immobiliare longobarda. Questa appare ancor più improbabile e assurda ove l’insediamento è avvenuto in seguito ad un’avanzata vittoriosa, onde i capi longobardi (erano gli anni dell’interregno), per essersi trovati in condizioni analoghe, hanno potuto inconsciamente calcare le orme di un altro condottiero che, ben prima di loro, ma al pari di loro, si era impadronito di territori romani al di fuori, anzi contro ogni foedus, vale a dire del re dei Vandali. Per quanto anteriore di un secolo ed oltre, per quanto diversi fossero da un canto l’ordinamento giuridico-sociale dei conquistatori e dall’altro lo stato della proprietà romana, il processo di acquisizione delle terre dei primi tempi del regno vandalico in Africa48 è quello che meglio può suggerire i modi delle espropriazioni perpetrate dai Longobardi. Per mezzo di queste, che sarebbe improprio definire requisizioni come confische, capi e

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Cfr. C.R. BRUHL , Codice Diplomatico Longobardo, III, 1, Roma 1973, n. 2, a. 624, pp. 105 s. 47 Cfr. P.M. CONTI, “Devotio” e “viri devoti” in Italia da Diocleziano ai Carolingi, Padova 1971, p. 149 nt. 18. 48 Cdr. C. C OURTOIS, Les Vandales et l’Afrique, Paris 1955, pp. 275 ss.

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seguaci hanno secondo la lor convenienza gettato le fondamenta delle fortune immobiliari, che poterono i primi cedere in parte alla monarchia risorta49 , gli altri more langobardorum equitativamente dividere tra i loro discendenti, di conseguenza ridotti in breve in misero stato 50. Salvo forse per alcuni aspetti della conduzione agraria, la proprietà fondiaria longobarda non ha così avuto una sua unitaria fisionomia distinta e divergente da quella composita del sistema patrimoniale tardo-romano, di cui ha condiviso la sorte, racchiusa nei limiti angusti che all’espansione della giurisdizione dominale sono stati – si diceva – segnati dalla forza inesausta delle città, ove gli ultimi rampolli di un’aristocrazia più travagliata e tanto meno ricca di quelle iberica ed aquitanica hanno per lo più continuato a dimorare ed ove i grandi del nuovo regno han tosto ambito a divenir cives 51. La casa tributaria longobarda è pertanto rimasta circoscritta al diritto privato, così come la curtis longobarda, con l’eccezione di quelle regie, è rimasta quella delineata dall’Editto di Rotati, ossia struttura centrale recinta della primordiale azienda agraria germanica ed ancora una volta le linee di tendenza dell’evoluzione dell’assetto e dell’ordinamento territoriale d’Italia non sono mutate, né si è interrotta la complementarità tra la continuità rurale e quella urbana. La fondamentale causa genetica di ciò risiede nella vetustà della tradizione cittadina, che è originaria nella civiltà della penisola, in cui si sono insediati popoli, come Etruschi, Latini, Umbri, Oschi e Greci – per rammentar solo i più celebri – che sono stati tra i più fervidi fondatori di città di tutto il mondo mediterraneo. Tra le antichissime popolazioni d’Italia solo i Liguri hanno a lungo conservato uno stanziamento pagense, ma poi l’espansione etrusca da un lato e quella celtica dall’altro già prima della conquista romana hanno tra loro introdotto e diffuso l’insediamento urbano. Le città, tuttavia, hanno dominato l’intera storia della penisola non solo per la loro antichità, ma pur per il loro numero e la loro vicinanza. Il censo augusteo ne aveva annoverate ben 43052, che, come è facile constatare, distavano tra loro un giorno di cammino o poco più (vale a dire 3040 km53) e raramente due (ossia 60-70 km). E quindi evidente la differenza con la Francia e con la Spagna, ove si passa da una città all’altra con un viaggio che oggi dura quattro o cinque ore, ma che nell’antichità e nel medioevo si protraeva per dieci giorni ed oltre. La forza delle città è stata in Italia tanto grande, gli schemi dei loro territori così imperiosi, che pur quando e laddove sia una tra la fine dell’antichità e il principio del medioevo decaduta e scomparsa – come è avvenuto nella Tuscia meridionale54 – la zona è stata suddivisa e riorganizza-

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P AUL . D IAC, H. L, III, 16 cit. Cfr. nota 47. 51 Cfr. P.M CONTI , “Exceptores” e “cives”. Consuetudine e diritto nelle città dell’Italia longobarda, in Studi medievali, III s., XXIII (1982), pp. 128 ss. 52 J. MARQUART, Römische Staatsverwaltung, I2 Leipzig 1889, p. 3. 53 Cfr. P.M. CONTI, Le vie dell’Appennino tosco-emiliano tra la tarda antichità e l’alto medioevo, in Romanico padano, romanico europeo, Parma 1982, pp. 134 s. 54 Cfr. F. SCHNEIDER, Die Reichsverwaltung in Toscana, Rom 1914, pp. 121 ss. 50

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ta dalle superstiti, che non hanno lasciato campo alla formazione di strutture diverse ed è questa una, se non la prima delle cause onde in Italia le così dette regioni storiche non hanno avuto rilievo e rilevanza soprattutto nei riguardi del diritto pubblico. Se ne deve allora concludere che tradizioni e consuetudini particolari non sono in Italia esistite al di fuori delle città, che hanno così indelebilmente segnato la sua storia? Sarebbe eccessivo ed anche ingiustificato, che tante, troppe solo le memorie della consuetudo loci; questa, però, non ha saputo imporsi e trascender ad ambito più vasto neppure nei momenti della maggiore depressione urbana, quando le si diede l’unica occasione storica in cui avrebbe potuto superare i suoi limiti ristretti e modesti. Consuetudo loci è, tuttavia, un’astrazione, in quanto sono esistite innumeri consuetudines loci, di giorno in giorno create dalla vita sociale e collettiva, che nella vacanza di una superiore autorità e degli ordinamenti di questa si riorganizza in forme autonome, le quali, se tentano talvolta di rinnovare o di imitare il passato, più spesso e più sostanzialmente obbediscono alle esigenze degli individui e dei gruppi, che sotto la spinta della necessità di dare una disciplina purchessia alla loro convivenza, danno luogo ad un ordinamento pattizio, reciprocamente temperando, se non concordemente rimuovendo l’arbitrio e l’arbitrarietà, così che per la sua funzionalità l’espediente temporaneo diviene costume, norma e quindi istituzione. È per questo che al di fuori di una continuità materiale, costituita dalla costante iterazione dell’uso, appare ben dubbio che, salvi territori tutt’affatto particolari e circoscritti, vi sia stato un collegamento diretto tra i beni collettivi e comuni dei villaggi o dei naturali consorzi delle età preistoriche e protostoriche, le terre del collegio dei vicani e quelle dei ben più tardi vicini, il nome dei quali rinvia ad una contiguità reale piuttosto che ad un vincolo personale35. Gli stessi toponimi da vicanale, dei quali l’Italia superiore e le sue carte sono piene, lungi dall’indicare la persistenza di un sistema giuridico arcaico e remoto, dipendono da un’accezione tardiva, che rispetto all’antica ha subito un ribaltamento pressoché diametrale, per cui sono passati a designare una pertinenza prediale di diritto privato ed individuale. Il legislatore germanico, giusta la sua tradizione avita, ha comunque rispettato la consuetudine locale al pari di ogni altra e ne ha riconosciuto l’efficacia nella sfera delle modeste vertenze e contese rurali, ma non la ha sollevata dall’umile ambito di una giurisdizione virtualmente volontaria, lasciando carattere palesemente privato alla fabula ... inter vicinos56, ossia alla convenzione dei coabitanti depositaria e garante della consuetudine stessa. Il medesimo legislatore, ad onta delle origini prettamente anurbane della sua cultura, ha tuttavia fatto ben di più: ad un’altra assemblea, per il momento privata pur questa, ma cittadina, vale a dire a quella costituita dal conventus ante ecclesiam57 , ha accordato un privilegio all’altra negato,

55 56 57

G.P. BOGNETTI, Studi sull’origine del comune rurale, Milano 1978, p. 307. ROTH., Edict., c. 346. R OTH., Edict, c. 343.

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quando limita drasticamente, per non dire quando esclude per la prima le ipotesi di una degenerazione sediziosa58. Alla consuetudo rurale è, così, ancora una volta sbarrato il passo a favore di quella urbana, da cui veramente è limitata ed oppressa, mentre le sono indifferenti l’usus Etalie ricordato in un testamento lucchese del secolo VIII59 e la consuetudo terre istius, vale a dire del regno intero, che compare nel capitolo 95 di Liutprando. La consuetudo rurale è già soccombente ben prima che i comuni cittadini impongano le loro norme nel contado; ne sono testimoni eloquenti la diffusione del rito formale e documentario della confirmatio nato tra le sue mura da Lucca nel corso del secolo VIII fatta nel territorio circostante60 , e, quattro secoli più tardi, l’ammissione degli uomini di Arosio che la loro consuetudo loci aveva ceduto e si era adeguata a quella totius Mediolani regionis61. PIER MARIA GIUSTESCHI CONTI

58 59 60 61

ROTH., Edict., c. 280; CONTI, “Exceptores” cit., p. 139. L. SCHIAPPARELLI, Codice Diplomatico Longobardo, II, Roma 1929, n. 287, a. 773. CONTI, “Exceptores” cit., p. 113. C. M ANARESI, Gli atti del Comune di Milano fino al 1216, Milano 1919, p. 208, a.

1183.

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Le necropoli altomedievali, continuità e discontinuità. Alcune riflessioni.

Una quindicina di anni or sono, sulla scorta delle conclusioni della ricerca di Pierre Toubert sul Lazio, il problema del rapporto tra tardo antico e alto medioevo, nei termini di riscontro di continuità e rottura con la tradizione e le strutture antiche, era senz’altro definito dagli storici – ma non solo – come un ‘falso problema’ di cui semplicemente non ci si doveva più occupare. Tra i tanti detrattori dell’argomento, anche Charles Hi-gounet lo ha definito di recente «l’irritante question de la continuité». Non penso però che scegliere oggi proprio il tema della continuità a oggetto specifico di un seminario sia il frutto di miopia storiografica, ma piuttosto, questione vera o falsa, per irritante che essa sia, rappresenti la scelta di affrontare dal vivo un problema concreto per chi si occupa di alto medioevo. Manifesti soprattutto l’esigenza di osservare questo periodo con occhi nuovi, cercando di isolare e di periodizzare storicamente le interpretazioni nazionalistiche che questo tema ha suscitato nel passato, per prescinderne rigorosamente. Mi sembra insomma una scelta tematica in pieno accordo con la linea di ‘rivisitazione’ che l’archeologia medievale si va oggi proponendo. Voglio spiegarmi meglio. Guardando in retrospettiva orientamenti di ricerca e di metodologia affiorati e affrontati in questi venti anni di vita dell’archeologia medievale italiana, non si può non notare il rapporto ambivalente nei confronti della storia tradizionale e delle sue fonti, che è maturato nel tentativo sempre più coerente di emanciparsi dai metodi e dalle conclusioni della storia per poter autonomamente fornire non soltanto nuovi dati, ma anche far sorgere nuovi problemi. Si è dunque avverato, quanto auspicava dieci anni or sono, in occasione del convegno cuneese sui castelli, lo storico Paolo Cammarosano, che riteneva necessario, per una reale convergenza interdisciplinare tra storia e archeologia «che non si postuli e non si persegua un adeguamento sistematico dell’evidenza materiale alla serie dei fenomeni socio-istituzionali». Al suo esordio, l’archeologia medievale necessitava anzitutto di giustificare la sua apparizione sullo scenario accademico, illustrando con coerenza il ventaglio di possibilità di utilizzo delle proprie fonti. Il primo redazionaie della rivista «Archeologia Medievale» presentava infatti le fonti archeologiche come potenzialità a tutto tondo per poter indirizzare la ricerca su quegli aspetti della vita quotidiana che i documenti non permettevano di esaminare, presupponendo quindi una implicita divisione di ruoli. Allo storico tradizionale venivano volentieri lasciate le indagini istituzionali sui vertici della società, mentre compito dell’archeologia era ricostruire il tessuto di microconnessioni materiali, di disegnare uno sfondo concreto. Il primo obbiettivo immediato era dunque quello di costruire una base tipologica e filologica - una sorta di Du Cange materiale - che fornisse l’indispensabile base erudita alle nuove ricostruzioni.

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Da questo inizio, alcuni temi hanno avuto un impatto e un percorso di ricerca più agevole e coerente - penso ad esempio alle ricerche sui villaggi abbandonati - e generalmente si è trattato di temi nuovi, elaborati in seno alla ricerca archeologica o a discipline di interessi e metodologie affini, quali la storia degli insediamenti e la geografia storica. Su altri argomenti invece l’archeologia medievale italiana ha dovuto porsi a valutare e a bilanciare criticamente aspetti e tradizioni di ricerca già consolidate in Paesi contermini, oppure più rigidamente inerenti alla pratica archeologica relativa a epoche diverse: per esempio, per il tema delle necropoli, con la tradizione di studi filologici dei corredi funebri intrapresa dai medievisti tedeschi, e le metodologie rigidamente tipologiche dell’archeologia classica. Dalla fase che potremmo chiamare ‘filologica’ di definizione dei propri ambiti d’azione concreta, si è passati a quella del confronto diretto con la storia, e preferirei confronto al termine di collaborazione. Si è trattato infatti di rivisitare interpretazioni e problematiche tradizionali della storia anzi talmente tradizionali da sembrare, sulle prime, superate - attraverso i dati archeologici. Un confronto, dunque, a campo aperto su ampi problemi di inquadramento interpretativo dei dati. Le fonti archeologiche si sono quindi trasformate e caratterizzate per il proprio contributo specifico a temi di grande risonanza. Per esempio l’incastellamento, oppure la storia delle città durante l’alto medioevo. Sintomo di questo atteggiamento è anche la diversa scelta cronologica operata rispetto allo scorso decennio. Se nelle ricerche iniziali la fase bassomedievale risultava quella ove più facilmente storia e archeologia si potevano incontrare, per la relativa abbondanza delle testimonianze relative a entrambi i settori, ora tutta l’attenzione degli archeologi è puntata sul periodo precedente. L’alto medioevo di Gian Piero Bognetti e dei giuristi è dunque diventato un terreno di confronto con la tradizione storica, come campo in cui l’archeologia può porsi a buon diritto come la sola in grado di apportare delle novità di rilievo e quindi di affrontare problematiche consolidate. Questo incontro è dunque senz’altro un’opportunità non solo per vagliare criticamente l’attendibilità del problema della continuità, ma anche per riesaminare le valenze intrinseche delle fonti archeologiche, cogliendole cioè non per le loro valenze globali, di “fonti per lo studio di...”, ma come testimonianza diretta di sé stesse. Per l’analisi delle sepolture e, più in generale, dei complessi cimiteriali, la necessità di affrontare in modo più approfondito l’aspetto intrinseco delle risorse specifiche e interne di questo tipo di fonte mi sembra oltremodo urgente. Lo studio delle necropoli - e lo si è rilevato tantissime volte per quelle di età longobarda - sia per mancanza di grandi complessi di indagine recente, sia per lo stato in genere assai lacunoso in cui versano i materiali scavati all’inizio del secolo, è rimasto in genere improntato all’analisi tipologica degli oggetti dei corredi e delle casse, derivandone non conclusioni relative alla morte oppure ai luoghi della morte, bensì alla ricostruzione della società dei vivi. Il contributo al problema della continuità che l’esame dei gruppi cimiteriali può fornire è invece anzitutto inerente ai modi di sepoltura e alla scelta dei luoghi cimiteriali, cioè ad argomenti connessi con la tematica sociale della morte in rapporto con i mutamenti della società dei vivi. In altri termini, le necropoli altomedievali possono risultare indicative delle modificazioni di

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ampio spettro che intervennero in Italia tra VI e Vili secolo, se osservate come il sintomo dell’adattamento, per esigenze di prestigio locale, delle proprie e peculiari consuetudini funerarie da parte del ceto egemone germanico. Si tratta infatti dell’adozione di modelli funerari nuovi che maturano attraverso il contemperamento tra la tendenza a mantenere e a sottolineare una specifica identità etnica germanica e la spinta ad adeguarsi e a reinterpretare i modelli élitari di tradizione bizantina. La presenza o meno di un corredo, le sue componenti, sembrano dunque da correlare ai mutamenti dell’immagine sociale del defunto, non necessariamente all’adozione di una religione salvifica, come ha da tempo dimostrato Peter Ucko. Esporrò quindi alcuni risultati della ricerca condotta in base alla schedatura di tutte le sepolture altomedievali rinvenute nella Venetia, che ho cercato di esaminare attraverso una duplice angolazione. In primo luogo quella della distribuzione e dell’entità numerica delle aree cimiteriali, valutandole in rapporto alla conformazione insediativa e le forme di popolamento da esse suggerita e alla morfologia del paesaggio antico, secondo i dati forniti dalle fonti scritte. Prenderò volontariamente in esame soltanto i dati relativi alle sepolture, poiché lo scopo di questo lavoro è indicare le possibili relazioni tra elementi forniti da fonti diverse, più che una compiuta ricostruzione territoriale. In secondo luogo prenderò in esame l’aspetto inerente alla diversificazione della composizione dei corredi, e quindi della formazione di diversi modelli funerari locali, in rapporto al contesto territoriale. Raramente la distribuzione geografica delle sepolture altomedievali è stata interpretata come fonte per la storia del popolamento e delle vicende insediative di un territorio. Le tombe di età longobarda vengono infatti generalmente menzionate come indici dell’esistenza di presidi militari lungo le principali vie di comunicazione, oppure come cimiteri di guerra, seppur in presenza di deposizioni femminili e infantili. Secondo il Salin, in uno studio che rimane punto di riferimento implicito per gli studi sull’argomento, le prime necropoli germaniche si collocherebbero sui versanti collinari, in prossimità di un corso d’acqua e di un tracciato stradale, a una distanza compresa tra 200 e 2500 metri dall’insediamento cui la necropoli si riferisce. Si presuppone dunque che l’ubicazione delle aree cimiteriali venisse stabilita esclusivamente in base a criteri rituali e che a una necropoli facesse riferimento un abitato e uno solo. Esattamente allo stesso modo in cui si è a lungo pensato che l’entità del popolamento di un insediamento fosse riflessa dal numero e dalla grandezza delle chiese circonvicine, non considerando l’importanza e la rilevanza anche numerica del fenomeno delle fondazioni di chiese private, strettamente correlate al prestigio sociale dei fondatori. Recenti ricerche condotte sulle necropoli anglosassoni e merovingie hanno infatti dimostrato l’infondatezza di tali presupposti, notando invece come «più di un abitato possa far uso della stessa necropoli, e ali’ opposto, più di un cimitero possa venire usato dagli abitanti dello stesso insediamento». L’esame delle testimonianze archeologiche del territorio Veneto è stata quindi impostata considerando variabili quali il numero delle sepolture di ogni necropoli, il periodo di frequentazione, in rapporto con l’epoca in cui i territori vennero a far parte del regno longobardo. A un primo esame sembra infatti esservi una differenza sostanziale tra le zone occupate

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immediatamente dopo il 568 e il territorio padovano, conquistato soltanto nel 603 dal re Agilulfo. Nei territori di Verona, Vicenza e Belluno, occupati da Alboino nel 568 è infatti possibile riscontrare tre situazioni insediative diverse che riflettono un atteggiamento multiforme nei confronti degli abitati e delle necropoli preesistenti e quindi delle popolazioni locali. Vi è anzitutto una particolare conformazione delle necropoli situate nell’area di pianura a sud di Verona e a ovest di Vicenza: si tratta infatti di vere e proprie necropoli, con un numero di inumati variabile da 50 a 500, poste sul sito di aree cimiteriali in uso in età protostorica, in località che generalmente non presentano una fase di occupazione di età classica. Il loro periodo di uso copre tutto l’arco dell’età longobarda, cioè fino alla seconda metà dell’VIII secolo. Tale situazione è ben rappresentata dal territorio dell’odierno comune di Povegliano, che, come si è di recente rilevato, «se può essere citato nel suo insieme per la consistenza dei ritrovamenti della facies culturale gallica, non è altrettanto rappresentativo per l’età romana». Le necropoli di Ciringhelli – circa 100 sepolture – Povegliano Marinare e Madonna dell’Uva Secca, scoperte alla fine del secolo scorso da Carlo Cipolla e infine di Povegliano Ortaia, presentano infatti una consistenza numerica notevole, collegata a deposizioni sia con un corredo funebre con armi, sia con semplici oggetti riferibili all’abbigliamento del defunto. L’aver rilevato nella zona di pianura una più densa concentrazione di nuclei cimiteriali, oltre che a sfatare la supposizione che la zona sia stata oggetto di un lungo e continuo spopolamento a partire dall’età tardo antica, dimostra per converso l’occupazione, come aree di sepoltura, di terre che fino a quel momento erano rimaste incolte. Inoltre, il numero elevato di sepolture non deve neppur fare automaticamente ipotizzare una presenza germanica più fitta rispetto ad altre zone, bensì una diversa organizzazione degli insediamenti e delle aree cimiteriali in rapporto alla conformazione e alle risorse del suolo. Durante l’alto medioevo la pianura veronese era in gran parte incolta, sia per la presenza di zone paludose e acquitrinose bonificate dal comune veronese alla fine del XII secolo, come ha dimostrato Andrea Castagnetti, sia per amplissime estensioni boschive, quali la stiva che si estendeva per un tratto molto ampio tra il Tartaro e il Menago. La scarsità complessiva di aree abitabili e coltivabili, se non costituì di certo un freno per il popolamento della pianura, date le notevoli risorse economiche dell’incolto per la pesca e l’allevamento che da tempo sono state sottolineate da Massimo Montanari, ne condizionò evidentemente la morfologia. La documentazione altomedievale attesta infatti la presenza di un habitat estremamente disperso, che si riflette anche nella grande estensione territoriale delle villae principali, e nella frequenza di microtoponimi attestanti piccoli nuclei di case sparse. Dato che tutte le necropoli di questa zona si rinvennero in terreni ghiaiosi o sabbiosi, se non addirittura durante l’escavazione di cave di sabbia, non è improbabile ipotizzare che le aree cimiteriali fossero state definite e delimitate in alcune zone dai suoli improduttivi, e che esse fossero utilizzate contemporaneamente dagli abitanti di più insediamenti. Si tratterebbe pertanto dello spontaneo convergere in siti che già in epoca preistorica avevano avuto una destinazione funeraria, non già per motivi inerenti a ragioni rituali, ma per il rinnovato interesse allo sfruttamento delle risorse delle zone incolte, che nell’alto medio-

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evo sembra manifestarsi con slancio ben maggiore che nell’età precedente. Nella zona di alta pianura e pedecollinare, vi sono poi testimonianze isolate di sepolture altomedievali che si pongono come ultima fase di utilizzo di necropoli di età classica. I reperti del corredo non comprendono, eccetto un caso, oggetti relativi all’armamento, ma solo suppellettili personali, per lo più femminili. Essi si configurano dunque come indici di utilizzo di cimiteri di tradizione romana, e forse, ma non è certo, come indizio di continuità di frequentazione di alcuni insediamenti durante l’inizio dell’alto medioevo. Nel complesso, quindi, nella pianura veneta, e in special modo veronese, l’insediamento altomedievale sembra disporsi per nuclei sparsi, con un atteggiamento differenziato riguardo alla composizione e all’ubicazione dei siti cimiteriali. Le grandi necropoli, diffuse unicamente in questa zona, si pongono generalmente in aree non frequentate in età romana, in spazi appositamente designati, secondo una distribuzione “a file”, che non sembra esclusivamente doversi rapportare a tipico indizio della popolazione germanica, ma può essere vista anche come il sintomo dell’esigenza di sfruttare appieno uno spazio cimiteriale limitato. Accanto a queste necropoli sopravvivono alcuni siti cimiteriali di età romana, che presentano un ultima fase di utilizzo durante l’inizio del VII secolo. Nel primo caso, l’organizzazione di aree cimiteriali nuove sembrerebbe far ipotizzare una mobilità insediativa maggiore, attraverso una diversa dislocazione degli insediamenti e l’uso più esteso dell’incolto; nel secondo caso si tratterebbe invece di una sostanziale continuità con la tradizione precedente. Per contro, nei territori collinari i ritrovamenti tombali sono dispersi in piccoli nuclei, compresi tra le 10 e le 15 sepolture, che si trovano in aree di intensa romanizzazione, in terreni morfologicamente idonei a colture pregiate, quali la vite e l’olivo. L’insediamento sparso, presente in queste aree anche in età romana come forma insediativa prevalente, appare in questo caso direttamente connesso con la frammentazione della proprietà e si riflette nella formazione di nuclei cimiteriali dispersi, che non sembrano aver alcun riferimento con edifici ecclesiastici. Il loro elenco è piuttosto lungo e la maggiore concentrazione nel territorio veronese sembra doversi attribuire soltanto alla maggiore intensità della ricerca archeologica ottocentesca, ad opera dell’infaticabile Carlo Cipolla. I ritrovamenti lungo la costa orientale del lago di Garda, di Rivoli Veronese, della Valpolicella e della Val d’Illasi ben testimoniano questa situazione. Del tutto a parte è invece da considerare il territorio bellunese, che presenta un caso ancora poco studiato e di estremo interesse. Nonostante non siano mai state condotte ricerche sistematiche, il Bellunese presenta infatti una notevole quantità di ritrovamenti, anche rispetto a quelli di età classica, in aree in precedenza scarsamente abitate. I ritrovamenti si concentrano infatti in due aree precise – l’Agordino e il territorio di Feltre. Il che, se da un lato potrebbe semplicemente riflettere il raggio d’azione dei due studiosi Tamis e Alpago Novello, sembra nondimeno proporre una situazione insediativa già strutturata in età protostorica. Queste due aree appaiono inoltre fortemente caratterizzate e differenziate tra loro per ciò che riguarda il tipo di oggetti del corredo funebre. Nel territorio agordino sono infatti venute alla luce undici necropoli, caratterizzate da un numero di sepolture compreso tra le cinque e le quindici unità, da corredi assai omogenei – comprendenti fìbule zoomorfe, fibule a braccia eguali, orecchi-

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ni a cappio, cioè oggetti femminili, riferibili all’abbigliamento funebre e non a un vero e proprio corredo suntuario. L’interpretazione generalmente proposta è che questi oggetti rappresentino simboli specifici della cultura alpina e siano quindi caratteristici dell’abbigliamento della popolazione locale. Vale tuttavia la pena notare che oggetti del tutto simili si trovano in sepolture dell’Italia centrale e della pianura padana, vale a dire in zone che nulla hanno di alpino. Più che il revival di una immota tradizione locale, questi oggetti sembrano indicare la continuità con la tradizione tardo antica, se non altro nell’abito funebre, come appare anche testimoniato dalla presenza di vasellame da tavola con forme ampiamente tipicamente tardo romane, quali le olle globulari e le olpi monoansate ritrovate a Taibòn. Il fatto che l’Agordino presenti un gruppo territorialmente definito con corredi assai simili, sembra potersi interpretare più che come manifestazione di una cultura specificamente alpina, come testimonianza di un’area seriore, cioè di una zona appartata dai grandi traffici commerciali ove si mantennero, nell’ambito della tradizione funeraria, con modifiche minime e maggior compattezza, gli usi e i costumi di età precedente. Si tratterebbe pertanto di un territorio in cui prodotti ampiamente diffusi in tutto il mondo romano vennero usati più a lungo se non altro nelle sepolture, dove la tradizione sepolcrale tardo romana continuò perciò a fungere da modello, senza venire sostituita o contaminata da quella in uso presso le popolazioni germaniche. Dal punto di vista insediativo, la collocazione delle necropoli in aree apparentemente non frequentate in età romana ha fatto ipotizzare che nuovi insediamenti fossero sorti grazie al rinnovato impulso dell’attività estrattiva e mineraria della zona durante l’alto medioevo. Quest’ipotesi, senza dubbio suggestiva, necessiterebbe di prove un po’ più solide di dati toponimici bassomedievali e dell’esistenza in età romana di un collegio di fabri a Feltre. L’isolamento di quest’area, difficilmente accessibile dai municipio, di Feltre e Belluno, difficilmente si concilia con l’attività estrattiva, di per sé collegata alla presenza di contatti intensi con centri manifatturieri, di smercio e soprattutto con la presenza di un ceto ‘imprenditoriale’. Studi recenti su questo territorio, hanno permesso di concludere che un’attività mineraria consistente e organizzata ebbe inizio soltanto nel XV secolo, per iniziativa imprenditoriale esterna di Bellunesi e Veneziani e con l’apporto fondamentale della manodopera tedesca di recente immigrazione. È quindi più prudente, per il momento, ritenere che accanto a qualche attività di tipo estrattivo – ipotizzabile più in base alle effettive risorse del sottosuolo che non a dati concreti che ne precisino l’entità e la cronologia – l’occupazione di quest’area pedemontana sia in diretto rapporto con la presenza di ampie zone di incolto boschivo e quindi con attività pastorali e di allevamento, con un’economia agricola di sussistenza locale. Data la casualità dei ritrovamenti, poiché nessuna delle necropoli citate è stata scavata sistematicamente e la documentazione scritta altomedievale è, per questo territorio, pressoché inesistente, è problematico ipotizzare un modello insediativo, anche se, data la natura impervia del luogo è del tutto probabile che le necropoli si riferiscano a centri di piccola entità posti di preferenza allo sbocco delle vallate. Occorre comunque tenere presente che la specificità del territorio agordino risulta accentuata dalle modalità stesse della ricerca e cioè che l’esclusiva attenzione ai reperti altomedievali, la

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mancanza di fonti scritte e di indagini archeologiche diacroniche. contribuiscono a fornire un quadro di frattura troppo netta, che rispecchia più gli interessi degli studiosi odierni che non la realtà antica. Ben diverso è il panorama del territorio tra Feltre e Belluno. Anziché di area periferica e marginale esso presenta infatti tutte le caratteristiche delle aree di ‘transito’ vale a dire di trait d’union di esperienze culturali diverse, dove, proprio grazie alla posizione geografica limitanea. vengono elaborate in modo originale esperienze di entrambi i versanti alpini con risultati che si discostano fortemente dai prodotti dei centri principali. La qualità dei ritrovamenti altomedievali è caratterizzata dalla presenza costante, nelle sepolture, di armi e di oggetti di corredo in materiale prezioso: nonostante le circostanze del tutto casuali in cui gli oggetti sono venuti alla luce, la quantità dei siti ha un parallelo preciso con quella riscontrata con la stessa casualità in Piemonte e con ben maggiore sistematicità in Trentino e in Friuli. I ritrovamenti di Castelvint, Moldoi, Pez, Zumelle, Arsiè, Fumac, possono essere valutati sia dal punto di vista insediativo, sia da quello culturale. Dal punto di vista insediativo le necropoli del Bellunese non sembrano doversi necessariamente connettere a punti fortificati, in punti ‘strategici’ con valenze strettamente militari, bensì a insediamenti stabili che vennero ad accostarsi a quelli già esistenti, come sembrerebbe indicare la non sovrapposizione tra i ritrovamenti di età romana e quelli di epoca successiva. Potremmo trovarci forse di fronte al fenomeno di vero e proprio inserimento territoriale, da parte longobarda, tra centri abitati preesistenti, come è stato ipotizzato per altre località dell’Italia settentrionale. Tale distacco sembrerebbe anche accentuato dalla marcata separazione tra le sepolture con armi da quelle con oggetti riferibili all’abbigliamento, con la presenza, nelle prime, di oggetti del tutto eccezionali nel panorama dei corredi della fine del VI secolo. L’impatto decisivo da parte longobarda nei confronti della strutturazione di nuove necropoli e nuovi insediamenti sembra essersi verificato nei primi quarant’anni della dominazione longobarda, mentre al procedere dell’ampliamento territoriale del regno non sembra corrispondere un effettivo spostamento delle sedi abitative, spingendo a ritenere che il controllo di queste ultime zone sia stato di natura puramente politica e amministrativa. Questa constatazione deriva dal confronto tra il panorama archeologico dei territori occupati da Alboino e il territorio padovano, conquistato soltanto all’inizio del VII secolo. In quest’ultimo infatti, non solo non vi è traccia di necropoli di ragguardevole entità, ma vi è la totale mancanza anche delle piccole necropoli che caratterizzano i territori collinari del resto della regione. Tutti i reperti padovani, peraltro scarsissimi di numero, appartengono alla categoria problematica dei ‘ritrovamenti isolati’, e la loro esiguità numerica rende improbabile che tale carenza sia da doversi esclusivamente imputare allo scarso interesse riservato all’archeologia medievale in questa zona, che è del tutto simile a quello riservatole negli altri territori. Se il prosieguo delle ricerche avvalorerà questa interpretazione, il tradizionale quadro di smantellamento e distruzione della città di Padova da parte di Agilulfo verrebbe ad assumere un valore puramente politico, privo di conseguenze effettive sul quadro del popolamento. E ora, in conclusione, vale la pena accennare ad alcune considerazioni su un altro aspetto della ricerca sulle necropoli. Finora è sembrato di poter

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suggerire che gli insediamenti prescelti dai longobardi si siano definiti, in continuità o meno con quelli precedenti, nell’epoca immediatamente successiva alla migrazione. È però innegabile che in anche queste ultime zone le testimonianze archeologiche fornite dai corredi presentino forti variabili, quantitative e qualitative. Vorrei soffermarmi in breve su queste differenze, per suggerire se esse, piuttosto che un segno di non presenza di longobardi, siano invece la spia di rapporti diversi con la popolazione locale. Come è noto, le variazioni della composizione dei singoli corredi sono interpretate come riflesso della condizione etnica ed economica del defunto: i ricchi, cioè i longobardi, porterebbero nella tomba oggetti d’oro e d’argento, mentre gli autoctoni denuncerebbero l’inferiorità sociale attraverso uno scarso numero di suppellettili, oppure con la completa mancanza di esse. L’unico sintomo di rapporti con la cultura locale sarebbe, nelle tombe più ricche, l’adozione di oggetti di manifattura bizantina, con un adattamento alla disponibilità di manufatti sul mercato. Sembra interessante correlare la valutazione delle tombe con ricco corredo non tanto a puntuali ed esclusive presenze etniche, bensì all’esigenza di propagandare e affermare un modello funerario. La presenza del corredo, costituito da manufatti che caratterizzano socialmente il defunto, è infatti un indice diretto del valore conferito al corredo come elemento attraverso il quale si manifesta l’appartenenza dell’individuo a un gruppo sociale e pone il momento della sepoltura come occasione in cui tale appartenenza risulta palese. Il modo in cui avvenne il reciproco confronto tra il modello germanico di sepoltura con armi e il modello latino con suppellettili ‘affettive’ mi sembra un processo da analizzare sia cronologicamente sia territorialmente. L’ampliamento qualitativo e quantitativo degli oggetti presenti nelle sepolture longobarde dell’inizio del VII secolo, sembra infatti un primo avvicinamento alla tradizione funeraria romana, interpretata in modo originale e in una precisa direzione. Per il gruppo germanico il corredo con armi è inizialmente un elemento di ‘distinzione’ dai locali e di identificazione con il proprio gruppo di appartenenza. L’accentuazione oppure il venir meno di tali caratteri è da correlarsi ai rapporti di forza che si vennero a creare localmente e quindi dall’esigenza di continuare a perpetuare tale distinzione. Globalmente, la presenza di ricchi corredi occorre in misura numericamente significativa in due contesti precisi: da un lato nelle aree a forte preminenza germanica, dove il modello germanico sembra continuare a funzionare attivamente come elemento coesivo per il mantenimento dell’identità del gruppo, e all’opposto, nelle aree a forte competizione, nelle quali l’esigenza di evidenziare la diversità conservò il suo significato etnico e sociale. Cividale, che presenta il più ampio numero di sepolture con corredo attestate in Italia, è infatti un centro promosso a città dagli stessi longobardi, dove il corredo sembra diventare un elemento essenziale per manifestare la propria posizione sociale e adottato, forse, per imitazione anche da chi longobardo non era affatto. Nelle zone limitanee del regno, invece, le sepolture ricche sono sparse in un grande numero di siti, e sono più comuni non già nei cimiteri che continuano una precedente area sepolcrale romana, bensì in quelli utilizzati soltanto a partire dall’età longobarda. Attraverso di esse appare dunque fortemente messo in rilievo il ruolo attivo di fondatore della necropoli da parte del defunto riccamente abbigliato. Invece, nelle aree di minor tensione dove alla competizione e al forte

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senso di identità etnica si venne strutturando una precoce integrazione di modelli, i corredi funebri compaiono in misura minore, poiché l’esigenza di distinguersi dalla popolazione locale venne rapidamente meno. La mancata presenza dei longobardi proprio nella capitale del regno, Pavia, che viene costantemente citata come vera e propria beffa archeologica, potrebbe essere forse il segno che nella sede incontrastata del potere regio i Longobardi non avvertirono a lungo l’esigenza di ‘fare i Longobardi’. Nella capitale non ve n’era alcun bisogno. Per concludere, il riscontrare una non soluzione di continuità dovrebbe essere, a mio parere, soltanto il punto di inizio e non lo scopo di una ricerca. Le fratture, di qualsiasi tipo esse siano, sono sempre dei punti di partenza per nuovi sviluppi, il cui esito è vario e non scontato. L’impostazione di nuovi studi sulla continuità, dovrebbe, secondo me, non arrestarsi a trarre conclusioni desolate sulla decadenza, ma anzi ritrovare stimoli e curiosità nella ricerca dei cambiamenti. CRISTINA LAROCCA Bibliografia Si riassumono qui i risultati esposti nella mia ricerca: Le fonti archeologiche, Le sepolture altomedievali del territorio di Verona in Materiali di età longobarda nel veronese, a cura di D. Modonesi, C. La Rocca, Verona 1989, pp.43-183, a cui rimando per la bibliografia sui singoli ritrovamenti.

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Langobarden, Bajuwaren und Romanen im mittleren Alpengebiet im 6. und 7. Jahrhundert. Siedlungsarchäologische Studien zu zwei Überschichtungsprozessen in einer Grenzregion und zu den Folgen für die ‘Alpenromania’*

Vorbemerkung: Mein Beitrag, den ich für die Tagung auf dem Monte Barro vorgesehen hatte, ist im wesentlichen identisch mit einem Vortrag, den ich im Mai 1991 während eines interdisziplinären Symposiums an der Universität Saarbrücken: «Grenzen und Grenzregionen» gehalten habe. So sind die Abschnitte I und V in den Formulierungen auf diese Thematik abgestellt und die Bebilderung wurde aus Kostengründen von insgesamt 12 Abbildungen auf vier reduziert. Der Kongreßbericht Saarbrücken wird noch 1992 erscheinen, herausgegeben von W. Haubrichs.

I. Vorbemerkung oder: Einstimmung in ein interdisziplinäres Gespräch Einleitend ist zu beschreiben, was der Archäologe 1. zu dem Vortragsthema mit seinen fachspezifischen Quellen und Methoden beizusteuern vermag und vor allem 2. welcher Beitrag hiervon zu dem Thema des Symposiums – Grenzen und Grenzregionen – erwartet werden kann. Der Vortragstitel kennzeichnet bereits hinlänglich deutlich den Untersuchungsbereich und seine Zielsetzung zu Punkt 1, nämlich: Die Benennung gesicherter ethnischer Kriterien, mit denen langobardische von romanischenen Gräbern geschieden werden können. Da keine auch nur halbwegs flächig untersuchte Siedlungen (Größe, Struktur, Besiedlungsdauer usw.) bislang vorliegen1 bleiben die zu ihnen gehörenden (siedlungsindizierenden) Bestattungsplätze die entscheidende und quantita-

* Nur wenig veränderte Fasung des Vortragstextes. Wegen der fächerübergreifenden Arbeitsweise des Saarbrücher Forschungsschwerpunktes, der – von Sonderforschungsbereichen abgesehen – bislang und leider noch kaum Vergleichbares findet, und des entsprechend zusammengesetzten Teilnehmerkreises des Symposiums wird auf allzu detaillierte archäologische Beweisführungen verzichtet; sie werden – auch hinsichtlich kontrovers beurteilter Problemzusammenhänge soweit als möglich in den Anmerkungen berücksichtigt. 1 Kleinere Siedlungsgrabungen und gesicherte Siedlungsfunde: BIERBRAUER, Insediamento, S. 149ff. Nr. 41, 42a, 44, 80, 117, 156-157 mit den dazu gehörigen Karten I-XI und außerhalb dieser nördlich anschließend in Südtirol an nennenswerten Siedlungsgrabungen noch: Villanders: «Der Schlern», 63, 1989, 201ff. Fortsetzung der Grabungen mit Siedlungskontinuität in das 6./7. Jhd., noch unpubliziert, Säben (BIERBRAUER-NOTHDUBFTER, Säben, S. 243ff.) und St. Lorenzen-Sebatum (R IZZI , GIANNI : in «Rivista Italiana di Numismatica e Scienze Affini», 87, 1955, S. 143ff.). Dazu Siedlungsmaterial in der Regel als Streu- bzw. Lesefunde aus den Castra und namentlich in den Schriftquellen nicht genannten Höhensiedlungen (BIERBRAUER, Insediamento, Karten I-XI), z.T. mit sehr begrenzten Ausgrabungen (Nr. 1, 8, 11, 75, 154).

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tiv auch gewichtige Quellengruppe für siedlungsarchäologische Studien. Wenn dennoch von Siedlungen selbst die Rede sein wird, dann sind es die Castra (und Castella) der Schriftquellen und ihnen vergleichbare Höhensiedlungen; obgleich diese in Südtirol und im Trentino archäologisch nicht bzw. kaum erforscht sind, kommt ihnen dennoch siedlungsgeschichtlich große Bedeutung zu, da sie sowohl durch datierbare Lesefunde als auch und vor allem im Kontext des mittleren und östlicheren Alpengebietes mit gesicherten Ergebnissen gut eingeordnet werden können 2 . Siedlungsarchäologische Studien kennzeichnen also die folgenden Ausführungen; zielführend ist, Lagebezogenheiten der germanischen (Langobarden/Bajuwaren) und romanischen Siedlung zueinander und deren Abhängigkeiten von naturräumlichen Voraussetzungen ebenso zu erkennen wie ihren Bezug zu der Infrastruktur der Zeit (Fern- und Hauptstraßennetz). Da sich hierbei bezeichnende Unterschiede herausarbeiten lassen, ergeben sich deutliche Hinweise auf die sehr unterschiedliche Art und Weise und somit Intensität der Überschichtungsprozesse über die ‘Alpenromania’, zum einen durch die Langobarden von Süden her in ihrem bereits 569 eingerichteten nördlichsten Grenzdukat von Trient und zum anderen von Norden her – hier nur randlich behandelt, weil allein auf Südtirol bezogen – durch die bajuwarische Landnahme südlich des Brenner-Passes bereits in der Zeit um 600. Da Schrift quellen für das 6. und 7. Jahrhundert fehlen, die sich unmittelbar und aussagekräftig sowohl auf die Intensität und Verteilung germanischer und romanischer Siedlung, vor allem für den allergrößten Teil unseres Untersuchungsraumes (Trientiner Dukat), weder im Großraum noch in der Mikroregion beziehen, kann Siedlungsgeschichte beweiskräftig nur durch die frühgeschichtliche Archäologie mit ihrem vergleichsweise gut datierbaren Quellengut und auch durch die Sprachforschung, namentlich durch die Ortsnamenkunde mit ihren chronologisch freilich weniger scharf eingrenzbaren Quellen geschrieben werden) 3 Der Stellenwert dieses Beitrages zu Punkt 2, also zum Thema des Symposiums ‘Grenzen und Grenzregionen’, ist ungleich schwieriger zu umschreiben: Dargestellt werden können immerhin zwei ‘Grenz’-Regionen ab der Zeit kurz vor und um 600 mit der Installation langobardischer und bajuwarischer Siedlung, Grenzregionen jedenfalls aus der Sicht der landnehmenden germanischen Bevölkerungsgruppen; aus der Perspektive der hier siedelnden alpenromanischen Bevölkerung dürften diese – zumindest in der Frühzeit (2. Hälfte des 6. und frühes 7. Jahrhundert) – jedoch kaum also solche empfunden worden sein, da die von beiden germanischen Populationen besetzten mittelalpinen Landschaften längs von Etsch und Eisack einen Großraum umfassen, der vor dem 6. Jahrhundert durch eine jahrhundertealte reichsrömische Kontinuität geprägt war und der auch weiterhin im 6./7. Jahrhundert durch zwar gebrochene, aber dennoch noch

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BIERBRAUER, Aufsiedlung, S. 9ff; ders., Castra, S. 497ff.; ders., Invillino I, S. 21ff, 293ff., 332ff; CIGLENEKI, Höhensiedlungen, passim.; vgl. auch Anm. 1. 3 Für die Sprachforschung konnte ich mich der Hilfe von M. Pfister (Saarbrücken) Lind Frau G. Mastrelli-Anzilotti (Florenz) dankbar versichern: vgl. BIERBRAUER, Insediamento, S. 121-150 mit den Beiträgen von M. Pfister und G. Mastrelli in demselben Sammelband: Italia longobarda, Venedig 1991, S. 175-225 und 227-267.

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durch nicht zu unterschätzende Kontinuitätslinien sich auszeichnet; die kirchliche Zugehörigkeit zu Oberitalien (Trient, Säben) – zunächst vermutlich zu Mailand, dann aber gesichert zu Aquileia – sowie die ordnende und gestaltende Rolle und Integrationskraft der Bistümer sind Glieder dieser Kontinuitätsfäden, wenn auch besonders wichtige4. Diese so spezifische Situation – so ist zu erwarten – dürfte kaum folgenlos für die ‘Alpenromania’ gelieben sein, spezifisch eben deswegen, weil die langobardischen und bajuwarischen Siedelgebiete sich im 7. Jhd. keineswegs über den gesamten mittleren Alpenraum flächendeckend ausdehnen, sondern – wie der archäologische Befund dies klar ausweist – sich keilförmig von Norden und Süden in diesen vorschieben (Abb. 1-2). Es hängt also nun von den Mechanismen und der Intensität dieser beiden Landnahmevorgänge ab, ob – und wenn ja – wo die territoriale und kulturell-zivilisatorische und vor allem auch sprachliche Einheit der ‘Alpenromania’ so gestört wurde, daß die Kontinuitätslinien immer brüchiger wurden, ja mit bleibenden Folgen dann sogar abrissen. Dies darzustellen, ist das Hauptanliegen dieses Beitrages, was aus der Sicht der Archäologie allein auf siedlungsarchäologischem Wege möglich ist. Kann also im Sinne der Symposiumsthematik zwar durchaus von Grenzregionen gesprochen werden, so lassen sich Grenzen hingegen im 6./7. Jahrhundert noch nicht darstellen; auch wenn man aufgrund der spärlichen und zudem wenig konkreten Schriftquellen kontrovers über den Verlauf sich verschiebender, rein politisch-territorialer Grenzen zwischen Langobarden und Bajuwaren in unseren Untersuchungsraum streiten kann – sollte es sie überhaupt im kontinuierlich, mehr oder minder vertraglich präzise geregelten Sinne gegeben haben –, so kam ihnen jedoch noch keine ethnisch prägende und stabilisierende Rolle im Kleinraum zu, schon gar nicht für die romanische Bevölkerung. Zu Vieles ist noch in Bewegung, noch nicht stabil genug auf dem Hintergrund der fränkischen Alpen bzw. Italienpolitik und der in sie teilweise kontrovers eingebetteten engen bajuwarisch-langobardischen Verbindungen 5 . Dennoch werden Grenzen in unser Blickfeld geraten, wenn ab dem ausgehenden 8. Jahrhundert sich herausbildende und erst im 11.-13. Jahrhundert ethnisch (und sprachlich) sich verfestigende Strukturen erkennen lassen; sie sind – was zu zeigen sein wird – in hohem Maße bereits grundgelegt in den beiden sehr unterschiedlich strukturierten Überschichtungsvorgängen von Langobarden und Bajuwaren über die ‘Alpenromania’. Archäologie und Sprachgeschichte kommen für die ‘Frühzeit’ hierbei besondere Bedeutung und Beweiskraft zu; sind die fachspezifisch erzielten Ergebnisse allein schon beeindruckend 6 , so läßt sich das siedlungskundliche Bild im interdisziplinären Verbund noch einmal erheblich verdichten 7 .

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Zur Kirchenorganisation zuletzt: BERG, Bischöfe, S. 74ff. und 5. 89ff.; SYDOW, Frühes Christentum, S. 32f£; BffiRBRAUER-NoTHDURFTER, Säben, S. 281f.; zur gestaltenden Rolle der Kirche angesichts verfallender staatlich-lenkender Institution im Dukat von Trient u.a. JÄRNUT, Herzogtum Trient, S. 170£. und CONTI , La spedizione, S. 306ff. 5 Zuletzt: SCHNEIDER, Alpenpolitik, S. 23ff. und SCHMID, Bayern und Italien, S. 51ff. 6 Zuletzt PFISTER, Entstehung ... des Zentral- und Ostalpenromanischen, S. 49ff. 7 Hierfür ist der Saarbrücker Forschungsschwerpunkt ein beneidenswertes Musterbeispiel; vgl. für das mittlere Alpengebiet: BIERBRAUER, Insediamento, S. 133; PFISTER, La popolazione, S. 175.

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II. Archäologische Vorbemerkungen: Probleme der ethnischen Sonderung langobardisch-germanischer und romanischer Nekropole Dieses generelle methodische Problem stellt sich nicht nur für das Trentino und für Südtirol, sondern für die gesamte Langobardia und läßt sich methodisch befriedigend somit auch nur im gesamten nach 568 langobardisch besiedelten Gebiet klären. Obgleich weder überregional noch regional gesamthaft befriedigend untersucht, läßt sich prinzipiell jedoch schon jetzt feststellen, daß das Aussondern langobardischer Gräber nur dann gesichert möglich ist, wenn bei der Frau die Bestattung in germani34

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scher Mehrfibeltracht oder Zweifibeltracht verbunden mit germanischen Fibeltypen und bestimmten Amulettbeigaben vorliegen und beim Mann natürlich die von sozialen Kriterien abhängige Waffenbeigabe aus Spatha, Schild, Lanze, ferner Sporen. Auf diesen Kriterien, insbesondere auf der Waffenbeigabe, die nahezu bis zur gänzlichen Aufgabe der Beigabensitte im 3. Viertel des 7. Jahrhunderts beibehalten wird, beruhen also die Aussonderung langobardischer Gräber und somit auch die Verbreitungskarten des langobardischen Fundstoffs (Abb. 1-2)8 . 8

BIERBRAUER, Aufsiedlung, S. 12ff. mit Karten Abb. 2-3; ders., Aspetti, S. 469ff. mit Karte Taf. XV; ders., Stand archäologischer Siedlungsforschung, S. 640ff; ders., Insediamento, S. 103 mit Karten I-XI.

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Da im Trentino und in Südtirol Gräberfelder nur in sehr, sehr kleinen Ausschnitten bislang ausgegraben wurden, läßt sich die sehr große Zahl an langobardenzeitlichen Sepulturen mit meist nur wenigen altüberlieferten oder gut beobachteten Gräbern in der Regel natürlich ethnisch nicht zweifelsfrei einordnen. Nur bei Nekropolen mit höherer Gräberzahl und gleichzeitig fehlender Waffenbeigabe erhöht sich das Maß an verläßlicher Zuordnung an die einheimisch-romanische Bevölkerung, vor allem dann, wenn noch zusätzlich gehäuft romanische Einzelkriterien sich an einem Fundort konzentrieren. Die Dichte romanischer Siedlung ist – gemessen an der schlechten Quellenlage – allein mit Hilfe der Grabfunde also nicht absolut zuverlässig einzuschätzen. Dennoch: Der größte Anteil an langobardenzeitlichen Gräbern bzw. Sepulturen ohne Waffenbeigabe dürfte sehr wahrscheinlich mit der romanischen Bevölkerung zu verbinden sein, da umgekehrt der relativ hohe Anteil an Waffengräbern pro Generation in besser untersuchten italischen Gräberfeldern – Beispiele: die großen langobardischen Friedhöfe von Nocera Umbra und Castel Trosino – doch eine verläßliche Beurteilungs- bzw. statistische Vergleichsgrundlage vermittelt9; die durch den Fehler der kleinen Zahl gegebene Fehlerquote bei nur mit wenigen Bestattungen erforschten Sepulturen verliert aber durch die hohe Zahl von insgesamt 178 Fundorten im Arbeitsgebiet – davon die allermeisten Grabfunde – somit deutlich an Gewicht. Ohne einem Zirkelschluß zu erliegen, bestätigt auch das so unterschiedliche Verbreitungsbild der als romanisch klassifizierten Nekropolen und der ethnisch gesicherten langobardischen Friedhöfe (Abb. 2) die zuvor geäußerte Annahme zur Bewertung romanischer Sepulturen, denn: wäre das Maß an unsicheren ethnischen Zuweisungen an die Romania hoch, müßten sich ethnisch diffuse, regional kaum unterscheidbare Verbreitungskarten ergeben, da etwaige Fehler sich ja nicht unterschiedlich in den Mikroregionen auswirken können, sondern sich flächig überregional verteilen müßten; zudem werden die archäologischen Befunde auch durch ortsnamengeschichtliche gestützt (s.u. und Karte Abb. 2). Da ich an anderer Stelle am Beispiel einiger Bestattungsplätze des Trentino erläutert habe, was unter welchen Voraussetzungen als romanisch bewertet werden kann und somit als Grundlage für Verbreitungskarten zur Romania dient (Abb. 2)10, mag eine kurze zusammenfassende Benennung genügen; außer der schon erwähnten Waffenlosigkeit der Männergräber ist dies prinzipiell die Häufung genuin romanischer Einzelkriterien an einem Fundplatz: 1. die überwiegende Beigabenlosigkeit bzw. reduzierte Beigabensitte, 2. mit Steinen und/oder Platten umfaßte und abgedeckte Gräber und auch Sarkophage mit und ohne Christogramme, 3. Mehrfachbestattungen in einem Plattengrab oder Sarkophag, 4. beim Trachtzubehör bestimmte genuin romanisch-mediterrane Fibeltypen wie z.B. Tierfibeln (Hahnenund Pfauenfibeln), bronzene Scheibenfibeln oder auch Kreuzfibeln, alles Fibeltypen, die in der romanisch-mediterranen Frauentracht in Brustmitte einen mantelförmigen Umhang verschlossen. Während diese Fibeltypen eine weite alpine und circumalpine Verbreitung aufhweisen, sind die sog.

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BIERBRAUER, L’occupazione, S. 40ff. mit Abb. 14. BIERBRAUER, Insediamento, S. 123ff.

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Ärmchenfibeln und gotisierenden Fibeln – ebenfalls von Romaninnen getragen – auf eng begrenzte Teillandschaften im Trentino konzentriert, besitzen also sozusagen ethnografischen Charakter im Sinne einer lokalen romanischen Volkstracht11.

III. Siedlungsarchäologische Studien zur romanischen Siedlung und zur Installierung langobardischer Siedlung 1. Langobardische Siedlung Da langobardische Siedlungen selbst bislang nicht bekannt sind, können diese nur über die langobardischen Grabfunde erschlossen werden, für die für das Trentino und für Südtirol bislang 33 Nachweise gesichert sind (Abb. 2)12. Sie liegen überwiegend, nämlich mit 23 Belegen bemerkenswerterweise an den Terrassenrändern des gesamten Etsch-Tales, also an der Via Claudia Augusta nach Verona. Diese Verbreitung ist auch deswegen auffallend, da umgekehrt das Etschtal selbst von Romanen vergleichsweise nur sehr dünn besiedelt gewesen zu sein scheint13. Dieses romanische Siedelbild ist ganz offensichtlich nicht zufallsbedingt oder von einer schlechten archäologischen Denkmapflege abhängig, da hier im Etschtal auch vorromanische und romanische Ortsnamen nur sehr spärlich vertreten sind, auf der langen Strecke von Bozen bis Trient nur 11 und ebenfalls nur 8 Belege zwischen Trient - Rovereto bis zur Südgrenze des Trientiner Dukates bei Ala-Avio, wobei sich zudem archäologische Fundorte und romanische Ortsnamen überwiegend decken14. Die Vermutung also, daß langobardische Siedlung sehr viel stärker als die romanische, ja fast ausschließlich durch verkehrsgeographisch-strategische Gesichtspunkte geprägt war bzw. gelenkt wurde, wird zusätzlich bestätigt, wenn man ihre Lage 1. im Etschtal selbst und 2. außerhalb des Etschtales näher betrachtet: Im Etschtal selbst liegen langobardische Siedlungen – außer im Weichbild der Hauptstadt des Dukates Trient und in der Stadt selbst – besonders an der Abzweigung der wichtigen NonsbergStaße im Becken von Mezzocorona – Mezzolombardo und außerhalb des Etschtales östlich von Trient bei Civezzano und in der Ebene von Pergine bzw. am Lago di Caldonazzo, d.h. an der Einmündung der wichtigen Fernstraße Via Claudia Augusta Altinate als O-W-Traversale durch das Valsugana/Brenta-Tal in die N-S-Traversale der Via Claudia Augusta Padana im

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Ebd. S. 123-133 mit Karten; ders., Romanische Bügelfibeltypen, S. 37-73. Kartierungen auf topographischen Karten im M. 1:50 000 bei BIERBRAUER, Insediamento, Karten I-XI; ein Wiederabdruck ist aus Kostengründen nicht gerechtfertigt. Umauch ohne deren Hinzuziehung die folgenden siedlungsarchäologischen Ausführungen verständlich machen zu können, werden diese Karten schematisch stark vereinfacht in einereinzigen kleinmaßstäblichen Karte (Abb. 2) zusammengezogen, natürlich unter Verzicht auf im Relief erkennbare naturräumliche Besonderheiten. 13 Auf der hier vorgelegten vereinfachten kleinmaßstäblichen Karte kommt dies nicht angemessen zum Ausdruck, da romanische Fundorte etwa 10-15 km abseits des Etschtales auf den Mittelgebirgsterrassen den Eindruck erwecken, im Etschtal selbst zu liegen; vgl. also BIERBRAUER, Insediamento, S. 133ff. mit Karten I, III, VI, IX-XI. 14 P FISTER, La popolazione, Karten II, V, VIII, XI-XII. 12

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Etschtal bei Trient; ähnliches trifft auf die beiden langobardischen Bestattunsplätze im Becken von Riva und im Valle di Giudicarie zu, ebenso wie auf zwei langobardische Fundorte an der Nonsberg-Straße. Mit anderen Worten: Es handelt sich bei der Verteilung der langobardischen Siedlung eindeutig um strategische Kriterien zur Sicherung dieses wichtigen Trientiner Grenzdukates. In die Mittelgebirgslagen und vor allem in die Hochtäler, in denen trotz schlechterer Quellenlage eine Vielzahl von romanischen Bestattungsplätzen nachweisbar ist (Abb. 2), drang langobardische Siedlung regelhaft offenbar nicht vor. 2. Die romanische Siedlung Ganz anders verhält es sich – wie für das Etschtal schon kurz angemerkt – mit der romanischen Siedlung. Zunächst seien einige zusammenfassende Bemerkungen zu den eingangs schon kurz angesprochenen Castra des Paulus Diaconus in Südtirol/Trentino (und Friaul), die von der historischen Forschung nach wie vor als germanisch-langobardische Wehranlagen interpretiert werden, vorangestellt13. Aufgrund archäologischer Befunde (gänzlich erforschtes Castrum Ibligo in Friaul; Lesefunde aus den Castra in Südtirol) handelt es sich jedoch um wehrhafte Romanensiedlungen in natürlich geschützten Höhenpositionen, die im 5. Jahrhundert, also noch vor Ostgoten und Langobarden, vermehrt – wegen der Germanengefahr – von der zuvor noch und überwiegend(?) in Tallage siedelnden einheimischen Bevölkerung angelegt wurden 16; ein topographisch eindrucksvolles, aber etwas abweichendes, weil mit der städtischen Bevölkerung Tridentums zu verbindendes Beispiel ist der Doss Trento, also das antike Castrum Verrucca: Wegen einer drohenden Intervention der Franken rät Theoderich der Große den in und um Tridentum-Trient siedelnden Goten und Romanen, sich vermehrt Häuser auf dem von Natur aus hervorragend geschützten Inselberg gegenüber der römischen Stadt zu bauen17. Sind diese Castra der Schriftquellen und ihnen vergleichbare, namentlich nicht überlieferte Höhensiedlungen nun mit der romanischen Bevölkerung zu verbinden, was jedoch in spezifischen Situationen eine vorübergehende Praesenz von Langobarden (und Goten) nicht ausschließt18, so ist ihr siedlungstopographischer Kontext erst recht von Interesse. So liegen die vier Castra in Südtirol, nämlich Tesana, Maletum, Sermiana und Appianum, aber auch zwei weitere nicht genannte (Siebeneich und Perdonig) einerseits auf engstem Raum, z.T. in Sichtweite beieinander, also viel zu eng, um als eigen-

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Dies meist mit Verlängerung zurück in byzantinishe und ostgotische Zeit bis zum spätrömischen Befestigungssystem: zuletzt z.B. SCHNEIDER, Alpenpolitik, S. 32ff; weitere Belege in diesem Sinne: BIERBRAUER, Castra, mit Anm. 15. 16 Hierzu ausführlich: BIERBRAUER, Castra, S. 497ff; ders., Aufsiedlung, S. 19, 26ff.; ders., Invillino I, S. 21-38, 332ff; dies trifft auch auf die Castra und Castella in Osttirol, Kärnten und in Slowenien zu: BIERBRAUER, Aufsiedlung, S. 33 und CIGLENEKI, Höhensiedlungen, S. 31ff. Von historischer Seite in diesem Sinne die in Vergessenheit geratenen Bewertungen bei Hermann Wopfner und Richard Heuberger (Nachweise bei B IERBRAUER, Castra, S. 498 Anm. 18). 17 BIERBRAUER, Ostgoten, S. 35; ders., Castra, S. 497; ders., Insediamento, S. 138 mit Abb. 16. 18 BIERBRAUER, Invillino I, S. 35f., 333. 337ff. und Anm. 17.

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ständige Wehr- oder Militäranlagen gelten zu können. Befinden sich Tesana-Tisens, Perdonig und Siebeneich direkt an den Rändern der Mittelgebirgsterrassen des Etschtales, also unmittelbar an der hier zwischen Bozen und Meran verlaufenden Via Claudia Augusta, so fallen andererseits die Rückzugspositionen von Sermiana und Maletum auf: Von diesen Anlagen konnte man zwar diese wichtige Fernstraße von Verona nach Augsburg einsehen, nicht aber umgekehrt19. Diese Situation mit noch ausgeprägteren geschützten Rückzugspositionen weitab von der Fern- bzw. Heerstraße (Via Claudia Augusta) trifft nun auch auf die meisten der anderen von Paulus genannten Castra zu, nämlich auf Anagnis im Nonsberg in geschützter Lage zur Nonsberg-Straße und extrem auf die beiden Castra von Cimbra und Fagitana, die sich wiederum auf engstem Raum beieinander in weit über 1000 m Höhe abseits des zudem noch unbedeutenden Verkehrsweges im unteren, hier nur 400 m hoch gelegenen Avisio-Tales befinden20; ähnliches gilt schließlich für die Castra von Brentonicum und Vitianum21 . Nur Enemase und Volaenes liegen unmittelbar an der Via Claudia Augusta22. Ganz offensichtlich meiden diese Castra und vergleichbare Höhensiedlungen des 5.-7./8. Jahrhunderts 23 die unmittelbare Nähe zu der strategisch wichtigen Alpen-Nord-Süd-Route im Etschtal, was ebenalls gegen eine Interpretation als langobardische Wehranlagen spricht. Eindeutig ist auch der namensgeschichtliche Befund: Alle Castra-Namen sind vorrömischen, römischen oder romanischen Ursprungs und belegen am Ort oder in der Gemarkung die romanische Siedelkontinuität über das frühe Mittelalter hinaus 24. Die durch Grabfunde archäologisch gut erschließbare romanische Siedlung befindet sich wie die Castra und dies ganz im Gegensatz zur langobardischen Siedlung mehrheitlich ebenfalls in deutlichen Rückzugspositionen unterschiedlich weit abseits des Etschtales (Abb. 2), so in Mittelgebirgs läge um Brentonicum und um Mori25 sowie in den höheren Terrassen- und Mittelgebirgslagen um Villalagarina26 oder dann gänzlich abseits des Etschtales. Besonders deutlich wird dieser grundsätzliche Befund vor allem in den Hochtälern des Valle di Ledro und seines Seitentales des Val di Concei westlich von Riva, bis zu knapp 800 m hoch gelegen; bei beiden Tälern – vor allem bei dem Val di Concei handelt es sich um mehr oder minder in sich abgeschlosene Siedlunskammern, in dem auch die von Romaninnen getragenen lokalen Bügelfibeltypen massiert verbreitet sind, also die sog.

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BIERBRAUER, Aufsiedlung, S. 26ff.

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BIERBRAUER, Insediamento, Karte VI. Ebd., Karten VI und VIII. 22 Ebd, S. 136 und Karten III und IX, ebenso natürlich das mit der Stadt Tridentum zu verbindende Castrum Verruca: ebd. S. 138 mit Abb. 16 und B IERBRAUER, Kontinuität städtischen Lebens, S. 281ff; ferner: S. 38. 23 Neuerdings gut datierbarer Fundstoff des 7./8. Jhd. aus Enemase-Castelfeder, den ich dank der Freundlichkeit von L. Dal Ri (Bozen) einsehen konnte; größtenteils noch unpubllziert; vgl. vorerst: «Aquileia Nostra», 57, 1986, S. 849f. 24 PFISTER, Popolazione, S. 180ff.: Nr. 4, 106, 118, 166, 170, 202, 210, 224, 250, 292, 313. 25 BIERBRAUER, Insediamento, S. 141ff. mit Karte VIII. 26 Ebd., Karte IX. 21

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Ärmchenfibeln und gotisierenden Fibeln27. Ähnliches gilt für die romanischen Siedlungen an dem alten Verkehrsweg von Trient zum Becken von Riva über Vitianum und im Hochtal des Avisio28 und für die Siedlungen unterhalb des Schlern auf der Hochebene zwischen Kastelruth und Völs29. Dicht romanisch aufgesiedelt war insbesondere der Nonsberg (20 Belege) mit einer ebenso bemerkenswerten Siedelkontinuität aus vorrömischer Zeit30; dies wird unterstrichen durch die Häufung vorromanischer Ortsnamen31 , die sich bemerkenswerterweise wiederum weitgehend mit den archäologischen Fundorten decken und durch die Kirchen des 5./6. Jahrhunderts mit Kirchenkontinuität über das Frühmittelalter hinaus 32 . Das Gesamtild der archäologischen Karte(n) zur romanischen Besiedlung (Abb. 2) dürfte in der geschilderten Verteilung durchaus repräsentativ sein, zumal es auch durch die Ortsnamenbefunde ganz wesentlicht gestützt wird. Wegen fehlender systematischer Denkmalpflege bis in die 60/70Jahre entspricht es hinsichtlich seiner Dichte natürlich nicht annähernd dem, was man im Normalfall voraussetzen kann; hinzuzufügen ist vor allem, daß in jenen Regionen und Mikroregionen, die abseits von größeren Zentren wie Trient und Rovereto und generell abseits des Etschtales liegen, die Quellenüberlieferung nochmals um Beträchtliches mehr vom Zufall abhängig ist, d.h. somit eindeutig, daß den abseits des Etschtales schon jetzt sozusagen gehäuft vorkommenden romanischen Siedlungen im Vergleich noch größeres Gewicht beizumessen ist. Dort, wo bislang nur vereinzelt oder noch keine romanischen Grabfunde bekannt sind, ist wegen der benannten denkmalpflegerischen Problematik mit Quellenlücken zu rechnen, so im Val di Sole, in Judikarien, in der Valsugana und im Brenta-Tal, da hier gehäuft romanische Ortsnamen belegt sind mit zahlreichen Belegen vor 100033. Quellenkritisch ist ferner beim Vergleich der Verbreitungskarten langobardischer und romanischer Gräber noch zu beachten, daß die Auffindungschancen für langobardische Gräber wesentlich besser sind als für die überwiegend beigabenlosen romanischen Bestattungen, was die Intensität des romanischen Fundbildes vergleichsweise nochmals deutlich potenziert. Zusammenfassend läßt sich also folgendes formulieren: Die Abweichungen zwischen der Installierung langobardischer Siedlung und dem Siedelbild der weiterlebenden romanischen Bevölkerung sind evident: Die langobardische Siedlung ist auf die beiden großen Nord-Süd- und Ost-WestFernstraßen der Via Claudia Augusta bezogen, also strategisch ausgerichtet und diente augenscheinlich der Sicherung des Grenzdukates; die romanische Siedlung ist hingegen bei allem Mit- und Nebeneinander zwischen

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Ebd., S. 128ff. mit Abb. 8 und 14 und S. 142 mit Karte VIII; ausführlich: B IERRomanische Bügelfibeltypen, S. 37-73. 28 BIERBRAUER, Insediamento, S. 140f. mit Karten IV, VI undVIII; dazu PFISTER, Popolazione, Karte VI. 29 Ebd., Karte II und P FISTER, Popolazione, Karte III. 30 BIERBRAUER, Insediamento, S. 138f. mit Karten II und V. 31 P FISTER, Popolazione, S. 176 mit Karten II und V. 32 NOLL, Reliquiar, 320ff. 33 PFISTER, Popolazione, Karten VI-IX. BRAUER,

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beiden Populationen in bestimmten Teilen des Etschtales und vor allem in und um Tridentum gekennzeichnet 1. durch eine mehr oder minder dichte und zugleich flächige Besiedlung mit Siedelkontinuität aus teils vorrömischer, teils römischer Zeit abseits des Etschtales in Mittelgebirgslagen und in Hochtälern, verbunden 2. mit einem wohl erst im 5. und 6. Jahrhundert verstärkt einsetzenden Ausweichen aus dem zur Römerzeit sehr wahrscheinlich noch stärker besiedelten Etschtal.

IV. Die Situation im Eisacktal und im Vinschgau Die Siedlungslandschaften im nördlich angrenzenden Eisacktal und besonders im Vinschgau sind mangels quantitativ ausreichender bzw. sogar fast gänzlich fehlender archäologischer Quellen nur schwierig bzw. überhaupt nicht zu beurteilen, sowohl zur romanischen als auch zur germanischen Siedlung (Abb. 2). Daß zumindest im gesamten Eisacktal dieser schüttere archäologische Befund nicht der Realität entsprochen haben wird und – wie in einigen Talschaften des Trentino auch – sehr wahrscheinlich denkmalpflegerische Gründe hat, ergibt sich aus mehreren klaren Anhaltspunkten: 1. durch die bemerkenswerte Dichte vorromanischer und romanischer Ortsnamen für das untere Eisacktal (41 Belege, davon 26 aus vorrömischer Zeit)34 und z.B. auch durch die bekannte Quartinus-Urkunde, die für 827/828 ausgedehnten Besitz einer romanischen Oberschicht vor allem für das obere Eisacktal, aber auch bis nach Bozen ausweist und ganz ohne Zweifel auch ältere Besitzverhältnisse anzeigt35 und 2. durch neuere Grabungsergebnisse: So wurden auf dem Säbener Burgberg, dem Bischofssitz des 5.(?)/6.-10. Jahrhunderts, eine kleine spätrömisch-spätantike Siedlung, ferner Kirchen der Spätantike und des frühen Mittelalters und vor allem ein sehr großes Gräberfeld mit wohl über 1000 Bestattungen zu umfangreichen Teilen untersucht; in dem Gräberfeld waren ganz überwiegend romanische Gräber des 4. – Anfang des 8. Jahrhunderts eingebracht, auch solche einer Oberschicht und auch bajuwarische Gräber ab der Zeit um 600 einer wohl gleichfalls grundbesitzenden Oberschicht. Da nicht nur die Romanen in und um die frühchristliche Kirche mit einer aufwendigen Reliquiendeponie, also ad sanctos, bestattet waren, sondern auch Bajuwaren, müssen letztere bereits zum orthodoxen Glauben übergetreten sein. Da das große Gräberfeld nicht auf eine große castrumartige Siedlung auf dem Säbener Berg bezogen werden kann, wurden hier zentral und ad sanctos Romanen aus der Eisack-Talschaft um Säben beigesetzt, somit auch eine denkbare Erklärung für das Fehlen kleinerer Sepulturen in diesem Raum36. Unweit von Säben wird zudem seit 1988 wiederum systematisch eine römerzeitliche, spätantike und frühmittelalterliche Siedlung in Villanders erforscht (5.-7. Jahrhundert)37. Läßt sich also für das Eisacktal nun erstmals interdisziplinär ein in

34 Bislang regional nur teilweise aufgearbeitet: PFISTER, Popolazione, Karte III; ders., Pellegrini-Festschrift, S. 288 ff. mit Karte; dazu BIERBRAUER, Insediamento, Karte II. 35 u.a. MITTERAUER, Agilolfingische Herzogtum, S. 427ff.; WOLFRAM, Ethnogenesen, S. 121ff. 36 Zu Säben: BIERBRAUER-NOTHDRUFTER, Säben, S. 243-300. 37 Bislang nur ein Vorbericht für 1988: «Der Schiern», 63, 1989, 201ff.

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Grundzügen konturiertes Bild erkennen – dichte romanische Siedlung mit Siedlungskonstanz vielerorts aus vorrömischer Zeit sowie bajuwarische Landnahme südlich des Brennerpasses ab der Zeit um 600, letztere aufgrund der Schrift quellen lange Zeit kontrovers beurteilt und archäologisch nun gesichert38 –, so lassen sich aufgrund schriftlicher und archäologischer Quellen derzeit keine gesicherten Angaben zum Siedlungsbild im Vinschgau machen (Abb. 1-2). Archäologisch sind auffallenderweise bislang nur zwei Fundplätze bekannt, beide erst in den letzten Jahren untersucht: Zum einen Naturns im unteren Vinschgau nahe Meran mit einer romanischen Siedlung des 5./6. Jahrhunderts und folgenden frühmittelalterlichen Gräbern sowie – nach Meinung der Ausgräber – mit einem Kirchenbau schon des 7. Jahrhunderts unter dem kunstgeschichtlich bekannten Kirchlein St. Prokolus im Sinne einer grundherrlichen bairischen Stiftung39 und zum anderen eine Kirche der 2. Hälfte des 6. (?) und 7. Jahrhunderts in BurgeisSt. Stephan bei Mals im oberen Vinschgau mit kirchenzeitlichen Gräbern, darunter einem achtfach belegten Steinkistengrab mit den Resten einer tauschierten, tierstilverzierten germanischen Gürtelgarnitur aus dem 2. Viertel des 7. Jahrhunderts40 . Obgleich an einem wichtigen Verkehrsknotenpunkt mit karolingischem Fiskalgut und in der Nähe der karolingischen Kirche von Mals mit dem bekannten Freskobild eines fränkischen Grundherrn aus der Zeit um 800 gelegen 41 , läßt sich der Befund von Burgeis noch nicht abschließend beurteilen, auch nicht ethnisch. Es fällt schwer, das fast gänzliche Fehlen von romanischen und germanischen Grabfunden in dem immerhin von Meran bis Mals sich auf eine Länge von 60 km erstreckenden Vinschgau spekulationsfrei zu bewerten; auffallend ist diese Quellenlücke natürlich auch, weil hier 1. die wichtige Fernstraße Via Claudia Augusta verlief, 2. im Talkessel von Mals/Glurns die wichtige Westverbindung durch das Münstertal nach Chur, ins Veltlin und in die Lombardei abzweigt und vor allem weil 3. immerhin 16 nichtgermanische Ortsnamen belegt sind, von denen 15 als vorromanisch auf eine Siedelungskontinuität aus vorrömischer Zeit hinweisen42 . Angesichts der quantitativ insgesamt nicht schlechten Quellenlage im Trentino, wo selbst aus Hochtälern noch romanischer Fundstoff bekannt wurde, und z.B. auch im Burggrafenamt zwischen Bozen und Meran, leuchtet es nicht ein, das fast gänzliche Fehlen achäologischer Quellen im Vinschgau nur mit dem Zufall oder/und mit Problemen der Denkmalpflege zu erklären; zumindest im seit langem dicht bebauten und hochkultivierten unteren und mittleren Vischgau wären Fundmeldungen zu erwarten, sowohl für die wegen der spezifischen Beigabensitte vergleichsweise nur schwer auffindbaren romanischen Sepulturen, als auch und besonders für germanische Gräber mit einer noch voll ausgeprägten Beigabensitte. So fragt man, ob sich

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Belege bei BIERBRAUER-NOTHDURFTER, Säben, S. 248 mit Anm. 32-33. Naturns-St. Prokolus (1990 und 1991). 40 Bislang nur kurzer Vorbericht in: Denkmalpflege in Südtirol 1987/88 (1989) S. 31ff. 41 Vierck, ‘Adelsgrab’, S. 457-488; LOOSE, Curtis, Colonia, S. 91-102; ders., Siedlungskontinuität, S. 420-437; ders., Siedlungsphasen, S. 327-347. 42 PFISTER, II popolamento, S. 285-287. 39

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vor allem hinter dem Fehlen germanischer Gräber nicht doch ein realer Befund verbirgt? Sind für das Etschtal zwischen Meran und Bozen sowie für das Trentino wegen der fränkisch-langobardischen Auseinandersetzungen zusätzlich zu den Grabfunden noch die romanischen Castra (mit zeitweiliger langobardischer Besatzung?) überliefert, so fehlen für den Vinschgau des 6. und 7. Jahrhunderts jegliche gesicherten siedlungsanzeigenden Hinweise auch in den Schriftquellen; prinzipiell klar ist nur, daß nahezu der gesamte Alpenraum von den Cottischen Alpen im Osten bis zum Etschtal im Westen einschließlich der wichtigen Alpenpässe sich am Ende des 6. Jahrhunderts «im fränkischen Einflußbereich, teils sogar unter direkter fränkischer Herrschaftsausübung befand. Sogar das obere Etschtal könnte fest in fränkischer Hand gewesen sein», wobei «das Gebiet um Meran die Grenze zwischen dem fränkisch-rätischen und dem langobardischen Einflußbereich seit dem Ausgang des 6. Jahrhunderts gebildet zu haben» [scheint]43. Fränkische Oberheit heißt aber nicht – wie im Trentino und im Eisack-Tal (Langobarden, Bajuwaren) gesichert bzw. wahrscheinlich – Siedlungspolitik oder gar Landnahme, im Gegenteil 44 . Da auch unstrittige Belege für bairische Siedler im Vinschgau des 7. Jahrhunderts bislang fehlen, scheint für diese Talschaft eine germanische Aufsiedlung (Franken/Bajuwaren) zu dieser Zeit also sehr unwahrscheinlich zu sein 45 . Bajuwaren lassen sich aufgrund der Schriftquellen um Meran und im unteren Vinschgau gesichert erst Anfang des 8. Jahrhunderts für kurze Zeit (710, 717/18 bis etwa 725) und dann erst wieder ab 765 nachweisen, und auch hier ist es fraglich, ob damit eine regelrechte Siedlungspolitik verbunden war (actores montani)44; Rückschlüsse auf die Situation im 6./7. Jahrhundert überzeugen jedenfalls nicht47 . Für archäologische Argumentationen einschließlich siedlungsarchäologischer Schlußfolgerungen muß der Vinschgau im 6. und 7. Jahrhundert – zumindest vorerst – somit ausscheiden.

V. Ergebnis und Schlußfolgerungen Die langobardischen und bajuwarischen Siedelgebiete grenzten im 7. Jahrhundert – abgesehen von kleineren Verschiebungen in der zweiten Jahrhunderthälfte – nachweislich somit nur in der Gegend um Bozen aneinander, Eisack- und Pustertal wurden bairisch aufgesiedelt48; weitergehende, den Vinschgau einschließende Aussagen zur germanischen Siedlung sind – auch interdisziplinär argumentiert – derzeit nicht vertretbar. Auf die alten Provinzgrenzen bezogen, nahmen die Bajuwaren somit den gesamten Südzipfel der Raetia II in Besitz49, die Langobarden siedelten im alten Reich43

SCHNEIDER, Alpenpolitik, S. 30f. Ebd. S. 42; ferner z.B. SCHNEIDER, Entstehung, S. 57ff. 45 Anders die Ausgräber von Naturns – St. Prokulus: vgl. Anm. 39. 46 MITTERAUER, Agilolfingisches Herzogtum, S. 430; FISCHER, Translation des hl. Korbinian, S. 53-75; VOGEL, Zenokult, S. 177-203; HEUBERGER, Frankenheere, S. 140f., HAIDER, Tirol, S. 228ff; FINSTERWALDER, Ortsnamen, S. 257 ff. 47 Vgl. LOOSE, Anm. 41. 48 MITTERAUER, Agilolfingisches Herzogtum, S. 430f; HAIDER, Tirol, S. 227ff. 49 Zuletzt: GLEIRSCHER, Vallis Norica, S. 1ff. 44

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sitalien bis ins Etschtal zwischen Bozen und Meran. Wie eingangs schon beschrieben, schoben sich somit zwei Überschichtungsräume keilförmig in die ‘Alpenromania’: ab der Zeit um 600 die Bajuwaren von Norden und nach 568 die Langobarden von Süden (Abb. 1-2). Wie anderenorts im mediterranen und circummediterranen Raum in Spätantike und Frühmittelalter (Ostgoten, Westgoten, Wandalen) so überschichtet auch in der italischen Langobardia eine germanische Minderheit eine deutliche autochtonromanische Mehrheit und am Ende dieses Neben- und Miteinander wird die germanische Minderheit durch die noch zivilisatorisch prägende Romania akkultiert 50 . In unseren Untersuchungsräumen verläuft diese Entwicklung jedoch nur teilweise in diese Richtung: Die Langobarden im Trientiner Dukat werden romanisiert, hingegen wird die romanische Bevölkerung in Eisack- und Pustertal sowie im Etschtal zwischen Bozen und Meran sowie zwischen Bozen und Salurn, letztere Kleinräume im 7. Jahrhundert langobardisch besetzt, germanisiert, «eingedeutscht». Welche Konstellationen führten nun dazu, daß beide Grenzräume künftig eigene, voneinander abweichende Wege gingen? Sie lassen sich klar erkennen und liegen ausschlaggebend zeitlich – wie zu vermuten – in der Entwicklung ab dem 8. Jahrhundert begründet; gleichwohl: maßgeblichen Anteil hieran hatten zuvor im 7. Jahrhundert aber auch die Art und Weise und Intensität der zuvor beschriebenen langobardischen Landnahme und der Installierung langobardischer Siedlung im Trientiner Dukat; sie ist gekennzeichnet durch zwei sich gegenseitig bedingende Merkmale: 1. nicht flächendeckend, weil 2. strategisch bedingt. Falls die Quellenlage nicht trügt, war die langobardische Siedlung im Nordteil des Trientiner Dukates, also nördlich von S. Michele all’Adige bzw. dem Becken von Mezzocorona/Salurn zudem schwächer ausgeprägt als weiter südlich im Trientiner Kernraum (Abb. 1-2). Diese Grunddisposition der Frühzeit scheint mir die wesentliche Ursache dafür gewesen zu sein, daß bei dem im langobardischen Grenzdukat ablaufenden Akkulturationsprozeß, der ja auch sprachgeschichtlich die Auseinandersetzung zwischen Regionallatein/Romanisch und Germanisch miteinschließt, es nicht zu einer Germanisierung bzw. Langobardisierung kam. Grosso modo ist somit den Langobarden hier das gleiche Schicksal beschieden wie auch sonst in der italischen Langobardia: Sie werden zivilisatorisch und sprachlich romanisiert; Fedor Schneider formulierte schon 1929 ohne Kenntnis der Relevanz archäologischer Befunde trefflich so: «Die Romanisierung der langobardischen Arimannen führte zur Entstehung einer fast einheitlichen romanischen Bevölkerung innerhalb der Grenzen des Reiches von Pavia»51. Da dies heute – auch interdisziplinär –außer Frage steht, so kommt der Langobardia im Trentino auch keine mitentscheidende Rolle zur Spaltung des romanischen Sprachblocks, d.h. des Bündnerromanischen vom Zentralladinischen zu (Abb. 3)52. Einerseits fehlte eben – wie begründet – die hierzu notwendige Dynamik und andererseits reichte sie auch nicht weit genug nach Norden (Abb. 1-2 und 3).

50

Z.B. BIERBRAUER, Akkulturationsprozesse, S. 89-105; JARNUT, Langobarden, S. 76ff,

102ff. 51 52

SCHNEIDER, Entstehung, S. 66. Anders: PFISTER, Entstehung ... des Zentral- und Ostalpenromanischen, S. 83.

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Daß sich an der romanischen Strukturierung im Trentino auch nach dem 7. Jahrhunderts künftig prinzipiell nichts mehr ändern sollte, liegt entscheidend an dem fehlenden ‘Verklammerungseffekt’ zu einem weiterhin ethnisch strahlungskräftigen germanisch-langobardischen Italien, was die dortige Langobardia zunehmend ab dem 8. Jahrhundert eben nicht mehr sein konnte, ein Zuzug in diesem Sinne folglich entfiel, dies ganz im Gegensatz zum bajuwarischen Eisacktal/Pustertal und Etschtal bis Salurn (s.u.). Eine nachhaltige Veränderung dieser Konstellation war auch nicht (mehr) durch die zwischen 774 und 962 beachtliche Zahl nordalpiner Zuwanderer erreichbar, also durch fränkische und alamannische, aber auch bairische Adelige mit beträchtlichen vassalitischen Gefolgen, «vornehmlich Leute in hochpolitischer Funktion» 53 . Wichtig ist, daß diese fränkische Alpenpolitik nach 774 von Anfang an – wie zuvor bei der Installierung langobardischer Siedlung – auf eine flächendeckende Ansiedlung verzichtete und im wesentlichen wiederum auf politische Zentren, vor allem aber auf militärisch-strategisch wichtige Plätze beschränkt blieb (Schutz der Alpenzu- und -ausgänge) und – was noch wichtiger ist – diese fränkische

53

NEIDER,

HLAWITSCHKA,

Franken, Alamannen, Bayern, S. 22, 44 ff., bes 96f. und passim.; SCHAlpenpolitik, S. 43ff.

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‘Staatssiedlung’ auch nicht nennenswert in den mittleren Alpenraum hereinreichte. Diese somit kontinuierende romanische Grundstruktur des Trentino wurde zwar punktuell und zeitweise, nicht aber grundsätzlich durch einen seit dem Ende des 13. Jahrhunderts in Gang gekommenen, von Norden aus getragenen Siedlungsausbau berührt, durch den deutsche Sprachinseln und Streusiedlungen südlich von Salurn bis zum Avisio entstanden, der als «Eveys» sogar als Sprachgrenze empfunden wurde und zu dieser Zeit auch die Grenze zwischen der Grafschaft Tirol und dem Hochstift Trient bildete; er betrifft den Kleinraum zwischen St. Michael/St. Michele all’Adige bei Lavis unter Einschluß des Beckens von Mezzocorona = Kronmetz = Deutchmetz im Unterschied zum Nachbarort Mezzolombardo. Ab der Zeit um 1600 ist auch diese kleinräumige Ausweitung nach Süden wieder rückläufig, blieb Episode54 . Nicht unwichtig ist auch der germanische Orts- und Flurnamenbefund (sala, halla, harimann, lagar, warda usw.): Belege für das gesamte Etschtal zwischen Meran – Bozen – Trient fehlen nahezu gänzlich, was auch deswegen verwundert, da diese vor allem im romanisch geprägten Nonsberg, teilweise auch im Überetsch in Mittelgebirgslagen und Hochtälern durchaus nachgewiesen sind, jedoch kaum vor 1000. Die zahlreichen trentinischen Toponomi, die nicht unmittelbar eine langobardische Siedlung bezeugen, sondern auf Appellativen beruhen wie binda, braida usw. dürften daher hochmittelalterlichen Ursprungs oder noch jünger sein 55 . Ganz anders verlief hingegen die Entwicklung in den im 7. Jahrhundert schon von Bajuwaren besetzten Tälern von Eisack und Rienz (Pustertal) samt Seitentälern sowie ab der zweiten Hälfte des 7. Jahrhunderts nun nach Süden in den nördlichen Teil des langobardischen Trientiner Dukats ausgreifend auch im Etschtal zwischen Bozen und Meran; die Ortsnamen lassen erkennen, daß diese Gebiete spätestens im 11. Jahrhundert weitgehend eingedeutscht waren, ein Prozeß, der schon im 8. Jahrhundert voll im Gange war und seinen Abschluß im 11.-13. Jahrhundert fand, nun das Burggrafenamt, das Überetsch und den Vinschgau bis etwa Laas voll einschließend (Abb. 4); romanische Sprachinseln halten sich nur noch im oberen Vinschgau und östlich des Eisack an der Grenze zum ladinischen Sprachraum. Grundlage und Rückgrat dieser vor allem seit dem 9./10. Jahrhundert auch in den Schrift quellen gut faßbaren, vermutlich aber schon zuvor einsetzenden intensiven Kolonisierung und der damit verbundenen ‘Eindeutschung’ waren gleichermaßen bairische Adelsgeschlechter und geistliche Gemeinschaften. Entscheidend hierfür war also der ‘Verklammerungseffekt’ zwischen dem bairischen Altsiedelland im Norden und dem neu gewonnenen, noch romanisch strukturierten Siedelland im Süden, das ab dem 8. Jahrhundert sukzessive über das schon im 7. Jahrhundert bairisch gewordene Eisacktal weiter nach Süden vorgeschoben wurde56 .

54

Zuletzt mit Literaturhinweisen: R IEDMANN, Tirol, S. 491f. MASTRELLI -ANZILOTTI , Toponomi, S. 227-242 mit Karten I-XII. 56 Zuletzt: RIEDMANN, Tirol, S. 268, 277ff, 285ff., 368f, 490ff., STÖRMER, Funktionen des kirchlichen Fernbesitzes, S. 389ff.; Tirol-Atlas, Karten G5-9 mit den Kommentaren von FINSTERWALDER, Ortsnamen, S. 249ff und ders., zuletzt «Tiroler Heimat», 39, 1975, S. 195ff. u. 227ff.; dazu: ders., «Tiroler Heimat», 26, 1962/63, S. 77-112; PFISIER, Popolazione, S. 62ff. 55

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Zusammenfassend läßt sich feststellen: Die Ausgangsbedingungen in den beiden durch Langobarden und Bajuwaren überschichteten Grenzregionen in der mittelalpinen Romania sind prinzipiell zunächst gleich; daß die hier zwangsläufig in Gang gekommenen Akkulturationsprozesse künftig aber zu den geschilderten höchst unterschiedlichen Ergebnissen führten, liegt wesentlich an völlig verschiedenen, vor allem ab dem 8. Jahrhundert verstärkt wirksam werdenden Faktoren, die wesentlich und grundsätzlich zugleich von dem sog. Verklammerungseffekt bestimmt wurden, also durch den ethnisch weiterhin prägenden Zuzug aus dem ‘Altsiedleland’. Für die Langobarden im Grenzdukat von Tridentum mußte dieser Zuzug entfallen, da diese ebenso wie die Langobardia in Italien bereits im 8. Jahrundert in allen entscheidenden Punkten romanisiert waren (Bestattungssitten, ‘Volkstracht’, Sozialstruktur, Recht, Sprache, Religion). Unabhängig davon war eine auch partiell andere Entwicklung im Dukat von Trient ohnehin nicht oder kaum möglich, ganz im Gegenteil: Die nur punktuelle, weil strategisch-verkehrsgeographisch geleitete Installierung langobardischer Siedlung ließ angesichts der flächigen romanischen Siedlung eo ipso und von vorneherein eine selbst nur zweitweise wirksame andere Richtung des Akkulturationsprozesses mit Folgen für die ethnische Gesamtprägung des Trentino nicht zu. Diese schon das 6./7. Jahrhundert kennzeichnende Grunddisposition – aufgrund fehlender Schriftquellen zur langobardischen Siedlung nur siedlungsarchäologisch (und ortsnamengeschichtlich) darstellbar (Abb. 2) – war auch durch den erneuten, länger andauernden germanischen Zuzug nach Oberitalien von der 2. Hälfte des 8. bis ins 10. Jahrhundert nicht mehr veränderbar, zumal auch dieser ähnliche Züge trug wie die langobardische Besetzung des Trentino. Die bajuwarische Landnahme südlich des Brennerpases – siedlungsarchäologisch bislang aus Gründen der Quellenlage ebenso unbefriedigend darstellbar wie das romanische Siedelbild, letzteres aber immerhin ortsnamensgeschichtlich erkennbar – bleibt hingegen nicht isoliert. Der kontinuierlich fortwirkende ‘Verklammerungseffekt’ mit dem ‘Altsiedelland’ führte hier zu einer Germanisierung der einheimisch-romanischen Bevölkerung im Eisackund Pustertal, also den bajuwarisch besetzten Talschaften des 7. Jahrhunderts, mit einer Erweiterung dieses Südkeils ab dem 8. Jahrhundert über Bozen hinaus in den Vischgau und vor allem ins Etschtal nach Süden bis in die Höhe von Salurn unter Einschluß des Überetsch, nicht aber des Nonsberges, der seine Romanität, abgesehen von einigen deutschen Sprachinseln (ab dem 13./14. Jahrhundert ganz im Norden des Nonsberges), bewahren konnte. Die heutige Sprachgrenze bei Salurn (Abb. 3-4) verläuft somit nur sehr wenig weiter südlich dort, wo das bajuwarische Territorium schon in der 2. Hälfte des 7. Jahrhunderts (680/681) und auch nach der Mitte des 8. Jahrhunderts (769) in der Gegend von Bozen endete. In Nord-Südrichtung ging somit vom alten römischen Reichsitalien bzw. vom langobardischen Grenzdukat Trient nur ein maximal 30 km langer Kleinraum im Etschtal südlich von Bozen verloren, ein bemerkenswerter Umstand angesichts einer wechselvollen Geschichte, an der am Anfang eben die zunehmend romanisch geprägte Langobardia des 6.-8. Jahrhunderts im Trientiner Dukat einen nicht zu unterschätzenden Anteil hatte. Etwas überspitzt, aber m.E. im Kern zutreffend, hatte Fedor Schneider bereits 1929 geurteilt: «Das Scheitern des fränkisch -byzantinischen Feldzuges [590] ist die historische Tatsache, die die

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dauernde Nordgrenze des langobardischen Reiches und mittelbar die deutsche Sprachgrenze an der Etsch begründet hat»57. Trotz der zu dieser Zeit engen antifränkischen Bindungen zwischen Langobarden und Bajuwaren58 hätte eine langobardische Niederlage gegen die Franken die Position der Langobarden im Etschtal nachhaltig geschwächt mit möglichen Konsequenzen für eine weitergehende bajuwarische Südexpansion in die trentinische Langobardia. Beweisbar ist dies natürlich nicht; entscheidend bleibt aber allemal, daß auch die langobardisch-bajuwarischen Auseinandersetzungen in der 2. Hälfte des 7. Jahrhunderts über den Bozener Raum hinaus zu keiner einschneidenden Veränderung der politisch-ethnischen Strukturen im mittleren Alpenraum zu Lasten der trentinisch-romanischen Langobardia mehr führten. Die Romanisierung der im Frühmittelalter territorial also nur wenig beeinträchtigten Langobardia und die wegen des ‘Verklammerungseffektes’ mit dem ‘Altsiedelland’ völlig entgegengesetzte Entwicklung im nach Süden

57

SCHNEIDER, Entstehung, S. 62; anders: HEUBERGER, Frankenheere, S. 140f, der zwar die Grundstrukturen anerkennt (S. 140), die eigentlichen Ursachen, die zur Entwicklung der Sprachgrenze führt, aber ausschließlich im Hochmittelalter und in der frühen Neuzeit sieht (S. 141). 58 LÖHLEIN, Alpen- und Italienpolitik, S. 70 ff. und HEUBERGER, Frankenheere, S. 141 mit einer in sich widersprüchlichen Bewertung.

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nur noch unwesentlich expandierenden bajuwarischen Südteil sind somit bereits früh grundgelegte, siedlungsgeschichtlich für die weitere Entwicklung nicht zu unterschätzende Ausgangssituationen, sind somit untrennbare Bestandteile der Geschichte des Landes Tirol, will heißen des «teutschen» Tirol (Südtirol), dem seit dem ausgehenden 18. Jahrhundert die Bezeichnung das «welsche» Tirol (Trentino) gegenüberstand. An der Herausbildung der ethnischen, bis heute fortwirkenden Strukturen im Mittelalpenraum (Abb. 3-4) hatten die unterschiedlichen Bedingungen für den Fortbestand der Romania in beiden Überschichtungsräumen also wesentlichen Anteil; der notwendigerweise ausbleibende ‘Verklammerungseffekt’ für die trentinische Langobardia zum Altsiedelland und die nicht flächige Installierung langobardischer Siedlung schufen für den Fortbestand romanischen Lebens im Trentino bereits im 6.-8. Jahrhundert günstige Voraussetzungen. Verzeichnis der zitierten Literatur H. BERG, Bischöfe und Bischofssitze im Ostalpen- und Donauraum vom 4. bis zum 8. Jahrhundert, in: H. WOLFRAM und A. SCHWARCZ (Hrsg.), Die Bayern und ihre Nachbarn I, Wien 1985 (Berichte des Symposiums der Kommission für Frühmittelalterforschung 25. bis 28. Oktober 1982, Stift Zwettl, Niederösterreich – Österreichische Akademie der Wissenschaften, Philosophisch-historische Klasse, Druckschriften 179. Band), S. 61-110. V. BIERBRAUER, Die ostgotischen Grab- und Schatzfunde in Italien, Spoleto 1975 (Bibliotheca degli «Studi Medievali» VII). V. BIERBRAUER, Frühgeschichtliche Akkulturationsprozesse in den germanischen Staaten am Mittelmeer (Westgoten, Ostgoten, Langobarden) aus der Sicht des Archäologen, in: Atti del 6° Congresso internationale di Studi sull’Alto Medioevo, Milano 1978, Spoleto 1980, S. 89-105. V. BIERBRAUER, Aspetti archeologici di Goti, Alamanni e Longobardi, in: G. PUGLIESE CARRATELLI (Hrsg.), Magistra Barbaritas, Milano 1984, S. 445-508. V. BIERBRAUER, Die germanische Aufsiedlung des östlichen und mittleren Alpengebietes im 6. und 7. Jahrhundert aus archäologischer Sicht, in: H. BEUMANN und W. SCHRÖDER (Hrsg.), Frühmittelalterliche Ethnogenese im Alpenraum, Sigmaringen 1985 (Nationes 5), S. 948. V. BIERBRAUER, Frühmittelalterliche Castra im östlichen und mittleren Alpengebiet: Germanische Wehranlagen oder romanische Siedlungen? – Ein Beitrag zur Kontinuitätsforschung, «Archäologisches Korrespondenzblatt», 15, 1985, S. 497-414. V. BIERBRAUER, Invillino-Ibligo in Friaul I: Die römische Siedlung und das spätantik-frühmittelalterliche Castrum, (Münchner Beiträge zur Vor- und Frühgeschichte 33), München 1987. V. BIERBRAUER, Zum Stand archäologischer Siedlungsforschung in Oberitalien in Spätantike und frühem Mittelalter (5.-7. Jahrhundert). Quellenkunde – Methode – Perspektiven, in: K. FEHN, K. BRANDT, D. DENECKE UND F. IRSIGLER (Hrsg.), Genetische Siedlungsforschung in Mitteleuropa und seinen Nachbarräumen, Bonn 1988, S. 637-659. V. BIERBRAUER, Die Kontinuität städtischen Lebens in Oberitalien aus archäologischer Sicht (5.7./8. Jahrhundert), in: W. ECK und H. GALSTERER (Hrsg.), Die Stadt in Oberitalien und in den nordwestlichen Provinzen des römischen Reiches, (Deutsch-italienisches Kolloquium im italienischen Kulturinstitut Köln) Mainz 1991, S. 263-286. V. BIERBRAUER, L’insediamento del periodo tardoantico e altomedievale in Trentino-Alto Adige (V-VII secolo), in: G.C. MENIS (Hrsg.), Italia longobarda, Venezia 1991, S. 121-174. V. BIERBRAUER, L’occupazione dell’ltalia da parte dei Longobardi vista dall’archeologo, in: G.C. MENIS (Hrsg.), Italia longobarda, Venezia 1991, S. 11-54. V. BIERBRAUER, Zwei romanische Bügelfibeltypen des 6. und 7. Jahrhunderts im mittleren Alpenraum. Ein Beitrag zur Kontinuitäts- und Siedlungsgeschichte, in: A. Lippert und K. Spindler (Hrsg.), Festschrift zum 50jährigen Bestehen des Institutes für Ur - und Frühgeschichte der Leopold – Franzens – Universität Innsbruck, Bonn 1992, S. 37-73. V. BIERBRAUER, und H. NOTHDURFTER: Die Ausgrabungen im spätantik-frühmittelalterlichen Bischofssitz Sabiona-Säben, «Der Schlern» 62, 1988, S. 243-300.

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Tracce di un insediamento tardo (VI-IX sec.) nei siti della tarda antichità in Slovenia

Dalle fonti storiche, in verità piuttosto scarse, si può dedurre che gli Slavi si sono insediati nell’area alpina orientale e meridionale alla fine del VI secolo. Ma queste fonti non sono confermate del tutto dal materiale archeologico: sono assenti infatti reperti certi del VII e VIII secolo 1 . Per chiarire questo problema stiamo concentrando già da tempo le nostre ricerche proprio su questo periodo storico. A questo proposito, l’approccio è duplice: gli studiosi del periodo slavo, il cui materiale databile con sicurezza risale alla fine dell’VIII secolo, cercano i materiali che potrebbero dimostrare una presenza slava nel VII ed VIII secolo, soprattutto sulla base dei reperti slavi già portati alla luce durante gli scavi nelle varie necropoli. Altri, gli studiosi della tarda età antica, cercano tracce della popolazione autoctona e tracce slave nei siti che erano certamente abitati già alla fine del VI secolo. E proprio questi sforzi vorrei presentarvi ora in una forma piuttosto concisa. All’interno dell’attuale area slovena vanno distinte due parti ben definite la cui diversità è condizionata dalla differente posizione geograficopolitica. Nella stretta fascia pianeggiante, lungo l’attuale confine italiano che va dalla valle del Vipacco fino alle ultime cime alpine, e sul litorale la situazione è ben diversa che altrove in Slovenia. I reperti dimostrano che in queste zone si può ipotizzare una presenza slava soltanto dal IX secolo in poi e ciò è stato dimostrato anche dalle ricerche di D. Svolj_ak e T. Knific2. I reperti di datazione certa indicano un insediamento di carattere continuativo della popolazione autoctona e talvolta longobarda (Salcano) nel VII e nell’VIII secolo. Dopo gli ultimi studi è emersa, tra i siti del litorale, l’importanza di Capodistria, la Iustinopolis bizantina. Ubicata su un’isola nelle vicinanze della costa, questa località costituiva un rifugio ideale per gli abitanti che vi si recavano durante il periodo di decadenza del mondo antico. Ma i primi reperti indicativi sono stati trovati solo da poco. Nella città che è densamente edificata hanno scoperto, durante gli scavi nel giardino dei Cappuccini, degli strati contenenti oggetti che spaziano dall’alta età antica fino all’evo moderno, ma i più caratteristici risalgono proprio al periodo tra il VI e l’VIII secolo 3 .

1

J. SASEL, Der Ostalpenbereich zwischen 550 und 650 n. Chr. in Rheinisch-Westfälische Akademie der Wissenschaften, Abhandlung 78, «Studien zur Ethnogenese», Band 2, 1988, 97ss; S. C IGLENE_KI , Höhenbefestigungen aus der Zeit vont 3. bis 6.Jh. im Ostalpenraum, «Dela 1. razr. SAZU», 31 (1987) 146. 2 D. SVOLJSAK, T. KNIFIC, Vipavska dolina, «Situla», 17, 1976, 80ss. 3 R. CUNJA, Koper med Rimom in Benetkami, Izkopavanje na vrtu kapucinskega samostana, 1989, 6 s, 28ss.

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Nelle vicinanze di Capodistria è noto da tempo il sito di Predloka, dove sono stati reperiti, in una villa romana datata nel periodo dal I al V secolo, dei residui di abitazioni primitive risalenti all’alto medioevo e la relativa necropoli del VI-XI secolo 4. Gli elementi slavi sono riscontrabili subito dopo l’inizio del IX secolo. Nell’ambito del primo gruppo di siti situati sulla terraferma ci sono alcune fortificazioni che possono essere datate con sicurezza nel periodo della tarda età antica. Si tratta di S. Paolo sopra Vrtovin, S. Katarina sopra Nova Gorica e Komac vicino a Goja_e5. Le prime due sono caratterizzate dalla presenza di punte di freccia a coda di rondine che trovano analogie perfette in vari esempi di origine istriana del VII-IX secolo, mentre l’insediamento fortificato di Goja_e-Komac, un castelliere preistorico, danneggiato ma dotato anche di uno strato tardoantico, può essere datato con l’aiuto delle tombe precedentemente scoperte nella zona di Morlek dove sono stati trovati degli orecchini a tre cerchi risalenti al VII-VIII secolo6 . Risalgono all’alto medioevo anche i resti delle case in legno situate nelle rovine della vecchia fortificazione Castra (Aidussina) e della modesta baita sul terreno incolto di Borst vicino a Goja_e, gli unici esempi ritrovati all’esterno degli areali insediativi fortificati. Uno sperone in bronzo aiuta a datare quest’ultima nell’VIII secolo 7 . Il sito longobardo di Salcano è dimostrato dalla presenza di 25 tombe di militari su una terrazza sopra l’Isonzo (VII. sec.)8. Possiamo dire con certezza che non appartengono alla fortificazione di S. Katarina sopra Nova Gorica, perché troppo lontana, ma piuttosto ad un sito coincidente con l’attuale Salcano, una località strategicamente importante, poiché proprio qui l’Isonzo lascia definitivamente le zone montane per proseguire il suo corso nella fertile pianura. Possiamo citare ancora un ritrovamento casuale in queste zone. Un orecchino in bronzo a tre cerchi è stato reperito nelle vicinanze di Nova Gorica9. Una situazione completamente diversa si ritrova invece nella parte centrale, preponderante della Slovenia. Nelle vecchie città romane di Petoviona, Emona, Celeia e di Neviodunum non sono stati ritrovati finora degli strati insediativi completi risalenti al VI o addirittura al VII ed VIII secolo; si sono avuti solo ritrovamenti sporadici, soprattutto di monete. Queste dimostrano una presenza sporadica di abitanti, ma non un insediamento compatto sotto forma di città10 .

4

E. BOLTIN TOME , Predloka-anti_na in zgodnjesrednjeve_ka lokaliteta, «Izdanja Hrvatskog arheolo_kog dru_tva», 11/2, 1986, 199. 5 D. SVOLJSAK, T. KNIFIC, O.C. 21, 23s, 59s; S. CIGLENE_KI, O.C. 79, 90ss; Z. HAREJ, KOZmac pri Goja_ah - prazgodovinsko in poznorimsko gradi__e, «Zbornik gori_kega muzeja», 15/16, 1988/89, 3ss. 6 J. K ASTELIC, Najdhe zgodnjega srednjega veka v Goja_ah pri Gorici, «Zgodovinski _asopis», 6-7, 1952/53, 102. 7 SVOLJSAK, KNIFIC, O.C. 21, 23s, 59s. 8 T. KNIFIC, D. SVOLJSAK , Grobovi langobardskih voj__akov iz Solkana (Nove Gorice), «Arheoloski vestnik», 35, 198g, 277ss. 9 D. SVOLJSAK, Nova Gorica, «Varstvo spomenikov», 28, 1986, 288. 10 L. PLESNI_AR, I. SIVEC, Emona at the beginning of great migration period in: Problemi

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Gli studiosi del periodo slavo sono riusciti a dividere il materiale più antico (carantanico) da quello più recente (dell’epoca di Köttlach) 11 . La cronologia relativa quindi è nota, poco chiara ed affidabile risulta invece la seobe naroda u Karpatskoj kotlini, 1978, 59ss; L. PLESNI_AR-GEC, Emona v pozni antiki, «Arheoloski vestnik», 21-22, 1970-71, 117ss; P. KOS, The monetary circulation in the southeastern Alpine Region ca. 300 B.C.-A.D. 1000, «Situla», 24, 1984-85, 226ss; S. CIGLENE_KI, Das Weiterlehen der Spätantike bis zum Auftauchen der Slawen in Slowenien in: Die Volker Südosteuropas im 6. bis 8. ]ahrhundert, Südosteuropa - Jahrbuch 17, München, 1987, 267ss. 11 P. KORO_EC , Zgodnjesrednjeveska arheoloska slika karantanskih Slovanov, «Dela 1. razr. SAZU», 22/1, 1979, 289ss.

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datazione del livello più antico. Si tratta però di una problematica che non tratteremo nell’ambito di questo contributo. In alcuni siti non siamo riusciti sinora a reperire alcun elemento caratterizzante il periodo di passaggio. In particolare vanno evidenziate le grandi necropoli di Bled Pristava che sono state sottoposte, come anche i siti Farna cerkev e Krizi__e presso Kranj ad una ricerca sistematica12. I corredi delle popolazione autoctone risalgono alla fine del VI ed in parte al VII secolo, mentre i reperti slavi possono essere datati con sicurezza appena nell’VIII e soprattutto nel IX secolo. Sorprende però la mancanza di divisione tra la parte più vecchia e quella più recente della necropoli. Nel VI secolo era abitata molto intensamente l’area tra i fiumi Savinja, Sava e Sotla che nei pressi di Prokopius portava il nome di Pòlis Norikón. Tra le sue fortificazioni ve ne sono alcune che erano state abitate o frequentate anche dopo la fine del VI secolo 13 . L’esempio più caratteristico è costituito dal castelliere di Zbelovska gora14. Di recente vi sono state scoperte anche tracce di insediamento ed altri elementi risalenti al VII-IX secolo. Un piccolo deposito di attrezzatura per la cavalleria dimostra che esso veniva frequentato addirittura nell’XI secolo. Di notevole importanza l’orecchino a tre cerchi che insieme alla guarnizione metallica bizantina per una cintura dimostra l’uso ininterrotto dell’insediamento fino nel VII-VIII secolo. Durante gli scavi conservativi dell’ampio insediamento tardo antico di Tinje sopra Loka presso Zusem sono state reperite delle ceramiche molto diverse da quelle caratteristiche per la tarda età antica. Per analogia possiamo datarle nel periodo dal VII al IX secolo: esempi simili sono maggiormente frequenti proprio nell’ambito della ceramica slava15. Nella tomba n. 39 della necropoli sul Rifnik è stata trovata una moneta considerata dapprima del periodo di Klef che però secondo il numismatico Peter Kos dovrebbe provenire da una zecca longobarda della seconda metà del VII secolo 16. Il problema della sua datazione non è del tutto risolto poiché è stata trovata in una parte della necropoli in cui si è reperito soprattutto materiale risalente al VI secolo. Una moneta simile è stata scoperta anche nella tomba n. 50 della necropoli di Lajh a Kranj. Nell’areale della fortificazione tardo antica di Svete gore sopra Bistrica sul fiume Sotla sorgono due piccole cappelle preromane a pianta ortogonale che risalgono probabilmente alla tarda età antica. Su una di esse è visibile il bassorilievo di un orante, sull’architrave c’è una scritta sinora non interpretata. L’epoca esatta non può essere stabilita, ma si presume che 12

A. V ALI_, Poznoanti_ni relikti v staroslovanskem okolju Gorenjske in Kranja in: Pod zvonom sv. Kancijana, Kranj 1991, 24ss; M. S AGADIN, Kranj - krizi__e Iskra, «Katalogi in monografije», 24, 1988. 13 S. CIGLENE_KI, Pòlis Norikón, Poznoanti_ne visinske utrdbe med Celjem in Brezicami, Podsreda 1992, 79s, 84s. 14 Ib. 81ss. 15 S. CIGLENE_KI, Tinje nad Loko pri Zusmu in problem raziskovanja slovanskih naselbin v Sloveniji, «Arheoloski vestnik», 33, 1982, 181ss, S. CIGLENE_KI, Die Keramik des 4.-6. Jahrhunderts von Gradec, Tinje und Korinjski hrib, Slowenien, «Archaeologia Austriaca», 68, 1984, 315ss. 16 P. KOS, Neue langobardische Viertelsiliquen, «Germania», 59/1, 1981, 97ss.

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risalgano al secolo immediatamente successivo la fine dell’età antica17 . Di notevole importanza documentale risultano alcuni siti della Gorenjska. Già nel corso dei primi scavi è stata trovata a Dunaj presso Jereka la linguetta di una cinghia di origine avara che risale alla seconda metà dell’VIII secolo 18 . Anche questa è stata reperita nell’ambito di una fortificazione della tarda età antica che, in base alle monete ritrovate, può essere datata dal III al V secolo.

17 E. C EVC, Dvoje zgodnjesrednjeveskih figuralnih upodobitev na slovenskih tleh, «Arheoloski vestnik»,3, 1952, 211ss. 18 S. GABROVEC, Nekaj novih staroslovenskih najdb, «Arheoloski vestnik», 6, 1955, 137.

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Una situazione simile si riscontra a Hom sopra Sora. Su un castelliere preistorico è stato costruito un grande rifugio in epoca tardo antica. Anche all’interno di questo sono stati ritrovati dei pezzi di linguette avare del IX secolo un piccolo aratro di ferro ed una fibbia del VI secolo 19 . A Gradisce sopra Baselj sono stati ritrovati molti reperti che sinora non sono stati adeguatamente pubblicati. Tra il materiale derivante dagli scavi più vecchi si citano numerose ceramiche slave ed uno sprone di bronzo con ornamento granulato risalente al IX o X secolo20 . Il reperimento di una fibula a bracci uguali sul vicino monte di S. Lovrenc farebbe presumere che la vita in questi luoghi non sia stata del tutto interrotta alla fine del VI secolo21. Anche sulla più alta fortezza slovena della tarda età antica Ajdna, sono stati trovati alcuni oggetti che farebbero presumere un insediamento più tardo 22 . Di particolare importanza la ceramica che risulta molto numerosa e decorata secondo gli usi posteriori. Nell’ambito della Dolenjska è conosciuto un solo sito Korinjski hrib sopra Velikj Korinj in cui si può parlare di reperto slavo ritrovato nell’ambito di una ricca fortificazione della tarda antichità23 . In questa fortezza, che ha uno strato consistente risalente alla seconda metà del VI, secolo è stato trovato di recente un anello di forma romboidale con un’incisione decorativa. Si tratta di un oggetto caratteristico della fase carantanica della cultura slava. Il luogo del ritrovamento è stato sottoposto a studi sistematici, perciò è ipotizzabile soltanto una presenza temporanea o casuale degli Slavi.

Conclusioni II numero di reperti risalenti al VII-IX secolo è molto ridotto, ma può servire comunque da punto di partenza per ulteriori studi. Degli scavi sistematici nell’ambito di siti già conosciuti potrebbero offrire numerose possibilità di ricerca, nonché la speranza di poter trovare quanto prima un legame tra l’età antica e l’insediamento slavo che è palese già nel IX secolo. A questo proposito si pone la questione se si tratti del riutilizzo delle fortezze strategicamente importanti o fungenti da rifugi nelle varie epoche o se non si possa, almeno in alcuni casi, presumere l’esistenza di un insediamento ininterrotto in tutto l’ambito. Forse sono vere ambedue le ipotesi. Nel corso degli studi sono comunque già emersi i punti su cui dovremmo focalizzare la nostra attenzione. Nelle necropoli di Kranj e di Bled gli scavi sono al termine e possiamo attenderci dei risultati illuminanti già

19

S. CIGLENE_KI, Prispevek k arheolo_ki sliki Carneole v zgodnjesrednieve_kem obdohju, Histria (Maru_i_ev zbornik) (in stampa). 20 R. LOZAR, Staroslovensko in srednjeve_ko lon_arstvo v Sloveniji, «Glasnik Muzejskega drustva za Kranjsko», 20, 1939, 184, 200; J. KASTELIC, «Zgodovinski casopis», 6-7, 1952-53, 103ss. 21 D. JOSIPOVI_ , Baselj, «Varstvo spomenikov», 24, 1982, 181ss. 22 A. VALI_, Ajdna nad Potoki, «Varstvo spomenikov», 23, 1981, 266s, sl. 92. 23 S. CIGLENE_KI, Potek altemativne ceste Siscija-Akvileja na prostoru zahodne Dolenjske in Notranjske v _asu 4.do 6. stoletja, «Arheoloski vestnik», 36, 1985, 255ss.

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Costituzione e sviluppo di centri religiosi cristiani nelle campagne lombarde: problemi topografici e archeologici

Si espongono in questa sede le caratteristiche metodologiche e i primi risultati di un’indagine che è sostanzialmente ai suoi esordi e che ha per oggetto i vari aspetti della cristianizzazione nelle aree rurali lombarde tra tardoantico e altomedioevo 1 . La ricerca intende indagare secondo quali modalità si è affermata la nuova religione nelle campagne, quali centri siano stati interessati per primi dall’evangelizzazione, quale sia stato l’impatto delle fondazioni ecclesiastiche sull’insediamento rurale. Per quanto riguarda l’area lombarda una serie di lavori pubblicati negli anni ‘60 già focalizzavano gli aspetti essenziali del problema2: la tarda affermazione del Cristianesimo nell’Italia settentrionale e le resistenze pagane in ambito rurale ancora nel V sec. e oltre; l’influenza della legislazione imperiale e delle iniziative vescovili; il ruolo svolto dai possessores cristiani nell’imporre e diffondere la nuova religione entro le proprie terre. Si tentava anche di correlare i dati delle fonti con le testimonianze epigrafiche, monumentali e archeologiche allora note; tuttavia, l’area interessata da queste ricerche era solo quella milanese e comasca, che comunque è quella più ricca di testimonianze materiali, mentre il resto della Lombardia, a parte le ricerche del Guerrini per il Bresciano3, restava sostanzialmente inesplorata; l’attenzione si concentrava poi intorno ad alcune problematiche storiografiche allora molto dibattute: da un lato, sulla scia dei lavori del Bognetti sui loca sanctorum4 si tentava, in modo un po’ troppo meccanico, di individuare una cronologia delle fondazioni ecclesiastiche pievane sulla base dei santi cui gli edifici risultano dedicati5; dall’altro si prendeva posizione e si fornivano elementi sull’annosa questione della continuità pago-pieve, che oggi, grazie soprattutto alle ricerche di Andrea Castagnetti e Cinzio Violante risulta sostanzialmente superata6. Sempre a partire dagli anni ‘60, la documentazione archeologica utile si arricchiva notevolmente: basti pensare alle numerose indagini promosse da Mario Mirabella Roberti con il ritrovamento di complessi di eccezionale importanza come quello di Palazzo Pignano o ai tanti interventi effettuati

1

Per una presentazione più dettagliata dei dati emersi finora e una bibliografia più esaustiva rimando a SANNAZARO 1990, di cui è di prossima pubblicazione una nuova edizio ne presso Casamassima di Udine. 2 BERETTA 1963, PALESTRA 1963, SIRONI 1964-65; tra le opere di anni precedenti che affrontavano la questione, va ricordato almeno BASERGA 1903. 3 Per l’ampia bibliografia di questo autore cfr.: Indici di “Brixia sacra”, “Memorie storiche della diocesi di Brescia”, “Fonti per la storia bresciana”, Brescia 1980. 4 BOGNETTI 1967; cfr. anche PALESTRA 1960. 5 Sui rischi di un approccio del genere cfr. C ASTAGNETTI 1982, pp. 46-48. 6 CASTAGNETTI 1982; VIOLANTE 1982.

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in anni più recenti nel sottosuolo di chiese rurali; così che nel complesso gli elementi utilizzabili per un discorso d’insieme sono molti. Tuttavia, con poche eccezioni7, si è manifestato negli ultimi decenni un certo affievolimento d’interesse per uno sguardo complessivo alla problematica della cristianizzazione delle aree rurali lombarde; sono mancati insomma tentativi recenti di elaborare un discorso di sintesi che cerchi di ricostruire il fenomeno coordinando in un quadro d’insieme le varie componenti, come invece si è tentato per altre aree geografiche dell’Italia settentrionale8 . Allo stato attuale la ricerca prevede sostanzialmente la raccolta sistematica e la verifica delle informazioni disponibili; l’approccio, dato il fine, è di tipo interdisciplinare e intende correlare dati monumentali, archeologici ed epigrafici con quelli desumibili da fonti scritte o di altra natura. Per la seconda metà del IV sec. e gli inizi del V disponiamo della testimonianza di autori ecclesiastici contemporanei, soprattutto vescovi che hanno esercitato il loro ministero nella regione, e le cui opere dovrebbero essere le più indicate alla ricostruzione dei caratteri della pastorale in ambito rurale: alludo ad Ambrogio di Milano, Gaudenzio di Brescia, Agostino e, allargando al resto dell’Italia settentrionale, Zeno di Verona, Massimo di Torino, Cromazio di Aquileia, Vigilio di Trento9 . In realtà, nel complesso, le informazioni che possiamo ricavare da questi autori sono poche e piuttosto scarne: il quadro che emerge evidenzia un interesse preminente per le realtà cittadine dove il Cristianesimo è in fase di consolidamento, mentre le campagne appaiono ancora dominate dal paganesimo. Nella pur tanto vasta opera ambrosiana, non vi sono cenni espliciti alla questione: per il grande vescovo la cristianizzazione dei rustici è presumibilmente un problema prematuro e secondario rispetto a quelli di più vasta portata, e che lo coinvolgono maggiormente, della lotta all’arianesimo e alle resistenze intellettuali pagane, dei contrasti con la corte e di una approfondita catechesi della comunità cristiana cittadina. Alcuni accenni troviamo invece in Gaudenzio che ricorda l’azione caritativa della chiesa nei confronti dei rustici ridotti alla fame dall’incuria dei padroni e richiama, in un altro passo, i proprietari cristiani ad estirpare il paganesimo dai propri possessi, provvedendo alla distruzione dei luoghi di culto ed impedendo la celebrazione dei riti10 ; l’argomento è presente anche in Zeno di Verona e soprattutto in Massimo di Torino che si sofferma a descrivere pratiche rituali e superstizioni largamente praticate tra i rustici e concepite dal presule come manifestazioni diaboliche. Questi richiami vescovili si collegano alla legislazione imperiale ripetu-

7

CARAMEL 1976, BROGIOLO 1982. Per il Piemonte cfr. Atti 1982, e in particolare i contributi di F. Bolgiani e di G. Wataghin Cantino; per l’area ligure e piemontese si veda anche PIETRI 1985, particolarmente utile anche sotto l’aspetto metodologico per come utilizza le fonti epigrafiche; per il Veneto cfr. l’utile raccolta di dati: CANOVA DAL ZIO 1987, e LUSUARDI SIENA-FIORIO TEDONE-SANNAZARO-MOTTA BROGGI 1989. Per la prossima area gallica cfr. PIETRI 1986. 9 Sulle caratteristiche della pastorale di questi vescovi cfr. MONACHINO 1973; TRUZZI 1985; LIZZI 1989. 10 G AUD. Tr., XIII, 23 e 28; CSEL 68, pp. 120-122. 8

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tamente prodotta dagli imperatori cristiani del IV sec, che soprattutto nell’età teodosiana prospettano con chiarezza la necessità di abolire definitivamente i culti pagani, vietando i riti e demolendo o chiudendo i templi, e rispecchiano una realtà documentata anche per altre aree della cristianità e nell’agiografia normalmente collegata all’attività missionaria. A questo proposito l’archeologia offre la recente testimonianza di Breno (BS) dove scavi iniziati nel 1986 e curati da Filli Rossi hanno individuato un santuario dedicato a Minerva in un’area prossima al fiume Oglio e a ridosso di un complesso di grotte naturali dotate di acqua sorgiva, molto probabilmente connesse al centro religioso; il ricordo di questo centro era rimasto nella toponomastica («ponte della Manerba») e nelle tradizioni locali che avevano sostituito l’antico culto con quello mariano11. Il tempio creato in età augusteo-tiberiana e ricostruito in epoca flavia, conobbe una prima fase di abbandono nel III sec, coincidente quindi con l’instabilità politica e militare di quel periodo; una modesta risistemazione, una successiva distruzione per incendio collocabile nel V sec. Tra le macerie del crollo, si è ritrovata anche la statua della dea, priva però della testa. È stato giustamente notato che la statua può essere stata decapitata deliberatamente in occasione della violenta esaugurazione del santuario, un fenomeno che trova riscontri precisi nella documentazione agiografica. Ecclesiastici che operano direttamente nell’evangelizzazione dei rustici sono documentati nell’episodio famoso di Sisinnio, Martirio e Alessandro martirizzati nel 397 in Val di Non12 ed è probabile che interventi missionari analoghi siano avvenuti anche in Lombardia, cui accennano tradizioni agiografiche come quella dei SS. Giulio e Giuliano, recentemente rivalutata13. Tuttavia gli interventi episcopali cui abbiamo accennato sembrano assegnare un ruolo significativo all’azione del laicato, in particolare di quello signorile. Le ville rustiche, soprattutto quelle di proprietari devoti e motivati, come probabilmente i possessi della stessa chiesa, di cui però nulla sappiamo, hanno certo svolto un ruolo importante nel mettere a contatto cittadini già cristianizzati e rustici ancora pagani. Di questo abbiamo testimonianze archeologiche, come i casi famosi delle ville tardoantiche di Palazzo Pignano (CR) con un imponente complesso chiesastico dotato di battistero14, e Desenzano (BS), dove, se mancano testimonianze sicure di un edificio cultuale, si riscontrano comunque altre prove materiali dell’avvenuta cristianizzazione15. Anche quanto sappiamo del ritiro di Agostino e della sua cerchia di amici nella villa rustica di Verecundus a Cassiciacum, se non prospetta in alcun modo un qualche proselitismo nei confronti dei contadini del podere, tuttavia fa emergere chiaramente i nuovi connotati spirituali di cui la mentalità cristiana arricchisce l’otium signorile16 e le possibili dinamiche di una comunicazione religiosa.

11

Cfr. R OSSI 1987; Milano capitale 1990, 1g. la (F. Rossi), pp. 79- 80; Rossi 198889. 12 Sull’episodio: I martiri 1985; FORLIN PATRUCCO 1986; LIZZI 1989, pp. 59-96. 13 FRIGERIO-PISONI 1988; ANDENNA 1990, pp. 125-126. 14 MIRABELLA ROBERTI 1971, MASSARI-ROFFIA 1985; Milano Capitale 1990, 4d. 3 (E. ROFFIA, L. PASSI PITCHER), pp. 266-267; BISHOP-PASSI PITCHER, 1988-89. 15 MIRABELLA ROBERTI 1982; Milano Capitale 1990, 4d. 2 (D. SCAGLIARINI CORLAITA), pp. 261-262; 5d. 5c-5d. 5h (L. T OFFETTI ), pp. 387-388; 5d. 8 (I. R OFFIA), pp. 401-402. 16 Cfr. PIZZOLATO 1988, pp. 38-39.

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Per il pieno V sec. e la prima metà del VI, quello in cui il fenomeno della Cristianizzazione in area rurale si precisa meglio e deve allargarsi il numero delle fondazioni ecclesiastiche rurali e di una prima organizzazione della cura d’anime, non disponiamo che di pochissime testimonianze scritte dirette e sicure, praticamente solo di Ennodio di Pavia, tra fine V e in. VI sec, che ricorda ad esempio la fondazione di un battistero ad opera di un privato «in vico Ugello», località purtroppo di difficile localizzazione17 . Qualche elemento fornito da tradizioni molto posteriori, ma forse attendibili, presenta casi d’intervento vescovile nell’erezione di basiliche rurali: ad esempio la chiesa di S. Eufemia sull’Isola Comacina sarebbe stata fondata dal vescovo Abbondio di Corno (metà V sec.)18 e il vescovo bresciano Vigilio (seconda metà del V sec.) avrebbe costruito la chiesa pievana di S. Andrea a Iseo (BS), nella quale risultava sepolto19. Venendo alle testimonianze materiali un ruolo rilevante spetta alle epigrafi che offrono uno spaccato relativamente capillare dei progressi della cristianizzazione nel V-VI sec. Il corpus delle iscrizioni funerarie paleocristiane ritrovate in ambito rurale lombardo è in effetti abbastanza ampio: stando al materiale che siamo riusciti a raccogliere sino ad ora, comprende per i secc. V-VI una settantina di lapidi con circa 90 iscrizioni delle quali più della metà databili precisamente sulla base dell’indicazione dell’anno consolare20. La distribuzione geografica delle epigrafi è però tutt’altro che omogenea: alla sola provincia di Como appartengono più di 40 lastre, una decina provengono da ciascuna delle province di Milano e Varese, poche unità da quelle di Pavia, Brescia, Bergamo, Sondrio, nessuna dal territorio di Cremona e Mantova. Una costante largamente attestata nel nostro territorio è il ritrovamento delle lapidi nell’ambito di edifici religiosi: in molti casi le lastre iscritte si trovavano sicuramente già in condizioni di reimpiego, per altri sappiamo che le lapidi vennero rinvenute nell’area dell’altare o che si trovavano nel pavimento, ma la vaghezza delle informazioni trasmesse dagli editori, in genere interessati solo al testo, rende quasi sempre impossibile riconoscere eventuali giaciture originarie. In effetti il ritrovamento di lapidi paleocristiane nell’ambito di fondazioni chiesastiche non presuppone automaticamente l’esistenza di una fase paleocristiana della chiesa: le epigrafi potrebbero anche essere state pertinenti a sepolture subdiali o strutture, come mausolei, precedenti l’edificazione della chiesa; a rigore potrebbero essere state recuperate anche in siti diversi e più o meno lontani per essere utilizzate nella chiesa come materia-

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Cfr. LUSUARDI SIENA, 1992, pp. 219-221. Cfr. MONNERET DE VILLARD 1914, pp. 18 e 221. 19 Cfr. GUERRINI 1934. 20 Oltre al CIL e all’ILCV, silloge fondamentale per il nostro ambito territoriale è MONNERET DE VILLARD 1912 che raccoglie quasi tutte le iscrizioni dell’area comasco-varesina. Per l’area bresciana si veda il recente GARZETTI 1984-85. Altre epigrafi sono state pubblicate in RAComo, NSc ed altri periodici e pubblicazioni di carattere locale. 18

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le da costruzione o ornamentale, come capita per le epigrafi pagane frequentemente rinvenute nelle strutture di edifici chiesastici. Casi sicuri mi sembrano quelli di S. Vittore di Arcisate (VA) e di Galliano di Cantù (CO). Nel primo caso venne ritrovata nel 1745 una lastra rettangolare con due iscrizioni: la prima di un Paulus deposto nel 461 o 482; la seconda, aggiunta successivamente da un altro lapicida, stando alle diverse caratteristiche della grafia, di un Constantius p(res)b(ite)r. Le descrizioni del ritrovamento fanno capire che avvenne nell’area dell’altar maggiore e che la lastra era collocata, presumibilmente su un antico livello pavimentale, come segnacolo per due sepolture a sarcofago sottostanti21. Più complesso è il caso di Galliano che è relativo al rinvenimento di sepolture e relativi tituli effettuato in occasione delle ristrutturazioni della chiesa di S. Vincenzo ad opera di Ariberto d’Intimiano 22 : anche in questo caso si può parlare di un gruppo di epigrafi della seconda metà del V sec. rinvenute in situ nell’area del presbiterio della chiesa primitiva. Una realtà diversa si riscontra invece nel ritrovamento di Oriolo (Voghera, PV) che testimonia l’esistenza di un apprestamento funerario campestre a carattere familiare svincolato da un edificio religioso. La scoperta avvenne casualmente nel 1891 durante lo scavo di una fossa in una vigna; le informazioni di cui disponiamo sono abbastanza esaurienti e ci vengono fornite anche da un rilievo schematico tracciato e postillato da un incaricato dell’Ufficio Tecnico Municipale che era stato inviato ad esaminare i resti. La costruzione ritrovata si componeva di un’abside e di un corto avancorpo quadrangolare che fungeva da facciata dell’edificio; l’abside era orientata verso Est e la facciata guardava verso una strada campestre distante una dozzina di metri. All’interno della struttura, tra le macerie, si ritrovarono i resti sconvolti di più inumati ed una lastra iscritta che ricordava la deposizione di un Agnellus morto nel 463 o 524 e dei genitori Constantius ed Eterriola23. Riflettendo in termini generali e quantitativi sulla distribuzione delle epigrafi paleocristiane ed in particolare sul rapporto chiese-iscrizioni e dando come assunto di lavoro, quindi da prendere con estrema cautela, che la pertinenza delle lapidi agli edifici di culto, sia quasi sempre originaria, sono possibili due osservazioni: – in 12 siti le epigrafi, talora con menzione di chierici, sono stati rinvenute in chiese che risultano o per la presenza di edifici battesimali riconducibili all’età paleocristiana-altomedievale o per le attestazioni della documentazione scritta medievale, assumere il rango di centri pievani. – altre 6 località, attestate nel medioevo come centri pievani hanno restituto epigrafi paleocristiane: in questi casi però o non è stata riportata la collocazione esatta della lapide al momento del ritrovamento o non corrisponde al sito della chiesa principale. Nel complesso quindi su 30 località che hanno restituito epigrafi pale-

21

Cfr. la comunicazione del Sormani conservata in G. GIULINI , Monumenta ad agrum Mediolanensem spectantia, 1751, ms. conservato in Archivio Giulini e G. ALLEGRANZA, De sepulchris Christianis in aedibus sacris, Mediolani 1773, p. 3, n. IV. 22 SANNAZARO 1991, pp. 114-118. 23 Cfr. MARAGLIANO 1909.

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ocristiane, più della metà risulta svolgere nel Medioevo la funzione di pieve: indizio a nostro parere interessante, se non dell’antichità di certe competenze funzionali, perlomeno del prestigio che le fondazioni più antiche sviluppano nel tempo. Passando alle testimonianze monumentali, va detto che non sono poche quelle rimasteci relative a edifici paleocristiani, dei quali alcuni conservano anche ampie porzioni d’alzato; purtroppo però solo raramente la lettura dei dati disponibili fornisce interpretazioni chiare e univoche. In genere, data la continuità d’uso, chiese e battisteri hanno subito nel tempo continui interventi di ristrutturazione che hanno pesantemente alterato le caratteristiche originarie e possono rendere difficile la distinzione delle varie fasi edilizie e una corretta lettura degli alzati. Inoltre, interventi anche relativamente recenti di consolidamento e restauro, privilegiando la conservazione e la ‘ricostruzione’ di una fase a scapito di altre hanno spesso determinato la riduzione del potenziale informativo; peraltro per questi interventi manca in genere una documentazione adeguata che consenta verifiche e controlli di come si sia operato e di quello che si è trovato. Sono poi pochi i casi in cui si dispone di uno scavo archeologico correttamente impostato, che comunque non sempre fornisce le risposte sperate, soprattutto per quanto riguarda la definizione cronologica. Lo studio dei monumenti paleocristiani e altomedievali lombardi ha comunque una tradizione di studi consolidata e di vecchia data, arricchita dai nuovi dati costantemente offerti dall’archeologia. Per lo studio di questi monumenti è stato normalmente utilizzato un approccio storico-artistico basato su confronti planimetrici e tipologici degli aspetti costruttivi; metodica che è soggetta a fraintendimenti e incertezze anche ampie nelle valutazioni conclusive; negli ultimi anni si è comunque tentato di affinare la metodologia di lettura dei resti architettonici precisando una corretta filologia di approccio 24 . Al momento attuale un giudizio cronologico su alcuni monumenti è ancora possibile più sulla concomitanza di indicazioni diverse (storiche, epigrafiche, storico-artistiche, archeologiche) piuttosto che sulla certezza di precisi dati materiali: cito ancora il caso di Galliano dove è stato possibile tentare un affronto ‘a tutto campo’ che rapporta le indicazioni dello scavo stratigrafico moderno con quanto sappiamo dei ritrovamenti più antichi, dall’età di Ariberto in poi, i dati epigrafici, le testimonianze architettonicoartistiche23. Sulla comprensione del sorgere e del diffondersi di un’edilizia religiosa nelle campagne pesano quesiti irrisolti connessi alla penuria delle informazioni scritte o legate ai problemi di datazione dei monumenti. È difficile comprendere quando e con che criteri si sia deciso di allargare a determinati centri religiosi rurali l’amministrazione del sacramento del Battesimo o

24

Si vedano per esempio i contributi di Sandro Mazza tesi a indagini accurate delle particolarità strutturali e al riconoscimento di costanti tecniche che possano acquisire valore anche cronologico (M AZZA 1973-75; MAZZA 1977; MAZZA 1977a) o quelli di Gian Piero Brogiolo che propongono l’applicazione agli alzati di una lettura di tipo stratigrafico (B ROGIOLO 1988). 25

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di stabilizzare la presenza del clero; se nell’organizzazione della cura d’anime ci sia stata da parte dell’autorità vescovile almeno un tentativo di pianificazione o in quale modo possano aver influito esigenze diverse; su quale spinta, se su sollecitazione del clero o autonomamente, si siano mossi fondatori ed evergeti di chiese e cappelle. Stando alle fonti, tra fine IV e inizi V sec, esiste forse qualche oratorio rurale in rapporto con le esigenze liturgiche di qualche dominus o con le iniziative degli evangelizzatori, come nel caso dell’edificio eretto da Sisinnio in Anaunia; tuttavia i dati archeologici e monumentali lombardi non consentono di riconoscere edifici sicuramente ascrivibili a questo periodo: le datazioni più ristrette di cui disponiamo sono quelle ricavabili dalle sepolture in situ di Arcisate e Galliano che offrono per la prima chiesa una datazione anteriore al 461/482, per la seconda al 446/486. Per i battisteri e le chiese lombarde ritenute paleocristiane (Arcisate e Castelseprio (VA), Gravedona, Isola Comacina e Incino d’Erba (CO) Palazzo Pignano (CR), Terno d’Isola (BG)) non si dispone di riferimenti ristretti e nelle cronologie avanzate sulla base dei confronti stilistici ci si orienta in genere per un periodo compreso tra la metà del V e gli inizi del VI sec; in effetti prima non paiono sussistere le condizioni per la creazione di centri battesimali nelle campagne e l’amministrazione del sacramento pare riservata esclusivamente ai complessi cattedrali cittadini; anche le testimonianze relative alla presenza del clero in epigrafi e in qualche fonte portano a concludere che una certa organizzazione stabile della cura d’anime si attua solo nell’inoltrato V sec. La casistica prospettata dalla documentazione raccolta vede il sorgere di complessi ecclesiali in centri che risultano già attestati in età precedente e per i quali, in qualche caso, è noto anche il nome antico (Galliano/ vicus dei Gallianates, Incino/ Licini Forum); a differenza di altre aree non abbiamo invece testimonianze certe di inserimento in precedenti centri pagensi. Accanto a queste situazioni che riflettono la persistenza della trama insediativa precedente, si verificano casi in cui il centro battesimale si costituisce in rapporto ad una villa (Palazzo Pignano p. es.), giustificati dal ruolo, più volte ricordato, svolto dai possessores nell’evangelizzazione; ma troviamo anche casi di connessione con un centro castrense di nuova costituzione (Castelseprio, Isola Comacina) in un intrecciarsi di esigenze di cura d’anime e nuove necessità dell’insediamento che ben esemplifica i tanti fattori in gioco nel V-VI sec. Un aspetto da approfondire è il ruolo svolto dai santuari martiriali rurali: centri cultuali legati ai resti di un martire o santo, la cui affermazione va ritenuta parallela a quella dei complessi martiriali eretti nei suburbi cittadini, per i quali è nota la funzione peculiare e importantissima nella diffusione del culto per le reliquie e lo sviluppo di una nuova mentalità cristiana. Fuori di Lombardia sono ben noti i casi di S. Canzian d’Isonzo e di S. Giulio d’Orta26; qualcosa del genere è possibile ipotizzare per il sepolcro del martire Fedele a Samolaco, cui accenna Ennodio e presso il quale Antonio di Lerins sceglie di condurre vita eremitica27 . 26

CUSCITO 1987; DONDI-DELLA CROCE-PEJRANI BARICCO 1984, pp. 122-139; Milano capitale 1990, 4f. 3 (L. PEJRANI BARICCO), pp. 297-298. 27 E NNODII De vita Beati Antoni, MGH, AA (ed. F. V OGEL , Berolini 1885), VII, pp. 185-191.

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Ennodio purtroppo non ci da la possibilità di conoscere come si presentasse il sepolcro di Fedele ai suoi tempi: se si trattasse di una tomba subdiale segnalata in qualche modo, di una memoria o addirittura di una basilichetta martiriale; possiamo solo sottolineare l’importanza topografica della collocazione del sepolcro di Fedele e gli sviluppi successivi del sito. Samolaco, oggi a nord del lago di Mezzola, in antico unito a quello di Como, è menzionata esplicitamente nell’Itinerarium Antonini e costituiva una mansio della via che da Como raggiungeva Coira e la Rezia; la tomba del santo risultava quindi ‘strategicamente’ prossima a un centro di sosta particolarmente frequentato e importante dove si lasciavano le imbarcazioni utilizzate per la traversata del lago e si riprendeva la via di terra per affrontare l’impegnativo tratto alpino. Uno sviluppo posteriore del sito è invece testimoniato da fonti posteriori che per la seconda metà del X sec. attestano l’esistenza di una chiesa con funzione pievana. La creazione di complessi ecclesiastici in siti di insediamento antico solleva la questione delle modalità d’inserimento nel tessuto urbanistico dei centri rurali, per cogliere se viene originariamente privilegiata la prossimità all’abitato (quindi, in un certo senso, la funzione liturgica), o alle necropoli (quindi quella funeraria esaugurale), tenendo comunque presente che nei vici della campagna non paiono valere le rigide norme legislative romane, rispettate almeno fino al VI sec, che vietano nelle città le sepolture entro il centro abitato e contribuiscono a determinare quella distinzione funzionale, tra chiese intramuranee a destinazione liturgica e chiese suburbane destinate al culto delle reliquie e alle sepolture. Purtroppo le nostre conoscenze sull’urbanistica dei vici lombardi sono assai scarse e gli esempi a disposizione sono pochi e non sempre chiarificatori; nel complesso emerge una realtà articolata, nella quale, comunque, in parallelo con lo sviluppo delle sepolture entro chiese o in aree sacralizzate da un edificio sacro, persistono piccole o medie necropoli isolate. Alcuni centri che non hanno preesistenze insediative e sorgono in età tardoantica in rapporto con le esigenze della difesa (Castelseprio (VA), Isola Comacina), presentano un tessuto urbanistico ben definito dalle fortificazioni o dalla configurazione geografica del sito; in questi casi gli edifici ecclesiastici, che accolgono sepolture, sorgono all’interno dell’insediamento, in posizioni centrali o privilegiate, spesso mescolandosi all’edilizia militare, forse secondo schemi definiti in fase progettuale. Nell’importante statio di Laumellum, il complesso costituito dalla basilica e dal battistero, per il quale non è improbabile ipotizzare un’origine paleocristiana, risulta prossimo al lato interno della cinta di IV-V sec. e non distante dalla porta principale, quella cui faceva capo la via da Pavia28; una collocazione in un’area periferica, ma urbana, che richiama la disposizione di tanti complessi cattedrali cittadini. Angera (VA) è uno dei pochi centri rurali romani per il quale si comincia a definire l’aspetto urbanistico, particolarmente articolato dato lo sviluppo e la consistenza del vicus che conosce in epoca bassoimperiale un

28 Cfr. BLAKE MACCABRUNI 1985; Milano capitale 1990, 4b. 3 (C. MACCABRUNI , H. BLAKE), pp. 246-246; MACCABRUNI (in stampa).

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momento di particolare floridezza ed espansione29. Per l’età romana è documentata una serie di piccoli gruppi di sepolture che attorniano il villaggio e integrano la grande e principale necropoli orientale, collocata presso la via d’accesso da Milano e relativamente distante dall’abitato; questa necropoli manca di un’apprezzabile fase tarda e si conclude con alcune deposizioni in fosse rivestite di muratura (tipologia di III-IV sec.) e prive di corredo; la situazione delle sepolture in età tardoantica e altomedievale è meno chiara: pare comunque accertabile una realtà di sepolture sparse, anche entro l’abitato, e talora connesse con edifici di culto. Alcune epigrafi funerarie paleocristiane (una datata al 492), sono state ritrovate reimpiegate in vari punti della città e non paiono offrire nessun indizio significativo sulla loro originaria collocazione. L’originaria chiesa plebana, dedicata ai SS. Sisinnio, Martirio e Alessandro, si colloca all’interno del tessuto urbanistico del vicus antico, ben documentato dai ritrovamenti; venne radicalmente risistemata nel ‘500 e non si conoscono testimonianze delle sue fasi più antiche, tuttavia una serie di sepolture altomedievali rinvenute all’intorno documenta l’uso funerario, forse in connessione con l’esistenza della chiesa, di un’area che precedentemente svolgeva altre funzioni. Un altro possibile sepolcreto cristiano è stato riconosciuto nella località Bettole, sulla strada da Milano, ma in una posizione che, rispetto alla necropoli più antica, risulta più prossima al vicus; è in questa area che viene localizzata la cappella di S. Pietro, attestata dal 1000, e sorta forse per uso funerario. Per quanto concerne le caratteristiche originarie delle aree occupate dagli edifici liturgici, sebbene non manchino tradizioni locali che ritengono alcune chiese precedute da tempietti pagani, non abbiamo nessuna documentazione certa in tal senso; riscontriamo invece alcuni casi in cui l’edificio sostituisce precedenti ambienti riscaldati – Lenno (CO), Angera (VA) –30; rapportabili a quanto noto dagli scavi di Muralto (TI) dove la chiesa paleocristiana sorge sui resti di un ipocausto pertinente una villa romana31. L’architettura religiosa attestata nelle aree rurali della Lombardia offre una gamma tipologica abbastanza ampia: sono attestati edifici d’impianto assai semplice, aule a navata unica con abside o senza, talora movimentate all’esterno da paraste e lesene, e organismi più complessi, talora dalle geometrie particolarmente articolate, che tendono a differenziare la planimetria dello spazio interno da quella dell’esterno; in molti edifici si nota l’influenza dei modelli cittadini e una koinè architettonica cristiana ormai ben caratterizzata (si veda p. es. la diffusione nei battisteri degli schemi a ottagono in tutte le loro potenzialità planimetriche); non mancano però casi più complessi e anomali, come l’edificio assai particolare di Palazzo Pignano, o altri per i quali non è nemmeno del tutto sicura l’utilizzazione liturgica (Terno d’Isola per esempio); né si può escludere che alcuni edifici di culto siano sorti per semplice adattamento di edifici precedenti.

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Cfr. da ultimo: GRASSI 1988, pp. 177-223; Milano capitale 1990, 4b. 2 (M.T. GRASSI), pp. 243-244. 30 Cfr. GIUSSANI 1904; GRASSI 1988, pp. 220-222. 31 Milano capitale 1990, 4b. 1 (P.A. D ONATI), p. 243.

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Continuità e discontinuità degli insediamenti in Aquileia e nell’immediato suburbio

Stato delle fonti Gli scavi di insediamenti rustici nella cintura suburbana di Aquileia non hanno fatto molti progressi da alcuni decenni a questa parte, se si eccettua un importante intervento effettuato non lontano dal sito della chiesa di S. Stefano, nel fondo Lanari 1. Ne risultano, almeno nella documentazione accessibile ed edita2 , larghi vuoti che si è tentato in parte di eliminare ricorrendo ai risultati, di necessità sommari e parziali, della ricerca di superficie3. La problematica della centuriazione è stata affrontata più volte, ma sempre con riferimento a questioni generali, o con analisi di aree alquanto lontane dell’agro 4 , o ancora ignorando un completo riferimento a tutta la documentazione disponibile e soprattutto trascurando la cartografia di dettaglio, come la carta tecnica regionale al 5000 5 . Scarso interesse tra gli archeologi e gli studiosi di storia antica ha suscitato l’indagine sulla storia fisica del territorio, ovvero in primo luogo sulla effettiva estensione delle paludi e sulle successive bonifiche. Solo le bonifiche del periodo teresiano hanno avuto specifici studi – forse anche a motivo dell’ampia documentazione cartacea esistente6 – mentre attendono adeguate analisi le bonifiche romane e quelle mussoliniane. Oggi sono disponibili nuove fonti molto dettagliate, come le coperture aeree eseguite negli ultimi anni, che peraltro non hanno ancora avuto l’attenzione che meriterebbero7 .

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Cenni in BERTACCHI 1974. Ritorna sull’argomento, con riferimento alla stiva di lucerne, DI FILIPPO BALESTRAZZI 1987 e EAD. 1988, pp. 17-18. 2 Numerosi ritrovamenti e anche scavi sono sostanzialmente inediti. Valga per tutti il caso delle paludi a sud dell’Anfora, oggetti di parziali scavi negli anni Trenta. Maggiori informazioni si hanno per le terme del fondo Tuzet, a sudovest della città, di recente interpretate come residenza di Augusto (STRAZZULLA RUSCONI 1983). 3 Cenni in BUORA 1988a. 4 Una sintesi delle diversi ipotesi circa la centuriazione in BANDELLI 1984 (cfr. anche BANDELLI 1988). Da ultimo sono state edite nuove ricerche limitate all’area sud-occidentale (PRENC 1991), mentre sono in corso di stampa altri studi sulla zona a settentrione, nel territorio di Codroipo. 5 Nessun autore è andato oltre l’esame della tavolette al 25.000 né ha tentato uno studio delle vecchie carte, dal XVIII ai giorni nostri, salvo riferimenti alle levate austriache, peraltro di grande scala. 6 IONA 1972; DONNINI 1989. 7 Copertura del dicembre 1990, effettuata a cura della Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia.

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Rapporto tra ambiente e insediamenti Dai dati osservabili su queste foto aeree, riportati sulla cartografia al 5000, si ricava con sufficiente approssimazione una serie di dati riferibili alla storia del paesaggio, specialmente nella parte compresa tra il canale Anfora (corrispondente al decumano della centuriazione romana)8 e il tratto finale del fiume Natissa, navigabile ora e in epoca romana9 e quella che è attualmente la linea di costa. Il confronto con la cartografia dei secoli scorsi disponibile, pur nella sua imprecisione, permette di ricostruire a ritroso le seguenti fasi: 1) sistemazioni agrarie teresiane, con limiti tra gli appezzamenti (= strade) assegnati ai diversi proprietari ancora in parte riscontrabili nella sistemazione attuale; 2) paleoalvei esistenti fino al XVIII sec. e in minima parte allora rispettati nelle operazioni di bonifica; 3) consistenti tracce di sistemazioni agrarie di epoca romana costituite per lo più da spezzoni di decumani (paralleli al canale Anfora) e cardini (ortogonali allo stesso canale); 4) paleoalvei precedenti le sistemazioni romane e superati dalle stesse (esistenti forse nel periodo protostorico)10 . La presenza di paludi viene ricordata per la prima volta nel testo di Vitruvio, ovvero nella prima età augustea11 . Vecchi e nuovi scavi occasionali hanno dimostrato la presenza di banchi di anfore appartenenti a due tipi ben distinti, ovvero al tipo Lamboglia 2, che si suole datare tra la fine del II sec. a.C. e il 30 circa a.C.12 e al tipo così detto della Bizacena, che si data dalla metà del IV sec. in poi13. Ne consegue che se, come pare, i banchi furono posti intenzionalmente per drenaggio, grosse opere di bonifica furono eseguite probabilmente nel I sec. a.C, prima dell’età di Augusto, e ancora nel IV. Una conferma viene da recenti scavi nella zona di Sevegliano, al limite settentrionale della medesima area paludosa, ove si rinvennero banchi delle stesse anfore Lamboglia 2, disposte insieme con frammenti fittili della de-

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Ritengo del tutto plausibile la proposta di identificazione già avanzata in B UORA

1988a. 9 L’ipotesi si basa non solo su particolari costruttivi (ad es. la presenza del fondo lastricato che si ritrova pari pari nel fiume navigabile da Nauportus verso l’antica Emona, su cui si veda HORVAT 1990, p. 161), ma anche su ovvie considerazioni topografiche e sul fatto che, tenuto conto dei movimenti di marea, questo canale permetteva un facile raggiungi mento dalla laguna agli scali posti alla periferia dell’antica città. Qualunque carta permette di verificare che il prolungamento del tracciato, che attraversa l’antico foro, prosegue poi per una ventina di chilometri con un rettilineo, fino alle colline della zona di Monfalcone, non lontano dall’area sacra alle foci del Timavo, ove il Temavus (divinità paleoveneta) era venerato per lo meno dal II sec. a.C. fino all’inizio del I sec. a.C. 10 Cenni e ipotesi sull’idrografia del periodo protostorico in G NESOTTO 1980. 11 VITRUV., I, 4, 11 accenna alle gallicae paludes ovvero a un sistema che pare del tutto bonificato o per lo meno salubre nella prima età augustea (sulla questione da ultimo TRAINA 1988 e STRAZZULLA 1989). 12 Per i nuovi scavi vedi MASELLI SCOTTI-DEGRASSI 1989; per i vecchi rinvenimenti si veda B RUSIN 1939 e anche B RUSIN 1951, p. 35 (solo un sommario cenno e una fotografia), altre informazioni sono reperibili nell’archivio del museo archeologico nazionale di Aquileia. 13 La datazione di questo tipo di anfore è riferita agli studi di CIPRIANO-C ARRÉ 1987.

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corazione di un tempio repubblicano – con tutta probabilità deposti dopo la guerra sociale, quando i santuari extraurbani vennero demoliti e relativi culti trasferiti nel centro del municipium14. Il contesto archeologico permette di limitare ulteriormente il tempo delle bonifiche ponendolo subito dopo il secondo decennio del I sec. a.C. Analogamente il rinvenimento a Sevegliano di ulteriori strati di accumulo e butti all’interno di fosse, forse per elevare il livello del terreno e chiudere possibili polle d’acqua, con materiali databili tra la metà del IV e i primi decenni del V sec. permette di ricavare l’ipotesi che ulteriori lavori di bonifica furono effettuati probabilmente nella seconda metà del IV sec. Ciò si accorda con il testo di un miliare relativo alla via Annia, privo di datazione sicura ma generalmente attribuito all’avanzato III sec, se non oltre, che allude al danneggiamento della strada eververata influentibus aquis palustribus15. Dalle suddette foto aere si ricava non solo il complicato reticolo di canali, in larga misura naturali, relativi alla parte bassa delle paludi che si estendono in una vasta zona, per una quindicina di chilometri fino a nord, ma anche le opere di canalizzazione umane e le strade o i limiti dovuti con tutta probabilità all’opera degli agrimensori romani. La zona più elevata e anche più asciutta, delimitata a est dal corso del fiume Natissa e a ovest da un antico canale, largo una quarantina di metri, – che certo era attivo in epoca preromana e forse ancora all’inizio dell’epoca romana, – è quella che ha dato le maggiori tracce di insediamento, con probabili luoghi di culto ancora repubblicani nella parte settentrionale16 , il tracciato di una strada che costeggiava a ovest il corso della Natissa e vaste aree sepolcrali, per lo più del primo periodo imperiale, indagate nel corso dell’Ottocento e in questo secolo 17 . In questa zona, naturalmente bassa e perciò più esposta alle acque palustri e anche ai pericoli di inondazione, gli insediamenti romani si collocano quindi ai margini, ovvero lungo il lato occidentale e in una fascia immediatamente a sud del canale Anfora. L’importanza di questo canale anche in epoca romana è stata più volte sottolineata, sia per il suo stretto rapporto con la città di Aquileia e quindi anche con il suo porto, sia perché fin dal Settecento sono noti i lavori di manutenzione che si devono ai Romani. Di recente ho proposto che in esso si debba vedere la traccia più evidente, ai giorni nostri, del decumano massimo della centuria-zione aquileiese, anche se verrebbe da pensare che il vero e proprio limite della centuriazione non coincidesse con la parte acquatica, ma forse con uno dei suoi argini18 . È largamente noto presso la popolazione locale che specialmente la parte meridionale degli argini ha al suo interno anfore africane, il che è precisa testimonianza dei lavori di sistemazione effettuati nel periodo tardo-antico.

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Per la storia del sito in base ai risultati degli ultimi scavi si rimanda a quanto sta per essere pubblicato nel Notiziario archeologico della rivista «Aquileia nostra», 1991, in corso di stampa. 15 La citazione è tratta da C.I.L., V, 1992; la sua datazione è stata variamente posta tra l’inoltrato III sec. e l’avanzato IV sec. 16 A un probabile luogo di culto potrebbero appartenere capitelli tardorepubblicani rinvenuti in sito, tra cui uno datato alla seconda metà del I sec. a.C. oggi conservato nei Civici Musei di Udine (vedi CAVALIERI MANASSE 1978, pp. 54-55). 17 BRUSIN 1939; BERTACCHI 1979, pp. 273-276. 18 Vedi sopra nota 8.

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Anche l’analisi di questi ultimi documenti fotografici conferma che i luoghi più elevati furono scelti per la costruzione degli insediamenti rustici. I dati archeologici disponibili paiono confermare, allo stato attuale della documentazione, che la zona più a rischio fu punteggiata da insediamenti più radi, non solo a ovest, ma anche a est del corso della Natissa, specialmente nelle parti in cui le quote del terreno, la toponomastica moderna e il confronto con la cartografia dal Settecento in poi dimostrano il pericolo di un’invasione delle aree paludose. Il problema della continuità degli insediamenti rurali antichi Nel caso che stiamo esaminando, ovvero gli immediati dintorni di Aquileia, non è attualmente possibile determinare con precisione la durata di molti insediamenti: anche perché di ben pochi era stata finora data notizia nella letteratura specifica. Abbiamo già ricordato sopra come le indagini di superficie tendano a dare un quadro relativamente omogeneo, riferito alla fase tardo-antica. Per verificare le condizioni ideali, non sempre sufficienti, per una continuità, ci aiuta l’osservazione delle quote, rapportata alla toponomastica attestata dai documenti o tuttora esistente. È certamente questo il caso di Morsano, che ripropone il nome del primo proprietario del fundus, nome attestato già nell’VIII sec. e tuttora esistente per un agglomerato di case posto ai limiti della laguna19. Dalla ubicazione di questo insediamento ricaviamo un’osservazione di carattere generale: ove le condizioni lo permettano, talora i casali sparsi per la campagna ripetono la scelta dei primi coloni. È questo il caso di alcuni casolari isolati posti lungo la parte orientale del decumano massimo aquileiese, evidentemente declassato a semplice tracciato di campagna. Ciò si osserva a partire dalla Strazzonara, fino a Roncolon, in antico parte del fondo di un importante magistrato della città, di cui ci è rimasto il monumento funerario20. Abbiamo al contrario anche la certezza che toponimi prediali, ben vivi nell’alto Medioevo, sono poi scomparsi, forse insieme con gli insediamenti che ad essi si riferivano. È questo il caso di un Ampiano, posto lungo il fiume di Terzo, presso un mulino, menzionato nell’anno 900 e oggi non più rintracciabile21. Un discorso diverso si può fare per quegli agglomerati che si possono intendere come borghi, i quali hanno avuto dal periodo paleocristiano i loro cimiteri e le loro chiese. Spesso proprio dai cimiteri paleocristiani si sviluppano importanti istituzioni ecclesiastiche medievali. Dai cimiteri paleocristiani alle chiese medievali L’esempio più importante di cimitero paleocristiano è senza dubbio quello della Beligna – purtroppo oggetto di scarsa considerazione scientifi-

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FRAU 1968; ID. 1979. II monumento è ben noto e su di esso è intervenuto, da ultimo, S TUCCHI 1982 e 1983. Sulla strada diverse opinioni in BERTACCHI 1978 e BUORA 1988. 21 FRAU 1968; ID. 1979. 20

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ca – il più grande in assoluto della città antica, posto su un terreno sopraelevato, in larga parte coincidente con un dosso preromano posto a sud della città. È possibile che almeno fin dall’Età del Bronzo, il dosso delimitasse a sud un’area più bassa e quindi facilmente preda dell’impaludamento, come starebbero ad attestare sporadici rinvenimenti riferiti proprio a quel periodo22. Iscrizioni datate confermano l’uso del cimitero paleocristiano almeno nel periodo costantiniano fino al 423, con possibilità di ulteriore prosecuzione23. Non sappiamo se qui esistesse, già nel periodo paleocristiano, un luogo di culto: certo la tradizione storica assegna a quest’area la fondazione di un monastero, già alla fine del V sec.24. Una complicata vicenda storiografica riporta le notizie sulla fondazione ancora al periodo carolingio e ottoniano: per questi due ultimi periodi, i dati storici sono confermati anche da rinvenimenti archeologici. Merita di essere sottolineato il toponimo Farella, derivato da un nome di chiara origine longobarda come Farà, al limite sudorientale dell’area cimiteriale. La sua presenza si potrebbe spiegare con il fatto che proprio in questi luoghi, dopo la venuta dei Longobardi, correva il confine tra il dominio longobardo e quello dell’Impero romano d’oriente, cui erano sottoposti anche i casali di terraferma, i cui abitanti erano esposti ai pericoli di incursioni e alla minaccia della cattura e quindi di un destino di schiavitù25. Non esistono a tutt’oggi prove archeologiche della presenza effettiva di un insediamento longobardo, salvo sporadici rinvenimenti all’altro capo occidentale dello stesso cimitero26. Un documento del periodo carolingio, riferito alla nota "ribellione" dei fratelli longobardi Rotgaudo e Felice, menziona possessi di questi dentro e fuori le mura di Aquileia, possessi che non abbiamo alcuna ragione per far coincidere con questo toponimo. Un altro importante cimitero paleocristiano a nord, nei pressi della chiesa di S. Stefano, nota specialmente nel pieno periodo medievale, ha vicende simili: posto in un’area marginale rispetto a un importante asse viario, presso un sobborgo con probabili luoghi di culto antichi e con qualche specifica attività economica27, divenne cimitero nel periodo paleocristiano e si sviluppò specialmente nel pieno medioevo, epoca cui si riferiscono i documenti storici giunti fino a noi28. Scavi effettuati nel secondo dopoguerra e ancora inediti hanno rivelato la presenza di vaste necropoli medievali, da cui sono stati recuperate numerose fibbie circolari che sono

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BUORA 1979, per altri recenti rinvenimenti vedi CHENDI 1991. La dott. Franca Scotti Maselli, della Direzione del Museo archeologico di Aquileia mi ha gentilmente informato che sono stati eseguiti di recente sondaggi per verificare l’estensione dell’area cimiteriale. 23 Trattazione in BUORA 1979. 24 Ce lo dice il Chronicon Gradense, scritto forse tra il 1000 e il 1023 (= Cod. Vatic. Urb. 440), con notizia confermata dal codice G III del Seminario patriarcale di Venezia (Cfr. BUORA 1979, e. 459). 25 Su episodi di cattura di abitanti del luogo ridotti in schiavitù, per cui interviene il Pontefice, si veda P ASCHINI 1976, p. 134. 26 Informazione del sig. Luciano Jacumin, che sentitamente ringrazio. 27 L’ipotesi di luoghi di culto si basa sul rinvenimento di epigrafi votive nella muratura della chiesa di S. Stefano, demolita alla fine del Settecento. Si tratta con tutta evidenza di tipici casi di riutilizzo. La presenza di una piccola officina di lucerne è stata proposta da Di Filippo Balestrazzi 1988, per cui si veda nota 1. 28 Cfr. PASCHINI 1939.

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comuni in tutta l’Italia nordorientale e si datano per lo meno fino all’avanzato Trecento, epoca in cui è attestata una fase di recessione nella vita del sobborgo29. Origini probabilmente simili hanno altri nuclei a est e a ovest della città antica, immediatamente al di fuori delle mura, precisamente quello che era posto intorno alla chiesa di S. Giovanni in platea o in foro, divenuta poi parrocchia30 e quello nei pressi della chiesa di S. Felice, tutte e due poste in aree funerarie già romane e poi paleocristiane31 . Le foto aeree di cui abbiamo parlato in apertura qualificano esattamente come autentico sobborgo la località di Monastero, distinta dalle ville rustiche che si trovavano nelle immediate vicinanze. In epoca romana, esso

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PASCHINI 1939. Su cui esistono studi specifici a partire da BRUSIN 1935 fino a V IGI F IOR 1988. Sui risultati di recenti scavi si veda BERTACCHI 1974, pp. 84-91 e BERTACCHI 1980, pp. 262-264 (con riferimento a tombe del periodo tardo-antico). 31 Sintesi dei dati ricavabili dalle fonti antiquarie in VIGI F IOR 1981. 30

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era compreso tra due strade parallele. Sovrapponendo i dati delle foto aeree con quelli della cartografia archeologica, si verifica sia la presenza della biforcazione a nord di un importante corso d’acqua (Natiso cum Turro di cui parla Plinio)32, sia l’addensamento delle abitazioni del quartiere romano – ove gli scavi del secolo scorso hanno accertato la presenza di abitazioni con piccoli vani, adatte a un quartiere popolare ove abitava probabilmente la parte della popolazione addetta all’area portuale –, sia ancora la presenza di grandi ville oltre la zona intensamente urbanizzata. Ai giorni nostri, la sistemazione urbanistica del sobborgo nelle linee essenziali, conserva l’aspetto settecentesco di un piccolo nucleo di case di agricoltori e artigiani posto presso il grande centro della proprietà agraria, il Monastero delle monache benedettine appunto. Le diverse fasi del complesso, dalla basilica paleocristiana fino all’attuale allestimento museale, sono attestate dagli scavi e dalla ricca documentazione d’archivio33. I documenti si riferiscono alla comunità monastica a partire dall’XI sec, ma le testimonianze archeologiche rinvenute nel corso di scavi entro la chiesa rivelano i lavori intervenuti in epoca tardo-longobarda o carolingia34 e la sopravvivenza del borgo anche dopo il restringimento dell’antica 32

P LIN , Nat. hist., III, 126. Per gli scavi BRUSIN-ZOVATTO 1957; FORLATI TAMARO-BERTACCHI 1962; BERTACCHI 1965. Per i documenti SCALON 1983; HAERTEL 1983; ID. 1984. 34 Una indagine presso l’archivio fotografico del Museo archeologico di Aquileia mi ha 33

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città, sancito dalla linea delle mura così dette a zig zag, a sud dell’antico foro 35 . L’edifìcio sacro paleocristiano viene costruito a uguale distanza dall’ideale prolungamento dei due assi stradali che uscivano dalla città antica, quindi ha una collocazione che risulta perfettamente inserita nel piano urbanistico della città. Al contrario, il sobborgo di epoca romana presenta un andamento suo proprio e una sistemazione ortogonale che non risulta collegata al sistema della centuriazione e/o della città36. Rimane incerta la effettiva ubicazione e consistenza della necropoli di Monastero nel periodo tardo-romano: sono noti molti rinvenimenti tombali genericamente indicati nel secolo scorso con una provenienza da Monastero, mentre gli scavi recenti hanno accertato la presenza di sepolture nel nartece della basilica paleocristiana. Nella zona a NE della città erano sepolti anche membri della nobiltà gota37. Peraltro molti luoghi dell’area suburbana, anche alcuni edifici di prestigio che paiono abbandonati dopo la permesso di verificare che alcuni frammenti di quel periodo, editi come di provenienza ignota (TAGLIAFERRI 1981, nn. 146 e 158) derivano invece dagli scavi effettuati alla fine degli anni Quaranta entro l’area della basilica paleocristiana. 35

Su queste da ultimo BUOKA 1989, JAEGGI 1989 e 1990. Per questa ragione ho altrove supposto che qui, al punto di incontro tra la sommità dell’antico porto e di importanti assi stradali, in un luogo sopraelevato e naturalmente dife-so da due grandi fiumi che scendevano a est e a ovest, andasse cercato il sito dell’area urbana antecedente alla fondazione della colonia romana (181 a.C). 37 Su questi BIERBRAUER 1976. Per la datazione delle sepolture al V sec. si veda BIERBRAUER 1987. Le tombe, rinvenute nel 1887, erano poste all’interno di edifici privati,da tempo abbandonati. Ciò si è riscontrato riesaminando la documentazione grafica degli scavi. Ne darà presto notizia la dott. Scotti, direttrice del Museo di Aquileia. 36

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fine del IV sec 38 e probabilmente anche nei quartieri del porto, furono utilizzati per sepolture forse ancora nel V sec. d.C. In conclusione si può affermare che: A) Alcuni elementi del paesaggio (dossi, aree sopraelevate, canali) hanno determinato una continuità di insediamenti almeno dall’epoca romana sino quasi ai giorni nostri. B) Le trasformazioni del paesaggio in epoca romana e soprattutto gli elementi caratterizzanti (strade, limiti della centuriazione etc.) hanno influenzato molti insediamenti agricoli fino ai giorni nostri. C) Aree dotate di particolare sacralità (vuoi per la presenza di culti preromani/romani o per l’ubicazione di vaste necropoli) hanno avuto una destinazione sacra fino alla fine del XVIII sec, quando lo spopolamento in seguito alla diffusione della malaria, il naturale degrado delle strutture e i provvedimenti di Giuseppe II che miravano all’abbattimento delle chiese superflue produssero sensibili mutamenti nella coscienza degli abitanti sul valore e sul significato delle medesime aree, in tutto e per tutto parificate alle restanti zone destinate ai lavori agricoli. Un destino diverso toccò ai sobborghi posti nella parte occidentale della città. Quello settentrionale, ai lati dell’appendice dell’Anfora che puntava verso il centro cittadino, evidentemente seguì le sorti del canale, e perse progressivamente di importanza con il venir meno dell’area centrale dell’antica città, a partire dai primi decenni del V sec.39. Inoltre la sua favorevole posizione, ai lati di un canale navigabile, potè forse essere ridotta dal venir meno delle opere di drenaggio. A tutt’oggi si conosce il rinvenimento di un solido aureo di Anastasio I (491-518) presso privati, che non è detto sia strettamente legato a qualche effettivo insediamento e che sembra uno degli ultimi oggetti sicuramente databili. Migliore sorte toccò alla parte meridionale dello stesso sobborgo, che invece gravitava sulla Natissa (alimentata dalle acque di risorgiva e pertanto ancora esistente), e che si trasformò progressivamente nella parte più viva e pulsante della cittadina medievale, tanto da essere ancor oggi sede del municipio e delle attività primarie40. MAURIZIOBUORA Bibliografia G. BANDELLI, 1984, Per una storia agraria di Aquileia repubblicana, in Problemi storici ed archeologici dell’Italia nord-orientale e delle regioni limitrofe dalla preistoria al medioevo, «Atti CivMusTrieste», quaderno 13, 2, pp. 93-111. G. BANDELLI, 1988, Ricerche sulla colonizzazione romana della Gallia Cisalpina, Roma. L. BERTACCHI, 1965, La basilica di Monastero di Aquileia, «Aquileia nostra», 36, cc. 79-134. L. BERTACCHI, 1973, Un anno di scavi archeologici ad Aquileia, «Antichità altoadriatiche», 5, pp. 385-399. L. BERTACCHI, 1974, Un decennio di scavi e scoperte di interesse paleocristiano ad Aquileia, in Atti del III congresso internazionale di archeologia cristiana, Trieste, pp. 83-91.

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La precisa documentazione viene dalle fotografie esistenti presso l’archivio fotografico del Museo archeologico di Aquileia. Su questo tema si veda anche LOPREATO 1987, pp.138-139. BUORA 1989; JAGGI 1990. BUORA 1989; JAGGI 1990.

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Il problema della continuità alla luce delle ricerche nell’area dalla laguna di Venezia

Fino a pochi anni or sono sarebbe certamente sembrato assai strano, per non dire stravagante, che nel contesto di un seminario di studi archeologico-territoriali intitolato ai problemi della continuità in ambito rurale tra V e IX secolo nell’Italia settentrionale si comprendesse una relazione sull’ambiente lagunare veneziano. Se oggi il fatto risulta del tutto ovvio, significa indubbiamente che un mito è stato tolto di mezzo, e che le nostre conoscenze e i nostri metodi hanno compiuto un avanzamento importante. Riferisco in queste pagine, in grande sintesi, quanto ho esposto un po’ più largamente a Monte Barro. Nel territorio dell’attuale laguna di Venezia (e dintorni, in un’ottica che si può dire complessivamente di costiera alto adriatica) il problema della continuità degli ambienti insediativi rurali nell’alto Medioevo trova, naturalmente, forme di svolgimento e dialettiche intrinseche abbastanza particolari, che lo diversificano talvolta notevolmente da quelli medi dell’Italia settentrionale e dell’arco alpino. Al riguardo, i fattori storico-fisici principali da tener presenti possono essere così riassunti. 1) Anzitutto, una configurazione agraria del territorio marittimo dei diversi municipio, nell’età tardoimperiale (Atria, Patavium, Altinum, Opiter gium, Concordici, Aquilea) del tutto particolare, per larga presenza di zone di recente prosciugamento nella fascia estrema della pianura quaternaria padana, di corsi d’acqua frequenti a regime semitorrentizio o di risorgiva, di canalizzazioni antropiche abbondanti – iniziate dagli Etruschi – costituenti con il sistema fluviale e marittimo una specialissima rete di comuni cazione endolitoranea, e per la disposizione sistematica degli agri municipali – diversamente dall’articolazione amministrativa odierna – tesi tutti e ciascuno, fra la cerchia collinare pedemontana e il mare, in senso omogeneo al corso di fiumi e perpendicolare alla costa; ciò che ha determinato una serie di centuriazioni “di seconda generazione”, tardo-repubblicane o protoimperiali, organiche con la fisiografia idraulico territoriale, sopra le prime maglie centuriali condotte più astrattamente dalle legioni nel corso del II secolo a.C. in coerenza con gli assi stradali o in senso ancora fedele ai dettami dell’ars etrusca. 2) Interventi politici rilevanti nel contesto sociale delle popolazioni, con deportazioni lontane e insediamenti di veterani provenienti da altre parti della penisola; nella struttura fondiaria, con probabile realizzazione di proprietà fiscali e della casa imperiale; nella configurazione giuridicoistituzionale, con creazione di almeno una prefettura nell’agro patavino marittimo; ciò ha determinato mescolamenti etnici, squilibri di assetto economico-sociale, variazioni confinarie (del resto tradizionali ab antiquo per «conten-

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tiones de agris» fra i centri paleoveneti), sovrapposizioni organizzative, tutti fenomeni che in alcuni casi si sono protratti fino all’alto Medioevo, e oltre. 3) Questo assetto ricco di disturbi e di occasioni di contrasto ha registrato, fra il V e il VII secolo, un passaggio sicuro in certi casi, probabile in altri, di grandi territori fiscali al potere regio ostrogoto, e quindi, con la prammatica sanzione giustinianea del 553 («spolia gothorum»), alle chiese episcopali, da Ravenna a Padova, da Aitino ad Aquileia-Grado, riuscendo ulteriormente frammentato e confuso dopo l’invasione longobarda; ne conseguirono, per le cattedre episcopali fuggitive (Padova in Malamocco, Alti no in Torcello, Oderzo in Cittanova Eracliana, forse Concordia in Caorle, Aquileia in Grado), perdite ma anche conservazioni di proprietà nell’Italia longobarda e poi carolingia, e compensi e più tardi smembramenti nel territorio della provincia bizantina marittima delle Venezie, mentre analoghe situazioni sono sicuramente attestate, a partire dal IX secolo, anche per le proprietà delle grandi famiglie venetiche – a cominciare da quella ducale dei Particiaci – nella terraferma padovana e trevigiana posta sotto la marca imperiale di Aquileia e Verona. 4) La sequenza degli eventi citati comportò per l’ambiente attualmente lagunare una lunga vita separata dalla cultura urbana delle città antiche, fino alla caduta e pratica scomparsa di alcune (601 Padova, 615 o 639 Altino, 639 e 667 Oderzo), e oltre nei confronti di altre (Treviso), con una più forte conservatività culturale rispetto all’entroterra sottoposto al potere longobardo e poi carolingio, come risulta dalla vicenda linguistica, nelle sue testimonianze lessicali e toponomastiche, dalla più lunga permanenza di impiego di unità di misura romane, dalla conservazione dell’arte dei «pertegadori» (mensores), di alcune tecniche costruttive, di numerosi assetti giuridici (istituzioni tribunizie, diritto privato, età). Peraltro non si deve ritenere che sia esistito isolamento civile – come conseguenza di rigida configurazione militare – fra i territori esarcali bizantini e quelli longobardi-carolingi, essendo anzi certa la continuazione di rapporti commerciali lungo le aste penetranti dei fiumi (con progressiva moltiplicazione di privilegi, di esenzioni portuali, etc), oltre che di collegamenti normali di navigazione endolitoranea, che favorirono un traffico commerciale venetico di carattere interno-continentale lungo rotte già d’uso in età imperiale. Questo quadro di fattori particolari del problema qui posto allo studio configura riassuntivamente, in buona sostanza, un panorama di continuità ambientali diacroniche particolarmente separate dai propri referenti urbani del buon tempo antico, non immune da talune forti – seppur non assolute e non permanenti – discontinuità sincroniche. Ma esso risulterebbe del tutto incompleto e travisante se non venisse introdotto un elemento assolutamente specifico e decisivo, che contraddistingue il territorio della costiera altoadriatica: la trasformazione ambientale – dovuta a fattori geologici e a fattori idraulici principalmente marini, ma anche fluviali –, che ha prodotto ulteriori condizioni di discontinuità sincronica, isolando – e per meglio dire insularizzando – la provincia bizantina e il successivo ducato veneziano. Il mutamento altomedioevale – essenzialmente dovuto a due trasgressioni marine (variazioni eustatiche) intervenute fra il IX e il X e fra l’XI e il XII secolo, in presenza di un continuo movimento bradisismico di subsidenza ancor oggi operante – ha in effetti trasformato radicalmente la

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struttura territoriale della costiera altoadriatica, da Grado a Cavarzere, e oltre. Il livello medio marino, calcolato in età protoimperiale a -2,00/-2,20 sotto lo zero odierno sulla base di innumerevoli indicatori biologici, geologici e archeologici dall’oceanografia e dall’archeologia degli ultimi quarant’anni (Fairbridge e Mörner, Hafemann e Le Gali, Degrassi e Schmiedt, etc), salì durante quelle trasgressioni rispettivamente a +0, 30 e +0, 65 e. rispetto al livello medio del mare di oggi, coprendo una pianura emersa e colonizzata che in età antica cedeva a «stagna ... inrigua æestibus marinis» (Livio, X, 2, 5) solo in prossimità dei cordoni dunosi (montones) lungo le spiagge. Solo allora cominciò a formarsi – risalendo il mare lungo gli alvei fluviali di foce, collegandosi fra loro pozze e bassure – la laguna oggi conosciuta, tuttavia in una estensione assai minore dell’attuale, se si calcola che la subsidenza opera qui con una incidenza di 10-14 cm al secolo, e che quindi ancor nel IX secolo il livello assoluto del terreno – cioè degli attuali fondali lagunari, ora mediamente compresi fra -0,50 e -1,00 sul l.m.m. –era più alto in assoluto di m 1,20-1,68 rispetto a quello di oggi. Questi movimenti, condizionati e complicati da numerosi eventi alluvionali traumatici, che più volte nel corso dei secoli disastrarono vastissimi territori, modificando anche radicalmente gli alvei di foce dell’Adige, del Brenta, del Sile-Piave, del Tagliamento – è ben nota la catastrofe del 589, che interessò tutta la penisola – determinarono non la creazione naturale delle mitiche “isole” lagunari (a chi le guardi con occhio esperto le isole di oggi appaiono fisiograficamente del tutto improbabili), ma la progressiva invivibilità per l’estensione dei modesti impaludamenti antichi della piana agraria già colonizzata, e una serie di minori e maggiori sinecismi, che dapprima concentrarono gli insediamenti lungo gli alvei fluviali, su dossi –quali il dorsum durum (l’attuale Dorsoduro), e il rivus altus (Rialto), dei quali è attestata nel IX secolo la licenza ducale all’impresa di «paludes cultandi ...et domos edificandi», e infine, nel tardo Medioevo, condussero all’abbandono finale, più o meno completo, di molti vici arcaici (Matamauco, Viculo, Ammiana, Costanziaco, la stessa Torcello, Equilo, Fines, etc.) in funzione migratoria verso la grande civitas Veneciarum, formatasi nel frattempo per progressive bonifiche attorno al sito della minore civitas Rivoalti fondata con murus negli ultimi anni del secolo IX. Isole furono invece denominati (Paolo diacono) – in quei secoli di incerto e non cosciente passaggio fra il panorama agrario primevo e quello tardomedioevale lagunare – i lidi costieri, come comprova una lettura oggettiva e storicizzata dei capitoli 27 e 28 del De administrando Imperio di Costantino VII Porfirogenito, nel quale fonti ben delimitabili di età diversa, assemblate nel X secolo, distinguono nettamente fra le località su nésoi (appunto tutti i lidi, fra Grado e Cavarzere) e quelle «en te stereà eis to méros tes Italìas», dunque in “terraferma”, fra le quali sono nominate Torcello, Murano e Rialto. Che tale sia stato il processo trasformativo dell’ambiente ora lagunare testimoniano del resto le variazioni eustatiche più recenti, ricomprese nel nostro millennio (dalla regressione dei secoli del tardo Medioevo, fino a 1,50 c. nel 1490 c. rispetto al livello massimo attuale, alla veloce trasgressione successiva che colmò quel dislivello nel corso del secolo XVI, e particolarmente nella seconda metà di esso), poiché esse sono documentate, dall’archeologia e perfino dalla cartografia: se infatti si guarda p. e. alla mirabile grandiosa mappa della laguna centromeridionale, capolavoro del

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1534 di Nicolò dal Cortivo, ci si accorge, sovrapponendovi la planimetria della laguna attuale, non solo che essa era di grande precisione fisiografica (tracciati dei canali, età), ma anche che la linea di gronda era allora più avanzata verso il mare di circa 8-9 chilometri rispetto all’attuale linea di conterminazione lagunare (tracciata a partire dal 1610), benché fosse ormai già iniziata la nuova trasgressione marina; e se s’indaga p.e. sulla storia della cripta di S. Marco, già sede fino al Cinquecento della confraternita dei Mascoli, si scopre per documenti che alle «filtrazioni» iniziate nel secolo XV seguirono nel XVI frequenti «invasioni dell’acqua» finché, nonostante un rialzo del suolo pavimentale per circa 30 cm, compiuto nel 1563, nel 1580 essa fu definitivamente abbandonata e murata, poiché l’acqua vi ripenetrava, sommergendone anche il nuovo livello. È sulla base di indagini interdisciplinari di questo tipo che si può comprendere il processo di instabile trasformazione della piana marittima della Venetia almeno a partire dall’età romana imperiale; che si giustificano le narrazioni dell’imperatore Costantino VII (altrimenti inesplicabili, tanto che il Kretschmayr le spiegò con un lapsus!); che appaiono logici i ritrovamenti recenti di caranto sul fondo lagunare (il caranto è un’argilla sovraconsolidata che può formarsi solo con l’esposizione all’asciutto durante molti secoli); che ci si spiega perché gli storici classici non abbiano mai parlato per queste zone di lacuna o di lacus, cioè di «aqua perpetua et perennis» (Varrone), ma sempre di paludes, cioè di acque stagnanti temporanee (Gallica o Venetorurn), così come fa lo stesso Strabone, il quale solo due volte – e non riferendosi specificamente all’ambiente veneziano – parla di stagni marini; che riesce infine ovvio che lo stesso vocabolo lacuna appaia per la prima volta nella Cronaca veneziana di Giovanni diacono, che scrive all’inizio dell’XI secolo, e nei documenti notarili solo – e ancora raramente – a partire dal secolo XII. D’altra parte, basterebbe l’archeologia più recente – ma anche una serie di scoperte degli ultimi due secoli, trascurate o incomprese, che mi son curato di riproporre, contestualizzandone gli elementi informativi sicuri ed essenziali – per testimoniare gli insediamenti di età imperiale e tardoantica che sono esistiti sul territorio poi progressivamente lagunarizzato. Anzitutto, il sistema viario. La via Annia e la via Popillia (di cui da L. Bosio si è voluto interpretare il tracciato come delimitazione terrafermiera delle lagune) corrono per diecine di miglia – p.e. nel tratto Altino-Livenza – a livelli di fondale “lagunare”, e cioè a -0,50, -1, 00, -1,50 sotto l’attuale livello medio marino attraverso paludi secolari di recente bonificate, come risulta dalle quote delle spalle dei ponti del I-II secolo recentemente messi alla luce presso Ceggia, presso Meolo e presso Marteggia, sì che possono essere oggi chiamate invece anch’esse come testimoni archeologici inconfutabili della condizione di terra emersa e colonizzata che per logica estensione si deve riconoscere ai fondali lagunari attuali, che sono appunto alla stessa profondità. Non mancano le rovine di robuste torri in sesquipedali – almeno due – rilevate recentemente sott’acqua lungo un segmento dell’antica via di navigazione endolitoranea, in tutto simili al magnifico resto di Baro Zavelea presso Comacchio, pubblicato da G. Uggeri: le quali – divenute poi bizantine – accompagnavano fin dall’età imperiale il percorso di quella che propongo ora di chiamare * fossa Popilliola, in continuazione forse di una “fossa Popillia – Poveglia – (segmenti cioè consecutivi alla se-

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quenza delle fosse Augusta, Flavia, e Clodia, che collegavano Ravenna con Altino e Aquileia) sulla base di oltre una diecina di inedite citazioni idronomastiche documentali medioevali, che ho raccolto, riferite a un arco di località compreso fra Burano, Jesolo e Caorle, per oltre 70 chilometri. A questi monumenti della viabilità stradale e acquea del territorio antico si aggiungono manufatti di ogni genere relativi all’insediamento e alla vita, dalle profonde palificate e altre strutture lignee ritrovate in Torcello, a quelli messi alla luce in città nell’ambito dell’Arsenale (1824), e negli scavi recenti per la creazione del rio Nuovo (1932) e per la costruzione del palazzo dello sport (1973), e finalmente in scavi scientifici in corso sotto S. Lorenzo e a S. Pietro di Castello; dalle scalette di riva sommerse, ciascuna con cinque scalini petrinei, viste e rilevate con altre costruzioni nel 1753 e nel 1811 dal Temanza e dallo Zendrini presso il monastero di S. Secondo e quello di S. Giorgio Maggiore, alle fondazioni petrinee in blocchi colossali o in grandi laterizi documentati sotto le chiese di S. Geminiano (1807), di S. Maria delle Vergini (1822), di S. Nicolò dei Mendicoli (1972), di S. Giacomo in Paludo (ancora visibile); dai pavimenti rustici sommersi, in sesquipedali, messi alla luce da E. Canal, in Sacca le Case e sotto S. Lorenzo di Ammiana (il cosiddetto “sito 84” reso noto nella scorsa primavera), ai pavimenti laterizi e musivi visti, misurati, attestati dal Temanza nelle paludi del Bondante (1756), dal Temanza ancora e dal Corner sotto la chiesa dei SS. Vito e Modesto (1757), dal Bullo e dal Bellemo in una peschiera di Lova nel 1880, ove oggi emergono a diecine i bronzetti di una stipe paleoveneta; dagli strati archeologici sovrapposti visti dall’Urbani de Gheltof nel 1874-75 sotto il fondaco dei Turchi, e dal Casoni nella vigna patriarcale di S. Pietro di Castello (1843), ai filari di anfore sommerse del I secolo, infisse per confinazione, incontrati da E. Canal sotto i fanghi di fondale nella laguna torcellana, alle arginature con antico materiale di spoglio e ai tronchi cavi con foro a valvola per il trasferimento di acqua dolce che il medesimo Canal ha rilevato o raccolto in varie località della laguna veneta settentrionale; infine ai numerosi pozzi antichi, anche di età repubblicana, composti di pozzali e sesquipedali, recentemente ritrovati a livelli anche più profondi nel territorio dell’antica Cittanova (che si voleva ubicata in una laguna) ma presenti – almeno due, rilevati nell’ultimo secolo, fra i cinque denunciati dallo storico B. Giustinian nel 1492 – sotto la basilica di S. Marco: pozzi, s’intenda, di falda, non d’acqua piovana come quelli assai più recenti presenti a centinaia in Venezia. Questo panorama significativo (e qui soltanto tratteggiato nelle evidenze in situ più rilevanti relative a una diacronia che investe tutta l’età romana e i primi secoli del Medioevo) configura per sé – nella tipologia dei reperti come nella qualificazione delle connessioni anche lontane, nella rispondenza dei livelli (fra -3,00 e -1,00 sotto il l.m.m.) alle datazioni più probabili (in casi recenti misurate a mia cura col C14) come nella coerenza delle stratigrafie – una continuità ostinata di cultura e di colture, spesso travagliata da eventi catastrofici, che si prolungò almeno per tutto il primo millennio, prima che gli sconvolgimenti ambientali determinassero le guerre territoriali fra poveri dell’età più alta e le migrazioni massicce dei vicani scopertisi periferici verso la nuova civitas nell’età più bassa, e prima che coraggio imprenditoriale e fortune marittime spostassero gli orizzonti operativi e le mete dello scambio verso gli orienti costantinopolitani e saraceni,

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donde il valore aggiunto del denaro investito nelle «mude» riusciva più volte superiore a quello conseguibile risalendo i fiumi della Padania con un carico di sale. La stessa fondamentale base economica della produzione salinaria, che Cassiodoro aveva celebrato nella sua lettera ai tribuni marittimi, scrivendo che «in salinis ... tota contentio est», si restrinse fra l’XI e il XIII secolo nell’area chioggiotta, rimanendo altrove abbandonati e incolti i fundamenta salinarum, o trasformati in molendina e in piscarie, mentre i ricordati mutamenti delle condizioni ambientali divenivano fattori decisivi di trasformazione economica e infine dell’ultimo sinecismo verso Venezia; precedentemente le guerre del sale avevano portato p. e. due volte, nell’884 e nel 932, alla distruzione di Comacchio per mano dei Venetici uniti, ma non erano mancate fra loro le guerre intestine: di almeno una contentio de agris fu vittima la civitas Heracliana dei possessores migrati da Opitergium in territorio altinate abitato dagli Equilensi (737), e furono numerosi gli scontri fra poveri per le scarse peschiere interne, come quelli nel Tragulo (Dragojesolo) fra i medesimi Equilensi, tributari del vescovo, e gli homines di Lio Mazor (XI secolo). Le guerre civili tra i populi successero, in effetti, all’indebolimento e alla scomparsa del tallone militare bizantino, così come le guerre di confine fra i centri paleoveneti erano cessate, una diecina di secoli prima, sotto l’estendersi dell’imperio di Roma sulla Cisalpina. La continuità storica della vita nel territorio – considerato uno dei pochi per i quali si affacci pur tardivamente (con Venezia) il problema delle “città di fondazione”, il solo per il quale si ponga una questione di inesorabile trasformazione ambientale – può emergere produttivamente a livello di nuovi studi investendo profondamente la favola delle isole e la teoria “nazionale” della libertà romana inviolata (pur consentendone parziali recuperi in nuova ottica di lettura), a condizione che il problema venga affrontato, “a tutto campo”, con grande ampiezza interdisciplinare, e sulla base di capacità interpretative non soltanto umanistiche. Il mito, compattato nel XII-XIII secolo sulla base di ingredienti di cronache arcaiche, le quali tradiscono spesso elementi di confutazione delle necessità politiche che fondarono le posteriori versioni patriottiche della storia nazionale dei Venetici, può e deve essere rivisitato e trasformato, su basi fisico-archeologiche, in una sequenza organica di microstorie locali aperte alle contigue e talvolta analoghe microstorie dei populi vicini, in quel torno di secoli in cui fra le une e le altre si frapposero progressivamente le aquee salsee: mentre una civitas Veneciarum ancora non era. WLADIMIRO DORIGO Università di Venezia, dicembre 1991 Bibliografia Per la bibliografia anteriore al 1983, come pure per le fonti edite e inedite utilizzabili nell’ambito dei problemi qui affrontati, rinvio alle amplissime indicazioni contenute in W. D ORIGO, Venezia Origini, II, Milano 1983, pp. 697-735. Una contestazione di quanto anche qui proposto sugli aspetti fisico-ambientali si legge nella recensione di F. FARINELLI , A proposito di una recente opera sull’evoluzione morfologica della laguna veneta e delle origini di Venezia, «Rivista Geografica Italiana», LXXXX, 1984, n. 3, pp. 429-437; risposta e controdeduzioni di chi scrive in «Venezia Arti», 2, 1988, pp. 205-206. La rivisitazione delle fonti classiche operata da L. Bosio in polemica con le tesi di Venezia Origini, peraltro senza che l’opera fosse citata (Note per una propedeutica allo studio storico della laguna veneta in

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età romana, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», CXLII [1983-84], pp. 95-126), rivela solo l’inadeguatezza del metodo e l’insufficienza documentale delle testimonianze disponibili, oltre che infondate generalizzazioni e forzature interpretative funzionali a tesi tradizionali precostituite. Anche la breve monografia curata dallo stesso autore, Le origini di Venezia («Archeo», n. 25, marzo 1987), prescinde completamente dai materiali e dalle evidenze di Venezia Origini, pur finalmente citata in bibliografia. Estensioni (provvisorie) al territorio fra Piave e Livenza dell’indagine più specificamente relativa al territorio lagunare veneziano condotta per Venezia Origini si trovano in: W. DORIGO, recensione a P.L. Tozzi-M. HARARI, Eraclea Veneta. Immagine di una città sepolta, Parma 1984, «Venezia Arti», 2, 1988, pp. 188-189, e in: W. DORIGO, Le conclusioni della ricerca storico-archeologica sul territorio fra Sile e Livenza, «Venezia Arti», 4, 1990, pp. 196-200. Un volume finale va ora in stampa. Altre indagini connesse al tema, relative in particolare alla struttura militare della provincia in età esarcale, in: W. DORIGO, Sull’organizzazione difensiva bizantino-venetica nei secoli VI-VIII, in La Venetia dall’antichità all’alto medioevo («Acta Encyclopaedica», 10), Roma 1988, pp. 111-120, e in: W. DORIGO, Bolle plumbee bizantine nella Venezia esarcale, in Studi in memoria di Giuseppe Bovini, Ravenna 1989, I, pp. 223-236. Per la comprensione dei motivi legislativo-amministrativi veneziani in materia di proprietà pubblica sulle aree lagunari è utile: W. DORIGO, recensione a Codex Publicorum (Codice del Piovego), 1, cur. B. Lanfranchi Strina, Venezia 1985, «Venezia Arti», 1, 1987, pp. 104-105. Sulla recente scoperta del palinsesto romano-medioevale di S. Lorenzo di Ammiana si vedano principalmente gli articoli in «La Nuova Venezia», 2 aprile 1991, pp. 26-27, «Corriere della Sera», 4 aprile 1991, p. 10, «il Manifesto», 14 aprile 1991, pp. 36-37, «la Repubblica (Il Venerdì)», 19 aprile 1991, pp. 36-45. Secondo quanto emerge dal primo, la notizia dello scavo nel “sito 84” non è stata rivelata da chi scrive, come ha dichiarato erroneamente ad «Archeo» (n. 76, giugno 1991, pp. 20-21) B.M. Scarfì soprintendente archeologica per il Veneto. Una precisazione è stata inviata, inutilmente, alla direzione di «Archeo».

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Cittanova-Eraclia ed il suo territorio

I dati generali concernenti le ricerche1 effettuate tra il 1987 ed il 1990 nell’area dell’insediamento altomedievale di Cittanova-Eraclia sono stati già largamente resi noti (BLAKE et alii 1988; BORGHERO-MARINIG 1989; SALVATORI 1989, 1990) mentre ulteriori approfondimenti, a carattere più analitico, sono contenuti in lavori di prossima pubblicazione (ARDIZZON 1992; FAVERO-SALVATORI s.d.); infine uno studio sistematico dei materiali ceramici degli scavi del 1988 e del 1990 è attualmente in corso. Non ritenendo di dover ripercorrere qui la storia delle ricerche e delle dominanti, anche negative, delle stesse, peraltro in altra sede delineata (SALVATORI 1990), veniamo subito al tema del seminario concedendoci solo una breve, ma necessaria, premessa concernente le modalità con cui il lavoro è stato eseguito. La ricerca è stata condotta per fasi ed in primo luogo è stato privilegiato lo studio geomorfologico per una migliore comprensione delle vicende del paesaggio che oggi si presenta come una piatta campagna, apparentemente priva di rilievi morfologici. L’attuale assetto è essenzialmente il prodotto delle grandi bonifiche completate intorno agli anni venti di questo secolo, anche se anticipate da più modeste attività di bonifica iniziate nel secolo scorso (FASSETTA 1977). Un massiccio intervento di livellamento, che ha causato i danni più consistenti ai resti archeologici in tutto il comprensorio, è poi intervenuto negli anni ‘60. Le nostre indagini sono iniziate, almeno parzialmente, alla vigilia di un ultimo radicale intervento costituito dall’impianto di nuove metodologie di drenaggio che producono una ancor più radicale trasformazione del territorio. Queste indagini, condotte e coordinate dal Dr. Vito Favero del CNRVenezia, attraverso una serie di carotaggi a carota continua e a tracciati geoelettrici, georadar e magnetometrici, hanno prodotto una serie importante di dati sulla storia evolutiva del territorio anche ben oltre i limiti cronologici del materiale archeologico presente nell’area (BLAKE et alii 1988; FAVERO in SALVATORI 1989; FAVERO-SALVATORI s.d.). I dati relativi alle sequenze più recenti, dall’età del Bronzo Recente all’Altomedioevo sono stati interfacciati con le informazioni ricavabili dallo studio dei piani quotati della zona relativi al momento iniziale della bonifica rilevati nel 1922 dal Consorzio di Bonifica Basso Piave. L’insieme di questi rilevamenti ha permesso di definire con buona approssimazione l’idrografia e la morfologia della zona in età romana e altomedievale, fornendo la base necessaria per la comprensione dei fatti

1 II progetto, finanziato dalla Regione Veneto nell’ambito della Legge Regionale per l’Archeologia, è stato condotto in collaborazione tra la Soprintendenza Archeologica del Veneto e la Soprintendenza per i Beni Ambientali ed Architettonici del Veneto Orientale, sotto la direzione dello scrivente in stretta collaborazione con il collega Prof. Hugo Blake.

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archeologici evidenziati durante la seconda fase della ricerca. La storia evolutiva dell’area può essere così sintetizzata per grandi linee: «II substrato pleistocenico ed eventuali sedimenti riferibili all’Olocene antico non sono stati riconosciuti con sicurezza, benché a questi periodi siano probabilmente attribuibili le sabbie fluviali, gli aggregati carbonatici e i limi giallo-rossastri, provenienti dal rimaneggiamento di suoli pedogenizzati, incontrati a circa 5 m sotto il livello del mare. Il primo complesso sedimentario, riferibile al periodo Atlantico, sulla base di correlazioni con altre zone della fascia costiera, è formato da sedimenti limoso-argillosi, a volte ricchi di contenuto organico di origine vegetale; essi testimoniano l’affermarsi di ambienti palustri al margine di una laguna. Lembi di sedimenti lagunari, compresi entro questo complesso palustre, permettono di riconoscere un antico livello del mare poco più di quattro metri sotto quello odierno. Un secondo complesso sedimentario, individuato tra 3.35-2.60 m di profondità sotto il livello mare attuale indica l’espandersi di acque salmastre e l’affermarsi di condizioni lagunari in tutta l’area indagata; anche qui la presenza di barene permette di riconoscere il livello del mare, circa 2.60-3.00 m sotto il livello odierno, in un periodo certamente precedente l’età romana. Il terzo complesso sedimentario è formato dalle sabbie fluviali che crearono il dosso sopra il quale sono stati individuati lembi della paleosuperficie frequentata a partire dal II sec. a. C. Ai lati del dosso limi, argille e torbe testimoniano la presenza, durante la formazione del dosso stesso, di ambienti umidi, di paludi che circondavano le aree emerse e gli ambienti favorevoli agli insediamenti permanenti. Il quarto complesso sedimentario, formato da limi lagunari, inizia a formarsi quando nella zona cessa l’afflusso di acque fluviali e ricompaiono le acque salmastre; il graduale innalzamento del livello del mare provocò poi la sommersione di gran parte delle aree del dosso precedentemente emerse. La fase trasgressiva mostra i suoi effetti più evidenti in età medievale e moderna, ma non vi è dubbio che il fenomeno si sviluppò in un arco di tempo notevolmente più lungo: già in epoca romana, quando nella zona era ormai cessata l’attività fluviale di costruzione del dosso, nelle aree più depresse erano ricomparse le acque salmastre e con esse la laguna». (FAVERO-SALVATORI s.d.)

La seconda fase delle ricerche è stata sviluppata su due fronti correlati: 1) Raccolte di superficie: a) sistematiche su linee affiancate, regolarmente spaziate, e con punti di raccolta ogni 10 metri; b) sistematiche nelle aree di maggiore concentrazione di materiale; e) selettive nel territorio esterno a quello dell’area specifica oggetto di analisi. 2) Pulizia e rilevamento delle sezioni esposte lungo le scoline che marginavano i campi. Alcune di queste sezioni sono state integralmente ripulite; il resto delle scoline è stato indagato e rilevato per finestre campione aperte ad intervalli regolari. In totale quasi un Km lineare di sezioni è stato esposto e rilevato. La terza fase delle ricerche è consistita in operazioni di scavo in aree specifiche atte a confermare o meno i risultati acquisiti durante i due precedenti momenti. Ai fini della discussione al centro di questo seminario riassumiamo solo alcuni dei risultati ottenuti: in primo luogo abbiamo potuto verificare che la zona a sud del canale Brian è sempre stata invasa dalle acque, dolci prima, salmastre poi, eccetto gli spalti sabbiosi dei fiumi (il Piave soprattutto nelle sue innumerevoli divagazioni e rami secondari). Su questi spalti sabbiosi si trovano i resti della frequentazione antropica di intensità e dimensioni variabili a seconda dei periodi storici esaminati. Il quadro generale che se ne ricava è di estremo interesse perché mo-

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stra una presenza di tipo capillare, intensivo, di piccoli insediamenti a carattere agricolo tra II-I sec. a.C. e II d.C, regolarmente spaziati tra loro e disposti lungo gli spalti fluviali (Fig. 1). Ne sono stati contati almeno 6 lungo gli spalti dell’attuale scolo Piveran (che scorre nell’ampio alveo di una rotta di Piave che può essere datata tra la fine del Bronzo Recente e la seconda età del Ferro) e lungo il Grassaga in cui il primo confluisce. Altri 6 sono stati individuati sugli spalti fluviali oltre la confluenza del Grassaga e del Piavon e lungo la linea degli spalti del canale interrato detto di Cittanova, un’antica asta fluviale che dall’attuale Brian punta a sud. Le dimensioni delle aree di dispersione dei materiali archeologici sono relativamente limitate e sembrano indicare piccole unità abitative a carattere agricolo che sfruttavano i terreni sabbiosi degli spalti probabilmente per coltivazioni specializzate, come sembrano suggerire alcuni consistenti ritrovamenti di vitis vinifera nei livelli più profondi delle antiche scoline o canali di sgrondo intercettate lungo le sezioni aperte sul fronte delle scoline “attuali”2 . Successivamente si nota una rarefazione sensibilissima delle tracce insediamentali tra III e V/VI secolo (Fig. 2). Di quet’epoca rimangono tracce solo sui dossi più elevati, in concomitanza con episodi rilevanti di ingressione marina che riempie progressivamente tutte le depressioni artificiali (antiche scoline) come pure l’alveo del canale principale, ora interrato, che attraversa l’area archeologica di Cittanova. Dal VI/VII secolo fino almeno all’VIII/IX l’insediamento si dispone unicamente sul punto di maggiore rilievo morfologico costituito dal dosso di Cittanova (Fig. 3). L’area investita dalla nostra ricerca, che peraltro aveva scopi e obiettivi contingenti di ben altra natura, non è certo di per se stessa un campione sufficientemente rappresentativo. Vale a dire che il dato da noi esposto non può essere assunto come indicativo delle realtà economiche in atto né delle dinamiche del popolamento nella regione. È peraltro certo che l’assetto demografico e le variazioni dello stesso in un territorio possono essere il risultato dell’azione interattiva di più variabili, come è pur altrettanto certo che le variabili in gioco non possono essere definite, se non come labili ipotesi di lavoro, qualora non si disponga di una fotografia il più possibile completa e dettagliata delle presenze antiche nel territorio all’interno di una griglia fisica (geomorfologica e idrografica) altrettanto precisa. Con questo vogliamo significare, prendendo spunto dalla nostra esperienza, che la ricerca, nell’ambito di simili problematiche necessita, da parte archeologica, della presa di coscienza dell’assoluta necessità di una più ampia e sistematica utilizzazione delle metodologie ricognitive più aggiornate in una prospettiva allargata ad ampi comprensori territoriali. Risposte precise a domande legate ai processi economici e a quelli demografici nel loro spessore diacronico richiedono indagini ad ampio spettro sul territorio e l’uso di metodi di raccolta e di circolazione/divulgazione dei dati che permettano una loro reale confrontabilità. In relazione a queste auspicabili linee di sviluppo della ricerca archeologica territoriale ci sembra di poter indicare due strade parallele e parimenti urgenti:

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Mettiamo le virgolette perché oggi le scoline dopo l’intervento di drenaggio sotterraneo sono quasi ovunque sparite e questo nonostante fosse in itinere Fatto di vincolo paesaggistico.

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Figg. 1-3 – Siti archeologici nella zona di Cittanova, Siti di età romana: triangoli pieni. Siti di età altomedievale: cerchi pieni. La morfologia è evidenziata dalle curve di livello -0, 5 (punteggiata), 0 m (continua), +1, +2, +3 (a tratteggio) e +4 (linea a tratteggio e punti). Località: 1-S. Donà di Piave (presso la traccia del fiume Piave); 2-Ceggia; 3-Torre di Mosto (presso la traccia del fiume Livenza); 4-Rotta; 5-Staffolo: 6-Stretti; 7-Ca’ Turcata. Canali (evidenziati dalla freccia): G-Grassaga; B-Bidoggia; P-Piavon; C-Casaratta; R-Ramo; T-C. Principale Terzo. Le frecce più grosse indicano le principali direzioni di apporti fluviali antichi.

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A) L’organizzazione di ricognizioni regionali associata alla rivisitazione dei dati attualmente disponibili di distribuzione territoriale dei siti archeologici. Informazioni sulle emergenze archeologiche sono già disponibili e spesso in numero considerevole negli archivi delle Soprintendenze Archeologiche nelle forme più svariate e a volte con sensibili sbilanciamenti. In molti casi grandi quantità di informazioni, anche se spesso non complete, ovvero prive di quei dati basilari che le rendono atte ad una utilizzazione diretta per studi a sfondo economico e/o demografico, sono in possesso di gruppi archeologici spontanei la cui attività non sempre è coordinata e metodologicamente diretta dagli organi istituzionali. Il problema dell’utilizzazione dei gruppi spontanei, in una sorta di consociazione all’opera di ricerca e di tutela, è ancora variamente interpretato e vissuto da parte degli operatori istituzionali, cosicché pure in aree globalmente sottoposte al controllo di un medesimo ente si possono osservare forti disparità nelle quantità di notizie disponibili sulla distribuzione dei siti archeologici. Ciò, almeno in parte, sembra dovuto a diverse sensibilità individuali nei confronti dell’apporto che i dati di ricognizione sistematica possono offrire ad un più complesso approccio ai problemi della storia processuale del territorio. La necessità di accelerare e di estendere operazioni di questo tipo, con la collaborazione di tutte le forze disponibili, è dettata non solo da considerazioni di ordine scientifico, ma e ancor più dal fatto che una porzione sempre più vasta del territorio agrario nazionale sta subendo un processo di trasformazione e di degrado (archeologico soprattutto, ma anche paesaggistico) dovuto alla utilizzazione di nuove tecniche di drenaggio che comportano lo scorticamento del suolo agrario, il livellamento, guidato a laser, del sottosuolo e la posa in opera di tubazioni di drenaggio. Queste operazioni portano alla scomparsa quasi totale di molti siti archeologici. 97

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B) L’organizzazione di banche dati centralizzate, aperte a tutti i ricercatori del settore con la conseguente organizzazione e strutturazione della tipologia dei dati e dei lessici crono-culturali e formali. Grandi quantità di informazioni infatti risiedono oggi in archivi cartacei dispersi e di non facile consultazione e, come si è detto, molto spesso raccolti in modo inadeguato ad un a loro utilizzazione diretta e proficua. L’esigenza della normalizzazione dei dati è particolarmente sentita in un settore, come quello dei beni culturali, che si avvia, di necessità, ad una più larga utilizzazione degli strumenti informatici che permettono non solo la gestione di grandi masse di dati, ma anche una più veloce e possibilmente più allargata trasmissione e condivisione degli stessi. In altre parole quello che proponiamo è la definizione di un progetto complessivo per il futuro delle ricerche almeno in questo ambito di problemi la cui soluzione sembra particolarmente urgente e per altro verso assolutamente improrogabile ai fini dell’indagine storica. SANDRO SALVATORI* Bibliografia V. ARDIZZON, 1992, Recipienti in pietra oliare da Civitas Nova Eracliana. Indagini archeologiche 1987-1988-1990, «QdAV» VIII (in stampa). H. BLAKE, A. BONDESAN, V. FAVERO, E. FINZI, S. SALVATORI, 1988, Cittanova-Heraclia 1987: risultati preliminari delle indagini geomorfologiche e paleogeografiche, «QdAV» IV: 11235. I. BORGHERO, T. MARINIG, 1989, Prime valutazioni cronologico-funzionali sulla presenza romana nell’area di Cittanova, Venezia Arti 3, pp. 148-52. L. FASSETTA, 1977, La bonifica nel basso piave, Venezia. V. FAVERO, S. SALVATORI, s.d., Le indagini archeologiche a Civitas Nova: appunti per una valutazione della distribuzione antropica nell’area veneta orientale, in Tipologia di insediamento e distribuzione antropica nell’area veneto-istriana dalla preistoria all’Altomedioevo, Seminario di Studio, Asolo-Treviso 3-5 Novembre 1989 (in stampa). S. SALVATORI, 1989, (a cura di), Ricerche archeologiche a Cittanova (Eraclia) 1987-1988, «QdAV» V: 77-114. S. SALVATORI, 1990, Civitas Nova Eracliana: risultati delle campagne 1987-1988 e prospettive generali, «Ant. Altoadriatiche», XXXVI, pp. 299-309.

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Soprintendenza per i Beni Ambientali e Architettonici del Veneto Orientale -

Venezia.

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Elementi romani e germani nel territorio alpino tra Adige e Sarca: aspetti e continuità dell’insediamento

1.1.Già nel 1 98 4 h o avu t o mo d o d i occup armi, as s ieme a G. Ciu rlett i , d el l’insediamento nel territorio trentino in epoca postclassica. Allora venne dato alla stampa un lavoro avente come principale oggetto le acquisizioni archeolo gi ch e t renti ne d i età tard oanti ca e al to medievale co n il di chi arat o s co po di p res en t are al cun e n o vi t à, no n n u mero s e i n v ero, t al i d a agg i o rn are l o s t at o del le in dagin i1. Ogg i inv ece, direttamente s ollecitato da V. Bierbrau er, cui s i d e v e u n p ro p o s i t i v o c o n t ri b u t o 2 , e d a al t r i a n a l o g h i i n t e rv en t i l e g at i a l i m i trofi territori3, considero un’area specifica, arealmente contenuta ma estremament e vit al e p er ritrov ament i (Fi g. 1). È qu es ta la fascia co rrisp on dente all’at tu ale Tren ti no meri dio nale, t ra i co nt raffo rt i atesi ni dell’al to piano di As iago -Less ini a q uel li ch e so vrast ano l ’ a r e a b e n a c e n s e a s e t t e n t r i o n e d e l l a g o d i Ga r d a . P o c o p i ù d i 8 6 4 k m q . molto diversificati per morfologia orografica, in cui si alternano valli aperte, caratterizzate al piede da versanti conoidali e bassi rilievi terrazzati (Vallagarina e Bass o Sarca), contrappo ste ad alt re in terne e p iù mo ntane, alt imet r i c a m e n t e d i s t r i b u i t e a l d i s o p ra d e i 5 0 0 m et r i e s p e s s o d i n o n f a c i l e a c ce s s o p er l a ri p i d i t à d e i v er s a n t i r o cc i o s i ch e l e s e p a ran o d ai f o n d o v al l e. I n più casi , amp ie p orzio ni di ques te ul time risu ltano interessate s oltan to do po l ’ XI s e c o l o ( e p e r l a p r i m a v o l t a ) d a e p i s o d i s t a n z i a l i p r e o r d i n a t i , e f f e t t o della colonizzazione agraria voluta dall’autorità vescovile e dai suoi ministeriales4. Dall’analisi è stato escluso il triangolo geografico della Val di Ledro per il q uale – relativ ament e al perio do tardoant ico e alt omedi evale – d ispon i amo d i u n ’ es au s t i v o ed ag g i o rn at o cat as t o 5 . 1.2.Vi st o in termi ni g eog rafici e pol it ici i l Trent ino meridi on ale rap present a , n e l s u o i n s i e m e , u n ’ a r e a d i c o n f i n e : c o n f i n e f i s i c o t r a Al p i e P i a n u r a , c o n f i n e p o l i t i co an t i c o c o n l e s u e t er re ch e s i a l t e rn an o t r a l ’ o rg a n i z z a z i o n e

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CAVADA-CIURLETTI 1986. BIERBRAUER 1991b. 3 Per l’area altoatesina rico rdo g li scritti di NOTHDURFT ER 198 9 e NOTHDURFT ER 199 1, per quella lombardo-bresciana BROGIOLO 1980; BROGIOLO 1983; BROGIOLO 1991b; LA RocCAHUDSON 19 87 ; per il v eron ese e l’area veneta LA ROCCA 19 89 . 4 In tendo riferirm i alle massicce dedu zion i di ron catores ted eschi, e n on, incaricati del recu p ero ag r ario d i terre sin o ad al lo ra sfru ttate so ltan to a liv ello d i p asco lo o d ’in co lto . SETTIA 1986. 5 D AL R I L O-PI VA 1 98 7 , pp . 2 7 8-28 3 . In tem a d i co n tin uità dell’in sed iam en to riten g o che qu esta v alle rap presenti, nel q u ad ro del p op o lam en to in età classica e p ostclassica d ell’area b enacen se, u n a so rta d i en cla ve a se stante segn ata da fo rme p o lin u cleate d i p iccoli cen tri, a b assa p ression e d emo grafica e p oco influen zati (e so lo in term ini tecn o lo g ici) dai p r o ces si a ltro v e i n at to , al p ari d i q u an t o o s serv ato su l co n t ig u o te r rito rio d i T r em o s in e (BROGIOLO 1980, pp. 267-268; BROGIOLO 1991b, pp. 143-145), ma fenomeno presente anche n elle G iu d icarie esteriori. 2

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m u n i c i p a l e r o m a n a d i Ve r o n a e B r e s c i a e , d i s e g u i t o , t r a i p o s s e d i m e n t i d e l l e r i s p e t t i v e d i o ce s i . E i n o l t r e u n ’a r e a s o s t a n zi a l m e n t e r u ra l e , p r i v a d i en ti tà urbane prop riamente i nt ese, carat terizzata dall a complement ari et à d i set tori ped ologi camen te assai diversi co n acq uitrini, arati vi, p ascol i, bos chi, parti improduttive che dal fondovalle, sede privilegiata dall’antropizzazione, rag g iu ng o no l’al t a mon tag na. Elemen t i tu t ti ch e v an n o co n t e m p l at i q u an d o s i a f f r o n t a i l t e m a d e l p o p o l a m e n t o u m an o p o i c h é , n e l l a l o r o v ar i a b i l i t à , h a n n o co n d i z i o n a t o e t u t t ’ o r a co nd i zi o nan o , la fo rma e l ’u b i cazi o n e del l e sed i abi t at e e d ei s i s t emi d i c o l l e g a m en t o . I n d i zi d e l l a v o c a zi o n e r u ra l e s o n o , g i à n el s e co l o V II I, l a ci t a z i o n e i n Va l l a g a r i n a e n e l l ’ a r e a g a r d e s a n a d i s p a r s e c u r t e s e d i p o d e r i l e g a t i a l l e g r an d i p ro p ri e t à p ad an e, r eg i a e m o n as t i ca 6 : d a S . Co l o mb an o d i Bo b b i o a S. Giul ia di Bresci a, da S. Zen o di Vero na a S. Mari a i n Org an o i n u n c o n t i n u u m i n s e d i at i v o , e re d e d i p r e ce d en t i re a l t à e d a ff er m at o d a t u t t i co l o r o c h e , p e r m o t i v i d i v e r s i , h a n n o a v u t o m o d o d i o c c u p a r s i d e l l a zo n a . U n a co n v i n z i o n e m at u ra t a s o p ra t t u t t o s u l l a b as e d el l e fo n t i s c ri t t e . D i v o l t a i n v o l t a s i s o n o i n d i ca t e l e m a n s i o n e s e l e m u t a t i o n e s d eg l i i t i n er ar i a n t i c h i 7 , i c e n t r i d i f o n d o v a l l e e g l i i n s e d i a m e n t i d ’ a l t u r a res t i t u i t i d al l e fon ti al tomed ievali8, l ’ubicazion e to pografica dei p oderi mon astici e v esco vili, cui s’è già fatto menzione, nonché la residenza degli homines liberi che co mp ai ono come t es timon i i n di plo mi e pl aciti anteri ori al l’XI seco lo9. Si t r a t t a d i u n q u a d r o p r e t t a m e n t e t o p o n o m a s t i c o n e l q u a l e i r i t r ov a m e n t i 6

S E T T I A 1 9 8 5 ; A N DR E OL L I 1 9 8 7 . S u lla V ero n a-T rid en tum : V enn u m , S a rn is (T a b. P eun t. III, 3 ) e A d P a la tiu m (Itin . A n to n in i). 8 Vo la en es, Brem to nicum , Sa rd is (Hist. Lan g. III, 3 0-3 1) no nché un a non m eg lio lo calizzata civita s Ligeris (An . Ra v. IV , 30 ). 9 G E R O L A 1 9 3 1 . S i ri c o rd an o i t o p o n i m i A l a ( A l a) , A rq n ( — ) , V i n i o l es e P ra n t i o i n Sum molacu (?), Vig nole e Pranzo nel B asso Sarca), Asianae villae (da ricercare nella zo na di 7

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arch eo log ici i nt erven go no so lt ant o in mo do marg inale a co nv ali dare l’ ip otes i ci rca l ’es at t a u b i c azi o n e d i t al u n i n u cl ei ab i t a t i i n d i cat i d a l l e f o n t i , s co m p ars i o men o ; d o cu men t i e t o p o n i mi c h e res t an o co mu n q u e g l i el emen t i p o r t an t i d el d i s c o rs o 1 0 . 2.1.Pe r i l p er i o d o ch e i n t erco rre t ra l a t ard a an t i ch i t à e l ’al t o me d i o e v o l a s i t u az i o n e d eg l i s t u d i a r ch e o l o g i ci n o n è d i s s i m i l e d a q u el l a ch e s i r e g i s t r a i n a l t r e r e g i o n i i t a l i a n e : a s s e n za d i u n c a t al o g o d e i c o n t e s t i e d e i m a t e r i a l i r i n v e n u t i , p r e s e n z a d i r e p er t i “ au t o c t o n i ” n o n f a c i l i d a d a t a r e p e r l ’ a s s e n z a d i co mp l es s i chi u s i co rret tamen t e s cav at i e do cu ment at i 1 1 . Mo l t i mat eri al i s o no i rreg o l armen t e di s t ri bu i t i in co l lezi o n i mu seal i , n o n p ri v e d i i n te r p o l a z i o n i , l e q u a l i h a n n o b i s o g n o d i u n ’ a t t e n t a r i c o s t r u z i o n e f i l o l o g i c a p e r d e fi n i r e c o n e s a t t e z za i l co n t e s t o e l a l o c a l i t à d i p r o v en i e n z a c h e r i s u l t a n o es s e r e l a c o n d i t i o s i n e q u a n o n p e r r i c o s t r u i r e i l q u a d r o s t or i c o e l e m od a l i t à d e l p o p o l a m e n t o . Le “ c a r t e a r c h e o l o g i c h e ” , s e p p u r at t en t e n el l a men zio n e dei ri trov amen ti , s pes so s o no priv e, a mon t e, di u n a d ocu ment azi o ne d ’ ar ch i v i o o p p u re i d at i i n es s e s o mm ar i a me n t e c o n d e n s a t i , d e r i v a n o d a m i n u t e e d i t e i n r i v i s t e l o c a l i o i n an co r p i ù i n t r o v ab i l i p u b b l i c a zi o n i d i s t o r i a p a t r i a. Per un ’es at t a val ut azi on e d ei dat i d is po n ib i li ri ten go q uan to mai s i gn ificati vo os s ervare come i l 4 4% d ei rin ven iment i d el Tren t in o meri di o nale, c h e h a n n o r e s t i t u i t o o g g e t t i c ro n o l o g i ca m en t e co m p r e s i t r a l ’e t à ro m a n a e l’altomedioevo, risalgono agli anni tra il 1851 ed il 1918 (Fig. 2). Essi risult an o t ot alment e p ri v i di un a d ocu men tazi o ne og get ti v a, fatt a s al v a l a parzi al e co ns erv azi o n e dei repert i mo b i l i . So l o i l 2 8 % d el to t al e è p o s teri o re agl i ann i 70, percentu ale che si ridu ce u lteri ormen te al 20%, se si valuta la pres en za di un a, s epp ur mi ni ma, d ocument azion e di scav o (ri lievi , fot og raf i e, n o t e, a p p u n t i ) . N e s s u n o d e i d e p o s i t i r i n v e n u t i è s t at o i n d a g a t o t o t a l m en t e e s i s t em at i ca m en t e e, n e l l a m a g g i o r an z a d e i c a s i , l a s i t u a z i o n e a r c h e o l o g i c a a p p a r v e n o n p o c o c o m p ro m e s s a d a a z i o n i e s o g e n e , s p e s s o l e s t es s e ch e n e h an n o d e t erm i n at o l a s co p ert a. 2.2.Se q ueste i nfo rmazion i ris ul tano ut ili p er la l ett ura del t errit orio, altret t an t o n o n l o s o n o p er ri s o l v ere i mo l t i i n t erro g at i v i ch e i l t ema d el l a co n t i n u i t à p o n e. I n o g n i c as o s i t r at t a d e g l i u n i c i e l e me n t i co n cr et i d i c u i s i di sp on e p er co rreg gere, o megl io in teg rare, t al une con sid erazi on i cir ca l’org an i zzazi on e d el l ’i n sedi amen to t ard oant i co e alt o medi eval e. Seb b en e fin dal I s eco lo a.C. tu t to il t erri to ri o d el Trent i no meri d io nal e r i s u l t i d i d i r i t t o o d i f a t t o i n s e r i t o i n u n u n i c o e d u n i t a r i o s i s t e m a p o l i t i co ed eco nomico, la cris i che n el medesimo perio do in vest ì i l mon do i nd i g e n o t ri b al e p ro t o s t o ri co p o rt ò al l ’affermars i d i d i fferen t i s i s t emi d i a g -

Brentonico secondo PFISTER 1991, p. 184), Aui (Avio), Badabiones in Lagarense (?), Liciana (Lizzana), Marcus (Marco), Sarnes (?), Lenzimas (Lenzima), Tilliarno (?), Sacco (Borgo Sacco d i R o v ereto ), R ipa (R iv a d el G ard a). 10 Ultimamente MASTRELLI ANZILOTTI 1986; PFISTER 1991. 11 Qu esto il caso , co me osserva V . Bierbrauer, delle fib ule in bronzo a b ase rom bo idale d i d eriv azion e g o tica o pp u re del co sid d etto tip o tren tin o (Ä rmch en fib eln ), m a anch e d i tipi p iù d iffu si co m e q u elli a sch em a zo om o rfo e a d isco , sem p re in b ron zo , per i qu ali no n è po ssib ile in dicare u n a d atazio ne p iù p recisa n ell’arco co m p reso tra il V e il VII seco lo .Cfr. BIERBRAUE R 199 1a, p . 128 ; BIERBRAUE R 199 1b, n ota 2 33 p p. 52 -53.

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g r eg az i o n e an t ro p i ca. F o rm az i o n i at t es t a t e n e l l e v al l a t e i n t er n e s i c o n t ra p p o n g o n o , an c h e n et t amen t e, a q u an t o s i ri l ev a n ei fo n d o v al l e p i ù ap er t i , d ov e mod ell i e t ecn o lo gi e s o no s t ret tamen te di pen den ti d a co nt at t i e merc a t i d i t i p o i n t e r r e g i o n a l e. A co m u n i t à d i v i l l a g g i o , a t t e s t a t e n e l l e v a l l i d a ag g l o m er a t i d i c a s e , ered i – per arti co l azi o n e, o rg an izzazi on e ed eco n o mi a – del l a trad i zio n e pro tosto rica12, s i affiancano s istemi più razi onali di sfrut tamen to della t erra e del l e ri s o rs e p ri mari e, st ret t amen t e l eg at i a p rat i ch e d i ap po d era men t o ro mano ch e, co n il I secol o av . C, inv es to no la Val d’Adi ge e l’Al to Garda s en z a p e r al t ro a s s u m er e i c a ra t t e ri l a t i f o n d i s t i al t ro v e n o t i . S e n e l l a p ri m a zo n a l ’i n t er es s e p u b b l i co s emb ra ci r co s cri t t o al l a co mp o n en t e v i ari a d el fon doval le, come linea di p enetrazion e e di at traversamento d ella catena al p i n a , n el l a s e co n d a a p p are d et erm i n an t e, a i f i n i d el l ’ art i c o l a zi o n e d e l l ’i n s e d i a m en t o , l ’ ap p l i ca z i o n e d i u n a r eg o l a re p a r t i zi o n e d e l s u o l o t ra m i t e u n a cen t u ri a zi o n e e l a s u a reg o l azi o n e i d ro g e o l o g i ca 1 3 . 12 Qu e s t o i l c a s o d i S a n z e n o i n V a l d i N o n o p p u r e d e l l ’ a b i t a t o d e l d o s s Z e l o r i n V al di Fiem me. CAVADA 19 89 , pp. 4 8-4 9. 13 Cfr. in fra 3.3 .

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3 .1 . Glo b al men te nel Tren ti n o merid i on al e s o no s t at i con t eg g iati 82 pu nt i -si to ch e hanno rest it ui to materiali databil i tra l ’età ro mana e l’VIII-IX secol o. Tu tt i h an n o un a d o cu men tazio ne su ffi ci ent e p er defin ire i l con t es t o di r i n v en i m e n t o ( cf r . i n f r a t a b el l a/ el e n c o 1 ). In t e rm i n i d i ac r o n i ci s i p u ò o s s er v ar e c o m e a d u n s en s i b i l e i n c r em e n t o d i p u n t i - s i t o t r a a l t o e b a s s o i m p e ro ( + 1 7 % ) , s e g u a u n p r e s s o c h é a n a l o g o d e c re m e n t o t r a i l I V - V s e c o l o e i l s u c c e s s i v o V I - V I I . N e t t o s i r i v e l a i l p r e d o m i n i o d e i p u n t i - s i t o t o m b a l i p er l e i nd u bb ie op p ortu n it à d i rico no sci men to ch e q uest i rest i h an n o su l le sedi ab i t at e. I l p o s i zi o n a m en t o s u c ar t a a l t i me t ri c a d ei p u n t i - s i t i c en s i t i r e n d e ch i aro l o s t ret t o l eg ame ch e es s i h a n n o co n l a co ro g rafi a fi s i ca d el t erri t o ri o 1 4 ( F i g g . 4 - 5 ) . M o l t i s p az i , p ri v i d i p u n t i , c o r ri s p o n d o n o n o n t a n t o a 14 Q uale sup p o rto cartog rafico d i base si so n o u tilizzate le tav olette 1 :1 0 .00 0 d ella Carta Top ografica G enerale d ella Provincia Auto noma di Trento e, in fase di sintesi, i fogli to p ografici 1:5 0.000 .

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p ot enzial i zon e n on in sed iat e ma a s et to ri i mp ro d ut t iv i o al p iù sfrut tab il i t ramit e i l p rel ievo d irett o d el l e mat eri e pri me o del le ri so rse (att i vi t à s il -v o -p as t o ral i ). In fi n e l a d i s l o cazi o n e d ei s i t i n o n s e m b r a s t r e t t a m e n t e d i p en d er e d ai t r ac c i a t i v i a ri u f fi c i a l i 1 5 , a n zi , i n t al u n i c a s i , i l d is corso pu ò ess ere in verso (i s eco n di d i pen dere dai p ri mi). Il s is t ema che emerg e p res ent a u n a f i s i o n o m i a d e c i s am e n t e p o l i n u c l ea t a s u / o i n c o r r i s p o n d e n z a d i s u p e r f i c i a r a b i l i , b e n e s p o s t e e d r e n a t e, ra r am e n t e a l d i s o p r a d e i 5 0 0 me t ri d i al t i t u d i n e n el l a v al l e d el l ’A d i g e , a l d i s o p r a d ei 3 0 0 m e t r i i n quella del Sarca16. 15 Si osservi l’antitesi esistente nel tratto Rov ereto -Tren to, tra la strada C laudia Au gusta, stesa sulla sinistra Ad ig e (Bo sio 199 1, p. 8 9 ss. e biblio gr. ivi citata), e l’alto n um ero d i siti coevi artico lati lungo il ped emonte opp osto , decisamente p iù favorito per esp osizione e fertilità d ei su oli. 16 Altim etrie relativ e d a riferire a d elle qu o te-b ase ch e h an n o valori com p resi tra i 130 /197 metri nella Val d’A dige (quota altimetrica relativa ad Avio e a Tren to), tra i 72/85 m etri n el B a sso S arca (q u o ta d i R iv a d /G ard a e d i A rco ).

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3.2. Un possibile esempio del sistema ci è offerto dall’area di Nago (Figg. 4-5 n. 66), a cavallo tra Adige e Sarca e morfologicamente al centro di una balconata glaciale ampia poco meno di 50 ettari, oggi interamente coltivati e perimetrata d a vertical i pareti rocci ose che, s ui versan ti orientale e meridionale, assumono carattere franoso per effetto di imponenti e vasti collassi naturali. In questa zona si è operato uno scavo d’emergenza su di una superficie di circa 850 mq17 ril evand o una serie di spazi aperti, cont igui ed uniformi, perimetrati da mura di cui restano le sole fondazioni18. L’innesto a pettine lungo il fronte occidentale di un sistema più articolato di muratu17

Estate 1990. Scavo Provincia Autonoma di Trento con la collaborazione degli studenti dell’Insegnamento di Archeologia e Storia dell’arte greca e romana dell’Università di T ren to . Dati in ed iti. 18 L a tecn ica d i co stru zio n e è irrego lare co n p ietram e m in u to e fram m en ti d i laterizi cementati da calce gettati a colmare una fossa di fondazione. La loro larghezza è compresa tra 6 0 /8 0 cm . m e n tre n ien te è rim asto d e g li alzati.

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re, p i ù st ret t e d el l e p reced en t i e reali zzat e i n b lo cch i l ap i d ei d i mag g i o r p e zz at u ra , v i i n d i ca l a p r es en za d i v a n i c o p e rt i , p i u t t o s t o p r ec ar i v i s t a l ’ a s s enza d i el ement i i n fras t rut t u rali d i serv i zio e l a p res en za d i p av i men t i in b at t u t o (Fi g . 7 ). I reperti mobi li attest ano l ’u so dell’area fi no a tu tt o i l VI seco lo, fors e anche fino alla metà del successivo sulla base del rinvenimento di una placc h e t t a t r i a n g o l a r e b ro n z e a p er c i n t u ra ( F i g . 8 n . 1 0 ), a v v e n u t o i n c i r c o s t a n ze fo rt u it e p rima d ell o s cav o . Gli el emen t i co nt es t u al i zzati p i ù t ard i s o n o c o m u n q u e u n a f i b u l a z o o m o r fa (F i g . 8 n . 1 ) e u n o r ec c h i n o a c es t el l o i n a r g e n t o (F i g . 8 n . 5 ), t i p o l o g i ca m e n t e g i à n o t o i n r e g i o n e d a u n r i t r o v a m e nt o a Le nz u m o in v a i d i Le dr o 1 9 . L’ip ot esi d ell a desti nazio ne a co lt ivo d eg li sp azi aperti t rov a av all o in mol t i el emen ti o g get ti vi , p rimi fra tu tt i n ell ’el ev ata q u an t it à d i res ti bo t an ici , ra cco l t i s u l f o n d o d i u n p o zz o u t i l i zz at o p er l ’ ap p ro v v i g i o n am en t o i d r i c o e significativo spettro del panorama ambientale circostante. Per varietà ques t o camp i o n e co s t i tu i s ce u n u n icu m n el p an o rama alp i n o cen t rale. Dall a determinazi one i n corso 20 , nett o ris ult a il pred omi ni o del la Vi ti s vin if era , at t es t at a d a a l cu n e mi g l i a i a d i s e mi , ma a n ch e d a s p ez zo n i l i g n ei d el l a p i a n t a . A d e s s a s i a ff i a n ca n o p i a n t e f ru t t i f er e e a r b u s t i v e , c o l t i v a t e e s e l v a 19 CIURLETTI 197 8, p. 55 e fig . 22c; AMANTE SIMONI 198 1, tav. VI/17. Il contesto è un cimitero di romanzi (ROBERTI 1926, p. 17; CIURLETTI 1978, pp. 54-56; AMANTE SIMONI 1984, pp . 42 -4 3), p resum ib ilmen te un a delle tre to mb e sco perte n el 18 98 stan do alla rico struzion e fatta in DAL R I-PIVA 1987, p. 281. L’attribuzione cronologica (V(?)-VII secolo secondo BIERBEAUER 1991b, p. 128 ss., VI-VII secondo LIPPERT 1970, pp. 177-178; VII per AMANTE SIMON I 1 98 4 , p. 42 ) e l’ap p arten en za etn ica d ei sep olti so n o date sulla base di mo lti o g getti au to cto n i p r esen ti n ei c o rre d i t ra c u i p red o m in a n o l e fi b u le in b ro n zo : u n a a d i sco , d u e d i t i p o t ren t i n o e b en ci n q u e a p i ed e r o m b o i d al e d el co si d d et t o g ru p p o g o ticizzan te sicu ramente, le u ltime, un prodo tto locale stand o alla p articolare con centrazion e geografica in val d i L ed ro (carta d i d iffu sio n e dei tre tip i in B I ERBRAUE R 1 99 1 b, figg . 8 , 1 2 e 1 4). 20 p resso il L abo ratorio di A rch eo bio lo g ia d ei Musei Civ ici d i C orno . R ing razio i d rr. L . C astelletti e M. Ro tto li p er le in form azion i d i seg u ito u tilizzate.

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tiche21. Numero si resti carbo nizzati di graminacee so no da ritenere in s trett a rel azi on e co n scart i d i cuci na2 2 men tre v a anche ri cordat a l a nu t ri t a seri e d i p i an t e o rt i c o l e, fl o real i , aro mat i ch e e med i ci n al i n o n ch é i n fes t an t i ,

21 Corylus avellana (nocciolo), Juglans regia (noce), Ficus carica (fico), Rubus idaeus e caesius (lampone e ro vo), Pru nus avium, d omestica, persica (ciliegio, su sino , pesco), Cornus m as (co rniolo), Olea europea (olivo). 22 Seca le cereale (seg ale), Ho rd eu m vu lg are (o rzo), Triticum mo no co ccu m, dico ccum, aestivum (fru mento ), Aven a (avena), Pa nicu m miliaceum (m ig lio).

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che co mp l et a i l p an o rama del le co lt u re e del le es sen ze v eget al i raccol te2 3. A men o d i t recen to met ri d a q u es te st rut tu re l a b ib l io grafì a arch eo l og ica i nd i ca i l rin ven iment o d i u na n ecro po li di cremati ed i n umati t u mu l at i i n u n a zon a i mpro d u t ti v a a ri d o s so d i al cu n i ro cci o n i . I materi al i d i corredo sono conservati solo in modo parziale24. Come termine di datazione più recent e s i d ev o n o a s s u m er e u n a b o t t i g l i a b i a n s a t a a c o r p o t r o n c o c o n i c o e s p a l l a q u a s i p ian a e u na ci ot o la a paret e rot o nd egg ian te co n b ord o a t es a s emp l i ce, e s t e r n a m en t e r i c o p e r t e d a u n ’ i r r eg o l a r e i n v e t r i a t u r a g i a l l a s t r a e a t t r i b u i b i l i a l p eri o d o t ard o an t ico (IV-V s eco l o )2 5 (Fi g . 9 ). 3.3 . Un’organ izzazione per molti aspetti analo ga al caso di Nag o si osserva a n c h e n e l l a p i a n a c h e s i e s t e n d e a n o r d d e l l a g o d i Ga r d a ( F i g g . 4 - 5 n n . 5 6 8 2 e F i g . 1 0 ) , a n c h e s e q u i l a d e n s i t à a n t r o p i c a è m a g g i o r e e l e f o r m e di sfruttamento del terreno pi ù compless e26. Morfol ogicament e questa zona s i differen zia d al t radizional e pan orama alp ino p er l’esist enza di u na vasta s u p e r f i c i e p i a n e g g i a n t e , a m p i a n o n m e n o d i 1 0 k m q ., f e r t i l e e s t a b i l e s e co n t ro l l at a n e i co rs i d ’ac q u a ch e l ’at t rav ers a n o , cl i mat i cam en t e fa v o ri t a d a l l a p r es e n z a d e l l ag o . P o c o u t i l i z z a t a i n et à p r o t o s t o ri c a 2 7 , q u e s t a f u t o 23 Beta vulgaris (bietola), Lens culinaris (lenticchia), Lagenaria siceraria (zucca), Rosa sp (rosa), Coriandrum sativum (coriandolo), Urtica dioica (ortica), Verbena officinalis (verbena), Melissa officina lis (erba limona). 24 ORSI 188 0, pp . 44-45; ORSI , 188 2, pp . 1-3 ; ROBE RTI 195 4, p. 16. I materiali so no disp ersi n elle co llezio ni m u seali di In nsb ru ck, R o v ereto e T ren to . 25 P er qu esta d atazion e cfr. M ACCABRUNI 1 98 1 , pp . 7 9 -8 0 (fo rma m on o an sata d a V ign etto , cat. n . 2 9); BROGI OL O 19 85 , forma la.2 (cio to la), 4c.2O (olpe): Mila no 19 90 , p. 3 70 sch . 5 d.2 i (o lp e). 26 Zo na p er la qu ale dispo niamo d i scavi stratigrafid e d i atten te rico gnizioni d i sup erficie co nd o tte a p artire d alla m età d egli an ni S ettan ta e tu tt’o ra in co rso. P r edo m in anti risultan o le info rm azion i attinen ti la sfera fun eraria, con o ltre d uecen to co n testi racco lti, nu m ericamen te m in o ri q u elle relativi alle ab itazio ni. 27 S alv o alcun i rep erti spo rad ici n ella p ian a p ro priam ente intesa m ancano , a tu tt’o g gi,

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talmente regolarizzata nel corso dell’avanzato I sec. av. C. tramite l’applicazio n e di un o s ch ema cent u ri ato ad at t at o all a morfol o gi a d el su ol o 2 8. Da qu es to mo mento i n poi l a frequ enza div en ta senza s ol uzion i di co nt inu it à, al men o fi n o a t u t t o i l V s eco l o . Per le ab it azi on i , accan t o ad in d izi o ccasi o nali mal clas si ficab i li , s i d is p o n e d el l e fo n d az i o n i d i u n v as t o co m p l es s o ed i l i zi o , p o s t o a l ce n t r o d el l a

elem en ti certi d i ab itati o di fo rm e stan ziali relativ e a p eriod i an terio ri il I secolo a.C . P er un a pano ramica dei ritrov am enti pre-proto storici n el territo rio g ardesan o settentrio nale cfr. MARZATICO 1988. 28 T ozzi 19 85 . S ullo stesso tema è ritornata MOSCA 19 90 . Ind ico com e pro bante il I seco lo a.C. per l’ap plicazio ne d el sistem a cen tu riato prend end o a so steg n o lo stanziam en to di veterani cesariani (GARZETTI 1986, p. 533 n. 1062) e il recupero di denari repubblicani in con testi abitativ i (CAVADA 198 8, pp . 33-38).

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Fig. 11 –

Arco-S.Giorgio, via Passirone: panoramica aerea del complesso edilizio scavato negli an ni 1 986 e 19 87 (foto Ca to ni-Tren to).

p i an a e in cu i p o s s o no es s ere ri co n o s ciu t i i carat teri d i u n a vi l l a ru s t i ca2 9 . I res t i , es p o s t i i n o ccas i o n e d i u n a l o t t i zzazi o n e ed i l i zi a, a p p art en g o n o a p i ù co s t ru zi o n i ri u n i t e at t o rn o ad u n a c o rt e, ap ert a e s t errat a (Fi g . 1 1 ). Tecn ol ogi camen te esse risu lt an o d efini te d a b uo ne st ru ttu re mu rari e, an che s e r i d o t t e d a u n a s e c o l ar e e r o s i o n e m e c c a n i c a o p e r a t a d a l l o s f r u t t a m e n t o ag ri co l o d el l ’area. Pi et rame e mal t a rap p res en t an o i mat eri al i d i magg i o r impi eg o. So ltant o nel le ul ti me fasi di v it a s i reg is trano t alu ni riad at tamen ti ch e us ufrui sco no d i elemen ti l ign ei , s op rattu tt o d i pali verti cali di cui rest ano imp ronte e bu che circo lari di all ettag gio. Al medesi mo ul timo orizzonte d ’u s o v an n o as cri t te al cu n e amp ie fo ss e d a b ut t o con ten en t i del v asell ame d o m e s t i c o , s i a f i n e ed i m p o r t a t o (s i g i l l a t e ch i a r e e p i e t ra o l l a re ) c h e g r e z z o e d i fab b ri c azi o n e l o cal e (o l l e e s c o d el l e t al v o l t a o rn a t e d a t a cch e e d a mo ti vi on du lat i in cis i). 3 .4 . R i l e v a n t e , s ’ è d e t t o , i l n u m e r o d e l l e e v i d e n z e c i m i t e r i a l i c h e , p e r l e deficitarie condi zioni di conservazio ne d elle testi monianze i mmob iliari, co s ti t ui sco no degl i o t ti mi in d icat o ri an ch e, e s op rat t ut to , p er lo sp ecu lare l eg ame che es s e han no co n l ’i n sedi amen to . Per la t ard a età ro man a – ep oca ch e i n q u e s t a s ed e mag g i o r men t e i n t ere s s a – i cara t t er i ri t u al i e fo r m al i s on o abb ast anza u ni t ari. Le in umazi o ni , q ues to i l t i po d i s epo lt u ra es cl u si vo, sono collocate in casse terragne in muratura o in semplici fosse, talvolta d el i mi tat e e anch e cop ert e d a pi etre o d a b l occh i l api dei d i recu pero. Rari s o n o g l i e s e m p i d i s t r u t t u re i n t e g o l o n i ( t o m b e a “ c as s e ” e a l l a “ c a p p u c c i -

29 S cavo Prov incia A uto no ma di T ren to 19 86 -8 7. In edito . Informazio ni preliminari in C AVA DA 1 9 8 8 , p p . 3 3 - 3 8 ; C AVA DA 1 9 8 8 b , p p . 6 - 8 .

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n a”); in un un ico caso s i è co ns t at ato i l ri ut il i zzo d el med es imo co nt en i to re per pi ù i nu mazio ni 30 . Nell a compo sizio ne qu an tit at iv a e q ual it at iva d ei co rredi p erd ura l’u so del vasellame, co n chi aro s ignificato rit uale pos t mor tem erede della t radi zio n e pi ù an ti ca, acco mp agn ato d a o g gett i d ’ornamen t o co me b racci al i i n b r o n zo e c o l l an e d i p i c co l i v a g h i p ri s m at i c i d i p a s t a v i t r ea, c h i ar am en t e

30 Riv a del G ard a-via B rio ne, tom b a 4. Per u n q uad ro tipo log ico d ei co n ten itori e dei riti di sep oltura app licati nell’area benacense cfr. CAVADA-C IURL ET TI 19 83 .

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i nd o ss at i d al defun t o. Co sì nell e t o mb e n r. 7 di Ri v a/ vi a Go ri zi a e n r. 5 di Riv a/mas o Bel li (Fig g. 12 -13). Una tomb a di bambi no delimi tata da lastre, s cav at a n el 19 85 ad Arco / S. Gi org io , h a res t it ui t o u na cu sp i de fog l iforme c o n c a n n u l a c a v a i n fe r r o u n i t a a d u e b o t t i g l i e i n v e t r i a t e b i an s a t e d e l t i p o già vist o a Nag o. St anti il s ogget to e il gruppo romano cu i la tomba apparti en e semb ra co mu nqu e di ffi ci le at tribu ire al reperto metall ico u n s ig ni fic at o m i l i t a re , s i g n i f i ca t o ch e f o rs e i n v e ce m a n t e n g o n o a l cu n e fi b b i e e d e l l e guarnizi oni b ronzee per cin turon i mas chil i tardoromani, rinv enute in alcune t o mb e d i s o g g ett i ad ul t i (Fi g . 1 4)3 1 .

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CAVADA 1988b, fig. 25.

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Fig. 14 – Riva del Garda: necropoli tardoromane. Guarnizioni in bronzo di cinturoni maschili 12) via O rione; 3-4) S. Giacomo (da CAVA DA 198 8b).

3.5 . Decisamente estranei al cos tume funebre risult ano essere tal uni o ggett i d ’orn ament o co me l e fi b u l e, at t est at e in v ece i n al cu n e coev e t omb e d el l a Vallagarina. Si ng ol e fib ule a t enagl ia so no in do ssate d all a mag gi or part e d eg li in umati s epo l t i nel l a zo n a d i Serv i s , lo cal i tà d el co mu n e d i Po maro l o ri al zat a di circa 400 metri sul fon doval le at esino (Fig g. 4-5 n. 32)32. Le tombe ri lev at e p res en tan o s trut t ura a fo ss a s emp li ce o cas s a del imi tata da last re l it i-che. Ai c o r r e d i f u n e b r i a p p a r t e n g o n o a n c h e d e l l e g u a r n i z i o n i e d e l l e f i b b i e i n b ro n zo e in ferro per cin tura, dei co ltell i e alcuni reci pi en ti in cerami ca g rezza. No n mancan o le mo n et e i n fo rma d i o b ul u s ; g l i u l t i mi co ni i s o no d el l e mezze s i l i q u a e i n a r g e n t o d i Ar c a d i o e d On o r i o 3 3 . I l r e c u p e r o , i n c i r c o s t a n z e n o n d e fi n i t e , d i u n o s c ra ma s ax 3 4 e d i u n a « s p ad a ar ru g g i n i -

32

Del ritrovamento della necropoli danno notizia ORSI 1880, p. 17; CHIOCCHETTI-CHIU19 65 , pp. 5 4-7 1; RIGOT TI 19 75 con un a com pleta rivisitazio ne di tutte le scop erte preg resse e la sch ed atu ra d ei rep erti. 33 T o m b a O b (1 9 6 9 ) . R I G O T T I 1 9 7 5 , p . 2 6 9 sch . 4 e p p . 2 8 1 - 2 8 2 sch h . 3 5 - 3 7 . 34 Presen te nella collezio ne Malfer di R overeto fino ai p rimi an ni Settanta, po i disperso ( C H I NI 1 9 1 4 , p . 1 8 0 ; R I G OT T I 1 9 7 5 , p . 2 7 6 s c h . 2 2 ) . SO LE

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t a » 3 5 i n d u c e a d e s t e n d e r e d a l l ’ e t à t a r d o r o m a n a a l VI - V I I s e c o l o l a f r e q u e n za d i q u es t o c i m i t e r o . C i r c a l ’ u b i c az i o n e d el c o rr i s p et t i v o a b i t at o c re d o d eb b a es s er e a t t e n t am en t e ri c o n s i d er a t a l a s c o p e rt a, a c i r ca 3 0 0 m et r i d i d i s t a n za d a l l e s ep o l t u 35

S tan d o alla n otizia racco lta d a C HI OCCHE T TI -C HI USOL E 1 9 65 , p . 5 8 era in « ... u n a to mb a co nten en te u n o sch eletro ...» .

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r e , d i u n f o c o l a r e , d e l i m i t a t o d a p i e t re e c o n t e n e n t e c e n e r i e c a r b o n i , m a a n c h e d ei frammen t i di o l l e i n cerami ca d ’i mpas t o , acro ma e g rezza, co n spalla decorata da una linea sinusoidale (Fig. 15 nn. 1-2)36. Analoghi recipienti, in uso tra il V e il VI secol o37, s ono s egnal ati a Vol ano (Fig. 15 nn. 3 -5 ), su l fron te op p os to del la v al l e (F i g g . 4 - 5 n . 3 5 ) , d o v e , a l a t o d i u n a p a l e o a n s a d e l fi u m e , è s t a t o r i p o r t a t o i n l u c e ci ò c h e r e s t av a d i u n e d i f i c i o i n m u r at u ra e l e g n o , s er v i t o d a u n f o c o l a re i n arg il l a p eri metrato da p i et re (Fig . 1 6 ). La co s t ru zi o n e fu ab i tat a fin d ai p ri mi d e ce n n i d e l I V s e c o l o , d i 36

Interp retato d ag li scavatori com e « ... fo rn o p er la co ttu ra di v asi...» p oiché la fov ea p resen tav a « ... p ezzi d i carb o n e, d e i fram m en ti d i v asi, il carattere co m b u sto d eg li scisti, residui di cenere...» (CHIOCCHET TI-CHIUSOLE 196 5, p. 68 e fig . 28). Ipo tesi ripresa d a RIGOTT I 1 97 5 , p. 26 3 e p . 2 7 0 sch . 8 co sì co me la fo to g rafia d el m an ufatto (Fig . 4 ). Q u esta struttura p otreb be essere ciò ch e resta delle ab itazio ni, m od este, an che to talmente in leg n o com e è co n s u etu d in e d o p o il V s eco l o . S in to m ati co è l’e sem p io d i C a v ale se- S .V al erio d o v e la p resen za di un a g ran de casa lign ea, in nalzata su di un a rob u sta m assicciata ed ab itata tra il V /VI ed il X seco lo d .C, è testim o niata da so le b u ch e p er pali e d a u n fo co lare (C AVADACIURLETTI 198 6, pp . 87-90; CAVADA 199 1b). Analo ga situazione si registra an che in amb ito urbano ; cfr. BROGI OL O 19 91 . 37 C om e con ferm an o i ritrov amen ti d i S ab ion a e d i V illan dro , a n ord d i B olzan o

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s e g u i t o ri a d a t t a t a e d i n f i n e d e m o l i t a ed o b l i t e r a t a c o n d e l m a t e r i a l e l a t e r i zi o d i s cart o p ro v en i en t e d a u na fo rnace u bi cat a n el l e i mmed iat e v ici nanze38. Questa s trett a so migli anza tra o ggett i d’uso q uotid iano e app arat i infrast ru tt urali di s ervizio ri scon trata in s it uazio ni al ti metri camen te d ivers e, mi pare convincente per indicare come insediamenti di fondovalle e d’altura ris ul t in o att i vi n el med es i mo peri o do 3 9. Meno faci l e è d efi ni re la fu nzi on e, vale a dire se i secondi fungessero da rifugio temporaneo per i primi. Indubbiamente condizioni ambientali favorevoli, come è il caso di Servis, inducono a pens are ad un in sediamento p erman en te, anche se in q uo ta, ment re l ’ip otesi del luogo-rifugio può essere valida in talune situazioni, come è il caso –fu ori dall a zon a d’i nd ag ine – del Do ss Tren to su l qu ale l ’occu pazio ne mo ment an ea è o b b l i g a t a s t an t e l a c o ro g r af i a fi s i c a d e l s i t o 4 0 . È s u l l a b a s e d i q u e s t e c o n s i d e r a zi o n i ch e r i t e n g o d o v e r o s o a s s u m e r e u n a d i v e r s a ch i a v e d i l e t t u r a n e l l ’ i n t er p re t az i o n e f u n zi o n a l e d e i s e i c a s t r a in di cati da Paol o Diaco no nell ’at tu ale t errit orio tren tin o cent ro meri d ion al e, ferma restand o la gius ta os servazione del Bierbrau er ci rca lo st retto legame ch e es si hanno con il s ost rato ro manzo 41 . In du bbi ament e si trat ta di cent ri a b i t at i t an t o d a p o t er e s s e r e i n g r a n p a r t e i n d i v i d u ab i l i s u b as e t o p o n o m as t i c a , m a t u t t i u n i v o c a m e n t e d i f e n s i v i f o r s e n o , a l m e n o s t a n d o a l l e c o ev e in di cazio ni arch eo log iche. Con qu es to ri baden do il con cet to di come l ’amb i en t e mo n t a n o v i n co l i l a s cel t a d el l e al t u re co me zo n e d ’i n s ed i amen t o , l a s c i a n d o i t r at t i p i ù p i a n e g g i an t i , m eg l i o e s p o s t i e p i ù f ert i l i , al l e c o l t i v a z i o n i s al v o qu and o q ues ti no n ris u lt in o d i fat t o p recl u si a tal e s co po , co m’è i l cas o d i a m p i t r a t t i d e l f o n d o v a l l e a t e s i n o p i ù p r o f o n d o , d i c e r t o n o n es t r a n e o a l vast o fen omeno d i in selv ati ch iment o del p aes ag gi o e all’in co ntrollata crescita delle paludi che si registra a partire dal VI secolo nell’Italia p ad ana4 2. Se i l rich iamo to p on omast i co è verit iero4 3, e nu ll a l o p ort erebb e a negare, i l ca st ru m Vo la en es pi ù ch e u n abi tato d’al tura si pres ent a co me u n’i ns ed i ament o d i fon do v al l e pro tet to d a u n ’amp i a ans a flu v iale4 4. Su ll a bas e di medes ime argomentazioni anche il cas trum Bremtoni cum not ificatoci d a P a o l o Di a c o n o n e l l a m e d e s i m a z o n a , p i ù c h e u n i n s e d i a m e n t o d i d i -

(B IE R B R A UE R -N O TH D U R F TE R 1 9 88 , tav. 3 n n . 3 e 10 ; D AL R I -R I Z ZI 1 9 89 , p . 2 1 2 e tav . V nn. 1 e 6). 38 C A V AD A 1 9 85 . 39 Dello stesso av v iso è il N oth du rfter a pro po sito d ell’insediamento tard oantico e altom ediev ale nel tratto settentrio nale della Val d ’A d ig e e n ella V al d’Isarco (N OTHDURFT E R 1989). 40 D o ss T rento ch e p er tu tto il V I seco lo rap p resen ta il ca stellu m rifu g io dei cittad in i di Trid en tum (Veruca ca stellum nelle Va riae III, 4 8; Feru ge ca stru m in Hist. La ng . III, 3 1). 41 BIERBRAUER 1986. 42 F UMAGAL LI 1 98 9 , p. 38 ss. D el degrado dei v ersan ti più imp erv i a p artire d al V -V I secolo e di v iolenti episod i alluvion ali nel fondov alle atesino sono conferma alcune evid enze stratigrafiche ed archeologiche rilevate nel tratto superiore della Val d’Adige (COLTORTI-DAL RI 1985; DAL RI-ROSSI 1987). 43 MALFATTI 188 3, pp . 328 -329 . 44 Su ll’id entità tra top onimo antico e moderno MALFATTI 188 3, pp . 328 -329 . Con ferma arch eo lo gica d ell’esisten za d i u n in sediam en to tard o an tico in co rrisp o n d enza d ell’o d iern a Vo lano vien e d ai ritrov amenti del 1 984 (CAVADA 19 85 ) e d al recu pero di un a fibula a cro ce g reca ing ressata n el 1 8 67 dal Museo Civ ico d i R ov ereto (AM ANT E S I MONI 1 98 4 , p. 42 ).

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fes a, occup ato s alt u ariamen t e, s emb ra es s ere u n cen t ro p ermanent e, n on a caso u b i c a t o s u l l a d i r e t t ri c e p ed o n a l e n o r d -s u d d el m o n t e B a l d o a l u n g o p r a t i c a t a 4 5 . C o n s t a t a z i o n e ch e n o n v a d i s g i u n t a d al l a d i s t a n z a ( c i r ca 9 / 1 0 k m . ) c h e i n t e r co rr e t ra l’on d ul ato al to p iano b ren tegan o ed i cen t ri d i fo n-dovalle, distanza – per altro – intercalata da altri siti abitati nel medesimo periodo46. 4 . 1 . I l r i n v e n i m e n t o d i a r m i n e i c i m i t e r i r o m a n z i , c o m e a S e r v i s , a p r e i l n on faci le i n terro gat iv o s ul l a p os si b il e p res en za di so g gett i i mmi grati nel territ ori o del so st rato; armi che, s i oss erva47 , so no da ritenere es tranee al co s t u me e al l a fo rmazi o n e m at eri al e d ei co rred i d eg l i au t o ct o n i . Dei 41 pu nt i cimit eri al i cen si ti nelle Val Lagari na, d el Cameras e n el Bass o S a rc a , g en e r i c am e n t e d a t a b i l i t r a i l V e d i l V I I s ec o l o , l a m e t à h a re s t i t u i t o al men o u n i n d i vi d u o acco mp ag n at o d a armi o p art i d i armamen t o (Fi g . 1 7 ). Q u a n t i t à c u i p o s s o n o e s s e r e a g g i u n t i a l t r i 9 p u n t i , p o s t u l a n d o l a p r o v en i e n za to mb al e d i alcun e armi di cu i si ig nora l’esatt o con testo d i rin venimento. I n t u t t i i c a s i i s o g g e t t i a r m a t i r i s u l t a n o t u m u l a t i i n ci m i t e ri c h e , p e r f o r m a d e i co n t en i t o ri e p er t en o re d eg l i o g g e t t i d i c o rr ed o , d en u n c i a n o forti legami con il sostrato. Così nella Valdadige dove la forma delle tombe res ta qu ella già vista nel cimi tero di Servis. Si tratta di fosse generalmen te orientate Est-Ovest, prevalentemente distribuite in file parallele e originariamente segnate in superficie vista l’assenza di intersezioni. A fosse terragne si accompagnano loculi strutturati con lastre non lavorate o con filari sovrapposti di l itoid i reperit i direttamente sul luo go di sepo ltura. In talu ni casi si regis tra l ’uso di malta come legan te e non man cano esemp i di cont enito ri co struiti con teg oloni . Uo m i n i l o n g o b a r d i , d o t a t i d i u n c o r r e d o m i l i t a r e , s o n o s e p p e l l i t i i n f os s e di q u e s t o t i p o , a f f i a n c a t i a d a l t r i – i n d i g e n i – p r i v i d i c o r r e d o o a c c o m p ag n a t i d a sin goli manufatti che assumono u n sig nifi cato quasi simb ol ico . Co s ì, a ti t ol o d ’es empi o , ricord o i l gu erri ero con s pat ha, s cramasax , s c u d o e ci n t u r a ri n v en u t o a Be s en e l l o (Fi g . 5 n . 3 ), i n u n c i mi t ero a fi l e co n to mbe terrag ne, ma anche in tego lo ni e pietre cemen tat e da malt a48 . Anal og a s it u azio n e s i ri p et e i n u n s econ d o cimi tero co evo p o st o all a p eri feria settentrionale di Rovereto, verso S. Ilario49 (Fig. 5 n. 33). Una serie di con cordan ze an tro po met ri che po rt ano a ri t en ere i mmi g rati a nc h e i q ua t tr o i n d i v i d u i d i No m i ( F i g . 5 n . 2 3 ) , s e p p e l l i t i a l m a r g i n e d i u n c im i te r o d i

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Al m argin e settentrio nale della con trada V igo , il nu cleo più antico d ell’abitato, articolato su d i un a stretta d o rsale tra il versante sinistro d ella valle d ella S orn a e la spo nd a d i un lag o, ora scom parso (il Palù ), e in cu i si co lloca la chiesa piev an a d ei SS . Pietro e P ao lo , furo no rinv enu te, n el 19 55 , o tto to mb e, delim itate da pietre e cop erte d a lastre, p arti di un a n ecrop o li p rop ria d i sog g etti ro m an zi, m a fors’anch e u tilizzata per d egli imm igrati v ista la p resen za di armi nei corred i ( D A L R I L U . 1 9 5 5 ; A M AN T E S I M O N I 1 9 8 4 , p . 4 9 ) . 46 R i tr o v am en ti to m b al i a C a zz an o co n c o r re d i f o r m at i d a b ra cci al i in b r o n zo , tr e pu gn ali in ferro e altri « og gettini» (A MANT E SIM ONI 19 84 , p. 49 ); priv i d i con testo risultan o u n a sp ad a e un p u n tale d i cin tura (R OBERT I 1 9 61 , p p . 2 0 2 -20 3 ). 47 BIERBRAUER 1 9 9 1 , p . 1 2 3 . 48 ROBERTI 1934, pp. 173-175; CIURLETTI 1978, pp. 58-61; CAVADA 1990, pp. 116-119. 49 ROBE RTI 192 2, p. 265; ROBE RTI 196 1, p. 126.

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au to ct o n i5 0 d is t ri b ui t o s u d i u n v ers an t e i mp ro d u tt i v o ed u t i li zzat o – p er s t ad i ed al larg amen t i s ucces s iv i – dal l a pri ma et à i mperi al e i n p oi 5 1 . Nel g ru p p o “l o n g o b ard o ” g l i o g g et t i d i co rred o s o n o q u an t i t at i v amen t e r i d o t t i e l i mi t at i al l e s o l e t o mb e m as ch i l i : u n co l t el l o e l e g u arn i zi o n i b ro n zee d i 50

PERI NI 197 5. Osserva M. Cap itanio, cu i si deve l’an alisi antropologica (CAP ITANIO 1 9 73 ), che « ... n ella realtà lo cale g li in u mati d i N o m i ... son o g li u n ici co n med ia di fo rte d olico cefalia, esib isco n o u n bassissimo in d ice d iafisario o merale ed un o d ei più alti in dici p ilastrici; l’in d ice cn em ico è tra i p iù mo d esti. In via d el tu tto ip o tetica qu esti in u m ati p o t reb bero co rrisp o nd ere ag li “im m ig rati estern i” prop o sti d all’arch eo log o , piu tto sto che ag li “autocton i”...» (CAPIT ANIO 19 89 , p. 67 ). 51 C AVADA-CAPITANIO 1987, pp. 100-103. Quadro d’insieme che va completato con l’ind icazio n e d el rin v en im en to d i un sarco fag o e d i cin q u e to m b e d elim itate da lastre, talu n e cem entate d a m alta, avv enu to nel 1 88 1 « a p och i p assi da No mi a d estra d ella v ia ch e con d u ce ad A lden o » (O RSI 1 8 82 , p p . 3 -4). N o n so n o seg n alati o gg etti d i co rred o men tre freq u en ti so n o i casi d i riu t iliz zo d i u n m e d esi m o l o cu l o p e r p i ù in u m az io n i . S o rp re n d e la co in ciden za tra qu esta seg nalazio ne e le tomb e di lo ng ob ard i recup erate n el 19 73 , n on so lo p er un a con vergenza top og rafica m a an che p er gli stretti ag ganci tip olo gici ch e i con tenitori h an no .

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u n a ci n t u r a t i p o “ B i e r i n g en ” s o n o n e l l a t o m b a 2 ( Fi g . 1 8 ) , u n p e t t i n e i n osso nella tomba 352. Alt ri ci miteri, analog hi ai precedent i per cro nolog ia, caratt eri e morfol o gi a, s on o d e ce n t r a t i e d ar r e t r at i n e l t e r r i t o r i o m o n t a n o . U n o s c ra m a s a x e i r e s t i d e l f o d e r o d i u n s eco n d o v en n ero recu p erat i a Bren t o n i co ( m. 7 3 6 s lm / Fi g . 5 n . 4 0), i n u n con t es to co n o tt o t o mb e d i l as tre e ci ot t ol i che, almeno in un caso, appaiono riutilizzate per più inumazioni53. Privi di armi s o no i n v ece g l i i n d i vi d u i in u mat i a Manzan o , i n v ai d i Gres t a (m. 6 6 7 s l m / Fi g. 5 n. 50 ), in un ci mi t ero i nd i geno co n t omb e a fos s a ed al t re i n t eg o lo ni ch e, si curament e p rat icato dal t ard o II secol o5 4, h a r es t i t u i t o u n a f i b u 32 53 54

PERINI 1975. C fr. n ota 4 5 . DAL RI LU. 1957.

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l a a s t a ffa d el co s i d et t o t i p o “t ren t i n o ” 5 5 . U n ’arm i l l a i n f erro , ch e n o n c o n o s c i a m o i n u s o p ri ma d e l l a fi n e d el IV e g l i i n i zi d el V s eco l o , p ro v i e n e d a u na t o mb a ad i nu mazio n e rin ven ut a i n circos tan ze fo rt u it e a Cast ell an o (m. 786 slm) (Fig. 5 n. 7) sul versante occidentale della Vallagarina. Nella med es i ma zo n a (Pral o n g o / Fi g . 5 n . 8 ) è s e g n a l a t o a n c h e i l r e c u p e r o d i s ch e l e t r i c o n s p a t h a a l f i an co 5 6 . 5.1. Per mo tiv i ch e ci sfu gg on o l ’abband on o d el le preesis tenti s ed i e i l d eg rad o d e l l ’ a r t i c o l a t o s i s t em a c e n t u r i a t o s e m b r a e m er g e r e d a i d at i r a cc o l t i n e l l a b a s s a v al l e del Sarca. Tu tt i i materiali po s teri o ri per d at azi on e al t ard o i mp ero (V s eco lo ) s o n o i n f a t t i l o c a l i z za t i al l ’e s t e rn o d el l ’a r ea c e n t u ri at a d i c u i s ’è d e t t o , e c ce z i o n fatt a p er i l cimi t ero d i S. Si s t o, a s ud d i Arco , ar t i co l a t o p e r g r u p p i d i t o m b e e d a cu i p r o v i e n e u n a s p at h a i n fer ro 5 7 . Sin croni zzati top ograficamente q uesti rit rovamenti diseg nano un s emicerchi o i n corris po n den za d el b reve pi ede p ed emo nt ano occi d en t al e, su l le co no i di d ei t orren ti Alb o la e Varo ne, d ov e s on o u b icat e an ch e d ue an ti che ch ies e: S. Cas s iano (demol it a) e S. Mari a del Pern on e (Fi g . 5 n n. 73 e 82 ). Da l l ’a re a d el l a p ri ma , a m o n t e d i Ri v a, p ro v e n g o n o u n o d ei p o ch i documenti epigrafici paleocristiani della Venetia occidentale, realizzato negli ann i Tren ta del VI s e c o l o 5 8 , e u n f r am m en t o d i fi b u l a a p i e d e r o m b o i d a l e d e l m e d e s i m o p er i o d o 5 9 . L’in t ern o d el l a s eco nd a, u bi cat a a men o d i t re chi lomet ri di dis tanza dall a pri ma e s u l l a s t es s a co n o i d e, è s t a t o o g g et t o d i i n d ag i n e n el 1 9 8 9 6 0 . L a fas e p i ù an t i ca d el l a ch i es a, co n g l o b at a e f o rt em en t e m o d i f i c a t a d a m o l t i i n t er v e n t i , p r e s e n t a u n a p i an t a mo no v an o co n abs i d e s emici rco lare ori en tat a. L’in t ern o era p avi men tat o da las tre e d a t o m b e co s t ru i t e r i ci cl an d o i l i t o s t rat i e g l i a p p a ra t i ar ch i t e t t o n i ci p ro v en i en t i d al l o s p o g l i o d i p i ù a n t i c h i e d i f i ci c i v i l i ro m an i a t t e s t a t i n e l l e v i c i n a n z e 6 1 . Un l oculo -reli qu iario d i forma crucifo rme, in terrato n ell ’absi de, rip ro p on e q uel lo , d i fin e IV-i ni zi V s ecol o , d el la t ri cora l at erale del la b asi l ica pal eocri stian a di Con cordi a62. Di poco pos teri ori s ono l e tombe, p er l o più d e g l i o s s a ri i rreg o l ar men t e d i s t ri b u i t i n e l l ’a u l a, l a cu i s t ru t t u r a p e rp et u a asp ett i g ià vi st i n ei campi ci mi t eri al i d el so st rat o (cas se in mu rat ura chi u se da l as tre, reimpi ego p ari et al e d i element i d i s p o g l i o e d i l at er i zi ). I co rr ed i , p u r i n c o m p l e t i e d e f r a u d a t i i n a n t i c o , s i d i ffer en zi an o p er t al u n i a s p et t i d al l a tradi zio ne (Fi g. 1 9 ). As sen ti so no i recip i en t i i n cerami ca (reci pi ent i che cost ituis cono un top os nel le precedenti età), ment re la quasi to talit à dei repert i ris ult a st ret tamen te l egata al l’ab big li ament o del la pers on a (m o n i l i e p e n d a g l i ). S t r u m e n t a l i s o n o a l t r i o g g e t t i , f o rs ’ a n c h e s i m b o l i c i c o m ’ è i l c a so

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ORSI 18 83 , p. 26 3. CHI OCCHETT I 19 86 , pp. 1 6 e 1 5-16. 57 ORSI 18 83 , pp. 2 60-26 3; ROBERTI 19 51 p . 3 42 . 58 L astra tom bale di Ia nu arius GUARZ ET TI 19 86 , pp. 5 46-54 7 n. 10 84 co n bib l. precedente. 59 DAL RI-PIVA 198 7, p. 284. 60 Scavo archeo logico determinato e con segu ente a dei lavo ri di restauro monu mentale av viati e tu tt’o ra in co rso . C fr. C ODROI CO 1 9 83 , p p . 2 0 -2 1. 61 Fo rse d el com plesso rurale rilev ato n el 19 8 4 du ran te la co struzion e d el cim itero d i V aro n e, cimitero ch e d ista d alla chiesa po co p iù d i du ecen to m etri. C AVADA 1 9 85 , p . 1 2 . 62 BERTACCHI 1980, pp. 310-327, fig. 270; CANOVA DAL ZIO 1987, pp. 42-47, Fig. p. 45. 56

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delle fusarole ritagliate da cocci; tra questi si segnalano una cuspide fogli-forme di freccia e una forbice/pinza, ambedue in ferro. Originale nel panorama locale è la generalizzata comparsa dei pettini in osso, pettini che nell’ornato ri p ro po n go n o, al p ari d i u n p en dag li o , mo t iv i b en no t i nel mo nd o germanico, co sì come b en emerge dai corredi femmi nili meroving o-alaman-ni dei “Rei hengräbern ”63. 5.2. Nel medesimo orizzonte cronologico di fine V-inizi VI secolo ritengo si possa collocare anche una struttura muraria, rilevata nella medesima zona e 63

KOCH 1987 e FINGERLIN 1971

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realizzata in ciottoloni legati da argilla64 (Fig. 5 n. 71). Le ceramiche grezze recuperate sul suo piano d’u so es terno ripetono, per impasto e forma, qu elle l agari n e d eg l i i n sed i amen t i d i Serv i s e d i Vo lan o , seb b en e s i an o i n orn at e (Fig. 15 n. 6). Identici recipienti, accompagnati da pezzi di uno scodellone/ co perchio a pres e ori zzont al i (F i g . 1 5 n n . 7 - 8 ), p ro v en g o n o d a l l a p u l i zi a d i u n a s e zi o n e co n l ac e rt i m u r a r i e p av i ment ali in t erra b at t ut a, cas ual ment e esposta a Tenno65 (Fig. 5 n. 79). Resti abitativi cui può forse essere collegata, in termini cronologici e di frequenza antropica della zona, una tomba-ossario a cassone di lastre con 26 individui, seppelliti in tempi diversi66. L’assen za di un b ench é min imo corred o non facilita cert o la sua d atazione, ma l’es eg esi antrop ol ogi ca, o lt re ad aver ril evato gl i st ret ti rapp or ti di parent ela tra i sepolti, ha fornito dei valori metrici e morfologici che ben si inquadrano nel panorama degl i inu mati tren tin i dei s ecc. V-VIII67 . Caratt eri p er mo lt i asp ett i si mil i pos so no es sere in di cat i anche p er un a s eco n d a t o mb a-o s s ari o , i n mu rat u ra e ch i u s a d a u n ’u n i ca l as t ra, ri n v en u t a i n p ro s s i mi t à d el p as s o d i S. Gi o v an n i , p o co s o p ra i 1 0 0 0 met ri d i q u o t a (Fi g . 5 n . 7 8), area d i t ran si to tra l ’Al to Gard a e le Gi ud i cane, ma, e s oprat tu tto , zon a st agi on ale d i sfru tt ament o agro-pas to ral e68 . Un b racci ale i n b ro n zo , d el ti po a t es ta di serp ent e s t i l i z za t a, e u n v a g o p r i s m a t i co d i co l l a n a n e i n d i c a n o l ’ u s o i n t e m p i s u c c e s s i v i a l t a rd o I V s e c o l o 6 9 . 6.1. Sull a bas e delle o sserv azion i e d ei d ati arch eo lo gici esp os ti mi s emb ra possibile proporre alcune considerazioni in merito al comparto e al tema indagati. Indubbia appare la continuità dell’insediamento romano che, avviatosi fin dalla tarda età repubblicana, raggiunge il medioevo senza particolari modi fi ch e, seppu r co int eress at o dall e immig razio ni co ns egu en za dell o s po st ament o terri toriale dei pop ol i germanici, an ch e se ci ò è d a rit en ere s tanzi al e s ol o per i l t rami te di si ng ol i i nd ivi du i o d i picco li grup pi fami liari rapi damente assimilati. Nella Valle dell’Adige, che è opinione comune essere la via di mag gio r trans it o, i sis temi di appo deramen to e i mo dul i di sfru tt ament o d el la terra res tano qu ell i defin it i i n et à romana: st rut tu ra po li nu cleat a dell e sedi e usufrutto integrato di settori tra loro complementari (fondovallemontagna). Il confronto tra i punti sito romani e altomedievali (Figg. 4-5) evidenzi a, a p art i re dal V-VI s ecol o , l a co n q ui s t a di n u o ve s u p erfi ci p o s t e al d i s o p r a d ei 5 0 0 m et r i d i a l t i t u d i n e . A l t r es ì m i p a re d i p o t er o s s er v ar e u n a

64 R iv a d /G ard a località P asina. R iliev o 1 98 4 . An che in q u esto caso, co me nel p reced ente d i V aro n e-cim itero, si è trattato d i u n rilev am en to d eterm inato d a lav o ri ed i lizi. Per m o tiv i con tin g en ti d ella stru ttu ra è stato p o ssib ile o sserv are il so lo fro n te estern o . 65 G eo g raficam ente la località di T enn o si situ a a m ezzacosta sul v ersante retrostan te l’area d i Varone, quind i in posizione altimetricamente rialzata rispetto ai siti preceden temen te citati. Le mo dalità della colon izzazio ne alto medievale di q uesto territorio, «... caratterizza to – co m e o s serv a M. G r azio li (G RA Z I OL I 1 9 7 9 ) – d a u n a str u ttu ra c o lti v a . .. b asat a su u n’eco no m ia ag ricola ... ap p en a sufficien te ai b isog n i p rimari d elle po p olazion i...» an d rebb ero ap p ro fo n d ite, m uo v en d o d alle p rim e so m m arie in dicazion i tracciate d al G razio li. 66 T en n o : recu p ero 1 9 8 3 . In d iv id u i co sì rip artiti: 7 m asch i ad u lti (d i c u i 3 sen ili), 6 fem m in e ad u lte (d i c u i 2 sen ili) e 1 4 n o n ad u lti. 67 CAPITANICI 1989. 68 In q uesto caso g li ind iv idu i sep o lti son o 1 2 o fo rse 1 3: 6 m asch i ad ulti, 3 femm ine adulte e 3 non adulti (CORRAIN-ERSPAMER-DEMARCHI 1983). 69 CAVADA-CIURLETTI 1981b, pp. 157-163.

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nuo va tendenza, s oprat tutto in corris pond enza dei s iti d i più ant ica coloni zzazione antropica; vale a dire la propensione all’accorpamento delle abitazioni i n nuclei d i magg io r d imens io ne co ns egu en za del quale è lo s vuo tamento d i alcun i s et tori, in di zi o forse di u n abb and on o anche se d ifficil men te l o s i può rit enere to tale. È qu es to il caso d el la su perfi ci e morfol og icament e p iù bas sa della p iana nord gardesan a, tra le odierne Arco e Riva, do ve – lo si è detto – il maggior numero dei siti romanzi di età postclassica sono posizionati in corrispondenza del pedemonte occidentale ed investono in maniera più d irett a e s t ab il e i l ret rot erra mon t an o7 0 (Fi g . 20 ). Lo s tesso feno meno , anche se i n forme pi ù att en uat e, s i reg ist ra n ell a Val lagarina dov e un accorpamento p uò es sere tracciato sull a des tra o rografica del l’Adi ge, all ’altezza d el t riang olo creato dall e od ierne Nomi-Nog ared o -Serv i s, u n seco n d o, s u l v ers an t e o pp o s t o , l u n g o l a fas ci a p edemo n t an a tra Volano-S. Ilario-Rovereto, un terzo , infine, vers o Sud /Oves t sul terrazzo di Mori. In siemi che, fors e no n a caso , tro vano un cert o rifless o s pecul are dal l’infittirsi, nelle mede sime zone, di top onimi germanici71, ma anche dal p o si zi o n amen t o e d al l’affermazi o ne - i n c o rr i s p o n d e n z a – d e i p i ù a n t i c h i ce n t ri p i ev an i . ENRICO CAVADA 70 N el co n testo tracciato u n ru o lo di p rimo p iano p u ò esser stato assu n to d a llo sp u nto n e ro ccio so all e sp alle d i A rco ch e, p e r stru ttu ra n atu rale, b e n si p resta ad assu m ere, al p ari d i altre realtà co nsimili (si p en si al D oss T ren to o alla roccaforte di S äb en-Sab io n a) , il ru olo di centrorifu gio p er la p op olazione d el co ntado . Un ca stellum co mu nitario , p oi esau to rato dal potere territoriale e com itale delle forte famiglia dei d ’A rco. Un ’ip otesi p erseg uib i le s o lta n to attr av er so u n p r o g et to d i ri cerc a ar ch eo lo g i ca ar eale ch e , in u n fu tu ro n o n t ro p p o re m o to , p o ssa p o rt are n u o v a lu ce p er ric o str u ire le v ice n d e d i q u est a su g g es tiv a em ergenza ambien tale. 71 La carta di cu i alla fig. 6 è stata definita su lla b ase d i MASTREL LI ANZ IL OT TI 19 86 e PFISTER.1991.

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Appendice Alle tipo lo gie d elineate n elle pagine pr ecedenti si ritiene op po rtuno affian care i risultati del rilev amento bibliog raf ico e d ’arch iv io attu ato p er id en tif icar e il con testo dei punti-sito classificati. Mentre nel testo si sono evidenziate soltanto le linee r itenu te più sig n if icativ e, per con tro n elle tab elle che seg uo no (e nelle cartin e d i d istrib uzio n e lor o r if erite) p u r già mo lto r id o tte r isp etto alle vie p r aticate, il q uadr o risalta in tutta la su a co mplessità, suscettib ile co mu nq ue di ulteriori integr azion i in r ap p o r to al p r o sieg u o d elle ri cer ch e. La specificità del periodo esaminato e le disomogenee possibilità di acquisizione d ei d ati ar ch eo lo gici h an n o imp o sto u n a scelta nella determin azio ne d ei d ati, d i quelli cronologici in particolare. Pur consapevole del rischio e dell’inevitabile margine d ’arbitr io in siti in un a decisione d i q uesto tip o, nella p rima tabella – per facilitare i riscontri diacronici – si sono definiti tre periodi, non ugualmente estesi in termini matematici, ma significativi dal punto di vista storico: il primo (I-III secolo) rappresen ta la romanizzazion e pr opriamente intesa; il secondo (IV-V secolo) il perdurare d ella tr adizio ne ro man a anco r pr iva di f eno men i immigr ato ri, seb b en e n on esente dai contraccolpi dell’instabilità politica e della crisi economica che investono l’Italia romana; il terzo (VI-V II secolo) è l’ epoca che coin cide con la destrutturazione dei co mp ar ti mu nicip ali e l’in gerenza migr ator ia dei p op oli g er man ici.

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I disegni, le carte di d istribuzio ne e le tavole si d evono a Giusep pe Berlanda , Emilian o Gerola e M onica Tait.

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La necropoli longobarda in località Cascina S. Martino nel quadro dell’insediamento altomedievale a Trezzo sull’Adda (Milano)

Premessa Trezzo è salito alla ribalta dell’archeologia medievale italiana dopo il rinvenimento casuale, tra la fine del 1976 e il 1978, di cinque tombe con ricchi corredi appartenute a personaggi dell’aristocrazia longobarda; due degli inumati erano stati sepolti con anelli sigillari in oro che, oltre a farci conoscere i nomi dei defunti, rappresentano il primo rinvenimento di questo tipo in “contesto chiuso”1 . Nell’edizione dello scavo il catalogo dei reperti era affiancato da un saggio di carattere storico topografico sul territorio di Trezzo 2 che nasceva dall’esigenza di inserire questo sepolcreto in precise coordinate storicoinsediative e di capire le ragioni che, tra gli inizi e la seconda metà del VII sec, spinsero cinque uomini della classe dirigente longobarda, legati al re da vincoli particolarmente stretti, a scegliere proprio Trezzo per la loro sepoltura. L’indagine fece emergere i primi indizi dell’indubbio rilievo che Trezzo ebbe in età romana tra gli insediamenti rurali del settore orientale del territorio milanese e fornì i primi elementi per una ricostruzione dell’assetto insediativo altomedievale e medievale del sito. La ricerca consentì inoltre di intravvedere alcune delle ragioni economiche e politiche che potevano giustificare una significativa presenza longobarda nella zona, e soprattutto di personaggi particolarmente vicini alla monarchia. Nel 1988 il progetto di demolizione della cascina S. Martino per la costruzione di un nuovo condominio fu vincolato dalla Soprintendenza Archeologica, allora diretta dalla Dott. Elisabetta Roffia, alla preventiva esplorazione archeologica dell’area e le indagini, precedute da prospezioni geofisiche3 , si svolsero in più campagne tra l’autunno di quell’an-

1 Cfr. La necropoli longobarda di Trezzo sull’Adda a cura di E. Roffia, (Ricerche di Archeologia Altomedievale e Medievale, 12/13) Firenze 1986. 2 A. AMBROSIONI, S. LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell’Adda nell’Altomedioevo, in La necropoli longobarda, cit. sopra, pp. 167-229. Per il diverso favore con cui è stato accolto questo contributo dalla scuola tedesca e da quella italiana si vedano le recensioni rispettivamente di J. WERNER in «Germania», 65, 1987, fase. 1, pp. 284-293 (trad. italiana: A proposito di: “La necropoli longobarda di Trezzo sull’Adda”, in Archeologia Medievale, XIV, 1987, pp. 439-445, in particolare p. 440-441); A. MELUCCO VACCARO, Un recente studio su un sepolcreto longobardo. La necropoli longobarda di Trezzo sull’Adda, «Arte Medievale», S. II, Anno II, 1, 1988, pp. 163-166. 3 Le prospezioni furono eseguite dal Dott. Claudio Corno della Geoinvest. Nell’occasione fu praticato anche un saggio esplorativo per l’accertamento della stratigrafia geologica; si individuarono tre strati: il primo, fino a - m. 0,90 dal piano di campagna, di limi e sab-

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no e l’estate del 1991 4 . La cascina e la chiesa di S. Martino La cascina S. Martino è situata circa un chilometro a occidente dell’abitato di Trezzo, in prossimità della nuova provinciale per Monza; in antico risultava compresa tra la via per Colnago e Coronate (località dove si svolse la nota battaglia tra Cunicperto e Alachis e dove poi si installò una curtis regia) e la via che raggiungeva Vimercate passando per Busnago e Bellusco, antichi borghi del contado milanese, quindi Monza. Il fabbricato rustico, costruito su un’area in precedenza adibita a produzioni laterizie, inglobò nel 1924 i resti della antiquissima chiesa di S. Martino, documentata dalle fonti a partire dal XIII sec.5 e più volte in seguito ristrutturata. Gli scavi tuttavia, come vedremo, permettono di ipotizzare un edificio di culto ben più antico, in sintonia con quanto suggerito dalla intitolazione, frequente in età altomedievale, e dalla prossimità all’importante nucleo sepolcrale longobardo individuato nel 1976 6 . Tra il gennaio e il luglio 1989 si effettuò lo scavo nel settore interessabie fini con scarsa matrice argillosa giallo marroncino priva di ciottoli (loess?); il secondo, da - m. 0,90 a m. 1,70 di argilla limosa giallastra molto screziata ricca di frustuli carboniosi molto plastica e priva di ciottoli, il terzo, da - m. 1,70 a - m. 3 di argilla limosa screziata giallo-grigia-rosso ocra_ricca di frustuli carboniosi estremamente plastica e priva di ciottoli. Lo scavo archeologico, promosso dalla Soprintendenza Archeologica della Lombardia, è stato eseguito con fondi della Cooperativa Acli «S. Martino Nuova» di Trezzo, proprietaria del terreno, e della Soprintendenza Archeologica della Lombardia. La direzione scientifica dello scavo mi è stata affidata dall’allora Soprintendente Reggente Dott. Elisabetta Roffia, a cui sento il dovere di esprimere la mia gratitudine. Un vivo ringraziamento anche al Dott. Angelo Maria Ardovino, attuale Soprintendente Archeologico della Lombardia, che ha voluto rinnovarmi l’incarico e alla Dott. Anna Ceresa Mori, Direttore dei lavori. Le indagini sono state eseguite da operatori della Società Lombarda di Archeologia (G. Righetto, F. Sacchi, S. Malinverno, E. Gavardi, N. White, S. Bocchio, M. Losi, L. Signorelli, F. Trabelsi, M. G. Vitali, R. Caimi, M. Botteri, U. Beretta, M. Di Girolamo, S. Tenderini, S. Navigato, C. Gatti, A. Anganuzzi, A. Maiorano, M. Rota) sotto la responsabilità di Dominic Salsarola, cui vanno i miei ringraziamenti. Allo scavo hanno inoltre partecipato, in qualità di volontari, studenti e laureandi dell’Istituto di Archeologia dell’Università Cattolica di Milano. 4 Sullo scavo del 1989 si veda anche S. LUSUARDI SIENA, D. SALSAROLA, Trezzo sull’Adda (MI). Cascina S. Martino, in Notiziario 1988-1989. Soprintendenza Archeologica della Lombardia, Milano 1990. pp. 170-174; S. LUSUARDI SIENA, Qualche considerazione sulla necropoli longobarda in località Cascina S. Martino a Trezzo sull’Adda, in Rassegna di recenti scavi in Italia (Seminario di Archeologia Medievale, Cassino 21-22 maggio 1991) (in stampa). 3 La prima menzione è nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani a c. di M. Magistretti e U. Monneret de Villard, Milano 1917. La chiesa è definita antiquissima nella visita del Cardinal Ferrari nel 1896. Come oratorium perantiquum era stato peraltro descritto già nel 1609 nella visita pastorale del canonico ordinario della Metropolitana Giulio Cesare Visconti. Ringrazio per queste informazioni il Dott. Giorgio Ghezzi, dell’Istituto di Storia medievale e moderna dell’Università Cattolica di Milano, che ha in corso l’esame della documentazione d’archivio di cui darà conto nella pubblicazione definitiva degli scavi. 6 Cfr. oltre al contributo – ormai classico – di G.P. BOGNETTI, I “Loca Sanctorum” e la storia religiosa della Chiesa nel regno dei Longobardi, in L’Età Longobarda, III, Milano 1967, pp. 305-359, il cenno del WERNER, A proposito di: «La necropoli longobarda», cit., p. 440, dove l’A. lamentando la mancanza di uno studio sul patrocinio cattolico di S. Martino nella diocesi milanese, suggerisce la possibilità che la chiesa di S. Martino di Trezzo costituisse la cappella di una villa rustica.

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to dalla demolizione dei corpi di fabbrica ottocenteschi (settori A e B) e si operò inoltre la demolizione controllata delle superfetazioni più recenti dell'edificio risultato dalla trasformazione della chiesa nel 1924. Si acquisì così la prova dell'occupazione dell'area in età romana e dell'esistenza di un insediamento attivo per tutta l'età imperiale. In particolare nel settore B - comprendente il corpo meridionale della cascina a destinazione abitativa, una fascia di prato a sud di questa e la corte interna - si individuarono evidenze negative che, benché purtroppo 'decapate' e prive del rapporto con il piano d'uso antico - asportato come gran parte delle strutture in seguito a spianamenti agricoli - permisero di recuperare nei riempimenti una grande quantità di materiali d'uso, in grado di fornire un quadro articolato dei consumi di un sito rurale prossimo a Mediolanum tra età romana e alto Medioevo. La struttura emersa in miglior stato di conservazione è una cisterna con pareti in ciottoli legati da malta e rivestimento in cocciopesto; era riempita da un terreno abbastanza omogeneo, ricco di materiali ceramici e

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ossa animali scaricati nella fase di abbandono. Sul fondo sono state recuperate parti di travi, probabilmente funzionali all’originario sistema di pescaggio dell’acqua. Poco distante dalla cisterna, a ovest, è stato individuato un taglio quasi perfettamente circolare, riempito di terreno limoso bruno il cui prelievo ha permesso di mettere in luce, un’impronta circolare relativa ad una struttura lignea interrata la cui funzione resta da accertare. In corrispondenza del limite occidentale dello scavo sono poi emerse altre due buche utilizzate, a giudicare dal riempimento, come discariche. Altrettanto può dirsi di una terza e di una quarta buca riempite di macerie. All’estremità NW del settore B sono emerse inoltre le sole tracce di un piccolo vano (mis. max. m. 3,60 x m. 1,40) pavimentato in cocciopesto su un vespaio di ciottoli esteso a sud a costituire anche la fondazione di una parete lignea documentata da una trincea per l’alloggiamento di una trave orizzontale. Verso est il pavimento in cocciopesto è sostituito da un piano in tavelloni piuttosto sconnessi e mal conservati. L’intera struttura è stata costruita entro una trincea di forma rettangolare effettuata nello sterile per una profondità di circa cm. 20. È difficile individuare la funzione di questa struttura, di cui non si sono riscontrati altri perimetrali nonostante l’allargamento dello scavo a nord. Altri materiali risultati dalla demolizione di strutture romane (ciottoli, laterizi, piastrelle pavimentali, intonaci con tracce di incannucciato sul retro) costituivano, insieme ad abbondante materiale ceramico e a ossa, il riempimento di una grande e profonda fossa a pareti verticali (diametro m. 10 circa, profondità m. 4,10). Il riempimento è costituito da una serie di scarichi ad andamento obliquo interessati nella parte superiore dalla presenza di un muro con andamento E-O relativo alla fabbrica ottocentesca della cascina. Sul fondo della buca era depositato uno strato di terreno molto omogeneo, non dissimile dallo sterile delle pareti, un’argilla di colore marrone rossastro, spesso m 1,60-1,80. La presenza di questa grande fossa e di quella adiacente meno profonda sembra da correlare all’estrazione in

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loco di argilla per la produzione laterizia, attività che è documentata in quest’area fino ad epoca contemporanea. Interrotta l’attività di cava, la buca è stata riempita con rifiuti domestici e macerie come la vicina cisterna. L’orizzonte indicato dalla associazione dei materiali per la fase finale dei riempimenti non sembra anteriore al IV-V sec. , mentre la presenza di frammenti residui di vernice nera e di sigillata norditalica e alcuni tipi di anfore suggeriscono di collocare almeno nella prima età imperiale l’inizio dell’insediamento nella zona. Non è escluso tuttavia che lo studio dei reperti consenta di stabilire sfasamenti cronologici tra i riempimenti delle diverse buche e della cisterna; inoltre lo studio della ceramica comune grezza, particolarmente abbondante, potrebbe determinare delle sorprese circa il termine finale dei riempimenti, assegnato all’età tardo imperiale sulla base dei più noti recipienti in ceramica fine da mensa. Tra il 1990 e il 1991 l’esplorazione si è concentrata in corrispondenza dell’ex chiesa di S. Martino e dei due annessi meridionali postmedievali, poi demoliti recuperando nella muratura della sagrestia un capitellino in pietra con ornato a intreccio e a motivi vegetali inquadrabile al più tardi in età protoromanica. Esso forniva una prima indicazione circa la possibilità di anticipare la datazione dell’impianto di culto. Nell’area della chiesa la struttura stratigrafica è apparsa gravemente mutilata in alcune sequenze per l’asportazione dei depositi durante le ristrutturazioni bassomedievali e moderne dell’edificio; è stato tuttavia possibile, sulla base della stratificazione superstite, ricostruire una sequenza insediativa che preliminarmente può essere cosi schematizzata.

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I. Fase insediativa di età romana I più antichi livelli di occupazione sono rappresentati da tracce di strutture lignee inserite nello sterile, successivamente asportate; si tratta di evidenze assai modeste che non consentono di ricostruire una planimetria organica. Segue una fase caratterizzata dalla presenza di un suolo concottizzato, privato però dell’interfaccia superiore, da mettere forse in relazione all’esistenza di attività artigianali. A questa stessa fase o a un momento ancora posteriore vanno riferite alcune fondazioni in ciottoli e malta, delimitanti un vano quadrangolare e altri ambienti di cui è però impossibile stabilire la destinazione funzionale. Potrebbe trattarsi della porzione di un impianto rustico più esteso, o di un edificio isolato di modeste proporzioni. La perdita, anche in questo caso, dei piani pavimentali non consente di avanzare ipotesi attendibili e solo la presenza, tra i materiali residui recuperati negli strati superiori, di frammenti di intonaci dipinti e tessere musive, potrebbe far ritenere di trovarsi nell’ambito di una villa rustica. II La necropoli Quando l’edificio romano era già abbandonato e in parte demolito l’area è stata occupata da una necropoli la cui principale fase di sviluppo sembra riferibile grosso modo alla fine del VI - prima metà del VII sec: anche se la maggior parte delle inumazioni è risultata violata in antico, gli elementi del corredo e dell’abbigliamento funebre recuperati nel terreno di riempimento e – in un caso – lo stesso corredo intatto consentono di riferire queste sepolture all’età longobarda e di attribuirle, almeno in alcuni casi, a personaggi socialmente rilevanti. La distanza di circa 200 metri in linea d’aria che separa questo gruppo

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di inumati dai cinque dignitari scoperti nel 1976-1978 e la lieve divergenza d’orientamento dei due gruppi di tombe rende impossibile una sicura interpretazione dei rapporti intercorrenti tra di essi. E malauguratamente non c’è ragione di ritenere che scavi futuri nell’area compresa tra S. Martino e via delle Racche offrano prove di una continuità di uso funerario tra i due nuclei e consentano di avanzare ipotesi circa i criteri organizzativi del cimitero. La zona in questione ha infatti subito di recente una intensa urbanizzazione costituendo un settore d’espansione dell’abitato di Trezzo. Ogni conclusione al riguardo sarà quindi ipotetica e potrà fondarsi esclusivamente sul confronto con i pochissimi altri ‘modelli’ disponibili per l’Italia. Interessante, al riguardo, il caso di Sovizzo (Vicenza), dove troviamo installata, nei pressi di una villa rustica romana in almeno parziale disuso, un sepolcreto longobardo articolato in nuclei separati con caratteristiche organizzative diverse, legate probabilmente a differenziazioni sociali e/ o etniche dei diversi gruppi 7. La pubblicazione organica dei risultati dell’indagine vicentina consentirà in futuro di verificare eventuali, più strette analogie tra i due siti. Le tombe nell’area di S. Martino a Trezzo sono tagliate, a varia profondità, nel terreno vergine. Il piano di partenza dei tagli non è stato individuato a causa dei numerosi interventi succedutisi nell’area che hanno via via asportato i suoli antichi: il fondo delle sepolture è infatti ad una profondità che varia da - m. 0,75 fino a - m. 0,20 circa per le più superficiali rispetto al pavimento della cascina, segno evidente che il deposito archeologico ha subito un sensibile assottigliamento. Le sepolture presentano, sotto il profilo strutturale, diverse tipologie. Nonostante in alcuni casi la violazione abbia provocato l’asportazione di parti strutturali, le evidenze superstiti consentono di stabilire un alto indice di variabilità nella tecnica di costruzione della struttura tombale che è certo legata in gran parte alla eterogeneità dei materiali disponibili, ma che sembra anche riflettere una scelta precisa: accanto a semplici fosse terragne sono documentate recinzioni in ciottoli, talora con aggiunta di laterizi, fosse con fondo in laterizi frammentari o in altro materiale romano di recupero (piastrelle in pietra, intonaci dipinti), strutture in cocciopesto. Frequente è l’uso della bara lignea. Sotto il profilo della distribuzione spaziale le tombe risultano collocate su otto file parallele con andamento N-S; gli inumati sono tutti rivolti a oriente. Le sepolture individuate sono solo in parte comprese entro una chiesa (altomedievale?) che risulta impostarsi sul cimitero (vedi oltre), ma si trovano tutte entro il perimetro della chiesa post medievale che ha in sostanza salvaguardato, nonostante i rifacimenti che l’hanno interessata, la parte inferiore delle fosse sepolcrali longobarde; mentre tutto intorno all’edificio si sono verificati manomissioni, scassi e abbassamenti artificiali del terreno che hanno determinato la totale asportazione delle strutture. A nord della chiesa, ad esempio, la via acciottolata di S. Martino ha probabilmente disturbato la necropoli. Al di là della strada costruzioni

7

Cfr. M. RIGONI, P. HUDSON, C. LA ROCCA, Indagini archeologiche a Sovizzo. Scavo di una villa rustica e di una necropoli di età longobarda, in La ‘Venetia’dall’antichità all’Alto Medioevo, Roma 1988, pp. 229-233.

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Fig. 5 – Trezzo d’Adda, vano 1 della cascina S. Martino: resti del presbiterio della chiesa alto-medievale (muro a L) con le fosse sepolcrali longobarde. Fig. 6 – Trezzo d’Adda, vano 1 della cascina: il fondo della tomba US 127 costruito con materiale di reimpiego. Fig. 7 – Trezzo d’Adda, cortile della cascina: la tomba US 345 messa in luce in corrispondenza della facciata. Fig. 8 – Trezzo d’Adda, cortile della cascina: la tomba 321 con la parte conservata della struttura di delimitazione in ciottoli.

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Fig. 9 - Trezzo d’Adda: veduta generale dello scavo 1990-1991, da est.

moderne hanno in parte radicalmente distrutto la stratificazione, ma restano a nord zone coltivate dove in futuro le esplorazioni potrebbero essere riprese. A est del presbiterio moderno, nell’area adiacente al settore A indagato nel 1989, non si sono riscontrate tombe, ma non si può escludere che esse siano state asportate quando l’area (nel secolo scorso?) subì un abbassamento artificiale. Nella fascia adiacente al perimetrale sud della chiesa, in corrispondenza della sagrestia postmedievale, è stato messo in luce sullo sterile uno scheletro orientato, con il capo a ovest; lo scheletro era stato disturbato e in parte asportato da interventi successivi che avevano determinato la scomparsa anche del deposito interessato dalla fossa sepolcrale. Questo ritrovamento conferma l’esistenza di inumazioni nel settore a meridione della chiesa e la loro distruzione per l’abbassamento artificiale del terreno in età moderna. In conclusione il gruppo di tombe messe in luce rappresenta una sorta di ‘isola’ di cui al momento ignoriamo il rapporto con una eventuale necropoli più estesa. III. L’edificio di culto Lo scavo ha accertato che su una porzione del sepolcreto si installa un edificio ad aula unica con presbiterio rettangolare che sfrutta in parte murature romane. Resta da chiarire (vedi oltre) se tale chiesa abbia sostituito una più antica costruzione con funzione di mausoleo secondo una dinamica ben individuata di recente in area alemanna e merovingia8 . 8

Si vedano al riguardo le importanti indicazioni di sintesi offerte da H.R. SENNHAUSER,

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La primitiva chiesa potrebbe risalire all’altomedioevo, ma si attende la conferma dei materiali; l’impianto planimetrico trova comunque numerosi confronti con edifici longobardo-carolingi della Lombardia e del Canton Ticino, della Svizzera, della Baviera e della Gallia orientale9 . Questo edificio subì nel corso del medioevo una serie di restauri che non sembrano averne modificato la planimetria, almeno fino alle ristrutturazioni post medievali, quando la chiesa fu allungata, il coro approfondito e l’edificio dotato di un portico, di un campanile e di annessi sul lato meridionale; interventi questi ultimi che sono in gran parte da inquadrare tra XVI e XVIII, ma la cui cronologia specifica è ancora da circoscrivere.

Le sepolture individuate Delle venticinque inumazioni messe complessivamente in luce, ci si limita qui a fornire qualche cenno sulle due, affiancate, messe in luce sotto la facciata della chiesa. Esse presentano infatti caratteristiche particolari che meritano di essere almeno segnalate. Si ricorda tuttavia che anche altre tombe (la 209, la 193 e la 313), grazie alla presenza della crocetta d’oro, rimasta nel riempimento nonostante la violazione, possono essere attribuite a membri dell’aristocrazia longobarda10. La tomba 321, anche se manomessa, può essere riferita ad una defunta di rango molto elevato: lo si deduce dalla presenza di elementi del broccato d’oro dell’abito, di una lunga collana in perline di vetro verdi, di una guarnizione di scarpa in argento niellato e di una probabile scatoletta intarsiata con elementi in osso lavorato 11 . Anche la tomba 345 è risultata appartenere ad un giovanetto di alto rango; si tratta dell’unica struttura inviolata messa in luce negli scavi ed è quindi possibile ricostruire integralmente l’abbigliamento dell’inumato e il rituale funebre. Il corpo giaceva in una bara lignea collocata entro una fossa foderata sul fondo da laterizi frammentari di recupero e lungo i bordi da ciottoli. Un riempimento di terra mista a grossi ciottoli ricopriva la bara. Il corredo era

Recherches rècentes en Suisse. Edifices funéraires, cimitières er églises, in Actes du XIe Congrès International d’Archéologie Chrétienne, Città del Vaticano 1989, pp. 1515-1533. 9 Si ricordano ad esempio, oltre alle ben note chiese dei Ss. Nazaro e Celso a Garbagnate Monastero (CO) (VII sec), e dei Ss. Pietro e Lucia a Stabio (VII ?), quelle altomedievali di Klais e di Staubig (quest’ultima lignea) in Baviera; di Faverges, St. Martin de Briod, St. Martin a Schwyz nella Gallia orientale: Die Bayuwaren von Severin bis Tassilo 488-788 a e. di H. Dannheimer e H. Dopsch, 1988, pp. 294, 297, 317; M. C OLARDELLE , Sépultures et traditions funéraires du Ve au XIIIe siécle ap. J.C. dans les campagnes des Alpes francaises du Nord, Grénoble 1983, p. 110. 10 Per la descrizione di tutte le sepolture individuate si rinvia a LUSUARDI SIENA, Qualche considerazione, cit. a nota 4. 11 La presenza, oltre al broccato, di scarpe con guarnizioni d’argento depone a favore della appartenenza delle defunta ai gradini più alti della società longobarda; oggetti di questo tipo si rinvengono infatti in tombe particolarmente ricche. A titolo indicativo si richiama la presenza di guarnizioni in argento dorato e niellato nella tomba della regina Arnegundis a St. Denis. Esemplari analoghi a quelli di Trezzo, ma meno preziosi e realizzati in bronzo lavorato a Kerbschnitt, provengono dalla tomba 2 di Loehningen-Hirschen datata alla metà del VII sec. (R. MOOSBRUGGER-LEU, Die Schweitz zur Merowingerzeit, Basel 1971, p. 219).

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costituito da un pettine e una cesoia deposti accanto al capo, da un bacile “copto” in bronzo fuso posto rovesciato in corrispondenza delle caviglie e da una bottiglia in lamina di bronzo tirata a martello collocata presso il bacino (sul fianco destro); il collo del recipiente si presentava ripiegato e rotto, probabilmente per lo sfondamento del coperchio della bara. Il bacile è del tipo canonico con piede traforato e manici ad omega (uno però era già stato sostituito con un manico assai rozzo di restauro) del gruppo A1 della Caretta attestato finora a Cividale, Civezzano, Brescia S. Eustachio, Testona(?), Pesaro, Nocera Umbra, Castel Trosino, ChiusiArcisa e Sutri12. La bottiglia bronzea trova un significativo riscontro nell’esemplare rinvenuto nella ricchissima tomba maschile alamanna n. 9 di Niederstotzingen e, meno direttamente, in quello della tomba femminile, pure alamanna, di Taebingen (in entrambi i casi siamo di fronte ad una datazione di fine VI inizio VII sec. e in presenza di una associazione con bacile bronzeo)13 . Anche la bottiglia di Trezzo, come il bacile, presentava segni di uso prolungato e probabilmente quando è stata deposta aveva già perso l’ansa. Il recente riesame di queste bottiglie porta a supporne una produzione di prima età bizantina in manifatture dislocate nel Mediterraneo orientale14. Per quanto concerne l’abito funebre dell’inumato, a parte la crocetta d’oro del velo, non sono stati rinvenuti altri elementi aurei appartenenti a broccati. Sono state invece ritrovate le armi e la complessa cintura per la loro sospensione. La spada, entro il fodero ligneo, si trovava al fianco sinistro del defunto e in prossimità dell’immanicatura si sono messi in luce due bottoni troncopiramidali con foro passante relativi probabilmente al sistema di sospensione dell’arma15. Il sax corto era deposto orizzontalmente sulla vita in modo che la punta si appoggiasse alla spada; al fianco destro e sinistro erano due coltellini. Alla vita il defunto indossava la cintura per le armi decorata da guarnizioni in ferro ageminato del tipo “Civezzano”. Dato lo stato di conservazione dei reperti solo dopo il restauro sarà possibile precisare le caratteristiche della cintura.

12 Cfr. M.C. CARRETTA, II catalogo del vasellame bronzeo italiano altomedievale, (Ricerche di Archeologia Altomedievale e Medievale, 4) Firenze 1982, pp. 17-19; E. Russo, Testimonianze monumentali di Pesaro dal sec. IV all’epoca romanica, in Pesaro tra Medioevo e Rinascimento, Venezia 1989, pp. 111-113; G. CIAMPOLTRINI , Le tombe 6-10 del sepolcreto longobardo di Chiusi-Arcisa. Per un riesame dei materiali, «Archeologia medievale», XIII, 1986, pp. 554-562. 13 Cfr. M. BOLLA, “Blechkannen”: aggiornamenti, in Notizie dal Chiostro del Monastero Maggiore 1990, pp. 95-111. Questo di Trezzo, a quanto mi consta, è il primo ritrovamento italiano in cui compaia l’associazione dei due recipienti. 14 Ibi, p. 107. 15 Cfr. gli esemplari dalla tomba 24 di S. Stefano in Pertica a Cividale (inizi VII sec.) (I Longobardi a c. di G. Menis, Milano 1990, p. 420 fig. p. 426) oltre che quelli da numerose tombe (in particolare la 98) a Nocera Umbra, a Sovizzo e nella Germania centrale: S. CINI , Gli scavi recenti: la necropoli di Castelli di Calepio, in AA.VV., I reperti altomedievali nel Civico Museo Archeologico di Bergamo, (Fonti per lo studio del territorio bergamasco, VI) Bergamo 1988, p. 139.

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Il problema del rapporto tra il sepolcreto longobardo e il soprastante edificio di culto in muratura Come si è detto, dal punto di vista stratigrafico non vi è dubbio che l’edificio ad aula sia posteriore al sepolcreto; in particolare il presbiterio rettangolare risulta connesso ad un piano che copre il riempimento delle tombe 209, 247, 349 dopo la loro violazione. A meno che non si debba interpretare tale piano come relativo ad un livellamento delle murature presbiteriali, esso parrebbe dunque indicare la posteriorità di questa porzione almeno dell’edificio rispetto al momento di profanazione delle sepolture. Ciò è peraltro palesemente in contrasto con altri dati che manifestano nell’impianto perimetrale del presbiterio la volontà di rispettare le tre sepolture. I rapporti stratigrafici segnalano inoltre che la violazione della tomba 293 è avvenuta dopo che su di essa si era impostata, con diverso orientamento e proprio sulla mezzeria dell’edificio (quindi presupponendolo), una seconda sepoltura la cui ubicazione sembra proprio giustificarsi in ragione di una relazione con il defunto della tomba sottostante e, forse, con la prossimità al luogo dell’altare (non individuato perché coincidente con un muro moderno della cascina). Poiché i dati di scavo sembrano suggerire una sostanziale contemporaneità delle violazioni che hanno interessato l’aula, sembra logico ipotizzare che queste siano avvenute quando già era stato edificato un luogo di culto, nel rispetto di un nucleo cimiteriale che, come si è visto, presentava caratteri di privilegio. Questa ipotesi è confermata da un altro elemento: le sepolture 321 e 345 sono coperte dal muro di facciata dell’edificio che sembra averle intenzionalmente sigillate, quasi a impedirne la violazione; in effetti la tomba 345 è l’unica che abbiamo ritrovata intatta con il ricco corredo, mentre la 321, individuata probabilmente per caso in occasione di un intervento edilizio in facciata, è stata quasi completamente svuotata. Nelle modalità di sovrapposizione dell’edificio di culto alle sepolture sembrano in conclusione riconoscibili criteri precisi che riflettono un particolare rapporto del o dei fondatori nei confronti di alcuni degli inumati. La scarsità numerica delle tombe e la loro quasi sistematica spoliazione in antico impedisce di coglierne appieno i rapporti stratigrafici orizzontali, va rilevato tuttavia che quelle ubicate entro il perimetro della chiesa più antica sembrano accomunate da segni di agiatezza e di prestigio dei defunti: le fosse sepolcrali sono più profonde, e alcune sono dotate di una struttura interna di recinzione che doveva accogliere la bara lignea; inoltre laddove lo svuotamento non è stato totale, i reperti ritrovati setacciando il riempimento indicano la presenza originaria di ricchi corredi. Alcune sepolture presentano inoltre una tipologia particolare: la sepoltura 332 per esempio è risultata completamente asportata, ma sul fondo della fossa sono state ritrovate le tracce in negativo di una struttura quadrangolare realizzata con travi lignee disposte orizzontalmente nello sterile che potrebbe far pensare ad una piccola camera funeraria. Strutture di questo tipo sono state individuate, oltre che in Pannonia e in Baviera anche in alcune tombe di capi della Gallia orientale16 e della

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Cfr. ad esempio B.K. YOUNG, Quelques reflexions sur les sépultures privilégiées, leur

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Svizzera17. All’esterno della prima chiesa, sia a ovest che a est, sono riconoscibili altre inumazioni con individui adulti alternati a infanti; in questo gruppo non sembrano accertati casi di violazione intenzionale anche se tutte le fosse apparivano disturbate dalle attività di cantiere della chiesa postmedievale e del portico antistante. Gli elementi dell’abito funebre rinvenuti in queste tombe si riducono in genere alla sola presenza di collane e di pettini; viene pertanto da pensare che essi appartengano a individui di una classe sociale inferiore rispetto a quelli inumati nell’area occupata dalla chiesa. Quanto si è osservato in via preliminare, deve essere attentamente rimeditato e verificato anche alla luce dei risultati che emergeranno dallo studio dei resti scheletrici18, ma nel complesso non ci sembra inverosimile ipotizzare che la chiesa che ritroviamo nel medioevo intitolata a S. Martino ricalchi un primo edificio-mausoleo di età longobarda.

La necropoli longobarda di S. Martino e l’insediamento altomedievale a Trezzo Le scoperte di cui si è dato conto in via del tutto preliminare confermano l’importanza che Trezzo riveste per la conoscenza dell’insediamento, della società e della cultura materiale longobarda e fanno emergere con chiarezza il ruolo polarizzatore assunto dagli insediamenti rurali romani nella distribuzione degli stanziamenti di questo popolo. La presenza longobarda a Trezzo va inoltre inquadrata nel generale interesse politico-economico della monarchia per i territori lungo l’Adda, territori dove già in epoca tardo antica erano concentrate estese proprietà fiscali e dove erano evidentemente situate postazioni strategiche di primo piano se, certo non a caso, proprio lungo questo settore dell’Adda si svolsero tra III e V sec. battaglie decisive per la storia della regione e della stessa penisola, come quelle tra Aureolo e Gallieno, tra Alarico e Stilicone, tra Teodorico e Odoacre nonché nel 689 quella già ricordata tra Cunicperto e Alachis. Trezzo si trova inoltre in una posizione naturalmente favorevole al controllo della viabilità fluviale e baricentrica rispetto alla viabilità terrestre tra Bergamo e Como a nord e tra Brescia e Milano a sud, prossima al nodo stradale importantissimo di Pons Aureoli (Pontirolo)19. Proprio a sud di Pontirolo si estende la Gera d’Adda, ampio territorio facente capo a Fara Autharena (Fara d’Adda) dove si sarebbe stanziato il gruppo parentale di Autari e dove lo stesso sovrano avrebbe fondato, secondo quanto riferisce un diploma di Carlo il Grosso dell’883 in favore del vescovo di Berga-

contexte et leur évolution surtout dans la Gaule de l’est, in L’inhumation privilégiée du IVe au VIIIe siécle en ocddent, a c. di Y. Duval et J. Ch. Picard, Paris 1986, p. 70 dove sono segnalate strutture di dimensioni simili a quella di Trezzo. 17 Cfr. M. MARTIN, Le cimitière de Bale-Bernerring (Suisse). lnterprétation historique et sociale d’après la chronologie exacte des tombes, in Problème de chronologie relative et absolue concernant les cimitières mérovingien d’entre Loire et Rhin, Paris 1978 p. 187. 18 I resti scheletrici umani sono in corso di studio ad opera del Prof. Andrea Drusini del Dipartimento di Biologia dell’Università degli Studi di Padova. 19 Cfr. AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell’Adda, cit. e nota 2, pp. 194199.

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mo «... basilicam que dicitur Fara et nominatur ecclesia autarena ab Autari regi»; una chiesa ariana che stando alla menzione del diploma sembra essere l’espressione materiale e simbolica insieme dell’istituto della fara. Fatto che ne giustifica le complesse vicende e la rivendicazione del duca ariano Alachis quando già da Grimoaldo (662-671) era stata donata al vescovo di Bergamo perché la riconsacrasse al culto cattolico20. A sud di Trezzo dunque la presenza della fara autarena rappresenta già di per sé un fatto emblematico del ruolo svolto da questo settore dell’Adda nella storia dell’insediamento longobardo, indipendentemente dai fattori contingenti che possono avere determinato il passaggio di questo territorio tra le proprietà della corona21 . Altri elementi convergono inoltre nel delineare la rilevanza dell’insediamento longobardo a Trezzo. Se infatti è corretta l’ipotesi che il castelvecchio occupato e poi ricostruito dal Barbarossa sulla estremità del promontorio, accanto al luogo dove tuttora si erge la mole del castello visconteo22 sia da identificare con il castrum qui nominatur Rauca, ricordato in un documento del 998 come esistente nell’ambito della curtis regia di Coronate, avremmo una ulteriore prova del valore strategico del sito, compreso ancora una volta all’interno delle proprietà della corona23 . Accanto a quello politico-militare, il territorio di Trezzo sembra rivestire un interesse sensibile anche sotto il profilo economico, sia per la monarchia che per i grandi possessores vicini al re che costituiscono l’impalcatura politica e sociale del regnum. Il sovrano longobardo, come già in precedenza il pubblico demanio – soprattutto a partire dall’epoca in cui Milano diventa capitale dell’Impero – poteva trovare motivi di interesse dalla navigazione sul fiume, dallo sfruttamento delle sabbie aurifere, delle cave di «ceppo» e di argilla, delle estese selve che caratterizzavano la regione; argilla e legname sembrano aver alimentato anche in età longobardo-carolingia fornaci laterizie di cui resta testimonianza nelle piastrelle bollate SENO-

20 Cfr. KAROLI III, Diplomata, ed. P. KHER, in MGH, Diplomata Karolinorum, II, Berolini 1936, n. 89, pp. 144-147; AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell’Adda, cit., p. 168. Sulla chiesa autarena di S. Alessandro che conserverebbe ancora la struttura muraria originaria cfr. A. MERATI, La basilica di S. Alessandro di fara di Gera d’Adda, in Atti del VI Congresso internazionale di studi sull’Altomedioevo, Spoleto 1980, pp. 537-546. 21 La presenza di beni regi in questa regione in età longobarda è evidentemente il risultato ultimo di una serie di passaggi di proprietà pubbliche costituitesi certamente già dall’età tardo antica, quando i territori lungo i grandi fiumi disponevano di uno statuto particolare che conservarono in età gota e dopo la riconquista giustinianea: cfr. AMBROSIONIL USUAEDI S IENA, Trezzo e le terre dell’Adda, cit., p. 169-170. Dal nostro punto di vista è ininfluente, oltre che difficile da stabilire, se questo territorio, già di Clefi, sia passato ad Autari in eredità o facesse parte dei beni fiscali ceduti dal duca di Bergamo dopo la restaurazione della monarchia o ancora rientrasse nei territori bizantini incamerati da Autari dopo la conquista dell’Isola Comacina nel 588 (per questa ultima ipotesi G.P. BROGIOLO, LO scavo di una chiesa fortificata altomedievale: S. Tomè di Carvico, «Archeologia medievale», XVI, 1989, p. 158). 22 La rifortificazione del castello di Trezzo ad opera di Federico Barbarossa avvenne tra il 1159 e il 1167; in quello stesso anno Milanesi e Bergamaschi lo distrussero e abbatterono «meliorem turrem quam unquam in tota Longobardia tunc fuisset» (MORENAE, Historia, p. 193). Cfr. SETTIA, Castelli e villaggi, cit. p. 392-393; AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell’Adda, cit., pp. 203-204. 23 Per l’analisi degli elementi che potrebbero consentire questa identificazione rimando agli argomenti esposti in AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell’Adda, cit., p. 202210, che do per acquisiti.

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ALD rinvenute a Bottanuco, sulla sponda bergamasca dell’Adda, poco distante da Trezzo 24 . Quanto all’espansione del grande possesso fondiario dell’alta aristocrazia, disponiamo per la zona di un documento del più grande interesse per la sua antichità e per il suo contenuto: il testamento del vir magnificus Rottopert (a. 745). Il documento, che contiene la prima menzione di Trezzo («in fundo Trecio») ci fa conoscere alcuni aspetti del paesaggio e delle colture – alcune delle quali da poco conquistate all’incolto – e fornisce una straordinaria testimonianza della mentalità e della pietas di un personaggio di spicco della società longobarda alla metà del sec. VIII25 . Quanto si è detto, oltre a inserirsi molto bene nel quadro di recente delineato circa l’influsso esercitato dalla conquista longobarda a Milano e nel suo territorio 26 , può aiutare a comprendere meglio la presenza a Trezzo di personaggi con anelli sigillari in oro, sia che in essi siano da riconoscere gastaldi con poteri ducali27, sia che si tratti di semplici amministratori dei beni regi. Certo il problema dell’identificazione del ruolo di tali personaggi all’interno dell’apparato politico-amministrativo longobardo è problema complesso e lungi dall’essere risolto. E naturalmente una cosa è ritenere che tali anelli appartenessero a funzionari inumati nel luogo ove esercitavano le loro cariche, altra cosa è ipotizzare che le loro sepolture si trovassero in luoghi distinti da quelli dell’esercizio del potere, magari all’interno di loro proprietà fondiarie28 .

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Ibi, p. 192-193. Ibi, p. 175-179. 26 Cfr. G. TABACCO, Milano in età longobarda, in Atti del X Congresso Internazionale di Studi sull’Altomedioevo, Spoleto 1986, pp. 19-43; L’eredità longobarda. Ritrovamenti nel Milanese e nelle terre dell’Adda, a e. di S. Lusuardi Siena, Milano 1990. 27 Cfr. AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell’Adda, cit. pp. 226-229. 28 In attesa di riesaminare con più ampiezza questa problematica, voglio qui almeno richiamare in breve i contributi dedicati agli anelli-sigillo longobardi dopo che i due importanti articoli del von Hessen (in «Numismatica e Antichità Classiche», 7, 1978, pp. 267 ss.; ibidem, 11, 1982, pp. 305 ss.) e la pubblicazione del volume sulla necropoli di Trezzo d’Adda nel 1986, hanno permesso di mettere a fuoco l’importanza di questa categoria di manufatti. L’esegesi più approfondita si deve a W. KURZE , Siegelringe aus Italien als Quellen zur Langobardengeschichte, «Fruehmittelalterliche Studien», 20, 1986, pp. 414-451, critico in più punti nei confronti delle conclusioni del von Hessen, l’A. è propenso a considerare le raffigurazioni sugli anelli come pertinenti ai personaggi menzionati sulla scritta che, a suo avviso, non sono da identificare come referendarii, ma come funzionari di alto rango, probabilmente gastaldi, iudices, o notai. In WERNER, A proposito di: “La necropoli longobarda di Trezzo sull’Adda”, cit. a nota 2, pp. 439-446, vengono dapprima sostanzialmente accolte le argomentazioni di von Hessen e in particolare l’identificazione delle figure rappresentate sugli anelli come ritratti reali; ma nel post scriptum (p. 446) che fa seguito alla lettura del contributo del Kurze si accetta la possibilità che sugli anelli siano rappresentati i funzionari regi Rodchis e Ansvaldo. Alle conclusioni del Kurze rimandano i cenni da me presentati in L’eredità longobarda. Ritrovamenti archeologici nel Milanese e nelle terre dell’Adda, Milano 1989. A quanto mi consta di recente solo pochi interventi hanno ripreso l’argomento, affrontando marginalmente il problema della funzione svolta in vita dai «signori degli anelli». Nelle schede IV. 6 e IV. 7 del catalogo I Longobardi, a cura di G.C. Menis, Milano, 1990, pp. 159-160 non ci si pronuncia sulla carica dei viri illustres, ma viene sottolineata la possibilità che nel personaggio di nome Ansvaldo sepolto a Trezzo sia da riconoscere l’omonimo notaio che curò la promulgazione dell’editto di Rotari. G.M. DEL BASSO, Sigilli longobardi, in «Forum Iulii», XIV, 1990, pp. 43-61, ignorando il lavoro del Kurze, prende in esame il problema dell’esistenza nel regno longobardo di sigilli di stato affidati a funzionari che avevano il compito di usarli a nome del re e ribadisce l’impossibilità di negare l’esistenza di 25

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Malauguratamente, come si è detto, lo scavo nell’area della cascina S. Martino non ha permesso di sciogliere il problema del rapporto tra le sepolture dei «signori degli anelli» e il nucleo sepolcrale su cui è sorta la chiesa. Restano dunque in sostanza aperte due possibilità: quella di immaginare, sul modello di quanto accertato nella necropoli di S. Stefano a Castel Trosino (AP)29, che l’area di S. Martino sia parte di una grande necropoli, la stessa dove – magari in zona appartata a sottolinearne il prestigio – furono deposti Rodchis, Ansvaldo e gli altri anonimi personaggi di rango; o quella di pensare a due nuclei distinti e di ritenere gli inumati di S. Martino un gruppo di possessores, forse addirittura dello stesso gruppo famigliare, sepolti in prossimità della loro residenza, stabilita nei pressi di edifici romani diruti; riutilizzandone in parte le murature su uno di essi fu poi costruita, forse dopo la definitiva conversione al cattolicesimo del proprietario, una chiesa-mausoleo. Esempi di questo tipo sono documentati archeologicamente in diversi siti dell’area merovingia ed anche in Lombardia e nel Canton Ticino – anche se con minore evidenza archeologica – a documentare un fenomeno che nell’ultimo decennio è oggetto del crescente interesse degli studiosi30.

tali sigilli anche se, accanto ad essi, ricorda la presenza di sigilli privati tra i quali è propenso a collocare l’anello di Faolfus di Chiusi. Dal canto suo G. CIAMPOLTRINI, L’anello di Fa-olfo. Annotazioni sull’insediamento longobardo in Toscana, «Archeologia Medievale», XVII, 1990, pp. 689-693 (pure ignorando il Kurze e le ipotesi avanzate in AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell’Adda, cit., pp. 226-229) intuisce, probabilmente a ragione, un collegamento tra il personaggio dell’anello e il toponimo castellium Faolfi già documentato nel sec. VIII in Tuscia; osservando inoltre la frequenza nella Toscana altomedievale di insediamenti costituiti dal nomen loti (vicus o castellimi) seguito da un antroponimo longobardo proprio in corrispondenza di postazioni che ebbero rilevanza strategica tra fine VI e inizi VII sec. durante la lotta tra i bizantini e le armate di Agilulfo per la conquista della Tuscia, suggerisce di interpretare l’anello sigillo di Faolfo come un dono del sovrano ad un suo capo militare, dopo le vittoriose operazioni di conquista. Infine E. ARSLAN, Emissioni monetarie e segni del potere, in Committenti e produzione artistico-libraria nell’Altomedioevo occidentale (settimane del CISAM, XXXIX, Spoleto 1991), Spoleto 1992, pp. 833-836, propende, come il von Hessen, per una identificazione del personaggio raffigurato sugli anelli con il re, suggerendo fra l’altro di riconoscere una figura virile imberbe (Tiberio II?) in quella che il Kurze aveva riconosciuto come immagine femminile sull’anello di GVMEDRUTA da Bergamo. Come si vede il tema merita di essere attentamente rimediato. 29 Anche in questa necropoli è documentata una piccola chiesa-mausoleo, costruita verso la metà del VII sec. in un’area già occupata da altre tombe. Queste, secondo l’interpretazione del Mengarelli, furono trovate vuote perché in occasione della costruzione della chiesa i resti scheletrici sarebbero stati esumati e rideposti in un ossario all’interno dell’edificio (cfr. R. MENGARELLI, La necropoli barbarica di Castel Trosino presso Ascoli Piceno, in Monumenti Antichi pubblicati per cura della Reale Accademia dei Lincei, XII, Milano 1902, cc. 174, 245-250). La chiesa sembrerebbe costruita per ospitare l’inumata della tomba 49, ubicata tra la facciata e il perimetrale nord dell’edificio. Altre sepolture, all’esterno della chiesa, sembrano in chiaro rapporto con essa, in particolare le tombe 56 e 67 (quelle dei fondatori?), disposte con la testata lungo la facciata esterna, proprio ai due lati dell’ingresso quasi a marcare l’accesso al luogo di culto, e la tomba 65, allineata con la 67. La tomba 49 apparteneva ad una donna sepolta con una fibbia ageminata, un pettine riccamente ornato e un vaso in vetro. Entro la tomba 67 furono rinvenuti i resti di due scheletri, un uomo e una donna, resti di broccato d’oro, un pettine e una placca a S in bronzo;la tomba 56 fu invece trovata ricolma di ossa appartenenti ad almeno tre inumati e interpretata come ossario, la tomba 65 conteneva uno scheletro di donna sepolta con una bottiglia di vetro, una collana e un pendaglio in bronzo. Purtroppo la relazione del Mengarelli non fornisce dati circa i rapporti stratigrafici tra le strutture tombali e le pareti della chiesa e queste osservazioni sono possibili solo sulla base della planimetria di scavo. Sulle analogie tra la situazione di S. Stefano a Castel Trosino e S. Martino a Trezzo mi riservo di tornare in altra sede. 30 Cfr. M. COLARDELLE, Sépultures et traditions funéraires du V au XIII siécle ap. J. C.

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L’origine privata della chiesa di S. Martino giustificherebbe fra l’altro la sua mancata menzione nella bolla di Adriano IV (a. 1155) relativa alle chiese dipendenti dalla pieve di Pontirolo. Il silenzio della bolla pontificia potrebbe infatti giustificarsi con il fatto che, in quanto Eigenkirche, S. Martino era sottratta alla giurisdizione della pieve31 . Anche il titolo di S. Martino, santo antiariano per eccellenza, potrebbe trovare una sua logica proprio nella volontà di qualche convertito di esaugurare un luogo pagano. Esaugurazione da non vedere nel senso di una cancellazione radicale del valore pagano del luogo, ma in quello di un «assorbimento della sacralità pagana in una continuità sostanziale di culto che tende però sempre a sfociare in ambito cristiano» 32 . Su questo aspetto tuttavia, in assenza di certezze circa l’originaria intitolazione della chiesa, è prudente non insistere, anche se la suggestione resta forte. Comunque si voglia interpretare l’evidenza emersa negli scavi presso la Cascina S. Martino – anche in attesa che l’analisi dei materiali d’uso consenta eventualmente di registrare tracce di occupazione altomedievale in prossimità del sepolcreto – la continuità di insediamento tra età romana e altomedievale nel territorio di Trezzo non pare da mettere in discussione. Vi sono gli indizi, sui quali ci si è già in altra sede soffermati 33 , costituiti dalla dislocazione di luoghi di culto di antica origine ora scomparsi in prossimità di nuclei agricoli i cui toponimi fanno riferimento a una organizzazione insediativa romana; tra questi assume un indubbio rilievo il caso di S. Michele detto in loco Salionensi nella bolla di Adriano IV del 1155 e in Sallianense nel Liber Notitiae Sanctorum Mediolani (XIII). L’ubicazione della chiesa, funditus diruta già nel 1566 – al punto che nelle visite pastorali si segnala «... nec apparet vestigium ullum que ibi fuerit ecclesia»14 – è stata di recente individuata a un km. circa a sud di S. Martino, in direzione dell’Autostrada Milano-Bergamo35. Ora non c’è dubbio che nella specificazione toponimica di S. Michele permanga il ricordo di quel vicus Salie-

dans les campagnes des Alpes francaises du Nord, Grenoble 1983; A. DIRKENS , La tombe privilegiée (IV-VIII siécle) d’après le trouvailles de la Belgique actuelle, in L’inhumation privilegiée, cit., pp. 47-56, P. PERIN, Des nécropoles romaines tardives aux nécropoles du Haut Moyen Age, «Cahiers Archéologiques», 35, 1987, pp. Sull’argomento si veda inoltre G. GALBIATI, II rapporto tra necropoli longobarde ed edifici di culto nella documentazione archeologica della Lombardia e del Canton Ticino tesi di laurea discussa presso l’Università Cattolica di Milano, A.A. 1990-1991, relatore Prof. S. Lusuardi Siena. 31 In questo senso ci eravamo già espressi ipoteticamente in AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell’Adda, cit., p. 218. 32 Cfr. S. GASPARRI, La cultura tradizionale dei Longobardi, Spoleto 1983, p. 62 33 Cfr. AMBROSIONI-LUSUARDI SIENA, Trezzo e le terre dell’Adda, cit. p. 211 ss. 34 Ibi, tabella p. 215 e pp. 220-221 35 C. ALZIATI, Sulle tracce di un paese scomparso: Sallianese. Contributo per la storia di Trezzo sull’Adda, pubblicato nel bollettino di Trezzo, «In Cammino», il 5 dicembre 1987 e l’1 gennaio 1988. Don Alziati analizzando, per una sua specifica ricerca, la documentazione esistente presso l’Archivio della Curia Arcivescovile di Milano, ha rintracciato documenti cinquecenteschi relativi al territorio di Trezzo menzionanti il elencato di Santo Michele di Senesio o Santo Michel de Sinexio. La degenerazione nel XVI sec. dell’originario toponimo Sallianese in queste nuove forme giustificherebbe le successive trasformazioni popolari, oscillanti da sanginee a ginesio (che avrebbe fatto erroneamente pensare ad un originario culto a S. Genesio) e permetterebbe di localizzare l’edificio nell’area segnalata nelle mappe del secolo scorso con il toponimo sanginesio.

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nensis che troviamo documentato nelle fonti a partire dall’896, ma che con ogni verosimiglianza, per la sua forma onomastica (aggettivazione in ensis di un probabile etnico preromano), è da ricondurre assai più indietro nel tempo. Ricordato ancora nel 1033 come luogo di origine di un tal Giselperto la cui figlia, Imeltruda – con il consorte Angelberto – professa di vivere secondo la legge longobarda, il vicus sembra in seguito decadere, probabilmente in concomitanza con la crescente importanza assunta dal borgo fortificato di Trezzo. Tutto questo fa ritenere che, oltre alla zona di S. Martino, dove di fronte all’assoluto silenzio di fonti scritte – sono state acquisite le prove archeologiche dell’inserimento dei Longobardi entro le maglie dell’insediamento romano, anche se con modalità in gran parte da chiarire – l’area di maggiore potenzialità informativa sia costituita proprio dalla zona di S. Michele in Salianense, dove sarebbe auspicabile potere in futuro intervenire con sondaggi stratigrafici. SILVIA LUSUARDI SIENA

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Il territorio ligure: continuità e mondo rurale fra tardo antico e bassomedioevo

Affrontare i problemi della continuità e delle discontinuità in ambito rurale significa confrontarsi con un punto nodale di ogni ricerca di archeologia del territorio. In Liguria, forse più che altrove, il tema appare di grande complessità per una serie di motivi antichi e recenti che si devono evidenziare. In primo luogo la storia avvenimentale altomedievale è ridotta, per lo stato delle fonti scritte, alla successione di pochissimi fatti politici che non possono essere di alcun aiuto per l’archeologo non potendosene cogliere l’effettiva ricaduta sul territorio. Ciò è perfettamente evidenziato, da un lato, dalla genericità di tante storie locali e, dall’altro, dal ripetitivo accostarsi della storiografia maggiore a problemi generali ma non risolvibili per il tramite delle fonti scritte (ad esempio i vari limes, le incursioni o l’incastellamento). Aspetti insediativi, sociali, economici o tecnici non possono quasi essere trattati e l’unica fonte indiretta, disponibile in maniera cospicua su tutto il territorio regionale, è la toponomastica il cui utilizzo in chiave storica è ben noto essere irto di gravi difficoltà. Lo stato delle fonti archeologiche altomedievali liguri, soprattutto se si escludono alcuni contesti urbani in corso di studio, non è certo più soddisfacente di quanto lo sia qualsiasi fonte indiretta. L’archeologo, a differenza dello storico, può però costruirsi nuove fonti sia con nuove tecniche di indagine di contesti già noti che scoprendone di nuovi. Accumulare sempre più dati su sempre più numerosi siti è noto non costituire in sé un effettivo progresso delle conoscenze storiche, ma in Liguria per l’altomedioevo c’è evidentemente bisogno anche di questo. I siti editi, al di là del dato particolare, sono quantitativamente, del tutto insoddisfacenti e necessita quindi il riconoscimento e l’indagine approfondita di un congruo numero di siti rurali così da giungere a un campione rappresentativo e non a singoli casi ed esempi privi di validità generale1 Questo stato di cose, che si potrebbe definire di arretratezza, non potendosi ad esempio neppure citare con certezza un solo sito rurale frequentato fra VIII e X secolo, dipende in parte da alcuni caratteri propri del record archeologico altomedioevale ligure come sembra delinearsi dalle ricerche disponibili e, per un’altra parte, più o meno cospicua a seconda dei modi di vedere, dal tipo e dalla qualità del lavoro finora portato avanti sul campo.

1

Cfr. i dati schematicamente riassunti nella Tav. I relativa a siti rurali non incastellati. Per completare il quadro informativo oltre quanto citato in MANNONI 1983 occorre rifarsi a siti sommitali (es. Castrum Perti e Zignago; rispettivamente BONORA et al. 1988, FERRANDO CABONA et al. 1978) o a siti di regioni vicine come ad esempio Gronda di Luscignano (DAVITE 1988), Tecchia di Equi (AMBROSI GARDINI 1975), Codiponte (GARDINI 1977), Treonzo di Roccagrimalda (G IANNICHEDDA 1990), Riarderà (vedi il testo più avanti e nota 9).

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Per qualsiasi sito in cui manchino ceramiche d’importazione (e quindi le sigillate africane) o ceramiche ingobbiate basso medievali, la datazione, a cui si può giungere è ricavata proprio da queste assenze e perciò è sempre insoddisfacente allargandosi a un arco di tre o quattro secoli. Del resto, nessuna datazione archeometrica è stata finora tentata. I siti altomedievali sembrano caratterizzarsi soprattutto per la generale scarsità di reperti mobiliari ancor più che per una ceramica grezza sempre presente, ma ancor poco nota e non priva di variabili locali 2 . Un ostacolo alla ricerca archeologica in Liguria è poi determinato dalla conformazione stessa del territorio che ha contrastato la formazione e conservazione di strati archeologici nelle zone di media e alta pendenza; anche dove le stratigrafie esistono la loro visibilità è spesso diminuita per la presenza di boschi e prati perenni o per la possibilità di cospicui seppellimenti nei fondovalle o in aree di instabilità dei versanti 3 . Parlare di continuità, come fa il titolo di questo incontro, significa accettare un approccio metodologico e quindi un’archeologia della lunga

2

Cfr. Tav. II e per le difficoltà nello studio di reperti altomedievali privi di confronti anche GIANNICHEDDA 1988. 3 MANNONI 1970; GIANNICHEDDA 1989.

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durata che non può accontentarsi di studiare la singola fase sincronica di un singolo sito, ma deve porlo in relazione con il prima, con il dopo, con gli altri siti, con il territorio. Parlare di ambito o di territorio rurale significa poi escludere dalla trattazione i problemi delle città in trasformazione fra età classica e pieno medioevo, per affrontare altre difficoltà. In primo luogo, nelle città, almeno la continuità d’uso del sito è evidente dalle stesse sezioni dello scavo e il diagramma di Harris ne è la più tipica rappresentazione. Nel territorio extraurbano i processi di formazione dei siti sono invece più complessi della semplice sequenza di sovrapposizioni antropiche con costruzioni, usi e crolli; la caratteristica costante in Liguria è l’assenza di siti rurali pluristratificati che non siano casi particolari, più genericamente extraurbani che non rurali, come chiese o qualche castello. I siti minori e cioè i vari tipi di costruzioni sparse, anche quando non altomedievali, quando crollavano non erano mai riedificati in loco e perciò oltre al problema normale di valutare le tracce materiali presenti, in questi siti devono interpretarsi le cause dell’abbandono e cioè l’assenza di tracce. Di fronte a più siti, ognuno dei quali frequentato per brevi periodi, si pone poi la necessità di riconoscere l’eventuale contemporaneità o la relativa successione diacronica e quindi le relazioni intercorrenti fra gli uni e gli altri. Un’archeologia dei villaggi abbandonati, o rimasti fino ad oggi in vita, tutto sommato quasi non esiste e l’abitato bassomedievale di Monte Zignago (SP) è un’eccezione tanto significativa quanto isolata4. Alcuni dei problemi suaccennati pertanto neppure si sono ancora posti e devono essere tenuti presenti solo in prospettiva futura. Ovviamente se non è possibile parlare «di continuità in un periodo storico senza specificare a quale livello della civiltà presa in considerazione ci si riferisce: tecnico, economico, sociale, mentale; perché pur interagendo fra loro, tali livelli possono comportarsi diversamente gli uni dagli altri»5 è proprio avendo come oggetto di ricerca il territorio che si possono investigare tutte queste problematiche con i metodi propri dell’archeologia. Certo comunque che il primo indispensabile livello di analisi resta quello insediativo (e cioè il riconoscimento e l’interpretazione dei siti) a cui concorrono più classi di informazioni (reperti, strutture, localizzazione, ecc). Se alle difficoltà precedentemente accennate, cioè scarsità e poca riconoscibilità dei reperti mobiliari e immobiliari e conformazione del territorio, si associa la mancanza di un adeguato palinsesto avvenimentale, il risultato è porre l’archeologo altomedievista (o meglio l’archeologo tout court quando si occupa di altomedioevo) in situazione similare a quella dell’archeologo preistorico che tenti dalle proprie fonti di indagare gli usi del territorio. Diversamente da questi, la ricerca altomedievale potrà però in futuro far leva, per evolversi, sull’essere cronologicamente racchiusa tra due periodi, il classico e il bassomedievale, archeologicamente e storicamente già meglio conosciuti. L’archeologia altomedievale potrà però muoversi dalla situazione classica, o con metodo regressivo da quella bassomedievale, solo se riconoscerà che i dati disponibili per ogni periodo devono confrontarsi con la storia della ri4 5

BOATO et al. 1990; ISCUM 1987. MANNONI 1989 (la citazione in italiano è tratta dall’originale dell’autore che si ringra-

zia).

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cerca archeologica di cui sono il frutto. Altrimenti passi in avanti non sono possibili e si rischia soltanto di ripetere la più ragionevole ricostruzione storica oggi disponibile che, come notato dal suo stesso autore6, doveva, un decennio orsono, servire da sprone a ricerche più accurate (e quindi sistematiche e programmate) che non sono state realizzate. Non fare la storia della ricerca archeologica, ovvero la storia del modo di acquisire le informazioni, significa difatti fare ricostruzioni su dati non omogenei, provvisori e potenzialmente inattendibili. In questa sede di tale storia si potranno tentare solo dei cenni, benché in effetti si necessiti di lavori che differenzino ambiti locali distinguendo tempi, luoghi e metodi con il solo scopo di capire come si è formato il complesso di informazioni oggi disponibili a tutti. Già dalla fine degli anni Cinquanta l’attività del Gruppo Ricerche della sezione genovese dell’Istituto di Studi Liguri aveva rilevato molti insediamenti rurali di limitate dimensioni che furono chiamati “stazioni a tegoloni”, essendo questo il materiale più frequente e che, in quasi tutti i casi, aveva portato all’identificazione del sito. Accertato non trattarsi di necropoli distrutte, la generale povertà di materiali datanti fece supporre fossero siti di ricolonizzazione tardoantica dell’Appennino ipoteticamente abbandonato in età romana. Questi insediamenti furono perciò visti come caratteristici dello sfruttamento economico della montagna ligure, al di sopra della fascia agricola tipicamente mediterranea, dove occupano di prevalenza ripiani di mezzacosta pianeggianti e con buona insolazione7 . Un recente lavoro di riordino e recupero di tutti i dati relativi alle stazioni a tegoloni del Genovesato mostra però una situazione più differenziata8. Rifacendosi al solo dato altimetrico su 37 stazioni esaminate, 7 sono al disotto dei 300 metri s.m., 17 sono nella fascia fra i 300 e i 600 e ben 13 sono a quote superiori con fra l’altro alcuni casi di montagna alta, oltre i 900 metri s.m.. Da ciò, anche in assenza di altri dati, si può dedurre che gli usi del territorio potevano essere piuttosto differenziati e, almeno per talune aree, si deve rilevare che sono note più stazioni a tegoloni che insediamenti protostorici o medievali. L’idea potrebbe perciò essere quella di un popolamento tardoantico piuttosto fitto, ma si deve notare che alcune stazioni, fra quelle con qualche reperto databile, recano tracce di età imperiale, come Statale e Pòntori in Val Graveglia, e che i pochi reperti presenti in altri siti possono essere indice di frequentazioni di breve durata, per cui, anche se datati grossomodo alla stessa fase, questi insediamenti possono non essere fra loro contemporanei. La zona presso la Pieve di Filattiera (MS), in corso di scavo dal 1986, alle precedenti ricerche di superficie si presentava del resto come una qualsiasi stazione a tegoloni, estesa si su un’area piuttosto vasta (ma meno di quella di Pino Sottano che copre circa un chilometro quadrato), e comunque, come quelle, testimoniata quasi soltanto da frammenti di tegoloni e da ceramiche grezze9 . Con lo scavo si è poi visto che mentre i tegoloni sono

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MANNONI 1983. MANNONI 1983. 8 DAVITE 1986-87 (per cortesia dell’autrice). 9 Per gli scavi in corso si vedano le notizie preliminari fornite dallo scrivente nel «Notiziario di Archeologia Medievale» nn. 44, 47, 49, 52, 55 e 56. 7

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usati nelle costruzioni di I-III secolo, sia per le coperture che in parte per gli alzati di case in pietra a secco, essi non sono mai impiegati nella costruzione di una capanna e di strutture di V-VI secolo. Similmente lo scavo di due vani abitativi alla Costa Bottuin di Trensasco, datati fra I-III secolo fornisce dati per una fase di popolamento rurale già dal primo impero e conferma il rischio di poter scambiare per tardoantico quanto è povero o poco indagato10. Quanto riportato su stazioni a tegoloni e su scavi recenti mostra soprattutto che la situazione reale si complica non appena si fanno nuove ricerche e che l’abbandono della montagna ligure in età romana è un fenomeno possibile, ma al momento poco sostenuto dall’evidenza. L’unico abbandono reale è quello in cui sono stati lasciati i siti scoperti ed è tanto più grave se si nota che, fra i 37 siti già ricordati, dei 21 di cui sono note le cause di rinvenimento ben 16 sono stati rilevati perché in corso di distruzione (7 per ampliamenti degli abitati attuali con nuove costruzioni, 6 per lavori stradali, 2 per frane e smottamenti, 1 per lavori agricoli) e di questi, a distanza di decenni, solo due sono stati in parte scavati11. Altri 5 siti sono invece stati scoperti con apposite ricognizioni, restate però senza seguito. La scoperta delle stazioni a tegoloni, benché quasi sempre casuale, coincise con un momento di interesse interdisciplinare e con una vivacità intellettuale che portò un gruppo di ricercatori liguri a partecipare, agli inizi degli anni Settanta, all’affermazione dell’archeologia medievale in Italia12. Le ricerche di superficie si orientarono anche su altri periodi, ma già per le stazioni a tegoloni è evidente come la loro distribuzione corrisponda alle zone di più intensa attività da parte dell’ISCUM e non si può quindi pensare siano tipiche della Liguria centrale e orientale. Semplicemente in altre aree possono non essere state mai rilevate. Per reagire alla logica «di rinvenimenti casuali e di scavi isolati» e nel tentativo di programmare le proprie ricerche, dalla metà degli anni Settanta l’ISCUM si avvia verso quella che poi chiamerà «archeologia globale», cioè ricerche di superficie a tappeto integrate da scavi in territori ristretti 13 . Esempi ne sono quanto fatto nello Zignago e il lavoro in corso a Filattiera. Dallo Zignago emerge soprattutto, per l’età altomedievale, un dato, costituito dal fatto che, ad eccezione della fase cosiddetta prefeudale del Castellaro, non è stato individuato alcun altro sito databile a quel periodo. Non è però noto se si tratti di un abbandono della montagna, che non risulta frequentata neppure nel tardo impero, o se sia invece un difetto delle ricerche di fronte a resti poco evidenti 13 . Nel complesso, è invece più completa la sequenza insediativa individuata nel comune di Filattiera. Nell’ordine, e seppur con periodi di mancate attestazioni, si succedono un abitato protostorico sulla collina di Castelvecchio con una probabilmente coeva necropoli nel fondovalle, un abitato di case in

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DAVITE 1992. E cioè Traso (M ILANESE 1977) e Savignone (F OSSATI et al. 1976). 12 Oltre all’editoriale del primo numero di «Archeologia Medievale» (1974) si veda MANNONI 1974 e QUAINI 1971. 13 MANNONI et al. 1988. 14 FERRANDO CABONA et al. 1978; MANNONI 1983. 11

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pietra a secco con più fasi costruttive e modifiche d’uso, datato fra I e III secolo d.C. a cui si sovrappongono, nel V e VI secolo, i resti di capanne con pareti di canniccio e intonaco concotto. Fra V e VIII secolo, probabilmente per un breve periodo, è poi in uso il campo trincerato sulla sommità della collina di Castelvecchio, a cui fanno poi seguito gli insediamenti bassomedievali in località S. Giorgio, Borgovecchio e il paese attuale15. A circa sette chilometri da Filattiera, verso il massiccio montuoso dell’Orsaro, a una quota di 886 metri s.m., si sta poi indagando il sito sommitale di Monte Castello già parzialmente studiato da Ferrari e Formentini nel primo Novecento. Esteso su un’area di oltre cento metri per cinquanta, il sito, in cui si sono distinte più fasi di frequentazione, ha fra le proprie caratteristiche un’imponente cinta muraria, i resti di una torre successiva e posteriore al Mille, pochi reperti (fra cui i soliti tegoloni) e nessuna attestazione in quanto castello nelle fonti scritte medievali. Dal XIII secolo, anzi, il castello dovrebbe certo essere abbandonato, essendo il monte proprietà collettiva degli abitanti del borgo di Lusignana16 . La povertà di reperti di Monte Castello o del Castelvecchio di Filattiera evidenziano soprattutto un problema. Se alcuni castelli con fasi tardoantiche sono databili anche solo con raccolte di superficie, per altri ciò non è sufficiente, perché il campione ceramico così recuperabile sarebbe irrisorio. Anche per questo motivo oltre che per un’infinità d’altri (tra cui distinguere fasi cronologiche, associare reperti e strutture, acquisire indicatori economici e ambientali), lo scavo stratigrafico appare essere l’unico mezzo d’indagine adeguato. Le raccolte di superficie in siti con più fasi di frequentazione di cui una povera e una ricca di materiali rischiano fra l’altro di portare all’appiattimento cronologico della prima sulla seconda, scambiando i reperti della fase non riconosciuta per testimonianze minori o atipiche dell’altra. Ciò ovviamente può avvenire sia nel caso che la fase povera sia la più antica, come nel caso di siti altomedievali rifrequentati in seguito, che nel caso sia la più recente. Ad esempio, alla Pieve di Filattiera le testimonianze tardoantiche, databili solo perché associate in strati con poche sigillate tarde, rischiavano, prima dello scavo, di essere erroneamente retrodatate per la presenza in superficie di reperti di prima età imperiale. Lo scavo, invece, ha consentito di distinguere ed è l’unico mezzo utile per avere insiemi di materiali di cui sia nota l’associazione. Se finora, oltre che di stazioni a tegoloni, si è parlato di castelli, non è solo per la carenza di siti extraurbani noti e di diverso carattere, ma è perché si ritiene che siano queste le uniche testimonianze in grado di portare a un progresso degli studi in un arco di tempo ragionevole. E ragionevole non significa che si ha fretta di giungere a dei risultati, ma solo che non si può attendere di fronte al progredire delle distruzioni, le quali possono essere tanto più gravi proprio nel territorio extraurbano, che talvolta appare incontrollato e incontrollabile. Negli anni passati, le stazioni a tegoloni sono state interessate quasi soltanto da ricerche di archeologia di superficie, così che il termine che le definisce è rimasto in uso a identificare, con il reperto caratterizzante, an-

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PIZZOLO 1983; CABONA et al. 1982 e 1984 Notizie preliminari sulle ricerche in corso in GIANNICHEDDA et al. 1988; B IAGINI 1991 e 1992. 16

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che lo stato preliminare delle ricerche, che ancora non distingue datazioni, dimensioni, forme abitative e altro. I castelli, e in specie quelli bassomedievali, sono invece stati interessati soprattutto da interventi di scavo l l . Questo duplice procedere, negli anni futuri, dovrà saldarsi in interventi unitari e capaci di cogliere tutte le possibilità di conoscenza che si presentino. Una capillare ed efficiente archeologia di emergenza potrebbe e dovrebbe essere protagonista dello studio di siti rurali come case sparse e piccoli villaggi che certamente esistono, ma la cui identificazione preventiva può essere difficile18. Invece programmabili e quindi più facili, ma non per questo procrastinabili, dovrebbero essere le indagini nei castelli di proprietà pubblica o abbandonati. Ricerche di superficie, volte all’identificazione di castelli tutt’ora ignoti perché non citati dalle fonti o perché costruiti con materiali deperibili (e quindi potenzialmente altomedievali), saranno facilitate dall’identificabilità dei siti sommitali, oltre che talvolta dal toponimo19. I conseguenti interventi di scavo programmato dovrebbero sfruttare anche le occasioni di sventramenti e restauri che spesso i castelli conservati in elevato subiscono e dalle fasi bassomedievali ben databili si potrebbe procedere verso stratigrafie più antiche, agevolati in questo dalle frequenti rioccupazioni dei siti sommitali per motivazioni strategiche simili in periodi diversi. Da ciò, e dalle stratificazioni urbane, si potrebbe forse giungere ad impostare quegli strumenti tipologici oggi mancanti ed utili allo studio delle associazioni di reperti dei siti minori. La ricerca sull’altomedioevo, se saprà collegare archeologia di superficie, scavi programmati e interventi di tutela, non potrà che giovarsi della propria collocazione cronologica fra fasi tanto diverse per riconoscibilità dei siti e dei materiali, come sono il tardoantico delle stazioni a tegoloni e il bassomedioevo dei castelli. Approcci multiperiodali convergenti sui secoli bui potranno probabilmente contribuire a fare luce anche al di fuori dei ristretti territori interessati dall’archeologia globale. Altrimenti qualche sito in più da aggiungere ai pochi della tavola I non potrà certo portare a riconoscere su scala regionale le modalità dell’insediamento rurale altomedievale di cui finora sono più note le difficoltà di ricerca archeologica che non l’effettiva organizzazione. E NRICO G IANNICHEDDA

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MANNONI 1984; MANNONI MURIALDO 1990. E in genere simile necessità si ha per tutti i paesi attualmente in vita e spesso attestati per la prima volta in fonti di X-XII secolo. In assenza di un’archeologia di scavo in tali paesi non si conoscono però i modi della relativa continuità e tanto meno le eventuali frequentazioni precedenti. 19 E in questo l’archeologia altomedievale godrebbe degli stessi vantaggi dell’archeologia protostorica: in Liguria per la seconda età del Ferro sono noti un gran numero di siti sommitali designati dal toponimo Castellaro e pochissimi siti diversamente localizzati e se questo è certo un difetto d’informazione è pur meglio di quanto non si disponga per l’altomedioevo. 18

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Bemerkungen zur relativchronologischen Gliederung der südostalpinen spätrömisch-spätantiken Gebrauchskeramik

Erst in den letzten 20-30 Jahren hat sich die Forschung mit der systematischen Untersuchung der südostalpinen Höhensiedlungen befaßt (Abb. 1), dabei ist auch die einheimische, spätrömisch-spätantike Gebrauchskeramik in den Mittelpunkt des Interesses gerückt, auf welche in der Regel der Hauptanteil des Kleinfundematerials entfällt1. Die spätrömisch-spätantike, grobe Hauskeramik umfaßt im wesentlichen 2 Hauptgefäßformen: Töpfe/Becher und Schüsseln/Schalen2. In deutlich geringerer Anzahl beinhaltet das Formenspektrum: Krüge3, Gefäßdeckel (Taf. 1,18), Deckelschalen4, flache Teller bzw. Steilrandteller5, Henkeltöpfe6, konische Näpfe7, Lappenschüsseln 8, Dreifußschüs-

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Eine ausführliche Übersicht findet sich in der Arbeit von S. CIGLENE_KI, Höhenbefestigungen aus der Zeit vom 3. bis 6.Jh. im Ostalpenraum, Ljubljana 1987. 2 Ein reiches Spektrum von Töpfen/Bechern und Schüsseln/Schalen ist in der Publikation über die Funde aus Invillino veröffentlicht, V. BIERBRAUER, Invillino-lbligo in Friaul I. Die römische Siedlung und das spätantik-frühmittelalterliche Castrum, Münchner Beitr. Vor- u. Frühgesch. 33 (1987). 3 Beispiele von Krügen mit runder Mündung: L. B OL TA , Rifnik pri _entjurju. Poznoanti_na naselbina in grobi__e, Katalogi in Monografije 19 (1981), Taf. 21,83; Taf. 22,44; Taf. 23,8. V. BIERBRAUER-H. NOTHDURFTER, Die Ausgrabungen im spätantik-frühmittelalterlichen Bischofssitz Sabiona-Säben, «Der Schlern», 62 (1988) 243-380, Abb. 2,10 (bei diesem Exemplar handelt es sich um einen Zweihenkelkrug; für die Möglichkeit, die Funde im Original durchsehen zu können, danke ich Dr. Hans Nothdurfter, Sterzing, herzlich. Beispiele von Krügen mit Kleeblattmündung: R. E GGER, Der Ulrichsberg. Ein heiliger Berg Kärntens (2. Aufl.), Klagenfurt 1976, Abb. 26. U. STEINKLAUBER, Der Duel und seine Kleinfunde, «Carinthia», 180./100. Jg. (1990) 109-136, Abb. 1; u.a. Sowohl die Krüge mit runder als auch kleeblattförmiger Mündung entsprechen der einheimischen romanischen Formtradition. Henkelfragmente von Krügen: V. BIERBRAUER, Invillino, a.a.O. (Anm. 2), Taf. 94,15; Taf. 96,16. H. RODRIGUEZ, Keramikbeispiele aus der Grabungskampagne 1989 in Teurnia im Areal der Bischofskirche und ihrer Nebengebäude, «Carinthia», I, 180./100. Jg. (1990) 95-107, Taf. 2,8; u.a. 4 T. KNIFIC, Vranje pri Sevnici. Drohne najdbe z Ajdovskega gradca (leto 1974), Vranje bei Sevnica. Kleinfunde aus Ajdovski gradec (J. 1974), «Arh. Vestnik», 30 (1979) 732 ff, Nr. 60. U. GIESLER, Gefäße aus Ton, Stein und Glas, in: T. ULBERT, Das spätromische Kastell AD PIRUM-Hru_ica, «Münchner Beitr. Vor-u. Frühgesch.», 31 (1981), Taf. 42, 11-13; u.a. 5 H. R ODRIGUEZ , Teurnia, a.a.O. (Anm. 3), Taf. 2,15; u.a. 6 I. MIKL-CURK, Nekai misli poznoanti_ni materiali kulturi v Sloveniji (Zum Studium der spätrömischen materiellen Kultur in Slowenien), «Arh. Vestnik», 23 (1972) 376-383, Taf. 1,4. U. STEINKLAUBER, Duel, a.a.O. (Anm. 3), Abb. 2,1-6; Abb. 3; Abb. 4. V. BIERBRAUER, Invillino, a.a.O. (Anm. 2), Taf. 124,16 (bei diesem Exemplar dürfte es sich um einen Becher mit nur einem Henkel handeln). H. R ODRIGUEZ , Teurnia, a.a.O. (Anm. 3),Taf. 3,3.4; u.a. Henkelfragmente von Töpfen: V. BIERBRAUER, Invillino, Taf. 133,2.3.5.7.9.11.12; u.a. 7 V. BIERBRAUER, Invillino, a.a.O. (Anm. 2), Taf. 73,13; Taf. 84,3.9; u.a. 8 «Lappenschüsseln», die möglicherweise beim Backen von Broten als Backhaube gedient haben, lassen sich ungebrochen bis zumindest in die Latènezeit zurückverfolgen, vgl. H. RODRIGUEZ, Die vor- und frühgeschichtlichen Kleinfunde vom Lavanter Kirchbichl in Osttirol, unpubl. Diss. phil., Innsbruck 1986, 312 ff. Beispiele aus spätantik-frühmittelalterlichen Fundzusammenhängen: U. STEINKLAUBER, Duel, a.a.O. (Anm. 3), Abb. 19,1-2 (mit Besenstri-

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Abb. 1 – Spätantike Fundorte im Südostalp engebiet nach CIGLENE_KI 1984, A.A.O. (ANM. 33).

seln9 etc. Die Gefäße, die zumeist verziert sind, zeigen 2 Hauptdekormotive: Eine Wellenstrichverzierung, bestehend aus ein – oder mehrzeiligen Wellenlinien (Taf. 1,18, Taf. 12,2; Taf. 1,20) oder ein – oder mehrzeiligen Wellenbändern (Taf. 1,4, Taf. 2,3, Taf. 3,1, Taf. 4,9.11, Taf. 5,3; Taf. 1,1417.21.22, Taf. 4,3.6.7, Taf. 5,2) und eine flächendeckende Kammstrichverzierung, z.T. kombiniert mit Wellenlinien (Taf. 1,5, Taf. 2,10, Taf. 3,2), die häufig in Verbindung mit einer Rillung der Gefäßinnenseite auftritt (Taf. 1,25, Taf. 4,1.5, Taf. 5,5). Eine untergeordnete Rolle im Dekorrepertoire spielen getupfte oder gekerbte zarte Leisten10, Eindrücke verschiedener Art

chverzierung auf der Gefäßausen- und Innenseite), Abb. 20; dies., Keramik vom Duel bei Festritz an der Drau, Kärnten, Symposion zu Fragen der spätantiken und völkerwanderungszeitlichen Keramik, Großrußbach, Niederösterreich, 10.-13. Oktober 1983, «Arch. Austriaca», 68 (1984) 343-345, Abb. 3,8. H. RODRIGUEZ , Teurnia, a.a.O. (Anm. 3), Taf. 2,16. L. DAL RI-G. PIVA, Ledro B: Una stazione del primo medioevo a Volta di Besta sul Lago di Ledro nel Trentino, «Atti Accad. Roveretana degli Agiati», ser. VI vol. 26 f. A 236 (1986), Fig. 21,1-8. F. JURO_-MONFARDIN, Poku_aj sistematizacije kasnoanti_ke i ranobizantske keramike grübe fakture iz profanog objekta u Betigi kod Barbarigi (Tentativo di sistemazione della ceramica tardoantica e paleobizantina proveniente dall’edificio profano di Bettica presso Barbarriga), «Izdanja Hrvatskog arheolo_kog dru_tva», 11/2 (1986) 209-233, Taf. 11,1; u.a. 9 T. KNIFIC, Vranje, a.a.O. (Anm. 4), Nr. 132. P. KORO_EC-J. KORO_EC, Arheolo_ke raziskave na Svetih Gorah ob Sotli v letu 1974, (Archeological research at Svete Gore on the river Sotla in 1974), «Arh. Vestnik», 29 (1978) 432-463, Taf. 7,2. U. STEINKLAUBER, Duel, a.a.O. (Anm. 3), Abb. 31; Abb. 32; u.a. 10 U. GIESLER, Hru_ica, a.a.O. (Anm. 4), Taf. 46,13. V. BIERBRAUER, Invillino, a.a.O. (Anm. 2),Taf. 91,12; Taf. 105,22; Taf. 113,12. B. MARU_I_, Materijalna kultura Istre od 5. do 9. stolje_a (La cultura materiale dell’Istria dal V al IX secolo) «Izdanja Hrvatskog arheolo_kog dru_tva», 11/1 (1986) 81-105, Fig. 6,1 (Fo. Brioni) F. JURO_-MONFARDIN, a.a.O. (Anm. 8), Tab.

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Sowie einfache Stempelmuster11. III, 1 (Fo Betiga). L. RUPEL, Aspetti della ceramica comune romana in Friuli: materiali da Vidulis e Coseano, «Aquileia Nostra», 59 (1988) 106-167, Nr. 28,92,93,95-105; u.a. 11 V. BIERBRAUER, Invillino, a.a.O. (Anm. 2), Taf. 94,15; Taf. 96,16. H. RODRIGUEZ, Vorbemerkungen zur spätantiken Keramik vom Lavanter Kirchbichl in Osttirol, Symposion zu Fragen der spätantiken und völkerwanderungszeitlichen Keramik, Großrußbach, Niederösterreich, 10.-13. Oktober 1983, «Arch. Austriaca», 68 (1984) 339-343, Abb. 2,9. Zum Stempeldekor auf der Henkelaußenseite lassen sich Vergleiche aus Pannonien anführen, A. SALAMON, Spätrömische gestempelte Gefäße aus Intercisa, «Folia Arch.», 20 (1969) 50-62. V. LÁNYI, Die graue spätrömische Keramik von Tokod, in: A. MÓCSY (Hrsg.), Die spätrömische Festung und das Gräberfeld von Tokod, Budapest 1981, 73-120, Abb. 7,15; Abb. 23,3.4; Abb. 24,1.3. Bei dem Henkelbecherfragment Invillino, Taf. 85,4, handelt es sich in Hinblick auf die Kombination des Stempeldekors mit Kammstrichverzierung eindeutig um ein einheimisches romanisches Produkt.

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Der Kammstrichdekor, der herstellungstechnisch bedingt ist12, bildet das wichtigste Verzierungsmotiv auf der spätrömisch-spätantiken, südostalpinen Hauskeramik und läßt sich direkt von der spätlatènezeitlichfrühkaiserzeitlichen Grobkeramik des südwestpannonisch-ostnorischen Gebietes ableiten, wo Gefäße mit flächendeckenden Kammstrichen sowohl in Siedlungen 13 als auch in Gräbern 14 der frühen und mittleren Kaiserzeit zutage treten. Mit dem Übergang von der Brand – zur Körperbestattung werden Gefäßbeigaben in den südnorischen provinzialrömischen Gräbern selten. Im 5.Jh. sind die Skelettgräber der romanischen Bevölkerung in der Regel beigabenlos, abgesehen von Schmuckgegenständen, die eine Verstorbene bei der Grablegung trug und von Trachtzubehör in Männergräbern. Gefäßbeigaben finden sich, zum Unterschied von den gleichzeitigen pannonischen Gräberfeldern, in romanischen südostalpinen Grablegungen nur ausnahmsweise. Das bedeutet, daß Gräber als Informationsquelle für spätantike Keramik fast zur Gänze ausfallen. Von alten Siedlungsgrabungen gibt es keine stratigraphischen Aufschlüsse und die Funde der Grabungen der letzten Jahre sind entweder unbearbeitet oder nur in Vorberichten auszugsweise veröffentlich15. Einzig

12 Bei der Fertigung der Gefäße dürfte zum Abstreichen der Oberfläche eine Formschiene mit gezähnten Seitenkanten verwendet worden sein. Als typisches Kennzeichen der romanischen Keramik sind die Kammstriche auf der Gefäßaußen- und Innenseite in der zeichnerischen Abbildung unbedingt zu berücksichtigen. 13 E. BONIS, Die kaiserzeitliche Keramik von Pannonien, «Dissertationes Pannonicae», Ser. 2,20 (1942), Taf. I-V. A. SCHÖRGENDORFER, Die römerzeitliche Keramik der Ostalpenländer, Sonderschr. Arch. Inst. Deutschen Reiches, Bd. 13, Wien 1942, Taf. 34,430; Taf. 35,436. B. VIKI_-BELAN_I_, Keramika grublje fakture u ju_noi Panoniji s osobitim obzirom na urne i lonce (Rauhe Keramik in Südpannonien mit besonderer Berücksichtigung der Urnen und Töpfe), «Arh. Vestnik», 26 (1975) 25-53. S. PAHI_ , Najdbe z rimske cest Slovenska Bistrica-Pragersko (Funde aus dem Römerstraßenbereich Slovenska Bistrica-Pragersko), «Arh. Vestnik», 29 (1978) 129-289; ders., Nekaj podatkov o grobi hi_ni lon_enini z najdi__ ob ju_nem Pohorju (Einige Angaben über die rauhwandige Hauskeramik aus den Fundorten am Südrand des Pohorje), «Arh. Vestnik», 30 (1979) 388-425. L. P LESNI_AR-GEC, Keramika Emonskih nekropol, «Dissertationes et Monographiae», 20 (1977); u.a. 14 L. P LESNI_AR -GEC, Severno Emonsko grobi__e (The Northern Necropolis of Emona), «Katalogi in Monografije», 8 (1972); Gräber mit Münzbeigaben: 149, 191, 196, 208, 250, 572, 656. 13 S. C IGLENE_KI, 1987, a.a.O. (Anm. 1) mit Literaturangaben bis 1986; Duel: U. STEINKLAUBER, a.a.O. (Anm. 3); dies., Die Kleinfunde aus der spätantiken Siedlung vom DuelFeistritz a.d.Drau (Kärnten), unpubl. Diss. phil., Graz 1988. Kathreinkogel bei Velden, Kärnten: H. R ODRIGUEZ , Spätrömische und spätantike Keramikfunde vom Kathreinkogel, «Archäologie Alpen Adria», 1 (1988) 143-150. Lavanter Kirchbichl, Osttirol: H. Rodriguez, a.a.O. (Anm. 8); einige Keramikbeispiele sind publiziert in: V. BIERBRAUER, Invillino, a.a.O. (Anm. 2), Abb. 29; Abb. 30 = V. BIERBRAUER, La ceramica grezza di Invillino-Ibligo, Friuli e i suoi paralleli nell’arco alpino centrale e Orientale (secc. IV-VII d.c), «Arch. Medievale», 27 (1990) 57-83, Tav. V, Tav. VI. Teurnia: H. RODRIGUEZ , a.a.O. (Anm. 3). Südtirol: V. BIERBRAUER-H. NOTHDURFTER, a.a.O. (Anm. 3). L. DAL RI, Gli edifici medievali dello scavo di Piazza Walther a Bolzano (Von den Anfängen bis zur Schleifung der Stadtmauern), Bozen 1990, 245-303. R. LUNZ , Römerzeit 15 v. Chr. -476 n. Chr. und Frühmittelalter 476-800 n. Chr., in: Ur- und Frühgeschichte des Eppaner Raumes, Ausstellungskatalog, Eppan 1990, 3857, Abb. 67 (Fo. Lamprecht). Trentino: L. D AL R I -G. P IVA, a.a.O. (Anm. 8). Friaul: L. RÜPEL, a.a.O. (Anm. lo). Istrien: F. JURO_-MONFARDIN, a.a.O. (Anm. 8). B. MARU_IC, a.a.O. (Anm. 10). Slowenien: Martinj hrib: F. Leben-Z. SUBI_, Poznoanti_ni kastel Vhr Brsta pri Martinj hribu na Loga_ki planoti (Das spätantike Kastell Vrh Brsta bei Martinj hrib auf dem Kastellplateau von Logatec), «Arh. Vestnik», 41 (1990) 313-354. Vipota: S. CIGLENE_KI-D. PIRKMAJER, Jato_i__e poslednjih Celejanov na Vipoti (Zufluchtsort der letzten Celeianer auf der Vipota), «Arh. Vestnik», 38 (1987) 217-236; u.a.

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die Ergebnisse der Ausgrabungen in Invillino, Friaul, sind monographisch publiziert16. In Anbetracht dieser ungünstigen Quellenlage müssen wir hinsichtlich der relativ-chronologischen Gliederung der spätantiken Hauskeramik auf typologische Kriterien zurückgreifen. Diesbezüglich kommt uns die Keramik vom Lavanter Kirchbichl in Osttirol zu Hilfe: Am Lavanter Kirchbichl wurden in den Jahren 19491956 Teile einer jener wehrhaften spätantiken Höhensiedlungen mit Kirchenanlage ausgegraben, die uns bereits in größerer Zahl aus dem südli-

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V. BIERBRAUER, Invillino, a.a.O. (Anm. 2); (Anm. 15).

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chen Ostalpengebiet bekannt sind17 . Die Laufzeit der spätrömisch-spätantiken Gebrauchskeramik am Lavanter Kirchbichl läßt sich relativ einfach bestimmen: Ihre Produktion endet mit der Besetzung des Osttiroler Drautales durch die Slawen Ende des 6Jhs. bzw. spätestens nach der Schlacht

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Grabungen unter Prof. Franz Miltner 1948-1956; Grabungsberichte: «Jahresh. Österr. Arch. Inst.», 38 (1950) Sp. 37 ff; 40 (1953) Sp. 15 ff; 41 (1954) Sp. 43 ff; 43 (1956-58) Sp. 89 ff. H. RODRIGUEZ , Die Kleinfunde vom Kirchbichl Gem. Lavant, Osttirol, «Mitt. Österr. Arbeitsgem. Ur-u. Frühgesch.», 32 (1982) 1984, 14-18; dies., a.a.O. (Anm. 8); (Anm. 11). P. GLEIRSCHER-H. STADLER, Die Notgrabungen auf der Kirchbichl von Lavant in Osttirol 1985. Ein Vorbericht, «Veröffentl. Mus. Ferdinandeum», 66 (1986) 5-31.

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bei Aguntum am Beginn des 7.Jhs. zwischen den durch das Pustertal ziehenden Baiern und den von Osten heranrückenden Slawen. Schwieriger ist es, den Beginn der Belegung in spätrömisch-spätantiker Zeit am Lavanter Kirchbichl festzulegen: Analysieren wir die feine Gebrauchs – und Importkeramik vom Lavanter Kirchbichl, so zeigt sich, daß eine intensivere Belegung auf diesem Hügel bereits im späten 3.Jh. eingesetzt haben muß: Ähnlich wie auf der Hru_ica im östlichen Slowenien (= Birnbaumerwaldpaß) fanden sich am Lavanter Kirchbichl grau oder schwarz gebrannte sog. “Soldatenteller” die im fortschreitenden 3.Jh. die gelbgebrannten, rot überfärbten Teller ablösten18. Reibschüsseln mit kerbenverziertem ausbiegendem Kragenrand, der die Randleiste übersteigt, besitzen einen streifigen roten Überzug19. Rot gebrannte Amphorenfragmente mit meist gelblich-weißer Engobe, die aus Nordafrika stammen, traten vergleichsweise in Luni oder in Ostia in Fundzusammenhängen des späten 3. und 4.Jhs. auf. Beträchtlich ist der Anteil an nordafrikanischer Sigillata Chiara im Fundmaterial vom Lavanter Kirchbichl, deren Formenspektrum mit jenem der Hru_ica vielfach übereinstimmt. Vorhanden sind die Formen Hayes 43/44, 45B, 50A und B, 57/58 und 61A und B, die insgesamt in das 3., 4. und 5.Jh. datieren. Sigillata Chiara wurde auch lokal imitiert20. Das auffallend geringe Vorhandensein von Terra Sigillata im Fundmaterial vom Lavanter Kirchbichl, deren Produktion in ien großen Zentren ca. 270 n. Chr. ein Ende fand, kann nur chronologisch bedingt sein. Anhand der feinen Gebrauchs- und Importkeramik einerseits und mit Hilfe der historischen Quellen andererseits konnte also für die Belegung am Lavanter Kirchbichl und für die dort gefundene spätrömisch-spätantike Hauskeramik eine Rahmendatierung zwischen dem späten 3. und dem beginnenden 7.Jh. gewonnen werden. Eine verstärkte Belegung auf der Hru_ica (Paßstation am Birnbaumerwaldpaß) setzte ähnlich wie am Lavanter Kirchbichl im letzten Drittel des 3.Jhs. ein; Ad Pirum (Hru_ica) wurde laut literarischer Quellen 394 n. Chr. geräumt, ein Datum, welches sich mit der dort gefundenen Münzreihe deckt21. Dieses Datum ist auch als terminus ante quem für die Hauskeramik der Hru_ica maßgeblich. Ähnlich wie bei der kaiserzeitlichen ostnorischen Keramik fehlt auf der kammstrichverzierten Keramik der Hru_ica die einzeilige Wellenlinienver-

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U. G IESLER, Hru_ica, a.a.O. (Anm. 4), Taf. 38,1-11.20.25.26. Das Fragment Taf. 38,22 (vgl. S 88 f) gehört nicht zu einem sog. Soldatenteller, sondern zu einer sog. “Ringschüssel”; die Färbung, entstanden durch oxidierenden oder reduzierenden Brand, liefert einen Hinweis auf die zeitliche Zuordnung und ist nicht regional bedingt, vgl. H. RODRIGUEZ,a.a.O. (Anm. 8), 305 ff. 19 U. GIESLER, Hru_ica, a.a.O. (Anm. 4), Taf. 37,1-18. M. STRM_NIK-GULI_, Najnovej_i podatki iz Starega trga pri Slovenj Gradcu (Die neuesten Daten aus Stari Trg bei Slowenj Gradec), «Arh. Vestnik» 35 (1984) 185-224, Taf. 11,12. 20 J.W. HAYES, Late Roman Pottery. A Catalog of Roman Fine Wares, London 1972. U. G IESLER, Hru_ica, a.a.O. (Anm. 4), Taf. 34; Taf. 35; Taf. 36,18.19.23.24. Bei den Sigillata Chiara-Imitationen vom Lavanter Kirchbichl handelt es sich um Bodenfragmente mit radialem Stempeldekor, Hayes Stil A iii, die aus dem gleichen grauschwarz gebrannten Ton bestehen wie die gleichzeitige Gebrauchskeramik. 21 T. ULBERT, Hru_ica, a.a.O. (Anm. 4) 158 f; M. MACKENSEN, Auswertung der Münzreihe, ebd., 144 ff; bes. 152.

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zierung, die vergleichsweise auf Gefäßen der spätantiken Höhensiedlungen im Südostalpengebiet über den feinen und teilweise über den groben flächendeckenden Kammstrichdekor gelegt ist. Dieser Umstand kann nicht auf die “lokalen Eigenheiten” der Keramik der einzelnen Fundorte zurückgeführt werden 22 , woraus zu folgern ist, daß sich irgendwann zwischen dem 3. und dem Ende des 6.Jhs. eine Veränderung bei der Kammstrichverzierung vollzogen hat. Einen ersten chronologischen Anhaltspunkt für die Rezeption der einzeiligen Wellenlinien auf kammstrichverzierter spätrömischer Keramik bietet das Inventar einer Körperbestattung aus Dane bei Stare Trg in Slowenien, welches einen Topf mit horizontaler feiner Kammstrichverzierung und einzeiliger Wellenlinie auf der Gefäßschulter beinhaltete. Der amphorenförmige Gürtelbeschlag ist für die chronologische Stellung des Grabes ausschlaggebend23. Ähnlich geformte Gürtelbeschläge aus Aquileia, Emona, Salona, Intercisa, Carnuntum etc. werden in die 2. Hälfte des 4.Jhs. datiert. Ein Exemplar aus Drnovo z.B. wurde vergesellschaftet mit einer Zwiebelkopffibel, Typ 4 nach E. Keller gefunden, den er in die Zeit zwischen 350-380 n.Chr. setzt24. Einen weiteren bescheidenen zeitlichen Hinweis für die Rezeption der einzeiligen Wellenlinien auf Keramik mit Kammstrichverzierung liefern die spärlichen Funde aus einem Quadranten mit gestörter Grablegung (?) in Sempeter, in welchem sich ein Wandfragment mit feinen vertikalen Kammstrichen fand, über welche horizontale Kammstrichbündel sowie einzeilige Wellenlinien gelegt sind. Die Valentiniansmünze zeigt an, daß das Keramikbruchstück frühestens aus dem letzten Viertel des 4.Jhs. stammen kann25. Der südostalpinen spätrömischen Keramik der ersten drei Viertel des 4.Jhs. fehlt die einzeilige Wellenlinienverzierung noch (Taf. 1, 1-3.7.9-10). Das erste Auftreten der einzeiligen Wellenlinien, die über die feine, meist horizontale Kammstrichverzierung gelegt sind (Taf. 1,6), kann in das letzte Viertel des 4.Jhs., d.h. in nachvalentinianische Zeit datiert werden. Hier stellt sich nun die Frage: Welche Umstände konnten zur Aufnahme der Wellenlinienverzierung gerade in dieser Zeit geführt haben? Der Einfall der Hunnen 375 n. Chr. in das nördliche Schwarzmeergebiet löste die großen Ost-West-Völkerverschiebungen aus. Barbarische Völkerschaften drangen am Balkan auf römisches Reichsgebiet ein. 378 n. Chr. mußte das römische Heer in der folgenschweren Schlacht bei Hadrianopel eine schmerzliche Niederlage hinnehmen. 380/1 n. Chr. wurde unter Kaiser

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U. G IESLER, Hru_ica, a.a.O. (Anm. 4), 93; bes. 245. M. SLABE, Voznoanti_ni staroselski grob iz Dan pri Starem Trgu (The late roman autochthonous grave from Dane near Stari Trg) Arh. Vestnik 25 (1974) 417-423, Taf. 1,8 (Topf); Taf. 1,1 (amphorenförmiger Gürtelbeschlag). 24 P. PETRU, Poskus _asovne razporeditive loricenine iz rimskih grobov na Dolenjskem in Posavju (Cronologia della ceramica delle tombe nella Carniola inferiore (Dolenjsko) e della valle della Selva), «Razprave», 6 (1969) 195-213, Taf. 1,13.15. E. KELLER, Die spätrömischen Grabfunde in Südbayern, «Münchner Beitr. Vor-u. Frühgesch.», 14 (1971); Typologie der Zwiebelknopffibeln 26 ff. 25 V. K OL_EK, Vzhodni del anti_ne nekropole v _empetru (Die östliche Nekropole in _empeter im Savinjatal), «Katalogi in Monografije», 14 (1977), Taf. 38, Kv. 286. 23

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Gratian als erster barbarischer Verband die ostgotisch-alanische AlatheusSafrac-Gruppe in Pannonien angesiedelt. Die zunehmende Barbarisierung der pannonischen Provinzen war damit eingeleitet. Etwa in dieser Zeit, d. h. zwischen 375 und 380 n. Chr. wurde die Produktion der spätrömischspätantiken Keramik mit Einglättdekor in den romanischen Töpfereien Pannoniens aufgenommen26. Während die spätrömische pannonische Keramik noch relativ verzierungsarm war, ist die nachvalentinianische, spätantike Keramik Pannoniens vielfach reichlich mit Dekor, auch mit Wellenlinienverzierung versehen27. Die Aufnahme der Produktion einglättverzierter Keramik in Pannonien und das erste Auftreten der einzeiligen Wellenlinien auf kammstrichverzierter spätrömischer Keramik im Südostalpengebiet erfolgten also in etwa gleichzeitig. Hier stellt sich nun ein weiteres Problem: Die einzeilige Wellenlinienverzierung wurde im letzten Viertel des 4.Jhs., spätestens ca. 380 n. Chr. auf kammstrichverzierter südostalpiner Hauskeramik rezipiert. Die Paßstation auf der Hru_ica, wo die einzeilige Wellenlinienverzierung im publizierten Material fehlt, wurde aber erst 394 n. Chr. aufgelassen. Hier besteht also eine zeitliche Diskrepanz von 14 Jahren. Denn wenn unsere Überlegungen richtig sind, daß die Wellenlinienverzierung (etwa gleichzeitig mit dem Einglättdekor) ca. 380 n. Chr. erstmals auftritt, so müßten im keramischen Fundmaterial der Hru_ica Fragmente mit Kammstrichverzierung und Wellenlinien eigentlich nachzuweisen sein. Bei einer Durchsicht von noch unpublizierten Funden der Hru_ica im Museum in Laibach/Ljubljana konnte ich nun tatsächlich ein Topffragment ausfindig machen, auf dessen horizontal gerillter Gefäßschulter eine einzeilige Wellenlinie erscheint 28. Das Fehlen der einzeiligen Wellenlinien auf der spätrömischen südostalpinen Gebrauchskeramik hatte zur Überlegung geführt, daß die Rezeption der einzeiligen Wellenlinien auf kammstrichverzierter Keramik chronologisch bedingt sein muß. Das Auftreten einer einzeiligen Wellenlinie auf

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M. GRÜNEWALD, Zum spätrömischen Fundstoff im Legionslager Carnuntum, in: H. WOLFRAM-F. DAIM (Hrsg.), Die Völker an der mittleren und unteren Donau im fünften und sechsten Jahrhundert, Berichte des Symposions der Kommission für Frühmittelalterforschung 24. bis 27. Oktober 1978, Stift Zwettl, Niederösterreich, Denkschr. Österr. Akad. Wissensch. 145 (1980) 29-31. M. KANDLER, Archäologische Beobachtungen zur Baugeschichte des Legionslagers Carnuntum am Ausgang der Antike, ebd. 83-92; bes. 91. K. OTTOMÁNYI , Fragen der spätrömischen eingeglätteten Keramik in Pannonien, Dissertationes Archaeologicae, Ser. 2, No. 10, Budapest 1982. S. SOPRONI , Die letzten Jahrzehnte des pannonischen Limes, «Münchner Beitr. Vor-u. Frühgesch.», 38 (1985), 25 ff. 27 M. GRÜNEWALD, Die Gefäßkeramik des Legionslagers von Carnuntum (Grabungen 1968-1974), «Rom. Limes i. Österreich», 29 (1979), 74 f: «Fabrikat A» zeigt öfters Wellenliniendekor. K.Sz. PÓCZY, Keramik, in: Intercisa II (Dunapentele). Geschichte der Stadt in der Römerzeit, «Arch. Hungarica», 36 (1957) 29-139; zu Abb. 47,111 bes. 73 f: zweihenklige Gefäße mit zylindrischem Körper, auf welchen die «eingetiefte Wellenlinie ... nur auf spätesten Gefäßen erscheint...» Vergleichsweise ist auch die mittelkaiserzeitlich-spätrömische Gebrauchskeramik im südlichen Teil der ehemaligen «Raetia» sowie im oberitalienischen Gebiet allgemein verzierungsarm. Die spätantike Gebrauchskeramik lokaler Formtradition ist hingegen z.T. reichlich mit Wellenstrichdekor und/oder flächendeckender Kammstrichverzierung in ähnlicher Konzeption versehen, wie die gleichzeitige südostalpine Hauskeramik. Die Frage nach möglichen Zusammenhängen wird erst nach Klärung ihrer Chronologie (Zeit der Rezeption der Dekormotive, Entwicklung etc.) zu beantworten sein. 28 Für die Einsicht in noch unpublizierte Funde von der Hrusica möchte ich Sonja Petru, Iana Horvat und Slavko Ciglene_ki, Laibach, herzlich danken.

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einem Topffragment der Hru_ica bestätigt letzten Endes unseren zeitlichen Ansatz noch vor 394 n. Chr29 . Eine Reihe von Fragmenten aus den verschiedenen südostalpinen Fundmaterialien ist mit feinen flächendeckenden Kammstrichen versehen, über welche einzeilige Wellenlinien gelegt sind (Taf. 1,6, Taf. 3,2)30. Relativ groß ist der Anteil an Keramikbruchstücken in den spätantiken südalpinen Fundorten, die mit groben, relativ breiten Kammstrichen bedeckt sind, über denen z.T. weitschwingende, unregelmäßige Wellenlinien verlaufen (Taf. 1,25, Taf. 2,11, Taf. 4,1)31. Im Gegensatz zu den feinen Kammstrichen geben die groben Kammstriche eine weniger enge Bindung zum Dekor der kaiserzeitlichen und spätrömischen südostalpinen Hauskeramik zu erkennen, was wiederum nur chronologische Ursachen haben kann: Die grobe Kammstrichverzierung muß noch jünger datieren als der feine Kammstrichdekor mit darübergelegten Wellenlinien. Wenn wir der feinen Kammstrichverzierung mit Wellenlinien eine maximale Lebenszeit von ca. 100 Jahren zugestehen wollen (datierbare Befunde fehlen), so muß noch im Verlauf des 5.Jhs. der grobe Kammstrichdekor den feinen Kammstrichdekor abgelöst haben, der auf Gefäßen des 6.Jhs. bereits voll ausgeprägt vorhanden ist 32 . Analog zur Vergröberung der Kammstrichverzierung auf der Gefäßaußenseite zeigt auch die Rillung der Gefäßinnenseite die Tendenz, zunehmend sich zu verbreitern (Taf. 2,14.15. Taf. 4,1.2.5.6). Die Vergröberung der Innenrillung scheint jedoch etwas früher einzusetzen. Bei Keramik mit grobem Kammstrichdekor kann die Wellenlinienverzierung auftreten, es gibt aber auch reichlich Keramikbeispiele, denen die Wellenlinienverzierung fehlt (Taf. 1,13. Taf. 2,5. Taf. 3,4. Taf. 4,8. Taf. 6,5) 33 .

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Die Kombination von Kammstrichverzierung mit Wellenliniendekor gab es bereits zur frühen Kaiserzeit, E. BONIS, a.a.O. (Anm. 13), Taf. II, 2; Taf. IV, 1,3. L. PLESNI_AR-GEC 1972 a.a.O. (Anm. 14), Grab 230. B. VIKI_-BELAN_I_, a.a.O. (Anm. 13). Die frühkaiserzeitlichen Gefäße weisen jedoch eine andere Form, eine unterschiedliche Machart sowie andere Randbildungen auf, sodaß sie von der spätantiken Keramik gut unterscheidbar sind. Auf der mittelkaiserzeitlichen Grobkeramik fehlt die Wellenlinienverzierung bereits zur Gänze. 30 Besonders gut sichtbar ist die feine Kammstrichverzierung: M. FUCHS, Die Ausgrabungen auf dem Kathreinkogel, Gemeinde Schiefling am See in Kärnten, «Archäologie Alpen Adria» 1, Klagenfurt 1988, 109-119, Abb. 9; vgl. auch H. R ODRIGUEZ , a.a.O. (Anm. 15), Taf. 2,49-55.57-60.63.68.69. Weiters Invillino, V. BIERBRAUER, a.a.O. (Anm. 2), Taf. 82, 14; Taf. 84, 4; u.a. Lavant: H. R ODRIGUEZ 1984, a.a.O. (Anm. 11), Abb. 2,4. Säben: V. B IERBRAUER-H. NOTHDURFTER, a.a.O. (Anm. 3), Abb. 3,5; u.a. 31 Duel: U. STEINKLAUBER 1984, a.a.O. (Anm. 8), Abb. 1,1. Lavant: H. RODRIGUEZ 1984, a.a.O. (Anm. 11), Abb. 2,3; Abb. 3,1; Abb. 4,2. Teurnia: H. R ODRIGUEZ , a.a.O. (Anm. 3), Taf. 3,2; Taf. 4,3. Invillino: V. BIERBRAUER, a.a.O. (Anm. 2), Taf. 72,3; Taf. 77,1; Taf. 88,7; Taf. 89,9; u.a. Säben: V. BIERBRAUER-H. NOTHDURFTER, a.a.O. (Anm. 3), Abb. 3,1.10 (auf dieser Abbildung sind die breiten Kammstriche sowie die Innenrillung nachzutragen); u.a. 32 Vgl. Maria Ponsee, Niederösterreich, Grab 37: H. FRIESINGER-H. KERCHLER, Töpferöfen der Völkerwanderungszeit in Niederösterreich. Ein Beitrag zur völkerwanderungszeitlichen Keramik (2. Hälfte 4.-6. Jahrhundert n. Chr.) in Niederösterreich, Oberösterreich und dem Burgenland, «Arch. Austriaca», 65 (1981) 193-266, Abb. 46. Datierbar sind auch die Gefäße aus langobardischen Gräbern in Romans d’Isonzo: Longobardi a Romans d’Isonzo. Itinerario attraverso le tombe altomedievali, Ausstellungskatalog, Trieste 1989; Gräber 1o,11,15,18,19 (Taf. II); auf Fig. 12 ist der grobe Kammstrich, der in den Zeichnungen nicht zur Geltung kommt, gut sichtbar. 33 Invillino: V. BIERBRAUER, a.a.O. (Anm. 2), Taf. 87,9; Taf. 106,12, u.a. Lavant: ebd.,

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Zu bemerken ist, daß Töpfe/Becher mit verdickten Randformen (IIIc, g, h, i, k, m), die sich im Verlauf des 5.Jhs. durchzusetzen beginnen, meist grobe Kammstrichverzierung oder grobe Innenrillung tragen (Taf. 1,12.12.25. Taf. 2,7. Taf. 6,5)34. Neben der groben Kammstrichverzierung treten auch weiterhin relativ feine Kammstriche auf; die gleichzeitige Besenstrichverzierung fällt stets fein aus (Taf. 5,5. Taf. 3,7)35. In relativchronologischer Hinsicht haben sich also Anhaltspunkte gefunden, die es erlauben, auf grund rein typologischer Kriterien spätrömische Gefäße/Gefäßfragmente von spätantiken zeitlich zu trennen und die spätantike nachvalentinianische, kammstrichverzierte Keramik des 5. und 6.Jhs. in zwei Phasen zu untergliedern. Es muß betont werden, daß regionale Unterschiede bei der Klassifizierung der Kammstrichverzierung bzw. Innenrillung selbstverständlich mitzuberücksichtigen sind. Abgesehen von der Kammstrichverzierung bieten zweifelsohne auch in erster Linie die Randbildungen, weiters der Gefäßumriß (Taf. 4,11)36 sowie die technologischen Kriterien weitere Anhaltspunkte für eine nähere chronologische Zuordnung der spätantiken Hauskeramik. Bei der spätantiken Hauskeramik handelt es sich nur z.T. um Drehscheibenware. Vielfach wurden die Gefäße handgefertigt und auf der Töpferscheibe lediglich nachgedreht. Die Keramik wurde bei einer Temperatur zwischen 600 – ca. 650°C mittelhart gebrannt. Die dunkel gebrannten Fragmente sind braunschwarz bzw. grauschwarz; bei der hell gebrannten Keramik kommen alle Brauntöne von dunkelbraun bis ockerbraun vor. Erste mineralogisch-petrographische Untersuchungen an Fragmenten aus Teurnia, vom Duel und vom Hemmaberg37 haben ergeben, daß die Keramik durchwegs mit feinem bis grobem Marmorsplitt gemagert ist; Glimmer tritt als natürliche Verunreinigung im Rohton auf. Dieser stammte aus der näheren Umgebung der jeweiligen Fundorte, was auf lokale Fertigung der Ware hinweist. Besonders bei der Keramik aus Teurnia ist

Abb. 30,4.6.10.13. Vranje, T. K NIFIC, a.a.O. (Anm. 4), Nr. 50.51.80, u.a. Tinje: S. CIGLENE_KI, Die Keramik des 4.-6. Jahrhunderts von Gradec, Tinje und Korinjski hrib, Slowenien, Symposion zu Fragen der spätantiken und völkerwanderungszeitlichen Keramik, Großrußbach, Niederösterreich, 10.-13. Oktober 1983, «Arch. Austriaca», 68 (1984) 313328, Abb. 4,49.55. Die im Donaulimesgebiet auftretende spätantike sog. “Horreumkeramik” mit flächendeckender Kammstrichverzierung weist selten Wellenstrichverzierung auf; vgl. R. CHRISTLEIN, Das spätrömische Kastell Boiotro zu Passau-Innstadt. Formen der Kontinuität am Donaulimes im raetisch-norischen Grenzbereich, in J. WERNER-E. EWIG (Hrsg.), Von der Spätantike zum frühen Mittelalter, «Vorträge und Forschungen», 25 (1979) 91-123. A. GATTRINGER-M. GRÜNEWALD , Zur Typologie der “Horreumkeramik”, «Bayer. Vorgeschbl.», 46 (1981) 199-210. 34 V. BIERBRAUER, Invillino, a.a.O. (Anm. 2); (Anm. 15). 35 U. STEINKLAUBER, Duel, a.a.O. (Anm. 8),Abb. 3,8. Besenstrichverzierung findet sich auch sehr häufig auf Gefäßbruchstucken, insbesondere auf Schüsseln/Schalen aus Teurnia, H. RODRIGUEZ, a.a.O. (Anm. 3),Taf. 2,9.10.13. 36 Die Töpfe/Becher zeigen die Tendenz, sich im Verlaufe der Zeit zu breitbodigen gedrückten Formen zu entwickeln, z.B. L. DAL RI-G. RIZZI , Archäologische Ausgrabungen auf dem Plunacker in Villanders, «Der Schiern», 63 (1989) 201-217, Taf. V,6 ist gut vergleichbar mit Töpfen/Bechern aus Teurnia. 37 Untersuchungen im Rahmen einer unpublizierten Diplomarbeit von Andrea Gastgeb unter der Leitung von Prof. Hans Kurzweil, Institut für Petrologie an der Universität Wien: Mineralogisch-sedimentpetrologische Untersuchungen an spätrömischen Grobkeramiken der Ausgrabungen Teurnia und Hemmaberg in Kärnten, Wien 1992.

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die Marmor- = Calzitmagerung durch die Bodenlagerung aus dem Scherben ausgelaugt, weshalb diese Fragmente eine poröse Struktur bzw. porige Oberfläche aufweisen. Verschiedene Gefäßfragmente mit sehr grober Kammstrichverzierung/ Innenrillung besitzen bei sehr grober dichter Marmor-Calzitmagerung nur einen geringen Anteil an Matrix (= eigentliche Tonsubstanz). Es zeigt sich also, daß im Verlauf der Zeit, analog zur Vergröberung der Kammstrichverzierung vielfach auch der Magerungsanteil im Ton und die Größe der Magerungspartikel zunehmen. Bruchstücke, die noch die feine Kammstrichverzierung tragen, sind häufig aus einem gut aufbereiteten,

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Matrixanteil gefertigt38 . Im Fundmaterial vom Lavanter Kirchbichl ist ähnlich wie in verschiedenen anderen Fundmaterialien Keramik mit grobem Kammstrichdekor

38 Diese Unterschiede im Scherben, die m. E. chronologische Rückschlüsse erlauben, sind am Fundmaterial vom Lavanter Kirchbichl, dessen Belegungszeit vom späten 3. bis zum Ende des 6.Jhs. reicht, gut ablesbar. Gleiches konnte auch am Fundmaterial aus Säben beobachtet werden, vgl. P. GLEIRSCHER, Kastelruth in der Spätantike und im Frühmittelalter, in: Der Kofel in Kastelruth, Burgberg-Kalvarienberg, Kastelruth-St. Ulrich 1990, 18-35 mit Anm. 30.

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und z.T. mit grober Innenrillung reichlich vertreten. Nicht vorhanden sind jedoch Fragmente, die extrem grobe, bis zu 1 cm breite Kamm- bzw. Spatelstriche aufweisen, die wir von Keramikbruchstücken aus Invillino (Taf. 6,1.2), aber auch aus den nördlichen Osttiroler Seitentälern, z.B. aus Virgen (= Streufund) kennen (Taf. 6,7)39. Virgen liegt nur ca. 25 km nordwestlich vom Lavanter Kirchbichl entfernt, sodaß das Fehlen der extrem breiten Spatelstrichverzierung auf Keramik am Kirchbichl, ähnlich wie auf Bruchstücken aus Teurnia, vom Ulrichsberg oder Hemmaberg kaum als «regional bedingt» erklärt werden kann. Das Auftreten von Keramik mit extrem grober Kamm- bzw. Spatelstrichverzierung muß chronologische Ursachen haben: Diese Gefäße/Fragmente datieren noch jünger als die Lavanter spätantike Keramik, nämlich frühmittelalterlich. Mit der slawischen Landnahme hat die Belegung am Lavanter Kirchbichlein Ende gefunden. Auch die jüngste Keramik aus Teurnia, dem Bereich der Bischofskirche datiert spätestens in diese Zeit40 . Am Hemmaberg hingegen fanden sich einige Bruchstücke von Gefäßen des sog. “Prager Typus”, einer sehr grob gefertigten Keramikgattung aus den Anfängen der slawischen Besiedlung, die sich in technologischer Hinsicht eindeutig von der spätantiken romanischen Keramiktradition unterscheidet. Die Gefäße bestehen aus einem schlecht aufbereiteten Ton mit extrem grober Calzitmagerung 41 . Das Auftreten von frühslawischer Keramik möchte ich auch ganz vorsichtig vom Ulrichsberg behaupten 42 . In diesem Sinne können den historischen Quellen, die uns von der slawischen Landnahme berichten, erste archäologische Belege aus der Frühzeit der Slawen (Karantanen) gegenübergestellt werden. Ein gewisses Fortleben von Teilen der romanischen Bevölkerung in Karantanien im 7.Jh. ist deshalb nicht auszuschließen, aber archäologisch mangels an Befunden noch kaum faßbar. Gefäße mit Kammstrichverzierung, die sich mit der Keramiktradition der romanischen Bevölkerung verknüpfen lassen, wurden in jenen Gebieten kontinuierlich hergestellt, die von den ersten Slawen unberührt geblieben sind, z.B. in Friaul43 , in Nord- und Südtirol 44 , in den Osttiroler Seitentälern 45 , im Trentino 46 bzw. im oberitalienischen Gebiet allgemein;

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V. BIERBRAUER, Invillino, a.a.O. (Anm. 2), Taf. 130,1. H. STADLER, Spätantike Keramik aus dem Virgental, Osttirol, «Tiroler Heimat», 50 (1986) 23-26, Abb. 1. 40 Die Vorlage des Fundmaterials ist durch Verf. in Vorbereitung. Zu den Grabungen vgl. F. GLASER , Carinthia I/176 (1986) bis Carinthia I/180./100. Jg. (1990) (= jährliche Grabungsberichte). 41 Die Vorlage des Fundmaterials vom Hemmaberg ist durch Verf. in Vorbereitung. Zu den Grabungen vgl. F. G LASER, Carinthia 1/169 (1979) bis Carinthia 1/180. /100. Jg. (1990) (= jährliche Grabungsberichte mit Angabe der älteren Literatur). 42 A. N EUMANN, Keramik und andere Kleinfunde vom Ulrichsberg, Carinthia I, 145 (1955) 143-182. Eine Neuvorlage des Fundmaterials ist durch Verf. in Vorbereitung. 43 V. BIERBRAUER, Invillino, a.a.O. (Anm. 2) 44 H. STADLER, Die vor- und frühgeschichtlichen Funde vom Sonnenburger Hügel. Ein Beitrag zur Siedlungskeramik in Nordtirol, unpubl. Diss. phil., Innsbruck 1985, Taf. 88,1.2 8; Taf. 90,9-11; Taf. 91,7; Taf. 92,13.17. Für die Möglichkeit, Gefäßfragmente abbilden zu können, möchte ich Harald Stadler meinen Dank aussprechen. Säben: unpubl. 45 H. STADLER, a.a.O. (Anm. 39). H. RODRIGUEZ 1986, a.a.O. (Anm. 8), Taf. 109-Taf. 111. 46 L. DAL RI-G. PIVA, Ledro B, a.a.O. (Anm. 8), Fig. XX; Fig. XXI; Fig. XXXIX-XLI Auf den Fotoabbildungen ist die horizontale Rillung sichtbar.

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Funde gibt es aus der Val Padana, aus Ferrara, Ravenna, Teilen der Emiglia, der westlichen Lombardie47 etc. Die Kammstrichverzierung der frühmittelalterlichen Keramik läßt durchaus gewisse weitere Entwicklungstendenzen erkennen; chronologisch sind diese Tendenzen noch nicht genauer eingrenzbar. Das Schüsselbruchstück mit extrem breiter Spatelstrichverzierung aus

47 G.P. BROGIOLO-S. GELICHI, La ceramica grezza medievale nella pianura padana, in: La ceramica medievale nel mediterraneo occidentale, Congresso internazionale della Università degli Studi di Siena, Firenze 1986, 293-316 (mit weiteren Literaturangaben).

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Invillino (Taf. 6,2) gehört zweifellos in die frühmittelalterliche Periode IV48. Frühmittelalterliche Töpfe vom Typ “Bozen-Waltherplatz” (Taf. 6,4. Taf. 7,3-5) bzw. aus St. Nikolaus in Osttirol (Taf. 7,1) mit groben Kammstrichen und z.T. darübergelegten Wellenlinien stehen ebenfalls in typologischer Hinsicht unmittelbar in der Tradition der romanischen spätantiken Kammstrichware49. Mit dieser Tradition lassen sich auch die Topffragmente mit breiten schrägen Spatelstrichen auf der Gefäßschulter vom Sonnenburger Hügel bei Innsbruck verknüpfen (Taf. 8,1-6). Auf der frühmittelalterlich – mittelalterlichen Keramik mit gekämmter Oberfläche, auf der sog. “ceramica pettinata” (Taf. 8,8), treten Wellenlinien offensichtlich immer seltener auf. Zum bekannten Formenspektrum kommen Gefäße mit durchlochten Randlappen, Siebe und Gluthauben hin 50 . Auch in technologischer Hinsicht scheint die gerillte Ware sich von der spätantiken Keramik zu unterscheiden: Der dichte, gut aufbereitete Ton der Gefäße mit leicht spröder Oberfläche wurde hart gebrannt und weist häufig feine Gold-Glimmerpartikel auf, die der spätantiken Keramik nahezu zur Gänze fehlen. Marmorsplitt = Calzit scheint als Magerungskomponente keine Rolle mehr zu spielen 51 . Die Lebensdauer der horizontal gerillten Ware, der “ceramica pettinata” bis ins Mittelalter wird durch ihre Vergesellschaftung mit “ceramica maiolica” und mittelalterlichen Münzen belegt52.

48

Wie Anm. 39. L. DAL RI-M. FLORES, Schede descrittive dello scavo di Piazza Walther (Beschreibung der Fundstücke aus Waltherplatz), Scavi nella conca di Bolzano e nella Bassa Atesina 19761985 (Ausgrabungen im Raum Bozen und im Unterland), Ausstellungskatalog, Bozen 1985, 185-199, Tav. XLV; Tav. XLVI, 11.10; 11.11. L. D AL R I , Bozen, a.a.O. (Anm. 15). M. MARTINI-E. SIBILIA-R. ZAGANELLI -C. ZELASCHI, Datazione con metodi termoluminiscenti di materiali ceramici dello scavo di Piazza Walther a Bolzano, 317 f. Die Datierung der Keramik mit groben Kammstrichen und Wellenlinien ins Mittelalter (12., 13.Jh.) ist vom typologischen Standpunkt her nur schwer zu akzeptieren, da sich Keramik mit horizontaler Rillung, die auch eine andere Machart aufweist (vgl. Anm. 51), bereits früher durchsetzte. Die Ther-moluminiszenz-Untersuchungen wurden an 2 Proben aus US 66 in “ambiente B” durchgeführt; die Schicht war offensichtlich durch einen Brand beeinträchtigt (vgl. Probe Mi Bz 2a, b). Aus den Ausführungen (317 f) geht leider nicht hervor, um welche Keramik in typologischer Hinsicht es sich bei der 2. Probe (Mi Bz 1a, b) handelte. Für die Thermoluminiszenz-Datierung allgemein ist die letzte Erhitzung (ca. 500°C) der Keramik maßgeblich. Das würde bedeuten, daß die Thermoluminiszenz-Daten für die Zeit des Brandes des Gebäudeobjektes, nicht jedoch für die Herstellungszeit der Keramik Geltung haben. (Mi Bz 1a: 1219 ± 56; Mi Bz 1b: 1251 ± 59 n. Chr.; Mi Bz 2a: 1248 ± 54; Mi Bz 2b: 1210 ± 48 n. Chr.). Die Schicht US 66 (“ambiente B”), die eine Klappwaage, Typ 8 nach H. Steuer (Fig. 4,1), datierbar 12.-13.Jh. (?), enthielt, wird von Schicht US 63 in “ambiente B” (vgl. Foto Nr. 6) überlagert (= Brandschicht), deren kalibrierte C14 -Daten den Zeitraum 855-1020 n. Chr. (Probe US 63/2 fällt heraus:1240 n. Chr.) umfassen (268 f mit Anm. 20). Diese Datierung könnte m. E. für die Keramik vom “Typ Bozen Waltherplatz” durchaus in Erwägung gezogen werden. 50 G.B. S IVIERO, Ceramica medievale non invetriata della Val Padana, «Padusa», 10 (1974) 89-104. Zu Gluthauben vgl. G.B. B ROGIOLO-S. G ELICHI , a.a.O. (Anm. 47), Tav. VII,2.4; u.a. 51 Funde aus Cavalese, Dosso di S. Valerio, zeigen einen z. T. dichten, relativ schweren Scherben; die Gefäßfragmente sind sandgemagert und relativ dickwandig, vgl. G. CIURLETTI-E. CAVADA , Risultati di un sondaggio archeologico sul Dosso di S. Valerio a Cavalese (Val di Fiemme), «Atti dell’Acad. Roveretana degli Agiati», 229 (1979) ser. 6, vol. 19 f.A., 207-218. Für die Einsicht in Keramikfunde möchte ich Enrico Cavada, Trient/Trento, herzlich danken. 52 A.N. RIGONI, I materiali, in: Treviso, Progetto Rocca di Ascoli, lo scavo 1985 (a cura 49

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Abschließend läßt sich folgendes zusammenfassen: Kammstrichverzierung tritt auf der Gebrauchskeramik der einheimischen südostalpinen Bevölkerung zumindest seit der späten Latènezeit auf und läßt sich kontinuierlich bis zum Früh- und Hochmittelalter verfolgen.

di Guido Rosada), «Quaderni Arch. Veneta», 2 (1985) 39-69; (1986) 35-55. E. CAVADA-T. PASQUALI, Aspetti di cultura materiale medioevale a Castel Bosco presso Civezzano (Trento), «Studi Trent. Sc. Stor.», Sez. Sec. 61 (1982) 139-150; u.v.a.

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Mit dem Rückgang von Keramikimporten in spätrömischer Zeit nahm die lokale Produktion von Gebrauchskeramik deutlich zu. In den ehemaligen römischen südostalpinen Provinzen ist mit vielen lokal arbeitenden Töpfern/Töpferinnen bzw. kleinen Töpfereien zu rechnen, die den Keramikbedarf der nächsten Umgebung deckten. Die grobe Gebrauchskeramik besaß zweifellos keinen materiellen oder repräsentativen Wert. Ein geregelter Handel mit Hauskeramik ist sogut wie auszuschließen. Grobkeramische Gefäße haben höchstens als “Verpackung” für gewisse Güter (z.B. haltbare/haltbar gemachte Nahrungsmittel) einen größeren Streuungsradius erreicht; einzelne Gefäße wird man vielleicht als “persönliche Mitbringsel” ansprechen dürfen.

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Während der Spätantike kam der ausgedehnte Fernhandel aufgrund der äußeren Gegebenheiten während der Völkerwanderungszeit zum Erliegen, auch wenn noch im 5. und 6Jh. Sigillata Chiara aus Nordafrika und im späten 5. und 6.Jh. zunehmend Amphoren aus dem ostmediterranen Gebiet die südostalpinen Höhensiedlungen erreichten. Glasierte Gefäße, die in Fundkomplexen des 4.Jhs. zu finden sind, scheinen bereits im Verlauf des 5.Jhs. in den südostalpinen Höhensiedlungen nur mehr vereinzelt aufzutreten. Für eine lokale Fertigung von feiner Gebrauchskeramik allgemein gibt es kaum Hinweise53. Bei den grobkeramischen Töpfen/Bechern handelt es sich vielfach um Kochgeschirr; die Fragmente weisen häufig auf der Gefäßinnenseite eine schwarze Kochkruste auf. Der durchschnittliche Randdurchmesser der Töpfe/Becher beträgt zwischen 15-20 cm. Kleinere Gefäße sind häufig. Großgefäße, z.B. Vorratsgefäße treten sehr selten auf. Auffallend ist der durchwegs relativ hohe Anteil an Schüsseln/Schalen in den spätantiken Fundmaterialien, wobei die Schüsseln einen Randdurchmesser von über 40 cm erreichen können. Allgemein spiegelt die GefäBkeramik den wirtschaftlichen Niedergang der südostalpinen römischen Provinzen während der Spätantike wider: einmal durch den Ausfall der Produktion lokal gefertigter Feinkeramik 54 , weiters durch die Verarmung der Formenvielfalt 55 und den Rückgang der Importe56 und nicht zuletzt durch den allgemeinen Rückschritt in der Keramiktechnologie. Die historischen Ereignisse und die politischen Wirren der Völkerwanderungszeit, über welche schriftliche Zeugnisse überliefert sind, haben die kontinuierliche Entwicklung der romanischen kammstrichverzierten Keramik vielleicht beeinflußt, aber nicht unterbrochen. Die Ende des 5.Jhs. bzw. zu Beginn des 6.Jhs. einsetzende germanische Aufsiedlung in Teilen Norikums hat das lokale Keramikschaffen kaum berührt und genausowenig wie die ostgotische Herrschaft ab dem Ende des 5.Jhs. konnte die Herrschaft der Franken Mitte des 6.Jhs. über Teile Norikums die kontinuierliche Entwicklung abbreche57 . Die Besetzung von Kastellen im südlichen 53 Für die Herstellung glasierter Ware im heutigen Kärnten in spätantiker Zeit gibt es keine Hinweise. Für Friaul vgl. L. BERTACCHI , La ceramica invetriata di Carlino, «Aquileia Nostra», 47 (1976) 181-194; vgl. auch: La ceramica invetriata tardoromana e altomedievale, Atti del convegno, Archeologia dell’Italia Settentrionale 2, Como 1985. 54 Während Keramik, die aus fein geschlämmtem Ton gefertigt ist, in spätrömischen Fundzusammenhängen durchaus gängig ist, scheint die Produktion lokal gefertigter Feinkeramik in der Spätantike zum Erliegen gekommen zu sein. 55 Im Gegensatz zu den südostalpinen römischen Provinzen weist die gleichzeitige Keramik Pannoniens im 5.Jh. n. Chr. noch ein relativ vielfältiges Formenspektrum auf. 56 Die wenigen Importe aus Nordafrika (Amphoren, Sigillata Chiara, Lampen) gehen besonders im Verlauf des 5.Jhs. zugunsten von Importen aus dem ostmediterranen byzantinischen Gebiet auf ein Minimum zurück. 57 V. BIERBRAUER, Kontinuitätsprobleme im Mittel- und Ostalpenraum zwischen dem 4. und 7. Jahrhundert aus archäologischer Sicht, «Ber. z. Deutschen Landeskunde», 53/2 (1979) 323-370; ders., Die germanische Aufsiedlung des östlichen und mittleren Alpengebietes im 6. und 7. Jahrhundert aus archäologischer Sicht, in: H. BEUMANN-W. SCHRÖDER (Hrsg.), Frühmittelalterliche Ethnogenese im Alpenraum, «Nationes», 5 (1985) 9-47; ders., Frühmittelalterliche Castra im östlichen und mittleren Alpengebiet: Germanische Wehranlagen oder romanische Siedlungen? – Ein Beitrag zur Kontinuitätsforschung, «Arch. Korrbl», 15 (1985) 497513. V. BEEEBRAUER-C.G. MOR, Romani e Germani nell’arco alpino (secoli VI-VIII), «Annali dell’ Instituto Storico italo-germanico Trento. Quaderni», 19 (1986) 175-197. V. BIERBRAUER,

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Ostnorikum durch die Langobarden, die ihnen 548 von Kaiser Justinian überlassen worden waren, findet nur regional einen faßbaren Niederschlag in Gräbern und in keramischen Siedlungsfunden 58 . Unter diesem Gesichtspunkt leistet die Gebrauchskeramik als bodenständiges Erzeugnis der provinzialrömisch-romanischen Bevölkerung einen wichtigen Beitrag bei der Klärung der vieldiskutierten Frage: KontinuitätDiskontinuität von der Spätantike zum Frühmittelalter59 . Denn die mit flächendeckendem Kammstrichdekor und Innenrillung versehene spätantike Hauskeramik liefert das sicherste Indiz für die ununterbrochene Anwesenheit der autochthonen Bevölkerung im südlichen Ostalpengebiet. Erst durch die slawische Landnahme Ende 6./Beginn 7.Jh. erfolgte ein Kontinuitätsbruch im heutigen Slowenien, in Kärnten und im östlichen Osttiroler Drautal. Die schriftliche Überlieferung bricht ab, die archäologischen Quellen setzen fast zur Gänze aus. Hingegen konnten Elemente der romanischen Hauskeramik in den Osttiroler Seitentälern, in Teilen der ehemaligen Raetia I und II sowie in weiten Teilen Oberitaliens im Frühmittelalter fortleben, nämlich in jenen Gebieten, wo die Bevölkerung, trotz einer germanischen Aufsiedlung 60 , sich in ihrer Grundstruktur ungebrochen weiterhin aus romanischen Bewohnern zusammensetzte. HELGARD RODRIGUEZ

Relazione conclusiva al seminario “insediamenti fortificati tardoromane e altomedievali nell’arco alpino”, «Arch. Medievale», 27 (1990) 43-56. 58 Z.B.: B OLTA, Rifnik, a.a.O. (Anm. 3); u.a. 59 Z.B.:T. U LBERT , Zur Siedlungskontinuität im südöstlichen Alpenraum (vom 2.-6. Jahrhundert). Dargestellt am Beispiel Vranje, in: J. WERNER-E. EWIG (Hrsg.), Von der Spätantike zum frühen Mittelalter, Vorträge und Forschungen 25, Sigmaringen 1979, 141-157. V. BIERBRAUER, Jugoslawien seit dem Beginn der Völkerwanderung bis zur slawischen Landnahme: die Sythese auf dem Hintergrund von Migrations- und Landnahmevorgängen, in: K.-G. GROTHUSEN (Hrsg.), Jugoslawien. Integrationsprobleme in Geschichte und Gegenwart, Beiträge des Südosteuropa-Arbeitskreises der Deutschen Forschungsgemeinschaft zum V. Internationalen Südosteuropa-Kongreß der Association Internationale d’Etudes du Sud-Est Europeen, Belgrad, 11.-17. September 1984, Göttingen 1984, 47-97. 60 V. BIERBRAUER, Frühgeschichtliche Akkulturationsprozesse in den germanischen Staaten am Mittelmeer (Westgoten. Ostgoten, Langobarden) aus der Sicht des Archäologen, Atti del 6° Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo, Milano 21-25 Ottobre 1978, Spoleto 1980 ff; ders., Zum Stand archäologischer Siedlungsforschung in Oberitalien in Spätantike und frühem Mittelalter (5.-7. Jahrhundert). Quellenkunde-Methode-Perspektiven, in: Genetische Siedlungsforschung in Mitteleuropa und seinen Nachbarräumen (hrsg.: K. Fehn-K. Brandt-D. Denecke-F. Irsigler), Red. P. Burggraaff, Bonn 1988, 637-659.

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The Western Pyrenees during the Late Antiquity Reflections for a reconsideration of the issue

The first point which should be acknowledged is that we do not know for certain what happened in the Western Pyrenees and surrounding area from the start of the crisis in the Roman Empire until the time of the first recorded documents in the 8th and 9th centuries. There is very little literature documented, and even this has undergone substantial change when compared to the first sources of information from Roman times. When reading through these rare references from the 4th and following centuries, we can actually sense the difference between those by someone like Strabo or Pliny, which include descriptions which were ethnographic and almost journalistic in nature; events were presented in great detail by a carefully detached author; whereas now in Ausonius, Paulinus and particularly in Prudentius we are confronted with claims in favour of the ideals for a Christian Rome1 where the binomial Romanity = Christianity on the one hand, and Paganism = Barbarism on the other, is very clearly established. In this context, the Wascon cultural background must have at least been a cause for fear, distrust and hostilities, and this is what has been recorded in the small amount of literature which is known to us. The Wascon world was to be given from that moment onwards a set of very specific features, a stereotyped image which writers from both sides of the Pyrenees were to reproduce with very little change. Paulinus7 epithets 2 when referring to the Wascons in the 4th century (gens Barbara, inhumano hospite) reappear in the Frankish-Visigothic writers from the 6th and 7th centuries (Vasco vagus in Venancio Fortunatus 3 , Julian of Toledo’s feroces Vasconum4 , etc.), Arab chronicles from the 8th century describe the Basques as «people similar to brutes». The campaigns in the 9th century against the vascones rebellantes led by the kings Ordoño I and Alfonso III...5, all the above reinforces a generalised opinion, a long standing cliche about the Wascons by those who had any contact with them, suffering their violent incursions, their flitting in and out of the scene, their continuous unsubmissive behaviour and, finally, their refusal to become part of any properly defined political or social structure. The opinion arising from 1 J. FONTAINE, Romanité et Hispanité dans la littérature hispano-romaine du IVéme et Véme siècles, in V Congr. Int. Etud. Classiques, Bucarest-Paris, 1976, pp. 315 and following and notes 14 and 39. 2 Epist XXIX, 50-52; XXI, 202-220. 3 VENANT. FORTUN. Lett. 9, 1, 73; 10, 19, 11 (A. SCHULTEN, Las references sobre los Vascones hasta el año 800 d.C, «Revista Internacional de Estudios Vascos», 18, San Sebastián, 1923, p. 237). 4 S. JULIAN DE TOLEDO, Historia Wambae, chap. 8-11 (SCHULTEN, Las referencias, cit. pp. 234-235). 5 Cfr. A. U BIETO, Crónica de Alfonso III, Valencia, 1970, p. 28.

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this behaviour has been perpetuated in documents, chronicles and biographies official in varying degrees6. On the other hand, we do not know what in very simple terms could be defined as “the other point of view”. This has undoubtedly proved to be a serious handicap for any type of historical research or criticism. This point should be made clear: all of the documents with references to the Wascon area well into the 9th century come from chronicals which were not only written by people who were not Wascon, but by those who were often in open confrontation with them. How could we reconstruct the History for that period if we only based it on data resulting from Frankish-Visigothic chronicals?. That would be rather like trying to investigate facts imputed to the accused only by listening to the prosecution. From this truly difficult position for any historian, we should once again stress the great importance of different research methods, the archaeological approach in particular. We know that the archaeologist is basically a historian who is fortunate enough to be able to substitute any limitations in written documents, which may be biassed, partial views of historical reality, by using archaeological data which is often more truthful given its involuntary nature, when trying to achieve a better understanding of History 7. On this subject, the archaeological findings which have taken place in recent years in the Basque Country can make an important contribution to Historiography, which has been using written documents as practically its only source of information. This text is intended to be a brief introduction to some of the points which will be dealt with in the research project which we are involved in at the moment concerning the Late Antiquity in the North of the Iberian Peninsula. Since the late 4th and throughout the 5th century, a number of events took place which turned the Western Pyrenees and the surrounding area into a dangerous and chaotic place. We shall describe them here only very briefly. The dawn of the 5th century witnessed two events which were to have a deep influence on the future of the Western area of the Empire, namely the confrontation between the usurper Constantine III and the Theodosians on one hand, and the invasions or mobilization of peoples on the other. It is against this background that we should view the breaking of the Pyrenean defence in 408 A.D.8 , as well as the Vandals, Alans and Sueves’ irruption into the Iberian Peninsula. Shortly after that, a new contingent, this time Visigothic, was also to come into the Peninsula. Their king, Atawulf, under pressure from the sea blockade ordered by the Roman general Constantius, had decided to leave Gaul, go into the Tarraco-

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K. LARRAÑAGA, De “Wasco” a “Wasconia” y “Vascongadas”. Disquisiciones sobre ciertos corrimientos onomásticos en la Alta Edad Media, «Langaiak», 8-9, Pamplona, 1985, pp. 59-78. 7 A. AZKARATE, Algunas consideraciones sobre la arqueología de la época germánica en Euskal Herria, «Munibe», (Antropología-Arqueología), 42, San Sebastián, 1990, pp. 345-355. 8 Recently interpreted not as an ‘invasion’ but rather as ‘granted access’ as a consequence of the alliance between Gerontius – one of Constantine III’s generals, who at that time had revolted against the usurper – and those Barbarians who had settled in Aquitaine two years previous (J. A RCE , El último siglo de la España Romana. 284-409, Madrid 1982, pp. 158-159).

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nensis (415 A.D.) and to settle in Barcelona. After his death in tragic circumstances, his successor Valia decided to leave the Iberian Peninsula and set out for North Africa. Even though this undertaking was unsuccessful, he managed to solve what undoubtedly must have been a difficult situation for the Visigoths through an agreement with Rome, thus fighting together with the Empire against both Vandals and Alans. A new agreement in 418 A.D. between Valia and Honorius would make events take yet a new turn: the Visigoths were granted the Aquitania Secunda as their new homeland, and they thus left the Iberian Peninsula and set up the Regnum Tholosanum to the north of the Pyrenees (418-507 A.D.). The following years were to be characterized by three new features which had a particularly great effect on our area, making it especially unstable. Firstly, the expansionism of the Sueves, with a number of episodes recorded in Basque territory: their king Rechiarius’ attack 9 , his alliance with Basilius and the Baccaudae to organize an incursion into the Tarraconensis10, two more military incursions by Rechiarius into the same area11, and the punitive expedition which the Visigothic king Theodoric II led that same year to punish the expansionism of the Sueves12. Secondly, the Baccaudae movement, a country revolt which shook a number of the regions in the Empire, with its most relevant events as far as the Basque area is concerned taking place in 441 A.D. (Asturius’ intervention as imperial envoy), 443 A.D. (a new attack against the Baccaudae, this time led by Merobaudes), 449 A.D. (Basilius’ incursion into the Ebro Valley) and 454 A.D. (Frederick – Theodoric II’s brother – crosses the Pyrenees as an imperial federate and defeats the rebels13). Finally14, and in order to complete the picture, we must also refer to the Visigothic interventionism. The Visigoths acted as imperial police in our geographical area trying to control and restore order, against both Baccaudae and Sueves, which culminated in Euricus’ violent incursion in the Tarraconensis (472 A.D.), a considerable number of troops arriving in during the year 494 A.D. (Gothi in Hispanias ingressi sunt), and their finally settling there due to circumstances in 507 A.D.15. These events, taking place in such a fast and traumatic way, necessarily had to have an influence on the Wascon territory, important communications criss-crossing its very heart, silently witnessing the comings and goings of the military expeditions. Further to the above, mention should also be made of the immigrations of Gothic settlers who, since the late 6th century, had started to leave their territories in Aquitaine for new settlements in the Castilian plateau. All of these were in fact external factors, which have

9 H IDATIUS, Chron., 140: «Rechiarius...Vasconias depraedatur mense februario» (A. TRANOY, Hydace Chronique, Sources Chretiennes, 218-219, Paris, 1974, I, p. 142). 10 HIDATIUS, Chron., 141 (TRANOY, at.). 11 HIDATIUS, Chron., 170 TRANOY, at., p. 152). 12 HIDATIUS, Chron. 173. 13 There is a great deal of bibliography on this matter, but a starting point could be: J.J. SAYAS, L os vascones y la bagaudia, in Asimilación y resistencia a la romanización en el Norte de Hispania, Universidad del País Vasco, Bilbao, 1985, pp. 189-236. 14 Cfr. notes 15 and 16. 13 Cfr. J. ORLANDIS, Historia de España. La España visigótica, Madrid, 1977, p. 61 and follow.

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Fig. 1-2 – Geological locations of the sites mentioned on the text.

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been assumed to have contributed to a new Basque attitude towards established power16. To the south of the Pyrenees, those events recorded in contemporary chronicles are well known. The time elapsing from the Vouille disaster until the end of the 6th century was to help the Visigothic monarchy, with its new capital in Toledo, to start settling in the Iberian Peninsula although they still encountered difficulties. In the meantime, the Northernmost territories seem to have been cast into oblivion, clothed in the deepest silence. Such a prolonged silence, and the fact that they are once again mentioned during Leovigild’s reign, seems significant. In the first place this proves that, up to that point, they had enjoyed from the Barbarians an independence which they were later to take up arms to defend when it was threatened by Leovigild’s expansion policy 17 . Thus, the year 581 A.D. started with Leovigild’s campaign against the Wascons, a period of long lasting confrontations between the Wascons and the Visigothic monarchy, which has often been analyzed and debated by historians. John of Biclar reports that king Leovigild occupied part of the Wascon territory and founded a city by the name of Victoriaco, which has been identified with no apparent justification with Vitoria, Vitoriano and other places in the Alava plain 18. Following this episode, the confrontation between Basques and Visigoths was to become the leit motif of chronicles, and dealt with in depth in this century’s bibliography. Without going into any unnecessary detail, it should be said that there is proof of armed confrontations during the reigns of Reccared, Gundemar, possibly Sisebut, Suinthila, Chindaswinth, Recceswinth, Wamba and, finally, Roderic. That is, at least nine Gothic kings were forced into moving their armies to try to control or submit the Basques in our Peninsula. Some of the Wascon actions must have been particularly spectacular. In Recceswinth’s reign, for instance, in the year 653 A.D., they led an expedition which successfully besieged Saragossa. On that particular occasion, they came as Frode’s allies, as he was pretender to the Visigothic crown. Saragossa’s bishop, Taio, witnessed these events as he was in the city during the siege, and recorded the facts in a letter to his colleague in Barcelona, Quiricus. Frode revolted against Recceswinth – he says – and «because of this crime the fierce Wascon people, having been forced out of the Pyrenees, came into Iberian territory bringing destruction with them (...). A great deal of innocent Christian blood was shed. Some were beheaded, others were wounded by arrows and all sorts of lancing weapons. A good number of prisoners were taken, as well as a huge booty. This terrible war went as far as God’s temples. Sacred altars were destroyed. Swords were used to cut many clergymen to pieces, and a great number of bodies were devoured by dogs or birds, having been left unburied». According to Barbero and Vigil, this action

16 JJ. SAYAS, Euskal Herria y los pueblos germánicos, in II Congreso Mundial Vasco. Congreso de Historia de Euskal Herria, Bilbao, 1988, I, p. 383 and follow. 17 A. BARBERO, M. VIGIL, Sobre los orìgenes sociales de la Reconquista, Barcelona, 1974, p. 51. 18 Cfr. A. A ZKARATE, Arqueologia Cristiana de la Antigüedad Tardia en Alava, Guipùzcoa y Vizcaya, Vittoria, 1988.

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proved that «the Wascons, apart from being independent in the Pyrenean region, were also strong and organized enough to have a role in the life of nations which were far more powerful than they were» 19 . To the north of the Pyrenees we find very similar events. In 541 A.D., Clothar and Childebert had already confronted the Wascons from the north of the Pyrenees. In 581 A.D., Chilperic I sent the dux Bladast in a military expedition to the Wascon area, he was defeated overwhelmingly during a campaign which has purposely been interpreted as having been coordinated with the attack led by Leovigild already mentioned above. Some years later, in 587 A.D., Gregory of Tours recorded that the Wascons came down from the mountains, destroyed vineyards and fields, set fire to houses and took a great number of people and cattle with them. The Merovingian dux Austrovald is supposed to have gone after them, although without a great deal of success20 . During the last third of the 6th century, the Basques from areas to the north of the Pyrenees were apparently putting some pressure on their borders with Frankish territory, looking for lands where they could stablish. They must have been successful, as the Ravenna Cosmographer (a document written during the late 7th century) records that the Aquitaine was called Guasconia or land of the Basques (Vasconum Patria), whereas only a few years before Gregory of Tours had called the south of Aquitania Novempopulania and had restricted the term Vasconia to the mountainous Pyrenean region 21 . During the 7th century, Theudebert II and Theuderic II (602 A.D.), Dagobert I (653 A.D.), Pippin of Heristal... were to start a long period of confrontations continuing until after the Frankish conquest of Aquitaine in 768 A.D., and going even further than Charlemagne’s institution of the Aquitainian kingdom for his son Ludovicus Pious after the Roncevaux disaster. We therefore have Wascons from both sides of the Pyrenees quoting Barbero and Vigil – playing an active role in the lives of the two most powerful monarchies of that period: both Merovingian and Visigothic. We are told in the biography of Ludovicus Pious, Charlemagne’s son, that the first time the young king appeared at the Padeborn assembly, in 785, he followed his father’s orders to be dressed like the Basques, «in a short and round costume, his shirt sleeves showing, his legs covered, spurs fastened to his shoes and holding a javelin in his hand». Basque prestige must have increased greatly – says Lacarra, and we will quote him literally – considering that the heir to the throne was introduced to the court in this fashion. This was undoubtedly an attempt to flatter his most aggressive subjects, thus preparing the way for Louis to start his new reign 22 . This is the point where we come to the main problem in this discussion. Who were these Wascons, where did they live, how were they organized?. Nothing at all has remained. It is as if they had mysteriously been

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A. BARBERO, M. VIGIL, Sobre los orígenes sociales de la Reconquista, Barcelona, 1974, pp. 63-64. 20 Ibidem, p. 55. 21 Ibidem, p. 56. 22 J.M. LACARRA, Historia del Reino de Navarra en la Edad Media, Pamplona, 1975, p. 28.

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swept away from the list of nations having a material culture. All of this is obviously rather unusual, as we should logically assume that behind all these actions there must have been some sort of infrastructure, some type of military organisation – no matter how loose –, fortified communities to shelter them... We find it difficult to accept that «Wascon actions – as has been stated until very recently – were of a primary and instinctive nature, lacking in any kind of complex mechanism» 23. Could it be possible that those Wascons, as a bard still sings nowadays, met quite spontaneously to the sound of a horn, only to go back home peacefully, after overcoming the enemy, to rest by the fire? This does not seem to be a particularly logical explanation. Just over four years ago, Archaeology surprised us very pleasantly at Aldaieta, a place not far from Vitoria. During 1987, a necropolis was found in the area around a village called Nanclares de Gamboa (Alavai, Basque Country). It had been partly under water from the Zadorra reservoir for some time. After four systematic excavations, just under one hundred interments have been exhumed, although it is believed that at least two hundred more have been destroyed by water from the reservoir. All of the burials known to us so far follow the same pattern: they all are tombs holding a single grave where the body was placed inside a wooden coffin. Their layout in the burial area is organized in perfectly defined groups separated by large open spaces. These groups – with individuals of either sex and of all different ages and related by blood or by social ties – are arranged either in long rows of graves (rather like the Reihengräber or cimetières par ranées in traditional Historiography) or sometimes the site is arranged around one of the graves which, given the importance of the offerings, would undoubtedly belong to an individual of higher social standing. One of the examples from the last group is paradigmatic in this way: a first level can be seen with three burials, the one in the centre being the richest, rather like for a fundatory tomb with the family ‘pantheon’ having been organized around it throughout the years. The important personage in the central interment was buried together with two large spear heads next to his right tibia; a fighting axe on the diaphysis of his left tibia; a rather grand bowl in bronze covering an intact glass vessel above both femurs. In the pelvic area, there is a scramasax with mineral remains of its wooden sheath and three knives; at waist level, a D-shaped buckle complete with its shield-on-tongue fastening, another shield-on-tongue fitting and two more tongues of different types; finally, on the chest a necklace with fifty-two amber beads and a pierced canine bear tooth were found. Another important feature of the necropolis at Aldaieta is its burial customs, given that there are great differences in the rituals recorded, in the orientation of the tombs, the position of the bodies, or the existence of burial remains undoubtedly of an apotropaic nature. A few of the corpses had been beheaded, the position of some skeletons show signs of violence, human teeth surround the skulls or lined across the chest, equine teeth

23

SAYAS , Euskal Herria y los pueblos germánicos, cit.

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placed next to the head of the deceased, ... there is not the slightest sign of Christian influence as yet. The collection of military objects could be considered unique for the Iberian Peninsula, as it includes forty spear heads of different types – some of them kept in perfect condition – and around twenty fighting axes, which seem to contradict all our knowledge about archaeology in the Iberian Peninsula for the Late Antiquity – except for the Pamplona and Buzaga necropolis which will be dealt with below –. Further recoveries include earrings, pendants, rings, D-shaped buckles of the shield-ontongue type, fittings for belts – all of this in silver, bronze and iron –, a great number of beads both in amber and glass paste, a few containers in pottery and bronze in very good condition, some small glass containers in perfect condition as well as others in pieces; a splendid sickle, knives, bronze needles, a great number of items in iron and bronze and over a thousand nails, rivets, etc. Considering that the site has only been partially excavated, these recoveries – even though they come partly from surface findings in burials which have been destroyed by the reservoir water – serve to give us some idea of the importance of this discovery. In addition to all this, three C-14 datings from the Centrum voor Isotopen Onderzoek in Groningen chronologically set Aldaieta in the 7th century, although some of the items could allow for its dating in the 6th century. Among the grave-goods described above, a number of features deserve further mention: firstly, there should be a comment on the impressive number of weapons. The population buried at the Aldaieta necropolis was undoubtedly living in a state of war, very well prepared both to defend themselves and to attack. It seems logical to wonder who these people could have been. An archaeological site which could be dated at least in the 6th and 7th centuries, as we have seen, with items which quite definitely have a Germanic influence, and which is located to the south of the Pyrenees in St. Isidore’s Hispania, should therefore be connected with the Visigoths. And still... It is well known that one of the features for a Visigothic necropolis is that it very rarely holds any weapons in its burials. Aldaieta, on the other hand, offers a percentage which is a far superior to those in Merovingian necropolis, where military grave-goods are frequent. On the other hand, there is a total absence of items which are characteristic of the Visigothic world. (The fact that this necropolis might not be a Visigothic one would pose very interesting historical problems, since Leovigild had around this period already defeated the Wascons in Victoriacum – supposedly Vitoria, Vitoriano, Iruña ... that is in any case, somewhere very near Aldaieta. If we discover a stable settlement which is other than Visigothic in origin, of a people very well supplied with weapons and in an area where Leovigild had theoretically enjoyed a victory, then we should not question the truth of John of Biclar’s testimony, but more likely the placing of those events 24 ). Aldaieta’s obvious influence from the north of the Pyrenees also poses

24 Historians should ideally correct their bad habit and stop limiting John of Biclar’s Victoriacum to Vitoria, Vitoriano or Iruña. On this point, Cfr. A. AZKARATE, Arqueología cristiana de la Antiguedad Tardía en Alava, Guipúzcoa y Vtzcaya, Vitoria, 1988.

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exciting problems as it revalues the role of the Franks in the northern Iberian Peninsula. This was certainly a possibility considering the evidence on the subject, but their role has constantly been undervalued by the traditionally pro-Visigothic Spanish Historiography. These pages are but a brief introduction, it would obviously be impossible to present this problem in all its complexity. Nevertheless, we would still like them to at least open a debate in a historiographical world which unfortunately is ruled by long-standing cliches, which has perhaps given up attempting to extract new information from documentary sources. Some time ago, M. Bröens published a number of articles in which there were claims for a Frankish settlement both to the south of the Loire25 and in the Northern area of the Iberian Peninsula26. His contribution, certainly thought-provoking despite some debatable points and irregular quality, was not studied with the due consideration – at least as far as his last work is concerned – by Spanish historiographers, who hardly paid any attention to suggestions arising from his research. Having noticed that a good number of place-names originating to the north of the Pyrenees were now used mainly in the North-Western Iberian Peninsula (“Francos”, “Franco”, “Francelos”, “France”, “Franzia”, etc.), he then tries to find in his work a historical explanation for this evidence by proposing that their origin was related to events taking place during the Late Antiquity. He begins by mentioning the famous expedition into the Iberian Peninsula led in 541 A.D. by Childebert and Clothar, where the Frankish army crossed the Western Pyrenees, to then set out for and later besiege Saragossa. According to Gregory of Tours, after this episode Childebert and Clothar returned to Gaul without any setbacks. On the other hand, according to Isidore of Seville’s version, Theudisclus led a Visigothic counter-offensive which followed and defeated the Franks, thus making them hastily retreat across the Pyrenees once again. M. Broens upholds the idea that part of the contingents did not actually go back to their places of origin, many of them stayed behind “loaded with equipment, their families, animals as well as household and agricultural implements” forming a number of settlements in our Peninsula. He tries to justify this by gathering a large number of place-names, some of which he considers pre – St James’ Route. Another piece of evidence is the Sueve Parochial, where certain place-names – “Francelos”, “Francos” – take us back to the 6th century. More and more convinced that his propositions were valid, Broens records Fredegarius’ testimony –traditionally considered as doubtful – where Sisebut is said to have recovered for the monarchy the whole of the Cantabrian region, after being for some time under Frankish rule 27 in the person of the dux Francio.

25 M. BRÖENS, L’anthroponymie du Haut Moyen Age dans le pays soumis au rayonnement de Toulouse, «Rev. Intern, d’onomastique, VII», 1955, pp. 217-224; he peuplement germanique de la Gaule entre le Mediterranée et l’Océan, «Annales du Midi», LXVIII, 1956, pp. 17-38. 26 M. BRÖENS, Los Francos en el poblamiento de la Península Ibérica durante los siglos VI y VII, «Ampurias», XVII-XVIII, 1955-56, pp. 59-77. 27 Provinciam Cantabriam Gothorum regno subeqit, quam aliquando Franci possederant. Dux Francio nomine, qui Cantabriam tempore Francorum subegerat, tributa Francorum Regi-

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However, and as mentioned above, Spanish Historiography has remained detached from this discussion. It would be impossible to offer a full historiographical analysis of this subject, but we will mention some of the most recent testimonies. As for the 541 A.D. expedition, L.A. Garcia Moreno believes that ‘there is nothing to support M. Broens’ rash hypothesis, according to which this expedition is said to have had the clear purpose of conquering new territories for Frankish settlements ... as far as we know, the Frankish retreat must have been complete, and it is impossible to prove that there was a Merovingian garrison in Pamplona simply from this long debated archaeological evidence’28 . Other Spanish historians had already expressed a similar opinion. Hispanic Historiography has basically restricted its view of the Franks (Merovingians) to dealingeither with the Frankish-Visigothic confrontations taking place in the Septimania from Vouille, or with the marriage policy between both monarchies, but never explicitly acknowledging a Merovingian presence, stable in differing degrees, in Hispanic territory. Nevertheless, there have been some exceptions, such as that proposed by J. Caro Baroja who supports the idea that the Franks went into the Cantabrian territory through the Northern Spanish coast, irrespective of whether Fredegarius’ testimony is correct or incorrect’29 . We do not rule out this possibility. There is documentary evidence which leads us to take this possibility seriously, but this is not the ideal place to record it. We would rather turn our attention to the archaeological evidence. Let us recall, once again, the Aldaieta necropolis. It contains no Visigothic evidence at all. Its burial customs and some of the offerings in the graves would undoubtedly point to the north of the Pyrenees. M. Broens has already mentioned the Pamplona necropolis, excavated by F. Ansoleaga30 and J. Iturralde y Suit in 1895, its findings being recorded first by H. Zeiss31 and later by M.A. Mezquiriz32. The finds from the Pamplona necropolis include around one hundred flagstone graves, each containing one body which had been placed directly into the ground. The graves, orientated towards the E-W, were seemingly irregularly arranged in the burial area, and held an important number of archaeological objects which are now kept at the Navarre Museum, although we do not know their original position in each of the burials. The number of items, both personal gravegoods and those specific to burial customs, recovered by Ansolaga and Iturralde y Suit is considerable. The first group includes a number of weapons –

bus multo tempore impleverat (FREDEGARIO, Chron. IV, XXXIII. GROSSE, F.H.A., IX, 244). 28 L.A. GARCIA MORENO, Algunas cuestiones de Historia navarra en la antigüedad tardía (siglos V-VIII), in Primer Congreso General de Historia de Navarra, Príncipe de Viana, 1988, p. 413. 29 J. CARO BAROJA, Alava en los primeros siglos de la Edad Media, «Historia General del Pais Vasco», (directed by J. Caro Baroja), Bilbao-San Sebastián, 1980, II, p. 382. 30 F. ANSOLEAGA, El cementerio franco de Pamplona, «B.C.M.Na.», 25, 1916, pp. 15-16. 31 H. ZEISS, Die Grabfunde aus dem spanischen Westgotenreich, Berlin-Leipzig, 1934; IDEM , Los elementos de las artes industriales visigodas, A.P.M., IV, 1933, 35, 1936, pp. 141 and following. 32 M.A. MEZQUIRIZ, Necrópolis visigoda de Pamplona, «Prindpe de Viana», 98-99, 1965, pp. 170 and follow.

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six spear heads, three scramasax, two arrow heads, just under twenty examples of belt harnessings (buckles, shield-on-tongue fittings, both hinged and solid clasps, etc.), two fragments from fibulae (probably from the late Roman period), bracelets, earrings, fifty-two rings of silver, bronze and iron, etc. From the second group there are eight pottery containers of different types, two gold trients of Suinthila’s period one of which was made in Saldana (Palencia) and the other one in Saragossa, a wild-boar tusk, pierced to be worn as a pendant and two laminas of silex. M.A. Mezquíriz concludes that there is a difference between those pieces which can be attributed to late Roman times (fibulae, a number of necklace beads, some pottery containers) and the rest of the items, chronologically belonging to the 6th and 7th centuries, which – taken as a whole – would point towards the existence of a Visigothic necropolis next to an earlier one. The problem posed here has much to do with the adjective chosen to qualify this particular necropolis. F. Ansoleaga referred to a Prankish graveyard. M.A. Mezquíriz, on the other hand, preferred to consider it Visigothic, despite having acknowledged the fact that the burial offerings at Pamplona “would be the usual inventory for a Merovingian burial ground”33. The Pamplona necropolis deserves to be fully reviewed and studied in the light of the new existing data. Zeiss claimed it to be “more Merovingian than Visigothic” in nature34. E. James35, on the other hand, considered this influence to be relative, and stated that “The cemetery of Pamplona does indeed contain some objects from north of the Pyrenees, although they are objects which are not strictly Frankish”. Whether it is strictly Frankish or not, we cannot deny the influence from north of the Pyrenees in this particular site. Nor can we deny that both the influences and relationships between both sides of the Pyrenees are much greater than was claimed by authors of the stature of E. James56 or M. Rouche37. Our propositions can now be corroborated to a certain degree by the recent discovery in 1986 of a new site not far from Pamplona, with results hitherto unpublished. Only surface finds have been studied from the Buzaga necropolis (Elorz, Navarre), it having been so far impossible to undertake a systematic study because of administrative problems which are here irrelevant. Nevertheless, those materials known to us are of exceptional importance: more than twenty spear heads, eight scramasax (quantitatively an unprecedented find up to now for the Iberian Peninsula), several knives, ten hinged buckles for belts in different shapes (triangular, trapezoidal, da-

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Ibidem, pp. 107-109 ZEISS, Los elementos de las artes industriales y visigodas, cit., p. 159. 35 E. JAMES, Septimania and its Frontier. An archaeological Approach, Visigothic Spain. New Approaches, Oxford, 1980, p. 227. 36 «Pamplona only underlines the fact that from the archaeological point of view contact between Spain and the Frankish kingdoms was very infrequent» (Ibidem, 228). 37 «Les Pyrénées ne jouèrent plus alors le rôle de frontière qu’au centre et surtout à l’ouest. Ici les Wisigoths pratiquèrent au début, au IVe siècle en particulier, un véritable verrouillage des plus efficaces» (M. ROUCHE, Les relations transpyrénéennes, du Ve au VIIIe siecle, in Les communications dans la Péninsule Iberique au Moyen Age, Actes du Colloque de Pau, 28-29 Mars, 1980, Paris, 1981. 34

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mascened), buckle-plate mounts, D-shaped buckles, shield-on-tongue fastenings, “fermoirs d’aumonière” and a large number of different items which, taken as a whole, make up a bank of archaeological material radically different from those normally found from in the Late Antiquity Iberian Peninsula. There is no doubt that they come from north of the Pyrenees. We believe that Aldaieta, Pamplona and Buzaga constitute three sources of evidence important enough to make us reflect on our knowledge of the Late Antiquity in the Western Pyrenean area. At the moment, we are studying both Aldaieta and Buzaga, and we shall hopefully be undertaking a full review of Pamplona shortly. Besides these, there are further archaeological data, which we cannot comment on within such a short article, but which still point in the same direction. Spanish historians have always shown surprise at the stubborn resistance of the Wascon in opposing the Visigothic political power, and at the inability of the Toledo monarchy to dominate them definitely. In the meantime, History has followed its course, causing surprise and irritation on the one hand, and complacency on the other. JJ. Sayas’ words quite accurately reflect our point of view in his exemplary study of “the Visigothic search for territorial unity and the Wascon case”38. He begins by recalling that, after defeating the Wascons, “Leovigildus rex pattern Vasconiae occupat”, he then meditates on the reasons why this Visigothic monarch did not occupy the whole of the Wascon territory in the Peninsula, acknowledging that “we do not know whether Leovigild did not decide to occupy it because he did not consider it part of his kingdom, or whether certain difficulties rendered the Visigoths powerless, thus making the full annexation impossible at that time”. This seems still more surprising for a king who “overcame every obstacle in order to put an end to his son Hermenegild’s rebellion”, and who “set out to annex the whole of the Sueve kingdom, and to guard and control it”39 . Something similar occurred to Suinthila some years later. Even though he managed to make the Byzantines leave their settlements in the Peninsula, he had to resign himself to a partial victory over the Wascons. It is difficult to believe that a monarchy strong enough to put an end to the Sueve kingdom or to make the Byzantine armies leave, could have still been unable to control the Wascons in the north of the Peninsula. A number of points remain unclear on this subject, and it is easy to comprehend JJ. Sayas’ surprise when he points out that “the Wascon case cannot be compared to any other, and it is even difficult to define it as a foreign policy problem, or as a case of internal resistance. Besides, the Visigothic failure to oppose the Wascons seems still more surprising if we consider that this people had never been an obstacle at the time of the Roman conquest of Hispania, nor had they even been particularly aggressive, as far as we know, during the late Roman Empire, a time which was notorious for revolts of different social groups. The general lack of information which

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55, Vitoria 1988, pp. 189-206. 39 Ibidem, p. 200.

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we possess about Wascon internal organisation and their social groupings, makes it impossible for us to satisfactorily explain their position during the Visigothic period”40. We would now like to pose some questions against this background, in the hope of opening the debate needed to overcome the long-standing cliches resulting from many years of historiographical commonplaces. J. Caro Baroja has already pointed out some years ago “the existence of great historical and cultural similarities which have not been analyzed properly” between Northern Spain and Southern France. He has also made reference to a point of great relevance for him: the Wascons were on better terms with the Franks than with the Visigoths. Finally, he reminds us that the territories in Alava and Navarre were “a kind of source of conflict between the Merovingian and Visigothic monarchies”, and he accepts, as we have already mentioned in our article, that the Franks actually came into the Western side of the Pyrenees in the Peninsula41 . In this context, what can the necropolis at Aldaieta, Pamplona or Buzaga suggest to us? How far can we disregard Fredegarius’ testimony? Who are these pervasores forced to leave by Leovigild after his campaign in the Cantabrian region?42. How do we interpret the place-names originating north of the Pyrenees and of a clear antiquity?. If we shed more light on these questions, would it give us a better understanding of further documentary evidence, dating from later periods, but still holding many surprises, which locate a Gallia Comata to the south of the Pyrenees? These are only some of the many questions which may be posed about the Western Pyrenees during the Late Antiquity period. Some of them are without doubt worrying, as they demand a review of many of the traditional historiographical beliefs for this period. We think that Archaeology has much to say on this subject, and on this conviction we have based our work of the last few years. Our results will hopefully be made public shortly. AGOSTIN AZKARATE GARAI-OLAUN

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Ibidem, p. 206. CARO BAROJA, Alava en los primeros siglos de la Edad Media, cit, p. 382. 42 J. BICL. Chron. 109-111: His dieibus Leovigildus rex Cantabriam ingressus provinciiae pervasores interfecit, Amaiam occupat, opes eorum per pervadit et provinciam in suam revocat dicionem. 41

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