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Italian Pages 342 Year 2011
JOSEPH RATZINGER
BENEDETTO XVI \
Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione
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LIBRERIA EDITRICE VATICANA
Joseph Ratzinger Benedetto XVI »
GESÙ DI NAZARET Seconda Parte Dall'ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione
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LIBRERIA EDITRICE VATICANA
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Edizione italiana a cura di Pierluca Azzaro Traduzione italiana a cura di Ingrid Stampa
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© Copyright 2011 - Libreria Editrice Vaticana - 00120 Città del Vaticano Tel. (06) 698.85003 - Fax (06) 698.84716 ISBN 978-88-209-8486-1 www.libreriaeditricevaticana.com
PREMESSA
inalmente posso presentare al pubblico la Seconda Parte del mio libro su Gesù di Nazaret. Considerata la molteplicità delle reazioni alla Prima Parte - cosa certamente non sorprendente costituiva per me un prezioso incoraggiamento il fatto che grandi maestri dell'esegesi come Martin Hengel, nel frattempo purtroppo deceduto, come Peter Stuhlmacher e Franz Mufiner mi abbiano esplicitamente confermato nel progetto di procedere nel mio lavoro e di portare a termine l'opera incominciata. Senza identificarsi con tutti i dettagli del mio libro, essi lo ritenevano dal punto di vista sia contenutistico che metodologico un contributo importante che doveva raggiungere la sua forma completa. È stato pure motivo di gioia per me il fatto che, nel frattempo, il libro abbia acquistato nella voluminosa opera Jesus (2008) del teologo protestante Joachim Ringleben, per così dire, un fratello ecumenico. Chi legge i due libri noterà, da una parte, la grande differenza nel modo di pensare e nelle impostazioni teologiche determinanti, in cui si esprime concretamente la diversa provenienza confessionale dei due autori. Dall'altra, però, si manifesta al tempo stesso la profonda unità nell'essenziale comprensione della persona di Gesù e del suo messaggio. Pur con approcci teologici differenti, è la stessa fede che agisce, avviene un incontro con lo stes-
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so Signore Gesù. Spero che ambedue i libri, nella loro diversità e nella loro essenziale sintonia, possano costituire una testimonianza ecumenica che in questa ora, a modo suo, può servire alla comune missione fondamentale dei cristiani. Con gratitudine prendo anche atto del fatto che la discussione sul metodo e sull'ermeneutica dell'esegesi come pure sull'esegesi quale disciplina storica e al contempo teologica sta diventando più vivace, nonostante non poche resistenze nei confronti di nuovi passi. Di particolare interesse mi pare il libro di Marius Reiser, Bibelkritik und Auslegung der tìeiligen Schrift (Critica biblica ed interpretazione della Sacra Scrittura), uscito nel 2007, che raccoglie una serie di saggi pubblicati precedentemente, ne crea un'unità omogenea e offre indicazioni rilevanti per nuove vie dell'esegesi, senza abbandonare ciò che del metodo storico-critico è di importanza permanente. Una cosa mi sembra ovvia: in 200 anni di lavoro esegetico, l'interpretazione storico-critica ha ormai dato ciò che di essenziale aveva da dare. Se la esegesi biblica scientifica non vuole esaurirsi in sempre nuove ipotesi diventando teologicamente insignificante, deve fare un passo metodologicamente nuovo e riconoscersi nuovamente come disciplina teologica, senza rinunciare al suo carattere storico. Deve imparare che l'ermeneutica positivistica da cui essa prende le mosse non è espressione della ragione esclusivamente valida che ha definitivamente trovato se stessa, ma costituisce «
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una determinata specie di ragionevolezza storicamente condizionata, capace di correzione e di integrazioni e bisognosa di esse. Tale esegesi deve riconoscere che un'ermeneutica della fede, sviluppata in modo giusto, è conforme al testo e può congiungersi con un'ermeneutica storica consapevole dei propri limiti per formare un'interezza metodologica. Naturalmente, questa congiunzione di due generi di ermeneutica molto differenti tra loro è un compito da realizzare sempre di nuovo. Ma tale congiunzione è possibile, e attraverso di essa le grandi intuizioni dell'esegesi patristica potranno in un contesto nuovo tornare a portar frutto, come dimostra proprio il libro di Reiser. Non pretendo di asserire che nel mio libro questa congiunzione delle due ermeneutiche sia ormai cosa compiuta fino in fondo. Spero però di aver già fatto un buon passo in tale direzione. In ultima analisi si tratta di riprendere finalmente i principi metodologici per l'esegesi formulati dal Concilio Vaticano II (in Dei Verbum 12) - un compito finora purtroppo quasi per nulla affrontato. Forse è utile a questo punto mettere ancora una volta in evidenza l'intenzione orientatrice del mio libro. Non è necessario, credo, dire espressamente che non ho voluto scrivere una «Vita di Gesù». Per quanto riguarda le questioni cronologiche e topografiche della vita di Gesù, esistono opere eccellenti; rimando in particolare a Joachim Gnilka, Jesus von Nazareth. Botschaft und Geschichte e all'o7
pera approfondita di John P. Meier, A Marginai few (tre volumi, New York 1991,1994,2001). Un teologo cattolico ha qualificato il mio libro, insieme con il capolavoro di Romano Guardini Der Herr, come « cristologia dall'alto », non senza mettere in guardia nei confronti dei pericoli ad essa legati. In realtà, non ho tentato di scrivere una cristologia. Nell'ambito di lingua tedesca abbiamo una serie di importanti cristologie, come quelle di Wolfhart Pannenberg, di Walter Kasper e di Christoph Schònborn, alle quali si deve ora affiancare il grande opus di Karl-Heinz Menke, Jesus ist Goti der Sohn (2008). Più vicino alla mia intenzione è il raffronto con il trattato teologico sui misteri della vita di Gesù, al quale Tommaso d'Aquino ha dato una forma classica nella sua Somma di teologia (S. TheoL III, qq. 27-59). Anche se il mio libro ha molti punti di contatto con tale genere di trattazione, è tuttavia collocato in un contesto storico-spirituale diverso, e in base a ciò ha anche un diverso orientamento intrinseco, che condiziona in modo essenziale la struttura del testo. Nella premessa alla Prima Parte avevo detto che il mio desiderio era di illustrare « figura e messaggio di Gesù ». Forse sarebbe stata cosa buona porre queste due parole - figura e messaggio come sottotitolo al libro, per chiarirne l'intenzione di fondo. Esagerando un po', si potrebbe dire che io volevo trovare il Gesù reale, a partire dal quale, soltanto, diventa possibile qualcosa come una «cristologia dal basso». Il «Gesù storico», come appare nella corrente principale dell'esegesi criti8
ca sulla base dei suoi presupposti ermeneutici, è troppo insignificante nel suo contenuto per aver potuto esercitare una grande efficacia storica; è troppo ambientato nel passato per rendere possibile un rapporto personale con Lui. Coniugando tra loro le due ermeneutiche di cui ho parlato sopra, ho cercato di sviluppare uno sguardo sul Gesù dei Vangeli e un ascolto di Lui che potesse diventare un incontro e tuttavia, nell'ascolto in comunione con i discepoli di Gesù di tutti i tempi, giungere anche alla certezza della figura veramente storica di Gesù. Questo compito era nella Seconda Parte ancora più difficile che non nella Prima, perché solo nella Seconda s'incontrano le parole e gli avvenimenti decisivi della vita di Gesù. Ho cercato di tenermi fuori dalle controversie su molti possibili elementi particolari e di riflettere solo sulle parole e sulle azioni essenziali di Gesù - guidato dall'ermeneutica della fede, ma al contempo tenendo conto responsabilmente della ragione storica, necessariamente contenuta in questa stessa fede. Anche se naturalmente resteranno sempre dettagli da discutere, spero tuttavia che mi sia stato dato di avvicinarmi alla figura del nostro Signore in un modo che possa essere utile a tutti i lettori che vogliono incontrare Gesù e credergli. In base all'obiettivo di fondo del libro così illustrato, l'obiettivo cioè di comprendere la figura di Gesù, la sua parola e il suo agire, è ovvio che i racconti dell'infanzia non potevano rientrare direttamente nell'intenzione essenziale di quest'opera. 9
Voglio però tentare di rimanere fedele alla mia promessa (cfr Parte I, p. 20) e presentare su tale argomento ancora un piccolo fascicolo, se per questo mi sarà ancora data la forza. Roma, nella festa di san Marco, 25 aprile 2010 Joseph Ratzinger - Benedetto XVI
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Capitolo 1 INGRESSO IN GERUSALEMME E PURIFICAZIONE DEL TEMPIO
1. L'INGRESSO IN GERUSALEMME
l Vangelo di Giovanni riferisce su tre feste di Pasqua, che Gesù ha celebrato durante il periodo della sua vita pubblica: una prima Pasqua, alla quale era legata la purificazione del tempio (2,1325); la Pasqua della moltiplicazione dei pani (6,4) e infine la Pasqua della morte e risurrezione (p. es. 12,1; 13,1), che è divenuta la «sua» grande Pasqua, sulla quale si fonda la festa cristiana, la Pasqua dei cristiani. I sinottici hanno trasmesso notizia di una sola Pasqua: quella della croce e risurrezione; in Luca il cammino di Gesù appare quasi come un unico ascendere in pellegrinaggio dalla Galilea fino a Gerusalemme. È una « ascesa » innanzitutto nel senso geografico: il Mare di Galilea è situato a 200 metri circa sotto il livello del mare, l'altezza media di Gerusa. lemme è di 760 metri al di sopra di tale livello. Come gradini di questa salita, ciascuno dei sinottici ci ha trasmesso tre profezie di Gesù circa la sua passione, alludendo con ciò anche all'ascesa interiore, che si svolge nel cammino esteriore: l'andar su verso'il tempio come luogo dove Dio voleva «stabilire il suo nome» - così il Libro del Deuteronomio descrive il tempio (cfr 12,11; 14,23).
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L'ultima meta di questa « ascesa » di Gesù è l'offerta di se stesso sulla croce, offerta che sostituisce i sacrifici antichi; è la salita che la Lettera agli Ebrei qualifica come l'ascesa verso la tenda non più fatta da mani d'uomo, ossia nel cielo stesso, al cospetto di Dio (9,24). Questa ascesa fino al cospetto di Dio passa attraverso la croce - è la salita verso 1'« amore sino alla fine » (cfr Gv 13,1), che è il vero monte di Dio. La meta immediata del pellegrinaggio di Gesù, tuttavia, è Gerusalemme, la città santa con il suo tempio, e la « Pasqua dei Giudei », come la chiama Giovanni (2,13). Gesù si era incamminato insieme ai Dodici, ma poco a poco si era associata a loro una schiera crescente di pellegrini; Matteo e Marco ci raccontano che già alla partenza da Gerico c'era una « grande folla » che seguiva Gesù (Mt 20,29; cfr Me 10,46). Un evento in quest'ultimo tratto del percorso aumenta l'attesa di ciò che sta per avvenire e mette Gesù in modo nuovo al centro dell'attenzione dei pellegrini. Lungo la strada sta seduto un mendicante cieco di nome Bartimeo. Egli viene a sapere che fra i pellegrini c'è Gesù, e allora non cessa più di gridare: « Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me! » (Me 10,47). Si cerca di quietarlo, ma invano, e alla fine Gesù lo invita ad avvicinarsi. Alla sua supplica: «Rabbunì, che io riabbia la vista!», Gesù risponde: « Va', la tua fede ti ha salvato ». Bartimeo riacquistò la vista « e prese a seguire Gesù per la strada» (Me 10,48-52). Diventato vedente, egli si associò al pellegrinaggio verso Geru12
salemme. A un tratto il tema «Davide» e la sua intrinseca speranza messianica s'impadronì della folla: quel Gesù, col quale erano in cammino, non era forse davvero l'atteso nuovo Davide? Con il suo ingresso nella città santa era forse arrivata l'ora in cui Egli avrebbe ristabilito il regno di Davide? La preparazione, che Gesù realizza con i suoi discepoli, aumenta questa speranza. Gesù arriva al Monte degli ulivi dalla direzione di Bètfage e Betània, da dove si attende l'ingresso del Messia. Manda avanti due discepoli ai quali dice che avrebbero trovato un asino legato, un puledro, sul quale nessuno era mai salito. Devono scioglierlo e portarglielo; ad un'eventuale domanda circa la loro legittimazione devono rispondere: « Il Signore ne ha bisogno» (Me 11,3; Le 19,31). I discepoli trovano l'asino, vengono - come previsto - interrogati circa il loro diritto, danno la risposta loro ordinata e possono compiere la loro missione. Così Gesù entra in città su un asino preso in prestito, che subito dopo farà riportare al suo padrone. Al lettore di oggi tutto ciò può sembrare piuttosto trascurabile, ma per i giudei contemporanei di Gesù è gravido di riferimenti misteriosi. In ogni particolare è presente il tema della regalità con le sue promesse. Gesù rivendica il diritto regale della requisizione di mezzi di trasporto, un diritto noto in tutta l'antichità (efr Pesch, Markusevangelium II, p. 180). Anche il fatto che si tratti di un animale, sul quale non è ancora salito nessuno, rimanda a un diritto regale. Soprattutto, però, c'è 13
un'allusione a quelle parole veterotestamentarie che danno all'intero svolgimento il suo significato più profondo. C'è innanzitutto Genesi 49,10s - la benedizione di Giacobbe, in cui viene assegnato a Giuda lo scettro, il bastone del comando, che non sarà tolto tra i suoi piedi « finché verrà colui al quale esso appartiene e a cui è dovuta l'obbedienza dei popoli». Di Lui si dice che Egli lega alla vite il suo asinelio (49,11). L'asino legato rimanda quindi a Colui che deve venire, a cui «è dovuta l'obbedienza dei popoli ». Ancora più importante è Zaccaria 9,9 - il testo che Matteo e Giovanni citano esplicitamente per la comprensione della «Domenica delle Palme»: « Dite alla figlia di Sion: Ècco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un'asina e su un puledro, figlio di una bestia da soma» (Mi 21,5; cfr Zc 9,9; Gv 12,15). Sul significato di queste parole del profeta per la comprensione della figura di Gesù abbiamo già riflettuto ampiamente commentando la beatitudine dei miti (dei mansueti) (cfr Parte I, pp. 104-109). Egli è un re che spezza gli archi da guerra, un re della pace e un re della semplicità, un re dei poveri. E infine abbiamo visto che Egli governa un regno che si estende da mare a mare e abbraccia il mondo intero (cfr ibidp. 105); questo ci ha ricordato il nuovo regno universale di Gesù che, nelle comunità della frazione del pane, cioè nella comunione con Gesù Cristo, si espande da mare a mare quale regno della sua pace (cfr ibid., p. 108s). Tutto ciò allora non era percepibile, ma in retrospettiva si rende evidente quanto - nasco14
sto nella visione profetica - era appena accennato solo da lontano. Per ora teniamo a mente: Gesù rivendica, di fatto, un diritto regale. Vuole che si comprenda il suo cammino e il suo agire in base alle promesse dell'Antico Testamento, che in Lui diventano realtà. L'Antico Testamento parla di Lui - e inversamente: Egli agisce e vive nella parola di Dio, non secondo programmi e desideri suoi propri. La sua esigenza si basa sull'obbedienza di fronte all'ordine del Padre. Il suo è un cammino all'interno della parola di Dio. L'ancoraggio a Zaccaria 9,9 esclude al contempo un'interpretazione «zelota» della regalità: Gesù non si fonda sulla violenza; non avvia un'insurrezione militare contro Roma. Il suo potere è di carattere diverso: è nella povertà di Dio, nella pace di Dio, che Egli individua l'unico potere salvifico. Ritorniamo allo svolgimento del racconto. L'asinelio viene condotto a Gesù, e ora avviene qualcosa di inaspettato: i discepoli gettano sull'asino i loro mantelli; mentre Matteo (21,7) e Marco (11,7) dicono semplicemente: « ed Egli vi si pose a sedere», Luca scrive: «vi fecero salire Gesù» (19,35). È questa la parola usata nel Primo Libro dei Re nel racconto dell'elevazione di Salomone sul trono di suo padre Davide. Lì si legge che il re Davide ordina al sacerdote Zadòk, al profeta Natan e a Benaià: «Prendete con voi la guardia del vostro signore: fate montare Salomone, mio figlio, sulla mia mula e fatelo scendere a Ghicon! Ivi il sacerdote Zadòk con il profeta Natan lo unga re d'Israele...» (l,33s). 15
Anche lo stendere i mantelli ha una sua tradizione nella regalità di Israele (cfr 2 Re 9,13). Ciò che i discepoli fanno è un gesto di intronizzazione nella tradizione della regalità davidica e così nella speranza messianica, che da questa tradizione si è sviluppata. I pellegrini, che insieme a Gesù sono venuti a Gerusalemme, si lasciano contagiare dall'entusiasmo dei discepoli; stendono ora i loro mantelli sulla strada sulla quale Egli avanza. Tagliano rami dagli alberi e gridano parole del Salmo 118 - parole di preghiera della liturgia dei pellegrini di Israele - che sulle loro labbra diventano una proclamazione messianica: «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il regno che viene, del nostro padre Davide! Osanna nel più alto dei cieli! » (Me 11,9s; cfr Sai 118,25s). Questa acclamazione viene trasmessa da tutti e quattro gli evangelisti, anche se con le loro specifiche varianti. Di tali differenze non irrilevanti per la storia della trasmissione e per la visione teologica dei singoli evangelisti non dobbiamo occuparci in questo luogo. Cerchiamo soltanto di comprendere le essenziali linee di fondo, tanto più che la liturgia cristiana ha accolto questo saluto interpretandolo in base alla fede pasquale della Chiesa. C'è innanzitutto l'esclamazione: «Osanna!». All'origine, questa era stata una parola di supplica, come: «Deh, aiutaci!». Nel settimo giorno della festa delle Capanne, i sacerdoti, girando sette volte intorno all'altare dell'incenso, l'avevano ripetuta in modo monotono come supplica per la pioggia. Ma così cometa festa delle Capanne da 16
festa di supplica si trasformò in una festa di gioia, la supplica divenne sempre di più un'esclamazione di giubilo (cfr Lohse, ThWNT IX, p. 682). Probabilmente già ai tempi di Gesù, la parola aveva assunto anche un significato messianico. Possiamo così nell'esclamazione « osanna » riconoscere un'espressione dei molteplici sentimenti sia dei pellegrini venuti con Gesù sia dei suoi discepoli: una lode gioiosa a Dio nel momento di quell'ingresso; la speranza che fosse arrivata l'ora del Messia e al contempo la richiesta che si realizzasse nuovamente il regno di Davide e con esso il regno di Dio su Israele. L'espressione seguente del Salmo 118: «Benedetto colui che viene nel nome del Signore », apparteneva, come s'è detto, in un primo tempo alla liturgia di Israele per i pellegrini, con la quale essi venivano salutati all'ingresso della città o del tempio. E quanto dimostra anche la seconda parte del versetto: «Vi benediciamo dalla casa del Signore». Era una benedizione che dai sacerdoti veniva rivolta e quasi applicata ai pellegrini in arrivo. Ma l'espressione « che viene nel nome del Signore » nel frattempo aveva assunto un significato messianico. Anzi, era diventata addirittura la denominazione di Colui che era stato promesso da Dio. Così, da una benedizione per i pellegrini, l'espressione si è trasformata in una lode di Gesù, che è salutato come Colui che viene nel nome del Signore, come l'Atteso e l'Annunciato da tutte le promesse. Il particolare riferimento davidico che si trova »
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soltanto nel testo di Marco riproduce per noi forse nel modo più originale l'attesa dei pellegrini di quell'ora. Luca, che invece scrive per i cristiani provenienti dal paganesimo, ha del tutto omesso l'osanna e il riferimento a Davide, sostituendolo con l'esclamazione che allude al Natale: « Pace in cielo e gloria nel più alto dei cieli! » (19,38; cfr 2,14). Da tutti e tre i Vangeli sinottici, ma anche da Giovanni, si evince chiaramente che la scena dell'ossequio messianico a Gesù si è svolta all'ingresso della città e che i suoi protagonisti non erano gli abitanti di Gerusalemme, ma coloro che accompagnavano Gesù entrando con Lui nella città santa. Matteo ce lo fa capire nel modo più esplicito, proseguendo dopo il racconto dell'osanna rivolto a Gesù, figlio di Davide, così: « Mentre egli entrava in Gerusalemme, tutta la città fu presa da agitazione e diceva: E la folla rispondeva: » (21,10s). Il parallelismo con la narrazione dei magi dall'Oriente è evidente. Anche allora nella città di Gerusalemme non si sapeva niente del neonato re dei Giudei; la notizia di ciò aveva lasciato Gerusalemme «turbata» (Mi 2,3). Ora ci si « spaventa »: Matteo usa la parola eseisthè (seiò) che esprime lo sconvolgimento causato da un terremoto. Del profeta proveniente da Nazaret si era in qualche modo sentito dire, ma Egli sembrava non avere alcun rilievo per Gerusalemme, non era conosciuto. La folla che, alla periferia della città, rendeva omaggio a Gesù non è la stessa che avrebbe 18
poi chiesto la sua crocifissione. In questa duplice notizia circa il non-riconoscimento di Gesù - un atteggiamento di indifferenza e di spavento insieme - c'è già un qualche accenno alla tragedia della città, che Gesù ha annunziato ripetutamente, in modo più esplicito, nel suo discorso escatologico. In Matteo, però, c'è anche un ulteriore importante testo, proprio di lui soltanto, circa l'accoglienza di Gesù nella città santa. Dopo la purificazione del tempio, alcuni fanciulli ripetono nel tempio le parole dell'omaggio: «Osanna al figlio di Davide» (21,15). Gesù difende l'acclamazione dei fanciulli davanti ai « sommi sacerdoti e agli scribi » col riferimento al Salmo 8,3: « Dalla bocca di bambini e di lattanti hai tratto per te una lode ». Ritorneremo ancora a questa scena nella riflessione sulla purificazione del tempio. Cerchiamo qui di comprendere che cosa Gesù ha voluto dire col riferimento al Salmo 8, un'allusione con la quale ha spalancato una vasta prospettiva storicosalvifica. Ciò che Egli intendeva si rende evidente/ se ricordiamo l'episodio, riferito da tutti gli evangelisti sinottici, circa i bambini condotti da Gesù, « perché li accarezzasse». Contro la resistenza dei discepoli, che vogliono difenderlo di fronte a questa invadenza, Gesù chiama i bambini a sé, impone loro le mani e li benedice. Egli spiega poi questo gesto con le parole: « Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Me 10,13-16). I 19
bambini sono per Gesù l'esempio per eccellenza di quell'essere piccoli davanti a Dio che è necessario per poter passare attraverso la « cruna dell'ago », di cui parla il racconto del giovane ricco nel brano che segue immediatamente (Me 10,17-27). Prima c'era già stato l'episodio in cui Gesù aveva reagito alla disputa per la precedenza tra i discepoli mettendo in mezzo un bambino e, abbracciandolo, aveva detto: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me » (Me 9,33-37). Gesù si identifica col bambino - Egli stesso si è fatto piccolo. Come Figlio non fa niente da sé, ma agisce totalmente a partire dal Padre e in vista di Lui. In base a ciò si capisce poi anche la pericope successiva, in cui non si parla più di bambini, ma dei « piccoli » e l'espressione « i piccoli » diventa addirittura la denominazione dei credenti, della comunità dei discepoli di Gesù (cfr Me 9,42). Nella fede essi hanno trovato questo autentico essere piccoli, che riporta l'uomo alla sua verità. Con ciò ritorniamo all'« osanna » dei bambini: nella luce del Salmo 8 la lode dei bambini appare come un'anticipazione della lode che i suoi «piccoli» intoneranno a Lui molto al di là di questa ora. «
Per questo, con buona ragione la Chiesa nascente poteva vedere in tale scena la rappresentazione anticipata di ciò che essa fa nella liturgia. Già nel testo liturgico post-pasquale più antico che conosciamo - nella Didache (intorno all'anno 100) - prima della distribuzione dei Doni sacri appare 20
1'«osanna» insieme col «Maranatha»: «Venga la grazia e passi questo mondo. Osanna al Dio di Davide. Chi è santo, acceda; chi non lo è, si converta. Maranatha. Amen» (10,6). Molto presto è stato inserito nella liturgia anche il Benedictus: per la Chiesa nascente la « Domenica delle Palme » non era una cosa del passato. Come allora il Signore era entrato nella città santa cavalcando l'asinelio, così la Chiesa lo vedeva arrivare sempre di nuovo sotto le apparenze umili del pane e del vino. La Chiesa saluta il Signore nella santa Eucaristia come Colui che viene ora, che è entrato in mezzo ad essa. E al contempo Lo saluta come Colui che rimane sempre il Veniente e ci prepara alla sua venuta. Come pellegrini andiamo verso di Lui; come pellegrino Egli ci viene incontro e ci coinvolge nella sua « ascesa » verso la croce e la risurrezione, verso la Gerusalemme definitiva che, nella comunione col suo Corpo, già si sta sviluppando in mezzo a questo mondo.
2 . L A PURIFICAZIONE DEL TEMPIO
Marco ci racconta che Gesù dopo questa accoglienza andò nel tempio, guardò ogni cosa attorno e, essendo ormai tardi, si recò a Betània, dove alloggiava durante quella settimana. Il giorno dopo entrò di nuovo nel tempio e cominciò a cacciare fuori quelli che vendevano e quelli che compravano; « rovesciò i tavoli dei cambiamonete e le sedie dei venditori di colombe » (11,5). 21
Gesù giustifica questo suo agire con una parola del profeta Isaia che Egli integra con una parola di Geremia: « La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni. Voi invece ne avete fatto un covo di ladri» (Me 11,17; cfr Is 56,7; Ger 7,11). Che cosa ha fatto Gesù? Che cosa intendeva dire? Nella letteratura esegetica si possono individuare tre grandi linee di interpretazione, che dobbiamo brevemente considerare. C'è innanzitutto la tesi, secondo cui la purificazione del tempio non significava un attacco contro il tempio come tale, ma colpiva solo gli abusi. Certo, i commercianti erano autorizzati dall'autorità giudaica, che ne traeva un grande profitto. In questo senso l'agire dei cambiamonete e dei commercianti di bestiame era legittimo entro le norme in vigore; era anche comprensibile che per le monete romane in uso, che a motivo dell'immagine dell'imperatore dovevano essere considerate idolatriche, si provvedesse al loro cambio nella valuta del tempio proprio entro l'ampio cortile dei gentili e lì si vendessero anche gli animali da sacrificare. Ma, secondo l'impostazione architettonica del tempio, questa mescolanza tra tempio ed affari non corrispondeva alla destinazione del cortile dei gentili. Con il suo agire Gesù attaccava l'ordine in vigore disposto dall'aristocrazia del tempio, ma non violava la Legge e i Profeti - al contrario: contro una prassi profondamente corrotta, diventata « diritto », Egli rivendicava il diritto essenziale e vero, il diritto divino di Israele. Solo così si spiega per22
che non siano intervenute né le guardie del tempio, né la coorte romana presente nella fortezza Antonia. Le autorità del tempio si limitarono a porre a Gesù la domanda circa la sua legittimazione per una tale azione. In questo senso è giusta la tesi, motivata minuziosamente soprattutto da Vittorio Messori, secondo cui Gesù nella purificazione del tempio agiva in sintonia con la legge impedendo un abuso nei confronti del tempio. Se però da ciò si volesse trarre la conclusione che Gesù « appare come un semplice riformatore che difende i precetti giudaici di santità » (così Eduard Schweizer; cit. secondo Pesch, Markusevangelium II, p. 200), non si valuterebbe bene il vero significato dell'avvenimento. Le parole di Gesù dimostrano che la sua rivendicazione andava più nel profondo, proprio anche perché col suo agire intendeva dare compimento alla Legge e ai Profeti. Arriviamo così ad una seconda spiegazione, in contrasto con la prima - l'interpretazione politicorivoluzionaria dell'evento. Già nell'Illuminismo c'erano stati tentativi di interpretare Gesù come rivoluzionario politico. Ma solo l'opera di Robert Eisler, lesous basileus ou basileusas, pubblicata in due volumi (Heidelberg 1929/30), ha cercato di dimostrare coerentemente sulla base dell'insieme dei dati neotestamentari che « Gesù sarebbe stato un rivoluzionario politico di impronta apocalittica: avendo suscitato a Gerusalemme un'insurrezione, Egli sarebbe stato arrestato e giustiziato dai Romani» (così Hengel, War Jesus Revolutionär?, p. 7). Il libro fece enorme sensazione, ma nella situa23
zione particolare degli anni trenta non esercitò ancora un effetto durevole. Solo negli anni sessanta si formò il clima spirituale e politico in cui una tale visione poteva sviluppare una forza esplosiva. Fu allora Samuel George Frederick Brandon, nella sua opera Jesus and the Zealots (New York 1967), a dare all'interpretazione di Gesù come rivoluzionario politico un'apparente legittimazione scientifica. Con ciò Gesù veniva collocato nella linea del movimento zelota, che vedeva il suo fondamento biblico nel sacerdote Pincas, un nipote di Aronne: Pincas aveva trafitto con la lancia un Israelita che si era messo con una donna idolatra. Ora era visto come modello degli « zelanti » per la legge, per il culto rivolto unicamente a Dio (cfr Num 25). La sua origine concreta il movimento zelota la individuava nell'iniziativa del padre dei fratelli Maccabei, Mattatia, il quale, di fronte al tentativo di uniformare Israele totalmente al modello della cultura unitaria ellenistica, privandolo con ciò anche della sua identità religiosa, aveva affermato: «Non ascolteremo gli ordini del re per deviare dalla nostra religione a destra o a sinistra » (2 Macc 2,22). Questa parola avviò l'insurrezione contro la dittatura ellenistica. Mattatia mise in atto la sua parola: uccise l'uomo che, seguendo i decreti delle autorità ellenistiche, voleva pubblicamente sacrificare agli idoli: « Ciò vedendo, Mattatia arse di zelo ... Fattosi avanti di corsa, lo uccise sull'altare ... Egli agiva per zelo verso la legge » (1 Macc 2,24ss). D'allora in poi, la parola «zelo» (in greco: zélos) fu la parola guida per esprimere la disponibilità ad impegnarsi con la for24
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za in favore della fede d'Israele, a difendere il diritto e la libertà di Israele per mezzo della violenza. Secondo la tesi di Eisler e di Brandon, Gesù sarebbe da collocare in questa linea dello «zelos» degli zeloti - una tesi che negli anni sessanta ha suscitato un'onda di teologie politiche e di teologie della rivoluzione. Come prova centrale di questa teoria si adduce ora la purificazione del tempio, che sarebbe stata evidentemente un atto di violenza, perché senza violenza non avrebbe neppure potuto svolgersi, sebbene gli evangelisti abbiano cercato di nasconderlo. Anche il saluto rivolto a Gesù quale figlio di Davide ed instauratore del regno davidico sarebbe stato un atto politico e la crocifissione di Gesù da parte dei Romani sotto l'accusa di « re dei Giudei » dimostrerebbe pienamente che Egli sarebbe stato un rivoluzionario - uno zelota - e come tale sarebbe stato giustiziato. Nel frattempo si è calmata l'onda delle teologie della rivoluzione che, in base ad un Gesù interpretato come zelota, avevano cercato di legittimare la violenza come mezzo per instaurare un mondo migliore - il «Regno». I risultati terribili di una violenza motivata religiosamente stanno in modo troppo drastico davanti agli occhi di tutti noi. La violenza non instaura il regno di Dio, il regno dell'umanesimo. È, al contrario, uno strumento preferito dall'anticristo - per quanto possa essere motivata in chiave religioso-idealistica. Non serve all'umanesimo, bensì alla disumanità. Ma ora, qual è la verità riguardo a Gesù? Era forse uno zelota? La purificazione del tempio era forse 25
l'inizio di una rivoluzione politica? L'intera attività e il messaggio di Gesù - a partire dalle tentazioni nel deserto, dal suo battesimo nel Giordano, dal discorso della montagna fino alla parabola del Giudizio finale (cfr Mt 25) ed alla sua risposta alla professione di fede di Pietro - vi si oppongono decisamente, come abbiamo visto nella Prima Parte di quest'opera. No, il sovvertimento violento, l'uccisione di altri nel nome di Dio non corrispondeva al suo modo di essere. Il suo « zelo » per il regno di Dio era del tutto diverso. Non sappiamo che cosa precisamente immaginavano i pellegrini quando, nell'«intronizzazione» di Gesù, parlavano del «regno che viene, del nostro padre Davide». Ma ciò che Gesù stesso pensava e intendeva, lo ha reso assai evidente con i suoi gesti e con le parole profetiche, nel cui contesto Egli poneva se stesso. Certo, ai tempi di Davide l'asino era stato l'espressione della sua regalità e, sulla scia di questa tradizione, Zaccaria presenta il nuovo re della pace che cavalca un asino quando entra nella città santa. Ma già ai tempi di Zaccaria, e ancor più in quelli di Gesù, il cavallo era diventato l'espressione del potere e dei potenti, mentre l'asino era l'animale dei poveri e quindi l'immagine di una regalità ben diversa. E vero che Zaccaria annuncia un regno « da mare a mare». Ma proprio con ciò egli abbandona il quadro nazionale ed indica una nuova universalità, in cui il mondo trova la pace di Dio e, nell'adorazione dell'unico Dio, è unito al di là di tutte le frontiere. In quel regno di cui il profeta parla, gli I t i
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archi da guerra sono spezzati. Ciò che in lui è ancora una visione misteriosa, la cui configurazione concreta, scrutata nel suo giungere da lontano, non poteva essere percepita distintamente, si chiarisce lentamente nell'operare di Gesù; tuttavia, solo dopo la risurrezione e nel cammino del Vangelo verso i pagani, può prendere pian piano la propria forma. Ma anche nel momento dell'ingresso di Gesù in Gerusalemme, la connessione con la profezia tardiva, nella quale Gesù inseriva il suo agire, dava al suo gesto un orientamento che contrastava radicalmente con l'interpretazione zelota. In Zaccaria Gesù non aveva trovato soltanto l'immagine del re della pace che arriva sull'asino, ma anche la visione del pastore ucciso che mediante la sua morte porta la salvezza, e ancora l'immagine del trafitto al quale tutti avrebbero rivolto lo sguardo. L'altra grande cornice di riferimento, entro la quale Egli vedeva il suo operare, era la visione del servo sofferente di YHWH, che servendo offre la vita per i molti e porta così la salvezza (cfr Is 52,13-53,12). Questa profezia tardiva è la chiave d'interpretazione con la quale Gesù apre l'Antico Testamento; a partire da essa Egli stesso diventa poi, dopo la Pasqua, la chiave per leggere in modo nuovo la Legge e i Profeti. Veniamo ora alle parole interpretative con cui Gesù stesso spiega il gesto della purificazione del tempio. Atteniamoci anzitutto a Marco con cui Matteo e Luca, a prescindere da piccole varianti, coincidono. Dopo l'atto della purificazione Gesù, ci riferisce Marco, «insegnava». L'essenziale di 27
questo « insegnamento », l'evangelista lo vede riassunto nella parola di Gesù: « Non sta forse scritto: La mia casa sarà chiamata casa di preghiera per tutte le nazioni? Voi invece ne avete fatto un covo di ladri» (11,17). In questa sintesi della «dottrina» di Gesù sul tempio - come abbiamo già visto - sono fuse insieme due parole profetiche. C'è innanzitutto la visione universalistica del profeta Isaia (56,7) di un futuro, in cui nella casa di Dio tutte le nazioni adorano il Signore come l'unico Dio. Nella struttura del tempio il grandissimo cortile dei gentili, in cui la scena si svolge, è lo spazio aperto, che invita tutto il mondo a pregarvi l'unico Dio. L'azione di Gesù sottolinea questa apertura interiore dell'attesa, che nella fede di Israele era viva. Anche se Gesù limita il suo operare consapevolmente a Israele, è tuttavia sempre mosso dalla tendenza universalistica di aprire Israele in modo che tutti nel Dio di questo popolo possano riconoscere l'unico Dio comune a tutto il mondo. Alla domanda che cosa Gesù abbia veramente portato agli uomini, nella Prima Parte avevamo risposto che Egli ha portato Dio alle genti (cfr p. 67). Secondo la sua parola, nella purificazione del tempio si tratta proprio di questa intenzione fondamentale: togliere ciò che è contrario alla comune conoscenza ed adorazione di Dio - aprire quindi lo spazio alla comune adorazione. Nella stessa direzione orienta una piccola vicenda che Giovanni riferisce circa la «Domenica delle Palme». Con ciò, tuttavia, dobbiamo tener presente che, secondo Giovanni, la purificazione del tem28
pio si svolse durante la prima Pasqua di Gesù, all'inizio della sua attività pubblica. I sinottici invece - come abbiamo già visto - raccontano solo di un'unica Pasqua di Gesù e così la purificazione del tempio cade necessariamente negli ultimi giorni di tutta la sua attività. Mentre fino a poco tempo addietro l'esegesi partiva prevalentemente dalla tesi che la datazione di san Giovanni fosse « teologica » e non esatta nel senso biografico-cronologico, oggi si vedono sempre più chiaramente le ragioni che militano per una datazione esatta anche dal punto di vista cronologico del quarto evangelista che, nonostante tutta la penetrazione teologica della materia, qui come anche altrove si rivela informato assai precisamente sui tempi, i luoghi e gli svolgimenti. Ma non dobbiamo qui entrare in questa discussione, in definitiva secondaria. Fermiamoci semplicemente ad esaminare quella piccola vicenda che, in Giovanni, non è connessa con la purificazione del tempio, ma chiarisce ulteriormente il suo intrinseco significato. L'evangelista riferisce che tra i pellegrini c'erano anche alcuni Greci « che erano saliti per il culto durante la festa» (Gv 12,20). Questi Greci si avvicinano a « Filippo, che era di Betsàida di Galilea » e gli chiedono: « Signore, vogliamo vedere Gesù » (12,21). Nell'uomo col nome greco proveniente dalla Galilea semi-pagana vedono ovviamente un mediatore che può aprire loro l'accesso a Gesù. Questa parola dei Greci: «Signore, vogliamo vedere Gesù », ci ricorda in qualche maniera la visione che san Paolo ebbe del Macèdone, che gli disse: «Passa in Macedonia e aiutaci!» (At 16,9). Il Van29
gelo continua raccontando che Filippo ne parla ad Andrea e tutti e due espongono la richiesta a Gesù. Come spesso accade nel Vangelo di Giovanni, Gesù risponde in modo misterioso e, sul momento, enigmatico: «È venuta l'ora che il Figlio dell'uomo sia glorificato. In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (12,23s). Alla richiesta di un incontro da parte di un gruppo di pellegrini greci, Gesù risponde con una profezia della passione, in cui interpreta la sua morte imminente come « glorificazione » - una glorificazione che si dimostra nella grande fecondità. Che significa questo? Non un incontro immediato ed esterno tra Gesù e i Greci è ciò che conta. Ci sarà un altro incontro che andrà molto più nel profondo. Sì, i Greci lo «vedranno»: verrà da loro attraverso la croce. Egli verrà come chicco di grano morto e porterà frutto tra di loro. Essi vedranno la sua «gloria»: nel Gesù crocifisso troveranno il vero Dio, di cui nei loro miti e nella loro filosofia erano alla ricerca. L'universalità, di cui parla la profezia di Isaia (cfr 56,7), viene messa nella luce della croce: a partire dalla croce, l'unico Dio si rende riconoscibile alle nazioni; nel Figlio conosceranno il Padre e, in questo modo, l'unico Dio che si è rivelato nel roveto ardente. Ritorniamo alla purificazione del tempio. Lì la promessa universalistica di Isaia è collegata con quella parola di Geremia: Avete reso la mia casa un covo di ladri (cfr 7,11). Torneremo ancora brè30
vemente alla battaglia del profeta Geremia a riguardo ed in favore del tempio nel contesto della spiegazione del discorso escatologico di Gesù. Anticipiamo qui l'essenziale: Geremia s'impegna appassionatamente per l'unità tra culto e vita nella giustizia davanti a Dio; egli lotta contro una politicizzazione della fede, secondo la quale Dio dovrebbe in ogni caso difendere il suo tempio per non perdere il culto. Un tempio, però, che è diventato un « covo di ladri », non ha la protezione di Dio. Nella connessione tra culto e affari, che Gesù combatte, Egli ovviamente vede nuovamente realizzata la situazione dei tempi di Geremia. In questo senso, la sua parola come il suo gesto sono un avvertimento nel quale, sulla base di Geremia, si poteva percepire anche l'allusione alla distruzione di questo tempio. Ma come Geremia, così anche Gesù non è il distruttore del tempio: ambedue indicano con la loro passione chi e che cosa distruggerà realmente il tempio. Questa spiegazione della purificazione del tempio diventa ancora più chiara alla luce di una parola di Gesù, che in questo contesto è trasmessa solo da Giovanni, ma che in modo deformato si trova anche sulle labbra di falsi testimoni durante il processo a Gesù, secondo la relazione di Matteo e Marco. Non c'è dubbio che una tale parola risalga a Gesù stesso ed è altrettanto ovvio che essa vada collocata nel contesto della purificazione del tempio. In Marco, il falso testimone dice di Gesù che 31
Egli avrebbe dichiarato: «Io distruggerò questo tempio, fatto da mani d'uomo, e in tre giorni ne costruirò un altro, non fatto da mani d'uomo » (14,58). Il «testimone», con ciò, è forse molto vicino alla parola di Gesù, sbaglia però in un punto decisivo: non è Gesù a distruggere il tempio; lo abbandonano alla distruzione coloro che lo rendono un covo di ladri, come era avvenuto ai tempi di Geremia. In Giovanni, la vera parola di Gesù suona così: « Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere» (2,19). Con questa parola Gesù rispondeva ad una richiesta da parte dell'autorità giudaica di un segno col quale desse prova della sua legittimazione ad un atto quale la purificazione del tempio. Il suo « segno » è la croce e la risurrezione. La croce e la risurrezione lo legittimano come Colui che instaura il culto giusto. Gesù si giustifica mediante la sua passione - il segno di Giona, che Egli dà a Israele e al mondo. Ma la parola va ancora più in profondità. A ragione Giovanni dice che i discepoli compresero la parola in tutta la sua profondità solo facendone memoria dopo la risurrezione - facendone memoria nella luce dello Spirito Santo come comunità dei discepoli, come Chiesa. Il rifiuto di Gesù, la sua crocifissione, significa allo stesso tempo la fine di questo tempio. L'epoca del tempio è passata. Arriva un nuovo culto in un tempio non costruito da uomini. Questo tempio è il suo corpo - il Risorto che raduna i popoli e li unisce nel Sacramento del suo corpo e del suo sangue. Egli stesso è il nuovo tempio dell'uma32
nità. La crocifissione di Gesù è al contempo la distruzione dell'antico tempio. Con la sua risurrezione inizia un nuovo modo di venerare Dio, non più su questo o quell'altro monte, ma « in spirito e verità» (Gv 4,23). Come stanno allora le cose circa lo «zelos» di Gesù? Riguardo a questa domanda, Giovanni - proprio nel contesto della purificazione del tempio - ci ha donato una parola preziosa che costituisce una risposta precisa ed approfondita alla domanda stessa. Egli ci dice che, in occasione della purificazione del tempio, i discepoli si ricordarono che sta scritto: « Lo zelo per la tua casa mi divorerà » (2,17). È questa una parola tratta dal grande Salmo 69 riguardante la passione. A causa della sua vita conforme alla parola di Dio, l'orante è spinto nell'isolamento; la parola diventa per lui una fonte di sofferenza recatagli da quelli che lo circondano e lo odiano. «Salvami, o Dio, l'acqua mi giunge alla gola... Per te io sopporto l'insulto... mi divora lo zelo per la tua casa ...» (Sai 69,2.8.10). Nel giusto sofferente il ricordo dei discepoli ha riconosciuto Gesù: lo zelo per la casa di Dio lo porta alla passione, alla croce. È questa la svolta fondamentale che Gesù ha dato al tema dello zelo. Ha trasformato nello zelo della croce lo «zelo» che voleva servire Dio mediante la violenza. Così Egli ha eretto definitivamente il criterio per il vero zelo - lo zelo dell'amore che si dona. Secondo questo zelo il cristiano deve orientarsi; in ciò sta la risposta autentica alla questione circa lo «zelotismo » di Gesù. 33
Questa interpretazione trova la sua conferma nuovamente nei due piccoli episodi con cui Matteo conclude il racconto della purificazione del tempio. « Gli si avvicinarono nel tempio ciechi e storpi, ed egli li guarì» (21,14). Al commercio di animali e agli affari col denaro Gesù contrappone la sua bontà risanatrice. Essa è la vera purificazione del tempio. Gesù non viene come distruttore; non viene con la spada del rivoluzionario. Viene col dono della guarigione. Si dedica a coloro che a causa della loro infermità vengono spinti ai margini della propria vita ed ai margini della società. Egli mostra Dio come Colui che ama, e il suo potere come il potere dell'amore. In piena armonia con tutto ciò sta poi anche il comportamento dei fanciulli i quali ripetono l'acclamazione dell'osanna che i grandi gli rifiutano (cfr Mt 21,15). Da questi « piccoli » Gli verrà sempre la lode (cfr Sai 8,3) - da coloro che sono in grado di vedere con un cuore puro e semplice e che sono aperti alla sua bontà. Così in queste due piccole vicende si preannunzia il nuovo tempio che Egli è venuto a costruire.
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Capitolo 2 IL DISCORSO ESCATOLOGICO DI GESÙ
an Matteo, al termine dei « guai! » pronunciati da Gesù contro gli scribi e farisei, quindi nel contesto dei discorsi dopo l'ingresso a Gerusalemme, ci trasmette una parola misteriosa di Gesù, che in Luca ha trovato il suo posto durante il cammino di Gesù verso la città santa: « Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quelli che ti sono inviati, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco: la vostra casa vi sarà lasciata deserta...» (Mt 23,37s; cfr Le 13,34s). In queste frasi appare anzitutto il profondo amore di Gesù verso Gerusalemme, la sua lotta appassionata per il « sì » della città santa al messaggio che Egli deve trasmettere e col quale si colloca entro la grande linea degli araldi di Dio nella precedente storia della salvezza. L'immagine della chioccia protettrice e preoccupata deriva dall'Antico Testamento: Dio « trovò [il suo popolo] in una terra deserta... Lo circondò, lo allevò; lo custodì come la pupilla del suo occhio. Come un'aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali» (Dt 32,10s). Si aggiunge la bella parola del Salmo 36,8: « Quanto è prezioso il tuo amore, o Dio! Si rifugiano gli uomini all'ombra delle tue ali ».
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Gesù avvicina qui alla bontà potente di Dio stesso il suo operare e il suo tentativo di attrarre la gente. Questa bontà, che con le ali spiegate protegge Gerusalemme (cfr Is 31,5), si rivolge però al libero arbitrio dei pulcini, ed essi si rifiutano: «Voi non avete voluto » (Mt 23,37). La sventura che ne deriva viene accennata da Gesù, in modo misterioso e tuttavia inequivocabile, con una parola che riprende un'antica tradizione profetica. Geremia, di fronte al cattivo comportamento nel tempio, aveva comunicato un oracolo di Dio: « Ho abbandonato la mia casa, ho ripudiato la mia eredità» (12,7). Proprio la stessa cosa annuncia Gesù: « La vostra casa vi sarà lasciata deserta» (Mt 23, 38). Dio se ne va. Il tempio non è più il luogo dove Egli ha posto il suo nome. Sarà vuoto; ora è soltanto la « vostra casa ». Per questa parola di Gesù si riscontra un sorprendente parallelismo in Giuseppe Flavio, lo storiografo della guerra giudaica; anche Tacito ha accolto questa notizia nella sua opera storica (cfr Hist. 5, 13). Giuseppe Flavio riferisce eventi strani, che avvennero negli ultimi anni prima dello scoppio della guerra giudaica: tutti annunciavano in modo diverso e preoccupante la fine del tempio. Lo storiografo. racconta complessivamente sette di tali segni. Vorrei scegliere qui solo quello che collima in modo sorprendente con la parola minacciosa di Gesù menzionata poc'anzi. L'evento ha luogo nella Pentecoste dell'anno 66 dopo Cristo. «Quando nella festa chiamata Pentecoste i sacerdoti di notte giunsero nel cortir\
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le interno del tempio per svolgere secondo la consuetudine il loro ministero sacro, avrebbero, come dicono, dapprima percepito un movimento e un frastuono, in seguito però un molteplice grido: "Andiamo via da qui!"» (De bello luà. VI 299s). Checché sia successo precisamente, una cosa è chiara: negli ultimi anni prima del dramma dell'anno 70 aleggiava intorno al tempio una misteriosa percezione dell'avvicinarsi della sua fine. «La vostra casa vi sarà lasciata deserta». «Andiamo via da qui! »: nella forma della prima persona plurale, tipica del parlare biblico di Dio (cfr ad es. Gen 1,26), Egli stesso annuncia che andrà via dal tempio, lasciandolo «deserto». C'era nell'aria una svolta di portata universale dal significato imprevedibile. In Matteo, alla parola della « casa deserta » - parola che non annuncia ancora direttamente la distruzione del tempio, ma certamente la sua intrinseca fine, il cessare del suo significato come luogo d'incontro tra Dio e l'uomo - segue immediatamente il grande discorso escatologico di Gesù con i temi centrali della distruzione del tempio, della distruzione di Gerusalemme, del Giudizio finale e della fine del mondo. Questo discorso, trasmesso nei tre sinottici con varianti diverse, è forse da qualificare come il testo più difficile in assoluto dei Vangeli. Ciò dipende, da un lato, dalla complessità del contenuto che, parzialmente, si riferisce ad eventi storici nel frattempo ormai accaduti, in gran parte, però, riguarda un futuro che va al di là di 37
ciò che del tempo e della realtà ci è percepibile, anzi, li porta a compimento. Viene annunciato un avvenire che supera le nostre categorie e, tuttavia, può essere illustrato solo mediante modelli presi dalle nostre esperienze, modelli che di fronte al contenuto da esprimere sono necessariamente inadeguati. Così si spiega perché Gesù, che sostanzialmente parla sempre in continuità con la Legge e i Profeti, illustri l'insieme con una trama di parole della Scrittura, nella quale inserisce la novità della sua missione, della missione del Figlio dell'uomo. Mentre la visione dell'avvenire in gran parte è espressa in immagini della tradizione, che vogliono portarci più vicini all'indescrivibile, si aggiungono alla difficoltà contenutistica del testo tutti i problemi della storia redazionale: proprio perché le parole di Gesù qui intendono essere sviluppi nella continuità della tradizione e non descrizioni dell'avvenire, coloro che la tramandavano potevano ulteriormente elaborare questi sviluppi secondo le circostanze e le capacità di intendere dei loro ascoltatori, badando di conservare fedelmente l'essenziale contenuto dell'autentico messaggio di Gesù. Non può essere compito di questo libro entrare nei molteplici problemi particolari della storia della redazione e della tradizione del testo. Vorrei limitarmi a mettere in luce tre elementi del discorso escatologico di Gesù, nei quali le intenzioni essenziali della composizione si rendono evidenti.
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1 . L A FINE DEL TEMPIO
Prima di rivolgere la nostra attenzione nuovamente alle parole di Gesù, dobbiamo però gettare uno sguardo sugli avvenimenti storici dell'anno 70. Con la cacciata del procuratore Gessio Floro e la difesa efficace di fronte al contrattacco romano, nel 66 era iniziata la guerra giudaica che, tuttavia, non è stata soltanto una guerra dei Giudei contro i Romani, ma in gran parte periodicamente anche una guerra civile tra correnti giudaiche rivaleggianti sotto la guida dei loro capi. Fu innanzitutto questo a conferire alla battaglia per Gerusalemme tutta la sua atrocità. Eusebio di Cesarea (t ca. 339) e - con valutazioni diverse - Epifanio di Salamina (+ 403) ci riferiscono che, già prima dell'inizio dell'assedio di Gerusalemme, i cristiani si sarebbero rifugiati nella regione ad Est del Giordano, nella città di Pella. Secondo Eusebio si decisero alla fuga dopo che ai loro «responsabili» fu affidato mediante rivelazione uno specifico ordine (cfr Hist. eccl. III, 5). Epifanio, invece, scrive: «Cristo aveva loro detto di abbandonare Gerusalemme e trasferirsi altrove, perché la città sarebbe stata assediata » (Haer. 29,8). Di fatto leggiamo nel discorso escatologico di Gesù un pressante invito alla fuga: «Quando vedrete l'abominio della devastazione presente là dove non è lecito ... allora quelli che si trovano nella Giudea fuggano sui monti» (Me 13,14). In quale vicenda o in quale realtà i cristiani vedessero realizzato questo segno dell'« abominio della devastazione» e decidessero la partenza, 39
non è precisabile. Ma c'erano, in quegli anni della guerra giudaica, avvenimenti a sufficienza, che potevano essere interpretati come questo segno annunciato da Gesù, la cui formulazione verbale è tratta dal Libro di Daniele (9,27; 11,31; 12,11), dove indica la profanazione ellenistica del tempio. Questa espressione simbolica, mutuata dalla storia di Israele, in quanto annuncio dell'avvenire, consentiva differenti interpretazioni. Così, il testo di Eusebio può risultare certamente ragionevole nel senso, per esempio, che membri ragguardevoli della comunità paleocristiana « mediante una rivelazione» riconobbero in un certo evento il segno preannunciato e lo interpretarono come ordine di iniziare immediatamente la fuga. Alexander Mittelstaedt fa notare che nell'estate 66, accanto a Giuseppe ben Gorion, l'ex sommo sacerdote Anna II fu scelto come stratega per condurre la guerra - quell' Anna che poco prima, nell'anno 62 d. Cr., aveva decretato la condanna a morte del «fratello del Signore», Giacomo, capo della comunità giudeo-cristiana (Lukas als Historiker, p. 68). Questa scelta poteva senz'altro essere interpretata dai giudeo-cristiani come segnale per la partenza, anche se questa certamente può costituire soltanto una tra molte ipotesi. La fuga dei giudeo-cristiani dimostra, comunque, ancora in tutta evidenza il « no » dei cristiani alla interpretazione zelota del messaggio biblico e della figura di Gesù: la loro speranza è di natura diversa. Torniamo allo svolgimento della guerra giudaica. Vespasiano, che era stato incaricato dell'operazio40 i
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ne da Nerone, sospese tutte le azioni militari, quando nel 68 fu annunciata la morte dell'imperatore. Dopo un breve intermezzo, il 1° luglio 69 Vespasiano stesso fu proclamato nuovo imperatore. Affidò perciò l'incarico della conquista di Gerusalemme al figlio Tito. Questi, secondo Giuseppe Flavio, deve essere arrivato davanti alla città santa presumibilmente proprio nel periodo delle festività della Pasqua, il 14 del mese di Nisan, quindi nel 40° anniversario della crocifissione di Gesù. Migliaia di pellegrini affluivano a Gerusalemme. Giovanni di Gishala, uno dei capi dell'insurrezione, in lotta tra loro, fece penetrare di nascosto nel tempio combattenti armati, travestiti da pellegrini, che lì iniziarono una carneficina dei seguaci del suo rivale Eleazar ben Simon, contaminando così un'altra volta il santuario col sangue di innocenti (Mittelstaedt, p. 72). Ciò tuttavia non era che una prima dimostrazione delle crudeltà inimmaginabili, che in seguito si sarebbero sviluppate con una brutalità crescente, in cui il fanatismo degli uni e il furore in espansione degli altri si sarebbero a vicenda incentivati. Non dobbiamo qui trattare dei particolari della conquista e della distruzione della città e del tempio. Può tuttavia essere utile riportare il testo, in cui Mittelstaedt riassume il decorso terribile del dramma: «La fine del tempio si svolge in tre tappe: dapprima c'è la sospensione del sacrificio regolare, per la quale il santuario è ridotto ad una fortezza; segue poi il dare alle fiamme che a sua 41
volta si svolge in tre tappe... E infine c'è lo smantellamento delle rovine dopo la caduta della città. Le distruzioni decisive... avvengono mediante il fuoco; gli smantellamenti successivi erano ormai soltanto uno strascico... Chi era sopravvissuto e non era morto neppure a causa delle carestie o delle epidemie, aveva la prospettiva del circo, della miniera o della schiavitù» (pp. 84s). Secondo Giuseppe Flavio, il numero dei morti ammontava a 1.100.000 (De bello Iud. VI 420). Orosio (Hist. adv. pag. VII 9,7) e, similmente, Tacito (Hist. V 13) parlano di 600.000 morti. Mittelstaedt è dell'avviso che queste cifre siano esagerate e realisticamente si dovrebbe supporre il numero di circa 80.000 morti (p. 83). Chi legge i rapporti interi e prende coscienza della quantità di omicidi, massacri, saccheggi, incendi, fame, vilipendi di cadavere e distruzione dell'ambiente (disboscamento totale in un cerchio di 18 km intorno alla città), può capire che Gesù - riprendendo una parola del Libro di Daniele (12,1) - commenti l'avvenimento dicendo: « Quelli saranno giorni di tribolazione, quale non vi è mai stata dall'inizio della creazione, fatta da Dio, fino ad ora, né mai più vi sarà » (Me 13,19). In Daniele a questa parola di minaccia segue una promessa: « In quel tempo sarà salvato il tuo popolo, chiunque si troverà scritto nel libro » (12,1). Anche nel discorso di Gesù, l'orrore non ha l'ultima parola: i giorni saranno abbreviati e gli eletti salvati. Dio lascia una misura grande - stragrande secondo la nostra impressione - di libertà al male e ai cattivi; ciononostante la storia non gli sfugge dalle mani. 42
In tutto questo dramma, che purtroppo è solo un esempio di tante altre tragedie della storia, c'è un evento centrale per la storia della salvezza - evento che significa un taglio netto dalle ampie conseguenze anche per l'intera storia delle religioni e, in genere, per quella dell'umanità: il 5 agosto dell'anno 70, « a causa della carestia e della mancanza di materiale fu necessario sospendere il sacrificio quotidiano nel tempio » (Mittelstaedt, p. 78). È vero che dopo la distruzione del tempio per opera di Nabucodònosor nel 587 a. Cr. il fuoco sacrificale era restato spento per 70 anni circa e una seconda volta, tra gli anni 166 e 164 a. Cr., sotto il dominatore ellenista Antioco IV, il tempio era stato profanato e il ministero sacrificale all'unico Dio era stato sostituito da sacrifici a Zeus. Ma in ambedue i casi il tempio era risorto e il culto prescritto dalla Torà era stato ripreso. La distruzione dell'anno 70, invece, era definitiva: i tentativi di ima ricostruzione del tempio sotto gli imperatori Adriano, durante l'insurrezione di Bar Kochba (132-135 d. Cr.), e Giuliano (361) fallirono. La rivolta di Bar Kochba ebbe anzi la conseguenza che Adriano vietò al popolo ebreo l'accesso al territorio di Gerusalemme e dintorni. Al posto della città santa l'imperatore ne costruì una nuova, che poi fu chiamata « Aelia Capitolina », dove si celebrava il culto a Giove Capitolino. « Solo l'imperatore Costantino, nel IV secolo, permise ai giudei di visitare la città una volta l'anno nella ricorrenza della distruzione di Gerusalemme per far lutto presso il muro del tempio » (Gnilka, Nazarener, p. 72). 43
Per il giudaismo, la cessazione del sacrificio, la distruzione del tempio dovette essere vino shock tremendo. Tempio e sacrificio stanno al centro della Torà. Ora non c'era più nessuna espiazione nel mondo, niente che potesse far da contrappeso al suo crescente inquinamento in conseguenza del male. E ancora: Dio, che su questo tempio aveva posto il suo nome e quindi, in modo misterioso, abitava in esso, ora aveva perso questa sua dimora sulla terra. Dove era l'alleanza? Dove la promessa? Una cosa è chiara: la Bibbia - l'Antico Testamento - doveva essere letta in un modo nuovo. Il giudaismo dei sadducei, che era totalmente legato al tempio, non è sopravvissuto a questa catastrofe, e anche Qumran, che in verità era in opposizione al tempio erodiano, ma aspettava un tempio nuovo, è scomparso dalla storia. Esistono due risposte a tale situazione - due modi di leggere in maniera nuova l'Antico Testamento dopo l'anno 70: la lettura alla luce di Cristo, sulla base dei profeti, e la lettura rabbinica. Delle correnti giudaiche del tempo di Gesù è sopravvissuto solo il fariseismo, che nella scuola rabbinica di Jamnia ha trovato un nuovo centro e ha elaborato un modo particolare di leggere e di interpretare, nell'epoca ormai priva del tempio, l'Antico Testamento con la Torà come suo centro. Solo a partire da quel momento parliamo di « giudaismo »"nel senso proprio del termine, quale modo di considerare e leggere il canone degli scritti biblici come rivelazione di Dio senza il mondo concreto del culto nel tempio. Questo culto non esiste più. A tale riguardo, anche la fede di Israele dopo Tanno 70 ha assunto una forma nuova. 44
Dopo secoli di contrapposizione, riconosciamo come nostro compito il far sì che questi due modi della nuova lettura degli scritti biblici - quella cristiana e quella giudaica - entrino in dialogo tra loro, per comprendere rettamente la volontà e la parola di Dio. In retrospettiva, Gregorio Nazianzeno (t 390 ca.) ha cercato di stabilire, a partire dalla fine del tempio gerosolimitano, una specie di periodizzazione della storia delle religioni. Egli parla della pazienza di Dio, che non impone all'uomo niente di incomprensibile: Dio agisce come un buon pedagogo o un medico. Lentamente abolisce certe usanze, ne tollera altre e così porta l'uomo a fare progressi. «Non è una cosa facile cambiare costumi vigenti e da molto tempo venerati... Che cosa intendo dire? Il primo Testamento sopprimeva gli idoli, ma tollerava i sacrifici. Il secondo metteva fine ai sacrifici, ma non proibiva la circoncisione. Una volta accettata l'abolizione [di tale usanza], [gli uomini] rinunciavano a ciò che era soltanto tollerato» (cit. da Barbel pp. 261/263). Nella visione del Padre della Chiesa, anche i sacrifici, pur previsti dalla Torà, appaiono come una cosa soltanto tollerata - come una tappa nel percorso verso il culto giusto - come qualcosa di provvisorio, che durante il cammino doveva essere superato e che Cristo ha superato. Ma ora si pone decisamente la domanda: come ha visto tutto ciò Gesù stesso? E come Egli è stato capito dai cristiani? Non dobbiamo qui esaminare in 45
che misura i singoli dettagli del discorso escatologico di Gesù risalgano alla sua parola personale. Che Egli abbia preannunciato la fine del tempio - e precisamente la sua fine teologica, storico-salvifica - è fuori dubbio. Questo confermano, accanto al discorso escatologico, soprattutto il detto circa la casa lasciata deserta, dal quale siamo partiti (cfr Mt 23,37s; Le 13,34s) e la parola dei falsi testimoni nel processo a Gesù (cfr Mt 26,61; 27,40; Me 14,58; 15,29; At 6,14), che ritorna sotto la croce come parola di scherno ed è riportata in Giovanni, come parola di Gesù stesso, nella versione giusta (cfr 2,19). Gesù aveva amato il tempio come proprietà del Padre (cfr Le 2,49) ed aveva gradito insegnare in esso. Lo aveva difeso come casa di preghiera per tutte le nazioni ed aveva cercato di prepararlo per questo scopo. Ma Egli sapeva anche che l'epoca di questo tempio era superata e che sarebbe arrivato qualcosa di nuovo che era collegato con la sua morte e risurrezione. La Chiesa nascente doveva mettere insieme e insieme leggere questi frammenti in gran parte misteriosi delle parole di Gesù - le sue affermazioni sul tempio e soprattutto sulla croce e sulla risurrezione - , per riconoscere alla fine1 in tali frammenti l'intero complesso di ciò che Gesù aveva voluto esprimere. Ciò non era affatto un compito facile, venne però affrontato a partire dalla Pentecoste, e possiamo dire che nella teologia paolina tutti gli elementi essenziali della nuova sintesi erano stati trovati già prima della fine materiale del tempio.
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Sul rapporto della comunità primitiva col tempio, gli Atti degli Apostoli ci dicono che «ogni giorno erano perseveranti insieme nel tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore» (2,46). Sono quindi menzionati due luoghi di vita della Chiesa nascente: per la predicazione e la preghiera ci si riunisce nel tempio, che continua ad essere considerato ed accettato come la casa della parola di Dio e della preghiera; lo spezzare il pane - il nuovo centro « cultuale » dell'esistenza dei fedeli - avviene invece nelle case come luoghi dell'assemblea e della comunione grazie al Signore risorto. Anche se non si sono ancora esplicitamente prese le distanze dai sacrifici secondo la Legge, si delinea tuttavia ormai una distinzione essenziale. Ciò che fino a quel momento erano stati i sacrifici, viene sostituito dallo «spezzare il pane». Dietro questa semplice parola, però, si nasconde l'accenno all'eredità dell'ultima cena, alla comunione nel corpo del Signore - alla sua morte e alla sua risurrezione. Per la nuova sintesi teologica, che vede la fine storico-salvifica del tempio realizzata, già prima della distruzione materiale di esso, nella morte e risurrezione di Gesù, emergono due grandi nomi: Stefano e Paolo. Stefano, nella comunità primitiva di Gerusalemme, appartiene al gruppo degli « ellenisti », un gruppo di giudeo-cristiani di lingua greca che, nel loro modo nuovo di interpretare la Legge, prepararono il cristianesimo paolino. Il grande discorso, 47
con cui Stefano, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, cerca di illustrare la sua nuova visione della storia della salvezza, viene troncato nel punto decisivo. Lo sdegno dei suoi avversari è già arrivato all'estremo e si sfoga nella lapidazione dell'annunciatore. Ma il vero punto del dissenso è espresso in modo assolutamente chiaro nell'esposizione dell'accusa presentata al sinedrio: « Lo abbiamo infatti udito dichiarare che Gesù, questo Nazareno, distruggerà questo luogo [cioè il tempio] e sovvertirà le usanze che Mose ci ha tramandato » (At 6,14). Si tratta della parola di Gesù sulla fine del tempio di pietra e sul nuovo tempio tutto diverso - parola che Stefano ha fatto sua ed evidentemente ha posto al centro della sua predicazione. Anche se non possiamo ricostruire nei particolari la visione teologica di santo Stefano, ne è tuttavia chiaro il punto essenziale: è superata l'epoca del tempio di pietra con il suo culto sacrificale. Dio stesso, infatti, ha detto: « Il cielo è il mio trono e la terra sgabello dei miei piedi. Quale casa potrete costruirmi? O quale sarà il luogo del mio riposo? Non è forse la mia mano che ha creato tutte queste cose? » (At 7,49s; cfr Is 66, ls). Stefano conosce la critica dei profeti al culto. Per lui, con Gesù il periodo del sacrificio nel tempio è passato e con ciò anche l'epoca del tempio stesso; ora le parole del profeta assumono la loro piena ragione. È iniziato qualcosa di nuovo, in cui si adempie ciò che, in realtà, è la cosa originaria. La vita e il messaggio di santo Stefano sono rimasti un frammento che s'interrompe improvvisa48
mente con la lapidazione che, però, allo stesso tempo porta a compimento la sua vita e il suo messaggio: nella sua passione è diventato una cosa sola con Cristo. Il processo come la morte assomigliano alla passione di Gesù. Come il Signore crocifisso prega anche lui: « Signore, non imputare loro questo peccato! » (At 7,60). Ad un altro spettava completare la visione teologica ed edificare in base ad essa la Chiesa delle genti: a Paolo, che come Saulo aveva approvato l'uccisione di Stefano (cfr At 8,1). Non è compito di questo libro tracciare le linee fondamentali della teologia di Paolo о anche soltanto della sua concezione del culto e del tempio. Qui si tratta solo di sottolineare che la cristianità nascente, molto prima della distruzione materiale del tempio, era convinta che il ruolo di esso nella storia della salvezza era giunto al termine - come Gesù aveva preannunciato con la parola sulla « casa lasciata deserta » e con il discorso sul nuovo tempio. La grande lotta di san Paolo nell'edificazione della Chiesa delle genti, del cristianesimo «libero dalla Legge », non si riferisce, per la verità, al tempio. Il contrasto con i vari gruppi del giudeo-cristianesimo gira intorno alle «consuetudini» di fondo, in cui si esprimeva l'identità giudaica: la circoncisione, il Sabato, le prescrizioni alimentari e le norme di purezza. Mentre sulla questione della necessità di queste « consuetudini » per raggiungere la salvezza si svolse una lotta drammatica anche tra i cristiani - lotta che alla fine portò all'arresto dell'apostolo a Gerusalemme - stranamente non si trova da nessuna parte la traccia di un conflitto sul 49
tempio e sulla necessità dei suoi sacrifici, e questo nonostante il fatto che, secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, « anche una grande moltitudine di sacerdoti aderiva alla fede » (6,7). Paolo, tuttavia, non ha tralasciato questo problema: al contrario, costituisce il centro del suo insegnamento il messaggio che nella croce di Cristo tutti i sacrifici sono portati a compimento, in Lui si è realizzata l'intenzione di tutti i sacrifici - l'espiazione - e così Gesù stesso ha preso il posto del tempio, è Lui il nuovo tempio. Basti un breve cenno. Il testo più importante si trova nella Lettera ai Romani 3,23ss: « Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, per mezzo della redenzione in Cristo Gesù. È lui che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione, per mezzo della fede, nel suo sangue, a manifestazione della sua giustizia per la remissione dei peccati passati ». La parola qui tradotta con « strumento di espiazione», in greco suona «hilastérion», in ebraico «kapporet». Così si chiamava il coperchio dell'arca dell'alleanza. È il luogo sul quale, in una nube, appare YHWH, il luogo della misteriosa presenza di Dio. Nel giorno dell'Espiazione - lo Yom kippùr (cfr Lev 16) - questo luogo sacro viene asperso con il sangue del giovenco immolato come vittima di espiazione, « la cui vita viene così offerta a Dio al posto di quella degli uomini peccatori meritevoli di morte» (Wilckens II 1, 235). L'idea di fondo è che il sangue del sacrificio, nel quale sono stati as50
sorbiti tutti i peccati degli uomini, toccando la divinità stessa viene purificato e così, mediante il contatto con Dio, anche gli uomini rappresentati da questo sangue vengono resi mondi: un pensiero, questo, che nella sua grandezza e, insieme, nella sua insufficienza è commovente, un pensiero che non poteva rimanere l'ultima parola della storia delle religioni, né l'ultima parola nella storia della fede di Israele. Se Paolo applica la parola hilastèrion a Gesù, indicandolo come il coperchio dell'arca dell'alleanza e quindi come il luogo della presenza del Dio vivente, allora l'intera teologia veterotestamentaria del culto (e con essa le teologie del culto di tutta la storia delle religioni) viene « abolita » ed insieme innalzata ad un'elevatezza totalmente nuova. Gesù stesso è la presenza del Dio vivente. In Lui Dio e uomo, Dio e il mondo sono in contatto. In Lui si realizza ciò che il rito del giorno dell'Espiazione intendeva esprimere: nella donazione di sé sulla croce, Gesù depone, per così dire, tutto il peccato del mondo nell'amore di Dio e lo scioglie in esso. Accostarsi alla croce, entrare in comunione con Cristo significa entrare nell'ambito della trasformazione e dell'espiazione. Tutto ciò per noi oggi è difficile da capire; nella riflessione a riguardo dell'ultima cena e della morte in croce di Gesù dovremo su ciò ampiamente tornare e sforzarci di comprendere. Qui si è trattato in fondo solo di mostrare che Paolo ha già interamente previsto l'abolizione del tempio ed introdotto la sua teologia sacrificale nella cristologia. Per Paolo, nella crocifissione di Cristo il tem51
pio con il suo culto è « demolito »; al suo posto ora sta la vivente arca dell'alleanza del Cristo crocifisso e risorto. Se con Ulrich Wilckens possiamo supporre che il passo di Romani 3,25 è una «formula della fede dei giudeo-cristiani» (1/3, p. 182), allora vediamo quanto presto questa convinzione fosse già maturata nella cristianità - che cioè essa sapeva fin dall'inizio questo: il Risorto è il nuovo tempio, il vero luogo di contatto tra Dio e l'uomo. Per questo, Wilckens può anche dire con ragione: « Forse fin dall'inizio i cristiani semplicemente non hanno partecipato al culto del tempio ... Pertanto la distruzione del tempio nell'anno 70 d. Cr., per i cristiani non era un loro problema religioso » (II/l,p. 31). Così però si rende anche evidente che la grande visione teologica della Lettera agli Ebrei sviluppa soltanto nel particolare ciò che, in nucleo, è già espresso in Paolo e che Paolo stesso, a sua volta, aveva già incontrato, quanto al contenuto essenziale, nella preesistente tradizione della Chiesa. Vedremo più tardi che, a modo suo, la Preghiera sacerdotale di Gesù reinterpreta nello stesso senso lo svolgimento del grande giorno dell'Espiazione e quindi il centro della teologia veterotestamentaria della redenzione, considerandola compiuta nella croce. «
2 . I L TEMPO DEI PAGANI
Una lettura o un ascolto superficiali del discorso escatologico di Gesù suscitano facilmente l'im52
pressione che, dal punto di vista cronologico, Gesù abbia collegato la fine di Gerusalemme immediatamente con la fine del mondo, in particolare quando si legge in Matteo: «Subito dopo la tribolazione di quei giorni, il sole si oscurerà... Allora comparirà in cielo il segno del Figlio dell'uomo...» (24,29s). Questa concatenazione cronologicamente diretta tra la fine di Gerusalemme e la fine del mondo intero sembra confermarsi anche maggiormente, quando, qualche versetto più avanti, si trovano le parole: « In verità vi dico: non passerà questa generazione prima che tutto questo avvenga...» (24,34). A prima vista sembra che solo Luca abbia attenuato questo collegamento. In lui si legge: « Cadranno a fil di spada e saranno condotti prigionieri in tutte le nazioni; Gerusalemme sarà calpestata dai pagani finché i tempi dei pagani siano compiuti» (21,24). Tra la distruzione di Gerusalemme e la fine del mondo si introducono « i tempi dei pagani ». È stato rimproverato a Luca di aver con ciò spostato l'asse cronologico dei Vangeli e del messaggio originario di Gesù, di aver trasformato la fine dei tempi nel tempo intermedio, inventando così il tempo della Chiesa come nuova fase della storia della salvezza. Ma guardando con attenzione, si scopre che questi « tempi dei pagani », con parole diverse e in un altro punto del discorso di Gesù, sono annunciati anche in Matteo e in Marco. In Matteo troviamo la seguente parola del Signore: «Questo vangelo del Regno sarà annunziato in tutto il mondo, perché ne sia data testimo53
nianza a tutti i popoli; e allora verrà la fine» (24,14). In Marco si legge: «Ma prima [della fine] è necessario che il Vangelo sia proclamato a tutte le nazioni» (13,10). Questo ci dimostra innanzitutto che bisogna essere molto cauti con i collegamenti all'interno di questo discorso di Gesù; il discorso è stato composto con singoli pezzi tramandati, che non costituiscono semplicemente uno svolgimento lineare, ma sono da leggere come se stessero uno nell'altro. Torneremo in modo più dettagliato, nel corso del terzo sottocapitolo («Profezia e apocalisse...»), su questo problema redazionale, che è di grande importanza per la giusta comprensione del testo. Dal punto di vista contenutistico si rende evidente che tutti e tre i sinottici sanno qualcosa di un tempo dei pagani: la fine del mondo può arrivare solo quando il Vangelo sarà stato portato a tutti i popoli. Il tempo dei pagani - il tempo della Chiesa dei popoli del mondo - non è un'invenzione di san Luca; è patrimonio comune della tradizione di tutti i Vangeli. A questo punto incontriamo di nuovo il collegamento tra la tradizione dei Vangeli e i motivi fondamentali della teologia paolina. Se Gesù nel discorso escatologico dice che prima deve essere annuncialo il Vangelo alle nazioni e solo dopo può arrivare la fine, troviamo in Paolo l'affermazione praticamente identica nella Lettera ai Romani: « L'ostinazione di una parte d'Israele è'in atto fino a quando non sono entrate tutte quante le genti. Allora tutto Israele sarà salvato...» 54
(ll,25s). La totalità dei pagani e l'intero Israele: in questa formula appare l'universalismo della divina volontà di salvezza. Nel nostro contesto, però, è importante che anche Paolo sappia del tempo dei pagani che si svolge adesso e deve essere compiuto, affinché il piano di Dio raggiunga il suo scopo. Il fatto che la cristianità primitiva non potesse farsi un'idea cronologicamente adatta della durata di questi «kairoi» (tempi) dei pagani, immaginandoli sicuramente piuttosto brevi, è in fin dei conti secondario. L'essenziale sta nell'affermazione fondamentale e nel preannuncio di un tale tempo, che dai discepoli, senza calcoli sulla sua durata, doveva essere ed è stato interpretato innanzitutto come un compito: realizzare ora ciò che è stato annunciato e richiesto, portare cioè il Vangelo a tutte le genti. L'instancabilità con cui Paolo era in cammino verso i popoli, per portare a tutti il messaggio, per adempiere il compito possibilmente ancora durante la sua vita - questa instancabilità, appunto, si spiega soltanto con la sua consapevolezza del significato storico ed escatologico dell'annuncio: «Una necessità mi si impone: guai a me se non annuncio il Vangelo! » (1 Cor 9,16). In questo senso l'urgenza dell'evangelizzazione nella generazione apostolica è motivata non tanto dalla questione circa la necessità della conoscenza del Vangelo per la salvezza individuale di ogni singolo, quanto piuttosto da questa grande concezione della storia: affinché il mondo raggiunga la i
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sua meta, il Vangelo deve arrivare a tutti i popoli. In alcuni periodi della storia, la percezione di questa urgenza si è assai indebolita, ma si è poi anche sempre riaccesa, suscitando un nuovo dinamismo nell'evangelizzazione. A questo riguardo, c'è sempre sullo sfondo anche la questione circa la missione di Israele. Vediamo oggi con sconcerto quanti malintesi gravidi di conseguenze abbiano, in proposito, pesato sui secoli. Una nuova riflessione, tuttavia, può riconoscere che in tutti gli offuscamenti sono sempre riscontrabili awii di una giusta comprensione. Vorrei qui far riferimento a ciò che Bernardo di Chiaravalle riguardo a questo punto ha consigliato al suo discepolo Papa Eugenio III. Egli ricorda al Papa che gli è stata affidata la cura non solo dei cristiani: « Tu sei debitore anche verso gli infedeli, i giudei, i greci e i pagani» (De cons. 111/1,2). Tuttavia, subito dopo si corregge precisando: « Ammetto che, per quanto riguarda i Giudei, sei scusato dal tempo; per loro è stato stabilito un determina- : to momento, che non si può anticipare. Devono precedere i pagani nella loro totalità. Ma che cosa dici circa i pagani stessi?... Che cosa avevano in mente i tuoi predecessori per... interrompere l'evangelizzazione, mentre è ancora diffusa l'incredulità? Per quale motivo ... la parola che corre veloce si è fermata?...» (111/1,3). Hildegard Brem commenta questo passo così: «Facendo seguito a Romani 11,25, la Chiesa non deve preoccuparsi della conversione dei Giudei, perché occorre aspettare il momento stabilito da Dio " quando la totalità dei gentili avrà raggiunto 56
la salvezza" (Km 11,25). Al contrario, i Giudei sono essi stessi una predica vivente, alla quale la Chiesa deve rimandare, perché richiamano alla mente la passione di Cristo » (Winkler I, p. 834). Il preannuncio del tempo dei pagani e il compito da ciò derivante è un punto centrale del messaggio escatologico di Gesù. Il compito particolare dell'evangelizzazione dei pagani, che Paolo ha ricevuto dal Risorto, è saldamente ancorato al messaggio dato da Gesù ai discepoli prima della sua passione. Il tempo dei pagani - « il tempo della Chiesa » - che, come abbiamo visto, è stato tramandato in tutti i Vangeli, costituisce un elemento essenziale del messaggio escatologico di Gesù.
3 . PROFEZIA E APOCALISSE NEL DISCORSO ESCATOLOGICO
Prima di dedicarci a quella che, nel senso più stretto, è la parte apocalittica del discorso di Gesù, cerchiamo di raggiungere una visione d'insieme di tutto ciò che finora abbiamo incontrato. Come prima cosa troviamo l'annuncio della distruzione del tempio e, in Luca esplicitamente, anche della distruzione di Gerusalemme. Si è, tuttavia, reso evidente che il nucleo del preannuncio di Gesù non ha di mira le azioni esteriori della guerra e della distruzione, ma la fine nel senso storicosalvifico del tempio, che diventa la « casa lasciata deserta »: cessa di essere il luogo della presenza di Dio e dell'espiazione per Israele, anzi per il mon57
do. È passato il tempo dei sacrifici secondo la legge di Mose. Abbiamo visto che la Chiesa nascente, molto prima della fine materiale del tempio, era consapevole di questa profonda svolta della storia; con tutte le discussioni difficili su ciò che dei costumi giudaici avrebbe dovuto essere conservato e dichiarato obbligatorio anche per i pagani, su questo punto ovviamente non c'era alcun dissenso: con la croce di Cristo l'epoca dei sacrifici era giunta a termine. Inoltre abbiamo visto che fa parte del nucleo del messaggio escatologico di Gesù l'annuncio di un tempo dei gentili, durante il quale il Vangelo deve essere portato in tutto il mondo e a tutti gli uomini: solo dopo, la storia può raggiungere la sua meta. Nel frattempo Israele conserva la propria missione. Sta nelle mani di Dio, che al tempo giusto lo salverà « interamente », quando il numero dei pa- : gani sarà completo. È ovvio e neppure sorprendente che non si potesse calcolare la durata storica di questo periodo. Si rese invece sempre più chiaro che l'evangelizzazione dei pagani ora era diventato il compito per eccellenza dei discepoli - soprattutto grazie all'incarico particolare che Paolo sapeva aver assunto come peso e grazia insieme. In base a ciò si capisce ora anche che questo « tempo dei pagani » non è ancora vero tempo messianico nel senso delle grandi promesse di salvezza, ma, appunto, sempre tempo di questa storia e delle sue sofferenze e, tuttavia, in modo nuo58
vo anche tempo di speranza: «La notte è avanzata, il giorno è vicino » (Km 13,12). Mi sembra ovvio che alcune parabole di Gesù la parabola della rete con i pesci buoni e cattivi (Mi 13,47-50), la parabola della zizzania nel campo (Mt 13,24-39) - parlino di questo tempo della Chiesa. Nella pura prospettiva dell'escatologia immediata non danno alcun senso. Come tema secondario abbiamo trovato l'invito rivolto ai cristiani di fuggire da Gerusalemme nel momento di una non meglio specificata profanazione del tempio. La storicità di questa fuga nella città transgiordana di Pella non può essere seriamente messa in dubbio. Questo dettaglio per noi piuttosto marginale ha, tuttavia, un significato teologico da non sottovalutare: il non partecipare alla difesa armata del tempio, a quell'impresa che rese lo stesso luogo sacro una fortezza e uno scenario di crudeli azioni militari, corrispondeva esattamente alla linea adottata da Geremia durante l'assedio di Gerusalemme da parte dei Babilonesi (cfr ad es. Ger 7,1-15; 38,14-28). Joachim Gnilka fa però notare soprattutto la connessione di questo atteggiamento con il nucleo del messaggio di Gesù: «È altamente improbabile che i credenti in Cristo residenti a Gerusalemme partecipassero alla guerra. Il cristianesimo palestinese ha tramandato il discorso della montagna. Essi quindi devono aver conosciuto i comandamenti di Gesù circa l'amore per i nemici e la rinuncia alla violenza. Sappiamo, inoltre, che non 59
presero parte alla rivolta ai tempi dell'imperatore Adriano...» (Nazarener, p. 69). Un altro elemento essenziale del discorso escatologico di Gesù è l'avvertimento contro gli pseudomessia e contro le fantasticherie apocalittiche. Con ciò si collega l'invito alla sobrietà e alla vigilanza, che Gesù ha sviluppato ulteriormente in alcune parabole, particolarmente in quella delle vergini sagge e delle vergini stolte (Mt 25,1-13), come anche nelle parole sul portiere vigilante (cfr Me 13,33-36). Proprio queste parole dimostrano chiaramente che cosa s'intenda con l'espressione « vigilanza »: non un uscire dal presente, uno speculare sul futuro, un dimenticare il compito attuale - tutt'al contrario, vigilanza significa fare qui e ora la cosa giusta, come si dovrebbe compierla sotto gli occhi di Dio. Matteo e Luca trasmettono la parabola del servo che, constatando il ritardo del ritorno del padrone, ora, sotto l'impressione della sua assenza, erge se stesso a padrone, percuote i servi e le serve e si dà alla baldoria. Il servo buono, invece, rimane servo, sa di dover rendere conto. Egli dà a ciascuno ciò che gli spetta e riceve lode dal padrone perché agisce così: il praticare la giustizia è la vera vigilanza (cfr Mt 24,45-51; Le 12,41-46). Essere vigilanti significa: sapersi ora sotto gli occhi di Dio ed agire come si suole fare sotto i suoi occhi. Nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, in modo drastico e concreto Paolo ha spiegato ai destinatari in che cosa consista la vigilanza: «Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato que60
sta regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra voi vivono una vita disordinata, senza fare nulla e sempre in agitazione. A questi tali, esortandoli nel Signore Gesù Cristo, ordiniamo di guadagnarsi il pane lavorando con tranquillità» (3,10ss). Un ulteriore elemento importante del discorso escatologico di Gesù è l'accenno alle future persecuzioni dei suoi. Anche qui è presupposto il tempo dei pagani, perché il Signore non dice soltanto che i suoi discepoli verranno consegnati a tribunali ed a sinagoghe, ma che verranno portati anche davanti a governatori e re (cfr Me 13,9): l'annuncio del Vangelo starà sempre sotto il segno della croce - è ciò che i discepoli di Gesù in ogni generazione devono imparare nuovamente. La croce è e resta il segno del «Figlio dell'uomo»: la verità e l'amore, nella lotta contro la menzogna e la violenza, non hanno altra arma, in fin dei conti, che la testimonianza della sofferenza. Veniamo ora alla parte propriamente apocalittica del discorso escatologico di Gesù: all'annuncio della fine del mondo, del ritorno del Figlio dell'uomo e del Giudizio universale (cfr Me 13,24-27). Colpisce il fatto che questo testo in gran parte sia intessuto di parole dell'Antico Testamento, in particolare dal Libro di Daniele, ma anche da Ezechiele, Isaia e da altri brani della Scrittura. Questi testi, per parte loro, stanno in collegamento vicendevole: in situazioni difficili, immagini antiche vengono reinterpretate ed ulteriormente sviluppa61
te; all'interno dello stesso Libro di Daniele si può osservare un tale processo di rilettura delle medesime parole nel proseguimento della storia. Gesù si introduce in questo processo della «relecture», e in base a ciò si può anche capire che la comunità dei fedeli - come abbiamo già accennato brevemente - a sua volta leggesse le parole di Gesù attualizzandole secondo le proprie situazioni nuove, naturalmente in modo da conservare il messaggio di fondo. Il fatto, però, che Gesù non con parole sue illustri le cose future, ma con antiche parole profetiche le annunci in modo nuovo, ha un significato più profondo. Dapprima dobbiamo tuttavia far attenzione a ciò che costituisce la novità: il futuro Figlio dell'uomo, di cui Daniele (cfr 7,13s) aveva parlato senza potergli dare caratteristiche personali, è ora identico con il Figlio dell'uomo che adesso sta parlando ai discepoli. Le antiche parole apocalittiche ottengono un centro personalistico: nel loro centro entra la persona stessa di Gesù, che connet- : te intimamente il presente vissuto con il futuro misterioso. Il vero « avvenimento » è la persona in cui, nonostante il passare del tempo, resta realmente il presente. In questa persona l'avvenire è ora presente. Il futuro, in fin dei conti, non ci porrà in una situazione diversa da quella che nell'incontro con Gesù è già realizzata. Così, mediante il centrare le immagini cosmiche in una persona, in una persona attualmente presente e conosciuta, il contesto cosmico diventa secondario e anche la questione cronologica perde di importanza: la persona «è» nello svolgimento 62
delle cose fisicamente misurabili, ha un suo « tempo » proprio, « rimane ». Questa relativizzazione dell'elemento cosmico, o meglio: la sua centratura nella sfera personale, si mostra con particolare chiarezza nella parola finale della parte apocalittica: «Il cielo e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno » (Me 13,31). La parola, quasi un nulla a confronto col potere enorme dell'immenso cosmo materiale, un soffio del momento nella grandezza silenziosa dell'universo - la parola è più reale e più durevole che l'intero mondo materiale. È la realtà vera ed affidabile: il terreno solido sul quale possiamo appoggiarci e che regge anche nell'oscurarsi del sole e nel crollo del firmamento. Gli elementi cosmici passano; la parola di Gesù è il vero «firmamento », sotto il quale l'uomo può stare e restare. Questa centratura personalistica, anzi, questa trasformazione delle visioni apocalittiche, che tuttavia corrisponde all'orientamento interiore delle immagini veterotestamentarie, è la vera specificità nelle parole di Gesù sulla fine del mondo: è ciò che al riguardo conta. In base a questo possiamo anche capire il significato del fatto che Gesù non descrive la fine del mondo, ma l'annuncia con parole già esistenti dell'Antico Testamento. Il parlare dell'avvenire con parole del passato sottrae questo discorso ad ogni connessione cronologica. Non si tratta di una nuova formulazione della descrizione dell'avvenire, come sarebbe da aspettarsi da veggenti, ma si tratta di inserire la visione dell'avvenire nella parola 63
di Dio ormai donata, la cui stabilità, da un lato, e le cui aperte potenzialità, dall'altro, in questo modo si rendono evidenti. Diventa chiaro che la parola di Dio di allora illumina il futuro nel suo significato essenziale. Non dà, però, una descrizione dell'avvenire, ma ci mostra soltanto oggi la via giusta per ora e per domani. Le parole apocalittiche di Gesù non hanno nulla a che fare con la chiaroveggenza. Esse vogliono proprio distoglierci dalla curiosità superficiale per le cose visibili (cfr Le 17,20) e condurci all'essenziale: alla vita sul fondamento della parola di Dio, che Gesù ci dona; all'incontro con Lui, la Parola vivente; alla responsabilità davanti al Giudice dei vivi e dei morti.
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Capitolo 3 LA LAVANDA DEI PIEDI
opo i discorsi d'insegnamento di Gesù, che seguono la relazione sul suo ingresso a Gerusalemme, i Vangeli sinottici riprendono il filo del racconto con una datazione precisa che conduce verso l'ultima cena. All'inizio del 14° capitolo, Marco comincia dicendo: « Mancavano due giorni alla Pasqua e agli Azzimi» (14,1); parla poi dell'unzione a Betània come anche del tradimento di Giuda e quindi continua: « Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: "Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua? "» (14,12). Giovanni invece dice semplicemente: «Prima della festa di Pasqua... Durante la cena...» (13,ls). La cena, di cui parla Giovanni, ha luogo « prima della Pasqua », mentre i sinottici presentano l'ultima cena come cena pasquale, partendo così apparentemente da una datazione diversa di un giorno rispetto a Giovanni. Dovremo tornare alle questioni molto discusse che riguardano queste cronologie differenti e il loro significato teologico, quando rifletteremo sull'ultima cena di Gesù e sull'istituzione dell'Eucarestia.
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L'ora di Gesù Rimaniamo per il momento con Giovanni che, nel suo rapporto sull'ultima sera di Gesù con i suoi discepoli prima della passione, sottolinea due fatti del tutto particolari: innanzitutto ci racconta come Gesù abbia reso ai suoi discepoli il servizio da schiavo della lavanda dei piedi; in questo contesto riferisce anche del preannuncio del tradimento di Giuda e del rinnegamento di Pietro. Il secondo aspetto consiste nei discorsi di addio di Gesù, che giungono al loro culmine nella grande Preghiera sacerdotale. A questi due fulcri rivolgeremo ora la nostra attenzione. « Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine » (13,1). Con l'ultima cena è arrivata « l'ora » di Gesù, verso la quale il suo operare era orientato fin dall'inizio (cfr 2,4). L'essenziale di questa ora è delineato da Giovanni con due parole fondamentali: è l'ora del « passaggio» (metabainein - meiàbasis); è l'ora dell'amore (agape) « sino alla fine ». Le due espressioni si spiegano a vicenda, sono inscindibili l'una dall'altra. L'amore stesso è il processo del passaggio, della trasformazione, dell'uscire dai limiti della condizione umana votata alla morte, nella quale siamo tutti separati gli uni degli altri e in fondo impenetrabili gli uni agli altri - in un'alterità che non possiamo oltrepassare. È1 'amore sino alla fine che opera la «metàbasis» apparentemente impossibile: l'uscire dalle barrie66
re dell'individualità chiusa, che appunto è Vagape - l'irruzione nella sfera divina. L'« ora » di Gesù è l'ora del grande « passo oltre», della trasformazione, e questa metamorfosi dell'essere avviene tramite Yagape. È un'agape « sino alla fine» - espressione con cui Giovanni, a questo punto, rimanda in anticipo all'ultima parola del Crocifisso: «È compiuto - tetélestai» (19,30). Questa fine (télos), questa totalità del donarsi, della metamorfosi dell'intero essere è, appunto, il donare se stesso fino alla morte. Se Gesù qui, come anche altre volte nel Vangelo di Giovanni, parla del suo essere uscito dal Padre e del suo ritorno a Lui, ciò potrebbe suscitare il ricordo dell'antico schema dell'exitus e reditus, dell'uscita e del ritorno, come è stato elaborato specialmente nella filosofia di Plotino. L'uscire e , tornare illustrato da Giovanni, però, è totalmente diverso da ciò che è pensato nello schema filosofico. Poiché in Plotino come nei suoi seguaci, 1'«uscire», che lì prende il posto dell'atto divino della creazione, è una discesa che alla fine diventa un declino: dall'elevatezza dell'« unico » in giù verso zone sempre più basse dell'essere. Il ritorno consiste poi nella purificazione dalla sfera materiale, in una graduale risalita e in purificazioni che tolgono ciò che è inferiore e infine riconducono nell'unità del divino. L'uscire di Gesù invece presuppone innanzitutto la creazione non come declino, ma come atto positivo della volontà di Dio. È poi un processo dell'amore che, proprio nella discesa, dimostra la 67
sua vera natura - per amore verso la creatura, per amore verso la pecorella smarrita - rivelando così nel discendere ciò che è veramente divino. E il Gesù di ritorno non si sbarazza affatto della sua umanità come se fosse una cosa contaminante. Lo scopo della sua discesa era di accettare e di accogliere l'umanità intera, il ritorno insieme con tutti gli uomini - il ritorno di « ogni carne ». In questo ritorno si realizza una novità: Gesù non ritorna da solo. Non abbandona la carne, ma attira tutti a sé (cfr Gv 12,32). La metàbasis vale per la totalità. Se nel primo capitolo del Vangelo di Giovanni si dice che i «suoi» (idioi) non hanno accolto Gesù (cfr 1,11), sentiamo ora che Egli ha amato i «suoi» sino alla fine (cfr 13,1). Nella discesa Egli ha nuovamente raccolto i « suoi » - la grande famiglia di Dio - facendoli da stranieri diventare «suoi». Ascoltiamo ora come l'evangelista continua: Gesù « si alzò da tavola, depose le vesti, prese un asciugamano e se lo cinse attorno alla vita. Poi versò dell'acqua nel catino e cominciò a lavare i piedi dei discepoli e ad asciugarli con l'asciugamano di cui si era cinto » (Gv 13,4s). Gesù rende ai suoi discepoli il servizio dello schiavo, «umilia se stesso» (F/Z 2,7). Ciò che la Lettera ai Filippesi dice nel suo grande inno cristologico - che cioè in un gesto contrario a quello di Adamo, che aveva tentato con le proprie forze di allungare la mano verso il divino, Cristo discese invece dalla sua divinità fino a diventare uomo, « assunse la condizione di servo » e si fece 68
obbediente fino alla morte di croce (cfr 2,7s) - tutto ciò è qui reso visibile in un solo gesto. In un atto simbolico, Gesù illustra l'insieme del suo servizio salvifico. Si spoglia del suo splendore divino, si inginocchia, per così dire, davanti a noi, lava ed asciuga i nostri piedi sporchi, per renderci capaci di partecipare al banchetto nuziale di Dio. Se nell'Apocalisse si trova la formulazione paradossale secondo cui i salvati « hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell'Agnello » (7,14), ciò vuol dire: è l'amore di Gesù sino alla fine che ci purifica, ci lava. Il gesto della lavanda dei piedi esprime proprio questo: l'amore servizievole di Gesù è ciò che ci tira fuori dalla nostra superbia e ci rende capaci di Dio, ci rende «puri».
«Voi siete puri» »
Nel brano della lavanda dei piedi la parola « puro» ricorre tre volte. Con ciò Giovanni riprende un concetto fondamentale della tradizione dell'Antico Testamento, come pure del mondo delle religioni in genere. Per poter comparire davanti a Dio, entrare in comunione con Dio, l'uomo deve essere «puro». Ma quanto più entra nella luce, tanto più si sente sporco e bisognoso di purificazione. Per questo le religioni hanno creato sistemi di « purificazione » con lo scopo di dare all'uomo la possibilità dell'accesso a Dio. Nelle norme cultuali di tutte le religioni i precetti di purificazione hanno un ruolo importante: 69
danno all'uomo un'idea della santità di Dio come anche della propria oscurità, da cui deve essere liberato per potersi avvicinare a Dio. Nel giudaismo osservante dei tempi di Gesù, il sistema delle purificazioni cultuali dominava tutta la vita. Nel capitolo 7 del Vangelo di Marco incontriamo la fondamentale presa di posizione di Gesù di fronte a questo concetto di purezza cultuale realizzata mediante adempimenti rituali; Paolo, nelle sue Lettere, ha dovuto ripetutamente affrontare tale questione circa la « purezza » davanti a Dio. In Marco vediamo la svolta radicale che Gesù ha dato al concetto di purezza davanti a Dio: non sono azioni rituali che purificano. Purezza ed impurità si realizzano nel cuore dell'uomo e dipendono dalla condizione del suo cuore (cfr Me 7,14-23). Ma sorge subito la domanda: come diventa puro il cuore? Chi sono gli uomini dal cuore puro, che possono vedere Dio (cfr Mt 5,8)? L'esegesi liberale ha detto che Gesù avrebbe sostituito la concezione rituale della purità con quella morale: al posto del culto e del suo mondo subentrerebbe la morale. Allora il cristianesimo sarebbe essenzialmente una morale, una specie di «riarmo» etico. Ma con ciò non si rende giustizia alla novità del Nuovo Testamento. La vera novità si intravvede, quando negli Atti degli Apostoli Pietro prende posizione di fronte all'obiezione di farisei convertiti alla fede in Cristo, che chiedono di circoncidere i cristiani provenienti dal paganesimo e di « ordinare loro di osservare la legge di Mose ». A questo Pietro replica: Dio stesso ha preso la decisione che «i pagani 70
ascoltino la parola del Vangelo e vengano alla fede ... Non ha fatto alcuna discriminazione tra noi e loro, purificando i loro cuori con la fede» (15,511). La fede purifica il cuore. Essa deriva dal volgersi di Dio verso l'uomo. Non è semplicemente ima decisione autonoma degli uomini. La fede nasce, perché le persone vengono toccate interiormente dallo Spirito di Dio, che apre il loro cuore e lo purifica. Giovanni ha ripreso ed approfondito questo grande tema della purificazione, accennato solo brevemente nel discorso di Pietro, nel racconto della lavanda dei piedi e, sotto la parola-chiave di « santificazione», nella Preghiera sacerdotale di Gesù. « Voi siete già puri, per la parola che vi ho annunziato », dice Gesù, nel discorso sulla vite, ai suoi discepoli (15, 3). È la sua parola che penetra in loro, trasforma il loro pensiero e la loro volontà, il loro «cuore» e lo apre in modo che diventi un cuore che vede. Nella riflessione sulla Preghiera sacerdotale incontreremo nuovamente, anche se in una prospettiva leggermente diversa, la stessa visione, quando lì troveremo la domanda di Gesù: « Consacrali nella verità» (17,17). «Consacrare» nella terminologia sacerdotale vuol dire: abilitare al culto. La parola designa gli atti rituali, che il sacerdote deve compiere prima di presentarsi davanti a Dio. « Consacrali nella verità » - la verità è ora il « lavacro» che rende gli uomini capaci di Dio: è questo che Gesù ci fa qui capire. In essa l'uomo deve essere immerso, affinché sia liberato dallo sporco 71
che lo separa da Dio. Al riguardo, non dobbiamo dimenticare che Giovanni non prende in considerazione un concetto astratto di verità; egli sa che Gesù è la verità in persona. Nel 13° capitolo del Vangelo di Giovanni, la lavanda dei piedi attuata da Gesù appare come la via di purificazione. Un'altra volta viene espressa la stessa cosa, ma di nuovo da un'altra angolatura. Il lavacro che ci purifica è l'amore di Gesù - l'amore che si spinge fino alla morte. La parola di Gesù non è soltanto parola, ma è Lui stesso. E la sua parola è la verità ed è l'amore. In fondo è assolutamente la stessa cosa che Paolo esprime in modo per noi più difficile da capire, quando dice che siamo « giustificati nel suo sangue » (Km 5,9; cfr Rm 3,25; Ef 1,7 e altrove). Ed è ancora la stessa cosa che la Lettera agli Ebrei ha illustrato nella sua grande visione del sommo sacerdozio di Gesù. Al posto della purezza rituale non è semplicemente subentrata la morale, ma il dono dell'incontro con Dio in Gesù Cristo. S'impone nuovamente il confronto con le filosofie platoniche della tarda antichità, che girano - come ancora, per esempio, in Plotino - intorno al tema della purificazione. Questa purificazione si raggiunge, da una parte, mediante i riti, dall'altra e soprattutto, mediante la graduale ascesa dell'uomo verso le altezze di Dio. In tal modo l'uomo si purifica dalla componente materiale, diventa spirito e quindi puro. Nella fede cristiana, invece, è proprio il Dio 72
incarnato che ci purifica veramente ed attira il creato nell'unità con Dio. La devozione dell'Ottocento ha poi di nuovo reso unilaterale il concetto di purezza, l'ha ridotto sempre di più alla questione dell'ordine nell'ambito sessuale, inquinandolo così anche nuovamente col sospetto nei confronti della sfera materiale, del corpo. Nella diffusa aspirazione dell'umanità alla purezza, il Vangelo di Giovanni - Gesù stesso - ci indica la via: Egli, che è Dio e insieme Uomo, ci rende capaci di Dio. Lo stare nel suo corpo, l'essere penetrati dalla sua presenza è la cosa essenziale. Forse è utile far notare a questo punto che la trasformazione del concetto di purezza nel messaggio di Gesù dimostra ancora una volta ciò che, nel 2° capitolo, abbiamo visto riguardo alla fine dei sacrifici di animali, riguardo al culto e al nuovo tempio. Come gli antichi sacrifici erano un protendersi in atteggiamento di attesa verso l'avvenire, come essi ricevevano la loro luce e la loro dignità da quell'avvenire verso il quale erano orientati, così anche le usanze rituali di purificazione, che appartenevano a questo culto, erano insieme con esso - come avrebbero detto i Padri - «sacramentum futuri»: una tappa nella storia di Dio con gli uomini o degli uomini con Dio - una tappa che voleva creare un'apertura verso l'avvenire, ma che doveva cedere il passo, essendo arrivata l'ora della novità.
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Sacramentum ed exemplum - dono e compito: il «nuovo comandamento» Ritorniamo al 13° capitolo del Vangelo di Giovanni. « Voi siete puri », dice Gesù ai suoi discepoli. Il dono della purezza è un atto di Dio. L'uomo da sé non può rendersi capace di Dio, a qualunque sistema di purificazione egli si attenga. «Voi siete puri » - in questa parola meravigliosamente semplice di Gesù è espressa, in modo quasi riassuntivo, la sublimità del mistero di Cristo. Il Dio che discende verso di noi ci rende puri. La purezza è un dono. Ma allora sorge un'obiezione. Pochi versetti più avanti, Gesù dice: « Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato, i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi » (Gv 13,14s). - Non siamo forse con ciò, di fatto, arrivati ad una concezione solamente morale del cristianesimo? In realtà, Rudolf Schnackenburg, ad esempio, parla di due interpretazioni tra di loro contrastanti della lavanda dei piedi nello stesso 13° capitolo: la prima « teologicamente più profonda ... comprende la lavanda dei piedi come un avvenimento simbolico che indica la morte di Gesù; la seconda è di carattere puramente paradigmatico e si ferma al servizio d'umiltà di Gesù costituito dalla lavanda dei piedi » (Johannesevangelium III, p. 7). Schnackenburg sostiene che la seconda interpretazione sarebbe una « creazione della redazione », tanto più che, secondo lui, « la seconda interpretazione sembra ignorare la 74 /
prima» (p. 12; cfr p. 28). Ma questo è un pensiero troppo limitato, troppo secondo lo schema della nostra logica occidentale. Per Giovanni, il dono di Gesù e la sua perdurante efficacia nei discepoli vanno insieme. I Padri hanno riassunto la differenza dei due aspetti come anche le loro reciproche relazioni nelle categorie di sacramentum ed exemplum: con sacramentum non intendono qui un determinato singolo sacramento, ma l'intero mistero di Cristo - della sua vita e della sua morte - nel quale Egli viene incontro a noi esseri umani, mediante il suo Spirito entra in noi e ci trasforma. Ma proprio perché questo sacramentum veramente «purifica» l'uomo, lo rinnova dal di dentro, esso diventa anche la dinamica di una nuova esistenza. La richiesta di fare ciò che ha fatto Gesù non è un'appendi-' ce morale al mistero o addirittura qualcosa di contrastante con esso. Questa richiesta deriva dalla dinamica intrinseca del dono, col quale il Signore ci rende uomini nuovi e ci accoglie in ciò che è suo. Questa dinamica essenziale del dono, per la quale Egli stesso ora opera in noi e il nostro operare diventa una cosa sola con il suo, appare in modo particolarmente chiaro nella parola di Gesù: « Chi crede in me, anch'egli compirà le opere che io compio e ne compirà di più grandi di queste, perché io vado al Padre» (Gv 14,12). Qui è espresso proprio ciò che la parola: «Vi ho dato un esempio » nella lavanda dei piedi vuol dire: l'agire di Gesù diventa nostro, perché è Lui stesso che agisce in noi. 75
A partire da questo si capisce poi anche il discorso sul « nuovo comandamento » col quale, dopo l'intermezzo sul tradimento di Giuda, Gesù riprende ancora l'invito alla vicendevole lavanda dei piedi, elevandolo a principio (13,34s). In che cosa consiste la novità del nuovo comandamento? Poiché qui, in fin dei conti, entra in gioco la novità del Nuovo Testamento, quindi la questione circa « l'essenza del cristianesimo », è molto importante ascoltare con una particolare attenzione. È stato detto che la novità - al di là del comandamento già esistente dell'amore verso il prossimo - si riveli nella parola dell'« amare come vi ho amato io », nell'amare, cioè, fino alla disponibilità a sacrificare la propria vita per l'altro. Se in questo consistesse l'essenza e la totalità del «nuovo comandamento », allora il cristianesimo, di fatto, sarebbe da definire come una specie di estremo sforzo morale. Così viene, anche da molti interpretato il discorso della montagna: rispetto alla via antica dei Dieci Comandamenti - quella che indichereb- , be, per così dire, la via dell'uomo comune - il cristianesimo inaugurerebbe col discorso della montagna la via alta di un'esigenza radicale, nella quale si sarebbe rivelato un nuovo livello di umanesimo nell'umanità. Ma chi, in realtà, può dire di se stesso di essersi elevato al di sopra della «mediocrità» della via dei Dieci Comandamenti, di esserseli, per così dire, lasciati alle spalle come cosa scontata e di camminare ora sulle vie alte, nella «nuova Legge»? No, la vera novità del comandamento nuovo non può consistere nell'elevatezza della prestazione 76
morale. L'essenziale proprio anche in queste parole non è l'appello alla prestazione somma, ma il nuovo fondamento dell'essere, che ci viene donato. La novità può derivare soltanto dal dono della comunione con Cristo, del vivere in Lui. Agostino, di fatto, aveva cominciato la sua esposizione del discorso della montagna - il suo primo ciclo di omelie dopo la sua ordinazione sacerdotale - con l'idea dell'ethos superiore, delle norme più elevate e più pure. Ma nel corso delle sue omelie il baricentro si sposta sempre di più. Deve ammettere ripetutamente che già l'antica esigenza significava una vera perfezione. Al posto della pretesa superiore subentra in modo sempre più chiaro la preparazione del cuore (cfr De serm. Dom. in monte 119,59); in misura crescente il « cuore puro » (cfr Mi 5,8) diventa il centro dell'interpretazione. Oltre la metà dell'intero ciclo di omelie è sviluppata col pensiero di fondo del cuore purificato. Così in modo sorprendente si rende visibile la connessione con la lavanda dei piedi: solo se ci lasciamo ripetutamente lavare, « rendere puri» dal Signore stesso, possiamo imparare a fare insieme con Lui ciò che Egli ha fatto. Ciò che conta è l'inserimento del nostro io nel suo (« non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me»: Gal 2, 20). Per questo la seconda parola-chiave, che ricorre spesso nell'interpretazione di Agostino del discorso della montagna, è la parola «misericordia». Dobbiamo lasciarci immergere nella misericordia del Signore; allora anche il nostro «cuore» troverà la via giusta. Il «comandamento nuovo » non è semplicemente un'esigenza 77
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nuova e superiore: esso è legato alla novità di Gesù Cristo - al crescente essere immersi in Lui. Proseguendo su questa linea, Tommaso d'Aquino poteva dire: « La nuova Legge è la grazia dello Spirito Santo» (Summa theol. I-II q 106 a 1) non una norma nuova, ma l'interiorità nuova donata dallo stesso Spirito di Dio. Questa esperienza spirituale della vera novità nel cristianesimo, Agostino alla fine poteva riassumerla nella famosa formula: «Da quod iubes et iube quod vis - concedi quello che comandi e poi comanda quello che vuoi» (Conf. X 29,40). Il dono - il sacramentum - diventa exemplum, esempio, e rimane tuttavia sempre dono. Essere cristiani è innanzitutto un dono, che però poi si sviluppa nella dinamica del vivere ed agire insieme con questo dono. Il mistero del traditore La pericope della lavanda, dei piedi ci mette di fronte a due differenti forme di reazione dell'uomo a questo dono: Giuda e Pietro. Subito dopo aver accennato all'esempio, Gesù comincia a parlare del caso di Giuda. Giovanni ci riferisce, al riguardo, che Gesù fu profondamente turbato e dichiarò: « In verità, in verità io vi dico: uno di voi mi tradirà» (13,21). Tre volte Giovanni parla del « turbamento » ovvero della « commozione » di Gesù: presso il sepolcro di Lazzaro (cfr 11,33.38); la «Domenica delle Palme » dopo la parola sul chicco di grano morto, in 78 \
una scena che richiama da vicino l'ora del Monte degli ulivi (cfr 12,24-27); e infine qui. Sono momenti in cui Gesù incontra la maestà della morte ed è toccato dal potere delle tenebre - un potere che è suo compito combattere e vincere. Ritorneremo a questa « commozione » dell'anima di Gesù, quando rifletteremo sulla notte del Monte degli ulivi. Torniamo al nostro testo. L'annuncio del tradimento suscita comprensibilmente agitazione e, al contempo, curiosità tra i discepoli. «Uno dei discepoli, quello che Gesù amava, si trovava a tavola al fianco di Gesù. Simon Pietro gli fece cenno di informarsi chi fosse quello di cui parlava. Ed egli, chinandosi sul petto di Gesù, gli disse: " Signore, chi è? " Rispose Gesù: "È colui per il quale intingerò un boccone e glielo darò "» (13,23ss). Per la comprensione di questo testo bisogna anzitutto tener conto del fatto che per la cena pasquale era prescritto lo stare adagiati a tavola. Charles K. Barrett spiega il versetto appena citato così: « I partecipanti ad una cena stavano sdraiati sulla loro sinistra; il braccio sinistro serviva a sostenere il corpo; quello destro era libero per essere usato. Il discepolo alla destra di Gesù aveva quindi il suo capo immediatamente davanti a Gesù, e si poteva conseguentemente dire che era adagiato presso il suo petto. Ovviamente era in grado di parlare in confidenza con Gesù, ma il suo non era il posto d'onore più alto; questo era situato a sinistra dell'ospitante. Il posto occupato dal discepolo amato era nondimeno il posto di un intimo amico »; Barrett fa notare in questo contesto che esiste una descrizione parallela in Plinio (p. 437). 79
Così come è qui riportata, la risposta di Gesù è totalmente chiara. Ma l'evangelista ci fa sapere che, tuttavia, i discepoli non capirono a chi si riferiva. Possiamo quindi supporre che Giovanni, ripensando all'evento, abbia dato alla risposta una evidenza che essa per i presenti, sul momento, non aveva. Il versetto 18 ci mette sulla giusta traccia. Qui Gesù dice: « Deve compiersi la Scrittura: Colui che mangia il mio pane, ha alzato contro di me il suo calcagno» (cfr Sai 41,10; Sai 55,14). È questo lo stile caratteristico del parlare di Gesù: con parole della Scrittura Egli allude al suo destino, inserendolo allo stesso tempo nella logica di Dio, nella logica della storia della salvezza. Successivamente tali parole diventano totalmente trasparenti; si rende chiaro che la Scrittura descrive veramente il suo cammino - ma sul momento rimane l'enigma. Inizialmente se ne arguisce soltanto che colui che tradirà Gesù è uno dei commensali; diventa evidente che il Signore deve subire sino alla fine e fin nei particolari il destino di sofferenza del giusto, un destino che appare in molteplici modi soprattutto nei Salmi. Gesù deve sperimentare l'incomprensione, l'infedeltà fino all'interno del cerchio più intimo degli amici e così « compiere la Scrittura ». Egli si rivela come il vero soggetto dei Salmi, come il «Davide», dal quale essi provengono e mediante il quale acquistano senso. Giovanni, scegliendo al posto dell'espressione usata nella Bibbia greca per «mangiare» la parola trógein con cui Gesù nel suo grande discorso sul pane indica il « mangiare » il suo corpo e sangue, 80
cioè il ricevere il Sacramento eucaristico (cfr Gv 6, 54-58), ha aggiunto una nuova dimensione alla parola del Salmo ripresa da Gesù come profezia sul proprio cammino. Così la parola del Salmo getta anticipatamente la sua ombra sulla Chiesa che celebra l'Eucaristia, nel tempo dell'evangelista come in tutti i tempi: con il tradimento di Giuda la sofferenza per la slealtà non è finita. «Anche l'amico in cui confidavo, che con me divideva il pane, contro di me alza il suo piede» (Sai 41,10). La rottura dell'amicizia giunge fin nella comunità sacramentale della Chiesa, dove sempre di nuovo ci sono persone che prendono « il suo pane » e lo tradiscono. La sofferenza di Gesù, la sua agonia, perdura sino alla fine del mondo, ha scritto Pascal in base a tali considerazioni (cfr Pensées, VII 553). Possiamo esprimerlo anche dal punto di vista opposto: Gesù in quell'ora si è caricato del tradimento di tutti i tempi, della sofferenza che viene in ogni tempo dall'essere traditi, sopportando così fino in fondo le miserie della storia. Giovanni non ci dà alcuna interpretazione psicologica dell'agire di Giuda; l'unico punto di riferimento che ci offre è l'accenno al fatto che Giuda, come tesoriere del gruppo dei discepoli, avrebbe sottratto il loro denaro (cfr 12,6). Quanto al contesto che ci interessa, l'evangelista dice soltanto laconicamente: «Allora, dopo quel boccone, satana entrò in lui »(13,27). Ciò che a Giuda è accaduto per Giovanni non è più psicologicamente spiegabile. E finito sotto il 81
dominio di qualcun altro: chi rompe l'amicizia con Gesù, chi si scrolla di dosso il suo « dolce giogo », non giunge alla libertà, non diventa libero, ma diventa invece schiavo di altre potenze - o piuttosto: il fatto che egli tradisce questa amicizia deriva ormai dall'intervento di un altro potere, al quale si è aperto. Tuttavia, la luce che, provenendo da Gesù, era caduta nell'anima di Giuda, non si era spenta del tutto. C'è un primo passo verso la conversione: « Ho peccato », dice ai suoi committenti. Cerca di salvare Gesù e rida il denaro (cfr Mt 27,3ss). Tutto ciò che di puro e di grande aveva ricevuto da Gesù, rimaneva iscritto nella sua anima - non poteva dimenticarlo. La seconda sua tragedia - dopo il tradimento è che non riesce più a credere ad un perdono. Il suo pentimento diventa disperazione. Egli vede ormai solo se stesso e le sue tenebre, non vede più la luce di Gesù - quella luce che può illuminare e superare anche le tenebre. Ci fa così vedere il modo errato del pentimento: un pentimento che non riesce più a sperare, ma vede ormai solo il proprio buio, è distruttivo e non è un vero pentimento. Fa parte del giusto pentimento la certezza della speranza - una certezza che nasce dalla fede nella potenza maggiore della Luce fattasi carne in Gesù. Giovanni conclude il brano su Giuda in modo drammatico con le parole: « Egli, preso il boccone, subito uscì. Ed era notte» (13,30). Giuda esce fuori - in un senso più profondo. Entra nella notte, va via dalla luce verso il buio; il «potere delle tenebre » lo ha afferrato (cfr Gv 3,19; Le 22,53). 82
Due colloqui con Pietro In Giuda incontriamo il pericolo che pervade tutti i tempi, il pericolo cioè che anche chi «è stato una volta illuminato, ha gustato il dono celeste ed è diventato partecipe dello Spirito Santo » (cfr Eb 6,4), attraverso una serie di forme apparentemente minute di infedeltà, decada spiritualmente e così alla fine, uscendo dalla luce, entri nella notte e non sia più capace di conversione. In Pietro vediamo un'altra specie di minaccia, anzi di caduta, che però non diventa diserzione e può quindi essere risanata mediante la conversione. Giovanni 13 ci riferisce di due colloqui tra Gesù e Pietro, nei quali emergono due lati del pericolo. Inizialmente Pietro non vuole lasciarsi lavare i piedi da Gesù. Ciò contrasta con la sua idea della relazione tra maestro e discepolo, contrasta con la sua immagine del Messia, che egli ha individuato in Gesù. La sua resistenza contro la lavanda dei piedi ha in fondo lo stesso significato che la sua obiezione contro l'annuncio che Gesù fa della sua passione dopo la professione presso Cesarea di Filippo : « Dio te ne scampi - aveva detto allora questo non ti accadrà mai» (Mi 16,22). Ora in base alla stessa visione dice: « Non mi laverai mai i piedi! » (Gv 13,8). È l'obiezione a Gesù, che pervade tutta la storia: Tu sei il vincitore! Tu possiedi il potere! Il tuo abbassamento, la tua umiltà sono inammissibili! E sempre Gesù deve aiutarci a capire nuovamente che il potere di Dio è diverso, che attraverso la sofferenza il Messia deve entrare nella gloria e guidare alla gloria. 83
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Nel secondo colloquio, dopo che Giuda è uscito e il nuovo comandamento è stato proclamato, tema diventa il martirio. Esso appare sotto la parolachiave «andarsene», «andare verso» (hypagó). Secondo Giovanni, in due circostanze Gesù aveva parlato del suo « andarsene » là dove i Giudei non potevano venire (cfr 7,34ss; 8,21s). I suoi ascoltatori avevano cercato di indovinarne il significato e avevano enunciato due ipotesi. In un caso dicevano: « Andrà forse da quelli che sono dispersi fra i Greci e insegnerà ai Greci?» ( 7,35). L'altra ipotesi era: «Vuole forse uccidersi?» (8,22). In ambedue i casi hanno il presentimento della cosa giusta, e tuttavia mancano radicalmente la verità. Sì, il suo andare è un andare nella morte - non nel senso di uccidere se stesso, ma di trasformare la sua morte violenta nella libera donazione della propria vita (cfr 10,18). E così Gesù, anche se non è andato personalmente in Grecia, attraverso la croce e la risurrezione è effettivamente giunto presso i Greci e ha manifestato al mondo pagano il Padre, il Dio vivente. Nell'ora della lavanda dei piedi, nell'atmosfera dell'addio che caratterizza la situazione, Pietro domanda apertamente al Maestro: « Signore, dove vai? » E ancora una volta riceve una risposta cifrata: « Dove io vado, tu per ora non puoi seguirmi; mi seguirai più tardi» (13,36). Pietro capisce che Gesù parla della sua morte imminente e vuole quindi sottolineare la sua fedeltà radicale fino alla morte: «Perché non posso seguirti ora? Darò la mia vita per te! » (13,37). Di fatto, sul Monte degli ulivi, determinato a porre in atto il suo proposito, 84
si intrometterà poi usando la spada. Ma egli deve apprendere che anche il martirio non è una prestazione eroica, bensì dono grazioso della capacità di soffrire per Gesù. Egli deve distaccarsi dall'eroismo delle proprie azioni ed imparare l'umiltà del discepolo. La sua volontà di menar le mani, il suo eroismo finisce nel rinnegamento. Per assicurarsi il posto vicino al fuoco nel cortile del palazzo del sommo sacerdote ed essere possibilmente informato circa gli ultimi sviluppi della vicenda di Gesù, egli asserisce di non conoscerlo. Il suo eroismo è crollato in una forma meschina di tattica. Deve imparare ad aspettare la sua ora; deve imparare l'attesa, la perseveranza. Deve imparare il cammino della sequela, per poi nella sua ora essere portato dove non vuole (cfr Gv 21,18) e ricevere la grazia del martirio. In fondo, in ambedue i colloqui si tratta della stessa cosa: non prescrivere a Dio ciò che Egli deve fare, ma imparare ad accettarLo così come si manifesta a noi; non voler elevare se stessi all'altezza di Dio, ma nell'umiltà del servizio essere pian piano plasmati secondo la vera immagine di Dio.
Lavanda dei piedi e confessione dei peccati Alla fine dobbiamo ancora far attenzione ad un ultimo dettaglio del racconto della lavanda dei piedi. Dopo che il Signore ha spiegato a Pietro la necessità della lavanda dei piedi, questi replica che, se così stanno le cose, Egli dovrebbe lavargli 85
non solo i piedi, ma anche le mani e il capo. La risposta di Gesù, una volta ancora, è enigmatica: « Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto puro » (13,10). Che cosa significa questo? La parola di Gesù suppone ovviamente che i discepoli, prima di andare a cena, avevano fatto un bagno completo e ora a tavola occorreva loro soltanto una lavanda dei piedi. È chiaro che Giovanni vede in queste parole un senso simbolico più profondo, che non è facile individuare. Teniamo innanzitutto presente che la lavanda dei piedi - come abbiamo visto - non è un sacramento particolare, ma significa la totalità del servizio salvifico di Gesù: il sacramentum del suo amore, nel quale Egli ci immerge nella fede e che è il vero lavacro di purificazione per l'uomo. Ma in questo contesto la lavanda dei piedi acquista, tuttavia, al di là del suo simbolismo essenziale ancora un significato più concreto, che rimanda alla prassi della vita della Chiesa primitiva. Di che cosa si tratta? Il «bagno completo » presupposto non può riferirsi che al battesimo, col quale l'uomo una volta per tutte è immerso in Cristo e riceve la sua nuova identità dell'essere in Cristo. Questo processo fondamentale, per mezzo del quale non noi ci facciamo cristiani, ma diventiamo cristiani grazie all'azione del Signore nella sua Chiesa, è irripetibile. Ma nella vita dei cristiani - per la comunione conviviale col Signore - tale processo, tuttavia, ha sempre di nuovo bisogno di un'integrazione: la «lavanda dei piedi». Di che cosa si tratta? Non esiste una risposta assoluta86
mente sicura. Ma mi sembra che la Prima Lettera di Giovanni ci metta sulla traccia giusta e ci indichi qual è il significato. Lì si legge: «Se diciamo di essere senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli è fedele e giusto tanto da perdonarci i peccati e purificarci da ogni iniquità. Se diciamo di non avere peccato, facciamo di lui un bugiardo e la sua parola non è in noi» (l,8ss). Poiché anche i battezzati rimangono peccatori, hanno bisogno della confessione dei peccati che «ci purifica da ogni iniquità ». La parola « purificare » crea la connessione interiore con la pericope della lavanda dei piedi. Lo stesso esercizio della confessione dei peccati, proveniente dal giudaismo, è testimoniato pure nella Lettera di san Giacomo (5,16) e nella stessa Didache. In questa leggiamo: « Nella comunità devi confessare i tuoi peccati » (4,14), ed ancora: « Nel Giorno del Signore dovete riunirvi, spezzare il pane e ringraziare, dopo aver prima confessato i vostri peccati» (14,1). Franz Mufiner, aderendo a Rudolf Knopf, commenta: «In ambedue i testi si pensa ad una pubblica confessione del singolo » (Jakobusbrief, p. 226, nota 5). Sicuramente in questa confessione dei peccati, che comunque nell'ambito d'influsso del giudeo-cristianesimo faceva parte della vita delle comunità delle origini cristiane, non si può individuare il sacramento della Penitenza nel senso di come esso si è sviluppato nel corso della storia della Chiesa, ma di certo « una tappa verso di esso» {ibid., p. 226). In fin dei conti, il nucleo è questo: la colpa non 87
deve continuare a suppurare nascostamente nell'anima, avvelenandola così dall'interno. Essa ha bisogno della confessione. Mediante la confessione la portiamo alla luce, la esponiamo all'amore purificatore di Cristo (cfr Gv 3, 20s). Nella confessione il Signore lava sempre di nuovo i nostri piedi sporchi e ci prepara alla comunione conviviale con Lui. p Con uno sguardo retrospettivo sull'insieme del capitolo della lavanda dei piedi possiamo dire che in questo gesto di umiltà, in cui si rende visibile la totalità del servizio di Gesù nella vita e nella morte, il Signore sta di fronte a noi come il servo di Dio - come Colui che per noi si è fatto servo, che porta il nostro peso donandoci così la vera purezza, la capacità di avvicinare Dio. Nel secondo carme del Servo di YHWH nel profeta Isaia si trova una frase che in certo modo anticipa la linea di fondo della teologia giovannea della passione: Il Signore «mi ha detto: Mio servo tu sei, sul quale manifesterò la mia gloria [nei LXX: doxasthésomai]» (cfr 49,3). Questa connessione tra il servizio umile e la gloria (dóxa) è il nucleo di tutto il racconto della passione in san Giovanni: proprio nell'abbassamento di Gesù, nella sua umiliazione fino alla croce traspare la gloria di Dio, viene glorificato Dio Padre e, in Lui, Gesù. Una piccola vicenda nella « Domenica delle Palme » - si potrebbe qualificarla come la versione giovannea del racconto del Monte degli ulivi - riassume tutto ciò: «"Adesso l'anima mia è turbata; che cosa dirò? Padre, salva«
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mi da quest'ora? Ma proprio per questo sono giunto a quest'ora! Padre, glorifica il tuo nome! " Venne allora ima voce dal cielo: "L'ho glorificato e lo glorificherò ancora!"» (12, 27s). L'ora della croce è l'ora della vera gloria di Dio Padre e di Gesù. •
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Capitolo 4 LA PREGHIERA SACERDOTALE DI GESÙ lla lavanda dei piedi seguono, nel Vangelo di Giovanni, i discorsi di addio di Gesù (capp. 14-16) che alla fine, nel capitolo 17, sfociano in una grande preghiera, per la quale il teologo luterano David Chytraeus (1530 - 1600) coniò il termine di «Preghiera sacerdotale». Nel tempo dei Padri della Chiesa è stato soprattutto Cirillo dAlessandria (t 444) a sottolineare il carattere sacerdotale della preghiera. André Feuillet cita nella sua monografia su Giovanni 17 un testo di Ruperto di Deutz (t 1129/30), in cui il carattere essenziale della preghiera è riassunto in modo molto bello: « Haec pontifex summus propitiator ipse et propitiatorium, sacerdos et sacrifieium, prò nobis oravit - Così ha pregato per noi il sommo sacerdote, che era Egli stesso propiziatore e offerta di espiazione, sacerdote e sacrificio» (Joanin: PL 169, coli. 764B; cfr Feuillet, p. 35).
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1. L A FESTA GIUDAICA DELL'ESPIAZIONE COME SFONDO BIBLICO DELLA PREGHIERA SACERDOTALE
Ho trovato la chiave per la giusta comprensione di questo grande testo nel già menzionato libro di Feuillet. Egli dimostra che questa preghiera è comprensibile solo sullo sfondo della liturgia della festa giudaica dell'Espiazione (Yom kippùr). Il ri91
tuale della festa con il suo ricco contenuto teologico viene realizzato nella preghiera di Gesù - « realizzato » nel senso letterale: il rito viene tradotto nella realtà che esso significa. Ciò che lì era rappresentato in atti rituali, ora avviene in modo reale e avviene definitivamente. Per capire questo, dobbiamo innanzitutto guardare al rituale della festa dell'Espiazione descritto in Levitico 16 e 23,26-32. In quel giorno, il sommo sacerdote, mediante i rispettivi sacrifici (due capri per un sacrificio espiatorio, un ariete per un olocausto, un giovenco: 16,5s), deve compiere l'espiazione prima per se stesso, poi per «la sua casa», cioè per la classe sacerdotale di Israele in genere, e infine per l'intera comunità di Israele (cfr 16, 17). « Così farà l'espiazione sul santuario per l'impurità degli Israeliti, per le loro trasgressioni e per tutti i loro peccati. Lo stesso farà per la tenda del convegno che si trova fra di loro, in mezzo alle loro impurità » (16,16). Durante questi riti, l'unica volta nell'anno, il sommo sacerdote pronuncia al cospetto di Dio il santo Nome normalmente indicibile, che Dio aveva rivelato presso il roveto ardente - quel Nome, mediante il quale Egli si era reso, per così dire, tangibile per Israele. Lo scopo del grande giorno dell'Espiazione è quindi di ridare a Israele, dopo le trasgressioni di un anno, la sua qualità di « popolo santo », di ricondurlo nuovamente alla sua destinazione di essere il popolo di Dio in mezzo al mondo (cfr Feuillet p. 56 e 78). In questo senso si tratta di ciò che è l'intento più intimo della creazione nel suo insieme: di dar origine ad uno spa92
zio di risposta all'amore di Dio, alla sua santa volontà. Secondo la teologia rabbinica, infatti, l'idea dell'alleanza, l'idea di creare un popolo santo come « interlocutore » di Dio e in unione con Lui precede l'idea della creazione del mondo, ne è anzi l'intima ragione. Il cosmo viene creato non perché ci siano molteplici astri e tante altre cose, ma perché ci sia uno spazio per 1'«alleanza», per il « s ì » dell'amore tra Dio e l'uomo che gli risponde. La festa dell'Espiazione ristabilisce ogni volta quest'armonia, questo senso del mondo disturbato ripetutamente dal peccato, e costituisce perciò il culmine dell'anno liturgico. La struttura del rito descritto in Levitico 16 è precisamente ripresa nella preghiera di Gesù: come il sommo sacerdote compie l'espiazione per sé, per la classe sacerdotale e per l'intera comunità di Israele, così Gesù prega per se stesso, per gli apostoli e infine per tutti coloro che, a causa della loro parola, successivamente avrebbero creduto in Lui - per la Chiesa di tutti i tempi (cfr Gv 17,20). Egli santifica « se stesso » e procura santità ai suoi. Sul fatto che in ciò - nonostante la delimitazione nei confronti del «mondo» (cfr 17,9) - si tratti in fin dei conti della salvezza di tutti, della « vita del mondo» nella sua totalità (cfr 6, 51), dovremo ancora riflettere. La preghiera di Gesù Lo manifesta come il sommo sacerdote del grande giorno dell'Espiazione. La sua croce e il suo innalzamento costituiscono il giorno dell'Espiazione del mondo, in cui l'intera storia del mondo, contro tutta la col93
pa umana e tutte le sue distruzioni, trova il suo senso, viene introdotta nel suo vero « perché » e « dove ». A questo riguardo la teologia di Giovanni 17 corrisponde perfettamente a ciò che la Lettera agli Ebrei sviluppa nel dettaglio. L'interpretazione del culto veterotestamentario nella prospettiva di Gesù Cristo, presentata in essa, è anche l'anima della preghiera di Giovanni 17. Ma anche la teologia di san Paolo si orienta verso questo centro che, nella Seconda Lettera ai Corinzi, si fa sentire nella forma di ima drammatica implorazione: « Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio! » (5,20). E non è forse vero che l'essere gli uomini non riconciliati con Dio, con il Dio silenzioso, misterioso, apparentemente assente e tuttavia onnipresente, costituisce il problema essenziale di tutta la storia del mondo? La Preghiera sacerdotale di Gesù è la messa in atto del giorno dell'Espiazione, è per così dire la festa sempre accessibile della riconciliazione di Dio con gli uomini. A questo punto s'impone la domanda circa la connessione tra la Preghiera sacerdotale di Gesù e l'Eucaristia. Ci sono tentativi di interpretare questa preghiera come una specie di « Preghiera eucaristica », di presentarla, per così dire, come la versione giovannea dell'istituzione del Sacramento. Tali tentativi non sono sostenibili. Ma esiste ima connessione più profonda. Nel parlare di Gesù col Padre, il rituale del giorno dell'Espiazione viene trasformato in pre94
ghiera: qui si rende concreto quel rinnovamento del culto a cui miravano la purificazione del tempio e le parole pronunciate da Gesù per spiegare tale avvenimento. I sacrifici di animali sono superati. Prende il loro posto ciò che i Padri greci chiamavano thysia logike, sacrificio a modo di parola, e che Paolo qualifica molto similmente come logike latreia, come culto modellato sulla parola, corrispondente alla ragione (cfr Rm 12,1). Certo, questa «parola», che prende il posto dei sacrifici, non è semplicemente parola. È anzitutto non solo un parlare umano, ma è parola di Colui che è « la Parola » e quindi trascina tutte le parole umane dentro il dialogo interiore di Dio, nella sua ragione e nel suo amore. Ma ancora per un altro verso è più che parola, perché questa Parola eterna ha detto: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato » (Ebr 10,5; cfr Sai 40,7). La Parola è carne; e di più: è un corpo donato, è sangue versato. Con l'istituzione dell'Eucaristia, Gesù trasforma il suo essere ucciso in « parola », nella radicalità del suo amore che si dona fino alla morte. Così Egli stesso diventa «tempio». In quanto la Preghiera sacerdotale è una forma di messa in atto dell'auto-donazione di Gesù, essa costituisce il nuovo culto ed è dall'interno collegata con l'Eucaristia: quando tratteremo l'istituzione di questo sacramento, dovremo ritornare su tutto ciò. Prima di rivolgere la nostra attenzione ai singoli temi della Preghiera sacerdotale, occorre tuttavia menzionare ancora un altro riferimento all'Antico 95
Testamento, pure questo messo in luce da André Feuillet. Egli rileva che l'approfondimento spirituale e il rinnovamento dell'idea del sacerdozio, incontrati in Giovanni 17, sono già stati compiuti in anticipo nei carmi di Isaia sul Servo di YHWH, specialmente in Isaia 53. Il Servo di YHWH, che carica su di sé l'iniquità di tutti (53, 6), che offre se stesso in espiazione (53,10), che porta il peccato di molti (53, 12), svolge in tutto ciò il ministero del sommo sacerdote, adempie la figura del sacerdozio dal di dentro. È insieme sacerdote e vittima e in questo modo realizza la riconciliazione. Con ciò i carmi del Servo di YHWH riprendono tutto il cammino di approfondimento dell'idea del sacerdozio e del culto, come era già stato fatto nella tradizione profetica, specialmente in Ezechiele. Anche se in Giovanni 17 non si trova alcun riferimento diretto ai carmi del Servo di YHWH, la visione di Isaia 53 è, tuttavia, fondamentale per il nuovo concetto di sacerdozio e culto, che appare nell'intero Vangelo di Giovanni e, particolarmente, nella Preghiera sacerdotale. Abbiamo incontrato tale legame in modo manifesto nel capitolo sulla lavanda dei piedi; appare chiaramente percepibile anche nel discorso sul buon pastore, in cui Gesù per cinque volte dice di questo pastore che egli offre la vita pier le pecore (cfr Gv 10,11.15.17.18ss), riprendendo così in modo evidente Isaia 53. Nella novità della figura di Gesù Cristo - visibile nella rottura esterna col tempio e con i suoi sacrifici - è tuttavia conservata l'intima unità con la storia della salvezza dell'antica alleanza. Se pensiamo alla figura di Mose che, intercedendo 96 4
per la salvezza di Israele, offre a Dio la sua vita, si rende evidente ancora una volta questa unità, la dimostrazione della quale costituisce uno scopo essenziale del Vangelo di Giovanni.
2. QUATTRO GRANDI TEMI DELLA PREGHIERA
Dalla grande ricchezza di Giovanni 17 vorrei ora scegliere quattro temi principali, nei quali appaiono aspetti essenziali di questo testo importante e con ciò del messaggio giovanneo in generale. «Questa è la vita eterna... » C'è innanzitutto il versetto 3: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo ». Il tema «vita» (zòè), che fin dal Prologo (1,4) pervade tutto il Vangelo, appare necessariamente anche nella nuova liturgia dell'espiazione, che si realizza nella Preghiera sacerdotale. La tesi di Rudolf Schnackenburg ed altri, secondo cui questo versetto sarebbe un'aggiunta successiva perché la parola «vita» in Giovanni 17 non ricorre più in seguito, a mio avviso nasce - così come la distinzione delle fonti nel capitolo sulla lavanda dei piedi da quella logica accademica che assume come criterio la forma compositiva di un testo elaborato oggi dagli studiosi per valutare il modo tanto diverso di parlare e di pensare che troviamo nel Vangelo di Giovanni. L'espressione « vita eterna » non significa - co97
me pensa forse immediatamente il lettore moderno - la vita che viene dopo la morte, mentre la vita attuale è appunto passeggera e non una vita eterna. « Vita eterna » significa la vita stessa, la vita vera, che può essere vissuta anche nel tempo e che poi non viene più contestata dalla morte fisica. È ciò che interessa: abbracciare già fin d'ora « la vita », la vita vera, che non può più essere distrutta da niente e da nessuno. Questo significato di «vita eterna» appare in modo molto chiaro nel capitolo sulla risurrezione di Lazzaro: « Chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno» (Gv ll,25s). «Io vivo e voi vivrete», dice Gesù ai suoi discepoli durante l'ultima cena (Gv 14,19), mostrando con ciò ancora una volta che per il discepolo di Gesù è caratterizzante che egli « vive » - che egli quindi, al di là del semplice esistere, ha trovato ed abbracciato la vera vita, della quale tutti sono in ricerca. In base a tali testi, i primi cristiani si sono chiamati semplicemente « i viventi» (hoi zóntes). Essi avevano trovato ciò che tutti cercano: la vita stessa, la vita piena e perciò indistruttibile. Ma come si può giungere a ciò? La Preghiera sacerdotale dà una risposta forse sorprendente, ma nel contesto del pensiero biblico già preparata: la « vita eterna » l'uomo la trova mediante la « conoscenza » - presupponendo con ciò il concetto veterotestamentario di «conoscere», secondo cui conoscere crea comunione, è un essere tutt'uno con il conosciuto. Ma naturalmente non qualunque conoscenza è la chiave della vita, bensì il fatto 98
«che conoscano le, l'unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (17,3). Questa è una specie di formula sintetica della fede, nella quale appare il contenuto essenziale della decisione di essere cristiani - la conoscenza donata a noi dalla fede. Il cristiano non crede una molteplicità di cose. Crede, in fondo, semplicemente in Dio, crede che esiste solo un unico vero Dio. Questo Dio, però, gli si rende accessibile in Colui che Egli ha mandato, Gesù Cristo: nell'incontro con Lui avviene quella conoscenza di Dio che diventa comunione e con ciò diventa «vita». Nella formula duplicata - « Dio e colui che ha mandato » - si può sentire l'eco di ciò che ricorre molte volte soprattutto negli oracoli del Signore presenti nel Libro dell'Esodo: devono credere in « me » - in Dio - e in Mose, il suo inviato. Dio mostra il suo volto nell'inviato - in definitiva nel Figlio suo. « Vita eterna » è quindi un avvenimento relazionale. L'uomo non l'ha acquisita da sé, per se soltanto. Mediante la relazione con Colui che è Egli stesso la vita, anche l'uomo diventa un vivente. Stadi preparatori di questo pensiero profondamente biblico si possono trovare anche in Platone, che ha accolto nella sua opera tradizioni e riflessioni assai diverse sul tema dell'immortalità. Così c'è in lui anche l'idea secondo cui l'uomo può diventare immortale unendo se stesso a ciò che è immortale. Quanto più egli accoglie in sé la verità, si lega alla verità e aderisce ad essa, tanto più vive in riferimento a ciò ed è colmato di ciò che non può essere distrutto. Nella misura in cui, per così 99
dire, attacca se stesso alla verità, nella misura in cui è sostenuto da ciò che permane, egli può essere sicuro della vita dopo la morte - di una vita piena di salvezza. Ciò che qui viene cercato solo a tentoni, appare in magnifica chiarezza nella parola di Gesù. L'uomo ha trovato la vita, quando si attacca a Colui che è Egli stesso la vita. Allora molte cose in lui possono essere distrutte. La morte può toglierlo dalla biosfera, ma la vita che la trascende, la vita vera, quella rimane. In questa vita che, distinguendola dal bios, Giovanni chiama zóe, l'uomo deve inserirsi. È la relazione con Dio in Gesù Cristo che dona quella vita che nessuna morte è in grado di togliere. È ovvio che con questo "vivere in relazione" s'intende un modo dell'esistenza ben concreto; s'intende che fede e conoscenza non sono un qualsiasi sapere presente nell'uomo fra altre cose, ma che costituiscono la forma della sua esistenza. Anche se in questo punto non si parla dell'amore, è tuttavia evidente che la «conoscenza» di Colui che è l'amore stesso diventa amore in tutta la vastità del suo dono e della sua esigenza. «Consacrali nella verità... » In secondo luogo vorrei scegliere il tema della consacrazione e del consacrare - il tema che indica nel modo più forte la connessione con l'evento della riconciliazione e col sommo sacerdozio. Nella preghiera per i discepoli Gesù dice: «Consacrali nella verità; la tua parola è verità... 100
Per loro io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati in verità » (Gv 17,17.19). Dai testi ove sono riferite le dispute di Gesù con i suoi avversari prendiamo ancora un brano che rientra in questo contesto: lì Gesù si qualifica come «colui che il Padre ha consacrato e mandato nel mondo » (10,36). Si tratta quindi di una triplice «consacrazione»: il Padre ha consacrato il Figlio e lo ha mandato nel mondo; il Figlio consacra se stesso e chiede che, a partire dalla sua consacrazione, i discepoli siano consacrati nella verità. Che significa «consacrare»? «Consacrato», cioè « santo » (qadoS nella Bibbia ebraica) nel senso pieno secondo la concezione biblica è solo Dio stesso. Santità è l'espressione usata per esprimere il suo particolare modo d'essere, l'essere divino come tale. Così la parola «santificare, consacrare » significa il trasferimento di una realtà - di una persona o di una cosa - nella proprietà di Dio, specialmente la sua destinazione al culto. Ciò può essere, da una parte, la consacrazione per il sacrificio (cfr Es 13,2; Di 15,19); dall'altra, può significare la consacrazione al sacerdozio (cfr Es 28,41) - la destinazione di un uomo a Dio e al culto divino. Il processo della consacrazione, della « santificazione», comprende due aspetti che apparentemente si oppongono a vicenda, ma in realtà interiormente vanno insieme. Da una parte, « consacrazione » nel senso di « santificazione » è una segregazione dal resto dell'ambiente, appartenente alla vita personale dell'uomo. La cosa consacrata viene elevata in una nuova sfera non più a dispo101
sizione dell'uomo. Ma questa segregazione include allo stesso tempo essenzialmente il «per». Proprio perché donata totalmente a Dio, questa realtà esiste ora per il mondo, per gli uomini, li rappresenta e li deve guarire. Possiamo dire anche: segregazione e missione formano un'unica realtà completa. Questa connessione si rende molto evidente, se pensiamo alla vocazione particolare di Israele: da una parte, il popolo è segregato da tutti gli altri popoli, ma dall'altra, lo è proprio per svolgere un incarico per tutti i popoli, per tutto il mondo. E ciò che s'intende con la qualifica di Israele come « popolo santo». Ritorniamo al Vangelo di Giovanni. Che cosa significano le tre consacrazioni (santificazioni), di cui lì si parla? Innanzitutto ci viene detto che il Padre ha mandato il Figlio nel mondo e lo ha consacrato (cfr 10,36). Che cosa significa? Gli esegeti ci fanno notare che un certo parallelismo con questa frase è rinvenibile nelle parole della vocazione del profeta Geremia: « Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1,5). Consacrazione significa la rivendicazione totale dell'uomo da parte di Dio, la « segregazione » per Lui, che tuttavia è allo stesso tempo una missione per i popoli. Anche nella parola di Gesù, consacrazione e missione sono strettamente connesse l'una con l'altra. Si può dunque dire che questa consacrazione di Gesù da parte del Padre è identica alTincar102
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nazione: esprime insieme l'unità piena col Padre e l'esserci pienamente per il mondo. Gesù appartiene interamente a Dio e proprio per questo è totalmente a disposizione «di tutti». «Tu sei il Santo di Dio », gli aveva detto Pietro nella sinagoga di Cafarnao, offrendo con ciò un'ampia professione cristologica (Gì; 6,69). Ma se il Padre lo ha « consacrato », che cosa significa allora: « Io consacro (hagiàzó) me stesso » (17,19)? È convincente la risposta che Rudolf Bultmann dà a questa domanda nel suo commento a Giovanni: « Qui, nella preghiera di addio nell'immediatezza della passione e in collegamento con Yhypèr autón (per loro), hagiàzó significa un " consacrare" nel senso di "consacrare per il sacrificio"». In questo contesto Bultmann cita, approvandola, una parola di san Giovanni Crisostomo: «Mi consacro - dono me stesso come sacrificio» (Das Evangelium des Johannes, p. 391, nota 3; cfr anche Feuillet, pp. 31 e 38). Mentre la prima «consacrazione » si riferisce all'incarnazione, qui si tratta della passione come sacrificio. Bultmann ha illustrato l'intima connessione tra le due « consacrazioni » in modo molto bello. La consacrazione di Gesù da parte del Padre, la sua « santità », è un « essere per il mondo ossia per i suoi ». Questa santità « non è un essere diverso dal mondo in modo statico, sostanziale, ma è una santità che Egli acquista man mano nel compimento del suo impegno per Dio e contro il mondo. Questo compimento, però, significa sacrificio. Nel sacrificio Gesù è, nel modo che è proprio di Dio, così contro il mondo che al contempo Egli è per esso ».
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[ibid., p. 391). In questa affermazione si può criticare la radicale distinzione tra l'essere sostanziale e il compimento del sacrificio: l'essere « sostanziale » di Gesù è, come tale, totalmente una dinamica de\Y «essere per»', ambedue sono inseparabili. Ma forse anche Bultmann ha voluto dire proprio questo. Bisogna inoltre dargli ragione, quando di questo versetto di Gv 17,19 egli dice che «l'allusione alle parole nell'ultima cena è incontestabile » (ibid., p. 391, nota 3). Così in queste poche parole abbiamo davanti la nuova liturgia dell'espiazione di Gesù Cristo, la liturgia della nuova alleanza, in tutta la sua grandezza e purezza. Gesù stesso è il sacerdote mandato nel mondo dal Padre; Egli stesso è il sacrificio, che si rende presente nell'Eucaristia di tutti i tempi. In qualche modo Filone d'Alessandria aveva intuito in anticipo il giusto significato, quando parlava del Logos come sacerdote e sommo sacerdote (Leg. ali III 82; De somn. I 215; II 183; un accenno anche in Bultmann, ibid.). Il senso della festa dell'Espiazione è pienamente compiuto nel « Verbo » che si è fatto carne « per la vita del mondo» (Gv 6,51). Arriviamo ora alla terza consacrazione di cui si parla nella preghiera di Gesù: «Consacrali nella verità » (17,17). « Io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati in verità» (17,19). I discepoli devono essere coinvolti nella consacrazione di Gesù; anche in loro deve compiersi questo passaggio di proprietà, questo trasferimento nella sfera di Dio e con ciò realizzarsi il loro invio nel 104
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mondo. «Io consacro me stesso, perché siano anch'essi consacrati in verità»: il loro passaggio nella proprietà di Dio, la loro « consacrazione » è legata alla consacrazione di Gesù Cristo, è partecipazione al suo essere consacrato. Tra i due versetti 17 e 19, che parlano della consacrazione dei discepoli, c'è una differenza piccola, ma importante. Nel versetto 19 si dice che essi devono essere consacrati «in verità»: non solo ritualmente, ma veramente, nell'intero loro essere - così, secondo me, è da tradurre questo versetto. Nel versetto 17, invece, si dice: «Consacrali nella verità». Qui la verità è qualificata come forza della santificazione, come « loro consacrazione». Secondo il Libro dell'Esodo la consacrazione sacerdotale dei figli di Aronne si compie mediante la vestizione con gli indumenti sacri e mediante l'unzione (cfr 29,1-9); nel rituale del giorno dell'Espiazione si parla anche di un bagno completo primo di indossare le vesti sacre (cfr Lev 16,4). I discepoli di Gesù vengono santificati, consacrati «nella verità ». La verità è il lavacro che li purifica, la verità è la veste e l'unzione di cui hanno bisogno. Questa « verità » purificatrice e santificatrice, in ultima analisi, è Cristo stesso. In Lui devono essere immersi, di Lui devono essere come « rivestiti », e così sono resi partecipi della sua consacrazione, del suo incarico sacerdotale, del suo sacrificio. Dopo la fine del tempio, il giudaismo anche da parte sua ha dovuto cercare una nuova interpretazione delle prescrizioni cultuali. Esso vedeva ora 105
la «santificazione» nel compimento dei comandamenti - nell'immersione nella parola sacra di Dio e nella volontà di Dio che vi si esprime (cfr Schnackenburg, Johannesevangelium, III, p. 211). Nella fede dei cristiani, Gesù è la Torà in persona, e così la santificazione si realizza nella comunione del volere e dell'essere con Lui. Se con la consacrazione dei discepoli nella verità si tratta in ultima analisi della partecipazione alla missione sacerdotale di Gesù, allora possiamo scorgere in queste parole del Vangelo di Giovanni l'istituzione del sacerdozio degli apostoli, del sacerdozio neotestamentario che, nel più profondo, è un servizio alla verità. «Io ho fatto conoscere loro il tuo nome...» Un altro tema fondamentale della Preghiera sacerdotale è la rivelazione del nome di Dio: « Ho manifestato il tuo nome agli uomini che mi hai dato dal mondo» (Gv 17,6). «Io ho fatto conoscere loro il tuo nome e lo farò conoscere, perché l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro » (17,26). E ovvio che con queste parole Gesù si presenta come il nuovo Mose, che porta a termine ciò che ha preso inizio con Mose presso il roveto ardente. Dio aveva rivelato a Mose il suo «nome». Questo «nome» era più di una parola. Esso significava che Dio si lasciava invocare, era entrato in comunione con Israele. Così, nel corso della storia della fede di Israele, diventava sempre più evidente che con « nome di Dio » si intendeva alludere alla sua 106
«immanenza»: al suo «esserci» in mezzo agli uomini, un « esserci » in cui Egli è totalmente presente e, tuttavia, trascende infinitamente tutto ciò che è umano e mondano. L'espressione « nome di Dio » significa: Dio come Colui che è presente tra gli uomini. Così si dice del tempio in Gerusalemme che lì Dio ha « fissato la sede del suo nome» (cfr Dt 12,11 e passim). Israele non avrebbe mai osato dire semplicemente: lì abita Dio. Sapeva che Dio era infinitamente grande, che trascendeva e abbracciava l'universo. E tuttavia era veramente presente: proprio Lui. È questo che s'intende quando si dice: « Lì Egli ha stabilito il suo nome». È realmente presente, eppure rimane sempre immensamente più grande ed inafferrabile. Il « nome di Dio » è Dio stesso come Colui che si dona a noi; nonostante tutta la certezza della sua vicinanza e tutta la gioia per questo fatto, Egli resta sempre infinitamente più grande. Questo è il concetto del nome di Dio in base al quale Gesù parla. Quando dice di aver fatto conoscere il nome di Dio e di volerlo far conoscere ancora, non intende con ciò riferirsi ad una qualche parola nuova che Egli avrebbe comunicato agli uomini come parola particolarmente adatta per qualificare Dio. La rivelazione del nome è un nuovo modo della presenza di Dio tra gli uomini, un modo nuovo e radicale nel quale Dio si rende presente tra gli uomini. In Gesù Dio entra totalmente nel mondo degli uomini: chi vede Gesù, vede il Padre (cfr Gv 14,9). Se possiamo dire che nell'Antico Testamento 107
rimmanenza di Dio era data nella dimensione della parola e dell'adempimento liturgico, questa immanenza è ora diventata ontologica: in Gesù Dio si è fatto uomo. Dio è entrato nel nostro stesso essere. In Lui Dio è veramente il « Dio-con-noi ». L'incarnazione, mediante la quale questa nuova forma d'essere di Dio come Uomo si è realizzata, diventa per mezzo del suo sacrificio un avvenimento per l'umanità intera: come Risorto Egli viene nuovamente per fare di tutti il suo Corpo, il tempio nuovo. La «rivelazione del nome» ha di mira che « l'amore con il quale mi hai amato sia in essi e io in loro» (17,26). Ha di mira la trasformazione del cosmo, affinché esso in unità con Cristo diventi in modo totalmente nuovo la vera dimora di Dio. Basii Studer ha fatto notare che, agli inizi del cristianesimo, « ambienti influenzati dal giudaismo » avrebbero « sviluppato una particolare cristologia del nome». «Nome, Legge, Alleanza, Principio, Giorno » divennero allora titoli di Cristo (Gott und unsere Erlösung..., p. 56 e 61). Si sa: lo stesso Cristo come persona è « il nome » di Dio, l'accessibilità di Dio per noi. « Ho fatto conoscere il tuo nome e lo farò conoscere». - L'auto-donazione di Dio in Cristo non è una cosa del passato: «Lo farò conoscere». In Cristo Dio viene continuamente incontro agli uomini, affinché essi possano andare incontro a Lui. Far conoscere Cristo significa far conoscere Dio. Mediante l'incontro con Cristo, Dio viene verso di noi, ci attrae in sé (cfr Gv 12,32), per condurci, per 108
così dire, al di là di noi stessi verso l'ampiezza infinita della sua grandezza e del suo amore. «Tutti siano una cosa sola...» Un altro grande tema della Preghiera sacerdotale è la futura unità dei discepoli di Gesù. Con ciò lo sguardo di Gesù - in modo unico nei Vangeli - va oltre la comunità dei discepoli del momento e si volge verso tutti coloro che « per la loro parola crederanno » (Gì? 17,20): il vasto orizzonte della comunità futura dei credenti si apre attraverso le generazioni, la futura Chiesa è inclusa nella preghiera di Gesù. Egli invoca l'unità per i futuri discepoli. Quattro volte il Signore ripete questa richiesta; due volte viene indicato come scopo di tale unità che il mondo creda, anzi, che « riconosca » che Gesù è stato mandato dal Padre: « Padre santo, custodiscili nel tuo nome, quello che mi hai dato, perché siano una sola cosa, come noi» (v. 11). «Tutti siano una sola cosa: come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch'essi in noi, perché il mondo creda che tu mi hai mandato» (v. 21). «...siano una sola cosa come noi siamo una sola cosa ... siano perfetti nell'unità e il mondo riconosca che tu mi hai mandato...» (vv. 22s). In nessun discorso riguardante l'ecumenismo manca il riferimento a questo « testamento » di Gesù - al fatto che, prima di andare sulla croce, Egli scongiurando abbia implorato il Padre per l'unità dei futuri discepoli, della Chiesa di tutti i tempi. E va bene così. Ma tanto più urgente è la 109
domanda: per quale unità Gesù ha pregato? Qual è la sua richiesta per la comunità dei credenti nel corso della storia? È istruttivo sentire di nuovo su questa domanda Rudolf Bultmann. Egli dice innanzitutto - come è scritto nel Vangelo - che questa unità è fondata nell'unità tra il Padre e il Figlio, per poi continuare: « Si fonda, quindi, non in dati di fatto naturali o di carattere storico-universale e non può neppure essere stabilita mediante organizzazione, istituzioni e dogmi... L'unità può essere creata solo mediante la parola dell'annuncio, in cui il Rivelatore - nella sua unità col Padre - ogni volta è presente. E sebbene l'annuncio per la sua realizzazione nel mondo abbia bisogno delle istituzioni e dei dogmi, questi, tuttavia, non possono garantire l'unità di un annuncio autentico. D'altra parte, a causa dell'effettivo frazionamento della Chiesa che, del resto, è proprio la conseguenza delle sue istituzioni e dei suoi dogmi - l'unità dell'annuncio non deve necessariamente essere vanificata. La Parola può risuonare in modo autentico ovunque la tradizione venga mantenuta. Poiché l'autenticità dell'annuncio non è... controllabile e poiché la fede che risponde alla Parola è invisibile, anche l'unità autentica della comunità è invisibile... È invisibile, perché non è affatto un fenomeno mondano...» (Das Evangelium des Johannes, pp. 393s). Queste frasi sono sorprendenti. Molte cose in esse sarebbero da discutere, innanzitutto il concetto di « istituzioni » e di « dogmi », ma ancora di più, poi, quello di « annuncio », che ovviamente creerebbe esso stesso l'unità. È vero che nell'an-
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nuncio il Rivelatore è presente nella sua unità col Padre? Non è forse spesso sorprendentemente assente? Ebbene, Bultmann ci dà un certo criterio riguardo all'ambiente dove la Parola risuona «in modo autentico»: ovunque «la tradizione venga mantenuta ». Quale tradizione?, bisogna allora domandare. Da dove proviene, in che cosa consiste? Non ogni annuncio è dunque « autentico »; ma come possiamo riconoscerlo? L'« annuncio autentico» creerebbe, esso stesso, l'unità. Il «frazionamento di fatto » della Chiesa non sarebbe in grado di ostacolare l'unità proveniente dal Signore, ci insegna Bultmann. Non c'è quindi nessun bisogno dell'ecumenismo, perché l'unità viene creata nell'annuncio e non viene ostacolata dalle divisioni della storia? Forse è anche significativo che Bultmann usi la parola «Chiesa», dove parla di frazionamento e invece la parola «comunità», dove tratta dell'unità. L'unità dell'annuncio non è controllabile, ci dice. Per questo l'unità della comunità sarebbe invisibile come lo è la fede. L'unità sarebbe invisibile, perché « non è affatto un fenomeno mondano ».
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E questa, allora, l'interpretazione giusta della supplica di Gesù? Certamente è vero che l'unità dei discepoli - della Chiesa futura - , che Gesù chiede, « non è un fenomeno mondano ». Questo, il Signore lo dice molto chiaramente: l'unità non viene dal mondo; non è possibile trarla dalle forze proprie del mondo. Le stesse forze del mondo conducono alla divisione: noi lo vediamo. Nella misura in cui nella Chiesa, nella cristianità, è all'opera il mondo, I
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si finisce nelle divisioni. L'unità può venire solamente dal Padre mediante il Figlio. Essa ha a che fare con la « gloria » che il Figlio dà: con la sua presenza donata mediante lo Spirito Santo - una presenza che è frutto della croce, della trasformazione del Figlio nella morte e risurrezione. Ma la forza di Dio opera entrando in mezzo al mondo, in cui i discepoli vivono. Essa deve essere di una qualità tale da permettere al mondo di « riconoscerla » e così di giungere alla fede. Ciò che non proviene dal mondo può e deve assolutamente essere qualcosa che sia efficace nel e per il mondo e sia anche percepibile da esso. La preghiera di Gesù per l'unità ha di mira proprio questo, che mediante l'unità dei discepoli la verità della sua missione si renda visibile agli uomini. L'unità deve apparire, essere riconoscibile, e riconoscibile precisamente come qualcosa che altrove nel mondo non esiste; qualcosa che in base alle forze proprie dell'umanità non è spiegabile e che quindi rende visibile l'operare di una forza diversa. Mediante l'unità umanamente inspiegabile dei discepoli di Gesù attraverso tutti i tempi, viene legittimato Gesù stesso. Diventa evidente che Egli è veramente il «Figlio». Così Dio si rende riconoscibile come Creatore di un'unità che supera la tendenza del mondo alla disintegrazione. Per questo il Signore ha pregato: per un'unità che è possibile solo a partire da Dio e mediante Cristo, un'unità che però appare in modo così concreto che la forza presente ed operante di Dio diventa evidente. Per questo la fatica per un'unità visibile dei discepoli di Cristo rimane un compito 112
urgente per i cristiani di tutti i tempi e di tutti i luoghi. L'unità invisibile della « comunità » non basta. Possiamo conoscere ancora qualcosa di più sulla natura e sul contenuto dell'unità per la quale Gesù prega? Un primo elemento essenziale di tale unità è già emerso nelle nostre precedenti considerazioni: essa si basa sulla fede in Dio e in Colui che ha mandato: Gesù Cristo. L'unità della Chiesa futura si basa quindi su quella fede che Pietro, dopo la defezione dei discepoli, ha professato a nome dei Dodici nella sinagoga di Cafarnao: « Noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio »(Gz; 6,69). Questa professione è molto vicina, quanto al contenuto, alla Preghiera sacerdotale. Incontriamo qui Gesù come Colui che il Padre ha consacrato/santificato, che si consacra per i discepoli e che consacra gli stessi discepoli nella verità. La fede è più di una parola, più di un'idea: essa significa entrare nella comunione con Gesù Cristo e, mediante Lui, con il Padre. È il vero fondamento della comunità dei discepoli, la base per l'unità della Chiesa. Questa fede, nel suo nucleo, è «invisibile». Ma poiché i discepoli si legano all'unico Cristo, essa diventa « carne » e congiunge insieme i singoli in un vero « corpo ». L'incarnazione del Logos continua fino alla piena maturità di Cristo (cfr E/4,13). Nella fede in Cristo come inviato dal Padre è inclusa, quale secondo elemento, la struttura della 113
missione. Abbiamo visto che santità, cioè appartenenza al Dio vivente, significa missione. Così, Gesù come il Santo di Dio, in tutto il Vangelo di Giovanni e proprio anche nel capitolo 17, è l'inviato di Dio. L'intero suo essere è « essere inviato». Che cosa ciò significhi, si vede in un'espressione del capitolo 7, dove il Signore dice: « La mia dottrina non è mia» (v. 16). Egli vive totalmente a partire dal Padre e non gli contrappone null'altro, nessuna cosa solamente propria. Nei discorsi di addio, tale natura caratteristica del Figlio viene estesa e applicata anche allo Spirito Santo: « Non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito» (16,13). Il Padre manda lo Spirito in nome di Gesù (cfr 14,26); Gesù lo manda dal Padre (cfr 15,26). Dopo la risurrezione, Gesù attira i discepoli dentro questa corrente della missione: « Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi» (20,21). Per la comunità dei discepoli di tutti i tempi deve essere un segno qualificante la condizione dell'essere inviata da parte di Gesù. Questo significa per essa sempre: «La mia dottrina non è mia »; i discepoli non annunciano se stessi, ma dicono ciò che hanno udito. Essi rappresentano Cristo, come Cristo rappresenta il Padre. Si lasciano guidare dallo Spirito Santo, sapendo che in questa fedeltà assoluta è operante allo stesso tempo la dinamica del maturare: « Lo Spirito di verità vi guiderà alla verità tutta intera» (16,13). Per questo essenziale « essere mandati » dei discepoli di Cristo, per il legame alla sua parola e alla forza del suo Spirito, la Chiesa antica ha trovato la 114
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forma della «successione apostolica». Il perdurare della missione è « sacramento », cioè non una facoltà gestita autonomamente e neppure un'istituzione fatta dagli uomini, ma un essere « coinvolti » nel «Verbo fin dal principio» (1 Gv 1,1), nella comunità dei testimoni creata dallo Spirito. La parola greca per « successione » - diadoché - ha insieme un senso strutturale e contenutistico: significa il perdurare della missione nei testimoni. Ma indica anche il contenuto: la parola trasmessa, alla quale il testimone viene vincolato mediante il sacramento. Insieme con la « successione apostolica », l'antica Chiesa ha trovato (non inventato!) due altri elementi fondamentali per la sua unità: il Canone della Scrittura e il cosiddetto Simbolo della fede. Quest'ultimo è una breve somma, non fissata nelle singole formulazioni, dei contenuti essenziali della fede, una somma che nelle varie professioni battesimali della Chiesa primitiva ha trovato una forma elaborata secondo criteri liturgici. Questo Simbolo della fede o Credo costituisce la vera « ermeneutica » della Scrittura, la chiave tratta da essa, per interpretarla secondo il suo spirito. L'unità di questi tre elementi costitutivi della Chiesa - il sacramento della successione, la Scrittura, il Simbolo della fede (Credo) - è la vera garanzia che « la Parola » possa « risuonare in modo autentico » e « la tradizione venga mantenuta » (cfr Bultmann). Naturalmente nel Vangelo di Giovanni non si parla in questo modo dei tre pilastri della comunità dei discepoli, della Chiesa, ma con il riferimento alla fede trinitaria e all'essere inviati ne sono stati tuttavia posti i fondamenti. 115
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Torniamo ancora al fatto che Gesù prega affinché, mediante l'unità dei discepoli, il mondo possa riconoscerlo come l'inviato dal Padre. Questo riconoscere e credere non è una cosa semplicemente intellettuale; è l'essere toccati dall'amore di Dio, quindi qualcosa che trasforma, il dono della vita vera. Si rende evidente l'universalità della missione di Gesù: non riguarda soltanto un circolo limitato di eletti; il suo obiettivo è il cosmo - il mondo nella sua totalità. Mediante i discepoli e la loro missione il mondo nel suo insieme deve essere strappato dalla sua alienazione, deve ritrovare l'unità con Dio. Questo orizzonte universale della missione di Gesù appare anche in due altri testi importanti del quarto Vangelo; innanzitutto nel colloquio notturno di Gesù con Nicodèmo: « Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito» (3,16) e poi - ora con l'accento sul sacrificio della vita nel discorso sul pane a Cafarnao: « Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo » (6,51). Ma in che rapporto con questo universalismo sta la parola dura che si trova nel versetto 9 della Preghiera sacerdotale: « Io prego per loro; non prego per il mondo »? Per comprendere l'unità interiore delle due richieste apparentemente contrastanti, dobbiamo considerare che Giovanni usa la parola «cosmos» - mondo - in un duplice senso. Da una parte, essa indica tutta la buona creazione di Dio, particolarmente gli uomini come creature sue, che Egli ama fino alla donazione di se stesso nel Figlio. Dall'altra, la parola designa il mondo 116
umano come storicamente si è sviluppato: in esso corruzione, menzogna, violenza sono diventate, per così dire, la cosa «naturale». Blaise Pascal parla di una seconda natura che, nel corso della storia, si sarebbe sovrapposta alla prima. Filosofi moderni hanno illustrato questa situazione storica dell'uomo in molteplici modi; per esempio Martin Heidegger, quando parla dell'essere condizionati dal « si » impersonale, dell'esistere nella « non-autenticità». In maniera molto diversa appare la stessa problematica, quando Karl Marx illustra l'alienazione dell'uomo. Con questo, la filosofia descrive in fondo precisamente ciò che la fede chiama « peccato originale». Questa specie di «mondo» deve scomparire; deve essere trasformato nel mondo di Dio. Proprio questa è la missione di Gesù, nella quale i discepoli vengono coinvolti: condurre il « mondo » fuori dall'alienazione dell'uomo da Dio e da se stesso, affinché il mondo torni ad essere di Dio e l'uomo, nel diventare ima cosa sola con Dio, torni ad essere totalmente se stesso: Questa trasformazione, però, ha il prezzo della croce e per i testimoni di Cristo quello della disponibilità al martirio. Se diamo, infine, uno sguardo retrospettivo all'insieme della preghiera per l'unità, possiamo dire che in essa si compie l'istituzione della Chiesa, anche se la parola « Chiesa » non viene usata. Che altro, infatti, è la Chiesa se non la comunità dei discepoli che, mediante la fede in Gesù Cristo come inviato del Padre, riceve la sua unità ed è coinvol117
ta nella missione di Gesù di salvare il mondo conducendolo alla conoscenza di Dio? La Chiesa nasce dalla preghiera di Gesù. Questa preghiera, però, non è soltanto parola: è l'atto in cui Egli « consacra » se stesso, cioè « si sacrifica » per la vita del mondo. Possiamo anche dire, rovesciando l'affermazione: nella preghiera l'evento crudele della croce diventa « parola », diventa festa dell'espiazione tra Dio e il mondo. Da questo scaturisce la Chiesa come la comunità di coloro che, mediante la parola degli apostoli, credono in Cristo (cfr 17,20).
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Capitolo 5 L'ULTIMA CENA
iù ancora del discorso escatologico di Gesù, del quale abbiamo trattato nel secondo capitolo di questo volume, i racconti concernenti l'ultima cena di Gesù e l'istituzione dell'Eucaristia sono ricoperti da un groviglio di ipotesi tra loro contrastanti, e questo sembra sbarrare l'accesso al vero avvenimento in modo tale da non lasciare quasi speranza. Per un testo che riguarda il centro essenziale del cristianesimo e, di fatto, propone questioni storiche difficili, ciò non è sorprendente. Cerco di seguire lo stesso cammino già praticato nel caso del discorso escatologico. Entrare nelle numerose e assolutamente giuste questioni specifiche circa ogni dettaglio di parola e storia non è compito di questo libro, che cerca di ricostruire la figura di Gesù lasciando agli specialisti i problemi particolari. Certo, non possiamo tuttavia dispensarci dall'affrontare la questione della reale storicità degli avvenimenti essenziali. Il messaggio neotestamentario non è soltanto un'idea; per esso è determinante proprio l'essere accaduto nella storia reale di questo mondo: la fede biblica non racconta storie come simboli di verità meta-storiche, ma si fonda sulla storia che è accaduta sulla superficie di questa terra (cfr Parte 1/• p. 11). Se Gesù non ha dato ai discepoli pane e vino come suo corpo e suo sangue, allora la Cele-
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brazione eucaristica è vuota - una devota finzione, non una realtà che fonda la comunione con Dio e degli uomini tra loro. In questo contesto si pone certamente ancora una volta la domanda circa il modo possibile e adeguato di un accertamento storico. Dobbiamo chiaramente renderci conto che una ricerca storica può condurre sempre solo fino ad un alto grado di probabilità, mai ad una certezza ultima ed assoluta su tutti i particolari. Se la certezza della fede si basasse esclusivamente su un accertamento storico-scientifico, essa rimarrebbe sempre rivedibile. Prendo un esempio dalla storia recente della ricerca esegetica. Il grande esegeta tedesco, Joachim Jeremias, nella crescente confusione delle ipotesi esegetiche, con massima erudizione storica e filologica e con la più grande precisione metodologica ha cercato di filtrare dalla massa del materiale trasmesso le «ipsissima verba Iesu» - le parole autentiche di Gesù, per trovare in esse la roccia sicura della fede: su ciò che Gesù stesso ha detto veramente possiamo basarci. Anche se i risultati di Jeremias sono sempre rilevanti e - dal punto di vista scientifico - di grande importanza, vi sono tuttavia motivate domande critiche, le quali quanto meno dimostrano che la certezza raggiunta ha i suoi limiti. Che cosa possiamo dunque aspettarci? E che cosa invece no? Dal punto di vista teologico c'è da dire che, se la storicità delle parole e degli avvenimenti essenziali potesse essere dimostrata impossibile in modo veramente scientifico, la fede avrebbe perso il suo fondamento. D'altra parte, come già detto, a 120
motivo della natura stessa della conoscenza storica non ci si possono aspettare prove di certezza assoluta su ogni particolare. È pertanto importante per noi appurare se le convinzioni di fondo della fede siano storicamente possibili e credibili anche di fronte alla serietà delle attuali conoscenze esegetiche. Molti particolari dunque possono rimanere aperti. Ma il «factum est» del Prologo di Giovanni (1,14) vale come categoria cristiana fondamentale non soltanto per l'incarnazione come tale, ma deve essere rivendicato anche per l'ultima cena, la croce e la risurrezione: l'incarnazione di Gesù è ordinata al sacrificio di se stesso per gli uomini e questo alla risurrezione, altrimenti il cristianesimo non sarebbe vero. Possiamo guardare la verità di questo «factum est» - come s'è detto - non nella maniera dell'assoluta certezza storica, ma riconoscerne la serietà leggendo in modo giusto la Scrittura come tale. L'ultima certezza, sulla quale fondiamo l'intera nostra esistenza, ci è donata dalla fede - dall'umile credere insieme con la Chiesa di tutti i secoli, guidata dallo Spirito Santo. Da lì possiamo, del resto, guardare tranquillamente le ipotesi esegetiche che, da parte loro, troppo spesso si presentano con un pathos di certezza che viene confutato già dal fatto che posizioni contrarie vengono proposte continuamente con lo stesso atteggiamento di certezza scientifica. A partire da questi principi metodologici vorrei cercare di scegliere dall'insieme della disputa le 121
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questioni essenziali per la fede. Lo si farà in quattro sezioni. In primo luogo, occorre riflettere sul problema della data della celebrazione dell'ultima cena di Gesù - un problema in cui si tratta essenzialmente di chiarire se questa è stata una cena pasquale o no. In secondo luogo, saranno da esaminare i testi nei quali veniamo informati circa l'ultima cena di Gesù. Con ciò si dovrà trattare la questione circa la credibilità storica di tali racconti. In terzo luogo, vorrei tentare un'interpretazione degli essenziali contenuti teologici della tradizione riguardante l'ultima cena. Infine, nella quarta sezione, dovremo gettare lo sguardo oltre la tradizione neotestamentaria e riflettere sul formarsi della Celebrazione eucaristica della Chiesa - quel processo che Agostino ha descritto come passaggio dal sacrificio vespertino al « dono mattutino» (cfr En. in Ps., 140,5).
1 . L A DATA DELL'ULTIMA CENA
Il problema della datazione dell'ultima cena di Gesù si fonda sul contrasto in questa materia tra i Vangeli sinottici, da una parte, e il Vangelo di Giovanni, dall'altra. Marco, che Matteo e Luca essenzialmente seguono, offre al riguardo una datazione precisa. «Il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua, i suoi discepoli gli dissero: " Dove vuoi che andiamo a preparare, perché tu possa mangiare la Pasqua?"... Venuta la sera, egli arrivò con i Dodici » (Me 14,12.17). La sera del primo giorno degli Azzimi, in cui nel tempio veniva122
no immolati gli agnelli pasquali, è la vigilia della Pasqua. Secondo la cronologia dei sinottici si tratta di un giovedì. Dopo il tramonto iniziava la Pasqua, e allora veniva consumata la cena pasquale - da Gesù con i suoi discepoli, come da tutti i pellegrini venuti a Gerusalemme. Nella notte tra giovedì e venerdì sempre secondo la cronologia sinottica - Gesù venne arrestato e portato davanti al tribunale, al mattino del venerdì da Pilato venne condannato a morte e successivamente «verso l'ora terza» (ca. le nove del mattino) crocifisso. La morte di Gesù è datata all'ora nona (ca. le ore 15). «Venuta ormai la sera, poiché era la Parasceve, cioè la vigilia del sabato, Giuseppe d'Arimatea ... con coraggio andò da Pilato e chiese il corpo di Gesù » (Me 15,42s). La sepoltura doveva avvenire ancora prima del tramonto, perché poi iniziava il sabato. Il sabato è il giorno del riposo sepolcrale di Gesù. La risurrezione ha luogo il mattino del « primo giorno della settimana», la domenica. Questa cronologia è compromessa dal problema che il processo e la crocifissione di Gesù sarebbero avvenuti nella festa della Pasqua, che in quell'anno cadeva di venerdì. È vero che molti studiosi hanno cercato di dimostrare che il processo e la crocifissione erano compatibili con le prescrizioni della Pasqua. Nonostante tutta l'erudizione sembra però problematico che in quella festa molto importante per i Giudei, il processo davanti a Pilato e la crocifissione fossero ammissibili e possibili. Del resto, a questa ipotesi è di ostacolo anche una notizia riportata da Marco. Egli ci dice 123
che due giorni prima della festa degli Azzimi, i sommi sacerdoti e gli scribi cercavano il modo di impadronirsi di Gesù con inganno per ucciderlo, ma al riguardo dichiaravano: « Non durante la festa, perché non vi sia una rivolta del popolo» (14,ls). Secondo la cronologia sinottica, però, l'esecuzione capitale di Gesù, di fatto, avrebbe avuto luogo proprio nel giorno stesso della festa. Rivolgiamoci ora alla cronologia giovannea. Giovanni bada con premura a non presentare l'ultima cena come cena pasquale. Al contrario: le autorità giudaiche che portano Gesù davanti al tribunale di Pilato evitano di entrare nel pretorio « per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua » (18,28). La Pasqua comincia quindi solo alla sera; durante il processo si ha la cena pasquale ancora davanti; processo e crocifissione avvengono nel giorno prima della Pasqua, nella « Parasceve », non nella festa stessa. La Pasqua in quell'anno si estende dunque dalla sera del venerdì fino alla sera del sabato e non dalla sera del giovedì fino alla sera del venerdì. Per il resto, lo svolgimento degli eventi rimane lo stesso. Giovedì sera l'ultima cena di Gesù con i discepoli, che però non è una cena pasquale; venerdì - vigilia della festa e non la festa stessa il processo e l'esecuzione capitale; sabato: il riposo del sepolcro; domenica: la risurrezione. Con questa cronologia, Gesù muore nel momento, in cui nel tempio vengono immolati gli agnelli pasquali. Egli muore come l'Agnello vero che negli agnelli era solo preannunciato. 124
Questa coincidenza teologicamente importante, che Gesù muoia contemporaneamente con l'immolazione degli agnelli pasquali, ha indotto molti studiosi a liquidare la versione giovannea come cronologia teologica. Giovanni avrebbe cambiato la cronologia per creare questa connessione teologica che, tuttavia, nel Vangelo non viene manifestata esplicitamente. Oggi, però, si vede sempre più chiaramente che la cronologia giovannea è storicamente più probabile di quella sinottica. Poiché - come s'è detto - processo ed esecuzione capitale nel giorno di festa sembrano poco immaginabili. D'altra parte, l'ultima cena di Gesù appare così strettamente legata alla tradizione della Pasqua che la negazione del suo carattere pasquale risulta problematica. Per questo già da sempre sono stati fatti dei tentativi di conciliare le due cronologie tra loro. Il tentativo più importante - e in molti particolari affascinante - di giungere ad una compatibilità tra le due tradizioni proviene dalla studiosa francese Annie Jaubert, che fin dal 1953 ha sviluppato la sua tesi in una serie di pubblicazioni. Non dobbiamo qui entrare nei dettagli di tale proposta; limitiamoci all'essenziale. La signora Jaubert si basa soprattutto su due testi antichi che sembrano guidare ad una soluzione del problema. C'è innanzitutto l'indicazione di un antico calendario sacerdotale, tramandato nel Libro dei Giubilei, che è stato redatto in lingua ebraica nella seconda metà del II secolo avanti Cristo. Questo calendario non prende in considerazione 125
la rivoluzione della luna e prevede un anno di 364 giorni, diviso in quattro stagioni di tre mesi, dei quali due hanno 30 giorni e uno ne ha 31. Con sempre 91 giorni, ogni trimestre comprende esattamente 13 settimane e ogni anno quindi esattamente 52 settimane. Di conseguenza, le feste liturgiche di ogni anno cadono sempre nello stesso giorno della settimana. Ciò significa, per quanto concerne la Pasqua, che il 15 di Nisan è sempre un mercoledì e che la cena pasquale viene consumata dopo il tramonto alla sera di martedì. Jaubert sostiene che Gesù avrebbe celebrato la Pasqua secondo questo calendario, cioè martedì sera, e sarebbe stato arrestato nella notte su mercoledì. Con ciò la studiosa vede risolti due problemi: da una parte, Gesù avrebbe celebrato una vera cena pasquale, come riferiscono i sinottici; dall'altra, Giovanni avrebbe ragione in quanto le autorità giudaiche, che si attenevano al loro calendario, avrebbero celebrato la Pasqua solo dopo il processo di Gesù e quindi Egli sarebbe stato giustiziato nella vigilia della vera Pasqua e non nella festa stessa. In questo modo la tradizione sinottica e quella giovannea appaiono ugualmente giuste sulla base della differenza tra due calendari diversi. Il secondo vantaggio sottolineato da Annie Jaubert mostra allo stesso tempo il punto debole di questo tentativo di trovare una soluzione. La studiosa francese fa notare che le cronologie tramandate (nei sinottici e in Giovanni) devono mettere insieme una serie di avvenimenti nello spazio stretto di poche ore: l'interrogatorio davanti al sinedrio, il trasferimento davanti a Pilato, il sogno 126
della moglie di Pilato, l'invio ad Erode, il ritorno da Pilato, la flagellazione, la condanna a morte, la via crucis e la crocifissione. Collocare tutto questo nell'ambito di poche ore sembra - secondo Jaubert quasi impossibile. Rispetto a ciò la sua soluzione offre imo spazio temporale che va dalla notte tra martedì e mercoledì fino al mattino del venerdì. In quel contesto la studiosa mostra che in Marco per i giorni « Domenica delle palme », lunedì e martedì c'è una precisa sequenza degli avvenimenti, ma che poi egli salta direttamente alla cena pasquale. Secondo la datazione tramandata resterebbero quindi due giorni su cui non viene riferito nulla. Infine Jaubert ricorda che in questo modo il progetto delle autorità giudaiche, di uccidere Gesù puntualmente ancora prima della festa, avrebbe potuto funzionare. Pilato, tuttavia, con la sua titubanza avrebbe poi rimandato la crocifissione fino al venerdì. Contro il cambio della data dell'ultima cena dal giovedì al martedì parla, però, l'antica tradizione del giovedì, che comunque incontriamo chiaramente già nel II secolo. Ma a ciò la signora Jaubert obietta citando il secondo testo su cui si basa la sua tesi: si tratta della cosiddetta Didascalia degli Apostoli, uno scritto dell'inizio del III secolo, che fissa la data della cena di Gesù al martedì. La studiosa cerca di dimostrare che quel libro avrebbe accolto una vecchia tradizione, le cui tracce sarebbero ritrovabili anche in altri testi. A questo bisogna, però, rispondere che le tracce della tradizione, manifestate in questo modo, sono troppo deboli per poter convincere. L'altra diffi127
colta consiste nel fatto che l'uso da parte di Gesù di un calendario diffuso principalmente in Qumran è poco verosimile. Per le grandi feste, Gesù si recava al tempio. Anche se ne ha predetto la fine e l'ha confermata con un drammatico atto simbolico, Egli ha seguito il calendario giudaico delle festività, come dimostra soprattutto il Vangelo di Giovanni. Certo, si potrà consentire con la studiosa francese sul fatto che il Calendario dei Giubilei non era strettamente limitato a Qumran ed agli Esseni. Ma ciò non basta per poterlo far valere per la Pasqua di Gesù. Così si spiega perché la tesi di Annie Jaubert, a prima vista affascinante, dalla maggioranza degli esegeti venga rifiutata. Io l'ho illustrata in modo così particolareggiato, perché essa lascia immaginare qualcosa della molteplicità e complessità del mondo giudaico al tempo di Gesù - un mondo che noi, nonostante tutto l'ampliamento delle nostre conoscenze delle fonti, possiamo ricostruire solo in modo insufficiente. Non disconoscerei, quindi, a questa tesi ogni probabilità, benché in considerazione dei suoi problemi non sia possibile semplicemente accoglierla. Che cosa dobbiamo dunque dire? La valutazione più accurata di tutte le soluzioni finora escogitate l'ho trovata nel libro su Gesù di John P. Meier, che alla fine del suo primo volume ha esposto un ampio studio sulla cronologia della vita di Gesù. Egli giunge al risultato che bisogna scegliere tra la cronologia sinottica e quella giovannea e dimostra, in base all'insieme delle fonti, che la decisione deve essere in favore di Giovanni. 128
Giovanni ha ragione: al momento del processo di Gesù davanti a Pilato, le autorità giudaiche non avevano ancora mangiato la Pasqua e per questo dovevano mantenersi ancora cultualmente pure. Egli ha ragione: la crocifissione non è avvenuta nel giorno della festa, ma nella sua vigilia. Ciò significa che Gesù è morto nell'ora in cui nel tempio venivano immolati gli agnelli pasquali. Che i cristiani in ciò vedessero in seguito più di un puro caso, che riconoscessero Gesù come il vero Agnello, che proprio così trovassero il rito degli agnelli portato al suo vero significato - tutto ciò è poi solo normale. Rimane la domanda: Ma perché allora i sinottici hanno parlato di una cena pasquale? Su che cosa si basa questa linea della tradizione? Una risposta veramente convincente a questa domanda non la può dare neppure Meier. Ne fa tuttavia il tentativo - come molti altri esegeti - per mezzo della critica redazionale e letteraria. Cerca di dimostrare che i brani di Me 14,la e 14,12-16 - gli unici passi in cui presso Marco si parla della Pasqua - sarebbero stati inseriti successivamente. Nel racconto vero e proprio dell'ultima cena non si menzionerebbe la Pasqua. Questa operazione - per quanto molti nomi importanti la sostengano - è artificiale. Rimane però giusta l'indicazione di Meier che cioè, nella narrazione della cena stessa presso i sinottici, il rituale pasquale appare tanto poco quanto presso Giovanni. Così, pur con qualche riserva, si potrà aderire all'affermazione: « L'intera tradizione giovannea ... concorda pienamente con quella originaria 129
dei sinottici per quanto riguarda il carattere della cena come non appartenente alla Pasqua » (A Marginal Jew I, p. 398). Ma allora, che cosa è stata veramente l'ultima cena di Gesù? E come si è giunti alla concezione sicuramente molto antica del suo carattere pasquale? La risposta di Meier è sorprendentemente semplice e sotto molti aspetti convincente. Gesù era consapevole della sua morte imminente. Egli sapeva che non avrebbe più potuto mangiare la Pasqua. In questa chiara consapevolezza invitò i suoi ad un'ultima cena di carattere molto particolare, una cena che non apparteneva a nessun determinato rito giudaico, ma era il suo congedo, in cui Egli dava qualcosa di nuovo, donava se stesso come il vero Agnello, istituendo così la sua Pasqua. In tutti i Vangeli sinottici fanno parte di questa cena la profezia di Gesù sulla sua morte e quella sulla sua risurrezione. In Luca essa ha una forma particolarmente solenne e misteriosa: «Ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché io vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio» (22,15s). La parola rimane equivoca: può significare che Gesù, per un'ultima volta, mangia l'abituale* Pasqua con i suoi. Ma può anche significare che non la mangia più, ma s'incammina verso la Pasqua nuova. Una cosa è evidente nell'intera tradizione: l'essenziale di questa cena di congedo non è stata l'antica Pasqua, ma la novità che Gesù ha realizza130
to in questo contesto. Anche se questo convivio di Gesù con i Dodici non è stata una cena pasquale secondo le prescrizioni rituali del giudaismo, in retrospettiva si è resa evidente la connessione interiore dell'insieme con la morte e risurrezione di Gesù: era la Pasqua di Gesù. E in questo senso Egli ha celebrato la Pasqua e non l'ha celebrata: i riti antichi non potevano essere praticati; quando venne il loro momento, Gesù era già morto. Ma Egli aveva donato se stesso e così aveva celebrato con essi veramente la Pasqua. In questo modo l'antico non era stato negato, ma solo così portato al suo senso pieno. La prima testimonianza di questa visione unificante del nuovo e dell'antico, che realizza la nuova interpretazione della cena di Gesù in rapporto alla Pasqua nel contesto della sua morte e risurrezione, si trova in Paolo in 1 Corinzi 5,7: « Togliete via il lievito vecchio, per essere pasta nuova, poiché siete azzimi. E infatti Cristo, nostra Pasqua, è stato immolato! » (cfr Meier, A Marginai few I, p. 429s). Come in Marco 14,1 si susseguono qui il primo giorno degli Azzimi e la Pasqua, ma il senso rituale di allora è trasformato in un significato cristologico ed esistenziale. Gli « azzimi » devono ora essere costituiti dai cristiani stessi, liberati dal lievito del peccato. L'Agnello immolato, però, è Cristo. In ciò Paolo concorda perfettamente con la descrizione giovannea degli avvenimenti. Per lui, morte e risurrezione di Cristo sono diventate così la Pasqua che perdura. In base a ciò si può capire come l'ultima cena di Gesù, che non era solo un preannuncio, ma nei 131
Doni eucaristici comprendeva anche un'anticipazione di croce e risurrezione, ben presto venisse considerata come Pasqua - come la sua Pasqua. E lo era veramente.
2 . L'ISTITUZIONE DELL'EUCARISTIA
Il cosiddetto racconto dell'istituzione, cioè le parole e i gesti con cui Gesù nel pane e nel vino donò se stesso ai discepoli, costituisce il nucleo della tradizione dell'ultima cena. Oltre che nei tre Vangeli sinottici - Matteo, Marco e Luca - il racconto dell'istituzione si trova anche nella Prima Lettera ai Corinzi di san Paolo (cfr 11,23-26). I quattro racconti nel loro nucleo si assomigliano molto, ma nei particolari mostrano alcune differenze che comprensibilmente sono divenute oggetto di vaste discussioni esegetiche. Si possono distinguere due modelli di fondo: da una parte c'è il racconto di Marco, col quale concorda in gran parte il testo di Matteo; dall'altra, c'è il testo di Paolo, a cui è affine quello di Luca. Il racconto paolino è il testo letterariamente più antico: la Prima Lettera ai Corinzi fu scritta nell'anno 56 circa. Il tempo della redazione del Vangelo di Marco è posteriore, ma è indiscusso che il suo testo riferisce una tradizione molto antica. La disputa degli esegeti verte ora su quale dei due modelli - quello di Marco o quello di Paolo - sia il più antico. Rudolf Pesch si è espresso con argomenti rilevanti in favore dell'antichità maggiore della tradi132
zione di Marco, che sarebbe da datare agli anni trenta. Ma anche il racconto di Paolo risale al medesimo decennio. Paolo a sua volta dice di tramandare ciò che egli stesso ha ricevuto come tradizione risalente al Signore. Il racconto dell'istituzione e la tradizione della risurrezione (cfr 1 Cor 15, 3-8) occupano una posizione particolare nelle Lettere paoline: sono testi compatti che l'apostolo ha « ricevuti » come tali e con cura trasmette letteralmente. Ambedue le volte dice di trasmettere ciò che ha ricevuto. In 1 Corinzi 15 insiste esplicitamente sulla forma testuale, la cui conservazione sarebbe necessaria per la salvezza. Da ciò consegue che Paolo ha ricevuto le parole dell'ultima cena, all'interno della comunità primitiva, in un modo che lo rendeva sicuro che esse provenivano dal Signore stesso. Pesch vede provata la precedenza storica del racconto di Marco nel fatto che esso sarebbe ancora una semplice narrazione, mentre considera 1 Corinzi 11 come «eziologia cultuale» e quindi come un testo già formato liturgicamente ed adattato alla liturgia (cfr Markusevangelium II, pp. 364-377, in particolare 369). In questo c'è sicuramente del vero. Mi sembra, tuttavia, che non ci sia una differenza decisiva tra la qualità storica e teologica dei due testi. E vero che Paolo vuole parlare in maniera normativa in vista della celebrazione della liturgia cristiana; se è questo il senso dell'espressione «eziologia cultuale», allora posso essere d'accordo. Ma secondo la convinzione dell'apostolo il teV
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sto è normativo proprio perché riporta precisamente il testamento del Signore. Per questo, l'orientamento al culto e una formulazione già esistente per il culto non contrastano con la tradizione rigorosa di ciò che il Signore ha detto e voluto. Al contrario: la formulazione è normativa proprio perché vera e originaria. Al riguardo, la precisione nel tramandare non esclude una concentrazione e una scelta. Ma la scelta e la formulazione - questa è la convinzione di Paolo - non dovevano travisare ciò che in quella notte era stato affidato ai discepoli dal Signore. Una simile scelta e formulazione in riferimento alla liturgia esiste, tuttavia, anche nel Vangelo di Marco. Anche questa «narrazione», infatti, non può prescindere dal suo significato normativo per la liturgia della Chiesa e presuppone per parte sua già un'efficace tradizione liturgica. Ambedue i modelli della tradizione vogliono tramandarci veramente il testamento del Signore. Insieme rendono riconoscibile la ricchezza delle prospettive teologiche dell'avvenimento e, allo stesso tempo, ci mostrano la novità inaudita che Gesù ha realizzato in quella notte. Di fronte ad un evento così imponente e unico dal punto di vista teologico e della storia delle religioni come quello illustrato dai racconti dell'ultima cena, non poteva mancare la messa in questione da parte della teologia moderna: con l'immagine dell'affabile Rabbi che molti esegeti tracciano di Gesù, una cosa così inaudita non è compatibile. Non si può «crederlo capace» di ciò. E natural134
mente non va neppure d'accordo con l'immagine di Gesù come ribelle politico. Così una non piccola parte dell'esegesi attuale contesta che le parole dell'istituzione risalgano veramente a Gesù. Poiché qui si tratta del nucleo in assoluto del cristianesimo e dell'aspetto centrale della figura di Gesù, dobbiamo guardare la cosa un po' più da vicino. L'obiezione principale contro l'originalità storica delle parole e dei gesti dell'ultima cena si può riassumere così: ci sarebbe una contraddizione irrisolvibile tra il messaggio di Gesù circa il regno di Dio e l'idea della sua morte espiatoria in funzione vicaria. Il nucleo intimo delle parole dell'ultima cena, però, è il « per voi - per molti », l'autodonazione vicaria di Gesù, e con ciò anche l'idea dell'espiazione. Mentre Giovanni Battista, di fronte all'incombente giudizio, aveva chiamato alla conversione, Gesù come messaggero di gioia avrebbe annunciato la vicinanza della signoria di Dio e la volontà incondizionata di perdono, il dominio della bontà e della misericordia di Dio. «L'ultima parola, che Dio pronuncia mediante il suo ultimo messaggero (il messaggero della gioia dopo l'ultimo messaggero del giudizio, Giovanni), è una parola di salvezza. L'annuncio di Gesù è caratterizzato dall'orientamento chiaramente prioritario verso la promessa della salvezza da parte di Dio, come anche dal superamento del vicino Dio giudice per mezzo del presente Dio della bontà». Con queste parole Pesch riassume il contenuto essenziale del ragionamento che sostiene 135
l'incompatibilità della tradizione circa l'ultima cena con la novità e la particolarità dell'annuncio di Gesù (Abendmahl, p. 104). Peter Fiedler sviluppa la logica di questa visione in modo drastico, quando scrive: « Gesù aveva annunciato il Padre che vuole perdonare incondizionatamente», e poi osserva: « Ma questi, in realtà, non era forse nella sua grazia tanto generoso o addirittura superiore, dal momento che insisteva per un'espiazione? » (op. cit., p. 569; cfr Pesch, Abendmahl, p. 16 e p. 106). Dichiara poi l'idea di un'espiazione incompatibile con l'immagine che Gesù ha di Dio, e in ciò molti esegeti e rappresentanti della teologia sistematica ormai concordano con lui. Di fatto, sta qui il vero motivo perché una buona parte dei teologi moderni (non soltanto degli esegeti) prende posizione contro la provenienza da Gesù delle parole della cena. La ragione di questo non sta nei dati storici: come abbiamo visto, i testi eucaristici appartengono alla tradizione più antica. In base ai dati storici niente può esservi di più originale che proprio la tradizione della cena. Ma l'idea di un'espiazione è cosa inconcepibile per la sensibilità moderna. Gesù nel suo annuncio del regno di Dio deve esserne agli antipodi. C'è di mezzo la nostra immagine di Dio e dell'uomo. Per questo tutta la discussione è solo apparentemente un dibattito storico. Si tratta piuttosto della domanda: che cosa è l'espiazione? È compatibile con un'immagine pura di Dio? Non è forse un livello dello sviluppo religioso dell'umanità che deve essere superato? Ge136
sù non deve forse, per essere il nuovo messaggero di Dio, contrapporsi a questa idea? La vera disputa dovrà quindi occuparsi della domanda se i testi neotestamentari - letti in modo giusto - ci rivelino un concetto di espiazione accettabile anche per noi, a condizione che siamo disposti ad ascoltare interamente il messaggio che lì ci viene incontro. Su tale questione dovremo riflettere in modo conclusivo nel capitolo sulla morte in croce di Gesù. Ciò richiede, però, la disponibilità di non semplicemente contrapporre al Nuovo Testamento in modo «critico-razionale» la nostra saccenteria, ma di imparare e di lasciarci guidare: la disponibilità a non travisare i testi secondo i nostri concetti, ma a lasciar purificare ed approfondire i nostri concetti dalla sua parola. Cerchiamo intanto di avvicinarci a tastoni alla comprensione per mezzo di un tale ascolto. C'è innanzitutto la domanda: esiste realmente questa contraddizione tra il messaggio galilaico del regno di Dio e l'ultimo pronunciamento di Gesù avvenuto a Gerusalemme? Esegeti ragguardevoli - Rudolf Pesch, Gerhard Lohfink, Ulrich Wilckens - vedono, sì, una profonda differenza tra le due posizioni, ma non un contrasto irrisolvibile. Essi suppongono che in un primo momento Gesù abbia fatto l'offerta generosa del messaggio del regno di Dio e del perdono donato senza condizioni, che però, dovendo prendere atto del fallimento di questa offerta, abbia poi identificato la sua missione con quella del Servo di YHWH. Egli avrebbe riconosciuto che, 137
dopo il rifiuto della sua offerta, restava soltanto la via dell'espiazione vicaria: doveva cioè prendere su di sé la sventura che incombeva su Israele, per far giungere così ai molti la salvezza. Che cosa dobbiamo dire a questo proposito? Di per sé, un simile sviluppo, l'ingresso cioè in una nuova via dell'amore dopo il fallimento di una prima offerta, secondo l'intera struttura dell'immagine biblica di Dio e della storia della salvezza è certamente possibile. Fa parte delle vie della storia di Dio con gli uomini, illustrate a noi nell'Antico Testamento, proprio quella «flessibilità» di Dio, che attende la libera decisione dell'uomo e da ogni « no » fa scaturire una nuova via dell'amore. Al « no » di Adamo Egli risponde con una nuova premura per l'uomo. Al « no » di Babele Egli risponde inaugurando con l'elezione di Abramo un nuovo approccio alla storia. La richiesta di un re per gli Israeliti è in un primo tempo un'ostinazione contro Dio, che vorrebbe regnare sul suo popolo in modo immediato. Ma nella profezia rivolta a Davide, Egli trasforma questa ostinazione in una via che va poi direttamente verso Cristo, il Figlio di Davide. Così nell'operare di Gesù un simile avanzare in due fasi è senz'altro possibile. Il capitolo 6 del Vangelo di Giovanni sembra accennare ad una tale svolta nel cammino di Gesù con gli uomini. Dopo il suo discorso eucaristico, il popolo e molti dei suoi discepoli gli volgono le spalle. Restano con Lui soltanto i Dodici. Una simile cesura troviamo nel Vangelo di Marco, quando Gesù, dopo la seconda moltiplicazione dei pani e 138
dopo la professione di Pietro (cfr 8,27-30,) comincia con i preannunci della passione e si incammina verso Gerusalemme e verso la sua ultima Pasqua. Nel 1929, Erik Peterson, nel suo articolo sulla Chiesa - un articolo che ancora oggi vale assolutamente la pena di leggere - ha sostenuto la tesi che la Chiesa esiste solo sulla base del presupposto « che gli Ebrei come popolo eletto di Dio non hanno accolto la fede nel Signore ». Se avessero accettato Gesù, « il Figlio dell'uomo sarebbe ritornato e il regno messianico, in cui gli Ebrei avrebbero occupato il posto più importante, avrebbe preso inizio » (Theologische Traktate, p. 247). Romano Guardini nelle sue opere su Gesù ha accolto e modificato questa tesi. Per lui il messaggio di Gesù comincia chiaramente con l'offerta del regno; il «no» di Israele avrebbe suscitato la nuova fase della storia della salvezza, di cui fanno parte morte e risurrezione del Signore e la Chiesa delle genti. Che cosa dobbiamo quindi dire riguardo a tutto ciò? Innanzitutto questo: un certo sviluppo nel messaggio di Gesù con decisioni nuove è certamente possibile. Peterson stesso, tuttavia, non colloca la rottura all'interno del messaggio di Gesù, ma nell'epoca dopo la Pasqua in cui i discepoli, di fatto, inizialmente lottavano ancora per il « sì » di Israele. Solo nella misura in cui si manifestò il fallimento di questo tentativo, essi andarono verso i pagani. Questo secondo passo è per noi chiaramente percepibile nei testi del Nuovo Testamento. Sviluppi nel cammino di Gesù, invece, possia139
mo presumere sempre solo con un più o meno grande grado di probabilità, ma mai afferrare con chiarezza. Sicuramente non esiste quel contrasto tagliente tra l'annuncio del regno di Dio e il messaggio di Gerusalemme, così come lo si incontra nelle tesi di qualche esegeta moderno. Abbiamo poc'anzi registrato gli indizi di un certo sviluppo nel cammino di Gesù. Ora, però dobbiamo dire (come ad esempio John P. Meier ha chiaramente evidenziato) che la struttura dei Vangeli sinottici non ci permette di stabilire una cronologia dell'annuncio di Gesù. Certo, gli accenti sulla necessità della morte e della risurrezione diventano più chiari col progredire del cammino di Gesù. Ma l'intero materiale non è sistemato cronologicamente così che noi possiamo distinguere chiaramente un prima e un dopo. Bastino alcune indicazioni. In Marco, già al capitolo 2, nella disputa sul digiuno dei discepoli, si trova il preannuncio di Gesù: «Verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto: allora, in quel giorno, digiuneranno» (2,20). Ancora molto più importante è la definizione della sua missione, che si cela dietro il suo parlare in parabole - nelle parabole che illustrano agli uomini il suo messaggio circa il regno di Dio. Gesù identifica la sua missione con quella affidata ad Isaia dopo l'incontro con il Dio vivente nel tempio: al profeta era stato detto che la sua missione in un primo momento avrebbe contribuito solo ad un'ulteriore ostinazione e solo attraverso di essa sarebbe poi potuta arrivare la salvezza. Ai discepoli, già nella prima fase del suo annuncio, Gesù dice che proprio questa sarebbe 140
stata la struttura del suo cammino (cfr Me 4,10ss; cfr anche Is 6,9s). Ma in questo modo tutte le parabole - l'intero messaggio sul regno di Dio - vengono poste sotto il segno della croce. Partendo dall'ultima cena e dalla risurrezione, potremmo asserire che proprio la croce è l'estrema radicalizzazione dell'amore incondizionato di Dio - amore in cui, nonostante ogni negazione da parte degli uomini, Egli dona se stesso, prende su di sé il « no » degli uomini, attirandolo così dentro il suo «sì» (cfr 2 Cor 1,19). Questa interpretazione delle parabole e del loro messaggio sul regno di Dio - interpretazione secondo la teologia della croce - si trova poi anche nelle parole parallele degli altri due sinottici (cfr Mt 13,10-17; Le 8,9s). L'orientamento del messaggio di Gesù secondo la prospettiva della croce - un orientamento che vale fin dall'inizio - appare nei Vangeli sinottici anche in un altro modo ancora. Mi limito a due accenni. In Matteo, all'inizio del cammino di Gesù si trova il discorso della montagna con l'esordio solenne delle beatitudini. Esse, nel loro insieme, sono caratterizzate dalla prospettiva della croce, che poi nell'ultima beatitudine emerge con piena chiarezza: « Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli. Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti perseguitarono i profeti che furono prima di voi » (Mt 5,10ss). 141
Infine bisogna ancora ricordare che Luca mette all'inizio della sua descrizione del cammino di Gesù il rifiuto da Lui subito a Nazaret (cfr 4,1629). Gesù annuncia che la promessa di Isaia di un anno di grazia del Signore si è adempiuta: « Mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi...» (4,18). Ma i suoi compaesani, a motivo della sua pretesa, ben presto montano in collera e lo cacciano fuori della città. «Lo condussero fin sul ciglio del monte sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù » (4, 29). Proprio col messaggio della grazia, che Gesù porta, s'inaugura la prospettiva della croce. Luca, che ha composto il suo Vangelo con molta cura, in piena consapevolezza ha messo questa scena come una specie di titolo sopra tutto l'operare di Gesù. Non esiste una contraddizione tra il lieto messaggio di Gesù e la sua accettazione della croce quale morte per i molti, al contrario: solo nell'accettazione e trasformazione della morte, il lieto annuncio raggiunge tutta la sua profondità. Del resto, l'idea del formarsi dell'Eucaristia nell'ambito della « comunità » è anche dal punto di vista storico assolutamente assurda. Chi avrebbe potuto permettersi di concepire un tale pensiero, di creare una tale realtà? Come avrebbe potuto essere che i primi cristiani - evidentemente già negli anni 30 accettassero una simile invenzione senza fare obiezioni? Con ragione dice Pesch al riguardo « che finora 142
non si è potuto presentare nessuna convincente spiegazione secondaria della tradizione della cena » (Abendmahl, p. 21). Essa non esiste. Solo dalla peculiarità della coscienza personale di Gesù poteva nascere questo. Solo Lui era in grado di intrecciare così sovranamente nell'unità i fili della Legge e dei Profeti - totalmente nella fedeltà alla Scrittura e totalmente nella novità del suo essere di Figlio. Solo perché Egli stesso l'aveva detto e fatto, la Chiesa nelle sue diverse correnti fin dall'inizio poteva « spezzare il pane », come Gesù aveva fatto nella notte del tradimento.
3. L A TEOLOGIA DELLE PAROLE D'ISTITUZIONE
Dopo tutte queste riflessioni sul quadro storico e sull'attendibilità storica delle parole d'istituzione di Gesù, è tempo di rivolgere l'attenzione al loro messaggio contenutistico. Anzitutto bisogna ricordare ancora che nelle quattro relazioni sull'Eucaristia incontriamo due tipi di tradizione con differenze caratteristiche, che qui non dobbiamo esaminare nei particolari. Si devono tuttavia menzionare brevemente le differenze più importanti. Mentre in Marco ( 1 4 , 2 2 ) e Matteo ( 2 6 , 2 6 ) la parola sul pane è soltanto: « Questo è il mio corpo », in Paolo si legge: « Questo è il mio corpo, che è per voi» (2 Cor 1 1 , 2 4 ) , e Luca completa secondo il senso scrivendo: « Questo è il mio corpo che è dato per voi» ( 2 2 , 1 9 ) . In Luca e Paolo a ciò fa subito seguito il comando di ripetizione: « Fate questo in memoria di me», che in Matteo e Marco manca. 143
La parola sul calice secondo Marco suona: « Questo è il mio sangue, il sangue dell'alleanza versato per molti» (14,24); Matteo aggiunge ancora: «... per molti, in remissione dei peccati» (26,28). Secondo Paolo, invece, Gesù ha detto: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me » (1 Cor 11,25). Luca formula in modo simile, ma con piccole differenze. «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi » (22,20). Manca il secondo comando di ripetizione. Sono, però, importanti due differenze chiare tra Paolo/Luca, da una parte, e Marco/Matteo, dall'altra: in Marco e Matteo « sangue » è il soggetto: «Questo è il mio sangue», mentre Paolo e Luca dicono: Questa è « la nuova alleanza nel mio sangue». Molti vi vedono un riguardo per il ribrezzo degli Ebrei nei confronti dell'ingestione di sangue: come contenuto diretto della cosa da bere non viene indicato «il sangue», ma «la nuova alleanza». Con ciò siamo già arrivati alla seconda differenza: mentre Marco e Matteo parlano semplicemente di « sangue dell'alleanza », alludendo con questo ad Esodo 24,8, cioè alla stipulazione dell'alleanza presso il Sinai, Paolo e Luca parlano della nuova alleanza, riferendosi con ciò a Geremia 31,31 - appare quindi ogni volta un retroscena veterotestamentario diverso. Inoltre Marco e Matteo parlano del versamento del sangue « per molti », alludendo con ciò ad Isaia 53,12, mentre Paolo e Luca dicono « per voi », lasciando così pensare immediatamente alla comunità dei discepoli. Comprensibilmente esiste nell'esegesi un'am144
pia discussione su quali siano di conseguenza le parole originarie di Gesù. Rudolf Pesch ha mostrato che vi emergono in un primo tempo 46 possibilità che, scambiando tra di loro le singole introduzioni, possono essere ancora raddoppiate (cfr Das Evangelium in Jerusalem, p. 134s). Tali sforzi hanno una loro importanza, ma non possono rientrare nei compiti di questo libro. Noi partiamo dal presupposto che la trasmissione delle parole di Gesù non esiste senza la recezione da parte della Chiesa nascente, che si sapeva severamente impegnata alla fedeltà nell'essenziale, ma era anche consapevole che lo spettro di risonanza delle parole di Gesù con le relative allusioni sottili a testi della Scrittura permetteva qualche modellatura nelle sfumature. Così si potevano sentire risuonare nelle parole di Gesù sia Esodo 24 che Geremia 31 ed accentuare di più l'uno o l'altro contenuto, senza con ciò mancare di fedeltà a quelle parole che, quasi impercettibilmente e tuttavia inequivocabilmente, accoglievano in sé la Legge e i Profeti. Ma con ciò siamo ormai passati all'interpretazione delle parole del Signore. I racconti dell'istituzione in tutti e quattro i testi cominciano con due affermazioni riguardanti l'agire di Gesù che hanno acquistato un significato essenziale per la recezione nella Chiesa dell'insieme. Ci vien detto che Gesù prese il pane, pronunciò la preghiera di benedizione e di ringraziamento e poi spezzò il pane. All'inizio sta Yeucharistia (Paolo/Luca) ovvero Yeulogia (Marco/Matteo): ambedue i termini indicano la berakha, la grande 145
preghiera di ringraziamento e di benedizione della tradizione ebraica, che fa parte sia del rituale pasquale che di altri conviti. Non si mangia senza ringraziare Dio per il dono che Egli offre: per il pane, che fa spuntare e crescere dalla terra, come anche per il frutto della vite. Le due parole diverse che Marco/Matteo, da una parte, e Paolo/Luca, dall'altra, usano, indicano le due direzioni intrinseche a questa preghiera: è ringraziamento e lode per il dono di Dio. Questa lode, però, ritorna quale benedizione sul dono, come si legge in 1 Tim 4,4s: « Tutto ciò che è stato creato da Dio è buono e nulla è da scartarsi, quando lo si prende con rendimento di grazie [eucharistia]; esso viene santificato dalla parola di Dio e dalla preghiera». Gesù nell'ultima cena (come già nella moltiplicazione dei pani, Gv 6,11) ha accolto questa tradizione. Le parole dell'istituzione stanno in questo contesto di preghiera; in esse il ringraziamento diventa benedizione e trasformazione. Sin dai suoi primi inizi, la Chiesa ha compreso le parole di consacrazione non semplicemente come una specie di comando quasi magico, ma come parte della preghiera fatta insieme con Gesù; come parte centrale della lode soffusa di gratitudine, mediante la quale il dono terreno ci viene nuovamente donato da parte di Dio quale corpo e sangue di Gesù, come auto-donazione di Dio nell'amore accogliente del Figlio. Louis Bouyer ha cercato di tracciare lo sviluppo dell'eucharistia cristiana - del «canone» - dalla berakha ebraica. Così si rende comprensibile che « Eucaristia » sia diventata la denominazione dell'insieme del nuovo 146
evento cultuale donato da Gesù. Su quest'argomento dovremo ancora tornare nella quarta sezione di questo capitolo. Come seconda cosa si dice che Gesù «spezzò il pane». Lo spezzare il pane per tutti è in primo luogo la funzione del padre di famiglia, che con ciò in qualche maniera rappresenta anche Dio Padre che, mediante la fertilità della terra, distribuisce a tutti noi il necessario per la vita. È poi anche il gesto dell'ospitalità, col quale si fa partecipare lo straniero alle cose proprie, accogliendolo nella comunione conviviale. Spezzare e condividere: proprio il condividere crea comunione. Questo primordiale gesto umano del dare, del condividere ed unire, ottiene nell'ultima cena di Gesù una profondità tutta nuova: Egli dona se stesso. La bontà di Dio, che si manifesta nel distribuire, diventa del tutto radicale nel momento in cui il Figlio, nel pane, comunica e distribuisce se stesso. Il gesto di Gesù è divenuto così il simbolo di tutto il mistero dell'Eucaristia: negli Atti degli Apostoli e nel cristianesimo primitivo in genere, «spezzare il pane» è la designazione dell'Eucaristia. In essa beneficiamo dell'ospitalità di Dio, che in Gesù Cristo crocifisso e risorto si dona a noi. Lo spezzare il pane e il distribuire - l'atto dell'attenzione amorevole per colui che ha bisogno di me è quindi una dimensione intrinseca della stessa Eucaristia. «Caritas», la premura per l'altro, non è un secondo settore del cristianesimo accanto al culto, ma è radicata proprio in esso e ne fa parte. Nel147
l'Eucaristia, nello « spezzare il pane », la dimensione orizzontale e quella verticale sono collegate inscindibilmente. In questa duplice affermazione sul ringraziare e sul condividere all'inizio del racconto dell'istituzione si rende evidente la natura del nuovo culto fondato da Cristo nell'ultima cena, nella croce e nella risurrezione: con ciò il vecchio culto del tempio viene abolito e nello stesso tempo portato al suo compimento. Giungiamo ora alla parola pronunciata sopra il pane. Secondo Marco e Matteo suona semplicemente: «Questo è il mio corpo», Paolo e Luca aggiungono: «che è dato per voi». Così essi evidenziano ciò che, per sé, è contenuto nel gesto del distribuire. Quando Gesù parla del suo corpo, questo ovviamente non vuol dire il corpo distinto dall'anima e dallo spirito, ma l'intera persona in carne ed ossa. In questo senso Rudolf Pesch commenta giustamente: Gesù «nella sua interpretazione del pane presuppone il significato particolare della sua persona. I discepoli potevano intendere: Questo sono Io, il Messia » (Markusevangelium II, p. 357). Ma come può questo realizzarsi? Gesù, di fatto, si trova in mezzo ai suoi discepoli - che cosa sta facendo? Egli compie ciò che aveva detto nel discorso sul buon pastore: « Nessuno mi toglie la vita, ma la offro da me stesso» (Gi> 10,18). La vita gli sarà tolta sulla croce, ma già ora Egli la offre da se stesso. Trasforma la sua morte violenta in un libero atto di auto-donazione per gli altri ed agli altri. 148
Ed Egli sa: «Ho il potere di offrire la mia vita e il potere di riprenderla di nuovo » (ibid.). Egli dona la vita sapendo che proprio in questo modo la riprende di nuovo. Nell'atto del donare la vita è inclusa la risurrezione. Per questo, in modo anticipato, può distribuire se stesso già ora, perché già ora offre la vita, offre se stesso, e con ciò già ora la riottiene. Così può istituire ora il Sacramento in cui diventa chicco di grano che muore e in cui, attraverso i tempi, distribuisce se stesso agli uomini nella vera moltiplicazione dei pani. La frase riguardante il calice, alla quale rivolgiamo adesso la nostra attenzione, è di una straordinaria densità teologica. Come già accennato più sopra, nelle poche parole di tale frase sono intrecciati insieme tre testi veterotestamentarii, così che l'intera precedente storia della salvezza ne viene riassunta e resa nuovamente presente. C'è anzitutto Esodo 24,8 - la stipulazione dell'alleanza al Sinai; c'è poi Geremia 31,31 - la promessa della nuova alleanza in mezzo alla crisi della storia dell'alleanza, una crisi le cui manifestazioni più rilevanti erano la distruzione del tempio e l'esilio babilonese; infine c'è Isaia 53,12 - la promessa misteriosa del Servo di YHWH, che porta il peccato di molti e in questo modo ottiene per loro la salvezza. Cerchiamo adesso di comprendere questi tre testi, ognuno nel proprio significato e nel suo nuovo contesto. L'alleanza del Sinai, secondo la descrizione di Esodo 24, si basava su due elementi: 149
da una parte, sul « sangue dell'alleanza », il sangue di animali sacrificati, col quale vennero aspersi l'altare - quale simbolo di Dio - e il popolo e, dall'altra, sulla parola di Dio e sulla promessa dell'obbedienza di Israele: « Ecco il sangue dell'alleanza, che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole », aveva detto solennemente Mose dopo il rito dell'aspersione. Immediatamente prima, il popolo aveva risposto alla lettura del libro dell'alleanza: «Quanto ha detto il Signore, lo eseguiremo e vi presteremo ascolto» (Es 24,7s). Questa promessa di obbedienza, che per l'alleanza era costitutiva, immediatamente dopo, quando Mose si trovava sul monte, veniva rotta con l'adorazione del vitello d'oro. Tutta la storia che ne segue è una storia di sempre nuove violazioni della promessa di obbedienza, come mostrano sia i libri storici dell'Antico Testamento che i libri dei profeti. La rottura sembra irrimediabile nel momento in cui Dio abbandona il suo popolo all'esilio e il tempio alla distruzione. In quell'ora emerge la speranza della «nuova alleanza », non più basata sulla fedeltà sempre fragile della volontà umana, ma iscritta indistruttibilmente nei cuori stessi (cfr Ger 31,33). Con altre parole, la nuova alleanza deve basarsi su un'obbedienza che sia irrevocabile ed inviolabile. Questa obbedienza, ora fondata nella radice dell'umanità, è l'obbedienza del Figlio che si è fatto servo ed assorbe nella sua obbedienza sino alla morte ogni disobbedienza umana, la soffre fino in fondo e la vince. 150
Dio non può semplicemente ignorare tutta la disobbedienza degli uomini, tutto il male della storia, non può trattarlo come cosa irrilevante ed insignificante. Una tale specie di « misericordia », di « perdono incondizionato » sarebbe quella « grazia a buon mercato », contro la quale Dietrich Bonhoeffer, di fronte all'abisso del male, del suo tempo, si è a ragione pronunciato. L'ingiustizia, il male come realtà non può semplicemente essere ignorato, lasciato stare. Deve essere smaltito, vinto. Solo questa è la vera misericordia. E che ora, poiché gli uomini non ne sono in grado, lo faccia Dio stesso - questa è la bontà « incondizionata » di Dio, una bontà che non può mai essere in contraddizione con la verità e la connessa giustizia. « Se siamo infedeli, lui rimane fedele, perché non può rinnegare se stesso », scrive Paolo a Timoteo (2 Tim 2,13). Questa sua fedeltà consiste nel fatto che Egli ora non agisce soltanto come Dio nei confronti degli uomini, ma anche come uomo nei confronti di Dio, fondando così l'alleanza in modo irrevocabilmente stabile. Per questo la figura del Servo di YHWH, che porta il peccato di molti (cfr Is 53,12), va insieme con la promessa della nuova alleanza fondata in maniera indistruttibile. Questo innesto ormai indistruttibile dell'alleanza nel cuore dell'uomo, dell'umanità stessa, si realizza nella sofferenza vicaria del Figlio che si è fatto servo. Fin d'allora a tutta la marea sporca del male si oppone l'obbedienza del Figlio, nel quale Dio stesso ha sofferto e la cui obbedienza pertanto è sempre infinitamente più grande della massa crescente del male (cfrRm 5,16-20). 151
Il sangue degli animali non aveva potuto né « espiare » il peccato, né congiungere Dio e gli uomini. Poteva essere solo un segno della speranza e dell'attesa di un'obbedienza più grande e veramente salvifica. Nella parola di Gesù sul calice, tutto ciò è riassunto ed è diventato realtà: Egli dona la «nuova alleanza nel suo sangue». Il «suo sangue » - cioè il dono totale di se stesso, nel quale Egli soffre fino in fondo ogni male dell'umanità, smaltisce ogni tradimento assorbendolo nella sua fedeltà incondizionata. E questo il culto nuovo, che Egli istituisce nell'ultima cena: attirare l'umanità nella sua obbedienza vicaria. Partecipazione al corpo e al sangue di Cristo significa che Egli sta « per molti » - per noi - e nel Sacramento ci accoglie nel numero di questi « molti ». Ora resta ancora da spiegare, nelle parole d'istituzione di Gesù, un'espressione che recentemente ha suscitato molteplici discussioni. Secondo Marco e Matteo, Gesù ha detto che il suo sangue sarebbe stato versato «per molti», alludendo con ciò appunto ad Isaia 53, mentre in Paolo e Luca si parla del dare ovvero del versare « per voi ». La teologia recente ha sottolineato a ragione la parola « per », comune a tutti e quattro i rapporti, una parola che può essere considerata come parola-chiave non solo dei racconti dell'ultima cena, ma della stessa figura di Gesù in genere. L'intera sua indole viene qualificata con la parola «proesistenza » - un esserci non per se stesso, ma per gli altri, e questo non soltanto come una dimensione qualsiasi di questa esistenza, ma come ciò 152
che ne costituisce l'aspetto più intimo e più totalizzante. Il suo essere è come tale un «essere per». Se riusciremo a capire questo, allora ci saremo veramente avvicinati al mistero di Gesù, allora sapremo anche che cosa significhi sequela. Ma che cosa significa «versato per molti»? Nella sua opera fondamentale Die Abendmahlsworte Jesu (1935), Joachim Jeremias ha cercato di mostrare che la parola « molti » nei racconti sull'istituzione sarebbe un semitismo e che quindi dovrebbe essere letta non a partire dal significato della parola greca, ma in base ai corrispondenti testi veterotestamentarii. Egli cerca di dimostrare che la parola «molti» nell'Antico Testamento significa «la totalità» e quindi in realtà sarebbe da tradurre con «tutti». Questa tesi si è allora presto affermata ed è divenuta una comune convinzione teologica. In base ad essa, nelle parole della consacrazione, il «molti» è stato tradotto in diverse lingue con «tutti». «Versato per voi e per tutti», così in vari Paesi i fedeli durante la Celebrazione eucaristica sentono oggi le parole di Gesù. Nel frattempo, però, questo consenso tra gli esegeti si è nuovamente frantumato. L'opinione prevalente tende oggi verso la spiegazione che « molti » in Isaia 53 e anche in altri punti, pur significando una totalità, non possa essere semplicemente equiparato con «tutti». Orientandosi al linguaggio di Qumran, si suppone ora prevalentemente che « molti » in Isaia e in Gesù significhi la « totalità » di Israele (cfr Pesch, Abendmahl pp. 99s; Wilckens 1/2, p. 84). Solo col passaggio del Vangelo ai pagani si s
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sarebbe reso evidente l'orizzonte universale della morte di Gesù e della sua espiazione, che comprende ugualmente Giudei e pagani. Ultimamente, il gesuita viennese Norbert Baumert, insieme con Maria-Irma Seewann, ha presentato un'interpretazione del « per molti », che nella sua linea principale già nel 1947 Joseph Pascher aveva sviluppata nel suo libro Eucharistia. Il nucleo della tesi è questo: secondo la struttura linguistica del testo, 1'« essere versato » non si riferisce al sangue, ma al calice; « si tratterebbe quindi di un attivo " versare " del sangue dal calice, un atto in cui la stessa vita divina è donata abbondantemente, senza alcuna allusione all'agire di carnefici» (Gregorianum 89, p. 507). La parola sul calice quindi non alluderebbe all'evento della morte in croce e al suo effetto, ma all'atto sacramentale, e così si chiarirebbe anche la parola «molti»: mentre la morte di Gesù vale « per tutti », la portata del Sacramento è più limitata. Esso raggiunge molti, ma non tutti (cfr in particolare p. 511). Sotto l'aspetto strettamente filologico, questa soluzione può risultare vera per il testo di Marco 14,24. Se non si attribuisce alcun'originalità al testo di Matteo nei confronti di Marco, per le parole dell'ultima cena la soluzione potrebbe essere qualificata convincente. La sottolineatura della differenza tra il raggio dell'Eucaristia e il raggio universale della morte in croce di Gesù è in ogni caso preziosa e può portare avanti la ricerca. Ma il problema della parola « molti », tuttavia, con ciò è spiegato solo in parte. 154
Resta, infatti, l'interpretazione fondamentale, che Gesù dà della sua missione in Marco 10,45, dove pure ricorre la parola «molti»: «Il Figlio dell'uomo infatti non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti». Qui si parla chiaramente della donazione della vita come tale, e così è evidente che Gesù con ciò riprende la profezia sul Servo di YHWH in Isaia 53 e la collega con la missione del Figlio dell'uomo, che conseguentemente assume un nuovo significato. Che cosa, dunque, dobbiamo dire? Mi sembra presuntuoso e insieme sciocco, voler scrutare la coscienza di Gesù e volerla spiegare in base a ciò che Egli, secondo la nostra conoscenza di quei tempi e delle loro concezioni teologiche, può aver pensato o non pensato. Possiamo solo dire che Egli sapeva che nella sua persona si compiva la missione del Servo di YHWH e quella del Figlio dell'uomo - per cui il collegamento tra i due motivi comporta allo stesso tempo un superamento della limitazione della missione del Servo di YHWH, una universalizzazione che indica una nuova vastità e profondità. Possiamo poi notare come nel cammino della Chiesa nascente al contempo cresca lentamente la comprensione della missione di Gesù e come il « ricordare » dei discepoli sotto la guida dello Spirito di Dio (cfr Gv 14,26) cominci passo passo a percepire tutto il mistero presente dietro le parole di Gesù. 1 Tm 2,6 parla di Gesù come dell'unico mediatore tra Dio e gli uomini, «che ha dato se 155
stesso in riscatto per tutti». Il significato salvifico universale della morte di Gesù è qui espresso con una chiarezza cristallina. Risposte storicamente differenziate e nella sostanza pienamente concordi alla questione circa il raggio dell'opera salvifica di Gesù - risposte indirette al problema «molti/tutti» - possiamo trovare in Paolo ed in Giovanni. Paolo scrive ai Romani che i pagani «nella loro totalità» (pleróma) devono raggiungere la salvezza e che tutto Israele sarà salvato (ll,25s). Giovanni dice che Gesù sarebbe morto « per il popolo » (gli Ebrei), però « non per la nazione soltanto, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (ll,50ss). La morte di Gesù vale per gli Ebrei e per i pagani, per l'umanità nel suo insieme. Se il « molti » in Isaia poteva significare essenzialmente la totalità di Israele, nella risposta credente che la Chiesa dà all'uso nuovo della parola da parte di Gesù si rende sempre più evidente che Egli di fatto è morto per tutti. Il teologo protestante Ferdinand Kattenbusch nel 1921 ha cercato di mostrare che le parole dell'istituzione di Gesù durante l'ultima cena costituirebbero l'atto vero e proprio di fondazione della Chiesa. Con ciò Gesù avrebbe dato ai suoi discepoli quella novità che li univa e faceva di loro una comunità. Kattenbusch aveva ragione: con l'Eucaristia è stata istituita la Chiesa stessa. Essa diventa un'unità, diventa se stessa a partire dal corpo di Cristo e insieme, a partire dalla sua morte, è resa aperta verso la vastità del mondo e della storia. «
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L'Eucaristia è al contempo il visibile processo del riunirsi, un processo che nel luogo e attraverso tutti i luoghi è un entrare in comunione col Dio vivente, che dall'interno avvicina gli uomini gli uni agli altri. La Chiesa si forma a partire dall'Eucaristia. Da essa riceve la sua unità e la sua missione. La Chiesa deriva dall'ultima cena, ma proprio per questo deriva dalla morte e risurrezione di Cristo, anticipate da Lui nel dono del suo corpo e del suo sangue.
4 . DALLA CENA ALL'EUCARISTIA DELLA DOMENICA MATTINA
In Paolo e Luca, alla parola « Questo è il mio corpo che è dato per voi » segue il comando di ripetizione: «Fate questo in memoria di me!»; Paolo lo riporta in forma più ampia una volta ancora dopo le parole sul calice. Marco e Matteo non trasmettono quest'ordine. Ma poiché la forma concreta dei loro racconti reca l'impronta della pratica liturgica, è evidente che anch'essi hanno interpretato questa parola come un'istituzione: ciò che lì era avvenuto per la prima volta doveva continuare nella comunità dei discepoli. Emerge, tuttavia, la domanda: qual è precisamente la cosa che il Signore ha ordinato di ripetere? Sicuramente non la cena pasquale (nel caso che l'ultima cena di Gesù fosse stata una cena pasquale). La Pasqua era una festa annuale, la cui celebrazione ricorrente in Israele era chiaramente regolata dalla sacra tradizione e legata ad una preci157
sa data. Anche se in quella sera non si fosse trattato di una vera cena pasquale secondo il diritto giudaico, ma di un ultimo convito terreno prima della morte, questo non è l'obiettivo del comando di ripetizione. Il comando si riferisce quindi soltanto a ciò che nell'agire di Gesù in quella sera era una novità: lo spezzare il pane, la preghiera di benedizione e di ringraziamento e con essa le parole della transustanziazione del pane e del vino. Potremmo dire: mediante quelle parole, il nostro momento attuale viene tirato dentro il momento di Gesù. Si verifica ciò che Gesù ha annunciato in Giovanni 12,32: dalla croce Egli attira tutti a sé, dentro di sé. Così, con le parole e i gesti di Gesù era, sì, stato donato l'elemento essenziale del nuovo «culto», ma non era ancora stata prestabilita una definitiva forma liturgica. Essa doveva ancora svilupparsi nella vita della Chiesa. Era ovvio che, secondo il modello dell'ultima cena, prima si cenava insieme e poi si aggiungeva l'Eucaristia. Rudolf Pesch ha mostrato che, considerate la struttura sociale della Chiesa nascente e le abitudini di vita, questo convito comunque consisteva probabilmente solo di pane senza altri cibi. Nella Prima Lettera ai Corinzi (ll,20ss.34) vediamo che*in una società diversa le cose andavano diversamente: i benestanti portavano con sé il loro pasto e si servivano abbondantemente, mentre per i poveri anche lì non c'era che solo pane. Esperienze di questo genere hanno poi ben presto condotto ad uno stacco della cena del Signore dal convito 158
normale ed allo stesso tempo hanno accelerato il formarsi di una specifica struttura liturgica. In nessun caso dobbiamo pensare che nella « cena del Signore » fossero semplicemente recitate soltanto le parole di consacrazione. A partire da Gesù stesso, esse appaiono come una parte della sua berakha, della sua preghiera di ringraziamento e di benedizione. Per che cosa ha ringraziato Gesù? Per 1'« esaudimento» (cfr Ebr 5,7). Ha ringraziato in anticipo del fatto che il Padre non lo avrebbe abbandonato alla morte (cfr Sai 16,10). Ha ringraziato per il dono della risurrezione, e in base ad essa già in quel momento poteva dare nel pane e nel vino il suo corpo e il suo sangue come pegno della risurrezione e della vita eterna (cfr Gv 6,53-58). Possiamo pensare allo schema dei Salmi di voto, in cui l'oppresso annuncia che, una volta salvato, ringrazierà Iddio e proclamerà l'azione salvifica di Dio davanti alla grande assemblea. Il Salmo 22, applicabile alla passione, che comincia con le parole: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? », termina con una promessa che anticipa l'esaudimento: «Sei tu la mia lode nella grande assemblea, scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli. I poveri mangeranno e saranno saziati, loderanno il Signore quanti lo cercano» (vv. 26s). Di fatto - ora questo si realizza: « I poveri mangeranno » - essi ricevono più del nutrimento terreno, ricevono la vera manna, la comunione con Dio nel Cristo risorto. Naturalmente, queste connessioni si sono rese 159
chiare ai discepoli solo passo passo. Ma a partire dalle parole di ringraziamento di Gesù, le quali conferiscono alla berakha giudaica un nuovo centro, la preghiera di ringraziamento, Yeucharistia, si rivela sempre di più come il vero modello influente, come la forma liturgica nella quale le parole d'istituzione hanno il loro senso e si presenta il culto nuovo che sostituisce i sacrifici del tempio: glorificazione di Dio nella parola, ma in una parola che in Gesù si è fatta carne e ora, a partire da questo corpo di Gesù che ha attraversato la morte, coinvolge l'uomo intero, tutta l'umanità - e diventa l'inizio di una nuova creazione. Josef Andreas Jungmann, il grande studioso della storia della Celebrazione eucaristica e uno degli architetti della riforma liturgica, riassume tutto ciò dicendo: «La forma fondamentale è la preghiera di ringraziamento sul pane e sul vino. Dalla preghiera di ringraziamento dopo il convito dell'ultima sera, la liturgia della Messa ha preso il suo inizio, non dal convito stesso. Quest'ultimo era considerato cosi poco essenziale e così facilmente separabile che già nella Chiesa primitiva venne omesso. La liturgia e tutte le liturgie, invece, hanno sviluppato la preghiera di ringraziamento pronunciata sul pane e sul vino... Ciò che la Chiesa celebra nella Messa non è l'ultima cena, ma ciò che il Signore, durante l'ultima cena, ha istituito ed affidato alla Chiesa: la memoria della sua morte sacrificale» (Messe im Gottesvolk, p. 24). Corrisponde a ciò la costatazione storica secondo cui « in tutta la tradizione del cristianesimo, 160
dopo il distacco dell'Eucaristia da un vero convito (dove appare " spezzare il pane " e " cena del Signore ") fino alla Riforma del secolo XVI, per la celebrazione dell'Eucaristia non viene mai usato un nome che significhi " convito "» (p. 23, nota 73). Per il formarsi del culto cristiano, però, è determinante ancora un altro elemento. In base alla sua certezza di essere esaudito, il Signore già nell'ultima cena aveva dato ai discepoli il suo corpo e il suo sangue come dono della risurrezione: croce e risurrezione fanno parte dell'Eucaristia, che senza di esse non è se stessa. Ma poiché il dono di Gesù è essenzialmente un dono radicato nella risurrezione, la celebrazione del Sacramento doveva necessariamente essere collegata con la memoria della risurrezione. Il primo incontro con il Risorto era avvenuto il mattino del primo giorno della settimana - del terzo giorno dopo la morte di Gesù - quindi la domenica mattina. Con ciò il mattino del primo giorno diventava spontaneamente il momento del culto cristiano, la domenica il «Giorno del Signore ». Questa determinazione cronologica della liturgia cristiana, che allo stesso tempo definisce la sua intima natura e la sua forma, è avvenuta ben presto. Così il rapporto di un testimone oculare in Atti 20,6-11 ci racconta del viaggio di san Paolo e dei suoi compagni verso Troade e dice: « Il primo giorno della settimana ci eravamo riuniti a spezzare il pane...» (20,7). Questo significa che già nel periodo degli apostoli lo « spezzare il pane » era stato fissato per il mattino del giorno della risurre0
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zione - l'Eucaristia veniva celebrata come incontro con il Risorto. In questo contesto sta anche la disposizione di Paolo di effettuare la colletta per Gerusalemme sempre il « primo giorno della settimana » (cfr 1 Cor 16,2). È vero che lì non si parla della Celebrazione eucaristica, ma ovviamente la domenica è il giorno dell'assemblea della comunità di Corinto e con ciò evidentemente anche il giorno del loro culto. Infine troviamo in Apocalisse 1,10 per la prima volta l'espressione « Giorno del Signore » per qualificare la domenica. La nuova articolazione cristiana della settimana è modellata in modo chiaro. Il giorno della risurrezione è il Giorno del Signore e con ciò anche il giorno dei suoi discepoli, della Chiesa. Alla fine del primo secolo, la tradizione è ormai chiaramente fissata, quando ad esempio la Didachè (ca. 100) con ogni ovvietà dice: « Nel Giorno del Signore radunatevi, spezzate il pane e rendete grazie, dopo aver prima confessato i peccati» (14,1). Per Ignazio d'Antiochia (+ ca. 110), la vita « secondo il Giorno del Signore» è ormai la caratteristica distintiva dei cristiani di fronte a coloro che celebrano il Sabato (Ad Magn. 9,1). Era logico che con la Celebrazione eucaristica si collegasse la liturgia della parola - lettura della Scrittura, spiegazione e preghiera - inizialmente tenuta ancora nella sinagoga. In conseguenza di ciò, all'inizio del secolo II, la formazione del culto cristiano, nelle sue componenti essenziali, era conclusa. Questo processo di sviluppo fa parte dell'istituzione stessa. L'istituzione presuppone - come 162
s'è detto - la risurrezione e con ciò anche la comunità vivente che, sotto la guida dello Spirito di Dio, dà al dono del Signore la sua forma nella vita dei fedeli. Un arcaismo, che volesse tornare a prima della risurrezione e della sua dinamica ed imitare soltanto l'ultima cena, non corrisponderebbe affatto alla natura del dono, che il Signore ha lasciato ai discepoli. Il giorno della risurrezione è il luogo esteriore ed interiore del culto cristiano, e il ringraziamento quale creatrice anticipazione della risurrezione da parte di Gesù è la maniera in cui il Signore fa di noi persone che rendono grazie con Lui, la maniera in cui Egli, nel dono, ci benedice e ci coinvolge nella trasformazione, che a partire dai doni deve raggiungerci ed espandersi sul mondo: «finché Egli venga » (2 Cor 11,26).
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Capitolo 6 GETSEMANI
1. IN CAMMINO VERSO IL MONTE DEGLI ULIVI
«•p^Vopo aver cantato l'inno, uscirono verso il Ì ^ J Monte degli ulivi » - con queste parole, Matteo e Marco concludono i loro racconti dell'ultima cena (Mi 26,30; Me 14,26). L'ultimo convito di Gesù - cena pasquale o no - è soprattutto un evento cultuale. Al suo centro sta la preghiera di ringraziamento e di lode e alla fine esso sfocia nuovamente nella preghiera. Pregando Gesù esce con i suoi nella notte, che richiama da vicino quella notte in cui furono colpiti i primogeniti d'Egitto ed Israele venne salvato mediante il sangue dell'agnello (cfr Es 12) - esce nella notte nella quale Egli deve assumersi il destino dell'agnello. Si suppone che Gesù, nella prospettiva della Pasqua che Egli aveva celebrato a modo suo, abbia cantato forse alcuni Salmi deìYhallèl (113-118 e 136), nei quali si ringrazia Dio per la liberazione di Israele dall'Egitto; Salmi però nei quali si parla anche della pietra scartata dai costruttori, che ora è diventata prodigiosamente pietra angolare. In questi Salmi, la storia passata diventa sempre di nuovo momento presente. Il ringraziamento per la liberazione è allo stesso tempo un'invocazione di aiuto in mezzo a tribolazioni e minacce sempre nuove, e nella parola circa la pietra scartata si ren165
dono presenti il buio e insieme la promessa di quella notte. Gesù recita con i suoi discepoli i Salmi d'Israele: è questo un dato fondamentale per la comprensione, da un lato, della figura di Gesù ma, dall'altro, anche degli stessi Salmi che, sotto un certo aspetto, in Lui ottengono un nuovo soggetto, un nuovo modo di presenza e insieme un allargamento al di là di Israele verso l'universalità. Vedremo che in ciò sorge anche una nuova visione della figura di Davide: nel Salterio canonico, Davide è visto come l'autore principale dei Salmi. Egli appare così come colui che guida ed ispira la preghiera di Israele, colui che riassume tutte le sofferenze e le speranze di Israele, le porta in sé e le trasforma in preghiera. Israele può quindi continuamente pregare con lui ed esprimere se stesso nei Salmi, dai quali in ogni oscurità riceve anche sempre nuova speranza. Nella Chiesa nascente, ben presto Gesù venne considerato come il nuovo, il vero Davide e così, senza rottura e tuttavia in modo nuovo, i Salmi potevano essere recitati come preghiera in comunione con Gesù Cristo. Questo modo cristiano di pregare con i Salmi - un modo che si è sviluppato presto - Agostino l'ha spiegato in maniera perfetta dicendo che nei Salmi è sempre Cristo che parla, una volta come Capo, una volta come Corpo (cfr ad es. En. in Ps., 60,ls; 61,4; 85,1.5). Ma mediante Lui, Gesù Cristo, noi siamo ora un unico soggetto e possiamo così, insieme con Lui, parlare veramente con Dio. Questo processo dell'assunzione e della traspò166
sizione, che comincia con la preghiera dei Salmi da parte di Gesù, è caratteristico per l'unità dei due Testamenti come Egli ce la insegna. Gesù prega in perfetta comunione con Israele ed è, tuttavia, Egli stesso Israele in modo nuovo: l'antica Pasqua appare ora come un grande anticipato abbozzo. La nuova Pasqua, però, è Gesù stesso e la vera « liberazione » si attua adesso mediante il suo amore che abbraccia l'intera umanità. Questa compenetrazione di fedeltà e novità, che abbiamo potuto osservare nella figura di Gesù lungo tutti i capitoli di questo libro, si manifesta anche in un altro dettaglio del racconto del Monte degli ulivi. Nelle notti precedenti, Gesù si era ritirato a Betània. In questa notte, che celebra come la sua notte di Pasqua, Egli segue la prescrizione di non lasciare il territorio della città di Gerusalemme, i cui confini per tale notte erano stati allargati per dare a tutti i pellegrini la possibilità di essere fedeli a questa legge. Gesù osserva la norma e proprio così va consapevolmente incontro al traditore e all'ora della passione. Se a questo punto gettiamo ancora uno sguardo retrospettivo sull'intero cammino di Gesù, vediamo anche qui lo stesso intreccio di fedeltà e totale novità: Gesù è «osservante». Celebra con gli altri le feste ebraiche. Prega nel tempio. Si regola secondo Mose e i Profeti. Ma al contempo tutto diventa nuovo: dalla sua spiegazione del Sabato (cfr Me 2,27; al riguardo cfr anche pp. 132-140 nella Prima Parte di questo libro), alle prescrizioni circa la purità rituale (cfr Me 7), alla nuova interpreta-
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zione del Decalogo nel discorso della montagna (cfr Mt 5,17-48), fino alla purificazione del tempio (cfr Mi 21,12s e par.), che anticipa la fine del tempio di pietra e annuncia il nuovo tempio, la nuova adorazione « in spirito e verità » (Gv 4,24). Abbiamo visto che questo sta in profonda continuità con la volontà originaria di Dio ed è al tempo stesso la svolta decisiva della storia delle religioni, svolta che nella croce diventa realtà. Proprio questo intervento - la purificazione del tempio - ha contribuito in modo essenziale alla sua condanna alla morte in croce, e proprio così si è adempiuta la sua profezia, ha preso inizio il culto nuovo. « Giunsero a un podere chiamato Getsemani ed egli disse ai suoi discepoli: " Sedetevi qui, mentre io prego "» (Me 14,32). Annota Gerhard Kroll al riguardo: «Ai tempi di Gesù, su questo territorio nel pendio del Monte degli ulivi si trovava una fattoria con un frantoio in cui le olive venivano spremute... Esso dava alla fattoria il nome di Getsemani... Molto vicino c'era una grande caverna naturale, che poteva offrire a Gesù e ai suoi discepoli un alloggio sicuro anche se non proprio comodo per la notte» (p. 404). Qui, già al termine del IV secolo, la pellegrina Eteria trovava una « magnifica chiesa », che nel succedersi turbinoso dei tempi è andata in rovina, ma nel XX secolo è stata riscoperta dai francescani. « L'odierna Chiesa dell'agonia di Gesù, completata nel 1924, abbraccia insieme con lo spazio della "ecclesia elegans" [la chiesa della pellegrina Eteria] nuovamente la roc168
eia sulla quale, secondo la tradizione, ... Gesù ha pregato» (Kroll,p. 410). È questo uno dei luoghi più venerabili della cristianità. Certo, gli alberi non risalgono al tempo di Gesù; durante l'assedio di Gerusalemme, Tito fece abbattere tutti gli alberi nei vasti dintorni della città. Il Monte degli ulivi, tuttavia, è lo stesso di allora. Chi lì si trattiene, si trova davanti ad un culmine drammatico del mistero del nostro Redentore: qui Gesù ha sperimentato l'ultima solitudine, tutta la tribolazione dell'essere uomo. Qui l'abisso del peccato e di tutto il male gli è penetrato nel più profondo dell'anima. Qui è stato toccato dallo sconvolgimento della morte imminente. Qui il traditore lo ha baciato. Qui tutti i discepoli lo hanno lasciato. Qui Egli ha lottato anche per me. San Giovanni riprende tutte queste esperienze e dà al luogo un'interpretazione teologica, dicendo: «Al di là del torrente Cedron c'era un giardino» (18,1). La stessa parola-chiave ritorna alla fine del racconto della passione: « Nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro nuovo, nel quale nessuno era stato ancora posto» (19,41). È evidente che Giovanni con la parola « giardino » allude al racconto del Paradiso e del peccato originale. Vuole dirci che qui quella storia viene ripresa. Nel « giardino » avviene il tradimento, ma il giardino è anche il luogo della risurrezione. Nel giardino, infatti, Gesù ha accettato fino in fondo la volontà del Padre, l'ha fatta sua e così ha capovolto la storia.
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Dopo la comune preghiera dei Salmi, ancora in cammino verso il luogo del riposo notturno, Gesù fa tre profezie. Applica a sé la profezia di Zaccaria, che aveva detto che il « pastore » sarebbe stato percosso - che cioè sarebbe stato ucciso - e che, di conseguenza, le pecore sarebbero state disperse (cfr Zc 13,7; Mt 26, 31). Zaccaria, in una misteriosa visione, aveva accennato a un Messia che subisce la morte e ad una conseguente nuova dispersione di Israele. Solo attraverso queste tribolazioni estreme egli attendeva la salvezza da parte di Dio. A questa visione in se stessa oscura e protesa verso un futuro ignoto, Gesù dà ima forma concreta: sì, il pastore viene percosso. Gesù stesso è il pastore d'Israele, il pastore dell'umanità. Ed Egli prende su di sé l'ingiustizia, il carico distruttivo della colpa. Si lascia percuotere. Si mette dalla parte degli sconfitti della storia. Adesso, in quell'ora, ciò significa anche che la comunità dei discepoli si disperde, che questa nuova famiglia di Dio, appena nata, si sfascia prima ancora di aver cominciato a stabilirsi veramente. «Il pastore dà la propria vita per le pecore » (Gì? 10,11). Questa parola di Gesù, in base a Zaccaria, appare in una nuova luce: è venuta l'ora per la sua realizzazione. Alla profezia di disgrazia segue, però, subito anche la promessa di salvezza: « Dopo che sarò risorto, vi precederò in Galilea» (Me 14,28). «Precedere » è una parola tipica del linguaggio dei pastori. Gesù, passando attraverso la morte, vivrà nuovamente. Come Risorto, Egli è pienamente quel pastore che, attraverso la morte, conduce sul170
la strada della vita. Ambedue le cose fanno parte del buon pastore: il dare la propria vita ed il precedere. Anzi, il dare la vita costituisce il precedere. Proprio per mezzo di questo dare la vita Egli ci conduce. Proprio mediante questo «dare» Egli apre la porta verso la vastità della realtà. Attraverso la dispersione avviene il raduno definitivo delle pecore. All'inizio della notte sul Monte degli ulivi sta quindi la parola oscura del percuotere e del disperdere, ma anche la promessa che Gesù proprio così si manifesterà come il vero pastore, radunerà i dispersi e li condurrà verso Dio, introducendoli nella vita. La terza profezia è un'ulteriore modifica delle discussioni con Pietro svoltesi nell'ultima cena. Pietro non bada alla profezia della risurrezione. Percepisce soltanto l'annuncio di morte e dispersione, e questo gli offre l'occasione di ostentare il suo coraggio incrollabile e la sua fedeltà radicale nei confronti di Gesù. Poiché è contrario alla croce, non può percepire la parola sulla risurrezione e vorrebbe - come già presso Cesarea di Filippo - il successo senza la croce. Egli confida nelle proprie forze. Chi potrebbe negare che il suo atteggiamento rispecchi la tentazione continua dei cristiani, anzi anche della Chiesa: senza la croce arrivare al successo. Così bisogna annunciargli la sua debolezza, il triplice rinnegamento. Nessuno da sé è abbastanza forte per percorrere la via della salvezza fino alla fine. Tutti hanno peccato, tutti hanno bisogno della misericordia del Signore, dell'amore del Crocifisso (cfr Rm 3,23s). 171
2 . LA PREGHIERA DI GESÙ
Della preghiera sul Monte degli ulivi, che ora segue, abbiamo cinque relazioni: innanzitutto le tre dei Vangeli sinottici (cfr Mi 26,36-46; Me 14,32-42; Le 22,39-46); s'aggiunge un breve testo nel Vangelo di Giovanni, inserito però da Giovanni nella raccolta dei discorsi tenuti nel tempio la «Domenica delle Palme» (cfr 12,27s) e infine un testo della Lettera agli Ebrei, basato su una tradizione particolare (cfr 5,7ss). Cerchiamo ora, in un ascolto congiunto dei testi, di avvicinarci per quanto possibile al mistero di quell'ora di Gesù. Dopo la rituale recita in comune dei Salmi, Gesù prega da solo - come durante tante notti in precedenza. Lascia, tuttavia, vicino a sé il gruppo dei tre - noto da altri contesti e in particolare dal racconto della trasfigurazione: Pietro, Giacomo e Giovanni. Così questi, anche se ripetutamente sopraffatti dal sonno, diventano testimoni della sua lotta notturna. Marco ci racconta che Gesù comincia a « sentire paura e angoscia ». Il Signore dice ai discepoli: « La mia anima è triste fino alla morte. Restate qui e vegliate! » (14,33s). L'appello alla vigilanza è già stato un tema di fondo nell'annuncio a Gerusalemme e adesso appare con un'urgenza molto immediata. Ma pur riferendosi proprio a quell'ora, tale appello rimanda in anticipo alla storia futura della cristianità. La sonnolenza dei discepoli rimane lungo i secoli l'occasione favorevole per il potere del male. Questa sonnolenza è un intorpidimento dell'anima, che non si lascia scuotere dal potere del male nel 172
mondo, da tutta l'ingiustizia e da tutta la sofferenza che devastano la terra. È un'insensibilità che preferisce non percepire tutto ciò; si tranquillizza col pensiero che tutto, in fondo, non è poi tanto grave, per poter così continuare nell'autocompiacimento della propria esistenza soddisfatta. Ma questa insensibilità delle anime, questa mancanza di vigilanza sia per la vicinanza di Dio che per la potenza incombente del male conferisce al maligno un potere nel mondo. Di fronte ai discepoli assonnati e non disposti ad allarmarsi, il Signore dice di se stesso: « La mia anima è triste fino alla morte». E questa una parola del Salmo 43,5 nella quale risuonano altre espressioni dei Salmi. Anche nella sua passione - sul Monte degli ulivi come sulla croce - Gesù parla di sé e a Dio Padre mediante parole dei Salmi. Ma queste parole tratte dai Salmi sono diventate del tutto personali, parole assolutamente proprie di Gesù nella sua tribolazione: Egli è di fatto il vero orante di questi Salmi, il loro vero soggetto. La preghiera molto personale e il pregare con le parole di invocazione dell'Israele credente e sofferente sono qui una cosa sola. Dopo questa esortazione alla vigilanza, Gesù si allontana un po'. Inizia la preghiera vera e propria del Monte degli ulivi. Matteo e Marco ci dicono che Gesù cade faccia a terra - è la posizione di preghiera che esprime l'estrema sottomissione alla volontà di Dio, il più radicale abbandono a Lui; una posizione che la liturgia occidentale prevede ancora al Venerdì Santo e nella Professione mona173
stica come anche nell'ordinazione diaconale e in quella presbiterale ed episcopale. Luca dice invece che Gesù prega in ginocchio. Inserisce così, in base alla posizione di preghiera, questa lotta notturna di Gesù nel contesto della storia della preghiera cristiana: Stefano, durante la lapidazione, piega le ginocchia e prega, (cfr At 7,60); Pietro s'inginocchia prima di risuscitare Tabità dalla morte (cfr At 9,40); Paolo s'inginocchia, quando si congeda dai presbiteri di Efeso (cfr At 20,36), e un'altra volta quando i discepoli gli dicono di non salire a Gerusalemme (cfr At 21,5). Dice Alois Stòger al riguardo: « Tutti questi, di fronte alla morte, pregano in ginocchio; il martirio non può essere superato che mediante la preghiera. Gesù è modello dei martiri » (Das Evangelhim nach Lukas II, p. 247). Segue poi la preghiera vera e propria in cui è presente tutto il dramma della nostra redenzione. Marco dice prima in modo riassuntivo che Gesù pregava affinché, « se fosse possibile, passasse via da Lui quell'ora » (14,35). Riporta poi così la frase essenziale della preghiera di Gesù: « Abbà! Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (14,36). Possiamo distinguere, in questa preghiera di Gesù, tre elementi. C'è innanzitutto l'esperienza primordiale della paura, lo sconvolgimento di fronte al potere della morte, lo spavento davanti all'abisso del nulla, che lo fa tremare, anzi che, secondo Luca, lo fa sudare gocce di sangue (cfr 22,44). In 0
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Giovanni (cfr 12,27) questo sconvolgimento è espresso, come nei sinottici, in riferimento al Salmo 43,5, ma con una parola che rende particolarmente evidente il carattere abissale della paura di Gesù: tetàraktai - è la stessa parola taràssein che Giovanni usa per descrivere il profondo turbamento di Gesù alla tomba di Lazzaro (cfr 11,33), come anche il suo turbamento interiore nel preannuncio del tradimento di Giuda nel cenacolo (cfr 13,21). Con ciò Giovanni esprime senza dubbio l'angoscia primordiale della creatura di fronte alla vicinanza della morte, c'è però qualcosa di più: è lo sconvolgimento particolare di Colui che è la Vita stessa davanti all'abisso di tutto il potere della distruzione, del male, di ciò che si oppone a Dio, e che ora gli crolla direttamente addosso, che Egli in modo immediato deve ora prendere su di sé, anzi, deve accogliere dentro di sé fino al punto di essere personalmente « fatto peccato » (2 Cor 5,21). Proprio perché è il Figlio, Egli vede con estrema chiarezza l'intera marea sporca del male, tutto il potere della menzogna e della superbia, tutta l'astuzia e l'atrocità del male, che si mette la maschera della vita e serve continuamente la distruzione dell'essere, la deturpazione e l'annientamento della vita. Proprio perché è il Figlio, Egli sente profondamente l'orrore, tutta la sporcizia e la perfidia che deve bere in quel « calice » a Lui destinato: tutto il potere del peccato e della morte. Tutto questo Egli deve accogliere dentro di sé, affinché in Lui sia privato di potere e superato. Bultmann dice con ragione: Gesù è qui «non 4
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solo il prototipo in cui l'atteggiamento richiesto all'uomo diventa visibile in modo esemplare ... ma Egli è anche e soprattutto il rivelatore, la cui scelta soltanto rende possibile l'opzione umana per Dio in un'ora simile» (p. 328). L'angoscia di Gesù è una cosa molto più radicale di quell'angoscia che assale ogni uomo di fronte alla morte: è lo scontro stesso tra luce e tenebre, tra vita e morte il vero dramma della scelta che caratterizza la storia umana. In questo senso possiamo con Pascal in modo tutto personale applicare l'avvenimento del Monte degli ulivi anche a noi: anche il mio peccato era presente in quel calice spaventoso. « Quelle gocce di sangue, le ho versate per te », sono le parole che Pascal sente rivolte a sé dal Signore in agonia sul Monte degli ulivi (cfr Pensées, VII 553). Le due parti della preghiera di Gesù appaiono come la contrapposizione di due volontà: c'è la « volontà naturale » dell'uomo Gesù, che recalcitra di fronte all'aspetto mostruoso e distruttivo dell'avvenimento e vorrebbe chiedere che il calice « passi oltre »; e c'è la « volontà del Figlio », che si abbandona totalmente alla volontà del Padre. Se vogliamo cercare di comprendere per quanto possibile questo mistero delle « due volontà », è utile gettare ancora uno sguardo sulla versione giovannea di quella preghiera. Anche in Giovanni troviamo le due domande di Gesù: « Padre, salvami da quest'ora ... Padre, glorifica il tuo nome » (12,27s). Il rapporto tra le due domande in Giovanni non è fondamentalmente diverso da quello rinvenibile nei sinottici. La tribolazione dell'anima umana di Gesù 176
(«l'anima mia è turbata»; Bultmann traduce «ho paura» p. 327) spinge Gesù a chiedere di essere salvato da quell'ora. Ma la consapevolezza circa la sua missione, il fatto cioè che proprio per quell'ora Egli è venuto, lo fa pronunciare la seconda domanda - la domanda che Dio glorifichi il suo nome: proprio la croce, l'accettazione della cosa orribile, l'entrare nell'ignominia dell'annientamento della dignità personale, nell'ignominia di una morte infame diventa la glorificazione del nome di Dio. Proprio così, infatti, Dio si rende manifesto per quello che è: il Dio che nell'abisso del suo amore, nel donare se stesso oppone a tutte le potenze del male il vero potere del bene. Gesù ha pronunciato ambedue le domande, ma la prima, quella di essere « salvato », è fusa insieme con la seconda, che chiede la glorificazione di Dio nella realizzazione della sua volontà - e così il contrasto nell'intimo dell'esistenza umana di Gesù è ricomposto in unità.
3. LA VOLONTÀ DI GESÙ E LA VOLONTÀ DEL PADRE
Ma che cosa vuol dire questo? Che cosa significa «mia » volontà contrapposta a « tua » volontà? Chi sono coloro che. si confrontano? Il Padre e il Figlio? 0 l'Uomo Gesù e Dio, il Dio trinitario? In nessun'altra parte della Sacra Scrittura guardiamo così profondamente dentro il mistero interiore di Gesù come nella preghiera sul Monte degli ulivi. Non per caso, quindi, la ricerca appassionata della Chiesa antica per la comprensione della figura di Gesù Cristo ha trovato la sua forma conclusiva 177
nella riflessione, guidata dalla fede, sulla preghiera del Monte degli ulivi. A questo punto è forse necessario gettare uno sguardo molto veloce sulla cristologia della Chiesa antica, per capire la sua idea dell'intreccio tra volontà divina e umana nella figura di Gesù Cristo. Il Concilio di Nicea (325) aveva chiarito il concetto cristiano di Dio. Le tre Persone - Padre, Figlio e Spirito Santo - sono una cosa sola nell'unica « sostanza » di Dio. Più di cento anni dopo, il Concilio di Calcedonia (451) ha cercato di afferrare concettualmente l'unione della divinità e dell'umanità in Gesù Cristo con la formulazione che, in Lui, l'unica Persona del Figlio di Dio abbraccia e porta le due nature - quella umana e quella divina - in modo « inconfuso ed indiviso ». Così l'infinita differenza tra Dio e uomo, tra Creatore e creatura viene conservata: l'umanità rimane umanità e la divinità rimane divinità. L'umanità in Gesù non è assorbita o ridotta dalla divinità. Esiste interamente come tale e tuttavia è sostenuta dalla Persona divina del Logos. Allo stesso tempo, nella diversità non annullata delle nature si esprime, mediante la parola «unica Persona », l'unità radicale nella quale Dio, in Cristo, è entrato con l'uomo. Questa formula - due nature, un'unica Persona l'ha creata Papa Leone Magno con un'intuizione che andava molto oltre il momento storico, e ha trovato subito l'assenso entusiastico dei Padri conciliari. Ma essa era un'anticipazione: il suo significato concreto non era ancora sondato fino in fondo. Che cosa vuol dire «natura»? Ma soprattutto: che 178
cosa vuol dire «persona»? Poiché ciò non era stato affatto chiarito, dopo Calcedonia molti Vescovi dissero che preferivano pensare nella maniera dei pescatori e non in quella di Aristotele; la formula rimase oscura. Per questo la recezione di Calcedonia è avanzata in modo molto intricato e tra accaniti litigi. Alla fine è rimasta la divisione: soltanto le Chiese di Roma e di Bisanzio hanno accettato definitivamente il Concilio e la sua formula. Alessandria (Egitto) preferiva mantenere la formula di «una natura divinizzata» (monofisismo); ad Oriente, la Siria rimase scettica di fronte al concetto di « un'unica persona », in quanto, appunto, sembrava compromettere l'umanità reale di Gesù (nestorianismo). Più dei concetti, però, facevano effetto certi tipi di devozione, che si opponevano a vicenda e caricavano il contrasto con l'impeto dei sentimenti religiosi, rendendolo così irrisolvibile. Il Concilio ecumenico di Calcedonia rimane per la Chiesa di tutti i tempi l'indicazione vincolante della via che introduce nel mistero di Gesù Cristo. Deve però essere acquisito nuovamente nel contesto del nostro pensiero, in cui i concetti di natura e di persona hanno assunto un altro significato rispetto ad allora. Questo sforzo per una nuova acquisizione deve andare di pari passo col dialogo ecumenico da promuovere con le Chiese pre-calcedonensi, per ritrovare l'unità smarrita proprio nel centro della fede, nella confessione del Dio fattosi uomo in Gesù Cristo. Nella grande lotta, sviluppatasi dopo Calcedonia soprattutto nell'ambiente bizantino, si trattava es179
senzialmente di questa domanda: se in Gesù c'è solo l'unica persona divina che abbraccia le due nature, come stanno allora le cose circa la natura umana? Può questa, sostenuta dall'unica persona divina, veramente sussistere come tale nella sua particolarità ed essenzialità? Non deve forse necessariamente essere assorbita dal divino, almeno nella sua parte più alta, la volontà? E così l'ultima delle grandi eresie cristologiche si chiama « monotelismo». Stante l'unità della persona - essa afferma - può esistere soltanto un'unica volontà; una persona con due volontà sarebbe schizofrenica: la persona, in fin dei conti, si manifesta nella volontà, e se c'è una persona sola, allora non può esserci che una sola volontà. Ma contro ciò emerge la domanda: che uomo è colui che non possiede una propria volontà umana? Un uomo senza volontà è veramente uomo? Dio si è fatto veramente uomo in Gesù, se quest'uomo non aveva poi una volontà? Il grande teologo bizantino Massimo il Confessore (t 662) ha elaborato la risposta a questa domanda nel corso della lotta per la comprensione della preghiera di Gesù sul Monte degli ulivi. Massimo è innanzitutto e soprattutto un avversario deciso del monotelismo: la natura umana di Gesù non viene amputata a motivo dell'unità con il Logos, ina rimane completa. E la volontà fa parte della natura umana. Questa irrecusabile duplicità in Gesù di un volere umano e di un volere divino non deve, però, portare alla schizofrenia di una doppia personalità. Per questo, natura e persona devono essere viste ognuna nel modo d'essere a 180
loro proprio. Ciò significa: esiste in Gesù la « volontà naturale » della natura umana, ma c'è una sola «volontà della persona», che accoglie in sé la «volontà naturale». E questo è possibile senza distruzione dell'elemento essenzialmente umano perché, a partire dalla creazione, la volontà umana è orientata verso quella divina. Nell'aderire alla volontà divina la volontà umana trova il suo compimento e non la sua distruzione. Massimo dice al proposito che la volontà umana, secondo la creazione, tende alla sinergia (alla cooperazione) con la volontà di Dio, ma a causa del peccato la sinergia si è trasformata in opposizione. L'uomo, la cui volontà si compie nell'aderire alla volontà di Dio, ora sente compromessa la sua libertà dalla volontà di Dio. Vede nel « sì » alla volontà di Dio non la possibilità di essere pienamente se stesso, ma la minaccia per la sua libertà, contro cui egli oppone resistenza. Il dramma del Monte degli ulivi consiste nel fatto che Gesù riporta la volontà naturale dell'uomo dall'opposizione alla sinergia e ristabilisce così l'uomo nella sua grandezza. Nell'umana volontà naturale di Gesù è, per così dire, presente in Gesù stesso tutta la resistenza della natura umana contro Dio. L'ostinazione di tutti noi, l'intera opposizione contro Dio è presente e Gesù, lottando, trascina la natura ricalcitrante in alto verso la sua vera essenza. Christoph Schònborn dice al proposito «che il passaggio dal contrasto tra le due volontà alla loro comunione avviene attraverso la croce dell'obbedienza. Nell'agonia del Getsemani si compie que181
sto passaggio» (Christus-Ikone, p. 131). Così la preghiera: « non la mia, ma la tua volontà » (Le 22,42) è veramente una preghiera del Figlio al Padre, nella quale l'umana volontà naturale è stata tratta totalmente dentro l'Io del Figlio, la cui essenza si esprime appunto nel «non io, ma tu» - nell'abbandono totale dell'Io al Tu di Dio Padre. Questo «Io», però, ha accolto in sé l'opposizione dell'umanità e l'ha trasformata, così che ora nell'obbedienza del Figlio siamo presenti tutti noi, veniamo tutti tirati dentro la condizione di figli. Con ciò arriviamo ad un ultimo punto di questa preghiera, alla sua vera chiave di comprensione, all'appellativo: «Abbà, Padre» (Me 14,36). Joachim Jeremias nel 1966 ha scritto un libro importante su questa parola di preghiera di Gesù, un libro del quale vorrei citare due pensieri essenziali: « Mentre nella letteratura ebraica di preghiera non esiste alcuna prova dell'appellativo Abbà rivolto a Dio, Gesù (con l'eccezione del grido dalla croce, Me 15,34 par.) ha chiamato Dio sempre così. Stiamo dunque davanti ad un contrassegno assolutamente evidente dell'ipsissima vox Iesu» (Abba, p. 59). Jeremias dimostra inoltre che questa parola «Abbà» appartiene al linguaggio dei bambini - essa è il modo nel quale in famiglia il bambino si rivolge al padre. « Per la sensibilità ebraica sarebbe stato irriverente e quindi impensabile rivolgersi a Dio con questa parola familiare. Era una cosa nuova ed inaudita che Gesù osasse fare questo passo. Egli parlava con Dio così come il bambino parla col padre ... L'Abbà dell'appellativo usato da Gesù 182
per Dio svela l'intima essenza del suo rapporto con Dio» (p. 63). È pertanto assolutamente assurdo che alcuni teologi pensino che, nella preghiera sul Monte degli ulivi, l'Uomo Gesù si sia rivolto al Dio trinitario. No, proprio qui parla il Figlio, che ha assunto in sé ogni volontà umana e l'ha trasformata in volontà del Figlio.
4. LA PREGHIERA DI GESÙ SUL MONTE DEGLI ULIVI NELLA LETTERA AGLI EBREI *
Alla fine dobbiamo ancora dedicarci al testo della Lettera agli Ebrei concernente il Monte degli ulivi. Lì si legge: « Nei giorni della sua vita terrena egli offrì preghiere e suppliche, con forti grida e lacrime, a Dio che poteva salvarlo da morte e, per il suo pieno abbandono a lui, venne esaudito» (5,7). In questo testo è riconoscibile ima tradizione autonoma sull'evento del Getsemani, poiché di forti grida e lacrime non si parla nei Vangeli. Dobbiamo, certo, tener presente che l'autore ovviamente non si riferisce soltanto alla notte del Getsemani, ma all'intero cammino della passione di Gesù fino alla crocifissione, fino a quell'istante, quindi, del quale Matteo e Marco ci dicono che Gesù proclamò « a gran voce » le parole iniziali del Salmo 22. Ambedue dicono anche che Gesù spirò con un forte grido; Matteo vi usa esplicitamente la parola « grido » (27,50). Di lacrime di Gesù parla Giovanni in occasione della morte di Lazzaro e questo in rapporto al « turbamento » di Gesù, che viene descritto con la stessa parola usata 183
nel racconto del Monte degli ulivi per la sua angoscia, della quale Giovanni parla nel contesto della « Domenica delle Palme ». Sempre si tratta dell'incontro di Gesù con le potenze della morte, il cui abisso Egli, come il Santo di Dio, percepisce in tutta la sua profondità e spaventosità. La Lettera agli Ebrei vede così l'intera passione di Gesù dal Monte degli ulivi fino all'ultimo grido sulla croce pervasa dalla preghiera, come un'unica ardente supplica a Dio per la vita contro il potere della morte. Se la Lettera agli Ebrei considera l'intera passione di Gesù come una lotta, nella preghiera, con Dio Padre e insieme con la natura umana, manifesta con ciò in modo nuovo la profondità teologica della preghiera sul Monte degli ulivi. Per la Lettera, questo gridare e supplicare costituisce la messa in atto del sommo sacerdozio di Gesù. Proprio nel suo gridare, piangere e pregare Gesù fa ciò che è proprio del sommo sacerdote: Egli porta il travaglio dell'essere uomini in alto verso Dio. Porta l'uomo davanti a Dio. Con due parole, l'autore della Lettera agli Ebrei ha evidenziato questa dimensione della preghiera di Gesù. La parola «portare» (prosphérein: portare davanti a Dio, portare in alto - cfr Ebr 5,1) è un'espressione della terminologia del culto sacrificale. Con questo Gesù fa ciò che, nel più profondo, avviene nell'atto del sacrificio. « Si è offerto a fare la volontà del Padre », commenta Albert Vanhoye (Accogliamo Cristo, p. 71). La seconda parola, che qui è importante, dice che Gesù ha imparato l'obbedienza da ciò che ha sofferto e così è stato « reso te
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perfetto» (cfr Ebr 5,8s). Vanhoye fa notare che l'espressione «rendere perfetto» (teleioun) nel Pentateuco - i cinque libri di Mose - viene usata esclusivamente nel significato di « consacrare sacerdote » (p. 75). La Lettera agli Ebrei adotta questa terminologia (cfr 7, 11. 19. 28). Dice quindi questo brano che l'obbedienza di Cristo, l'estremo « sì » al Padre, a cui Egli giunge nella lotta interiore sul Monte degli ulivi, lo ha, per così dire, « consacrato sacerdote »; proprio in questo, nella sua auto-donazione, nel portare l'umanità in alto verso Dio, Cristo è diventato sacerdote nel senso vero « secondo l'ordine di Melchisedek» (cfr Ebr 5,9s; cfr Vanhoye p. 74s). Ora dobbiamo però ancora inoltrarci nell'affermazione centrale della Lettera agli Ebrei quanto alla preghiera del Signore sofferente. Il testo dice che Gesù supplicò Colui che poteva salvarlo da morte e « per il suo pieno abbandono a lui venne esaudito» (5,7). Ma è stato Egli veramente esaudito? Di fatto, è morto sulla croce! Così Harnack ha sostenuto che qui dovrebbe essere caduto un « non », e Bultmann lo segue. Ma una spiegazione che rivolge il testo nel suo contrario non è una spiegazione. Dobbiamo piuttosto cercare di comprendere questo modo misterioso di « esaudimento », per avvicinarci con ciò anche al mistero della nostra salvezza. Si possono individuare diverse dimensioni di tale esaudimento. Una possibile traduzione di questo testo è: «È stato esaudito e liberato dalla sua angoscia». Ciò corrisponderebbe al testo di 185
Luca secondo cui venne un angelo e lo confortava (cfr 22,43). Allora si tratterebbe della forza interiore che è stata data a Gesù nella preghiera, così che Egli è stato poi capace di affrontare con decisione l'arresto e la passione. Ma il testo significa ovviamente di più: il Padre lo ha sollevato dalla notte della morte, nella risurrezione lo ha definitivamente e per sempre salvato dalla morte: Gesù non muore più (cfr Vanhoye p. 71s). Ma probabilmente il testo significa ancora di più. La risurrezione non è solo il personale salvataggio di Gesù dalla morte. In questa morte, infatti, Egli non si è trovato per sé soltanto. Il suo è stato un morire « per gli altri»; si è trattato del superamento della morte come tale. Così si può sicuramente comprendere l'esaudimento anche a partire dal testo parallelo in Giovanni 12,27s, dove alla preghiera di Gesù: «Padre, glorifica il tuo nome », la voce dal cielo risponde: «L'ho glorificato e lo glorificherò ancora». La croce stessa è diventata glorificazione di Dio, manifestazione della gloria di Dio nell'amore del Figlio. Questa gloria va oltre il momento e pervade l'intera vastità della storia. Questa gloria è vita. Sulla croce stessa appare, in modo velato eppure insistente, la gloria di Dio, la trasformazione della morte in vita. Dalla croce viene incontro agli uomini una vita nuova. Sulla croce, Gesù diventa fonte di vita per sé e per tutti. Sulla croce, la morte viene vinta. L'esaudimento di Gesù riguarda l'umanità nel suo insieme: la sua obbedienza diventa vita per tutti. E così questo passo della Lettera agli Ebrei in »»
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modo coerente conclude con le parole: «Egli divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono, essendo stato proclamato da Dio "sommo sacerdote secondo l'ordine di Melchisedek"» (5,9; cfr Sai 110,4).
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Capitolo 7 IL PROCESSO A GESÙ econdo il racconto di tutti e quattro i Vangeli, la preghiera notturna di Gesù finì quando, guidata da Giuda, arrivò una truppa armata, dipendente dalle autorità del tempio, e arrestò Gesù, mentre i discepoli non vennero disturbati. Come si arrivò a questo arresto ovviamente ordinato dalle autorità del tempio, in ultima analisi dal sommo sacerdote Caifa? Come si arrivò alla consegna di Gesù al tribunale del governatore romano Pilato e alla condanna alla morte in croce? I Vangeli ci consentono di distinguere tre tappe sulla via verso la sentenza giuridica di condanna a morte: una riunione del consiglio nella casa di Caifa, l'interrogatorio davanti al sinedrio e, infine, il processo davanti a Pilato.
S
1. DIBATTITO PRELIMINARE NEL SINEDRIO
In un primo tempo, la comparsa di Gesù e il movimento che si stava formando intorno a Lui avevano ovviamente suscitato poco interesse nelle autorità del tempio; tutto ciò sembrava essere piuttosto una vicenda di provincia - uno di quei movimenti che ogni tanto si formavano in Galilea e non meritavano particolare attenzione. La situazione cambiava con la «Domenica delle Palme»: 189
l'ossequio messianico reso a Gesù in occasione del suo ingresso in Gerusalemme; la purificazione del tempio con la parola interpretativa che sembrava annunciare la fine del tempio come tale e un mutamento radicale del culto in contrasto con gli ordinamenti dati da Mose; i discorsi di Gesù nel tempio, in cui diventava percepibile una rivendicazione di piena autorità, che sembrava dare alla speranza messianica di Israele una nuova forma che minacciava il suo monoteismo; i miracoli che Gesù operava in pubblico e il crescente afflusso del popolo verso di Lui - tutte queste erano realtà che non potevano più essere ignorate. Nei giorni intorno alla Pasqua, in cui la città era sovraffollata di pellegrini e le speranze messianiche potevano facilmente trasformarsi in una miscela esplosiva di carattere politico, l'autorità del tempio doveva tener conto della propria responsabilità e innanzitutto chiarire come fosse da valutare l'insieme e in quale modo bisognasse reagire. Solo Giovanni riferisce più da vicino di una riunione del sinedrio volta ad un reciproco chiarimento di idee e ad una deliberazione circa il « caso» Gesù (cfr 11,47-53). Egli, del resto, la colloca prima della « Domenica delle Palme » e considera come suo motivo immediato il movimento popolare sorto dopo la risurrezione di Lazzaro. Senza una tale deliberazione precedente, l'arresto di Gesù nella notte del Getsemani è impensabile. Evidentemente Giovanni ha qui conservato un ricordo storico di cui, in forma più breve, parlano anche i sinottici (cfr Me 14,1 par.).
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Secondo Giovanni sono riuniti insieme i capi dei sacerdoti e i farisei, i due gruppi - in contrasto tra loro su molti punti - che dominavano nel giudaismo al tempo di Gesù. La loro comune preoccupazione è: «Verranno i Romani e ci toglieranno " il luogo " [cioè il tempio, il luogo sacro della venerazione di Dio] e la nazione» (11,48). Si è tentati di dire che il motivo per il procedere contro Gesù sia stata una preoccupazione politica in cui, da punti di partenza diversi, si sono incontrati l'aristocrazia sacerdotale e i farisei; che però con questo modo di vedere in un'ottica politica la figura e l'operato di Gesù sia stato misconosciuto proprio ciò che in Lui era essenziale e nuovo. E di fatto: con il suo annuncio Gesù ha realizzato un distacco della dimensione religiosa da quella politica, un distacco che ha cambiato il mondo e che veramente appartiene all'essenza della sua nuova via. Ciononostante bisogna guardarsi da una frettolosa condanna della prospettiva « puramente politica », propria degli avversari di Gesù. Nell'ordine fino ad allora in vigore, infatti, le due dimensioni - quella politica e quella religiosa - erano, appunto, assolutamente inseparabili l'una dall'altra. Non esisteva né il solo politico né il solo religioso. Il tempio, la città santa e la terra santa con il suo popolo non erano realtà puramente politiche, ma non erano neppure realtà soltanto religiose. Dove si trattava del tempio, del popolo e della Terra, erano in gioco il fondamento religioso della politica e le conseguenze religiose di essa. Difendere «il luogo » e « la nazione » era, in definitiva, una fac191
cenda religiosa, perché c'era di mezzo la casa di Dio e il popolo di Dio. »
Da questa motivazione insieme religiosa e politica, fondamentale per i responsabili di Israele, bisogna però distinguere lo specifico interesse per il potere della dinastia di Anna e Caifa, interesse che poi di fatto condusse alla catastrofe dell'anno 70, provocando così proprio ciò che, secondo il loro vero compito, essi avrebbero dovuto evitare. In questo senso esiste nella decisione di far morire Gesù una strana sovrapposizione di due livelli: da un lato, la legittima preoccupazione di tutelare il tempio e il popolo e, dall'altro, l'egoistica smania di potere da parte del gruppo dominante. È una sovrapposizione che corrisponde a ciò che avevamo trovato nella purificazione del tempio. Come abbiamo visto, lì Gesù combatte, da un lato, contro l'egoistico abuso nell'ambiente del sacro, ma il gesto profetico e la sua interpretazione mediante la parola va ben più in profondità: il vecchio culto del tempio di pietra è giunto al termine. È arrivato il momento della nuova adorazione di Dio « in spirito e verità». Deve essere abbattuto il tempio di pietra perché possa subentrare la novità, la nuova alleanza con il suo modo nuovo di adorare Dio. Ciò significa però al contempo che Gesù stesso deve attraversare la crocifissione per diventare, da Risorto, il nuovo Tempio. A questo punto torniamo ancora una volta all'argomento dell'intreccio tra religione e politica e del distacco dell'una dall'altra. Abbiamo detto che Gesù, nel suo annuncio e con tutto il suo operare, 192
aveva inaugurato un regno non politico del Messia e aveva cominciato a staccare l'una dall'altra le due realtà, fino ad allora inscindibili. Ma questa separazione di politica e fede, di popolo di Dio e politica, appartenente all'essenza del suo messaggio, era possibile, in definitiva, solo attraverso la croce: solo attraverso la perdita veramente assoluta di ogni potere esteriore, attraverso lo spogliamento radicale della croce, la novità diventava realtà. Solo mediante la fede nel Crocifisso, in Colui che è privato di ogni potere terreno e così innalzato, appare anche la nuova comunità, il nuovo modo in cui Dio domina nel mondo. Questo, però, significa che la croce rispondeva ad una « necessità » divina e che Caifa con la sua decisione divenne, in ultima analisi, l'esecutore della volontà di Dio, anche se la sua motivazione personale era impura, non rispondente alla volontà di Dio, ma mirante a scopi egoistici. Giovanni ha espresso molto chiaramente questo strano intreccio tra l'esecuzione della volontà di Dio e la cecità egoistica in Caifa. Nella perplessità dei membri del sinedrio su ciò che conveniva fare di fronte al pericolo causato dal movimento creatosi intorno a Gesù, egli disse la parola decisiva: «Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera » (11,50). Giovanni qualifica tale affermazione esplicitamente come parola di « ispirazione profetica », che Caifa aveva formulato in virtù del carisma legato alla sua carica di sommo sacerdote e non da se stesso. 193
Da tale parola risulta innanzitutto che fino a quel momento il sinedrio, raccolto in seduta, indietreggiava spaventato di fronte alla prospettiva di ima condanna a morte e cercava altre vie d'uscita dalla crisi, senza tuttavia trovare una soluzione. Solo una parola del sommo sacerdote, motivata teologicamente ed espressa in base all'autorità della sua carica, poteva dissipare i loro dubbi e renderli in linea di principio disposti alla grave decisione. Il fatto che Giovanni riconosca esplicitamente come punto decisivo nella storia della salvezza il carisma legato alla carica dell'indegno detentore di tale carica corrisponde alla parola di Gesù tramandata da Matteo: « Sulla cattedra di Mose si sono seduti gli scribi e i farisei. Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono, ma non agite secondo le loro opere! » (23,2s). Tanto Matteo quanto Giovanni hanno certamente voluto richiamare alla memoria della Chiesa anche del loro tempo questa distinzione, perché pure in essa esisteva la contraddizione tra autorità legata alla carica e condotta di vita, tra ciò « che dicono » e ciò « che fanno ». Il contenuto della «profezia» di Caifa è innanzitutto di natura assolutamente pragmatica e sotto questo aspetto possiede per lui un'immediata ragionevolezza: se mediante la morte di un singolo (e soltanto così) si può salvare il popolo, la morte di questo singolo è il male minore e la via politicamente giusta. Ma ciò che così suona ed è inteso anzitutto in senso puramente pragmatico, raggiunge tuttavia in base all'ispirazione « profetica » 194
una profondità ben diversa. Gesù, il singolo, muore per il popolo: traspare il mistero della funzione vicaria, che è il contenuto più profondo della missione di Gesù. L'idea della funzione vicaria pervade l'intera storia delle religioni. In molteplici forme si cerca di stornare dal re, dal popolo, dalla propria vita l'incombente disgrazia, trasferendola a dei sostituti. Il male deve essere espiato e ristabilita così la giustizia. Ma si scarica su altri la punizione, la disgrazia ineluttabile e si cerca così di liberare se stessi. Questa sostituzione, però, mediante sacrifici animali o anche umani rimane in ultima analisi inattendibile. Ciò che lì viene offerto in rappresentanza è soltanto un surrogato di ciò che è propriamente personale e non può affatto prendere il posto di colui che in questo modo deve essere redento. Il surrogato non è rappresentanza nel senso di una funzione vicaria, eppure l'intera storia è alla ricerca di Colui che veramente può intervenire al posto nostro; che veramente è in grado di assumerci in se stesso e condurci così alla salvezza. Nell'Antico Testamento l'idea della funzione vicaria appare in modo del tutto centrale quando Mose, dopo l'idolatria del popolo al Sinai, dice al Dio adirato: « Ma ora, se tu perdonassi il loro peccato... Altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto! » (Es 32,32). È vero che gli viene risposto: « Io cancellerò dal mio libro solo colui che ha peccato contro di me» (Es 32, 33), ma in qualche modo Mose rimane tuttavia il sostituto che porta su di sé e, mediante la sua intercessione, cambia sempre di nuovo il destino del popolo. Nel Deuterono195
mio, infine, è tracciata l'immagine del Mose sofferente, che patisce al posto di Israele e, in funzione vicaria per Israele, deve morire fuori della Terra santa (cfr von Rad I 293). Pienamente sviluppata appare in Isaia 53 l'idea della funzione vicaria nell'immagine del Servo di YHWH sofferente, che prende su di sé la colpa di molti, rendendoli così giusti (cfr 53, 11). In Isaia questa figura rimane piena di mistero; il carme del Servo di YHWH è come uno scrutare in lontananza per vedere Colui che deve venire. Il singolo muore per i molti questa parola profetica del sommo sacerdote Caifa riunisce insieme le aspirazioni della storia delle religioni del mondo e le grandi tradizioni della fede di Israele e le applica a Gesù. L'intero suo vivere e morire è sintetizzato nella parola «per»; è come soprattutto Heinz Schurmann ha ripetutamente sottolineato - una « pro-esistenza ». Alla parola di Caifa che, di fatto, era equivalente ad una condanna a morte, Giovanni ha aggiunto un commento nella prospettiva di fede dei discepoli. Dapprima egli sottolinea - come abbiamo già rilevato - che la parola circa il morire per il popolo avrebbe avuto la sua origine da un'ispirazione profetica e poi prosegue: «Gesù doveva morire ... non soltanto per la nazione, ma anche per riunire insieme i figli di Dio che erano dispersi» (11,52). Questo corrisponde innanzitutto effettivamente al linguaggio ebraico. Esprime la speranza che nel tempo del Messia gli Israeliti dispersi nel mondo sarebbero stati riuniti nel proprio Paese (cfr Barrett, p. 403). 196
Ma sulle labbra dell'evangelista la parola assume un significato nuovo. Il raduno non è più orientato verso un Paese geograficamente determinato, ma verso l'unificazione dei figli di Dio: qui risuona già la parola-chiave della Preghiera sacerdotale di Gesù. Il raduno mira all'unità di tutti i credenti e rinvia così alla comunità della Chiesa e, certamente, al di là di essa alla definitiva unità escatologica. I figli di Dio dispersi non sono più soltanto Ebrei, ma figli di Abramo nel significato profondo sviluppato da Paolo: persone che, come Abramo, sono in ricerca di Dio; persone che sono pronte ad ascoltarlo e a seguire la sua chiamata - persone, potremmo dire, in atteggiamento «di Avvento». Diventa visibile la nuova comunità di Ebrei e pagani (cfr Gv 10,16). Così, da qui si apre di nuovo anche un approccio alla parola dell'ultima cena sui « molti » per i quali il Signore dà la vita: si tratta della riunione dei « figli di Dio », cioè di tutti coloro che da Lui si lasciano chiamare.
2.
GESÙ DAVANTI AL SINEDRIO
La decisione fondamentale per un procedimento contro Gesù, presa nella riunione del sinedrio, veniva realizzata nella notte tra giovedì e venerdì sul Monte degli ulivi con il suo arresto. In un'ora ancora notturna, Gesù fu condotto nel palazzo del sommo sacerdote, dove il sinedrio (sanhedrin /synedrium) con le sue tre componenti - sacerdoti, anziani, scribi - ovviamente era già riunito. 197
I due « processi » a Gesù, davanti al sinedrio e davanti al governatore romano Pilato, sono stati discussi ampiamente fin nei minimi particolari da storici del diritto e da esegeti. Non dobbiamo qui entrare in queste sottili questioni storiche, tanto più che non conosciamo - come ha sottolineato Martin Hengel - dettagli sul diritto criminale sadduceo e non è lecito trarre conclusioni dal posteriore trattato della Mishna, «Sanhedrin», ed applicarle all'ordinamento del tempo di Gesù (cfr Hengel/Schwemer, p. 592). Può essere considerato verosimile, oggi, che nel caso del dibattimento contro Gesù davanti al sinedrio non si sia trattato di un vero processo, ma di un interrogatorio approfondito, terminato con la decisione di consegnare Gesù al governatore romano per la condanna. Guardiamo adesso più da vicino i racconti dei Vangeli, sempre con l'obiettivo di imparare a conoscere e a comprendere meglio la figura di Gesù stesso. Abbiamo già visto che, dopo l'episodio della purificazione del tempio, c'erano in aria due accuse contro Gesù: la prima riguardava la parola interpretativa dell'azione simbolica della cacciata dal tempio degli animali e dei commercianti, che sembrava essere un attacco contro lo stesso luogo sacro e con ciò contro la Torà, su cui si basava la vita di Israele. Ritengo importante il fatto che non l'atto della purificazione del tempio come tale sia stato oggetto delle discussioni, ma unicamente la parola interpretativa con cui il Signore aveva spiegato il 198
suo gesto. Da questo si può dedurre che l'atto simbolico si sia mantenuto in certi limiti e non abbia suscitato un'agitazione pubblica, che avrebbe offerto il motivo per un intervento giurisdizionale. Il pericolo era costituito piuttosto dall'interpretazione data, dall'apparente attacco al tempio e dalla rivendicazione della piena autorità da parte di Gesù stesso. Dagli Atti degli Apostoli sappiamo che la stessa accusa fu mossa contro Stefano, il quale aveva ripreso la profezia di Gesù sul tempio - cosa che provocò la sua lapidazione, perché considerata come bestemmia. Nel processo di Gesù si presentarono testimoni che volevano riferire la parola di Gesù. Ma non vi era una versione condivisa: non era possibile chiarire in modo inequivocabile che cosa Gesù avesse detto veramente. Il fatto che, conseguentemente, questo punto d'accusa sia stato abbandonato dimostra che ci si stava impegnando per una procedura giuridicamente corretta. In base ai discorsi di Gesù nel tempio c'era in aria una seconda accusa: Gesù avrebbe sollevato una pretesa messianica, mediante la quale si metteva in qualche modo a fianco di Dio stesso, e così sembrava entrare in contrasto con il fondamento della fede di Israele, la professione di fede nell'unico e solo Dio. Merita sottolineare che ambedue le accuse sono di natura puramente teologica. Ma conformemente all'impossibilità accennata sopra di separare l'uno dall'altro il livello religioso e quello politico, tali accuse possiedono anche una dimen199
sione politica: il tempio in quanto luogo del sacrificio di Israele, verso il quale tutto il popolo si dirige in pellegrinaggio nelle grandi feste, è la base dell'unità interiore di Israele. La pretesa messianica è rivendicazione della regalità su Israele. Per questo ci sarà poi sulla croce anche l'espressione « re dei Giudei » come motivo dell'esecuzione capitale di Gesù. Come dimostrano gli eventi della guerra giudaica, esistevano nel sinedrio sicuramente circoli che erano favorevoli ad una liberazione di Israele con mezzi politici e militari. Ma il modo in cui Gesù presentava la sua rivendicazione appariva ovviamente ad essi poco adatto a servire veramente per tale scopo. In quel caso era da preferire piuttosto lo status quo, in cui Roma comunque rispettava i fondamenti religiosi di Israele e così il tempio e il popolo potevano essere considerati abbastanza sicuri nella loro sussistenza. Dopo il tentativo fallito di muovere, sulla base della dichiarazione di Gesù circa la distruzione e il rinnovamento del tempio, un'accusa chiara e motivata contro di Lui, si arriva al confronto drammatico tra il sommo sacerdote di Israele in carica, istanza suprema del popolo eletto, e Gesù, in cui i cristiani avrebbero riconosciuto il « sommo sacerdote dei beni futuri» (Eb 9,11), il sommo sacerdote definitivo « secondo l'ordine di Melchìsedek» (Sai 110,4; Eb 5,6 ecc.). Nei quattro Vangeli questo momento della storia del mondo appare come un dramma in cui si compenetrano tre livelli, che bisogna vedere insieme per capire l'avvenimento nella sua complessità (cfr Mt 200
26,57-75; Me 14,53-72; Le 22,54-71; Gv 18,12-27). Nello stesso momento in cui Caifa interroga Gesù e infine pone la domanda circa la sua identità messianica, Pietro sta seduto nel cortile del palazzo e rinnega Gesù. Specialmente Giovanni ha illustrato l'intreccio cronologico dei due avvenimenti in modo toccante; Matteo, nella sua versione della domanda messianica, rende visibile soprattutto la connessione interiore tra la professione di Gesù e il rinnegamento di Pietro. Immediatamente connessa con l'interrogatorio di Gesù è però anche la sua derisione da parte dei servi del tempio (o degli stessi membri del sinedrio?), derisione che, nel processo davanti a Pilato, sarà seguita da quella dei soldati romani. Giungiamo al punto decisivo: alla domanda di Caifa e alla risposta di Gesù. Riferendo le formulazioni, Matteo, Marco e Luca divergono tra loro nei particolari; la loro composizione del testo è determinata, tra l'altro, dall'intero contesto del rispettivo Vangelo e dal riferimento alle possibilità di comprensione dei loro destinatari. Come nel caso delle parole dell'ultima cena, così anche qui non è possibile una ricostruzione precisa della domanda di Caifa e della risposta di Gesù. L'essenziale dello svolgimento appare tuttavia nelle tre diverse relazioni in modo assolutamente inequivocabile. Esistono buoni motivi per supporre che la versione di san Marco ci faccia sentire maggiormente le espressioni originarie di questo dialogo drammatico. Ma nella differente versione di Matteo e Luca appaiono aspetti importanti che ci aiutano a capire meglio la profondità dell'insieme. 201
Secondo Marco la domanda del sommo sacerdote è: «Sei tu il Cristo, il Figlio del Benedetto?». Gesù risponde: «Io lo sono. E vedrete il Figlio dell'uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo » (14,62). Che il nome di Dio e la parola « Dio » vengano evitati e sostituiti con le espressioni « il Benedetto » e « la Potenza » è un segno dell'originarietà del testo. Il sommo sacerdote interroga Gesù circa la sua messianicità e la definisce secondo il Salmo 2,7 (cfr Sai 110,3) con l'espressione « Figlio del Benedetto » - Figlio di Dio. Nella prospettiva della domanda, questo appellativo appartiene alla tradizione messianica, lasciando però aperto il genere della figliolanza. Si può supporre che Caifa nel fare tale domanda non si sia soltanto attenuto a tradizioni teologiche, ma che l'abbia formulata in base all'annuncio di Gesù che gli era giunto all'orecchio. Matteo pone nella formulazione della domanda un accento particolare. Secondo lui Caifa dice: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio? » (cfr 26, 63). In questo modo egli riecheggia direttamente la professione di fede di Pietro presso Cesarea di Filippo: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (16,16). Nello stesso momento in cui il sommo sacerdote rivolge a Gesù, in forma di domanda, le parole della professione di fede di Pietro, Pietro medesimo, separato da Gesù soltanto da una porta, asserisce di non conoscerlo. Mentre Gesù fa « la bella professione di fede » (cfr 1 Tm 6,13), colui che per primo aveva pronunciato tale professione nega ciò che allora aveva ricevuto dal «Padre che è nei cieli»; ora la fonte delle 202
sue parole è ormai soltanto « la carne e il sangue» (cfr Mt 16,17). Secondo Marco, alla domanda da cui dipendeva il suo destino Gesù rispose in modo molto semplice e chiaro: «Io lo sono» (non vi risuona forse Esodo 3,14: «Io sono colui che sono»?). Tuttavia con una parola tratta dal Salmo 110,1 e dal Libro di Daniele 7,13 Gesù definisce poi più precisamente come messianicità e figliolanza siano da intendere. Matteo esprime la risposta di Gesù in modo più discreto: «Tu l'hai detto; anzi io vi dico...» (26,64). Così Gesù non contraddice Caifa; contrappone però alla sua formulazione il modo in cui Egli stesso vuole che si intenda la sua missione - e lo fa con parole della Scrittura. Luca, infine, distingue due interventi diversi (cfr 22,67-70). Alla prima richiesta del sinedrio: « Se tu sei il Messia, dillo a noi! », il Signore risponde con un'affermazione enigmatica, non assentendo apertamente, ma neppure chiaramente negando. Segue poi la sua dichiarazione personale, formulata con il Salmo 110 e Daniele 7 intrecciati insieme; e infine, alla domanda insistente, posta dal sinedrio: « Tu dunque sei il Figlio di Dio? », risponde: « Voi stessi dite che io lo sono ». Da tutto ciò deriva quanto segue: Gesù ha assunto il titolo di Messia, che in base alla tradizione aveva diversi significati, ma al contempo l'ha precisato in modo tale da provocare una condanna che, con un rifiuto о con un'interpretazione attenuata del messianismo, avrebbe potuto evitare. Egli non dà alcuno spazio ad idee che potrebbero *
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andare a finire in una comprensione politica o bellica dell'attività del Messia. No, il Messia - proprio Lui - verrà come Figlio dell'uomo con le nubi del cielo. Oggettivamente, ciò ha più o meno lo stesso significato dell'affermazione che incontriamo in Giovanni: « Il mio regno non è di questo mondo» (18,36). Egli rivendica il diritto di sedere alla destra della Potenza, cioè di venire alla maniera del Figlio dell'uomo di cui parla il Libro di Daniele, di venire da Dio, per erigere a partire da Lui il regno definitivo. Ai membri del sinedrio questo dovette apparire politicamente privo di senso e teologicamente inaccettabile, poiché con ciò era ora di fatto espressa una vicinanza alla « Potenza », una partecipazione alla natura stessa di Dio, che veniva intesa come bestemmia. Comunque, Gesù aveva soltanto connesso insieme alcune parole della Scrittura ed espresso la sua missione « secondo la Scrittura », con parole della Scrittura stessa. Ma ai membri del sinedrio l'applicazione a Gesù delle sublimi parole della Scrittura, ovviamente, parve come un attacco insopportabile all'elevatezza di Dio, alla sua unicità. Per il sommo sacerdote e gli altri convenuti, con la risposta di Gesù si era comunque realizzata la fattispecie della bestemmia e Caifa « si stracciò le vesti dicendo: " Ha bestemmiato! "» (Mt 26,65). « L'atto di stracciarsi le vesti compiuto dal sommo sacerdote non avviene a motivo di irritazione, ma è prescritto al giudice in carica come segno di indignazione, quando sente una bestemmia» 204
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(Gnilka, Matthausevangelium II, p. 429). Ora su Gesù, che ha predetto la sua venuta nella gloria, si abbatte lo scherno brutale di coloro che sanno di essere i più forti e gli fanno sentire il loro potere e tutto il loro disprezzo. Colui del quale nei giorni precedenti avevano avuto ancora paura è adesso nelle loro mani. Il vile conformismo di animi deboli si sente forte nell'aggredire Colui che sembra essere ormai soltanto impotenza. Non si rendono conto che, proprio schernendolo e colpendolo, adempiono in Gesù letteralmente il destino del Servo di YHWH (cfr Gnilka p. 430): umiliazione ed esaltazione si intrecciano tra loro in modo misterioso. Proprio in quanto colpito Egli è il Figlio dell'uomo, viene da Dio nella nube dell'occultamento ed erige il regno del Figlio dell'uomo, il regno dell'umana benevolenza che proviene da Dio. «D'ora innanzi vedrete...», aveva detto, secondo Matteo (26,64), Gesù in un paradosso irritante. D'ora innanzi - inizia qualcosa di nuovo. Lungo la storia gli uomini guardano al volto deturpato di Gesù e riconoscono proprio in esso la gloria di Dio. In quello stesso momento Pietro asserisce per la terza volta di non aver nulla a che fare con Gesù. «E subito, per la seconda volta, un gallo cantò. E Pietro si ricordò...» {Me 14,72). Il canto del gallo veniva considerato come la fine della notte: esso inaugurava la giornata. Anche per Pietro con il canto del gallo termina la notte dell'anima in cui era sprofondato. All'improvviso, la parola di Gesù circa il suo rinnegamento prima del canto del 205
gallo gli sta di nuovo davanti - e ora nella sua terribile verità. Luca aggiunge ancora la notizia che in quell'istante Gesù, incatenato e condannato, viene condotto via per essere portato davanti al tribunale di Pilato. Gesù e Pietro s'incontrano. Lo sguardo di Gesù raggiunge gli occhi e l'anima del discepolo infedele. E Pietro, «uscito fuori, pianse amaramente » (Le 22,62).
3 . GESÙ DAVANTI A PILATO
L'interrogatorio di Gesù davanti al sinedrio si era concluso così come Caifa se l'era aspettato: Gesù era stato dichiarato colpevole di bestemmia, un reato per il quale era prevista la pena di morte. Ma siccome il potere di infliggere la pena capitale era riservato ai Romani, il processo doveva essere trasferito davanti a Pilato e con ciò doveva entrare in primo piano l'aspetto politico della sentenza di colpevolezza. Gesù si era dichiarato Messia, aveva quindi preteso per sé la dignità regale, anche se in modo del tutto particolare. La rivendicazione della regalità messianica era un reato politico, che dalla giustizia romana doveva essere punito. Con il canto del gallo era sorto il giorno. Il governatore romano usava sedere in giudizio nelle prime ore del mattino. Così Gesù viene dai suoi accusatori condotto al pretorio e presentato a Pilato come malfattore meritevole di morte. È il giorno della «Parasceve» per la festa di Pasqua: nel pomeriggio vengono immolati gli agnelli per il banchetto serale. Per 206
questo è esigita la purezza rituale; i sacerdoti accusatori non possono quindi mettere piede nel pretorio pagano e trattano con il governatore romano davanti all'edificio. Giovanni che ci trasmette tale notizia (cfr 18,28s) lascia con ciò trasparire la contraddizione tra l'osservanza corretta delle prescrizioni cultuali di purezza e la questione della vera, interiore purezza dell'uomo: agli accusatori non viene in mente che non l'entrare nella casa pagana sia ciò che inquina, ma l'intimo sentimento del cuore. Al tempo stesso l'evangelista sottolinea con ciò che la cena pasquale non ha ancora avuto luogo e che l'immolazione degli agnelli deve ancora avvenire. Nella descrizione dell'andamento del processo i quattro Vangeli concordano in tutti i punti essenziali. Giovanni è l'unico che riferisce il colloquio tra Gesù e Pilato, in cui la questione circa la regalità di Gesù, circa il motivo della sua morte, viene scandagliata in tutta la sua profondità (cfr 18,3338). Il problema del valore storico di tale tradizione è - ovviamente - discusso tra gli esegeti. Mentre Charles H. Dodd ed anche Raymond E. Brown la valutano in senso positivo, Charles K. Barrett s'esprime in senso estremamente critico: « Le integrazioni e le modifiche che Giovanni fa non suscitano fiducia nella sua affidabilità storica » (op cit., p. 511). Sicuramente nessuno s'aspetta che Giovanni voglia offrire qualcosa come un verbale del processo. Si può però certamente supporre che egli sappia interpretare con grande esattezza la questione centrale di cui si trattava e che ci ponga quindi davanti alla verità essenziale di tale pro207
cesso. Così anche Barrett dice che «Giovanni con massima sagacia ha individuato la chiave interpretativa per la storia della passione nella regalità di Gesù e ha messo in risalto il suo significato forse più chiaramente di qualunque altro autore neotestamentario » (p. 512). Ma domandiamoci anzitutto: chi erano precisamente gli accusatori? Chi ha insistito per la condanna di Gesù a morte? Nelle risposte dei Vangeli vi sono differenze su cui dobbiamo riflettere. Secondo Giovanni, essi sono semplicemente i « Giudei». Ma questa espressione, in Giovanni, non indica affatto - come il lettore moderno forse tende ad interpretare - il popolo d'Israele come tale, ancor meno essa ha un carattere «razzista». In definitiva, Giovanni stesso, per quanto riguarda la nazionalità, era Israelita, ugualmente come Gesù e tutti i suoi. L'intera comunità primitiva era composta da Israeliti. In Giovanni tale espressione ha un significato preciso e rigorosamente limitato: egli designa con essa l'aristocrazia del tempio. Così nel quarto Vangelo il cerchio degli accusatori che perseguono la morte di Gesù è descritto con precisione e chiaramente delimitato: si tratta, appunto, dell'aristocrazia del tempio - ma anch'essa non senza eccezione, come lascia capire l'accenno a Nicodèmo (cfr 7,50ss). In Marco, nel contesto dell'amnistia pasquale (Barabba o Gesù), il cerchio degli accusatori appare allargato: compare Y«ochlos» ed opta per il rilascio di Barabba. «Ochlos» significa innanzitutto semplicemente una quantità di gente, la «massa». 208
Non di rado la parola ha un sapore negativo nel senso di «plebaglia». In ogni caso con ciò non è indicato « il popolo » degli Ebrei come tale. Nell'amnistia pasquale (che, in realtà, non conosciamo da altre fonti, ma della quale tuttavia non v'è ragione di dubitare) il popolo - come al solito in simili amnistie - ha il diritto di fare una proposta manifestata per «acclamazione»: l'acclamazione del popolo ha in questo caso un carattere giuridico (cfr Pesch, Markusevangelium II, p. 466). Per quanto riguarda questa « massa », si tratta di fatto dei sostenitori di Barabba, mobilitati per l'amnistia; come rivoltoso contro il potere romano, questi poteva naturalmente contare su un certo numero di simpatizzanti. Erano quindi presenti i seguaci di Barabba, la « massa », mentre gli aderenti a Gesù per paura rimanevano nascosti, e in questo modo la voce del popolo su cui il diritto romano contava era presentata in modo unilaterale. Così in Marco accanto ai « Giudei », cioè agli autorevoli circoli sacerdotali, compare, sì, Yochlos, il gruppo dei sostenitori di Barabba, non però il popolo ebreo come tale. Un'amplificazione delYochlos di Marco, fatale nelle sue conseguenze, si trova in Matteo (27,25), che parla invece di « tutto il popolo », attribuendo ad esso la richiesta della crocifissione di Gesù. Con questo, Matteo sicuramente non esprime un fatto storico: come avrebbe potuto essere presente in tale momento tutto il popolo e chiedere la morte di Gesù? La realtà storica appare in modo sicuramente corretto in Giovanni e in Marco. Il vero 209
gruppo degli accusatori sono i circoli contemporanei del tempio e, nel contesto dell'amnistia pasquale, si associa ad essi la « massa » dei sostenitori di Barabba. Si può forse in ciò dare ragione a Joachim Gnilka, secondo cui Matteo - andando oltre i fatti storici - ha voluto formulare un'eziologia teologica, con cui spiegarsi il terribile destino di Israele nella guerra giudeo-romana, nella quale vennero tolti al popolo la Terra, la città e il tempio (cfr Matthausevangelium II, p. 459). In tale contesto Matteo pensa forse alle parole di Gesù nelle quali Egli predice la fine del tempio: «Gerusalemme, Gerusalemme, tu che uccidi i profeti e lapidi quelli che sono mandati a te, quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, come una chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e voi non avete voluto! Ecco, la vostra casa è lasciata a voi deserta...» (Mi 23, 37s; cfr in Gnilka l'intero paragrafo Gerichtsworte pp. 295-308). A proposito di queste parole bisogna - come indicato già nella riflessione sul discorso escatologico di Gesù - ricordare l'intima analogia tra il messaggio del profeta Geremia e quello di Gesù. Geremia annuncia - contro l'accecamento dei circoli dominanti d'allora - la distruzione del tempio e l'esilio di Israele. Ma parla anche di una « nuova alleanza»": il castigo non è l'ultima parola; esso serve alla guarigione. Analogamente Gesù annuncia la « casa deserta » e dona già fin d'ora la nuova alleanza «nel suo sangue»: in ultima analisi si tratta di guarigione, non di distruzione e ripudio. Se secondo Matteo «tutto il popolo» avrebbe 210
detto: «Il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli » (27,25), il cristiano ricorderà che il sangue di Gesù parla un'altra lingua rispetto a quello di Abele (cfr Eb 12,24): non chiede vendetta e punizione, ma è riconciliazione. Non viene versato contro qualcuno, ma è sangue versato per molti, per tutti. « Tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio... È lui [Gesù] che Dio ha stabilito apertamente come strumento di espiazione ... nel suo sangue», dice Paolo (Rm 3,23.25). Come in base alla fede bisogna leggere in modo totalmente nuovo l'affermazione di Caifa circa la necessità della morte di Gesù, così deve farsi anche con la parola di Matteo sul sangue: letta nella prospettiva della fede, essa significa che tutti noi abbiamo bisogno della forza purificatrice dell'amore, e tale forza è il suo sangue. Non è maledizione, ma redenzione, salvezza. Soltanto in base alla teologia dell'ultima cena e della croce presente nell'intero Nuovo Testamento la parola di Matteo circa il sangue acquisisce il suo senso corretto. Passiamo dagli accusatori al giudice: il governatore romano Ponzio Pilato. Mentre Giuseppe Flavio ed in modo particolare Filone d'Alessandria tracciano di lui un'immagine del tutto negativa, egli appare in altre testimonianze come risoluto, pragmatico e realistico. Si dice spesso che i Vangeli, in base ad una tendenza filo-romana motivata politicamente, lo avrebbero presentato in modo sempre più positivo, caricando progressivamente sugli Ebrei la responsabilità per la morte di Gesù. A sostegno di ima tale tendenza, però, non c'era alcu211
na ragione nella situazione storica degli evangelisti: quando furono redatti i Vangeli, la persecuzione di Nerone aveva ormai mostrato il lato crudele dello Stato romano e tutta l'arbitrarietà del potere imperiale. Se possiamo datare YApocalisse più o meno al periodo in cui fu composto il Vangelo di Giovanni, diventa evidente che il quarto Vangelo non si è formato in un contesto che avrebbe dato motivo ad un'impostazione filo-romana. L'immagine di Pilato nei Vangeli ci mostra il prefetto romano molto realisticamente come un uomo che sapeva intervenire in modo brutale, se questo gli sembrava opportuno per l'ordine pubblico. Ma egli sapeva anche che Roma doveva il suo dominio sul mondo non da ultimo alla tolleranza di fronte a divinità straniere e alla forza pacificatrice del diritto romano. Così egli ci si presenta nel processo a Gesù. L'accusa secondo cui Gesù si sarebbe dichiarato re dei Giudei era pesante. È vero che Roma poteva effettivamente riconoscere dei re regionali - come Erode - , ma essi dovevano essere legittimati da Roma ed ottenere da Roma la descrizione e la delimitazione dei loro diritti di sovranità. Un re senza tale legittimazione era un ribelle che minacciava la pax romana e di conseguenza si rendeva reo di morte. Ma Pilato sapeva che da Gesù non era sorto un movimento rivoluzionario. Dopo tutto ciò che egli aveva sentito, Gesù deve essergli sembrato un esaltato religioso, che forse violava ordinamenti giudaici riguardanti il diritto e la fede, ma ciò non gli interessava. Su ciò dovevano giudicare i Giu212
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dei stessi. Sotto l'aspetto degli ordinamenti romani concernenti la giurisdizione e il potere, che rientravano nella sua competenza, non c'era nulla di serio contro Gesù. A questo punto dobbiamo passare dalle considerazioni sulla persona di Pilato al processo stesso. In Giovanni 18,34s è detto chiaramente che presso Pilato, in base alle informazioni in suo possesso, non c'era nulla contro Gesù. All'autorità romana non era giunta alcuna notizia su qualcosa che in qualche modo avrebbe potuto minacciare la pace legale. L'accusa proveniva dagli stessi connazionali di Gesù, dall'autorità del tempio. Doveva stupire Pilato che i connazionali di Gesù si presentassero davanti a lui come difensori di Roma, dal momento che le sue personali conoscenze non gli avevano dato l'impressione che un intervento fosse necessario. Ma nell'interrogatorio, ecco all'improvviso un momento che suscita eccitazione: la dichiarazione di Gesù. Alla domanda di Pilato: « Dunque tu sei re?», Egli risponde: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce » (Gv 18,37). Già prima Gesù aveva detto: «La mia regalità [il mio regno] non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (18,36). Questa «confessione» di Gesù mette Pilato 213
davanti ad una strana situazione: l'accusato rivendica regalità e regno (basileia). Ma sottolinea la totale diversità di questa regalità, e ciò con l'annotazione concreta che per il giudice romano deve essere decisiva: nessuno combatte per questa regalità. Se il potere, e precisamente il potere militare, è caratteristico per la regalità e il regno - niente di ciò si trova in Gesù. Per questo non esiste neanche una minaccia per gli ordinamenti romani. Questo regno è non violento. Non dispone di alcuna legione. Con queste parole, Gesù ha creato un concetto assolutamente nuovo di regalità e di regno mettendo Pilato, il rappresentante del classico potere terreno, di fronte ad esso. Che cosa deve pensare Pilato, che cosa dobbiamo pensare noi di tale concetto di regno e di regalità? È una cosa irreale, una fantasticheria della quale ci si può disinteressare? O forse in qualche modo ci riguarda? Accanto alla chiara delimitazione del concetto di regno (nessuno combatte, impotenza terrena), Gesù ha introdotto un concetto positivo, per rendere accessibile l'essenza e il carattere particolare del potere di questa regalità: la verità. Pilato, nell'ulteriore sviluppo dell'interrogatorio, ha messo in gioco un altro termine che proviene dal suo mondo e viene normalmente collegato con il termine «regno»: il potere - l'autorità (exousta). Il dominio richiede un potere, addirittura lo definisce. Gesù invece qualifica come essenza della sua regalità la testimonianza alla verità. La verità è forse una categoria politica? Oppure il « regno » di 214
Gesù non ha niente a che fare con la politica? A quale ordine allora esso appartiene? Se Gesù basa il suo concetto di regalità e di regno sulla verità come categoria fondamentale, molto comprensibilmente il pragmatico Pilato chiede: « Che cos'è la verità? »(18,38). È la domanda che pone anche la moderna dottrina dello Stato: può la politica assumere la verità come categoria per la sua struttura? O deve lasciare la verità, come dimensione inaccessibile, alla soggettività e invece cercare di riuscire a stabilire la pace e la giustizia con gli strumenti disponibili nell'ambito del potere? Vista l'impossibilità di un consenso sulla verità, la politica puntando su di essa non si rende forse strumento di certe tradizioni che, in realtà, non sono che forme di conservazione del potere? Ma, dall'altra parte - che cosa succede se la verità non conta nulla? Quale giustizia allora sarà possibile? Non devono forse esserci criteri comuni che garantiscano veramente la giustizia per tutti criteri sottratti all'arbitrarietà delle opinioni mutevoli ed alle concentrazioni del potere? Non è forse vero che le grandi dittature sono vissute in virtù della menzogna ideologica e che soltanto la verità poté portare la liberazione? Che cos'è la verità? La domanda del pragmatico, posta superficialmente con un certo scetticismo, è una domanda molto seria, nella quale effettivamente è in gioco il destino dell'umanità. Che cosa e, dunque, la verità? Possiamo riconoscerla? Può essa entrare, come criterio, nel nostro pensare e 215
volere, nella vita sia del singolo che in quella della comunità? La definizione classica formulata dalla filosofia scolastica qualifica la verità come «adaequatio intellectus et rei - corrispondenza tra intelletto e realtà » (Tommaso d'Aquino, S. theol. I q 21 a 2 c). Se la ragione di una persona rispecchia una cosa così come essa è in se stessa, allora la persona ha trovato la verità. Ma solo un piccolo settore di ciò che esiste realmente - non la verità nella sua grandezza ed interezza. Con un'altra affermazione di san Tommaso ci avviciniamo già di più alle intenzioni di Gesù: « La verità è nell'intelletto di Dio in senso vero e proprio e in primo luogo (proprie et primo); nell'intelletto umano, invece, essa è in senso vero e proprio, e derivato (proprie quidem et secundario) » (De verit. q 1 a 4 c). E così s'arriva infine alla formula lapidaria: Dio è «ipsa summa et prima vertías - la stessa somma e prima verità » (S. theol I q 16 a 5 c). Con questa formula siamo vicini a ciò che Gesù intende dire quando parla della verità, per dare testimonianza alla quale è venuto nel mondo. Verità ed opinione errata, verità e menzogna nel mondo sono continuamente mescolate in modo quasi inestricabile. La verità in tutta la sua grandezza e purezza non appare. Il mondo è «vero» nella misura in cui rispecchia Dio, il senso della creazione, la Ragione eterna da cui è scaturito. E diventa tanto più vero quanto più si avvicina a Dio. L'uomo diventa vero, diventa se stesso se diventa conforme a Dio. Allora egli raggiunge la sua 216
vera natura. Dio è la realtà che dona l'essere e il senso. « Dare testimonianza alla verità » significa mettere in risalto Dio e la sua volontà di fronte agli interessi del mondo e alle sue potenze. Dio è la misura dell'essere. In questo senso, la verità è il vero «re» che a tutte le cose dà la loro luce e la loro grandezza. Possiamo anche dire che dare testimonianza alla verità significa: partendo da Dio, dalla Ragione creatrice, rendere la creazione decifrabile e la sua verità accessibile in modo tale che essa possa costituire la misura e il criterio orientativo nel mondo dell'uomo - che ai grandi e ai potenti si faccia incontro il potere della verità, il diritto comune, il diritto della verità. Diciamolo pure: la non-redenzione del mondo consiste, appunto, nella non-decifrabilità della creazione, nella non-riconoscibilità della verità, una situazione che poi conduce inevitabilmente al dominio del pragmatismo, e in questo modo fa sì che il potere dei forti diventi il dio di questo mondo. A questo punto, come uomini moderni, si è tentati di dire: «Grazie alla scienza, per noi la creazione è diventata decifrabile». Di fatto, dice ad esempio Francis S. Collins, che ha diretto lo Human Genome Project, con lieto stupore: « Il linguaggio di Dio era stato decifrato » (The Language ofGod, p. 99). Sì davvero, nella grandiosa matematica della creazione, che oggi possiamo leggere nel codice genetico dell'uomo, percepiamo il linguaggio di Dio. Ma purtroppo non il linguaggio intero. La verità funzionale sull'uomo è diventata visibi217
le. Ma la verità su lui stesso - su chi egli sia, di dove venga, per quale scopo esista, che cosa sia il bene o il male - quella, purtroppo, non si può leggere in tal modo. Con la crescente conoscenza della verità funzionale sembra piuttosto andare di pari passo una crescente cecità per « la verità » stessa per la domanda su ciò che è la nostra vera realtà e ciò che è il nostro vero scopo. Che cos'è la verità? Non soltanto Pilato ha accantonato questa domanda come irrisolvibile e, per il suo compito, impraticabile. Anche oggi, nella disputa politica come nella discussione circa la formazione del diritto, per lo più si prova fastidio per essa. Ma senza la verità l'uomo non coglie il senso della sua vita, lascia, in fin dei conti, il campo ai più forti. « Redenzione » nel senso pieno della parola può consistere solo nel fatto che la verità diventi riconoscibile. Ed essa diventa riconoscibile, se Dio diventa riconoscibile. Egli diventa riconoscibile in Gesù Cristo. In Lui Dio è entrato nel mondo, ed ha con ciò innalzato il criterio della verità in mezzo alla storia. La verità esternamente è impotente nel mondo; come Cristo, secondo i criteri del mondo, è senza potere: Egli non possiede alcuna legione. Viene crocifisso. Ma proprio così, nella totale mancanza di potere, Egli è potente, e solo così la verità diviene sempre nuovamente una potenza. Nel colloquio tra Gesù e Pilato si tratta della regalità di Gesù e quindi della regalità, del « regno » di Dio. Proprio nel colloquio di Gesù con Pilato si rende evidente che non esiste alcuna rottura tra 218
l'annuncio di Gesù in Galilea - il regno di Dio - e i suoi discorsi in Gerusalemme. Il centro del messaggio fino alla croce - fino all'iscrizione sulla croce - è il regno di Dio, la nuova regalità che Gesù . rappresenta. Il centro di ciò è, però, la verità. La regalità annunciata da Gesù nelle parabole e, infine, in modo del tutto aperto davanti al giudice terreno è, appunto, la regalità della verità. L'erezione di questa regalità quale vera liberazione dell'uomo è ciò che interessa. Al contempo, diventa evidente che tra la fecalizzazione pre-pasquale sul regno di Dio e quella post-pasquale sulla fede in Gesù Cristo come Figlio di Dio non c'è alcuna contraddizione. In Cristo, Dio è entrato nel mondo, la verità. La cristologia è l'annuncio diventato concreto del regno di Dio. Per Pilato dopo l'interrogatorio è chiaro ciò che, in linea di principio, egli sapeva già prima. Questo Gesù non è un rivoluzionario politico, il suo messaggio e il suo comportamento non costituiscono un pericolo per il dominio romano. Se abbia contravvenuto alla Torà, a lui che è romano non interessa. Sembra però che Pilato abbia provato anche un certo timore superstizioso di fronte a questa figura strana. Certo, Pilato era uno scettico. Ma come uomo dell'antichità, egli tuttavia non escludeva che dèi o in ogni caso esseri simili agli dèi potessero comparire sotto l'aspetto di esseri umani. Giovanni dice che i «Giudei» accusavano Gesù di farsi Figlio di Dio, e aggiunge: «All'udire queste 219
parole, Pilato ebbe ancor più paura» (19,8). Penso che si debba tener conto di questa paura in Pilato: c'era forse veramente qualcosa di divino in quest'uomo? Condannandolo si metteva forse contro una potenza divina? Doveva forse aspettarsi l'ira di tali potenze? Penso che il suo atteggiamento in questo processo non si spieghi soltanto in ragione di un certo impegno per la giustizia, ma proprio anche in base a queste idee. Ovviamente gli accusatori se ne rendono conto ed oppongono ora ad una paura un'altra paura. Alla paura superstiziosa per una possibile presenza divina, essi oppongono la paura molto concreta di restare privo del favore dell'imperatore, di perdere la posizione e di precipitare così in una situazione senza sostegno. L'affermazione: «Se liberi costui, non sei amico di Cesare » (Gv 19,12), è una minaccia. Alla fine, la preoccupazione per la carriera è più forte della paura di fronte alle potenze divine. Ma prima della decisione finale vi è ancora un intermezzo drammatico e doloroso in tre atti, che almeno brevemente dobbiamo considerare. Il primo atto consiste nel fatto che Pilato presenta Gesù come candidato per l'amnistia pasquale, cercando in questo modo di liberarlo. Con questo, però, si espone ad una situazione fatale. Chi viene proposto come candidato per l'amnistia è di per sé già condannato. Soltanto così l'amnistia ha un senso. Se alla folla spetta il diritto d'acclamazione, allora dopo il suo pronunciamento è da considera220
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re come condannato colui che essa non ha scelto. In questo senso, nella proposta per la liberazione attraverso l'amnistia è tacitamente inclusa già una condanna. Sul confronto tra Gesù e Barabba come anche sul significato teologico di tale alternativa ho scritto in modo dettagliato già nella Prima Parte di quest'opera (cfr pp. 63s). Basta quindi ricordare qui brevemente soltanto l'essenziale. Giovanni qualifica Barabba, secondo le nostre traduzioni, semplicemente un «brigante» (18,40). Ma nel contesto politico di allora la parola greca da lui usata aveva assunto anche il significato di « terrorista », ovvero di «combattente della resistenza». Che questo fosse il significato inteso diventa evidente nel racconto di Marco: « Un tale, chiamato Barabba, si trovava in carcere insieme ai ribelli che nella rivolta avevano commesso un omicidio » (15,7). Barabba (« figlio del padre ») è una specie di figura messianica; nella proposta dell'amnistia pasquale due interpretazioni della speranza messianica stanno di fronte l'una all'altra. Secondo la legge romana si tratta di due delinquenti accusati dello stesso delitto - sono rivoltosi contro la pax romana. È chiaro che Pilato preferisce 1'« esaltato » non violento, che era Gesù ai suoi occhi. Ma le categorie della folla ed anche dell'autorità del tempio sono diverse. Se l'aristocrazia del tempio come massimo arriva alla frase: «Non abbiamo altro re che Cesare» (Gv 19,15), ciò è solo apparentemente una rinuncia alla speranza messianica di Israele: questo re noi non lo vogliamo. Essi desiderano un altro genere di soluzione del problema. 221
L'umanità si troverà sempre nuovamente davanti a tale alternativa: dire «sì» a quel Dio che opera soltanto con il potere della verità e dell'amore o contare sul concreto, su ciò che è a portata di mano, sulla violenza. I seguaci di Gesù non sono presenti nel luogo del giudizio, sono assenti per paura. Ma essi mancano anche perché non si propongono come massa. La loro voce si farà sentire a Pentecoste nella predica di Pietro, che allora « trafiggerà il cuore » di quegli uomini che in precedenza si erano decisi in favore di Barabba. Alla domanda: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» ricevono la risposta: « Convertitevi » - rinnovate e trasformate il vostro modo di pensare, il vostro essere (cfr At 2,37s). È questo il grido che, di fronte alla scena di Barabba e a tutte le sue riedizioni, deve squarciarci il cuore e portarci alla svolta della vita. Il secondo atto, Giovanni lo sintetizza laconicamente nella frase: «Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare» (19,1). La flagellazione era la punizione che, nel diritto penale romano, veniva inflitta come castigo concomitante la condanna a morte (cfr Hengel/Schwemer, p. 609). In Giovanni essa appare invece come un atto posto durante l'interrogatorio - un provvedimento che il prefetto, in virtù del suo potere di polizia, era autorizzato a prendere. Era una punizione estremamente barbara; il condannato « veniva picchiato da più aguzzini finché questi si stancavano e la carne del delinquente pendeva giù in brandelli sanguinanti» (Blinzler, p. 321). Rudolf Pesch com222
menta: «Il fatto che Simone il Cireneo debba por-
tare per Gesù la traversa della croce e che Gesù muoia così presto viene forse con ragione collegato con la tortura della flagellazione, durante la quale altri delinquenti già morivano » (Markusevangelium II, p. 467). Il terzo atto è l'incoronazione di spine. I soldati si prendono gioco in modo crudele di Gesù. Sanno che Egli pretende di essere re. Ma ora si trova nelle loro mani, ed è loro piacere umiliarlo, dimostrare in Lui la loro forza, forse anche scaricare su di Lui, in modo sostitutivo, la loro rabbia contro i grandi. Rivestono Lui - uomo colpito e ferito in tutto il corpo - con i segni caricaturali della maestà imperiale: il mantello scarlatto, la corona di spine intrecciate e lo scettro di canna. Gli rendono omaggio: «Salve, re dei Giudei!»; il loro omaggio consiste in ceffoni con cui manifestano ancora una volta tutto il loro disprezzo nei suoi confronti (cfr Mt 27,28ss; Me 15,17ss; Gv 19,2s). La storia delle religioni conosce la figura del re-caricatura - affine al fenomeno del « capro espiatorio». Su di lui si scarica tutto ciò che angustia gli uomini: in questo modo s'intende allontanare tutto ciò dal mondo. Senza saperlo, i soldati compiono quanto in quei riti e in quelle usanze non poteva realizzarsi: « Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti» (Is 53,5). In questa apparenza caricaturale Gesù viene condotto da Pilato, e Pilato lo presenta alla folla - all'umanità: Ecce homo Ecco l'uomo! (GP 19,5). Probabilmente il giudice 223
romano è sconvolto dalla figura percossa e schernita di questo misterioso accusato. Egli conta sulla compassione di coloro che lo vedono. «Ecce homo» - questa parola acquisisce spontaneamente una profondità che va al di là del momento. In Gesù appare l'essere umano come tale. In Lui si manifesta la miseria di tutti i colpiti e rovinati. Nella sua miseria si rispecchia la disumanità del potere umano, che schiaccia così l'impotente. In Lui si rispecchia ciò che chiamiamo «peccato»: ciò che l'uomo diventa quando volge le spalle a Dio e prende autonomamente in mano il governo del mondo. Ma è vero anche l'altro aspetto: a Gesù non può essere tolta la sua intima dignità. Resta presente in Lui il Dio nascosto. Anche l'uomo percosso ed umiliato rimane immagine di Dio. Da quando Gesù si è lasciato percuotere, proprio i feriti e i percossi sono immagine del Dio che ha voluto soffrire per noi. Così, nel mezzo della sua passione, Gesù è immagine di speranza: Dio sta dalla parte dei sofferenti. Alla fine Pilato si pone sul seggio del giudice. Dice ancora una volta: «Ecco il vostro re!» (Gt> 19,14). Poi pronuncia la sentenza a morte. Certo - la grande verità, di cui aveva parlato Gesù, gli è rimasta inaccessibile; la verità concreta di questo caso, però, Pilato la conosceva bene. Sapeva che questo Gesù non era un delinquente politico e che la regalità rivendicata da Lui non costituiva alcun pericolo politico - sapeva quindi che era da prosciogliere. Come prefetto egli rappresentava il diritto ro224
mano su cui si basava la pax romana - la pace dell'impero che abbracciava il mondo. Questa pace, da una parte, era assicurata mediante la potenza militare di Roma. Ma con la potenza militare, da sola, non si può stabilire nessuna pace. La pace si fonda sulla giustizia. La forza di Roma era il suo sistema giuridico, l'ordine giuridico, sul quale gli uomini potevano contare. Pilato - lo ripetiamo - conosceva la verità di cui si trattava in questo caso e sapeva quindi che cosa la giustizia richiedeva da lui. Ma alla fine vinse in lui l'interpretazione pragmatica del diritto: più importante della verità del caso è la forza pacificante del diritto, questo fu forse il suo pensiero e così si giustificò davanti a se stesso. Un'assoluzione dell'innocente poteva recare danno non solo a lui personalmente - il timore per questo fu certamente un motivo determinante per il suo agire - , ma poteva anche provocare ulteriori dispiaceri e disordini che, proprio nei giorni della Pasqua, erano da evitare. La pace fu in questo caso per lui più importante della giustizia. Doveva passare in seconda linea non soltanto la grande ed inaccessibile verità, ma anche quella concreta del caso: credette di adempiere in questo modo il vero senso del diritto - la sua funzione pacificatrice. Così forse calmò la sua coscienza. Per il momento tutto sembrò andar bene. Gerusalemme rimase tranquilla. Il fatto, però, che la pace, in ultima analisi, non può essere stabilita contro la verità, doveva manifestarsi più tardi.
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Capitolo 8 LA CROCIFISSIONE E LA DEPOSIZIONE DI GESÙ NEL SEPOLCRO
1. RIFLESSIONE PRELIMINARE: PAROLA ED EVENTO NEL RACCONTO DELLA PASSIONE
utti e quattro gli evangelisti ci parlano delle ore del Gesù sofferente sulla croce e della sua morte - concordi circa le grandi linee dell'evento, ma con accentuazioni diverse nei dettagli. La cosa particolare in questi racconti è che sono pieni di allusioni all'Antico Testamento e di citazioni tratte da esso: la parola di Dio e l'evento si compenetrano a vicenda. I fatti sono, per così dire, riempiti di parola - di senso; e anche inversamente: ciò che fino ad allora era stata soltanto parola - spesso parola incomprensibile - diventa realtà e solo così si dischiude alla comprensione. Dietro questo modo particolare di raccontare sta un processo di apprendimento, che la Chiesa nascente ha percorso e che per il formarsi di essa è stato costitutivo. In un primo momento, la fine di Gesù sulla croce era stata semplicemente un fatto irrazionale, che metteva in questione tutto il suo annuncio e l'intera sua figura. Il racconto circa i discepoli di Emmaus (cfr Le 24,13-35) descrive il cammino fatto insieme, la conversazione nella comune ricerca, come un processo in cui il buio delle anime pian piano si rischiara grazie all'accom-
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pagnamento di Gesù (cfr v. 15). Si rende evidente che Mose e i Profeti, che « tutte le Scritture » avevano parlato degli eventi di questa passione (cfr v. 26s): 1'« assurdità » si rivela ora nel suo profondo significato. Nell'avvenimento apparentemente privo di senso si è in realtà schiuso il vero senso del cammino umano; il senso ha riportato la vittoria sulla potenza della distruzione e del male. Ciò che qui è sintetizzato in un grande colloquio di Gesù con due discepoli era nella Chiesa nascente un processo di ricerca e di maturazione. Nella luce della risurrezione, nella luce del dono di un nuovo camminare in comunione col Signore, si doveva imparare a leggere l'Antico Testamento in modo nuovo: «Nessuno, infatti, si era aspettato una fine in croce del Messia. O forse, fino a quel momento, erano solo state ignorate le rispettive allusioni nella Sacra Scrittura? » (Reiser, Bibelkritik, p. 332). Non sono state le parole della Scrittura a suscitare il racconto di fatti, ma i fatti in un primo tempo incomprensibili hanno condotto ad una nuova comprensione della Scrittura. La concordanza riscontrata così tra fatto e parola determina non soltanto la struttura dei racconti dell'evento della passione (e dei Vangeli in genere), ma è costitutiva per la stessa fede cristiana, Senza di essa non si può capire lo sviluppo della Chiesa, il cui messaggio ricevette e riceve tuttora la sua credibilità e la sua rilevanza storica proprio da questo intreccio di senso e storia: dove questa connessione viene sciolta, si dissolve la stessa struttura basilare della fede cristiana.
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Nel racconto della passione è intessuta una molteplicità di allusioni a testi veterotestamentarii. Due di essi sono di importanza fondamentale, perché abbracciano ed illuminano teologicamente, per così dire, l'intero arco dell'evento della passione: sono il Salmo 22 ed Isaia 53. Gettiamo pertanto fin d'ora un rapido sguardo su questi due testi, che sono fondamentali per l'unità tra parola della Scrittura (Antico Testamento) ed evento di Cristo (Nuovo Testamento). Il Salmo 22 è il grande grido angosciato rivolto dall'Israele sofferente al Dio che apparentemente tace. La parola « gridare », che soprattutto in Marco ha poi anche nel racconto su Gesù in croce un'importanza centrale, caratterizza, per così dire, il tono di questo Salmo. « Sei lontano dal mio grido », vi si dice subito all'inizio. Nei versetti 3 e 6 si parla ancora di questo gridare. Diventa udibile tutta la pena del sofferente di fronte al Dio apparentemente assente. Qui non basta più un semplice chiamare o pregare. Nell'estrema angoscia la preghiera diventa necessariamente un grido. I versetti 7-9 parlano dello scherno che circonda l'orante. Questo scherno diventa una sfida a Dio e così ancor maggiormente un dileggio del sofferente: « Si rivolga al Signore; lui lo liberi, lo porti in salvo, se davvero lo ama! ». La sofferenza indifesa viene interpretata come prova del fatto che Dio veramente non ama il torturato. Il versetto 19 parla del sorteggio delle vesti, come è avvenuto di fatto sotto la croce. Ma poi il grido di angustia si trasforma in una professione di fiducia, anzi, viene anticipato e ce229
lebrato in tre versetti un grande esaudimento. Innanzitutto: « Da te la mia lode nella grande assemblea; scioglierò i miei voti davanti ai suoi fedeli» (v. 26). La Chiesa nascente sa di essere la grande assemblea in cui si celebra l'esaudimento dell'implorante, il suo salvamento - la risurrezione! Seguono poi due altri elementi sorprendenti. La salvezza riguarda non soltanto l'orante, ma diventa un «saziare i poveri» (v. 27). Ancora di più: «Torneranno al Signore tutti i confini della terra; davanti a lui si prostreranno tutte le famiglie dei popoli »(v. 28). Come avrebbe potuto la Chiesa nascente non intuire in quei versetti, da una parte, il « saziare i poveri » mediante il misterioso banchetto nuovo, donatole dal Signore nell'Eucaristia? E come, dall'altra, avrebbe potuto non vedervi l'evento insospettato che i popoli del mondo si convertivano al Dio di Israele, al Dio di Gesù Cristo - che cioè la Chiesa si formava attingendo da tutti i popoli? L'Eucaristia (la lode: v. 26; il saziare: v. 27) e l'universalismo della salvezza (v. 28) appaiono come il grande esaudimento da parte di Dio, che risponde al grido di Gesù. È importante tener sempre presente il vasto arco degli avvenimenti contenuti in questo Salmo per capire perché nel racconto della croce esso abbia un ruolo così centrale. Del secondo testo fondamentale - Isaia 53 - abbiamo già trattato nel contesto della Preghiera sacerdotale di Gesù. Di questo testo misterioso Marius Reiser ha presentato un'accurata analisi dalla cui lettura si può nuovamente apprendere 230
10 stupore della prima cristianità per il fatto che 11 cammino di Gesù Cristo sia stato predetto passo passo. Il profeta - letto ora con tutti i mezzi della moderna analisi critica del testo - parla da evangelista. Passiamo ora ad una breve considerazione circa gli elementi essenziali nel racconto della crocifissione.
2 . GESÙ SULLA CROCE «
La prima parola di Gesù sulla croce: «Padre, perdona loro» La prima parola di Gesù sulla croce, pronunciata quasi ancora durante l'atto della crocifissione, è la richiesta del perdono per coloro che lo trattano così: « Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Le 23,34). Ciò che il Signore ha predicato nel discorso della montagna lo compie qui personalmente. Egli non conosce alcun odio. Non grida vendetta. Implora il perdono per quanti lo mettono in croce e motiva questa richiesta: « Non sanno quello che fanno ». Questa parola riguardo all'ignoranza ritorna poi nel discorso di san Pietro negli Atti degli Apostoli. Egli ricorda alla folla riunitasi dopo la guarigione dello storpio nel portico di Salomone innanzitutto: «Voi avete rinnegato il Santo e il Giusto e avete chiesto che vi fosse graziato un assassino. Avete ucciso l'autore della vita, ma Dio l'ha risuscitato dai morti» (3,14s). Dopo questo ricordo do231
loroso che ha già fatto parte della sua predica di Pentecoste e trafitto il cuore della gente (cfr 2,37), egli continua: « Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi» (3,17). Ancora un'altra volta iL motivo dell'ignoranza appare in una retrospettiva autobiografica di san Paolo. Egli ricorda di essere stato lui stesso precedentemente « un bestemmiatore, un persecutore e un violento »; poi prosegue: « Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede» (1 Tm 1,13). In considerazione del suo precedente orgoglio da perfetto alunno della Legge, che conosceva ed adempiva la Scrittura, questa è una parola dura: egli che aveva studiato con i maestri migliori e poteva reputare se stesso un vero scriba, guardandosi indietro deve ora riconoscere di essere stato ignorante. Ma è stata l'ignoranza a salvarlo e a renderlo capace di conversione e di perdono. Certo, questa combinazione tra dotta erudizione e profonda ignoranza deve indurre a pensare. Rivela la problematicità di un sapere che resta autosufficiente e così non raggiunge la verità stessa che dovrebbe trasformare l'uomo. In un'altra maniera ancora appare lo stesso intreccio tra sapere ed ignoranza nel racconto dei Magi provenienti dall'Oriente. I capi dei sacerdoti e gli scribi sanno precisamente dove il Messia dovrebbe nascere. Ma non lo riconoscono. Sapienti, rimangono ciechi (cfr Mt 2,4-6). È ovvio che questo insieme di sapere ed ignoranza, di conoscenza materiale e profonda incomprensione, esiste in tutti i tempi. Per questo, la pa232
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rola di Gesù riguardo all'ignoranza, con le sue applicazioni nelle diverse situazioni della Scrittura, deve anche, proprio oggi, scuotere i presunti sapienti. Non siamo forse ciechi proprio come sapienti? Non siamo forse, proprio a causa del nostro sapere, incapaci di riconoscere la verità stessa che in ciò che sappiamo vuole venirci incontro? Non ci sottraiamo forse al dolore provocato dalla verità che trafigge il cuore - quella verità di cui Pietro ha parlato nella sua predica di Pentecoste? L'ignoranza riduce la colpa - lascia aperta la via verso la conversione. Ma non è semplicemente una scusante, perché rivela al tempo stesso un'ottusità del cuore, un'ottusità che resiste all'appello della verità. A maggior ragione rimane una consolazione per tutti i tempi e per tutti gli uomini il fatto che il Signore, a riguardo sia di coloro che veramente non sapevano - i carnefici - sia di coloro che sapevano e lo avevano condannato, pone l'ignoranza quale motivo della richiesta di perdono - la vede come porta che può aprirci alla conversione. Gesù deriso Appaiono nel Vangelo tre gruppi di beffeggiatori. Come primi, i passanti. Essi ripetono al Signore la parola riguardante la distruzione del tempio: « Ehi, tu che distruggi il tempio e lo ricostruisci in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce! » (Me 15,29s). Le persone che in questo modo si fanno beffe del Signore, esprimono con ciò il loro disprezzo per l'impotente, gli fanno sentire una vol233
ta di più la sua impotenza. Al tempo stesso vogliono indurlo in tentazione, come aveva già fatto il diavolo: «Salva te stesso! ». Serviti del tuo potere. Non sanno che proprio in questo momento si realizza la distruzione del tempio e che in tal modo si forma il nuovo tempio. Alla fine della passione, con la morte di Gesù, il velo del tempio si squarcia in due - così raccontano i sinottici - da cima a fondo (cfr Mt 27,51; Me 15,38; Le 23,45). Probabilmente s'intende, dei due veli del tempio, quello interno, quel velo cioè che impedisce alla gente l'accesso al Santo dei Santi. Una sola volta all'anno il sommo sacerdote può passare attraverso il velo, comparire al cospetto dell'Altissimo e pronunciare il santo nome di Lui. Adesso, nel momento della morte di Gesù, questo velo si squarcia da cima a fondo. Con ciò si allude a due cose: da una parte, diventa evidente che l'epoca del vecchio tempio e dei suoi sacrifici è finita; al posto dei simboli e dei riti, che rimandavano al futuro, subentra ora la realtà stessa, il Gesù crocifisso che riconcilia tutti noi col Padre. Ma al contempo, 10 squarciarsi del velo del tempio significa che ora è aperto l'accesso a Dio. Fino a quel momento il volto di Dio era stato velato. Solo mediante segni e una volta all'anno il sommo sacerdote poteva comparire davanti a Lui. Ora Dio stesso ha tolto il velo, nel Crocifisso si è manifestato come Colui che ama fino alla morte. L'accesso a Dio è libero. 11 secondo gruppo di beffeggiatori è composto da membri del sinedrio. Matteo menziona tutti e tre i raggruppamenti: sacerdoti, scribi e anziani. Essi 234
formulano la loro espressione di scherno in connessione con il Libro della Sapienza, che nel secondo capitolo parla del giusto che è di ostacolo alla vita malvagia degli altri, chiama se stesso figlio di Dio e viene consegnato alla sofferenza (cfr Sap 2,1020). Riallacciandosi a quelle parole, i membri del sinedrio dicono adesso di Gesù, il Crocifisso: «È il re d'Israele; scenda ora dalla croce e crederemo in lui. Ha confidato in Dio; lo liberi lui, ora, se gli vuol bene. Ha detto infatti: " S o n o Figlio di Dio"!» (Mt 27,42s; cfr Sap 2,18). Senza accorgersene, gli schernitori riconoscono con ciò che Gesù è veramente Colui di cui parla il Libro della Sapienza. Proprio nella situazione dell'esteriore impotenza, Egli si rivela come il vero Figlio di Dio. Possiamo aggiungere che il Libro della Sapienza conosceva forse l'esperimento mentale di Platone, che nella sua opera sullo Stato prova ad immaginare quale destino sarebbe riservato in questo mondo al giusto perfetto e giunge alla conclusione che egli sarebbe crocifisso (cfr Politeia II, 361e 362a). Il Libro della Sapienza ha forse ripreso questo pensiero del filosofo, lo ha introdotto nell'Antico Testamento, e ora tale pensiero rinvia direttamente a Gesù. Proprio nella derisione il mistero di Gesù Cristo si dimostra vero. Come non si è lasciato indurre dal diavolo a buttarsi giù dal pinnacolo del tempio (cfr Mt 4,5-7; Le 4,9-13), così ora non cede a questa tentazione. Egli sa: Dio stesso lo salverà - ma in maniera diversa da come qui questa gente lo immagina. La risurrezione sarà il momento in cui Dio lo libererà dalla morte e lo accrediterà come il Figlio. 235
Il terzo gruppo di beffeggiatori è costituito da coloro che sono stati crocifissi insieme con Lui e che da Matteo e Marco sono caratterizzati con la stessa parola lestes (brigante) con cui Giovanni caratterizza Barabba (cfr Mt 27,38; Me 15,27; Gv 18,40). È chiaro che così essi sono qualificati come combattenti della resistenza ai quali i Romani, per criminalizzarli, avevano dato semplicemente il titolo di «briganti». Vengono crocifissi insieme con Gesù, perché dichiarati colpevoli dello stesso reato: resistenza contro il potere romano. In Gesù, però, il genere di delitto è diverso che nei due, che forse avevano partecipato con Barabba alla sua insurrezione. Pilato sa bene che Gesù non aveva in mente una cosa di questo genere, e così, nell'iscrizione per la croce, definisce il «reato » in maniera particolare: « Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» (Gv 19,19). Fino a quel momento, Gesù aveva evitato il titolo di Messia o di re, ovvero l'aveva subito connesso con la sua passione (cfr Me 8,27-31) per impedire interpretazioni errate. Ora il titolo di re può apparire davanti a tutti. Nelle tre grandi lingue di allora Gesù viene pubblicamente proclamato re. È comprensibile che i membri del sinedrio si urtino per questo titolo in cui Pilato sicuramente vuole anche esprimere il suo cinismo contro le autorità giudaiche e, se pur in ritardo, vendicarsi di loro. Ma tale iscrizione che equivale ad una proclamazione a re sta ora davanti alla storia del mondo. Gesù è stato « elevato ». La croce è il suo trono, dal quale attira il mondo a sé. Da questo luogo dell'estremo dono di sé, da questo luogo di un amore 236
veramente divino, Egli domina come il vero re, a modo suo - nel modo che né Pilato né i membri del sinedrio avevano potuto comprendere. Non entrambi gli uomini crocifissi con Lui si associano alla derisione. Uno dei due intuisce il mistero di Gesù. Sa e vede che il genere di «delitto» di Gesù era del tutto diverso; che Gesù era un non violento. E ora s'accorge che quest'Uomo crocifisso con loro veramente rende visibile il volto di Dio, è il Figlio di Dio. Così lo prega: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno » (Le 23,42). Come il buon ladrone abbia immaginato precisamente l'entrata di Gesù nel suo regno e in che senso abbia quindi chiesto il ricordo di Gesù, non sappiamo. Ma ovviamente egli proprio sulla croce ha capito che quest'uomo privo di ogni potere è il vero re - Colui del quale Israele è in attesa e a fianco del quale ora egli non vuole essere soltanto sulla croce, ma anche nella gloria. La risposta di Gesù va oltre la richiesta. Al posto di un futuro indeterminato pone il suo « oggi»: «Oggi sarai con me nel paradiso» (23,43). Anche questa parola è piena di mistero, ma ci mostra con sicurezza una cosa: Gesù sapeva di entrare direttamente nella comunione col Padre - che poteva promettere il «paradiso» già per «oggi». Sapeva che avrebbe ricondotto l'uomo nel paradiso dal quale era decaduto: in quella comunione con Dio in cui è la vera salvezza dell'uomo. Così nella storia della devozione cristiana il buon ladrone è diventato l'immagine della speranza - la certezza consolante che la misericordia 237
di Dio può raggiungerci anche nell'ultimo istante; la certezza, anzi, che dopo una vita sbagliata, la preghiera che implora la sua bontà non è vana. « Tu che hai esaudito il ladrone anche a me hai dato speranza », prega ad esempio anche il Dies ime. Il grido di abbandono di Gesù Matteo e Marco ci raccontano concordemente che, all'ora nona, Gesù esclamò a gran voce: « Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? » (Mt 27,46; Me 15,34). Essi trasmettono il grido di Gesù in una mescolanza di ebraico e di aramaico e lo traducono poi in greco. Questa preghiera di Gesù ha stimolato sempre nuovamente l'interrogarsi e il riflettere dei cristiani: come poteva il Figlio di Dio essere abbandonato da Dio? Che cosa significa questo grido? Rudolf Bultmann, per esempio, osserva al riguardo: L'esecuzione di Gesù avvenne « a causa di un'interpretazione errata del suo operare visto come agitazione politica. Sarebbe allora - parlando dal punto di vista storico - un destino privo di senso. Se o come Gesù in esso abbia trovato un senso, non possiamo sapere. Non ci si deve nascondere la possibilità che Egli sia crollato » (Das Verhältnis, p. 12). Che cosa dobbiamo dire di fronte a tutto ciò? Innanzitutto c'è da considerare il fatto che, secondo il racconto di ambedue gli evangelisti, i circostanti non hanno compreso l'esclamazione di Gesù, ma l'hanno interpretata come un grido verso Elia. In studi eruditi si è cercato di ricostruire l'esclamazione di Gesù precisamente in modo tale i
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che, da una parte, potesse essere fraintesa come un grido verso Elia e, dall'altra, costituisse il grido d'abbandono del Salmo 22 (cfr Rudolf Pesch, Markusevangelium II, p. 495). Comunque sia: solo la comunità credente ha compreso l'esclamazione di Gesù, non capita e fraintesa dai circostanti, come l'inizio del Salmo 22 e, in base a ciò, ha potuto intenderlo come grido veramente messianico. Non è un qualsiasi grido di abbandono. Gesù recita il grande Salmo dell'Israele sofferente e assume così in sé tutto il tormento non solo di Israele, ma di tutti gli uomini che soffrono in questo mondo per il nascondimento di Dio. Egli porta davanti al cuore di Dio stesso il grido d'angoscia del mondo tormentato dall'assenza di Dio. Si identifica con l'Israele sofferente, con l'umanità che soffre a causa del « buio di Dio », assume in sé il suo grido, il suo tormento, tutto il suo bisogno di aiuto e con ciò, al contempo, li trasforma. Il Salmo 22 pervade - come abbiamo visto - il racconto della passione e va al di là di esso. L'umiliazione pubblica, lo scherno e lo scuotere il capo da parte dei beffeggiatori, i dolori, la terribile sete, la trafittura delle mani e dei piedi, il sorteggio dei vestiti - l'intera passione in tale Salmo è come raccontata in anticipo. Mentre Gesù pronuncia le parole iniziali del Salmo è però, in ultima analisi, già presente il tutto di questa magnifica preghiera anche la certezza dell'esaudimento che si manifesterà nella risurrezione, nel formarsi della « grande assemblea » e nell'appagamento della fame dei poveri (cfr vv. 25ss). Il grido nell'estremo tormento è al contempo certezza della risposta divina, 239
certezza della salvezza - non soltanto per Gesù stesso, ma per «molti». Nella teologia più recente sono stati fatti molti tentativi penetranti di scrutare, in base a questo grido d'angoscia di Gesù, negli abissi della sua anima e di comprendere il mistero della sua persona nell'estremo tormento. Tutti questi sforzi, in fin dei conti, sono caratterizzati da un approccio troppo limitato e individualistico. Penso che i Padri della Chiesa con il loro modo di comprendere il pregare di Gesù siano stati molto più vicini alla realtà. Già presso gli oranti dell'Antico Testamento, le parole dei Salmi non appartengono ad un singolo soggetto chiuso in se stesso. Certo, sono parole molto personali, sviluppatesi nella lotta con Dio, ma parole alle quali, tuttavia, sono al contempo associati in preghiera tutti i giusti che soffrono, tutto l'Israele, anzi, l'intera umanità in lotta, e perciò questi Salmi abbracciano sempre il passato, il presente e il futuro. Stanno nel presente della sofferenza e, tuttavia, portano in sé già il dono dell'esaudimento, della trasformazione. Questa figura basilare, che nella ricerca più recente viene caratterizzata come « personalità corporativa », i Padri l'hanno accolta ed approfondita a partire dalla loro fede in Cristo: nei Salmi - ci dice Agostino - è Cristo che prega insieme come Capo e come Corpo (cfr ad es. En. in Ps., 60,ls; 61,4; 85,1.5). Prega come «Capo» - come Colui che ci unisce tutti in un soggetto comune e ci accoglie tutti in sé. E prega come «Corpo», ciò significa 240
che la lotta di tutti noi, le nostre proprie voci, la nostra tribolazione e la nostra speranza sono presenti. Noi stessi siamo oranti di questo Salmo, ma ora in maniera nuova nella comunione con Cristo. E a partire da Lui, passato, presente e futuro sono sempre uniti. Sempre di nuovo ci troviamo nell'abissale oggi della sofferenza. Sempre, però, anche la risurrezione e l'appagamento dei poveri avvengono già «oggi». In una tale prospettiva non viene cancellato niente dell'orrore della passione di Gesù. Al contrario: aumenta, perché non è soltanto individuale, ma porta realmente in sé la tribolazione di tutti noi. Ma al tempo stesso la sofferenza di Gesù è una passione messianica - un soffrire in comunione con noi, per noi; un essere-con che deriva dall'amore e così già porta in sé la redenzione, la vittoria dell'amore. Il sorteggio delle vesti di Gesù Gli evangelisti ci raccontano che i quattro soldati incaricati dell'esecuzione capitale di Gesù si divisero le sue vesti tirandole a sorte. Ciò corrispondeva all'usanza romana, secondo cui le vesti del giustiziato spettavano al plotone d'esecuzione. Giovanni cita esplicitamente il Salmo 22,19 riportandolo con queste parole: « Si sono divisi tra loro le mie vesti e sulla mia tunica hanno gettato la sorte» (19,24). Adeguandosi al parallelismo tipico della poesia ebraica, in cui un unico atto viene espresso in due tempi, Giovanni distingue due azioni: dapprima i 241
soldati fecero quattro parti delle vesti di Gesù e le divisero tra loro. Poi presero anche « la tunica. Ma quella tunica era senza cuciture, tessuta tutta d'un pezzo da cima a fondo. Perciò dissero tra loro: " Non stracciamola, ma tiriamo a sorte a chi tocca"» (19,23s). Questa notizia sulla tunica (chiton) senza cuciture è riportata con tanta accuratezza, perché con ciò Giovanni ha ovviamente voluto ricordare qualcosa di più che un dettaglio casuale. Alcuni esegeti fanno riferimento, in questo contesto, ad un'informazione di Giuseppe Flavio, secondo cui la tunica (ichitón) del sommo sacerdote veniva intessuta con un unico filo continuo (cfr Aut. Ind., 111,7,4). Quindi, in questo accenno sommesso dell'evangelista si può forse individuare un'allusione alla dignità di sommo sacerdote di Gesù, una dignità che Giovanni, dal punto di vista teologico, aveva ampiamente presentato nella Preghiera sacerdotale di Gesù. Colui che lì muore non è soltanto il vero Re di Israele. È anche il Sommo Sacerdote che, proprio in questa ora del suo estremo disonore, compie il suo ministero sacerdotale. I Padri, riflettendo su tale testo, hanno messo un accento diverso: essi vedono nella tunica senza cuciture, che anche i soldati non vogliono dividere in pezzi, un'immagine dell'unità indistruttibile della Chiesa. La tunica senza cuciture è espressione dell'unità che il sommo sacerdote Gesù aveva chiesto per i suoi la sera prima della passione. Di fatto, nella Preghiera sacerdotale si collegano inscindibilmente insieme il sacerdozio di Gesù e l'u242
nità dei suoi. Ai piedi della croce percepiamo ancora una volta in modo penetrante il messaggio che Gesù nella sua preghiera, prima di uscire incontro alla morte, ci ha posto davanti e ha scritto nei nostri cuori. «Ho sete» All'inizio della crocifissione era stato offerta a Gesù, come si era soliti fare, una bevanda narcotizzante per attenuare i dolori insostenibili. Gesù rifiutò questa bevanda - Egli voleva sopportare la sua sofferenza in modo pienamente cosciente (cfr Me 15,23). Al culmine della passione, nel sole cocente di mezzogiorno, steso sulla croce, Gesù gridò: «Ho sete» (Gz? 19,28). Secondo la consuetudine, gli venne offerto il vino acidulo diffuso tra i poveri, che si poteva qualificare anche come aceto; era considerato ima bevanda dissetante. Qui troviamo nuovamente quella compenetrazione di parola biblica ed evento sulla quale abbiamo riflettuto all'inizio di questo capitolo. Da una parte, la scena è del tutto realistica - la sete del Crocifisso e la bevanda acidula che i soldati in quei casi solevano somministrare. Dall'altra, sentiamo immediatamente trapelare il Salmo 69, applicabile alla passione, nel quale l'assetato lamenta: «Quando avevo sete mi hanno dato aceto» (v. 22). Gesù è il Giusto sofferente. In Lui si compie la passione del Giusto, illustrata dalla Scrittura nelle grandi esperienze degli oranti sofferenti. Ma come non pensare con ciò anche al canto della vigna nel 5° capitolo del profeta Isaia, quel canto 243
sul quale abbiamo riflettuto nel contesto del discorso sulla vite (cfr Parte I, pp. 297-300)? In esso Dio aveva portato davanti a Israele il suo lamento. Su di una collina fertile, Dio aveva piantato ima vigna e le aveva dedicato molta cura. « Egli aspettò che producesse uva; essa produsse, invece, acini acerbi» (Is 5,2). La vigna di Israele non porta a Dio il frutto nobile della giustizia, che ha il suo fondamento nell'amore. Essa produce gli acini acerbi dell'uomo che si preoccupa soltanto di se stesso. Produce aceto invece che vino. Il lamento di Dio, che sentiamo nel canto profetico, si concretizza in quest'ora in cui al Redentore assetato si offre aceto. Come il canto di Isaia illustra, al di là della sua ora storica, la sofferenza di Dio per il suo popolo, così anche la scena presso la croce si estende oltre l'ora della morte di Gesù. Non solo Israele, anche la Chiesa, anche noi rispondiamo all'amore premuroso di Dio sempre di nuovo con l'aceto - con un cuore acido che non vuole percepire l'amore di Dio. «Ho sete»: questo grido di Gesù è rivolto a ciascuno di noi. Le donne sotto la croce - la Madre di Gesù Tutti e quattro gli evangelisti ci parlano - ognuno a modo suo - delle donne sotto la croce. Marco riferisce: « Vi erano anche alcune donne, che osservavano da lontano, tra le quali Maria di Màgdala, Maria madre di Giacomo il minore e di Ioses, e Salome, le quali, quando era in Galilea, lo seguivano e lo servivano, e molte altre che erano salite con lui a Gerusalemme» (15,40s). Anche se gli evange244
listi in modo diretto non ne dicono niente, si può tuttavia percepire lo sconcerto e il lutto di tali donne di fronte all'accaduto semplicemente sulla base del fatto che la loro presenza viene menzionata. Giovanni cita alla fine del suo racconto della crocifissione una parola del profeta Zaccaria: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (19,37; Zc 12,10). All'inizio dell'Apocalisse, questa parola, che qui illustra la scena presso la croce, egli l'applicherà in modo profetico al tempo finale - al momento del ritorno del Signore, quando tutti guarderanno a Colui che viene con le nubi - il Trafitto - e si batteranno il petto (cfr 1,7). Le donne guardano al Trafitto. Possiamo qui richiamare alla mente anche le altre parole del profeta Zaccaria: « Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito» (12,10). Mentre fino alla morte di Gesù solo derisione e crudeltà avevano circondato il Signore, ora i Vangeli presentano un epilogo conciliante che conduce alla deposizione nel sepolcro ed alla risurrezione. Le donne rimaste fedeli sono presenti. La loro compassione e il loro amore si volgono al Redentore morto. Possiamo quindi tranquillamente aggiungere anche la conclusione del testo di Zaccaria: « In quel giorno vi sarà per la casa di Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l'impurità» (13,1). Il guardare al Trafitto e il com-patire diventano già per se stessi una fonte di purificazione. La forza trasformante della passione di Gesù prende inizio. 245
Giovanni non ci racconta soltanto che presso la croce di Gesù stavano delle donne - « sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Clèopa e Maria di Màgdala » (19,25) - , ma egli prosegue: « Gesù allora, vedendo la madre e accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: " Donna, ecco tuo f i g l i o ! P o i disse al discepolo: "Ecco tua madre! E da quell'ora il discepolo l'accolse con sé» (19,26s). È questa un'ultima disposizione di Gesù, quasi un atto di adozione. Egli è l'unico figlio di sua madre che, dopo la sua morte, rimarrebbe sola nel mondo. Ora Egli le pone a fianco il discepolo amato, lo rende, per così dire, figlio di lei al posto suo, e da quel momento questi è responsabile per lei - l'accoglie con sé. La traduzione letterale è ancora più forte; si potrebbe renderla più o meno così: egli l'accolse fra le proprie cose - l'accolse nel suo intimo contesto di vita. Questo è dunque innanzitutto un gesto del tutto umano del Redentore che sta per morire. Non lascia sola la madre, l'affida alla premura del discepolo a Lui molto vicino. E così anche al discepolo è donato un nuovo focolare - la madre che si cura di lui e della quale egli si prende cura. Se Giovanni comunica vicende umane del genere, egli vuole certamente ricordare cose avvenute. Tuttavia, ciò che gli interessa è sempre qualcosa di più di singoli fatti del passato. L'evento rimanda al di là di se stesso verso ciò che permane. Che cosa, quindi, intende dirci con questo? Un primo approccio ce lo dà l'appellativo per la madre: «donna». È lo stesso appellativo che Gesù aveva usato nelle nozze di Cana (cfr Gv 246
2,4). Le due scene vengono così collegate l'una con l'altra. Cana era stata un'anticipazione delle nozze definitive - del vino nuovo che il Signore voleva donare. Solo adesso diventa realtà ciò che allora era stato soltanto un segno che rimandava al futuro. L'appellativo « donna », al tempo stesso, rinvia al racconto della creazione in cui il Creatore presenta ad Adamo la donna. Adamo reagisce a questa nuova creatura dicendo: « Questa volta è osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne. La si chiamerà donna...» (Gen 2,23). San Paolo nelle sue Lettere ha presentato Gesù come il nuovo Adamo col quale l'umanità ricomincia in modo nuovo. Giovanni ci dice che al nuovo Adamo appartiene nuovamente « la donna », che egli ci presenta nella figura di Maria. Nel Vangelo ciò rimane un'allusione sommessa che nella fede della Chiesa sarebbe poi stata sviluppata passo passo. L'Apocalisse parla del segno grandioso della donna che appare nel cielo, coinvolgendovi tutto Israele, anzi l'intera Chiesa. Continuamente la Chiesa deve con dolori generare Cristo (cfr 12,16). Un altro passo nella maturazione del medesimo pensiero lo troviamo nella Lettera agli Efesini che applica a Cristo e alla Chiesa l'immagine dell'uomo che lascia il padre e la madre e diventa una sola carne con la moglie (cfr 5,31s). In base al modello della « personalità corporativa », la Chiesa antica - secondo il modo di pensare della Bibbia - non ha trovato alcuna difficoltà, da una parte, a riconoscere nella donna in modo del tutto personale Maria e, dall'altra, a vedere in essa, ab247
bracciando tutti i tempi, la Chiesa sposa e madre, in cui il mistero di Maria si estende nella storia. Come Maria, la donna, anche il discepolo prediletto è insieme una figura concreta e un modello del discepolato che esisterà sempre e sempre deve esistere. Al discepolo, che è veramente discepolo nella comunione d'amore col Signore, viene affidata la donna: Maria - la Chiesa. La parola di Gesù sulla croce rimane aperta a molte realizzazioni concrete. Sempre di nuovo essa viene rivolta sia alla madre che al discepolo, e a ciascuno è affidato il compito di porla in atto nella propria vita, così come previsto nel piano del Signore. Sempre di nuovo viene chiesto al discepolo di accogliere nella propria personale esistenza Maria come persona e come Chiesa e di adempiere così l'ultima disposizione di Gesù. Gesù muore sulla croce Secondo il racconto degli evangelisti, Gesù è morto pregando all'ora nona, cioè alle tre del pomeriggio. Secondo Luca, la sua ultima preghiera era tratta dal Salmo 31: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito » (Le 23,46; cfr Sai 31,6). Secondo Giovanni, l'ultima parola di Gesù è stata: «E compiuto! » (19,30). Nel testo greco, questa parola (tetélestai) rimanda indietro all'inizio della passione, all'ora della lavanda dei piedi il cui racconto l'evangelista introduce sottolineando che Gesù amò i suoi «sino alla fine (télos)» (13,1). Questa « fine », questo estremo compimento dell'amare è V
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raggiunta ora, nel momento della morte. Egli è veramente andato sino alla fine, sino al limite ed al
di là del limite. Egli ha realizzato la totalità dell'amore - ha dato se stesso. Nel capitolo 6, trattando della preghiera di Gesù sul Monte degli ulivi, abbiamo conosciuto, in base ad Ebrei 5,9, ancora un altro significato della stessa parola (teleioun): nella Torà, essa significa «iniziazione», consacrazione in ordine alla dignità sacerdotale, cioè totale passaggio nella proprietà di Dio. Penso che, con riferimento alla Preghiera sacerdotale di Gesù, possiamo anche qui sottintendere tale significato. Gesù ha compiuto fino in fondo l'atto di consacrazione, la consegna sacerdotale di se stesso e del mondo a Dio (cfr Gv 17,19). Così risplende in questa parola il grande mistero della croce. E stata compiuta la nuova liturgia cosmica. Al posto di tutti gli altri atti cultuali subentra la croce di Gesù come l'unica vera glorificazione di Dio, nella quale Dio glorifica se stesso mediante Colui in cui Egli ci dona il suo amore e così ci attrae in alto verso di sé. I Vangeli sinottici caratterizzano la morte in croce esplicitamente come evento cosmico e liturgico: il sole si oscura, il velo del tempio si squarcia in due, la terra trema, dei morti risuscitano. Più importante ancora del segno cosmico è un processo di fede: il centurione - comandante del plotone d'esecuzione - , nello sconvolgimento per gli avvenimenti che vede, riconosce Gesù come Figlio di Dio: « Davvero, quest'uomo era Figlio di Dio » (Aie 15,39). Sotto la croce prende inizio la 249
Chiesa dei pagani. A partire dalla croce, il Signore raduna gli uomini per la nuova comunità della Chiesa universale. In virtù del Figlio sofferente essi riconoscono il vero Dio. Mentre i Romani, come intimidazione, lasciavano volutamente pendere i crocifissi dopo la morte dallo strumento di tortura, questi, secondo il diritto giudaico, dovevano essere tolti il giorno stesso (cfr Dt 21,22s). Per questo era compito del plotone d'esecuzione di accelerare la morte spezzando loro le gambe. Avviene così anche nel caso dei crocifissi sul Gòlgota. Ai due «briganti» vengono spezzate le gambe. Ma poi i soldati vedono che Gesù è già morto. Allora rinunciano a spezzargli le gambe. Invece di ciò, uno di loro trafigge il lato destro - il cuore - di Gesù « e subito ne uscì sangue e acqua» (Gv 19,34). È l'ora in cui vengono immolati gli agnelli pasquali. Per essi vige la prescrizione secondo cui non deve esserne spezzato alcun osso (cfr Es 12,46). Gesù appare qui come il vero Agnello pasquale, che è puro e perfetto. Possiamo quindi in questa parola scorgere anche un tacito rimando all'inizio della vicenda di Gesù - a quell'ora in cui il Battista aveva detto: « Ecco l'agnello di Dio, colui che toglie il peccato del mondo! » (Gv 1,29). Ciò che allora doveva rimanere ancora incomprensibile - era soltanto un'allusione misteriosa a qualcosa di futuro - è adesso realtà. Gesù è l'Agnello scelto da Dio stesso. Sulla croce Egli porta il peccato del mondo, e lo « toglie » via. Al tempo stesso risuona, però, anche il Salmo 250
34, dove si legge: «Molti sono i mali del giusto, ma da tutti lo libera il Signore. Custodisce tutte le sue ossa: neppure uno sarà spezzato» (v. 20s). Il Signore, il Giusto, ha sofferto molto, ha sofferto tutto, eppure Dio lo ha custodito: non gli è stato spezzato alcun osso. Sangue e acqua uscirono dal cuore trafitto di Gesù. In tutti i secoli la Chiesa, secondo la parola di Zaccaria, ha guardato a questo cuore trafitto e riconosciuto in esso la fonte di benedizione indicata anticipatamente nel sangue e nell'acqua. La parola di Zaccaria spinge addirittura a cercare una comprensione più profonda di ciò che lì è accaduto. Un primo grado di questo processo di penetrazione lo troviamo nella Prima Lettera di Giovanni, che riprende con vigore il discorso del sangue e dell'acqua usciti dal costato di Gesù: « Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù Cristo; non con l'acqua soltanto, ma con l'acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché lo Spirito è la verità. Poiché tre sono quelli che danno testimonianza: lo Spirito, l'acqua e il sangue, e questi tre sono concordi» (5,6ss). Che cosa intende dire l'autore con l'affermazione insistente che Gesù è venuto non soltanto con l'acqua ma anche col sangue? Si può probabilmente supporre che egli alluda ad una corrente di pensiero che attribuiva valore soltanto al battesimo, ma accantonava la croce. E ciò significa forse anche che si considerava importante solo la parola, la dottrina, il messaggio, ma non « la carne », il ,f
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corpo vivente di Cristo, dissanguato sulla croce; significa che si cercava di creare un cristianesimo del pensiero e delle idee, dal quale si voleva togliere via la realtà della carne: il sacrificio e il Sacramento. I Padri hanno visto in questo duplice flusso di sangue e di acqua un'immagine dei due sacramenti fondamentali - l'Eucaristia e il Battesimo che scaturiscono dal fianco trafitto del Signore, dal suo cuore. Essi sono la corrente nuova che crea la Chiesa e rinnova gli uomini. Ma i Padri, di fronte al costato aperto del Signore dormiente sulla croce nel sonno della morte, hanno pensato anche alla creazione di Eva dal costato di Adamo addormentato, vedendo così nella corrente dei sacramenti al contempo l'origine della Chiesa: hanno visto la creazione della nuova donna dal costato del nuovo Adamo. La deposizione di Gesù nel sepolcro Tutti e quattro gli evangelisti ci raccontano che un membro benestante del sinedrio, Giuseppe d'Arimatea, chiese a Pilato il corpo di Gesù. Marco (15,43) e Luca (23,51) aggiungono che Giuseppe era uno che « aspettava il regno di Dio », mentre Giovanni (cfr 19,38) lo qualifica un discepolo segreto di Gesù, un discepolo che, per timore dei circoli giudaici dominanti, fino a quel momento non si è apertamente manifestato come tale. Giovanni menziona inoltre la partecipazione di Nicodèmo (cfr 19,39), circa il cui colloquio notturno 252
con Gesù su nascita e rinascita dell'uomo egli aveva riferito nel terzo capitolo (cfr vv. 1-8). Dopo il dramma del processo, in cui tutto sembrava congiurare contro Gesù e nessuna voce sembrava più alzarsi in suo favore, veniamo ora a conoscere l'altro Israele: persone che sono in attesa. Persone che si fidano delle promesse di Dio e vanno in cerca del loro adempimento. Persone che nella parola e nell'opera di Gesù riconoscono l'irruzione del regno di Dio, l'inizio del compiersi delle promesse. Persone del genere finora le avevamo incontrate nei Vangeli prevalentemente tra la gente semplice: Maria e Giuseppe, Elisabetta e Zaccaria, Simeone ed Anna - inoltre i discepoli che tutti, pur provenendo da differenti livelli culturali e da correnti diverse in Israele, tuttavia non appartenevano ai circoli influenti. Ora - dopo la morte di Gesù - ci vengono incontro due personaggi ragguardevoli della dasse colta di Israele che, pur non avendo ancora osato dichiarare la loro condizione di discepoli, avevano tuttavia quel cuore semplice che rende l'uomo capace della verità (cfr Mt 10,25s). Mentre i Romani abbandonavano i corpi dei giustiziati sulla croce agli avvoltoi, i Giudei ci tenevano che essi venissero seppelliti; esistevano luoghi assegnati dall'autorità giudiziaria proprio per questo. In tale senso, la richiesta di Giuseppe rientra nella consuetudine giudiziaria giudaica. Marco riferisce che Pilato si meravigliò che Gesù fosse già morto e che anzitutto si informò presso il centurione circa la verità di tale notìzia. Dopo la conferma della morte di Gesù, egli concesse il corpo di Gesù al membro del consiglio (cfr 15,44s). 253
Sulla deposizione stessa nel sepolcro gli evangelisti ci trasmettono una serie di informazioni importanti. Innanzitutto viene sottolineato che Giuseppe fa mettere il corpo del Signore in un sepolcro nuovo di sua proprietà nel quale nessuno era stato ancora sepolto (cfr Mt 27,60; Le 23,53; Gv 19,41). In ciò si esprime un rispetto profondo nei confronti di questo defunto. Come nella « Domenica delle Palme » si è servito di un asino sul quale nessuno era ancora salito (cfr Me 11,2), così ora Egli viene messo anche in un sepolcro nuovo. Inoltre è importante la notizia secondo cui Giuseppe comprò un lenzuolo in cui avvolse il defunto. Mentre i sinottici parlano semplicemente di un lenzuolo al singolare, Giovanni usa il plurale « teli» di lino (cfr 19,40) secondo l'usanza giudaica nelle sepolture - il racconto della risurrezione ritorna su questo ancora più dettagliatamente. La questione circa la concordanza con la sindone di Torino non deve qui occuparci; in ogni caso, l'aspetto di tale reliquia è in linea di massima conciliabile con ambedue i rapporti. Infine Giovanni ci racconta che Nicodèmo portò una mistura di mirra e di aloè, « circa cento libbre [trenta chili]». E prosegue: «Essi presero allora il corpo di Gesù e lo avvolsero con teli, insieme ad aromi, come usano fare i Giudei per preparare la sepoltura » (19,39s). La quantità degli aromi è straordinaria e supera ogni misura comune: è una sepoltura regale. Se nel sorteggio delle vesti abbiamo intrawisto Gesù come sommo sacerdote, ora il genere della sua sepoltura lo manifesta come re: nei momenti in 254
cui tutto sembra finito emerge tuttavia in modo misterioso la sua gloria. I Vangeli sinottici ci raccontano che alcune dorine osservavano la sepoltura (cfr Mt 27,61; Me 15,47), e Luca informa che si trattava delle donne « che erano venute con Gesù dalla Galilea » (23,55). Egli aggiunge: « Poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di Sabato osservarono il riposo come era prescritto» (23,56). Dopo il riposo sabbatico, al mattino del primo giorno della settimana, esse verranno per ungere il corpo di Gesù ed effettuare così la sepoltura definitiva. L'unzione è un tentativo di fermare la morte, di sottrarre il cadavere alla decomposizione. E, tuttavia, questo è uno sforzo inutile: l'unzione può conservare il defunto soltanto come defunto, non può ridargli la vita. Al mattino del primo giorno, le donne vedranno che la loro premura per il defunto e per la sua conservazione è stata ima premura troppo umana. Vedranno che Gesù non deve essere conservato nella morte, ma che Egli è vivo nuovamente e soltanto ora vive veramente. Vedranno che Dio, in un modo definitivo e solo a Lui possibile, lo ha sottratto alla corruzione e con ciò al potere della morte. Tuttavia, nella premura e nell'amore delle donne si preannuncia già il mattino della risurrezione.
3. LA MORTE DI GESÙ COME RICONCILIAZIONE (ESPIAZIONE) E SALVEZZA
In un ultimo punto vorrei cercare di far vedere, per lo meno a grandi linee, come la Chiesa na255
scente, sotto la guida dello Spirito Santo, sia lentamente penetrata nella verità più profonda della croce, mossa dal desiderio di capire almeno da lontano il motivo e lo scopo di essa. Sorprendentemente, una cosa era chiara fin dall'inizio: con la croce di Cristo, gli antichi sacrifici del tempio erano definitivamente superati. Era accaduto qualcosa di nuovo. L'attesa contenuta nella critica dei profeti, che s'era espressa in particolare anche nei Salmi, aveva trovato adempimento: Dio non voleva essere glorificato mediante i sacrifici di tori e di capri, il cui sangue non può purificare l'uomo né espiare per lui. Il nuovo culto atteso, e tuttavia fino a quel momento non ancora definito, era diventato una realtà. Nella croce di Gesù era avvenuto ciò che nei sacrifici animali era stato tentato invano: il mondo aveva ottenuto l'espiazione. L'« Agnello di Dio » aveva caricato su di sé il peccato del mondo e l'aveva tolto via. Il rapporto di Dio col mondo rapporto disturbato a causa della colpa degli uomini - era stato rinnovato. Si era realizzata la riconciliazione. Così Paolo poteva sintetizzare l'evento di Gesù Cristo, il suo nuovo messaggio, con le parole: «E stato Dio infatti a riconciliare a sé il mondo in Cristo, non imputando agli uomini le loro colpe e affidando a noi la parola della riconciliazione. In nome di Cristo, dunque, siamo ambasciatori: per mezzo nostro è Dio stesso che esorta. Vi supplichiamo in nome di Cristo: lasciatevi riconciliare con Dio!» (2 Cor 5,19s). Soprattutto dalle Lettere di Paolo conosciamo gli acuti contrasti che c'erano 256
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nella Chiesa nascente circa la questione se la legge mosaica conservasse anche per i cristiani la sua forza vincolante. Tanto più sorprendente è il fatto che su tuia cosa - come s'è detto - ci fosse concordia fin dall'inizio: i sacrifici del tempio - il centro cultuale della Torà - erano superati. Cristo aveva preso il loro posto. Il tempio rimaneva un luogo venerabile di preghiera e di annuncio. I suoi sacrifici, invece, non erano più validi per i cristiani. Ma come ciò doveva essere capito più precisamente? Nella letteratura neotestamentaria ci sono diversi tentativi di interpretare la croce di Cristo come il nuovo culto, la vera espiazione e la vera purificazione del mondo inquinato. Più volte abbiamo già parlato del testo fondamentale di Romani 3,25 in cui Paolo chiaramente riprende una tradizione della prima comunità giudeo-cristiana di Gerusalemme, qualificando Gesù crocifisso come hilasterion., Con tale parola, come abbiamo visto, viene indicato il coperchio dell'arca dell'alleanza che durante il sacrificio espiatorio, nel grande giorno dell'Espiazione, veniva asperso col sangue della riparazione. Diciamo subito come i cristiani ora interpretavano questo rito arcaico: non è il contatto di sangue animale con un arredo sacro a riconciliare Dio e l'uomo. Nella passione di Gesù, tutto lo sporco del mondo viene a contatto con l'immensamente Puro, con l'anima di Gesù Cristo e così con lo stesso Figlio di Dio. Se di solito la cosa impura mediante il contatto contagia ed inquina la cosa pura, qui abbiamo il contrario: dove il mondo, con tutta la sua in257
giustizia e con le sue crudeltà che lo inquinano, viene a contatto con l'immensamente Puro - là Egli, il Puro, si rivela al contempo il più forte. In questo contatto lo sporco del mondo viene realmente assorbito, annullato, trasformato mediante il dolore dell'amore infinito. Siccome nell'Uomo Gesù è presente il bene infinito, è ora presente ed efficace nella storia del mondo la forza antagonista di ogni forma di male, il bene è sempre infinitamente più grande di tutta la massa del male, per quanto essa sia terribile. Se cerchiamo di riflettere un po' più a fondo su questa convinzione, troviamo anche la risposta ad una obiezione che ripetutamente viene sollevata contro l'idea di espiazione. Sempre di nuovo si dice: Non è forse un Dio crudele colui che richiede un'espiazione infinita? Non è questa un'idea indegna di Dio? Non dobbiamo forse, a difesa della purezza dell'immagine di Dio, rinunciare all'idea di espiazione? Nel discorso su Gesù come hilasterion diventa evidente che il perdono reale che avviene a partire dalla croce si realizza proprio in modo inverso. La realtà del male, dell'ingiustizia che deturpa il mondo e insieme inquina l'immagine- di Dio - questa realtà c'è: per colpa nostra. Non può essere semplicemente ignorata, deve essere smaltita. Ora, tuttavia, non è che da un Dio crudele venga richiesto qualcosa di infinito. È proprio il contrario: Dio stesso si pone come luogo di riconciliazione e, nel suo Figlio, prende la sofferenza su di sé. Dio stesso introduce nel mondo come dono la sua infinita purezza. Dio stesso «beve il calice» di tutto ciò che è terribile e ristabilisce così il dirit258
to mediante la grandezza del suo amore, che attraverso la sofferenza trasforma il buio. Obiettivamente, il Vangelo di Giovanni (specialmente con la teologia della Preghiera sacerdotale) e la Lettera agli Ebrei (con l'intera interpretazione della Torà cultuale nella prospettiva della teologia della croce) hanno sviluppato proprio questi pensieri e così al tempo stesso hanno reso evidente come nella croce si compie l'intimo senso dell'Antico Testamento - non soltanto la critica cultuale dei profeti ma, positivamente, anche ciò che sempre era stato il significato e l'intenzione del culto. Traendolo dalla grande ricchezza della Lettera agli Ebrei, vorrei qui proporre alla riflessione solo un unico testo fondamentale. L'autore qualifica il culto dell'Antico Testamento come «ombra» (10,1) e lo spiega così: «È impossibile infatti che il sangue di tori e di capri elimini i peccati » (10,4). Poi cita il Salmo 40,7ss ed interpreta queste parole del Salmo come dialogo del Figlio col Padre, un dialogo in cui si compie l'incarnazione e, al contempo, la nuova forma del culto divino diventa realtà: «Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato. Non hai gradito né olocausti né sacrifici per il peccato. Allora ho detto: " Ecco, io vengo - poiché di me sta scritto nel rotolo del libro - per fare, o Dio, la tua volontà "» (Ebr 10,5ss; cfr Sai 40,7ss). In questa breve citazione del Salmo c'è una modifica importante rispetto al testo originale, una modifica che presenta il punto finale di uno sviluppo in tre tappe nella teologia del culto. Mentre i
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la Lettera agli Ebrei legge: «Un corpo mi hai preparato», il Salmista aveva detto: «Gli orecchi mi hai aperto». Già qui, al posto dei sacrifici del tempio era subentrata l'obbedienza. La vita impostata sulla base della parola di Dio e all'interno di essa era stata riconosciuta come il vero modo di venerare Dio. In ciò il Salmo s'incontrava con una corrente dello spirito greco nell'ultimo periodo prima della nascita di Cristo: anche nel mondo greco si sentiva sempre più insistentemente l'insufficienza dei sacrifici animali di cui Dio non ha bisogno e nei quali l'uomo non dà a Dio ciò che Egli potrebbe aspettarsi dall'uomo. Così venne qui formulata l'idea del «sacrificio a modo di parola»: la preghiera, l'aprirsi dello spirito umano verso Dio è il vero culto. Quanto più l'uomo diventa parola - o meglio: diventa con l'intera sua esistenza risposta a Dio - tanto più egli pone in essere il culto giusto. Nell'Antico Testamento, dal primo inizio dei Libri di Samuele fino alla tarda profezia di Daniele, troviamo in maniera sempre nuova la ricerca affannosa intorno a questo pensiero che si collega sempre più strettamente con l'amore per la parola orientativa di Dio, cioè per la Torà. Dio viene venerato in modo giusto se noi viviamo nell'obbedienza alla sua parola e, plasmati così interiormente dalla sua volontà, diventiamo conformi a Dio. D'altra parte, rimane pur sempre anche un'impressione di insufficienza. La nostra obbedienza è sempre nuovamente mancante. Sempre di nuovo la volontà personale si fa avanti. Il profondo senso dell'insufficienza di ogni obbedienza umana verso 260
la parola di Dio fa, tuttavia, erompere sempre nuovamente il desiderio dell'espiazione, che però in virtù di noi stessi e della nostra « prestazione di obbedienza » non può realizzarsi. Per questo, nel bel mezzo del discorso sull'insufficienza degli olocausti e dei sacrifici, erompe poi anche sempre di nuovo il desiderio che essi possano ritornare in modo più perfetto (cfr ad es. Sai 51,19ss). Nella versione che la parola del Salmo 40 ha trovato nella Lettera agli Ebrei, è contenuta la risposta a tale desiderio: il desiderio che a Dio sia dato ciò che noi non siamo in grado di dargli e che il dono sia tuttavia dono nostro trova il suo adempimento. Il salmista aveva pregato: «Non hai chiesto olocausto né sacrificio per il peccato. Gli orecchi mi hai aperto». Il vero Logos, il Figlio, dice al Padre: « Tu non hai voluto né sacrificio né offerta, un corpo invece mi hai preparato ». Il Logos stesso, il Figlio, si fa carne; assume un corpo umano. Così è possibile una nuova forma di obbedienza, un'obbedienza che va al di là di ogni adempimento umano dei Comandamenti. Il Figlio diventa Uomo e nel suo corpo riporta a Dio l'intera umanità. Solo il Verbo fattosi carne, il cui amore si compie sulla croce, è l'obbedienza perfetta. In Lui non è soltanto divenuta definitiva la critica ai sacrifici del tempio, ma è adempiuto anche il desiderio che era restato: la sua obbedienza « corporea » è il nuovo sacrificio nel quale coinvolge tutti noi e in cui al contempo tutta la nostra disobbedienza è annullata mediante il suo amore. Detto ancora in altre parole: la nostra personale moralità non basta per venerare Dio in modo giu261
sto. Questo san Paolo ha chiarito con grande forza nella controversia circa la giustificazione. Ma il Figlio fattosi carne porta in sé tutti noi e dona così ciò che noi da soli non potremmo dare. Per questo fa parte dell'esistenza cristiana sia il sacramento del Battesimo quale accoglienza nell'obbedienza di Cristo, sia l'Eucaristia in cui l'obbedienza del Signore sulla croce ci abbraccia tutti, ci purifica e ci attira nell'adorazione perfetta realizzata da Gesù Cristo. Ciò che qui, nell'assimilazione orante dell'Antico Testamento e della via di Gesù, la Chiesa nascente dice circa l'incarnazione e la croce si pone nel bel mezzo della ricerca drammatica che in quel periodo si svolge circa la giusta comprensione del rapporto tra Dio e l'uomo. Non risponde solo al «perche » della croce, ma contemporaneamente anche alle domande assillanti, sia per il mondo giudaico che per quello pagano, su come l'uomo possa diventare retto davanti a Dio e come, inversamente, possa comprendere in modo giusto il Dio misterioso e nascosto, supposto che ciò sia alla portata degli uomini. Sulla base di tutte le riflessioni precedenti si è già reso evidente che con ciò non solo è stata elaborata un'interpretazione teologica della croce come anche - a partire dalla croce - dei fondamentali sacramenti cristiani, del culto cristiano, ma che è coinvolta sempre anche la dimensione esistenziale: che cosa comporta questo per me? che cosa significa per il mio cammino di persona umana? L'obbedienza « corporea » di Cristo è, appunto, 4
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oggi?
presentata come spazio aperto nel quale noi veniamo accolti e per mezzo del quale la nostra vita personale trova un nuovo contesto. Il mistero della croce non sta semplicemente di fronte a noi, ma ci coinvolge e dà alla nostra vita un nuovo valore. Questo lato esistenziale della nuova concezione di culto e di sacrificio appare particolarmente chiaro nel capitolo 12 della Lettera ai Romani: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio, come la vostra adorazione nello spirito [letteralmente: come culto a modo di parola]» (v. 1). E qui ripreso il concetto del culto a Dio mediante la parola (logiké latreia) e s'intende l'abbandono a Dio dell'intera esistenza, un abbandono in cui, per così dire, l'uomo intero diventa come parola, diventa conforme a Dio. In ciò è sottolineata la dimensione della corporeità: proprio la nostra esistenza corporea deve essere pervasa dalla Parola e diventare dono per Dio. Paolo, che pone tanto in rilievo l'impossibilità della giustificazione in base alla propria moralità, presuppone in ciò indubbiamente che questo nuovo culto dei cristiani, in cui essi stessi sono il « sacrificio vivente e santo» sia possibile solo nella partecipazione all'amore corporeizzato di Gesù Cristo, quell'amore che mediante il potere della sua santità supera ogni nostra insufficienza. Se, da una parte, dobbiamo dire che Paolo con una tale esortazione non cede ad alcuna forma di moralismo e non smentisce affatto la sua dottrina circa la giustificazione mediante la fede - e non mediante le opere - , dall'altra, diventa tuttavia 263
evidente che l'uomo con questa dottrina della giustificazione non è condannato alla passività - non diventa un destinatario solamente passivo della giustizia di Dio che, in tal caso, resterebbe in fondo sempre qualcosa di esterno a lui. No, la grandezza dell'amore di Cristo si mostra proprio nel fatto che Egli, nonostante tutta la nostra miserevole insufficienza, ci accoglie in sé, nel suo sacrificio vivente e santo, così che diventiamo veramente il « suo corpo ». Nel capitolo 15 della Lettera ai Romani, Paolo riprende lo stesso pensiero ancora una volta con molta insistenza, interpretando il suo apostolato come sacerdozio e qualificando i pagani diventati credenti come il sacrificio vivente gradito a Dio: vi ho scritto « a motivo della grazia che mi à stata data da Dio per essere ministro di Gesù Cristo tra le genti, adempiendo il sacro ministero di annunciare il vangelo di Dio perché le genti divengano un'offerta gradita, santificata dallo Spirito Santo» (15,15s). In tempi più recenti, questo modo di parlare di sacerdozio e di sacrificio è stato qualificato come semplicemente allegorico. Si tratterebbe di sacerdozio e di sacrificio soltanto in senso improprio, puramente spirituale, non in senso cultuale, reale. Paolo stesso e tutta la Chiesa antica, invece, hanno visto questo proprio nel senso opposto. Per loro, i sacrifici materiali erano sacrificio e culto solo in senso improprio - un tentativo di protendersi verso qualcosa che, tuttavia, non erano in grado di realizzare. Il culto vero è l'uomo vivente che è di264
ventato interamente risposta a Dio, plasmato dalla sua parola risanatrice e trasformante. E il vero sacerdozio è quindi quel ministero della Parola e del Sacramento che trasforma gli uomini in un dono per Dio e rende il cosmo una lode al Creatore e Redentore. Per questo il Cristo che sulla croce offre se stesso è il vero sommo sacerdote, al quale il sacerdozio aronnitico rimandava in modo simbolico. Il dono che Egli fa di se stesso - la sua obbedienza che accoglie tutti noi e ci riporta a Dio - è quindi il vero culto, il vero sacrificio. Per questo, al centro del ministero apostolico e dell'annuncio del Vangelo che conduce verso la fede deve stare l'ingresso nel mistero della croce. Conseguentemente, se nella celebrazione dell'Eucaristia, nella partecipazione, ogni volta nuova, al mistero sacerdotale di Gesù Cristo, possiamo vedere il centro del culto cristiano, resta tuttavia da tener sempre presente la sua estensione totale: lo scopo è costantemente quello di attrarre dentro l'amore di Cristo ogni singolo e il mondo così che tutti divengano insieme con Lui « un'offerta gradita a Dio, santificata dallo Spirito Santo» (Rm 15,16). A partire da queste riflessioni lo sguardo si apre, infine, verso un'ulteriore dimensione dell'idea cristiana di culto e di sacrificio. Essa si rende evidente nel seguente versetto della Lettera ai Filippesi nel quale Paolo prevede il suo martirio e, al tempo stesso, lo interpreta teologicamente: «Anche se io devo essere versato come sacrificio e nella liturgia della vostra fede, sono lieto e mi rallegro con tutti 265
voi» (2,17; cfr 2 Tm 4,6). Paolo considera il suo previsto martirio come liturgia e come un evento sacrificale. Anche questo, di nuovo, non è semplicemente un'allegoria e'un modo di parlare improprio. No, nel martirio egli viene tirato totalmente dentro l'obbedienza di Cristo, dentro la liturgia della croce e così dentro il vero culto. In base a questa interpretazione, la Chiesa antica ha potuto comprendere il martirio nella sua vera profondità e grandezza. Così ad esempio Ignazio d'Antiochia, secondo la tradizione, ha qualificato se stesso come frumento di Cristo, che nel martirio viene macinato per diventare pane di Cristo (cfr Ad Rom. 4.1). Nel rapporto sul martirio di san Policarpo si racconta che le fiamme, nelle quali egli doveva essere bruciato, presero la forma di un velo gonfiato dal vento; esso «circondava così il corpo del martire; questi, però, stava al centro non come carne bruciata, ma come un pane che viene cotto » ed emanava « un odore buono come di incenso profumato» (Mari. Polyc. 15). Analogamente i cristiani di Roma hanno interpretato anche il martirio di san Lorenzo, che venne bruciato sulla graticola: vedevano in ciò non solo la perfetta unione di lui con il mistero di Cristo, che nel martirio è divenuto pane per noi, ma anche un'immagine dell'esistenza cristiana in generale: nelle tribolazioni della vita veniamo lentamente purificati nel fuoco, possiamo per così dire diventare pane, nella misura in cui nella nostra vita e nella nostra sofferenza si comunica il mistero di Cristo e il suo amore fa di noi un dono per Dio e per gli uomini. 266
Vivendo il Vangelo e soffrendo per esso, la Chiesa, sotto la guida del messaggio apostolico, ha imparato a comprendere sempre di più il mistero della croce, anche se questo, in ultima analisi, non è scomponibile in formule della nostra ragione: nella croce l'oscurità e l'illogicità del peccato s'incontrano con la santità di Dio nella sua luminosità abbagliante per i nostri occhi e questo va al di là della nostra logica. E tuttavia, nel messaggio del Nuovo Testamento e nel suo verificarsi nella vita dei santi, il grande mistero è diventato del tutto luminoso. Il mistero dell'espiazione non deve essere sacrificato a nessun razionalismo saccente. Ciò che il Signore rispose alla richiesta da parte dei figli di Zebedeo circa i troni accanto a Lui rimane una parola-chiave per la fede cristiana in generale: « Il Figlio dell'uomo non è venuto per farsi servire, ma per servire e dare la propria vita in riscatto per molti» (Me 10,45).
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Capitolo 9 LA RISURREZIONE DI GESÙ DALLA MORTE
1. D i CHE SI TRATTA NELLA RISURREZIONE DI GESÙ I
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«
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« l i Jf a se Cristo non è risorto, vuota allora è la I V J L nostra predicazione, vuota anche la vostra fede. Noi, poi, risultiamo falsi testimoni di Dio, perché contro Dio abbiamo testimoniato che egli ha risuscitato il Cristo» (1 Cor 15,14s). Con queste parole san Paolo pone drasticamente in risalto quale importanza abbia per il messaggio cristiano nel suo insieme la fede nella risurrezione di Gesù Cristo: ne è il fondamento. La fede cristiana sta o cade con la verità della testimonianza secondo cui Cristo è risorto dai morti. Se si toglie questo, si può, certo, raccogliere dalla tradizione cristiana ancora una serie di idee degne di nota su Dio e sull'uomo, sull'essere dell'uomo e sul suo dover essere - una sorta di concezione religiosa del mondo - , ma la fede cristiana è morta. Gesù in tal caso è una personalità religiosa fallita; ima personalità che nonostante il suo fallimento rimane grande e può imporsi alla nostra riflessione, ma rimane in una dimensione puramente umana e la sua autorità è valida nella misura in cui il suo messaggio ci convince. Egli non è più il criterio di misura; criterio è allora soltanto la nostra valutazione personale che sceglie 269
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dal suo patrimonio ciò che sembra utile. E questo significa che siamo abbandonati a noi stessi. La nostra valutazione personale è l'ultima istanza. Solo se Gesù è risorto, è avvenuto qualcosa di veramente nuovo che cambia il mondo e la situazione dell'uomo. Allora Egli, Gesù, diventa il criterio, del quale ci possiamo fidare. Poiché allora Dio si è veramente manifestato. Per questo, nella nostra ricerca sulla figura di Gesù, la risurrezione è il punto decisivo. Se Gesù sia soltanto esistito nel passato o invece esista anche nel presente - ciò dipende dalla risurrezione. Nel « sì » o « no » a questo interrogativo non ci si pronuncia su di un singolo avvenimento accanto ad altri, ma sulla figura di Gesù come tale. È perciò necessario ascoltare con particolare attenzione la testimonianza sulla risurrezione offerta nel Nuovo Testamento. Ma dobbiamo allora, come prima cosa, constatare che questa testimonianza, considerata dal punto di vista storico, si presenta a noi in una forma particolarmente complessa, così da sollevare molte domande. Che cosa è lì successo? Ciò chiaramente, per i testimoni che avevano incontrato il Risorto, non era facile da esprimere. Si erano trovati davanti ad un fenomeno per essi stessi totalmente nuovo, poiché oltrepassava l'orizzonte delle loro esperienze. Per quanto la realtà dell'accaduto li sconvolgesse fortemente e li spingesse a darne testimonianza - essa tuttavia era totalmente inusuale. San Marco ci racconta che i discepoli, scendendo dal monte della trasfigurazione, riflettevano 270
preoccupati sulla parola di Gesù secondo cui il Figlio dell'uomo sarebbe «risorto dai morti». E si domandavano l'un l'altro che cosa volesse dire «risorgere dai morti» (9,9s). E di fatto: in che cosa ciò consiste? I discepoli non lo sapevano e dovevano impararlo solo dall'incontro con la realtà. Chi si avvicina ai racconti della risurrezione con l'idea di sapere che cosa sia la risurrezione dai morti, non può che interpretare tali racconti in modo sbagliato e deve poi accantonarli come cosa insensata. Alla fede nella risurrezione Rudolf Bultmann ha obiettato che, anche se Gesù fosse tornato dal sepolcro, si dovrebbe tuttavia dire che « un tale miracoloso evento della natura come la rianimazione di un morto » non ci aiuterebbe per nulla e, dal punto di vista esistenziale, sarebbe irrilevante (cfr Neues Testament und Mythologie, p. 19). Ebbene, di fatto: se nella risurrezione di Gesù si fosse trattato soltanto del miracolo di un cadavere rianimato, essa ultimamente non ci interesserebbe affatto. Non sarebbe infatti più importante della rianimazione, grazie all'abilità dei medici, di persone clinicamente morte. Per il mondo come tale e per la nostra esistenza non sarebbe cambiato nulla. Il miracolo di un cadavere rianimato significherebbe che la risurrezione di Gesù era la stessa cosa che la risurrezione del giovane di Nain (cfr Le 7,11-17), della figlia del Giàiro (cfr Me 5,22-24.3543 e par.) o di Lazzaro (cfr Gv 11,1-44). Di fatto, dopo un tempo più o meno breve, questi ritornarono nella loro vita di prima per poi più tardi, a un certo punto, morire definitivamente. Le testimonianze neotestamentarie non lascia271
no alcun dubbio che nella « risurrezione del Figlio dell'uomo» sia avvenuto qualcosa di totalmente diverso. La risurrezione di Gesù è stata l'evasione verso un genere di vita totalmente nuovo, verso una vita non più soggetta alla legge del morire e del divenire, ma posta al di là di ciò - una vita che ha inaugurato una nuova dimensione dell'essere uomini. Per questo la risurrezione di Gesù non è un avvenimento singolare, che noi potremmo trascurare e che apparterrebbe soltanto al passato, ma è una sorta di « mutazione decisiva » (per usare analogicamente questa parola, pur equivoca), un salto di qualità. Nella risurrezione di Gesù è stata raggiunta una nuova possibilità di essere uomo, una possibilità che interessa tutti e apre un futuro, un nuovo genere di futuro per gli uomini. Con ragione, quindi, Paolo ha inscindibilmente connesso la risurrezione dei cristiani e la risurrezione di Gesù: « Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto - . Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti» (1 Cor 15,16.20). La risurrezione di Cristo o è un avvenimento universale o non è, ci dice Paolo. E solo se la intendiamo come avvenimento universale, come inaugurazione di una nuova dimensione dell'esistenza umana, siamo sulla strada di una giusta interpretazione della testimonianza sulla risurrezione presente nel Nuovo Testamento. Da qui si capisce la peculiarità di tale testimonianza neotestamentaria. Gesù non è tornato in una normale vita umana di questo mondo, come era successo a Lazzaro e agli altri morti risuscitati da 272
Gesù. Egli è uscito verso una vita diversa, nuova verso la vastità di Dio e, partendo da lì, Egli si manifesta ai suoi. Ciò era anche per i discepoli una cosa del tutto inaspettata, di fronte alla quale ebbero bisogno di tempo per orientarsi. È vero che la fede giudaica conosceva la risurrezione dei morti alla fine dei tempi. La vita nuova era collegata con l'inizio di un mondo nuovo e in tale prospettiva era anche ben comprensibile: se c'è un mondo nuovo, allora lì esiste anche un modo nuovo di vita. Ma una risurrezione verso una condizione definitiva e differente, nel bel mezzo del mondo vecchio che continua ad esistere - questo non era previsto e pertanto inizialmente neanche comprensibile. Per questo la promessa della risurrezione era in un primo tempo rimasta inafferrabile per i discepoli. Il processo del divenire credenti si sviluppa in modo analogo a quanto è avvenuto nei confronti della croce. Nessuno aveva pensato ad un Messia crocifisso. Ora il « fatto » era lì, e in base a tale fatto occorreva leggere la Scrittura in modo nuovo. Nel capitolo precedente abbiamo visto come partendo dall'inatteso la Scrittura si sia dischiusa in modo nuovo e così anche il fatto abbia acquistato un suo senso. La nuova lettura della Scrittura, ovviamente, poteva cominciare soltanto dopo la risurrezione, perché soltanto in virtù di essa Gesù era stato accreditato come inviato di Dio. Ora si dovevano individuare ambedue gli eventi - croce e risurrezione - nella Scrittura, comprenderli in modo nuovo e così giungere alla fede in Gesù come Figlio di Dio. 273
Questo, peraltro, presuppone che per i discepoli la risurrezione fosse reale come la croce. Presuppone che essi fossero semplicemente sopraffatti dalla realtà; che dopo tutta la titubanza e la meraviglia iniziali non potessero più opporsi alla realtà: è veramente Lui; Egli vive e ci ha parlato, ci ha concesso di toccarlo, anche se non appartiene più al mondo di ciò che normalmente è toccabile. Il paradosso era indescrivibile: che Egli fosse del tutto diverso, non un cadavere rianimato, ma uno che in virtù di Dio viveva in modo nuovo e per sempre; e che al tempo stesso, in quanto tale, pur non appartenendo più al nostro mondo, fosse presente in modo reale proprio Lui, nella sua piena identità. Si trattava di un'esperienza assolutamente unica, che andava al di là degli usuali orizzonti dell'esperienza e, tuttavia, restava per i discepoli del tutto incontestabile. A partire da ciò si spiega la peculiarità delle testimonianze sulla risurrezione: parlano di una cosa paradossale, di qualcosa che supera ogni esperienza e che tuttavia è presente in modo assolutamente reale. Ma può veramente essere stato così? Possiamo noi - soprattutto in quanto persone moderne - dar credito a testimonianze del genere? Il pensiero « illuminato » dice di no. A Gerd Ludemann, per esempio, appare evidente, che in seguito al « cambio dell'immagine scientifica del mondo ... le idee tradizionali sulla risurrezione di Gesù » siano « da ritenere superate» (citato secondo Wilckens 1/2 pp. 119s). Ma ora, che significa precisamente «l'immagine scientifica del mondo»? Fin dove 274
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giunge la sua normatività? Hartmut Gese, nel suo importante contributo Die Frage des Weltbildes a cui vorrei qui rimandare, ha descritto accuratamente i limiti di tale normatività. Naturalmente, non può esserci alcun contrasto con ciò che costituisce un chiaro dato scientifico. Nelle testimonianze sulla risurrezione, certo, si parla di qualcosa che non rientra nel mondo della nostra esperienza. Si parla di qualcosa di nuovo, di qualcosa fino a quel momento unico - si parla di una nuova dimensione della realtà che si manifesta. Non si contesta la realtà esistente. Ci viene detto piuttosto: esiste un'ulteriore dimensione rispetto a quelle che finora conosciamo. Ciò sta forse in contrasto con la scienza? Può veramente esserci solo ciò che è esistito da sempre? Non può esserci la cosa inaspettata, inimmaginabile, la cosa nuova? Se Dio esiste, non può Egli creare anche una dimensione nuova della realtà umana? della realtà in generale? Non è, in fondo, la creazione in attesa di questa ultima e più alta « mutazione », di questo definitivo salto di qualità? Non attende forse l'unificazione del finito con l'infinito, l'unificazione tra l'uomo e Dio, il superamento della morte? Nell'intera storia di ciò che vive, gli inizi delle novità sono piccoli, quasi invisibili - possono essere ignorati. Il Signore stesso ha detto che il « regno dei cieli», in questo mondo, è come un granello di senape, il più piccolo di tutti i semi (cfr Mt 13,31s e par.). Ma reca in sé le potenzialità infinite di Dio. La risurrezione di Gesù, dal punto di vista della storia del mondo, è poco appariscente, è il seme più piccolo della storia. 275
Questo capovolgimento delle proporzioni fa parte dei misteri di Dio. In fin dei conti, ciò che è grande, potente, è la cosa piccola. E il seme piccolo è la cosa veramente grande. Così la risurrezione è entrata nel mondo soltanto attraverso alcune apparizioni misteriose agli eletti. E tuttavia essa era l'inizio veramente nuovo - ciò di cui, in segreto, il tutto era in attesa. E per i pochi testimoni - proprio perché essi stessi non riuscivano a capacitarsene - era un avvenimento così sconvolgente e reale, così potente nel manifestarsi davanti a loro che ogni dubbio si dissolveva ed essi, con un coraggio assolutamente nuovo, si presentarono davanti al mondo per testimoniare: Cristo è veramente risorto.
2 . I DUE TIPI DIVERSI DI TESTIMONIANZA SULLA RISURREZIONE
Dedichiamoci ora alle singole testimonianze sulla risurrezione nel Nuovo Testamento. Esaminandole, si constaterà innanzitutto che esistono due tipi diversi di testimonianza, che possiamo qualificare come tradizione in forma di professione e tradizione in forma di narrazione. 2.1. La tradizione in forma di professione La tradizione in forma di professione sintetizza l'essenziale in brevi formule che vogliono conservare il nucleo dell'avvenimento. Esse sono respressione dell'identità cristiana, la « professione » appunto grazie alla quale ci si riconosce a vicenda 276
e ci si fa riconoscere davanti a Dio e agli uomini. Vorrei proporre tre esempi. Il racconto concernente i discepoli di Emmaus si conclude riferendo che i due a Gerusalemme trovano gli undici discepoli radunati e da loro vengono salutati con le parole: « Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone! » (Le 24,34). In base al contesto, questa è qui anzitutto una specie di breve narrazione, ma è già destinata a diventare un'acclamazione e una professione in cui è affermato l'essenziale: l'avvenimento stesso e il testimone che ne è il garante. Una combinazione di due formule la troviamo nel capitolo 10 della Lettera ai Romani: «Se con la tua bocca proclamerai: ''Gesù è il Signore! ", e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (v. 9). Qui - analogamente al racconto sulla professione di Pietro presso Cesarea di Filippo (cfr Mt 16,13ss) - la professione ha due parti: si afferma che Gesù è « il Signore » e con ciò, in base al significato veterotestamentario della parola «Signore», viene evocata la sua divinità. Vi si associa poi la professione del fondamentale avvenimento storico: Dio lo ha risuscitato dai morti. Qui già si dice anche quale significato la professione abbia per il cristiano: essa opera la salvezza. Ci pone all'interno della verità che è salvezza. Abbiamo qui una prima formulazione delle professioni battesimali, in cui l'essere Signore di Cristo viene ogni volta connesso con la storia della sua vita, della sua passione e della sua risurrezione. Nel battesimo, l'uomo si consegna alla nuova esistenza del Risorto. La professione diventa vita. 277
La professione in assoluto più importante tra le testimonianze sulla risurrezione si trova nel capitolo 15 della Prima Lettera ai Corinzi. In modo simile a quello usato nel racconto dell'ultima cena (cfr 1 Cor 11, 23-26), Paolo sottolinea con grande vigore di non proporre qui parole sue: « A voi infatti ho trasmesso, anzitutto, quello che anch'io ho ricevuto» (15,3). Paolo si pone qui consapevolmente dentro la catena di ricezione e trasmissione. Qui, trattandosi di cosa essenziale, dalla quale tutto dipende, è richiesta soprattutto fedeltà. E Paolo, che sempre sottolinea fortemente la sua testimonianza personale del Risorto e il suo apostolato ricevuto direttamente dal Signore, insiste qui con grande rilievo sulla fedeltà letterale nella trasmissione di ciò che ha ricevuto, insiste sulla comune tradizione della Chiesa sin dagli inizi. Il « Vangelo », di cui Paolo qui tratta, è il fondamento « nel quale - egli dice - restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l'ho annunciato» (15, ls). Di questo messaggio centrale non interessa solamente il contenuto, ma anche la formulazione letterale, alla quale non si può apportare alcun mutamento. Da questo legame con la tradizione risalente agli inizi derivano sia l'obbligatorietà universale che l'uniformità della fede. « Sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto» (15,11). Nel suo nucleo, la fede è una sola fino alla sua stessa formulazione letterale - essa collega tutti i cristiani. A questo punto, la ricerca si è chiesta ulteriormente da chi precisamente e quando Paolo abbia ricevuto tale professione, come anche la tradizione 278
sull'ultima cena. In ogni caso, tutto ciò fa parte della
prima catechesi che egli, come convertito, ricevette forse ancora a Damasco, una catechesi, però, che nel suo nucleo era partita indubbiamente da Gerusalemme e quindi risaliva agli anni trenta; è dunque una vera testimonianza delle origini. Nella versione di 1 Corinzi, il testo tramandato è stato amplificato da Paolo, in quanto egli ha aggiunto, tra l'altro, il riferimento al suo incontro personale con il Risorto. Per l'idea che aveva di se stesso e per la fede della Chiesa nascente, mi sembra importante il fatto che san Paolo si sentisse legittimato ad accostare alla professione originale, con lo stesso carattere vincolante, l'apparizione a lui del Risorto e la missione di apostolo a ciò collegata. Chiaramente egli era convinto che tale rivelazione a lui del Risorto rientrasse ancora nel formarsi della professione - che essa, quale elemento essenziale e destinato a tutti, facesse parte della fede della Chiesa universale. Ascoltiamo ora il testo nel suo insieme così come si trova in Paolo: «3Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture 4e fu sepolto. È risorto il terzo giorno secondo le Scritture 5e apparve a Cefa e quindi ai Dodici. 6In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora... 7Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. 8Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (1 Cor 15,3-8). 279
Secondo l'opinione della maggior parte degli esegeti, la vera professione originale finisce col versetto 5, cioè con l'apparizione a Cefa e ai Dodici. Attingendo ad ulteriori tradizioni, Paolo ha aggiunto Giacomo, i più di cinquecento fratelli e « tutti » gli apostoli, usando ovviamente un concetto di « apostolo » che va al di là del circolo dei Dodici. Giacomo è importante, perché con lui entra nella cerchia dei credenti la famiglia di Gesù, che prima chiaramente aveva avuto delle riserve (cfr Me 3,20s.31-35; Gv 7,5), e perché è lui che poi, dopo la fuga di Pietro da Gerusalemme, assumerà la guida della Chiesa madre nella città santa. La morte di Gesù Rivolgiamoci ora alla professione vera e propria, che richiede un esame più attento. Essa inizia con la frase: « Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture». Il fatto della morte viene interpretato mediante due aggiunte: «per i nostri peccati» e « secondo le Scritture ». Cominciamo con la seconda affermazione, che è importante per chiarire il modo in cui la Chiesa nascente si comportava nei confronti dei fatti della vita di Gesù. Ciò che il Risorto aveva insegnato ai discepoli di Emmaus diventa ora il metodo fondamentale per la comprensione della figura di Gesù: tutto ciò che è avvenuto a riguardo di Lui è compimento della « Scrittura ». Solo in base alla « Scrittura », all'Antico Testamento, si può comprendere Gesù. Riferito alla sua morte sulla croce, questo significa: tale morte non è un caso. Rientra nel coné
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testo della storia di Dio con il suo popolo; da essa riceve la sua logica e il suo significato. È un evento in cui si adempiono parole della Scrittura - un avvenimento che porta in sé un logos, una logica, è un avvenimento che proviene dalla Parola e rientra nella Parola, l'accredita e la compie. Come poter capire meglio questo intimo intreccio tra parola ed evento, lo indica l'altra aggiunta: è stato un morire «per i nostri peccati». Poiché questa morte ha a che fare con la parola di Dio, ha a che fare con noi, è un morire « per ». Nel capitolo sulla morte di Gesù in croce abbiamo visto quale corrente enorme di testimonianze scritturistiche tramandate vi affluisca sullo sfondo, tra cui la più importante è costituita dal quarto carme del Servo di YHWH (Is 53). Essendo collocata in questo contesto di parola e amore di Dio, la morte di Gesù viene sottratta alla linea del genere di morte derivante dal peccato originale dell'uomo come conseguenza della presunzione di voler essere come Dio - una presunzione che doveva finire con l'inabissamento nella propria miseria, segnata dal destino della morte. La morte di Gesù è di un altro genere: non proviene dalla presunzione dell'uomo, ma dall'umiltà di Dio. Non è la conseguenza inevitabile di una hybris contrastante con la verità, ma è la messa in atto di un amore in cui Dio stesso discende verso l'uomo per attrarlo nuovamente in alto verso di sé. La morte di Gesù non rientra nella sentenza all'uscita dal Paradiso, ma si trova nei carmi del Servo di YHWH. Essa pertanto è una morte nel contesto del servizio di espiazione - una morte 281
che realizza la riconciliazione e diventa una luce per i popoli! Con ciò la duplice interpretazione, che questo Credo tramandato da Paolo associa all'affermazione «morì», apre la croce verso la risurrezione. La questione del sepolcro vuoto In questa professione di fede segue poi, senza commento e in modo secco: « Fu sepolto ». Con ciò viene espressa una vera morte, la piena partecipazione al destino umano di dover morire. Gesù ha accettato il percorso della morte sino alla fine, amara ed apparentemente senza speranza, sino al sepolcro. Ovviamente il sepolcro di Gesù era noto. E qui segue naturalmente subito la domanda: Egli è forse rimasto nel sepolcro? O, dopo la sua risurrezione, il sepolcro era vuoto? Nella teologia moderna tale domanda viene ampiamente discussa. Per lo più la conclusione è che il sepolcro vuoto non può essere una prova della risurrezione. Ciò, semmai fosse un dato di fatto, si potrebbe spiegare anche diversamente. Si conclude così che la questione circa il sepolcro vuoto è irrilevante e che, quindi, tale punto può essere lasciato cadere - il che implica poi spesso la supposizione che il sepolcro probabilmente non era vuoto e che così si può almeno evitare una controversia con la scienza moderna circa la possibilità di una risurrezione corporea. Alla base però di tutto questo c'è un'impostazione distorta della questione. Naturalmente, il sepolcro vuoto come tale non 282
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può essere una prova della risurrezione. Maria di Màgdala, secondo Giovanni, lo trovò vuoto e suppose che qualcuno avesse portato via il corpo di Gesù (cfr 20,1-3). Il sepolcro vuoto non può, come tale, dimostrare la risurrezione, questo è vero. Esiste però la domanda inversa: E la risurrezione conciliabile con la permanenza del corpo nel sepolcro? Può Gesù essere risorto, se giace nel sepolcro? Quale tipo di risurrezione sarebbe questo? Oggi si sono sviluppate idee di risurrezione per le quali il destino del cadavere è irrilevante. In tale ipotesi, però, anche il senso di risurrezione diventa così vago da costringere a chiedersi con quale genere di realtà si abbia a che fare in un tale cristianesimo. Comunque sia: Thomas Sòding, Ulrich Wilckens e altri fanno notare a ragione che nella Gerusalemme di allora l'annuncio della risurrezione sarebbe stato assolutamente impossibile se si fosse potuto far riferimento al cadavere giacente nel sepolcro. Per questo, partendo da un'impostazione giusta della domanda, bisogna dire che, se il sepolcro vuoto come tale certamente non può provare la risurrezione, esso resta però un presupposto necessario per la fede nella risurrezione, dal momento che essa si riferisce proprio al corpo e, per suo tramite, alla persona nella sua totalità. Nel Credo di san Paolo, non viene affermato esplicitamente che il sepolcro fosse vuoto, viene però chiaramente presupposto. Tutti e quattro i Vangeli ne parlano ampiamente nei loro racconti sulla risurrezione. 283
Per la comprensione teologica del sepolcro vuoto mi sembra importante un passo del discorso di Pentecoste di san Pietro, in cui questi per la prima volta annuncia apertamente alla folla radunata la risurrezione di Gesù. Non lo fa con parole sue, ma mediante la citazione del Salmo 16,9-11, dove si dice: «La mia carne riposerà nella speranza, perché non abbandonerai la mia vita negli inferi, né permetterai che il tuo Santo subisca la corruzione. Mi hai fatto conoscere le vie della vita...» (At 2,26ss). Pietro cita al riguardo il testo del Salmo secondo la versione della Bibbia greca, che si distingue dal testo ebraico in cui leggiamo: «Non abbandonerai la mia vita negli inferi, né lascerai che il tuo fedele veda la fossa. Mi indicherai il sentiero della vita » (Sai 16,10s). Secondo questa versione l'orante parla nella certezza che Dio lo proteggerà e lo salverà dalla morte anche nella situazione di minaccia in cui chiaramente si trova, nella certezza cioè che può riposare al sicuro: non vedrà la fossa. Diversa è la versione citata da Pietro: qui si tratta del fatto che l'orante non rimarrà negli inferi, non subirà la corruzione. Pietro presuppone Davide quale orante originale di questo Salmo e può ora constatare che in Davide questa speranza non si è realizzata: « Egli morì e fu sepolto e il suo sepolcro è ancora oggi fra noi » (At 2,29). Il sepolcro con il cadavere è la prova della non avvenuta risurrezione. Tuttavia, la parola del Salmo è vera: essa vale per il Davide definitivo, anzi, Gesù è qui dimostrato quale vero Davide proprio perché in Lui si è compiuta la parola della promessa: « Non permetterai che il tuo Santo subisca la corruzione». 284
Non è necessario discutere qui la questione, se questo discorso sia di Pietro o se altri, e chi, l'abbia redatto, come neppure sul quando e sul dove precisamente esso sia stato composto. In ogni caso si tratta di un tipo antico di annuncio della risurrezione, la cui autorità nella Chiesa degli inizi si dimostra in base al fatto che fu attribuito a Pietro stesso e fu considerato l'annuncio originale della risurrezione. Se nel Credo di Gerusalemme, risalente alle origini e tramandato da Paolo, si dice che Gesù è risorto secondo le Scritture, si guarda sicuramente al Salmo 16 come ad una testimonianza scritturistica decisiva per la Chiesa nascente. Qui si trovava espresso in modo chiaro che Cristo, il Davide definitivo, non avrebbe subito la corruzione - che Egli doveva essere veramente risuscitato. «Non subire la corruzione» - questa è proprio la definizione di risurrezione. Solo la corruzione era vista come la fase in cui la morte diventava definitiva. Con la decomposizione del corpo che si disgrega nei suoi elementi - un processo che dissolve l'uomo e lo riconsegna all'universo - la morte ha vinto. Ora quell'uomo non esiste più come uomo - può forse rimanerne soltanto un'ombra negli inferi. In base a tale prospettiva era fondamentale per la Chiesa antica che il corpo di Gesù non avesse subito la corruzione. Solo in quel caso era chiaro che Egli non era rimasto nella morte, che in Lui effettivamente la vita aveva vinto la morte. Ciò che la Chiesa antica ha dedotto dalla ver285
sione dei Settanta del Salmo 16,10 ha determinato anche la visione condivisa durante l'intero periodo dei Padri. In tale visione la risurrezione implica essenzialmente che il corpo di Gesù non abbia subito la corruzione. In questo senso, il sepolcro vuoto come parte dell'annuncio della risurrezione è un fatto strettamente conforme alla Scrittura. Speculazioni teologiche secondo cui la corruzione e la risurrezione di Gesù sarebbero compatibili l'una con l'altra appartengono al pensiero moderno e stanno in chiaro contrasto con la visione biblica. Anche in base a ciò si conferma che un annuncio della risurrezione sarebbe stato impossibile, se il corpo di Gesù fosse restato a giacere nel sepolcro. Il terzo giorno »
Ritorniamo al nostro Credo. L'articolo seguente dice: «È risorto il terzo giorno secondo le Scritture» (1 Cor 15,4). Il «secondo le Scritture» vale per la frase nel suo insieme e solo implicitamente per il terzo giorno. L'essenziale consiste nel fatto che la risurrezione stessa è conforme alla Scrittura - che essa appartiene alla totalità della promessa, divenuta in Gesù da parola realtà. Così, come sottofondo, si può certamente pensare al Salmo 16,10, ma naturalmente anche a testi fondamentali per la promessa come Isaia 53. Per il terzo giorno non esiste una testimonianza scritturistica diretta. La tesi secondo cui « il terzo giorno » sarebbe stato forse dedotto da Osea 6,ls è insostenibile, come hanno dimostrato ad esempio Hans Conzel286
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mann o anche Martin Hengel e Anna Maria Schwemer. Il testo dice: «Venite, ritorniamo a YHWH: egli ci ha straziato ed egli ci guarirà ...Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo giorno ci farà rialzare, e noi vivremo alla sua presenza». Questo testo è una preghiera penitenziale dell'Israele peccatore. Non si parla di una risurrezione dalla morte nel senso vero e proprio. Nel nuovo Testamento e ancora lungo tutto il II secolo il testo non viene citato (cfr Hengel/Schwemer, Jesus und das Judentum, p. 631). Potè diventare un rimando anticipato alla risurrezione nel terzo giorno solo quando l'evento della domenica dopo la crocifissione del Signore ebbe dato a questo giorno un significato particolare. Il terzo giorno non è una data « teologica », ma il giorno di un avvenimento che per i discepoli è diventato la svolta decisiva dopo la catastrofe della croce. Josef Blank lo ha formulato così: « L'espressione " il terzo giorno " è l'indicazione di una data in conformità alla tradizione cristiana primordiale nei Vangeli e si riferisce alla scoperta del sepolcro vuoto» (Paulus und Jesus, p. 156). Io aggiungerei: si riferisce al primo incontro con il Signore risorto. Il primo giorno della settimana - il terzo dopo il venerdì - è testimoniato fin dai primissimi tempi nel Nuovo Testamento come il giorno dell'assemblea e del culto della comunità cristiana (cfr 1 Cor 16,2; At 20,7; Ap 1,10). In Ignazio d'Antiochia (fine secolo I/inizio secolo II) la domenica - come abbiamo visto - ci è già testimoniata quale caratteristica nuova, propria dei cristiani, nei confronti della cultura sabbatica giudai287
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ca: «Se ora coloro che si muovevano nelle usanze vecchie sono arrivati ad una nuova speranza e non osservano più il Sabato, ma vivono secondo il Giorno del Signore, in cui è sbocciata anche la nostra vita grazie a Lui ed alla sua morte...» {Ad Magri. 9,1). Se si considera quale importanza, in base al racconto della creazione e al Decalogo, il Sabato ha nella tradizione veterotestamentaria, allora è evidente che solo un evento di un potere sconvolgente poteva provocare la rinuncia al Sabato e la sua sostituzione mediante il primo giorno della settimana. Solo un evento che si fosse impresso nelle anime con forza straordinaria poteva suscitare un cambiamento così centrale nella cultura religiosa della settimana. Semplici speculazioni teologiche non sarebbero bastate per questo. Per me, la celebrazione del Giorno del Signore, che fin dall'inizio distingue la comunità cristiana, è una delle prove più forti del fatto che in quel giorno è successa una cosa straordinaria - la scoperta del sepolcro vuoto e l'incontro con il Signore risorto. I testimoni Mentre il versetto 4 del nostro Credo aveva interpretato il fatto della risurrezione, con il versetto 5 comincia l'elenco dei testimoni. « Apparve a Cefa e quindi ai Dodici», è l'affermazione lapidaria. Se possiamo considerare questo versetto come l'ultimo dell'antica formula gerosolimitana, questa menzione ha una particolare importanza teologica: viene indicato il fondamento stesso della fede della Chiesa. 288
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Da una parte, « i Dodici » rimangono la vera pietra basilare della Chiesa, alla quale essa è sempre rimandata. Dall'altra, viene sottolineato l'incarico speciale di Pietro, affidatogli prima presso Cesarea di Filippo e poi confermato nel cenacolo (cfr Le 22,32), un incarico che lo ha introdotto, per così dire, nella struttura eucaristica della Chiesa. Ora, dopo la risurrezione, il Signore si manifesta innanzitutto a lui, prima che ai Dodici, e gli rinnova con ciò un'altra volta la sua missione unica. Se l'essere cristiani significa essenzialmente la fede nel Risorto, allora il ruolo particolare della testimonianza di Pietro è una conferma del compito affidatogli di essere la roccia sulla quale è costruita la Chiesa. Giovanni, nella sua narrazione della triplice domanda del Risorto a Pietro - « Mi ami? » - e del triplice incarico di pascere il gregge di Cristo, ha ancora un volta sottolineato con chiarezza questa missione di Pietro per la fede dell'intera Chiesa (cfr Gv 21,15-17). Così il racconto della risurrezione diventa per se stesso ecclesiologia: l'incontro con il Signore risorto è missione e dà alla Chiesa nascente la sua forma.
2.2. La tradizione in forma di narrazione Passiamo ora - dopo questa riflessione sulla parte più importante della tradizione in forma di professione - alla tradizione nella forma di narrazione. Mentre la prima sintetizza la fede comune della cristianità in modo normativo mediante formule ben determinate ed impone la fedeltà fino alla 289
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lettera per l'intera comunità dei credenti, le narrazioni delle apparizioni del Risorto rispecchiano invece diverse tradizioni. Sono legate a differenti portatori di tali tradizioni e, localmente, sono distribuite tra Gerusalemme e Galilea. Non sono criterio vincolante in tutti i particolari al modo delle professioni; a motivo della loro assunzione nei Vangeli, però, sono certamente da considerare come testimonianza valida che dà contenuto e forma alla fede. Le professioni presuppongono le narrazioni e si sono sviluppate da esse. Concentrano il nucleo di ciò che viene raccontato e al contempo rimandano alla narrazione. Ogni lettore noterà subito la diversità dei racconti della risurrezione nei quattro Vangeli. Matteo, oltre all'apparizione del Risorto alle donne presso il sepolcro vuoto, conosce soltanto un'apparizione in Galilea agli Undici. Luca conosce solo tradizioni gerosolimitane. Giovanni parla di apparizioni sia in Gerusalemme che in Galilea. Nessuno degli evangelisti descrive la risurrezione stessa di Gesù: essa è un processo svoltosi nel segreto di Dio tra Gesù e il Padre, un processo che per noi non è illustrabile e che per natura sua si sottrae all'esperienza umana. Un problema particolare è presentato dalla conclusione del Vangelo di Marco. Secondo i manoscritti autorevoli, esso si conclude con il versetto 16,8: « Esse uscirono e fuggirono via dal sepolcro, perché erano piene di spavento e di stupore. E non dissero niente a nessuno, perché erano impaurite». Il testo autentico del Vangelo, nella forma a noi giunta, si conclude con lo spavento e il timore delle donne. i
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Prima il testo aveva parlato della scoperta del sepolcro vuoto da parte delle donne venute per l'unzione e dell'apparizione dell'angelo che annunciava loro la risurrezione di Gesù e le incaricava di dire ai discepoli e, in particolare, « a Pietro » che, conformemente alla promessa, Gesù li precedeva in Galilea. E impossibile che il Vangelo si sia concluso con le successive parole circa il tacere delle donne: esso presuppone, infatti, la comunicazione del loro incontro. Ed è ovviamente anche informato dell'apparizione a Pietro e ai Dodici di cui tratta il testo notevolmente più antico della Prima Lettera ai Corinzi. Perché il nostro testo s'interrompa a questo punto, non sappiamo. Nel II secolo è stato aggiunto un racconto riassuntivo in cui sono raccolte insieme le più importanti tradizioni sulla risurrezione come anche sulla missione dei discepoli per l'annuncio a tutto il mondo (cfr 16,9-20). Comunque sia, anche la conclusione breve di Marco presuppone la scoperta del sepolcro vuoto da parte delle donne, l'annuncio della risurrezione, la conoscenza delle apparizioni a Pietro e ai Dodici. Quanto al problema dell'interruzione enigmatica, dobbiamo lasciarla senza spiegazione. La tradizione in forma di narrazione parla di incontri con il Risorto e di ciò che Egli in tali circostanze ha detto; la tradizione in forma di professione conserva soltanto i fatti più importanti che appartengono alla conferma della fede: in questi termini potremmo ancora una volta descrivere la differenza essenziale tra i due tipi di tradizione. Da ciò derivano poi differenze concrete. 291
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Una prima consiste nel fatto che nella tradizione in forma di professione vengono nominati come testimoni soltanto uomini, mentre nella tradizione in forma di narrazione le donne hanno un ruolo decisivo, anzi, hanno la preminenza a confronto degli uomini. Questo può dipendere dal fatto che nella tradizione giudaica soltanto gli uomini venivano accettati come testimoni in tribunale, la testimonianza delle donne era considerata non affidabile. La tradizione «ufficiale», che sta per così dire davanti al tribunale di Israele e del mondo, deve quindi attenersi a queste norme per poter far fronte al processo su Gesù, che in certo modo continua. I racconti, invece, non si sentono legati a tale struttura giuridica, ma comunicano la vastità dell'esperienza della risurrezione. Come già sotto la croce - a prescindere da Giovanni - si erano ritrovate soltanto donne, così era a loro destinato anche il primo incontro con il Risorto. La Chiesa, nella sua struttura giuridica, è fondata su Pietro e gli Undici, ma nella forma concreta della vita ecclesiale sono sempre di nuovo le donne ad aprire la porta al Signore, ad accompagnarlo fin sotto la croce e a poterlo così incontrare anche quale Risorto. Le apparizioni di Gesù a Paolo Una seconda differenza importante, con cui la tradizione in forma di narrazione integra le professioni, consiste nel fatto che le apparizioni del Risorto non vengono soltanto professate, ma descrit292
te concretamente. Come dobbiamo immaginarci le apparizioni del Risorto, che non era ritornato alla vita umana abituale, ma era passato ad un nuovo modo di essere uomo? C'è innanzitutto una differenza chiara tra l'apparizione del Risorto a Paolo descritta negli Atti degli Apostoli, da una parte, e i racconti degli evangelisti circa gli incontri degli apostoli e delle donne con il Signore vivo, dall'altra. Secondo tutti e tre i racconti degli Atti degli Apostoli sulla conversione di Paolo, l'incontro con Cristo risorto risulta composto di due elementi: una luce « più splendente del sole » (26,13) e, insieme, ima voce che « in lingua ebraica » (v. 14) parla a Saulo. Mentre il primo racconto riferisce che gli accompagnatori sentirono la voce, « ma non videro nessuno » (9,7), nel secondo racconto si legge inversamente: essi « videro la luce, ma non udirono la voce di colui che mi parlava » (22,9). Il terzo racconto dice dei compagni di viaggio soltanto che tutti, come Saulo, caddero a terra (cfr 26,14). Una cosa è chiara: la percezione da parte degli accompagnatori fu diversa da quella di Saulo; solo lui fu il destinatario diretto di un messaggio che significava una missione; anche i compagni tuttavia divennero in qualche modo testimoni di un evento straordinario. Per il vero destinatario, Saulo-Paolo, i due elementi vanno insieme: la luce splendente, che può ricordare la vicenda del Tabor - il Risorto è semplicemente luce (cfr Parte I, pp. 357s) - e poi la parola nella quale Gesù si identifica con la Chiesa perseguitata e, al tempo stesso, affida a Saulo una 293
missione. Mentre il primo e il secondo racconto, per quanto riguarda la missione, inviano Saulo a Damasco dove gli sarebbero stati rivelati i particolari, nel terzo racconto viene comunicata una parola dettagliata e molto concreta sulla sua missione: « Alzati e sta' in piedi; io ti sono apparso infatti per costituirti ministro e testimone di quelle cose che hai visto di me e di quelle per cui ti apparirò. Ti libererò dal popolo e dalle nazioni, a cui ti mando per aprire i loro occhi, perché si convertano dalle tenebre alla luce e dal potere di satana a Dio, e ottengano il perdono dei peccati e l'eredità, in mezzo a coloro che sono stati santificati per la fede in me » (At 26,16ss). Nonostante tutte le differenze tra i tre racconti diventa tuttavia evidente che l'apparizione (la luce) e la parola vanno insieme. Il Risorto, la cui essenza è luce, parla quale uomo con Paolo nella lingua di lui. La sua parola è, da una lato, un'autoidentificazione che al contempo significa identificazione con la Chiesa perseguitata e, dall'altro, è ima missione il cui contenuto si sarebbe ulteriormente manifestato in seguito. Le apparizioni di Gesù nei Vangeli Le apparizioni di cui ci parlano gli evangelisti sono palesemente di un genere diverso. Da una parte, il Signore appare quale uomo come gli altri uomini: Egli è in cammino con i discepoli di Emmaus; lascia che le sue ferite siano toccate da Tommaso, anzi, secondo Luca si lascia addirittura offrire un pezzo di pesce da mangiare, per dimo294
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strare la sua vera corporeità. E tuttavia, anche secondo questi racconti Egli non è semplicemente un uomo ritornato come prima della morte. Innanzitutto colpisce il fatto che i discepoli in un primo momento non lo riconoscono. Questo accade non soltanto ai due di Emmaus, ma anche a Maria di Màgdala e poi nuovamente presso il mare di Tiberìade: «Quando già era l'alba, Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù» (Gz> 21,4). Soltanto dopo che il Signore ebbe comandato loro di prendere di nuovo il largo, il discepolo prediletto lo riconobbe: « Allora il discepolo che Gesù amava disse a Pietro: "È il Signore! "» (21,7). E, per così dire, un riconoscere dal di dentro che, tuttavia, rimane sempre avvolto nel mistero. Dopo la pesca, infatti, quando Gesù li invita a mangiare, continua ad esserci una strana sorta di estraneità. « Nessuno dei discepoli osava domandargli: " Chi sei? ", perché sapevano bene che era il Signore» (21,12). Lo sapevano dal di dentro, non a causa del suo aspetto né grazie al loro sguardo attento. A questa dialettica del riconoscere e non riconoscere corrisponde la modalità dell'apparire. Gesù arriva attraverso le porte chiuse, sta improvvisamente in mezzo a loro. E allo stesso modo si sottrae improvvisamente, come alla fine dell'incontro ad Emmaus. Egli è pienamente corporeo. E tuttavia non è legato alle leggi della corporeità, alle leggi di spazio e tempo. In questa sorprendente dialettica tra identità ed alterità, tra vera corporeità e libertà dai legami del corpo si manifesta l'essenza peculiare, misteriosa della nuova esi295
stenza del Risorto. Valgono infatti ambedue le cose: Egli è lo stesso - un Uomo in carne e ossa - ed Egli è anche il Nuovo, Colui che è entrato in un genere diverso di esistenza. La dialettica che fa parte dell'essenza del Risorto è presentata nei racconti in modo veramente poco abile, e proprio così emerge la sua veridicità. Se si fosse dovuta inventare la risurrezione, tutta l'insistenza si sarebbe concentrata sulla piena corporeità, sull'immediata riconoscibilità e in più si sarebbe forse ideato un potere particolare come segno distintivo del Risorto. Ma nella contraddittorietà dello sperimentato che caratterizza tutti i testi, nel misterioso insieme di alterità e identità si rispecchia un nuovo modo dell'incontro, che apologeticamente appare piuttosto sconcertante, ma che proprio per questo si rivela anche maggiormente come autentica descrizione dell'esperienza fatta. Un aiuto per capire le misteriose apparizioni del Risorto possono offrire, secondo me, le teofanie dell'Antico Testamento. Vorrei qui segnalare brevemente solo tre tipi di tali teofanie. C'è innanzitutto l'apparizione di Dio ad Abramo presso le Querce di Mamre (cfr Gen 18,1-33). Sono semplicemente tre uomini che si fermano da Abramo. E tuttavia egli sa subito, dal di dentro, che è «il Signore» che vuol essere suo ospite. Nel Libro di Giosuè ci viene raccontato come Giosuè, alzando gli occhi, vede all'improvviso un uomo in piedi davanti a sé con in mano una spada sguainata. Giosuè, che non lo riconosce, gli domanda: 296
«Tu sei dei nostri o dei nostri nemici?» La risposta è: «No, io sono il capo dell'esercito del Signore ... Togliti i sandali dai tuoi piedi, perché il luogo sul quale stai è santo» (5,13ss). Significativi sono anche i due racconti su Gedeone (cfr Gdc 6,11-24) e su Sansone (cfr Gdc 13), nei quali «l'angelo del Signore», che appare sotto l'aspetto di un uomo, ogni volta viene riconosciuto come tale solo nel momento in cui misteriosamente si sottrae. Ambedue le volte un fuoco consuma il cibo offerto, mentre « l'angelo del Signore » scompare. Nel linguaggio mitologico si manifesta insieme, da un lato, la vicinanza del Signore che appare come uomo e, dall'altro, la sua alterità grazie alla quale Egli sta al di fuori delle leggi della vita materiale. Queste sono certamente soltanto analogie, perché la novità della « teofania » del Risorto consiste nel fatto che Gesù è veramente Uomo: come Uomo Egli ha patito ed è morto; ora vive in modo nuovo nella dimensione del Dio vivente; appare come vero Uomo e tuttavia a partire da Dio - ed è Egli stesso Dio. Sono quindi importanti due delimitazioni. Da una parte, Gesù non è ritornato nell'esistenza empirica, soggetta alla legge della morte, ma Egli vive in modo nuovo nella comunione con Dio, sottratto per sempre alla morte. Dall'altra - anche questo è importante - gli incontri con il Risorto sono una cosa diversa da avvenimenti interiori o da esperienze mistiche - sono incontri reali con il Vivente che, in un modo nuovo, possiede un corpo e rimane corporeo. Luca lo sottolinea con molta forza: 297
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Gesù non è, come i discepoli nel primo momento temono, un « fantasma », uno « spirito », ma ha « carne e ossa » (cfr Le 24,36-43). Che cosa sia un fantasma, che cosa sia l'apparizione di uno « spirito » rispetto all'apparizione del Risorto, lo si vede nel modo migliore nella narrazione biblica sulla negromante di Endor che, in seguito all'insistenza di Saul, evoca lo spirito di Samuele e lo fa salire dagli inferi (cfr 1 Sam 28,7ss). Lo « spirito » evocato è un morto che, come esistenza-ombra, vive negli inferi, può essere temporaneamente chiamato su, ma deve poi ritornare nel mondo dei morti. Gesù invece non viene dal mondo dei morti quel mondo che Egli si è lasciato definitivamente alle spalle - ma al contrario, viene proprio dal mondo della pura vita, viene da Dio come il realmente Vivente che è, Egli stesso, fonte della vita. Luca mette in risalto in maniera drastica il contrasto con uno « spirito », raccontando che Gesù ai discepoli ancora perplessi avrebbe chiesto qualche cosa da mangiare e poi, davanti ai loro occhi, avrebbe mangiato un pezzo di pesce arrostito. Gran parte degli esegeti è dell'avviso che qui Luca, nel suo zelo apologetico, abbia esagerato; con una tale affermazione egli avrebbe ricollocato Gesù in una corporeità empirica che con la risurrezione è stata superata. In questo modo egli entrerebbe in contraddizione con la sua stessa narrazione, secondo cui Gesù all'improvviso sta in mezzo ai discepoli in una corporeità che non è legata alle leggi dello spazio e del tempo. 298
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10 penso che sia utile esaminare qui anche gli altri tre brani in cui si parla della partecipazione del Risorto ad un convito. 11 testo appena commentato è preceduto dalla narrazione di Emmaus. Essa si conclude con la notizia che Gesù si mise a tavola con i discepoli, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede ai due. In quel momento si aprirono loro gli occhi « e lo riconobbero. Ma Egli sparì dalla loro vista» (Le 24,31). Il Signore sta a tavola con i suoi come prima, con la preghiera di benedizione e lo spezzare il pane. Poi sparisce davanti alla loro vista esterna, e proprio in questo scomparire si apre la vista interiore: lo riconoscono. È un vero incontro conviviale e tuttavia è nuovo. Nello spezzare il pane Egli si manifesta, ma solo nello sparire diventa veramente riconoscibile. Secondo la struttura interiore, questi due racconti conviviali sono molto simili a quello che troviamo in Giovanni 21,1-14: i discepoli hanno trascorso una notte senza successo; nessun pesce è entrato nelle loro reti. Al mattino Gesù sta sulla riva, ma essi non lo riconoscono. Egli chiede loro: « Figlioli, non avete nulla da mangiare? ». Alla loro risposta negativa comanda loro di prendere nuovamente il largo, e questa volta tornano con una pesca sovrabbondante. Ora però Gesù, che ha già posto del pesce sulla brace, li invita: « Venite a mangiare ». E adesso essi « sapevano » che era Gesù. Particolarmente importante ed utile per comprendere il modo di partecipare ai conviti, proprio del Risorto, è l'ultimo racconto; esso si trova negli Atti 299
degli Apostoli. Nelle traduzioni comuni, però, l'affermazione singolare di questo testo non viene alla luce. Così nella traduzione italiana ufficiale si dice: «Si mostrò ad essi ... durante quaranta giorni, apparendo loro e parlando delle cose riguardanti il regno di Dio. Mentre si trovava a tavola con essi, ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme...» (At l,3s). A causa del punto - giusto per la costruzione della frase - dopo la parola « regno di Dio », viene oscurata una connessione interiore. Luca parla di tre elementi che caratterizzano lo stare insieme del Risorto con i suoi: Egli «apparve», «parlò» e «stette a tavola». Apparire parlare - stare a tavola: sono queste le tre automanifestazioni del Risorto, strettamente connesse tra loro, con cui Egli si rivela come il Vivente. Per la giusta comprensione del terzo elemento, che come i primi due, si estende lungo i « quaranta giorni», è di importanza essenziale la parola usata da Luca: synalizómenos. Tradotta letteralmente, essa significa: «mangiando con loro del sale». Sicuramente Luca ha scelto a ragion veduta questa parola. Qual è il suo contenuto espressivo? Nell'Antico Testamento il mangiare in comune pane e sale o anche solo sale serve a suggellare solide alleanze (cfr Num 18,19; 2 Cr 13,5; cfr Hauck ThWNT I, p. 229). Il sale è considerato come garante di durevolezza. È rimedio contro la putrefazione, contro la corruzione che fa parte della natura della morte. Ogni prender cibo è un combattere contro la morte - un modo di conservare la vita. Il « mangiare sale » da parte di Gesù dopo la risurrezione, che incontriamo così come segno della vita 300
nuova e permanente, rimanda al banchetto nuovo del Risorto con i suoi. È un avvenimento di alleanza e per questo sta in intima connessione con l'ultima cena, in cui il Signore aveva istituito la nuova alleanza. Così la cifra misteriosa del «mangiare sale » esprime un collegamento interiore tra il banchetto prima della passione di Gesù e la nuova comunione conviviale del Risorto: Egli si dà ai suoi come cibo e così li fa partecipare alla sua vita, alla Vita stessa. Infine è opportuno ricordare qui ancora alcune parole di Gesù che troviamo nel Vangelo di Marco: « Ognuno sarà salato con il fuoco. Buona cosa è il sale; ma se il sale diventa insipido, con che cosa gli darete sapore? Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri» (9,49s). Alcuni manoscritti, riprendendo Levitico 2,13, aggiungono inoltre: «Sopra ogni tua offerta porrai del sale». Pure il salare le offerte aveva il senso di rendere saporito il dono e di difenderlo dalla putrefazione. Così si congiungono diversi significati: il rinnovamento dell'alleanza, il dono della vita, la purificazione del proprio essere in funzione del dono di sé a Dio. Quando Luca, all'inizio degli Atti degli Apostoli riassume gli eventi post-pasquali e descrive la comunione conviviale del Risorto con i suoi usando il termine «synalizómenos - mangiando del sale insieme con loro» (At 1,4), il mistero di tale nuova comunione conviviale, da ima parte, perdura, ma dall'altra, diventa al tempo stesso visibile la sua essenza: il Signore attrae nuovamente i discepoli nella comunione dell'alleanza con sé e con il Dio 301
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vivente. Li fa partecipare alla vita vera, li rende, essi stessi, viventi e condisce la loro vita con la partecipazione alla sua passione, alla forza purificatrice della sua sofferenza. Quale fosse concretamente la comunione conviviale con i suoi, non entra nella nostra immaginazione. Ma possiamo riconoscere la sua natura interiore e vedere che nella comunione liturgica, nella celebrazione dell'Eucaristia, questo stare a tavola con il Risorto continua, anche se in modo diverso.
3 . RIASSUNTO: LA NATURA DELLA RISURREZIONE DI GESÙ E IL SUO SIGNIFICATO STORICO
Chiediamoci ora ancora una volta, in modo riassuntivo, di quale genere sia stato l'incontro con il Signore risorto. Sono importanti le seguenti distinzioni: - Gesù non è uno che sia ritornato nella normale vita biologica e che poi, secondo le leggi della biologia, debba un giorno nuovamente morire. - Gesù non è un fantasma (uno « spirito »). Ciò significa: non è uno che, in realtà, appartiene al mondo dei morti, anche se può in qualche modo manifestarsi nel mondo della vita. - Gli incontri con il Risorto sono, però, anche una cosa diversa da esperienze mistiche, in cui lo spirito umano viene per un momento 302
sollevato al di sopra di se stesso e percepisce il mondo del divino e dell'eterno, per poi ritornare nell'orizzonte normale della sua esistenza. L'esperienza mistica è un momentaneo superamento dell'ambito dell'anima e delle sue facoltà percettive. Ma non è un incontro con una persona che dall'esterno si avvicina a me. Paolo ha distinto molto chiaramente le sue esperienze mistiche - come ad esempio la sua elevazione fino al terzo cielo descritta in 2 Corinzi 12,1-4 - dall'incontro con il Risorto sulla via di Damasco, che era un avvenimento nella storia, un incontro con una persona vivente. In base a tutte queste notizie bibliche, che cosa possiamo ora dire veramente sulla peculiare natura della risurrezione di Cristo? Essa è un evento dentro la storia che, tuttavia, infrange l'ambito della storia e va al di là di essa. Forse possiamo servirci di un linguaggio analogico, che sotto molti aspetti rimane inadeguato, ma può tuttavia aprire un accesso alla comprensione. Potremmo (come abbiamo già fatto anticipatamente nella prima sezione di questo capitolo) considerare la risurrezione quasi come una specie di radicale salto di qualità in cui si dischiude una nuova dimensione della vita, dell'essere uomini. Anzi, la stessa materia viene trasformata in un nuovo genere di realtà. L'Uomo Gesù appartiene ora proprio anche con lo stesso suo corpo totalmente alla sfera del divino e dell'eterno. D'ora in poi - dice una volta Tertulliano - « spirito e san303
gue » hanno un posto in Dio (cfr De resurrect, mort. 51,3: CC lat. II 994). Anche se l'uomo, secondo la sua natura, è creato per l'immortalità, esiste solo ora il luogo in cui la sua anima immortale trova lo « spazio », quella « corporeità » in cui l'immortalità acquisisce senso in quanto comunione con Dio e con l'intera umanità riconciliata. Le Lettere di san Paolo dalla prigionia ai Colossesi (cfr 1,12-23) e agli Efesini (cfr 1,3-23) intendono questo, quando parlano del corpo cosmico di Cristo, indicando con ciò che il corpo trasformato di Cristo è anche il luogo in cui gli uomini entrano nella comunione con Dio e tra loro e così possono vivere definitivamente nella pienezza della vita indistruttibile. Siccome noi stessi non possediamo alcuna esperienza di un tale genere rinnovato e trasformato di materialità e di vita, non dobbiamo meravigliarci che questo vada al di là di ciò che possiamo immaginare. È essenziale il fatto che con la risurrezione di Gesù non è stato rivitalizzato un qualsiasi singolo morto in un qualche momento, ma nella risurrezione è avvenuto un salto ontologico che tocca l'essere come tale, è stata inaugurata una dimensione che ci interessa tutti e che ha creato per tutti noi un nuovo ambito della vita, dell'essere con Dio. A partire da lì bisogna anche affrontare la questione circa la risurrezione quale avvenimento storico. Da una parte, dobbiamo dire che l'essenza della risurrezione sta proprio nel fatto che essa infrange la storia e inaugura una nuova dimensione che noi comunemente chiamiamo la dimensione esca304
tologica. La risurrezione dischiude lo spazio nuovo che apre la storia al di là di se stessa e crea il definitivo. In questo senso è vero che la risurrezione non è un avvenimento storico dello stesso genere della nascita o della crocifissione di Gesù. Essa è qualcosa di nuovo, un genere nuovo di evento. Bisogna, però, al tempo stesso prendere atto del fatto che essa non sta semplicemente al di fuori o al di sopra della storia. Come eruzione dalla storia che la supera, la risurrezione prende tuttavia il suo inizio nella storia stessa e fino a un certo punto le appartiene. Si potrebbe forse esprimere tutto questo così: la risurrezione di Gesù va al di là della storia, ma ha lasciato una sua impronta nella storia. Per questo può essere attestata da testimoni come un evento di una qualità tutta nuova. Di fatto, l'annuncio apostolico col suo entusiasmo e con la sua audacia è impensabile senza un contatto reale dei testimoni con il fenomeno totalmente nuovo ed inaspettato che li toccava dall'esterno e consisteva nel manifestarsi e nel parlare del Cristo risorto. Solo un avvenimento reale di una qualità radicalmente nuova era in grado di rendere possibile l'annuncio apostolico, che non è spiegabile con speculazioni o esperienze interiori, mistiche. Nella sua audacia e novità, esso prende vita dalla forza impetuosa di un avvenimento che nessuno aveva ideato e che andava al di là di ogni immaginazione. Alla fine, però, per tutti noi rimane sempre la domanda che Giuda Taddeo rivolse a Gesù nel cena305
colo: « Signore, come è accaduto che devi manifestarti a noi e non al mondo?» (Gv 14,22). Sì, perché non ti sei opposto con potenza ai tuoi nemici che ti hanno portato sulla croce? - così vorremmo domandare. Perché non hai con vigore inconfutabile dimostrato loro che tu sei il Vivente, il Signore della vita e della morte? Perché ti sei mostrato solo a un piccolo gruppo di discepoli della cui testimonianza noi dobbiamo ora fidarci? La domanda riguarda, però, non soltanto la risurrezione, ma l'intero modo in cui Dio si rivela al mondo. Perché solo ad Abramo - perché non ai potenti del mondo? Perché solo a Israele e non in modo indiscutibile a tutti i popoli della terra? È proprio del mistero di Dio agire in modo sommesso. Solo pian piano Egli costruisce nella grande storia dell'umanità la sua storia. Diventa uomo ma in modo da poter essere ignorato dai contemporanei, dalle forze autorevoli della storia. Patisce e muore e, come Risorto, vuole arrivare all'umanità soltanto attraverso la fede dei suoi ai quali si manifesta. Di continuo Egli bussa sommessamente alle porte dei nostri cuori e, se gli apriamo, lentamente ci rende capaci di «vedere». E tuttavia - non è forse proprio questo lo stile divino? Non sopraffare con la potenza esteriore, ma dare libertà, donare e suscitare amore. E ciò che apparentemente è così piccolo non è forse pensandoci bene - la cosa veramente grande? Non emana forse da Gesù un raggio di luce che cresce lungo i secoli, un raggio che non poteva provenire da nessun semplice essere umano, un raggio mediante il quale entra veramente nel 306
mondo lo splendore della luce di Dio? Avrebbe potuto, l'annuncio degli apostoli, trovar fede ed edificare una comunità universale, se non avesse operato in esso la forza della verità? Se ascoltiamo i testimoni col cuore attento e ci apriamo ai segni con cui il Signore accredita sempre di nuovo loro e se stesso, allora sappiamo: Egli è veramente risorto. Egli è il Vivente. A Lui ci affidiamo e sappiamo di essere sulla strada giusta. Con Tommaso mettiamo le nostre mani nel costato trafitto di Gesù e professiamo: « Mio Signore e mio Dio! »(Gì? 20,28).
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PROSPETTIVE È SALITO AL CIELO - SIEDE DESTRA DI DIO
ALLA
PADRE
E DI N U O V O V E R R À N E L L A
GLORIA
utti e quattro i Vangeli, come anche il rapporto di san Paolo sulla risurrezione in 1 Corinzi 15, presuppongono che il periodo delle apparizioni del Risorto sia stato limitato nel tempo. Paolo è consapevole che a lui, come ultimo, è stato concesso ancora un incontro con il Cristo risorto. Anche il senso delle apparizioni è chiaro in tutta la tradizione: si tratta, innanzitutto, di raccogliere una cerchia di discepoli che possano testimoniare che Gesù non è rimasto nel sepolcro, ma che è vivo. La loro testimonianza concreta si traduce essenzialmente in una missione: devono annunciare al mondo che Gesù è il Vivente - la Vita stessa. Hanno il compito di tentare anzitutto ancora una volta di raccogliere Israele attorno al Gesù risorto. Anche per Paolo l'annuncio comincia sempre con la testimonianza davanti ai Giudei ai quali la salvezza è destinata in primo luogo. Ma la destinazione ultima degli inviati di Gesù è universale: « A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,18s). «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8). « Va', dice infine il Risorto a Paolo, perché io ti manderò lontano, alle nazioni» (At 22,21).
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Fa parte del messaggio dei testimoni anche l'annuncio che Gesù verrà di nuovo per giudicare i vivi e i morti e per stabilire definitivamente il regno di Dio nel mondo. Una grande corrente della teologia moderna ha dichiarato questo annuncio il contenuto principale, se non addirittura l'unico nucleo del messaggio. Così si asserisce che Gesù stesso avrebbe già pensato esclusivamente in categorie escatologiche. L'« attesa immediata » del regno sarebbe stata il vero elemento specifico del suo messaggio e il primo annuncio apostolico non sarebbe stato diverso. Se questo fosse vero - ci si interroga - come avrebbe potuto persistere la fede cristiana quando l'attesa immediata non si compì? Di fatto, una tale teoria è in contrasto con i testi come anche con la realtà del cristianesimo nascente, che sperimentò la fede quale forza operante nel presente e, insieme, quale speranza. I discepoli hanno, certamente, parlato del ritorno di Gesù, ma soprattutto hanno testimoniato che Egli è Colui che ora vive, che è la Vita stessa in virtù della quale anche noi diventiamo viventi (cfr Gv 14,19). Ma come si realizza questo? Dove lo troviamo? Lui, il Risorto, 1'« Innalzato alla destra di Dio » (cfr At 2,33) non è forse, di conseguenza, del tutto assente? O è invece in qualche modo raggiungibile? Possiamo noi inoltrarci fino «alla destra del Padre»? Esiste, tuttavia, nell'assenza anche una reale presenza? Non viene forse a noi solo in un ultimo giorno non noto? Può venire anche oggi? 310
Queste domande caratterizzano il Vangelo di Giovanni, e anche le Lettere di san Paolo offrono ad esse una risposta. L'essenziale di tale risposta è però tracciato anche nei racconti sull'« ascensione» con cui si conclude il Vangelo di Luca e cominciano gli Atti degli Apostoli. Volgiamoci dunque alla conclusione del Vangelo di Luca. Lì si racconta come Gesù appare agli apostoli che, insieme ai due discepoli di Emmaus, sono radunati a Gerusalemme. Egli mangia con loro e dà alcune istruzioni. Le ultime frasi del Vangelo dicono: « Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio» (24,50-53). Questa conclusione ci stupisce. Luca ci dice che i discepoli erano pieni di gioia dopo che il Signore si era allontanato definitivamente da loro. Noi ci aspetteremmo il contrario. Ci aspetteremmo che essi fossero rimasti sconcertati e tristi. Il mondo non era cambiato, Gesù si era definitivamente allontanato da loro. Avevano ricevuto un compito apparentemente irrealizzabile, un compito che andava al di là delle loro forze. Come potevano presentarsi davanti alla gente in Gerusalemme, in Israele, in tutto il mondo e dire: « Quel Gesù, apparentemente fallito, è invece il Salvatore di tutti noi»? Ogni addio lascia dietro di sé un dolore. Anche se Gesù era partito da Persona vivente, come poteva non renderli tristi il suo congedo defi311
nitivo? Eppure si legge che essi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e lodavano Dio. Come possiamo noi capire tutto questo? Ciò che in ogni caso si può dedurne è che i discepoli non si sentono abbandonati; non ritengono che Gesù si sia come dileguato in un cielo inaccessibile e lontano da loro. Evidentemente sono certi di una presenza nuova di Gesù. Sono sicuri che il Risorto (come, secondo Matteo, Egli aveva anche detto) proprio ora è presente in mezzo a loro in ima maniera nuova e potente. Essi sanno che «la destra di Dio », alla quale Egli ora è « innalzato », implica un nuovo modo della sua presenza, che non si può più perdere - il modo, appunto, in cui solo Dio può esserci vicino. La gioia dei discepoli dopo 1'« ascensione » corregge la nostra immagine di tale evento. L'« ascensione » non è un andarsene in una zona lontana del cosmo, ma è la vicinanza permanente che i discepoli sperimentano in modo così forte da trarne una gioia durevole. Così la conclusione del Vangelo di Luca ci aiuta a comprendere meglio l'inizio degli Atti degli Apostoli in cui 1'«ascensione» di Gesù viene narrata esplicitamente. La dipartita di Gesù è qui preceduta da un colloquio in cui i discepoli - ancora rinchiusi nelle loro vecchie idee - domandano se non sia giunto adesso il momento di stabilire il regno di Israele. A questa idea di un rinnovato regno davidico Gesù contrappone una promessa ed un incarico. La promessa è che essi saranno colmati della forza 312
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dello Spirito Santo; l'incarico consiste nel fatto che dovranno essere i suoi testimoni fino ai confini del mondo. Viene respinta esplicitamente la domanda circa i tempi e i momenti. L'atteggiamento dei discepoli non deve essere né di speculare sulla storia né di proiettare lo sguardo verso l'avvenire ignoto. Il cristianesimo è presenza: dono e compito; essere gratificati dalla vicinanza interiore di Dio e - in base a ciò - essere attivi nella testimonianza in favore di Gesù Cristo. In questo contesto si pone poi l'annotazione circa la nube che lo accoglie e lo sottrae ai loro occhi. La nube ci ricorda il momento della trasfigurazione in cui ima nube luminosa si posa su Gesù e sui discepoli (cfr Mt 17,5; Me 9,7; Le 9,34s). Ci ricorda l'ora dell'incontro tra Maria e il messaggero di Dio, Gabriele, il quale le annuncia che la potenza dell'Altissimo l'avrebbe «coperta con la sua ombra» (cfr Le 1,35). Ci ricorda la sacra tenda di Dio nell'antica alleanza, in cui la nube è il segno della presenza di YHWH (cfr Es 40,34s) che, anche durante il pellegrinaggio nel deserto, precede Israele come nube (cfr Es 13,21s). Il discorso sulla nube è chiaramente un discorso teologico. Presenta lo scomparire di Gesù non come un viaggio verso le stelle, ma come l'entrare nel mistero di Dio. Con ciò si accenna ad un ordine di grandezza completamente diverso, ad un'altra dimensione dell'essere. Il Nuovo Testamento - dagli Atti degli Apostoli fino alla Lettera agli Ebrei - facendo riferimento al Salmo 110,1 descrive il «luogo» in cui Gesù è an313
dato con la nube come un sedere (o stare) alla destra di Dio. Che significa questo? Con ciò non si allude ad uno spazio cosmico lontano in cui Dio, per così dire, avrebbe eretto il suo trono e su di esso avrebbe dato un posto anche a Gesù. Dio non si trova in uno spazio accanto ad altri spazi. Dio è Dio - Egli è il presupposto e il fondamento di ogni spazialità esistente, ma non ne fa parte. Il rapporto di Dio con tutti gli spazi è quello del Signore e del Creatore. La sua presenza non è spaziale ma, appunto, divina. «Sedere alla destra di Dio» significa una partecipazione alla sovranità propria di Dio su ogni spazio. In una disputa con i farisei, Gesù stesso dà al Salmo 110 una nuova interpretazione che ha orientato la comprensione dei cristiani. All'idea del Messia quale nuovo Davide con un nuovo regno davidico - idea che poco fa abbiamo incontrato nei discepoli - Egli contrappone una visione più grande di Colui che deve venire: il vero Messia non è figlio di Davide, ma Signore di Davide; non siede sul trono di Davide, ma sul trono di Dio (cfr Mi 22,41-45). Il Gesù che si congeda non va da qualche parte su un astro lontano. Egli entra nella comunione di vita e di potere con il Dio vivente, nella situazione di superiorità di Dio su ogni spazialità. Per questo non è « andato via », ma, in virtù dello stesso potere di Dio, è ora sempre presente accanto a noi e per noi. Nei discorsi di addio nel Vangelo di Giovanni, Gesù dice proprio questo ai suoi discepoli: «Vado e vengo a voi» (14,28). Qui è meravigliosamente sintetizzata la peculiarità dell'«andare via» 314
di Gesù, che al contempo è il suo « venire », e con ciò è anche spiegato il mistero riguardante la croce, la risurrezione e l'ascensione. Il suo andarsene è proprio così un venire, un nuovo modo di vicinanza, di presenza permanente con la quale anche Giovanni connette la « gioia » di cui sopra abbiamo sentito parlare nel Vangelo di Luca. Siccome Gesù è presso il Padre, Egli non è lontano, ma è vicino a noi. Ora non si trova più in un singolo posto del mondo come prima dell'« ascensione »; ora, nel suo potere che supera ogni spazialità, Egli è presente accanto a tutti ed invocabile da parte di tutti - attraverso tutta la storia - e in tutti i luoghi. C'è nel Vangelo un piccolo racconto molto bello (cfr Me 6,45-52 par.), in cui Gesù anticipa durante la sua vita terrena questo modo di vicinanza, e lo rende così più facilmente comprensibile per noi. Dopo la moltiplicazione dei pani, il Signore ordina ai discepoli di salire sulla barca e di precederlo sull'altra riva, verso Betsàida, mentre Egli stesso licenzierà la folla. Poi Egli si ritira « sul monte » a pregare. I discepoli sono quindi soli sulla barca. C'è il vento contrario, il mare è mosso. Sono minacciati dall'impeto delle onde e della tempesta. Il Signore sembra essere lontano, in preghiera sul suo monte. Ma siccome è presso il Padre, Egli li vede. E perché li vede, viene da loro camminando sul mare, sale sulla barca con loro e rende possibile la traversata fino alla meta. E questa un'immagine per il tempo della Chiesa - destinata proprio anche a noi. Il Signore è 315
« sul monte » del Padre. Per questo Egli ci vede. Per questo può in ogni momento salire sulla barca della nostra vita. Per questo possiamo sempre invocarlo e sempre essere sicuri che Egli ci vede e ci sente. Anche oggi la barca della Chiesa, col vento contrario della storia, naviga attraverso l'oceano agitato del tempo. Spesso si ha l'impressione che debba affondare. Ma il Signore è presente e viene nel momento opportuno. «Vado e vengo a voi» è questa la fiducia dei cristiani, la ragione della nostra gioia. Da un lato totalmente diverso, qualcosa di simile si rende visibile nel racconto teologicamente ed antropologicamente molto denso della prima apparizione del Risorto a Maria di Magdala. Vorrei qui raccoglierne soltanto un particolare. Dopo le parole dei due angeli in bianche vesti, Maria si è volta indietro e ha visto Gesù, ma non l'ha riconosciuto. Ora Egli la chiama per nome: «Maria!». Lei deve girarsi un'altra volta e adesso riconosce gioiosamente il Risorto, che qualifica «Rabbunì», il suo Maestro. Vuole toccarlo, trattenerlo, ma il Signore le dice: «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre» (Gì? 20,17). Questo ci sorprende. Vorremmo dire: proprio ora che le sta davanti, lei può toccarlo, trattenerlo. Quando sarà salito al Padre, ciò non sarà più possibile. Ma il Signore dice il contrario: ora non può toccarlo, trattenerlo. Il rapporto precedente col Gesù terreno non è ormai più possibile. Si tratta qui della stessa esperienza a cui Paolo allude in 2 Corinzi 5,16s: «Anche se abbiamo co316
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nosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Se uno è in Cristo, è una creatura nuova». Il vecchio modo dell'umano stare insieme ed incontrarsi è superato. Ora si può toccare Gesù ormai soltanto «presso il Padre ». Si può toccarlo soltanto salendo. A partire dal Padre, nella comunione col Padre, Egli ci è accessibile e vicino in maniera nuova. Questa nuova accessibilità presuppone anche una novità da parte nostra: mediante il battesimo, la nostra vita è ormai nascosta con Cristo in Dio; nella nostra vera esistenza siamo già «lassù», presso di Lui, alla destra del Padre (cfr Col 3,lss). Se ci inoltriamo nell'essenza della nostra esistenza cristiana, allora tocchiamo il Risorto: lì siamo pienamente noi stessi. Il toccare Cristo e il salire sono intrinsecamente collegati. E ricordiamoci che, secondo Giovanni, il luogo dell'« elevazione » di Cristo è la sua croce e che la nostra « ascensione » che è sempre nuovamente necessaria, il nostro salire per toccarlo, deve essere un camminare insieme con il Crocifisso. Il Cristo presso il Padre non è lontano da noi, semmai siamo noi ad essere lontani da Lui; ma la via tra Lui e noi è aperta. Non è un percorso di carattere cosmico-geografico di cui qui si tratta, ma è la « navigazione spaziale » del cuore che conduce dalla dimensione della chiusura in se stessi alla dimensione nuova dell'amore divino che abbraccia l'universo. Ritorniamo ancora al primo capitolo degli Atti degli Apostoli. Abbiamo detto che il contenuto 317
dell'esistenza cristiana non è lo scrutare il futuro, ma, da un lato, il dono dello Spirito Santo e, dall'altro, la testimonianza universale dei discepoli in favore di Gesù crocifisso e risorto (cfr At 1,6-8). E la scomparsa di Gesù mediante la nube non significa un movimento verso un altro luogo cosmico, ma la sua assunzione nell'essere stesso di Dio e così la partecipazione al suo potere di presenza nel mondo. Poi il testo continua. Come prima presso il sepolcro (cfr Le 24,4), appaiono anche ora due uomini in vesti bianche e rivolgono un messaggio: « Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l'avete visto andare in cielo» (At 1,11). Con ciò viene ancora una volta confermata la fede nel ritorno di Gesù, ma al tempo stesso viene sottolineato che non è compito dei discepoli guardare il cielo o conoscere i tempi e i momenti nascosti nel segreto di Dio. Il loro compito è ora di portare la testimonianza di Cristo fino ai confini della terra. La fede nel ritorno di Cristo è il secondo pilastro della professione cristiana. Egli che si è fatto carne e ora rimane per sempre Uomo, che per sempre ha inaugurato in Dio la sfera dell'essere umano - chiama tutto il mondo ad entrare nelle braccia aperte di Dio, affinché alla fine Dio diventi tutto in tutti e il Figlio possa consegnare al Padre l'intero mondo raccolto in Lui (cfr 1 Cor 15,20-28). Questo implica la certezza nella speranza che Dio asciugherà ogni lacrima, non rimarrà niente che sia privo di senso, ogni ingiustizia sarà superata e 318
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stabilita la giustizia. La vittoria dell'amore sarà l'ultima parola della storia del mondo. Per il « tempo intermedio » ai cristiani è richiesta, come atteggiamento di fondo, la vigilanza. Questa vigilanza significa, da una parte, che l'uomo non si rinchiuda nel momento presente dandosi alle cose tangibili, ma alzi lo sguardo al di là del momentaneo e della sua urgenza. Ciò che conta è tenere libera la visione su Dio, per ricevere da Lui il criterio e la capacità di agire in modo giusto. Vigilanza significa soprattutto apertura al bene, alla verità, a Dio, in mezzo a un mondo spesso inspiegabile e in mezzo al potere del male. Significa che l'uomo cerchi con tutte le forze e con grande sobrietà di fare la cosa giusta, non vivendo secondo i propri desideri, ma secondo l'orientamento della fede. Tutto ciò è illustrato nelle parabole escatologiche di Gesù, particolarmente in quella del servo vigilante (cfr Le 12,42-48) e, in altro modo, in quella delle vergini stolte e delle vergini sagge (cfr Mt 25,1-13). . Ma, riguardo all'attesa del ritorno del Signore, come stanno le cose nell'esistenza cristiana? Lo aspettiamo volentieri, oppure no? Già Cipriano di Cartagine (t 258) doveva esortare i suoi lettori a non tralasciare la preghiera per il ritorno di Cristo a motivo della paura di grandi catastrofi o per la paura della morte. Dovrebbe forse il mondo che sta declinando esserci più caro del Signore che tuttavia aspettiamo? L'Apocalisse si chiude con la promessa del ritorno del Signore e con la preghiera che essa si rea319
lizzi: « Colui che attesta queste cose dice: " Sì, vengo presto! Amen. Vieni, Signore Gesù! » (22,20). E la preghiera della persona innamorata, che nella città assediata è oppressa da tutte le minacce e dagli orrori della distruzione e non può che aspettare l'arrivo dell'Amato che ha il potere di rompere l'assedio e di portare la salvezza. È il grido pieno di speranza che anela la vicinanza di Gesù in una situazione di pericolo in cui solo Lui può aiutare. Paolo pone alla fine della Prima Lettera ai Corinzi la stessa preghiera secondo la formulazione aramaica che, però, può essere divisa e quindi anche ' compresa in modi differenti: « Marana tha » (« Vieni, Signore ») o « Maran atha » (« Il Signore è venuto»). In questa duplicità del modo di lettura è chiaramente visibile la peculiarità dell'attesa cristiana della venuta di Gesù. È al tempo stesso il grido: « Vieni! » e la certezza piena di gratitudine: « Egli è venuto ». Dalla Didachè (intorno all'anno 100) sappiamo che questo grido faceva parte delle preghiere liturgiche della Celebrazione eucaristica dei primi cristiani, e qui si ha anche in concreto l'unità dei due modi di lettura. I cristiani invocano la venuta definitiva di Gesù e vedono al contempo con gioia e gratitudine che Egli già ora anticipa questa sua venuta, già ora entra in mezzo a noi. Nella preghiera cristiana per il ritorno di Gesù è sempre contenuta anche l'esperienza della presenza. Questa preghiera è mai riferita solamente al futuro. Vale, appunto, ciò che il Risorto ha detto: «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mi 28,20). Egli è adesso presso di noi, in 320
modo particolarmente denso nella presenza eucaristica. Ma, inversamente, anche l'esperienza cristiana della presenza porta in sé la tensione verso il futuro, verso la presenza definitivamente compiuta: la presenza non è completa. Essa spinge al di là di se stessa. Ci mette in cammino verso la definitività. Mi sembra opportuno illustrare ancora mediante due espressioni diverse della teologia questa tensione intrinseca dell'attesa cristiana del ritorno attesa che deve caratterizzare la vita e la preghiera cristiana. Il breviario romano, nella prima domenica di Avvento, propone agli oranti una catechesi di Cirillo di Gerusalemme (Cat. XV,1-3: PG 33,870874), che comincia con le parole: « Noi annunziamo che Cristo verrà. Infatti non è unica la sua venuta, ma ve n'è una seconda ... Quasi sempre nel nostro Signore Gesù Cristo ogni evento è duplice. Duplice è la generazione, una volta da Dio Padre, prima del tempo, e l'altra, la nascita umana da una vergine nella pienezza dei tempi. Due sono anche le sue discese nella storia. Una prima volta è venuto in modo oscuro e silenzioso ... una seconda volta verrà nel futuro ... davanti agli occhi di tutti». Questo discorso sulla duplice venuta di Cristo ha dato un'impronta alla cristianità e fa parte del nucleo dell'annuncio dell'Avvento. Esso è corretto, ma insufficiente. Alcuni giorni dopo, il mercoledì della prima settimana di Avvento, il breviario offre un'interpretazione tratta dalle omelie di Avvento di san Bernardo di Chiaravalle, in cui viene espressa una 321
visione integrativa. Vi si legge: « Conosciamo una triplice venuta del Signore ... la terza è in mezzo tra le altre [adventus medius] ... Nella prima venuta egli venne nella carne e nella debolezza; in questa intermedia viene nello spirito e nella potenza; nell'ultima verrà nella gloria e nella maestà » (In Adventu Domini, serm. 111,4. V,l: PL 183,45 A. 50 CD). Per questa sua tesi, Bernardo si riferisce a Giovanni 14,23: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui ». Si parla esplicitamente di una « venuta » del Padre e del Figlio: è l'escatologia del presente, sviluppata da Giovanni. Essa non abbandona l'attesa della venuta definitiva che cambierà il mondo, mostra però che il tempo intermedio non è vuoto: in esso, appunto, c'è Yadventus medius, la venuta intermedia di cui parla Bernardo. Questa presenza anticipatrice fa senz'altro parte dell'escatologia cristiana, dell'esistenza cristiana. Anche se l'espressione adventus medius prima di Bernardo era ignota, il contenuto è presente fin dal principio in varie forme nell'intera tradizione cristiana. Ricordiamo ad esempio che sant'Agostino, nelle nubi sulle quali arriva il Giudice universale, vede la parola dell'annuncio: le parole del messaggio trasmesse dai testimoni sono la nube che porta Cristo nel mondo - già ora. E così il mondo viene preparato per la venuta definitiva. I modi di questa « venuta intermedia » sono molteplici: il Signore viene mediante la sua parola; viene nei sacramenti, specialmente nella santissima Eucaristia; entra nella mia vita mediante parole o avvenimenti. 322
Esistono, però, anche modi epocali di tale venuta. L'operare delle due grandi figure - Francesco e Domenico - tra il XII e il XIII secolo è stato un modo in cui Cristo è entrato nuovamente nella storia, facendo valere in modo nuovo la sua parola e il suo amore; un modo in cui Egli ha rinnovato la Chiesa e mosso la storia verso di sé. Una cosa analoga possiamo dire delle figure dei santi del XVI secolo: Teresa d'Avila, Giovanni della Croce, Ignazio di Loyola, Francesco Saverio portano con sé nuove irruzioni del Signore nella storia confusa del loro secolo che andava alla deriva allontanandosi da Lui. Il suo mistero, la sua figura appare nuovamente - e soprattutto: la sua forza, che trasforma gli uomini e plasma la storia, si rende presente in modo nuovo. Possiamo dunque pregare per la venuta di Gesù? Possiamo dire con sincerità: «Marana tha! Vieni, Signore Gesù! »? Sì, lo possiamo. Non solo: lo dobbiamo! Chiediamo anticipazioni della sua presenza rinnovatrice del mondo. In momenti di tribolazione personale lo preghiamo: Vieni, Signore Gesù, e accogli la mia vita nella presenza del tuo potere benigno. Gli chiediamo di rendersi vicino a persone che amiamo o per le quali siamo preoccupati. Lo preghiamo di rendersi efficacemente presente nella sua Chiesa. E perché non chiedere a Lui di donarci anche oggi testimoni nuovi della sua presenza nei quali Egli stesso s'avvicini a noi? E questa preghiera, che non mira immediatamente alla fine del mondo, ma è una vera preghiera per la sua venuta, porta in sé tutta l'ampiezza di quella preghiera 323
che Egli stesso ci ha insegnato: «Venga il tuo regno! » Vieni, Signore Gesù! Ritorniamo ancora una volta alla conclusione del Vangelo di Luca. Gesù condusse i suoi vicino a Betània, ci viene detto. « Alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo» (24,50s). Gesù parte benedicendo. Benedicendo se ne va e nella benedizione Egli rimane. Le sue mani restano stese su questo mondo. Le mani benedicenti di Cristo sono come un tetto che ci protegge. Ma sono al contempo un gesto di apertura che squarcia il mondo affinché il cielo penetri in esso e possa diventarvi una presenza. Nel gesto delle mani benedicenti si esprime il rapporto duraturo di Gesù con i suoi discepoli, con il mondo. Nell'andarsene Egli viene per sollevarci al di sopra di noi stessi ed aprire il mondo a Dio. Per questo i discepoli poterono gioire, quando da Betània tornarono a casa. Nella fede sappiamo che Gesù, benedicendo, tiene le sue mani stese su di noi. È questa la ragione permanente della gioia cristiana.
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INDICAZIONI GENERALI PER LA PRIMA PARTE
Come ho spiegato nella Premessa, questo libro presuppone l'esegesi storico-critica e si serve dei suoi risultati, ma vuole andare oltre questo metodo mirando ad un'interpretazione propriamente teologica. Non intende entrare nella discussione che è propria della ricerca storico-critica. Per questo motivo ho anche rinunciato a qualsiasi ambizione di completezza nell'utilizzo della bibliografia, completezza che sarebbe comunque irraggiungibile. I testi utilizzati vengono citati di volta in volta nel libro, abbreviati tra parentesi; i titoli per esteso si trovano nel seguente elenco bibliografico.1 Innanzitutto però vorrei citare alcuni dei più importanti e recenti libri su Gesù: - Joachim Gnilka, Jesus von Nazareth. Botschaft und Geschichte, Herders theologischer Kommentar zum Neuen Testament, Supplementband 3, Herder, Freiburg - Basel - Wien 1990 (trad. it. Gesù di Nazaret. Annuncio e Storia, Paideia, Brescia 1994). - Klaus Berger, Jesus, Pattloch, Miinchen 2004 (trad. it. Gesù, Queriniana, Brescia 2006). Sulla base di una profonda conoscenza esegetica, l'autore illustra essenzialmente la figura e il messaggio di Gesù, ponendosi in dialogo con le domande del presente. - Heinz Schurmann, Jesus, Gestalt und Geheimnis, Bonifatius, Paderborn 1994. Una raccolta di contributi a cura di Klaus Scholtissek. 4
Le citazioni riportano in genere una nuova traduzione del testo originale e, conseguentemente, fra parentesi il rimando ad esso. Nella convinzione di far cosa gradita al lettore, nella bibliografia dopo il titolo originale viene indicata, quando esiste, anche l'edizione dell'opera in lingua italiana. 1
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- John P. Meier, A Marginai Jezu. Rethinking the Historicai Jesus, Doubleday, New York 1991-2001 (trad. it. Un ebreo marginale. Ripensare il Gesù storico, Queriniana, Brescia 2003). Quest'opera in tre volumi di un esegeta americano rappresenta sotto molti aspetti un modello di esegesi storico-critica, in cui si palesano sia l'importanza sia i limiti di questa disciplina. Merita di essere letta la recensione di Jacob Neusner al primo volume, Who needs the historical Jesus?, in: Chronicles, luglio 1993, pp. 32-34. - Thomas Soding, Der Gottessohn aus Nazareth. Das Menschsein Jesu im Neuen Testament, Herder, Freiburg - Basel - Wien 2006. Il libro non cerca di ricostruire la figura del Gesù storico, ma illustra la testimonianza di fede contenuta nei diversi scritti del Nuovo Testamento. - Rudolf Schnackenburg, Die Person Jesu Christi im Spiegel der vier Evangelien, Herders theologischer Kommentar zum Neuen Testament, Supplementband 4, Freiburg - Basel - Wien 1993 (trad. it. La persona di Gesù Cristo nei quattro Vangeli, Paideia, Brescia 1995). A questo libro, citato nella Premessa alla Prima Parte, Schnackenburg ha fatto seguire un ultimo volumetto molto personale: Freundschaft mit Jesus, Herder 1995 (trad. it. Amicizia con Gesù, Morcelliana, Brescia 2007), in cui tuttavia pone « l'accento più che su ciò che è riconoscibile [...], sugli effetti che Gesù produce nelle anime e nei cuori degli uomini » e così - come egli stesso si esprime - tenta un «bilanciamento tra ragione ed esperienza» (p. 7s). Nell'interpretazione dei Vangeli mi baso prevalentemente sui singoli volumi deìYHerders Theologischer
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Kommentar zum Neuen Testament (HThKNT), che purtroppo è rimasto incompiuto (trad. it. Commentario teologico del Nuovo Testamento, Paideia, Brescia 1980ss).
Abbondante materiale sulla storia di Gesù si trova anche nell'opera in sei volumi La storia di Gesù, Rizzoli, Milano 1983-1985 (a cura di Virgilio Levi; consulenza scientifica: Martini, Rossano, Gilbert, Dupont; autori vari). Le abbreviazioni corrispondono a quelle della terza edizione del Lexikon für Theologie und Kirche (LThK), Herder, Freiburg - Basel - Wien 1993ss. INDICAZIONI GENERALI PER LA SECONDA PARTE
Alle indicazioni generali concernenti la Prima Parte, che peraltro sono valide anche per la Seconda, occorre aggiungere ancora alcuni titoli che riguardano l'opera nel suo insieme. - L'opera in 6 volumi di Ulrich Wilckens, Theologie des Neuen Testaments (voll. 1/1-4; II/1-2), è ora conclusa e disponibile (Neukirchener Verlag 2002-2009). Per la Parte presente particolarmente importante è il volume 1/2: Jesu Tod und Auferstehung und die Entstehung der Kirche aus Juden und Heiden (2003). - In seconda edizione è disponibile: Ferdinand Hahn, Theologie des Neuen Testaments vol. I (Die Vielfalt des Neuen Testaments) e vol. II (Die Einheit des Neuen Testaments), Mohr Siebeck, Tübingen
2002; 20052.
- Nel 2007, Martin Hengel, insieme con Anna Maria Schwemer, ha pubblicato un'opera di rilevante significato per questo libro: Jesus und das Judentum (Mohr Siebeck, Tübingen). È il primo tomo di una Geschichte des frühen Christentums, concepita in quattro volumi. 329
Tra le varie opere di Franz Mußner che riguardano la materia del presente libro vorrei qui menzionare, in particolare: Jesus von Nazareth im Um-
feld Israels und der Urkirche. Gesammelte Aufsätze, a cura di Michael Theobald, Mohr Siebeck, Tübingen 1999. In modo particolare vorrei rimandare all'opera di Joachim Ringleben, già menzionata nella Premessa, Jesus. Ein Versuch zu begreifen, Mohr Siebeck, Tübingen 2008. Ugualmente ho già indicato nella Premessa il libro, essenziale per la questione della metodologia, di Marius Reiser, Bibelkritik und Auslegung der
Heiligen Schrift. Beiträge zur Geschichte der biblischen Exegese und Hermeneutik, Mohr Siebeck, Tübingen 2007. Riguardo allo stesso tema è utile: Geist im Buchstaben? Neue Ansätze in der Exegese (Quaestiones disputatae vol. 225), a cura di Thomas Söding, Herder, Freiburg - Basel - Wien 2007. Istruttivo è anche: François Dreyfus, Exégèse en
Sorbonne, exégèse en Église. Esquisse d'une théologie de la Parole de Dieu, Parole et Silence, Les-Planssur-Bex 2006. Dall'ambito della teologia sistematica è ora da menzionare - accanto alle grandi cristologie di Wolfhart Pannenberg, Walter Kasper e Christoph Schönborn - il volume di Karl-Heinz Menke, Je-
sus ist Gott der Sohn. Denkformen und Brennpunkte der Christologie, Pustet, Regensburg 2008. Angelo Amato, Gesù, identità del cristianesimo. Conoscenza ed esperienza, Libreria Editrice Vaticana 2008.
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Capitolo 1: Ingresso in Gerusalemme e purificazione del tempio - All'ingresso in Gerusalemme è dedicato il fascicolo 1/2009 della Rivista Internazionale di Teologia e Cultura Communio (ed. tedesca, annata 38, pp. 1-43). Rimando in particolare al contributo di Harald Buchinger, «Hosanna dem Sohne Davids!» Zur Liturgie des Palmsonntags, pp. 35-43. Nel momento della pubblicazione di tale fascicolo, però, il primo capitolo del presente volume era già stato redatto. - Rudolf Pesch, Das Markusevangelium, Zweiter Teil, Herders theologischer Kommentar zum Neuen Testament vol. I I / 2 , Freiburg - Basel - Wien 1977 (trad. it. Il vangelo di Marco, Parte seconda, Paideia, Brescia 1982). - Eduard Lohse, art. hösanna, in: Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Bd. IX, a cura di Gerhard Friedrich, Kohlhammer, Stuttgart 1973, pp. 682ss (trad. it. Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. XV, Paideia, Brescia 1988). - Per la purificazione del tempio, accanto ai commenti: Vittorio Messori, Patì sotto Ponzio Pilato?, SEI, Torino 1992, pp. 190-199. - Martin Hengel, Die Zeloten. Untersuchungen zur jüdi-
schen Freiheitsbewegung in der Zeit von Herodes I. bis 70 n. Ch., Brill, Leiden - Köln 19762 (trad, it. Gli zeloti. Ricerche sul movimento di liberazione giudaico dai tempi di Erode Ia70dC, Paideia, Brescia 1996). - Idem, War Jesus Revolutionär?, Calwer Hefte 110, Calwer Verlag, Stuttgart 19734. Ivi ulteriori indicazioni bibliografiche. - Ulrich Wilckens, Theologie des Neuen Testaments, op. cit. (cfr bibliografia generale) vol. 1/2, pp. 59-65.
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Capitolo 2: Il discorso escatologico di Gesù Con le mie esposizioni sul discorso escatologico di Gesù cerco di sviluppare, di approfondire e - dove è necessario - di correggere l'analisi che prima ho presentato nella mia escatologia del 1977 (nuova edizione: Joseph Ratzinger, Eschatologie - Tod und ewiges Leben, Pustet, Regensburg 2007; (trad. it. Escatologia. Morte e vita eterna, Cittadella, Assisi 1995). - Flavius Josephus, De bello Judaico/Der Jüdische Krieg. Edizione bilingue in greco e tedesco, a cura di Otto Michel e Otto Bauernfeind, VI 299s (cit. secondo: vol. II/2, München 1969, pp. 52s); note pp. 179-190 (trad. it. La guerra giudaica, Mondadori 1995). - Alexander Mittelstaedt, Lukas als Historiker Zur Datierung des lukanischen Doppelwerkes, Francke, Tübingen 2006, pp. 49-164. - Joachim Gnilka, Die Nazarener und der Koran. Eine Spurensuche, Herder, Freiburg - Basel - Wien 2007. - Gregor von Nazianz, Die fiinf theologischen Reden, edizione curata e commentata da Joseph Bärbel, Patmos, Düsseldorf 1963 (citato: Bärbel). - Per Km 3,23: Ulrich Wilckens, Theologie des Neuen Testaments, op. cit. (cfr bibliografia generale) voli. 1/3 e II/l. - Bernardo di Chiaravalle, De consideratione ad Eugenium Papam; in: Sämtliche Werke, lateinisch/deutsch, a cura di Gerhard B. Winkler, Tyrolia, Innsbruck 1990-99; Bd. I (1990), pp. 611-827; note di Hildegard Brem-pp. 829-841 (cit.: Winkler I; trad. it. Opere di San Bernardo, edizione latino/italiano vol. 1, Città Nuova, Roma 1984). - Per il significato del giudaismo post-biblico: Franz Mußner, Dieses Geschlecht wird nicht vergehen. Judentum und Kirche, Herder, Freiburg - Basel - Wien 1991. I
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Capitolo 3; La lavanda dei piedi - Per il tema «purezza/purificazione» rimando all'importante articolo Reinheit/Reinigung in: Historisches Wörterbuch der Philosophie, a cura di Joachim Ritter e Karlfried Gründer, vol. 8, Schwabe, Basel 1992, coll. 531-553, in particolare II/1 Griechische Antike (Martin Arndt), I I / 2 Judentum (Maren Niehoff), III/l Neues Testament (Martin Arndt), III/2 Patristik (Rita Sturlese). - Per Plotino rimando a Giovanni Reale, Storia della
filosofia greca e romana, voi. 8: Plotino e il neoplatonismo pagano, Bompiani, Milano 2004, pp. 19-186. - Rudolf Schnackenburg, Das Johannesevangelium, Dritter Teil, Herders theologischer Kommentar zum Neuen Testament, vol. I V / 3 , Freiburg - Basel - Wien 1975, pp. 6-53 (trad. it. Il vangelo di Giovanni, Parte terza, Paideia, Brescia 1981). - Charles K. Barrett, The Gospel According to St. John, Westminster, Philadelphia 1978; citato secondo l'edizione tedesca: Das Evangelium nach Johannes. Kritisch-exegetischer Kommentar über das Neue Testament, Sonderband, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1990 (trad. it. Il vangelo di Giovanni e il giudaismo, Paideia, Brescia 1980). - Franz Mußner, Der Jakobusbrief, Herders theologischer Kommentar zum Neuen Testament, vol. XIII/1, Freiburg - Basel - Wien 1964, pp. 225-230 (trad. it. La lettera di Giacomo, Paideia, Brescia 1970).
Capitolo 4: La Preghiera sacerdotale di Gesù - André Feuillet, Le sacerdoce du Christ et de ses mini-
stres d'après la prière sacerdotale du quatrième évangile et plusieurs données parallèles du Nouveau Testament, Éditions de Paris, 1972. 333
- Der Hebräerbriefübersetzt und erklärt von Knut Backhaus (Regensburger Neues Testament), Pustet, Regensburg 2009: purtroppo, questo commentario ancora non era disponibile, quando questo capitolo venne redatto. - Rudolf Bultmann, Das Evangelium des Johannes. Kritisch-exegetischer Kommentar über das Neue Testament, vol. 2, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen, qui citato secondo la 14a edizione del 1956. - Rudolf Schnackenburg, Das Johannesevangelium, Zweiter Teil e Dritter Teil, Herders theologischer Kommentar zum Neuen Testament, Freiburg - Basel - Wien, (vol. IV/2:1971, vol. IV/3:1975; trad. it. Il vangelo di Giovanni, Parte seconda, Paideia, Brescia 1976 e Parte terza, Paideia, Brescia 1981). - Per il tema del «Nome» nell'AT cfr l'articolo Sem di Heinz-Josef Fabry e Friedrich V. Reiterer, in:
Theologisches Wörterbuch zum Alten Testament, a cura di Heinz-Josef Fabry e Helmer Ringgren, voi. VIII, Kohlhammer, Stuttgart 1995, coli. 122-176 (trad. it. Grande Lessico dell'Antico Testamento, voi. VIII, Paideia, Brescia 2008); inoltre Hans Bietenhard, l'articolo ónoma, in: Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Bd. V, a cura di Gerhard Friedrich, Kohlhammer, Stuttgart 1954, pp. 242-283 (trad. it. Grande Lessico del Nuovo Testamento, voi. Vin, Paideia, Brescia 1972). - Basii Studer, Gott und unsere Erlösung im Glauben der Alten Kirche. Patmos, Düsseldorf 1985 (trad. it.
Dio salvatore nei Padri della Chiesa. Trinità, cristologia, soteriologia, Boria, Roma 1986). Capitolo 5: L'ultima cena - Annie Jaubert, La date de la dernière Cène, in: Revue de l'histoire des religions 146 (1954) 140-173;
334
Id., La date de la Cène. Calendrier biblique et liturgie chrétienne, J. Gabalda & Cie., Paris 1957. - Alberto Giglioli, Il giorno dell'ultima Cena e Vanno della morte di Gesù, in: Rivista Biblica 10 (1962) pp. 156-181. - Della immensa quantità di letteratura sulla data dell'ultima cena e della morte di Gesù vorrei menzionare soltanto l'esposizione - eccellente per l'accuratezza e la precisione - che John P. Meier ha presentato nel primo volume del suo libro su Gesù, A Margi-
nai ]ew. Rethinking the Historical Jesus I: The Roots of the Problem and the Person, Doubleday, New York 1991, pp. 372-433 (trad. it. cfr bibliografia Parte I). - Riguardo al contenuto della tradizione circa l'ultima cena sono stati particolarmente preziosi per me i diversi studi al riguardo di Rudolf Pesch. Accanto al suo commento Das Markusevangelium, Zweiter Teil, op. cit. (cfr bibliografia cap. 1) vorrei ricordare: Das Abendmahl und Jesu Todesverständnis (Quaestiones disputatae vol. 80, Herder, Freiburg - Basel Wien 1978); Das Evangelium in Jerusalem, in: Das
Evangelium und die Evangelien. Vorträge vom Tübinger Symposium 1982, a cura di Peter Stuhlmacher, MohrSiebeck, Tübingen 1983, pp. 113-155. - Sempre importante è: Joachim Jeremias, Die Abendmahlsworte Jesu, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1935 (19674); trad. it. Le parole dell'Ultima cena, Paideia, Brescia 1973. - Erik Peterson, Die Kirche, in: Theologische Traktakte, Ausgewählte Schriften Bd. I, a cura di Barbara Nichtweiß, Echter, Würzburg 1994, pp. 245-257 (trad. it. Scritti scelti vol. I, EDB, Bologna 2009). - Louis Bouyer, Eucharistie. Theologie et spiritualité de la prière eucharistique, Desclée, Paris 1966 (nuova edizio-
335
ne: Ceri, Paris 2009; trad. it. Eucaristia. Teologia e spiritualità della preghiera eucaristica, Elledici, Torino 1983). Peter Fiedler, Sünde und Vergebung im Christentum,
in: Internationale Zeitschrift ßr Theologie Concilium 10 (1974) pp. 568-571. Dietrich Bonhoeffer, Nachfolge, Kaiser, München 1937 (ora in: Werke, vol. 4, Gütersloher Verlagshaus 2008), 1° capitolo (trad. it. Seguela, Queriniana, Brescia 2004). Ulrich Wilckens, Theologie des Neuen Testaments, op. cit. (cfr bibliografia generale) vol. 1/2, pp. 77-85. Norbert Baumert / Maria-Irma Seewann, Eucharistie „für alle" oder „für viele"?, in: Gregorianum 89 (2008), pp. 501-532. Ferdinand Kattenbusch, Der Quellort der Kirchenidee,
in: Harnack-Ehrung. Beiträge zur Kirchengeschichte, ihrem Lehrer Adolf von Harnack zu seinem siebzigsten Geburtstage dargebracht von einer Reihe setner Schüler, J. C. Hinrichs, Leipzig 1921, pp. 143-172. Willy Rordorf, Sabbat und Sonntag in der Alten Kirche, Theologischer Verlag Zürich 1972 (trad. it. Sabato e domenica nella Chiesa antica, SEI, Torino 1979); Id.,
Lex orandi - lex credendi. Gesammelte Aufsätze zum 60. Geburtstag, Università tsverlag Freiburg (Schweiz) 1993, in particolare pp. 1-51. Josef Andreas Jungmann S J., Messe im Gottesvolk.
Ein nachkonziliarer Durchblick durch Missarum Sollemnia, Herder, Freiburg - Basel - Wien 1970. La stesura di questo capitolo era appena conclusa, quando apparve il volumetto elaborato in modo approfondito di Manfred Hauke: „Für viele
vergossenStudie zur sinngetreuen Wiedergabe des pro multis in den Wandlungsworten, Dominus-Verlag, Augsburg 2008.
336
Capitolo 6: Getsemani - Per le indicazioni su Getsemani: Gerhard Kroll, Auf den Spuren Jesu, St. Benno, Leipzig 19755. - Alois Stöger, Das Evangelium nach Lukas, 2. Teil, Geistliche Schriftlesung vol. 3 / 2 , Patmos, Düsseldorf 1966 (trad. it. Vangelo secondo Luca vol. 2, Città Nuova, Roma 1981). - Rudolf Bultmann, Das Evangelium des Johannes, op. cit. (cfr bibliografia cap. 4). - Per il Concilio di Calcedonia: Alois Grillmeier, Je-
sus der Christus im Glauben der Kirche, vol. I: Von der Apostolischen Zeit bis zum Konzil von Chalcedon (451), Herder, Freiburg - Basel - Wien 1979; per gli sviluppi post-conciliari cfr i voll. II/1-4,1986-2002, in particolare vol. I I / 1 (1986): Das Konzil von Chal-
cedon (451). Rezeption und Widerspruch (451-518). - La complessa storia della ricezione del Concilio di Calcedonia è stata illustrata in modo approfondito e preciso di Hans-Georg Beck, Die frühbyzan-
tinische Kirche, in: Handbuch der Kirchengeschichte, a cura di Hubert Jedin, vol. II/2, Herder, Freiburg - Basel - Wien 1975, pp. 1-92. - Riguardo a Massimo il Confessore: Christoph Schönborn, Die Christus-Ikone. Eine theologische Hinführung, Novalis, CH-Quern-Neukirchen 1984, pp. 107-138 (trad. it. L'icona di Cristo. Fondamenti teologici, San Paolo Edizioni 2003), come anche François-Marie Léthel, Théologie de l'agonie du
Christ. La liberté humaine du Fils de Dieu et son importance sotériologique mise en lumière par saint Maxime le Confesseur; Beauchesne, Paris 1979. 337
- Joachim Jeremias, Abba. Studien zur neutestamentlichen Theologie- und Zeitgeschichte, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1966 (trad. it. Abba. Primo
supplemento al «Grande Lessico del Nuovo Testamento», Paideia, Brescia 1968). - Importante per la teologia del Monte degli ulivi: François Dreyfus, Jésus savait-il qu'il était Dieu? Cerf, Paris 1984. - Albert Vanhoye, Accogliamo Cristo, nostro sommo
sacerdote. Esercizi Spirituali predicati in Vaticano 1016 febbraio 2008, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2008. - Adolf von Harnack, Zwei alte dogmatische Korrek-
turen im Hebräerbrief, in: Sitzungsberichte der Preußischen Akademie der Wissenschaften, Berlin 1929, pp. 69-73, in particolare p. 71; cfr d'altra parte l'interpretazione profonda del testo di Ebr 5,7-10 in Knut Backhaus, Der Hebräerbrief, op. cit. (cfr bibliografia cap. 4), pp. 206-211.
Capitolo 7: Il processo a Gesù - L'opera classica sul processo a Gesù rimane: Josef Blinzler, Der Prozess Jesu, Pustet, Regensburg 19694 (trad, it. Il processo di Gesù, Paideia, Brescia 2001). - Per quanto riguarda le questioni storiche mi attengo essenzialmente a Martin Hengel / Anna Maria Schwemer, Jesus und das Judentum, op. cit. (cfr bibliografia generale), pp. 587-611. - Intuizioni importanti si trovano in Franz Mußner,
Die Kraft der Wurzel. Judentum - Jesus - Kirche, Herder, Freiburg - Basel - Wien 1987, in particolare pp. 125-136.
338
- Riguardo alla versione giovannea del processo ed alla questione circa la verità mi è stato di aiuto: Thomas Söding, Die Macht der Wahrheit und das
Reich der Freiheit. Zur johanneischen Deutung des Pilatus-Prozesses, in: Zeitschrift für Theologie und Kirche 93 (1996) pp. 35-58. - Gerhard von Rad, Theologie des Alten Testaments,
Bd. 1: Die Theologie der geschichtlichen Überlieferungen Israels, Chr. Kaiser, München 1957 (trad. it. Teologia delVAntico Testamento vol. I, Paideia 1972). - Charles K. Barrett, Das Evangelium nach Johannes, op. cit. (cfr bibliografia cap. 3). - Rudolf Pesch, Das Markusevangelium, Zweiter Teil, op. cit. (cfr bibliografia cap. 1), pp. 461-467. - Joachim Gnilka, Das Matthäusevangelium, Zweiter Teil, Herders theologischer Kommentar zum Neuen Testament, vol. 1/2, Freiburg - Basel - Wien 1988 (trad. it. Il vangelo di Matteo. Parte seconda, Paideia, Brescia 1991). - Francis S. Collins, The Language ofGod. A Scientist Presents Evidence for Belief, Free Press, New York 2006; citato secondo l'edizione tedesca: Gott und
die Gene. Ein Naturwissenschaftler begründet seinen Glauben, Gütersloher Verlagshaus 2007 (trad. it. II linguaggio di Dio. Alla ricerca dell'armonia fra scienza e fede, Sperling & Kupfer, Milano 2007). Capitolo 8: La crocifissione e la deposizione di Gesù nel sepolcro - Un'analisi toccante di Is 53 in: Marius Reiser, Bi-
belkritik und Auslegung der Heiligen Schrift, op. cit. (cfr bibliografia generale), pp. 337-346.
339
Anche riguardo a Platone e al Libro della Sapienza cfr Reiser, pp. 347-353. Per l'iscrizione sulla croce: Ferdinand Hahn, Chri-
stologische Hoheitstitel. Ihre Geschichte im frühen Christentum, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 19663, pp. 195s. Per le teologie moderne sul dolore di Dio e sulla sofferenza di Gesù a motivo della lontananza di Dio rimando a: Jürgen Moltmann, Der gekreuzigte
Gott. Das Kreuz Christi als Grund und Kritik christlicher Theologie, Kaiser, München 1972 (trad. it. II Dio crocifisso. La croce di Cristo, fondamento e critica della teologia cristiana, Queriniana, Brescia 2002), e a: Hans Urs von Balthasar, Theodramatik vol. IV: Das Endspiel, Johannes Verlag Einsiedeln 1983 (trad. it. L'azione. Teodrammatica, vol. 4, Jaca Book, Milano 1986). Rudolf Bultmann, Das Verhältnis der urchristlichen Christusbotschaft zum historischen Jesus, Winter, Heidelberg 1960. Rudolf Pesch, Das Markusevangelium, Zweiter Teil, op. cit. (cfr bibliografia cap. 1), pp. 468-503. Rudolf Schnackenburg, Das lohannesevangelium, Dritter Teil, op. cit. (cfr bibliografia cap. 3), pp. 310-352. Per la questione mariana: Storia della mariologia, vol. 1: Dal modello biblico al modello letterario, a cura di Enrico dal Covolo e Aristide Serra, Città Nuova / Marianum, Roma 2009, pp. 105-127. Per l'ultima parte: Joseph Ratzinger, Gesammelte Schriften, Bd. 11: Theologie der Liturgie, Herder, Freiburg - Basel - Wien 2008 (ed. it.: Opera omnia, vol. 11, Teologia della Liturgia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2010).
340
Capitolo 9: La risurrezione di Gesù dalla morte - Fondamentale per le questioni esegetiche (tradizione in forma di professione, apparizioni ecc.) è: Béda Rigaux, Dieu Va ressuseité. Exégèse et théologie biblique, Duculot, Gembloux 1973. - Importante inoltre: Franz Mußner, Die Auferstehung Jesu, Kösel, München 1969 (trad. it. Morte e resurrezione, Paideia, Brescia 1969). - Riflessioni utili in: Thomas Söding, Der Tod ist tot,
das Leben lebt. Ostern zwischen Skepsis und Hoffnung, Matthias Grünewald, Ostfildern 2008. - Una prima analisi di 1 Cor 15, che seguo essenzialmente anche qui, ho presentato nel mio volumetto Der Gott Jesu Christi. Betrachtungen über den Dreieinigen Gott, Kösel, München 1976, pp. 76-84 (nuova edizione 2006; trad. it. Il Dio di Gesù Cristo. Meditazioni sul Dio uno e trino, Queriniana, Brescia 2005). - Josef Blank, Paulus und Jesus. Eine theologische Grundlegung. Studien zum Alten und Neuen Testament vol. 18, Kösel, München 1968. - Rudolf Bultmann, Neues Testament und Mythologie.
Das Problem der Entmythologisierung der neutestamentlichen Verkündigung, Kaiser, München 1941 (ristampa 1985; trad. it. Nuovo Testamento e mitologia. Il manifesto della demitizzazione, Queriniana, Brescia 1990). - Hartmut Gese, Die Frage des Weltbildes, in: Idem.,
Zur biblischen Theologie. Alt testamentliche Vorträge, Beiträge zur evangelischen Theologie vol. 78, Kaiser, München 1977, pp. 202-222 (trad. it. Sulla teologia biblica, Paideia, Brescia 1989).
341
- Hans Conzelmann, Zur Analyse der Bekenntnisformel I. Kor. 15,3-5, in: Evangelische Theologie 25 (1965), pp. 1-11, in particolare pp. 7s; anche in: Idem., Theo-
logie als Schriftauslegung. Aufsätze zum Neuen Testament, Beiträge zur evangelischen Theologie vol. 65, Kaiser, München 1974, pp. 131-141, in particolare pp. 137s. - Martin Hengel / Anna Maria Schwemer, Jesus und das Judentum, op. cit. (cfr bibliografia generale). - Friedrich Hauck, art. alalàzo, in: Theologisches Wörterbuch zum Neuen Testament, Bd. I, a cura di Gerhard Kittel, Kohlhammer, Stuttgart 1933, pp. 228s (trad.
it. Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. I, Paideia, Brescia 1965). - Inoltre vorrei rimandare alle opere di commento, in particolare a Ulrich Wilckens, Theologie des Neuen Testaments, op. cit. (cfr bibliografia generale) voi. 1/2, pp. 107-160.
342
!
INDICE
i I
PREMESSA
5 *
Capitolo 1 INGRESSO IN GERUSALEMME E PURIFICAZIONE DEL TEMPIO
11
1. L'ingresso in Gerusalemme
11
2. La purificazione del tempio . . . . . . . .
21
Capitolo 2 IL DISCORSO ESCATOLOGICO DI GESÙ
35
1. La fine del tempio
39
2. Il tempo dei pagani
52
3. Profezia e apocalisse nel discorso escatologico
57
Capitolo 3 LA LAVANDA DEI PIEDI
65
L'ora di Gesù
66
"Voi siete puri" Sacramentum ed exemplum - dono e compito: il "nuovo comandamento"
69
Il mistero del traditore
78
Due colloqui con Pietro
83
Lavanda dei piedi e confessione dei peccati 345
.
74
85
Capitolo 4
»
LA PREGHIERA SACERDOTALE DI GESÙ .
91
1. La festa giudaica dell'Espiazione come sfondo biblico della Preghiera sacerdotale 2. Quattro grandi temi della Preghiera . . .
91 97
"Questa è la vita eterna... "
97
"Consacrali nella verità.../ "
100
"io ho fatto conoscere loro il tuo nome... " . .
106
"Tutti siano una cosa sola... "
109
Capitolo 5 L'ULTIMA CENA
119
1. La data dell'ultima cena
122
2. L'istituzione dell'Eucaristia 3. La teologia delle parole d'istituzione . . 4. Dalla Cena all'Eucaristia della domenica mattina
132 143 157
Capitolo 6
»
GETSEMANI
165
1. In cammino verso il Monte degli ulivi. .
165
2. La preghiera di Gesù
172
3. La volontà di Gesù e la volontà del Padre .
177
4. La preghiera sul Monte degli ulivi nella Lettera agli Ebrei
183
346
Capitolo 7 IL PROCESSO A GESÙ
189
1. Dibattito preliminare nel sinedrio 0Gv 11,47-54) 2. Gesù davanti al sinedrio 3. Gesù davanti a Pilato
189 197 206
Capitolo 8 LA CROCIFISSIONE E LA DEPOSIZIONE DI GESÙ NEL SEPOLCRO
227
1. Riflessione preliminare: parola ed evento nel racconto della passione 2. Gesù sulla croce
227 231
La prima parola di Gesù sulla croce: "Padre, perdona loro" Gesù deriso Il grido di abbandono di Gesù Il sorteggio delle vesti di Gesù "Ho sete" Le donne sotto la croce - la Madre di Gesù . Gesù muore sulla croce La deposizione di Gesù nel sepolcro
3. La morte di Gesù come riconciliazione (espiazione) e salvezza
231 233 238 241 243 244 248 252
255
Capitolo 9 LA RISURREZIONE DI GESÙ DALLA MORTE
269
1. Di che si tratta nella risurrezione di Gesù.
269
347
2. I due tipi diversi di testimonianza sulla risurrezione 2.1. La tradizione in forma di professione La morte di Gesù La questione del sepolcro vuoto
. . . . .
Il terzo giorno I testimoni
2.2. La tradizione in forma di narrazione Le apparizioni di Gesù a Paolo Le apparizioni di Gesù nei Vangeli . . .
3. Riassunto: La natura della risurrezione di Gesù e il suo significato storico . . . . PROSPETTIVE
È SALITO AL CIELO - SIEDE ALLA DESTRA DI DIO PADRE E DI NUOVO VERRÀ NELLA GLORIA Bibliografia