Rivista degli studi orientali. Annate 2000-2007 [2000,(1-4) - 2007 (1-4)] [PDF]


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Table of contents :
RIVISTA DEGLI STUDI ORIENTALI,2000......Page 1
INDICE DEL VOLUME SETTANTAQUATTRESIMO......Page 3
RICERCHE SULLA SCRITTURA EGIZIA – V APORIE DELLA NOTAZIONE LINGUISTICA EGIZIA NEL III E II MILLENNIO A.C.......Page 5
L'USO DI MODELLI ELLENISTICI IN PROVERBI I-IX......Page 13
LES DÉSINENCES MODALES EN BERBÈRE......Page 28
SULL’ARCHITETTURA ISLAMICA IN SICILIA......Page 43
A CREATIVE DIALOGUE: THE TIMURID AND INDO-MUSLIM HERITAGE IN AKBAR’S TOMB......Page 76
THE WORSHIP TO THE SOVEREIGNS OF THE PAST IN IMPERIAL CHINA......Page 93
GLI SCRITTI PRO E CONTRO I MISSIONARI GESUITI NEGLI AMBIENTI COLTI CINESI DELLA TARDA EPOCA MING E DELL’EPOCA QING IN IMPER......Page 141
MODELLI LETTERARI DELLA MODERNIZZAZIONE GIAPPONESE RITRATTI DA TRE INTELLETTUALI DEL TEMPO: I GIOVANI PROTAGONISTI DI SANSH......Page 159
RICORDANDO L’OPERA DI WILHELM HALBFASS (1940-2000)......Page 198
RECENSIONI......Page 205
SCHEDE BIBLIOGRAFICHE......Page 252
LIBRI RICEVUTI......Page 255
PUBBLICAZIONI DEL DIPARTIMENTO DI STUDI ORIENTALI UNIVERSITÀ DI ROMA «LA SAPIENZA»......Page 257
RIVISTA DEGLI STUDI ORIENTALI,2001......Page 262
INDICE DEL VOLUME SETTANTACINQUESIMO 1-4......Page 264
Maria Elena Milone, UNA TAVOLETTA SARGONICA DA ADAB......Page 265
Antonella Mezzolani, I TEMPLI DELL’OCCIDENTE PUNICO: LA SARDEGNA......Page 270
Ezio Albrile, ZURWAN SULLA LUNA. ASPETTI DELLA GNOSI ARAMAICO-IRANICA......Page 290
Gabriel Said Reynolds, JESUS, THE QA’IM AND THE END OF THE WORLD......Page 318
Shahzad Bashir, THE RISALAT AL-HUDA OF MUHAMMAD NURBAKS (d. 869/1464) CRITICAL EDITION WITH INTRODUCTION......Page 350
Ciro Lo Muzio, ON A TERRACOTTA FIGURINE FROM UCH KULAKH (BUKHARA OASIS)......Page 401
Stella Sandahl, THE RTUSAMHARA - A DIFFERENT APPROACH......Page 408
Minoru Hara, THE HINDU CONCEPT OF FRIENDSHIP......Page 418
Maria Spagnoli, LE NOZZE DEL SERPENTE......Page 449
Arcangela Santoro, DALLA NASCITA ALL’ILLUMINAZIONE: SU QUATTRO SCENE DELLA VITA DEL BUDDHA STORICO NELLA GROTTA DEI PAVONI (K......Page 465
Gian Piero Persiani, PLASTIC SKIN: ABE KOBO’S THE FACE OF ANOTHER AND LACAN’S EFFACEMENT OF THE BODY......Page 499
Paola Orsatti, PERSIAN: AN OPINION?......Page 509
Daniela Tozzi, IL SUICIDIO IN CINA......Page 526
RECENSIONI......Page 537
LIBRI RICEVUTI......Page 574
PUBBLICAZIONI DEL DIPARTIMENTO DI STUDI ORIENTALI UNIVERSITÀ DI ROMA «LA SAPIENZA»......Page 576
RIVISTA DEGLI STUDI ORIENTALI,2002......Page 581
Indice del volume settantaseiesimo......Page 583
Yaacov Lev, CHARITY AND JUSTICE IN MEDIEVAL ISLAM......Page 584
Chiara Silvi Antonini - Franca Filipponi, A - IL SITO DI UCH KULAKH......Page 600
Francesco Noci, B - KURGAN VARDANZEH: RICOGNIZIONE ARCHEOLOGICA PRELIMINARE......Page 610
Matteo Compareti, C - NOTE SUL TOPONIMO VARDANA-VARDANZI......Page 621
Ciro Lo Muzio, THE UMAMAHESVARA IN CENTRAL ASIAN ART......Page 630
Bruno Lo Turco, IL TERZO PRAKARANA DELLO YOGAVASISTHA (UTPATTI) E LA DOTTRINA SIVAITA DELLA VIBRAZIONE (SPANDA)......Page 668
Tiziana Lorenzetti, A RARE MEDITATIONAL SCULPTURE FROM TAMIL NADU......Page 702
Marialaura Di Mattia, IL COMPLESSO TEMPLARE DI NAKO NELL'ALTO KINNAUR: UN ESEMPIO DELLO STILE INDO-TIBETANO DEI SECOLI X-XII......Page 717
Piero Corradini, ON THE QIDAN AND JURCIN CAPITALS......Page 748
C.M. Lucarini - D. Campanile, A PROPOSITO DI UNA NUOVA TRADUZIONE E COMMENTO A FILOSTRATO, VITE DEI SOFISTI......Page 793
Lucia Rostagno, NOTE SU DOMENICO GEROSOLIMITANO......Page 809
Michele Bernardini, A RESPONSE TO DR. ORSATTI IN RSO LXXV/1-4, PP. 249-265......Page 841
Recensioni......Page 843
Schede Bibliografiche......Page 883
Libri Ricevuti......Page 889
RIVISTA DEGLI STUDI ORIENTALI,2003......Page 892
Indice del volume settantottesimo......Page 894
Emma Abate, Sedecia e l'assedio di Gerusalemme: funzioni mitiche e rituali di un racconto biblico......Page 896
Alessandro Catastini, Le lettere di Cesare Malanima a Gian Bernardo de Rossi (1775-1781)......Page 910
Mohamed Elmedlaoui, De "une notation usuelle du berbere" a "l'orthographe de l'amazighe"......Page 942
Akeel Almarai, Sul metro qarib (impropriamente detto mutadarak)......Page 956
Vincenzo Vergiani, Two parallel passages in the mahabhasyatika and the vakyapadiya of bhartrhari......Page 972
Phyllis Granoff, Mahakala’s Journey: from Gana to God......Page 982
Arcangela Santoro, Gandhara and Kizil: the Buddha’s Life in the Stairs Cave......Page 1002
Filippo Marsili, The Myth of Huangdi, the ding vases and the Quest for Immortality......Page 1021
Lode Talpe, Some observations concerning the Chinese Sources on the Alans......Page 1055
Piero Corradini, Notes on the Establishment of the Tuoba Power in North China......Page 1072
Valdo Ferretti, Stato e mito nel primo impero giapponese......Page 1093
Lucia Rostagno, Note su Domenico Gerosolimitano......Page 1114
Carla Gianotti, A proposito di un testo tibetano della Biblioteca Nazionale di Torino......Page 1159
Recensioni......Page 1162
Schede bibliografiche......Page 1184
Libri ricevuti......Page 1188
RIVISTA DEGLI STUDI ORIENTALI,2004......Page 1194
Indice del volume settantottesimo......Page 1196
Per Luciano Petech......Page 1198
Paolo Daffinà, India, Ceylon e Nepal nell'opera di Luciano Petech......Page 1199
Elena De Rossi Filibeck, Il contributo di Luciano Petech alla storia del Tibet......Page 1213
Gherardo Gnoli, Giornata di studio in onore di Luciano Petech......Page 1228
Piero Corradini, Giornata per i novanta anni di Luciano Petech......Page 1230
Articoli......Page 1233
Massimo Gargiulo, Which parent is the best teacher?......Page 1234
Kalid Sindawi, 'Fatima Book'. A Shi'ite Qur'an?......Page 1241
Kathan Orbay, Celalis recorded in the account books......Page 1255
Laura Bottini, Gli Ashab dell'Imam 'Ali Al-Rida a Qumm......Page 1268
Agostino Visco, Marian Galik e Josef Kolmas......Page 1280
Cristina Banella, Il Kuawase no Tsuki di Masaoka shiki: il ruolo dell'immaginazione in una poesia realistica......Page 1288
Piero Corradini, Notes on the policy and the administration of the northern zhou......Page 1305
Massimo Carrante, Fondamenti di calligrafia di Liu Xizai.......Page 1320
Federico Squarcini, Testi senza autore, autori senza testa......Page 1405
Note e discussioni......Page 1421
Giuliano Mion, Osservazioni sul sistema verbale dell'arabo di Tunisi......Page 1422
Necrologi......Page 1435
Gherardo Gnoli, Paolo Daffinà 1929-2004......Page 1436
Patrizia Cannatà, Daniela Tozzi Giuli 1948-2004......Page 1439
Recensioni......Page 1441
Schede bibliografiche......Page 1464
Libri ricevuti......Page 1466
RIVISTA DEGLI STUDI ORIENTALI,2005......Page 1471
INDICE DEL VOLUME SETTANTOTTESIMO (II)......Page 1474
MISCELLANEA DI STUDI IN MEMORIAM DI PIERO CORRADINI......Page 1476
PUBBLICAZIONI DI PIERO CORRADINIù......Page 1479
Alida Alabisio, L’IMPORTANZA DELL’ARCHITETTURA NELLA CULTURA CINESE: ALCUNE RIFLESSIONI......Page 1488
Andreina Albanese, TROPPO BELLA PER ESSERE MOSTRATA : UN'IPOTESI IN MERITO ALLA CARTA DELL'IMPERO CINESE CALCOGRAFATA DA RIPA......Page 1515
Biancamaria Amoretti Scarcia, MODELLI AUTOREVOLI : L’EPISTOLA DI AL-JÂHIZ (m. 869) CONTRO I CRISTIANI. QUALCHE OSSERVAZIONE......Page 1526
Marina Battagliani, DI ALCUNE CINESI CURIOSITÀ : BELLI E LA CINA......Page 1539
Emilio Bottazzi, LE MISSIONI CAMILLIANE IN CINA......Page 1549
Clara Bulfoni, LA LINGUA CINESE NELL’ERA DELL’INFORMATICA : ALCUNE CONSIDERAZIONI PRELIMINARI......Page 1569
Rosa Caroli, GEOGRAFIA DELLA MEMORIA BELLICA IN GIAPPONE: DALLE PERIFERIE DEL CENTRO AL CENTRO DELLA PERIFERIA......Page 1578
Maria Cigliano, IMMAGINI FEMMINILI IN ALCUNI SANQU DI HUANG E (1498-1569)......Page 1592
Guidotto Colleoni, LA VIA DEL POETA UNA LETTURA DI UNA POESIA CINESE DELL'ULTIMO SOSEKI......Page 1604
Elisabetta Corsi, DALL’ARISTOTELES LATINUS ALL’ARISTOTELES SINICUS. FRAMMENTI DI UN PROGETTO INCOMPIUTO......Page 1612
Gabriele Crespi Reghizzi, MOTI E TENDENZE DEL DIRITTO COMMERCIALE CINESE......Page 1626
Patrizia Dadò, LA PARODIA DELL’INTELLETTUALE MODERNO NEL RACCONTO PIERROT DI MU SHIYING......Page 1641
Daniela De Palma, UNO SGUARDO ALLE ATTUALI RELAZIONI TRA GIAPPONE E REPUBBLICA POPOLARE CINESE......Page 1648
Elena De Rossi Filibeck, IL FONDO TUCCI TIBETANO NELLA BIBLIOTECA DELL'ISIAO......Page 1671
Alberto Di Ciccio, TRASMISSIONE E CODIFICAZIONE DEL MOTIVO DI CARATTERE FITOMORFO DELLA PALMETTA ALLA LUCE DI ALCUNE SUE VARIANTI RAPPRESENTANTE SU PRODUZIONI ARTISTICHE DI EPOCA TANG......Page 1680
Pierfrancesco Fedi, ALCUNE NOTE BIOGRAFICHE E CRITICHE SU GIOVANNI DE RISEIS......Page 1693
Valdo Ferretti, IL RETROTERRA CULTURALE DELL’INCIDENTE DI HOREKI E LA RICOLLOCAZIONE STORICA DI NAKANOIN MICHIMOCHI......Page 1716
Alessandra Cristina Lavagnino, LA CINA E NOI : A PROPOSITO DI DUE RECENTI PUBBLICAZIONI CINESI......Page 1727
Mario Losano, I “GRANDI SPAZI” IN UN INEDITO PROGETTO DI TRATTATO DEL 1943 FRA GLI STATI DELL'ASSE......Page 1734
Lionello Lanciotti, ALCUNE FORME DI AUTOBIOGRAFISMO NELLA LETTERATURA CINESE CLASSICA......Page 1757
Federico Masini, LA SCRITTURA IN CARATTERI, BASE COMUNE DI UNA GRANDE CULTURA DELL'ASIA ORIENTALE?......Page 1763
Marco Meccarelli, LA MEMORIA ARCHEOLOGICA NELLA "NUOVA GENERAZIONE" DI ARTISTI CONTEMPORANEI CINESI......Page 1773
Giorgio Milanetti, RĀMA ARAVA, RĀVANA NO : NOTE PER UNA STORIA POLITICA DELL'AGRICOLTURA STANZIALE IN INDIA, DAL RĀMA-RĀJYA AL RAJ......Page 1795
Marina Miranda, CLASSI E STRATI NELLA SOCIETÀ CINESE CONTEMPORANEA: IL CONTRIBUTO DI ALCUNI STUDI RECENTI......Page 1815
Francesco Montessoro, ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA STORIA DEI MUSULMANI FILIPPINI......Page 1829
Paolo Puddinu, NOTE SULL’ISTITUZIONE E L’USO DEL CORPO DELLE COMFORT WOMEN......Page 1840
Gaetano Ricciardolo, ALCUNE NOTE SULLA PRESENZA MISSIONARIA IN CINA DALLO SCIOGLIMENTO DELLA COMPAGNIA DI GESU ALLA RIVOLTA DEI BOXER (1773-1900)......Page 1851
Donatella Rossi, HOLY MOUNTAINS AND SAINT IMMORTALS IN THE BON TRADITION: A PRELIMINARY SURVEY OF THE HISTORY OF CHANG-CHA-DUR......Page 1862
Maurizia Sacchetti, UN BICCHIERE DI GIOIA......Page 1870
Guido Samarani, ALLE ORIGINI DI BANDUNG : IL VIAGGIO DI CHIANG KAI-SHEK IN INDIA (FEBBRAIO 1942)......Page 1877
Paolo Santangelo, “LIBERTÀ” E “LICENZA”, VOLONTÀ E NECESSITÀ NELLA PERCEZIONE DELLA VITA QUOTIDIANA DELLA CINA TARDO-IMPERIALE. LA "PREDESTINAZIONE" È UN LIMITE OGGETTIVO DELLA LIBERTÀ......Page 1887
Arcangela Santoro, SULLE ORME DEI CENTAURI......Page 1911
Maurizio Scarpari, DALLA PREISTORIA ALLA STORIA : ALLE ORIGINI DELLA CIVILTÀ CINESE......Page 1929
Chiara Silvi Antonini, BREVE NOTA SU UN MANOSCRITTO PELLIOT DA DUNHUANG......Page 1942
Giovanni Stary, IL “VERO” ESPLORATORE DEL CHANGBAISHAN E IL VALORE DELLE RELATIVE FONTI: UN'ANALISI CRITICA......Page 1948
Marina Timoteo, LA GIUSTIZIA E I GIURISTI NELLA CINA CONTEMPORANEA......Page 1970
Aldo Tollini, LINGUA E SCRITTURA NEL GIAPPONE ANTICO......Page 1982
PUBBLICAZIONI DEL DIPARTIMENTO DI STUDI ORIENTALI UNIVERSITÀ DI ROMA «LA SAPIENZA»......Page 1997
RIVISTA DEGLI STUDI ORIENTALI,2006......Page 2002
INDICE DEL VOLUME SETTANTANOVESIMO......Page 2006
Leonardo Capezzone, Maestri e testi nei centri imamiti dell'Iran Selgiuchide secondo il Kitab Al-Naqd......Page 2008
Arcangela Santoro, Miran: The Visvantara Jataka on visual narration along the Silk Road......Page 2029
Alessandro Boesi · Francesca Cardi, The selection process of the Materia Medica: thr approach of a Tibetan practitioner in the region oh dhorpatan (Nepal)......Page 2044
Davor Antonucci, Studio preliminare dell'economia dei Monasteri Mongoli: le testimonianze da fonti occidentali......Page 2062
Piero Corradini, Sinicized barbarian rulers in medieval China......Page 2083
Martha L. Carter, China and the mysterious occident: the queen mother of the west and Nana......Page 2093
Alida Alabiso, I palazzi imperiali di Chang'an in epoca Han......Page 2126
Anna Maria Paoluzzi, Taiwan and the West: hints of westernization in the fiction of Wang Zhenhe......Page 2155
Domitilla Campanile, Adriano, Polemone e l'Apocalisse......Page 2165
Ciro Lo Muzio, Culti Brahmanici a Kotan: note sulle pitture del tempio D 13 a Dandani Oiliq......Page 2178
Alessandro Catastini, I miracoli di Elia e uno studio recente......Page 2195
Odoardo Bulgarelli, Appunti sull'argento come strumento monetario e finanziario nell'economia del vicjno oriente antico......Page 2209
Paolo Gentili, Where is diniktum? Remarks on the situation and a supposition......Page 2220
RECENSIONI......Page 2228
RIVISTA DEGLI STUDI ORIENTALI,2007, suppl.1......Page 2260
SOMMARIO......Page 2264
PREFAZIONE Chiara Silvi Antonini......Page 2265
PARTE PRIMA......Page 2267
L’OASI DI BUKHARA NELLE FONTI SCRITTE Chiara Silvi Antonini......Page 2268
NOTE ARCHEOLOGICHE SULL’OASI DI BUKHARA Ciro Lo Muzio......Page 2272
PARTE SECONDA......Page 2296
PREMESSA Silvia Pozzi......Page 2297
IL CASTELLO E IL COMPLESSO FORTIFICATO MERIDIONALE Chiara Silvi Antonini · Franca Filipponi · Silvia Pozzi......Page 2300
IL SETTORE OCCIDENTALE Chiara Silvi Antonini · Franca Filipponi......Page 2328
IL SETTORE ORIENTALE Chiara Silvi Antonini · Franca Filipponi......Page 2347
CONSIDERAZIONI FINALI Chiara Silvi Antonini · Franca Filipponi......Page 2353
TABELLA CRONOLOGICA......Page 2357
MATERIALI E TECNICHE COSTRUTTIVE Franca Filipponi......Page 2359
LA CERAMICA E ALTRI REPERTI Chiara Silvi Antonini......Page 2387
LE TERRECOTTE Ciro Lo Muzio......Page 2415
LA CERAMICA ISLAMICA Džamal K. Mirzaachmedov......Page 2420
CONCLUSIONI Chiara Silvi Antonini......Page 2430
INDAGINE TOPOGRAFICA NEL TERRITORIO DI VARAKHSHA Orlando Cerasuolo......Page 2436
IL RILIEVO DEL SITO DI VARDANZEH Orlando Cerasuolo......Page 2458
BIBLIOGRAFIA......Page 2464
INDICE DELLE ILLUSTRAZIONI......Page 2473
TAVOLE......Page 2489
SUMMARY · РЕЗЮМЕ......Page 2499
ILLUSTRAZIONI......Page 2509
RIVISTA DEGLI STUDI ORIENTALI,2007, suppl.2......Page 2526
CONTENTS......Page 2531
INTRODUCTION......Page 2532
CONTRIBUTORS......Page 2543
IPPOLITO DESIDERI’S FIRST REMARKS ON LADAKH Enzo Gualtiero Bargiacchi......Page 2546
SPITI AND LADAKH IN THE 17th-19th CENTURIES: VIEWS FROM THE PERIPHERY Christian Jahoda......Page 2563
UNTIL THE FEATHERS OF THE WINGED BLACK RAVEN TURN WHITE: SOURCES FOR THE TIBET-BASHAHR TREATY OF 1679 Georgios T. Halkias......Page 2578
“A THOUSAND MAN. IS IN IMMUTABLE STONE” A DONOR INSCRIPTION AT NAKO VILLAGE (KINNAUR, HIMACHAL PRADESH) Kurt Tropper......Page 2604
THREE 19th CENTURY DOCUMENTS FROM TIBET AND THE LO PHYAG MISSION FROM LEH TO LHASA John Bray · Tsering D. Gonkatsang......Page 2614
“A PROJECT OF IMPERIAL IMPORTANCE”: PALAMPUR FAIR AND THE KANGRA TEA ENTERPRISE, 1867-79 Arik Moran......Page 2634
THE TRADITIONS OF SUFISM IN LADAKH Abdul Ghani Sheikh......Page 2648
NU RBAKHSHIS IN THE HISTORY OF KASHMIR, LADAKH, AND BALTISTAN: A CRITICAL VIEW ON PERSIAN AND URDU SOURCES Shahzad Bashir......Page 2657
WHO ARE ‘THOSE OF THE BLACK CASTLE’? DISCUSSING THE PAST OF A NOMADIC GROUP INHABITING THE SOUTHEASTERN EDGE OF LADAKH Pascale Dollfus......Page 2669
WEDDING SONGS FROM WAM LE Elena De Rossi Filibeck......Page 2689
NOTES ON SKY-BURIAL IN INDIAN, CHINESE AND NEPALESE TIBET Erberto Lo Bue......Page 2735
TRADITIONALISM AND COSMOPOLITANISM IN THE LIFE OF A MODERN LADAKHI: ABDUL WAHID RADHU AND MARCO PALLIS Poul Pedersen......Page 2752
CHARTING THE SHUGDEN INTERDICTION IN THE WESTERN HIMALAYA Martin A. Mills......Page 2764
SACRED LANDSCAPES IN THE NUBRA VALLEY Sonam Wangchok......Page 2783
RIVISTA DEGLI STUDI ORIENTALI,2007......Page 2797
SOMMARIO......Page 2801
INTRODUZIONE. PASSIONI ED EMOZIONI NELLE TRADIZIONI FILOSOFICO-RELIGIOSE DELL’INDIA PREMODERNA Raffaele Torella......Page 2804
Daniele Cuneo THE EMOTIONAL SPHERE IN THE LIGHT OF THE ABHINAVABHARATI......Page 2814
Elena De Rossi Filibeck LA MALIZIA DELLE DONNE E L’INNOCENZA MASCHILE: IL TEMA DELLA MOGLIE DI PUTIFARRE IN TIBET......Page 2833
Elisa Freschi DESIDERO ERGO SUM: THE SUBJECT AS THE DESIROUS ONE IN MIMAMSA......Page 2842
Elisa Ganser THE SPECTACULAR DIMENSION OF EMOTION IN INDIAN THEATRE......Page 2853
Minoru Hara WORDS FOR LOVE IN SANSKRIT......Page 2870
Gioia Lussana LA PURIFICAZIONE DEL CUORE. LA TRASFORMAZIONE DELLE EMOZIONI NELLA PRATICA YOGA......Page 2896
Stefano Piano UN KACCIT-PRASNA PURANICO SULLO STRIDHARMA (SkP VI, 42, 19-41)......Page 2919
Donatella Ross iL’ICONOCLASTA GENDÜN CHÖMPHEL (1905-1951) E IL SUO KAMASUTRA......Page 2928
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Zitiervorschau

RIVISTA DEGLI

STUDI ORIENTALI VOLUME LXXIV FASC. 1-4 (2000)

PISA ⋅ ROMA

ISTITUTI EDITORIALI E POLIGRAFICI INTERNAZIONALI 2001

RIVISTA DEGLI STUDI ORIENTALI Trimestrale Prezzo d’abbonamento per l’anno 2000 Italia Lire 200.000 ( 103,30) ⋅ Estero US$ 250 (comprensivo dell’intera annata della rivista e dei due supplementi) I versamenti possono essere eseguiti sul conto corrente postale n. 13137567 o tramite carta di credito (Visa, Eurocard, Mastercard, American Express, Carta Si) ISTITUTI EDITORIALI

E

POLIGRAFICI INTERNAZIONALI

PISA



ROMA

Casella postale n. 1 ⋅ Succursale 8 ⋅ I 56123 Pisa Uffici di Pisa: Via Giosuè Carducci 60 ⋅ I 56010 Ghezzano La Fontina (Pisa) Tel. +39 050878066 (r.a.) ⋅ Fax +39 050878732 E-mail: [email protected] Uffici di Roma: Via Ruggero Bonghi 11⁄b (Colle Oppio) ⋅ I 00184 Roma Tel. +39 0670452494 (r.a.) ⋅ +39 0670476605 E-mail: [email protected] La Casa editrice garantisce la massima riservatezza dei dati forniti dagli abbonati e la possibilità di richiederne la rettifica o la cancellazione previa comunicazione alla medesima. Le informazioni custodite dalla Casa editrice verranno utilizzate al solo scopo di inviare agli abbonati nuove proposte (L. 675⁄96).

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ERRATA CORRIGE Nell’indice posto all’inizio del volume e in terza pagina di copertina, l’indicazione numerica delle pagine è sbagliata e va sostituita con quella qui sotto stampata. INDICE DEL VOLUME SETTANTAQUATTRESIMO 1-4 ARTICOLI......................................................................................................................................... Pagina A. ROCCATI, Ricerche sulla scrittura Egizia – V ........................................................................... M. GARGIULLO, L’uso di modelli ellenistici in Proverbi I-IX...................................................... M. KOSSMANN, Les désinences modales en berbère...................................................................... E. GALDIERI, Sull’architettura islamica in Sicilia............................................................................ L.E. PARODI, A Creative Dialogue .................................................................................................. P. CORRADINI, The Worship to the Sovereigns of the Past......................................................... G. RICCIARDOLO, Gli scritti pro e contro i missionari gesuiti ..................................................... M.G. VIENNA, Modelli letterari della modernizzazione giapponese ............................................

1 9 25 41 75 93 141 159

NECROLOGIO F. SQUARCINI, Ricordando l’opera di Wilhelm Halbfass...............................................................

199

RECENSIONI TAKAMITSU MURAOKA, BEZALEL PORTEN, A Grammar of Egyptian Aramaic (G. Garbini)........ H. ÇAMBEL, Corpus of Hieroglyphic Luwian Inscriptions (Fiorella Scagliarini)........................ HERMAN BEHRENS, Die Ninegalla-Hymme. Die Wohnungnahme Inannas in Nippur in altbabylonischer Zeit (Stefano Seminara) ................................................................................................ M. COOPERSON, Classical Arabic Biography. The Heirs of the Prophet in the Age of al-Ma’mu¯ n (Biancamaria Scarcia Amoretti) .................................................................................................. États, sociétés et cultures du monde musulman médieval (Biancamaria Scarcia Amoretti) ..... FLORIAN SOBIEROJ Ibn Hafı¯f asˇ-Sˇ ¯ıra¯ zı¯ und seine Schrift zur Novizenerziehung (Kita¯ b al-Iqtisa¯ d) ¯ ˙ (Samuela Pagani) ......................................................................................................................... A.M. EDDÉ’ La principauté Ayyoubide d’Alep (Biancamaria Scarcia Amoretti) ........................ A. R. LALANI, Early Shica Thought. The Teaching of Ima¯ m Muhammad al-Ba¯ qir (Biancamaria ˙ Scarcia Amoretti) ......................................................................................................................... MIHAI MAXIM, L’Empire Ottoman au Nord du Danube et l’autonomie des Principautés Roumaie nes au XVI siècle. Études et documents (Giuseppe Cossuto) ........................................... PÁL FODOR, In Quest of the Golden Apple. Imperial Ideology, Politics and Military Administration in the Ottoman Empire (Giuseppe Cossuto) .............................................................. R. SHAMIR, The Colonies of Law. Colonialism, Zionism and Law in Early Mandate Palestine (Lucia Rostagno) ............................................................................................................................... C. POUJOL, Le Kazakhstan (Ciro Lo Muzio) .................................................................................. Mir’a¯ t al-asra¯ r by Shaykh ‘Abd al-Rahma¯ n Chishtı¯. Urdu¯ translation form Persian and introduction by Mawla¯ na¯ Wa¯ hd Bakhsh˙ Saya¯ l Sa¯ bira (Fabrizio Speziale) ........................................ PREM CAND, I racconti di˙ Tolstoj, (Giorgio˙ Milanetti) ................................................................. L. ALSDORF, Kleine Schriften: Nachtragsband, herausgegeben von Albrecht Wezler (Paolo Daffinà) ........................................................................................................................................ E. FRANCO, K. PREISENDANZ, Beyond Orientalism. The Work of Wilhelm Halbfass and its Impact on Indian and Cross-cultural Studies (Federico Squarcini) ................................................... VALDO FERRETTI e GIANCARLO GIORDANO, La rinascita di una grande potenza. Il rientro del Giappone nella società internazionale e l’età della Guerra fredda (Daniela Tozzi Giuli) ........

207 208 213 218 220 221 223 225 227 229 233 236 237 241 244 248 250

SCHEDE BIBLIOGRAFICHE E. LEUMANN, Kleine Schriften, herausgegeben von Nalini Balbir (Paolo Daffinà).................... B. PLUTAT, Catalogue of the Papers of Ernst Leumann in the Institute for the Culture and History of India and Tibet (Paolo Daffinà) .................................................................................

255

LIBRI RICEVUTI............................................................................................................................

259

256

SUPPLEMENTI M. PRAYER, The «Gandhians» of Bengal. Nationalism, social reconstruction and cultural orientations 1920-1942

[1]

1

RICERCHE SULLA SCRITTURA EGIZIA – V APORIE DELLA NOTAZIONE LINGUISTICA EGIZIA NEL III E II MILLENNIO A.C. La scrittura geroglifica è il cardine della scrittura egizia, mentre la scrittura ieratica è ricalcata su di essa, pur assumendo proprietà individuali, che variano nei diversi periodi e contesti di applicazione. La scrittura egizia costituisce un sistema logico originale, che si definisce nella molteplice varietà delle sue applicazioni. Alla sua base stanno i «logogrammi», ossia segni direttamente aderenti ai vocaboli, tanto nelle loro componenti fonetiche quanto in quelle semantiche. A causa di ciò i logogrammi per principio possono ricalcare una unica lingua, appunto quella in cui determinate proprietà fonetiche e semantiche coincidono. Nondimeno i logogrammi sono contraddistinti da una spiccata polisemia, laddove occorre tenere distinti il funzionamento della scrittura egizia nell’età arcaica (III millennio) e i suoi adattamenti seriori, segnatamente nel I millennio a.C., dove si riscontrano contaminazioni e reazioni rispetto alle altre scritture adoperate nell’area. La polisemia dei geroglifici nei templi tolemaici è un fenomeno che nasce dalla relativizzazione linguistica (dal II millennio). La polisemia dei logogrammi si esercita tanto con differenze di lettura (es. mr : ∫b, ma in ieratico si distinguono con due segni peculiari; = sb∫ : wnw(t) ∫ ∫ : dw∫ ), quanto con differenze di significato (es. sb∫ = «insegnare», ∫ ∫ «porta»). Ad essa corrisponde la polifonia dei fonogrammi: = ∫ (r, l), e la poli∫[nr]. È talora ingrafia dei suoni: l = [∫], [n], [r], ∫ certo se si tratti di polifonia o di poligrafia o di effettivi mutamenti fonetici, come nel caso di h scritto sˇ nei Testi delle Piramidi. Si sono suppo¯ sti mutamenti non solo nel tempo (come t > t, notato con due caratteri ¯ diversi), ma anche nello spazio, senza che ciò comporti l’adozione di un carattere diverso (es. d > », notati entrambi con lo stesso carattere

2

Alessandro Roccati

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per [»])1. La polisemia e polifonia dei logogrammi possono altresì esser connesse ad alloglossia, ma solo in quanto questa venga integrata nel sistema linguistico primario. m∫∫ , ad Asiut vale ptr «vedere» (Urk.VII 66,11)2 ∫∫ n (negazione), ad Asiut vale b (negazione). Ciò richiama il carattere composito dell’egiziano (come di ogni lingua veicolare), quale si palesa dalla presenza di allotropi lessicali come «contare»: ∫ıp, hsb, tn. B. van de Walle, Mélanges Vercoutter, Paris 1985, 366 nota 9 ∫ır : »n; ˙ ¯ sdm: ∫ıdn. Tale varietà è piegata ad un gioco stilistico, per esempio nei Testi delle ¯ Piramidi: 256 a (sk : tm «annientare»), 258 b (qm∫ : ms «creare»), 259 a (m∫ : ptr ∫ ∫ «vedere»), mediante l’accostamento dei sinonimi. Nondimeno la creazione di valori fonetici alternativi è anche dovuta a riflessioni speculative, ad esempio nel caso di (lingua), che accanto al valore proprio ns, rende (dal Medio Regno) anche mr (< ∫ımy-r: «quello che sta nella bocca», lingua è maschile in egiziano). Tale apertura giustifica la notazione di alterazioni fonetiche subentranti: AR h > sˇ ¯ MR tw > tw ¯ npr > nfr (dio del grano) -t > 0. L’equiparazione delle due sibilanti, s, e z, a partire dal regno di Sesostri I, può significare una effettiva assimilazione dei due suoni, le cui notazioni, che si duplicano ora vicendevolmente, divengono esempi di poligrafia. Prescindendo dal processo storico, che potrebbe avere portato ad una fusione di due sibilanti diverse, si potrebbe però anche ravvisare nel fenomeno un caso di polifonia, ossia e renderebbero, dall’età di Sesostri I in poi, indifferentemente tanto s quanto z, esattamente come e varianti potevano rendere tanto r quanto l. Si tratterebbe in tale modo di una semplificazione del sistema fonetico nella grafia. Inoltre il fatto che esista un carattere per esprimere un determinato suono (es. = d, = r) non impedisce che, per lo meno in determinate condizioni, sia adoperato un altro carattere per rappresentare apparentemente lo stesso suono: [r] = d, [∫] = r.



1 H. SATZINGER, Egyptian in the Afroasiatic Frame: Recent Egyptological Issues with an Impact on Comparative Studies: Afroasiatica Neapolitana. «Studi Africanistici. Serie Etiopica» 6. Istituto Universitario Orientale, Napoli 1997, 27-48: 27-33; IDEM, Egyptian »ayin in variation with d: Ling.Aeg. 6 (1999) 141-151. Si potrebbe anche supporre che all’origine vi fosse un «clic». 2 Cfr. E. EDEL, Die Inschriften der Grabfronten der Siut-Gräber in Mittelägypten aus der Herakleopolitenzeit (Abhandlungen der Rheinisch-Westfälischen Akademie der Wissenschaften 71), Opladen 1984, p. 87-88.

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Ricerche sulla scrittura egizia - V

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L’equiparazione di s e z è di carattere secondario come si evince dall’uso dei logogrammi, che conservano parzialmente la distinta distribuzione originaria in rapporto alle sibilanti. Così /ms non si adopererà normalmente nel gruppo originario mz (ad esempio in mzh «cocco˙ drillo». Per converso, come gli stessi logogrammi possono esprimere diversi valori fonetici (es. : mr e ∫b), e diversi logogrammi possono esprimere gli stessi va∫ , lori fonetici (es. mr: , ), così i valori portati dalle unità minime (i cosiddetti «segni unilitteri»), nella loro varietà, si ripropongono nei segni con natura fonetica complessa. La loro peculiarità risiede nella proprietà che le possibilità di variazione si applicano non solo al segno (geroglifico e per lo più corrispondente ieratico, es. = g e ns(t), e = n), ma che lo stesso suono identificato in modo convenzionale nella trascrizione in alfabeto latino a guisa di un «carattere», può ricoprire una molteplicità di valori. Questa molteplicità si applica egualmente ai segni complessi di cui il «carattere» è componente. Ad esempio, posto che «r» vale «r», «l», «d», tale polivalenza si riscontra altresì nei segni complessi di cui il carattere «r» ( ) è dato come componente: «»pr», che rende il semitico »abd3; ns, che nel significato «lingua» riproduce certamente ls, cfr. copto . In tale molteplicità si osserva una differenza di frequenza tra la scelta dei valori, laddove solitamente uno di essi tende a predominare e ad escludere successivamente gli altri. Quando il sistema volle precisare il valore fonetico effettivo, poté agire tanto sulla variazione dei caratteri: ad esempio «l» poteva esser reso sia con ∫ , sia con n, ∫ sia con r, ossia possedeva una poligrafia – sia mediante il cumulo dei caratteri: nr (e forse ∫ r) = l, cfr. tw per notare «t» effettivamente pronunciata. Per converso ∫ l’uso sistematico e regolare di un determinato carattere non è di per se garanzia di un organico e coerente valore fonologico, anche a prescindere dai mutamenti diacronici (si veda il caso di «»pr», che rende egualmente »abd). Tale facoltà concerne indubbiamente i logogrammi che nel tempo subirono alterazioni fonetiche, come sdm > sdm. Essa si riscontra anche relati¯ vamente ai singoli caratteri, ad esempio t quando > t può valere sia come ¯ t, sia come t, tanto che nella XI dinastia si aggiunge un tratto diacritico per di¯ stinguere il valore originario ( ). L’alternamento dei valori può pertanto variare nelle diverse fasi storiche, generando o sopprimendo possibilità alternative. Non è possibile dire quanto tale situazione debba ad esigenze orali, ma essa si presenta connaturata al sistema grafico e non dipende necessariamente 3 Tesi di O. Rössler (1966), confermata apud TH. SCHNEIDER, Die semitischen und ägyptischen Namen der syrischen Sklaven des Papyrus Brooklyn 35.1446 verso: UF 19 (1987) 255-282: 258-260. Le obiezioni di J. OSING, Zum Lautwert von [∫ ] und [»]: SAK 24 (1997) 223-229, si riferiscono ad altre proposte del



Rössler. In tutti i casi si discute per l’identificazione di un valore univoco dei singoli grafemi geroglifici.

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da esigenze fonologiche. Ne deriva che la scrittura egizia non solo prescinde dai principi alfabetici, ma neppure si può considerare fonematica. Il suo sistema consiste nella definizione di caratteri che hanno anzitutto un valore distintivo a livello grafico, e solo secondariamente corrispondono a suoni distinti della lingua (ad esempio = sdm e sdm). ¯ Vi si può confrontare, come lontana analogia, a titolo esplicativo, fenomeni della grafia dell’italiano, come il doppio valore di «c» in casa e in cena, di «s» in casa e in rosa, di «z» in zigomo e in rozzo, ecc., che ancora son dovuti ad eventi di fonetica storica. Le aporie nella notazione del sistema fonetico egizio sono quindi di ordine tanto sincronico quanto diacronico. Esempi: Fase antica Il carattere ∫ rende r fino al MR, poi diviene 0. ∫ Il carattere n rende n e l, cfr ns «lingua», semitico lisan, copto ; copto < n∫ «articolo plurale». ∫ carattere r rende r, cfr r «bocca», copto . Il Lo scambio dei caratteri r, n, ∫ rivela il fonema l. ∫ Il carattere r rende d, cfr »pr che rende semitico »abd (dove p rende semitico b). Il carattere p rende p, cfr copto < p∫. ∫ Il carattere della negazione ( ) può esser letto n e b4. Fase nuova Il carattere b (scritto bw) rende m (oltre a b), cfr bwpw.f (< n p∫.f), copto ∫ . Il carattere ∫ vale 0: scrittura etimologica o, a volte, impropria. ∫ Il gruppo tw rende t (effettivamente pronunciato: dal MR) a seguito di evoluzione fonetica. Si attua quindi un procedimento per connotare nella scrittura suoni che non si pronunciano più, e altri che, contro le attese, sono conservati nella pronuncia effettiva. Si ricordi la grafia rı∫ = r > ∫ı/0. Tale polivalenza è già stata postulata a proposito di una eventuale notazione vocalica5. Le cosiddette aporie non discendono probabilmente da motivi di ordine fonetico, ma debbon trovare la loro giustificazione nella dinamica dello sviluppo del sistema, che è altra da quella dei requisiti fonetici dell’«alfabeto», pur interferendo naturalmente anche con esigenze propriamente fonetiche. Ed è 4 J.J. CLÈRE, L’ancienneté des négations à b initial du néo-égyptien: MDIK 14 (1956) 29-33; H.G. FISCHER: WZKM 57 (1961) 70-71 nota 29; cfr. P. LACAU, Sur le système hiéroglyphique, Cairo 1954, p. 17. 5 A. ROCCATI: La notazione vocalica nella scrittura geroglifica: OA 27 (1988) 115-126.

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Ricerche sulla scrittura egizia - V

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questa la ragione per scrivere nfr anziché npr «grano» nel II Periodo Intermedio6, notare occasionalmente sdm per il più antico sdm, scrivere la desinenza ¯ della I pers. sing dello pseudoparticipio .kw, e così numerosi altri esempi. Nello stesso tempo, quando troviamo scritto, ad esempio, »pr, dobbiamo ammettere che questa grafia possa definire i fonetismi »pr (come i Khabiru > Ebrei?) e »bd (il semitico »abd «servo»). Tale indifferenza del sistema verso la notazione fonematica complica sia gli spunti comparativi (dove non è automatica la corrispondenza tra tale carattere egizio e tale suono di altra lingua), sia i confronti diacronici all’interno dello stesso sviluppo linguistico egizio. Si comprende come gli Egizi stessi, quando volessero precisare la pronuncia fedele, almeno approssimativamente, di un vocabolo nel loro tempo ricorressero all’accostamento di omofoni. È questo uno dei procedimenti che si osservano nel Nuovo Regno per la scrittura di vocaboli non egizi (la cosiddetta scrittura sillabica, o di gruppo, termini entrambi non soddisfacenti), e che viene ampliato in età romana7. Ad Asiut, nelle iscrizioni del primo Medio Regno, si nota un numero insolito di valori inusuali, il che pone la questione della possibilità di scrivere varietà di lingua diverse da quella base. Es. l’occhio vale ptr anziché m∫∫ , ∫∫ laddove ptr appare pur sempre come un vocabolo incluso nella lingua e destinato a diffondersi; in neoegizio esso risulta prevalente. Dietro a ciò vi è la questione della composizione linguistica dell’Egitto, tanto molteplice quanto inconsapevole, quale è riflettuta dalla lingua codificata nella scrittura. Essa si avverte anche nella presenza diacronica di allotropi (»∫ : neoeg. dy, cfr. Loprieno ∫ e Kammerzell8). La scrittura potrebbe anche occultare l’esistenza di tali allotropi, mediante valori distinti conferiti allo stesso carattere; in tale caso il passaggio al neoegizio presenta una vera e propria struttura grafica alternativa9. Si distinguono quindi tre gradi di rappresentazione fonetica: 1. Il logogramma cambia struttura a seguito di mutamenti fonetici, es. sdm >sdm. ¯ 2. Si cambia con un logogramma rispondente alla nuova e diversa realtà fonetica, es. npr > nfr.

6 P. VERNUS, A propos de la fluctuation P/F: Form und Mass (Fs. Fecht), Ägypten und Altes Testament 12, Wiesbaden 1987, 450-455. Agli esempi dati per Nfr = Npr, si aggiunga KRI I 74, e Medinet Habu II 116, 5, cfr. Stationen. Beiträge zur Kulturgeschichte Ägyptens (Festschrift Stadelmann), Mainz 1998, p. 267, ed egualmente Wb II 261, 4-5 (copto ). 7 J. OSING, Hieratische Papyri aus Tebtunis, Carlsberg Papyri 2 (CNI Publications 17), Copenhagen 1999. 8 Festgabe Westendorf, Göttingen 1994, p. 127 nota 40. 9 Cfr. nota 1.

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3. Si procede a una diversa determinazione dei valori fonetici dei caratteri (unità) componenti, es. »pr = »abd. Tale versatilità dovrebbe concernere anche la considerazione delle vocali, sia nella loro assenza dalla scrittura, sia nella possibilità di accoglierle nel sistema grafico. Così il segno ∫ı poteva rendere a, i, e anche u, come dimostra la grafia if, variante di ∫ı(w).f, *uf, copto «carne». Ciò indica la possibilità che, nell’Antico Regno, tale valore intervenisse nella prima persona singolare dello pseudoparticipio .kı∫ (*.ku), mentre successivamente parve utile adottare la grafia *.kw per designare lo stesso valore *.ku. Se questa spiegazione, che rovescia quella tradizionale10, è valida, confermerebbe che talora furono le convenzioni grafiche a mutare, e non le strutture fonetiche (si veda quanto già detto sopra su s/z). È infine verosimile che tale flessibilità dei suoni operasse a livello di sillaba11. È stato osservato12 che la notazione fonetica di elementi grammaticali, e pertanto non aventi natura di logogrammi, è interconnessa con la struttura fonetica interna dei logogrammi cui si applica. Ad esempio = ntr, = ¯ ntry: in tale caso la desinenza -y è specificata non mediante un simbolo proprio, ¯ ma attraverso l’aggiunta del complemento fonetico [r] a ntr. Ne deriva che la ¯ pronuncia reale possiede implicazioni per la specificazione di elementi aggiunti, e che la notazione di questi non è dovuta semplicemente ad esigenze grammaticali. Si veda ad esempio la (non) scrittura del pronome personale suffisso ∫ı nelle iscrizioni dell’Antico Regno. Analogamente si deve forse spiegare la scrittura costante della terminazione femminile -t anche quando essa non era notoriamente più pronunciata: distinzione del genere, e soprattutto della struttura interna. Non si tratta quindi soltanto di un residuo dovuto a grafia storica. Fatti del genere possono esser rivelati dallo studio di assonanze non apparenti a livello di scrittura13. La polisemia dei logogrammi è ammessa anche a livello puramente semantico, ad esempio nei procedimenti di animazione: con braccia: , con gambe: con altri movimenti: , 10 11

EDEL, Altäg. Gram. § 881. S. YEIVIN, The Sign [∫ ] and the True Nature of the Early Alphabets: Ar.Or. IV (1932) 71-78: 75: «The



Egyptians never adopted the alphabetic writing for the very simple reason that they did not know it». 12

W. Schenkel, in Quaerentes Scientiam (Festgabe Westendorf), Göttingen 1994, p. 165, cf. J. Osing, Nominalbildung, Mainz 1976, p. 309-320. 13 A. ROCCATI, Scritture ellittiche in egiziano: VO 7 (1988) 35-38; cfr. W. GUGLIELMI, Funktionen des Wortspiels: Fs. Westendorf, Göttingen 1984, I, 491 ss.; C.T. HODGE, Ritual and Writing: an inquiry into the origin of Egyptian Script: Linguistics and Anthropology (Studies in honor of C.F. Voegelin), Lisse 1975, p. 331-350; E. EDEL: Enchoria 18 (1991) 179 ss.; RdE 47 (1996) 171.

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Ricerche sulla scrittura egizia - V

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con la notazione del valore attivo attraverso la simbologia del divino: 14 . determinativo In queste aporie rientrano anche le cosiddette notazioni fonetiche di alcuni logogrammi, la cui lettura effettiva diverge da quella delle componenti specificate, es. nsw «re», ∫ıt «padre», ∫ıty «sovrano»15, Wsı∫r16, st. Altrettanto si può osservare circa la decomposizio∫∫ ne in fonogrammi fittizi di segni tratti dallo ieratico, ad es. snk = st (geroglifico , decomponibile in ieratico nei caratteri s-n-k). Inoltre vi si possono accostare alcune notazioni particolari al neoegizio, come bw per m copto ). Ciò può indicare che anche la flessibilità fonetica rientrasse nell’elasticità del sistema, per il quale le cognizioni possedute non erano in grado di produrre maggiore rigidità. Sorge quindi anche il dubbio che la scrittura egizia sia stata modellata su una lingua unica, la quale non era probabilmentre ancora né formata né concepita al momento dell’invenzione della scrittura, poiché essa mostra aporie a livello di sistema, le quali rivelano mancanza di unitarietà della lingua letteraria17 che serve da base: mancanza tanto sincronica (presenza di allotropi), quanto diacronica (trasformazioni fonetiche e grammaticali fino a produrre una nuova struttura linguistica). In tale modo il passaggio da una scrittura = una lingua a una scrittura = due (o più) lingue è contraddittorio rispetto alla fissità iniziale dell’interfaccia linguistico, ma rivela un carattere intenzionale, dovuto alla maturazione del processo culturale. Si deve prendere atto che la scrittura egizia, benché essa nasca in funzione di una notazione linguistica unitaria ed esclusiva, non rinuncia per questo ad un certo numero di aggiustamenti, imposti dalle variazioni culturali cui essa si trova applicata, e permessi dalla mancanza di una teoria evoluta intorno alla scrittura e alla lingua. ALESSANDRO ROCCATI

14 A. ROCCATI, Lessico dinamico nell’egiziano antico: The Two Faces of Graeco-Roman Egypt. Greek and Demotic and Greek-Demotic Texts and Studies Presented to P.W. Pestman (A.M.F.W. Verhoogt e S.P. Vleeming ed.), Papyrologica Lugduno Batava 30, Leiden 1998, 87-92. 15 CH. SAMBIN: BIFAO 95 (1995) 432. 16 D. LORTON, Contribution on the Origin and Name of Osiris: VA 1 (1985) 113-128: 124 nota 27 c; YOSHI MUCHIKI, On the Transliteration of the Name Osiris: JEA 76 (1990) 101-194. 17 A. ROCCATI, Conservatività dell’egiziano: Atti della terza Giornata di studi camito-semitici e indoeuropei, Roma 1984, p. 107-115.

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SUMMARY The writing of the ancient Egyptians displays a number of features that do not agree with a unitary language. In spite of the fact that in archaic times language and writing are considered a unique entity, actually they work different ways, either synchronically or in progress of time. Such observations can be explained with the lack of an accomplished linguistic experience at the beginning of written sources, regardless of the effort to lay down a unitary state expression. Here some particular cases are raised, which show the embarrass felt by the ancient Egyptians in front of variations and changes not foreseen in the current theory of the Egyptian language.

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LES DÉSINENCES MODALES EN BERBÈRE1 En berbère, il existe un certain nombre de désinences et de clitiques postverbaux qui sont restreints à un emploi modal2. Ceci ne veut pas dire que toutes les nuances modales sont exprimées par un jeu de désinences spéciales: au contraire, la signification très souvent modale de la forme non-réelle ad + aoriste est exprimée dans la plupart des dialectes par les désinences ‘normales’ du verbe. Dans ce qui suit, nous distinguerons plusieurs types de désinences et clitiques verbaux. Les désinences de la deuxième personne seront appelées impératifs, les désinences de la première personne cohortatifs. L’élément appelé injonctif est employé avec les premières et troisièmes personnes.

1. L’IMPÉRATIF La forme spécifiquement modale la plus répandue est l’impératif. Les désinences sont partout pareilles, la plus importante différence porte sur la vocalisation du pluriel. Comme dans le paradigme ‘normal’, l’impératif de la deuxième personne ne distingue pas le genre au singulier, tandis que le pluriel masculin et féminin ont leurs désinences propres.

1 Les recherches menant à cet article ont été faites dans le cadre d’un finacement du part de l’Académie Royale Néerlandaise des Sciences et des Lettres. Nous voulons remercier ici Orin Gensler (Leipzig) pour ses commentaires sur une version préliminaire de cet article et Harry Stroomer (Leyde) pour nous avoir donné l’accès aux données informatisées de son Dictionnaire tachelhit-français en préparation. Plusieurs idées proposées dans cet article ont été développées pendant des discussions avec Nico van den Boogert (Vlaardingen) qui, lui-même, a déjà donné un aperçu de la problématique en chleuh dans van den Boogert (1997). Qu’il soit remercié ici encore une fois. Dans les transcriptions du berbère, est employée pour schwa, tandis que est employé pour la voyelle [e]. 2 Nous ne voulons pas aborder ici la question dans quelle mesure l’impératif est un ‘mode’ tel quel dans le système verbal berbère. Comme notre étude est strictement morphologique, nous espérons que le lecteur nous excusera l’emploi libéral des termes ‘mode’ et ‘modal’.

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chleuh Augila Moyen Atlas 2s. ❑ 2pm. ❑-at 2pf. ❑-amt

❑ ❑-at ❑-imt

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touareg Ghadamès kabyle Figuig

❑ ❑ ❑-at ❑-a˘ t ❑-emt > ❑-enn ❑-ma˘ t

❑ ❑-a˘ t ❑-ma˘ t

❑ ❑-et ❑-emt

❑ ❑-et ❑-emt

Dans tous les dialectes, l’impératif du singulier est marqué par l’absence d’une désinence phonétiquement réalisée Il existe une différence dialectale dans la vocalisation du pluriel. Tandis que le chleuh, le berbère du Moyen Atlas et Augila ont des formes à /a/ plein initial (à Augila la voyelle /i/ peut provenir de */a/), les autres dialectes ont une vocalisation brève. La désinence du pluriel féminin a – abstraction faite de la voyelle pleine éventuelle – la même forme que la 2e personne du pluriel dans le paradigme normal. Par analogie, plusieurs dialectes ont introduit le suffixe de la 2e personne du pluriel masculin ‘normal’ -em dans le paradigme impératif, p.ex. Beni Snous ffv-em «sortez». Ceci se trouve surtout dans les parlers zénètes du Maroc oriental et de l’Algérie occidentale: rifain (à côté de formes avec -et), certaines ¯ variantes du parler des Ait Seghrouchen (Imouzzar, Oum Jeniba), Beni Snous. La même analogie - sans doute un développement indépendant - est trouvée en Libye à Elfoqaha. Deux dialectes ont une forme alternative où la désinence -et de la 2e personne du pluriel masculin est précédée d’un /w/. Ceci est le cas à Siwa et, à côté de la forme sans /w/, en touareg nigérien (Iwellemmeden et Ayr):3 Siwa m/f. s. m/f. p.

zenz zenz-wet

Iwellemmeden m/f. s. m.p. f.p.

(Aghali-Zakara 1986: 32) a˘ kteb «écris!» a˘ kteb-a˘ t, a˘ kteb-wa˘ t a˘ kteb-ma˘ t

«vends!»

3 La forme -wa˘ t n’est pas mentionnée dans les tableaux de Prasse e.a. (1998: 418 ss.). Les formes d’Aghali-Zakara sont confirmées par le manuel Learning Ta˘ maje q (s.a. s.d. s.l., p. 45), préparé par le Summer Institute of Linguistics, où l’on trouve les formes qama˘ t da, qamiwa˘ t da (p. m.), qamima˘ t da «sit down here» et qamiwa˘ tana˘ v (1 p. m.) et qamima˘ tana˘ v (1 p. f.) «let’s sit down». Cf. aussi en touareg de l’Ayr (Niger) les deux phrases équivalentes éyya˘ t tu et éyyîwa˘ t tu «laissez-le!» (CASAJUS 1985: 109, lignes 5 et 6).

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Les désinences modales en berbère

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L’absence de la distinction de personne au pluriel de l’impératif à Siwa correspond avec son absence dans le paradigme ‘normal’. En chleuh, il est possible d’emphatiser un ordre par l’emploi d’une particule, iw. Il n’est pas clair dans quelle mesure cette particule est encore vivante en chleuh moderne, mais son existence est assurée pour la période prémoderne (XVIe au XIXe siècles) par son attestation dans les textes manuscrits (van den Boogert 1997: 281-2). La particule iw est trouvée avec les impératifs ainsi qu’avec les injonctifs. Quelques exemples: swingm iw tigmmi (y) ann mmnad-at iw ignwan i-ttiny it iw bdda

«pense à cette maison!» «regardez les cieux!» «qu’il dise toujours!»

A ma connaissance aucun dialecte berbère hors du chleuh n’emploie cette même particule. Il existe cependant dans plusieurs autres parlers marocains des traces de la particule iw dans la flexion de l’impératif: (a) En rifain, il existe un morphème porte-manteau -ttiw qui exprime le pluriel de l’impératif en combinaison avec la particule de rection d «vers ici», p.ex. Kebdana ffv-em «sortez (par là)», ffv-ettiw «sortez vers ici». Il est probable que cette forme, qui n’est pas analysable dans la langue actuelle, a son origine dans la fusion des trois éléments -et + d + iw, c’est à dire, la désinence de ¯ l’impératif du masculin pluriel -et, la particule de rection d et la particule ¯ iw. (b) Au Moyen Atlas, plusieurs dialectes ont une désinence -iw qui exprime l’impératif du pluriel masculin. Dans certains dialectes, cette désinence est presque uniquement trouvée avec les formes pseudo-verbales qui sont seulement employées à l’impératif, comme p.ex. en Zayane (Loubignac 1924: 158-160): 2s. 2pm. 2pf.

k sˇem k sˇm-at ¯ amz-enn ˙

«entre!» «entrez!» «prenez!»

awra awr-iw awr-inn

«viens!» «venez!» «venez!»4

Parmi les vrais verbes, il y a quelques-uns qui peuvent être conjugués avec le suffixe -iw, -inn, comme kker «lève-toi» (pluriel: kkr-iw, kkr-inn). 4 La désinence du féminin pluriel -inn provient de *-imt. L’origine de la voyelle /i/ dans cette forme est inconnue.

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Maarten Kossmann

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Un petit nombre de dialectes emploie la désinence -iw avec tous les verbes. Ceci est notamment le cas dans les dialectes méridionaux des Ait Seghrouchen (Haute Moulouya, Bou Dnib), où l’on trouve à côté de formes avec la désinence -at, des formes comme nv-iw «tuez», qqim-iw «assiez-vous», cˇcˇat-iw «battez régulièrement». Pellat (1955: iii) dérive cette désinence de l’impératif pluriel des verbes à troisième radicale faible en arabe marocain (type msˇiw «allez-vous-en»). Cette dérivation, répétée avec point d’interrogation par Taïfi (1991: 873), nous semble peu probable. Il est plus probable que l’on a à faire ici à la particule iw déjà mentionnée. Les faits en Zayane montrent la voie par laquelle cette particule a été réinterprétée en tant que désinence de l’impératif pluriel. Dans un premier stade, la particule a été fixée aux éléments pseudo-verbaux pour exprimer l’impératif du pluriel. De cette façon, ces éléments, qui étaient probablement des particules sans expression de la personne ou du genre, ont été introduits dans les oppositions paradigmatiques verbales. Après, le suffixe -iw a été transféré aux vrais verbes, d’abord à ceux qui ont une haute incidence à l’impératif (comme kker «lève-toi» en Zayane), puis aussi aux autres verbes. (c) Dans certains dialectes du Moyen Atlas (A. Sibeur), on trouve la désinence -awit (Laoust 1939: 51), p.ex. ¯ A. Sibeur

ak em ak em-awit ¯

«pars!» «partez!»

Il s’agit ici probablement d’une composition de la particule -iw avec la marque de l’injonctif it (v. ci-dessous). Le vocalisme à /a/ au lieu de /i/ est probablement dû à l’influence de la forme alternative, employée dans le même parler, ak em-at. Une analyse alternative, de notre avis moins probable vue la distri¯ bution géographique des formes, serait de lier la désinence -awit aux désinen¯ ces -wet, -wa˘ t à Siwa et en touareg nigérien.

2. LE

COHORTATIF

Le cohortatif est employé à la première personne du pluriel. Il existe deux types de cohortatifs morphologiquement marqués selon les dialectes. Dans certains dialectes, les désinences du cohortatif sont ajoutées aux désinences de l’impératif. Il s’agit donc de formes qui s’insèrent dans le paradigme de l’impératif. Dans d’autres dialectes, les désinences du cohortatif sont ajoutées aux formes de la première personne du pluriel dans le système

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Les désinences modales en berbère

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désinentiel ‘normal’. Il s’agit dans ce cas de formes à signification modale qui font partie du paradigme ‘normal’. La première situation se trouve dans plusieurs dialectes marocains et dans certaines variantes du touareg. En chleuh, on trouve les désinences de l’impératif suivantes (Aspinion 1953: 117)5:

singulier/duel pluriel masc. pluriel fém.

impératif (2e personne) ❑ ❑-at ❑-amt

cohortatif (1e personne) ❑-av ❑-atav ❑-amtav

exemple du cohortatif ddu-y-av «partons! (duel)» ddu-y-atav «partons! (m.p.)» ddu-y-amtav «partons! (f.p.)»

La forme basée sur l’impératif du singulier exprime le duel, une catégorie autrement non exprimée dans le système verbal. Il est clair à partir de ces formes que la marque du cohortatif est -av. Cette forme est identique au clitique pronominal de la première personne d’objet indirect qui est -anv ou -av. Il est donc possible d’interpréter ces désinences du cohortatif comme consistant en l’impératif, suivi du clitique pronominal de la première personne du pluriel. La phrase ddu-y-at av signifie donc originellement «viens (pour) nous» (Bentolila 1981: 140, Galand 1988: 236). Cette expression se serait spécialisée dans l’emploi cohortatif6. Cette analyse est confirmée par le dialecte Ait Seghrouchen d’Oum Jeniba, où les formes suivantes ont été relevées (Bentolila 1981: 141): positif

négatif

1 duel zˇr-ax «jetons (duel)» ad ur ax ggar 1 p.m. zˇr-m ax «jetons (pl. masc.)» ad ur ax ggar-m 1 p.f. zˇrnt ax «jetons (pl. fém.)» ad ur ax ggar-nt

«ne jetons pas (duel)» «ne jetons pas (p.m.)» «ne jetons pas (p. f.)»

Dans ces formes, l’élément ax est mis devant la forme verbale à cause de la suite préverbale ad ur qui entraîne l’attraction. Ce comportement est typique pour les clitiques verbaux d’objet direct et indirect. Le deuxième type du cohortatif est basé sur le paradigme ‘normal’. Il s’agit 5 Comme l’impératif implique par définition la personne adressée, ces formes sont toujours inclusives. 6 La dérivation d’un cohortatif de la première personne du pluriel à partir de la forme de l’impératif pluriel avec le pronom d’objet indirect 1 p. se trouve dans d’autres langues. En bidiya, une langue tchadique du Tchad central, on trouve par exemple l’impératif pluriel -onj, tandis que la désinence 1 p. inclusif est -onj-tenj, avec le pronom personnel objet datif 1 p. inclusif -tenj (ALIO 1986: 297). L’élément /v/ dans la forme Iwellemmeden -a˘ t-ana(v) (à côté du pronom d’objet indirect -ana) doit être analysé comme un vestige d’une ancienne forme où le /v/ final n’a pas été vocalisé (cf. AGHALI-ZAKARA 1986: 32).

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Maarten Kossmann

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de formes qui sont uniquement employées en coordination avec la particule du non-réel ad. Les formes du deuxième type peuvent être analysées comme le préfixe de la première personne du pluriel, combiné avec un suffixe qui est identique aux suffixes désinentiels de l’impératif. A Figuig, on trouve par exemple: 1 p. commun 1 p.m. 1 p.f.

n-❑ n-❑-(e)t n-❑-(e)mt

p.ex.

an n-ezwa ˙ an n-ezwa-t ˙ an n-ezwa-mt ˙

«allons-en» «allons-en (m.)» «allons-en (f.)»

Les mêmes formes sont attestées en rifain (Gueznaya a n-ekkaa-t « levons¯ nous», n.p.), au Mzab, à Ouargla (Delheure 1989: 56), en kabyle (Vincennes & Dallet 1960: 26) et en touareg nigérien (Iwellemmeden) (Aghali-Zakara 1986: 31). Dans certains parlers kabyles, ces formes sont très rares (Chaker 1983: 206). Chez les Kebdana (rifain oriental), une variante peu fréquente 1 p.m. n-❑em a été notée. Cette variante est employée dans un dialecte où la désinence de l’impératif p.m. est -em au lieu de -et. ¯ Dans tous ces dialectes, les formes de la première personne avec suffixe sont employées à côté de formes sans suffixe. Pour le mozabite et le ouargli, Delheure n’a pas indiqué une différence de signification entre les deux formes. Pour le kabyle, où la forme est d’une incidence très faible, une telle différence n’existe certainement pas (Chaker 1983: 206). Pour le dialecte de Figuig, nous avons observé une tendance à la restriction des formes à suffixe aux groupes de plusieurs personnes. La forme sans suffixe peut être employée dans tous les contextes. A Figuig, les cohortatifs à base d’impératif (type kkr-av-dd) existent à côté de cohortatifs à base ‘normale’ (type an n-ekkr-et). Il y a une tendance à un emploi spécialisé pour les différentes formes: 1 duel 1 p.m. 1 p.f.

❑-av-dd7 (an) n-❑-et (an) n-❑-emt

(base: impératif) (base: normal) (base: normal)

A côté de ces formes, il est toujours possible d’employer la forme normale de la première personne du pluriel précédée de la particule du non-réel ad pour exprimer une cohortation. 7 A Figuig, l’emploi de la particule directionnelle dd est obligatoire avec les pronoms de l’objet indirect de la première personne (KOSSMANN 1997: 183-184). Cette situation est se retrouve de la même façon avec les cohortatifs dérivés de ces formes.

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Les désinences modales en berbère

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En touareg Iwellemmeden, enfin, il y a trois manières différentes d’exprimer l’injonctif/cohortatif: le cohortatif sur base de l’impératif, le cohortatif sur base du paradigme ‘normal’ et l’injonctif (v. ci-dessus). Cf. les formes de la première personne du pluriel masculin suivantes (Aghali-Zakara 1986: 31-32): cohortatif I cohortatif II injonctif

a˘ kteb-a˘ t-ana(v) n-ekteb-a˘ t n-ekteb-ét

«écrivons!» «écrivons!» «que nous écrivions, écrivons!»

Il semble que les deux premières formes sont plus ou moins équivalentes, tandis que la dernière forme exprime plutôt l’injonctif, le concessif et le souhait (Aghali-Zakara 1986: 31)8.

3. L’INJONCTIF Dans un article de 1954, Arsène Roux signalait l’existence d’une forme spéciale pour dénoter l’injonctif dans plusieurs variantes berbères. Sa brève notice était reprise trente ans plus tard par Leguil (1983), qui fit une analyse de l’emploi de cette forme en touareg et en chleuh. Il s’avère qu’en touareg, la signification de base est injonctive («qu’il vienne!»), tandis qu’en chleuh la signification est très souvent concessive («qu’il vienne ou non - n’importe»). En chleuh, un emploi injonctif est aussi possible (cf. Leguil 1983: 134-5). Dans ce qui suit, la forme employée pour exprimer l’injonctif et le concessif des première et troisième personnes sera appelée ‘l’injonctif’. L’injonctif n’est pas attesté dans tous les dialectes. Il se peut que ceci soit dû, en partie, à un manque de matériaux. Il existe cependant des dialectes où cette absence est assurée, comme le rifain et le dialecte de Figuig. L’injonctif est attesté en touareg, en chleuh et à Ghadamès. Les formes de l’injonctif en touareg et en chleuh se ressemblent. Il s’agit d’une particule qui suit le verbe à l’aoriste. Exemples: Adagh (Leguil 1983: 129): 1 s. ekf-ev-ét 3 s.m. ekf-ét 3 p. ekf-en-ét

«que je donne» «qu’il donne» «qu’ils/elles donnent»

8 Dans le texte autobiographique en touareg de l’Ayr de Ghadbdouane Mohamed plusieurs formes différentes du cohortatif sont attestées, cf. dans le même paragraphe les formes suivantes: enker-a˘ t˙ ana «levons-nous!», n-egl-awa˘ t «et partons» et n-egl-awa˘ n «partons!» (MOHAMED 1997: 148). La dernière forme contient – semble-t-il – le pronom 2 p. m. de l’objet indirect. Cf. aussi la forme n-eg-iwet «faisons» dans une autre collection de textes en touareg de l’Ayr (asPetites Soeurs de Jésus 1974: 105, ligne 8).

32

Maarten Kossmann Chleuh (Leguil 1983: 129): 1 s. 3 s.f. 1 p. 3 p.f.

fk-v it t-ssawal it n-qql it ggawr-nt it

[8] «que je donne (ou non)» «qu’elle parle (d’habitude, etc.)» «attendons-le» «qu’elles s’assoient»

En touareg, la forme normale de la particule de l’injonctif est ét9. En chleuh, on trouve it à côté de iyt. En touareg et en chleuh, l’indice de l’injonctif suit les indices de la personne. Les exemples touaregs dans Leguil (1983) montrent que l’indice de l’injonctif y précède les clitiques pronominaux et qu’il n’est pas affecté par l’attraction. Ceci donne à cet indice un statut différent de celui des éléments clitiques postverbaux. Il n’est donc pas exagéré de considérer l’injonctif touareg comme un élément désinentiel. Exemples: Ahaggar:

y-as-ét

i

d

il-vienne-INJ

à.moi

vers.ici

u

hi

na¯ qq-ét

ne

me

tue-INJ

«qu’il vienne à moi»

«ne me tue pas»

Pour le chleuh, la situation est moins claire. Nous n’avons pas trouvé d’exemples de l’injonctif en conjonction avec des éléments clitiques. Il n’existe, semble-t-il, aucun contexte syntaxique dans lequel l’injonctif pourrait se trouver en attraction. Pour cette raison, il est impossible de décider si l’injonctif chleuh est un élément flexionnel, un élément clitique ou même un adverbe, comme l’a proposé Roux (1954). Dans le dialecte de Ghadamès, l’injonctif peut avoir deux formes: nét et ét. La forme à /n/ initial est la plus fréquente. A la différence du touareg et du chleuh, l’indice de l’injonctif y est inséré entre la base verbale et le suffixe personnel, s’il y en a: Ghadamès:

1 3 1 3

s. s.m. p. p.

a˘ knef-(n)ét-a˘ e10 y-a˘ knef-(n)ét n-a˘ knef-(n)ét a˘ knef-(n)ét

«que je rôtisse» «qu’il rôtisse» «que nous rôtissions» «qu’ils/elles rôtissent»

La troisième personne du pluriel ne porte pas d’indice de personne. Prasse 9 Pour l’Ahaggar, Charles de Foucauld a noté ¯ıt. Cette notation est corrigée en ét par Prasse (1993: 272). 10 Notons qu’à Ghadamès la désinence normale de la première personne du singulier est -a˘ e (< *-a˘ v).

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Les désinences modales en berbère

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(1971-2: VI/13, note 8) suggère implicitement que ceci soit dû à une réinterprétation de l’indice -a˘ n de la 3 p.m. comme une partie de la marque de l’injonctif. Ceci expliquerait non seulement l’absence de l’indice de personne, mais aussi les formes à /n/. Bien que cette analyse explique les formes ghadamsies à l’aide de matériaux morphologiques connus d’autres variétés berbères, elle comporte plusieurs problèmes. D’abord, on ne voit pas pourquoi une forme **a˘ knef-a˘ n-ét, qui serait parfaitement régulière, aurait été réinterprétée d’une façon tellement déconcertante. Puis, la première personne du singulier montre que l’indice de l’injonctif en ghadamsi est mis devant l’indice de personne. On s’attendrait donc plutôt à **a˘ knef-ét-a˘ n. Enfin, il n’est pas évident pourquoi cette forme à découpement irrégulier se serait étendue au féminin pluriel aussi. On s’attendrait à **a˘ knef-(n)ét-na˘ t ou à **a˘ knef-na˘ t-(n)ét au lieu de la forme f.p. a˘ knef(n)ét attestée. Comment peut-on expliquer les formes ghadamsies? Dans la plupart des dialectes berbères, les seuls suffixes verbaux sont les indices de la personne. De ce fait, l’injonctif ghadamsi présente une exception typologique dans l’ensemble berbère. Dans l’analyse historique, on peut suivre trois chemins: (a) La situation à Ghadamès est originelle. Ceci implique que le suffixe radical -(n)ét a changé son placement en touareg et en chleuh, probablement à cause de l’exceptionnalité typologique d’un tel suffixe dans les langues en question. Il n’est pas impossible que le proto-berbère ait connu un système à suffixes de la base plus étendu que ne l’ont les langues actuelles. On remarque par exemple le suffixe radical touareg -t ∼ zéro dans des verbes comme Iwellemmeden la˘ ng-a˘ t «porter sur le dos» (nom verbal: a-lengi), dont il existe des traces dans à peu près toutes les variantes berbères (Basset 1929). Il faut cependant être prudent avec cette comparaison: le suffixe touareg a un emploi fortement lexicalisé. Il est difficile d’en définir une signification et le nombre de verbes où l’on trouve des formes à suffixe à côté de formes sans suffixe est assez restreint. Il s’agit donc d’un élément constitutif lexical. L’inverse est le cas avec l’injonctif, dont la signification est claire et qui s’attache en principe à tous les verbes. Il s’agit donc d’un élément désinentiel (ou même indépendant). La forme irrégulière de la 3e personne du pluriel n’est pas expliquée par une analyse de ce type. (b) A Ghadamès, la marque de l’injonctif, qui suivait originellement la forme verbale, a subi une infixation. Selon cette analyse, la situation touarègue (ou même chleuhe) est originelle et le placement de l’injonctif à Ghadamès est dû à une innovation. Effectivement, il existe d’autres exemples d’insertion dans le dialecte de Ghadamès. L’élément locatif post-nominal a la forme sg. -i (rare-

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Maarten Kossmann

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ment -én) après un nom qui se termine en une voyelle pleine suivie d’une consonne (Lanfry 1968: 366 ss.), p.ex. allun dazˇ dazˇ ennuk

«trou» «maison» «ma maison»

allun-i dazˇ-i dazˇ ennuk-én

«dans un trou» «dans une maison» «dans ma maison»

Si le nom se termine par une consonne précédée d’une voyelle brève, l’élément locatif est inséré (sous la forme -é) à la place de la voyelle brève11: alluna˘ n vaza˘ r dazˇ enna˘ k

«trous» «fosse» «ta maison»

allun-é-n vaz-é-r dazˇ enn-é-k

«dans des trous» «dans une fosse» «dans ta maison»

Il est possible que les formes ghadamsies de l’injonctif ont subies une insertion comparable. Remarquons que, de même que l’élément locatif, l’indice de l’injonctif semble toujours porter l’accent en ghadamsi12. Cette analyse n’explique pas les formes irrégulières de la troisième personne du pluriel. (c) Selon la troisième analyse l’injonctif ghadamsi porte les traces d’une conjugaison verbale sans suffixes personnels. Selon cette analyse, l’injonctif était originellement un clitique verbal qui suivait des verbes conjugués selon une conjugaison sans suffixes. Ensuite, le suffixe de la première personne du singulier aurait été ajouté par analogie après l’indice de l’injonctif. Selon cette analyse, il est possible de reconstruire le développement suivant: proto-ghadamsi 1s. 3 s.m. 3 s.f. 1 p. 3 p.m. 3 p.f.

*a˘ knef nét *y-a˘ knef nét *t-a˘ knef nét *n-a˘ knef nét *a˘ knef nét *a˘ knef nét

ghadamsi actuel >> > > > > >

a˘ knef-nét-a˘ e y-a˘ knef-nét t-a˘ knef-nét n-a˘ knef-nét a˘ knef-nét a˘ knef-nét

11 Si l’on interprète la notation de la longueur vocalique chez Lanfry comme désignant une voyelle pleine accentuée, on peut changer l’analyse proposée de la façon suivante. D’après les exemples de Lanfry, il semble que l’élément locatif, qui est toujours accentué, est inséré quand la dernière syllabe ne porte pas l’accent. Avec la plupart des noms à voyelle pleine finale, le locatif est exprimé par un changement d’accent, p.ex. almudu «mosquée», almudu «dans une mosquée». L’élément i du locatif existe aussi à Augila (Libye), où il est toujours postposé après le nom (v. PARADISI 1960/2: 158). Dans les textes publiés dans ce dialecte, l’élément i est assez bien attesté (PARADISI 1960/1, p.ex. texte III, l. 2; IV l. 1, 7, 12 ; V, l. 5, etc.). 12 V. la note précédente.

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Cette dérivation explique à la fois l’«insertion» de (n)ét et l’absence d’un indice de personne dans la troisième personne du pluriel. Le dialecte de Ghadamès connaît un paradigme, celui du «futur», dans lequel les première et deuxième personnes du singulier n’ont pas de suffixe personnel. Dans Kossmann (2000), nous avons proposé que ce paradigme soit le dernier vestige d’un paradigme à préfixes proto-berbère qui correspond à la conjugaison à préfixes en sémitique et en couchitique. Dans ce même article, nous avons remarqué que la présence de suffixes dans les personnes du pluriel pourrait être due à l’influence analogique du paradigme «normal». A partir des formes de l’injonctif, on peut formuler l’hypothèse, hasardeuse, que les formes sans suffixe au pluriel de l’injonctif faisaient autrefois partie du paradigme du «futur» à Ghadamès. Autrement dit, la forme a˘ knef, dégagée de l’injonctif, serait la forme originelle de la troisième personne du pluriel dans le paradigme du futur. En ghadamsi actuel, le futur est uniquement employé après le préverbe d du non-réel qui comporte souvent des notions modales comme l’incertitude et le souhait. Remarquons cependant que le «futur» à Ghadamès n’est pas seulement marqué par une série de désinences, mais aussi par une propre vocalisation thématique. L’injonctif ghadamsi, cependant, n’emploie pas la vocalisation thématique du «futur» mais se base sur la vocalisation de l’aoriste. A présent, il est difficile de choisir entre les hypothèses (b) et (c). L’hypothèse (b) se base sur une insertion, attestée ailleurs dans la langue, mais n’explique pas la forme irrégulière de la 3e personne du pluriel. L’hypothèse (c) explique toutes les formes, mais fait allusion à la reconstruction d’un paradigme verbal uniquement attesté à Ghadamès.

4. CONCLUSIONS

HISTORIQUES

La morphologie désinentielle du proto-berbère avait certainement une forme impérative. A côté de cet impératif, il y avait plusieurs affixes ou adverbes qui suivaient immédiatement la forme verbale. L’un de ces éléments (probablement *ét) marquait l’injonctif/concessif. Comme il s’agit d’une forme attestée dans des variantes assez éloignées les unes des autres, il s’agit certainement d’un élément proto-berbère. Il n’est pas clair s’il s’agit originellement d’un élément désinentiel ou plutôt d’un élément adverbial qui, dans certains dialectes, a été intégré dans le système désinentiel. Un autre élément, iw, est trouvé, soit comme adverbe indépendant, soit sous forme de traces, dans plusieurs dialectes du Maroc. Cet élément s’est spécialisé dans plusieurs dialectes pour exprimer la pluralité des

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Maarten Kossmann

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destinataires de l’ordre. Vu la distribution géographique de l’élément, il n’est pas nécessaire de le reconstituer en proto-berbère. Les suffixes du cohortatif sur la base de l’impératif se trouvent au Maroc et en touareg nigérien. Il s’agit d’innovations indépendantes sur la base du pronom clitique de la première personne du pluriel. L’histoire des formes cohortatives à partir des désinences ‘normales’ (comme au Mzab) est moins évidente. Il est possible d’y voir une simple analogie sur la base de l’impératif du pluriel. Le fait que ces formes soient attestées dans des dialectes plus ou moins contigus (à l’exception du touareg nigérien) facilite une telle analyse. Il faut cependant remarquer l’existence à Ghadamès de formes spéciales pour la première personne du non-singulier qui ressemblent aux formes au Mzab etc.: 1 duel/pluriel exclusif 1 pluriel masc. inclusif 1 pluriel fém. inclusif

n-❑ n-❑-a˘ t n-❑-ma˘ t

A Ghadamès, ces formes sont employées avec tous les modes/aspects sauf l’injonctif. La forme sans distinction de genre exprime le duel et le pluriel exclusif (moi et eux). La forme à distinction de genre est employée pour le pluriel inclusif (moi et vous). Le lien historique de ces formes avec les formes cohortatives à Figuig et au Mzab n’est pas clair: pour l’instant, nous préférons une analyse selon laquelle la même analogie avec les désinences de l’impératif du pluriel serait à la base des formes mozabites, ainsi que des formes ghadamsies. Pour terminer, nous voulons signaler une possibilité dans la reconstruction de l’impératif en pré-proto-berbère. La désinence du pluriel féminin est identique au suffixe de la deuxième personne du pluriel dans le paradigme ‘normal’. De ce fait, il n’est pas impossible qu’il s’agisse ici d’une innovation et que le paradigme originel de l’impératif n’eût pas de distinction de genre, ni au singulier, ni au pluriel. L’impératif pluriel masculin (et donc peut-être originellement commun) -a˘ t ressemble à l’élément injonctif ét. On peut supposer qu’il s’agit de dérivations d’un même élément, même si la différence dans la vocalisation reste inexpliquée. Dans ce cas, on peut pousser l’analyse plus loin en expliquant que l’élément de l’injonctif s’est grammaticalisé pour exprimer le pluriel de l’impératif. La même grammaticalisation est attestée (pour une période beaucoup moins reculée) avec iw (v. ci-dessus). Dans ce cas, le paradigme originel de l’impératif aurait connu une seule forme, la forme sans affixe. Il est impossible de dire si cette forme était employée pour le singulier ainsi que pour le

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pluriel ou bien si elle était réservée au singulier et que l’on avait d’autres façons d’exprimer l’ordre à plusieurs personnes13. MAARTEN KOSSMANN

13 Cette dernière situation se trouve par exemple en haoussa, où l’impératif est restreint au singulier, tandis que l’on emploie des tournures subjonctives pour exprimer un ordre au pluriel (Newman 2000: 262).

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SULL’ARCHITETTURA ISLAMICA IN SICILIA LAMENTO DI UN ARCHITETTO IGNORANTE SOPRA UNA ARCHITETTURA INESISTENTE

Il susseguirsi – da molti anni e con frequente cadenza – di convegni, di incontri di studio e di saggi dedicati genericamente alla influenza islamica sull’arte e sull’architettura dell’Italia meridionale e in particolare della Sicilia, mi spinge a raccogliere le mie convinzioni e le mie (scarse) conoscenze, limitatamente al tema «architettura»*; mi spinge anche a renderle note perché possa aprirsi un franco dibattito con esperti di varie discipline ma sopratutto di storici dell’architettura, sgomberando così il campo da una serie di equivoci, pericolosi quanto devianti, su una fase tanto importante della nostra storia e della nostra cultura architettonica. Va quindi premesso qualche doveroso chiarimento: il sottotitolo di questo saggio, volutamente polemico e in qualche modo persino impertinente, nasconde in realtà la povertà degli argomenti nuovi che potrò portarvi ma sopratutto cerca di sottolineare la mia autentica ignoranza delle cose di Sicilia; ignoranza dovuta non certo a disinteresse quanto – anche – al mio lungo impegno professionale in terre islamiche più lontane1. Sottotitolo polemico e impertinente quindi, ma non ipocrita; perché se è vera la prima parte – ovvero il mio non sentirmi sufficientemente informato e aggiornato sul tema della eredità artistico-architettonica trasmessaci dalla lunga

* La scaletta servita di base al presente testo fu predisposta in occasione della mia partecipazione al convegno ‘‘La cultura artistica dell’Islam in Sicilia’’ (Palermo, aprile 1991), promosso dall’Istituto di Storia dell’Arte, Facoltà di Lettere, Università di Palermo. Poiché gli Atti di quel convegno, benché coscienziosamente raccolti, non sono mai stati pubblicati e dato che in questi ultimi anni, malgrado qualche indiscutibile successo nella ricerca, molte domande fondamentali sono rimaste ancora prive di risposta, mi sono sentito autorizzato ad elaborare un testo coerente ampliandone le tematiche, completando la parte critica e aggiornandone dati e bibliografia. In altri termini, al di là di alcuni aspetti polemici che non sono riuscito a reprimere, il testo vorrebbe rappresentare una specie di ‘‘stato dell’arte’’ negli studi sulla presenza islamica in Sicilia, ma strettamente limitatato – sia ben chiaro – allo specifico tema dell’architettura. 1 Chi scrive è stato impegnato dal 1966 al 1996 in programmi di ricerca storica e di conservazione su monumenti islamici in Afghanistan, Iran, Marocco, Pakistan, ’Oman, Tajikistan, Uzbekistan, Yemen. Ha tenuto per tre anni (A.A.1989-1992) il corso di Storia dell’architettura islamica presso la facoltà di Architettura di Roma La Sapienza.

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occupazione islamica della Sicilia, non meno vera – drammaticamente vera – è anche la seconda: l’inesistenza – a tutt’oggi – di una «architettura islamica» degna di questo nome. Da oltre un secolo, infatti, si susseguono i tentativi (certamente encomiabili ma spesso vani, sino al patetico) di provare che, insieme alle numerose epigrafi (sulle quali pure si potrebbe discutere), alla ceramica, ai cofanetti d’avorio, ai legni intagliati, ai vicoli terminanti a cul de sac2 o ai 3190 «arabismi» riconosciuti in una recente ricerca3, ci sia stata anche un’edilizia specifica, sviluppatasi a seguito e dentro i limiti temporali dell’occupazione. Scopriamo invece con sgomento che, a ben guardare e in barba alla storia certa (secondo la quale, per oltre duecento anni, musulmani di Ifriqiya e poi di Siqilliya hanno dovuto – necessariamente – edificare città e villaggi, scuole, ospedali, acquedotti, mulini, frantoi, depositi, luoghi di culto o di riposo), non possiamo contare a tutt’oggi su un solo edificio che possa dirsi sicuramente e integralmente realizzato nel periodo aureo dell’occupazione musulmana. Sotto questo profilo, suscitano ammirazione ma in certo senso anche tenerezza la cura, la pazienza e la perseveranza esercitate dagli studiosi contemporanei nel registrare ogni minima testimonianza che possa concretamente confermare l’esistenza di una edilizia islamica4, ben al di là delle ovvie, durature ma sopratutto postume «influenze». Il mio scritto non potrà – e non vuole – offrire risposte nuove e certe; cercherà però di analizzare i possibili motivi di questa inspiegabile e drammatica 2 Secondo la teoria di E. GUIDONI (Cf., tra gli altri, il suo ‘‘Vicoli e cortili: tradizione islamica e urbanistica popolare in Sicilia’’, in Architettura nei paesi islamici, La Biennale, Venezia 1982, pp. 306-7, in buona parte ripreso in ‘‘I vicoli ciechi della storiografia’’, Storia della Città, Electa, Milano 1989, n. 46, pp. 3-6), le stradine a zig zag e a fondo cieco, tipiche di molti nostri paesi meridionali, costituirebbero prova concreta di una influenza islamica nel tracciamento dei percorsi di accesso alle abitazioni private; e ciò al fine di garantire la privatezza di società in cui l’ambiente familiare (l’harim) deve e vuole essere escluso da alcuni rapporti con il mondo esterno. Tale congettura è teoricamente plausibile ma sul piano pratico si deve anche ammettere che spesso vicoli ciechi e ‘‘a baionetta’’ sono più banalmente l’esito necessario ed esclusivo di particolari situazioni orografiche, piuttosto diffuse sul territorio italiano. 3 È questo il risultato – utilissimo anche per altri temi di studio – di una ricerca condotta sui soli documenti, quale contributo e supporto filologico ad una più ampia indagine di tipo storico-geografico finanziata dal C.N.R.: cf.: SCOTONI L., ‘‘Greci ed Arabi in Sicilia: geografia comparata di due civiltà’’, Memorie della Società Geografica Italiana, vol. XXXII, Roma 1979, pp.125-225. L’indagine in questione prova che ricerche sistematiche portano sempre a risultati positivi travalicando spesso gli stessi obiettivi di programma. Cionostante, non mi risulta che qualche studioso di cose siciliane abbia fatto tesoro delle decine di dati e di spunti così generosamente offerti. Più recentemente è stato pubblicato un nuovo, piccolo volume, utile per l’individuazione dei nomi arabi delle città siciliane (malgrado un eccesso di vis polemica e qualche pecca tipografica): DI GREGORIO A., Sichillia, Arabi, lingua e costumi alle origini della civiltà siciliana, Catania, Prova d’Autore ed., Collezione Confronti, 1999, pp. 237, ill. Ha il pregio di suggerire possibili interpretazioni filologiche piuttosto che stabilirne univoche soluzioni. 4 Per un panorama abbastanza aggiornato e ben documentato di tali numerose, significative ma comunque tenui testimonianze (che peraltro non incidono sulla mia sconfortata valutazione del presente), si veda BELLAFIORE G., Architettura in Sicilia nelle età islamica e normanna (827-1194), A. Lombardi Editore, Palermo-Milano 1990, con esauriente bibliografia.

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lacuna che ha impedito sino ad oggi di scrivere una plausibile, realistica e documentata storia dell’architettura islamica in Sicilia e, per estensione logica, in Italia. Se rileggiamo con la necessaria attenzione tutti i ponderosi studi pubblicati sul’argomento (continuo a riferirmi ovviamente alla sola architettura, ovvero a una edilizia matura, cosciente e sufficientemente caratterizzata), non possiamo sottrarci ad una spiacevole sensazione di imbarazzo e di frustrazione. La totale scomparsa di una Bari islamica, sede di un Emirato tanto a lungo sospirato, può lasciarci dubbiosi sulla corretta interpretazione delle cronache del tempo; così come può indurci a riflettere l’intrico politico e militare che caratterizzò il breve periodo – 24 anni appena – in cui la città pugliese fece giuridicamente parte del dar al-islam5. Anche la scomparsa di una Taranto islamica può trovare qualche debole giustificazione nella inconsistenza giuridica e nella breve durata strutturale e politica di quell’incompleto Emirato6. Ma come potremo mai giustificare la scomparsa di un’intera isola o, almeno, di oltre due terzi di essa? (fig. 1).

Fig. 1 – Cartina della Sicilia con le linee isocrone dell’occupazione islamica (da: Scotoni 1979, p.141). La conquista fu completata in ben 138 anni: la cittadina di Rimecta (Rometta) cadde solo nel 965 mentre nel Girgentino il dominio islamico durò ben 259 anni. 5

Cf. MUSCA G., L’emirato di Bari. 847-871, Dedalo, 1964 e 1978. Cf. AHMAD A., Storia della Sicilia islamica, Arco Editrice, Catania,1977, con buona bibliografia (ed.italiana di A History of Islamic Sicily, Edinburgh University Press, Edinburgh 1975). ‘‘Più che una originale elaborazione monografica ..[è].. un garbato compendio in stretto rapporto di filiazione con i risultati, del resto quasi definitivi, a cui giunse l’Amari nella Storia dei musulmani di Sicilia’’ (U.Rizzitano nell’introduzione all’edizione italiana). Vedi anche, passim, l’opera di G. Musca citata alla nota 5. 6

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Questo evento incredibile mi fa tornare alla mente quanto si scriveva – e in parte si sostiene ancora – circa la scomparsa di alcuni importanti monumenti e di molti documenti nella Persia tra il XVI e il XVIII secolo: le cause della scomparsa – un vero scempio – venivano individuate tout court nella cruenta invasione afghana del 1722. Studiosi locali e stranieri della prima decade del nostro secolo si sentirono appagati per aver trovato un comodo e sicuro capro espiatorio (che tra l’altro li sollevava dall’obbligo etico e scientifico di compiere ulteriori ricerche) e si misero l’animo in pace: finché non vennero in luce, casualmente e da fonti non sospette7, inediti particolari: si scoprì ad esempio che quei «feroci Afghani» avevano all’epoca disposto pattuglie di sorveglianza agli edifici più rappresentativi (non nel senso storico-artistico) e in particolare accanto a biblioteche, conventi, chiese e moschee importanti, proprio al fine di impedirvi saccheggi e spoliazioni. Oppure – altro esempio persiano – si scoprì che i Governatori della dinastia Qajar (dinastia regnante dal 1795 e attiva sino al 1925) avevano effettuato estese distruzioni nel centro antico di Isfahan (distruzioni attribuite anch’esse, in un primo tempo, ai «feroci Afghani» del secolo precedente) al solo scopo di ampliare i loro giardini privati e di realizzare ampi boulevards pubblici «alla parigina». La mia lunga digressione in terra di Persia tende a sottolineare un fatto grave: probabilmente in buona fede, chi si è occupato di cose di Sicilia ha sbagliato la linea di ricerca, puntando ogni energia – come d’altronde, a prima vista, sembrerebbe ragionevole – sul solo materiale concreto di cui disponeva, ovvero sull’architettura del periodo normanno. In altri termini, non si è riusciti (forse non si è neanche provato) a dare risposta al quesito-chiave, base di tutte le nostre frustrazioni: è mai esistita una architettura islamica in Italia e, in particolare, in Sicilia? E se è esistita (non dovremmo dubitarne), quando, come e perché è sparita? Quale concorso di eventi – certo non uno soltanto – ha potuto portare alla totale scomparsa, non dico di tutti i 264 anni dell’occupazione, ma anche soltanto di cent’anni di edilizia islamica? Se diamo retta ai cronisti del tempo (anche a quelli di campo avverso); se operiamo una tara della metà sulle encomiastiche descrizioni pervenuteci; se facciamo i dovuti raffronti, anche banalmente quantitativi, con tutte le altre testimonianze della cultura materiale che fortunatamente sono state risparmiate; se infine si assegnano idealmente una abitazione, un luogo di culto, un mercato o un hammam (bagno pubblico) rapportabili a cinque o sei generazioni (a dir poco) di musulmani nati in Sicilia, viene da chiedersi quale misterioso flagello, quale spaventoso cataclisma, quale odio mostruoso abbiano potuto polveriz7 Queste precisazioni sono contenute nel carteggio di alcune Missioni cattoliche presenti all’epoca ad Isfahan. Cf. ANONIMO (sed sir ALBERT CHICK), A Chronicle of Carmelites and the Papal Mission in Persia, London 1939, passim.

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zare ogni fisica testimonianza di quel lungo periodo. E ciò è avvenuto, si noti, in un’isola che conserva ancora, bene o male, persino tratti delle mura di cinta e abitazioni di terra cruda a Gela, a Kamarina, ad Eraclea Minoa, oltre ai più noti templi della civiltà greca. Sulla causa – o le concause – di questo fenomeno pressoché unico nella storia dell’architettura, si tace da oltre cent’anni. L’argomento è certamente imbarazzante e ha dato vita a quelle ambigue formule di comodo come arabo-siculo o siculo-normanno sulle quali dissertare. Anche da parte di molti storici contemporanei, l’argomento viene ancora elegantemente evitato oppure liquidato con un generico riferimento «alle distruzioni dei barbari ed al furore degli iconoclasti» (Arata 1914:14,15)8, naturalmente insieme a lapidarie quanto arbitrarie accuse al ‘‘liberatore’’ normanno. Per quanto riguarda barbari ed iconoclasti il discorso si farebbe qui troppo lungo e sopratutto investirebbe il problema di altre – ed altrettanto gravi – lacune ‘‘eccellenti’’ rilevabili in Sicilia, a partire dal periodo romano sino a quello bizantino, al quale ultimo solo da poco tempo si va prestando un pò di attenzione. In quanto al secondo punto, sino ad oggi (e se sbaglio, mi scuso ancora una volta per le mie scarse conoscenze bibliografiche) non ricordo di aver letto una sola riga atta a cogliere o a spiegare la palese contraddizione insita in una accusa più sottintesa che espressa: quegli stessi storici, infatti, sono concordi – e non da oggi – nell’esaltare non soltanto la tolleranza ma la stima e l’amore dei sovrani normanni per la cultura (per tutta la cultura) islamica: ed è proprio in Sicilia che essi ne furono letteralmente folgorati. Infatti, «La restaurazione...dei Normanni fu meramente religiosa, mentre nel campo politico, economico, giuridico e culturale essi si sentirono liberi di trascegliere e combinare qualsiasi elemento preesistente... senza nulla a priori rifiutare dei vinti, fuor della fede» (Gabrieli 1979:94)9. Le testimonianze del sincretismo, della tolleranza, del rispetto e infine della adesione pressoché totale ad uno stile di vita – e quindi, globalmente, ad una cultura – che fu caratteristica dei ‘‘vinti’’, in Sicilia sono evidenti e magnifiche nel loro splendore. Il piacere puramente visuale e a volte addirittura epidermico suscitato da una fantasiosa decorazione, dal fluire di un velo d’acqua, dal morbido ductus di una iscrizione o dal suono nostalgico o pungente di una qasîdah10, sembrano aver conquistato ed accompagnato la vita quotidiana non soltanto dei Principi e della élite cortigiana normanna ma anche del popolo mi8 ARATA G.U., Atlante di storia dell’Architettura arabo-normanna e del Rinascimento in Sicilia, Milano 1914, pp. 5-160. 9 GABRIELI F., ‘‘Gli Arabi in Sicilia’’, in GABRIELI F., SCERRATO U., Gli Arabi in Italia, Milano 1979, pp. 35-108. 10 La qasîdah è un componimento poetico, di antica origine beduina, tipico della letteratura araba. Con una serie di motivi iniziali apparentemente estranei, essa tende a predisporre l’animo dell’ascolta-

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nuto, quindi siciliano sotto tutti i punti di vista, per almeno altri due secoli. E allora: dove e attraverso quali testimonianze concrete i Normanni poterono scegliere i loro modelli di riferimento? Perché non ci resta più nulla? A meno che... A meno che non si prenda in esame un’altra ipotesi, che personalmente non condivido appieno ma che andrebbe comunque esaminata a fondo, quanto meno per dovere di completezza storica: che i conquistatori musulmani provenienti dalle coste dell’Africa settentrionale abbiano costruito ex novo e in modo severo e spoglio – forse anche con strutture precarie quali il legno o il tradizionale lebin (il mattone di terra cruda) – soltanto quel minimo indispensabile alla loro vita religiosa, sociale ed amministrativa, utilizzando invece sino alla fine e ovunque possibile, tutte le costruzioni preesistenti, ricche o povere che fossero11. Tale ipotesi «minimalista» potrebbe essere basata sul fatto che i conquistatori erano in buona parte – almeno nella seconda fase dell’occupazione (dinastia Fatimida, a partire dal 960 circa) – appartenenti alla frazione Shi’a, ismailiti e duodecimani, quindi ideologicamente preparati a contestare con l’esempio l’inutile fasto e i tanti cedimenti già verificatisi nella corazza di umiltà del combattente per la fede. D’altronde va presa in esame anche la possibilità – correlata a quanto ora detto – che la realtà – sociale e quindi anche edilizia – non sia stata così importante e ricca come ci è stato tramandato dai cronisti e dai viaggiatori, musulmani e non. Accettando però tale ipotesi, le nostre frustrazioni non sparirebbero bensì si sposterebbero a ritroso nel tempo, portando alla luce altre e più antiche lacune. Ma solo in questa ipotesi-limite si potrebbe affermare – per assurdo – che i Normanni, privi o quasi di un loro peculiare bagaglio architettonico (in ogni caso non esportabile sull’Isola) e insoddisfatti della amorfa (quanto per ora, ahimé, quasi ipotetica) edilizia bizantina locale, siano stati costretti – letteraltore alla comprensione e al coinvolgimento nel fine ultimo dell’intero componimento: la celebrazione, l’adulazione, il dolore, l’amore, il ricordo. Può essere considerato come una sorta di convito poetico ed ha ferree leggi metriche e compositive. (sintetizzo liberamente dalla voce Arabi, a cura di M. GUIDI, Enciclopedia Italiana, ed. 1949, §§ 3, 28. Si vedano anche le numerose pagine dedicate alla qasîdah nel ricco saggio di F. GABRIELI ‘‘Letteratura araba’’ in Le civiltà dell’Oriente, Casini editore, Roma 1957, vol. II, pp. 230-299 e il ricordo del letterato arabo-siciliano Ibn al-Qatta (XI sec.) che ci ha tramandato i nomi di ben 170 poeti nati in Sicilia che scrissero in lingua araba (in AMARI M., Storia degli Arabi di Sicilia, 185472, vol. III, p. 572). 11 È questo il caso di alcune stationes romane, poste lungo le direttrici interne del sistema CataniaCaltanissetta, sicuramente utilizzate in epoca islamica come ribat (fortino) o, più probabilmente, come rahal (masseria) fortificato. Soltanto da poco tempo si sta prestando una certa attenzione a questi riutilizzi, certo più diffusi in aree periferiche o rurali; ma almeno per ora non sembra che tali ritrovamenti vengano sistematicamente e tempestivamente registrati e confrontati, salvo poche ed encomiabili eccezioni di cui alle note 46,49. Rammentiamo invece la chiara testimonianza di un riuso eccellente in un passo del geografo iracheno Ibn Hawqal che vide la Sicilia e Palermo nel 973, allora sotto i Kalbiti: «Quivi [a Palermo] la moschea jâmi che fu un tempo chiesa dei Rûm; nella quale [si vede] un gran santuario... che i Musulmani hanno mutato in moschea» (traduzione di M. Amari, citato in Gabrieli 1979:733).

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mente – ad inventare sul posto una loro eclettica, fantasiosa e solare architettura, nella quale necessariamente sarebbero entrati anche motivi arabizzanti (i Normanni si erano già scontrati col mondo islamico in Spagna) oltre a quelli genericamente definibili come tardo antichi, orientali, bizantini. Una tale ipotesi resta tutta da dimostrare ma, una volta dimostrata, riaprirebbe l’altro problema cui si è accennato: quello dell’assenza pressoché totale di un tessuto architettonico (più che urbanistico) d’età classica, tardo-antica e bizantina; in ogni caso, non giustificherebbe l’affermarsi e il permanere – per molti decenni dopo la liberazione – di una cultura almeno esteriormente così ‘‘islamizzata’’; contrasterebbe inoltre con la diffusa convinzione e la forse troppo perentoria affermazione secondo le quali gli esiti della cultura e dell’arte della Sicilia tra il IX e l’XI secolo (e in particolare quelli dell’architettura palaziale), sarebbero «tutti collocabili entro la temperie culturale fatimida» (Bellafiore S. 1984:9 e nota 2)12. Torniamo quindi ad analizzare altre possibili cause della scomparsa delle testimonianze architettoniche. Per esempio, la guerra: è vero, la reconquista cristiano-normanna della Sicilia durò almeno trent’anni (1061-1091) e in trenta anni possono scomparire, sotto il peso delle armi e la furia delle passioni, molte testimonianze del passato. Purtuttavia, salvo qualche documento di non facile o univoca interpretazione, sino ad oggi non conosciamo granché circa eventuali distruzioni di massa o ‘‘coventrizzazione’’ di intere città e paesi e villaggi: i cui resti, a voler seguire certe tesi, sarebbero stati subito dopo sostituiti da una edilizia per molti aspetti simile, se non addirittura clonata, a quella precedentemente distrutta; quindi anch’essa nello «stile» degli odiati infedeli, seguaci del ‘‘perfido Macometto’’. Il che ci porterebbe forse ad una interessante interpretazione psicoanalitica ma non risolverebbe il nostro problema. Dai funzionari musulmani fuggiti o dai colti esuli ‘‘arabo-siculi’’13 ci sono giunti lamenti che non esito a definire romantici: struggenti nostalgie degne di amanti abbandonati, rimpianti per luoghi, dolcezze ed ozi perduti, come ad esempio nell’opera poetica del siracusano Ibn Hamdis (Abu Muhammad ’abd al-Giabbar ecc. 1055-1133), in gran parte scritta una cinquantina di anni dopo aver lasciato la sua isola: «Ricordo la Sicilia, e il dolore ne suscita nell’anima il ricordo.

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BELLAFIORE S.(usanna), La Cuba di Palermo, Palermo 1984. Tra questi letterati-esuli spicca il siracusano al-Jabbar (Abu Muhammad ’abd al-Jabbar ibn Abu Bakr ibn Muhammad, nel 1055-56 e morto in Tunisia nel 1078, il cui Diwan contiene versi di rimpianto accorato per la Sicilia lontana (vedi anche appresso,nel testo.) È noto che in seguito all’occupazione normanna molti rappresentanti delle classi colte – sopratutto tra i discendenti del Profeta (o presunti tali) – si trasferirono in Egitto, in Spagna o in Marocco: qui, ancora poco tempo fa, i loro ultimi discendenti venivano trattati con riguardo, quali sceriffi (nobili) ‘‘siqalliyyn’’ (siciliani). 13

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Un luogo di giovanili follie ora deserto, animato un dì dal fiore dei nobili ingegni. Se sono stato cacciato da un paradiso, come posso io darne notizia? Se non fosse l’amarezza delle lacrime, le crederei i fiumi di quel paradiso» (Gabrieli 1979:736-37, cit.)

Amarezza, rimpianto, dolore: tutto, fuorché l’orrore della fuga o i ricordi cruenti di distruzioni e saccheggi, con i quali invece sono state spesso descritte, commentate e bollate d’infamia le ‘‘nobili imprese’’ crociate in Terrasanta14. L’accenno alla poesia mi suggerisce di ricordare qui una caratteristica ampiamente documentata e più volte sottolineata ma solo in contesti più strettamente storici: a giudicare dalle testimonianze, sembra di poter affermare che l’occupazione islamica della Sicilia – occupazione che pure rientrava nelle strategie politiche e nella logica del jihad – sia stata caratterizzata molto spesso dalla determinante presenza di una intelighentzia musulmana che in qualche modo contribuì a smussare anche azioni e toni delle atroci faide interne e dei frequenti ribaltamenti di fronte. E ciò a partire dall’inizio stesso della spedizione militare, decisa a Qairawan e affidata come è noto non ad un rude guerriero (di professione o di fede) bensì a un dotto giureconsulto, il qadi Asad ibn al-Furat: questi infatti aveva saputo esporre alle autorità religiose – e in maniera molto convincente – i motivi politici e strategici di una occupazione permanente, in luogo delle solite e continue scorrerie predatorie. L’influenza di questo sottofondo intellettuale si perpetua durante tutta l’occupazione islamica, come stanno a dimostrare le tante opere di poesia, di letteratura, di morale, tramandateci da autori arabi di Sicilia. Non a caso, per una delle sue prime traduzioni di importanti opere «locali» scritte in lingua araba, l’Amari scelse il Solwân al-mutâ’fi ’udwan al-atba (Firenze 1851 e 1882), raccolta di sentenze e di anneddoti morali di Ibn Zafar as-Siqilli (il figlio di Zafar il Siciliano), morto in Siria nel 1169. Se veramente le autorità politico-militari normanne agirono con quello spirito che ci è stato tramandato e così sinteticamente descritto nel citato giudizio di Gabrieli; e se è vero che quello spirito travalicò la semplice e già magnanima tolleranza per divenire sintonia e reale empatìa, è mai possibile che sia stata permessa, una volta terminate le operazioni militari finalizzate alla fisica 14 Si veda per esempio, passim, GABRIELI, F. (a cura di), Storici arabi delle Crociate, Einaudi, Torino 1957 e 1987: una raccolta di cronache i cui autori, tutti musulmani, vanno dal 1073 al 1469. Si veda anche MAALUF A., Les croisades vues par les Arabes, Lattès, Paris 1993, pubblicato contemporaneamente in Italia: Le crociate viste dagli Arabi, Soc. Ed. Internazionale, 1993, Torino.

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riconquista del territorio, una azione di «pulizia etnica» e di damnatio memoriae tale che, a giudicare dai risultati, dovrebbe essere stata lucida, sistematica e feroce come soltanto l’odio più profondo può suggerire e in qualche maniera giustificare? Non è certo istigazione all’odio ma addirittura ammirazione e semmai rammarico quello che si legge nel diploma di Ruggero I, del 1093, relativo alla diocesi agrigentina e alle rovine «castellorum et civitatum eorum [dei musulmani] et palatiorum suorum studio mirabili compositorum»15. Sotto questo profilo, appare non del tutto convincente la tesi recentemente avanzata, secondo la quale «proprio il processo di metabolizzazione sincretica delle preesistenze avviato dai re normanni sia stato il più perfetto sistema di obliterazione delle preesistenze»16. Se tale processo può essere compreso e forse giustificato sul piano sociologico, lo è assai di meno sul piano concreto della cultura materiale, dei metodi costruttivi, della ‘accumulazione archeologica’. Resterebbe in ogni caso da dimostrare come e perché ‘metabolizzare’ possa voler significare ‘distruggere per ricostruire come prima’; e ciò a prescindere dalla quantità di resti d’epoca islamica che in futuro possano essere ancora strappati alla punitiva coltre di silenzio e di omertà che (forse) ancora li nasconde. Arriviamo così all’esame di un secondo aspetto, quello religioso. Il tipo di odio distruttore che qui si dovrebbe presumere, si annida e prospera, in genere, nel fanatismo delle guerre di religione. Se ne potrebbe dedurre che il Cristianesimo trionfante sentisse la necessità politica e ideologica di cancellare – anche fisicamente – i segni del potere infedele ormai vinto, sotto qualunque forma si manifestasse: quindi non soltanto gli edifici propri della fede islamica ma i palazzi, le torri, le mura, le terme e, perché no, le abitazioni di quella metà circa della popolazione siciliana che ormai da tempo aveva abbracciato l’Islam per necessità di sopravvivenza, oppure era nata – in Sicilia – da famiglie musulmane. Ritengo di poter obiettare che anche in tempi duri e spietati come quelli di cui ci occupiamo, debba essere esistito un senso pratico sulla ‘‘utilità delle cose’’, atto a limitare gli eccessi distruttivi succedutisi alla fase strettamente bellica e quindi teso a limitare lo spreco di energie e di beni materiali. Ma a prescindere da ciò, viene spontaneo un confronto con la vicenda, cronologicamente dilatata ma storicamente parallela, vissuta dalla Spagna islamizzata: confronto naturalmente già proposto ed evocato dagli storici. Cito an15 Cf. COLLURA P., Le più antiche carte dell’archivio capitolare di Agrigento (1092-1282), Documenti da servire per la storia della Sicilia, Palermo, serie I, XXVI, Palermo 1961, citato in Bellafiore 1990:31 (vedi nota 3). 16 Cf. ROVIDA M.A., Città e architettura tra Islam e Cristianesimo nell’Europa Mediterranea: Palermo, Toledo, Cordova e Siviglia nel Medioevo, Edizioni ETS, Pisa 1998. La frase qui citata è tratta dalla presentazione di V. Franchetti Pardo, p. 12.

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cora il Gabrieli (ibidem: 94): «È questo il punto di partenza [quello del non rifiutare a priori nulla dei vinti, fuor della fede] per valutare il famoso ‘‘sincretismo’’ e la ‘‘tolleranza’’ normanna, in contrasto con quanto avvenne nella riunificata Spagna cristiana». Non v’è dubbio che tra una popolazione nordica cristianizzata e una Spagna già da tempo terra di Martiri e di Santi, la corona di «campioni della Cristianità» debba andare agli spagnoli, con tutto il corollario di fierezza, di fanatismo e di rancori che ne deriva. Così come non v’è dubbio che, nel corso della lunga reconquista, furono dure e cruente le battaglie per gettare definitivamente a mare Berberi e Mori che pure avevano fatto (anche) della Spagna un piccolo paradiso terrestre. Ma tutti conosciamo le concrete e splendide conseguenze di questo odio-amore; anche se arricchiti e spesso accomunati e confusi dal grande pubblico con le testimonianze di un non diverso sincretismo (ovvero quel nostrano mudèjar17 che Gabrieli, Bellafiore ed altri studiosi hanno voluto correttamente individuare nella Sicilia normanna), monumenti della grande stagione islamica di Spagna sono sopravvissuti in buon numero; dapprima soltanto tollerati, poi rispettati, poi di nuovo malvisti ed infine, ai giorni nostri, fatti oggetto di tante ricerche e cure appassionate da essere trasformati – quanto meno i più noti e visitati – in meravigliosi falsi stilistici, in occasione dei grandi ‘‘restauri’’ degli ultimi cento anni18 (vedi anche la nota 23 e la fig. 2). Il risultato è questo: che esiste, nella pur sempre cattolicissima Spagna, una chiara e profonda coscienza (non ‘soddisfazione’ ma neanche ‘vergogna’) del proprio passato islamico; una coscienza che certo va ben oltre il numero di fonèmi inizianti con ‘‘al’’. Anche nel corso dei periodi più neri di un certo oscurantismo cattolico, quel rispetto cosciente rimase vivo, come sembra testimoniare la rabbia di un monarca certamente non tenero verso l’Islam – parlo di Carlo V – nel vedere lo scempio perpetrato all’interno della moschea grande di Cordova onde permettervi l’inserimento della chiesa cattedrale. Egli infatti si addolora di aver autorizzato – per ignoranza – la costruzione di qualcosa che

17 Con l’aggettivo spagnolo mudèjar (dall’arabo mudhdhakan, ‘‘riservato’’) si indica il musulmano rimasto fedele alla propria religione ma ‘‘pacificamente collaborante’’ nei territori riconquistati dai Cristiani. In particolare viene definita mudèjar l’intera categoria degli artigiani e quindi la loro arte, ‘‘araba in terra cristiana’’. 18 Sono ben note le testimonianze dei numerosi e pesanti interventi ricostruttivi condotti, agli inizi del XX secolo, sui più conosciuti monumenti islamici di Spagna e in particolare nella moschea grande di Cordova, nell’Alhambra di Siviglia, nell’Aljaferìa di Saragozza, a Madinat al-Zahra (questi ancora in corso...) ecc. Si vedano, tra gli altri: AA.VV., Cuadernos de la Alhambra, n. 1, Urania, Granada 1965 e ss.; LOPEZ-CUERVO S., Medina - az-zahra, Ingenierìa y Formas, Madrid 1985; NIETO CUMPLIDO, M. E LUCA DE TENA Y ALVEAR, C., La Mezquita de Córdoba: planos y dibujos, Cordova 1992 con un’ampia raccolta di planimetrie di fine secolo; BARRUCAND M. e BEDNORZ A., Moorish Architecture in Andalusia, Taschen, Colonia 1992. Si veda anche la nota (21).

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Fig. 2 – Una testimonianza delle pesanti integrazioni effettuate agli inizi del XX secolo da R. Velasquez Bosco nella moschea di Cordova. Uno di sedici disegni autografi, datati 1908. Nell’originale sono indicate in nero la parti originarie di modello e in rosso le integrazioni proposte. Archivo de la Administración General del Estado, Alcalá de Henares.

era possibile realizzare in qualsiasi altro luogo (quella chiesa), disfacendo quanto vi era di unico al mondo (quella moschea)19. Sulla base di quel rispetto cosciente si è venuta costruendo una sorta di ‘‘tradizione’’ che ha finito per ricucire antiche fratture: non v’è paesino di Spagna, infatti, dove non vi mostrino, e con un certo orgoglio, un modesto mulino, 19 «Yo no sabé lo que era ésto, pues no hubiera permitido que se llegase a la antigua: porque habéis hecho lo que puede hacerse en otra partes y habéis deshecho lo que era singular en el mundo»: vedi PONZ A., Viaje de España, t. XVII, Madrid 1792, p. 24.

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i resti di un bagno, una rabberciata puerta califal. Si è instaurata in tal modo una illusoria continuità che giustifica, per così dire, anche le centinaia di case e ville in falso mudèjar, costruite per la maggior parte tra la metà e la fine dello scorso secolo, sulla scia delle ricerche storiche e stilistiche prima ricordate. In Italia (in Sicilia, in Puglia, in Campania) la nostra parallela e coeva ‘‘voglia d’Oriente’’ – un esotismo di maniera che nulla aveva da spartire col passato – si è scoperta a tal punto orfana e priva di radici e di riferimenti diretti che abbiamo dovuto mendicarne la presenza nel ‘‘falso cufico’’, nel monogramma di Allah – ormai ridotto a puro segno grafico – del San Nicola di Bari20 o cercarceli lontano, in una Cairo ottomana o mamelucca, nel kitch degli specchietti algerini, nel più ovvio – anche se pittoricamente splendido – repertorio degli Orientalistes francesi e nostrani, nelle pretenziose ville ‘‘moresche’’ o negli archi a ferro di cavallo di un tardo riflusso maghrebino. Evito di sottolineare, perché ben noti, gli esiti brillanti che tale riflusso ebbe invece sul panorama architettonico nordafricano. Non credo di sbagliare nel sostenere che questi siano intricanti temi, specifici soprattutto per storici dell’Arte piuttosto che per architetti o storici dell’Architettura. L’Italia ha certamente avuto (ed ha tuttora, per nostra fortuna) islamisti ed arabisti di grande valore ai quali siamo debitori, parola per parola, di tutto quanto conosciamo e che hanno saputo portare il loro interesse scientifico, colto ma anche un pò distaccato e aristocratico, sui temi e i periodi di cui qui si parla. Ci sono mancati invece, dalla metà dello scorso secolo sino ad ieri21, personaggi della statura di un Viollet Le Duc (1814-79) in Francia, che pure si occupò di cose siciliane22; ma sopratutto – perché più vicini al nostro tema – per20 Vedi BABUDRI F., ‘‘Il monogramma di Allah nel pavimento... di S. Nicola a Bari’’, in Japigia, III, pp.41-44, Bari 1941. 21 I nostri Maestri di storia dell’architettura e, ancor più, di restauro architettonico, si sono raramente occupati del mondo islamico se non indirettamente, per studiarne i possibili rapporti – spesso solo stilistici – con il mondo occidentale. Di C. Boito, delle sue ricerche storiche e del suo interesse per il restauro dei monumenti, diremo più innanzi; T.G. Rivoira scrisse un ancora valido saggio di carattere generale, Architettura musulmana, Milano 1914 e G. Giovannoni sfiorò appena l’argomento in uno scritto riguardante l’impiego dei muqarnas: ‘‘Un quesito architettonico nel Chiostro di Monreale’’, Architettura e arti decorative, sett. ott. 1921, p. 150 e ss. Bisogna arrivare a U. Monneret de Villard per leggere pagine ragionate sull’architettura musulmana e sui rapporti storici, geografici e formali con il mondo cristiano. Fra i tanti suoi scritti sul tema si veda il saggio per molti aspetti ancora valido ‘‘Arte cristiana e musulmana del vicino Oriente’’, in Le civiltà dell’Oriente, Casini editore, 1957, vol. IV, pp. 453-652: esso spazia anche sulle architetture, dalla Mesopotamia alla Turchia, dall’Asia Centrale alla Persia. Altrettanto importante, anche se oggi un pò appannato (vedi appresso, alla nota 26), il suo ponderoso studio Le pitture musulmane al soffitto della Cappella Palatina in Palermo, I.P.S., Roma 1950. A G. De Angelis d’Ossat, infine, si deve lo studio – per noi particolarmente intrigante – su un noto monumento siciliano: ‘‘Lettura di Castel Maniace: una moschea federiciana a Siracusa’’, in Palladio, n.s., a. XVIII, n. I-IV, 1968, pp. 55-60, ripubblicato in Realtà dell’Architettura. Apporti alla sua storia / 1933-78, Roma 1982, vol. I, pp. 765-772. 22 Si vedano VIOLLET LE DUC E.E., Le voyage d’Italie (1836-37), Firenze 1980 e Lettere sulla Sicilia (1860), Palermo 1972.

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sonalità come R. Velàsquez Bosco23 o L.Torres Bàlbas24 o M. Gomez Moreno25 per la Spagna islamica: studiosi ma anche ‘architetti restauratori’, personalità forse discutibili sul piano del rigore scientifico ma che, in un’ epoca in cui l’ars restauratoria era ancora priva di regole, hanno contribuito a salvare il salvabile ma al tempo stesso a coinvolgere e interessare la gente comune (proprio attraverso un ‘restauro’ interpretativo) in alcuni aspetti anche esteriori del loro passato. Sia pure con qualche errore, qualche esagerazione e più spesso con grande ingenuità. In effetti, essi hanno agito nell’epoca in cui gli studiosi di architettura erano affascinati e condizionati dallo ‘‘stile’’ piuttosto che dalle vicende storiche, culturali, sociali e costruttive che determinano nascita e facies di un edificio. E sebbene tale atteggiamento non potesse che influire negativamente sul concetto stesso di restauro da essi posto in essere, proprio ad essi dobbiamo la nostra immensa gratitudine. Su questo stesso piano si era mosso verso la fine dello scorso secolo, con tutte le riserve già dette, Giovanni Patricolo nel suo poliedrico operare in Sicilia tra intuizioni, scavi, scoperte preziose e pesanti interventi restauratori, dal medesimo solo parzialmente denunciati, come nel caso di S.Maria dell’Ammiraglio, della Trinità di Delia o di S. Giovanni degli Eremiti26. Purtroppo i suoi interventi, estesi come è noto a quasi tutti gli altri monumenti d’età normanna e proseguiti – con gli stessi criteri – dal suo allievo e continuatore Francesco Valenti, rispondono ad un’unica logica: ancora quella di Viollet Le Duc, ovvero della forzatura stilistica, secondo i propri ideali estetici e culturali e non secondo realtà testimoniate, sino alla più arbitraria e deviante «reinvenzione». Si trattò, in altri termini, dell’applicazione sistematica ed invasiva di quello «stile dovuto», così bene individuato ed analizzato, di recente, da Alessandra Ma23 I massicci interventi ricostruttivi di R. Velasquez Bosco (spesso criticato per non avere a suo tempo lasciato pubblica traccia della sua opera) sono invece accuratamente documentati in 16 splendidi disegni di progetto, redatti tra il 1907 e il 1912, a due colori, dove in nero sono evidenziate le parti decorative originarie, ancora visibili all’epoca, e in rosso le parti di integrazione proposta. Tali disegni sono stati individuati nel corso di una ricerca abbastanza recente presso l’archivio della Aministración Central del Estado in Alcalà de Henares (presso Madrid). Si vedano: ‘‘Projecto de restauración de la capilla de Villaviciosa, 1907’’ e ‘‘Projecto de restauración... del frente del mihrab [nella moschea di Cordova], 1912’’: entrambi in: RUIZ CABRERO G. (a cura di), Dieciséis Projectos, Madrid 1960 e riproposti in un saggio dallo stesso titolo in Arquitectura, LXVI, 256, Madrid 1985, pp.47-56; si veda la fig. 2 nel presente articolo, tratta da quest’ultimo volume. 24 TORRES BALBÁS L., ‘‘Arte Almohade, Nazari, Mudejar’’, Ars Hispaniae, IV, Madrid 1949. 25 GOMEZ MORENO M., ‘‘Mesquita de Cordoba; restauración del alminar’’, Ars Hispaniae, 1951, III, p.75 ss. Vedi anche Arte Toledano, Islamico y Mudejar, Madrid 1975. 26 Cf. PATRICOLO G., ‘‘La Chiesa di S.Maria dell’Ammiraglio in Palermo e le sue antiche adiacenze’’, Archivio Storico Siciliano (ASS), n.s., II, 1877, pp. 1-36; III, 1878, pp. 397-406; id ID, ‘‘La Chiesa della Trinità di Delia presso Castelvetrano, monumento del XII secolo scoverto il 31 marzo 1880’’, ibidem, n.s., V, 1881, pp. 50-66; id id, ‘‘Il Monumento Arabo scoverto nel febbraio 1882 e la contigua chiesa di S. Giovanni degli Eremiti in Palermo’’, ibidem, VI, 1882, pp. 170-83. Nella prima delle tre pubblicazioni, l’autore sente il bisogno di comunicare, in nota, il compiacimento di M. Amari e di A. Salinas per la qualità dei suoi restauri.

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niaci27. Basta dare una semplice occhiata alle due facciate sovrapposte del palazzo dei Normanni... Sempre a proposito della Sicilia, un appassionato studioso siciliano suggeriva – pochi anni orsono – di considerare quale unicum culturale (io direi un continuum culturale, particolarmente vero quando si parli di architettura) i due aspetti distinti del problema che ci interessa: il periodo ‘‘arabo’’ propriamente detto (ma non sarebbe più corretto definirlo ‘‘islamico’’?) e quello normanno (Bellafiore 1975:628; ma precedentemente lo aveva intuito e suggerito anche Basile, 1956:266)29. Condivido quindi pienamente sul piano ideologico il suggerimento di un tale unicum (o continuum), così come lo trovo sufficientemente utile anche sul piano metodologico, sebbene in tal caso, per ovvie ragioni di coerenza, si dovrebbe parlare soltanto di ‘‘architettura in Sicilia tra IX e XII secolo’’; ma in realtà tale suggerimento non fa che sottolineare la drammaticità della situazione, denunciando l’assenza pressoché totale di elementi concreti sui quali fondare una ancora non scritta storia dell’architettura del periodo islamico in Sicilia e quindi – paradossalmente – di quella del periodo normanno. Un altro suggerimento ci viene dagli sporadici e spesso casuali ritrovamenti di strutture attribuibili – sia pure con riserva – al periodo che ci interessa e investe quindi una ancora possibile ricerca archeologica ipogea, laddove lo permettano condizioni, ambienti, autorità. Aggiungerei, per vecchia e positiva esperienza diretta, una ricerca «in elevato»: ma in questo caso si tratta di immaginare, sia pure con tutte le incertezze e le difficoltà che tale tipo di ricerca comporta, un ampio programma di indagine sul campo, basato quanto meno su due filoni paralleli ed integrati: l’uno tipico dell’archeologia classica, fondato quindi sull’esame (o riesame) delle fonti letterarie quali linee-guida della ricerca sul campo; l’altro – quello in elevato – fondato invece su una maggiore attenzione all’analisi accurata e sistematica (e alla loro altrettanto sistematica registrazione) di materiali, metodi costruttivi, orientamento ecc. di tutte le strutture «sospette», a partire dai resti delle tante torri e fortificazioni ancora esistenti, con tutto il loro bagaglio di trasformazioni ed aggiunte. Ne potrebbero derivare osservazioni particolarmente interessanti sui metodi e sulle fasi costruttive ma an27 MANIACI A., Palermo capitale normanna. Il restauro tra memoria e nostalgia, Flaccovio ed., Palermo 1994, pp. 43-112. Nel saggio, arricchito da una corposa bibliografia, sono ben documentati tutti gli interventi restauratori a suo tempo compiuti sui principali monumenti normanni e quindi il tentativo di ottenere ‘‘a tutti i costi’’ l’unità stilistica, particolarmente sconcertante nell’assoluta identità (quanto mai ‘‘sospetta’’) nelle soluzioni architettoniche adottate o enfatizzate, come ad esempio nel doppio o triplice rincasso degli archi di facciata. 28 BELLAFIORE G., Dall’Islam alla Maniera, Palermo 1975, pp. 5-65. 29 BASILE F., ‘‘Nuove ricerche sull’architettura del periodo normanno in Sicilia’’, Atti del VII Congresso Naz. di Storia dell’Architettura, Palermo 1956, pp. 257-68.

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che nuovi e più puntuali confronti, non soltanto formali o stilistici, con l’architettura dello stesso periodo nell’area nordafricana. Ma nell’affrontare un tale tipo di ricerca non può essere sottovalutata la possibile presenza di differenti influenze regionali, anche più distanti, alla luce del carattere «imperiale» e quindi sopranazionale del mondo islamico, all’interno del quale era particolarmente diffusa la più grande mobilità, di maestranze come di milizie30. Ricordo ancora con grande simpatia, al riguardo, l’interesse dello storico messinese Domenico Ryolo di Maria per i materiali edili impiegati dai costruttori musulmani: all’epoca egli era impegnato in certe sue puntuali (e spesso trascurate) riflessioni critiche sulla «arabicità» dei bagni di Cefalà Diana (Ryolo 1971)31 ma anche su più modeste strutture sparse nel territorio e da lui ritenute di più probabile costruzione islamica32. Fui quindi da lui interpellato circa le 30 Sulla mobilità interna possediamo, benché sparse, molte informazioni. Per quanto concerne la Sicilia, disponiamo di alcuni dati interessanti circa l’eterogenea composizione dei primi contingenti inviati ad occupare Mazara del Vallo: «S’era adunato al bando della guerra santa il fior de’ guerrieri musulmani dell’Affrica: Arabi, Berberi, sopratutto della tribù di Howara, rifuggiti Spagnuoli e il giund [casta o distaccamento militare], frequentissimo di Persiani del Khorassan; e tra tutti notavansi molti uomini di dottrina e di consiglio.....e drizzandosi alla più vicina punta della Sicilia [salpando da Susah, ora Sousse in Tunisia], posero a terra le prime navi, il sedici giugno [827] a Mazara...» (AMARI M., Storia dei Musulmani di Sicilia, (ristampa), ed. Giannotta, Catania 1985, cap. X, p. 186). La permanente presenza di Persiani in Sicilia viene confermata e ribadita in uno studio pubblicato in inglese nel 1975 e in italiano due anni più tardi: «Nel 947, a Palermo, i Banu at-Tabari, nobile tribù di origine persiana, si sollevarono contro Ibn Attàf». Cf. AHMAD A., Storia della Sicilia islamica, citato alla nota 6. Non va trascurato inoltre che anche la classe dirigente fatimida d’Egitto – quindi shi’ita – ebbe sin dalla fine del IX stretti rapporti teologico-politici e culturali con il composito mondo shi’ita iranico (politicamente attivo già dal VII secolo) e in particolare con le prime dinastie indipendenti nate col disgregarsi del califfato abbaside: mi riferisco ai Tahiridi, ai Samanidi, agli Ziyaridi, ai Buyidi (attivi tra il Khorassan, la Transoxiana e il Tabaristan) e agli Imam Zayditi che, quasi interrottamente dal IX sino alla metà di questo secolo, hanno governato sullo Yemen. Più recentemente, una forte influenza iranica, artistica e culturale, è stata posta alla base di una inedita – anche se non del tutto convincente – interpretazione della Cappella Palatina di Palermo come ‘‘spazio architettonico’’ e del notissimo ciclo pittorico del suo soffitto: per la parte che più da vicino ci interessa, si tratterebbe infatti di un repertorio che affonda le sue radici culturali e formali nel mondo iranico – quindi pre-islamico – piuttosto che in quello genericamente definito come frutto della ‘‘koinè fatimida’’ e quindi dell’Islam nord-africano. Cf. D’ERME G.M., ‘‘Contesto architettonico e aspetti culturali dei dipinti del soffitto della Cappella Palatina di Palermo’’, Bollettino d’Arte, n. 92, pp. 1-32. e cf. con la nota 21. Una modesta conferma dell’attività in Sicilia di una particolare categoria di specialisti persiani potrebbe essere vista anche nella presenza, in particolare a Palermo, dei numerosi canali di captazione e distribuzione idrica, artificiali e sotterranei, sfruttati sino al secolo scorso e ancora oggi noti come qanat, secondo una antichissima (e riconosciuta) tecnica persiana (cf. s.v. in Encyclopédie de l’Islam; per la tecnica, si veda WULFF H.E., The Traditional Crafts of Persia, The MIT Press, Cambridge, London, 1966, pp. 245-259). Sempre nell’ambito della grande ‘‘mobilità’’ interna al dar al-Islam, desidero ricordare qui altri tre casi: il primo riguarda la nota partecipazione di contingenti musulmani provenienti dalla Spagna alla conquista di Palermo del 948; gli altri due casi – fuori del contesto siciliano – riguardano l’invio di un reparto Yemenita a Carmona, in Spagna, con il fine di uccidere l’ingombrante ’Abd al-Rahman I (c. 758). (GOODWIN G., Spagna Islamica, Garzanti, Milano 1992, p.47) e, lontanissima per tema, luogo e tempo, l’opera di un abile calligrafo di Isfahan (Iran), testimoniata sulle mura di un caravanserraglio a Dakha (attuale Bangla Desh) e realizzata nel 1644 (MAHMUDUL H., Muslim Monuments of Bangladesh, Dacca 1980, p. 56). 31 RYOLO DI MARIA D., ‘‘I bagni di Cefalà’’, Sicilia Archeologica, IV, n. 15, pp. 19-32. 32 RYOLO DI MARIA D., ‘‘Sopravvivenze arabe in provincia di Messina’’, Palladio, XVIII, 1968, pp. 31-41; id.ID., ‘‘Contributi alla conoscenza delle architetture paleocristiana e araba in Sicilia’’, in Bollettino

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esperienze che negli anni ’70 andavo facendo in Iran ed Afghanistan sull’impiego della terra cruda e del gesso nelle strutture islamiche del X ed XI secolo (Galdieri 80: 19-23)33: due materiali egualmente poveri e generosi, i cui resti sono spesso difficilmente individuabili nello scavo archeologico ma che potrebbero essere ancora riscontrati, con sufficiente chiarezza, sugli elevati. Dell’antico impiego del gesso in Sicilia, benché abbastanza diffuso, si sa e si è detto ancora poco. L’analisi qui suggerita dovrebbe avere anche un altro obiettivo: quello di individuare (dovunque possibile e quindi anche sulle strutture sinora datate all’età normanna) quei segni materiali che ci aiutino a distinguere con approssimazione sufficiente l’opera di semplici maestranze, con un loro modesto ma caratterizzante bagaglio operativo, dalla presenza coordinatrice e creativa (intendo ‘‘progettuale’’) di un eventuale mehimar, muhandis o architetto musulmano e di un suo specifico ma più ampio retroterra culturale. Ferma restando la necessità di indagini sistematiche e globali, tra le tante possibili proposte si potrebbe, per esempio, suggerire una maggiore attenzione ai metodi costruttivi e alla tipologia di edifici posti nei territori siciliani conquistati per ultimi dai Normanni, come Castrogiovanni (Enna), liberata nel 1064 o Butera o Noto, entrambe liberate nel 1091. Non propongo cose nuove: sia pure non separabile dall’idea progettuale, questo aspetto operativo era stato evocato già nei lontani anni ’50 (Basile 1956:258,cit.)34 ma devo presumere che quell’invito alla analisi sia rimasto, almeno sino ad oggi, assolutamente inascoltato. E anche di tutte le mancate risposte, come di tutti i silenzi o le omissioni occorrerebbe chiedersi il motivo o la causa. Accertato quindi che il numero delle strutture emergenti di sicura costruzione islamica è talmente esiguo da poter essere considerato nullo e constatato che i primi edifici normanni degni di nota risalgono – all’incirca – all’inizio del XII secolo, c’è da chiedersi in base a quali criteri oggettivi si possano lecitadel Centro Studi per la storia dell’architettura, n.24, Roma 1976, in particolare le pp. 40, 42. In entrambi gli articoli sono contenute interessanti osservazioni circa gli anni di maggiore attività edificatoria da parte degli occupanti musulmani oltre a preziose indicazioni su possibili resti nel messinese. Ignoro se queste indicazioni siano state sfruttate o verificate. 33 GALDIERI E., ‘‘I metodi avanzati nel consolidamento di alcune strutture antiche’’, in Studi e restauri di architettura: Italia-Iran, IsMEO, Centro Restauri, Roma 1980, pp. 19-23. Va ricordato che in molte zone della Sicilia interna e in particolare nella provincia di Enna, è ancora vivo l’impiego delle malte di gesso. È solo una conseguenza della disponibilità geologica del materiale? 34 «...sorprende un poco come fin qui il ‘‘contributo’’ fornito dagli arabi [nella costruzione delle chiese siciliane] sia ammesso genericamente in aggregazione approssimativa e aritmetica con altri ‘‘contributi’’, senza individuarlo e debitamente valutarlo. Oppure a vagamente localizzarlo in semplici peculiarità tecniche e pratiche costruttive, come sarebbe se gli arabi di Sicilia avessero bensì fornito delle servili maestranze esecutive ma, per ciò stesso, non avessero partecipato che assai limitatamente a determinare nel loro valore architettonico la configurazione dei monumenti». Vedi BASILE F., ‘‘Le nuove ricerche sull’architettura del periodo normanno in Sicilia’’, Atti del VII Congresso nazionale di Storia dell’Architettura, Palermo 1956, pp. 257-266.

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mente ipotizzare tipologie, influenze e confronti su monumenti edificati presumibilmente nell’arco di circa due secoli ma, purtroppo, scomparsi. Due secoli: tempo eccezionalmente lungo in termini di storia dell’arte (penso alle interminabili querelles scientifiche che spesso hanno per unico oggetto lo scarto di datazione di un decennio); tempo durante il quale, altrettanto presumibilmente, può essersi verificata un’ampia e significativa evoluzione non tanto tipologica quanto formale o ‘‘stilistica’’, per usare una espressione che non mi è consona. Si immagini, ad esempio, l’impatto dei primi occupanti musulmani con la realtà edilizia circostante; si immagini la frettolosa realizzazione dei primi edifici funzionali come le opere di difesa ed i luoghi della preghiera collettiva; si pensi alla lenta ma progressiva necessità di circondarsi di strutture via via più pacifiche, meglio rispondenti al modo di vivere islamico; più durature, confortevoli e belle, sino a giungere – forse – ai ben noti ‘‘sollazzi’’. Se dunque vogliamo ammettere l’unicum / continuum, dovremo ammettere necessariamente anche una evoluzione formale (o involuzione: comunque una trasformazione, un dinamico adattamento) che oggi non siamo assolutamente in grado di cogliere. Un esempio: la differenza abbastanza sensibile che divide il coronamento a muqarnas presente nella Cuba dagli altri esempi normanni di Palermo e in particolare quelli della Zisa, può giustificarsi – si dice – dal divario di circa venti o trenta anni che separano quella costruzione dalle altre. Il che può essere vero e comunque è accettabile; ma può essere accettabile, a questo punto, la teoria che vede l’architettura d’epoca normanna – così eguale a sé stessa – come rappresentativa dell’intero apporto islamico? A ben guardare, persino le tarde opere sulle quali oggi siamo costretti a discutere, non offrono tutte – nè d’altronde lo potrebbero – convincenti riscontri con gli ipotizzati modelli dell’altra sponda mediterranea, tali soltanto per plausibile influenza geografica, per presumibile identità di maestranze e un pò anche, mi si passi l’espressione, per pigrizia nella ricerca. Non si può negare, d’altro canto, che «questi confronti [con le architetture ifriqene] sono divenuti più puntuali dopo la scoperta del palazzo degli emiri bèrberi ziridi ad Ashir [Golvin 1966]35, e sempre più si fa evidente la coerente progettazione degli edifici normanni secondo quelli che erano i principi informatori dell’architettura del Maghreb orientale» (Scerrato 1979:317)36. Se tale affermazione è da ritenersi esatta – sia pure con qualche riserva – è giocoforza tornare alla domanda iniziale: che cosa avevano i Normanni sotto i propri occhi per progettare i loro edifici coerentemente ai modelli ifriqeni? E se, a loro volta, gli esempi siciliani 35

GOLVIN L., ‘‘Le Palais de Ziri à Achir (Dixième Siècle J.C.), in Ars Orientalis, 6, 1966, pp.

47-66. 36 SCERRATO U., ‘‘Arte islamica in Italia: l’architettura’’, in GABRIELI F., SCERRATO U., Gli Arabi in Italia (cit.), pp. 307-340.

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dei primi cinquant’anni si fossero già rifatti alla madrepatria (o meglio, alle diverse patrie degli occupanti), quale filologico bisogno c’era di ‘‘saltare’’ la versione locale per prendere a modello soltanto gli originali maghrebini? Sorvolo per brevità su una ulteriore, modesta contraddizione di carattere storico-stilistico: mentre si indica genericamente nel periodo aghlabita (c.800910 a.D.) il più fecondo per l’arte e l’architettura della Sicilia islamica, si vuol vedere negli esiti (e quindi nei modelli) una «inequivocabile» matrice fatimida (c.910-1160 a.D.). I modelli presi in esame, a loro volta, tendono a farci sottovalutare due elementi di un certo peso: il lungo periodo in cui vennero realizzate le strutture oggi scomparse (durante il quale le tendenze architettoniche potevano cambiare anche in virtù delle vicende politiche) e la già evocata mobilità delle maestranze (compresi quindi gli architetti, gli epigrafisti, i decoratori) all’interno dell’immenso dar al-islam. Se un confronto strettamente planimetrico può spesso risultare avvincente e convincente, non vanno dimenticati i tranelli che tali accostamenti formali possono nascondere37. Occorrerà forse prestare una maggiore attenzione alle proporzioni globali degli esempi normanni, così poco mediterranee; alla tendenza verticaleggiante di molti edifici, che già in certo modo prefigura slanci nordici ma certo non nordafricani; al particolare rapporto dimensionale tra le calotte e le strutture di sostegno (rapporto in genere molto riduttivo per le prime), alle caratteristiche di curvatura delle cupole: certo ‘‘di gusto orientale’’ quelle sicule, perfettamente emisferiche38 ma abbastanza lontane dai presunti modelli: penso anche 37 Troppo spesso, da parte degli storici dell’arte che si occupano di architettura, viene trascurato o sottovalutato il fatto che questa vive di spazio e quindi non può essere giudicata che in termini tridimensionali; una pianta, se non è accompagnata (o collegata mentalmente) ad altri elementi grafici conoscitivi (prospetti, sezioni, assonometrie) è soltanto una ‘‘astrazione di comodo’’, una mera convenzione metrica priva di ogni riferimento spaziale: su questa convenzione vanno ad appiattirsi, in amorfa proiezione, tutte le caratteristiche volumetriche dell’edificio e quindi è estremamente ingannevole costruirvi confronti e somiglianze. Cf. ZANDER G., ‘‘Un curioso marginale errore sull’architettura federiciana’’, Palladio, n.s. 1968, anno XVIII, fasc.I-IV, nota a p.54:: «Gioverà notare... quanto sia pericoloso per la critica d’arte fare confronti e spingersi abbastanza avanti nel suggerire analogie, fondandosi sulla sola immagine della pianta.». Ciò è particolarmente vero nel caso dell’architettura islamica, dove il ‘‘dominio dello spazio’’ – sopratutto quello interno, quello vissuto – è perennemente testimoniato da una sapiente armonia di volumi. È ingannevole, ad esempio, mettere a confronto le piante della Cuba, della Zisa e del palazzo degli Ziridi di Ashir (Algeria), senza mostrarne contemporaneamente le rispettive misure e, ove possibile, gli elevati. Ma è altrettanto ingannevole (o quanto meno deviante) mostrare la pianta della sala – indicata quale moschea – alla quale presumibilmente si sarebbe addossata la chiesa di San Giovanni degli Eremiti, senza indicare contemporaneamente la direzione della qiblah rispetto alle coordinate di Palermo o, quanto meno, l’esatto orientamento cardinale (vedi anche più avanti, la nota 53e la fig.8b). Sono dettagli di non grande peso: ma sono indice di una certa superficialità nell’affrontare globalmente il problema, già di per sé abbastanza complicato. Ben poche pubblicazioni occidentali, concernenti l’architettura islamica in genere, sono esenti da questa deplorevole lacuna, d’altronde specularmente verificabile nelle pubblicazioni di paesi musulmani. 38 È appena il caso di ricordare le numerose cupolette emisferiche, generalmente intonacate e dipinte in un particolare tono di rosso (tutte ripristinate a fine secolo sulla base di un frammento di into-

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all’impiego frequente dell’alto tamburo quadrangolare, volumetricamente non differenziato; penso ai canoni di tracciamento degli archi, in Sicilia quasi sempre leggermente acuti (cioè a due centri molto ravvicinati) o addirittura a tutto sesto (come in tutti i più noti edifici normanni di Palermo, di Castelvetrano ecc.), laddove i modelli maghrebini e mediorientali sono anche a quattro o tre centri o a spezzata (figg. 3a,b-4a,b); penso alla determinante presenza dell’acqua e a tanti altri piccoli dettagli strutturali che qui sarebbe lungo elencare. Tutto ciò potrà apparire più chiaro e leggibile soltanto dopo avere liberato (mentalmente) i singoli edifici dai pesanti inteventi integrativi subìti a partire dalla fine dello scorso secolo e dopo aver riletto criticamente – e quindi vagliati a fondo – quegli studi basilari sui quali da tempo fondiamo quasi tutti i nostri convincimenti39. Personalmente ho sempre giudicato arbitrario e comunque poco utile l’esprimere giudizi di valore basati esclusivamente su esiti postumi; al tempo stesso devo riconoscere che, non disponendo di una produzione architettonica – di sicura costruzione islamica – in forma e in quantità tale da poter essere studiata direttamente, si è stati in qualche modo costretti a studiarla (meglio, ad ipotizzarla) ‘‘per interposta edilizia’’. Tutto sommato, quindi, il mio non è un lamento funebre, un ya-sin da recitare sopra questa architettura scomparsa40; è piuttosto un invito appassionato a cercare con ogni mezzo, a cercare ancora, partendo da quegli accorgimenti menaco rinvenuto nella Martorana!), che caratterizzano – a Palermo – le chiese di S.Giovanni degli Eremiti e di S. Giovanni dei Lebbrosi, di S. Cataldo, della cappella della Favara, della Cubula e – a Castelvetrano – della Trinità di Delia. Lo stesso tipo di cupola emisferica si trova, per esempio, anche nell’Abbazia della Trinità di Venosa (si veda la fig. 3c). 39 Mi ritengo dispensato dall’elencare compiutamente tali ‘‘testi sacri’’, a cominciare da BERTAUX E., L’art dans l’Italie méridionale, Paris 1903 e Aggiornamenti, Roma 1978 e da MARÇAIS G., L’Architecture musulmane d’Occident. Tunisie, Algérie, Maroc, Espagne et Sicile, Paris 1954; oltre, ovviamente, a quella inesauribile miniera di informazioni e di suggerimenti rappresentata dall’intera opera di M. Amari. Propongo quindi soltanto una rilettura più mirata e critica di quei passi circoscritti e particolari riguardanti l’architettura e l’urbanistica. Per Palermo – ad esempio – si rivedano DI GIOVANNI V., La Topografia antica di Palermo dal secolo X al XV, Palermo 1889; COLUMBA G.N., ‘‘Per la topografia antica di Palermo’’, in Centenario della nascita di M.Amari, Palermo 1910; una insolita interpretazione ‘‘dinamica’’: JONES D., ‘‘Palermo, a ’place in space’ and a ‘drama in time’ ‘‘, Storia della Città, n.7,1978, pp.20-25, ed altri. Va osservato però che la maggior parte dei nostri testi storico-artistici – quando non si occupino soltanto di objects d’art- tendono a ‘‘glissare’’ sul tema della architettura (o meglio, della sua assenza) o danno per scontata quella generica influenza fatimide alla quale si va accennando da qualche tempo, peraltro anch’essa non sufficientemente testimoniata, neanche sul proprio territorio. In genere, infatti, “i palazzi dei Fatimidi ci sono noti solo da descrizioni, da cui non si può trarre alcuna deduzione sicura’’ (KÜHNEL E., E.U.A., voce Islam, col. 757). Per la produzione più specificamente artistica e letteraria, molto più ricca, articolata e testimoniata, si veda il citato e fondamentale Gli Arabi in Italia, Milano 1979, denso di ottimi contributi sui più svariati campi dell’arte. 40 Ya-Sin: è la coppia di lettere dell’alfabeto arabo (i lunga, esse) che precede e caratterizza la sura XXXVI – una delle più venerate del Corano – quasi un Dies Irae del mondo musulmano. La sura ’YaSin’ è usualmente recitata nei servizi funebri o come lamentazione al capezzale di un morente. Cf.: Il Corano, nella insuperata traduzione ed edizione critica a cura di A. Bausani, Sansoni, Firenze 1961, p. 634.

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Fig. 3 – a, Tracciamento di archi o cupole nell’architettura c.d. ‘‘arabo-normanna’’ (ss. XI-XII). Grafici dell’autore. b, Tracciamento di archi o cupole nell’architettura ifriqena e mediorientale (ss. X-XII). Grafici dell’autore.

todologici ed operativi qui appena accennati ma anche dall’esame delle possibili cause e dei tempi della scomparsa. Dico anche «tempi» in quanto – dovendosi escludere l’ipotesi catastrofica di un tracollo generale e repentino – si deve presumere che lo scempio sia andato avanti per secoli, un pò alla volta, silenziosamente, in maniera subdola; ma anche traumatica, come sappiamo essere avvenuto ad esempio, più di recente, al minareto/campanile connesso alla chiesetta di S.Calogero a S.Margherita Belice – forse la perduta Manzil Sindi – (Giacone B. 190741 o ai sette ‘‘vicoli saraceni’’ di Sambuca (Giacone G. 1932; Schmidt 1972:90; Guidoni 1979:589)42 o come accadrà – sta già accadendo, malgrado 41 GIACONE B., Del castello arabo ‘‘Manzil Sindi’’, ovvero Santa Margherita Belice, Palermo, A. Rober, Virzi edd., 1907, pp.222, 16 fototipi. 42 Su Sambuca di Sicilia si vedano GIACONE G., Zabut, notizie storiche del castello di Zabut e suo contiguo casale oggi Comune di Sambuca di Sicilia, Sciacca, Tip. Edit. B. Guadagna, 1932, pp. 169, ill..;

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Fig. 3 – c,d, Caratteristiche spaziali e visuali della cupola emisferica di tipo arabo-normanno e della cupola (a quattro centri) ifriqena e mediorientale. Elaborazione grafica di R.Cerbino e dell’autore.

i recenti, lodevoli interventi conservativi e i propositi (meno lodevoli) di ripristino del sistema idrico interno – alle superstiti strutture dei bagni di Cefalà Diana (fig. 5; vedi anche Strika 1973:23-33) e ai suoi ormai quasi illeggibili lacerti epigrafici (fig. 6)43. SCHMIDT A.M., ‘‘La fortezza di Mazzalaccar’’, Bollettino d’Arte, LVII, n.2 (1972), pp. 90-93; GUIDONI E., ‘‘La componente urbanistica islamica nella formazione delle città italiane’’, in Gli Arabi in Italia, cit., pp. 575-97, pianta a p. 589 e figg. da 669 a 687. 43 STRIKA V., ‘‘Alcuni problemi sulle terme di Cefalà’’, Sicilia Archeologica, VI, nn. 21-22. Per studi e proposte di ripristino più recenti siamo ancora in attesa della pubblicazione degli atti del Convegnomostra tenutosi in loco – a cura della Soprintendenza ai BB.CC. di Palermo – nel giugno 1997. L’inarrestabile perdita della banda epigrafica di Cefalà Diana era stata però già lamentata dall’Amari (pur non

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È stato scritto, in rapporto a certe sue ben note strutture ‘‘islamizzanti’’ ad archi intrecciati, che il buon frate-architetto Guarino Guarini avrebbe potuto ispirarsi, per l’insolita copertura della Sacra Sindone, a modelli visti in Sicilia quando vi giunse nel 1660 con i Padri Teatini, piuttosto che durante un probabile – ma non documentabile – viaggio in Spagna. E Camillo Boito, che noi architetti consideriamo il padre del moderno restauro conservativo dei monumenti (Boito 1893)44, riteneva che qualcosa dovesse pur essere scampato in Sicilia, di autenticamente musulmano, al terribile terremoto del 1638 (Boito 1880, passim45; Galdieri 1970:637-8)46. Lo sappiamo bene: guerre e terremoti sono stati sempre un comodo alibi, un’ottima scappatoia per giustificare la scomparsa di edifici ben testimoniati invece dalle fonti storiche. Qualche volta ne sono stati realmente la causa: ma chi si è presa la cura (forse ancora possibile) di appurare per esempio – e sistematicamente – quanti terremoti, di quale intensità e in quali località si siano verificati in Sicilia dal IX secolo sino alla catastrofe del Belice del 1968?47. Tentativi seri di ricerca sul campo – sarebbe ingiusto non ricordarlo – ve ne sono stati e alcuni sono tuttora in corso (vedi più innanzi nel testo e le note 52 e 55). Ma anche a prescindere dalle obiettive e forse insormontabili resistenze ambientali (psicologiche? politiche? malavitose?), sembra che la ricerca degli ultimi decenni si sia svolta in genere in maniera frammentaria, a livelli e con finalità di volta in volta differenti e spesso in forme gelosamente riservate: è quindi mancata da una parte la necessaria sistematicità dell’indagine e il coordinamento tra le varie esperienze, dall’altra la doverosa pubblicità dei risultati, ove per avventura ve ne siano stati. È questo il caso – sempre che siano esatte le mie informazioni – di una ricerca sulla ‘‘cultura materiale araba in Sicilia’’: una ricerca che sembrava assai promettente, almeno a giudicare dal ben congegnato programma e dalla espe-

avendola esaminata) in Storia dei Musulmani di Sicilia: «...ma poiché mi si dice sia cascata giù, fin da molti anni, l’iscrizione, non possiamo sperare per ora, nè forse mai, di arrivare all’origine di quel monumento» (2a ed., modificata e accresciuta dall’Autore con note a cura di C.A. Nallino, vol.III, p. 844, nota 2). 44 BOITO C., Questioni pratiche di belle arti, Milano 1893. 45 BOITO C., Architettura del Medioevo in Italia, Milano 1880. 46 GALDIERI E., introduzione al saggio (pubblicato postumo) di A. FLORENSA, ‘‘Guarini e il mondo islamico’’, Atti del Convegno ‘Guarino Guarini e l’internazionalità del Barocco’ (Torino 30.9 - 5.10 1968), Torino 1970, pp. 637. 47 Una buona fonte – di molto antecedente gli esaustivi studi di sismologia storica condotti dal C.N.R. – resta ancora BARATTA M., I terremoti in Italia, pubblicazione del Comitato Italiano Studio Grandi Calamità, vol. VI, Firenze, Le Monnier, 1936: in esso sono ad esempio registrati, per alcune città siciliane, i seguenti grandi e recenti movimenti tellurici: Geraci, 1720; Marsala, 1828; Noto, 1693; Palermo 1726 e 1823; Siracusa, 1140, 1169, 1542, 1693; Sciacca 1571, 1572, 1727, 1740, 1831. Sono già sufficienti ma certamente non sono tutti.

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Fig. 4 – a, Tracciamento delle curvature a uno e due centri sugli archi interni della Cuba (elaborazione dell’autore sul rilievo di S.(usanna) Bellafiore, La Cuba di Palermo, Palermo 1984). b, Tracciamento della curvatura (a due centri) della griglia proveniente dal S.Giovanni degli Eremiti di Palermo e ora esposta nel palazzo della Zisa (elaborazione dell’autore sul rilievo pubblicato in Salinas A., Trafori e vetrate nelle finestre delle chiese medievali di Sicilia, in occasione del centenario della nascita di M.Amari, Palermo 1910.

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Fig. 5 – Schema grafico delle curvature (a due e quattro centri) nell’hammam di Cefalà Diana (Pa). Rilevamento ed elaborazione dell’autore. Il triplice arco di separazione è attribuito dal Ryolo al XV secolo.

Fig. 6 – Cefalà Diana, hammam, resti della ricca cornice epigrafica (foto dell’autore)

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rienza ed autorità degli studiosi coinvolti. Mi riferisco alla ricerca promossa dagli insegnamenti (due, all’epoca) di Storia dell’Arte musulmana all’Università di Roma La Sapienza, con il contributo del C.N.R. L’intenzione risale al 1980 (!) e già nella prima, breve comunicazione ufficiale (Alfieri 1982:96-98)48 venivano segnalati i limiti gravi degli studi del passato. Persino dopo aver letto la successiva e volenterosa comunicazione (Alfieri 1984:258-9)49, mi è stato difficile comprendere – e quindi valutare – quali e quanti obiettivi, tra quelli che la ricerca si prefiggeva (e più in particolare, dal mio punto di vista, quelli concernenti l’architettura) fossero stati raggiunti o, quanto meno, se ne fossero diffusi i risultati, sia pure parziali o addirittura negativi. Appresi invece positive notizie – nell’occasione – sulla nuova raccolta e documentazione delle iscrizioni arabe – già censite dall’Amari – o sullo studio dei bronzi; lessi dell’autonomo e ricchissimo studio geografico-filologico di L.Scotoni (vedi nota 3) e presi atto con piacere – era il 1984 – che era «giunta ad una fase intermedia [?] la raccolta di tipologie architettoniche, che ci permetterà di compilare un inventario delle strutture islamiche [?] siciliane» (ibidem: 258). Non mi risulta vi siano state altre comunicazioni ufficiali ma sopratutto ignoro se siano stati mai pubblicati quei risultati, parziali o ‘‘intermedi’’, colà annunciati. Questa assuefazione ai silenzi – ma anche, nel migliore dei casi, ai tempi lunghissimi tra raccolta, elaborazione e pubblicazione dei dati – è sempre spiacevole e sovente espone ad inutili e dannose sovrapposizioni, quando addirittura, in nome di una vecchia interpretazione della ‘‘titolarità della ricerca’’, non tenda a bloccare (o blocchi di fatto) altre iniziative: forse meno esaustive nelle intenzioni ma sorrette spesso da autentica voglia di fare luce (sia pure poca luce per volta). Nella comunicazione del 1982 relativa alla ricerca sulla cultura materiale (quella ‘‘programmatica’’), si accennava – tra i siti da analizzare – anche ai resti del recinto fortificato di Mazzalaccar (Sambuca di Sicilia, Agrigento) «che rischiano di perdersi a causa dell’erosione delle acque di un lago artificiale, se lo studio dovesse venir ritardato» (Alfieri 1982:96, cit.). Ebbene, a oltre venti anni dalla pubblicazione di quegli encomiabili propositi, devo ritenere che nessun passo sia stato compiuto, non dico per salvare il sito (non essendo nè tra gli scopi nè nelle possibilità degli studiosi coinvolti) ma neanche per condurvi un attento rilievo e per verificare la validità delle deduzioni tipologiche, cronologiche e storiche proposte in un precedente, forse incompleto ma ben documen48 ALFIERI B.M., ‘‘Ricerche di archeologia islamica nella Sicilia occidentale’’, Atti del I Convegno ’La presenza culturale italiana nei paesi arabi: storia e prospettive’ (Napoli 28-30.5.1980), Roma 1982, pp. 95-97. 49 ALFIERI B.M., ‘‘Ricerche di archeologia islamica nella Sicilia occidentale’’, Atti del II Convegno (c.s.) (Sorrento 18-20 nov.1982), Roma 1984, pp. 258-259.

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tato saggio (Schmidt 1972, citato alla nota 42). Sette anni più tardi, al sito fu riservato, in altra sede, soltanto un nuovo accenno, sintetico ma in certo modo promettente («...modelli di ribàt o... i caravanserragli, di cui in qualche maniera il recentemente segnalato [1972!] recinto fortificato di Mazzalaccar... rappresenta senza dubbio un erede, islamico o meno che sia riguardo alla cronologia» (Scerrato 1979:317, cit.)50. Il caso ha voluto che nel 1989 io dovessi indirettamente occuparmi di quel sito, nell’ambito di una tesi inerente al Corso di specializzazione in conservazione dei monumenti presso la facoltà di Architettura di Roma La Sapienza. In quella occasione, convinto della inesistenza di un rilievo (a meno che per tale non si voglia intendere il lineare schema planimetrico proposto dalla Schmidt) del recinto in questione, chiesi al giovane collega di redigere, sotto il mio controllo indiretto, un rilievo di larga massima in pianta, alzati, sezioni significative, oltre a qualche particolare costruttivo (fig. 7a). Non ne diedi notizia – e me ne scuso pubblicamente oggi – neanche all’autrice del citato articolo in ragione del carattere strettamente didattico dell’operazione; ma anche perché, proprio quando si stava per tirare le fila dei dati disponibili, erano emersi alcuni elementi (raccolta e vaglio dei quali furono estremamente delicati a causa della difficile situazione ambientale) che, salvo futuri e per ora non ipotizzabili ritrovamenti, non fanno che suggerirci, ancora una volta, una origine normanna, forse addirittura sveva. Non è che una piccola goccia nel mare: quello studio costituirà comunque, una volta messo a punto e adeguatamente documentato in una stesura non accademica, una utile acquisizione storico-scientifica; ma sul piano della «islamicità» dell’edificio, sembra che delusione si aggiunga a delusione, lamento a lamento. Nel corso di una mia recente visita (luglio 1999) nell’area di Sambuca ho dovuto constatare con sgomento che i resti di quella interessante struttura, quasi completamente sommersi dalla piena del lago Carboi (oggi bacino artificiale del Lago Arancio), sono divenuti ormai pressoché illeggibili per l’ormai diffuso smembramento delle murature d’ambito (fig. 7b)51.

50 L’arch. Vincenzo Minniti – che ringrazio di cuore – mi ha permesso di pubblicare qui la vista assonometrica del recinto di Mazzalaccàr, ricavata dal rilievo a suo tempo eseguito da lui stesso e dal collega arch. Ugo Fattore; egli mi ha comunicato inoltre la sua lodevole intenzione di completare il suo studio con un breve saggio critico, dal taglio meno ‘‘accademico’’ di quanto fu fatto, necessariamente, all’epoca. 51 Sul tema del ribat (vedi anche la nota 11) registrammo nel recente passato un altro ‘‘promettente dubbio’’ espresso da un archeologo classico, da tempo attivo in Sicilia: si veda MERTENS D., ‘‘Castellum oder Ribat? Das künstenfort in Selinunt’’, MDA, 39, 1989, pp. 391-98 e Tav. 37.1,2. Una cortese comunicazione verbale da parte della dott. A. Molinari (si vedano le note 52 e 56), ha recentemente spento, anche in questo caso, ogni nostra speranza: sembra infatti che i resti individuati dal Mertens a Sud dei templi (noti come A e O) debbano essere datati soltanto al periodo bizantino.

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Fig. 7 – a, Lago Arancio (Sambuca di Sicilia), c.d. castellaccio di Mazzalaccàr. Assonometria dei resti (dall’originale eseguito nel 1990 dall’architetto V. Minniti) e sezione di una torretta, grafico dell’autore. b, Lago Arancio (Sambuca di Sicilia) c.d. castellaccio di Mazzalaccàr. I resti sommersi dalla piena del lago artificiale del Carboi (sett.1997). Foto dell’autore.

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Una importante ed articolata ricerca, ancora in corso, seriamente condotta e ben documentata, sembra essere quella di carattere strettamente archeologico, condotta sugli insediamenti medievali nell’ampia Valle di Mazara e nelle aree rurali di Segesta e di Entella52. Tra i notevoli risultati scientifici ottenuti nella zona di Segesta siamo stati interessati dai resti (solo poche decine di centimetri in elevato) di una vasta sala di preghiera, sebbene di modesta fattura costruttiva come si conviene ad un’area rurale: si presenta come una sala oblunga e (presumibilmente) divisa in due navate, con un ben conservato mihrab ma anche con qualche perplessità (per lo meno a mio parere) sull’orientamento canonico. La scoperta, nella sua attuale unicità53 (fig. 8a,b), ci riempie obiettiva52 Tralascio i numerosi rapporti ad interim redatti dalla dr. A. Molinari a partire dal 1991 nell’ambito della ricerca condotta dalla Scuola Normale di Pisa e dalla stessa ricercatrice riversati e ampliati in interventi a vari convegni, mentre segnalo il suo recentissimo Segesta II. Il castello e la moschea (scavi 1989-1995), Palermo 1997, che raccoglie ed esamina criticamente tutti i dati raccolti in sei anni di lavoro sul campo. 53 Infatti la sala adiacente al S.Giovanni degli Eremiti a Palermo (ovvero l’altra e più nota sala indicata spesso come possibile moschea, apparentemente simile a quella di Segesta nella divisione in due navate oblunghe, più che nelle misure o nelle proporzioni) sembrerebbe non avere tutte le condizioni per essere definita come edificio religioso islamico: il numero di campate definite dai cinque pilastri non lascia speranze, a meno che non si accetti l’infrequente caso del mihrab occultato da un pilastro assiale. Inoltre l’unico segno di tamponatura che possa far supporre l’occlusione di un perduto mihrab, forse estradossato come quello di Segesta, si trova sulla parete minore verso Sud, sempre con la riserva di un pilastro assiale e con un errore di qibla di circa 15o verso Sud. Per l’orientamento del S. Giovanni e della moschea di Entella si veda la fig. 8a,b. G.Patricolo, cui si deve la «scoverta del monumento arabo» (il S. Giovanni) nel 1882, si accontentò di constatarvi un generico «orientamento da Nord a Sud, cioè a dire nella direzione del celebre tempio della Mecca», tanto da pubblicare la planimetria, fin troppo accurata e regolare, priva di qualsiasi indicazione cardinale (PATRICOLO 1882:12 e tav.I, cit. alla nota 26). Almeno dalla metà dell’VIII secolo, la determinazione della qibla era sorretta (indipendentemente da una effettiva e sistematica applicazione) da precisi calcoli contenuti in ogni manuale islamico dedicato alla astronomia o alla misura del tempo. Sembrerebbero potersi escludere anche altri orientamenti, diversi dalla Mecca, eventualmente adottati dagli Aghlabiti o dai Fatimidi di Sicilia.Va notato per esempio che, rispetto alla Sicilia, l’orientamento sulla Mecca coincide quasi perfettamente con quello del Cairo. Ma anche qualora venisse provato che la struttura palermitana è realmente una moschea riutilizzata, «[non] bastano i resti di un’aula... per avallare il ricordo e dare corpo a quella città dalle cinquecento [corsivo mio] moschee di cui parla il periegeta del X secolo Ibn-Hawqal...» (DELOGU R., ‘‘La leggendaria città dalle cinquecento moschee’’, Sicilia, Sansoni-IGDA, vol. I, 1962). Per quanto riguarda il numero complessivo di edifici religiosi a Palermo, il passo al quale si allude è in realtà un pò differente: «Le moschee della città, della Halisah e de’ quartieri che giacciono intorno la [città] fuor le mura, passano il numero di trecento: la più parte fornite d’ogni cosa, con tetti, mura e porte. Le persone ben informate del paese dan tutte a un modo così fatto ragguaglio e concordano nel numero» (Ibn Hawqal – a Palermo nel 973 – nella versione di M. AMARI, Biblioteca arabo-sicula, 1880-81, p. 15). Ma aggiunge: «Avendo chiesto il motivo di questo numero enorme di moschee, mi fu detto che la gente è così gonfia di superbia [è ben noto il malanimo di Ibn Hawqal nei confronti degli arabi di Sicilia], che ognuno vuole una moschea sua propria, nella quale non entri che la sua famiglia e la sua clientela» (ibidem, p. 17). Dai due frammenti riportati si possono ricavare tre considerazioni: a) che il numero di 300 può comunque essere una esagerazione polemica; b) che già a quell’epoca non tutte le ipotetiche 300 moschee erano in buone condizioni, coperte, recintate e quindi in uso; c) che molti edifici di culto indicati come moschee erano forse soltanto piccoli oratori privati – nella città – oppure semplici recinti extra moenia, del tipo musalla (in genere usati dai militari per la preghiera collettiva), pressoché privi di significative connotazioni architettoniche. A puro titolo di curiosità, ricordo che in prossimità di Pietraperzìa, Agira e Pozzallo sono stati registrati tre toponimi musalla (SCOTONI 1979:208, vedi nota 3), naturalmente senza alcun riscontro sul costruito. Solo la prima località, in provincia di Enna, rientra nell’area più profondamente islamizzata. Un radicale

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mente di soddisfazione; purtuttavia i dati archeologici e documentali sinora emersi tendono a datare quei resti in pieno XII secolo, ponendoli quindi nell’ambito cronologico e storico di quei fenomeni periferici legati agli ‘‘ultimi musulmani ribelli’’ (ne sono esempi gli insediamenti di Iato, di Entella, di Monte Guantanella), sopravvissuti alla ormai conclusa fase dell’occupazione normanna e quindi emarginati sul piano storico come su quello pratico. È tutto compromesso dunque? È senza speranza di appagamento questo amore per il nostro passato islamico, questa voglia di far luce su un frammento concreto ed accattivante della nostra storia? Dovremo continuare a mendicare indizi stilistici, frammenti ceramici e tracce «di un patrimonio archeologico ancora evanescente» (Alfieri 1982:97, cit.) per convincerci che realmente i Musulmani hanno abitato così a lungo il nostro meridione54 e, in particolare, la Sicilia?

ridimensionamento numerico sarebbe comunque positivo ai fini della indagine, sopratutto se messo in rapporto con l’ipotesi di un severo e diffuso riutilizzo iniziale di edifici preesistenti (vedi anche la nota 11). La scarsità di toponimi relativi a costruzioni religiose, puntualmente registrata in Scotoni (1979:195), potrebbe costituire prova dell’antico, ridotto interesse per una edilizia importante ma anche della limitata diffusione degli stessi. Sotto questo profilo meramente statistico, potrebbe essere di qualche utilità rileggere e registrare accuratamente le epigrafi edili pervenute sino a noi. 54 Una buona parte dei problemi e delle lacune riferibili alla Sicilia è ovviamente comune ad altre realtà regionali italiane. Per molti secoli abbiamo identificato la presenza musulmana sulle nostre coste con la più sanguinosa e anonima pirateria (più o meno protetta dal potere islamico, sino al caso limite del corsaro Khair ed-Din – noto in Italia come Barbarossa – nominato Capudan-i Dariya (ammiraglio) della flotta ottomana nel Mediterraneo). Da qualche tempo, tuttavia, sono stati dati un volto, un peso e una motivazione anche storica ai numerosi insediamenti nell’Italia meridionale ed insulare, oltre che a qualche sporadica e breve presenza in altre regioni: per esempio nell’Alessandrino, dove si tenderebbe ad attribuire ad un tardo insediamento di ‘‘Mori di Spagna’’ – la Frascheta – l’impiego della terra cruda nell’edilizia locale. Cf. COPPA PATRINI A., ‘‘Costruzioni edilizie in terra battuta nel territorio della Frascheta’’, in Il R.Liceo Ginnasio ’G.Plana’ in Alessandria, Alessandria 1935, pp. 247-56. Numerosi studi sono stati condotti su questi temi, dall’Emirato di Bari all’insediamento del Gargano, da Lucera alla Campania e alla Calabria, spesso confortati da importanti testimonianze archeologiche; o nel campo della ceramica, del reimpiego dei bacini a lustro e della loro provenienza, degli oggetti artistici o d’uso comune. Si vedano, solo a mò di esempio, GABRIELI F., ‘‘Il Salento e l’Oriente islamico’’, Studi salentini, II, dic.1956, pp. 18-31, ripubblicato col medesimo titolo in id.id., L’Islam nella Storia, Dedalo, Bari 1966, pp.117-33; CILENTO N., ‘‘I Saraceni nell’Italia meridionale nei secc. IX e X’’, ASPN, XXXVIII n.s., 1958, pp. 109-122; ABBATANTUONO A., ‘‘I Saraceni in Puglia’’, in Japigia, II, 1931, pp.318-39; CAFIERO M., ‘‘Prime ricerche su Porto Guaceto’’, Brundusii Res, V, Brindisi 1974, pp. 301-310; GALDIERI E., ‘‘Esiste una Ostuni islamica?’’ (con accenni al «loco dicto Saracinòpoli seu Guaceto...» nel Brindisino e una interpretazione etimologica dei topònimi Ostuni e Guaceto in periodo musulmano), Lo Scudo, Ostuni 1985, LXV, n.11, p. 4; TUCCIARONE R., I Saraceni nel Ducato di Gaeta e nell’Italia centromeridionale (secoli IX e X), Gaeta 1991; il catalogo della mostra I Saraceni nel Lazio, a cura di E.M. Beranger, A.I.P.C., Roma 1991; gli Atti del convegno ‘‘Presenza araba e islamica in Campania’’, I.U.O., Napoli 1992, e in particolare i contributi di Alfieri B.M., di Scerrato U.-Ventrone G., di Ersilia F.; il catalogo della mostra Arte islamica, presenze di cultura islamica nella Toscana costiera, Pisa 1995 ecc.. Per il Nord-Ovest dell’Italia si legga il forse superato PATRUCCO C., ‘‘I Saraceni nelle Alpi occidentali e specialmente in Piemonte’’, Biblioteca Soc. stor. sub., XXXII, Torino 1908. Ma come si vede, anche per questi luoghi la grande assente è l’architettura. Fa eccezione il caso di Lucera, certamente più concreto e studiato; esso appartiene di diritto alla storia – direi alla cronaca – della presenza islamica in Italia ma si riferisce a un periodo ormai estraneo al nostro tema. In ragione della vastità del territorio occupato, della durata dell’occupazione, degli echi affascinanti delle ‘‘meraviglie’’ ivi realizzate e del tipo di vita che vi si svolgeva (o si

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Fig. 8 – Schema dell’orientamento – rispetto al Nord e alla qibla- delle due presumibili moschee citate nel testo: a) di Segesta; b) di Palermo (S.Giovanni degli Eremiti). Grafici dell’autore.

è trattato soltanto di una bella favola?), la Sicilia resta comunque emblematica sia di quella grave lacuna conoscitiva sia del palese disinteresse a colmarla con una adeguata ricerca.

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Io preferisco sperare ancora, prendendo come vessillo della speranza quel felice esordio, preciso e realistico ma possibilista, di U. Scerrato: «...ancora non ci è dato conoscere con sicurezza alcuna architettura appartenente al dominio arabo di Sicilia...» (Scerrato 1979:307, cit.). Purtroppo, in uno scritto molto più recente (1994) dedicato all’arte dei Normanni, l’Autore sembra essere un pò meno ottimista... Ritengo comunque di poter trarre motivo di fiducia dagli spunti qui ricordati, dalle indagini che malgrado tutto proseguono con successo55, per merito di pochi volenterosi, di alcuni ricercatori in qualche modo privilegiati e di un ancora timido ma promettente impegno da parte di alcune Soprintendenze del nostro meridione, affinché in un prossimo futuro sia possibile apprendere qualcosa di più concreto su questa architettura storicamente certa ma ancora «evanescente». Gli strumenti per tentare di raggiungere l’obiettivo ora esposto sono molteplici: una sincera volontà di far luce, un grande sforzo organizzativo, un ferreo coordinamento, un costante controllo «in tempo reale» e quindi la possibilità di immediati confronti sui dati via via acquisiti e costantemente ‘‘centralizzati’’, un interesse vero da parte delle istituzioni preposte, capace di assicurare anche un altrettanto costante flusso di finanziamenti, una asettica ma razionale sistematicità nella individuazione dei temi e nella assegnazione delle aree di ricerca, una rilettura finalizzata di tutti i testi disponibili, l’interazione di tutte le discipline filologiche, storiche e tecniche, semplici saggi di indagine o vere campagne di scavo ovunque possibile, nelle aree ancora libere delle grandi città56 come nelle campagne ancora non sconvolte e nelle strutture rurali o ‘‘di cresta’’, 55 Si vedano, tra i numerosi studi apparsi in questi ultimi anni, BRESC H., ‘‘Terre e castelli: le fortificazioni nella Sicilia araba e normanna’’, in COMBA R., SETTIA A. (a cura di), Castelli.. Storia e archeologia, Torino 1984, pp. 63-72; id id, ‘‘L’incastellamento in Sicilia’’, in D’ONOFRIO M. (ed.), I Normanni, popolo d’Europa. MXXX-MCC, Venezia 1994a, pp. 217-20; BRESC H., ‘‘Ségestes médiévales: Calthamet, Caltabarbaro, Calatafimi’’, in MEFRM (Mémoires de l’Ecole française de Rome), 89, 1977, pp.341-69; CORRETTI A., ‘‘Il palazzo fortificato di Entella nel panorama siciliano’’ in Gibellina, 1992b; AA.VV., Entella 1986 - 88 - 90. Ricognizioni topografiche e campagne di scavo – dal 1983-86 sino al 1988 – in Annali della Scuola Normale di Pisa; PESEZ J.M., ‘‘Calathamet (Calatafimi, prov. di Trapani)’’, campagne 1983-86 in MEFRM 86, 2, pp. 949-58; 87, 2, pp.888-92; 89, 2, pp.1181-86; Rizzo M.S., ‘‘Insediamenti fortificati di età medievale nella Valle dei Platani’’ in Sicilia archeologica, XXIII, 73, 1990, pp.41-64; MAURICI F., Castelli medievali in Sicilia. Dai bizantini ai normanni, Palermo 1992; MOLINARI A., ‘‘The Effects of the Norman Conquest on Islamic Sicily’’, in Atti del I Colloque international d’Archéologie islamique (Cairo, fe.1993), Le Caire 1995; AA.VV., Del nuovo sulla Sicilia musulmana, in Atti della giornata di Studio (Roma, maggio 1993), Roma 1995 e il saggio del 1994 citato alla nota 51. 56 Ancora oggi – è spiacevole ammetterlo – si può rilevare una notevole difficoltà, da parte delle varie Autorità preposte alla tutela, nel concedere o negare (e a quali singoli o a quali gruppi di lavoro) la ricerca in aree urbane, malgrado l’esistenza di larghe zone libere da edifici: è appena il caso di ricordare quelle vastissime di Palermo, verso il porto e la Kalsa, praticamente intoccate dall’epoca dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, nelle quali è ancora possibile ed utile condurre vaste campagne di indagine, purché preliminari all’inizio di grandi interventi di riqualificazione e ricostruzione, alcuni dei quali già in atto (per es.la zona dello ‘‘Spasimo’’). Sento parlare, in questi ultimi mesi, di qualche iniziativa di carattere esplorativo alla quale non posso che augurare il più grande successo.

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una grande oculatezza negli interventi di ‘‘restauro’’ che si vanno moltiplicando ma purtroppo con infelice e deviante disuguaglianza metodologica e con scarsissima attenzione (per non dire di peggio) nei confronti della individuazione, salvaguardia ed analisi comparata delle varie fasi costruttive. Una organizzazione, in definitiva, che come appare chiaro dovrebbe andare ben oltre le capacità individuali e le singole iniziative, tale quindi da consentirci una visione globale nuova, più soddisfacente e controllabile57. In mancanza di una siffatta organizzazione o nell’attesa paziente di auspicabili, più corpose e più collegabili risposte sul campo, sarebbe più dignitoso – e tutto sommato più coerente – eliminare completamente la voce ‘‘Architettura’’ dall’elenco delle realizzazioni significative della presenza islamica in Italia, senza per questo mortificare o negare la realtà storica: una presenza artistica e culturale durata oltre due secoli e i cui effetti, lunghissimi e benefici, ancora restano a permeare la nostra stessa cultura. EUGENIO GALDIERI

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Nell’aprile 1991, in vista del Convegno di Palermo cui ho accennato in apertura, interpellai per iscritto il Direttore Generale del Ministero per i BB.CC.AA. per averne parere preventivo circa una proposta che intendevo presentare ufficialmente: la creazione – presso quella Direzione – di una Soprintendenza speciale alle antichità islamiche in Italia, con competenza su tutto il territorio nazionale. «Se si pensa – scrivevo allora – a tutto quello che è conservato nei Musei, a quanto ancora c’è da studiare e scoprire in Sicilia, in Calabria, in Puglia ma anche in Campania o in Liguria, il semplice coordinamento e la gestione oculata di una tale massa di dati giustificherebbero ampiamente l’istituzione proposta, anche sotto il profilo ‘‘politico’’» [nei confronti dell’area mediterranea]. La risposta, giunta appena dodici giorni più tardi (!), fu anch’essa ‘‘politica’’ ma purtroppo in senso contrario: la mia richiesta di parere era stata passata, per competenza, alla Divisione VI (autonomie regionali) e la risposta era stata che i compiti di tutela non potevano che essere ‘‘regionali’’; ne discendeva l’impossibilità giuridica (?) di creare una struttura centrale, quindi super – o inter-regionale e che in ogni caso la più ricca, importante e competente non poteva essere che la Soprintendenza palermitana. E così il cerchio si è chiuso’’.

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Sull’architettura islamica in Sicilia

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SUMMARY As far as we know. Sicily is totally lacking of monuments or architectural remains, planned and built during the long years of the Islamic occupation. In other Arts we can count on numerous and significant evidences; in the current language, in toponymy, in poetry and so on, we have ineffaceable traces of the presence of many generations of Sicily-born Arabs; usages and customs from the African seashore are definitely prevalent over the second ethnical component (the Graeco-Byzantine world). In the other hand, the Architecture, in spite of some recent archaeological discoveries, appears quite as inexistent. The A., as an architect but devoid of direct experiences on Islamic Sicily’s problems, examines with criticism the different arguments adduced by some scholars in order to justify such a worrying lack. Among the possible causes, the A. dwells upon the presumable fatal consequences of the racial and religious hate by Norman conquerors; or of the numerous earthquakes; or of the possible re-using of more ancient structures; or of the exaggerated data recorded by some contemporary travellers or chroniclers (e.g., the city of Palermo and its three hundred mosques...). The A. examines also the «stylistic» references to possible models, by now disappeared, or the reasons of the ambiguous definitions like «Arte Arabo-Normanna» or «Siculo-Normanna», related to the buildings we can see today. Although unexceptionable from an historical point of view, such an ambiguous «heritage» runs the risk of becoming just a mere stereotype. In his turn, the A. admits to being without to the majority of those questions; he consequently limits himself to lament the wasted occasions of research in the recent past and to suggest -for the future- new, more aimed and interdisciplinary strategies.

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A CREATIVE DIALOGUE: THE TIMURID AND INDO-MUSLIM HERITAGE IN AKBAR’S TOMB Descended from Timur (Tamerlane, r. 1374-1405), the Mughal emperors of India (1526-1858) created a new style of architecture, combining traits of previous Indo-Muslim architecture with others imported from their Central Asian homeland. This style, imitated to this day throughout Asia, received its first formulation under Akbar (r. 1556-1605), and found a peculiarly complex expression in the emperor’s tomb, built by his son Jahangir (Agra, ca. 160513)1 [Fig. 1]. Open to such daring solutions as the insertion of a rooftop court in the mausoleum [Fig. 2] or the addition of four minarets in a contrasting material to the entrance gateway [Fig. 3], the architectural formulation of Akbar’s funerary complex – often deemed unsuccessful – has defied a comprehensive reading to this day2. What I shall attempt here is an assessment of the Timurid and IndoMuslim components that went into the making of its architectural style, and of the possible motivations underlying their adoption. The tomb’s style proceeds directly from the Fatehpur Sikri experience – Akbar’s main architectural creation3 – with which it shares the eclectic and composite character typical of the mature phase of Akbari architecture (Koch 1987; Nath 1985, 1987), but goes a step further by incorporating elements

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For the attribution of the project to Jahangir, see Muhammad Baqir (cit. in ASHER 1992:106). An inscription states that the building was completed «in seven years» in 1021 a.H. = 1612 A.D. (NATH 1994:374), while another fixes the gateway’s completion at 1022 a.H. = 1613 A.D. (NATH 1994:316). 2 The complex consists of a large quadripartite garden, crossed by raised walkways ending in ¯ıvân-like pavilions (a gateway on the south) and punctuated by a series of canals and pools, hosting an imposing terraced mausoleum in its centre. Akbar’s tomb has been the object of comparatively few studies since Smith’s 1909 monography: see especially the sections devoted to it in Nath’s works (1972; 1976a; 1976b; 1994), and the brief but significant mentions in Koch’s (1991) and Asher’s (1992) volumes on Mughal architecture. For an iconological analysis, see PARODI (2001). 3 On which see PETRUCCIOLI (1988).

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drawn from the Deccan (the region hosting the Mughals’ most powerful Muslim rivals in the Subcontinent at the time).

Fig. 1 – Akbar’s tomb (Sikandra, Agra): plan of the complex (ASI)

1. The Mausoleum and the Timurid Heritage: Innovation and Continuity Elements drawn from the Indo-Muslim tradition, and especially from Gujarat, are doubtlessly preponderant in the mausoleum, consisting essentially of a stepped chatrî composition, crowned by an open-air court and set on a high plinth. The chatrî composition [Fig. 4] is reminiscent of at least two structures dating from Akbar’s reign, in their turn inspired by previous Indo-muslim buildings: the Panch Mahal – a pavilion in Akbar’s palatial complex at Fatehpur Si-

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kri (ca. 1573-80) [Fig. 5]4 and the tomb of the mystic Muhammad Ghauth (Gwalior, d. 1563) [Fig. 6].

Fig. 2 – Akbar’s tomb (Sikandra, Agra): the mausoleum (photo L.E. Parodi 1995)

Of the two, Ghauth’s tomb is the more similar to Akbar’s mausoleum in form and function5: both are airy trabeate structures enlivened by false arches (a feature not shared by the Panch Mahal, though common in other Sikri buildings6), enriched by jâlîs (latticed windows)7, and punctuated by alternate chatrîs and chaparkhâts (i.e. domed and pyramidal-roofed pavilions8); they also share an indented perimeter and a horizontal accent. The latter, typical of Gujarati architecture, from which both buildings are derived (cfr. Koch 1988:170), 4 ASHER (1992:107) has interpreted this similarity as a deliberate reference to palatial architecture, aimed at vizualizing the ‘heavenly manions’ promised to the deceased. 5 The relationship with these and other, more remote, prototypes has been discussed by KOCH (1991:72-3); the Panch Mahal is illustrated and discussed in ibid.:41-2. 6 E.g. the Jami‘ Masjid (illus. in PETRUCCIOLI 1988:79). 7 Though few are in place in either case: Ghauth’s tomb was never finished, whereas Akbar’s was severely pillaged by the Jats in the 18th century. Nath (1982:219) has correctly noted that Ghauth’s tomb is the first Mughal building featuring a large-scale use of jâlîs. 8 A vernacular type of roof found already in the fifteenth-century palace of Man Singh in Gwalior; like its chatrîs, some of those in Akbar’s tomb are revetted in ceramic intarsia made of blue, yellow and green tiles, with floreal themes. In technique and style, they closely recall examples from Jahangir’s reign, especially the revetments of the Lahore Fort walls: cfr. KOCH 1983: Fig. 19 w. SMITH 1909, Pls. XX-XXIV. The importance of the Gwalior palace as a prototype for Akbar’s palatial architecture has been pointed out by Nath (1982:42, 225).

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is more marked in Akbar’s tomb, where the proportion of width to heighth in the chatrî composition is 3:1, not counting the plinth, which is even broader9.

Fig. 3 – Akbar’s tomb (Sikandra, Agra): gateway (photo L.E. Parodi 1992)

Interestingly, though, neither the horizontal accent nor the elaborate indentations of the perimeter are new in Mughal architecture, characterizing already such a Timurid-inspired building as Humayun’s tomb (Delhi, ca. 1562-70), the first Mughal imperial mausoleum, built by a Khurasanian architect trained in Bukhara [Fig. 7] (Parodi 1999). The horizontal extension is actually typical of late- and post-Timurid architecture (especially close parallels are found in 16th-century Shaybanid Bukhara: cfr. Parodi 1999; Parodi, «Humayun»). The indented perimeter, in its turn, is here clearly borrowed from Gujarat10 and ultimately derived from temple mandapas, ˙˙ whereas in Humayun’s tomb it reflects its closest Timurid prototype, the tomb of Abd al-Razzaq in Ghazni (ca. 1469-1501)11. Interestingly, the latter would seem to perpetuate a formulation typical of the region’s celebrated

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In the Panch Mahal, on the other hand, the proportion is 1:1 (NATH 1985:236). See for example the 15th-century Sarkhej complex, illus. in MICHELL & SHAH 1988:49. The indented perimeter is also attested at Fatehpur Sikri: cfr. PETRUCCIOLI (1988: fig. 151). 11 Illus. and discussed in HOAG (1968). 10

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minarets, which may also, ultimately, be traced back to Indian prototypes12.

Fig. 4 – Akbar’s tomb (Sikandra, Agra): detail of the mausoleum (from Mishra 1992)

Despite its close similarity with Akbar’s mausoleum, the tomb of Muhammad Ghauth could hardly represent more than a formal prototype for it, since the mystic – popular under the first Mughal emperors – had fallen from favour in Akbar’s reign13. Possibly, a more general reference to the saintly tombs of Gujarat is intended, aimed at underlining the emperor’s supernatural charisma14; this couples with the image of royalty embodied in the tomb at several levels: in the richness of its materials and decorations; in the palace-like appearance of the structure (Asher 1992:107); and especially in the Solomonic allusions contained in the decorative and inscriptional cycles (Parodi, 2001). Among the Muslim royal tombs of India, there is actually one that may represent an ideal prototype for Akbar’s: Sher Shah’s mausoleum (Sasaram, 1545) 12

Cfr. the bibliography in ETTINGHAUSEN & GRABAR (1987:404, note 51). Cfr. NATH (1982:219, w. bibl.). 14 Imperial Mughal mausolea were generally surrounded by a saintly aura (see PARODI 1997/98; 2001; «Humayun»). Akbar’s supernatural powers are magnified by his court historian, Abu’l Fazl. 13

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[Fig. 8], also conceived as a stepped chatrî composition (its present padmakos´a finial being the result of clumsy restorations15) and featuring a similar tall plinth with corner chatrîs (not found in Ghauth’s tomb). The tomb of Sher Shah – the Afghan general who defeated the Mughals in 1540 and forced Humayun into exile – must have been well known to Jahangir, being a short way from Allahabad, where the emperor (then Prince Selim) had held an independent court during the last years of Akbar’s reign. Since the Bihar region, a stronghold of Afghan resistance, was brought under Mughal control by Prince Selim in those same years, a reference to the royal Sur tombs appears hardly coincidental16.

Fig. 5 – Panch Mahal (Fatehpur Sikri, Uttar Pradesh) (photo L.E. Parodi 1992)

The chatrî composition – one of the unifying factors in this otherwise heterogeneous building – is iterated throughout the tomb’s pishtâqs (mau˙ soleum and pavilions): a formulation borrowed from fortified architecture, possibly adopted by the Mughals as early as the 1530’s17, and transposed

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ASHER (1977:294). Humayun’s tomb, built by Akbar to commemorate his father after the Mughals’ return from exile, has also been interpreted as a response to the royal Sur tombs (LOWRY 1987:137-8). 17 If we accept an early date for the Purana Qil‘a, the Delhi fortress identified by most with Humayun’s Dinpanah, built ca. 1533-40 (for a discussion, see PARODI 1997/98:117-132, w. bibl.). 16

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into a different context in the 1570’s with the Buland Darwaza (the ceremonial gate to Akbar’s Jami‘ Masjid in Fatehpur Sikri)18.

Fig. 6 – Tomb of Muhammad Ghauth (Gwalior, Madhya Pradesh) (photo L.E. Parodi 1995)

The pishtâqs are a clear reference to Timurid tradition, but are a far cry ˙ from early Mughal examples like those of the Sabz Burj (one of the small Timurid-style Delhi tombs datable to Humayun’s reign19), littered as they are with Indian elements: from the stone revetments to the chatrîs and pinnacles of the superstructure. All these features also have a forerunner in the early fortified architecture of the Mughals, and in the pishtâqs of Humayun’s tomb. Compared ˙ to the latter’s, the stone intarsia are more sumptuous, recalling those of the Fatehpur Sikri Jami‘ Masjid, in their turn based on early Mughal prototypes20, and the pinnacles reach down to form multistoreyed turrets similar to those on the corners of Humayun’s mausoleum; finally, the small tile-covered chatrîs of Humayun’s tomb, characteristic of the Delhi 16th- century style, are here replaced 18

Illus. in PETRUCCIOLI (1988: figs. 58, 60). Discussed and illus. in KOCH (1991:36-7). 20 I.e. the stone intarsia in the Qal‘a-i Kuhna mosque, datable to the 1530’s if Mughal (to the 1540’s if Sur, as ASHER (1981) has suggested). Intarsia from the two mosques are illus. and discussed in relation to Timurid prototypes in PARODI (1999), where Mughal patronage is suggested for the Qal‘a-i Kuhna. 19

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by elegant oblong marble ones – an element typical of Fatehpur Sikri’s palatial architecture, here translated into Jahangir’s favourite material21.

Fig. 7 – Delhi: Humayun’s tomb (photo L.E. Parodi 1996)

The pavilions on the east, north and west sides of the enclosure are also formally conceived as fortress gates, but turned inwards, like the courtyard ¯ıvâns of the classical Iranian mosque or madrasa [Fig. 1]. The treatment of a walled garden enclosure as a kind of large courtyard is possibly a Timurid idea – Timur’s ‘palace’ at Shahrisabz was, in fact, such a large enclosure, marked by a monumental entrance (although nothing is known as to the side pavilions) – but in the absence of more decisive evidence, it is best considered as a Mughal development. The pishtâqs of (Indo-)Timurid tradition and chatrîs borrowed from royal ˙ Sur architecture transform the plinth (as seen in Humayun’s tomb) into a floor with a dignity of its own – reflecting a functional adjustment issuing from the choice to host the main cenotaph in an open-air court. For this reason, the domed room functioning as a crypt in other Mughal mausolea – Humayun’s tomb or the later Taj Mahal (Agra, 1632-43)22 – receives here a decorative attention 21 For the illus. of a Sikri example, cfr. NATH 1985:Pl. LXXXV. On the importance of marble under Jahangir, see ASHER (1992:108, 133). 22 Functionally derived from the underground crypt of Timurid tombs (see for example, the tomb

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elsewhere characterizing the main cenotaph hall (cfr. Parodi, 2001); and the vaulted rooms lining the perimeter are connected to form a continuous ambulatory, allowing for tawâf (ritual circumambulation) to take place around it23. A greater radial symmetry is also achieved, at the expense of the miyan sara¯¯ı – the elaborate tripartite vestibule of Timurid heritage, still seen in Humayun’s tomb24.

Fig. 8 – Sher Shah’s tomb (Sasaram, Bihar) (from Blair & Bloom 1994)

2. The rooftop court One of the most innovative – though perhaps not the most successful – features of the tomb is the marble court crowning the structure and hosting the main cenotaph [Fig. 4]. of Abd al-Razzaq, illus. in HOAG 1968). For some reason, the Mughals never built actual crypts in their mausolea. 23 Tawâf, normally reserved to shrines, is known to have been practised also in Mughal – and possibly late-Timurid – royal tombs (cfr. PARODI, «Humayun»). 24 Cfr. note 14. The miyan sara¯¯ı possibly hosted the rites performed at funerals and on death anniversaries (PUGACHENKOVA 1963:183-84; HOAG 1968:237-8). Peculiar to a group of late-Timurid tombs including Humayun’s, the miyan sara¯¯ı (and its evolution in the Mughal context) is discussed in PARODI, «Humayun».

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The similarity of Akbar’s mausoleum with stepped structures crowned by a chatrî or a light dome would suggest that it, too, was originally conceived to culminate in a dome: some clues in the structure as well as Jahangir’s memoirs would indeed indicate that this was the case, and the project was modified while in progress25. Whatever the case, the choice of an open structure can be – and has been – related to Jahangir’s visit to Babur’s tomb in Kabul in 1607 (JAHANGIRNAMA:77) – shortly before the changes to Akbar’s mausoleum were recorded in his memoirs (JAHANGIRNAMA :99). The burial of Babur – the Timurid prince who founded the Mughal dynasty – was originally marked by a simple gravestone surrounded by a latticed enclosure (hazîra)26, following a late-Timurid practice favoured by the more orthodox members of the family (mausolea, as is well known, being contrary to Islamic prescriptions). The structure hosting Akbar’s cenotaph, however, is not modelled upon Babur’s hazîra or other Timurid prototypes, but – bearing witness to the creative dialogue of Timurid and Indian traditions in Mughal architecture, and especially in this monument – upon a Gujarati prototype, the so-called ‘Tomb of the Queens’ (Rani-ki Hazira) of Ahmadabad (15th century) [Fig. 9]: a porticoed court, screened by jâlîs on the outside – like the one in Akbar’s tomb – and raised on a tall plinth, hosting numerous cenotaphs. The Tomb of the Queens (built by Ahmad Shah, r. 1411-1442) is a freestanding enclosure raised on a tall stepped plinth (derived from temple architecture), but is otherwise very similar to the rooftop structure in Akbar’s tomb (a connection so far unnoticed, at least to my knowledge): in both cases, forty bays surround the court (though the Rani-ki Hazira has an additional cloister of forty-eight bays), a broad chajjâ (slanting eaves) lines the façades within and without, and jâlî screens are set into the outer faces of the building27. Like those of the Rani-ki Hazira, the jâlîs in Akbar’s tomb ‘‘would alone fill a portfolio’’ (cfr. Burgess 1900:39), although their geometrical designs are genuinely Timurid – a fact that also appears to have escaped notice28. Most importantly, the Rani-ki Hazira appears to be the prototype for a 25 Cfr. JAHANGIRNAMA:99, and the otherwise unexplained presence of a dark and low-roofed chamber beneath the rooftop court (the problem is discussed in PARODI 1997/98:74-5). 26 On Babur’s tomb, see PARODI (1997/98:7-15, w. bibl.). 27 For a view of the courtyard of the Rani-ki Hazira, see TADGELL (1990:fig. 201a); its jâlîs are illus. in BURGESS (1900: Pls. XL b – XLIV). 28 Virtually all Mughal jâlîs until Shah Jahan’s reign follow geometrical designs based on Timurid prototypes, such as the hazîra in the Gur-i Amir, Samarkand, illus. in LENTZ & LOWRY (1989: fig. 73): compare the latter with Gujarati examples such as those illus. in MICHELL & SHAH 1988:52,64,75,106 and with the jâlîs from Akbar’s tomb (in SMITH 1909, Pls. XII-XIV). The Timurid legacy in Mughal decorative art is discussed in PARODI (1999). Altough Jahangir visited Ahmadabad only later in his reign (1617, when he describes the adjacent

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feature later to become ‘classical’ in imperial Mughal architecture: the superstructure composed of four (alternatively two) corner chatrîs. The composition will become standard in 16th-century quadrilater marble buildings: four chatrîs are seen on the Daulat Khana-i Khass (private audience hall) of emperor Shah Jahan (r. 1627-1657) and on the tomb of his daughter Roshanara Begam (d. 1671), in Delhi29; two on the Bhadon pavilion, on Shah Jahan’s Khass Mahal (private apartment) in Agra30, and again two in the mosque flanking the mausoleum of Rabi‘a Daurani (1657-1661), wife of emperor Aurangzeb (r. 16581707)31. The cenotaph and underlying platform are instead reminiscent of Timurid prototypes: the tall and narrow shape of the former is still that of Timur’s and Humayun’s cenotaphs, though a new trend is inaugurated by the disappearance of the muqarnas cornice and the textile-like ornamentation32; the geometric designs of the platform are also very similar to the corresponding ones in Humayun’s tomb, but for the insets of colourful and precious abrî stone. Smith (1909:14), and others with him (e.g. Nath 1972, 1994), believe that the cenotaph was once covered by a chatrî or a dome – an idea which, besides its archeological inconsistency, is denied by a comparison with the Rani-ki Hazira and the later Mughal tomb of princess Roshanara (v. supra), both testifying to the existence of a specific, though scarcely attested, architectural typology, belonging with Babur’s tomb in the ‘hazîra’ category. The absence of a superstructure was in all likelihood compensated – as in Roshanara’s tomb – by a rich embroidered tent, as is testified by the stone rings still seen above the chajjâ (cfr. Mishra 1982:36) and possibly by a contemporary witness: William Finch, who visited Agra between 1608 and 1611, and noted ‘‘a rich tent with the Semaine over the tomb. But it is to be inarched over the most curious white and speckled marble and to be seeled all within with pure gold richly inwrought.’’ (cit. in Nath 1972:39). The contrast between the marble court and the rest of the building, perceived as an aesthetic weakness today, was probably once blurred by the (now lost) stone intarsia and jâlî fittings of the plinth.

mosque) JAHANGIRNAMA:244-5, Gujarati workers – if not architects – were doubtlessly employed in the building of Akbar’s tomb. 29 Illus. in ASHER (1992: Pls. 121 and 126 respectively). 30 Illus. in KOCH (1991: Figs. 134 and 121 respectively). 31 Illus. in PARODI (1998: Fig. 18). 32 Cfr. the illus. in MISHRA (1982:36) with Timur’s cenotaph (LENTZ & LOWRY 1989: fig. 3) and Humayun’s (LOWRY 1987: fig. 5). For the decorations, see NATH (1976a: Pl. CXVI).

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Fig. 9 – Rani-ki Hazira (Ahmadabad, Gujarat) (from Michell & Shah 1988)

3. Timurid Classicism and Indian Contributions in the Gateway’s Formulation The clearest example of a contamination between Timurid and Indo-muslim elements is the entrance gateway [Fig. 3]: recognizably Timurid elements are the chamfered corners, the façade composition, with a central pishtâq flanked by superimposed niches, the geometric intarsia and the arabesque span-

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drels (cfr. Parodi 1999); but the substitution of stone for ceramic in the revetments, and the superstructure composed of minarets and chatrîs lend the building an unmistakably Indian flavour. Although remote Indian prototypes have been indicated for them (e.g. Koch 1988:172), stone intarsia with geometrical designs are an exquisitely Mughal development, originating in the Timurid world, where stone already appears, in combination with ceramic33: the closest Mughal forerunners for those of Akbar’s tomb are in the Fatehpur Sikri Jami‘ Masjid (v. supra). A kind of ‘Timurid revival’ may also be intended with the introduction of four minarets in the gateway’s superstructure: this is probably the case with another imperial Mughal mausoleum, built a couple of decades later: the Taj Mahal, whose minarets, more closely approaching Timurid examples in their proportions, derive from those of Akbar’s tomb. But the form of the minarets – as noted by Andrews (1981:118) – is originally modelled upon a Deccani prototype, the Chand Minar (Daulatabad, 1435); and their composition in Akbar’s tomb’s gateway appears in its turn derived from another Deccani building: the Char Minar (Hyderabad, 1591)34.

4. Tradition and Innovation in Akbar’s Tomb: An Assessment In its similarity with the Fatehpur Sikri style, the monument represents an adequate ‘posthumous portrait’ for the emperor35. The precious materials and lavish decorative schemes, the preference for an open structure and especially the free formulation, combining forms and elements of different architectural vocabularies in often dissonant ways, foreshadow characters typical of Jahangir’s ta33

See esp. the examples in Ulugh Beg’s madrasa in Samarkand (1417-25) (PARODI 1999, vv.

illus.). 34

vely.

Illus. in SCHOTTEN-MERKLINGER (1981:fig. 55) and TADGELL (1990: Col. Pl. 26c) respecti-

Whereas minarets had disappeared from Delhi architecture since the 14th century (surviving only as miniature turret forms like those on the pishtâqs of Akbar’s mausoleum), the tradition had remained ˙ alive further south. The reintroduction of the minaret, though ascribable to a contact with the Deccan, is anticipated by two Sikri structures built after the conquest of Gujarat (1573), and approaching the minaret theme: the Hiran Minar, pertaining however to the watchtower or milestone typology (cfr. PETRUCCIOLI 1988: fig. 71 and KOCH 1991:67, who found a very close parallel in Persia), and the column inside the so-called ‘Diwan-i Khass’, directly reminiscent of Gujarati minarets in its form (KOCH 1991:60, w. illus.). The lower balcony of the minarets in Akbar’s tomb is supported by a row of muqarnas identical to the one under the balcony of the Hiran Minar, whereas the other two have brackets modelled upon those of the Chand Minar (the upper one is however not original: cfr. Smith 1909 for photographs documenting the state before restorations). 35 For a reading of Mughal imperial mausolea as ‘posthumous portraits’ for the deceased emperors, see PARODI (1997/98, esp. 115). The impression that imperial Mughal mausolea were conceived as visual symbols for the presence of the deceased emperors is particularly strong in the case of Humayun’s and Akbar’s mausolea (see PARODI, 2001 and «Humayun»).

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ste in architecture and the arts at large. The emperor’s strong perception of his role as patron is eloquently expressed in the directions given to the architects, imposing a change in the project at an advanced stage of construction (JAHANGIRNAMA :99), and by the emphatic terms used to describe his creation, both in his autobiography: ‘‘world travelers wouldn’t be able to point to another such building in all the world’’ (ibid.) and in the gateway inscription: ‘‘This arch is higher than the portico of the ninth heaven, By its reflection the face of the shining stars is illumined. This arch is the ornament of the nine heavens and the seven climes, And belongs to the glorious mausoleum of the Emperor Akbar.’’

In a sense, we may say, in its precarious equilibrium of heterogeneous elements and (presently at least) unfinished appearance36, the monument fully embodies the unresolved tension between the emperor and the cumbersome legacy of his more illustrious father. LAURA E. PARODI

36

But cfr. note 7.

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A Creative Dialogue

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The worship to the sovereigns of the past

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Jinshi

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,

, Mingdai Jianzhu , Zhonghua Yinzao Xueshe Chuban, Peking,

MS

Mingshi

MSZSL

Ming Shilu , Shizong Shilu Yuyan Yanjiusuo Xiaoyin, Taipei, 1978

, Guofang Yanjiuyuan, Taipei, 1962 , reprint Zhongyang Yanjiuyuan Lishi

MTZUSL

Ming Shilu , Taizu Shilu Yuyan Yanjiusuo Xiaoyin, Taipei, 1978

, reprint Zhongyang Yanjiuyuan Lishi

94

Piero Corradini

QHDSL

Kun Gang 1990

QHS

Qian Hanshu Shanghai, 1989

QS

Qingshi

RMDCD

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SS

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YS

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, reprint Dingwen Shuju, Taipei, 1978

1. THE

, Qing Huidian Shili

[2] , reprint Zhonghua Shuju, Peking,

in Ershiwu shi

, reprint Shanghai Guji Chubanshe,

, Guofang Yanjiu Yuan, Taipei, 1962

, in Ershiwu shi

, Shangwu , reprint Beijing Guji Chu, reprint Shanghai Guji

, reprint Shanghai Guji Chubanshe, Shang-

WORSHIP TO THE PRECEDING SOVEREIGNS

1.1 From the Liji to the Tang The Liji , in the section Jifa «Rules for the sacrifices», says that the kings of the past are worthy to be honored: Sacrifices should be offered to those who have given laws to the people, to those who have worked to carry out their own assignments up to the death, to those who have strengthened the state in their position, to those who have known how to bravely face calamities and those who have known how to hold distant the adversities1.

The text lists Yao , Shun , Yu , Tang2 of the Shang , Wen Wang and Wu Wang of the Zhou . To all these kings, in fact, temples (miao ) were erected where sacrifices were periodically offered. Under the Tang dynasty this practice was renovated and codified. The 6th month of the 2nd year of the Xianqing era (July 17th - August 10th 657), a

1 Liji, 23, in WU SHUPING (ed.) Peking, 1991, p. 866. 2 Otherwise known as Cheng Tang

, Shisan Jing .

, Beijing Yanshan Chubanshe,

The worship to the sovereigns of the past

[3]

95

memorial of the Minister of the Rites Xu Jingzong3 (592-672)4 proposed the return to this practice, expressly quoting the passage of the Liji, with a sacrifice to be performed every three years, at mid-spring (zhongchun ) adding to the list of the Liji the founder of the Han dynasty Gaozu5 . The places chosen for the worship were those of origin of the kings and emperors and where their graves, with attached temples, were preserved: Pingyang6 for Yao, Hedong7 for Shun, Anyi8 for Yu, Yanshi9 for Tang, Feng10 for Wen Wang, Hao11 for Wu Wang and finally 12 Changling for Gaozu. The addition of Han Gaozu to the list of the Liji is meaningful by itself. If the honours paid to the kings and the emperors of the past meant to give a legitimization to the ruling dynasty, the inclusion of the founder of the Han dynasty among the monarchs to be honored was a clear reference to the dynasty of which the Tang considered themselves the legitimate successors, skipping the monarchs of the epoch of the division and particularly refusing all the dynasties of barbaric origin.

1.2 The worship under the Song In the Song depoch the practice was continued and enlarged. The essay on the rites of the Songshi records two provisions of the Qiande era (963968), provisions of which unfortunately the date is vaguely indicated only with which means «at the beginning of the the expression Qiande chu, Qiande era». The first one confirmed the triennial sacrifices of the Tang. The 3

Author of the Wenguan cilin (Forest of Writing of the Literary Pavilion). NIEUHAUSER W. H. JR., The Indiana Companion to Traditional Chinese Literature, Indiana University Press, Bloomington, 1986, p. 893. 4 JTS, j, 24, p. 120b 5 Personal name Liu Bang , reigned 206-195 BC. 6 Present Guiyang , then in the Linzhou prefecture, Jiangnan Western Circuit , LSDTJ, vol. V, 57-58, 7-4. 7 The indication is vague. In reality under the Tang Hedong was a Circuit, corresponding to a present province. The see of the governor (Hedong jiedushi ) was in present Taiyuan . Ivi, vol. V, 46-47. 8 Near to present Yuncheng , then in Puzhou , prefecture, Hedong Circuit. Ivi, vol. V, 46-47, 6-3. 9 Not far from Luoyang , then in the Capital Circuit (Dujidao ). Ivi, vol. V, 44-45, 6-3. 10 This town, as such, did not exist anymore in the Tang period. Here the text uses the name of the tows of the Zhou epoch that was capital of Wen Wang and where he was buried. 11 Also this town did not exist anymore in the Tang period but its localization was known. Hao was the capital of Wu Wang, southwest of Xiangyang (Shaanxi), where he built a palace (1066 BC). 12 It is Gaozu’s mausoleum, northeast of Xianyang , Shaanxi province.

96

Piero Corradini

[4]

second one widened and made more complex the worship to the monarchs of the past. The monarchs were divided in four groups, as from the list that follows: DYNASTY

1st GROUP

2nd GROUP

3rd GROUP

4th GROUP

Tai Hao13 Yan Di14 Huang Di Gao Xin15 Yao Shun Xia Yu Shang Cheng Tang Taixu16 Wu Ding17 Zhou Wen Wang Wu Wang Cheng Wang18 Kang Wang19 Huan Wang20 Jing Wang21 WeilieWang22 Qin

13

Fu Xi, CY, p. 0380c. Other name for Shen Nong. CY, p. 1037d. 15 Posthumous name of Diku , nephew of Huang Di and father of Yao. CY, p. 1893b. 16 According to the traditional chronology reigned from 1637 to 1563 BC. The text gives him the temple name (miaohao ) Zhongzong 17 According to the traditional chronology reigned from 1324 to 1266 BC. The text gives him the temple name (miaohao) Gaozong . 18 Personal name Ji Song . According to the traditional chronology reigned from 1115 to 1079 BC. 19 Personal name Ji Zhao . According to the traditional chronology reigned from 1078 to 1053 BC. 20 Personal name Ji Lin . Reigned from 719 to 697 BC. 21 Personal name Ji Gui . Reigned from 544 to 520 BC. 22 Personal name Ji Wu . Reigned from 425 to 402 BC. 14

The worship to the sovereigns of the past

[5] DYNASTY

1st GROUP

2nd GROUP

3rd GROUP

97 4th GROUP

Shi Huang Di23 Han Gao Di24 Wen Di25 Jing Di26 Wu Di27 Yuan Di28 Cheng Di29 Ai Di30 Ping Di31 32

Guangwu

Ming Di33 Xuan Di34 Zhang Di35 He Di36 Shang Di37 An Di38 Shun Di39 Chong Di40

23 24 25 26 27 28 29 30 31 32 33 34 35 36 37 38 39 40

Personal name Lei Zheng . Founder of the Qin dynasty and first emperor (221-210 BC). Best known as Gaozu. Personal name Liu Bang . Reigned from 206 to 195 BC. Personal name Liu Heng . Reigned from 179 to 157 BC. Personal name Liu Qi . Reigned from 156 to 141 BC. Personal name Liu Che . Reigned from 140 to 87 BC. Personal name Liu Shi . Reigned from 48 to 33 BC. Personal name Liu Ao . Reigned from 32 to 7 BC. Personal name Liu Xin . Reigned from 6 to 1 BC. Personal name Liu Gan . Reigned from 1 to 5. Personal name Liu Xiu , founder of the Later Han dynasty. Reigned from 25 to 57. Personal name Liu Zhuang . Reigned from 58 to 75. Personal name Liu Xun . Reigned from 73 to 49 BC. Personal name Liu Da . Reigned from 76 to 88. Personal name Liu Zhao . Reigned from 89 to 105. Personal name Liu Long . Reigned in the year 106. Personal name Liu You . Reigned from 107 to 125. Personal name Liu Bao . Reigned from 126 to 144. Personal name Liu Bing . Reigned in the year 145.

98

Piero Corradini

DYNASTY

1st GROUP

2nd GROUP

[6]

3rd GROUP

4th GROUP Zhi Di41 Xian Di42

Wei Wu Di43 Wen Di44 Ming Di45 Gaogui Xianggong46 Chen Liu Wang47 Jin Taizu48 Hui Di49, Huai Di50 Min Di51 52

Gaozu Liang

Taizu53 Hou Wei Xiaowen Di54 Xi Wei

41

Personal name Liu Zuan . Reigned in the year 146. Personal name Liu Xie . Reigned from 189 to 220. 43 Temple name (miaohao) and posthumous name of Cao Cao (155-220), father of the founder of the Wei dynasty of the «Three Kingdoms» (sanguo ) period. 44 Personal name Cao Pei . Reigned from 220 to 226. 45 Personal name Cao Rui . Reigned from 227 to 239. 46 Personal name Cao Mao . Reigned from 254 to 259. Posthumous name Shaodi . 47 Personal name Cao Huan . Reigned from 260 to 265. Posthumous name Yuandi . 48 Temple name (miaohao) of Sima Yan , founder of the Jin dynasty, better known with the posthumous name Wudi . Reigned from 265 to 290. 49 Personal name Sima Zhong . Reigned from 290 to 306. 50 Personal name Sima Chi . Reigned from 307 to 313. 51 Personal name Sima Ye . Reigned from 313 to 316. 52 Personal name Shi Jingtang . Reigned from 936 to 944. The Jin dynasty referred to is the Later Jin of the «Five Dynasties» (wudai ) period. 53 Personal name Zhu Wen . Reigned from 907 to 915. The Liang dynasty referred to is the Later Liang of the «Five Dynasties» period. 54 Personal name Tuoba Hong . Reigned from 471 to 499. 42

The worship to the sovereigns of the past

[7] DYNASTY

1st GROUP

2nd GROUP

3rd GROUP

99 4th GROUP Wen Di55

Dong Wei Xiaojing Di56 Sui Gaozu57 Tang Gaozu58 Taizong59 Xuanzong60 Xianzong61 Suzong62 Xuanzong63 Gaozong64 Zhongzong65 Ruizong66 Dezong67 Shunzong68 Muzong69 Daizong70 Jingzong71 Wenzong72 55

Personal name Yuan Baoju . Reigned from 535 to 551. Personal name Yuan Shanjian . Reigned from 534 to 550. 57 Temple name (miaohao) of Yang Jian , founder of the Sui dynasty, better known with the posthumous name Wendi . Reigned from 581 to 600. 58 Personal name Li Yuan , first emperor of the Tang Dynasty. Reigned from 618 to 626. 59 Personal name Li Shimin . Reigned from 627 to 649. 60 Personal name Li Longji . Reigned from 713 to 741. 61 Personal name Li Chun . Reigned from 806 to 820. 62 Personal name Li Heng . Reigned from 756 to 763. 63 Personal name Li Chen . Reigned from 847 to 860. 64 Personal name Li Zhi . Reigned from 650 to 684. 65 Personal name Li Xian . Reigned from 684 to 704. 66 Personal name Li Dan . Reigned in the year 684 e from 710 to 713. 67 Personal name Li Shi . Reigned from 780 to 805. 68 Personal name Li Song . Reigned in the year 805. 69 Personal name Li Heng . Reigned from 821 to 824. 70 Personal name Li Yu . Reigned from 763 to 779. 71 Personal name Li Zhan . Reigned from 825 to 827. 72 Personal name Li Ang . Reigned from 836 to 840. 56

100

Piero Corradini

DYNASTY

1st GROUP

2nd GROUP

3rd GROUP

[8] 4th GROUP Wuzong73 Yizong74 Xizong75 Zhaozong76

Hou Tang Zhuangzong77 Mingzong78 Mo Di79 Hou Liang Shao Di80

The first group was that of the more ancient graves, where for a long time sacrifices of animals (shenglao ) were being offered, and where the cutting of trees had not been forbidden. To this group were counted the graves of the mythical emperors and of some monarchs of the Xia, of the Shang, of the Zhou, of the Han and of the Tang. The graves were entrusted to the care of five families (hu ). The second group was that of those monarchs that had the right to two sacrifices of animals (tailao ), one in spring and one in autumn, while the care of their temples was entrusted to three families. The third group was that of the graves of monarchs that had only the right to an annual sacrifice. The care of these graves was entrusted to two families. The fourth group was finally that of the monarchs for which sacrifices continued to be offered every three years. These graves were not entrusted to families. In all the places the cutting of trees was forbidden81. At this point it is interesting to note that in the list of the first group there are also Gao Di and Guangwu of the Han, Gaozu and Taizong of the Tang82. 73

Personal name Li Yan . Reigned from 841 all’846. Personal name Li Cui . Reigned from 860 to 874. 75 Personal name Li Xuan . Reigned from 874 all’888. 76 Personal name Li Ye . Reigned from 889 to 904. 77 Personal name Li Cunxu . Reigned from 923 to 926. 78 Personal name Li Dan . Reigned from 926 to 933. 79 Personal name Li Congke . Reigned from 934 to 936. 80 There was no emperor of any Liang dynasty bearing this name. The term shaodi is used for the overthrown emperors (beifei , Hanyu Dacidian , Hanyu Cidian Chubanshe, Shanghai, 1995, vol. II, p. 1652). Therefore, being listed just before the last emperor of the Later Tang, he should be emperor Modi of the Later Liang (personal name Zhu Zhen ) who reigned from 915 to 923. 81 SS, j. 105. p. 362c. 82 SS, l. c. 74

The worship to the sovereigns of the past

[9]

101

They had been included with a decree of May 30th, 963, even if the text referred by the Songshi doesn’t record the name of Gaozu of the Tang83. This list shows that the new dynasty repeated above all its legitimization from the Han and the Tang, to whose emperors, together with those of the remote past, the greatest honours were rendered. The following categories, with their amplitude and with the taking into account emperors refused by the Confucian historiography as Shi Huang Di of the Qin and those of the barbaric dynasties, show that for the founder of the Song dynasty all the emperors who had preceded him were legitimate and, as such, worthy of being remembered with sacrifices, even if graduated according to their importance. The simple existence of an imperial grave was enough to consider it worthy of honor and respect, even if the emperor buried inside had not been brilliant for virtue, if he had been a child-emperor, had reigned for a short period or even had been dethroned. The only great excluded from this list are Wang Mang84 and the empress 85 Wu Zetian , considered both absolutely illegitimate. With a decree of August 20th, 976, emperor Taizu86 ordered to restore all the temples devoted to the kings and emperors of the past87. 1.3 The barbaric dynasties: the Jin and the Yuan The barbaric dynasties that fought and then overthrew the Song, as the Jin and the Yuan, didn’t seem very interested to establish a legitimization founded upon the preceding emperors. The JS88 reports that the triennial sacrifices to Fu Xi at Chenzhou89 , to Shennong at Bozhou90 , 91 92 to Xuanyuan at Fangzhou , to Shaohao at Yanzhou , to Zhuanxu at Kaizhou93 , to Gaoxin at Guidefu94 , to Tao Tang95 83

SS, j. 1, p. 18b. Founder of the Xin dynasty, reigned from 9 to 23 d. C., in the interval between the Former and the Later Han. 85 Founder of the Zhou dynasty that temporarily replaced the Tang. She reigned from 684 to 705. 86 Personal name Zhao Kuangyin . Reigned from 960 to 976. 87 SS, j. 3, p. 21d. The date recorded by the Songshi is the 9th year of the Kaibao era, 7th month, day dinghai , corresponding to August 8, 976. We must take into account that emperor Taizong changed the era name only in the 12th month of that year, that is in the month from December 24, 976 to January 13, 977. For this reason in the tables of correspondence between Western and Chinese dates there is no 9th Kaibao year but it is assimilated with the 1st year of the Taiping Xingguo . era. 88 JS, j. 35, p. 265b. 89 Present Huaiyang , in the Henan province. LSDTJ, vol. VI, 52-53, 4-5. 90 Present Boxian , in the Henan province. Ivi, vol. VI, 52-53, 4-6. 91 Present Huangling , then in the Suxi province. Ivi, vol. VI, 57-58, 4-8. 92 Name of one of the nine zhou of the Yugong . In the course of time this name was given to different localities. During the Jin dynasty it corresponded to Yanzhoufu of the Ming, in Shandong province, present Ciyang . DMDCD, pp. 579-580. 84

102

Piero Corradini

[10]

at Pingyangfu, to Shun, Yu and Chengtang at Hezhongfu96 , to Wen Wang and Wu Wang at Jingzhaofu97 would continue. Later it summarizes a memorial of the Chancellery (Shangshusheng ) of the third year of the Taihe era (1203) in which reference is done to the Kaiyuan li98 («Rites of the Kaiyuan era», 713-741) and to the Kaibao li99 («Rites of the Kaibao era», 968 - 976) to accept their prescriptions. The Yuan Mongols gave still less attention to the emperors of the preceding dynasties. They limited themselves only to the mythical ones and to the kings of the dynasties preceding the Zhou100. Among the Zhou kings they honored only Wen Wang. The emperors of the Yuan dynasty honored, in practice, only their own ancestors. They established the temple of the ancestors (Taimiao ) in 1263 structuring it in eight rooms, one for Gengis Qan, four for his children, one for Guyuk, one for Möngka and one for the parents of Gengis Qan101.

2. THE

WORSHIP UNDER THE

MING

2.1 Hongwu and the imperial graves The founder of the Ming dynasty, Zhu Yuanzhang (Taizu), more commonly known with his reign name Hongwu , 1368 - 1398) was very interested to the imperial graves. In 1370102 he sent officials to inspect and restore the tombs of the preceding monarchs. As a result, 79 tombs were found. The tombs honored by the Song were 76. Others had been added and some of them were ruined during the

93

Prefecture established by the Jin, in present Hebei. Ivi, p. 954. Near to present Shangqiu , on the Yellow River, in Henan province. LSDTJ, vol. VI, 52-

94

52, 3-6. 95 96

Dynastic name (guo hao Called also Jingzhaoyin

) of Yao. SJ, j. 1, p. 10a.. , at northwest of Chang’an

, present Xi’an

. DMDCD,

p. 424. 97

At that time this was the name of Xi’an, in the Suxi prefecture. LSDTJ, 57-58, 5-7. Treatise in 150 juan by Wang Zhongqiu . Complete title: Da Tang Kaiyuan li , written in the 20th year of Kaiyuan, to unify the rites of the Zhenguan and Xianqing eras. JTS, j. 21, p. 109b; EWS, vol. I, p. 464. 99 This treatise, the citation of which occurs five times in the Songshi, is otherwise unknown. It is not listed in the Zhongguo Congshu Zonglu , Guji Chubanshe, Shanghai, 1982 100 YS, j. 76, p. 1903. 101 FRANKE H., From Tribal Chieftain to Universal Emperor and God: The legitimation of Yuan Dynasty, Bayerischen Akademie der Wissenschaften, München, 1978, pp. 29-35 102 MS, j. 50, p. 562a. 98

The worship to the sovereigns of the past

[11]

103

invasions. The sources, however, do not say which were added and which were ruined. The Ministry of Rites examined the virtues of the monarchs to which they were dedicated and concluded that only 36 were worth of honor. They were those of: 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14. 15. 16. 17. 18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33.

103

Mythical

Xia Shang

Zhou

Han

Hou W ei Wei Sui Tang

Hou Zhou Song

Fu Xi Shennong Huang Di Shaohao Zhuanxu Yao Shun Yu Tang Zhongzong Gaozong Wen Wang Wu Wang Cheng Wang Kang Wang Gaozu Wen Di Jing Di Wu Di Xuan Di Guangwu Ming Di Zhang Di Wen Di Gaozu Gaozu Taizong Xianzong Xuanzong Shizong103 Taizu Taizong104 Zhenzong

Personal name Chai Rong reigned from 954 to 959. 104 Personal name Zhao Jiong

. Emperor of the Hou Zhou Dynasty of the Five Dynasties, . Reigned from 976 to 997.

104

Piero Corradini 34. 35. 36.

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Renzong105 Xiaozong106 Lizong107

The reduction was strong. The Ministry eliminated the worship to all the emperors of secondary significance and of those of barbarian origin, with the only exceptions of Wen Di of the Later Wei and of Shizong of the Later Zhou. A new inspection was ordered in 1376108. At this time the worship to the individual tombs was in decline, because of a new temple built in Nanking, dedicated to all the preceding monarchs.

2.2 Hongwu’s ritual reforms Hongwu was a great supporter of the Confucian rites. He believed that the legitimacy of the government was largely depending from the correct celebration of them109. In an essay on the great sacrifices, Dasi lun , he pointed out this relation between the rites and the reception of the Heavenly Mandate (Tianming )110. On religion in general he expressed his ideas in another essay (Sanjiao Lun ) on the so-called Three Religions111. According to his definition these were that of the Confucians (ru ), transmitted by the ancient wise sovereigns Yao and Shun and by the founders of the Xia, Shang and Zhou dynasties (the so-called sandai ), Buddhism and the religion of the Taoist immortals (xian ). He sustained that it was no more possible to follow these religions because their doctrines were wrongly interpreted, their teachings were corrupted and there was, therefore, a lack of respect for the gods and the spirits. Thus he proposed his own religion, called Tiandao (the «Heavenly Way»). The highest divinity of this religion was Shang Di , head of a multitude of divinities and spiritual beings. In another essay on the spirits112 he maintained 105

Personal name Zhao Zhen . Reigned from 1023 to 1063. Personal name Zhao Shen . Reigned from 1163 to 1189. 107 Personal name Zhao Yun . Reigned from 1225 to 1264. 108 MS, j, 2, p. 20a. 109 HUCKER O.C., The Traditional Chinese state in Ming Times, The University of Arizona Press, Tucson, 1961, p. 61 110 For a translation of the essay, see Ho Yunyi, The organization and functions of the Ministry of rites in the early Ming period (1368-1398), University of Minnesota, Ph.D., History, Asia, University Microfilms International, Ann Arbor, Michigan, U.S.A., 1976, pp. 229-234 111 The essay is found Ming Taizu Yuzhi Wenji (reprint of the edition 1380-1418, Taipei, 1965), pp. 345-348. TAYLOR R., Ming T’ai-Tsu and the Gods of the Walls and Moats, in Ming Studies, 4, 1977, pp. 35-37. 112 Ivi, p. 36 106

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105

that they were really existent, manifesting themselves only to the gentlemen (junzi ) and to the emperor. In Hongwu’s vision, the world was organized in two orders of hierarchies that received from Shang Di a mandate to reign in their domain with impartial justice, «without personal interest» (wusi ). The first hierarchy was the invisible one of the gods and spirits, including all the things, from heaven to the different regions and even to the kitchens of the common people. The second was the human one, with the emperor as the head of the manifold administrative levels. Shang Di and the other gods were invisible and unable to communicate. Therefore they needed the mediation of the emperor to speak to mankind. The imperial officers were under the double control of the emperor and of the spirits, that were present everywhere and always ready to look at their behavior113. Thus Hongwu justified ideologically his absolute government. A reform of the ritual was necessary. Eichhorn considers this reform as a measure intended to revive the Han and Tang forms, spoiled of the successive «vulgar» uses, in the attempt to exclude the Taoist components from the state cult114. In this setting we must see Hongwu’s building of great temples of the state cult in Nanking and the unification of the rites to the Heaven and to the Earth in the same hall, Dasi dian , notwithstanding the protests of the literati, against whom he sanctioned that the implementation of the ritual codes belonged only of the emperor115.

3. THE LIDAI DIWANG MIAO 3.1 The building of the Lidai Diwang Miao In the same setting we must see the building of the «Temple to the emperors and kings of the different generations» (Lidai Diwang Miao ). This temple unified all the worships to the precedent emperors and kings. All the mythical and historical figures that were targets of worship in the Lidai Diwang Miao had already, as we have seen, individual temples raised to their memory. Assembling them in one temple underlined a kind of spiritual unity between heterogeneous personalities of different epochs.

113

Ivi, pp. 37-38 EICHHORN W., Die Religionen Chinas, 1973, Italian edition: La Cina, Jaca Books, Milano, 1983, pp. 371-72 115 HO YUNYI, Ideological Implications of Major Sacrifices in Early Ming, in Ming Studies, 5, 1978, p. 67 114

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The Lidai Diwang Miao had also a political purpose. It assembled all the historical personalities that had established or had contributed to establish dynasties, who had sustained and reinforced the political power and displayed them as a great family. They were distributed in various niches, as in an articulated ancestral tree. Thus the imperial power stressed its origins since the times of the mythical monarchs and designed its clear and linear development, excluding all those who had to be considered illegitimate or whose virtues were not at a level to be taken into consideration. According to a memorial of the Ministry of the Rites, endorsed by the emperor and abstracted in the «Veritable Documents» (Shilu ) of the Ming dynasty, it was composed by five rooms (shi ). In the central one should reside (ju ) the spirits of the Three Augusts (San Huang ), in the first eastern one those of the Five Emperors (Wu Di ), in the first western one Yu of the Xia, Tang of the Shang and king Wen of the Zhou. The second eastern room was dedicated to king Wu of the Zhou, to Guangwu of the Han and to Taizong of the Tang. The second western room hosted Gaozu of the Han, Gaozu of the Tang, Taizu of the Song and Shizu (Qubilai) of the Yuan116. This arrangement was successively modified because the DMHD lists117 for the second eastern room Gaozu and Guangwu of the Han and in addition also Wen Di of the Sui while in the second western room it puts Taizong of the Tang, Taizu of the Song and Shizu of the Yuan118. As we can see this order followed that of the Ancestral Temples. The San Huang were the main ancestors, followed by the Wu Di (Zhao , «shining» descendants), in front of the founders of the Xia, Shang e Zhou dynasties (Mu, «respectful» descendants); and in sequence the founders of the historical dynasties Han, Tang, Song and Yuan in front of those who were considered the second founders of the dynasties Zhou, Han and Tang. The temple was built in 1373119 in the southern side of the Qintian Mountain120 (Qintian Shan ). A duplicate of the temple was built, in force of a decree of November 30, 1373, also in Zhonglifu , the short-lived «central capital»121, located at 116

Ibidem. j. 91, p. 1b. 118 According to the Long Wenbin , Ming Huiyao , reprint Zhonghua Shuju, Peking, 1998, p. 171, in the external eastern room there were the tablets of Zhou Wu Wang, Han Guangwu and Tang Taizong while in the western room there were those of Han Gaozu, Tang Gaozu, Song Taizu and Yuan Shizu. Later the tablet of Sui Wendi was added. 119 MTZUSL, j. 84, pp. 4b-5a. The date is day yiyou of the 8th month of the 6th year of Hongwu, corresponding to September 3, 1373. 120 MS, j. 50, p. 562b. 121 FARMER E. L., Early Ming government: the Evolution of Dual Capitals, Harvard University Press, Cambridge Mass., 1974, pp. 45-51. 117

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the west of the imperial city. The same decree ordered the building in Peking, then called Beiping , of a temple in honor of emperor Qubilai of the Yuan122. The particular honours rendered to the latter are, in the opinion of this author, of great importance. We shall see, later, that also some high officials of the Yuan dynasty were honored. This demonstrates that Hongwu recognized the legitimacy at least of the founder, in China, of the overthrown Mongol dynasty. The first celebration of solemn rites in the new temple started on September 7, 1374, with the sacrifice of one ox, one sheep and one pig for every room. The honored emperors were seventeen in all123. Finally, a decree of July 5, 1391, directed to the Six Ministries, to the Censorate and to the Hanlin Academy fixed the regulations of the sacrifices and the utensils to be used124. A fire incidentally destroyed the temple in 1388125. It was immediately rebuilt but in another place. The place chosen was the southern side of the «Hill of the singing cock» (Jiming shan ) in the northern suburbs of Nanking. This hill hosted already, since 1377, the Imperial College (Guozi Jian ) and since 1380 the National School (Guozi xue126 .). In 1387 there had been an intense building activity in this hill, when many worships, existing since long time in other regions, were transferred to the capital127. They were all political worships, honoring the faithful and loyal officials who had received fiefs from the Zhou128. In addition to these individual temples another collective one was erected, in the same place, dedicated to the «meritorious officials»129 (Gongchen Miao ). The transfer of the Lidai Diwang Miao was the definitive recognition of this place as the strong point of the imperial political tradition while, at the north-east, on another hill (Zhong shan ) there were the Hall of the Great

122 The decree was issued the day guichou of the 11th month of the 6th year of Hongwu, corresponding to the date mentioned in the text. MTZUSL, j. 86, p. 3a. 123 MTZUSL, j. 92, p. 1a. This demonstrates that the final assessment was the one of the Da Ming Huidian that lists seventeen emperors. 124 Ivi, j. 209, pp. 1b-2b. 125 Yehuo bian in RXJW, J. 51, p. 806 and MHD, j. 91, p. 1433 126 MDJZ, 1946, pp. 13 and 15. 127 MDJZ, pp. 16-17 128 They were the miao dedicated to the founders of the states and families Jiang , Bian , Cao , Liu , Wei , all bearing posthumous names with the character zhong , «loyal». MDJZ, p. 16. 129 MDJZ, p. 17. A similar one was built in Zhonglifu.

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Sacrifices (Dasi dian) and all the temples to the Gods of heaven and earth130. Thus the two hills were the two poles of the state cult, with the historical spirits worshipped in the Jiming Shan and those of the nature on the Zhong Shan. On the occasion a new order was given to the tablets of the emperors. Sui Wen Di was excluded from the worship and Tang Taizong took his place131. The calendar of the sacrifices was also reorganized. Solemn rites were to be held in the temple every year in spring while in autumn the sacrifices to the emperors were celebrated in the Dasi dian. Furthermore it was stipulated to start again sacrifices every three years in the individual temples and tombs scattered all over the country. Taoist monks burned incense and offered silk sharfs at the temples and civil officials performed rites at the tombs. In the year when sacrifices were offered in the individual temples and tombs, the worship at the Lidai Diwang Miao stopped132. Such was the rule followed until the death of Hongwu in 1399. Emperor Yongle133 (dynastic name Taizong or Chengzu ) was not interested in the worship of the preceding monarchs. He did not take part personally to the cult. In 1408, the year of the transfer of the capital to Peking, he just sent an official of the Taichang Si134 to Nanking to celebrate the worship at the Lidai Diwang Miao135. 136 Under emperor Zhengtong (1436-1449, dynastic name Yingzong ) in 1447, the temple was restored together with many others in Nanking137. The sacrificial instruments were sent to the imperial treasury138 (Neiku ). This is certainly a confirmation of the decadence of the cult.

3.2 The worship of the meritorious officials In 1388 the Minister of Rites Li Yuanming139 memorialized asking to include in the worship thirty-six meritorious officials. The worship of

130 131 132 133 134 135 136 137 138 139

TAYLOR R., art. cit., p.38 MHD, j. 91, p. 1433 Ibidem and Long Wenbin, Ming Huiyao, l. c., Personal name Zhu Di , reigned from 1403 to 1424. The Taichang Si was the office in charge of the imperial rites. MS, j. 50, p. 563a. Personal name Zhu Qizhen . Reigned from 1435 to 1449 and from 1457 to 1464. MDJZ, pp. 53-54 Ibidem ELS, p. 1035.

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meritorious official was not new. Already in 1369 a temple had been erected in their honor140 and in 1375 a pavilion had been erected in Zhonglifu dedicated to the meritorious deeds for the establishment of dynasties (Kaiguo yuanxun ge ) in honor of one hundred eight famous officials141. The proposal of Li Yuanming was discussed by the emperor who refused the names of some of the officials proposed (for instance Zhao Pu142 of the Song, because he had not been loyal to [Song] Taizu) and added others. The final list included thirty-seven officials, i. e.: High antiquity 1. Feng Hou143 2. Li Mu144 3. Gao Tao145 4. Kui146 5. Long146 Shang officials 6. Bo Yi147 7. Bo Yi148 8. Yi Yin149 9. Fu Shuo150 Zhou officials 10. Zhougong Dan151 140 141

MDJZ, p. 3 STEINHARDT N. S., Chinese Imperial City Planning, University of Hawaii Press, Honolulu, 1990,

p. 166. 142 Zhao Pu (922-992) helped Zhao Kuanyin (Song Taizu) in the conquest of power. EWS, vol. II, p. 19. Biography in SS, j. 256. 143 Astronomer and Minister of Huang Di. The literary treatise of the Hanshu (Hanshu Yiwen Zhi ) lists three works attributed to him. Among them a Treatise on War (Bingfa ) in thirteen chapters. RMDCD, p. 227. 144 Legendary minister of Huang Di. RMDCD, p. 10. 145 Legendary minister of Shun (? -2204 BC). CY, p. 1182c 146 In reality Kui and Long were two persons, both officers of king Shun. Kui was music official (yue guan ) and Long was advisor (jian guan ). CY, p. 351b. 147 Official famous for his loyalty. After the defeat of the last king of the Shang he did not accept food from the Zhou and died of starvation. EWS, vol. I, p. 22; RMCD, p. 283. Biography in SJ, j. 61. 148 Minister who helped Yu in water conservancy. RMDCD, p. 283. 149 Minister of the first Shang king Tang. RMDCD, p. 227. 150 Minister of Shang Gaozong. RMDCD, p. 1134. 151 The Duke of Zhou, son of Wen Wang and brother of Wu Wang.

110

11. 12. 13. 14.

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Shaogong Shi152 Taigong Wang153 Shao Hu154 Fang Shu155

Han officials 15. Zhang Liang156 16. Xiao He157 17. Cao Can158 18. Chen Ping159 19. Zhou Bo160 20. Deng Yu161 21. Feng Yi162 Thr ee Kingdoms officials Three 22. Zhuge Liang163 152

Shi, duke of Shao and subsequently prince of Yan , belonged to the Ji branch of the Zhou family. He cooperated with the Duke of Zhou in governing the kingdom. CY, pp. 202d-203a; CBD, p. 640. 153 Lü Shang of the Jiang clan received this name by Wen Wang. After the defeat of the Shang he received the fief of Qi . CY, p. 382b; CBD, p.708. 154 Descendant of Taigong Wang. He served under Zhou Xuan Wang fighting against the Huai barbarians. CY, p. 253a. 155 Minister (qingshi ) of Xuan Wang. He fought against the Xianyun in the north and against the Jingchu in the south. CY, p. 747d. 156 For five generations his family held the position of Chief Minister (xiang ) in the Han state. When Qin Shi Huang Di subdued Han, Zhang Liang organized guerrilla troops against him. Finally he joined Liu Bang and, after the establishment of the Han dynasty received the fief of Mao with the title of marquis (hou ). Dead 189 BC. CY, p. 567b-c; CBD, p. 33; EWS, vol. I, p. 40. Biography in QHS, j. 40. 157 Xiao He (? -193 BC) served as Prime Minister for many years under Han Gaozu. CBD. p. 279. 158 A former general of the Qin, Cao Can (? -190 BC) joined Liu Bang and performed a brilliant career. He was the successor of Xiao He as Prime Minister of Han Gaozu. CBD, p.761: EWS, vol. I, p. 40. Biography in Qian Hanshu, j. 39. 159 Very poor in his youth, Chen Ping (? -178 BC) married a rich woman and thus could cultivate literature. In the rebellion against the Qin he joined Xiang Yu and became prince of Yin . Afterwards he served under Han Gaozu and was one of his advisers. CY, p. 11781c; EWS, vol. I, pp. 40-41. Biographies in SJ, j. 56 and Qian Hanshu, j. 40. 160 A singer and a musician, Zhou Bo (? -169 BC) joined the army of Liu Bang who made him a commander. Afterwards was Minister. CY, p. 274a; EWS, vol. I, p. 41. Biography in Qian Hanshu, j. 40. 161 At the age of thirteen Deng Yu (2-58 AD) joined the army of Guangwu of the Later Han and, for his brilliant achievements, was made commander in chief in 26 AD After the enthronement of Guangwu he served as dasitu , in charge of education. CY, p. 1699c-d; CBD, p. 724. 162 Feng Yi (? -34 AD) first served under Wang Mang and afterwards joined Guangwu. CBD, p. 225. 163 The main hero of the «Three Kingdoms» literary cycle. Detailed biography in CBD, pp. 180-182.

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Tang officials 23. Fang Xuanling164 24. Du Ruhui165 25. Li Jing166 26. Guo Ziyi167 27. Li Cheng168 Song officials 28. Cao Bin169 29. Pan Mei170 30. Han Shizhong171 31. Yue Fei172 32. Zhang Jun173 Yuan officials 33. Muhuali174 34. Boerhu175 164 Fang Xuanling (578-648) was a famous politician and literate of the beginning of the Tang dynasty. CBD, p. 221. 165 Another famous minister of the beginning of the Tang. CBD, p. 728; EWS, vol. I, p. 386. Biography in JTS, j. 66. 166 Li Jing (571-649) was in his youth an official of the Sui. After the advent of the Tang he was sentenced to death but saved upon the intercession of the Crown Prince, the future emperor Taizong. He served under him and was Minister of Rites. CBC, p. 425. 167 Guo Ziyi (697-781) was the general who saved the Tang dynasty from the revolt of An Lushan . A detailed biography is in CBD, pp. 411-412. See also EWS, vol. I, p. 407, biography in JTS, j. 120. 168 Li Cheng (727-793) was a general of the Tang. He fought against the Tibetans and was ambassador to Tibet. EWS, vol. I, p. 411. Biography in JTS, j. 133. 169 Cao Bin served first under the Hou Zhou and then joined the Song. He was considered a very good general. CY p. 793b: EWS, vol. II, p. 20. Biography in SS, j. 25. 170 Also Pan Mei (925-991) first served under the Hou Zhou and then joined the Song. He was a personal friend of Zhao Kuanyin. He spent most part of his life fighting against the Qidan Liao. CY, p. 1022; CBD, p. 615; EWS, vol. II, pp. 20-21. Biography in SS, j. 256. 171 Han Shizong (1089-1151) was a famous general of the Southern Song. He fought against the Xi Xia and the Jurèin Jin. CBD, p. 251; EWS, vol. II, p. 96. Biography in SS, j. 364. 172 Yue Fei (1103-1141) was a general of the Song who succeeded to defeat the Jurèin Jin. EWS, vol. II, p. 96. Biography in SS, j. 356. On yue Fei see also WILHELM H., «From Myth to Myth: The Case of Yueh Fei’s Biography», in WRIGHT A.F. & TWITCHETT D. (edds.), Confucian Personalities, Stanford University Press, Stanford, 1962, pp. 146-161; TOZZI GIULI D., «Un eroe nazionale cinese: Yueh Fei» in Atti della Accademia Nazionale dei Lincei, anno CCCLXXII, Memorie, Classe di Scienze morali, storiche e filologiche. Serie VIII, vol. XVIII, fasc. 3, 1975, pp. 183-245; KAPLAN E. H., Yueh Fei and the founding of the Southern Sung, Ann Arbor Mich.: University Microfilms International, 1996. 173 Zhang Xun (1097-1164) was a general of the Southern Song. He never accepted compromises with the enemy. CY, p. 567; CBD, p. 25. 174 Muhuali (1170-1223) was a great general of Gengis Qan. EWS, p. 258, Biography in YS, j. 119.

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35. Zhu Chi176 36. Lao Wen177 37. Boyan178 As we can see, the choice of the officials was limited only to those of the major dynasties, with the only exception of Zhuge Liang, who was too famous to be not included. Concerning the criteria followed in the choice, the virtues taken into consideration were loyalty and military achievements. Thus the two concepts of wen and wu were well balanced. The tablets of the officials were put on four altars in two small side rooms of the temple.

4. THE

TEMPLE IN

PEKING

4.1 Jiajing’s building activity Emperor Jiajing179 was not only devoted to Taoism, in search for immortality180. He was also very interested in the ritual and in the sacrificial activities of the state cult.. This interest brought to an intense activity in building temples and altars. The major altars of Peking, in the form that we can still admire, were built or renovated under his reign. Among them we must mention the Altar of the Earth181 (Di Tan ), the Altar of the Sun182 (Chaori Tan ), the Altar of the Moon183 (Xiyue Tan ) and the Altar of 184 Agriculture (Xiannong Tan ). Under his reign the city of Peking took

175

Another general of Gengis Qan. Biography in YS, j. 119. Crown Prince of Gengis Qan. YS, passim. 177 General of Gengis Qan. YS, passim. 178 Boyan (1236-129 was Prime Minister of Qubilai and a great general. Biography in YS, j. 127. 179 Personal name Zhu Houcong , temple name Shizong , reigned 1522-1566. 180 CHAN A., The Glory and Fall of the Ming Dynasty, University of Oklahoma Press, Norman, 1982, pp. 110-112. 181 Emperor Yongle, in 1420, built only one temple dedicated to Heaven and Earth, in the southeastern suburbs of Peking. On the request of court astrologers Jiajing, in 1530, ordered to build a separate Altar to the Earth (Di Tan ) in the northeastern suburbs. BJMS, pp. 35-37; SOP, pp. 233-237. 182 Built in 1530. BJMS, p. 355; SOP, p. 263. 183 Built in 1530. BJMS, pp. 114-115; SOP, pp. 249-250. 184 Adjacent to the Altar of Heaven (Tian Tan , BJMS, pp. 235-236; SOP, pp. 105-113), built by Yongle in 1420 and dedicated by him to both Heaven and Earth (see note above). It is connected with the Tian Tan by a long corridor. Also Yongle had built the Xiannong Tan in 1420, but Jiajing 176

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The worship to the sovereigns of the past

113

the shape that has kept up until a few years ago185. This interest of the emperor in ritualism derived from the thought of thinkers like Hu Juren186 (1434-84) who had stressed the importance of funerary rites and Luo Rufang187 (1515-88) who was advocating an utmost devotion and veneration for Heaven, Earth and the ancestors. Another input to the ritualistic interest of Jiajing came from the discussions, started just at the beginning of his reign, concerning the honours to be given to his own ancestors. The problem was the place to be assigned to his natural father who had not been emperor188. In the tenth year of his reign (1531) the emperor ordered to build a new temple in Peking to the emperors of the past189. The new temple was built in the place occupied until then by the Temple for the Protection of Peace (Baoan si ), inside the Fucheng Gate (Fuchengmennei ) and six month later it was completed190. The emperor performed the rites personally in the autumn191.

4.2 The tablets and the altars The temple had many buildings and courts. The most important building was the Hall of the Clear Virtue and the Venerable Saints (Jingde Chongsheng zhi dian ) where the tablets of the spirits of the emperors were

ordered a complete renovation. The renovation was completed in 1553. The altar is called also Shanchuan Tan . In the architectonical complex there are four altars, dedicated to the Agriculture, to the Mountains and Rivers (shan chuan ), to the spirits of Heaven and Earth (shenqi ) and to those who regulated the year (taisui ). According to the Chunming Mengyu Lu (quoted in Ren Juyu (ed.) , Zongjiao Cidian , Shanghai Cishu Chubanshe, Shanghai, 1985, p. 160) Hongwu introduced this cult and in 1532 Jiajing built an altar to these spirits (Taisui Tan ). This altar was later included in the complex of the Xiannong Tan. BMS, pp. 206-208; SOP, pp. 113-117. 185 STEINHARDT, op. cit., p. 169 186 ELS, p. 1148. SABATTINI M. - SANTANGELO P., Storia della Cina, Laterza, Bari, 1986, pp. 532535. 187 ELS, p. 1152. 188 GREINER P., «Thronbesteigung und Thronfolge im China der Ming (1368-1644)», in Deutschen Morgenländische Gesellschaft, Band XLII, 1, 1977, p. 41; the problem is thoroughly discussed also in de NAPOLI F. «Lotte di potere alla corte dei Ming nell’era Chia-ching (1521-1566), il caso Li Fu-ta», Materiali di storia 3, Annali della Facoltà di Scienze Politiche, Università degli Studi, Perugia, 1979, pp. 239-252 189 MSZSL, j. 123, p. 15a. The date is the day renyin of the third month of the tenth year of Jiajing, corresponding to April 4, 1531. Other sources (Dijing Jingwu Lue in RXJW, J. 51, p. 807, MHD, j. 91, p. 1433, MS, j. 50, p.563a) say that the building was started in the ninth year. 190 MSZSL, j. 130, p. 3b. The date is the day gengshen of the ninth month of the tenth year of Jiajing, corresponding to October 19, 1531 191 MHD, j. 91, p. 1433

114

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exposed. Behind this hall there was the deposit of the sacrificial instruments (qiku ). Two other halls were in the east and in the west. To the south there was two incense burners and two ovens. Before the main entrance there was the stele asking everybody to dismount from horseback (xiama pai ) 192 as in the Imperial Palace and in the Confucius’ Temple . At the beginning the order of the tablets was the same as in Nanking. Just before the completion of the temple the Hanlin bachelor Yao Lai193 asked to remove the tablet of Yuan Shizu but the Ministry of Rites did not accept his advise194. The second month of the twenty-fourth year (1545) an official of the Ministry of Rites, Chen Fei195 repeated the request, adding also the removal of the tablets of the five Yuan officials. This time the request was accepted. The tablets of Yuan Shizu and of the five Yuan officials were removed196. These tablets were removed also from the temple in Nanking197. The removal of the tablets of Yuan Shizu and of his officials had a political significance. The Mongol threat had been very strong in the preceding century. They had even taken prisoner Emperor Yingzong, who staid in captivity for seven years. Outside the Great Wall the Mongols claimed to be the continuators of the Yuan dynasty and Batu Möngke (d. 1544), the restorer of the Gengisqanid power in the XVI century, had assumed the title of Dayan-qagan, i. e. qagan of the «Great Yuan» (Dayüan )198. His example was followed by his successors Bodi-alag-qagan (r. 1544-1547) and Daraysun-küdeng-qagan (r. 1548-1557)199. Therefore the soft attitude of Hongwu, who had considered legitimate the Yuan dynasty200, could not be fulfilled anymore. The central hall was dedicated to the kings and emperors. In the center there were the San Huang Fu Xi, Shen Nong, Huang Di; at their left the Wu Di Shaohao, Zhuanxu, Ku, Yao e Shun and at their right the San Wang Yu, Tang and Wu. In the eastern part of the central hall there were Gaozu and

192

Chunming Mengyu Lu in RXJW, j. 51, p. 806. Famous ritualist of the Jiajing era. RMDCD, p. 640. 194 MSZSL, j. 130, pp. 1b-2a. 195 RMDCD, p. 1090. 196 Dijing Jingwu Lue in RXJW, J. 51, p. 808. This text indicates Muhuali as Muhuli. The MSZSL do not record the decree. The ninth month of the twenty-fourth year of Jiajing corresponds to October 6 - November 3, 1545. 197 Ibidem. From this we can deduce that the rites continued also in the old capital. 198 Cf. H. SERRUYS, Genealogical tables of the descendants of Dayan-qan, ‘S Gravenhage 1958, pp. 14-15. 199 The chronology of the Mongol qagan in this period is very uncertain, especially for the date of death of Dayan-qan.. Here I follow the chronology established by Serruys in the above-cited book. 200 See above, 3.1. 193

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The worship to the sovereigns of the past

115

Guangwu of the Han and in the western part Taizong of the Tang and Taizu of the Song. In total there were the tablets of fifteen kings and emperors. In the eastern hall and in the western hall (each one containing two altars) there were the tablets of the officials. In the first altar of the eastern hall there were the tablets of nine officials201: Feng Hou, Li Mu, Gao Tao, Kui and Long, BoYi, Bo Yi, Yi Yin, Fu Yue. In the second altar there were the tablets of other ten officials: Zhougong Dan, Shaogong Shi, Taigong Wang, Shao Hu, Fang Shu, Zhang Liang, Xiao He, Cao Can, Chen Ping and Zhou Bo. In the first altar of the western hall there were the tablets of eight officials202: Deng Yu, Feng Yi, Zhuge Liang, Fang Xuanling, Du Ruhui, Li Jing, Li Cheng and Guo Ziyi. In the second altar there were the tablets of five officials: Cao Bin, Pan Mei, Han Shizhong, Yue Fei and Zhang Jun. These officials were all connected with the emperors venerated in the central hall. While in the Nanking temple the tablets of the emperors were disposed along the pattern of the ancestral temples, with the Zhao facing the Mu, in this temple the pattern was chronological. The same can be said concerning the order of the officials.

4.3 The calendar and the preparation of the ceremonies The ceremonies were held in spring and in autumn, according to the rules of Ming Taizu that had been fixed in the 26th year of Hongwu (1393)203. Some days before the ceremony the Taichang Si memorialized to the emperor asking to nominate a high official who would perform the rites and four minor officials who would distribute the offerings204. The officials (Taichang Guan ) proposed to perform the rites had to sleep alone in their residences for one night. Waiting for the answer of the emperor they abstained (zhaijie ) from food for two days until the arrival 205 of the nomination . Once chosen, they prepared themselves to the event avoiding any contact with impure things and performing hygienic practices such as baths, changes of dressing, sexual abstinence, abstinence from meat, foods with strong smell and alcohol. Furthermore they could not have contact with ill persons, could 201 202 203 204 205

Dijing Jingwu Lue in RXJW, J. 51, p. 808. Ibidem. MHD, j. 91, p. 1433 Ibidem Ibidem

116

Piero Corradini

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not listen music and assist to funerals and to criminal audiences206. Also the offerings were prepared in a special way. The sacrificial animals had to be grown in special stables and were washed thirty days before. On the day of the ceremony they were inspected (shengsheng ). After this, the animals were killed. The animals to be sacrificed included six oxen, five bucks, one mutton, five rabbits and eight pigs207. The offerings (chenshe ) in the central pavilion for every room included: one du208 one mutton one pig and for every emperor’s tablet209: – one caldron for soup of meat without condiments (deng ) – two caldrons for soup of meat with condiments (xing ) – ten baskets of fruits (bian210 ) – ten recipients for sacrificial food (dou ) – two square baskets for cereals (fu ) – two round baskets for cereals (gui ) – one piece of silk, white color (bo ) In addition, for the offerings of wine, there were the following recipients: three zun , forty-five jue tripods and five round covered baskets (fei ). In the southeast of the central room, facing west, there was also a table (an ) on which was deposed the sacrificial prayer (zhuwen ). The offerings to the officials in the side rooms included: for the first altar one mutton, one pig, nine xing, four bian, four dou, one fu, one gui, nine bo, twenty-seven cups for wine (zhan ) one dish for food (zhuanpan ) and one fei. For the second altar they included one mutton, one pig, seven xing, four bian, four dou, one fu, one gui, seven bo, twenty-one zhan, one zhuanpan and one fei211.

206

These were general rules stipulated by Hongwu. HO YUNYi, The organization..., pp. 172-174 MHD, j. 91, p. 1433 208 The interpretation of this passage of the MHD is difficult. The character du is very rare and the Hanyu Dazidian gives for it (p. 831b) the same meaning of chou that means «portion». We must think to a portion of ox. The same we must think for the following mutton and pig. 209 The number of the recipients takes into account the exclusion from the sacrifices of Yuan Shizu and the five Yuan officials. 210 According to the already cited Hanyu Dazidian (p. 1622b) the character used by the MHD corresponds to 211 MHD, j. 91, p. 1434 207

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The worship to the sovereigns of the past

117

4.4 The liturgy ) started. Once completed the preparation, the ceremony (zhengji The Head of Palace Ceremonies (Dianyi ) asked212 first the musicians, the dancers and the auxiliary officials (zhishiguan ) to take their places. The Master of Ceremonies (Zan ) called the officials who would distribute the offerings and asked them to extract the sacrificial tablets (hu ) from their waistband and to take their places. The Dianyi started singing to call the spirits accompanied by the musicians directed by the Responsible of Music (Xielülang ). When the music stopped, the Zan, followed by all present people, worshipped (bai ) the spirits. Then the Dianyi offered a white silk bo. The music started again and the auxiliary officials carried in front of the tablets the other bo and the jue. The Zan went then before the tablets of the San Huang, the hu were put aside, the auxiliary officials passed to the offering officials first the bo and afterwards the jue. The solemn offering was announced. The ceremony was performed three times for every monarch. The hu were extracted again and all the officials went before the Wu Di, the San Wang and the other emperors performing the same rite. Then the officials went before the tablets of the historical emperor, extracted again the hu and went before the table of the sacrificial prayer. The sacrificial prayer was read by another official called Duzhu guan . After the reading all the official performed the prostration (fufu ). The music stopped and thus the first offering ended. The offering was then repeated twice. Once completed the offerings, the Dianyi proclaimed a toast (yinfu ) and announced the offering of meat. At this point the banquet started. After the banquet the Dianyi ordered to remove everything and solemnly asked to depart from the spirits (song shen ). The sacrificial prayer and the other offerings still remaining were put in the incense burner (liao ). It was believed that through the smoke the offerings and the prayer could reach the spirits. This moment was known as wangliao . Then the music ceased and the rite was concluded213.

212 213

Every announcement was precisely formulated. The texts are in MHD, j. 91, p. 1435. MHD, j. 91, pp. 1434-35

118

Piero Corradini

5. THE

DEVELOPMENTS UNDER THE

[26]

QING

5.1 The worship at the imperial graves The Manchu conquerors of China, who overthrew the Ming and established the Qing dynasty (1644-1911) were very interested in the problem of their legitimization. The Ming had excluded from worship the tombs of the Jurcin Jin emperors214 but the Manchus claimed to be their successors and the founder of their power, Nurhaci, had even taken the title, in 1616, of Later Jin (Hou Jin ) emperor. This name had been changed into Qing in 1636 but the claim to be the successors of the Jin was not abandoned. For this reason the worship to the tombs of the Jin emperors was necessary. Already many years before the conquest of Peking, emperor Taizong215, dispatched216 two princes (beile ), Abatai217 and Sahaliyan218 , to the Fangshan district to perform the tailao sacrifices to the tombs of Jin Taizu219 and Shizong220. These sacrifices became permanent when emperor Shunzhi221 in 1645 ordered to perform them on a yearly basis222. The Qing took care also of the Ming Tombs in Changping district.. The «Thirteen Tombs» (Shisan ling ) were restored and the worship started again in 1652223 Also this care had a political significance. Showing respect for the spirits of the emperors of the overthrown dynasty, the conquerors were able not only legitimate themselves as successors but could also obtain cooperation from the literati still loyal to the past dynasty. 214

See above, 2.1. Personal name Aisin Gioro Huangtaiji . Reigned with the nianhao Tiancong 1627 - 1635 and Chongde 1636 - 1643. 216 QS, j. 2, p. 11b; Qing Shilu , Taizong Shilu , reprint Zhonghua Shuju, Peking, 1982, j. 5, p. 32b. The date is the day xinyu of the twelfth month of the third year of Tiancong, corresponding to January 23, 1630. 217 Abatai (1589-1646) was a member of the imperial family and fought bravely against the Ming. HUMMEL A. W., Eminent Chinese of the Ch’ing Period, U. S. Government Printing Office, Washington, 1942-1944, pp. 3-4. 218 Sahaliyan (? -1636) was a member of the imperial family, in charge of the Ministry of Rites. HUMMEL A. W., op. cit., pp. 631-632. 219 Personal name Wanyan Aguda . Reigned from 1115 to 1122. 220 Personal name Wanyan Yong . Reigned from 1161 to 1189. 221 Temple name Shizu, personal name Aisin Gioro Fulin . Reigned from 1644 to 1661. 222 QS, j. 4, p. 36b. The date is the day bingwu of the first month of the second year of Shunzhi, corresponding to February 18, 1645. 223 QS, j. 5, p. 49a. On the day yichou of the sixth month of the eight year of Shunzhi (corresponding to August 5, 1652) the Qing government fixed the rites to all the tombs, altars and temples. The day xinwei of the same month (corresponding to August 11, 1652) a decree fixed the rules for the worship at the Ming Tombs. 215

[27]

The worship to the sovereigns of the past

119

In 1653 it was finally decided to start again the worship to the tombs of the monarchs of the preceding dynasties224. The list of the tombs worshipped by the Qing shows many differences with the one of the Ming: DYNASTY

TOMBS WORSHIPPED BY THE QING

TOMBS WORSHIPPED BY THE MING

Mythical Fu Xi

Fu Xi

Nü Gua Shennong

Shennong

Huang Di Shaohao

Shaohao

Zhuanxu Diku

Zhuanxu

Xuanyuan Yao

Yao

Shun

Shun

Yu

Yu

Tang

Tang

Zhongzong Gaozong

Zhongzong Gaozong

Wen Wang Wu Wang

Wen Wang Wu Wang

Cheng Wang Kang Wang

Cheng Wang Kang Wang

Gaozu

Gaozu

Wen Di

Wen Di

Xia Shang

Zhou

Han

Jing Di Wu Di Xuan Di Guangwu Ming Di Zhang Di 224

QS, j, 85, p. 1065a.

Guangwu

120 DYNASTY

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Piero Corradini TOMBS WORSHIPPED BY THE QING

TOMBS WORSHIPPED BY THE MING

Hou W ei Wei Wen Di

Wen Di

Sui Gaozu Tang Gaozu

Gaozu

Taizong Xianzong

Taizong Xianzong

Xuanzong

Xuanzong

Shizong

Shizong

Hou Zhou Liao Taizu Song Taizu

Taizu

Taizong Zhenzong

Taizong Zhenzong

Renzong Xiaozong

Renzong

Lizong Jin Taizu Shizong Yuan Taizu Shizu Ming Taizu Xuanzong Xiaozong Shizong

From this list we can note that the Qing increased the number of the tombs of the mythical monarchs, excluded many tombs of the Han and the Song, included the tombs of the so-called barbarian dynasties, such as Liao, Jin and Yuan. In fact, they were themselves considered barbarians by the Han Chinese,

[29]

The worship to the sovereigns of the past

121

so it was natural that they reacted worshipping the tombs of the barbarian predecessors. 5.2 The Lidai Diwang Miao under Shunzhi The Qing found the Lidai Diwang Miao in the arrangement left by the Ming. Discussions aroused soon about the emperors to be worshipped. A memorial225 of the Ministry of Rites regretted that Yuan Shizu had been first included and then excluded from the worship. It noted also that the emperor of the Liao and Jin dynasties had not been included. The memorial stressed the fact that the Liao and Jin dynasties had broken the unity of the empire and that at the time of the Song there were two empires (tianxia ). Therefore Liao Taizu and Jin Taizu and Shizong, together with their «valiant officers» (gongchen ) ought to be worshipped in the temple. For the names of the officers the two sources do not agree. The QS for the Liao gives the name of Yelü Helu and for the Jin those of Nimahe and Woliyabu226 . 227 The QHDSL for the Liao gives the name of Yelü Helu written and for the Jin the names of Nian Meihu228 and Wolibu . The two officials of the Jin are almost unknown and we cannot guess why they were included. The difference of the characters used can be explained with different transliterations from the original languages to Chinese. For the Yuan the memorial stressed that Shizu had reunified the empire and that the Mongol military strength had begun with Taizu, i. e. Gengis Qan. For this reason the two emperors ought to be included, together with their officials Muhuali and Boyan. Also for these two officials there is disagreement between the two sources: the QS uses Muhuli and Bayan . Finally the memorial asked to include also Ming Taizu (Hongwu) and his «valiant officials» Xu Da229 and Liu Ji230 . The emperor accepted the proposal and the emperors and officials were added to the worship. It was stipulated that the emperors would receive a tailao while the officials would receive a «small sacrifice» 225 Quoted in QS, j. 85, p. 1063b, without date. The QHDSL, j. 433, p. 907b, gives the date of the third day of the third month of the second year of Shunzhi (corresponding to March 30, 1645). See also Qing Shilu , Shizu Shilu, , j. 15, pp. 1a-b. 226 Woliyabu or Wolibu (written also ) corresponds to Zong Wang , general of the Jin who fought against the Liao and the Song. Biography in JS, j. 74. 227 See the note of Yu Minzhong (RXJW, j. 51, p. 811) in which he states the correspondence of the names. Biography in Liaoshi j. 73 228 This official is not recorded in the JS. 229 Xu Da (1332-1385) was the most valiant general of Zhu Yuanzhang and greatly helped him in establishing the Ming dynasty. DMB, pp. 602-607. Biography in MS, j. 105. 230 Liu Ji (1311-1375) was one of the most important advisors of Zhu Yuanzhang. DNB, pp. 932938. Biography in MS, j. 105.

122

[30]

Piero Corradini

(shaolao )231. The tablets of the emperors were now twenty-one and those of the officials forty-one. ANG MIAO UNDER SHUNZHI SOVEREIGNS WORSHIPPED IN THE LIDAI DIW DIWANG DYNASTY

WORSHIPPED BY THE QING

WORSHIPPED BY THE MING

1. Fu Xi

1. Fu Xi

2. Shen Nong

2. Shen Nong

3. Huang Di

3. Huang Di

4. Shaohao 5. Zhuanxu 6. Ku

4. Shaohao 5. Zhuanxu 6. Ku

7. Yao 8. Shun

7. Yao 8. Shun

9. Yu 10. Tang 11. Wu Wang

9. Yu 10. Tang 11. Wu Wang

12. Gaozu 13. Guangwu

12. Gaozu 13. Guangwu

14. Taizong

14. Taizong

15. Taizu

15. Taizu

San Huang

Wu Di

San W ang Wang

Han

Tang Song Liao 16. Taizu Jin 17. Taizu 18. Shizong Yuan 19. Taizu 20. Shizu Ming 21. Taizu 231 QS, j. 85, pp. 1063b-1064a. According to the QHDSL, j. 433, p. 908b, the tailao was offered to all the spirits.

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The worship to the sovereigns of the past

123

ANG MIAO UNDER SHUNZHI OFFICIALS WORSHIPPED IN THE LIDAI DIW DIWANG DYNASTY

BY THE QING

BY THE MING

1. Feng Hou

1. Feng Hou

2. Li Mu

2. Li Mu

3. Gao Tao

3.Gao Tao

4. Kui 5. Long

4. Kui 5. Long

6. Bo Yi

6. Bo Yi

7.Bo Yi

7. Bo Yi

8. Yi Yin 9. Fu Shuo

8. Yi Yin 9. Fu Shuo

10. Zhougong Dan

10. Zhougong Dan

11. Shaogong Shi 12.Taigong Wang 13. Shao Hu

11. Shaogong Shi 12. Taigong Wang 13. Shao Hu

14. Fang Shu

14. Fang Shu

15. Zhang Liang

15. Zhang Liang

Mythical

Shang

Zhou

Han 16. Xiao He

16. Xiao He

17. Cao Can 18. Chen Ping

17. Cao Can 18. Chen Ping

19. Zhou Bo

19. Zhou Bo

20. Deng Yu 21. Feng Yi

20. Deng Yu 21. Feng Yi

22. Zhuge Liang

22. Zhuge Liang

23. Fang Xuanling

23. Fang Xuanling

24. Du Ruhui 25. Li Jing

24. Du Ruhui 25. Li Jing

Thr ee Kingdoms Three Tang

26. Li Cheng 27. Zhang Xun

232

26. Li Cheng 232

Tang hero (709-757) who died during the rebellion of An Lushan. CY, p. 567b.

124

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Piero Corradini

ANG MIAO UNDER SHUNZHI OFFICIALS WORSHIPPED IN THE LIDAI DIW DIWANG DYNASTY

BY THE QING

BY THE MING

233

28. Xu Yuan 29. Guo Ziyi

27. Guo Ziyi

30. Cao Bin

28. Cao Bin

31. Pan Mei 32. Zhang Jun 33.Han Shizhong

29. Pan Mei 30. Zhang Jun 31. Han Shizhong

34.Yue Fei

32. Yue Fei

Song

Liao 35. Yelü Helu Jin 36. Niyabu 37. Woliyabu Yuan 38. Muhuli 39. Bayan

33. Muhuali 34. Boyan 35. Boerhu 36. Zhu Chi 37. Lao Wen

Ming 40. Xu Da 41. Liu Ji

5.3 Kangxi increases the number of the spirits Emperor Kangxi234 (1622-1723) in 1676 performed personally the rites. There is a detailed description of the ceremony in the QS235. After having accomplished the ritual abstinence, at dawn, on a carriage, he went out from the Xihua Gate and entered the temple. After having done the ritual purification, he entered in the central hall, burned incense before the tablets of the 233

Another Tang hero (? -757) who fought against An Lushan and was killed by him. EWS, vol. I. p. 438. Biography in JTS, j. 187b. 234 Temple name Shengzu , personal name Aisin Gioro Xuanye . Reigned from 1662 to 1722. 235 QS, j. 85, p. 1064a-b.

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The worship to the sovereigns of the past

125

San Huang, kneeled (gui) and prayed (bai) six times. Afterward he offered bo and jue and read aloud the sacrificial prayer. The officials submitted then the offerings in the side halls. A new discussion arose in 1690 concerning the monarchs to be worshipped. The Ministry of Rites suggested to extend the worship not only to the monarchs which had succeeded in founding a dynasty but also to those who had been able to preserve the received heritage. Thus was decreed the inclusion of Zhongzong and Gaozong of the Shang, Cheng Wang and Kang Wang of the Zhou, Wen Di of the Han, Renzong of the Song, and Xiaozong of the Ming. The case of the emperors of the Ming dynasty was the most difficult. It was deemed that the loss of power by the last emperor could not be attributed to him but to the mistakes and to the misconduct of his predecessors. Wanli236 was considered responsible of all the evils and therefore excluded from the worship. The same was done for Taichang237 (1620) and Tianqi238 (1620 1627)239. Therefore the list of the sovereigns worshipped in the Lidai Diwang Miao was updated as follows: San Huang 1. Fu Xi 2. Shen Nong 3. Huang Di Wu Di 4. Shaohao 5. Zhuanxu 6. Ku 7. Yao 8. Shun Xia 9. Yu, r.240 2205-2198 BC Shang 10. Cheng Tang, r. 1766-1754 BC 236

Personal name Zhu Yijun . Temple name Shenzong. Reigned from 1573 to 1620. Personal name Zhu Changluo . Temple name Guangzong. Reigned only in 1620. 238 Personal name Zhu Youjiao . Temple name Xizong. Reigned from 1621 to 1627. 239 QS, j. 85, p. 1064a-b; Dijing Jingwu Lue, quoted in RXQW, pp. 807-808. 240 In the following lists, the dates of reign for the Xia, Shang and Zhou dynasties are given according to the traditional chronology. 237

126

Piero Corradini

[34]

11. Zhongzong241, r. 1637-1563 BC 12. Gaozong242, r. 1324-1266 BC Zhou 13. Wu Wang (Ji Fa ), r. 1122-1116 BC 14. Cheng Wang (Ji Song ), r. 1115-1079 BC 15. Kang Wang (Ji Zhao ), r. 1078-1053 BC Han 16. Gaozu (Liu Bang 17. Wen Di (Liu Heng 18. Guangwu (Liu Xiu

), r. 206-195 BC ), r. 179-157 BC ), r. 25-57

Tang 19. Taizong (Li Shimin

), r. 627-649

Song 20. Taizu (Zhao Kuangyin 21. Renzong (Zhao Zhen

), r. 960-976 ), r. 1023-1063

Liao 22. Taizu (Yelü Abaoqi

), r. 916-926

Jin 23. Taizu (Wanyan Aguda 24. Shizong (Wanyan Yong

), r. 1115-1122 ), r. 1161-1189

Yuan 25. Taizu (Gengis Qan) 26. Shizu (Hubilie Ming Taizu (Zhu Yuanzhang Xiaozong (Zhu Youtang

or Qubilai), r. 1260-1294

), r. 1368-1398 ), r. 1488-1505

Just before his death Kangxi promulgated an edict in which he noted that it was not enough to venerate a dynasty of the past in the Lidai Diwang Miao

241 242

Temple name of Taixu. Temple name of Wuding.

[35]

The worship to the sovereigns of the past

127

worshipping only one or two sovereigns, but it was necessary to include also their fathers or their sons, respectively. The rule to be enacted was that, starting from Fu Xi down to the Ming dynasty all the emperors were worthy of worship, except those who had showed to ignore the «way» (wudao ), had been killed (beisha ) or had lost the power and ruined the dynasty (wangguo ). Concerning the officials Kangxi stipulated that if one of them was venerated, it was necessary to include also the sovereign he had served243. Kangxi died before the enforcement of his proclamation.. This was enacted by his successor, Yongzheng244, even before the changing of the nianhao, the twelfth month of the sixty-first year of Kangxi245. Among the sovereigns of the dynasties taken into account, one hundred forty-three were chosen and their tablets added to those already existing in the central hall. All the sovereigns of the dynasties taken into account were included, except those who did not fit the rules of Kangxi. The sovereigns added were: Xia 1. Qi , r. 2197-2189 BC 2. Zhongkang , r. 2159-2147 BC 3. Shaokang, r. 2079-2058 BC 4. Zhu , r. 2057-2041 BC 5. Huai , r. 2040-2015 BC 6. Mang , r. 2014-1997 BC 7. Xie , r. 1996-1981 BC 8. Buxiang , r. 1980-1933 BC 9. Jiong , r. 1921-1901 BC 10. Kang , r. 1900-1880 BC 11. Kongjia , r. 1879-1849 BC 12. Gao , r. 1848-1838 BC 13. Fa ,r. 1837-1819 BC Shang 14. Taijia 15. Woding 16. Taigeng 17. Xiaojia

, r. 1753-1721 BC , r. 1720-1692 BC , r. 1691-1667 BC , r. 1666-1650 BC

243

Daqing Huidian , quoted in RXJW, j. 51, p. 809 Temple name Shizong , personal name Aisin Gioro Yinzhen 1723 to 1735. 245 Daqing Huidian, quoted in RXJW, j. 51, pp. 809-811. 244

. Reigned from

128

18. 19. 20. 21. 22. 23. 24. 25. 26. 27. 28. 29. 30. 31. 32. 33. 34. 35. 36. 37. 38.

Piero Corradini

Yongji , r. 1649-1638 BC Taixu , r. 1637-1563 BC Zhongding , r. 1562-1550 BC Wairen , r. 1549-1535 BC Hedan , r. 1534-1526 BC Zuyi , r. 1525-1507 BC Zuxin , r. 1506-1491 BC Wojia , r. 1490-1466 BC Zuding , r. 1465-1434 BC Nangeng , r. 1433-1409 BC Yangjia , r. 1408-1402 BC Pangeng , r. 1401-1374 BC Xiaoxin , r. 1373-1353 BC Xiaoyi , r. 1352-1325 BC Wuding, r. 1324-1266 BC Zugeng , r. 1265-1259 BC Zujia , r. 1258-1226 BC Linxin , r. 1225-1220 BC Gengding , r. 1219-1199 BC Taiding , r. 1194-1192 BC Diyi , r. 1191-1155 BC

Zhou 39. Cheng Wang (Ji Song ), r. 1115-1079 BC 40. Kang Wang (Ji Zhao ), r. 1078-1053 BC 41. Zhao Wang (Ji Xia ), r. 1052-1002 BC 42. Mu Wang (Ji Man ), r. 1001-947 BC 43. Gong Wang (Ji Yihu ), r. 946-935 BC 44. Yi Wang (Ji Jian ), r. 934-910 BC 45. Xiao Wang (Ji Bifang ), r. 909-895 BC 46. Yi Wang (Ji Xie ), r. 894-879 BC 47. Xuan Wang (Ji Jing ), r. 827-782 BC 48. Ping Wang (Ji Yijiu ), r. 770-720 BC 49. Huan Wang (Ji Lin ), r. 719-697 BC 50. Zhuang Wang (Ji Tuo ), r. 696-682 BC 51. Xi Wang (Ji Huqi ), r. 681-677 BC 52. Hui Wang (Ji Lang ), r. 676-652 BC 53. Xiang Wang (Ji Zheng ), r. 651-619 BC 54. Qing Wang (Ji Renmu ), r. 618-613 BC 55. Kuang Wang (Ji Ban ), r. 612-607 BC 56. Ding Wang (Ji Yu ), r. 606-586 BC

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[37]

57. 58. 59. 60. 61. 62. 63. 64. 65. 66. 67. 68.

The worship to the sovereigns of the past

Jian Wang (Ji Yi ), r. 585-572 BC Ling Wang (Ji Xie ), r. 571-545 BC Jing Wang (Ji Gui ), r. 544-520 BC Jing Wang (Ji Gui ), r. 519-476 BC Yuan Wang (Ji Ren ), r. 475-469 BC Zhending Wang (Ji Jie ), r. 468-441 BC Kao Wang (Ji Wei ), r. 440-426 BC Weilie Wang (Ji Wu ), r. 425-402 BC An Wang (Ji Jiao ), r. 401-376 BC Lie Wang (Ji Xi ), r. 375-369 BC Xian Wang (Ji Pian ), r. 368-321 BC Shenjing Wang (Ji Ding ), r. 320-315 BC

Han 69. Hui Di (Liu Ying ), r. 194-188 BC 70. Wen Di (Liu Heng ), r. 179-157 BC 71. Jing Di (Liu Qi ), r. 156-141 BC 72. Wu Di (Liu Che ), r. 140-87 BC 73. Zhao Di (Liu Fuling ), r. 86-74 BC 74. Xuan Di (Liu Xun ), r. 73-49 BC 75. Yuan Di (Liu Shi ), r. 48-33 BC 76. Cheng Di (Liu Ao ), r. 32-13 BC 77. Ai Di (Liu Xin ), r. 6-1 78. Ming Di (Liu Zhuang ), r. 58-75 79. Zhang Di (Liu Da ), r. 76-88 80. He Di (Liu Zhao ), r. 89-105 81. Shang Di (Liu Long ), r. 106-106 82. An Di (Liu You ), r. 107-125 83. Shun Di (Liu Bao ), r. 126-144 84. Chong Di (Liu Bing ), r. 145-145 85. Huan Di (Liu Zhi ), r. 147-167 86. Ling Di (Liu Hong ), r. 168-189 87. Shao Di (Liu Bian ), r. 189-189 88. Xian Di (Liu Xie ), r. 189-189 Tang 89. Gaozu (Li Yuan ), r. 618-626 90. Gaozong (Li Zhi ), r. 650-684 91. Ruizong (Li Dan ), r. 684-684 92. Xuanzong (Li Longji ), r. 713-756 93. Suzong (Li Heng ), r. 756-763

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94. Daizong (Li Yu ), r. 763-779 95. Dezong (Li Shi ), r. 780-805 96. Shunzong (Li Song ), r. 805-805 97. Muzong (Li Heng ), r. 821-824 98. Wenzong (Li Ang ), r. 827-840 99. Wuzong (Li Yan ), r. 841-846 100. Xuanzong (Li Chen ), r. 847-860 101. Yizong (Li Cui ), r. 860-874 102. Xizong (Li Xuan ), r. 874-888 Liao 103. Taizong (Yelü Deguang ), r. 926-947 104. Jingzong (Yelü Xian ), r. 969-982 105. Shengzong (Yelü Longxu ), r. 983-1030 106. Xingzong (Yelü Zongzhen ), r. 1031-1055 107. Daozong (Yelü Hongji ), r. 1055-1100 Song 108. Taizong (Zhao Jiong ), r. 976-997 109. Zhenzong (Zhao Heng ), r. 998-1022 110. Renzong (Zhao Zhen ), r. 1023-1063 111. Yingzong (Zhao Shu ), r. 1064-1067 112. Shenzong (Zhao Xu ), r. 1068-1085 113. Zhezong (Zhao Xu ), r. 1086-1100 114. Gaozong (Zhao Gou ), r. 1127-1162 115. Xiaozong (Zhao Shen ), r. 1163-1189 116. Guangzong (Zhao Dun ), r. 1190-1194 117. Ningzong (Zhao Guo ), r. 1195-1224 118. Lizong (Zhao Yun ), r. 1225-1264 119. Duzong (Zhao Qi ), r. 1265-1274 120. Duanzong (Zhao Shi ), r. 1276-1277 Jin 121. Taizong (Wanyan Sheng ), r. 1123-1137 122. Zhangzong (Wanyan Jing ), r. 1190-1208 123. Xuanzong (Wanyan Xun ), r. 1213-1222 Yuan 124. Taizong (Tolui) r. 1227-1229 125. Dingzong (Ögödei), r. 1229-1241 126. Xianzong (Guyuk) r. 1246-1248

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127. 128. 129. 130. 131. 132.

The worship to the sovereigns of the past

131

Chengzong (Möngka) r. 1251-1259 Wuzong (Haishan ), r. 1308-1311 Renzong (Aiyu Libo Libada ), r. 1312-1 320 Taiding Di (Yesun Tiemuer ), r. 1324-1328 Wenzong (Tutiemuer ) r. 1328-1333 Shun Di (Tuohuan Tiemuer ), r. 1333-1367

Ming 133. Chengzu (Zhu Di ), r. 1403-1424 134. Renzong (Zhu Gaozhi ), r. 1425-1425 135. Xuanzong (Zhu Zhanji ), r. 1426-1435 136. Yingzong (Zhu Qizhen ), r. 1436-1449 and 1457-1464 137. Daizong (Zhu Qiyu ), r. 1450-1457 138. Xianzong (Zhu Jianshen ), r. 1465-1487 139. Xiaozong (Zhu Youtang ), r. 1488-1505 140. Wuzong (Zhu Houzhao ), r. 1506-1521 141. Shizong (Zhu Houcong ), r. 1522-1566 142. Muzong (Zhu Zaihou ), r. 1567-1572 143. Min Di (Zhu Youjian ), r. 1628-1644 Thus the sovereigns’ tablets, summing the newly added one hundred fortythree to the twenty-eight already present, reached the number of one hundred seventy-one. The sovereigns excluded were: Xia 1. Taikang246 , r. 2188-2160 - Excluded because he was prone to luxury and lost his throne, spending the last ten years of his reign in exile. 2. Xiang247 , r. 2146-2119 - Excluded because Hou Yi murdered him. 3. Jie248 , r. 1818-1767 - Excluded for his tyrannical rule and his shocking crimes. Shang 4. Wuyi249 hunting trip.

, r. 1198-1195 - Excluded because he was killed during a

246 CHANG CHI-YUN, Chinese History of Fifty Centuries, vol. I., Institute for Advanced Chinese Studies, Taipei, 1962, pp. 263-266. 247 Ivi, pp. 268-269. 248 Ivi, pp. 275-277. 249 Ivi, p. 337.

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5. Shouxin250 , r. 1154-1123 - Excluded for his shocking acts of tyranny. Zhou 6. Li Wang251 (Ji Hu ), r. 878-828 - Excluded because he was killed by Zuo Ru , in vengeance for having killed his own minister Du Bai . 252 7. You Wang (Ji Gongsheng ), r. 781-771 - Excluded because he was defeated by the northern barbarians and obliged to move the capital to the east. 8. She Wang253 (Ji Yan ), r. 314-256 - Excluded because his long reign marked the end of the Zhou dynasty. In 256 BC he surrendered to the Qin and , the same year, died. His successor, called Dong Zhou Jun , tried without success to revive the dynasty but was never recognized as king. Han 9. Gao Huanghou254 (Lü Zhi ), r. 187-180 BC - Excluded mainly because she was a woman and because she tried to substitute her own Lü family to the imperial line of the house of Liu. 10. Ping Di255 (Liu Gan ), r. 1-5 - Excluded because during the reign of this child emperor the usurpation of Wang Mang took shape. 11. Zhi Di256 (Liu Zuan ), r. 146-146 - Excluded because Liang Ji murdered him a few months after having ascended the throne. 12. Xian Di257 (Liu Xie ), r. 189-220 - Excluded because during his reign there was the collapse of the Later Han power. Tang 13. Zhongzong258 (Li Xian ), r. 684-684 and 705-710 - Excluded because Wu Zetian dethroned him. 14. Wu Hou259 (Wu Zetian), r. 684-706 - Excluded because she was a woman and she was considered an usurper. 250

Ivi, pp. 338-340. Wu Bingquan , Gangjian Yi Zhi Lu , reprint Zhonghua Shuju, Peking, 1988, pp. 69-70. 252 Ivi, p. 75. 253 Ivi, pp. 164-176. 254 TWITCHETT D., LOEWE M. (eds.) The Cambridge History of China, vol. I, The Ch’in and Han Empires, 221 BC - AD 220, Cambridge University Press, Cambridge, 1986, pp. 135-136. 255 Ivi, pp. 228-229.. 256 Ivi, p. 286. 257 Ivi, pp. 341-356. 258 TWITCHETT D., LOEWE M. (eds.) The Cambridge History of China, vol. 3, Part 1, Sui and T’ang China, 589-906, pp. 321-326 and passim. 259 Ivi, pp. 306-320; FORTE A., Political Propaganda and Ideology in China at the end of the Seventh Century, Istituto Universitario Orientale, Napoli, 1976 251

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15. Xianzong260 (Li Chun ), r. 806-820 - Excluded, notwithstanding the successes of his policy, because he was murdered by two eunuchs. 16. Jingzong261 (Li Zhan ), r. 825-827 - Excluded because he was considered incapable to crush the court factions. 17. Zhaozong262 (Li Ye ), r. 889-904 - Excluded because his feeble policy announced the collapse of the Tang dynasty. 18. Aizong263 (Li Ju ), r. 904-907 - Excluded because he was the last emperor of the Tang. Liao ), r. 947-951 - Excluded because he was 19. Shizong264 (Yelü Ruan murdered. 20. Muzong265 (Yelü Jing ), r. 951-969 - Excluded because he was murdered. 21. Tianzuo Di (Yelü Yanzi ), r. 1101-1125 - Excluded because he was the last emperor of the Liao dynasty. Song 22. Huizong266 (Zhao Ji ), r. 1101-1127 - Excluded because he was taken prisoner by the Jurcin and the Song dynasty was compelled to move to the south. 23. Qinzong267 (Zhao Huan ), r. 1126-1127 - Excluded because during his short reign he deed not succeed to revenge the defeat of Huizong. 24. Gongzong268 (Zhao Xian ), r. 1275-1276 - Excluded for having been defeated many times by the Mongols. 25. Wei Wang269 (Zhao Bing ), r. 1278-1279 - Excluded because he was the last emperor of the Song dynasty. Jin (Wanyan Dan ), r. 1138-1149 - Excluded because 26. Xizong270 he was murdered after having committed many crimes. 260 261 262 263 264 265 266 267 268 269 270

Ivi, p. 536. Ivi, p. 643. Ivi, pp. 773-781. Ibidem. EWS, vol. II, p. 185. Ibidem. EWS, vol. II, p. 1; SS, j. 19. Ibidem; SS, j. 23. Ivi, p.2; SS, j. 47. Ivi, p. 2; SS j. 47. Ivi, p. 204; JS, j. 4.

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27. Hailing Yang Wang271 (Wanyan Liang ), r. 1149-1161 - Excluded because he was never recognized as an emperor. 28. Weishao Wang (Wanyan Yongji ), r. 1209-1213 - Excluded because he was never recognized as an emperor. 29. Aizong272 (Wanyan Shouxu ), r. 1224-1234 - Excluded because the Mongols conquered his empire. Yuan 30. Yingzong273 (Shuode Baci he was murdered.

), r. 1321-1323 - Excluded because

Ming 31. Yingzong (Zhu Qizhen ), r. 1436-1449 and 1457-1484 - Excluded because he was taken prisoner by the Mongols (see above). 32. Shenzong (Zhu Yijun ), r. 1573-1620 - Excluded for the above cited discussions on the responsibilities in the collapse of the Ming dynasty. 33. Guangzong (Zhu Changluo ), r. 1620-1620 - Excluded for the same reasons as above. 34. Xizong (Zhu Youjiao ), r. 1621-1627 - Excluded for the same reasons as above. There was also an increase of the officials worshipped. The following were added: High antiquity 1. Cang Jie274 Shang 2. Zhong Hui275 Zhou 3. Bigong Gao276

271

Ibidem, SS, j. 5. Ivi, p. 204; SS, j. 17. 273 Ivi, p. 254; YS, j. 27. 274 Legendary minister of Huang Di. Supposed inventor of the Chinese writing. CY, p. 121d. 275 Prime Minister of the Left (zuo xiang ) of Shang Cheng Tang. CY, p. 99c. 276 The fifteenth son of Wen Wang, he was enfeoffed the dukedom Bi by his brother Wu Wang. During the reign of Kang Wang was in charge of the eastern sacrifices and allegedly wrote a treatise (Bi ming ) on the topic. CY, p. 1147b. 272

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4. Lü Hou277 5. Zhong Shanfu278 6. Yin Jifu279 Han 7. Liu Zhang280 8. Wei Xiang281 9. Bing Ji282 10. Geng Yan283 11. Ma Yuan284 12. Zhao Yun285 Tang 13. Di Renjie286 14. Song Jing287 15. Yao Chong288 16. Li Mi289 17. Lu Zhi290 18. Pei Du291 277 Official of Mu Wang. Author of the Lü Xing , a part of the Classic of Documents (Shujing ). CY, p. 267c. 278 General of Xuan Wang. EWS, vol. I, p. 3. Biography in SJ, j. 4. 279 General and minister of Xuan Wang. RMDCD, p. 48. 280 Liu Zhang (?-177 BC) was a nephew of Liu Bang. After the death of Empress Lü he cooperated with Wendi. EWS, vol. I, p. 39. Biography in SJ, j. 52; QHS, j. 38.. 281 Wei Xiang (?-59 BC) was a renowned interpreter of the Classic of the Mutation (Yijing ). Under Xuandi he was first Minister of Agriculture (dasinong ) ·and afterwards Grand Censor (yushidafu ). EWS, vol. I, p. 58. Biography in QHS, j. 74.. 282 Bing. Ji (?-55 BC) was a general and Prime Minister (chengxiang ) of Xuandi. EWS, vol. I, p. 58. Biography in QHS, j. 74. 283 General of Guangwu. RMDCD, p. 837. 284 General of Guangwu. RMDCD, p. 868. 285 General of the Shu Han dynasty (Three Kingdoms). RMDCD, p. 1412. 286 Governor of many provinces of the Tang. After the death of Wu Zetian helped in the restoration of the Tang dynasty. RMDCD, p. 504. 287 Song Jing (663-737) was Minister of the Personnel (Libu shangshu ) under Xuanzong. EWS, vol. I, p. 397. Biography in JTS, j. 96. 288 Yao Chong (650-721) was Minister of War (Bingbu shangshu ) under Xuanzong. EWS, vol. I, p. 397. Biography in JTS, j. 96. 289 Li Mi (782-789) entered the Hanlin academy under Xuanzong. After a brilliant career under Suzong he reached the position of Prime Minister (zaixiang ) of Dezong. EWS, vol. I, p. 410. Biography in JTS, j. 130. 290 Li Zhi (754-885) was a famous official, whose memorials were appreciated, collected and published. RMDCD, 1125. 291 Pei Du (765-839) was a high official of the Tang government and held various positions. He was also a good friend of the poet Bai Juyi (772-846). EWS, vol. I, p. 427. Biography in JTS, j. 170.

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Song 19. Lü Mengzheng292 20. Li Hang293 21. Kou Zhun294 22. Wang Zeng295 23. Fan Zhongyan296 24. Fu Bi297 25. Han Qi298 26. Wen Yanbo299 27. Sima Guang300 28. Li Gang301 29. Zhao Ding302 30. Wen Tianxiang303 Jin 31. Hulu304 Yuan 32. Boguomi305 292 Lü Mengzheng (944-1011) was Minister of Revenues (Hubu shangshu ) and Minister of the Personnel. EWS, vol. II, pp. 26-27. Biography in SS, j. 265. 293 (947-1004) 294 Kou Zhun (961-1023) was a Song general who fought against the Qidan. CY, p. 458a 295 Wang Zeng (978-1038) was Prime Minister of Renzong, under the regency of empress Liu . EWS, vol. II, p. 61. Biography in SS, j. 310. 296 A Song general who fought in the northwest together with Han Qi. CY, p. 1836c. 297 Fu Bi (1004-1083) was a high official of the Song, opponent of Wang Anshi (10211086). EWS, vol. II, p. 63. Biography in SS, j. 313.. 298 Han Qi (1008-1075) was a Song general who fought in the northwest together with Fan Zhongyan. CY, p. 1836c. 299 Wen Yanbo (1006-1097) was an official who opposed the reforms of Wang Anshi and cooperated with Sima Guang. EWS, vol. II, p. 63. Biography in SS, j. 313. 300 Great historian and politician of the Song, Sima Guang strongly opposed the reforms of Wang Anshi. His major historical work is the Zizhi Tongjian . JI XIAO-BIN, «Sung Biographies Supplementary Biography No. 3: Sima Guang (1019-1086)», in Journal of Sung-Yuan Studies, n. 28, 1998, pp. 201-212 301 Li Gang (1083-1140) fought bravely against the Jurèin and helped Gaozong in restoring the Song dynasty in the south. EWS, vol. II, p. 94. Biography in SS, j. 358. 302 Also Zhao Ding (1085-1147) was a Song general who helped Gaozong in restoring the dynasty in the south. EWS, vol. II, pp. 94-95. Biography in SS, j. 360. 303 Wen Tianxiang (1236-1283) fought bravely against the Mongols. EWS, vol. II, p. 120. Biography in SS, j. 418. 304 It was impossible to identify this official. His name does not appear in the EWS, in the RMDCD and in the JS. 305 Yu Minzhong in a note (RXJW, j. 51, p. 811) states that this name corresponds, in Mongol language, to Baoliye . and that in ancient times it was written Buhuzhu . It was impossible to identify this official. His name does not appear in the EWS, in the RMDCD and in the YS.

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The worship to the sovereigns of the past

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33. Tuoketuo306 Ming 34. Chang Yuchun307 35. Li Wenzhong308 36. Yang Shiqi309 37. Yang Rong310 38. Yu Qian311 39. Li Xian312 40. Liu Daxia313 Thus the officials’ tablets, summing the newly added one forty to the fortyone already present, reached the number of eighty-one.

5.4 The new arrangement of the tablets The great increase of the tablets brought to a spacial reorganization of the temple. The tablets of the sovereigns were grouped for dynasties in different niches (kan ) in the central hall while those of the officials remained in the two side halls. After 1690 in the central hall there were five niches with the tablets of: 1. Fu Xi, Yan Di, Sheng Nong, Huang Di, Xuanyuan; 2. Shaohao, Zhuanxu, Diku, Yao, Shun; 3. Yu of the Xia, Cheng Tang of the Shang, Wu Wang of the Zhou, Gaozu and Guangwu of the Han; 306

It was impossible to identify this official. His name does not appear in the EWS, in the RMDCD and in the YS. 307 Chang Yuchun (1330-1369) was an eminent military leader during the founding of the Ming dynasty. DMB, pp. 115-120; ELS, p. 1026. Biography in MS, j. 105.. 308 Li Wenzhong (1339-1384) was the nephew and adopted son of Zhu Yuanzhang. He held many posts, both military and civil. DMB, pp. 881-887; ELS, p. 1026. Biography in MS, j. 105.. 309 Yang Shiqi (1365-1444) was an outstanding statesman. He was the founder of the Grand secretariat (neige ). DMB, pp. 1535-1538; ELS, p. 1047. Biography in MS, j. 148.. 310 Yang Rong (1371-1440) during his brilliant career helped the Grand Secretariat to emerge as a powerful governmental institution. DMB, pp. 1519-1522; ELS, p. 1047. Biography in MS, j. 148.. 311 Yu Qian (1398-1457) saved Peking in 1449 from the menace of the Oirat Mongols. DMB, pp. 1608-1612; ELS, p. 1062. Biography in MS, j. 170.. 312 Li Xian (1408-1467) was Grand Secretary (daxueshi ) from 1464 to 1467. He helped to restore power to the throne. DMB, pp. 819-822; ELS, p. 1052. Biography in MS, j. 106. 313 Liu Daxia (1437-1516) directed the project of channeling the Yellow River in 1495. DMB, pp. 958-962; ELS, p. 1071. Biography in MS, j. 83.

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4. Taizong of the Tang, Taizu of the Liao, Taizu and Shizong of the Jin; 5. Taizu of the Song, Taizu and Shizu of the Yuan, Taizu of the Ming314. After 1723 the niches were increased to seven and contained the tablets of : 315

1. Fu Xi, Yan Di, Sheng Nong, Huang Di, Xuanyuan; 2. Shaohao, Zhuanxu, Diku, Yao, Shun; 3. The Xia and Shang kings;: 4. The Zhou kings; 5. The Han and Tang emperors 6. The Liao, Song and Jin emperors; 7. The Yuan and Ming emperors. The tablets of the meritorious officials were distributed in the side halls. Forty-one tablets were in the eastern hall and forty in the western hall.

5.5 Further discussions under Qianlong The discussions concerning the spirits to be admitted to the worship continued under the reign of Qianlong316. First of all there was the problem of emperors who had not a posthumous name. The lack of a posthumous name forbade them to have a place in the ancestral temple of their own dynasty. For the same reason it was impossible to admit them in the Lidai Diwang Miao. Such was the case of the second Ming emperor, Jianwen317 (1399-1402) who had been dispossessed of the throne by his brother Yongle. In the first year of his reign (1736) Qianlong ordered to give him the title of Gongmin Hui Huang Di , to make a tablet for his spirit and to put it immediately after that of Ming Taizu318 In 1785 Qianlong promulgated an edict of extreme importance. In this edict he confirmed the rule already enunciated by his predecessor Kangxi in force of which all the emperors were worthy of worship except those who had not been able to govern the country (in this sense he was interpreting wudao), which had

314

Qingshi, op. cit., p. 1063 Yongzheng established this setting, when he enforced the above quoted edict of his father. 316 Temple name Gaozong, personal name Aisin Gioro Hongli . Reigned from 1736 to 1795. 317 Personal name Zhu Yunwen . Reigned from 1399 to 1402.. 318 Libu Zeli , quoted in RXJW, j. 51, pp. 811-812. 315

[47]

The worship to the sovereigns of the past

139

been killed or had lost the power and ruined the dynasty. In order to better adhere to these rules he invited the scholars to reexamine the past because, in his opinion, the discussions had been too hasty. If the Liao and Jin emperors had been admitted, it was not correct to exclude the emperors of the Western and Eastern Jin or those of the «Five dynasties». The most part of the scholars considered legitimate only the dynasties that had ruled over the whole country. Notwithstanding there were many examples of emperors who, though having rule the whole empire, had not been able to maintain it. On the other side, for those who had lost the country, it was necessary to investigate the causes of the decadence319. The direct consequence of this edict was the inclusion in the cult of the emperors of the Wei, Wu , Xi Jin , Dong Jin , Qi , Liang , Hou Liang , Chen , Hou Wei, Bei Qi , Bei Zhou , Sui, Hou Tang , Hou Jin , Hou Zhou and Nan Tang . As we can see, the only dynasty that was excluded was that of the Qin. The condemnation of the Qin regime issued during the Han dynasty with the famous Guo Qin Lun by Jia Yi (201-169 BC) was still considered valid, notwithstanding a timid attempt of emperor Yongzheng to appraise Shi Huang Di as the first unifier of China. In an edict of July 28, 1729320, explaining his ideas on China as a unified state321, he had stressed his role on this unification, continued by the Yuan and the Qing. To make order in this tremendous amount of tablets, Qianlong ordered the scholar Lufei Kui (1731-1790) to compose a book containing the complete list of the sovereigns worshipped in the Lidai Diwang Miao. It was the Lidai Diwang Miao Shinian Huipu , containing a complete list of the posthumous and forbidden names (miao hui ), the personal names (ming ), the descent line (shici ), the period of reign (linian ), the reign names (jiyuan ), the location of the tomb (zang ), and the other forbidden names (suo huizi ) of all the sovereigns worshipped. Thus the number of the tablets had an enormous increase and it was necessary to raise the number of the niches to eleven322.

6. THE

MOST RECENT HISTORY

After the founding of the Republic, in 1912, a process of neglect and 319

Libu Ce , quoted in RXJW, j. 51, pp. 812-817. The day bingwu of the 7th month of the 7th year of Yongzheng. 321 Qing Shilu , Shizong Shilu , reprint Zhonghua Shuju, Peking, 1982, j. 83, pp. 1b-15a.. 322 According to the BJMS, p. 110, this was the number of the niches by the end of the empire. 320

140

[48]

Piero Corradini

vandalism started eroding the city of Peking323. This process involved also the Lidai Diwang Miao. The sacrifices were abolished. The Lidai Diwang Miao was turned to other purposes. It hosted the Chinese Society for the Promotion of Education (Zhonghua Jiaoyu Cujin Hui ) and a normal school for girls (Nüzi Shifan Xuexiao )324.The side rooms were also used as meeting places of the Guomindang. The new regime put in the central niche of the main hall a big portrait of the founder of the Republic, Sun Yat-sen (Sun Yixian or Sun Zhongshan ), while in the three niches of the left there were still the tablets of the emperors and in the three niches of the right those of the meritorious officials325. J. Bredon, who visited the temple in 1930, did not find anymore the tablets of the officials and noted that those of the sovereigns were in great disorder326. Under the portrait of Sun Yat-sen there was, between two republican standards, a copy of his testament and an inscription in big characters that she translates «Under heaven all men are equal»327. The characters of the inscription were surely the slogan tianxia wei gong L. C. Arlington and W. Lewisohn, writing in 1935, say that the temple had been modernized to host the headquarters of the Red Swastika Society (Chinese Red Cross). They attest also that the tablets were still there328. After the foundation of the People’s Republic of China (1949) the temple hosted the 3rd Feminine Middle School, now changed into 159th329. On August 21, 1979, the Revolutionary Committee of Peking declared the temple protected as a cultural relic330. There is an inscription at the entrance of the temple announcing this protection but no admission of the public is allowed. From what can be seen from outside, notwithstanding the protection granted by the Peking authorities, the temple is in complete decay and urgent restorations are needed. PIERO CORRADINI

323 324 325 326 327 328 329 330

G. BARMÉ, «Introduction» added to the reprint of SOP. BJMS, p. 109. Ibidem. BREDON J., Peking, Kelly and Walsh Ltd, Shanghai, 1931, p. 231 Ibidem. SOP., p. 209 BJMS, p. 109. Ibidem.

Gli scritti pro e contro i missionari gesuiti

[1]

141

GLI SCRITTI PRO E CONTRO I MISSIONARI GESUITI NEGLI AMBIENTI COLTI CINESI DELLA TARDA EPOCA MING E DELL’EPOCA QING IN IMPERIAL CHINA 1. LA

RELIGIONE DEL

SIGNORE

DEL

CIELO

COME VIENE RIPORTATA NEL

MINGSHI

La validità dell’operato dei missionari cattolici, sia in campo scientifico sia in campo religioso, era stata riconosciuta ed era stata accettata da alcuni illuminati esponenti dell’intellettualità dell’epoca, come ad esempio Xu Guangqi1 e Li Zhizao2 ; nonostante tutto però, i missionari andarono incontro a incomprensioni e persecuzioni. Allo stato attuale degli studi è diffusa l’opinione che il riconoscimento del loro operato in Cina venisse giudicato positivamente solo da un ristretto gruppo 1 Xu Guangqi nacque a Shanghai il 24 aprile 1562. A 19 anni conseguì il titolo di xiucai . Nel 1596, in qualità di istitutore, conobbe a Shaozhou il Cattaneo, venendo così per la prima volta, in contatto con i missionari europei. Nel 1600 conobbe a Nanchino il Ricci e tre anni dopo, sempre in quella città, venne catechizzato dal Da Rocha, ricevendo il battesimo il 15 gennaio, con il nome di Paolo. Nel 1604 ottenne il grado di jinshi . Stabilitosi nella capitale, iniziò ad apprendere dal Ricci la matematica occidentale e tra il 1606 e il 1607 tradusse in cinese i primi sei libri della geometria di Euclide. Dovendo ritornare a Shanghai, in seguito alla morte del padre, aiutò il Cattaneo nella predicazione del Vangelo in quella città. Ritornò a Pechino nel 1611 quando già il Ricci era morto. Dopo la prima persecuzione anticristiana del 1616, fu nominato, nel 1629, shilang cioè viceministro del Ministero dei Riti libu e contribuì, insieme a Rho, Scherck e von Bell, alla correzione del calendario imperiale. Nominato Shangshu cioè ministro, del libu, nel 1632 ottenne la carica di gelao e l’anno successivo quella di taizi taifu cioè «precettore del principe imperiale». Morì il 10 novembre dello stesso anno. La salma fu trasportata e sepolta nel suo villaggio natale Xujiahui (più conosciuto come Zikawei), nei pressi di Shanghai. Per ulteriori notizie su Xu Guangqi si veda P.M. D’ELIA, Fonti Ricciane (d’ora in poi abbreviato in F.R.), vol. II, N° 680, n. 3. e Eminent Chinese of the Ch’ing period (1644-1912) edited by Arthur W. Hummel. Washington, 1943, Vol. I, pp. 316-319 (d’ora in poi abbreviato in Hummel). 2 Li Zhizao, viceministro al dicastero dei Lavori Pubblici a Nanchino, conobbe il Ricci nel 1600. L’anno successivo fu trasferito a Pechino e qui, dal 1604 al 1610 insieme a Xu Guangqi si interessò molto di geografia e scienze occidentali, scrivendo diverse prefazioni ai lavori cartografici e scientifici del Ricci. Fu battezzato da questi solamente nel 1610 con il nome di Leone. Durante la persecuzione anticristiana del 1616, Li Zhizao si ritirò temporaneamente nella sua città natale, Hangzhou, dove diede rifugio ai missionari gesuiti. Nel 1629, dopo un ulteriore errore nel calcolo di un’eclisse di sole da parte degli astronomi cinesi, gli fu dato l’incarico di revisionare il calendario cinese insieme a Xu Guangqi, Longobardi e Terrenzio. Fu uno dei tre grandi difensori del Cristianesimo in Cina, insieme a Xu Guangqi e Ting Yun. Morì il 4 dicembre 1630. HUMMEL, Vol. I, pp. 452-454.

142

Gaetano Ricciardolo

[2]

di intellettuali, mentre la maggior parte di essi si fosse espressa in senso contrario, avversando fieramente tale operato. Così, ad esempio, il Gernet sostiene che dopo le celebri conversioni operate dal Ricci, e anche da altri missionari agli inizi del XVII secolo, quali, oltre ai già citati Xu Guangqi e Li Zhizao, Yang Tingyun3 , Wang Zheng4 , e Sun Yuanhua5 , in Cina praticamente, fra gli intellettuali, non ci furono più conversioni degne di nota; anzi, si verificò, sempre a detta del Gernet, una reazione ostile all’insegnamento dei missionari nel momento in cui la classe colta venne a conoscenza del vero fine da loro perseguito. «Sta di fatto che dopo il 1620 circa, i gesuiti non operarono più conversioni tra i grandi letterati e gli alti funzionari. Coloro che furono battezzati in seguito non ebbero la rinomanza né l’autorità di Xu Guangqi o di Li Zhizao, né di altri personaggi meno importanti quali Wang Zheng e Sun Yuanhua: nell’insieme le classi colte erano divenute ostili ai missionari e alla loro dottrina e le uniche conversioni celebri tra i manciù furono quelle dei principi della famiglia imperiale6 ».

La tesi del Gernet viene confortata pure dal giudizio espresso nel Mingshi , giudizio senz’altro negativo a proposito dei missionari gesuiti e consacrato fra l’altro dall’ufficialità dell’opera in questione. La storia ufficiale della dinastia Ming (Mingshi) fu compilata tra il 1645 e il 1739 dall’Ufficio Storiografico (Guoshiyuan ). Per compiere l’impresa, l’Ufficio Storiografico fu anche rafforzato con l’immissione di parecchi letterati 3 Yang Tingyun nacque nel 1557 nel villaggio di Renhe nei pressi di Hangzhou . Nel corso della sua vita ricoprì diversi incarichi civili e dal 1602 venne a contatto con il Ricci a Pechino. Nel 1611, ad Hangzhou, ricevette il battesimo dalle mani del Cattaneo, con il nome di Michele. Morì nel dicembre del 1627. Scrisse diverse opere ed alcune prefazioni ai lavori scientifici del Ricci; collaborò con l’Aleni alla compilazione della «Geografia dei Paesi non tributari». D’ELIA, F.R., vol. III, p. 13, n. 3. HUMMEL, Vol. II, pp. 894-895. 4 Wang Zheng nacque il 12 maggio 1571 a Jingyang nello Shaanxi . Si convertì al cristianesimo e fu battezzato intorno al 1602 con il nome di Filippo. Si laureò in tarda età (51 anni) e collaborò con i missionari, in particolare con il Trigault, in seguito alla scoperta della Stele Nestoriana nel 1625. Nel 1633 contribuì alla difesa della Cina contro gli attacchi mancesi, insieme al generale Sun Yuanhua. Nel 1643 rifiutò di collaborare con il ribelle Li Zicheng che aveva assediato la città di Xi’an . Dopo l’assedio di Pechino, nel 1644, da parte di Li, Yang si lasciò morire di fame pur di restare fedele all’ultimo imperatore Ming. D’ELIA, F.R. vol. II, p.593, n.1. HUMMEL, Vol. II pp. 807809. 5 Sun Yuanhua era nato nel 1581. Discepolo di Xu Guangqi, fu battezzato nel 1621. Intraprese la carriera militare diventando dutang nella regione del Liaodong , regione prima minacciata poi invasa, tra il 1629-30 dai mancesi. Fu testimone dell’ammutinamento dei soldati portoghesi, al comando di Gonçalo Teixeira, giunti a Dengzhou su consiglio di Xu Guangqi e Li Zhizao per la difesa della città, prendendola d’assalto il 23 febbraio 1632. Sun fu invitato a ribellarsi contro la dinastia regnante, ormai moribonda; dopo essersi rifiutato di tradire l’imperatore, Sun venne richiamato a Corte e invece di essere premiato per la sua fedeltà, nel 1632, venne condannato a morte a mezzo decapitazione. D’ELIA, F.R. p. 566, n.3. HUMMEL, Vol. II, pp. 686-688. 6 JACQUES GERNET, Cina e Cristianesimo, Marietti, 1984, p. 50.

Gli scritti pro e contro i missionari gesuiti

[3]

143

provenienti dalla speciale sessione di esami di stato7 (Boxue hongci ) tenutasi tra il 1678-‘79 al fine di reclutare, al servizio della nuova dinastia, letterati riluttanti a servirla che si erano rifiutati di partecipare alle normali sessioni in segno di lealtà verso la vecchia dinastia spodestata. Furono esaminati centocinquantadue candidati e ne furono scelti cinquanta. Anche se come autore viene di solito indicato Zhang Tingyu8 che la presentò al trono, tuttavia si trattò di un’opera collettiva e i diversi capitoli furono scritti da mani diverse. Il capitolo riguardante l’Italia, che contiene il primo resoconto ed apprezzamento ufficiale sul cattolicesimo, viene attribuito dal D’Elia a Wang Hongxu9 e fu inserito nel Mingshi intorno al 1724, un anno dopo la sua morte. Il testo in questione è in linea con il clima politico e religioso che si respirava a Pechino subito dopo la morte dell’imperatore Kangxi (r.1662 – 1722) e l’ascesa al trono del figlio Yongzheng (r.1723 – 1735), caratterizzato dalla pratica dei memoriali segreti inviati al trono, dal controllo diretto sulla nobiltà, e dalla eliminazione delle fazioni politiche10 . Nonostante tutto si ebbe però una certa tolleranza per ogni forma di religione, Islamismo compreso, ad eccezione del Cristianesimo, il quale fu decisamente osteggiato. Diversi sono i passi che hanno il chiaro scopo di denigrare tanto la figura quanto l’operato dei missionari, e a tal punto che a detta dell’autore, il Cristianesimo avrebbe addirittura «infettato» la Cina11 :

12

7

Cf. WILHELM H., «The Po-hsüeh Hung-ju Examination of 1679», in JOURNAL OF THE AMERICAN ORIENTAL SOCIETY, vol. 71, 1951, pp. 60-66 e CORRADINI P., «La prima fase della compilazione del Ming-shih», in ANNALI DELL’ISTITUTO UNIVERSITARIO ORIENTALE, Nuova Serie XVIII, fasc. 4, 1968, pp. 435-440. 8 Zhang Tingyu nacque nel 1672 a Pechino. Nel 1700 conseguì il grado di jinshi e in seguito nominato presidente del Ministero dei Riti. Nel 1723 fu nominato direttore generale per la compilazione della storia dinastica dei Ming. Dopo essere arrivato ai vertici più alti della burocrazia cinese, cadde in disgrazia perdendo il favore dell’imperatore. Morì il 30 aprile 1755. Vedi HUMMEL, pp. 54 e sg. 9 Wang Honxu nacque nel 1645 e all’età di vent’otto anni conseguì il titolo di jinshi divenendo pure membro dell’Accademia Hanlin. Nel 1682 divenne uno degli editori della storia ufficiale dei Ming. Dopo aver ricoperto diverse cariche, quali ministro del Lavoro e del Tesoro, nel 1714 Wang sottopose al trono una serie di annotazioni biografiche, in collaborazione con altri studiosi, che sarebbero servite per la compilazione del Mingshi, per un totale di 208 juan. Nel 1723 Wang presentò al trono un abbozzo della storia dinastica intitolata Mingshi gao . Sebbene questo lavoro fosse il frutto di un’opera collettiva, grazie alla collaborazione di altri studiosi dell’epoca, Wang se ne appropriò e la fece fassare come sua. Vedi HUMMEL, p. 826. 10 Sulla politica di Yongzheng, cf. Pei Huang, Autocracy at work - A study of the Yung-cheng period, 1723-1735, Indiana University Press, Bloomington, 1974. 11 Per alcune parti della traduzione del “Trattato sull’Italia” del Mingshi, (d’ora in avanti abbreviato MS) si segue qui la traduzione del D’Elia, in D’ELIA P., Antologia cinese, Sansoni, Firenze, 1944, pp. 193-202. Le traslitterazioni del D’Elia sono state modificate nella traslitterazione pinyin. Le citazioni del testo del Mingshi, sono state tratte dall’edizione della Zhonghua Shuju, Beijing, 1978, juan 326. 12 MS, p. 8460.

144

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Gaetano Ricciardolo

Dopo 1581 anni, nell’anno IX di Wanli, Matteo, avendo il primo fatto 90.000 li per mare, arrivò nella baia di Xiangshan, presso Canton. Allora la sua religione infettò la Terra di Mezzo. [Il 29° anno arrivò nella capitale e] l’eunuco Ma Tang presentò i doni del paese di lui13 .

Il Ricci viene considerato, in un memoriale riportato nel Mingshi, alla stregua di un eremita il cui unico scopo e desiderio era quello di ritirarsi in qualche luogo solitario, e lì vivere come un asceta:

14

Dopo di aver noi esaminato la sincerità dei sentimenti e delle parole del Ricci abbiamo scoperto che davvero egli non desidera né alte cariche, né elargizioni; egli ha solo il desiderio di appollaiarsi sopra qualche montagna e di vivere nella solitudine. Somiglia a un uccello o a un cervo, che, quanto più è restato imprigionato, tanto più pensa alle grandi foreste e ai pascoli. E tutto ciò è perfettamente conforme alla psicologia umana. Preghiamo dunque Vostra Maestà che presto gli permetta di recarsi nel Jiangxi, dove possa vivere a suo piacere fino alla vecchiaia, sopra qualche monte solitario o in qualche profonda valle»15,

anche se non manca qualche elogio sporadico del tipo: 16

.

Dai Ministri in giù tutti onorarono questo uomo e tutti intrattennero relazioni con lui. Matteo dunque si trattenne in pace in Pechino e non ne ripartì»17.

Per quanto riguarda gli altri missionari, se il giudizio sul Vagnoni risulta essere alquanto pesante: 18

,

Alfonso Vagnoni19 , stabilitosi a Nanchino, si occupò in modo speciale di pervertire la gente con la predicazione della Religione del Signore del Cielo. 13 14 15 16 17 18 19

D’ELIA P., op. cit., pp. 194-195. MS, p. 8460. D’ELIA P., op. cit., pp. 196-197. MS, p. 8460. D’ELIA P., op. cit., p. 197. MS, p. 8460. Alfonso Vagnoni (1568-1640), in cinese Wang Fengsu.

Gli scritti pro e contro i missionari gesuiti

[5]

145

Tanto i grandi funzionari quanto il popolino delle strade furono da lui ingannati con grande dispiacere del Sottosegretario di Stato del Ministero dei Riti, Xu Ruke20 ,

per tutti gli altri pesava l’accusa di essere, tout court, delle spie al soldo dei Portoghesi:

Nel XLIV anno di Wanli il Sottosegretario di Stato Shen Que e il Censore Yan Wenhui fecero inviare un memoriale al trono per proscrivere questa cattiva dottrina che perverte la gente, e per domandare che questi stranieri fossero cacciati immediatamente, insinuando il dubbio che essi potessero essere spie dei Portoghesi. Anche il Censore dell’Ufficio dei Riti Yu Maozi, in un memoriale al trono disse: “Dalla venuta in oriente di Matteo Ricci e dalla rinascita del Cattolicesimo in Cina, Alfonso Vagnoni e Emanuele Diaz nella capitale del sud, hanno pervertito non meno di diecimila persone...»22 .

L’unica nota di elogio la si riscontra nel momento in cui l’autore è costretto a riportare gli errori commessi dagli astronomi cinesi per l’emanazione del calendario imperiale, errori corretti dai missionari Giacomo Rho, Johann Schall von Bell e Johann Schreck detto Terrentius: 23

Gli uomini24 di questo regno venuti in Oriente sono in generale intelligenti e penetranti; essi vi vennero unicamente per propagarvi la religione e non per cercarvi salari o vantaggi. I libri da loro editi contengono in maggioranza cose che i Cinesi non sapevano... Fra i più celebri venuti allora nella Terra di Mezzo vi furono inoltre Nicolò Longobardo25 , Francesco Sambiasi26 , Giulio Aleni27 e Giovanni Terrenzio28. 20

D’ELIA P., op. cit., p. 198. MS, p. 8460. 22 D’ELIA P., op. cit., pp. 198-199. 23 MS, p. 8460. 24 D’ELIA P., op. cit., pp. 201-202. 25 Niccolò Longobardo (1565-1655), in cinese Long Huamin. Fu il successore di Ricci a capo della missione di Pechino. Su di lui cf. CORRADINI P., «La figura e l’opera di Nicolò Longobardo», in LUINI A. (a cura di), Scienziati siciliani gesuiti in Cina nel secolo XVII, Istituto Italo-cinese, Milano, 1985, pp. 73-82. 26 Francesco Sambiasi (1582-1649), in cinese Bi Fangji. 27 Giulio Aleni (1582-1649), in cinese Ai Rulue. Su di lui cf. da ultimo MENEGON E., Un solo cielo. Giulio Aleni S. J. (1582-1649). Geografia, arte, scienza, religione dall’Europa alla Cina, Grafo, Brescia, 1994. 28 Johann Schreck, detto Terrentius (1576-1630), in cinese Deng Yuhan. Sulla sua figura di 21

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2. LA

Gaetano Ricciardolo RELIGIONE DEL

SIGNORE

DEL

CIELO

COME VIENE RIPORTATA NEL

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MINGSHU

Tale giudizio, decisamente negativo nella sua globalità, non sembra, però, condiviso da altre opere storiografiche, ancorché non ufficiali, finora sfuggite all’attenzione degli studiosi. In esse il giudizio sui missionari cattolici appare diverso se non positivo. È il caso del Mingshu , un’opera in 171 juan sulla storia della dinastia Ming scritta dal letterato Fu Weilin29 , e modellata sulle storie ufficiali. Nel capitolo che tratta dell’arrivo degli occidentali in Cina, intitolato Ouluoba (Europa) Fu Weilin premette che l’Europa si trova nell’estremo occidente rispetto alla Cina e che nell’antichità non ebbe rapporti con essa. Questi rapporti ebbero inizio nell’èra Jiajing (r.1522-1566) dei Ming, quando cominciarono e si svilupparono le relazioni commerciali a Guangzhou e a Macao. Passa poi a dare una sommaria descrizione dell’Europa, specificando che dal Mare Mediterraneo ( Zhonghai) andando a nord fino all’Oceano ( Shuihai) intercorrono 11.190 li, mentre dalle Isole Fortunate (Canarie, Fudao ) nell’Atlantico (Mare Occidentale, Xihai) fino al fiume Abe (Ob) ne corrono 23.000. In Europa, secondo Fu Weilin, ci sono 71 stati, di cui 11 grandi. Nel Medierraneo cita l’esistenza dell’isola di Candia (Gandiya ) e sull’Atlantico segnala l’Irlanda (Yierlanda ) e l’Inghilterra (Anglia, Yin’elia ). Passa poi a parlare dell’arrivo di Matteo Ricci, che definisce «letterato del suo paese» (guoru ) usando per lui lo stesso termine ru usato per i letterati confuciani.

All’inizio ci fu il guoru Li Madou che presentò in dono prodotti dei suoi luoghi, un’immagine del Signore del Cielo, uno strumento musicale occidentale e un orologio che «suonava da sé». Nell’era Wanli, entrò nella capitale per vedere la corte. Shenzong apprezzò e accettò gli oggetti provenienti dalla terra di lui e con un editto alla Corte dei Sacrifici gli fece dare giornalmente una razione di grano, per un determinato periodo di tempo, equiparandolo in tutto ai membri della gentry. Matteo era intelligente e da diversi anni conosceva i classici cinesi. Morì di malattia e fu donata una sepoltura in

scienziato cf. IANNACCONE I., Johann Schreck Terrentius - Le scienze rinascimentali e lo spirito dell’Accademia dei Lincei nella Cina dei Ming, Istituto Universitario Orientale, Napoli, 1998. 29 Fu Weilin, funzionario e studioso, divenne jinshi nel 1646. Successivamente gli fu dato l’incarico di compilare la storia dei Ming. Nel 1657 divenne vice presidente anziano del Censorato. Il suo nome è legato alla compilazione del Mingshu per gli anni 1328-1644, (171 juan). L’opera fu pubblicata postuma, nel 1679.

Gli scritti pro e contro i missionari gesuiti

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un fossato a due li fuori Fu Chengmen, per il sepolcro di Li Xitai. Successivamente lo seguirono e arrivarono Long Huaming30 e altri31.

Prosegue poi parlando dell’iniziativa di Xu Guangqi di affidare la revisione del calendario a Johann Adam Schall von Bell, Terrenzius, Giacomo Rho32 e dei successi da loro ottenuti. Come si vede, il giudizio su Matteo Ricci, espresso dall’autore del Mingshu, è tutt’altro che negativo. Anche se Fu Weilin non prende in considerazione i suoi lavori scientifici ma solo quelli dei suoi successori, egli non avrebbe affatto «infettato» la Cina, ma sarebbe stato onorato con uno stipendio ed un luogo di sepoltura. Addirittura lusinghiero è poi il giudizio formulato nei confronti degli altri gesuiti che si successero in Cina dopo il Ricci, i quali, oltre a riformare definitivamente il calendario cinese, contribuirono in modo determinante al consolidamento della nuova dinastia, grazie alla costruzione di cannoni e bombarde sul modello occidentale. Quindi si può affermare che già intorno al 166533 un eminente studioso giudicava positivamente l’operato del Ricci e degli altri missionari, astenendosi da ogni giudizio sulla loro religione. I giudizi negativi sarebbero venuti dopo.

3. L’OPINIONE

DI

ZHAO YI

Ma non solo. Dopo il Mingshu, un’altra opera estremamente interessante è quella dello storico e poeta Zhao Yi34 il quale, nel 1796, portò a termine un lavoro cririco, in 36 juan, sulle ventidue storie dinastiche cinesi, dal titolo Nianer shi zhaji , pubblicato per la prima volta nel 179935. 30

Niccolò Longobardo. Fu Weilin, Mingshu, reprint Huazheng Shuju, Taipei,1974, juan 166, pp. 7559 e sgg. 32 Vedi nota 54. 33 Fu Weilin morì nel 1667 e la sua opera, il Mingshu fu pubblicata postuma, nel 1679, ad opera di suo figlio. HUMMEL, Vol. I, p. 262-263. 34 Zhao Yi fu uno degli storici più significativi della sua epoca. Nacque a Yanghu nella provincia del Jiangsu , e dopo la morte del padre, si trasferì a Pechino dove fece la conoscenza di molti funzionari e in particolare di Liu Tongxun , Ministro dei Lavori Pubblici che gli chiese di assisterlo nella compilazione del Gongshi , una storia sui palazzi imperiali. Successivamente, nel 1761, ottenne il grado di jinshi. Dopo la malattia e la morte di sua madre, trascorse il periodo di lutto settennale prima di ritornare a ricoprire i suoi incarichi. Partì per Pechino nel 1780 riprendendo la sua carriera di ufficiale, ma fu colpito da una malattia che lo lasciò parzialmente paralizzato e fu costretto a ritornare a casa. Rimessosi, fece parte dello staff del quartier generale militare impegnato a sopprimere una ribellione a Taiwan. Il suo nome comunque è legato al Nianer shi zhaji, uno studio sulla storia cinese, completato nel 1796 e pubblicato tre anni più tardi, in trentasei juan. WILLIAM H. NIENHAUSER Jr., The Indiana Companion to traditional Chinese Literature. Indiana University press, 1986, pp. 227-229. 35 Successivamente, nel 1877, il Nianer shi zhaji fu inserito in una raccolta completa di tutte le opere dell’autore, dal titolo Oubei quanji contenente, fra l’altro, delle poesie (53 juan), una dissertazione critica sull’arte poetica (10 juan) congiuntamente ad una biografia cronologica sul poeta 31

148

Gaetano Ricciardolo

[8]

Una sezione del Nianer shi zhaji36 è intitolata Tianzhu jiao ed oltre ad essere dedicata alla religione del Signore del Cielo e ai missionari cattolici, contiene anche interessanti annotazioni sulle altre religioni e sulla loro diffusione nel mondo, per terminare, poi, con delle espressioni di apprezzamento e confronto. Sebbene risulti, almeno nella prima parte, dipendente sostanzialmente dal Mingshi, questo brano, composto di novecento quarantasette caratteri, si presta ad una particolare attenzione critica in quanto viene epurato di tutte quelle parti nelle quali il Mingshi attacca, sia i missionari cattolici sia il Cristianesimo. Questa può essere una riprova che non tutti i grandi letterati confuciani, una volta capito lo scopo della predicazione del Ricci e degli altri missionari dopo di lui, ignorarono o osteggiarono il Cristianesimo. Pur basandosi sostanzialmente nella prima parte del suo scritto sul testo del Mingshi, Zhao Yi lo epura di tutte quelle sezioni che presentano, sia il Cattolicesimo sia i missionari, in modo negativo, a iniziare dal fatto che il Cattolicesimo non «infettò» la Cina, come sostenuto dal Mingshi, ma «attraversò», xing , la Cina, usando questo carattere con il significato di «espandersi, diffondersi»:

Dopo 1581 anni, nel nono anno dell’era Wanli, Li Madou per primo percorse 90.000 li di mare arrivando nella baia di Xiangshan a Guangzhou (Canton), diffondendo gradualmente (nel paese) quella religione37 .

Viene pure modificato il passo relativo all’attività missionaria di Alfonso Vagnoni, il quale non «pervertì il popolo a Nanchino», come sostenuto nel Mingshi, ma fu «seguito dal popolo»:

Ci furono Wang Fengsu32 e Yang Mazhu33 che abitarono a Nanchino e introdussero la loro religione. Molti funzionari e molti del popolo li seguirono40.

di epoca Song , Lu You (1125 – 1210), e un elenco delle sette campagne militari sotto la dinastia Qing , in particolare contro Burma e Formosa. Vedi Hummel, Vol. I, p. 75 e sg. 36 Nianer shi zhaji, ed. Zhongguo Shudian, Beijing, 1987, juan 24, pp.499-500. 37 Nianer shi zhaji, op. cit. p. 499. 38 Alfonso Vagnoni. 39 Yang Mazhu è un evidente errore per Yang Manuo, nome cinese di Emanuele Diaz (junior) (1574-1659). 40 Nianer shi zhaji, op. cit., p. 499.

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Gli scritti pro e contro i missionari gesuiti

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Per quanto riguarda le altre notizie a carattere divulgativo, Zhao Yi si attiene essenzialmente al Mingshi, come ad esempio la descrizione dell’Italia, dei cinque continenti e della religione del Signore del Cielo:

L’Italia è una nazione che si trova nel “Grande Oceano Occidentale”. Nell’era Wanli, Li Madou, uomo di quella nazione, arrivò nella capitale. Fece una carta completa di tutte le nazioni. Diceva che nel mondo ci sono cinque grandi continenti. Il primo si chiama Asia, con più di cento nazioni e la Cina è una di esse. Il secondo è l’Europa con più di settanta nazioni e l’Italia è una di quelle. Il terzo è la Libia con cento e più nazioni. Il quarto è l’America. Il quinto è Magellanica41. E al di fuori di questi grandi territori non ce ne sono altri. In generale, le nazioni dell’Europa credono nella religione del Signore del Cielo. Il Signore del Cielo è Gesù, nato in Giudea, cioè nell’antico Daqin. Questo paese si trova nel continente asiatico. La sua religione si diffuse in Occidente, in Europa. Egli nacque nell’anno gengshen, il secondo dell’era yuanshou dell’imperatore Aidi degli Han42.

Del tutto ignorata è la polemica intorno ai doni offerti dal Ricci all’imperatore e la storia delle ossa dei genii, così come viene presentata in un memoriale del Ministero dei Riti riportato nel Mingshi:

Inoltre poiché egli viene a presentare il suo tributo dopo venti anni43 di suo soggiorno in Cina, il suo caso non rientra nel caso contemplato dai testi cinesi che prescrivono di trattare bene chi per amore della giustizia viene da paesi lontani apposta 41 La “Magellanica” corrispondeva all’attuale continente oceanico, ovvero tutte quelle terre a Sud dello Stretto di Magellano. Questo continente probabilmente conosciuto dai navigatori cinesi e malesi, in epoca medioevale, fu visitato dagli europei nel XVI secolo. Dopo il 1521, i portoghesi esplorarono la costa settentrionale della Nuova Guinea e forse anche le coste australiane del Nord-Ovest. Nel 1606 gli olandesi esplorarono la costa occidentale dell’Australia, e nel 1642 fu scoperta la Tasmania, la Nuova Zelanda, le Tonga e le Figi. 42 Nianer shi zhaji, op. cit., p. 500. 43 Il Ricci presentò i doni a corte il 24 gennaio 1601. Siccome entrò in Cina il 7 agosto 1582, i doni furono presentati dopo diciannove anni.

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Gaetano Ricciardolo

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per offrire doni rari. Di più il tributo che egli presenta consiste in cose insignificanti, cioè in un quadro del Signore del Cielo e un altro della Madre del Signore del Cielo. E poi tra i doni vi sono pure le ossa dei geni; ma giacché sono geni, con potere di volare da sé, come mai avrebbero delle ossa44 ?

Questa faccenda delle ossa dei geni, si riferisce all’episodio occorso al Ricci nel periodo luglio 1600 – gennaio 1601 quando, durante il suo secondo viaggio verso Pechino, fu bloccato a Linqing dall’eunuco Ma Tang, il quale pretendeva di consegnare lui personalmente i doni all’imperatore Wanli (r. 1573-1620). Il De Ursis riferisce che Ma Tang, quando vide che fra gli oggetti al seguito del Ricci c’era pure un crocifisso, accusò costui di stregoneria e di voler complottare contro l’imperatore: Il Padre gli fece vedere tutta la mercanzia sistemata in un patio, dove a suo piacimento osservò ad una ad una ogni cosa, prendendo e lasciando quello che voleva. Ciò procurò ai Padri molta fatica e fastidi, perché oltre ad essere trattati in quel modo, molto scortesemente, avevano rubato loro molte cose oltre a quelle che l’eunuco Matam [Ma Tang] prendeva pubblicamente; ma Nostro Signore fu servito, dal subire maggior fastidi a favore di maggior meriti, in quanto fu trovato un crocifisso, il quale appena lo vide [Ma Tang], in quel modo sulla croce, iniziò a urlare pieno di ira contro i Padri, dicendo che erano uomini malvagi, omicida e stregoni e quello senza dubbio era un feticcio che avevano fatto per uccidere il re della Cina, per cui era opportuno castigarli come si meritavano45.

Il Ministero dei Riti, che aveva inviato il memoriale all’imperatore, si rifaceva al caso di Han Yu (768-824) della dinastia Tang , il quale sosteneva che non era conveniente che un detrito infausto e sporco entrasse nel recinto del palazzo, per cui sarebbe stato opportuno non far entrare il «feticcio» portato dal Ricci46. Zhao Yi, invece, epura il testo del Mingshi di tutti questi andirivieni di 44

MS, p. 8459. Sabatino De Ursis S.I. Relazione della morte del P. Matteo Ricci. Uno dei primi Padri della Compagnia di Gesù che entrarono nel regno della Cina con alcune cose riguardanti la sua vita. Prefazione, traduzione dal portoghese, commento e note di Gaetano Ricciardolo. Testo portoghese a fronte. Roma 2000, p. 125. 46 Han Yu, famoso letterato di epoca Tang. Va ricordato, oltre che per le sue opere filosofiche e politiche, soprattutto per un memoriale inviato al trono nell’819 contro una reliquia del Budda da poco arrivata in Cina, pronunciandosi a favore della sua distruzione. «In questo memoriale, con razionale lucidità, dimostrava come la reliquia non fosse altro che un osso e che la venerazione che le veniva tributata non poteva portare che alla corruzione dei costumi. Così, grazie allo stile rinnovato, Han Yu poté affermarsi come polemista contro il buddismo e il taoismo religioso, anch’esso vigorosamente combattuto dai confuciani». P. CORRADINI, Cina, popoli e società in cinque millenni di storia. Giunti, 1996, p. 186. Si veda anche A. Cheng, Storia del pensiero cinese. Dall’introduzione del buddhismo alla formazione del pensiero moderno. Volume secondo. Piccola Biblioteca Einaudi, 2000, pp. 438-40. 45

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Gli scritti pro e contro i missionari gesuiti

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memoriali inviati dai vari funzionari di corte all’imperatore, e rimasti fra l’altro privi di risposta, il cui unico scopo era quello di cavillare su pedanterie al limite del parossismo, ma in linea con la più tradizionale etichetta confuciana, e va direttamente al nocciolo della questione:

L’imperatore si compiacque che egli fosse venuto da così lontano (e) gli concesse un alloggio e da mangiare. Poiché dai Nove Ministri in giù tutti lo apprezzavano ed intrattenevano relazioni con lui, Li41 Madou visse pacificamente e non se ne andò più. Morì nel 38° anno. Quell’anno, nel calcolare un’eclissi di sole, i funzionari del calendario commisero molti errori. Allora il Capo dei Cinque Funzionari Zhou Ziyu riferì: “Gli uomini del Da Xiyang, Pang Diwo48 e Xiong Sanba49 , conoscono benissimo le leggi del calendario. Nei loro libri ci sono cose sconosciute finora in Cina. Bisognerebbe dare ordine di adottarlo e poi ordinare a Pang Diwo di metterlo alla prova.” Dopo la venuta di Li Madou, i suoi compagni furono sempre più numerosi50.

L’unico memoriale riportato da Zhao Yi è quello presentato da Diego de Pantoja all’imperatore, in risposta all’atto di accusa del Sottosegretario del Ministero dei Riti Xu Ruke, che voleva bandirli dal Regno:

Il Sottosegretario dei Riti Xu Ruke li odiava e con un memoriale chiese di bandirli. Il 46° anno Pang Diwo inviò un memoriale dicendo: “Io e Li Madou abbiamo percorso 90.000 li per mare e siamo saliti in questo paese per contemplarne i raggi splendenti. Io (umile servo) ho bruciato incenso e ho regolato la condotta nel seguire la retta via onorando e venerando il Signore del Cielo. Come possiamo avere nefandi comportamenti e chiedere con suppliche, generose elargizioni se siamo certi di seguire una cattiva professione”? L’imperatore non rispose ed essi continuarono a vivere in Cina come prima51.

47 Qui Zhao Yi usa un altro carattere, sempre pronunciato li ed usato come cognome, per indicare Matteo Ricci. La confusione è frequente. 48 Pang Diwo, nome cinese di Diego de Pantoja (1571-1618). 49 Xiong Sanba, nome cinese di Sabatino de Ursis (1575-1620). 50 Nianer shi zhaji, op. cit., p. 499. 51 Nianer shi zhaji, op. cit., p. 499.

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Qui Zhao Yi offre una interpretazione del tutto personale, in quanto il Mingshi riferisce il fatto che, poiché questo memoriale era rimasto senza risposta, i missionari furono costretti a partire da Pechino con molta tristezza, anche se il Vagnoni era ritornato successivamente di nascosto a Nanchino, sotto mentite spoglie, per continuare a diffondere la propria religione52:

Questo memoriale restò senza risposta. Così essi se ne partirono tristi. Ma Wang Fengsu cambiando nome e cognome rientrò in Nanchino e diffuse la religione come prima, senza che nessun letterato della corte arrivasse a scoprirlo53.

Del tutto in linea con il pensiero del Mingshi è invece il passo in cui si elogiano e si apprezzano quelle conoscenze astronomiche dei gesuiti, utili alla riforma del calendario cinese:

, Al tempo di Chongzhen i metodi del calendario erano sempre più sbagliati. Il Ministro dei Riti Xu Guangqi invitò i seguaci della religione, Luo Yaming54 e Tang Ruowang55 ad effettuare una comparazione con i nuovi metodi dei loro paesi. Il libro fu scritto Il calendario divenne il primo di Chongzhen perché assunse come base il primo anno xuchen (di Chongzhen). Questo metodo prese il calendario nel suo insieme e lo trasformò in modo molto accurato. Questi uomini venuti in Oriente erano tutti letterati intelligenti e penetranti. Il loro desiderio era che fosse permesso di diffondere e praticare la religione senza cercare vantaggi. Nei loro libri c’erano molte cose ignote ai Cinesi. Perciò tutti stimarono subito quei buoni stranieri. E i loro 52 Inizialmente, il Vagnoni aveva preso il nome cinese di Wang Fengsu, come riportato qualche nota più sopra. Il 30 aprile 1617, durante la prima persecuzione anticristiana, venne esiliato a Canton e poi a Macao. Rientrò di nuovo in Cina nel marzo del 1624, ma con il nome cinese di Gao Yizhi . 53 MS, p. 8461. 54 Luo Yaming, nome cinese di Giacomo Rho (1592-1638). Si deve notare che Zhao Yi adotta questi caratteri, mentre il Pfister (LOUIS PFISTER, Notices biographique et bibliographiques sur les Jésuites de l’ancienne Mission de Chine, Variétés Sinologiques N° 59 et 60, Shanghai, 2 volumes, 1934) adopera i caratteri Luo Yage . 55 Tang Ruowang, nome cinese di Johann Adam Schall von Bell (1592-1666). 56 Francesco Sambiasi. 57 Giulio Aleni. 58 Johann Schreck latinizzato in Terrenzio.

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Gli scritti pro e contro i missionari gesuiti

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compagni furono Long Huaming, Bi Fangji56, Ai Rulue57, Deng Yuhan58, tutti uomini europei nonché uomini di ragione. Tutti comprendevano e discutevano di quanto si è detto59.

4. LE

RELIGIONI MONDIALI SECONDO

ZHAO YI

Qui finisce, di fatto, l’apologia di Zhao Yi nei confronti del Ricci e degli altri missionari, e inizia una dissertazione molto competente, considerati il tempo e il luogo, sulle diverse fedi presenti nei vari continenti, dimostrando una visione vasta e sostanzialmente completa della situazione religiosa mondiale:

In tutto il mondo vi sono quattro grandi religioni: Confucianesimo, Buddismo, Islamismo e Cristianesimo. Tutte sono nate in Asia e la religione buddista è la più estesa. All’interno del continente asiatico come nel Tibet Anteriore e Posteriore, nel paese degli Zungari e dei Qalqa, le tribù mongole credono nei sutra buddisti. Il buddismo è anche molto diffuso in Cina e professato al di fuori dell’Asia nel Xiyang, come a Cola (Calicut), nello Srilanka, nel Bengala e a Jaunpur; nel Nanyang, a Bagdad, nel Champa, a Panrang, nel Siam e nella Cambogia; nel Dongyang, in Giappone e nelle Ryukyu. Tutte queste nazioni professano la religione buddista. (Vedi il trattato sui paesi stranieri del Mingshi). Inoltre Zengjiaci60 e Mabar hanno la reliquia buddista della ciotola per l’elemosina. (Vedi la biografia di Yihei Mishi61 nello Yuanshi). Gli altri numerosi paesi stranieri 59

Nianer shi zhaji, op. cit., p. 499. Non sono riuscito ad identificare Zengjiaci. 61 Biografia in Yuan shi, j. 131; v. anche Huang Huijian (ed.), Ershiwu shi dacidian, Zhongzhou chubanshe, Zhengzhou, 1997, vol. II, p. 67. 60

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d’oltremare professano tutti la religione del Signore del Cielo. La religione musulmana all’interno del continente asiatico è professata a Turfan, Yarkand, Kashgar, Khotan, nel Nepal, nel Bangladesh, a Kongeheer, nel Kashmir e a Tuimuersha. (Vedi le Yiyu Sotan del Signor Chunyuan62). Oltre oceano, le nazioni di Zufar (Oman), Aden e Hormuz la professano. (Vedi pure il trattato sui paesi stranieri nel Mingshi). Il confucianesimo è professato nel territorio della Cina, a sud arriva fino in Vietnam e a oriente fino alle Ryukyu, al Giappone e alla Corea. I luoghi di provenienza della religione Buddista sono più estesi, in ordine, di quelli del Cristianesimo come pure del Confucianesimo, e dell’Islamismo63.

L’ultima parte della sua trattazione è dedicata, come d’altronde c’era da aspettarsi, al confucianesimo. Il confucianesimo, per il nostro autore, è una religione: infatti egli la compara al Cristianesimo, al Buddismo e all’Islamismo. Subito dopo però, lo riconduce a quello che è il suo proprio ambito, cioè una dottrina morale fondata sulle tre guide cardinali (sangang ) che regolano i rapporti signore-ministro, padre-figlio, marito-moglie, teorizzate dal pensatore confuciano di epoca Han , Dong Zhongshu (ca. 179-ca. 104 a.C.), e le cinque costanti virtù (wuchang ), ovvero l’umanità, la giustizia, i riti, la sapienza e la fiducia, il cui scopo è quello di regolare la condotta di ogni uomo. I riti, la musica, le punizioni e l’arte di governo stabilite dagli antichi imperatori forniscono una guida che può essere accettata da tutti, specialmente in Cina. Non c’è quindi bisogno di andare a cercare altrove. Da quanto esposto sopra, il concetto formulato da Zhao Yi nei confronti del Cristianesimo, del Ricci, e di tutti i missionari cattolici che si erano alternati in Cina non è affatto negativo. Egli ritiene superiore il confucianesimo e se ne accontenta e compiace, ma non sminuisce la validità delle altre religioni, le quali vengono elencate con grande rispetto, e soprattutto in armonia con il pensiero confuciano, proprio della Cina. Quindi Zhao Yi non prende in considerazione le polemiche riportate nel Mingshi sull’attività missionaria dei gesuiti: là dove la Religione del Signore del Cielo avrebbe «infettato» il Paese di Mezzo, per Zhao Yi essa avrebbe «attraversato» la Cina; là dove il Vagnoni avrebbe «adescato il popolino», per Zhao Yi egli avrebbe «diffuso la sua religione»; e nessuno dei missionari sarebbe stato al soldo dei portoghesi. Della stessa opinione è anche l’autore del Mingshu, Fu Weilin.

62

L’opera il cui titolo significa «Piccole chiacchierate sui paesi stranieri» deve essere andata perduta. Infatti non è riportata nel catalogo Zhongguo Congshu Zonglu, Shanghai,Guji Chubanshe, 1982. 63 Nianer shi zhaji, op. cit., p. 500.

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[15] 5. LA

FIGURA DI

155

WEI YIJIE

In base a tutto ciò, il giudizio negativo sui missionari in Cina andrebbe ridimensionato. Indubbiamente è vera la tesi sostenuta dal Gernet, sul fatto che dopo la morte del Ricci, non ci furono più convertiti eccellenti al pari di Li Zhizao, Xu Guangqi, Yang Tingyun, Wang Zheng, Sun Yuanhua, però è pur vero che deve essere ridimensionato il numero di letterati che si schierarono in modo netto e deciso contro l’operato dei missionari. A tal riguardo è significativa la figura dello statista confuciano Wei Yijie64 . Membro dell’Accademia Hanlin , e filosofo di ispirazione neoconfuciana, nel 1657 era stato nominato presidente del Censorato, ducha yuan e nel 1663 presidente del Ministero per gli Affari Civili, quan cao6 5 . Nel 1671 si era ritirato con titolo di Gran Tutore, taizi taifu , dell’erede al trono e dopo la sua morte venne canonizzato con il nome di Wenyi . Il 29 aprile 1661, in occasione 71° genetliaco di Adam Schall von Bell, Wei Yijie, insieme ad altri alti funzionari di corte, fra cui Jin Zhijun66 , e il poeta e pittore Gong Dingzi67 , scrisse una eulogia in onore del missionario tedesco nella quale comparava il Cristianesimo al Confucianesimo. Egli riteneva che i due sistemi avessero molti punti in comune, facendo addirittura professione di fede nel Cristianesimo, così come viene riportato nel Changchu 68 zhai suibi . Di questa professione di fede si ha traccia in una lettera scritta da Wei ad un missionario, e conservata nella Biblioteca della Missione Cattolica di Xujiahui (Zikawei) a Shanghai69. Il caso di Wei Yijie insieme a quello di Fu Weilin, Zhao Yi e tanti altri dimostra che non tutti i letterati confuciani si schierarono contro i missionari, e che il Cristianesimo non fu osteggiato da costoro, anzi venne da molti apprezzato e ritenuto compatibile con la morale confuciana.

64

Vedi HUMMEL, Vol. II, pp. 849-850. Denominazione alternativa del Libu . 66 Jin Zhijun (1593-1670) dopo aver conseguito il grado di jinshi nel 1619, divenne Vice ministro del Ministero della Guerra. Nel 1644, dopo il trapasso dinastico fece atto di obbedienza ai Mancesi ottenendo così lo stesso incarico ricoperto durante la dinastia Ming. Nel 1648 fu ministro Dei Lavori, cinque anni dopo Presidente del Censorato e infine Gran Segretario. Nel 1659 fu nominato Gran Tutore del Principe Ereditario. Hummel, Vol. I, pp. 160-161. 67 Gong Dingzi (1616-1673) pittore e funzionario durante il periodo del trapasso dinastico. Jinshi nel 1634, ricoprì la carica di Censore. Dopo il 1644 ottenne l’incarico svolto precedentemente. Il suo nome è legato alla sua attività letteraria e ad una raccolta di poemi intitolata Dingshantang ji . HUMMEL, Vol. I, p. 431. 68 Citato in HUMMEL, Vol. II, p. 850. 69 Citato in HUMMEL, Vol. II, p. 850. 65

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6. CONCLUSIONI Da dove vennero allora gli attacchi al Cristianesimo? Principalmente dagli ambienti religiosi buddisti e dalle gelosie degli astronomi di corte che non accettavano il fatto che degli occidentali potessero insegnare loro l’astronomia. La più consistente raccolta di scritti anticristiani è contenuta nell’opera Poxie ji del 1639, in 8 volumi, dove si trovano degli scritti, fra i vari, attribuiti a Yu Chunxi70 , un letterato simpatizzante del buddismo, e al maestro chan Zhu Hong71 . La figura di Yu Chunxi è del tutto marginale nell’ambiente accademico cinese, mentre normale, e comprensibile d’altronde, è l’ostilità di un monaco buddista quale Zhu Hong, nei confronti del Cristianesimo. Per comprendere meglio tutto ciò basta considerare la figura del più acerrimo nemico dei missionari nei primi anni della dinastia Qing e cioè Yang Guangxian72 autore di una raccolta anticristiana dal titolo Budeyi «non possono impedirmelo». Da dove nasceva l’accanimento di Yang contro i missionari? Fondamentalmente da due concetti73: il primo era quello che, secondo quanto scritto nel Tianxue chuan gai74 , un libretto sulla storia della Chiesa composto da un convertito cinese nel 1663, l’uomo sarebbe stato creato in Giudea; successivamente un ramo della famiglia umana sarebbe emigrata in Cina, cosicché la razza cinese sarebbe derivata da una razza straniera, quella ebraica: e ciò era scandaloso per Yang. Il secondo era quello

70 Yu Chunxi (m. 1621) fu un funzionario all’interno dell’apparato burocratico Ming con il grado di jinshi conseguito nel 1583. Devoto buddista, conobbe il monaco Zhu Hong sul quale scrisse un’opera monografica. The Cambridge history of China. The Ming Dynasty 1368.1644. Vol. 8, part. II. Edited by Denis Twitchett and Frederick W. Mote. Cambridge University Press, 1998, p. 931. 71 Zhu Hong (1535-1615) nacque a Renhe nei pressi di Hangzhou. Dopo essere stato letterato confuciano, si convertì al Buddismo. Rimase vedovo, dopo aver perduto prima un figlio, poi il padre. Si risposò e nel 1566, all’età di 32 anni prese i voti definitivi. Dopo aver compiuto diversi pellegrinaggi nel 1571 ritornò ad Hangzhou. Incoraggiato dalla popolazione e da alcuni funzionari locali, restaurò un vecchio monastero dove rimase fino alla sua morte, nel 1615. The Cambridge history of China. The Ming Dynasty 1368.1644. Vol. 8, part. II. Edited by Denis Twitchett and Frederick W. Mote. Cambridge University Press, 1998, pp. 931-932. 72 Yang Guangxian (1597-1669) fu un funzionario governativo, nemico giurato dei missionari cattolici in Cina. Entrò in polemica con P. Schall per via della superiorità o meno della scienza occidentale. Scrisse un gran numero di trattati che denunciavano la religione cristiana, ed ebbe da ridire sul calendario elaborato dallo Schall. Nel 1660 prima e nel 1664 dopo, presentò al Ministro dei Riti un memoriale contro il missionario tedesco accusandolo di aver commesso degli errori nella compilazione del calendario, di imperversare sul territorio cinese con milioni di seguaci, di complottare contro lo Stato e di inculcare false idee fra la gente semplice. Tutte queste accuse si rivelarono, in seguito, infondate. Morì nel 1669. Hummel, Vol. II, pp. 889-892. 73 Sull’argomento cf. MENEGON E., «La polemica ideologica tra gesuiti e intellettuali neo-confuciani nella Cina del XVII secolo: le tesi di Guangxian», in MING QING YANJIU, Istituto Universitario Orientale, Napoli, Is.M.E.O., Roma, 1992, pp. 103-124. 74 Citato in HUMMEL, Vol. II, p. 891.

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che Schall von Bell avrebbe scelto un giorno infausto per il funerale di un principe imperiale e ciò avrebbe gettato un incantesimo sui parenti, provocando la morte dell’imperatore Shunzhi (r. 1664-1661) e dell’imperatrice Xiaoxian in brevissimo tempo. Questa accusa fu presa in seria considerazione dalla corte imperiale, tanto che venne decretata la condanna a morte di Schall e altri astronomi cinesi. I fatti successivi sono ben noti. Un terremoto, verificatosi il giorno dell’esecuzione, e interpretato come un disappunto del Cielo, salvò la vita al missionario tedesco; a Yang, coadiuvato dall’astronomo Wu Mingxuan , fu data la direzione dell’ufficio astronomico per l’elaborazione del calendario. Ovviamente, quando l’imperatore Kanxi si accorse che i calcoli elaborati da Yang e da Wu erano sbagliati, estromise il primo dal suo incarico e decretò che l’ufficio fosse diretto dal gesuita Verbiest. L’insistenza di Wu, nel ricercare presunti errori nei calcoli dei gesuiti, inesistenti fra l’altro, venne punita con quaranta frustate; la memoria di Schall von Bell, morto nel frattempo, fu riabilitata, e furono restituiti ai sui confratelli i beni confiscati in precedenza75. Tutto ciò dimostra che gli attacchi ai gesuiti vennero da alcuni ambienti ben precisi e le persecuzioni che in seguito ci furono, devono essere ricercate in altre cause e non nell’ostilità degli statisti confuciani, o almeno non quale causa principale, contro costoro, così come è dimostrato dagli scritti di Fu Weilin, Zhao Yi, Wei Yijie, e dalla simpatia di alti funzionari e intellettuali quali Jin Zhijun, Gong Dingzi e altri. Le polemiche e le opposizioni, allora, devono essere ricondotte nel loro giusto ambito, che è quello prevalentemente religioso: opere sulla scia del Poxie ji, presentano delle prefazioni che sono opera di personaggi del tutto sconosciuti nell’ambiente accademico cinese dell’epoca. Pare che negli ambienti eruditi non ci sia stata la preoccupazione di conservare la letteratura anticristiana, e la trasmissione del Poxie ji è dovuta al caso. Molti autori le cui opere figurano in questa raccolta si conoscevano e sembra facessero parte di una cerchia limitata76. Molti statisti, molti letterati apprezzarono invece l’operato, la scienza, e la dottrina religiosa dei gesuiti, affermando che era compatibile fra l’atro con la più ortodossa morale confuciana. GAETANO RICCIARDOLO

75 Su Adam Schall von Bell cf. VATH A., Johann Adam Schall von Bell S.J., missionar in China, keiserlischer Astronom und Rat geber am Hofe von Pekin 1592-1666 unter Mitwirkung von Louis Van Hee S.J. neue mit einem Nachtrag und Index, Nettetal, Steyler, 1991. 76 JACQUES GERNET, op. cit., p. 17.

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SUMMARY Some scholars have seen the behavior of the Catholic Jesuit missionaries in China as a useless attempt to transplant Christianity to that country. J.Gernet, for instance, has written that, after Ricci’s death, there were non more famous conversions in China, like Xu Guanqui, Li Zhizao and Yang Tingyun. On the contrary, Confucians became completely hostile when the effective purpose of the Catholic missionaries in China became evident, encountering difficulties, obstacles and persecutions. This thesis is strengthened by the opinion expressed in the Mingshi, without doubt, a negative stand against missionaries. But other historiographic works, like the Mingshu, written by the Confucian Fu Weilin, and the Nianer shi zhaji, written by the historian and poet Zhao Yi, don’t share this negative view. The same goes for other Confucians such as Wei Yijie, Jin Zhijun and Dong Dingzi. This paper attempts to demonstrate that many Confucians, after Ricci’s death, were not hostile neither to Christianity nor to missionaries. There were controversies; particularly with Buddhist monks, for instance with the monk Zhu Hong. All in all, the accusations against the missionaries were contained in two works: in the Poxieji, a book written in 1639 by Zhu Hong with a certain Yu Chunxi, a relatively marginal Confucian scholar in the cultural Chinese circles, and in the Budey, an antiChristian collection written by Yang Guangxian, one of the most hostile enemies of the missionaries. In the light of these facts, it is necessary to revise many assessments and opinions about the work of the missionaries in China.

Modelli letterari della modernizzazione giapponese

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MODELLI LETTERARI DELLA MODERNIZZAZIONE GIAPPONESE RITRATTI DA TRE INTELLETTUALI DEL TEMPO: I GIOVANI PROTAGONISTI DI SANSHIRÔ (1908), SEINEN (1910-11) E IZUKO E (1908)

1. PREMESSA Tra il marzo del 1910 e l’agosto del 1911 in Giappone usciva a puntate, sulla rivista letteraria Subaru ( ), il romanzo Seinen ( , L’ adolescente, 1 1910-11) di Mori Ôgai ( , 1862-1922), uno dei massimi intellettuali del periodo. L’ opera descriveva le vicende che avrebbero condotto il giovane protagonista al raggiungimento della propria maturazione e vi erano chiaramente ritratti sotto un falso nome altri due famosi scrittori, Natsume Sôseki ( , 1867-1916) e Masamune Hakuchô ( , 1879-1962), che a loro volta avrebbero lasciato importanti testimonianze dello stesso genere narrativo2. 1

In Ôgai zenshû ( , Raccolta delle opere di Ôgai), Tôkyô ( ), Iwanami shoten ( ), 1987 (1972), vol. 6, pp. 273-471. D’ ora in avanti, l’opera verrà indicata con la sigla ÔZ e, per tutti i testi editi in Giappone, quando il luogo di pubblicazione sarà Tôkyô, esso rimarrà sottinteso. Del romanzo di Ôgai esiste la traduzione in inglese di Ono Shoichi e Sanford Goldstein, Youth, in J. Thomas Rimer (a cura di), Mori Ôgai. Youth and Other Stories, Honolulu, University of Hawaii Press, 1994. 2 L’accattivante espediente venne utilizzato da Ôgai come spunto per ben riuscite digressioni sui contenuti della letteratura del tempo. La circostanza che per prima permette all’autore di inserire i suoi cammei è data dall’incontro del protagonista Koizumi Jun’ichi ( –) con l’affermato scrittore Ôishi Roka ( ), dietro al quale si riconosce Masamune Hakuchô, descritto come un uomo tormentato dal peso della mancata scelta tra il rigore di una vita conforme ai dettami del cristianesimo e il godimento dei piaceri terreni, stravagante e letterariamente molto attivo. Più avanti, l’autore propone anche riconoscibilissimi ritratti di Sôseki, nei panni dello scrittore Hirata Fuseki ( ), e di se stesso, nelle vesti di Môri Ôson ( ). Mentre della figura di Hirata parleremo in seguito, qui ci limiteremo a segnalare che di se stesso Ôgai offre una descrizione piena di ironia, espressa attraverso le fantasie di Jun’ichi, che lo immagina come “un uomo che, pur essendo un vecchio rugoso, a mescolarsi tra ingenui giovanotti cade in confusione, un uomo sempre preso a recriminare e a fare apprezzamenti sarcastici, un uomo che scrive romanzi e opere teatrali come un geometra misura un terreno con asta e nastro”, in ÔZ p. 278. È importante notare come questa letteratura fosse ancora prodotta e consumata da una ristretta cerchia di intellettuali, tanto da rimanere per molti aspetti autoreferenziale, e in questo senso si deve intendere, ad esempio, il riferimento alla eco di quello che fu il dibattito su arte e vita aperto

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Con il presente lavoro si intende offrire una possibile lettura del romanzo appena citato e delle opere Sanshirô ( , Sanshirô, 1908; trad. it.)3 e Izuko 4 e( , Verso dove?, 1908) , rispettivamente degli altri due autori indicati, come specchio della vita e degli ideali dei giovani del tempo, oltre che della visione che i tre scrittori ebbero del mondo e del processo di profondo cambiamento intrapreso dal Giappone. I tre romanzi hanno, infatti, come protagonisti degli adolescenti colti nel loro rapportarsi alla stimolante vita della metropoli d’inizio secolo e, in senso più ampio, ai primi passi verso il raggiungimento della condizione di adulti, offrendo con le loro vicende un indispensabile terreno di valutazione della situazione materiale e intellettuale della gioventù di quel periodo5. D’altra parte, le differenze nel loro approccio con la vita dipenderanno non tanto da ragioni caratteriali, quanto da una diversità negli ideali o nelle aspettative per il futuro che gli autori vollero riflettervi, così da rimanere un documento dell’attitudine di chi li scrisse. Infine, per le scelte compiute rispettivamente da Sôseki, Ôgai e Hakuchô nel rappresentare l’evoluzione intellettuale e emozionale dei protagonisti, i tre romanzi hanno offerto uno stimolante spunto di analisi della pertinenza dei modelli di riferimento proposti da Friedman rispetto alle tipologie del Plot6. all’abbandono di Sôseki del suo posto di ordinario di letteratura inglese all’università di Tôkyô, nel 1907, se Ôgai, che non abbandonò mai la sua carriera di ufficiale medico, fa dire a un interlocutore, durante uno scambio di battute: «“Il solo fatto che Fuseki abbia smesso di insegnare dimostra che è più artista di Ôson, che ancora lavora per il governo, non credi?”», in ÔZ p. 308. In ogni caso, per quanto riconoscibili ai contemporanei e agli addetti ai lavori, è anche vero che i personaggi appena indicati hanno una loro validità e una loro importanza che va al di là dell’essere identificati. L’artificio, dunque, rimane ben bilanciato all’interno del discorso narrativo. 3 In Sôseki zenshû ( , Raccolta delle opere di Sôseki), Iwanami shoten ( ), 19931996, voll. 1-25, vol. 5, pp. 271-608. D’ ora in avanti, la raccolta verrà indicata con SZ. Traduzione italiana a cura di Maria Teresa Orsi, Sanshirô, Venezia, Marsilio, 1990. Il romanzo di Sôseki apparve tra il settembre e il dicembre del 1908 sulle pagine dell’Asahi shinbun ( ). 4 In Masamune Hakuchô shû ( , Raccolta delle opere di Masamune Hakuchô), in Gendai nihon bungaku zenshû ( , Raccolta delle opere della letteratura giapponese contemporanea), Chikuma shobô ( ), 1961, vol. 14, pp. 11-40. L’ opera uscì tra il gennaio e l’aprile del 1908 sulla rivista letteraria Waseda bungaku ( ). Per comodità, d’ ora in avanti sarà indicata come MHS. I tre scrittori sono stati spesso identificati come esponenti tipici e autorevoli del mondo intellettuale di quegli anni e molti critici si sono dedicati ad analizzare somiglianze, differenze o reciproche influenze fra i tre. Oltre alla ricca letteratura comparativa tra Sôseki e Ôgai, di cui si accennerà più avanti con specifico riferimento a Sanshirô e Seinen, il confronto tra Sôseki e Hakuchô è ben condotto da Nakamura Mitsuo ( ), in Sôseki to Hakuchô ( , Sôseki e Hakuchô), Chikuma shobô ( ), 1979. 5 L’analisi di questo tipo di rimandi sembrerebbe rispettare anche le intenzioni degli scrittori stessi al momento della stesura delle loro opere. Infatti, sebbene i tre romanzi siano apparsi nella prima decade del Novecento, rispecchiano a nostro avviso quell’attitudine di buona fede presente nel romanzo ottocentesco europeo, secondo cui gli autori credevano che una trama potesse effettivamente corrispondere alla complessità della vita dell’uomo. Sull’argomento si veda Peter Brooks, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo (Reading for the Plot, 1984), Torino, Einaudi, 1995, pp. 124 ss. 6 Sull’argomento si vedano, di Norman Friedman, Forms of the Plot, in «Journal of General Education», n. 8, 1955, pp. 241-253 e Form and Meaning in Fiction, Athens, University of Georgia Press,

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Essi, infatti, pur descrivendo tutti la maturazione di un giovane, sembrano appartenere chiaramente a tre diverse tipologie individuate dal critico. In effetti, se Sanshirô si potrebbe considerare un valido esempio del Plot di Maturazione, un sottogruppo della tipologia dei Plots di Carattere che raccoglierebbe le trame in cui un protagonista piuttosto ingenuo riesce comunque a raggiungere la maturità, per Seinen appare verosimile una classificazione all’interno della tipologia dei Plots di Pensiero, più precisamente nel sottogruppo di Educazione, in cui, nel corso della storia, si assiste all’approfondimento della capacità di analisi della realtà da parte di un protagonista comunque interessante, anche se gli effetti di tale processo evolutivo non si palesano nel testo. Izuko e, infine, potrebbe far parte della stessa tipologia di Seinen con una variazione nello specifico sottogruppo di appartenenza, che in questo caso ci sembra di poter indicare come il Plot di disillusione: in esso, secondo le indicazioni di Friedman, il protagonista finisce per perdere, insieme ai suoi ideali, la simpatia del lettore e si avvia verosimilmente verso un finale di disperazione, quando non addirittura di morte.

2. IL FIORIRE DEL ROMANZO DI FORMAZIONE COME RIFLESSO DI UN FENOMENO SOCIALE: ESSERE ‘I GIOVANI’ DELL’ERA MEIJI (1868-1912) L’ingresso della figura del giovane moderno nella letteratura giapponese era avvenuto sotto i chiari influssi dell’Occidente, dove erano stati mossi i primi passi verso l’affermazione della varietà, di quel genere che era il romanzo7, definita Bildungsroman o, più genericamente, romanzo di formazione8. 1975, e di Gerald Prince, A Dictionary of Narratology, Lincoln & London, University of Nebraska Press, 1989 (1987), pp. 72-73. 7 In breve, possiamo dire che il romanzo, fin dal suo primo apparire in Europa, fu oggetto di interminabili discussioni su ciò che lo rendeva nuovo rispetto ai generi letterari tradizionali e sulla definizione dei suoi contenuti e delle sue tecniche narrative, oltre che sulla sua dignità artistica. Nell’ambito di un dibattito che si dimostra sempre ricco di nuovi spunti, sono tuttavia evidenti le connessioni tra specifiche qualità letterarie del romanzo e la società in cui esso iniziò e fiorì. Il tradizionalismo intellettuale che decretava il successo di un autore in base alla sua abilità nel riprendere e rinnovare temi ininterrottamente rimaneggiati dall’antichità classica veniva sfidato dalla più recente produzione, il cui criterio fondamentale era la rappresentazione della verità in relazione all’esperienza individuale e personale, sempre unica e quindi “nuova”. La fioritura di opere appartenenti a questa tipologia si fece, così, logico veicolo letterario di una cultura che cominciava a insistere come mai prima d’ allora sul valore dell’originalità nel moderno senso di “mai visto prima”. Si veda Ian Watt, Le origini del romanzo borghese (The Rise of the Novel, 1957), Milano, Bompiani, 1994 (1976). 8 Per una accurata analisi della nascita e degli sviluppi in Occidente di questo genere di produzione, si veda Franco Moretti, Il romanzo di formazione, Milano, Garzanti, 1991 (1986). L’ autore spiega come la definizione di Bildungsroman possa essere correttamente applicata, secondo un’ argomentazione rigorosa e convincente, a un ristretto numero di romanzi, come Wilhelm Meister Lehrjahre (Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister, 1795-1796; trad. it.) di Goethe (1749-1832) o Pride and Prejudice (Orgoglio e pregiudizio, 1813; trad. it.) di Jane Austen (1775-1817), in cui il valore supremo presentatovi è una felicità che coincide con la perfetta adesione a ciò che la società si aspetta dal protagonista maschile

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Di fatto, l’Europa, che tra Sette e Ottocento era precipitata nella modernità tecnica ed economica senza ancora possederne una cultura, aveva tentato di dare un senso a questa nuova fase della storia attribuendo alla gioventù una centralità simbolica. Parallelamente, verso la fine del Diciottesimo secolo l’età a cavallo tra l’infanzia e la maturità aveva fatto il suo ingresso trionfale in letteratura. Con Goethe aveva preso corpo una nuova tipologia del romanzo che individuava nella gioventù la parte più significativa dell’esistenza: in effetti, era la giovane età di protagonisti come Wilhelm Meister la loro determinazione sostanziale. Per la prima volta l’essere giovani non diveniva funzionale ad altri temi del narrato, ma interpretato come l’appartenenza a una età che racchiudeva in sé il senso della vita. Una delle qualità subito apparse tra le più evidenti del genere del romanzo può essere riassunta nel fatto che i lettori si abituavano a guardare la normalità dall’interno fino a costruirne una fenomenologia tale da renderla interessante e significativa di per sé. Anche nella versione in cui il protagonista era un adolescente, ci si trovava quasi sempre di fronte a un’ opzione esplicitamente antieroica e prosaica, dove i personaggi erano, però, tutt’ altro che indefiniti o insignificanti. Tali modelli spiegano così la predilezione del romanzo di formazione per eroi appartenenti alla classe media del tempo: giovani, maschi, appena inurbati, celibi, intellettuali o per lo meno istruiti, socialmente mobili e indefiniti, pronti a esplorare le nuove possibilità che si aprivano di fronte a loro, incarnavano la modernità in tutta la sua turbolenza. E poiché la giovinezza è destinata a terminare, al suo dinamismo e all’irrequietezza si aggiunse, come logica conseguenza, anche il senso della fine imminente e inevitabile, identificata con il sopraggiungere della maturazione del protagonista e con l’avvenuta o abortita socializzazione, ossia l’ingresso nel mondo adulto compiuto o no con successo. Mentre in Occidente l’evoluzione di tali processi narrativi appariva inarrestabile e portava a esiti sempre diversi nell’analisi della figura del giovane, il Giappone del periodo Meiji si trovò di fronte a un moltiplicarsi delle traduzioni dei capolavori europei, che fornirono lo spunto per inediti sviluppi nella letteratura di quel Paese9. L’ introduzione di nuove tecniche narrative

o femminile, a spese della libertà dell’individuo stesso che tuttavia sembra non avvertirne assolutamente la privazione. Per opere come La chartreuse de Parme (La Certosa di Parma, 1839; trad. it.) di Stendhal (1783-1842) o Evgenij Onegin (1823-1831; trad. it.) di Puskin (1799-1837) si potrebbe parlare di radicalizzazione della scelta inversa: paradossalmente, la felicità si allontana dalla vita del protagonista come diretta conseguenza dell’affermazione della propria personalità e il perseguimento delle proprie aspirazioni. Rispetto a questo genere di produzione, Moretti preferisce la più generica definizione di “romanzo di formazione”. In forza di queste considerazioni, nel testo ci si è attenuti a un criterio analogo e si è scelto di parlare genericamente di romanzo di formazione. 9 Per il clima intellettuale e la diffusione delle influenze letterarie occidentali si rimanda ai lavori di Donald Keene, Dawn to the West. Japanese Literature in the Modern Era. Fiction, New York, Henry

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trovava un sustrato favorevole nei generi prosastici già esistenti del monogatari ( ) e del gesaku ( ), e suscitò vivo interesse nel mondo intellettuale, soprattutto tra i suoi esponenti più giovani e ambiziosi, che si dedicarono con passione a esaminare e rielaborare quelle novità10. La produzione che presentava un giovane personaggio còlto nel momento della propria maturazione venne indicata in senso generico con il termine kyôyô shôsetsu ( ), che avrebbe voluto rappresentare la controparte del tedesco Bildungsroman. Secondo la critica moderna, però, tale definizione sembrerebbe far riferimento principalmente allo sviluppo intellettuale dei protagonisti e, pur essendo in uso ancora oggi, alcuni studiosi ne hanno fornito delle traduzioni alternative. Tsuji e Koshio11 propongono la definizione hatten shôsetsu ( ), che suggerirebbe l’idea di un romanzo della “crescita” dell’adolescente, ma l’opzione che ci è parsa più appropriata è quella offerta da Itô Shintarô12, keisei shôsetsu ( ), che indicherebbe un più generale romanzo di “formazione”. Se, nelle prime fasi, il confronto con il nuovo modello letterario avvenne, spesso in maniera affrettata e superficiale, attraverso la semplice imitazione dei testi stranieri, il nuovo genere assunse ben presto una sua identità ben delineata. In effetti, fino ad allora la cultura tradizionale in tutte le sue sfaccettature, dalla prosa alle opere sui doveri del buon suddito, dalle fiabe alla trattatistica, aveva presentato l’immagine di individui che, dalla vita infantile, passavano quasi senza intermezzi all’età adulta o, più precisamente, alla qualifica di individuo sociale a tutto tondo ( , kanzenna shakaijin)13, seguendo in tal

Holt, 1987 (1984), e di Katô Shûichi, Storia della letteratura giapponese dall’Ottocento ai giorni nostri - III ( , Nihon bungaku shi josetsu, Introduzione alla storia della letteratura giapponese, 1980), trad. a cura di Adriana Boscaro, Venezia, Marsilio, 1996. In particolare, per una analisi delle circostanze che prepararono l’apertura all’Occidente si veda Donald Keene, The Japanese Discovery of Europe, 1720-1830, Stanford, Stanford University Press, 1969 (1952). Sul dibattito che portò con sé il confronto con la cultura occidentale, i cui echi sono vivi ancora oggi, si veda anche Yves-Marie Allioux (a cura di), Cent ans de pensée au Japon, Tomes 1-2, Arles, Philippe Picquier, 1996. 10 Per questa produzione letteraria si è parlato dell’avvio della grande stagione del cosiddetto romanzo giapponese ( , Nihon shôsetsu). Interessanti considerazioni sulla scientificità dell’uso del termine “romanzo” relativamente alla moderna produzione in prosa del Giappone, sull’origine del termine shôsetsu con cui quest’ ultima viene genericamente indicata e sui legami con la tradizione letteraria precedente sono in Janet A. Walker, «On the Applicability of the Term “Novel” to Modern Non-Western Long Fiction», in Yearbook of Comparative and General Literature, vol. 37, 1990 (1988), pp. 47-68. 11 In Tsuji Kunio ( ) e Koshio Takashi ( ), «Seishun no toki ( , Quando eravamo adolescenti)», in Kokubungaku ( ), 1980/04, Seishun no hakken ( , La scoperta dell’adolescenza), pp. 6-31. 12 In Itô Shuntarô ( ), «“Sanshirô” to “Seinen”. Ôgai ga Sôseki kara uketa eikyô ( , “Sanshirô” e ”Seinen”. L’ influenza di Sôseski su Ôgai », in Risô ( ), n. 622, 1985/03, pp. 215-220. 13 Sull’argomento, si veda ancora Tsuji e Koshio, 1980, op. cit.. Tra gli esempi più famosi nella letteratura giapponese classica di individui che dall’età infantile

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modo i criteri tipici di tutte le società premoderne. Ora, invece, l’adolescente che le opere tendevano a rappresentare era lo studente universitario (shosei, ), provinciale e pieno di speranze, che, mentre studia a Tôkyô o sogna ardentemente di recarvisi, ha il miraggio o la possibilità reale di divenire una figura di spicco nel Giappone del futuro. A ben vedere, a partire da Tôsei shosei katagi ( , Caratteri di studenti moderni, 1886)14 di Tsubouchi Shôyô ( ,1859-1935), fino ai romanzi apparsi alla fine della seconda guerra mondiale, i vari scrittori che si dedicarono a questo tema non si discostarono mai in maniera drastica da tale modello, sia quando i personaggi avrebbero accettato di conformarvisi sia quando lo avrebbero rifiutato. E se, in effetti, l’età dei protagonisti delle varie opere che a buon diritto sono state

passano alle prerogative dell’età adulta – dagli amori agli incarichi ufficiali all’interno della società, senza che rimanga traccia del momento intermedio della crescita, rimane senza dubbio il protagonista del Genji Monogatari ( , Storia di Genji), capolavoro in prosa scritto intorno al 1001 dalla dama di corte Murasaki Shikibu ( ). Dell’opera esiste in italiano la traduzione dall’inglese a cura di Adriana Motta, Storia di Genji, il Principe Splendente, pubblicata da Einaudi (Torino, 1957). Anche sul fronte della trattatistica, l’adolescenza non fu minimamente considerata. Intellettuali del calibro di Kaibara Ekken ( , 1630-1714), famoso tra l’altro proprio per la sua capacità di rendere facilmente comprensibili le dotte speculazioni confuciane alle fasce meno istruite della popolazione, nelle loro disquisizioni sulle virtù da perseguire da parte dei più giovani parevano considerare i destinatari dei loro scritti semplicemente come futuri sudditi devoti. Un esempio della pesante prosa che non teneva conto della giovane età dei destinatari è presentato in traduzione inglese da Tsunoda Ryusaku , Wm. Theodore de Bary e Donald Keene (a cura di), Sources of Japanese Tradition, voll. I-II, New York London, Columbia University Press, 1969 (1964), vol. I, pp. 367-368: si tratta dei primi passaggi di Shogakkun ( , Precetti per bambini, 1718). Tracce della mentalità corrente che vedeva nel bambino niente altro che un adulto in erba sono anche nel folklore: si pensi alle molte fiabe in cui il piccolo protagonista maschile o femminile, per una serie di circostanze favorevoli, viene tramutato all’istante in un meraviglioso guerriero o in una splendida principessa in età da matrimonio. 14 In Tsubouchi Shôyô, Futabatei Shimei, Kôda Rohan ( ), da Nihon no bungaku ( , La letteratura giapponese), Chûôkôron ( ), 1970, vol. 1, pp. 7-168. L’ opera voleva essere l’applicazione nella pratica di quello che ne era di fatto il sostrato teorico, Shôsetsu shinzui ( , L’ essenza del romanzo, 1885; trad. ingl. di Nanette Twine, The Essence of Novel, in Occasional Papers II, Department of Japanese - University of Queensland, 1983), un saggio in cui si teorizzavano le regole stilistiche e di contenuto che avrebbero dovuto caratterizzare la letteratura moderna. In realtà, il romanzo di Shôyô disattese i suoi stessi auspici, richiamando le caratteristiche della produzione gesaku e presentando solo in maniera ancora abbozzata alcuni aspetti tipici del romanzo moderno, come l’analisi della psicologia dei personaggi. Una accurata esposizione della complicatissima trama ricca di implausibili colpi di scena volti a raggiungere un finale positivo è in Marleigh Grayer Ryan, The Development of Realism in the Fiction of Tsubouchi Shôyô, Seattle London, University of Washington Press, 1975. Anche nello stile non fu raggiunta una verosimiglianza credibile nei dialoghi né un buon equilibrio tra questi e la parte narrativa, mentre risultati più convincenti si ebbero in opere successive (cfr. Paolo Calvetti, «Saikun di Tsubouchi Shôyô. Lingua e stile narrativo», ne Il Giappone, vol. XXIX (1989), 1991, pp. 169-236). Sulla figura del personaggio principale, si veda Hata Yûzô ( ), «Kaika no seishun “Tôsei shosei katagi” Tsubouchi Shôyô ( , Adolescenze della civilizzazione. “Caratteri di studenti moderni” Tsubouchi Shôyô)» in Kokubungaku ( ), 1980/4, pp. 72-73. Un confronto tra questa e altre opere del periodo è in Hirano Ken ( ), Tsubouchi ShôyôFutabatei Shimei-Mori Ôgai ( ), in Samazamana seishun ( , Alcune adolescenze), Kôdansha bungeibunko ( ), 1991 (1974), pp. 7-68.

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considerate come facenti parte di questo filone in alcuni casi arriva a estendersi in modo considerevole, ciò è dovuto in sostanza al carattere di liminalità della giovinezza o, più specificamente, dell’adolescenza, tra la condizione dell’infanzia, che implica una separazione dalla comunità degli adulti, e l’inserimento definitivo in essa, attraverso l’acquisizione specifica di un ruolo sociale ben definito15. L’intuizione artistica, comune a molti autori del periodo, di ritrarre i giovani di quegli anni aveva radici in quella che era stata una vera e propria politica di Stato. Infatti, se culturalmente l’adolescenza si affermava come età della vita fino ad allora ignorata, in un’ epoca in cui il Giappone, ormai di fronte ai prepotenti cambiamenti imposti dal forzato contatto con l’Occidente in continua espansione, si disponeva con pragmaticità a una sorta di rivoluzione culturale ma anche materiale, la transizione verso il “Nuovo” venne effettuata in larga parte anche grazie all’entusiasmo della gioventù intellettuale di allora, sapientemente indirizzata dal Governo verso la realizzazione del progresso del Paese16. In effetti, tra gli anni Dieci e Venti dell’era Meiji ( , 1868-1912), nei dibattiti relativi a ogni aspetto della modernizzazione che avrebbe dovuto velocemente condurre al vagheggiato Nuovo Giappone ( Shin Nihon), i termini di origine cinese seishun ( , adolescenza) e seinen ( , adolescente) si arricchirono di nuovi valori semantici, essendo fin dall’inizio accostati a un’ idea di trasformazione e rinnovamento17. Con il secondo si indicava una 15 Nell’affrontare tale produzione, ci si è chiesti se si potessero considerare adolescenti solo quei personaggi, per la maggior parte studenti, ancora estranei al mondo del lavoro - e quindi ancora socialmente mobili -, o se si potessero definire tali anche giovani dalla professione già definita, pur se dalla personalità ancora in evoluzione. La ricchissima bibliografia esistente sull’universo giovanile in tutte le sue sfaccettature non sembra fornire che appigli sfuggenti alla soluzione del problema. Condividiamo la posizione teorica enunciata da Giovanni Levi e Jean-Claude Schmitt in Storia dei giovani (Voll. 12, Bari, Laterza, 1994, in Introduzione, Vol. 1, pp. V-XXI), che rifiutano un imbrigliamento dell’adolescenza secondo criteri esclusivamente biologici o giuridici, data la sua qualità di artefatto sociale soggetto a diverse interpretazioni a seconda dell’epoca e della cultura che se ne sono occupate, e propongono di focalizzare l’attenzione sull’analisi di provvisorietà e di liminalità della situazione presentata dagli individui in questione. 16 Su questi temi si veda Kimura Naoe ( ), no tanjô. Meiji ni okeru seijiteki jissen no tenkan ( , La nascita dell’“adolescenza”. La prassi politica del cambiamento nel periodo Meiji), Shin’yôsha ( ), 1998. Il clima intellettuale in cui si formò la convinzione che i giovani potessero essere gli individui più adatti a portare avanti quello che veniva percepito come un mutamento ormai inevitabile traspare in alcuni saggi del periodo, disponibili in traduzione inglese in J. S. A. Elisonas e Richard Rubinger (a cura di), Proliferating Talent: Essays on Politics, Thought, and Education in the Meiji Era, Honolulu, University of Hawaii Press, 1997. 17 In occidente, il concetto di adolescenza venne pienamente codificato solo nel 1904 con un testo di Stanley G. Hall, Adolescence. Its Psychology and Its Relations to Physiology, Anthropology, Sociology, Sex, Crime, Religion and Education. L’ opera, in due volumi, è in commercio nell’edizione del 1975 della casa editrice Ayer (North Stratford, Prima edizione 1970). In questo ampio trattato, che intuiva la sinergia di numerose tematiche successivamente sviluppate da altri, viene evidenziato il carattere di seconda opportunità o seconda nascita di questo periodo dell’esistenza, che per l’autore rappresenta

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nuova figura affacciatasi sulla scena culturale e politica, l’adolescente intellettuale ma ambizioso in giusta misura e desideroso di mettere il proprio talento al servizio della Nazione. Di fatto, avvertita la necessità di formare nuovi quadri che disponessero di conoscenze in grado di mantenere il passo con l’Occidente, oltre a porre in atto una sostanziale riforma dell’istruzione, il Governo si dette a promuovere in modo capillare il trasferimento dei migliori elementi dalla periferia, culturalmente arretrata, al centro della vita intellettuale del Paese identificato con Tôkyô, la metropoli per eccellenza. Questi ultimi risposero in larga parte con viva dedizione, almeno nella fase iniziale del processo: gli obiettivi politici alla base del fenomeno coincidevano, infatti, con la naturale aspirazione di quegli adolescenti della classe media che puntavano a migliorare la propria posizione sociale con una facilità impensabile solo fino a pochi decenni addietro. Tra i molti sogni che li accompagnavano, occupava certo un posto rilevante quello di essere ammessi all’Università di Tôkyô, motore del fermento culturale di quegli anni e strettamente connessa con la possibilità di accesso alla classe dirigente. Una volta nella capitale, i giovani provinciali subivano una vera e propria immersione in una cultura, quella Occidentale, ignota a molti di loro se non per la pallida eco che ne era giunta fino ai loro luoghi di origine attraverso le poche traduzioni di testi europei e americani che vi erano reperibili. Gli esiti di questo confronto furono per molti aspetti dirompenti18. Nell’incredibile varietà delle nuove idee cui furono esposti, i giovani si trovarono a fronteggiare un sostanziale cambiamento dei valori che li portò in qualche modo a considerarsi una razza a parte, quasi estranei agli adulti educati nell’era precedente, ormai considerati antiquati. Ne sono testimonianza le molte associazioni e riviste nate in quegli anni, che avevano fin nel nome una dichiarazione programmatica di intenti incentrati nell’occuparsi specificamente dell’adolescente sotto vari punti di vista. Su alcuni periodici non mancavano mai vignette umoristiche sull’arretratezza della generazione precedente19. il punto d’ inizio di una tappa più avanzata nella vita dell’uomo. Di fatto, alla luce degli studi contemporanei sull’adolescenza, è ormai assodato che la giovinezza, come culmine della fase di socializzazione tra individui che precede l’età adulta, presenta aspetti tipici del momento dei “riti di passaggio” (Cfr. Arnold Van Gennep, I riti di passaggio, Torino, Boringhieri, 1981 e T. Tentori (a cura di), Antropologia culturale delle società complesse, Roma, Armando, 1992), tra una prima fase di separazione (infanzia) e quella successiva di aggregazione (maturità). Secondo tale schema, sul piano personale la giovinezza è ormai considerata una fase cruciale per la formazione e la trasformazione dell’uomo, sia che si tratti della maturazione del corpo e dello spirito, sia per quanto riguarda le scelte decisive che preludono all’inserimento definitivo nella vita della comunità. 18 Si veda, tra gli altri, il testo di Irokawa Daikichi, The Culture of the Meiji Period (Meiji no bunka, 1970), trad. ingl. a cura di Marius B. Jansen, Princeton, Princeton University Press, 1988 (1985). Il testo offre una panoramica socio-economica e culturale sul Giappone al momento dell’apertura all’Occidente. 19 Si veda ancora Kimura Naoe, 1998, op. cit.

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È da notare però come, a differenza di quanto sarebbe avvenuto negli anni Sessanta del Novecento, quando una generazione consapevole di sé sarebbe riapparsa come fenomeno di massa, i loro atteggiamenti e le loro aspirazioni erano legittimati da quel mondo stesso che si permettevano di mettere in discussione e che seppe cavalcare la tigre di tale inesauribile energia. La nuova categoria sociale - potremmo dire così? - ben conscia di esistere in quanto tale, tentava di delimitare teoricamente il proprio campo d’ azione e le proprie possibilità, facendosi carico in modo consapevole del peso del valore di rinnovamento che le veniva attribuito. Affascinati dalla “modernità” della società civile occidentale, molti giovani di quella generazione ne rimasero stregati. Questo clima di esaltazione, mai più ripetutosi nella storia del Giappone, fornì l’ispirazione a molte opere del periodo.

3. TRE

CARATTERI A CONFRONTO

In un quadro come quello fin qui tratteggiato, la fioritura di romanzi che avevano al centro un giovane protagonista nell’atto del suo primo confrontarsi con il mondo esterno potrebbe verosimilmente rispecchiare la situazione psicologica in cui dovevano trovarsi i giapponesi stessi, che giorno dopo giorno si imbattevano nella “modernità” padroneggiata già da tempo dagli stranieri. Chi, meglio di un adolescente, poteva rappresentare il miscuglio di sensazioni sperimentate all’aprirsi al nuovo? Ai giovani, curiosi della vita e liberi da prevenzioni, veniva affidato il compito di guardare al mondo e descrivere i lati positivi e negativi della nuova cultura20. In questa folla di ritratti, possiamo delineare tre atteggiamenti psicologici, che ritroveremo per decenni con una certa continuità: una totale accettazione delle aspettative della società e il desiderio di realizzarle, un atteggiamento più freddo nei confronti del parossismo carrieristico che travolse molti giovani del periodo, ma anche un’ attitudine di inerte abbandono di fronte al frastornante tourbillon di novità della metropoli o, più in generale, del Giappone. Quest’ultima posizione si distinse, a sua volta, in un approccio alla società passivo e introverso, o nel rifugiarsi nel rimpianto della cultura che stava scomparendo. Del resto, come nota J. Thomas Rimer nell’introduzione alla traduzione inglese di Seinen21, crescere in un periodo di continua trasformazione come fu quello Meiji dovette essere un compito piuttosto arduo, data la ricchezza e l’etero20 A creare stupore nei giovani intellettuali pare fossero più le nuove tecnologie importate dall’occidente che le nuove teorie: è quanto si legge, con un buon supporto documentario, in Takeda Nobuaki ( ), Sanshirô no notta kisha ( , Il treno su cui salì Sanshirô), Kyôiku shuppan ( ), 1999. 21 Op. cit., pp. 373-380.

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geneità degli stimoli cui si era sottoposti. Il saper cogliere le idee venute dall’esterno riuscendo a renderle funzionali alla propria crescita può essere indicato come la meta auspicata e ambita, più o meno consapevolmente, da molti protagonisti dei romanzi del periodo. Pur con alcune ingenuità nelle finiture formali e nelle circostanze dell’intreccio, dovute essenzialmente al pionierismo di chi li scrisse, capolavori della letteratura a cavallo tra Ottocento e Novecento che si sono ritenuti esemplificativi di quanto appena enunciato rimangono i ritratti dei giovani protagonisti di Sanshirô, Seinen e Izuko e. Alla luce dell’analisi di alcuni disincantati o tormentati personaggi della trilogia di cui Sanshirô non costituisce che il primo volume22, la definizione del carattere del giovane studente che vi compare appare complicata da segnali ambigui. Di Ogawa Sanshirô ( ), mantenuto da una madre che può permettergli gli studi nella capitale, si potrebbe pensare che, una volta concluso l’intreccio, spinto dalla buona volontà e dalla totale mancanza di dubbi sulla necessità di guadagnarsi da vivere onestamente e sulla bontà dei valori tradizionali, sarà assimilato senza difficoltà all’interno della struttura del potere dell’élite Meiji. Ciò richiamerebbe lo stesso tipo di anelito al riuscito inserimento nel tessuto sociale dei personaggi del primo Bildungsroman europeo inteso come vero e proprio romanzo di socializzazione, in cui il raggiungimento della felicità coincide con l’aver adempiuto alla propria formazione secondo i valori dell’epoca23: sono queste le caratteristiche, dunque, che soddisferebbero i requisiti necessari per poter inserire l’opera nel quadro del Plot di Maturazione di Friedman. Sanshirô, del resto, ha una personalità così semplice da farlo quasi apparire privo di carattere; cionondimeno, o forse proprio per questo, può a buon diritto nutrire speranze riguardo al proprio futuro in nome dell’adempimento di ciò che ci si aspetta da lui. La storia si svolge in un periodo di pochi mesi, dalla fine dell’estate all’inizio dell’anno nuovo. La ricorrenza del genetliaco dell’imperatore Meiji, il 3 novembre, comparirà anche in Ôgai come una sorta di riferimento stagionale poetico. L’atmosfera è quella di una metropoli in fermento, in cui sorgono edifici moderni e dove Sanshirô, attraverso una serie di eventi privi di drammaticità e strettamente legati all’ambiente che lo ospita, acquisisce una visione della vita 22 Gli altri due romanzi che compongono la trilogia sono Sorekara ( , E dopo, 1909) e Mon ( , Il portale, 1910). In essi si sviluppa in certo senso quella diffidenza verso la modernità e prima ancora verso il genere umano che con i suoi commenti aveva anticipato il professor Hirota. Nel corso dei due romanzi successivi, tali atteggiamenti appena accennati prenderanno una forma più delineata nelle più complesse e tormentate psicologie dei personaggi principali. Sulla psicologia di Sanshirô vedi Shigematsu Yasuo ( ), «Seishun no meiro “Sanshirô” Natsume Sôseki ( , Il labirinto dell’adolescenza “Sanshirô” di Natsume Sôseki)», Kokubungaku ( ), 1980/04, pp. 78-79. 23 Cfr. Franco Moretti, op. cit.

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più consapevole. Trovandosi a riflettere sui tre mondi che ritiene di aver identificato, quello rassicurante della provincia, quello astratto degli intellettuali e quello luminoso della moda e delle belle donne, si dice che, tutto sommato, non gli dispiacerebbe «far venire in città la mamma, sposare una bella ragazza e dedicarsi agli studi»24. Non è facile capire, però, se nel protagonista non finiranno per germogliare i semi di quell’atteggiamento “disincantato” e sottilmente ironico tipico del suo mentore, il professor Hirota ( ). In effetti, la tensione di Sôseki verso la costituzione della propria indipendenza intellettuale, la stessa che è espressa in modo esplicito nel noto saggio Watakushi no kojinshugi ( , Il 25 mio individualismo, 1914) , compare costantemente nei romanzi dell’autore, veicolata da numerosi protagonisti26. In Sanshirô, a farsi portavoce di tali convinzioni è proprio Hirota, cinico critico della società moderna e privo anche del rispetto per istituzioni tradizionali, quali la famiglia e lo Stato. Incontratolo per la prima volta sul treno che lo conduce a Tokyô, Sanshirô ha subito modo di conoscerne il carattere: «“...Se è la prima volta che vai a Tôkyô, immagino che non avrai mai visto il monte Fuji. Guarda, adesso si vede bene. È il luogo più famoso del Giappone, l’unica cosa di cui possiamo andare orgogliosi. Ma il Fuji non l’abbiamo costruito noi, è sempre esistito fin dai tempi lontani...”. L’ uomo ebbe ancora un risolino beffardo. Sanshirô non avrebbe mai immaginato di poter incontrare una persona del genere, capace di 24 La citazione è tratta dalla già citata versione in italiano di Maria Teresa Orsi. La fonte di questa, e delle citazioni dell’opera che seguiranno, verrà indicata d’ ora in avanti con la sigla NS-MTO. Specificamente, qui si rimanda alla pag. 107. Nel caso di Seinen e Izuko e, dei quali non esiste una versione in questa lingua, la traduzione proposta è opera di chi scrive. 25 In Sôseki zenshû, op. cit., vol. 16, pp. 581-615. Si tratta di un’ appassionata affermazione del principio per cui non si deve dipendere dagli altri, né come individuo né come paese, e costituisce il testo di una conferenza che l’autore tenne il 25/11/1914 presso il Gakushûin ( ) di Tôkyô. Il saggio è stato tradotto per intero in italiano da Nobuyasu Hiroe in «“Watakushi no kojinshugi” di Natsume Sôseki», Asiaorientale, n. 15, 1999, pp. 81-109. 26 Angela Yiu, in Chaos and Order in the Works of Natsume Sôseki (Honolulu, University of Hawaii Press, 1998), fornisce una convincente analisi di tale convinzione intellettuale dell’autore, fornendo interessanti esempi tratti da una panoramica completa delle sue opere. Al di là dei continui richiami all’ordine, alla responsabilità e a un chiaro senso della morale, infatti, Yiu mette in luce l’esistenza di un disordine inteso come uno stato di angoscia, solitudine, paura e disgusto che spesso si avvertono latenti nella descrizione di alcuni personaggi. In questa tensione l’autrice, come altri critici, ritiene risiedere una delle principali ragioni per cui l’autore è ancora così seguito ai giorni nostri. Tra i testi più recenti che in Giappone continuano ad approfondire questa tesi citeremo solo Komori Yôichi ( ), Seikimatsu no yokeimono. Natsume Sôseki ( , Un individuo superfluo di fine secolo. Natsume Sôseki), Kôdansha ( ), 1999. Massimi critici come Etô Jun, Karatani Kôjin e altri hanno contribuito al cosiddetto Sôseki bûmu (boom degli studi su Sôseki) degli anni Novanta, che ha offerto letture spesso sorprendenti dell’opera e dell’artista. L’atteggiamento di Sôseki nei confronti di vari fenomeni che si stavano verificando in Giappone in quegli anni, dalla nascita delle correnti imperialiste, allo sviluppo dei media, ai profondi mutamenti del sistema e della cultura, è stato analizzato da vari critici in un numero speciale della rivista Sôseki kenkyû ( ), dal titolo Sôseki to Meiji ( , Sôseki e il Meiji), 05/1995.

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dire simili cose dopo la vittoria sulla Russia. Non pareva neppure un giapponese.Tentò una difesa: “Anche il Giappone farà dei progressi poco per volta”. L’altro sembrò voler chiudere il discorso: “Andrà in malora”. Se avesse detto una simile frase a Kumamoto, lo avrebbero subito picchiato e, nel peggiore dei casi, lo avrebbero considerato un traditore. Sanshirô era cresciuto in un ambiente che non gli avrebbe mai permesso di formulare certi pensieri, neppure in un cantuccio del cervello».27

Poco più avanti, il professore aggiunge: «“Tôkyô è più grande di Kumamoto. Il Giappone è più grande di Tôkyô. E ancora...”. L’ uomo si interruppe un momento e fissò il viso del ragazzo che lo ascoltava. “E quello che abbiamo in testa è più grande del Giappone. Non dobbiamo lasciare imprigionare il nostro pensiero. Per quanto si possa pensare al bene del nostro paese, si rischia solo di restarne vittime”.»

La chiarezza di certe posizioni polemiche, che per la capillare censura che il Giappone avrebbe preso a sperimentare di lì a poco sarebbe parsa impensabile nelle opere successive di solo qualche anno, è sorprendente. Il pubblico, però, non sembrò particolarmente scandalizzato dal senso di anarchia che spirava in quelle pagine. Piuttosto, alla sua uscita Sanshirô ebbe una tale diffusione che per un certo periodo divenne il nomignolo affibbiato ai giovani di provincia venuti a studiare a Tôkyô. È facile capire le ragioni del successo di pubblico che conobbe: il carattere privo di qualsiasi malizia del protagonista non veniva considerato dai lettori negativamente, con sarcasmo o irritazione. Anzi, i giovani acquirenti del libro si riconoscevano nelle descrizioni dettagliate e garbate della vita degli studenti universitari, restituitici nel corso del loro quotidiano costellato di piccoli eventi, che scandiscono appunto la crescita interiore del protagonista28. L’ effervescenza innovativa del periodo e i nuovi valori che si affermavano venivano registrati con acuto spirito di osservazione dall’autore. In effetti, sia in Sanshirô, sia nel successivo Seinen di Ôgai, la tecnica narrativa adottata si svolge sui due piani del rapido dipanarsi dell’intreccio e dell’estensione del contenuto attraverso digressioni che, se da un lato hanno un valore didascalico

27

La presente citazione e la seguente sono dalle pagine 42-43 di NS-MTO. La messe di dettagli disseminati nell’intreccio è stata riconosciuta di grande utilità per la ricostruzione della vita quotidiana del periodo sotto vari punti di vista. Un’ analisi dei dati di carattere economico, come il valore del denaro e il costo del riso, è espressa, ad esempio, in Maruo Jitsuko ( ), «“Sanshirô” ni fuku kaze. Meiji yonjûnen no jibutsu to keizai ( , L’ “aria” che si respira in Sanshirô. Affari ed economia negli anni Quaranta del periodo Meiji )», in Sôseki Kenkyû ( ), n. 5, 1995, pp. 146-159. 28

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per il giovane provinciale, il quale per mezzo loro assimila preziose informazioni, dall’altro permettono all’autore di inserire citazioni erudite, che testimoniano quanto gli intellettuali giapponesi avessero ormai assorbito della cultura occidentale, oltre che il proprio giudizio sul mondo che lo circonda. Sôseki sceglierà ancora Hirota per esprimere un suo parere sulla società: «“... I giovani d’oggi rispetto a quelli dei miei tempi, sono troppo consapevoli di sé, troppo individualisti. Quando ero studente, tutto ciò che facevo, ogni cosa era in funzione degli altri, era per l’imperatore, per i genitori, per il paese, per la società. A loro spettava il primo posto. In altre parole, coloro che posssedevano un’ istruzione si comportavano da ipocriti. Quando la società è cambiata e l’ipocrisia non ha più avuto via libera, il risultato è stato che l’egoismo si è gradualmente introdotto nel pensiero e nel comportamento, e la coscienza di sé si è sviluppata in modo straordinario. Al posto dell’ipocrisia di un tempo, oggi ci troviamo di fronte, per così dire, all’ostentazione del proprio egoismo...”»29.

La figura che più di tutte incarna questa notevole rivoluzione dei valori allora in atto è, sotto molti punti di vista, la bella Mineko ( ), una giovane orfana libera di disporre di un certo patrimonio e consapevole dell’influenza del proprio fascino sui personaggi maschili che compaiono nella storia. Sôseki ne avrebbe dato la notissima definizione di unconscious hypocrite, ispirandosi al romanzo C’era una volta (Es war, 1894; trad. it.) di Hermann Sudermann (1857-1928), che voleva indicare il talento inconsapevole della protagonista di attirare a sé gli uomini30, ma in effetti la giovane sembra mossa anche da un certo spregiudicato egoismo, che la porta a farsi consapevolmente beffa dei sentimenti di chi la circonda. Tuttavia, pur godendo di una libertà che non era certo stata patrimonio delle generazioni femminili precedenti, Mineko sceglierà, alla fine, un matrimonio convenzionale, lasciando nel lettore il quesito irrisolto di quello che sembrerebbe apparire come un volontario ritorno al mondo del passato da parte di chi ha potuto sperimentare quasi con golosità il nuovo, senza mai aver nutrito la vera convinzione di poterne fare parte. Meglio di lei, forse, Sasaki Yojirô ( ), il compagno di università del protagonista, tanto spregiudicato quanto infatuato di tutto ciò che è nuovo, sarà chiamato a rappresentare gli aspetti più pragmatici e meno idealisti della nuova cultura che andava prendendo piede. Di lui, Sôseki si servirà anche per tratteggiare quel clima di entusiasmo innovativo, cui si era accennato, che aveva catturato l’intero mondo giovanile dell’epoca. Personaggio contraddittorio come solo può esserlo chi segue i propri impulsi senza mai fermarsi a riflettere, 29 30

In NS-MTO, p. 184. Si veda, in italiano, Maria Teresa Orsi, Introduzione, in NS-MTO, pp. 9-23.

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dopo aver affermato, rispetto alla ricca biblioteca del professor Hirota: «“Chissà per quale motivo il professore si ostina a tenere tutti questi libri, senza profitto. È un vero peccato. Potrebbe venderli, comprare delle azioni e guadagnare; invece, niente”»31,

sarà egli stesso a lanciarsi in questa appasionante requisitoria, mosso dall’ardente convinzione di avere una inderogabile missione intellettuale da svolgere: «...Oggi, la letteratura è nelle mani di noi giovani; dobbiamo andare avanti, sia pure con una sola frase, una sola parola, e dire tutto ciò che possiamo. Il mondo letterario sta vivendo una rivoluzione straordinaria, scosso da forze dirompenti; tutto si muove verso nuove direzioni, e non possiamo rimanere indietro. Dobbiamo essere noi a indirizzare queste tendenze, altrimenti non val la pena di vivere. Ci dicono che la letteratura è inutile, ma questo vale solo per ciò che insegnano all’università. La vera letteratura, la nuova letteratura di noi giovani, è lo specchio della vita e deve influenzare l’attività dell’intera società giapponese. Questo si sta verificando, mentre ancora tutti dormono e sognano. È una cosa sconvolgente»”32.

Meno autonomo dell’amico nei giudizi, Sanshirô sarebbe rimasto a lungo frastornato da tanta vivacità intellettuale, prima di scoprire in sé almeno l’abbozzo della capacità di formulare un giudizio personale, pur scegliendo comunque di rimanere per il momento un puro spettatore degli eventi. * * * Un passo avanti nell’approfondimento della psicologia adolescenziale sarebbe stato mosso da Ôgai, che solo dopo pochi anni si sarebbe ispirato al romanzo di Sôseki. Infatti, con Seinen33 ci pare di poter dire che il tema della socializzazione venga controbilanciato da quello della scoperta e della costituzione della propria individualità. Il personaggio di Ôgai, Koizumi Jun’ichi, appare, fin dalle prime battute, di una personalità apertamente più complessa 31

In NS-MTO, p. 118 In NS-MTO, p. 151. 33 Sul personaggio principale si veda Shigematsu Yasuo ( ), «Chisei to seishun “Seinen” Mori Ôgai ( , ). L’ intelligenza e l’adolescenza “L’ adolescente” Mori Ôgai)», in Kokubungaku ( ), 1980/04, pp. 82-83. L’ abilità con cui l’autore tratta i rimandi ad altre opere giapponesi ed europee, riuscendo a creare un protagonista del romanzo di formazione del tutto originale, è analizzata in Shimizu Takayoshi ( ), Inyô no dorama to shite no “Seinen” ( , Seinen come rappresentazione della citazione), in Hirakawa Sukehiro ( ), Hiraoka Toshio ( ) e Takemori Ten’yû ( ) (a cura di), Ôgai no sakuhin ( , Le opere di Ôgai), Kôza. Mori Ôgai ( , Lezioni - Mori Ôgai), voll. 1-3, vol. 2, Shinyôsha ( ), 1997, pp. 200-234. 32

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del suo antecedente letterario e la propria fiducia nel mondo sembra minata da un latente scetticismo. Potremmo considerarlo con una certa verosimiglianza il riuscito ritratto di un futuro esponente del bundan ( , insieme dei circoli letterari), lontano dagli incarichi più tecnici che la nuova realtà andava richiedendo in Giappone. Iscrivendosi all’Università di Tôkyô ed entrando a far parte di un circolo di potenti conterranei, il ventenne giunto dalla provincia potrebbe avere vita facile, ottenendo senza difficoltà quell’avanzamento sociale agognato da molti suoi contemporanei. Al contrario, il rifiuto di accettare il comodo ruolo di studente e il tentativo di dare spazio senza compromessi alle proprie aspirazioni di scrittore anticipa l’atteggiamento di una parte della giovane intellighenzia della fine dell’era Meiji. In quegli anni, infatti, il miraggio della modernizzazione e dell’occidentalizzazione a tutti i costi avrebbe evidenziato i suoi punti deboli. Allo stesso tempo, nel panorama intellettuale si sarebbe affacciato lo scontento nei confronti dell’establishment, che non riusciva più a mantenere le promesse di un brillante avvenire per i giovani laureati, i quali si confrontavano per la prima volta con il fenomeno della disoccupazione in senso moderno. A ciò si aggiungeva il costante incupirsi dell’orizzonte letterario a causa della pesante censura che si andava diffondendo nel Paese, sempre più proiettato verso l’avventura imperialista, e di cui Ôgai stesso avrebbe finito per fare le spese34. Pur se con reazioni diverse, Jun’ichi, descritto in modo più accattivante del suo omologo Sanshirô anche per la ricercatezza nel vestire che, insieme a uno studiato accento di Tôkyô, non permette di identificarlo come un provinciale appena arrivato in città, viene esposto del pari a una pioggia di spunti intellettuali. Egli deciderà, però, di non affidarsi completamente alla guida di un unico personaggio, come era successo invece a Sanshirô con il professor Hirota, preferendo piuttosto assorbire quanto più possibile dall’intero mondo letterario dell’epoca. La graffiante lucidità dello scrittore Hirata Fuseki, che come abbiamo detto rappresenta senza dubbio Natsume Sôseki, è forse la suggestione che più di tutte lascerà il segno nello sviluppo intellettuale del giovane. Hirata è un uomo pallido, di media altezza, dai vestiti piuttosto lisi e dall’espressione ironica. In una conferenza su Ibsen, alla quale Jun’ichi viene accompagnato, pronuncia una severa critica della modernizzazione culturale del Giappone: «“... Qualunque cosa arrivi in Giappone, non importa cosa, si trasforma in una minuzia. Anche Nietzsche rimpicciolisce. Anche Tolstoi rimpicciolisce. Mi tornano in mente le parole di Nietzsche: “A quel tempo, la Terra si fece piccola”. Poi, gli ultimi 34 A proposito delle vicende che portarono lo scrittore ad una forte frizione con gli organi di controllo del potere costituito si rimanda ai testi di carattere generale precedentemente citati.

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uomini, che rendevano piccola ogni cosa, presero a danzare goffamente su di essa. Soddisfatti, dicevano di aver scoperto la felicità. I giapponesi stanno importando ogni genere di dottrina, ogni genere di ismo e, soddisfatti, li manipolano con noncuranza. E poiché qualsiasi cosa giunga tra le mani di noi giapponesi è destinata a trasformarsi in un gingillo, non ci sarebbe da aver timore neanche se all’origine fosse spaventosa”»35.

Di fronte a tanta libertà mentale, Jun’ichi si troverà in difficoltà proprio come Sanshirô, anche se le sue reazioni saranno meno disarmanti e, tutto sommato, tenterà sempre di mantenere una propria indipendenza di giudizio: “Il tono della conversazione si manteneva di una piattezza uniforme, senza che il modo di parlare volesse suonare minimamente solenne: nonostante ciò, mentre ascoltava, Jun’ichi ebbe la sensazione che la prua della barca su cui si trovava venisse fatta girare a forza e fosse costretta a risalire le rapide alla rovescia. Poi, per un breve lasso di tempo si immerse in una riflessione solitaria. A voler fare un esempio, era come se qualcuno avesse messo sottosopra le cose che per tanto tempo aveva raccolte e conservate in una scatola, dando loro una collocazione precisa. Sarebbe stato difficile rimetterle al loro posto. Ma no, non aveva voglia di farlo. Più che come prima, voleva provare a riordinarle in una maniera qualsiasi. Il punto era che non sapeva come fare. Era ragionevole che fosse così. Quel genere di ordine – era evidente – non era un ordine che si potesse ottenere dalla mattina alla sera. Alle orecchie di Jun’ichi, le parole di Fuseki giungevano come suoni lontanissimi, rumori privi di senso”36.

La traiettoria che, secondo J. Thomas Rimer37, Jun’ichi sembra compiere nel corso della propria maturazione, il cui processo è ritratto peraltro nell’arco di pochi mesi, ha un punto di partenza in una posizione di narcisismo passivo per giungere alla piena consapevolezza di sé. Una volta libero da ogni falsa dipendenza da chi ha intorno, in nome di una agognata autonomia intellettuale, solo allora potrà finalmente dedicarsi alla propria vocazione artistica: in quello stesso istante verrà percepito come un adulto dal mondo esterno e l’intreccio giungerà alla soluzione. Tutto ciò avviene il primo giorno del nuovo anno, chiaro simbolo dell’inizio di una nuova stagione della vita. I possibili rimandi tra Sanshirô e Seinen sono numerosissimi e la critica si è ampiamente prodotta in analisi minuziose degli elementi del calco. L’ impianto narrativo di Sôseki viene rispettato in molti punti, dalla somiglianza di alcune circostanze della storia fino ad abbracciare la scelta dei tipi umani espressi dalle figure dei comprimari, spesso descritti in Seinen con riconoscibili riferimenti 35

In ÔZ pp. 313 e 314. In ÔZ, p. 315. 37 Op. cit. 36

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all’antecedente letterario38. Per certi versi, però, il romanzo di Ôgai è apparso in alcuni passi meglio sviluppato dell’opera di Sôseki. Si pensi, ad esempio, all’espediente narrativo dell’incontro fortuito: se, in Sanshirô, dove è utilizzato piuttosto ingenuamente, esso porta in modo artificioso il giovane protagonista a conoscere vari personaggi, che poi si rivelano connessi tra loro e di importanza fondamentale nella trama, in Seinen esso viene dissimulato con maggior successo, tanto da lasciare al narrato un più forte connotato di verosimiglianza, come nel riuscito episodio ambientato a teatro, in cui Jun’ichi si imbatte per caso nella vedova Sakai Reiko ( ), di cui aveva molto sentito parlare in provincia e che diverrà una figura chiave del romanzo. In ogni caso, uno spunto di analisi che pare non sia stato finora sufficientemente percorso potrebbe essere quello della valutazione di alcuni topos riconoscibili nei due lavori e, insieme, comuni alle loro controparti occidentali, legati al rapporto tra la psicologia dei personaggi e l’ambiente che li circonda. Ad esempio, risulta corrispondente, nelle due opere e in molti romanzi del periodo anche occidentali, il contrasto tra moto e quiete come metafora di quella che potremmo definire l’antitesi tra due unità composte, a loro volta, da tre elementi ciascuna: moto, confusione e immaturità da una parte, e quiete, equilibrio e maturità dall’altra. Così, Sanshirô riuscirà a trovare conforto al disagio procuratogli dall’attività frenetica della metropoli solo nella silenziosa tranquillità degli spazi verdi all’interno del campus dell’università di Tôkyô, quasi a riproporre l’atmosfera del giardino incantato delle fiabe, mentre Jun’ichi si accorgerà che il suo stesso aspetto fisico, paragonato a quello del saggio e pacato amico Ômura Sônosuke ( )39, non può che corrispondere a quello di un essere tentennante e agitato, privo di un valido modello cui ispirarsi. Anche alcuni scrittori occidentali avevano scelto la stessa metafora, e altri, in Giappone e all’estero, l’avrebbero ripresa successivamente. Come ne I turbamenti del giovane Törless (Die Verwirrungen des Zöglings Törless, 1906; trad. it) di Musil (1880-1942) o, più tardi, ne I falsari (Les faux-monnayeurs, 1926; trad. it.) di Gide (1869-1951), lo spazio verde di Sanshirô rimane un

38 Specificamente, sull’influenza di Sôseki su Ôgai, si vedano l’accurato commento ricco di citazioni di Itô Shintarô, op. cit., e quello di Asano Yô ( ), Sanshirô to Seinen ( , Sanshirô e Seinen), in Asano Yô e Serizawa Mitsuoki ( ), Sôseki/Ôgai. Taishô no kokoromi ( , Sôseki-Ôgai. Un tentativo di comparazione), Sôbunsha ( ), 1991 (1988), pp. 123-140. In quest’ ultimo lavoro, si offrono anche interessanti confronti sul patrimonio di esperienze personali degli autori quando scrissero le loro due opere. Per il procedimento letterario del calco, si veda Gérard Genette, Palinsesti. La letteratura al secondo grado (Palimpsestes. La littérature au second degré, 1982), Torino, Einaudi, 1997. 39 Anche dietro questo personaggio, estremamente leale e positivo, si è riconosciuto un intellettuale del tempo, il poeta e scrittore Kinoshita Mokutarô ( , 1885-1945), che, come Ôgai, era anche un medico.

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mitico luogo appartato in cui l’immaginazione può prendere il via o il protagonista può fermarsi a riflettere. La strada urbana viene, invece, percepita come il contrario della purezza rurale e diviene emblema della metropoli, facendo sì che la passeggiata, sia nell’opera di Sôseki, sia nell’opera di Ôgai, divenga il tempo ideale per le conversazioni tra adolescenti, come anche in Tonio Kröger (1903; trad. it.) di Thomas Mann (1875-1955) o ancora in Ritratto dell’artista da giovane (A portrait of the artist as a young man, 1916; trad. it.) di Joyce (18821941). Un ruolo in qualche modo simile a quello del giardino verrà assunto, inoltre, dalla rappresentazione della stanza privata, che per Sanshirô e Jun’ichi è il luogo della riflessione e dell’elaborazione di quanto si è appreso “nel mondo”, come sarebbe avvenuto ne Il piccolo Piero (Le petit Pierre, 1918; trad. it.) di Anatole France (1844-1924) o come era stato per Delitto e castigo (1866; trad. it.) di Dostoevskij (1821-1881). A questo riguardo è tuttavia possibile segnalare una sottile differenza nell’accezione comune dello spazio privato: per gli psicologi occidentali a partire dalla svolta del secolo, la stanza assumerà, infatti, valenze contrastanti legate al valore positivo o negativo che vorranno dare alla privacy, come istigatrice della propensione adolescenziale alla solitudine, luogo di moratoria dall’aggressione del mondo esterno o addirittura luogo ideale per la masturbazione, mentre per gli scrittori giapponesi d’ inizio secolo essa sarebbe rimasta, nella maggior parte dei casi, niente altro che il luogo delle riflessioni dei personaggi, anche adulti40. * * * Entrambe le tipologie di adolescente finora esaminate presentano, pur con sfumature diverse, un atteggiamento tutto sommato positivo nei confronti della vita. Ben diverso è invece quel gruppo di giovani, di fatto “persone superflue’’ nell’accezione che Turgenev (1818-1883) volle rappresentare nelle sue opere, individui incapaci di azioni o persino di nutrire semplici sogni riguardo al proprio futuro, il cui primo esponente di rilievo in Giappone è Utsumi Bunzô

40 La letteratura giapponese più recente avrebbe percorso nuove vie nella rappresentazione della privacy adolescenziale. Si pensi, tra gli altri, al giovane protagonista di Sebuntîn ( , Seventeen) e del suo controverso seguito Seiji shônen shisu ( , Morte di un giovane militante), pubblicati rispettivamente sui numeri di gennaio e febbraio del 1961 della rivista Bungakukai ( , pp. 8-37 e 8-47) e apparsi in italiano nella traduzione di Michela Morresi (ne Il figlio dell’Imperatore, Venezia, Marsilio, 1997), dello scrittore Ôe Kenzaburô ( , n. 1935): qui, la stanza dell’adolescente si fa teatro dei suoi deliri politici e sessuali, consumati in una triste solitudine. Anni prima, nel 1949, anche Mishima Yukio ( , 1925-1970), che avrebbe lasciato una ricca galleria di ritratti di adolescenti nelle sue opere, in Kamen no kokuhaku ( , Confessioni di una maschera; trad.it.), aveva scelto la stanza del protagonista come luogo della scoperta da parte di quest’ultimo delle proprie pulsioni omosessuali e dell’autoerotismo di fronte alla riproduzione, in un libro d’ arte, del San Sebastiano di Guido Reni. In Mishima Yukio zenshû ( , Raccolta delle opere di Mishima Yukio), Shinchôsha ( ), 1974, vol. 3, pp. 161-352.

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( ), il protagonista di Ukigumo ( , 1886-89)41 di Futabatei Shimei ( , 1864-1909), unanimamente riconosciuto dalla critica come il primo romanzo moderno del Giappone42. Bunzô e gli altri giovani protagonisti che con lui condividono tale malessere, spesso accompagnato da una schiacciante sensazione di incapacità a riconoscersi nei valori del mondo che li circonda, sono appena più anziani dei personaggi che abbiamo finora descritto e hanno da poco abbandonato la condizione in qualche modo privilegiata di studente, pur non avendo ancora acquisito un ruolo ben definito nella società. Sono raffigurati, dunque, nel momento finale dell’adolescenza, acutamente consapevoli di un futuro che non può più attendere e in parte ancora impreparati all’ingresso nel mondo degli adulti. Per loro, gli ideali, quand’ anche frustrati, si scontreranno in modo doloroso con una realtà spesso non rosea dal punto di vista affettivo ed economico, e talvolta intellettualmente angusta. Suganuma Kenji ( ), il ventisettenne protagonista di Izuko e, parve incarnare perfettamente, agli occhi dei contemporanei, tali sentimenti: in un periodo in cui la delusione giovanile prendeva a palesarsi, la rivista letteraria Waseda bungaku ( ) scelse il romanzo di Hakuchô, insieme a Haru ( , Primavera) di Shimazaki Tôson ( , 1872-1943), come le due migliori storie del 190843. 41 Il protagonista, ospite a Tôkyô di una zia travolta dall’arrivismo di quegli anni, viene licenziato per contrasti sul lavoro. Timido, pudico, moralmente ineccepibile, risulta uno sconfitto agli occhi degli arrampicatori sociali che lo circondano, schiacciato dal suo continuo non sapere che dire o che fare nelle diverse situazioni. Dell’opera esiste una traduzione parziale ad opera di Marley G. Ryan (Ed.), in Japan’s First Modern Novel. Ukigumo of Futabatei Shimei, Ann Arbor, The University of Michigan Press, 1990 (1967). 42 In Hiraoka Toshio ( ), Meiji yonjû nendai bungaku ni okeru seinenzô ( , Il gruppo degli adolescenti nella letteratura degli anni Quaranta del periodo Meiji), in Nihon kindai bungakushi kenkyû ( , Ricerche sulla storia della letteratura giapponese moderna), Yûseidô ( ), 1974 (1970), pp. 187-219. 43 In quell’anno erano stati pubblicati anche Sanshirô e numerosi altri romanzi che non possono essere certo definiti, oggi, di minor valore letterario. In effetti, Waseda bungaku aveva presentato il romanzo in prima assoluta nel numero di gennaio, interamente dedicato a problemi critici legati allo shizenshugi: l’opera di Hakuchô e Ippeisotsu ( Un soldato; consultabile in Teihon Katai zenshû ( , Raccolta autorizzata delle opere di Katai), voll. 1-25, Kyôto ( ), Rinsen shobô ( ), 1993-1995, vol. 1, pp. 608-631; trad. it. di Atsuko Ricca Suga in Narratori giapponesi moderni, voll. 1-2, Milano, Bompiani, 1986, vol. 1, pp. 151-170) di Tayama Katai ( , 18711930) seguivano interventi critici di intellettuali famosi come esemplificazione di un autentico stile naturalistico. Ciò ha fatto pensare che la scelta fosse stata influenzata da una sorta di spirito di gruppo tra appartenenti allo stesso circolo intellettuale. Tale ipotesi viene respinta da una parte degli studiosi, che ritiene lo scrittore uno specchio fedele dello spirito del tempo e, conseguentemente, l’opera che venne scelta come un documento del comune sentire di quegli anni: su questa linea critica si situano il lavoro di Uriu Sei ( ), «Izuko e ron. Hakuchô to jidai seishin ( , Saggio su Izuko e. Hakuchô e lo spirito dei tempi)», in Kitakyûshû daigaku bungakubu kiyô ( ), n. 27, 1981, pp. 33-47, e anche i due articoli di Suguro Susumu ( ), Izuko e ron ( , Saggio su Izuko e) e Hosetsu. Izuko e to Nihon teki seikimatsu e no jichû ( , Critica supplementare. Izuko e e annotazioni personali sulla fine del secolo giapponese), in Masamune Hakuchô. Meiji seikimatsu no seishun

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Il giovane Kenji, dopo una carriera scolastica poco brillante, terminata con un diploma in letteratura inglese che tuttavia gli ha permesso di trovare lavoro come insegnante, sceglie di licenziarsi per svolgere una precaria attività di giornalista, che non sembra consentire un eccessivo ottimismo riguardo al futuro. La vocazione letteraria che aveva creduto di possedere è ormai inaridita, senza che la sua amicizia con il professor Katsurada, un intellettuale quarantenne, possa essergli di stimolo alcuno. Il crescente incupirsi del suo umore fa sì che il giovane si costruisca una sorta di maschera destinata a rappresentare l’energia e la spensieratezza che aveva posseduto negli anni passati e che ormai non gli appartengono più: accomunato a Hakuchô da una salute cagionevole e dalla personalità particolarmente complessa44, Kenji appare votato all’autodistruzione per mezzo di una vita dissoluta che tuttavia ha cessato di gratificarlo, provando un sottile piacere nel constatare la sofferenza e il disagio che il suo comportamento provoca in chi lo circonda. In questo senso, l’opera potrebbe corrispondere alla tipologia del Plot di disillusione illustrato dal Friedman. Rispetto a tali atteggiamenti la critica si è variamente pronunciata, riconoscendo di volta in volta in Kenji un misto, tra gli altri, del Pechorin di Un eroe del nostro tempo (1840; trad. it.) di Lermontov (1814-1841) e dei protagonisti di Padri e Figli (1862; trad. it.) e di Rudin (1856) di Turgenev (1818-1883). In realtà, condividiamo le proposte di quel filone critico che ha voluto interpretare i riferimenti agli scrittori russi del diciannovesimo secolo, peraltro ammessi dall’autore stesso, come un attingere spontaneo a quello che fu patrimonio culturale comune a Hakuchô e agli altri intellettuali del tempo, forse rafforzato da una sorta di empatia verso quelle figure di giovani tormentati, provata da uno scrittore che in prima persona non volle mai porre dei limiti alle proprie inclinazioni, anche se socialmente criticabili, al punto di rifiutare il cristianesimo abbracciato con tanto iniziale fervore in nome di una totale libertà individuale. Oltre alla vistosa diversità nell’attitudine psicologica di Kenji rispetto a quella di Sanshirô e Jun’ ichi, un ulteriore elemento di differenziazione caratterizza il lavoro di Hakuchô ed è l’apparizione, tra i principali personaggi che compaiono nel racconto, del padre, della madre e delle due sorelle minori ( , Masamune Hakuchô. L’ adolescenza della fine del secolo Meiji), Yûbun shoin ( ), 1998, pp. 45-62 e pp. 63-70. In lingue occidentali, l’opera che ancora oggi contiene il maggior numero di riferimenti bibliografici sulla vita e le opere di Masamune Hakuchô, e specificamente anche molte notizie su Izuko e, è quella, non più recentissima, di Robert Rolf, Masamune Hakuchô, Twayne’s World Authors Series n. 533, Boston, Twayne Publishers, 1979. Come si noterà dalla bibliografia di volta in volta riportata nelle note, la critica ha riservato ben più attenzione all’opera di Sôseki e Ôgai di quanta non ne abbia rivolta agli scritti di Hakuchô, che pure fu un intellettuale estremamente prolifico. 44 A questo proposito si veda Chiishi Eisei ( ), Kaisetsu. Kodoku jigoku to bunshin ( , Postfazione. L’ inferno della solitudine e il doppio letterario), in Masamune Hakuchô ( ), Izuko e - Irie no hotori ( , Izuko e. La riva della baia), Kôdansha bungei bunko ( ), 1998, pp. 292-306.

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del protagonista45. Infatti, se in Sanshirô e in Seinen l’esistenza delle famiglie Ogawa e Koizumi era testimoniata in modo piuttosto indiretto dalle lettere e dal denaro che arrivavano dal paese natale, qui non solo esiste un nucleo famigliare ben delineato, ma esso interagisce quotidianamente con le scelte e la vita di Kenji, sebbene egli tenti di evitare il più possibile un confronto con esso. Se, dunque, per certi aspetti egli è di gran lunga più esperto della vita dei due adolescenti di cui si è già detto, risulta paradossalmente ben più dipendente dai vincoli parentali. Le componenti femminili della famiglia risultano in qualche modo opprimenti: da una parte, la madre è ossessionata dal timore che il gracile Kenji possa contrarre una qualche malattia che gli impedisca di ricoprire prima o poi il ruolo di capofamiglia, dall’altra le sorelle non amano l’indulgenza che il padre riserva al fratello maggiore. Il padre, invece, rappresenta una gradevole figura di adulto devoto al ricordo dell’importante passato familiare46, indulgente e affettuoso: nonostante non sia più in età di farlo e di salute cagionevole, continua a lavorare costrettovi dall’atteggiamento irresponsabile del giovane, ma non perderà occasione per tentare di parlare da uomo a uomo con il figlio. Proprio chiamato in causa da una delle ragazze, avrà per Kenji parole di comprensione, forse velate da una certa misoginia che l’autore non prova neppure a mascherare: «“Statevene zitte e osservatelo. Voi non capite. Io capisco molto bene il carattere di Kenji, sono certo che ora farà qualcosa di buono. L’ animo di un uomo, le donne non lo possono capire. Kenji non è il tipo che si mette a fare l’intellettuale alla moda o che, perché si è laureato, si accontenta di comprare per voi sorelle degli ornamenti per capelli”»47.

Il figlio, però, non gli concederà alcuna possibilità di dialogo. Gli amici di Kenji non avranno miglior fortuna nel tentare di farlo ragionare: non riusciranno mai, infatti, a entrare completamente nel mondo solipsistico del protagonista, che più che reagire al suo disagio ama perdersi in fantasie cervellotiche e infantili, come quella di morire da soldato o impiccato come

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Si veda, tra gli altri, Fukuda Kiyoto ( ) e Sasaki Tôru ( ), Masamune Hakuchô. Hito to sakuhin ( ), Shimizu shoin ( , 1966, pp. 96-103. 46 Mancava, negli altri due romanzi che abbiamo finora analizzato, un preciso riferimento a quel cambiamento nel sistema sociale che pure si era verificato in un passato tutt’ altro che remoto. Qui, nel secondo capitolo leggiamo: «La famiglia Suganuma era di scarse risorse economiche ma discendeva da un hatamoto. Quando aveva quattordici o quindici anni, il padre di Kenji, coinvolto negli alti e bassi delle riforme del periodo Meiji, aveva sopportato qualche difficoltà. Anche dopo di allora non aveva avuto una vita facile: alla fine aveva lavorato in ognuno degli uffici postali di Shikoku e del Kyûshû per due o tre anni, mentre ora, con una certa carriera alle spalle, era impiegato della Corte dei Conti,…», in MHS, p. 14. 47 In MHS, p. 28.

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brigante. Un episodio per tutti a dimostrare l’incapacità del giovane di accettare un richiamo alla realtà dei fatti è quello che lo vede impegnato in uno scambio di idee con la moglie del professor Katsurada, l’unica donna da cui Kenji sembra essere attratto. Quando la signora mostrerà di condividere le preoccupazioni della madre sul futuro del giovane, reagirà con un fare infantile: «“...Da questa mattina, come se non bastasse, non ho sentito altro che rimproveri, prima da mia madre e dal professore, e ora anche da lei: è deprimente. È ora che ti sposi, sistemati, studia. Ne ho abbastanza di questi discorsi. Quindi, me ne andrò in una stanza a pensione e mi farò vedere ben poco anche qui”, disse Kenji alzandosi in piedi, e prese ad andare avanti e indietro per la stanza con il pacco avvolto nel furoshiki così come era venuto. “Dici che non verrai più qui: hai forse trovato qualcosa di meglio da fare?”. “Non è questo. È che ormai gli amici che ho avuto fino ad oggi e le persone che frequento da tanto tempo mi hanno annoiato. Se d’ ora in avanti non mi dedicherò a qualcosa di nuovo, finirò per marcire”»48.

Kenji, in sostanza, non è affatto vittima di un ambiente ostile: si trova in una condizione voluta solo da se stesso. Cerca una propria ragion d’ essere in un conflitto artificiosamente costruito con il mondo che lo circonda: un tale atteggiamento lermontoviano da eroe incompreso che non fa nulla per mutare la propria condizione finirà per scadere in una posa autocompiacente, facendo perdere al personaggio quell’autenticità che poteva presentare all’inizio della narrazione. Kenji sembra voler essere dissoluto a tutti i costi, senza offrirsi alcuna possibilità di redenzione. Anzi, quella che gli viene offerta dagli esempi di vita di chi lo circonda può solo disgustarlo: «“– Beati gli amati e coloro che amano –: siano santi o poeti, non smettono di ripetere questo assunto arbitrario. È assolutamente inapplicabile a me: più sono amato, più mi sento sconsolato e svuotato di ogni forza e vengo sopraffatto dalla solitudine. Quando mi accadesse di essere detestato e assalito da ogni parte, allora sarebbe interessante lottare, ma a cosa serve una vita inanimata, tra carezze e vezzeggiamenti? – Beati i perseguitati –: queste sono le parole adatte a un tipo come me. Vorrei un’ esistenza che si riempisse di vita anche a costo di patire tormenti, anche se mi facessero piangere, anche se dovessi crollare sotto le ferite infertemi”. Mentre Kenji pensava queste cose, con una malinconia da non riuscire neanche ad alzarsi, l’effetto del sake era svanito e il vento della notte si era fatto più fresco. Completamente solo, egli si percepì con compassione incapace di inebriarsi di una dottrina o una lettura, incapace di inebriarsi di alcohol, incapace di inebriarsi di una donna, e incapace di inebriarsi persino del proprio talento49». 48 49

In MHS, p. 23. In MHS, p. 26.

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Il riferimento al Sermone della Montagna (Matteo, 5) appare evidente, a testimoniare la profonda conoscenza delle Scritture che Hakuchô aveva sviluppato nel periodo dei suoi studi cristiani e della sua conversione50, e la citazione appare inserita in una originale rilettura ispirata a un atteggiamento tipico del Weltschmerz europeo. Il suo eroe sembra più interessato alla propria sete di risposte interiori, che a un reale inserimento nella società, forse troppo consapevole di sé per accettare il confronto con una opaca quotidianità. Vorrebbe andare via, ma dove? Hakuchô non offre una soluzione, anche se il finale aperto del romanzo sembra lasciare in extremis una qualche possibilità evolutiva alla psicologia del personaggio.

4. L’AMORE,

IL FUTURO

Le tematiche di maggior interesse che permettano di condurre un’ analisi comparata di Sanshirô, Seinen e Izuko e sono, a nostro avviso, il riflesso di due momenti fondamentali nella vita di un adolescente: il confronto con il mondo femminile, e l’interrogarsi sulle proprie capacità e sul proprio futuro. In questo senso, ci sembra di poter dire che, rispetto alla sensibilità dei tre protagonisti che vi sono ritratti, Seinen rappresenti un punto di raccordo, da una parte, tra la disarmante innocenza di Sanshirô e la spregiudicata considerazione dell’altro sesso pretesa da Kenji, e dall’altra tra la mancanza di un autentico interrogarsi esistenziale del primo rispetto al doloroso e autocompassionevole nichilismo del secondo. In effetti, nel rapportarsi all’universo femminile, rappresentato in diverse sfumature dalle varie figure di donna che compaiono nella storia, ancora una volta Sanshirô è il più ingenuo dei tre protagonisti. Dalla meticolosa cura che porrà nell’evitare qualsiasi contatto con una donna con cui si trova a dormire in una locanda – episodio che verrà ripreso in Seinen quando Jun’ichi, a Hakone per incontrare la vedova Sakai, non troverà che una sistemazione di fortuna –, fino alla seppur vaga dichiarazione che, solo dopo molte esitazioni, riuscirà a rivolgere alla bella Mineko, non approfondirà più di tanto la conoscenza del mondo delle donne. Le sue cognizioni sull’altro sesso, a parte le prerogative tradizionali di cui la madre incarna il rassicurante esempio, sono largamente basate su riferimenti intellettuali. Ma anche il più spregiudicato Yojirô e il cinico professor Hirota, in 50 Sulle profonde contraddizioni che hanno segnato la vita cristiana di Masamune Hakuchô si è scritto molto, e si rimanda alle opere citate per le notizie generali sull’autore. Egli, però, non fu il solo scrittore giapponese a vivere la difficoltà di una conciliazione tra la propria cultura e i dettami della nuova religione. A questo proposito si veda, tra gli altri, Kubota Gyôichi ( ), Nihon no sakka to kirisutokyô ( , Gli scrittori giapponesi e il cristianesimo), Chômonsha ( ), 1992.

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fondo, per comprendere l’animo femminile delle giovani del tempo non sapranno far altro che ricorrere alla letteratura. Un episodio è particolarmente significativo per evidenziare quello che deve essere stato un atteggiamento comune da parte di una intellighenzia maschile che cominciava a confrontarsi con un mondo femminile profondamente diverso da quello cui si era abituati, i cui nuovi valori e i nuovi schemi comportamentali, assorbiti dalla cultura occidentale, venivano forse più imitati o sperimentati, che pienamente condivisi dalle donne stesse. Dopo aver conversato con Hirota, che aveva definito Mineko bella e aggressiva, di una aggressività probabilmente data da un qualche conflitto interiore, Sanshirô e Yojirô continuano a parlare tra loro della ragazza. Sanshirô chiede spiegazioni: «“Cosa c’è in lei di aggressivo?”. “Non possa dire con esattezza cosa c’è o non c’è. Del resto, tutte le donne di oggi sono così. Non è la sola”. “Hai detto che assomiglia a un personaggio di Ibsen, sì o no?” “Sì, l’ho detto”. “A quale personaggio somiglia?” “Oddio... Assomiglia e basta”. Sanshirô non riusciva a capacitarsi, ma rinunciò a fare altre domande. Proseguirono in silenzio per un certo tratto, poi Yojirô all’improvviso disse: “Mineko non è l’unica che somigli a un’eroina di Ibsen. Tutte le ragazze d’ oggi sono così, e non solo le donne. Anche gli uomini che hanno potuto respirare l’aria dei nuovi tempi, hanno in sé qualcosa di Ibsen. Solo che nessuno di loro agisce in nome della libertà come i personaggi ibseniani. Sono influenzati nel loro intimo”. “Io non ne sono influenzato”. “Perché inganni te stesso. Ascolta: non può esistere una società senza difetti, sei d’ accordo?”. “Credo di sì”. “E allora, tutti coloro che vivono in essa ne sono in certa misura insoddisfatti. I personaggi di Ibsen avvertono con maggior chiarezza i difetti del sistema moderno, ma anche noi stiamo poco alla volta diventando come loro”. “Ne sei convinto?”. “Non solo io. La pensano così tutti quelli che hanno un po’ di discernimento”. “Anche il professore?”. “Il professore? Non lo so”. “Eppure poco fa non ha detto a proposito di Mineko, che è tranquilla e aggressiva? Forse intendeva proprio questo: fintanto che riesce a accettare l’ambiente che la circonda è tranquilla, ma poiché c’è qualcosa che non la soddisfa, sotto sotto è anche aggressiva”51». 51

In NS-MTO, pp. 158-159.

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Come vedremo più avanti, anche in Seinen l’espressione più completa dell’animo della donna moderna verrà riconosciuta nelle caratteristiche psicologiche delle eroine di Ibsen (1828-1906), un autore che riscosse un grande successo al suo primo apparire in Giappone: basti dire che per la prima rappresentazione teatrale ad opera di professionisti di una pièce moderna, che sarebbe avvenuta a Tôkyô nel 1909, circa un anno dopo l’uscita di Sanshirô, sarebbe stata scelta John Gabriel Borkman (1896), della cui traduzione si era occupato Ôgai stesso. Rispetto ai nuovi valori che sembravano confondere il maschio giapponese del tempo, il pittore Haraguchi ( ) offrirà la summa di varie considerazioni apparse qua e là nel romanzo: «… Guarda il professor Hirota, Nonomiya, Satomi Kyôsuke e guarda me: tutti scapoli. E più le donne diventano forti, più aumentano gli uomini che non si sposano. Come regola sociale, bisognerebbe che le donne acquistassero indipendenza solo quel tanto che basta per non creare scapoli»52.

Nonostante Sanshirô si trovi talvolta a riflettere sulle sensazioni suscitate in lui dall’amicizia con la giovane e vivace Yoshiko ( ) o dalle notizie che la madre gli fa avere dalla provincia sulle premure che ha per lui la convenzionalissima Miwata Omitsu ( ), è l’enigmatica Mineko la donna che più di tutte lo attira, nonostante la sua inafferrabilità sia vissuta dal protagonista come una minaccia alla propria calma interiore. Quando ne farà casualmente la conoscenza, dopo averla vista una prima volta presso lo stagno dell’università, non potrà che rimanere affascinato dal suo sguardo: come la vedova Sakai di Seinen, la giovane ha occhi sensuali e magnetici e mostra una totale padronanza di sé nel trattare con gli uomini. «Qualche giorno prima il professore di estetica, mostrando alcuni quadri di Greuze, aveva spiegato che le donne dei suoi ritratti avevano tutte un’ espressione voluttuosa. Voluttuosa: non c’ era altra parola che potesse descrivere lo sguardo della ragazza del lago in quel momento. Gli comunicava qualcosa, qualcosa di conturbante che faceva diretto appello ai sensi, ma che ne superava le barriere per penetrare fino nell’intimo. Il richiamo del suo sguardo andava al di là di un livello tollerabile di dolcezza e si trasformava in uno stimolo violento, che non era dolce ma penoso. Non c’ era nessuna volgare civetteria in quegli occhi, ma piuttosto una certa crudeltà che suscitava nel prossimo il desiderio di compiacerla. E inoltre la ragazza non assomigliava affatto alle donne di Greuze; i suoi occhi erano molto più sottili, quasi la metà di quelli dei ritratti»53. 52 53

In NS-MTO, p. 254. In NS-MTO, pp. 110-111.

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Il ricorso alla cultura occidentale per descrivere gli aspetti più innovativi dei tempi moderni sarà comune anche ad altri scrittori del periodo: qui, l’aggettivo usato nel testo da Sôseki per esprimere la nuova sensualità che spira da quella figura è un prestito dall’inglese “voluptuous (reso in katakana: )”, così come per descrivere un’ immagine femminile tanto diversa dall’iconografia tradizionale giapponese si serve di una raffinata citazione dell’arte occidentale, assimilandone l’atteggiamento a quello delle donne ritratte da Jean Baptiste Greuze (1725-1805), che non sappiamo quanto fosse popolare tra gli altri intellettuali giapponesi del tempo, ma che sicuramente Sôseki aveva avuto modo di conoscere durante la sua permanenza a Londra (1900-1903), protrattasi in un periodo in cui fu possibile ammirarne le opere più famose in diverse occasioni54, come ad esempio la mostra che si tenne alla Royal Academy tra il gennaio e il marzo del 1902, dal titolo Exhibition of Works by the Old Masters. In ogni caso, dati i presupposti, il giovane Sanshirô manca completamente di quelle risorse che potrebbero affascinare una figura femminile come Mineko: per tutto il corso della storia giocherà nei suoi confronti un ruolo di secondo piano, rincorrendo notizie sulla vita della ragazza attraverso dettagli trapelati da discorsi di altri, nel tentativo di ribellarsi a quel fascino che sente esercitare su di sé e, allo stesso tempo, sognando di essere scelto per potervisi abbandonare. D’ altra parte, i personaggi maschili che compaiono nell’intreccio, nessuno dei quali, in un modo o nell’altro, è stato risparmiato dall’intensa femminilità della giovane, non rimarranno meno sorpresi di Sanshirô nell’apprendere la decisione di Mineko di accettare un matrimonio combinato secondo tradizione. A tutti loro rimarrà il semplice ruolo di spettatori degli eventi, mentre il lettore non può che domandarsi se il gesto della “donna del bosco”55 altro non sia se non una resa agli antichi valori da parte di una condizione femminile ancora impreparata, in fondo, al salto definitivo nella modernità, o il risultato di un colpo di teatro voluto da una donna ormai libera e disposta a tutto pur di non essere imbrigliata in schemi prefissati. Come in Sanshirô, anche in Seinen vari personaggi femminili interagiranno con il giovane protagonista Jun’ ichi, e ancora una volta, più dei due tipi di

54

A tale proposito si veda Haga Tôru ( ), Gurûzufû no musume ( , La donna alla maniera di Greuze), in Kaiga no ryôbun. Kindai nihon hikaku bunkashi kenkyû ( , Il dominio della pittura. Ricerche di storia delle culture comparate nel Giappone moderno), Asahi shinbunsha ( ), 1984, pp. 368-374. Il pittore francese non è l’unico artista occidentale a essere citato nel romanzo, che, come è stato notato dalla critica, appare eccezionalmente ricco di rimandi alla pittura europea. 55 Mori no onna ( ) è il titolo del quadro che la ritrae, dipinto da Haraguchi. La visita alla mostra in cui viene esposto da parte di Sanshirô e degli altri uomini entrati nell’orbita di Mineko chiude il romanzo.

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donna tradizionale rappresentati da Nakazawa Oyuki ( ), la vicina spontanea e innocente, e da Ochara ( ), la sensuale geisha pronta a concedersi per il proprio piacere, ad attirarlo sarà la sofisticata vedova Sakai, anche nei suoi atteggiamenti più duri emblema della donna moderna. Mentre, però, Sanshirô veniva còlto in uno stadio della scoperta dell’altro sesso ancora in gran parte teorico, l’attrazione provata dal giovane Jun’ichi per la vedova è senz’ altro fisica e riconosciuta come tale, anche se nell’immaginario dell’aspirante scrittore si accavalleranno atteggiamenti sentimentali e romantiche riflessioni sull’amore autentico e sulla possibilità di provarlo almeno una volta nella vita. Nel periodo coperto dalla storia, Jun’ichi pare ossessionato dalla scoperta dello svegliarsi della sua sessualità. Nel corso di una conversazione in cui aveva all’improvviso affrontato il tema della castità maschile per cercare di fare chiarezza sul turbinio di sollecitazioni fisiche provate negli ultimi tempi, rispetto alle proprie aspettative sull’amore Jun’ichi confesserà al giovane amico Ômura: «“… Per quanto mi riguarda, non è che non abbia aspettative riguardo all’amore. Tuttavia, non penso che esso possa rappresentare la pienezza della vita umana, quindi non credo che trovare l’amore sia la conquista per eccellenza di un uomo nuovo”»56.

Le opinioni dei due amici sul mondo femminile non saranno meno disarmanti di quelle espresse da Sanshirô e Yojirô, e anche qui ci pare di poter dire che uno dei nodi da sciogliere rimanga essenzialmente la definizione di un rapporto con la donna moderna. Nel tentativo di analizzarlo appare originale, anche se in alcuni punti naive, la ripresa di quanto teorizzato da Otto Weininger (1880-1903). Il controverso filosofo e psicologo austriaco, il cui suicidio aveva suscitato molto clamore in Europa, aveva pubblicato nello stesso anno della sua morte un’ opera di grande risonanza, Sesso e personalità (Geschlecht und Charakter)57, nella quale esponeva una filosofia dei sessi su base metafisica e psicologica, secondo cui quello maschile rappresenta tutto ciò che è positivo e oggettivo, mentre quello femminile corrisponde al negativo e alla soggettività. E se in ogni essere umano sono compresenti entrambi gli elementi maschile e femminile, l’appartenere all’uno o all’altro sesso significa avere in sé una predominanza di esso. La vita umana stessa non sarebbe altro che un ondeggiare tra queste due polarità. Inoltre, in Weininger il giudizio sulla donna, per nulla lusinghiero, giunge al punto di fargli teorizzare l’esistenza di due soli tipi caratteriali, quello della prostituta, asociale ed egoista, e quello della madre, votata alla prosecuzione della specie. Sarà Ômura a illustare tali, pessimistiche 56 57

In ÔZ, p. 356. Ne esiste una traduzione in italiano ad opera di G. Fenoglio del 1912, ripresa poi nel 1922.

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linee di pensiero all’ingenuo Jun’ichi e il giovane, in ansia di fronte a una sorta di perdita delle illusioni, lo incalzerà con le sue domande: «“E allora, cosa pensa della tendenza per cui le donne, essendo indipendenti, stanno prendendo ad occuparsi di varie attività?”. “Considerandole come donne che hanno M>F, sarebbe un bene che, nell’educarle, non se ne impedisse l’ingresso in ogni scuola cui possono accedere gli uomini”. “Capisco. E come viene considerato l’amore? Non ci si potrà accontentare di un amore che abbia come oggetto la donna del tipo materno. E non sarebbe, forse, una depravazione se avesse come oggetto la donna del tipo prostituta?”. “Hai ragione. Ecco perché la teoria di Weininger è il massimo della crudezza per chi, come te, ha delle apettative d’ amore per il futuro. Da parte delle donne, non c’è nulla che possa definirsi amore. La donna prostituta non prova altro che la lussuria, mentre quella materna è mossa dal solo desiderio di procreare. L’ oggetto dell’amore è un miraggio interamente costruito dai maschi. Questo, per Weininger era un discorso estremamente serio, e si potrebbe pensare che il suo suicidio abbia radici proprio lì”. “Capisco”, disse Jun’ichi, che per un po’ rimase senza parole. La vedova Sakai fluttuava nella fantasia del ragazzo come una rappresentante del tipo prostituta. La sensazione di trasformarsi in una preda senza importanza, stretta tra i tentacoli di una insaziabile piovra, si fece di una spiacevolezza quasi insopportabile»58.

Le tappe della prima, dolorosa conoscenza del mondo femminile saranno molteplici e scandiranno quelle della maturazione di Jun’ichi. Il momento di maggiore intensità nella messe di contraddittorie emozioni provate dal giovane per la vedova Sakai, che gioca con i suoi sentimenti da una posizione di evidente superiorità, verrà raggiunto, a nostro avviso, nel Capitolo 15 del romanzo, interamente occupato da uno stralcio del diario del protagonista. In quelle pagine, il giovane si ferma a riflettere sulle sue esperienze e, nel descrivere un sensuale incontro avuto con la donna, la cui influenza su di lui si va facendo sempre più forte, scrive: “All’improvviso, senza nessun motivo e senza nessun seguito… (Una pagina del diario dopo queste parole è strappata). In quel momento vidi il sorriso nei suoi occhi trasformarsi in una risata come se innalzasse un canto di trionfo. Poi, la nostra conversazione priva di senso e distante, che era stata interrotta, riprese. Il mio percepire quella donna una nemica si fece sempre più netto.”59

58 59

In ÔZ, p. 365. In ÔZ, p. 387.

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Non ci è dato sapere cosa sia realmente accaduto in quello spazio di tempo che rimane scoperto per la pagina mancante. Nei giorni seguenti, Jun’ichi decide di seguire la donna in una località termale per le vacanze di fine anno60, ma vi trova la vedova in compagnia di un uomo. La delusione provata è all’origine di una nuova consapevolezza destinata ad imporre una svolta alla sua intera esistenza: slegarsi una volta per sempre dall’influenza della donna verrà riconosciuto come un compito alla portata della propria forza di volontà e ciò sarà finalmente alla base dell’energica determinazione di prendere in mano le redini della propria vita. Prima di concludere questo breve excursus sul mondo sentimentale del protagonista di Seinen, infine, non si può non sottolineare la notevole capacità dimostrata da Ôgai di analizzare con delicatezza i sentimenti di un adolescente rispetto a quell’omosessualità latente che si sviluppa in gruppi ristretti e autoreferenziali, trattata in modi diversi da buona parte dei romanzi del periodo anche occidentali61. L’ accenno a tale tematica, condotto senza alcun torbido compiacimento, viene affidato, forse non a caso, proprio all’ottimo Ômura, la figura positiva per eccellenza: «Ogni volta che vedeva il volto ridente di Jun’ichi, Ômura pensava quanto fosse bello il suo sguardo. Questa volta, all’improvviso gli attraversò la mente, nello stesso istante, l’amore omosessuale. Nel cuore dell’uomo, pensò, ci sono mondi di tenebre senza fondo. [...] Ômura non credeva di essere omosessuale. Eppure, per un attimo fu consapevole che, anche nel cuore delle persone normali, da qualche parte dovevano esistere in modo latente tali embrioni»62.

Il protagonista di Izuko e nel rapportarsi al mondo femminile sembra essersi spinto molto più avanti di Sanshirô e Jun’ichi. In effetti, Kenji, che nella sua posa di cinico sembrerebbe non aver mai attraversato una fase di innamoramento adolescenziale, ha da tempo scoperto il piacere fisico: l’incipit di Hakuchô ce lo presenta proprio di ritorno da una delle sue impegnative serate trascorse tra donne e sake. Inoltre, risiedendo ormai da anni a Tôkyô, è libero dalle ansie di inadeguatezze che avevamo visto affliggere i provinciali appena arrivati nella capitale. Pur conducendo una vita moralmente tutt’ altro che ineccepibile sembra, tuttavia, aver perso interesse anche nel sesso: nessun piacere alla sua portata, per quanto proibito, riesce a distoglierlo dalla noia che prova. 60

Così come il giovane Erhart della pièce di Ibsen, che Ôgai aveva tradotto per la già citata rappresentazione, segue la sua Mrs Wilton. 61 Si veda il già citato Adolescenza fin-de-siècle. 62 In ÔZ, p. 429 e 430.

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«In quel periodo Kenji non faceva che lottare contro il tempo, momento per momento. Bere, passeggiare, fare castelli in aria o anche riposare: tutto era solo per ingannare il tempo che si trovava davanti e al di fuori di questo non c’ era altro significato. Poi, quando erano trascorsi uno o due mesi, guardava indietro e si meravigliava di quanto rapidamente scorressero via insieme agli anni spesi senza concludere nulla. Se stimoli violenti non avessero fatto ribollire il sangue di ogni parte del suo corpo, sarebbe forse imputridito e non tollerava quella situazione in cui il suo giovane corpo si manteneva in vita, divorato giorno dopo giorno dai vermi del tempo. Dando sfogo alla fantasia, immaginò ogni sorta di cose che avrebbero potuto eccitarlo. I narcotici di uso corrente erano privi di efficacia. Per l’alcohol, lo shôchû63 e il whisky o ancor meglio i distillati più forti; per il fumo, l’oppio; per l’amore, scambiarsi svenevolezze con donne come Oyuki della Sakuragi o Otsuru di Oda non gli procurava neppure una minima ebbrezza. Non c’ entravano la giustizia e la rettitudine. Ciò che, portandolo in salvo da quel mondo che non era né carne né pesce, facesse fluire sangue caldo nei suoi muscoli, o lo facesse sciogliere fino alle viscere: ecco l’unico Salvatore per se stesso. [...] Perché negli avvenimenti quotidiani, nell’ambiente che lo circondava, non c’ era una sola cosa che lo rendesse prigioniero di impulsi o tentazioni? Solamente, giorno per giorno i colori del mondo si andavano facendo sbiaditi e il fracasso di migliaia di persone aveva preso a suonare privo di senso come lo stormire di giunchi e di canne. Il suo cuore era forse invecchiato, o piuttosto non era la Terra stessa, indebolita per la vecchiaia, del tutto incapace di nutrire la forza vitale del proprio spirito?»64.

D’altra parte, la posizione che Masamune Hakuchô sembra assumere nei confronti del mondo femminile, come abbiamo già visto, non può certo dirsi di grande apertura, e Kenji ripeterà in più di un passo giudizi ben poco lusinghieri sulla donna: «“Per me, le donne non sono che un pezzo di carne 65 e quindi non ho bisogno di avere un contentino di parole melliflue e di sguardi o di essere inondato d’ amore”»66.

All’amico Minoura ( ), che di fronte a queste affermazioni era rimasto piuttosto sconcertato, Kenji risponde con freddezza, attingendo dal bagaglio delle esperienze personali dell’autore: «“Tuttavia, questo è il mio modo di pensare e non ci si può fare niente, ma d’altra 63

Shôchû: distillato di bassa qualità. In MHS, pp. 29 e 30. 65 L’ espressione utilizzata da Hakuchô è , niku no katamari. 66 In MHS, p. 35. Alla stessa pagina si rimanda per la citazione che segue. 64

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parte che gli esseri umani siano dei parassiti e le donne non siano che pezzi di carne sono i santi a dirlo, fin dall’antichità”».

L’unica figura femminile per la quale è rimasto un qualche interesse da parte del giovane è la moglie del professor Katsurada. La donna viene percepita molto realisticamente da Kenji come un essere deluso dalla vita che ha condotto finora con un marito distante e autosufficiente. Tuttavia, nonostante si sia molto lontani da una qualsiasi forma di idealizzazione o abbellimento sentimentale del personaggio, Kenji sente di condividere con lei un senso di profonda solitudine. Dalla signora Katsurada, inoltre, vengono i consigli più arditi per il futuro di Kenji, come quello di trasferirsi all’estero per cominciare una nuova vita. L’attrazione che i due provano l’uno per l’altra rimane solo suggerita dall’atmosfera generale e da alcuni scambi di battute assai vaghe, in cui la complicità che si è instaurata tra i due è fatta essenzialmente di confidenze sui propri sentimenti più intimi che Kenji trova il bisogno di farle: «“...in altre parole, gli esseri umani sono completamente soli, tra noi e gli altri si apre un profondo crepaccio che non si può attraversare. Minoura o Oda, in ultima analisi, non hanno niente a che fare con me e ci frequentiamo nascondendo l’un l’altro la nostra vera natura”»67.

Hakuchô, però, non fornisce al lettore che appigli contradditori riguardo al futuro sentimentale del giovane. Infatti, se proprio alla fine della storia, dopo l’ennesima delusione provata, sembrerà deciso a rifugiarsi dalla signora Katsurada, non siamo certi che non si tratti, in fondo, di una soluzione di ripiego. In effetti, il romanzo si conclude con l’annuncio da parte dell’amico Oda ( ) di aver deciso di dare in moglie la sorella Otsuru ( ) proprio a quel Minoura che Kenji aveva indicato come un possibile buon partito. La reazione del giovane, però, ben lontano dal provare il sollievo che ci si aspetterebbe da lui, è di stizza, quasi fosse stato costretto a tirarsi indietro, non per convinzione, ma per essere scioccamente rimasto prigioniero del personaggio da egli stesso creato. Di fronte all’ennesima opportunità svanita di formare una famiglia, che gli avrebbe forse permesso di dare un senso all’esistenza che conduce, fallisce il suo tentativo di ostentare noncuranza: «“Ah, sì? Allora, a mia insaputa Minoura ha cominciato a piacerti?», disse, ma dentro di sé pensò: «Diavolo di un Oda, non è che rifilerai tua sorella a Minoura?». Il suo umore si guastò senza una ragione, tracannò due o tre bicchieri di birra e poi, 67

In MHS, p. 23.

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alzatosi all’improvviso, «Torno a casa», disse, e senza che lo potessero trattenere scese dalla veranda. «Che uomo capriccioso!»: per un poco, Oda rimase in piedi sulla soglia, le braccia incrociate. I piedi di Kenji, dopo essere stati incerti sulla direzione da prendere, si diressero verso Sendagi”68.

* * * Le caratteristiche psicologiche espresse nel confrontarsi con l’amore da parte di Sanshirô, Jun’ichi e Kenji verrano riflesse, in modo ancor più nitido e approfondito, nel loro interrogarsi in senso più ampio sul significato della vita che conducono e sulle loro aspettative per il futuro. Rispetto alle difficoltà incontrate dal suo giovane protagonista nel processo di maturazione, Sôseki indulge talvolta a una graffiante ironia nel descriverne le ingenuità, preso com’è da piccoli problemi organizzativi, quali l’inizio rimandato dei corsi e la scelta delle lezioni da seguire. Anche le prime visite alla biblioteca dell’università saranno per Sanshirô oggetto di molte sorprese: «Scoprì con grande meraviglia che tutti i libri erano stati letti almeno una volta da qualche altra persona, perché portavano qua e là dei segni a matita. Provò allora a chiedere un romanzo scritto da una certa Aphra Behn. Gli sembrava impossibile che qualcuno l’avesse già sfogliato, ma anche qui trovò accurate annotazioni scritte a matita. La cosa lo esasperò»69.

Il nodo esplicativo di tanta naïveté nel protagonista è proprio nel suo essere un provinciale al suo primo impatto con la capitale. In effetti, il confronto con l’atmosfera cittadina era stato impegnativo: la folla, il traffico, i cantieri avevano fatto percepire a Sanshirô quanto il mondo in cui era vissuto fino ad allora fosse profondamente diverso da quello della realtà contemporanea. Tutto sommato, però, il giovane era rimasto ben distante dal comprendere fino in fondo la portata di quello che stava accadendo intorno a lui: «Così pensava Sanshirô a Tôkyô, guardando treni e tram, persone vestite di bianco e persone vestite di nero, senza accorgersi dello sforzo intellettuale che veniva compiuto al di là della sua vita di studente. Il pensiero dell’era Meiji ripercorreva nel giro di quarant’anni tutta la strada che la storia dell’Occidente aveva fatto in tre secoli»70.

68

In MHS, p. 40. Sendagi ( In NS-MTO, p. 69. 70 In NS-MTO, p. 45. 69

) è la zona di Tôkyô in cui si trovava la casa dei Katsurada.

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E mentre Sanshirô si dibatte tra parole straniere che non capisce e abitudini nuove importate dall’Occidente, padroneggiare le quali è ormai indispensabile per vivere in società, viene suo malgrado sfiorato da pensieri, peraltro estremamente superficiali, sulla fatica di vivere: «... questa volta fu Yojirô a interpellarlo: “Hai una faccia strana, quella di chi è stanco della vita. Un viso fin de siècle, direi”. Sanshirô rispose di nuovo: “Non è proprio così...”. Non aveva ancora respirato abbastanza l’atmosfera sofisticata che gli avrebbe permesso di essere felice nel sentir pronunciare parole come fin de siècle; e neppure era abituato ad usarle con disinvoltura, come fossero giocattoli. Gli piacque, invece, la frase “stanco della vita”. In effetti, si sentiva stanco e non soltanto perché aveva la diarrea, ma la sua visione della vita umana non era così artefatta da costringerlo a ostentare il suo viso tirato»71.

Se il suo pur vago malessere dipende da un certo mal d’ amore, che tuttavia non gli impedirà di ristabilirsi in tempi brevi, alla fine dell’intreccio non troveremo che degli accenni piuttosto labili relativi all’acquisizione di un maggiore buon senso e disincanto sul mondo che lo circonda. Non sono evidenti, inoltre, quelli che possano essere i progetti futuri del protagonista, che appare semplicemente avviato verso la prosecuzione della sua esperienza universitaria. Il romanzo si conclude con uno scambio di battute tra Yojirô e Sanhirô riguardo al quadro raffigurante Mineko, che il gruppo di amici si è recato ad ammirare: «“Come ti sembra la donna del bosco?”. “Il titolo è brutto”. “Cosa suggerisci?”. Sanshirô non rispose, ma fra sé e sé si limitò a mormorare: “Stray sheep, stray sheep”.72»

Mineko, tempo prima, di fronte alla sua confusione aveva paragonato l’amico a una pecorella smarrita, utilizzando la stessa espressione inglese, in corsivo nella traduzione, che Sanshirô non aveva peraltro afferrato completamente. Ora, alla fine della storia, di fronte al ritratto di lei il giovane, con gli occhi limpidi di una maturità recentemente acquisita, può forse rivendicare un ribaltamento delle posizioni iniziali. Molto diverso è il tipo di problematiche cui si trova a far fronte il protagonista di Seinen che, se da una parte è meno goffo del personaggio di 71 72

In NS-MTO, p. 91. In NS-MTO, p. 306.

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Sôseki, avendo ad esempio appreso a fare un uso di comodo della propria avvenenza, sperimenta, però, l’impotenza di realizzare il sogno di diventare uno scrittore, non per cause esterne – date le sue agiate condizioni economiche e le buone frequentazioni –, ma solo per quella confusione interiore che avevamo già conosciuto e che si ripercuote inesorabilmente nella vita pratica: «Seduto al tavolo cinese tra i mobili che il padrone di casa aveva portato da chissà dove, si accinse ad annotare tutto ciò, ma la testa “che si ritrovava” era completamente vuota e non sapeva cosa scrivere. Anche tra le emozioni che provava da quando era partito per Tôkyô, qualcosa sembrava sopravvivere e qualcosa no, e ciò che sembrava sopravvivere era in disordine, e non c’era luogo dove si potesse afferrare e sviluppare. Pareva tutto così assurdo, che finì per deporre il pennello che per un poco aveva tenuto in mano»73.

Più avanti, l’angoscia sembra prendere il sopravvento e Jun’ichi si abbandona a una scoraggiata incertezza: «Cosa dovrei fare, allora? Vivere. Fare la mia vita. La risposta è facile, mentre non lo è affatto il suo contenuto. Davvero i giapponesi sanno cosa significa vivere? Varcato il cancello delle elementari, fanno del loro meglio per attraversare al più presto l’età della scuola. Pensano che ci sia una vita di fronte a loro. Lasciata la scuola, si trovano un lavoro e cercano di farlo al meglio. E ancora pensano che ci sia una vita di fronte a loro. E poi, la vita di fronte a loro non c’è. Il presente è una singola linea che separa il passato e il futuro. Se la vita non è su questa linea, non è da nessuna parte. Ed io, cosa sto facendo lì?»74

Non è facile, d’ altra parte, per gli adolescenti del tempo di Jun’ichi desumere quale sia il modello verso cui indirizzare la propria crescita interiore. I valori tradizionali appaiono ormai superati, ma come dovrà essere l’uomo giusto per i tempi attuali? Il giovane e l’amico Ômura avvertono la necessità di un nuovo punto di riferimento e tentano di definire le caratteristiche dell’ipotetico individuo che sappia al tempo stesso distruggere il vecchio e costruire il nuovo. Di fronte alle tipologie di adulti che li circondano provano i sentimenti universali di ogni adolescente, in ogni epoca:

73 74

In ÔZ, p. 294. In ÔZ, p. 334.

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«“Chissà perché gli esseri umani, crescendo, scivolano nell’ipocrisia”. “Hai ragione. Non so se sia troppo severo chiamarla ipocrisia, ma non c’ è dubbio che il guscio si fa più duro. Come non c’ è una vita eterna, non c’ è una giovinezza eterna”. […] I due pensavano la vecchiaia e la morte come fenomeni infinitamente remoti. Non gli era ancora mai capitato di tenere tra le mani concretamente un metro con cui misurare la durata della vita di una persona»75.

Lo sguardo limpido di Jun’ichi, che lo aveva fatto apparire come il manifesto dell’idealismo al compaesano Seto Hayato ( ), scapestrato e opportunista come lo Yôjirô di Sôseki, si poserà su diversi tipi umani, permettendogli di trovare, alla soluzione dell’intreccio, la capacità di vivere della propria forza interiore, senza bisogno di una guida esterna per realizzarsi come uomo e come artista: «Non erano passati che due mesi da quando aveva lasciato la provincia per venire a Tôkyô. Tuttavia, le cose che aveva immaginato di realizzare in un certo modo, una volta nella capitale erano completamente svanite come bolle di sapone e non aveva fatto nulla di concreto. Pensare di appoggiarsi agli altri per ciò che non sarebbe riuscito a fare con le proprie forze si era rivelato una vana illusione. Al contrario, dalle persone con cui era venuto in contatto per caso aveva ricevuto molti stimoli. Come un’ ape che succhia da qualsiasi fiore una rugiada diversa, ne aveva fatto tesoro. Nel periodo in cui era andato saltando di fiore in fiore, diversamente da quando era nel suo paese, non aveva fatto alcun maldestro tentativo di creare qualcosa. Ma tutto ciò non era stato, piuttosto, come una medicina? Se ora avesse provato a scrivere, forse sarebbe stato in grado di farlo. […] Quello che Jun’ichi voleva scrivere era leggermente diverso dalla moda del momento. Il soggetto era infatti una leggenda che in provincia gli aveva raccontato la nonna ormai morta. Fino ad oggi, si era riproposto varie volte di scriverla. […] Jun’ichi trovò una soluzione: avrebbe provato a scrivere l’antica leggenda senza tradirne l’atmosfera, usando la lingua moderna e l’analisi minuziosa dei suoi contemporanei76».

Ancora diverso, infine, è il caso del protagonista di Izuko e, che alle sue domande sul senso della vita non riesce a trovare una risposta. Nella schiac-

75

In ÔZ, pp. 425-426.

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ciante incapacità di reagire che lo attanaglia, contempla con freddezza l’esistenza di chi gli è intorno e ha trovato qualcosa cui dedicarsi. Curiosamente, la sua attenzione verrà attratta da un chiassoso gruppo di rappresentanti dell’Esercito della Salvezza77: si fermerà a guardarli nonostante le proteste di Oda, affascinato dall’esaltazione del giovane oratore, per nulla minata dalla scarsa serietà con cui il pubblico lo ascolta. «“E ti pare interessante?”, esclamò Oda con il viso rabbuiato per essere stato costretto ad aspettare parecchio tempo. “Non è interessante? Quel tipo è convinto di trasmettere con la sua bocca la verità del più profondo della Terra. Guarda bene quel viso! È entusiasta come se volesse trasformare tutti loro in altrettante divinità. Senza questo, l’umanità è andata”. “Tu che non apprezzi niente, perché proprio adesso provi ammirazione per quello scemo?”. “In effetti, vorrei entrare nell’Esercito della Salvezza. È certo più interessante che lavorare per una rivista scrivendo cose che non sento solo per attirare i lettori: quel tipo trascorre le sue giornate senza annoiarsi, vive!”. “Ah! Ah! Ah!”, rise Oda senza energia. “Per quanto mi riguarda, i giovani che trascorrono le loro giornate facendo sermoni inutili mi fanno pena”. “Però, che siano inutili o che siano seri non è il vero problema, non trovi? Che importanza può avere quello che uno fa, anche se lo picchiano o lo insultano? Basta che si respiri un’ aria più stimolante”, disse Kenji quasi in un lamento ma, quando alzò gli occhi sul viso assente di Oda, d’un tratto aggiunse frettolosamente: “Bene, salutiamoci qui”, e si incamminò per la discesa di Kudan con un saluto sbrigativo. Così, quando Oda gli intimò: “Ehi, dobbiamo ancora parlare di una cosa!”, era già sparito nella folla»78.

Il cinismo di Kenji, in fondo, sembra lasciare aperto suo malgrado uno spiraglio a un qualsiasi credo cui votarsi. Alla fine dell’opera, il lettore non potrà che contemplare l’abisso del dubbio che si apre di fronte al protagonista. Come aveva detto Kenji, parlando con Oda, il non saper andare lo rende diverso dagli altri: «“Convinti di avere un buon lavoro, vi date stupidamente grandi arie, non è così?

76

In ÔZ, pp. 465-466. Ci è sembrato interessante annotare come l’Esercito della salvezza dovette esercitare un forte impatto sull’immaginario collettivo giapponese, se è vero che accenni su di esso compaiono qua e là nella letteratura del periodo: anche in Sanshirô veniva nominato da Hirota, che per la verità citava i tamburi adoperati nelle sue performance come sinonimo di un qualcosa di sgraziato e privo di vera sostanza, cfr. NS-MTO, p. 278. 78 In MHZ, p. 25. 77

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Ma io, diversamente da te e da Minoura, non riesco ad orientarmi per dove andare: non ci si può fare niente”»79.

Questa volta, insomma, se anche alcune finiture stilistiche appaiono poco convincenti, ci è parso che Hakuchô abbia tentato di considerare le tempeste interiori dell’adolescente non tanto dall’esterno, come in qualche modo era avvenuto con Sôseki e Ôgai, quanto penetrandone l’interiorità e descrivendone i turbamenti con autentica partecipazione. In tale processo egli è forse aiutato da motivi contingenti, avendo scritto dei giovani in un momento della vita più vicino a quella età di quanto non fosse avvenuto per i due maestri, che li avevano descritti da posizioni sociali ben definite e una volta superati i quarant’ anni. Inoltre, lo scetticismo e la passività distruttiva del protagonista, uniti a una certa dose di vittimismo, sembrerebbero farne il precursore di certi atteggiamenti giudicati molto tempo dopo espressione di quella complessa sensazione di disagio tipica della condizione moderna80.

CONCLUSIONI Le opere appena analizzate, per quanto detto ci sono sembrate rappresentare molte delle istanze più significative del romanzo di formazione giapponese a cavallo tra Otto e Novecento. Inoltre, dai rimandi alla letteratura occidentale che abbiamo potuto riconoscere in Sanshirô, Seinen e Izuko e, potremmo dire che esse hanno saputo raccogliere e amalgamare suggestioni appartenute, in Europa, a periodi letterari diversi. La costante di maggior interesse che rimane riconoscibile per tutti e tre i romanzi, infine, ci sembra sia da individuare nel fatto che il processo di formazione viene ostentatamente collocato al di fuori dell’attività lavorativa, sia quando il protagonista è ancora in una fase preparatoria dell’esistenza, sia quando ne rifiuta i limiti in nome di una maggiore libertà intellettuale. D’ altra parte, sembra superato dai personaggi, compreso, almeno in germe, il più arrendevole Sanshirô, il bisogno di aderire fino in fondo al paradigma ideale della socializzazione moderna, riassumibile nella completa interiorizzazione del desiderio di fare ciò che comunque si sarebbe dovuto fare agli occhi del mondo, mentre tutto sommato rimangono tracce di una logica tipica del Bildungsroman più classicamente goethiano, in cui al matrimonio non si contrappone il celibato ma la sciagura sociale. Infatti, se la natura esigente e conscia del proprio valore dei giovani che vi sono ritratti, o al contrario la loro schiacciante consapevolezza 79 80

In MHZ, p. 33. Si veda, tra gli altri, Franco Rella, Miti e figure del moderno, Milano, Feltrinelli, 1993 (1981).

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di non essere in grado di sostenere le responsabilità connesse alla gestione di una famiglia, renderanno inevitabile il tentativo di rimandare il più possibile il matrimonio come passo finale verso l’inquadramento nel mondo degli adulti, tale rifiuto rimarrebbe destinato, nel loro contesto sociale, a portare conseguenze negative. Infine, i personaggi più estrosi, quelli più inclini alle speculazioni astratte, tenderanno ancora ad estraniarsi dal reale rimanendo ai margini della società. Per concludere, dunque, anche in queste opere si evidenzia, in modo più o meno forte e da parte sia del protagonista, sia di alcuni comprimari, il conflitto tra l’ideale dell’autodeterminazione e l’esigenza pur imperiosa della socializzazione: in altre parole, quella che nel romanzo non solo giapponese sarebbe rimasta l’imprescindibile opzione tra individualismo e ‘normalità’. La chiave della personalità moderna sarà da rintracciare precisamente nel continuo riproporsi della forza dell’individuo sullo sfondo della rigida monotonia del quotidiano, per collocarsi nei casi più estremi proprio in una zona ostile a qualsiasi comportamento pubblico. Nell’ambito di questo conflitto, quanto più si arricchirà il mondo interiore del giovane protagonista, tanto più risulterà inaridito quello dell’adulto: la maturità non sarà più intesa come il raggiungimento dell’equilibrio interiore, ma come la perdita di quanto di buono si era posseduto nella giovinezza, e, al massimo, si riuscirà a diventare cinici, mai più saggi. MARIA GIOIA VIENNA

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SUMMARY Youth of the Meiji and Taisho period has been analized in Sanshirô (1908) by Natsume Sôseki (1867-1916), Seinen (1910-11) by Mori Ôgai (1862-1922), and Izukoe (1908) by Masamune Hakuchô (1879-1962) as significant examples of the Japanese ‘Novel of the Formative Years’ (here accepting what has been suggested by remarkable studies about the necessity to find an extended definition of what has been called up until now Bildungsroman). The article presents the depiction of the adolescent by means of what have been identified as two foundamental steps: a general analysis of the personality of the three main characters, as a mirror of the ideals that the authors intended to express in their novels, and a more specific confrontation of their positions toward the two main themes of love and future as a metaphor of the search for a personal identity. It has also been presented a survey of the main works which could give an idea of the intellectual climate in which the three novels have been written, toghether with the expectations – as well as the fears and uncertainties of the society as a whole – which youth was designated to embody. It is worth noting that both the authors and the main characters of the choosen works are males: in fact, only in recent years male and female young Japanese authors started to describe the same frailty and the same introversion, which could possibly lead to a joint analysis of the personality determination process. It seemed therefore appropriate to leave the investigation of the female modern Japanese adolescent Bildung to a separate analysis in the field of Gender Literature.

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NECROLOGIO

RICORDANDO L’OPERA DI WILHELM HALBFASS (1940-2000) Con la tragica morte di Wilhelm Halbfass, occorsa prematuramente il 26 maggio 2000, il mondo degli studi sud-asiatici è stato privato di uno dei suoi più capaci ed acuti protagonisti. Halbfass è stato uno di quegli studiosi in grado di avviare profondi processi di revisione interna alle discipline in cui operano. Grazie alle sue qualità di instancabile ricercatore, tenace lettore e rigoroso esegeta, Halbfass ha messo a punto una cospicua rassegna di volumi e di saggi meritevoli di aver segnato la storia degli studi indologici e comparatistici1. Wilhelm Halbfass nasce in Germania, a Northeim, l’11 maggio del 1940, ed inizia la sua carriera accademica perseguendo gli studi relativi al curriculum di Filosofia – disciplina questa a cui rimarrà saldamente legato –2. Consegue il Ph.D. in Filosofia nel 1966, presso l’Università di Gottinga, difendendo una dissertazione su Cartesio, successivamente pubblicata con il titolo Descartes’ Frage nach der Existenz der Welt. Untersuchungen uber die cartesianische Denkpraxis und Metaphysik (vol. 51 della serie Monographien zur philosophischen Forschung, Meisenheim/Glan, A Hain, 1968). Gli interessi prettamente indologici sono parte ‘secondaria’ (Nebenfach) del primo percorso di studi, anche se in seguito Halbfass conseguirà una serie di specializzazioni (tra cui quella derivatagli dalla frequentazione delle lezioni di E. Frauwallner sulla Nya¯ yamañjarı¯ di Jayanta Bhatta, tenutesi ˙˙ a Vienna nel semestre intensivo 1961-62), che gli permetteranno di ricevere l’abilitazione in Indian Studies, rilasciatagli dall’Università di Amburgo. Dal 1982 fino al giorno della sua scomparsa, Halbfass riveste il ruolo di Professore di Filosofia Indiana presso il dipartimento di Asian and Middle Eastern

1 Si veda in merito la bibliografia contenuta in, E. FRANCO, K. PREISENDANZ (ed.), Beyond Orientalism. The Work of Wilhelm Halbfass and its Impact on Indian and Cross-cultural Studies, Amsterdam Rodopi, 1997, pp. xxv-xxxiv. 2 Halbfass stesso indica la matrice culturale del suo lavoro – riconducendola in particolare «[...] to certain Continental European ways of thinking» –, anche se ciò non ha impedito ai contenuti ed alle riflessioni presentate nella sua opera di investire un ben più vasto orizzonte. Cfr. W. HALBFASS, India and Europe. An Essay in Philosophical Understanding, Delhi Motilal Banarsidass, 1990, p. xii.

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Necrologio

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Studies and South Asia Regional Studies, dell’Università della Pennsylvania, a Philadelphia, dove già insegnava fin dal 1974. Un primo sguardo alla bibliografia di Halbfass permette di comprendere l’orizzonte in cui ha preso corpo la sua ricerca, dispiegatasi quasi come opera di mediazione tra due universi intellettuali. La competenza e la perizia con cui Halbfass ha coltivato questo duplice interesse, hanno dato forma al tono caratteristico del suo procedere, il quale non sarebbe stato possibile senza una compiuta conoscenza ed una matura familiarità delle fonti e dei complessi contesti culturali indiani ed europei. Di questa qualità scientifica parlano con maggiore eloquenza le migliaia di pagine della sua vasta produzione, tra cui rimangono classiche quelle dei suoi India and Europe; Tradition and Reflection; On Being and What there is3. La diffusione in più campi delle feconde e coinvolgenti prospettive suggerite, indicate e tracciate da Halbfass è stata tale da condurre nel 1997 alla pubblicazione di un’opera (di oltre settecento pagine) in cui più di una ventina di importanti specialisti, provenienti da varie parti del mondo, dibattono a proposito dell’impatto del pensiero di Halbfass sulle discipline indologiche, sulla Storia delle Idee e sugli Studi Comparatistici4. A tale proposito, quelle dei curatori del volume non sono affatto parole di circostanza: «Indien und Europa came as an exciting surprise for the scholarly world of Indology, philosophy and religious studies. [...] [T]he book brought together in an innovative way Indological research and philosophical research in the history of ideas. This achievement was due, to a great extent, to Halbfass’ talent for combining philological perspicacity with regard to particulars with a broad philosophical view with regard to the whole. It was immediately clear then, as it is clear now, that the publication of Indien und Europa was a major event in the history of Indology and that the serious study and philosophical appreciation of Indian Philosophy past and present would have to change profoundly»5. Ed è vero che, tra tutta la produzione scientifica di Halbfass, il volume India and Europe. An Essay in Philosophical Understanding si distingue come opus magnum6, il quale, proprio per questo, merita qui un pur

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Cfr. W. HALBFASS, India and Europe, cit.; W. HALBFASS, Tradition and Reflection. Exploration in Indian Thought, Albany State University of New York, 1991; W. HALBFASS, On Being and What there is. Classical Vais´esika and the History of Indian Ontology, Albany State University of New York, ˙ 1992. 4 Cfr. E. FRANCO, K. PREISENDANZ (ed.), Beyond Orientalism, cit. 5 Ibidem, p. viii. 6 L’opera originale in tedesco, intitolata Indien und Europa: Perspektiven ihrer geistigen Begegnung, risale al 1981, tuttavia essa ha raggiunto la notorietà al seguito della pubblicazione della versione ampliata in inglese, nel 1988. Darò ulteriori dettagli di queste edizioni nella nota successiva. Da ora in avanti, ogni riferimento ad India and Europe sarà tratto dalla più recente edizione indiana.

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breve compendio che illustri perlomeno la sua ‘fisicità’, visto che l’entrare nei suoi contenuti in così costretti spazi sarebbe senza dubbio infruttuoso. Preceduto di sette anni dall’edizione originale in tedesco – dal titolo Indien und Europa: Perspektiven ihrer geistigen Begegnung –7, India and Europe è stato pubblicato nel 1988, e poi, in un’edizione solo lievemente rivista, nel 19908. A tutti gli effetti, più che essere una traduzione, la versione inglese si presenta notevolmente accresciuta rispetto a quella tedesca del 1981. In essa vi sono, oltre ad una nuova sezione su Schelling che si inserisce in seno ai venti capitoli dell’originale, quattro nuove porzioni, poste alla fine del precedente testo (nell’edizione del 1988 appaiono come i capitoli 21-24)9. In questi nuovi capitoli Halbfass raccoglie le ricerche e le riflessioni da lui svolte al seguito della pubblicazione di Indien und Europa, le quali investono appieno il dibattito storico-filosofico svoltosi nel precedente quarto di secolo10. Una volta guadagnato siffatto aspetto globale, l’opera prima di Halbfass – che raggiunge ora un totale di ben 622 pagine – presenta un successione di 24 capitoli, ripartiti sotto tre principali aree tematiche11. A partire da India and Europe Halbfass indaga scrupolosamente a riguardo del ruolo che le tradizioni intellettuali indiane hanno avuto nella formazione del pensiero filosofico europeo, dall’antichità classica fino alla prima metà del ‘900; si interroga a proposito della ricezione del pensiero filosofico europeo da parte delle tradizioni intellettuali indiane; getta un attento sguardo alla tensione interna al mondo indiano, ove si snoda un’intensa dialettica tra 7 Cfr. W. HALBFASS, Indien und Europa: Perspektiven ihrer geistigen Begegnung, Basel Schwabe & Co., 1981. 8 La versione del 1990 consta di 24 capitoli, preceduti da 3 prefazioni, rispettivamente quella scritta a Berlino nel 1989 per l’edizione indiana, quella scritta a Tokyo nel 1988 per l’edizione in inglese, ed una porzione di quella scritta in America nel 1980 per l’edizione in tedesco. 9 Essi affrontano e discutono temi che sono stati – e lo sono tutt’ora – assai cruciali per l’incontro tra le due compagini culturali: dalla trattazione delle nozioni di experience, Erfahrung, Erlebnis, anubhava, anubhu¯ ti, sa¯ ksa¯ tka¯ ra (cap. 21); alla digressione sul tema della ‘tolleranza’ (Toleranz), nella sua spe˙ cifica applicazione come ‘tolleranza dottrinaria’ (doktrinäre Toleranz) (cap. 22); dalle indicazioni offerte in merito alla possibilità del costituirsi di un rinnovato ‘metodo’ comparativo (cap. 23); alla disamina attorno alla vexata quaestio della ‘completa europeizzazione della terra e dell’umanità’ (vollständige Europäisierung der Erde und des Menschen) (cap. 24). 10 Tra le tante problematiche di quegli anni, come detto poc’anzi, la questione della ‘europeizzazione della terra’ sarà spesso ripresa, negli anni a seguire, da Halbfass. Cfr. W. Halbfass, La scoperta indiana dell’Europa, in E. FIZZOTTI, F. SQUARCINI (ed.), L’Oriente che non tramonta. Movimenti religiosi di origine orientale in Italia, Roma LAS, 1999, pp. 19-27; W. HALBFASS, Die indische Entdeckung Europas und die «Europäisierung der Erde», in R.A. MALL, D. LOHMAR (ed.), Philosophische Grundlagen der Interkulturalität, Amsterdam Rodopi, 1993, pp. 199-212; W. HALBFASS, Europa, Indien und die Europäisierung der Erde, in K. MICHALSKI (ed.), Europa und die Folgen, Stuttgart Klett-Cotta, 1988, pp. 230-252. Inoltre, dato per scontato il riferimento al sopra citato cap. 24 di India and Europe, si veda, W. HALBFASS, India and Europe, cit. pp. 167-170. 11 La prima è India in the History of European Self-Understanding (dal I al X cap.); la seconda The Indian Tradition and the Presence of Europe (dal XI al XX cap.); la terza Appendices: Illustrations and Reflections (dal XXI al XXIV cap.).

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l’auto-comprensione moderna e quella tradizionale. Ma nel così fare non stabilisce un primato tra potenziali interlocutori, bensì crea le condizioni affinché un nuovo e più accorto dialogo trovi un inusitato inizio. Infatti, in tutta la sua opera Halbfass ha conferito una primaria importanza al problema della ‘comprensione’. Un tema ermeneutico per eccellenza, la cui predominanza in Halbfass si evince fin dalla sottotitolazione di India and Europe, che recita appunto ‘An Essay in Philosophical Understanding’. Halbfass, accogliendo così nel suo procedere teoretico porzioni della lezione gadameriana12, tende a condividere il fatto che «[u]n’ermeneutica adeguata dovrebbe mettere in luce la realtà della storia anche nello stesso comprendere. [...] Il comprendere è, nella sua essenza, un processo che è inserito entro questa storia e ne deve tener conto»13. Per questo i complessi e delicati problemi affrontati in India and Europe travalicano l’ambito squisitamente specialistico e si pongono con grande rilevanza proprio dinnanzi alla ‘storia’ della nostra contemporaneità ‘occidentale’; una contemporaneità in cui si devono fare i conti con le implicazioni etico-filosofiche scaturite da un mondo sempre più ‘inter-connesso’ e sempre più – spesso solo a parole – inter-culturale. Così, restando volutamente distante da posizioni ideologiche e da giudizi facili o capziosi, Halbfass rimane convinto che ancora non si siano presentate valide alternative metodologico-teoriche «[...] to the quite and patient pursuit of understanding (‘dialogic understanding’ [...]), which is never uncritical, but cannot be iconoclastic either»14. Proposito non facile questo, ma proprio grazie al quale Halbfass ritiene di avvertire meglio le distanze che si interpongono tra osservazione e teoria, tra teoria e giustificazione, e di poter scongiurare i rischi del becoming native: «[u]nderstanding ancient Indian thought cannot mean ‘becoming like the ancient Indians,’ thinking and seeing the world exactly like them. We are not capable of such ‘objectivity,’ and if we were, we would obviously not be ‘like the Indians’. The goal of a radical ‘philosophical epoché,’ an unqualified abstention from one’s own background and presuppositions, is unrealistic and undesirable. We cannot and need not ‘disregard’ ourselves in the process of understanding»15. La prospettiva di cui Halbfass ci rende partecipi diventa quindi ricca e promettente, ma soprattutto lontana da un modo di comprendere le ‘culture’ 12 Penso qui a proposito del principio di ‘coscienza della determinazione storica’ (Wirkungsgeschichtliches Bewusstsein), ossia del comprendere storico che non si deve limitare all’oggetto della sua indagine ma deve indagare anche la situazione in cui si trova ad essere, indagine che rientra essa stessa nel processo di comprensione. Cfr. H.G. GADAMER, Verità e Metodo, Milano Bompiani, 1994, pp. 350-362. 13 H.G. GADAMER, Verità e Metodo, cit., p. 350. 14 W. HALBFASS, Research and Reflection: Responses to my Respondents, in E. FRANCO, K. PREISENDANZ, Introduction and Editorial Essay on Wilhelm Halbfass, in E. FRANCO, K. PREISENDANZ (ed.), Beyond Orientalism, cit., p. 18. 15 W. HALBFASS, India and Europe, cit., p. 164.

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statico, acritico e unidirezionale, totalmente dimentico che «[f]rom the processual perspective, ‘culture’ or ‘civilization’ [...] becomes nothing but an arbitrary moment – a still frame in a film – illegitimately generalized; each of these moments is in fact only an istance of exchange, a point of trans-shipment, a site for reprocessing cultural goods that are always-already other»16. Il contributo che Halbfass ha offerto con la sua ricerca e riflessione non si può tuttavia riassumere o ridurre ad una mera elencazione delle componenti di un ‘metodo’17. Conviene semmai riflettere sui suoi interrogativi più ricorrenti, sulle sue questioni di fondo, sui suoi nuclei problematici. Infatti lontano da intenti compilatori, Halbfass preferisce problematizzare, sviscerare, interrogare, come ben risalta dall’apertura di India and Europe: «[...] This is not a book on the current situation or the most recent developments in the ‘East-West dialogue,’ nor is it a comprehensive history of the mutual relations and influences between India and Europe. Instead, it is an attempt to describe and clarify some of the historical presuppositions of their mutual understanding, specifically in such areas as religion, philosophy and science. It is an attempt to show how Indians and Europeans have viewed each other in these areas of encounter, how they have asserted and questioned themselves, what they have expected from each other, how they have articulated their own identity, and how they have dealt with the otherness of the other. In this sense, the book is an ‘essay in understanding’ – an attempt to clarify and ‘understand’ horizons of self-understanding and perspectives of mutual understanding and, perhaps, to articulate some of the basic problems and ambiguities concerning the global process of ‘Westernization’»18. La doppia lettura che Halbfass annuncia in queste righe è certamente la caratteristica primaria di India and Europe, ma ritorna insistentemente anche nel resto della bibliografia halbfassiana. ‘Interrogare ed interrogarsi’ è un proponimento che si affaccia di continuo ad animarne le pagine, a mutare l’orientamento dei punti di vista da cui si osserva, ad aprire i fronti di una feconda complessità. In Halbfass c’è un costante invito a condurre la ricerca con la consapevolezza che prima – o simultaneamente – di ogni sguardo all’altro da sé, l’individuo si debba interrogare sulla propria identità, sul proprio modo di porsi verso 16 S. POLLOCK, Literary History, Indian History, World History, in «Social Scientist», 23(1995), n. 10-12, p. 136. 17 Halbfass, fin da uno dei suoi primi scritti del 1968, ha cercato di perseguire una nuova e più ermeneuticamente consapevole via ‘comparativa’ (con tutte le specificità semantiche che questo termine ha per Halbfass, come ben illustrato nel cap. 23 di India and Europe); una via che egli andrà man mano raffinando – anche se non mi pare abbia mai inteso giungere ad un ‘metodo comparativo’ canonizzato – rimanendo primariamente interessato al Gespräch e alla Verständnis. Si veda, per il suddetto scritto del ‘68, W. HALBFASS, Indian and Western Philosophy: Preliminary Remarks on a Method of Comparison, in «Journal of the Bihar Research Society», 54(1968), pp. 359-364. 18 W. HALBFASS, India and Europe, cit., p. xi.

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l’alterità, sul ruolo dell’alterità rispetto alla formazione del proprio senso di identità, sul modo che l’alterità ha di vederlo. Un interrogarsi questo che rende maggiormente coscienti della mobilità di certi confini, della relatività di certi assunti, della strumentalità di certi ‘concetti-guardiani’, della possibilità di una reciproca influenza esercitata tra dialoganti, dell’esistenza insomma di un infinito circolo ermeneutico19. Ma un simile modo di porsi non conduce in Halbfass all’immobilità teorica, ad un mero appiattimento dell’uno all’altro, oppure alla creazione di un ‘assolutamente altro’ ritagliato con premura grazie ad una serie di generalizzazioni e astrazioni. Anzi, pare che tutto ciò porti da un verso ad approfondire maggiormente quello che Halbfass chiama il proprio self-understanding e a scoprire i propri fore-meanings, bias, e prejudices20, e dall’altra parte ad allontanarsi sia dal condividere le istanze di un pensiero egemone o di un’imperialismo della ragione21, sia dall’aspro e polemico criticismo rispetto alle discipline intente nel comprendere l’alterità ‘orientale’22. La cautela, l’autocritica e la cura che un simile assetto suggerisce, sono ben indicate dal peculiare procedere ermeneutico di Halbfass, il quale vuole che i suoi testi siano frequentemente intercalati da nutrite serie di domande. Ben lungi da essere un mero accorgimento stilistico, questo ritornare continuo della domanda esprime la profondità della riflessione di Halbfass, evidenziando ancora che «[l]’arte del domandare è l’arte del domandare ancora, ossia l’arte stessa del pensare»23. Infatti, le molte domande presenti in India and Europe causano l’arrestarsi della lettura, impongono al lettore di sospendere la sua at19 Risulta chiara in molte pagine di India and Europe la presenza di alcuni dei temi centrali dell’ermeneutica gadameriana, anche se Halbfass emenda e modifica singoli aspetti di questa prospettiva. Cfr. per esempio, W. HALBFASS, India and Europe cit., pp. 164-168. Sul rapporto Gadamer-Halbfass, si vedano, E. FRANCO, K. PREISENDANZ, Introduction and Editorial Essay on Wilhelm Halbfass, in E. FRANCO, K. PREISENDANZ (ed.), Beyond Orientalism cit., pp. xii-xiii; F. DALLMAYR, Beyond Orientalism: Essays on Cross-Cultural Encounter, Albany State University of New York, 1996, pp. 120-122. 20 Meritano la lettura le intense pagine di India and Europe a proposito dell’utilizzazione dei concetti gadameriani di Vorurteil e di Horizontverschmelzung. Cfr. W. HALBFASS, India and Europe, cit., pp. 164-166. 21 Si vedano i densi paragrafi in cui Halbfass discute a riguardo delle concezioni husserliane ed heideggeriane rispetto al primato greco-occidentale sulla ‘filosofia’. Cfr. W. HALBFASS, India and Europe cit., pp. 167-170. 22 Atteggiamento spesso ricondotto ad E. Said ed al seguito ideologico generatosi dopo la pubblicazione, nel 1978, del suo Orientalism. Western Conceptions of the Orient, Penguin Books, Londra 1995 (rist. con nuovo afterword). La posizione di Halbfass rispetto a questa corrente viene ampiamente esplicitata in W. Halbfass, Research and Reflection: Responses to my Respondents, in E. FRANCO, K. PREISENDANZ, Introduction and Editorial Essay on Wilhelm Halbfass, in E. FRANCO, K. PREISENDANZ (ed.), Beyond Orientalism, cit., pp. 1-25; W. HALBFASS, Tradition and Reflection. Exploration in Indian Thought, Albany SUNY, 1991, pp. 9-13. Inoltre, sul tema, si veda B. ROBBINS, The East is a career: Edward Said and the logics of professionalism, in M. SPRINKER (ed.), Edward Said: A Critical Reader, Oxford Blackwell, 1992, pp. 48-73. 23 H.G. GADAMER, Verità e Metodo, cit., p. 424. Senz’altro Halbfass ha accolto buona parte della riflessione condotta da Gadamer proprio sul ruolo fondamentale della domanda in relazione al ‘compredere’; ruolo esposto principalmente in H.G. Gadamer, Verità e Metodo, cit., pp. 418-437.

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tenzione al testo e di rivolgerla ai contenuti dei quesiti in cui si è appena imbattuto24. Gli interrogativi contenuti nelle domande sono quelli che l’autore ha posto a se stesso e che si muovono alla base della sua ricerca. Si tratta sempre di domande cruciali, talvolta davvero senza risposta, altre volte con implicite soluzioni: tuttavia esse non sono mai gratuite, né tanto meno superflue. Hanno un potere euristico e forzano l’andamento del pensiero verso quei luoghi dove solitamente la riflessione non si reca, i luoghi ‘sicuri’, le sedi delle convinzioni e delle persuasioni, degli assiomi di fondo, delle ‘solide’ specificità. Tutti luoghi questi dove spesso si annidano inconsulti i semi del generalismo di comodo, del culturalismo più radicale, del frettoloso essenzialismo. Per i suddetti motivi l’intera opera di Halbfass, ha «[...] profoundly changed our perception of Indian philosophy: Indian philosophy is no longer something that is immovably fixed in the past or, in its present-day ‘authentic’ appearence, a mere fossilized relic from the past. It is alive and ‘dialogically’ creative; it keeps on changing in dynamic encounters, just as the European tradition does»25. Il dialogo resta così uno degli intenti fondanti del lavoro di Halbfass, il quale si è auspicato – come indica bene la sua scelta di porre ad incipit di India and Europe (fin dalla prima edizione tedesca del 1981) una frase dell’indologo P. Hacker – che «[t]here ought to be a philosophizing which is based on an immediate knowledge of Indian and European sources»26. Halbfass è stato certamente uno dei massimi esponenti degli odierni Crosscultural Studies relativi al continente sud-asiatico, ai quali ha donato un copioso ed impegnativo patrimonio culturale – tra cui si veda la sua ultima ricerca pubblicata nell’aprile 2000 –27, il quale era senza dubbio destinato a crescere ancora, ma che l’evento tragico della sua morte ha inaspettatamente stroncato. FEDERICO SQUARCINI

24 Come esempio di questo procedere, si vedano le nutrite successioni di domande di Halbfass, in W. HALBFASS, India and Europe cit., pp. 2; 10; 116; 132; 143; 161; 163-164; 166; 169; 173; 183-184; 260262; 283; 329; 374-375; 379-380; 386-390; 394-395; 401-402; 419; 422-423; 434; 438-441. 25 E. FRANCO, K. PREISENDANZ, Introduction and Editorial Essay on Wilhelm Halbfass, in E. FRANCO, K. PREISENDANZ (ed.), Beyond Orientalism, cit., p. xv. 26 W. HALBFASS, India and Europe. An Essay in Philosophical Understanding, cit., 1990, p. xv. 27 Cfr. W. HALBFASS, Karma und Wiedergeburt im indischen Denken, Mündieu Diederich’s, 2000. Mi sia permesso di rimandare qui al nuovo volume dedicato ad Halbfass, in cui sono raccolti i saggi di numerosi specialisti, da me curato: F. Squarcini (a cura di), Verso l’India, oltre l’India. Scritti e ricerche sulle tradizioni intellettuali sudasiatiche, Milano Mimesis, 2002.

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RECENSIONI TAKAMITSU MURAOKA - BEZALEL PORTEN, A Grammar of Egyptian Aramaic (Handbuch der Orientalistik, I, 32. Bd.), Leiden - New York - Köln, Brill 1998, XLIX-393 pp. La pubblicazione del volume di A. Cowley, Aramaic Papyri of the Fifth Century B.C. (Oxford 1923), che metteva a disposizione del mondo scientifico la raccolta completa dei papiri aramaici pubblicati fino allora, spinse uno studioso svedese, Pontus Leander, che aveva appena pubblicato con Hans Bauer il primo volume di una Historische Grammatik der hebräischen Sprache (Halle 1922), a redigere una succinta (135 pagine complessive) grammatica dell’aramaico egiziano: Laut- und Formenlehre des ägyptisch-Aramäischen (Göteborg 1928). La trattazione unitaria del materiale aramaico documentato in Egitto era largamente (anche se non completamente) giustificata dal fatto che si trattava di una varietà linguistica notevolmente omogenea che si distingueva da un lato dallo scarso materiale epigrafico aramaico antico e dall’altro dall’aramaico biblico (fatto, quest’ultimo, che ha provocato un lunghissimo ed inutile dibattito, ancora non concluso, tra coloro che credono solo alla Bibbia e quelli che credono anche ai loro occhi). Oggi, parlare di aramaico «egiziano» ha un senso soltanto se ci si riferisce al luogo di ritrovamento dei documenti: gli egiziani, tranne qualche interprete poliglotta, non hanno mai parlato aramaico mentre i testi trovati in Egitto sono stati scritti da comunità arameofone residenti in questo paese ma di origini diverse, per non dire delle lettere arrivate in Egitto ma spedite da fuori. Dal punto di vista linguistico è erroneo trattare unitariamente la lettera di Adone, scritta alla fine del VII sec. a.C. da un re filisteo della Palestina, i testi letterari, le lettere di Arsame, redatte dalla cancelleria persiana probabilmente a Babilonia, il materiale giudaico e le lettere di Hermopoli, le cui peculiarità linguistiche furono rilevate da Edda Bresciani già nell’editio princeps1. Gli autori giustificano implicitamente la necessità della loro grammatica 1

Anche in una recensione non analitica come la presente non si può tacere il singolare compor-

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con la circostanza che il lavoro di Leander non prendeva in esame la sintassi, da loro trattata in più della metà del volume (186 pagine contro le 154 della morfologia); quando tuttavia leggiamo che «a pronoun of the first (and rarely second) person is often used as an expression of the speaker’s ego, personal involvement or self-consciousness» (pp. 157-58), che l’aramaico «is not sensitive to a distinction which is essential and meaningful to English, for instance, between «he did»... «he has done»... and «he will have done» (p.193) o che «a noun phrase or a pronoun, including their equivalents such as a demonstrative pronoun, a substantivised adjective and a numeral can also expand a verb» (p. 260) ci chiediamo se il tipo di sintassi esposta in questo libro sia veramente utile. Opera mediocre e di stampo decisamente conservatore (non so quanti semitisti saranno disposti ad ammettere, ad esempio, che all’inizio del V sec. a.C. l’aramaico conservava ancora i fonemi «protosemitici» t d s´ e la «interdentale» ¯¯ g¯ ), il lavoro di Muraoka e Porten è nato di fatto dal desiderio di costruire una grammatica ad hoc per il corpus raccolto dal Porten: «we believe ... that the corpus represented by Textbook justifies a grammar dedicated to it» (p. XXI). Ora, è universalmente noto con quale altissimo grado di soggettività è stato redatto il Textbook, con letture e interpretazioni strettamente personali; una trattazione grammaticale basata su queste può interessare solo chi accetta l’aramaico d’Egitto secundum Bezalelem. GIOVANNI GARBINI

H. ÇAMBEL, Corpus of Hieroglyphic Luwian Inscriptions. Vol. II. Karatepe Aslantas¸, Walter de Gruyter, Berlin - New York 1999, pp. I-XXIII+1-99, 1 foto, tav. 1-125, 1 pianta fuori testo. Questo volume monumentale costituisce l’editio princeps delle iscrizioni rinvenute a Karatepe in Cilicia, ma viene pubblicato dopo più di cinquanta anni dalla loro scoperta. Negli anni intercorsi, numerosi studi sono stati dedicati ai testi bilingui fenici e geroglifici in lingua luvia e sono stati ottenuti notevoli progressi nella ritamento degli autori riguardo alle lettere di Hermopoli, per le quali essi non solo hanno omesso nella pur ricca ma tendenziosa bibliografia l’editio princeps di queste ma hanno anche eliminato una buona parte dei riferimenti ad esse dall’indice degli argomenti (p. 361): qui sotto il lemma «Hermopolis papyri», compaiono dieci rinvii ( di cui «31n» è errato) mentre nel testo se ne trovano più del doppio.

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costruzione del complesso architettonico (entrambi questi campi di studio sono abbondantemente documentati nell’accurata bibliografia, alle pp. XVIIXXIII). Venti anni fa fu pubblicato lo studio conplessivo delle iscrizioni fenicie di Karatepe, a opera di F. Bron (Recherches sur les inscriptions phéniciennes de Karatepe, Paris 1979), che ha svolto fino a oggi la funzione sostitutiva dell’editio princeps dei testi fenici più lunghi a noi giunti. Questo lavoro prese in considerazione i dati allora noti delle iscrizioni geroglifiche parallele per la comprensione della parte fenicia della bilingue e, per quanto possibile, collocò i testi nel loro contesto archeologico. Per venire allo studio in esame, il primo volume del Corpus of Hieroglyphic Luwian Inscriptions sarà pubblicato prossimamente (un’anticipazione dell’opera di J. D. Hawkins, che svilupperà gli argomenti non trattati in modo esaustivo dal volume su Karatepe – Aslantas¸, essenzialmente per la parte che concerne le iscrizioni geroglifiche, è fornita a p. 6; in numerose occasioni si fa riferimento all’opera in stampa, v. ad esempio p. 10: «Hawkins, Corpus, forthcoming» e passim). La prima parte, introduttiva (pp. 1-13), è suddivisa in due sezioni: nella prima (pp. 1-6) l’autrice descrive brevemente la scoperta, avvenuta grazie alle ricerche da lei condotte insieme a H. T. Bossert nel 1946, gli scavi condotti dalla missione turca dall’anno successivo e la progressiva sistemazione del sito di Karatepe in museo a cielo aperto (pp. 3-5). Una menzione a parte deve essere riservata all’operazione di restauro della statua monumentale della divinità sulla quale è incisa la terza iscrizione fenicia: il restauro fu effettuato nel 1988; le braccia e le spalle furono ritrovate successivamente e aggiunte al tronco nel 1991 (p. 4). La testa, impossibile da ricostruire in modo verosimile con i frammenti recuperati, fu modellata in stile del periodo da Nejat Özatay, scultore e restauratore del Museo Archeologico di Instanbul (p. 20); la statua restaurata è visibile nella foto del frontespizio (tavola fuori testo). Alle pp. 5-6, questa prima sezione elenca le principali pubblicazioni sull’argomento. La seconda sezione (pp. 6-13) consiste in una descrizione tecnica dei blocchi con iscrizioni: il materiale che li costituisce e lo stato di conservazione. Il luogo di provenienza più probabile del materiale basaltico utilizzato per i monumenti di Karatepe è identificato nel vicino sito di Dumuztepe. La provenienza è apparentemente differenziata per la statua della divinità, costituita da un materiale basaltico diverso (pp. 7-8). Nel paragrafo sulla disposizione delle iscrizioni (pp. 8-11), l’autrice affronta il problema di un’interessante ipotesi formulata da I. Winter (On the Problems of Karatepe: The Reliefs and their Context, Anatolian Studies 29, 1979, 115-151, pls. XV-XX), che identificò diversi stili e tradizioni iconografiche nelle sculture e nei rilievi di Karatepe: secondo questa studiosa i monumenti più antichi, datati al IX secolo a.C., provenienti da uno strato di Dumuztepe smantellato, sarebbero stati riutilizzati a Karatepe. In-

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dipendentemente da questa studiosa, con altri argomenti, anche J. Deshayes spiegò l’eterogeneità dei rilievi, precedentemente attribuiti a diverse scuole e tradizioni, con l’ipotesi di un riutilizzo di materiali più antichi (in Revue d’assyriologie et d’archéologie orientale 75, 1981, 32-46; nello stesso numero della rivista, rispettivamente alle pp. 47-53 e 54-60, M. Sznycer e P. Garelli fornirono ulteriori argomenti di carattere filologico in appoggio a questa ipotesi). All’accattivante ipotesi di I. Winter, H. Çambel oppone la mancanza di prove a dimostrazione dell’esistenza di un complesso architettonico del tipo di Karatepe che possa essere stato riutilizzato, del trasporto da un sito all’altro del materiale scolpito presente a Karatepe e dell’inserimento dei vecchi blocchi all’interno dell’allineamento; per quanto riguarda le iscrizioni, H. Çambel conclude che la loro incisione fu effettuata dopo che gli elementi costitutivi il complesso stesso erano stati collocati nel luogo di rinvenimento (pp. 9-10). La discussione completa di questo argomento, che va al di là del contenuto dell’opera in esame, è rinviata al volume del Corpus di Hawkins. Gli scavi nella vicina Dumuztepe furono intrapresi a partire dalla primavera del 1947. I resti di questo sito sono descritti nell’opera in esame alle pp. 94-95, appendice IV: la discussione completa è rinviata al Corpus di Hawkins. Nella seconda sezione si trova una prima presentazione delle iscrizioni (pp. 11-13): in accordo con lo scopo del Corpus, ogni blocco iscritto è presentato in fotografia con una copia giustapposta e un breve testo. Un’attenzione particolare è riservata alla forma dei vari segni che possono fornire argomenti per la datazione e per l’attività delle diverse scuole di scribi e incisori nel sito. La seconda parte dell’opera riguarda specificamente la bilingue e descrive in modo accurato ogni blocco con iscrizioni fenicie (pp. 15-23) e geroglifiche (pp. 24-34). La terza parte concerne le iscrizioni non appartenenti alla bilingue, fenicie e geroglifiche. La loro originaria localizzazione risulta sconosciuta (pp. 35-37). L’ultima parte descrive i frammenti provenienti dalle aree circostanti le due porte, sulle quali sono incise le iscrizioni principali. La maggior parte dei frammenti sono in scrittura geroglifica (pp. 39-48). La traslitterazione, la traduzione e il commento delle iscrizioni fenicie sono l’oggetto della prima appendice, composta da W. Röllig. Sono qui riuniti i testi della bilingue, iscrizione sulla porta settentrionale – Phu/A – e meridionale – Pho/B – (pp. 50-61), della statua - PhSt/C – (pp. 62-68) e di iscrizioni separate – Pho/S.I. – (pp. 68-73). Alle pp. 73-79 si trova una dettagliata descrizione della paleografia delle lettere fenicie, seguita alle pp. 80-81 da una tavola paleografica. Questo accurato lavoro, che completa e sostituisce la parte dedicata alla

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paleografia da F. Bron nella sua opera del 1979, è il frutto di un attento studio sul materiale epigrafico, che W. Röllig svolse anche sul sito, dove si recò due volte su invito di H. Çambel (come si apprende dalla prefazione dell’autrice a p. X e da una nota di Röllig a p. 73). Lo studioso ha preferito non riprendere il commento completo delle iscrizioni fenicie incise sulle due porte e sulla statua, già contenuto nello studio del 1979, ma ha trattato soltanto le parti che richiedevano una spiegazione diversa o aggiuntiva rispetto a quella fornita da Bron. Il commento completo si ha soltanto per le iscrizioni che non fanno parte delle principali. La seconda e terza appendice comprendono: – le tavole di concordanza tra il testo geroglifico e quello fenicio (pp. 8289), composte in base agli studi degli anni ’50 di Bossert, ultimate da F. Steinherr (Münchner Studien zur Sprachwissenschaft 32, 1974, 103-147) e da J. D. Hawkins e A. Morpurgo Davies (Anatolian Studies 28, 1978, 103-119, 3 figs.); – le tavole del testo geroglifico di Hawkins (pp. 90-93). Segue un indice degli argomenti e dei nomi (pp. 97-99). Quasi la metà del volume è costituita da magnifiche fotografie del materiale epigrafico, che hanno purtroppo contribuito ad elevare notevolmente il suo costo, ma che lo rendono anche uno strumento indispensabile per chiunque desideri occuparsi di questi testi. Dopo quattro tavole di carte geografiche della regione e disegni del sito di Karatepe, le tavole da 5 a 51 sono dedicate alle iscrizioni fenicie e le tavole da 52 a 125 alle iscrizioni geroglifiche. L’opera contiene infine un’utile pianta fuori testo che mostra la disposizione delle iscrizioni della porta settentrionale. L’importanza delle iscrizioni di Karatepe fu riconosciuta fin dai primi studi sull’argomento. I testi delle iscrizioni fenicie fornirono un contributo insostituibile alla conoscenza della lingua fenicia e tuttora i miglioramenti nella comprensione del significato delle iscrizioni aggiungono qualche tassello al quadro grammaticale. Il contributo fu e rimane ugualmente determinante per la decifrazione della lingua luvia, in precedenza conosciuta in maniera imperfetta. Nella recensione dell’opera di Bron del 1979, D. Pardee indicò alcuni elementi che l’editio princeps dei materiali di Karatepe avrebbe potuto aggiungere a tale lavoro: migliori fotografie, forse una più completa discussione archeologica e l’interpretazione dei testi da parte di un’altra persona (Journal of Near Eastern Studies, 42, 1983, 63-67, spec. 63). Il volume di H. Çambel ha sicuramente soddisfatto le aspettative sugli elementi aggiuntivi, in particolare le migliori fotografie. Si potrebbe anche dire che è andata oltre i requisiti richiesti. Si tratta di un’opera che riassume mirabilmente tutti i dati disponibili. Il commento di W. Röllig alle iscrizioni fenicie offre buone spiegazioni per

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la maggior parte dei punti controversi, con i chiarimenti di significato ottenuti grazie a lavori successivi allo studio di Bron. Si vuole qui richiamare l’attenzione su uno solo di questi punti, che non sembra aver ancora raggiunto una spiegazione completamente soddisfacente. Si tratta della frase dell’iscrizione sulla porta settentrionale w-ylk zbh l kl h-mskt (A II.19 - III.1), presente con ˙ una variante nel testo parallelo inciso sulla statua: w-zbh ’sˇ y[...]’lm kl h-mskt z z ˙ (C IV.2-4). La spiegazione della frase ha dovuto affrontare una serie di problemi che l’hanno resa la crux interpretum delle iscrizioni fenicie di Karatepe: alla difficoltà di ricostruire la lacuna nel testo sulla statua, solo in parte equivalente a quello in A, si aggiunge le presenza nelle due frasi del vocabolo mskt, che è stato variamente interpretato con risultati poco convincenti (le principali ipotesi sono prese in considerazione da J. Hoftijzer – K. Jongeling, Dictionary of the North–West Semitic Inscriptions, Leiden - New York - Köln 1995, pp. 6645, che preferiscono la traduzione «molten images» adottata dalla maggioranza dei commentatori). Recentemente si è fatto un notevole passo in avanti nella comprensione dei passi citati, soprattutto grazie all’identificazione da parte di A. Morpurgo Davies – J. D. Hawkins (Hethitica 8, 1987, 267-295) del significato del corrispondente geroglifico di mskt: hapari- «river–land». Sulla base di questa scoperta, W. Röllig spiega mskt come un sostantivo femminile plurale di formazione maqtal(t), designante località, derivato dalla radice nsk, da confrontare con nasa¯ ku accadico (p. 60). Per lo studioso, attraverso il confronto con le derivazioni dalla radice accadica di sostantivi come nasi¯ka¯ tu «terre lontane» e simili, sarebbe superata la difficoltà di un sostantivo non attestato altrove in semitico nordoccidentale con significato «(river)–plains» (in I Fenici: ieri - oggi - domani, Roma 1995, 203-214: alle pp. 206-208 di questo articolo, l’autore prende in considerazione le spiegazioni delle frasi in questione e di mskt in particolare, che erano state suggerite negli studi precedenti quello di Hawkins, con i relativi problemi di interpretazione). La sua traduzione della frase sulla porta settentrionale è la seguente: «and may bring a sacrifice to him all (A III.1) the (river–)plains» (p. 53). Il testo sulla statua è parzialmente ricostruito come w-zbh ˙ ’sˇ y[lk X X l-]’lm (1.3) kl h–mskt z (1.4) z e tradotto «And the sacrifice which [... shall] bring for this god (1.3) all the (river–)plains:» (pp. 64-65). Nella n. 3 di p. 64 lo studioso rileva che la frase di 1.3, kl h-mskt z, incisa con lettere più piccole delle linee circostanti, era stata dimenticata dallo scriba e aggiunta dopo l’incisione di 1.4 nello spazio disponibile (come notato da Bron alle pp. 94-5 del lavoro del 1979); z all’inizio di 1.4 è considerato una dittografia dal successivo zbh. ˙ Senza entrare nel merito della spiegazione etimologica di mskt fenicio, che appare passibile di miglioramenti (benché migliore di quella tentata da Hawkins in Hethitica 8, 1987, 272, il quale suppose un errore scribale di mskt per

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msˇqt), si ritiene che la traduzione di Hawkins dell’intera frase nell’iscrizione sulla statua sia preferibile, perché non ricorre alla spiegazione di z all’inizio di 1.4 come una dittografia. Lo studioso ricostruì la frase in C IV.2-4 come w-zbh ˙ ’sˇ y[lk...l-h]-’lm z kl h-mskt z, traducendo «and the sacrifice which all the mskt cause [to come to] this god (is) this ...» (Hethitica 8, 1987, 289-290, n. 15; questa traduzione, a parte l’integrazione della lacuna a 1.2, differisce sostanzialmente da quella di J. C. L Gibson, Textbook of Syrian Semitic Inscriptions. Vol. 3. Phoenician Inscriptions, Oxford 1982, p. 53, per l’interpretazione di h-mskt: «And the sacrifice which [a man shall bring for] all the images of this god is this:»). FIORELLA SCAGLIARINI

HERMAN BEHRENS, Die Ninegalla-Hymne. Die Wohnungnahme Inannas in Nippur in altbabylonischer Zeit (FAOS 21), Herausgegeben von Burkhart Kienast unter Mitwirkung von Horst Steible, Stuttgart, 1998, 164 pp. + XI tavv. Il volume di Behrens – che è in sostanza l’edizione critica di un inno alla dea sumerica Inanna nel suo duplice aspetto celeste e terreno (quello al quale corrisponde la sua ‘ipostasi’ Ninegalla) – rappresenta un nuovo, significativo ‘tassello’ per la ricostruzione del ‘genere’ innografia sumerica, in particolare quella destinata alla celebrazione delle divinità. L’edizione del testo è esemplare sia per la completezza dei dati sia per l’organizzazione della materia. Il volume si apre con un’introduzione (pp. 13-27) sulla figura della dea Ninegalla nella tradizione sumerica e sui problemi generali dell’inno in oggetto; seguono: il testo composito in traslitterazione e traduzione nella pagina a fronte (pp. 28-41); la ricostruzione del testo sulla base delle fonti (pp. 42-45); la presentazione del testo in ‘partitura’, cioè con sinossi di tutte le fonti con le rispettive varianti (pp. 46-61); il commentario, essenzialmente filologico (pp. 62-140); una sintesi sul significato, sulla struttura, sullo scopo, sulla possibile datazione del testo e sulla sua collocazione nel quadro della letteratura sumerica (pp. 141-153); la sezione degli addenda et corrigenda (pp. 155-158); l’indice (pp. 159-164); infine, fuori testo, le tavole (I-XI), divise tra fotografie ed autografie delle tavolette. Del testo originario – che doveva consistere di 217 linee – l’autore ha potuto ricostruire, del tutto o in parte, 196 linee, sulla base di 12 fonti (tra tavolette singole e frammenti), per lo più inedite, tutte provenienti dalla città di Nippur d’età paleo-babilonese.

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Il tema centrale dell’inno è la celebrazione della dea sotto il suo duplice nome (cui corrispondono altrettante ‘manifestazioni’ della sua divinità) di Inanna e di Ninegalla, al momento della fondazione di una sua nuova «sede di culto» (ki-ùr), forse – come almeno ipotizza l’autore – nella città di Nippur. L’enunciazione del tema («Inanna, tu sei la signora di tutti i ME, non v’è dio che ti eguagli; Ninegalla, qui è stata posta una tua sede di culto, voglio cantare la tua maestà!») si ripete per almeno 13 volte, a mo’ di ‘ritornello’, nel corso dell’inno, dividendone il testo in 14 sezioni di diversa estensione. Nella prima sezione, a mo’ di introduzione, vengono posti tutti i temi che saranno sviluppati nel seguito della composizione. Secondo un topos tradizionale della letteratura sumerica, l’identità della divinità resta ancora oscura alla prima linea; il nome della dea, Inanna, apre invece la seconda linea (per il resto in tutto identica alla prima); la terza esordisce invece con l’altro nome della dea, Ninegalla, ponendo così fin dall’inizio il motivo centrale dell’identificazione tra le due divinità (la prima per gli aspetti celesti, la seconda per le manifestazioni terrene). Poiché la dea, come astro del mattino e della sera, è visibile ovunque, tutti i paesi contribuiscono a fondare residenze per lei come se si trattasse del Sole al suo sorgere (l. 7). In effetti, nelle sezioni seguenti (II-VII) sono celebrati i culti e le manifestazioni locali della dea, corrispondenti ad altrettante sedi di culto: l’Egaledinna di Ur (II sezione, ll. 11-19), il suo «luogo di pace» (l. 18); il Gu’enna’ida di Uruk (III sezione, ll. 22-36), luogo deputato all’approvvigionamento (kur6) della dea (l. 36), dove Ninegalla splende «come luce lunare» (l. 54), mentre sotto forma di Inanna sale nel «cuore del cielo» (IV sezione, ll. 39-55); l’Ekununna di Eridu, dove, in occasione del capodanno, si celebra la festa del suo sposo Dumuzi/Ama’usˇumgalanna (V sezione, ll. 58-76); il «trono del silenzio», a Kullaba, dove la dea accoglie prigionieri, malati e deportati (VI sezione, ll. 79-92); il Kurra’igigal, una parte dell’Ekur (tempio principale di Enlil nella città di Nippur), dove la dea, in compagnia dello sposo Dumuzi, svolge l’ufficio del pastore e dove si compiono oscuri riti (VII sezione, ll. 95-106). Le sezioni successive – meno chiare delle precedenti, anche perché in peggiore stato di conservazione – sembrano riferirsi a manifestazioni ‘universali’, non più locali, della dea. Di sera, Inanna assume tre forme diverse di femminilità: di una povera donna con un solo vestito, di una ‘prostituta’ che adesca gli uomini, di una moglie che si affretta dallo sposo (VIII sezione, ll. 109-115). La X sezione (ll. 118-125) allude ai giochi e alle danze notturne in onore della dea. Le linee 128-190 (sezioni XXII) sono in pessimo stato di conservazione: nei pochi passi intelligibili sembra che Inanna venga invocata in occasione della distruzione di una città (ll. 156158) e per allontanare gli «spiriti cattivi» dall’Egaledinna (ll. 189-190). Nella XIII sezione (ll. 193-204) la dea assume le sembianze di un’affascinante «giovane donna» (ki-sikil) che, adornata di gioielli dalla sua sacerdotessa, va di casa in casa e di strada in strada. L’ultima sezione (XIV, ll. 207-217) chiarisce la po-

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sizione di Inanna, chiamata qui «signora dei grandi ME» (con ripresa del motivo del ritornello), all’interno del pantheon: sua madre è Ningal, suo padre Su’en, suo fratello Utu, il suo sposo Dumuzi/Ama’usˇumgalanna, il suo visir Ninsˇubur, sua cognata Gesˇtinanna. Gli scopi dell’inno sono evidenti: celebrare l’ingresso della dea in una nuova sede di recente fondazione (o recentemente restaurata); istituire l’identificazione tra Inanna e Ninegalla come due manifestazioni, rispettivamente celeste e terrena, della medesima divinità; descrivere tutti gli aspetti e i culti della dea, dividendoli per ambiti (celeste, terreno, ctonio), per luoghi (con la menzione di altre sue prestigiose sedi di culto), per tempi (giorno, sera, notte); affermare (nel rispetto di una radicata tradizione innografica) il primato di Inanna nel pantheon. È opinione dell’autore (pp. 151-152) che il testo dell’inno, nella forma definitiva in cui ci è pervenuto, sia esito della stratificazione di due «fasi di redazione»: alcuni indizi interni (lo stile, l’ortografia con ‘scritture piene’) lascerebbero collocare il periodo della composizione originaria del testo al tempo della III dinastia di Ur, più precisamente nel regno di Sˇ ulgi, il quale in effetti ordinò la costruzione di un tempio, il Baradurgarra, nella città di Nippur; il testo sarebbe stato poi rielaborato in epoca successiva (paleo-babilonese) – come dimostrerebbero alcuni tratti seriori (per esempio quelli demoniaci) della divinità –, o in occasione di una nuova consacrazione del tempio o attraverso il ‘fisiologico’ processo di trasmissione della letteratura sumerica nelle scuole babilonesi. Come dimostrato da chi ha già recensito il volume prima dello scrivente (J.A. Black, WZKM 89, 1999, pp. 284-286), l’ipotesi di ricostruzione proposta da Behrens per la datazione e l’‘ambientazione’ dell’inno non è priva di punti deboli: in primo luogo, anche se tutte le fonti provengono da Nippur, questa città non è mai menzionata nell’inno come sede del nuovo tempio (e del resto quasi tutta la letteratura sumerica nota ci è stata tramandata dalla scuola di Nippur); non c’è alcun indizio che Sˇ ulgi sia stato l’autore della nuova ‘fondazione’ del tempio; il tempio fatto costruire da Sˇ ulgi a Nippur (il Baradurgarra) non è mai associato a Ninegalla, ma solo a Inanna (nel nome del 46o anno di Sˇ ulgi si menziona, sì, un nuovo tempio a Ninegalla fatto edificare da Sˇ ulgi, ma in località imprecisata); infine, alcuni passi tratti da iscrizioni di Sˇ ulgi fanno pensare che all’epoca del suo regno Inanna e Ninegalla fossero ancora personalità divine distinte. Pertanto, sia la sede del nuovo tempio a Inanna/Ninegalla di cui si fa menzione nell’inno sia l’identità del sovrano che ne ordinò la ‘fondazione’ restano oscure. L’unico argomento per la datazione dell’inno rimane legato alla possibilità di collocare nel tempo il sincretismo tra Inanna e Ninegalla. La più antica attestazione dell’avvenuta identificazione tra le due divinità occorre nelle iscri-

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zioni di Rim-Sin di Larsa, nelle quali Ninegalla porta l’epiteto (tradizionalmente associato ad Inanna) di «figlia primogenita di Su’en» (p. 19 e sgg.). Collocare però, sulla base di questo argomento, il terminus post quem per la composizione dell’inno al tempo del regno di Rim-Sin risulta rischioso e semplicistico rispetto alla complessità del problema. Il tema del sincretismo tra divinità in Mesopotamia non è ancora stato fatto oggetto di un’indagine sistematica. Anche accettando l’ipotesi (per cui si veda W.G. Lambert, «The Historical Development of the Mesopotamian Pantheon: A Study in Sophisticated Polytheism», in: H. Goedicke - J.J.M. Roberts, edd., Unity and Diversity. Essays in the History, Literature, and Religion of the Ancient Near East, Baltimora - London, 1975, pp. 191-200) che sia il politeismo originario (per cui ogni città si sarebbe scelta la sua divinità poliade) sia le tendenze sincretistiche (che culminarono nel I millennio, con l’assorbimento pressoché totale del pantheon esistente prima nella figura di Marduk, poi in quella di Nabû) fossero esito di scelte deliberate e di programmate politiche religiose, non si può tuttavia negare che per tutta la durata della ‘civiltà mesopotamica’ la spinta alla semplificazione e quella di tendenza opposta (nel segno della complicazione, del pluralismo, del cumulo) si confrontarono con esiti sempre incerti sul terreno della ‘teologia’. La seconda tendenza è particolarmente evidente nei testi letterari (soprattutto mitografia e innografia): lo sforzo di cumulare e sintetizzare tutte le tradizioni ‘teologiche’ esistenti (o esistite) allo scopo di delineare la fisionomia e l’ambito di potere di ciascuna figura divina prevale sulla volontà di evitare contraddizioni (non solo quelle ‘esterne’, cioè rispetto ad altri testi, ma anche quelle ‘interne’, cioè relativamente ad ogni singolo testo). Può accadere pertanto che più tradizioni ‘concorrenti’ convivano nel medesimo testo. Restituire il nostro inno al suo contesto storico e cronologico risulta pertanto difficile per almeno due motivi. Da una parte, è impossibile stabilire con certezza – a causa della natura frammentaria e desultoria della documentazione – quando e dove si affermò e fu in seguito accettata l’associazione sincretistica tra Inanna e Ninegalla (sulla tradizione sumerica nota relativamente a quest’ultima divintà, si vedano le pp. 14-23). D’altra parte, anche se fosse soddisfatta la condizione di cui sopra, sarebbe rischioso, per le ragioni summenzionate, tentare di far coincidere i dati ricavati dai testi letterari con documentazione d’altra natura (p. es. iscrizioni reali, testi economico-amministrativi, etc.). Oltre alla ‘tessitura’ teologica è evidente anche la volontà letteraria di questa composizione. Non si tratta solo dei paralleli che è possibile istituire con altre composizioni letterarie – in particolare Inanna e Iddin-Dagan e Inninsˇagurra (pp. 148-151). Nè ciò desta meraviglia, dal momento che tutte le opere della letteratura sumerica attingono largamente ad un repertorio comune di moduli e ‘frasi fatte’. Alcuni passi dell’inno – più o meno oscuri – sembrano alludere ad

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altri episodi della ‘materia mitologica’ di Inanna/Isˇtar, oggetto di altre composizioni. Già l’epiteto che la dea porta nel ‘ritornello’ (nin-me-sˇár-ra, «signora di tutti i ME») allude al mito di Inanna ed Enki. Al mito della Discesa di Inanna agli Inferi sembra alludere la sezione compresa tra le ll. 70-75, che così si apre: «Per te si spalancano i canali del KUR, per te si versa l’acqua-dell’invocazionedei-nomi». Alle ll. 73-75 si dice poi che «i morti mangiano (per Inanna) cibo di liberazione (ú-sˇu-bar-ra) e bevono per lei acqua di liberazione (a-sˇu-bar-ra)». In effetti, nel mito (accadico) della Discesa di Isˇtar agli Inferi (ll. 19-20) la dea minaccia di far salire i morti dall’Oltretomba. L’uso della forma sˇu-bar-ra, inoltre, non può non far pensare alla concezione mesopotamica del morto come «prigioniero» (per cui si veda S.M. Chiodi, «Il prigioniero e il morto. Epopea di Gilgamesˇ Tav. X r. 318-320», OA Misc II, 1995, pp. 159-171). La l. 61 sembra contenere una velata allusione al tema degli sfortunati ‘amori di Inanna’ noto dalla VI tavola dell’epica classica di Gilgamesˇ (ma non è escluso che questa avesse un antecedente letterario, quantunque ancora ignoto, o una sorta di preistoria orale): «Quando tu hai condiviso il giaciglio con il cavallo». In effetti, nell’Epica di Gilgamesˇ, il leggendario sovrano di Uruk rinfaccia ad Inanna di aver condannato il cavallo, uno dei suoi sventurati amanti, a bere l’acqua da lui stesso sporcata. Nel nostro inno, invece, il contesto in cui è inserita la l. 60 descrive una situazione di disgrazia in cui è caduta la stessa dea: non sarà che l’autore dell’inno ha reinterpretato a favore della dea un episodio della sua ‘materia mitica’ poco rispettoso della di lei maestà? Per il resto – se si escludono i rari casi (p.es. ll. 58-65, 105-106, 109-115) in cui la traduzione non è sufficiente a chiarire il senso del testo sumerico – quasi sempre il ricchissimo commentario – il pregio più grande del volume – guida ottimamente il lettore attraverso i tortuosi meandri di una fraseologia fortemente allusiva, ellittica ed oscura. Proprio da questo testo è facile capire quale contributo possa venire al progresso della Sumerologia da progetti come quello del Vocabolario Sumerico di Philadelphia, nell’ambito del quale è nato questo lavoro. Come accennato dagli editori (p. 6), la vicenda della pubblicazione di questo volume è stata lunga, laboriosa e tormentata. Iniziato da Behrens nel 1983 e presentato all’Università di Freiburg come sua «Habilitationsschrift» nel 1989, il lavoro rimase inedito – a causa dei numerosi impegni dell’autore, in particolare la sua collaborazione al Vocabolario Sumerico di Philadelphia – fino al 1996, l’anno dell’inaspettata morte di Behrens. In questi anni Behrens aveva apportato nel manoscritto (purtroppo non elettronico) una certa quantità di aggiunte e correzioni, che sono confluite nella sezione di addenda et corrigenda (pp. 155-158) dell’edizione finale. Soltanto che i numeri di pagina di questa sezione – così come quelli dell’indice finale (pp. 159-164) – non corrispondono a quelli del testo cui si riferiscono.

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Comunque, il volume non soffre troppo della sua tormentata vicenda editoriale. Per questo si faranno qui solo poche annotazioni di dettaglio: MUNUSnita-dam (l. 67) potrebbe essere letto e trascritto nitlam; dalla è-a-na («colei al cui apparire») alla l. 4 non va emendato in dalla è-a-za, «al tuo apparire» (come suggerisce l’autore a p. 68), essendo tipico dello stile innico l’uso della III persona anche quando ci si rivolga direttamente (cioè in II persona) alla divinità; usu-nu-kúsˇ-ù («forza che non dà mai tregua») alla l. 26 è molto probabilmente il nome-epiteto di un’arma della divinità (anche se finora mai attestata altrove). Infine, proprio in considerazione della ‘volontà di costruzione’ che è chiaramente sottesa alla composizione dell’inno, sarebbe stato opportuno aggiungere all’edizione uno studio sulla struttura formale e sulle caratteristiche linguisticografiche (dove sono particolarmente interessanti le ‘clausole’ in /-aba/ e in /(zu)de/, nonché l’alternanza tra forme verbali hamtu e marû). ˙ In conclusione, nonostante alcune lievi mancanze – da addebitare per lo più alla sfortunata vicenda editoriale –, il volume di Behrens resta un contributo importante per la Sumerologia, da un punto di vista sia letterario (avendo arricchito le nostre conoscenze del genere ‘innografia’) sia storico-religioso (soprattutto per le nuove acquisizioni sulla figura di Ninegalla e sulla problematica legata al sincretismo). STEFANO SEMINARA

M. COOPERSON, Classic Arabic Biography. The Heirs of the Prophet in the Age of al-Ma’mu¯ n, Cambridge University Press, 2000, pp. XXII + 217. Il titolo promette più di quanto non mantenga. Ci vengono proposte le biografie di quattro personaggi, enormemente significativi – è vero – ma non al punto da coprire, sia pure esemplificativamente, l’intera casistica del ‘genere’ biografico. L’autore è, verosimilmente, consapevole della cosa e, forse per questo, premette alle quattro biografie, un capitolo che intitola «The development of the genre» (pp. 1-23) in cui fa il punto su alcuni problemi, tra cui la spesso affermata interdipendenza tra i testi di rija¯ l, funzionali alla ‘scienza della trasmissione’ e le opere biografiche vere e proprie, optando per l’ipotesi di uno sviluppo parallelo dei due generi. Le opere biografiche sono presentate un po’ più analiticamente dei primi, nell’intento di evidenziare le diverse tipologie che presiedono all’organizzazione del materiale per cui i tara¯ jim, o akhba¯ r che dir si voglia, vengono, generalmente, radunati per classi generazionali o per omogeneità professionali (poeti, grammatici, musici, ecc.). Più che una disamina di

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fonti, l’autore ci propone un consuntivo delle opinioni più autorevoli sul significato da attribuire al termine ‘biografia’, da modulare sulla fonte cui si fa riferimento. I quattro personaggi di cui si ricostruisce la biografia hanno operato tutti nel IX secolo e sono legati, per ragioni diverse, al personaggio più importante, che apre la serie delle biografie: il califfo abbaside, al-Ma’mu¯ n (pp. 24-69). Gli altri tre sono: ‘Alı¯-al-Rida¯ , l’ottavo ima¯ m per gli sciiti duodecimani e erede pre˙ sunto al trono di al-Ma’mu¯ n per un breve periodo (pp. 70-106; 193-196); il grande specialista di hadı¯th e fondatore di una delle quattro scuole giuridiche, ˙ cosiddette canoniche, Ahmad ibn Hanbal, perseguitato dal califfo quando que˙ ˙ sti impone il mutazilismo come ‘religione di stato’(pp. 107-153); un mistico asceta, legato ai circoli hanbaliti, Bishr al-Ha¯ fı¯ (pp. 154-187). ˙ Per ognuno, l’autore ci illustra a grandi linee il contesto storico-ideologico entro cui collocare il personaggio: la versione abbaside del califfato e il rapporto della dinastia con gli Alidi; le pretese sciite e in particolare la posizione del padre, Mu¯ sa¯ , e del nonno, Jacfar, del nostro ima¯ m, la concezione teologicopolitica di Ibn Hanbal; il clima entro cui si sono sviluppate le correnti mistiche ˙ e la difficoltà di definire il fenomeno su¯ fı¯ all’epoca. ˙ Dopo di che, la biografia del personaggio viene ricostruita, per così dire, a tappe, partendo dalle fonti più vicine al biografato, passando a quelle più tarde, per giungere a una sorta di profilo complessivo, più o meno accreditato dalla tradizione. Sebbene non faciliti la lettura e non lasci sempre emergere con chiarezza il filo del pensiero dell’autore, è senza dubbio utile che egli presenti in contemporanea e sullo stesso piano le notizie fornite dalle fonti e i risultati della letteratura critica sulle vicende che esse riportano, a dimostrazione del suo rigore mentre aiutano a creare atmosfera i brani che, ogni tanto, intervallano la narrazione. Pur nell’apprezzamento del lavoro, ci sarebbe parso opportuno che si entrasse maggiormente nel merito del codice espressivo, cui si allude solo occasionalmente, per esempio a proposito della fonte principe su ‘Alı¯ al-Rida¯ , gli ˙ ‘Uyu¯ n akhba¯ r al-Rida¯ di Ibn Ba¯ bawayh. Non ci sembra, infatti, scontato che non esistano differenze anche tra autori dello stesso periodo nella struttura narrativa entro cui il materiale biografico viene riportato e che tali differenze non possano essere importanti nella decodificazione dell’atteggiamento del biografo musulmano, offrendo quindi una possibile verifica della validità della chiave interpretativa usata dal nostro autore. BIANCAMARIA SCARCIA AMORETTI

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Etats, sociétés et cultures du Monde Musulman Médiéval, Xe-XVe siècle, t. 2. Sociétés et cultures, pp. CXXIV + 554; t. 3. Problèmes et perspectives de recherche, Paris, PUF, 2000, pp. 283. I due volumi qui in esame concludono la trilogia dedicata ai secoli X-XV, vale a dire ai secoli durante i quali si assiste alla disgregazione delle entità califfali e alle premesse dei grandi imperi dell’età moderna. La direzione dell’iniziativa continua ad essere affidata a J.-C. Garcin, con la collaborazione di illustri studiosi, alcuni dei quali hanno partecipato anche alla stesura del primo volume, apparso nel 1995. Nell’insieme ci viene offerto un quadro esaustivo, almeno dal punto di vista delle problematiche, della storia e delle trasformazioni vissute dalle società musulmane nel periodo considerato. Ricordiamo che il primo volume trattava di eventi e fissava una sorta di quadro referenziale. Il secondo volume si occupa di ‘stati e comunità’, di ‘produzione e scambi’, della ‘vita dello spirito’. Da notare che ogni tematica viene affrontata non solo nel suo decorso cronologico, ma anche, e soprattutto, nelle varie diversificazioni, sincronicamente presenti e dovute alla varietà dei contesti geografici e socio-economici, nell’intento di evidenziare la pluralità degli attori storici, distinti per appartenenza etnico-linguistico o confessionale. Compaiono, cioè, da protagonisti, accanto ai musulmani, gli ebrei e i cristiani, accanto a arabi, turchi e persiani, anche berberi e africani. Fa da premessa alla trattazione una ricchissima e coerente bibliografia strutturata per grandi temi – quali ‘società, produzione e scambi’; ‘scienze e spiritualità’; ‘i non-musulmani’; ‘letteratura e arte’ – al loro interno ulteriormente suddivisi. Fanno da corredo e da complemento a tale bibliografia una serie di carte espressamente elaborate per illustrare alcuni problemi di particolare rilievo: a titolo esemplificativo, segnaliamo che ben cinque cartine ci permettono di cogliere dove e quando si spostino i centri importanti dal punto di vista della produzione architettonica. Il terzo volume si configura, a differenza di quanto il sottotitolo ci lascia intendere, come un’operazione di consuntivo piuttosto che di proposta e di ipotesi. Infatti, vi si fa il punto sulla ‘gestione politica dello spazio e degli uomini’, sui problemi demografici, storiografici e di periodizzazione, sui rapporti tra città e campagna e su tipici fenomeni urbani, sulle concezioni estetiche, sul senso della tradizione, lasciando, non a caso, ampio spazio alla collocazione dei non-musulmani nel tessuto socio-economico della da¯ r al-Isla¯ m. Questo terzo volume contiene anche un accurato indice complessivo, suddivo in un indice geografico, un indice storico e uno tematico. A conclusione del lavoro, rimane valido quanto detto a proposito del primo volume che era già stato oggetto di attenzione da parte di chi scrive (cfr. RSO, v. LXIX, fasc. 1-2, 1995 (ma 1996), pp. 238-240). È vero che l’intento didattico è esplicitamente rivendicato dagli autori e

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che siamo di fronte a un lavoro manualistico, sia pure di ampio respiro. Ciò non esclude, però, che vi siano elementi di riflessione e stimoli utili anche per i non principianti. Tanto per incominciare – e non è cosa di poco conto – vengono denunciati, ogniqualvolta ciò serva a valutare alcune letture storiografiche che si presentano come particolarmente innovative o dissacranti, i presupposti ideologici o storiografici che le ispirano. Il che comporta una trasparenza rara nel tracciare il percorso di ricerca che sta a monte dei singoli contributi e del lavoro nel suo complesso. Pur partendo dalla constatazione che l’Islam abbia fornito ai popoli e ai paesi dove si è propagato un modello cui si sono ispirati istituzioni e codici comportamentali, e a cui popoli e paesi sono rimasti idealmente fedeli, la tesi di fondo è che l’Islam stia nella storia e, dunque, sia stato trascritto e vissuto in maniera pragmatica, in aderenza ai bisogni o alle mutate realtà storiche e politiche. Visione, questa, da rivendicare con forza oggi in particolar modo, sia in ambito scientifico sia nei confronti degli stessi musulmani. BIANCAMARIA SCARCIA AMORETTI

FLORIAN SOBIEROJ, Ibn Hafı¯f asˇ-Sˇ ¯ıra¯ zı¯ und seine Schrift zur Novizenerziehung (Ki¯ ta¯ b al-Iqtisa¯ d): biographische Studien, Edition und Übersetzung, Stuttgart: ˙ Steiner, 1998 (Beiruter Texte und Studien; Bd. 57), 500 pp. Ibn Hafı¯f al-Sˇ ¯ıra¯ zı¯ (m. 371/982), una delle maggiori autorità del sufismo ¯ classico, è stato conosciuto finora soprattutto attraverso due opere del suo discepolo Abu¯ l-Hasan »Alı¯ al-Daylamı¯: la biografia edita a cura di Annemarie ˙ Schimmel (Sı¯rat-i Ibn-i Hafı¯f) e il celebre trattato sull’amore pubblicato e tra¯ dotto da Jean-Claude Vadet (™Atf al-alif al-ma’lu¯ f ™ala¯ al-la¯ m al-ma ™tu¯ f; come fa ˙ ˙ sapere Sobieroj, una nuova edizione, curata da Joseph N. Bell e Sha¯ fi™ı¯, è di prossima pubblicazione presso la Da¯ r al-Kita¯ b al-Misrı¯ del Cairo). Della produ˙ zione di Ibn Hafı¯f, una trentina di opere in gran parte perdute, erano noti però ¯ soltanto frammenti, pubblicati in parte da A. Schimmel in appendice all’edizione della Sı¯ra. Con il Kita¯ b al-Iqtisa¯ d («Il libro del giusto mezzo»), viene ora ˙ reso accessibile per la prima volta un testo completo e relativamente esteso del mistico di Sˇ ¯ıra¯ z. La traduzione (pp. 317-384) e l’edizione del testo arabo (pp. 443-490), stabilito sulla base di due manoscritti, sono precedute da un ampio studio storico e dottrinale. La prima parte comprende una biografia critica basata su una metodica ricerca prosopografica che include poco meno di 150 personaggi men-

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zionati nella Sı¯ra di Daylamı¯ e in altre fonti, divisi in tre gruppi: garanti nella trasmissione del hadı¯t (pp. 35-49); maestri su¯ fı¯ (pp. 50-109); trasmettitori e al˙ ¯ ˙ lievi (pp. 211-241). La rete di contatti di Ibn Hafı¯f è ulteriormente studiata ¯ nella sua distribuzione geografica, seguendo il percorso dei viaggi di studio del mistico in Iran, Iraq, Siria e Hijaz (pp. 111-210). Questo accurato lavoro analitico consente di tracciare i contorni delle correnti mistiche e dei gruppi religiosi attivi durante il X secolo nei centri considerati, e in particolare a Sˇ ¯ıra¯ z, che occupa la parte centrale del capitolo (pp. 148-200). La seconda parte, sulla dottrina mistica di Ibn Hafı¯f (pp. 261-304), consi¯ ste essenzialmente in una presentazione dei temi trattati nel K. al-Iqtisa¯ d. Il li˙ bro appartiene al genere dei manuali di pedagogia su¯ fı¯ (a¯ da¯ b al-murı¯dı¯n), del ˙ quale costituisce uno degli esempi più antichi; a differenza di altre opere affini, non si occupa del rapporto maestro-allievo o del codice di comportamento del novizio, ma delle qualità morali e spirituali che devono governare la vita perfetta, soprattutto sidq (al tempo stesso fedeltà ai voti e veridicità, ovvero «corri˙ spondenza di interiore ed esteriore»: cfr. pp. 266s. e 283s.) e ihla¯ s («l’esclusivo ¯ ˙ orientamento del proprio sforzo verso Dio e la purificazione delle opere dalla considerazione degli uomini»: cfr. p. 292). L’opera è improntata a un deciso tradizionalismo: cita, accanto al Corano e alla Sunna, alcuni Salaf e asceti, ma nessun autore su¯ fı¯ propriamente detto, ed esprime diffidenza nei confronti ˙ della teologia razionalista (p. 483s.). Essa mostra inoltre un chiaro atteggiamento rigoristico, mettendo in guardia dal ta’wı¯l – inteso come interpretazione larga dei precetti (p. 269) – e dalla ricerca di dispense (ruhas) (pp. 270-272), ed ¯ ˙ esortando allo scrupolo (wara™) e alla rinuncia (zuhd) (p. 288s.). Nettamente respinta è l’idea «libertina» che la perfezione sollevi dagli obblighi legali o morali (p. 272, cfr. anche p. 22), anche se la posizione concreta di Ibn Hafı¯f su alcuni ¯ punti specifici sembra essere stata meno intransigente di quanto suggeriscano le dichiarazioni di principio (per il caso del sama¯™, non trattato nel K. al-Iqtisa¯ d, ˙ cfr. pp. 95 e 175). L’orientamento dottrinale del K. al-Iqtisa¯ d, insieme agli importanti con˙ tatti dell’autore con tradizionisti e tradizionalisti hanbaliti rivelati dalla ricerca ˙ prosopografica, inducono Sobieroj a modificare significativamente il ritratto di Ibn Hafı¯f, corrente negli studi moderni. Due elementi decisivi per definire la ¯ collocazione dottrinale di Ibn Hafı¯f sono le sue prese di posizione sulle grandi ¯ controversie relative alla condanna di Halla¯ gˇ e alla legittimità dell’uso del ter˙ mine ™isˇq per indicare l’amore fra l’uomo e Dio. Influenzato prevalentemente dalla testimonianza di Daylamı¯, Louis Massignon considerava Ibn Hafı¯f un fe¯ dele seguace di Halla¯ gˇ , mentre J.-C. Vadet, nella stessa linea, ne faceva un ˙ anello fondamentale, attraverso il Kita¯ b al-™Atf, per la trasmissione della mistica ˙ halla¯ giana (e della relativa concezione dell’eros divino) ai su¯ fı¯ di Sˇ ¯ıra¯ z fino a ˙ ˙ Ru¯ zbiha¯ n Baqlı¯, che alla fine del XII secolo definiva Ibn Hafı¯f «la qibla degli ¯

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adepti del ™isˇq» (cfr. p. 17). Sobieroj mette in dubbio l’affidabilità della testimonianza di Daylamı¯ (v. sopr. pp. 60 e 166), rivalutando invece quella di Ibn Taymiyya, finora trascurata dagli studiosi, che contraddice la prima su entrambi i punti: Ibn Hafı¯f avrebbe esplicitamente sconfessato Halla¯ gˇ (p. 59), e avrebbe ¯ ˙ respinto l’attribuzione a Dio del termine ™isˇq in una professione di fede della quale Ibn Taymiyya riporta ampi stralci (pp. 7, 21-22, 169). Secondo lo studioso, questa versione si accorderebbe meglio sia con l’orientamento tradizionalista del K. al-Iqtisa¯ d, sia con le analoghe prese di posizione delle autorità di ˙ Ibn Hafı¯f. D’altra parte Sobieroj, se sottolinea la parzialità di Daylamı¯, accenna ¯ anche al fatto che è a volte problematico distinguere, negli estratti citati da Ibn Taymiyya, le parole di Ibn Hafı¯f dagli interventi del teologo hanbalita (p. ¯ ˙ 248). In tale situazione, non si può escludere che le esitazioni e le sfumate riserve espresse da Ibn Hafı¯f riflettano la complessità del suo atteggiamento sulle deli¯ cate questioni discusse più fedelmente delle fonti più ideologicamente impegnate che cercano di attribuirgli una posizione univoca. Una tale prudenza, in mancanza di certezze positive, potrebbe essere incoraggiata dal fatto che, come mostra Sobieroj, Ibn Hafı¯f sembra alieno a ogni forma di dogmatismo mili¯ tante: vicino agli ahl al-hadı¯t senza aderire pienamente ai loro metodi (pp. 244˙ ¯ 245); trasmettitore dei Luma™ di Asˇ™arı¯ ma lontano dal kala¯ m razionalista (pp. 65-66, 183-184, 220-221, 246-248); discepolo del mistico za¯ hirita Ruwaym ˙ senza essere za¯ hirita (pp. 29, 55, 187); allievo di Ibn Suraygˇ e a propria volta ˙ sˇa¯ fi™ita, ma senza identificarsi con i giuristi e senza che la sua effettiva appartenenza al madhab possa essere stabilita con assoluta certezza (pp. 103-104, 189¯ 193). Un altro inedito di Ibn Hafı¯f, Fadl al-tasawwuf ™ala¯ al-mada¯ hib, apparen¯ ˙ ˙ ¯ temente uno dei pochi ancora conservati (cfr. p. 28 e 311), potrebbe forse offrire ulteriori chiarimenti sull’atteggiamento dell’autore su¯ fı¯ nei confronti delle ˙ diverse scuole e tendenze dottrinali. SAMUELA PAGANI

A.-M. EDDÉ, La Principauté Ayyoubide d’Alep (579/11183-6581/1260), Freiburger Islamenstudien, Band XXI, Stuttgart 1999, pp. 727. L’intento che ci si propone non è di recensire un’opera che vuole essere «une tentative d’histoire globale» (p. 18) e che si presenta come esaustiva e definitiva per la sua stessa consistenza (il numero di pagine, gli apparati critici, le tavole genealogiche delle famiglie più in vista o gli elenchi dei funzionari o di-

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gnitari – ‘ulama¯ ’, qa¯ d¯ı, ecc. – che occupano più di 60 pagine di Appendice, le ˙ fotografie e le cartine che corredano il volume) e per l’impianto che adotta (la scansione del volume in due parti: la prima, a sua volta divisa in tre capitoli, dedicati alle vicende politiche di al-Za¯ hir Gha¯ zı¯ (1183-1216), Tughril e al-‘Azı¯z ˙ (1216-1236) e al-Na¯ sir Yu¯ suf II (1236-1260); la seconda, anch’essa di tre capi˙ toli che illustrano le istituzioni e il potere dello Stato, la vita religiosa e culturale, le attività delle campagne e delle città), ma più modestamente di dare conto dell’impostazione del lavoro e degli elementi di originalità che esso contiene. L’autrice parte da una presentazione sistematica delle fonti, secondo un ordine rigorosamente cronologico e distinguendo tra fonti arabe, persiane, siriache, armene e latine (pp. 18-30). A questa fa seguito la storia politica di Aleppo nell’epoca considerata, nella prospettiva, che l’autrice stessa esplicita, di voler ricostruire «l’histoire d’une principauté, pas seulement celle d’une ville ... même si l’ombre d’Alep plane constamment sur mon travail» (p. 16). I tre capitoli a ciò destinati non sono di facile lettura. L’analiticità della ricostruzione, la dovizia di nomi e di dettagli rendono il lavoro un’opera di referenza, nonostante il tono discorsivo della trattazione. Bisogna, perciò, essere molto addentro alla tematica o, comunque, molto attenti per non lasciarsi sommergere dalla mole di informazioni e seguire il filo conduttore del lavoro che ci sembra di poter individuare nella costante e puntigliosa verifica critica non solo e non tanto del materiale fornito dalle fonti quanto delle interpretazioni che la ricerca più e meno recente ha dato delle fonti medesime. Ci troviamo così di fronte a un lavoro storico basato su una documentazione di prima mano che è contemporaneamente una puntuale disamina storiografica di quanto finora affermato sul periodo e sui personaggi che di quel periodo sono stati i protagonisti. Nella seconda parte, l’autrice cambia registro, pur non rinunciando al suo sguardo critico e alla scelta di privilegiare l’approccio analitico alla sintesi. A esemplificare tale approccio basta segnalare che il primo capitolo (pp. 195346), quando tratta nel secondo paragrafo della difesa dello Stato, prende in considerazione successivamente l’organizzazione dell’esercito all’interno del quale ben 17 funzioni militari vengono descritte, la società militare, opportunamente ricostruita nelle sue basi etniche (curdi, turchi, mamelucchi) e in relazione all’iqta¯ c, le tecniche di guerra che abbracciano questioni di ingegneria mi˙ litare, di armamenti e di metodi di combattimento. Tuttavia, in questa seconda parte, l’autrice si concede una maggiore libertà. Ogni istituzione (si prenda sempre esemplificativamente, i dı¯wa¯ n (pp.315-330), ogni presenza significativa nel territorio del principato (come quella dei dhimmı¯, cristiani ed ebrei (pp. 452-480) particolarmente importante visto che siamo in Siria e in epoca crociata), ogni dato caratterizzante – il territorio in esame dal problema dell’acqua (pp. 484-490) alle risorse economiche (pp. 491-500) da cui dipende la sua fisio-

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nomia economica – è presentato all’interno di un quadro di referenze più ampio in modo da permettere di cogliere le innovazioni o introdotte dagli Ayyubidi o sopravvenute durante il loro dominio, oppure, viceversa, la continuità con i regimi precedenti, in particolare quello dei Selgiucchidi, o l’eventuale analogia con quanto si stava mettendo in atto per opera dei Mamelucchi. È probabilmente questa la parte più fruibile in maniera generalizzata. Ed è anche qui che emergono alcuni elementi originali. Due ne segnaliamo in particolare. Il primo riguarda l’attenzione alle famiglie, intese come tassello della particolare struttura sociale che il mondo musulmano persegue e, nello stesso tempo, come il luogo dove si sperimentano determinate dinamiche economiche e politiche che verranno tradotte nell’arena pubblica. Il risultato è che la ricostruzione – non sappiamo quanto effettivamente plausibile – del clima sia socio-culturale sia economico-politico del principato ayyubide non è mai statica o monolitica. Al contrario, pur trattandosi, come dice l’autrice (p. 15) di un’epoca «d’apogée», le contraddizioni, le debolezze, i fenomeni minoritari riescono ad emergere non meno delle espressioni di potenza e di successo. Non a caso – ed è il secondo elemento da segnalare – l’autrice fa spazio, nella sua storia, alle donne. Scontato magari l’interesse per una Dayfa Khatun (cfr., per ˙ esempio, pp. 202-203) che assumerà l’incarico di reggente in un momento delicato per le sorti del principato; più indicativo di una visione innovativa da parte dell’autrice le pagine dedicate alle politiche matrimoniali (p. 221 sgg.), al ruolo delle concubine e delle schiave e, più in generale, alla vita quotidiana, sia pure nell’ambito della corte. BIANCAMARIA SCARCIA AMORETTI

A. R. LALANI, Early Shı¯‘ı¯ Thought. The Teaching of Ima¯ m Muhammad al-Ba¯ qir, ˙ London I. B. Tauris, 2000, pp. XIII+192; A. C. Hunsberger, Nasir Khusraw, The Ruby of Badakhshan. A Portrait of the Persian Poet, Traveller and Philosopher, London I.B. Tauris, 2000, pp. XXI+ 292. Continua l’operazione dell’Institute of Ismaili Studies di ovviare al fatto che, come dice l’autrice del primo testo qui in esame (p. 1), l’Islam sciita non ha ricevuto da parte degli studiosi l’attenzione che si merita, nonostante l’innegabile valore di alcuni lavori recenti. Commissionato a una specialista di letteratura persiana dall’Istituto stesso il libro su Na¯ sir-i Khusraw, frutto di una lettura dall’interno quello su Muham˙ ˙ mad al-Ba¯ qir, i due libri hanno in comune la caratteristica di offrire un pro-

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dotto accessibile anche a non specialisti, pur poggiando su una vasta dottrina e non rinunciando a quegli apparati di note, bibliografia ecc. che sono irrinunciabili sul piano scientifico. In questa prospettiva, la ricostruzione del «ritratto» di Na¯ sir-i Khusraw si ˙ articola spesso su due livelli, uno discorsivo rappresentato dal testo, l’altro problematico e critico espresso dalle note. Aiuta in ciò il ricorso sistematico all’opera del personaggio indagato, in modo particolare il Safarna¯ ma e quelli che l’autrice chiama i «confessional poems», tratti soprattutto dal Dı¯wa¯ n di Na¯ sir-i ˙ Khusraw, tanto che il libro, specie negli ultimi capitoli, si presenta anche come una piccola ma significativa antologia del Dı¯wa¯ n medesimo. Più che puntare su eventuali novità interpretative del materiale su cui lavora, la Hunsberger ci sembra privilegiare l’esemplificazione del modo di pensare del Poeta e dei concetti che ricorrono nella sua produzione. Particolarmente felici le pagine che illustrano, attraverso l’analisi del Wajh al-dı¯n, il significato e le implicazioni di una lettura za¯ hir o ba¯ tin, per esempio degli arka¯ n al˙ ˙ Isla¯ m (pp. 72-78); o quelle (pp. 131-134) dedicate all’interpretazione esoterica delle lettere che compongono la parola Alla¯ h secondo un’altra opera di Na¯ sir-i ˙ Khusraw, il Shı¯sh Fasl. Più in generale, rientra in quest’ottica la scansione del ˙ viaggio del Poeta che la Hensberger propone, soprattutto quando attribuisce un valore simbolico alla concreta visita del Poeta a Gerusalemme, al Cairo e alla Mecca (rispettivamente, capp. 7, 8 e 9). Un ulteriore elemento da segnalare è il fatto che l’autrice decide di non scartare a priori materiali, specie biografici, di parte avversa o spuri, bensì di utilizzarli come spia del «powerful effect he had on the public consciousness» (p.18). Di qui l’interesse del secondo capitolo, non a caso intitolato «Heretic, Magician or King», dove le linee generali della biografia del Poeta emergono dalla messa a confronto di tutte le notizie che la storiografia musulmana classica fornisce su di lui. Il percorso biografico di Na¯ sir-i Khusraw, ripreso nel detta˙ glio nei capitoli seguenti, può così snodarsi, senza forzature, seconda la doppia traiettoria che lo contraddistingue: quella del viaggiatore attento e quella, non contraddittoria, dell’uomo alla ricerca della sua verità spirituale, che sfocierà nella sua adesione all’ismailismo e nell’impegno, filosofico e militante, di propagandista ismailita, pronto a pagare di persona, con il suo esilio in Badakhshan, le scelte fatte. Più ambiziosi, forse, gli obiettivi del testo su Muhammad al-Ba¯ qir. Non ˙ potendo contare su un corpus di documenti e di testi che risalgono in linea diretta al quinto Ima¯ m, l’autrice, di necessità, ricostruisce il pensiero, oltre che la vita del suo personaggio, attraverso quanto da lui viene trasmesso o a lui viene fatto risalire in maniera più o meno diretta, ricorrendo, come nel caso precedente, a opere e autori anche di parte avversa. Il risultato è stimolante per varie ragioni. Per esempio, alcuni fenomeni e movimenti dell’Islam dell’VIII secolo

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acquistano una dimensione diversa, anche se non sempre del tutto persuasiva, se visti in relazione ad un personaggio di cui, nei fatti, poco si sa e la cui sfera di intervento, di conseguenza, rimane alquanto oscura. Il dibattito interno allo sciismo sulla definizione delle funzioni dell’Ima¯ m e delle sue relative prerogative risulterebbe, quindi, anticipato di qualche decennio, se si accetta la ricostruzione del portato dottrinario del pensiero di Muhammad al-Ba¯ qir qui pro˙ posta. Il che, sulla base di due assunti – il permanere di una notevole fluidità procedurale nel passaggio dell’imamato da padre in figlio (cfr., per esempio, p. 48), ma l’incontestata acquisizione della necessità della presenza concreta e terrena dell’Ima¯ m, come unica fonte di interpretazione della Rivelazione –, equivale a postulare una teologia ismailita già matura e consapevole all’epoca in cui vive e opera al-Ba¯ qir, come confermerebbe quanto l’autrice ci dice a proposito dell’ereditarietà della luce, nu¯ r muhammadica, e il ridimensionamento, sia pure sfumato, della figura storica di Jacfar al-Sa¯ diq, qui più continuatore dell’azione ˙ paterna che innovatore e protagonista sul piano speculativo o organizzativo-politico, come generalmente si è portati a credere. Ne consegue la funzionalità, in una prospettiva del genere, di alcune osservazioni, a prima vista scontate, quali l’importanza del nasab (pp. 43-44) dell’Ima¯ m, l’inevitabile rinuncia al potere politico a favore di una più accentuata dimensione/missione religiosa da parte dell’Ima¯ m stesso, la legittimità della taqiyya, ecc. Non necessariamente da ricondurre alla questione del quando e del come l’ismailismo si strutturi in opposizione e in alternativa ad altre correnti sciite, affiorano due temi che ci sembrano di grande rilevanza: l’importanza del seguito personale dell’Ima¯ m che si strutturerà, almeno con gli Ima¯ m successivi, in una vera e propria ‘corte’ cui spetterà il compito di trasmettere la tradizione imamitica e quello di garantire la legittimità della successione; l’ipotesi della priorità sciita, nella formulazione di un corpus giuridico organico e sistematico (p. 119), ipotesi da confrontare con quella, ben più generalizzata, che attribuisce allo sciismo, nel suo complesso, la spinta decisiva verso quella che diventerà la storiografia musulmana classica. BIANCAMARIA SCARCIA AMORETTI

MIHAI MAXIM, L’Empire Ottoman au Nord du Danube et l’autonomie des Principautés Roumaines au XVIe siècle. Etudes et documents, Analecta Isisiana XXXVI, Istanbul, Les Editions ISIS, 1999, 274 pages. The great Turkologist Halil J˙nalcik taught that without meticulous study

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of archive documents, no ottomanistic work could be considered as original. This is a lesson learnt and applied well by his pupil, Mihai Maxim, during the long years following in the steps of his hoca. Professor Mihai Maxim has some hundred or so academic publications and monographs to his credit, principally dedicated to relations between Moldavia, Wallachia and the Ottoman Empire during the 16th century. This volume published by ISIS of Istanbul brings together a number of his articles written in English and French, mainly dedicated to his customary field of research. Divided into three sections, the eleven articles and reports in this monograph, written between the 1970s and the end of the 1990s, are all based on archive documents coming mainly from the Bas¸bakanlık Osmanlı Ars¸ivi (Ottoman Archive of the Council of Ministers) in Istanbul where the Rumanian turkologist has been working for more than twenty years. The first part dedicated to the «Régime des relations juridiques et politiques» includes six contributions. The first, «L’autonomie de la Moldavie et de la Valachie dans les actes officiels de la Porte au cours de la seconde moitié du XVIe siècle», is largely based on study of the Mühimme Zeyli Defterleri, and the Maliyeden Müdever Defterleri (Treasury Registers) and provides a relatively brief (82 pages) but meticolous picture of the attitude in the Lands of Romania to the Ottoman Empire and their particular legal status. This article is particularly useful for a detailed understanding of the relevant Ottoman legal terminology. With the exactitude of facts confirmed by archive documents, the second article, «Les rélations des Pays Roumains avec l’Archevêché d’Ohrid à la lumière de documents turcs inédits» definitively closes the controversy arising from historical interpretations over the subordination of Moldavia and Wallachia (lands with almost exclusively Orthodox Christian populations) to the archdiocese concerned. The third contribution is a report presented in 1976 to the Academy of the then Socialist Republic of Romania and tackles the relationship between Romania (or rather, Wallachia and Moldavia) and the Ottoman Empire between 1574 and 1594 from a broad perspective taking in the key actors on the historical stage of the time – the Khanate of Crimea, Poland and Transylvania. The main source for articles four and five on Michael the Brave (Mihai Viteazul) are the Ruznamçe Defterleri, the daily notes in the Ottoman Treasury Registers (between pages 154 and 156 and 170-171). A number of these relevant to the voivode are reproduced. The sixth contribution is another report (presented in Vienna in 1982) on the role of Moldavia and Wallachia in the context of Habsburg-Ottoman relations.

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The three articles in the second part of this monograph cover the economic relations between Wallachia, Moldavia and the Ottoman Empire. Of particular interest are articles seven and eight dedicated respectively to the rise in harac in Moldavia between 1538-1574 and the increase in the same type of tax in Wallachia between 1540 and 1575. «White gold», namely the salt exported from Wallachia to the Ottoman Empire (mainly the neighbouring territories of Dobruja) during the 16th century is the subject of the ninth article. The third section of the book entitled «Monnaies. Circulation monétaire» includes two articles. The first concerns a treasure of Ottoman coins dating from the 15th to 16th century discovered by chance in Bertes¸ti de Jos, a village in the department of Braila, by a peasant, Sofronie Iencutu, in 1958. As clear from the title, the second, «Considérations sur la circulation monétaire dans les Pays Roumains et l’Empire Ottoman» dans la seconde moitié du XVIe siècle», is dedicated to a number of little known aspects of monetary circulation between Wallachia, Moldavia and the Ottoman Empire. Unfortunately, this monograph contains numerous and recurrent typographical errors, probably due to poor technical conversion of certain characters specific to the Rumanian language (present in many of the quotations in the notes), a fact which does not, however, detract excessively from the value of the volume. GIUSEPPE COSSUTO

PÁL FODOR, In Quest of the Golden Apple. Imperial Ideology, Politics, and Military Administration in the Ottoman Empire, Annalecta Isisiana XLV, Istanbul, 2000, 304 pp. Tendenti a stabilire una politica di tolleranza e protezione delle popolazioni assoggettate (I˙stimalet), gli Ottomani, in Europa, non furono soltanto dei meri e sgraditi occupanti ma modificarono le strutture amministrative e militari dei territori a loro soggetti e promossero, tra l’altro, l’esistenza di un modus convivendi tra le diverse genti della penisola balcanica e dell’Europa danubiana. Gli undici articoli, dei quali ben tre ancora inediti (i numeri 7, 9 e 11), dell’allievo di Géza Dávid, Pál Fodor, raccolti in un unico volume dalla Isis Press di Istanbul, affrontano e aiutano a chiarire taluni degli aspetti ideologici dell’espansione ottomana, la politica dell’Impero in Europa

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e lo sviluppo delle élites militari e burocratiche, aspetti che sono base e derivazione di differenti tradizioni culturali. L’A. privilegia innanzitutto lo studio delle fonti cronachistiche ottomane, integrandole, il più delle volte, con la letteratura storica a noi contemporanea, spaziando in un arco di tempo che va dall’arrivo degli Ottomani nei Balcani al XVII secolo, dedicando particolare attenzione all’Ungheria ottomana del XVI secolo. Nel primo articolo «Ahmedı¯’s Da¯ sita¯ n as a Source of Early Ottoman Hi˙ story»1 (p. 9-22), l’A. analizza la Da¯ sita¯ n-i teva¯ rı¯h- i mülük-i a¯ l-i ’Osma¯ n, come ˙ ˙ fonte della storia dei primi Ottomani e cerca di datarla storicamente. L’A. fa il punto dell’ideologia che regge l’epica di Ahmedı¯, ideologia incentrata sul ruolo ˙ di gazi e, quasi inevitabilmente, di s¸ehid che i Kayı, la tribù d’origine degli Ottomani, si attribuirono per attrarre le masse di Turcomanni necessarie alla conquista della dâr ül-harb. Il secondo articolo «State and Society, Crisis and Reform, in 15th-17th Century Ottoman Mirror for Princes»2 affronta l’interessante periodo della crisi dell’Impero dopo l’apogeo raggiunto con Süleyman il Legislatore utilizzando vari nası¯hat-name (libri di consigli e di istruzione destinati ai giovani principi ottomani) redatti tra il XV ed il XVII secolo, dimostrando come in taluni autori ottomani del XVI secolo, appartenenti a diversi gruppi egemoni (principalmente Schiavi della Porta), sia presente la consapevolezza del decadimento morale e materiale (conseguenza del primo, a detta degli autori ottomani elencati da Fodor) dell’Impero e la ricerca delle soluzioni per porre rimedio ad esempio, all’uso eccessivo del rüs¸vet, ovvero della mancia necessaria per acquisire un posto nell’amministrazione statale e all’immissione di ecnebi3 nella struttura amministrativa stessa. Il terzo articolo «Ungar und Wien in der Osmanischen Eroberungsideologie (im Spiegel der Târîh-i Beç krâlı - 17. Jahrhundert) è, in questa ˙ raccolta insieme al successivo, il lavoro più direttamente legato alla kızıl

1 Pubblicato per la prima volta in Acta Orientalia Academiae Scientiarum Hungaricae, 38, 1-2 (1984), pp. 41-54. 2 Acta Orientalia Academiae Scientiarum Hungaricae, 40, 2-3 (1986), pp. 217-240. 3 Questi parvenus (ecnebi) erano sì visti in malo modo dalla classe dirigenziale tradizionale degli schiavi di palazzo ma, allo stesso tempo, iniziarono ad occupare posti rilevanti. Il termine ecnebi è usato espressamente dal XVI secolo per designare il re’a¯ ya¯ che lascia la propria classe per entrare nell’esercito, ma è inadatto al servizio del sultano. Importante è sottolineare che lo ecnebi assume per gli Ottomani una connotazione etnica vasta ma precisa: sono considerati ecnebi il turco e il tataro musulmano sunnita, l’armeno, l’ebreo, il curdo, lo zingaro e gli appartenenti ai vari gruppi umani intorno al Mar Nero, oltre ai Magiari e ai Croati. Non una questione di osservanza religiosa, ma un senso di «ottomanismo» che non comprende come utili (e abili) allo stato, i non provenienti dal milieu cristiano ortodosso e alcuni gruppi di musulmani sunniti che, agli occhi della tradizionale classe dirigente e militare ottomana, non osservano la fede come dovrebbero.

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elma, la «mela rossa», desiderata capitale imperiale alla conquista della quale gli Ottomani erano votati4. Gli Ungheresi sono stati da Stefano I in poi i difensori del cattolicesimo contro le invasioni provenienti dall’est e tra i più intransigenti avversari degli «eretici» e «scismatici» cristiani ortodossi che circondavano o vivevano sui territori da essi amministrati. I primi monarchi ungheresi che dovettero fronteggiare gli Ottomani, secondo P. Fodor nel suo quarto articolo «The view of the Turk in Hungary: The Apocalyptic tradition and the legend of the Red Apple in Ottoman-Hungarian context»5 poco distinguevano tra i musulmani e gli altri «eretici», dato che non pochi tra i signori ortodossi balcanici di varia origine affiancavano gli eserciti ottomani. L’interessante percorso che l’A. traccia dell’immagine del Turco, dal punto di vista dell’appartenenza religiosa della popolazione magiara, si lega alla leggenda della «mela rossa» (de rubeo pomo negli autori ungheresi) in chiave apocalittica. Di carattere prettamente storico-politico è invece il quinto articolo «Ottoman Policy towards Hungary, 1520-1541»6, lungo e particolareggiato lavoro riguardante i rapporti ungaro-ottomani nel ventennio 1520-1541. Dell’allestimento di una poderosa flotta (circa 300 unità) da parte degli Ottomani e dei rapporti con l’Inghilterra in relazione al dominio dei mari nei primi anni dell’ultima decade del XVI secolo tratta il sesto articolo: «Between Two Continental Wars: the Ottoman Naval Preparations in 1590-1592»7, mentre il settimo lavoro affronta un argomento alquanto spinoso, avvenuto sempre alla fine del XVI secolo: «An Anti-semite Grand Vizier? The crisis in ottoman-Jewish Relations in 1589-1591 and its consequences»8. In questo interessante articolo l’A. analizza il fenomeno della perdita graduale di posizioni rilevanti da parte degli Ebrei e delle misure tese a limitare il potere di questi ultimi, prese da appartenenti alle élites dominanti dell’amministrazione ottomana. Il fulcro dell’articolo è incentrato sulla ostilità sorta tra l’ebreo raguseo David Passi (tra l’altro agente veneziano), protetto di Murad III e il famoso Gran Visir Sinan pas¸a Cigalazâde (Scipione Cicala)9, il quale arrivò a chiedere 4

Journal of Turkish Studies, 13 (1989), pp. 81-98. Apparso la prima volta in Les traditions apocalyptiques au tournant de la chute de Costantinople, Actes de la Table Ronde d’Istanbul (13-14 avril 1996) édités par Benjamin Lelouche et Stéphane Yerasimos et publiés par l’Institut Français d’Etudes Anatoliennes Georges Dumezil d’Istambul (Varia Turcica, XXXIII), Paris-Montréal, 1999, pp. 99-131. 6 Acta Orientalia Academiae Scientiarum Hungaricae, 45, 2-3 (1991), pp. 271-345. 7 Armagˇ an. Festschrift für Andreas Tietze, Hrg. von Ingeborg Baldauf und Suraiya Faroqhi unter Mitwirkung von Rudolf Vesely, Praha, 1994, pp. 89-111. 8 Articolo che comparirà in Halil Inalcik’armagˇ an, ancora non pubblicato. 9 Una immagine d’epoca di questo noto rinnegato di nobili natali, nato a Messina, tipico esempio di kapıkulu che ragginse i massimi gradi dell’amministrazione ottomana tratta dall’Atrium heroicum Caesarorum, regum... imaginibus, Augustae, MDCII, così come delle gustose notizie tratte da avvisi, gazzette 5

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l’esecuzione di David. L’A. dimostra, analizzando tra l’altro un telh¯ıs relativo ˘˙ alla vicenda, che i toni antisemiti utilizzati da Cigalazâde nelle accuse mosse a David Passi, sono motivati dal risentimento personale piuttosto che da motivazioni ideologiche. L’articolo seguente «Sultan, Imperial Council, Grand Vizier: Changes in the Ottoman Ruling Elite and the Formation of the Grand Vizieral telh¯ıs»10, ˘˙ aiuta a chiarire il ruolo del tipo di documenti ottomani detti telh¯ıs, utilizzati dai ˘˙ gran visir, nell’ultimo ventennio del secolo XVI, periodo denso di turbamenti sociali, politici e ideologici nella società ottomana. Del rapporto centro – periferia nell’Impero tratta il nono lavoro «Who Should Obtain the Castle of Pankota (1565)? (Interest Group and Self – Promotion in the Mid – Sixteenth Century Ottoman Political Establishment)»11, incentrato sull’ascesa politica dello slavo del sud Kunovic¸ che, divenuto musulmano, ricoprirà cariche ottomane importanti nel Banato, soprattutto grazie alla sua capacità di acquisire amicizie e clientele. Di una istituzione militare ottomana di origine selgiuchide, utilizzata anche nell’Ungheria ottomana, il cerehor12, tratta l’articolo successivo: «The Way of a Seljud Institution to Hungary: the cerehôr»13. ˘ L’ultimo lavoro inserito in questo volume, «Making a Living on the Borders: Volunteers in the Sixteenth Century Ottoman Army»14, descrive varie figure e cariche, soprattutto militari, utilizzate dagli Ottomani in Rumelia nel XVI secolo. L’A. focalizza l’attenzione sui vari gruppi militari e etnici. Particolarmente interessante è p. 287, dove Fodor fornisce notizie riguardo lo stato degli Zingari e di alcune limitazioni all’ascesa sociale di costoro nella parte europea dell’Impero ottomano. GIUSEPPE COSSUTO

e fogli volanti riguardo questo personaggio, si possono trovare in Enrico Stumpo (a cura di), La gazzetta de l’anno 1588, Giunti, Firenze, 1988, p. 58 (riproduzione dell’incisione); pp. 38, 58, 68, 150, 168. Notiˇ igha¯ la¯ zade Yusu¯ f Sina¯ n Pasha», EI2, II, pp. zie biografiche con ricca bibliografia sono in V. J. PARRY, «C 33-34. 10 Acta Orientalia Academiae Scientiarum Hungaricae, 47, 1-2 (1994), pp. 67-85. 11 Che apparirà su Turcica. 12 Su queste truppe mercenarie di varia confessione religiosa ha trattato, seppur brevemente, anche M. Fuad Köprülü, Alcune osservazioni intorno all’influenza delle istituzioni bizantine sulle istituzioni ottomane, Roma, Istituto per l’Oriente, 1953, p. 96, n. 2. Anche ALESSIO BOMBACI, «The Army of Seljuqs of Rum», Annali. Istituto Orientale di Napoli, XXXVIII, (n. s. XXVII)/4, 1978, p. 355 e ss., si è occupato di questa stessa istituzione sotto la forma di ecrı¯ha¯ r = mercenario. ˘ 13 Acta Orientalia Academiae Scientiarum Hungaricae, 38, 3 (1984), pp. 367-399. 14 Che comparirà in Ottomans, Hungarians, and Habsburgs. The Military Confines in Central Europe in the Era of Ottoman Conquest, ed. by Géza Dávid and Pál Fodor.

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R. SHAMIR, The Colonies of Law. Colonialism, Zionism and Law in Early Mandate Palestine, Cambridge, Cambridge University Press, 2000, 216 pp. Negli anni del mandato britannico in Palestina l’organizzazione di un sistema legale in cui potessero convivere tradizioni giuridiche molto diverse tra loro e l’elaborazione di un diritto funzionale alle esigenze delle comunità araba ed ebraica costituirono un problema non secondario, anche se scarsamente studiato. La sua importanza nella Palestina degli anni Venti non può essere sottovalutata, visto che arabi ed ebrei si apprestavano, sia pure in tempi non ben definiti, a dar vita a uno stato. Il recentissimo saggio di uno storico del diritto, Ronen Shamir, intende colmare questa lacuna attraverso lo studio di una istituzione giudiziaria, il tribunale ebraico di pace (Mishpat ha-Shalom ha-Ivri). Istituito nel 1909-10 a Jaffa su iniziativa del capo dell’ufficio palestinese dell’organizzazione sionista, il tribunale ebraico di pace doveva dirimere le controversie tra gli ebrei residenti in Eretz Israel e funzionava come una corte arbitrale. Con il passare del tempo l’attività dei giudici di pace fu estesa ad altre sedi e i vari tribunali locali fecero capo a una corte suprema. Il periodo di maggiore attività di questo tribunale fu il decennio 1920-30; dopo quella fase il numero di cause discusse diminuì sensibilmente (si vedano a p. XII le statistiche quantitative e tipologiche elaborate da Shamir). Le cause sono state individuate nella strenua opposizione delle corti rabbiniche, oltre che in un limite oggettivo posto dalla mancanza di un potere coercitivo da parte dei giudici di pace nei confronti di coloro che ricorrevano al loro giudizio. Per di più, essi, non necessariamente uomini di legge, operavano in nome di un universale principio di giustizia, piuttosto che di una precisa normativa. Il saggio di Shamir è un utile contributo alla conoscenza di questa istituzione, soprattutto là dove cerca di chiarire il significato assunto dal tentativo di dar vita a un tribunale ebraico laico in un contesto di ricostruzione nazionale, facendo luce anche sull’ostilità di cui fu oggetto non solo da parte dell’establishment religioso (fatto già noto), ma anche di quello sionista. Dall’analisi di documenti ufficiali, di pubblicazioni d’epoca e di materiale archivistico inedito emerge un quadro estremamente interessante dell’attività del tribunale di pace e del rilievo culturale delle sue decisioni. I suoi membri costituivano un gruppo di «jurist-nationalists who tried to establish what they defined as a national-secular legal system that would operate independently of British state law on the one hand and traditional Jewish law on the other. In concrete terms, they operated a set of community-based tribunals that were designed to be user-friendly and to employ relatively informal, yet ‘New Hebrew’ ways of solving private and public disputes» (p. 2). A dispetto della storiografia ufficiale sionista, che tende a rimuovere l’attività cruciale svolta dalla potenza mandataria nella realizzazione del progetto

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sionista (Shamir titola il I capitolo Mandate Palestine: the Enigma of the Missing Colonial State), l’autore insiste sul ruolo attivo dell’Inghilterra nella creazione dello stato di Israele e sul suo rapporto ambiguo con gli ebrei, che non sarebbero stati ‘altro’ rispetto agli inglesi. Questa premessa gli serve per dimostrare, in un confronto tra i vari sistemi giudiziari in funzione nella Palestina sotto mandato, lo strapotere di quello inglese: «In law, the identification with the West was directly expressed in the dominant attitude towards the newly established colonial system of justice [...] English imported law and the legal ways of the British in general were perceived by most Jewish jurists in Palestine as the incarnation of a highly developed enlightened law. It was also through law, either by identifying with the legal traditions of the English or by rejecting the unified British legal umbrella as applicable to both Jewish and Arab ‘natives’, that the distance from the culturally inferior Arab had been maintained» (p. 25). Il tribunale ebraico di pace sarebbe dunque stato anche un tentativo di contrastare questo strapotere, a partire dal riconoscimento di una precisa e vitale tradizione giuridica delle comunità ebraiche della diaspora. Nato precedentemente all’assegnazione del mandato all’Inghilterra come alternativa laica ai tribunali rabbinici, avrebbe dovuto costituire «the nucleus of a national and secular legal system and a potential foundation for the creation of an authentic autonomous Hebrew law» (p. 32). Nel corso degli anni Venti l’attività del tribunale di pace si ammantò di un forte spirito nazionalista: i suoi membri cercarono di prendere le distanze sia dallo stato coloniale e dalle sue leggi, sia dalla religione ebraica e dalla sua legge. Shamir prende in considerazione il rapporto del tribunale di pace con il governo mandatario, non facile, ma nemmeno particolarmente aspro. La sua conclusione è che «it was not the colonial state and its legal officers, but rather forces from within the Jewish colonizing community of Palestine, that ultimately brought about the demise of the Hebrew Law of Peace» (p. 63). I contrasti maggiori si ebbero, infatti, proprio con gli interpreti ufficiali della legge ebraica, che sarebbe stata monopolizzata dall’establishment rabbinico dell’Europa tardo-medievale per poi fossilizzarsi sotto l’autorità dei rabbini. Di conseguenza, i sostenitori del tribunale di pace dichiaravano di impegnarsi per una «true traditional Hebrew law which aspires for justice and equity, grace and truth in human relations without binding them to the chains of religion» (p. 36). Inoltre, essi sostenevano, contrariamente all’interpretazione tradizionale, che lo spirito vitale della legge ebraica non si trovava nei testi o nelle sentenze rabbiniche, ma nel suo essere espressione dell’intera comunità: «The tradition is based on a democratic and popular idea: The people are the makers of their laws» (p. 36). Essi non si spinsero

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però fino a mettere in discussione le prerogative delle corti rabbiniche in materia di «diritto civile» (personal-status). Nondimeno, le relazioni tra le due istituzioni giudiziarie furono particolarmente tese proprio sulla questione di chi avrebbe dovuto scegliere i giudici e sulla composizione dei tribunali della comunità ebraica di Palestina. Nel suo sforzo di muoversi tra legge civile e legge religiosa, il tribunale ebraico di pace non pretese mai di includere materie relative al «diritto civile» e al diritto penale, demandando le prime alle corti rabbiniche e le seconde all’amministrazione coloniale. Ciò nonostante, l’opposizione dei tribunali rabbinici e la loro collaborazione con l’autorità mandataria furono determinanti nel condurre al fallimento i progetti dei sostenitori della legge ebraica di pace: «the historical fact is that the orthodox nationalists of Palestine developed an unabashed and uncompromised statist orientation: seeking the protection of the state for their courts, imposing their jurisdiction by means of state law coercion, and in effect encouraging the public at large to use the colonial state’s courts» (p. 63). Ma l’opposizione non venne solo dai religiosi. Shamir parla di ‘riluttanza’ delle istituzioni sioniste a facilitare la nascita di istituzioni legali autonome: «the preference for the law of the colonial state that many Zionist institutions displayed must be seen as a ‘negative’ rather than a ‘positive’ preference. That is, it was based on the tacit assumption that in crucial constitutional matters, the law of the state would not become a constitutive element because the force of public opinion and the sanctioning capacities of Zionist institutions would deter prospective claimants from bringing their grievances to the ‘foreign’ courts of the colonial state [...]. In short, the thesis I propose here is that, given the particular conditions of state-building under the auspices of a hovering colonial state, the law of the latter was the option because the threats posed to governing political bodies by an emergent non-statist juridical body outweighed the risks posed to it by the ordering and disciplining capacities of the colonial law» (p. 132). E gli esempi addotti dall’autore a sostegno della sua tesi sono molti. Con la loro rivalutazione di una esperienza laica di vita esilica, non monopolizzata dai rabbini, i sostenitori della legge ebraica di pace si scontravano con l’idea sionista che tendeva a rifiutare il passato vissuto nella diaspora, o al più a considerarne l’aspetto puramente religioso, legittimando così il rabbinato ortodosso «as the authentic representative of the Jewish people in its non-sovereign form, as the legitimate keeper of tradition, and as the valid custodian of Jewish memory through thousands of years of non-sovereign existence [...]. Consequently, the Zionist orthodox rabbinate benefited from the secular repudiation of exilic life, thus securing for itself a strictly religious definition of Judaism» (p. 158). E le riflessioni conclusive di questo interessante e, per certi versi, affasci-

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nante studio sono in gran parte dedicate proprio alle implicazioni che queste diverse concezioni della legge comportavano per la nascita di uno stato ebraico e alle conseguenze che tale legittimazione del rabbinato ortodosso ha avuto sul moderno stato di Israele. LUCIA ROSTAGNO

CATHERINE POUJOL, Le Kazakhstan, Paris PUF, 2000. La collana francese Que sais-je? (PUF) ci ha abituati a sintesi di divulgazione in cui l’esigenza di concisione non va a scapito della qualità scientifica. Un’ulteriore conferma ci viene da questa monografia dedicata al Kazakhstan, una delle repubbliche centro-asiatiche resesi indipendenti nel 1991, in seguito alla dissoluzione dell’impero sovietico. Nella prima parte l’Autrice ripercorre a grandi linee le fasi più antiche della storia del Kazakhstan, rendendo conto delle culture che si sono avvicendate nel suo territorio, dall’avvento dell’allevamento transumante nell’età del Bronzo alla nascita del nomadismo, dalla formazione dei primi potentati nomadici (dai Xiongnu ai Mongoli) all’ascesa politica dei khanati kazachi, dalla penetrazione dell’Islam all’entrata delle steppe kazache nell’orbita coloniale russa, nel XVIII secolo. La seconda parte è consacrata all’epoca sovietica, dalla rivoluzione del 1917 alla perestrojka, alla proclamazione dell’indipendenza (1991). All’analisi della difficile transizione post-sovietica – che tanto in questa quanto nelle altre repubbliche centro-asiatiche da poco sovrane non ha ancora esaurito il suo corso – è dedicata la terza parte di questa monografia. Dalla preistoria ai giorni nostri, l’Autrice ci guida attraverso le tappe cruciali della storia di questo paese in una trattazione precisa e ben informata, mostrando, tuttavia, di avere un occhio di riguardo per l’epoca moderna e, soprattutto, contemporanea. Scenario privilegiato dello sviluppo storico del nomadismo euro-asiatico, il Kazakhstan offre interessantissimi spunti di approfondimento sugli esiti traumatici che l’assoggettamento di un territorio di vocazione prettamente nomadica a un potentato sedentario – in questo caso l’impero russo e poi sovietico – può produrre: dalle prime misure volte a scoraggiare il nomadismo (a partire dal 1756), pressioni esercitate con metodi sempre più coercitivi, fino alla collettivizzazione dell’agricoltura, nel 1927. Oltre alla repressione del nomadismo, il recente passato del Kazakhstan è segnato dai processi di adeguamento forzato a un modello di gestione politica, economica e culturale sostanzialmente alieno a quello tradizionale, processi condivisi dalle

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altre repubbliche centro-asiatiche: l’abbandono dell’alfabeto arabo-persiano a favore di quello latino e, successivamente, di quello cirillico; la proibizione della poligamia e la soppressione dei tribunali coranici; l’entrata nel novero delle repubbliche socialiste sovietiche, nel 1936; le repressioni dell’epoca stalinista e la scomparsa della classe intellettuale indigena. Il Kazakhstan è stato scelto come meta delle deportazioni di massa dai territori dell’ovest dell’URSS e, inoltre, come luogo ideale per la sperimentazione nucleare, con la nascita del poligono di Semipalatinsk e le disastrose conseguenze ecologiche e sanitarie che ne sono derivate; lo smantellamento dell’arsenale nucleare (avvenuto tra il 1994 e il 1995) non è che il primo, benché fondamentale passo verso la loro neutralizzazione. Oltre a quello ecologico, altri problemi – e di non poca sostanza – vedono impegnato il Kazakhstan indipendente: la ridefinizione dell’identità nazionale, che sotto il profilo politico passa attraverso la «kazachizzazione» della classe dirigente e l’emarginazione della minoranza russa (la più consistente di tutte le repubbliche centro-asiatiche), precedentemente alle leve del comando; l’apertura a nuovi partner internazionali alternativi alla Russia (cui il paese è tuttavia ancora saldamente legato), il ruolo politico ed economico nel quadro degli equilibri regionali (in particolare l’aspirazione alla «leadership centro-asiatica» che il Kazakhstan contende all’Uzbekistan) e, infine, i problemi sollevati dal revival islamico che la relativa vicinanza dell’Afghanistan rende particolarmente delicati. Un contributo di grande utilità e competenza, dunque, quello di C. Poujol. Non ne condividiamo appieno, tuttavia, l’impostazione un po’ troppo evenemenziale (forse da imputare a una scelta editoriale) di cui risentono, in modo particolare, i capitoli dedicati alla storia antica del Kazakhstan. Unica forma di produzione praticata nella regione per circa tre millenni – e fenomeno di «lunga durata» per eccellenza – il nomadismo sfugge a un’analisi condotta in termini puramente politici e dinastici e in questo saggio la sua natura non sembra sufficientemente chiarificata. CIRO LO MUZIO

Mir’a¯ t al-asra¯ r by Shaykh ‘Abd al-Rahma¯ n Chishtı¯. Urdu¯ translation from Per˙ sian and introduction by Mawla¯ na¯ Wahid Bakhsh Sayal Sa¯ birı¯. Delhi, Ma˙ ˙ ktaba Ja¯ m-i Nu¯ r, 1418/1997-8, 1263 pp. A major problem faced by scholars of the religious history of Muslim India

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is the lack of a wider availability of classic texts in either Persian or Urdu¯ ; many important sources, of various literary styles, had not been published for many years. The recent translation in Urdu¯ of the Mir’a¯ t al-asra¯ r can been appreciated also in view of the fact that, according to Storey, the book has never been published in the original Persian1. The publication of the Mir’a¯ t al-asra¯ r, by Maktaba Ja¯ m-i Nu¯ r of Delhi, was preceded by that of other voluminous texts, in Urdu¯ , such as the Hasht bihisht, the collection of eight well-known malfu¯ za¯ t of ˙ the Chishtiyya order. The Mir’a¯ t al-asra¯ r was written after the golden age of the famous Chishti malfu¯ za¯ t of the sultanate period and is therefore a later source of Chishti litera˙ ture. The later epoch of its composition and the erudition of its author make it a very significant source for the study of the history of Indian sufis during the sultanate period. The author, ‘Abd al-Rahma¯ n Ibn ‘Abd al-Rasu¯ l Ibn Qa¯ sim ˙ Ibn Sha¯ h ‘Abba¯ sı¯ ‘Alawı¯ Chishtı¯ Sa¯ birı¯, was born and died in Dhanitı¯ ˙ (1005/1596-1094/1683), a village not far from Lucknow. He was a khalı¯fa of his brother Shaykh Hamı¯d, whose silsila descends from Shaykh Ahmad ‘Abd al˙ ˙ Haqq Radawlı¯ (d. 837/1434). He was initiated in the Sa¯ birı¯ branch of the Chi˙ ˙ shtiyya order by Shaykh Hamı¯d. Shaykh ‘Abd al-Rahma¯ n was a prolific writer, ˙ ˙ with about forty-seven titles ascribed to him. Besides the Mir’a¯ t al-asra¯ r, ‘Abd al-Rahma¯ n wrote two other important biographies of earlier Indian saints: the ˙ Mir’a¯ t-i Mada¯ rı¯ and the Mir’a¯ t-i Mas‘u¯ dı¯. The Mir’a¯ t-i Mada¯ rı¯ is a complete biography of Sha¯ h Mada¯ r (d.840/1436), the popular saint who came from Syria and founded the Mada¯ riyya order of Indian sufis. The Mir’a¯ t-i Mas‘u¯ dı¯ is the biography of Sa¯ la¯ r Mas‘u¯ d, also known as Gha¯ zı¯ Miya¯ n (d. 424/1033), who was a famous early warrior saint buried in Bahraich. Shaykh ‘Abd al-Rahma¯ n, as ˙ other earlier Chishti sufis, such as Muhammad Gı¯su¯ dira¯ z (d. 1422), learnt San˙ skrit; however, unlike Gı¯su¯ dira¯ z, he did not do so to debate with Indian brahmins, but, as other Indian sufis of the Moghul period, to conciliate indian philosophy with Islamic beliefs. The Mir’a¯ t al-asra¯ r pertains to the style of tadhkira or biographies of sufis. It is a biographical dictionary of sufis of different orders classified according to epochs. It may be considered one of the most important biographical dictionaries written in India in the 17th century. It covers a very long historical period, stretching from the advent of Islam until the sufis of 15th century India. The Mir’a¯ t al-asra¯ r was written by Shaykh ‘Abd al-Rahma¯ n over a period of almost ˙ twenty years, from 1045/1635 to 1065/1654. As many other Indian hagiographies of sufis, the Mir’a¯ t al-asra¯ r mentions a countless number of miracles and

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1972.

STOREY C. A. Persian Literature, a bio-bibliographical survey. Vol. I, part 2, p. 1005, London

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wonders ascribed to the saints. Nevertheless it remains a reliable source of biographical and historical information. The book is a detailed source of knowledge on the Chishtiyya order and it also contains considerable information about other Indian orders, regional saints, earlier Indian literature, and references of many minor as well as unknown sufis. The book is divided into an introduction (muqaddama), twenty-three chapters (tabqa) and a conclusion (kha¯ tima). The muqaddama begins with an ˙ anecdote of Niza¯ m al-Dı¯n Awliya¯ ’ drawn from the Ra¯ hat al-qulu¯ b2 and Siya¯ r al˙ ˙ awliya¯ ’3, followed by another from the Lata¯ ’if-i ashrafı¯4. The author then men˙ tions the distinction between khila¯ fat kabira¯ and saghira¯ and gives a description of several major and minor sufi silsila (Qa¯ diriyya, Ysawiyya, Naqshbandiyya, Shatta¯ riyya, Qalandariyya, ‘Aı¯daru¯ siyya, Nu¯ riyya, Ansa¯ riyya etc.). The rest of ˙˙ ˙ the muqaddama describes some concepts related to the illustration of the mystical states of sufis, as well as previous sufi classical literature, such as the Kashf al-mahju¯ b, Ada¯ b al-murı¯dı¯n, ‘Awa¯ rif al-ma‘a¯ rif, and the Chishti literature of the ˙ sultanate period. The first tabqa contains the biographies of the Prophet, of the four khula˙ fa¯ ’ and those of some of their companions. The second tabqa contains the bio˙ graphies of the a’imma, such as Ja‘far as-Sa¯ diq, Mu¯ sa¯ Ka¯ zim, ‘Alı¯ al-Rida¯ and ˙ ˙ ˙ others, who were important rings of many Indian silsila. The third tabqa inclu˙ des the biographies of famous early Arab saints, such as Hasan al-Basrı¯ and Ma˙ ˙ ¯lik Ibn Dı¯na¯ r. It is interesting to note that ‘Abd al-Rahma¯ n did not mention the ˙ common legend among the Muslims of Kerala, according to which Islam spread to Malabar in consequence of the missionary activity of Ma¯ lik Ibn Dı¯na¯ r and his disciples. This is a typical example of the limited information available to northern Indian sufis of the Moghul period, about the history of sufism on the Malabar coast. The succeeding chapters (from tabqa four to tabqa sixteen) ˙ ˙ contain the biographies of about one hundred and forty Arab and Central Asian sufis. These include the predecessors of the Chishtiyya silsila: Khwa¯ jah Abu¯ Isha¯ q Chishtı¯ (tabqa x), Khwa¯ jah Abu¯ Ahmad Chishtı¯ (tabqa xi), Khwa¯ jah ˙ ˙ ˙ ˙ Abu¯ Muhammad Chishtı¯ (tabqa xii), Khwa¯ jah Yu¯ suf Chishtı¯ (tabqa xiii), Khwa¯ ˙ ˙ ˙ jah Qutb al-Dı¯n Mawdu¯ d Chishtı¯ and Khwa¯ jah Ahmad Mawdu¯ d Chishtı¯ (tabqa ˙ ˙ ˙ xiv). There are also paragraphs on Hakı¯m al-Tirmidhı¯, Halla¯ j, Khwa¯ jah Yu¯ suf ˙ ˙ Hamada¯ nı¯, Ahmad Rifa¯ ‘ı¯, ‘Abd al-Qa¯ dir al-Jı¯la¯ nı¯ etc.. ˙ Tabqa seventeen begins with the biography of Khwa¯ jah Mu‘ı¯n al-Dı¯n Chi˙ 2 The alleged malfu¯ za¯ t of Shaykh Farı¯d al-Dı¯n Ganj-i Shakar, whose compilation is attributed to Niza¯ m al-Dı¯n Awliya¯ ’. ˙ ˙ 3 Famous tadhkira of Chishti sufis written by Sayyid Muhammad Kirma¯ nı¯, known as Amı¯r ˙ Khwurd. 4 Malfu¯ za¯ t of Hazrat Jaha¯ ngı¯r Simna¯ nı¯ compiled by his disciple Niza¯ m al-Dı¯n Yamanı¯. ˙ ˙ ˙ ˙

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shtı¯, the founder of the Chishtiyya silsila in India. The fact that is followed by the biographies of famous Arab and Central Asian saints contemporaries of Mu‘ı¯n al-Dı¯n Chishtı¯, such as Najm al-Dı¯n Kubra¯ , Shiha¯ b al-Dı¯n Suhrawardı¯, Ibn ‘Arabı¯, shows the precise historical classification adopted by the author. The biography of Mu‘ı¯n al-Dı¯n Chishtı¯ contains references to previous Chishti literature, such as the Akhba¯ r al-akhya¯ r5, Siya¯ r al-awliya¯ ’ and Dalı¯l al-‘a¯ rifı¯n (the latter being the alleged malfu¯ za¯ t of Mu‘ı¯n al-Dı¯n Chishtı¯)6. In the end of ˙ the chapter there is also a small paragraph on the history of Ajmer. The following tabqa begins with the biography of Khwa¯ jah Qutb al-Dı¯n Bakhtiya¯ r Ka¯ kı¯ ˙ ˙ with quotations from the Fawa¯ ’id al-fu’a¯ d7, Siya¯ r al-awliya¯ ’, Siya¯ r al-‘a¯ rifı¯n8, and includes the biographies of eminent Western sufis, such as Jala¯ l al-Dı¯n Ru¯ mı¯ and Sulta¯ n Walad. The nineteenth tabqa begins with the biographies of ˙ ˙ Shaykh Farı¯d al-Dı¯n Ganj-i Shakar and his successor Shaykh Niza¯ m al-Dı¯n ˙ Awliya¯ ’, followed by those of many other Indian and Asian sufis of the same epoch, such as Ziya¯ ’ al-Dı¯n Nakhshabı¯, the author of Tu¯ t¯ı na¯ ma. The paragraph ˙ ˙ ˙ on Farı¯d al-Dı¯n Ganj-i Shakar contains references to his malfu¯ za¯ t and to Fa˙ 9 wa¯ ’id as-sa¯ likı¯n . The following tabqa includes the biographies of many well-known khulafa¯ ’ ˙ of Shaykh Niza¯ m al-Dı¯n Awliya¯ ’, such as his successor Shaykh Nas¯ır al-Dı¯n ˙ ˙ Chira¯ gh-i Dihlı¯, Amı¯r Khusraw, Amı¯r Hasan Sijzı¯ and other saints. The twenty˙ first tabqa contains the biographies of the famous khulafa¯ ’ of Nas¯ır al-Dı¯n Chi˙ ˙ ra¯ gh-i Dihlı¯, such as Muhammad Bandah Nawa¯ z Gı¯su¯ dira¯ z and Sadr al-Dı¯n ˙ ˙ Hakı¯m. It also includes paragraphs of eminent Central Asian sufis, such as ˙ Baha¯ ’ al-Dı¯n Naqshband and other prominent Indian sufis, such as the Suhrawardi shaykh Jala¯ l al-Dı¯n Bukha¯ rı¯, known as Makhdu¯ m Jaha¯ niya¯ n. A kara¯ mat ascribed to Sadr al-Dı¯n Hakı¯m gives an example of those many similar cases ˙ ˙ narrated in the book. Sadr al-Dı¯n was a yu¯ na¯ nı¯ hakı¯m – i.e. a galenic physician. ˙ ˙ One day after having cured a sick person, Sadr al-Dı¯n gave him a written piece ˙ of paper (khatt) and told him to go to a certain part of the town and show the ˙˙ paper to a stone that was there. The person did as he was ordered and when he showed the paper to the stone the latter began to run until it reached a place where it stopped; besides this place the man found a treasure (p. 1000)10. At the end of this tabqa there is a paragraph on the history of Muslim Kashmir. The ˙ 5 A biographical dictionary of sufis written by Shaykh ‘Abd al-Haqq Muhaddith Dihlawı¯, often ˙ ˙ mentioned in the Mir’a¯ t al-asra¯ r. 6 Compilation attributed to Qutb al-Dı¯n Bakhtiya¯ r Ka¯ kı¯. ˙ 7 The well known Malfu¯ za¯ t of Niza¯ m al-Dı¯n Awliya¯ ’, compiled by Amı¯r Hasan Sijzı¯. ˙ ˙ ˙ 8 Tadhkira of Chishti and Suhrawardi saints, composed by Shaykh Jama¯ lı¯. 9 The alleged Malfu¯ za¯ t of Qutb al-Dı¯n Bakhtiya¯ r Ka¯ kı¯, compilation attributed to Farı¯d al-Dı¯n ˙ ˙ Ganj-i Shakar. 10 The same kara¯ mat is mentioned in the Akhba¯ r al-akhya¯ r of Shaykh ‘Abd al-Haqq Muhaddith ˙ ˙

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twenty-second tabqa contains biographies of other famous sufis of the sultanate ˙ period, such as Ashraf Jaha¯ ngı¯r Simna¯ nı¯ who moved from the Kubrawiyya to the Chishtiyya order, as well as several non Indian coeval sufis, such as Khwa¯ jah Ya‘qu¯ b Charkhı¯. The last tabqa begins with the life of Shaykh Ahmad ‘Abd al˙ ˙ Haqq Radawlı¯, to whose silsila Shaykh ‘Abd al-Rahma¯ n was related. It contains ˙ ˙ also the biography of Shaykh ‘Abd Alla¯ h Shatta¯ rı¯, the founder of the Shatta˙˙ ˙˙ ¯riyya order. The last saints mentioned are: Husa¯ m al-Dı¯n Ma¯ nikpu¯ rı¯ (d. ˙ 853/1449), his khalı¯fa Sha¯ h Sayyidu¯ and Shaykh Niza¯ m al-Din Jau¯ npu¯ rı¯, born ˙ in 900/1495. This brief description of the contents of the book shows its remarkable value as a source for the study of the activities and works of Indian sufis during sultanate period. The Mir’a¯ t al-asra¯ r reports the places and dates of death and/or birth of many of the saints, the knowledge of which it is useful especially in the case of important, but less famous, saints and khulafa¯ ’. As has been already mentioned, the author quotes from various previous hagiographic literature of Indian sufis and refers also to less famous sources available during his time. Besides earlier biographies and malfu¯ za¯ t, ‘Abd al-Rahma¯ n also includes ˙ ˙ references to maktu¯ ba¯ t and excerpts from poetic works of several sufis, maintained in the original Persian in the present edition. This Urdu¯ translation is certainly not a critical edition, but rather a publication for the wide public. In his long introduction the translator offers a biography of the author, but there are no notes to the text or thematic indexes. Anyhow the effort to republish such classic works in contemporary India can be warmly appreciated. FABRIZIO SPEZIALE

PREM CAND, I racconti di Tolstoj, a cura di Donatella Dolcini, Milano, ed. Mimesis, 1999, 208 pp. Tra l’ottobre 1909 e il settembre 1910, Mohandas Karamchand Gandhi, allora impegnato nella difesa degli indiani in Sudafrica, e Lev Nikolaevic Tolstoj, prossimo al termine della sua lunga vita, si scambiarono un breve carteggio: quattro lettere dell’avvocato indiano, tre del romanziere russo. Nonostante l’esiguità del contatto diretto, gli esiti dell’incontro fra le due grandi personaDihlawı¯ with the difference that, in the Akhba¯ r al-akhya¯ r, a dog takes the role of the stone and the sick is a fairy, cfr. Akhba¯ r al-akhya¯ r, Delhi (s.d. p. 317).

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lità, tra le maggiori del diciannovesimo e del ventesimo secolo rispettivamente, furono assai rilevanti. In una intervista resa nel 1931, ad esempio, Gandhi riconobbe esplicitamente in Tolstoj uno dei propri maestri, pur sottolineando di aver ricevuto dallo scrittore russo non già idee nuove, ma gran parte della chiarezza e della forza necessarie a porle in opera. Tolstoj, da parte sua, si era da tempo interessato all’India e alla spiritualità indiana, arrivando a definire l’idea metafisica religiosa della dottrina di Krishna come «il fondamento eterno e universale di tutte le filosofie e le religioni vere». Nella celebre Lettera a un Indù, scritta (dicembre 1908) in risposta alle calorose sollecitazioni dell’estremista bengalese Taraknath Das, Tolstoj espose con una certa ampiezza il proprio pensiero sull’India e le civiltà asiatiche, individuando nell’allontanamento dalle proprie tradizioni fondate sull’amore e sulla non-violenza la causa della loro moderna decadenza: «[Se] una compagnia commerciale ha ridotto in schiavitù una nazione di 200 milioni di persone, [...] se gli Indù sono stati asserviti con la violenza, è perché essi stessi sono vissuti con la violenza, vivono con la violenza, e non riconoscono l’eterna legge dell’amore, connaturata all’umanità» (Lettera a un Indù, V, in P. Bori e G. Sofri, Gandhi e Tolstoj, 1985, p. 192). Proprio la Lettera a un Indù fu la ragione del primo contatto epistolare fra Gandhi e Tolstoj. Gandhi vi trovò probabilmente sia stimoli sia conferme al proprio pensiero, soprattutto nei riferimenti alla critica del materialismo moderno, alla necessità di rinnovamento interiore, alla responsabilità dell’India stessa per la propria sottomissione. Gandhi, dunque, chiese e ottenne da Tolstoj il permesso di ripubblicare la Lettera, e in seguito commentò su Indian Opinion il sostegno dello scrittore russo con parole di viva gratitudine. Nelle lettere che seguirono è manifesto il progressivo approfondirsi dell’interesse e della stima di Tolstoj per Gandhi. L’ultima sua lettera definisce la lotta non-violenta nel Transvaal come «l’opera più centrale, più importante fra tutte quelle che si svolgono attualmente nel mondo, e di essa saranno partecipi necessariamente non solo i popoli del mondo cristiano, ma quelli di tutto il mondo». Tra il 1903 e il 1911, Gandhi pubblicò su Indian Opinion anche una serie di racconti di Tolstoj in traduzione inglese. Si trattava, almeno in parte, di opere composte dal romanziere russo per la scuola rurale della comunità di Jasnaja Poljana. È evidente come Gandhi riconoscesse in Tolstoj le qualità ideali dell’educatore: le attività di quest’ultimo in favore del riscatto, dell’elevazione e della formazione dei contadini russi sarebbero state una fonte di forte ispirazione per l’intensa e assai simile opera svolta dal Mahatma nei villaggi dell’India nell’arco di tanti anni. Anche i fondamenti del procedimento formativo posto in atto dai due appaiono i medesimi: quando, ad esempio, Tolstoj nella rivista pedagogica della comunità rurale, si domandava: «I ragazzi di campagna devono imparare da noi a scrivere, o noi da loro?», con ciò intendeva certamente alludere a quella sapienza innata, a quella congenita luce interiore da cui Gan-

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dhi riteneva principiasse il processo di ‘trasformazione del cuore’ (hrdaya-pari˙ vartan), presupposto di ogni attività sociale e politica. Nel 1923, i Racconti per contadini di Tolstoj vennero tradotti in hindi, per tramite delle loro versioni in inglese, da Premcand, massimo romanziere del tempo e convinto seguace del Mahatma. Si tratta di una raccolta di ventuno storie, tutte dotate di un forte intento didascalico e di una morale esplicita. Due dei racconti, di stampo autobiografico, erano stati scritti per la scuola rurale; gli altri diciannove vennero composti più tardi, intorno agli anni ottanta del XIX secolo, quando lo scrittore russo era impegnato nella produzione e nella diffusione di una narrativa di facile lettura. Come osserva Donatella Dolcini, curatrice e traduttrice delle traduzioni hindi di questi racconti, sono talora evidenti le difficoltà incontrate da Premcand nel tentativo di indianizzare l’originale russo. L’intento dello scrittore hindi non era, infatti, quello, generico, di far conoscere al pubblico indiano, nella sua medesima lingua, l’opera letteraria di Tolstoj, bensì quello, assai più specifico, di presentare una narrativa ispirata a valori umani e morali prossimi a quelli gandhiani: in un certo senso, anche la possibilità di indianizzare la cornice narrativa doveva rendere evidente quella comunità di valori. Il tentativo di Premcand, però, sembra fermarsi a metà strada. L’‘indianizzazione’ si risolve in forme tutto sommato elementari, quali la sostituzione dei nomi, talora resi per semplice assonanza fonetica, o l’introduzione di proverbi e modi di dire indiani, attinti da quel formidabile repertorio stilistico che lo scrittore hindi aveva al tempo già riccamente elaborato. Anche l’impronta cristiana rimane assolutamente evidente. Si tratta, è vero, del cristianesimo tolstojano, scaturito direttamente da quel «Sermone della Montagna» che Gandhi considerava perfetta espressione dello stesso dharma hindu; ciò nondimeno, permangono personaggi, situazioni e temi così fortemente caratterizzati in senso cristiano, che ci si chiede quale possa esserne stato l’apprezzamento da parte del pubblico indiano, e in particolare da parte di quel pubblico indiano non colto cui l’opera era destinata. La curatrice non ci informa sulle fortune di questi Racconti di Tolstoj (Ta¯ l’sta¯ y kı¯ kaha¯ niya¯ m), ma, ˙ eloquentemente, ci avverte che le storie narrate «non fanno vibrare né le corde del suo [di Premcand] sentire, né quelle della sua esperienza, anche al di là della normale forzatura della traduzione in sé». Rimane, per il lettore italiano, il piacere particolare di poter leggere questi racconti sia nella loro versione originale russa, resa in italiano da Carla Muschio, sia nella traduzione indianizzata di cui s’è detto, a sua volta resa nella nostra lingua con vivacità e originalità da Donatella Dolcini: l’una e l’altra componendo infatti, grazie a un felice progetto editoriale, un unico volume impaginato in ‘fronte-retro’. GIORGIO MILANETTI

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L. ALSDORF, Kleine Schriften: Nachtragsband, herausgegeben von Albrecht Wezler. Glasenapp-Stiftung Band 35, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 1998, pp.VIII, 763-935. La raccolta principale degli scritti minori di Ludwig Alsdorf apparve nel 1974, come volume 10 della Glasenapp-Stiftung, vivente ancora l’autore (19041978). Essa comprendeva 44 articoli e 3 recensioni, ma non quei Beiträge zur Geschichte von Vegetarismus und Rinderverehrung in Indien che tra gli scritti minori dell’Alsdorf sono certamente il maggiore, per mole e importanza. Pubblicati nel 1962 negli atti dell’Accademia di Magonza, i Beiträge rimasero sempre di difficile accesso e non ebbero la risonanza che meritano, come rileva anche il curatore Wezler nella sua prefazione, pp. V-VI. Il non trovarli nelle Kleine Schriften fu dunque una delusione. Fortunatamente questo volume supplementare, la cui numerazione di pagine continua quella della raccolta principale, colma ora la lacuna. Difatti, oltre a sei studi apparsi successivamente al 1974 ( pp.763-830) esso contiene, alle pp. 831-899, la ristampa di quel saggio fondamentale sul quale conviene, con l’occasione, soffermarsi un po’. Non c’è dubbio che dieta vegetariana e venerazione del bovino sono tratti inconfondibili della civiltà indiana, anche contemporanea. L’indagare di essi la genesi e lo svolgimento, è un penetrare nel cuore stesso di quella civiltà. Sennonché l’impresa si palesa subito ardua, per la lacunosità delle testimonianze, per le loro contraddizioni e per la quasi costante impossibilità di assegnare a esse date precise. Vegetarianismo e venerazione del bovino sono peraltro fatti separati e distinti, nel senso che l’intangibilità del bovino, l’interdizione di macellarlo e consumarne le carni, non esclude l’uso commestibile delle carni di altri animali. La dieta vegetariana ha origine altrove e precisamente nella dottrina dell’a-himsa¯ , dell’in-nocenza verso tutti gli esseri animati; dottrina a sua volta di ˙ oscura provenienza. Per l’Alsdorf (pp.845, 863-864, 883-884) l’ahimsa¯ non na˙ sce da preoccupazioni etiche, ma magico-rituali: è un tabu sulla vita che in nessuna sua forma dev’essere spenta. Questo tabu era certamente ignoto alle tribú indeuropee che incominciarono a riversarsi in India intorno al 1500 av.Cr. (secondo la datazione che l’Alsdorf adotta a p. 834). Al pari degli altri popoli indeuropei, gli Indoari praticavano su larga scala la macellazione, specie dei bovini, sia a scopo rituale sia a scopo profano. Valga, a questo riguardo, la testimonianza del grammatico Pa¯ nini che in Su¯ trapa¯ tha III, 4, 73, fornisce il termine ˙ ˙ goghna, letteralmente ‘bovicida’, come sinonimo metaforico di átithi- ‘ospite’; evidentemente perché era costume uccidere per l’ospite un bue e imbandirne le carni. Come, quando e perché si passasse da questa condizione di cose a quella, tuttora dominante, dell’intangibilità del bovino e della preferenza accordata alla dieta vegetariana, è la questione cruciale che l’Alsdorf pone a oggetto della sua ampia e dotta indagine, senza nascondersi la difficoltà di pervenire a una soluzione definitiva, soprattutto perché non c’è modo di stabilire, con certezza

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e precisione, quale fu, in quel processo di trasformazione, la parte avuta dalle popolazioni preesistenti – munda¯ -polinesiane, sino-tibetane, dravidiche – alle ˙˙ quali gli Indoari si sovrapposero, dando loro certamente molto, ma anche molto da esse ricevendo. Le testimonianze letterarie alle quali si deve fare ricorso, e delle quali l’Alsdorf appunto si serve, sono solo di parte indoaria e di data imprecisabile, ma in ogni caso abbastanza tarda. Se, per es., in Manusmrti ˙ V,39 leggiamo che yajñe vadho ’vadhah, cioè che l’uccisione eseguita nel compi˙ mento di un sacrificio non è un’uccisione, vuol dire che la cultura dell’ahimsa¯ ˙ aveva fatto cadere i sacrifici animali in tanto discredito, che la casta sacerdotale era dovuta correre ai ripari con l’espediente, ingegnoso e ingenuo nel medesimo tempo, di dichiarare l’uccisione rituale una non-uccisione. Ma quando cominciò a diffondersi la cultura dell’ahimsa¯ ? Già nel V secolo av.Cr. Erodoto sa˙ peva (III,100) d’Indiani che non uccidevano nessun essere animato, non seminavano nulla, non possedevano case e si cibavano solo di un frutto spontaneo della terra. Ma la notizia, come le altre sue sull’India e sugli Indiani, è d’incerta derivazione e valutazioine. Su un terreno piú solido ci troviamo, invece, un secolo dopo, grazie alla testimonianza (sfuggita all’Alsdorf) di uno degli storici di Alessandro. Nella primavera del 326 av.Cr., Onesicrito ebbe, nei dintorni di Taxila, un colloquio, mediato da interpreti, con il ginnosofista Màndani. Dopo aver esposto le sue dottrine che Onesicrito (o Strabone per lui) riporta molto succintamente, Màndani domandò al suo interlocutore se dottrine analoghe si professassero anche tra i Greci. E Onesicrito rispose di sí, che anche Pitagora diceva cose di quel genere e raccomandava di astenersi dalle carni: oÇti kai` Py&ago´raw toiay^ta le´goi keley´oi te e∫mcy´xvn a∫pe´xes&ai (Strabone,XV,1,65). Se Onesicrito citò il vegetarianismo come esempio di contatto tra dottrine di Pitagora e dottrine di Màndani, ne dobbiamo dedurre che Màndani e i ginnosofisti suoi compagni erano vegetariani e praticavano l’ahimsa¯ . Dunque la cul˙ tura dell’ahimsa¯ era già diffusa nel IV secolo av.Cr., per lo meno in alcune ˙ scuole ascetiche dell’India nord-occidentale. Un secolo dopo abbiamo nelle iscrizioni di As´oka, intorno al 250 av.Cr., la prima attestazione del vocabolo, nella forma avihimsa¯ . Dico la prima, perché non c’è testo letterario indiano, in ˙ cui ricorra la parola ahimsa¯ , che possa farsi risalire, per lo meno nella recen˙ sione a noi pervenuta, a una data anteriore al 250 av.Cr. As´oka parla di avihimsa¯ nell’Editto Rupestre IV e nel settimo editto su colonna. In ER IV egli ˙ annovera l’avihimsa¯ verso gli esseri animati, tra le cose che non esistite in pas˙ sato per molte centinaia d’anni, erano invece ora in crescita, grazie all’insegnamento del Dharma (dharma¯ nus´a¯ sti) da parte del Re Deva¯ na¯ mpriya Priyadars´in. Nella lunga iscrizione di Colonna 7, dopo aver affermato che la crescita del Dharma (dharmavrddhi, continuando a mettere in sanscrito il non facile pra˙ crito as´okiano) presso gli uomini (manusya-) era stata promossa (vardhita-) solo ˙ in due modi, cioè mediante la disciplina (niyama- / niya¯ ma-) del Dharma e me-

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diante la profonda riflessione (o introspezione, nidhyapti) a un certo punto aggiunge: «Nondimeno con l’introspezione la crescita del Dharma presso gli esseri umani è aumentata di piú, al fine del non esercitare violenza (avihimsa¯ ) su˙ gli esseri viventi (bhu¯ ta-) e del non uccidere (ana¯ rambha- / ana¯ lambha-) esseri animati (pra¯ nin)». L’Alsdorf è dell’opinione (p.883) che l’ahimsa¯ di As´oka e il ˙ ˙ graduale passaggio di lui alla dieta vegetariana (ER I e bilingue greco-aramaica di Qandaha¯ r), non abbiano origini buddistiche, ma siano effetto di quel generale processo di trasformazione di cui sopra si è detto e che si sarebbe svolto indipendentemente da jainismo e buddismo, i quali ne sarebbero stati soltanto partecipi. Ma ciò non è molto persuasivo alla luce dei passi che abbiamo appena letto, nei quali As´oka mette la pratica dell’ahimsa¯ che in passato (egli dice) ˙ non esisteva, in esplicita relazione con l’insegnamento del Dharma da lui promosso. È invece vero, per contrasto, che stando ai testi canonici – tutti piuttosto tardi e in ogni caso posteriori ad As´oka – sembra che jainismo e buddismo non abbiano avuto molta parte nella diffusione e affermazione della cultura dell’ahimsa¯ e della congiunta dieta vegetariana (v. pp. 835 sgg., 838 sgg., 877-883). ˙ ¯ ya¯ ran˙ ga e il Desaveya¯ liya, ammettono senza esitazioni l’aliTesti jainici come l’A mentazione a base di carne e di pesce. A sua volta il Vinayapitaka pa¯ li annovera ˙ carne e pesce tra i cinque alimenti fondamentali ed espressamente riprova il vegetarianismo, o lo dichiara non necessario. La condanna della dieta carnea si trova soltanto in alcuni testi maha¯ ya¯ nici (non esaminati dall’Alsdorf) in particolare in quelli dove è formulata la dottrina del tatha¯ gatagarbha (v. D. SEYFORT RUEGG, «Ahimsa¯ and Vegetarianism in the History of Buddhism», Buddhist ˙ Studies in Honour of Walpola Rahula, London, 1980, pp.234-241). Nell’avviarsi alla conclusione della sua indagine, l’Alsdorf ribadisce (pp. 883-884) che all’origine dell’ahimsa¯ , e quindi del vegetarianismo, c’è il timore ˙ magico della soppressione della vita e giacché questo tabu era estraneo alle tribú indoarie, esso non poté provenire se non dal substrato preindoario. Il tabu avrebbe fatto parte, in altre parole, di quegli elementi culturali protoindiani e preindoari che riaffiorando a poco a poco alla superficie, hanno alla fine ¯ rya in Hindu¯ . Analoga considerazione trasformato, come scrive l’Alsdorf, gli A egli fa sulla venerazione del bovino che sarebbe anch’essa di origine autoctona e perciò anaria (pp. 884-899). Sennonché questa interpretazione, pur ben argomentata, si presta a qualche obiezione. Al tempo di Candra Gupta II Vikrama¯ ditya (375-413/415 d.Cr.) l’India fu visitata dal monaco buddista cinese Fahsien che nel 405-406 circa, percorrendo il Madhyades´a, cioè la regione a sud di Mathura¯ , osservò che nessuno vi uccideva esseri viventi né beveva vino né mangiava aglio e cipolla, tranne i soli ca¯ nda¯ la (in cinese chan-t’u-lo). Aggiungeva ˙˙ che nella regione non si allevavano né maiali né polli, né vi si vendeva bestiame bovino: «Nei mercati non ci sono macellai, né venditori di vino.... Soltanto i ca¯ nda¯ la praticano pesca e caccia e vendono le carni» (Taisho¯ Issaikyo¯ , vol. 51, p. ˙˙

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859, b, 1-11). Ora ca¯ nda¯ la, com’è noto, indica persona d’infima casta, o addirit˙˙ tura fuori casta; ma originariamente era il nome di una tribú preindoaria (v. M. MAYRHOFER, Etymologisches Wörterbuch des Altindoarischen, I, Heidelberg,1992, p.539) e non è impossibile che nell’India gangetica dei primordi del V secolo, i ca¯ nda¯ la pescatori, cacciatori e venditori di carni di cui parla Fa˙˙ hsien, fossero ancora un ben definito gruppo etnico e perciò parte di quel substrato anario, al quale l’Alsdorf (cui la testimonianza di Fa-hsien è sfuggita) attribuisce la paternità dell’ahimsa¯ e della venerazione del bovino. Del resto l’Als˙ dorf stesso ricorda (p.872n.) le orge di sangue che nel Bengala e nel Nepa¯ l contrassegnano, ancora oggi, le feste di Durga¯ , in cui si consumano vere ecatombi di bufali e capre. «È appena il caso di rilevare – egli commenta – che quei sacrifici cruenti non sono affatto la prosecuzione del sacrificio vedico, ario. La divinità cui essi s’indirizzano – Ka¯ lı¯ / Durga¯ –, nessuno la reputerà una divinità aria». Dunque dal medesimo fondo, o sottofondo anario, scaturirebbero tanto l’ahimsa¯ e la venerazione del bovino, quanto il loro contrario: i sacrifici cruenti ˙ a Durga¯ . L’Alsdorf non si nasconde questa contraddizione, ma la spiega (loc. cit.) come un esempio di quella giustapposizione di cose inconciliabilmente opposte, che è un tratto caratteristico della civiltà indiana. Si potrà discordare da questa spiegazione che del resto non pretende di essere definitiva, ma sarà difficile trovarne una migliore. Chi, come lo Schmidt, l’ha cercata tentando di difendere, contro l’Alsdorf, l’arianità dell’ahimsa¯ , non ˙ si può dire che sia riuscito nel suo intento, perché le testimonianze letterarie da lui addotte, oltre a essere piuttosto tarde, non provano minimamente la validità del suo assunto (v. H.P. SCHMIDT, «The Origin of Ahimsa¯ », Mélanges L.Renou, ˙ Paris, 1968, pp. 625-655). Anche i recenti lavori di Lambert Schmithausen e Tsuchida Ryutaro non recano novità degne di nota e lasciano invariati i termini della questione (v. L. SCHMITHAUSEN, «A Note on the Origin of Ahimsa¯ », Fest. ˙ Minoru Hara, Reinbek, 2000, pp. 253-282; R. TSUCHIDA, «Ahimsa¯ in the Life of ˙ Brahmanical Householders», ibid., pp. 411-432). Si dovrà, invece, completare il pensiero dell’Alsdorf con la considerazione che quel substrato anario al quale egli fa riferimento, non era un blocco omogeneo, ma un composto eterogeneo di popoli etnicamente e linguisticamente assai diversi l’uno dall’altro. È a questa diversità di stirpi che si deve verosimilmente attribuire, senza peraltro poter stabilire che cosa spetti all’una e che cosa all’altra, la diversità degli elementi culturali sopra notati e la loro contraddittoria natura. La raccolta, pregevole sotto ogni riguardo, si chiude con il sobrio discorso d’insediamento pronunciato dall’Alsdorf nel 1959, quando fu assunto tra i soci dell’accademia maguntina (pp. 900-901). Seguono tre accuratissimi indici (pp. 902-934) e un errata corrige di questo e del precedente volume (p. 935). PAOLO DAFFINÀ

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E. FRANCO, K. PREISENDANZ (ed.), Beyond Orientalism. The Work of Wilhelm Halbfass and its Impact on Indian and Cross-cultural Studies, AmsterdamAtlanta Rodopi, 1997, pp. xxxv + 673. ISBN 90-420-0240-9 (versione PB) Questo volume, progettato e curato da Eli Franco e Karin Preisendanz, si propone di raccogliere in un medesimo spazio un corposo nucleo di riflessioni concernenti i temi trattati dalle principali pubblicazioni di Wilhelm Halbfass. Esso fa parte della collana polacca dei Poznan studies in the philosophy of the sciences and the humanities (vol. n. 59). L’andamento dell’opera è ben scandito grazie a cinque partizioni tematiche, all’interno delle quali si dispongono gli scritti dei ventitre partecipanti al dibattito. Si tratta di un denso ed impegnato procedere che ha come primo soggetto l’impatto avuto dall’attività di ricerca condotta da Halbfass sugli studi indologici e sui Cross-cultural Studies, ma che in seconda battuta non evita di fronteggiare e di sottoporre ad un serio scrutinio, i temi e le problematiche generatisi sulla scorta delle questioni sollevate dalle critiche saidiane all’orientalismo e dalle varie periferie del post-orientalismo. Le cinque sezioni sono precedute da un’ampia introduzione dei due curatori, all’interno della quale essi, oltre ad illustrare le premesse storiche del volume, forniscono importanti e dettagliate informazioni riguardanti la biografia intellettuale e la carriera scientifica di Halbfass, facendo seguire a queste considerazioni un utilissimo elenco delle sue monografie, dei suoi saggi e dei suoi contributi. Nelle venticinque pagine successive a questa parte introduttiva del testo lo stesso Halbfass conduce il lettore, con puntualità e rigore, attraverso alcuni risvolti ed alcune problematiche teoriche e metodologiche che caratterizzano l’odierno costituirsi delle discipline inerenti alle culture sud-asiatiche, denunciando una certa persistenza di quello che lui chiama lo «specter of Orientalism» (p. 1). Halbfass riassume così il suo punto di vista rispetto a tali problemi, ad oggi assai rilevanti: «Certainly, we want to be ‘beyond’ European end Eurocentric claims to higher or absolute authority; we want to be ‘beyond’ the ‘epistemic subjugation’ of non-Western traditions and avoid false essentializations and reifications. We also want to be ‘beyond’ the meaningless proliferation of ‘objective’ information which is one of the ingredients of the ‘Europeanization of the earth’. But do we want to be ‘beyond’ the quiet end patient pursuit of understanding, which has also being part of the history of Indian and ‘Oriental’ studies? And do we want to be ‘beyond’ legitimate generalizations, which are inherent in the process of understanding itself? Once we commit ourselves to the pursuit of understanding, we have to live with the constant presence of misunderstanding and the inevitability of prejudice. But we also have to be aware

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of the positive potential, the seeds inherent within prejudice, which call for its transcendence and make understanding possible». (pp. 22-23) Le questioni sollevate sono quindi di certo ed ampio interesse, e, così come affrontate in questa collezione di saggi, lasciano presagire utili e rilevanti risultati, anche perché tra i contributori al volume vi sono studiosi autorevoli, provenienti sia dall’ambito degli studi indologici che da quelli comparatistici (come ad es. Johannes Bronkhorst, Francis X. Clooney, Fred Dallmayr, Minoru Hara, Klaus Karttunen, Jitendra Nath Mohanty, Ben-Ami Scharfstein, Albrecht Wezler). I due curatori del libro hanno esplicitamente richiesto agli autori di focalizzare la loro attenzione sui tre principali lavori di Halbfass (Cfr. W. Halbfass, India and Europe. An Essay in Philosophical Understanding, Motilal Banarsidass, Delhi 1990; W. Halbfass, Tradition and Reflection. Exploration in Indian Thought, State University of New York, Albany 1991; W. Halbfass, On Being and What there is. Classical Vais´esika and the History of Indian Ontology, State ˙ University of New York, Albany 1992), e questo non tanto mirando alla produzione di un felicitation volume, quanto semmai con l’idea di sottoporre ad un attento sguardo interdisciplinare la produzione halbfassiana. Ed è vero che, a partire dai precipui punti di vista e dalle specifiche discipline e specializzazioni, gli scritti dei vari autori animano considerevolmente la discussione, la quale si spiega ed articola all’interno delle già nominate cinque sezioni (i cui titoli, in progressione, sono: Cross-cultural Encounter and Dialogue; Issues of Comparative Philosophy; Topics in Classical Indian Philosophy; Developments and Attitudes in neo-Hinduism; Indian Religion: Past and Present). All’interno di tali sezioni sono affrontate sia questioni ampie e generali –riguardanti la costituzione di un progetto comparativo, la situazione degli studi sud-asiatici, il rapporto tra indologia e filosofia indiana, il concetto di ragione e razionalità alla luce delle culture indiana ed occidentale–, sia ricerche approfondite e specialistiche, le quali, ad esempio, vertono attorno a figure centrali della filosofia classica indiana, come quelle di Bhartrhari, Kuma¯ rila, Pa¯ tañjali. ˙ Il volume appare così, ad un primo sguardo, come un fitto intreccio di voci, un proficuo tessuto dialogico, un crocevia di discorsi, svolti all’insegna di un gadameriano dialogo, in cui si presentano ed incontrano tesi puntuali, cogenti domande, accattivanti suggestioni, approfondite ricerche. Ad una lettura più attenta si scorge però un secondo livello del dibattito, una sorta di immaginario di fondo, il quale è in gran parte costituito dal pensiero di Halbfass. Un pensiero che, a partire dalla prima pubblicazione di Indien und Europa nel 1981, ha consistentemente contribuito ad avviare, maturare e promuovere quel variegato contesto di discorsi che fornisce l’orizzonte di riferimento all’interno del quale si muovono le parole dei contributori al testo curato da Franco e Preisendanz. Infatti, è proprio con gli spunti, gli stimoli, e le idee che affollano la

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densa letteratura halbfassiana che dialogano qui gli intervenuti, presentando le loro puntualizzazioni e le loro varianti. Ed è dialogica anche l’impostazione editoriale scelta dai curatori, la quale permette ad Halbfass ed ai suoi interlocutori di intavolare una promettente disamina delle rispettive persuasioni. Questa particolare struttura del testo consente anche ad Halbfass di commentare ‘in diretta’ quanto espresso dai vari scritti. Halbfass replica, attraverso quattro lunghi saggi posti in chiusura di ognuna delle partizioni del volume, riportando così a sé il circolo della conversazione. Tale particolare ha oggi un notevole pregio documentaristico, se si considera che le pagine di replica di Halbfass costituiscono una parte importante della sua ultima produzione scientifica, la quale è stata bruscamente interrotta dalla morte, avvenuta il 26 Maggio 2000. Quest’opera è utilissima anche sul fronte bibliografico ed informativo, dal momento che permette di entrare in contatto con una vasta ed aggiornata ricognizione di testi e monografie specifiche, d’interesse unico. Se tra i molti obiettivi che i curatori del testo si erano posti a monte della sua stesura c’era l’intenzione di far si che «[...] the interest in and commitment to Indian philosophy expressed in this way will hopefully awaken the interest of philosophers otherwise no concerned with Indian philosophical issues and cross-cultural understanding» (p. xvii), allora posso dire, a mio modesto modo di vedere, che essi lo hanno ampiamente raggiunto. FEDERICO SQUARCINI

VALDO FERRETTI e GIANCARLO GIORDANO ( a cura di ), La rinascita di una grande potenza - Il rientro del Giappone nella società internazionale e l’età della Guerra fredda , Milano FrancoAngeli 1999, 000 pp. Tra l’autunno del 1995 e la primavera del 1996 si svolse un seminario dedicato al Giappone negli anni della Guerra Fredda, reso possibile dal sostegno della Japan Foundation e dell’Istituto giapponese di cultura di Roma, cui parteciparono studiosi delle Università di Roma e di Firenze. Lo sviluppo di quel lavoro preparatorio si concluse con il Colloquio, organizzato dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma «La Sapienza», svoltosi nei giorni 25 e 26 maggio 1996, con l’intervento di alcuni noti specialisti stranieri .Tema del Colloquio è stato « Il rientro del Giappone sulla scena internazionale nell’età della Guerra Fredda (1951-60)». La scelta dell’argomento, come indicato nella

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prefazione, «è stata motivata dalla considerazione che solo molto di recente in Giappone, assai meno nei paesi occidentali, si è cominciato a studiare a fondo la politica estera nipponica dopo il ritorno alla piena indipendenza nel 1951 e che l’argomento è quasi del tutto nuovo per la cultura italiana.»Il tema è stato affrontato sia dal punto di vista politico, cioè della politica estera e interna tra loro connesse, che da quello economico. Se il Giappone del secondo dopoguerra abbia avuto o meno una sua politica estera, a prescindere dalle ragioni economiche è stato problema ampiamente affrontato da lavori, che hanno conseguito riflessioni e condotto a suggerimenti e indicazioni per ulteriori approfondimenti. Le relazioni pubblicate sono parte di quelle lette al convegno per la difficoltà dovuta a varie ragioni di ottenere da alcuni relatori manoscritti definitivi. Compaiono invece esiti di ricerche presentate in anteprima al seminario. La pubblicazione del volume, resa possibile da un contributo del Consiglio nazionale delle ricerche, è curata dal Centro studi di storia e relazioni internazionali nell’area del Pacifico, con sede presso il Dipartimento di Storia Moderna e Contemporanea della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università «La Sapienza», diretta dal prof. Giancarlo Giordano. Primo saggio è «Problemi e linee di tendenza della politica estera giapponese degli anni Cinquanta» di Valdo Ferretti. Il testo sottolinea i condizionamenti esterni della Guerra Fredda e quelli interni istituzionali della Costituzione del 1947 con gli enormi cambiamenti che essa apportò. Tratta l’opera di Yoshida Shigeru, il governo Hatoyama, l’adesione del Giappone alle Nazioni Unite nel 1956, le fasi dell’ingresso nel Gatt e nel Piano di Colombo, il collegamento dei fattori politici con la rinascita commerciale. Secondo saggio è «La normalizzazione nippo-sovietica: in lotta per l’autonomia del Giappone?» di Tanaka Takahito. Prende in esame l’ampio contesto dell «normalizzazione» avvenuta, come si sa, dopo tre cicli di colloqui e conseguita dal governo Hatoyama il 19 ottobre 1956. Segue una analisi degli avvenimenti incorsi e delle conseguenze della nuova fase della Guerra Fredda dopo la morte di Josef Stalin del marzo 1953 e viene evidenziato l’atteggiamento della amministrazione Eisenhover su tutta la questione. Vediamo come il processo di normalizzazione coinvolgesse anche le relazioni sino-americane e cino-sovietiche. Non secondario il ruolo della Gran Bretagna. Sul processo e risultati della normalizzazione fondamentali le influenze dei contrasti di natura politica tra i politici giapponesi tanto che la normalizzazione si trasformò in una arena di lotte politiche dei vari gruppi; ciò complicò ulteriormente le trattative sulla questione territoriale. Da ultimo la componente della realtà della politica interna sovietica. Terzo saggio è «Il Giappone e la Repubblica popolare cinese dopo il 1949» di Simonetta Musso. Come afferma l’autrice, nella storia delle relazioni tra Cina e Giappone del secondo dopoguerra gli aspetti economici sono stati il cardine principale in-

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torno al quale hanno ruotato le relazioni. I legami economici bilaterali si sono estesi con ampiezza a partire dalla riapertura dei rapporti commerciali fino all’ingresso notevole di capitali e tecnologia giapponese che recentemente hanno contribuito agli sforzi di modernizzazione della Cina. In realtà di fatto l’articolo prende in esame gli avvenimenti degli anni ’50. Così esamina i primi contatti, la battuta d’arresto dovuta alla guerra di Corea e alla conferenza di San Francisco, la ripresa dopo l’entrata in vigore del trattato di San Francisco con contemporaneo miglioramento delle relazioni tra i due governi, l’accrescimento del commercio tramite accordi. Un altro passo in avanti seguì la Conferenza di Bandung.Va inoltre sottolineato come nel contempo il governo di Pechino da una parte cercasse sistematicamente di influenzare la politica interna del Giappone rafforzando la causa dei partiti di sinistra, dall’altra cercasse di promuovere lo stabilimento di legami politici più stretti tra i due paesi. Indubbiamente l’approfondimento dei legami economici favorì anche quelli culturali (visite di delegazioni, fondazione di associazioni). Segue «Gli approcci britannici verso il ruolo del Giappone al tempo della Guerra Fredda» di Peter Lowe. L’autore ricorda come durante l’occupazione i britannici, arroccati su una posizione più critica ,valutarono la politica americana nei confronti del Giappone con considerevoli riserve, così pure vi furono parallelamente una serie di divergenze tra Gran Bretagna e Stati Uniti quando il governo Attlee decise di riconoscere la Repubblica popolare cinese nel gennaio del 1950. Fondamentale in questi anni l’opera di Gascoigne, Capo della Missione di Collegamento britannica a Tokyo. Si viene a esaminare le conseguenze sull’argomento affrontato della guerra di Corea e gli atteggiamenti britannici durante le fasi di preparazione per la stipula del trattato di pace, una puntualizzazione dei vari aspetti della questione, le posizioni all’interno del Commonwealth; preminente il problema delle costruzioni navali e del riarmo giapponese. Quinto saggio «L’avviarsi del Giappone verso l’autonomia economica: la marina mercantile» di Ian Nish. Il settore dei trasporti via mare svolse un ruolo importante nella ricostruzione dell’autonomia commerciale del Giappone. Il saggio esamina la situazione degli operatori mercantili giapponesi durante l’occupazione, il breve boom avutosi nel periodo della guerra coreana, l’evoluzione dopo la fine dell’occupazione, le ripercussioni prima della nazionalizzazione della Compagnia del Canale di Suez del luglio 1956, poi della riapertura al traffico del canale, l’importanza del fattore del traffico delle riparazioni, la mutata tecnologia, il mutamento della natura del commercio giapponese e il conseguente impatto sui modelli di trasporto marittimo. Ultimo «La «guerra commerciale» in Estremo Oriente tra 1948 e 1958: anglo-americani e Giappone» di Andrea Campana. Riassumendo, il saggio introduce l’argomento della «guerra commerciale», ovvero il controllo da parte statunitense delle esportazioni e importazioni di merci strategiche, basato su un sistema di liste di merci nell’am-

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bito della Guerra Fredda. Di seguito tratta del China Differential, ovvero l’aumento delle restrizioni contro la Cina rispetto a quelle verso l’URSS del 1952. Esamina nei particolari gli sviluppi successivi e via di seguito, per enunciare i dati più rilevanti di una complessa realtà, le diverse posizioni all’interno del governo americano, l’atteggiamento inglese e francese, la conseguente posizione del Giappone. DANIELA TOZZI GIULI

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SCHEDE BIBLIOGRAFICHE E. LEUMANN, Kleine Schriften. Herausgegeben von Nalini Balbir. GlasenappStiftung Band 37, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 1998, L-726 pp. Come informa la curatrice Nalini Balbir nella sua articolata e documentata prefazione (pp. IX-XXVIII) Ernst Leumann (1859-1931) era uno svizzero tedesco, nativo di Berg, Cantone di Thurgau. Frequentò le scuole primarie e secondarie nel paese natio e le classi superiori nella scuola cantonale. Nel 1877 passò un semestre all’Università di Zurigo e un altro in quella di Gand, dove intraprese lo studio del sanscrito con Paul Oltramare (1854-1930), studio che proseguì poi a Lipsia con Ernst Windisch (1844-1918) per tre semestri. Trasferitosi all’Università di Berlino, vi fu allievo di Johannes Schmidt (1843-1901) di Hermann Oldenberg (1854-1920) e di Albrecht Weber (1815-1901) con il quale preparò la tesi di dottorato; ma il titolo accademico lo conseguì a Lipsia nel 1881. Dal 1882 al 1884 fu a Oxford, dove collaborò alla nuova edizione che il Monier-Williams (1819-1899) andava approntando del suo Sanskrit-English Dictionary. E finalmente nel 1884 fu chiamato, come professore straordinario di sanscrito, a quell’Università «Imperatore Guglielmo» che le autorità tedesche avevano fondato a Strasburgo nel 1872. Arricchita via via di nuove cattedre, l’Università di Strasburgo diventò presto un esemplare centro di attività scientifica e il Leumann vi ebbe colleghi illustri come, tra gli altri, l’iranista Heinrich Hübschmann (1848-1908) il semitista Theodor Nöldeke (1836-1930) e lo storico Friedrich Meinecke (1862-1954). Nel 1919 il Trattato di Versailles restituì l’Alsazia alla Francia e la Kaiser-Wilhelms-Universität si dissolse. Il Leumann trovò asilo, con altri colleghi, nell’Università di Friburgo in Bresgovia e a Friburgo terminò la sua carriera accademica e la sua esistenza terrena. Ernst Leumann appartenne a quell’eletta schiera d’indologi, anzi di padri fondatori dell’indologia, che senza aver mai messo piede in India, ebbero della sua civiltà, specie delle sue lingue e della sua letteratura, un’ineguagliata padronanza. I 45 tra studi e recensioni che compongono il volume, ne sono bastevoli testimoni. Il Leumann fu tra i primi e tra i pochi che osarono avventurarsi su uno dei terreni piú ardui (e direi anche piú aridi) della filologia indoaria: quello

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della letteratura jainica, alla quale dedicò la parte piú cospicua della sua operosità scientifica. Ma fu anche un antesignano della serindologia, cioè di quella branca dell’orientalistica che si occupa delle lingue indeuropee un tempo parlate nella regione oggi denominata Xinjiang. Perciò sorprende e dispiace che senza darne ragione, nessuno degli studi da lui prodotti in quell’ambito sia stato incluso nella presente raccolta. La quale, oltre a fornire la bibliografia completa dell’autore (pp. XX-XLIX), è corredata d’importanti aggiunte e correzioni (pp. 682-697), di accurati indici (pp. 699-721), di una tavola di concordanze (pp. 722-723) nonché della ristampa (pp. 725-726) della recensione che Wilhelm Geiger (1856-1943) scrisse, nel 1938, dell’opera postuma del Leumann, la Ue¯ vas´yaka-Literatur (Hamburg,1934). bersicht über die A PAOLO DAFFINÀ

B. PLUTAT, Catalogue of the Papers of Ernst Leumann in the Institute for the Culture and History of India and Tibet, University of Hamburg. Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 1998,136pp. (vol. 49 delle Alt-und Neu-Indische Studien pubblicate dall’Institut für Kultur und Geschichte Indiens und Tibets dell’Università di Amburgo). Ernst Leumann, del quale si è detto piú sopra. fu studioso tanto fecondo e versatile, che non riuscí a condurre a termine tutti i lavori cui mise mano. Questi scritti incompiuti e talora solo abbozzati, riempiono ben 550 quaderni che nel 1932 Manu Leumann (1889-1977) consegnò a colui che di suo padre era stato il maggiore discepolo: Walther Schubring (1881-1969) dell’Università di Amburgo. Ma di questo vasto e importante materiale lo Schubring si restrinse a fare solo una scarna sinossi, qui riprodotta a p. 97. Si deve perciò essere grati alla sig.na Birte Plutat per aver finalmente compilato un inventario completo e accurato di ciò che contengono quei piú che cinquecento quaderni. Genesi e criteri della catalogazione sono spiegati da Albrecht Wezler nella sua premessa (p. 7) e dalla stessa Plutat nella sua prefazione (pp 9-11). I lavori elencati e descritti (pp. 15-81) sono 555, dei quali i numeri 1-331 e 521-555 sono di argomento jainico; i numeri 332-342 riguardano opere indiane di diverso argomento, mentre i numeri 343-442 trattano di testi in parte ancora jainici in parte buddistici. I numeri 443-451 sono di linguistica indeuropea, i numeri 452-508 trattano di linguistica e letteratura indoaria e i numeri 509-515 sono d’iranistica. Il numero 516, infine, è di argomento serindologico e il 517 di argomento tibetologico. Due indici (pp. 83-95) completano opportunamente l’inventario.

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Il solo scorrere la descrizione che l’autrice fornisce di ciascun lavoro, può già offrire utili spunti e idee per ulteriori ricerche sui vari temi individuati e incompiutamente trattati, o appena sfiorati dal Leumann. Una fonte d’ispirazione, alla quale ogni serio aspirante indologo potrebbe con profitto attingere. Il volume contiene anche (pp.99-118) la ristampa di un lavoro del Leumann non incluso nella raccolta recensita sopra e, a pp.119-136, un utile contributo bibliografico di Klaus Bruhn: «Bibliography of Studies Connected with ¯ vas´yaka-Commentaries». the A A p. 5, nell’indice delle materie, Eugen Leumann va naturalmente corretto in Ernst Leumann. PAOLO DAFFINÀ

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LIBRI RICEVUTI ALESSANDRO DI AFRODISIA, La Provvidenza, Questioni sulla Provvidenza, a cura di Silvia Fazzo, Milano, Biblioteca Universale Rizzoli, 1999. Catalogue des registres des tribunaux ottomans conservés au Centre des Archives de Damas, présenté par B. Marino, T. Okawara, Damas, Institut Français d’Études Arabes de Damas, Centre des Archives de Damas, 1999. M. COOPERSON, Classical Arabic Biography: The Heirs of the Prophets in the Ages of al-Ma’mu¯ n, Cambridge, University Press, 2000. Conscious Voices: Concepts of Writing in the Middle East. Proceedings of the Berne Symposium, July 1977. Edited by S. Guth, P. Furrer, J.C. Bürgel, Beiruter Texte und Studien, Band 72, Beirut, in Kommission bei Franz Steiner, 1999. X. DE PLANHOL, L’Islam et la mer. La Mosquée et le matelot, VIIe-XXe siècle, Paris, Libraire Académique Perrin, 2000. F. DI BELLO, Perché in India?, Roma, Bardi Editore, 1998. DOMENICO’S ISTANBUL, Translated by M.J.L. Austin, Edited by Geoffrey Lewis, Warminster, The Gibb Memorial Trust, 2001. A.-M. EDDÉ, La principauté ayyoubide d’Alep (579/1183-658/1260), Freiburger Islamstudien, Band XXI, Stuttgart, Franz Steiner Verlag, 1999. États, sociétés et cultures du monde musulman médiéval, Xe-XVe siècles, Tome 2, sociétés et cultures; Tome 3, Problèmes et perspectives de recherche (Nouvelle Clio, l’Histoire et ses problèmes), Paris, Presses Universitaires de France, 2000. C.R. KRAHMALKOV, A Phoenician-Punic Grammar. Handbook of Oriental Studies, Section One: The Near and Middle East, vol. 54, Leiden, Brill, 2001. Livres et lecture dans le monde ottoman, I. Revue des mondes musulmans et de la Méditerranée, n. 87/88; I Série: Histoire. Aix-en-Provence, Éditions Édisud, 1999.

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Libri ricevuti

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M.C. LYONS, Identification and Identity in Classical Arabic Poetry, Gibb Literary Studies 2, Warminster, Aris & Phillips Ltd, 1999. U. MONDINI, Le divinità dell’India: Ganesh. Analisi di un fenomeno mitopoietico nell’India prevedica, Roma, Bardi Editore, 1999; 20002. C. POUJOL, Le Kazakhstan, Que sais-je?, Paris, Presses Universitaires de France, 2000. Pra¯ timoksasu¯ tra der Serva¯ stiva¯ dins, a cura di G. Von Simson; Teil II. Kritische ˙ Textausgabe... Sanskrittexte aus den Turfanfunden XI, Abhandlungen der Akademie der Wissenschaften in Göttingen, Göttingen, Vandenhoeck & Ruprecht, 2000. Proceedings of the Third European Conference of Iranian Studies, held in Cambridge, 11th to 15th September 1995, Part 2: Mediaeval and Modern Persian Studies, Edited by C. Melville, Wiesbaden, Ludwing Reichert Verlag, 1999. R. QUIRING-ZOCHE, Arabische Handschriften, (Verzeichnis der orientalischen Handschriften in Deutschland; Bd. 17, Reihe B. Teil 5. Die Handschriften der Sammlung Oskar Reuscher in der Staatsbibliothek zu Berlin, - Preussischer Kulturbesitz. - Bd. 2, Stuttgart, Franz Steiner, 2000. M. RAJ PANT, Ja¯ taru¯ pa’s Commentary on the Amarakos´a, vol. I-II, Delhi, Motilal Banarsidass, 2000. Religion and Culture in Medieval Islam, Edited by R.G. Hovannisian, G. Sabagh, G. Levi Della Vida Conferences, May 7-9, 1993 Cambridge, Cambridge University Press, 1999. S. SANDAHL, A Hindi Reference Grammar, Leuven, Peeters, 2000. R. SCHMITT, Beiträge zu Altperischen Inschriften, Wiesbaden, Reichert Verlag, 1999. R. SHAMIR, The Colonies of Law: Colonialism, Sionism, and Law in Early Mandate Palestine, Cambridge, Cambridge University Press, 2000. S. SOUCEK, A History of Inner Asia, Cambridge, Cambridge University Press, 2000. J. VICARI, La Tour de Babel, Que sais-je?, Paris, Presses Universitaires de France, 2000. E. WILDEN, Der Kreislauf der Opfergaben im Veda, Alt-und Neu-Indische Studien, Band 51, Stuttgart, Franz Steiner, 2000.

PUBBLICAZIONI DEL DIPARTIMENTO DI STUDI ORIENTALI UNIVERSITÀ DI ROMA «LA SAPIENZA»

STUDI ORIENTALI

Monografie, miscellanee, Festschriften, edizioni di testi, ecc., prima pubblicati dalla Scuola Orientale e oggi dal Dipartimento di Studi Orientali come serie parallela alla «Rivista degli Studi Orientali». Oriental Studies, monographies, miscellanies, Festschrifts, text editions, etc. formerly published by the Scuola Orientale and now by the Department of Oriental Studies as a series parallel to the «Rivista degli Studi Orientali». I

Esaurito - ENRICO CERULLI, Il libro etiopico dei miracoli di Maria e le sue fonti nelle letterature del medio evo latino pp. 570, 1943 ................................................................... (out of print)*

II

ˇ a’di, - MARIA NALLINO, Le poesie di An-Nabigah Al-G raccolta critica dei testi, traduzione e note (Texts, translations, annotations) pp. XX-184, 1953 .........................................................

L. 20.000

- A. JAMME P.B., Les albums photographiques de la collection Kaiky Muncherjee (Aden) pp. XII-90, 1995 ...........................................................

L. 20.000

III

IV

Esaurito - SABATINO MOSCATI, I predecessori d’Israele pp. 150, 5 tavole, 1956 ................................................... (out of print) (*)

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- Studi Orientalistici a Francesco Gabrieli, nel sessantesimo compleanno dai colleghi e discepoli (Festschrift for the 60th birthday) pp. 360, 1964 ................................................................

L. 50.000

- GIUSEPPE TUCCI, Opera Minora voll. 2, pp. 620, 1971 ...................................................

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- ANDREINA ALBANESE, Materiali cinesi su Galdan pp. 160, 1981 ................................................................

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VIII - GIORGIO LEVI DELLA VIDA, Pitagora, Bardesane e altri studi siriaci pp. 194, 1989 ................................................................

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VI VII

* Se le richieste saranno sufficienti, verrà ristampato. If the requests will be sufficient, it will be reprinted.

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- Indo-Sino-Tibetica: Studi in onore di Luciano Petech pp. X-443, 1990 ............................................................ - Ya¯ d-Na¯ ma. In memoria di Alessandro Bausani vol. 1: Islamistica, pp. XXVIII-524, 1991 ................. vol. 2: Storia della Scienza-Linguistica-Letteratura, pp. 482, 1991 Prezzo speciale per chi acquista i 2 volumi.................

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- MARIO BUSSAGLI, Indica et Serindica. Scritti di storia dell’arte dell’India e dell’Asia centrale pp. XII-458, 1992 .........................................................

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XII - Onomastica e trasmissione del sapere nell’Islam medievale, a cura di B. SCARCIA AMORETTI pp. VI-194, 1992 ...........................................................

L. 50.000

XIII - The East and the Meaning of History pp. XVI-525, 1994 ........................................................

L. 170.000

XIV - LUCIA ROSTAGNO, Terrasanta o Palestina? La diplomazia italiana e il nazionalismo palestinese (1861-1939) pp. XIX-379, 1996........................................................

L. 96.000

- D.D. LESLIE and K.H.I. GARDINER, The Roman Empire in Chinese Sources pp. XIX-379, 1996........................................................

L. 150.000

XI

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SUPPLEMENTI SUPPLEMENTI

AL VOL.

ALLA

RIVISTA

DEGLI

STUDI ORIENTALI

LXVIII, 1994:

˙ a¯ yat al-matlu¯ b fı¯ mahabbat al-mahbu¯ b, a N. 1 - ‘ABD AL-G˙ A¯ NI AL-NA¯ BULUNI¯, G ˙ ˙ ˙ cura di Samuela Pagani. N. 2 - MA ZHIYAN, Il sogno del miglio giallo. Introduzione, traduzione e note di Giuliano Bertuccioli. SUPPLEMENTI

AL VOL.

LXIX, 1995:

N. 1 - M. PRAYER, Internazionalismo e nazionalismo culturale: gli intellettuali bengalesi e l’Italia negli anni venti e trenta.

N. 2 - G. LANCIONI, Ordini lineari marcati in arabo. SUPPLEMENTI

AL VOL.

LXX, 1996:

N. 1 - PUNDAR¯ıKA, La realizzazione della conoscenza del Supremo immoto. ˙˙ N. 2 - LORETTA fica. SUPPLEMENTI

DEL

AL VOL.

FRANCIA BAROCAS, Il tessuto copto: introduzione bibliogra-

LXXI, 1997:

N. 1 - D. DE PALMA, Ricerche sulla cartografia di Ezo. N. 2 - In Memoria di Francesco Gabrieli (1904-1996). SUPPLEMENTI

AL VOL.

LXXII, 1998:

N. 1 - M CASARI, Alessandro e Utopia nei romanzi persiani medievali.

SUPPLEMENTI

AL VOL.

LXXIII, 1999:

N. 1 - P. CANNATA, Sulle relazioni tra India e Asia interna nelle testimonianze cinesi. N. 2 - M. MIRANDA, Funzionari e potere nell’amministrazione Qing (16441911): le carrire esemplari di due funzionari mancesi.

COMPOSTO, IMPRESSO E RILEGATO IN ITALIA, SOTTO LE CURE DELLA ACCADEMIA EDITORIALE, PISA ⋅ ROMA, PER CONTO DEGLI ISTITUTI EDITORIALI E POLIGRAFICI INTERNAZIONALI, PISA ⋅ ROMA ★ Luglio 2001 (CZ2/FG9)

Periodico iscritto alla Cancelleria del Tribunale di Roma in data 30 Aprile 1958 n. 6299 PAOLO DAFFINÀ Direttore responsabile

RIVISTA DEGLI

STUDI ORIENTALI VOLUME LXXV FASC. 1-4 (2001)

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INDICE DEL VOLUME SETTANTACINQUESIMO 1-4 ARTICOLI......................................................................................................................................... Pagina M.E. MILONE, Una tavoletta sargonica da Adab .......................................................................... A. MEZZOLANI, I templi dell’Occidente punico: la Sardegna....................................................... E. ALBRILE, Zurwa¯ n sulla Luna. Aspetti della gnosi aramaico-iranica........................................ G.S. REYNOLDS, Jesus, the Qa¯ ’im and the End of the World.................................................... S. BASHIR, The Risa¯ lat al-huda¯ of Muhammad Nu¯ rbaksˇ (d. 869/1464) .................................... ˙ ¯ C. LO MUZIO, On a terracotta figurine from Uch Kulakh ......................................................... S. SANDAHL, The Rtusamha¯ ra. A different approach.................................................................... ˙ ˙ M. HARA, The Hindu Concept of Friendship............................................................................... M. SPAGNOLI, Le nozze del serpente .............................................................................................. A. SANTORO, Dalla Nascita all’Illuminazione: su quattro scene della vita del Buddha storico nella Grotta dei Pavoni ...................................................................................................................... G.P. PERSIANI, Plastic Skin: Abe Ko¯ bo¯ ’s The Face of Another and Lacan’s Effacement of the Body .............................................................................................................................................

1 7 27 55 87 139 147 157 189 205 239

NOTE E DISCUSSIONI P. ORSATTI, Persian: an opinion? .................................................................................................... D. TOZZI, Il suicidio in Cina...........................................................................................................

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RECENSIONI C.R. KRAHMALKOV, A Phoenician-Punic Grammar (G. Garbini)................................................. M. ZONTA, La filosofia antica nel Medioevo ebraico. Le traduzioni ebraiche medievali dei testi filosofici antichi (C. Moro) .......................................................................................................... M. ZONTA, La filosofia ebraica medievale. Storia e testi (B. Scarcia Amoretti)....................... C. MELVILLE (ed.), Proceedings of the Third European Conference of Iranian Studies held in Cambridge, 11th to 15th September 1995, Part 2 (C. Cereti)............................................... C.A. ANZUINI, I manoscritti coranici della Biblioteca Apostolica Vaticana e delle Biblioteche romane (B. Scarcia Amoretti) ........................................................................................................ M. MARIN, Mujeres en al-Andalus (B. Scarcia Amoretti) ............................................................. M. MARIN (ed.), Tejer y vestir: de la antigüedad al Islam (B. Scarcia Amoretti) ..................... N. VATIN et S. YERASIMOS, Les cimetières dans la ville. Statut, choix et organisation des lieux d’inhumation dans Istanbul intra muros (B. Scarcia Amoretti) ................................................ M. MAXIM, Romano-Ottomanica. Essays and Documents from the Turkish Archives (B. Scarcia Amoretti)...................................................................................................................................... H. ESMAÏLI, Le roman d’Abu Moslem (Abu Moslem Nameh) d’après la narration de Abu Tâher de Tartus (A.M. Piemontese) .................................................................................................... A.S. ASANI, Ecstasy and Enlightenment. The Ismaili Devotional Literature of South Asia (B. Scarcia Amoretti) ......................................................................................................................... The Role of the Sa¯ da¯ t/Asˇra¯ f in Muslim history and civilisation. Proceedings of the International Colloquium (Roma, 2-4/3/1998), ed. B. Scarcia Amoretti e L. Bottini (A. Scarabel) ...... Islam in East Africa: New Sources (Archives. Manuscripts and Written Historical Sources. Oral History. Archaeology). International Colloquium (Rome, 2-4 December 1999), ed. B. Scarcia Amoretti (F. Zappa) ................................................................................................................... LIBRI RICEVUTI............................................................................................................................

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SUPPLEMENTI G. FLORA, On Fairy Tales, Intellectuals and Nationalism in Bengal (1880-1920) A. MAURIZI, Il più antico testo poetico del Giappone: il Kaifuso (raccolta in onore di antichi poeti)

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UNA TAVOLETTA SARGONICA DA ADAB* Si presenta di seguito l’edizione di una tavoletta cuneiforme proveniente da Adab; segue una breve nota sulla datazione del testo; in appendice si dà una tavola con le varianti di una selezione di segni presenti nel nostro testo e le corrispettive varianti presenti nella documentazione Middle Sargonic di Adab. La tavoletta, che appartiene ad una collezione privata, ha forma lievemente ovoidale; la superficie presenta un’apprezzabile curvatura sul recto, è ricoperta soprattutto lungo i margini da impronte digitali. Misura 53x43x16 mm., è di colore beige chiaro. Ductus e fattura della tavoletta sono molto accurati; lo stato di conservazione è pressoché perfetto.

r.

1. 2.

1 Mes-zi dub-sar Ne-sag

Meszi, lo scriba di Nesag1;

* La scrivente ringrazia vivamente il dr. M. Baldacci, proprietario della tavoletta, per averle consentito di studiare e pubblicare il testo. Vorrei inoltre esprimere la mia riconoscenza a M. Molina e A. Westenholz per i suggerimenti datimi alla stesura dell’articolo. 1 La dipendenza di un dub-sar da un antroponimo, anzichè da un nome di professione, è alquanto inusuale.

2

v.

Maria Elena Milone

3. 1 Lugal-inim-gi-/na 4. sˇesˇ Mes-zi 5. En-na-DUki Adabki-/ka 6. ì-durunx(DÚR.DÚR)-né-èsˇ 7. 1 Nin-úr-ni 8. dumu Pù-la-N[I] 1. lú-tir dˇ Sa-ma-ga[n] 2. 3. e-da-ti (anepigrafo)

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(e) Lugal-inimgina, il fratello di Meszi, nell’Ennadu (?) di Adab risiedono. Nin-urni, il figlio di Pulani, l’uomo del boschetto (sacro) di Sˇ amagan, è presente.

Il nostro testo è un registro di personale di cui è indicato il centro di residenza; il formulario che vi è impiegato è quello tipico di questa categoria testuale: cf. a es. ITT 1, 1100, 1182, 1363, 1436, 1463, 1467; MAD 4, 37; RTC 97. Quanto alla provenienza della tavoletta, che essa sia stata redatta ad Adab è suggerito dalla menzione della città in r. 5 ed è confermato dalla prosopografia (cf. infra); il toponimo En-na-DUki non mi è altrimenti noto: potrebbe trattarsi di un piccolo centro amministrativo nel circondario di Adab. Anche in alcuni dei testi succitati sono indicati piccoli centri come sede del personale menzionato. Riguardo alla prosopografia, dei personaggi presenti nel testo, soltanto per Meszi, lo scriba (r. 1 e 4), disponiamo, a mia conoscenza, di un parallelo sicuro. Questo funzionario è infatti menzionato in RAH 183, v. 1 come destinatario di un letter-order dell’énsi riguardante tre fabbri e bronzo e rame di proprietà del lugal; la lettera proviene da Adab ed è con ogni verosimiglianza databile, come la gran parte dei testi della collezione della Real Academia de la Historia di Madrid2, a una fase intermedia tra l’Early e il Classical Sargonic3. Un Meszi, con ogni probabilità si tratta però in questo caso di un omonimo, figura anche in un’altra tavoletta di Adab, RAH 213, r. 7’, una lista di personale, tra cui appunto questo personaggio, con i relativi sorveglianti. Infine, relativamente a v. 2, il dio Sumuqan/Sˇ akkan appare menzionato in un altro testo proveniente da Adab, BI 33, r. II 2; la tavoletta, che appartiene alla collezione della Banca Centrale d’Italia4, è un registro Early Sargonic di emmer di cui 120 litri sono dati in offerta all’é dSˇ a-ma-gan. Abbiamo, quindi, nei 2 Detta collezione, costituita da 337 tavolette cuneiformi, è attualmente oggetto di studio e sarà prossimamente pubblicata da M. Molina e dalla scrivente. 3 La fase in questione, definita Middle Sargonic, potrebbe grosso modo farsi coincidere con il regno di Manisˇtusu e la prima metà di quello di Naram-Sîn. 4 La collezione in questione è costituita da 213 tavolette cuneiformi, per la gran parte provenienti da Adab e databili al periodo sargonico. L’edizione della collezione è stata affidata a F. Pomponio, G.

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Una tavoletta sargonica da Adab

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nostri documenti un’esplicita attestazione del culto della divinità delle bestie selvatiche, almeno per quel che riguarda le prime fasi del periodo sargonico, presso Adab, ove ad essa erano dedicati un tempio e il rispettivo bosco sacro. Quanto al nome del dio, esso è sovente reso con la medesima grafia dei nostri testi nella documentazione di Ebla5; ricorre inoltre nell’elemento teoforo del nome di I-ku-dSˇ a-ma-gan, uno dei sovrani pre-sargonici di Mari6, e nell’antroponimo Ur-dSˇ a-ma-gan presente in un testo di Lagasˇ databile al periodo di Fara: S. Langdon, EK IV, tav. XLIII, N. 3, v. II 3 (collazione di A. Westenholz).

Datazione della tavoletta La datazione del nostro registro di personale non può che ricostruirsi sulla base di elementi di ordine interno, quali innanzitutto la prosopografia, in secondo luogo la paleografia della tavoletta. Per quanto riguarda la prosopografia, la menzione di Meszi, dub-sar, fa presupporre che il nostro testo sia cronologicamente prossimo a RAH 183. Per quanto concerne la paleografia, la nostra tavoletta differisce notevolmente dal letter-order in questione, così come, in generale, dal corpus di testi Middle Sargonic7 di Adab, in quanto essa presenta, indipendentemente dall’alto livello del ductus, tratti arcaici. Le varianti sistematicamente impiegatevi sono infatti quelle tipiche dell’Early Sargonic: per un confronto tra le varianti più significative a livello cronologico presenti nella nostra tavoletta e, di contro, quelle presenti nella documentazione Middle Sargonic di Adab cf. tavola infra; si osservi, inoltre, come il segno DÚR (r. 6) sia agevolmente distinguibile da KU, che è di norma molto più stretto e ha come base il lato più corto8. In generale, un esame della paleografia della documentazione paleo-accadica di Adab sembra indicare che essa abbia mantenuto tratti conservativi e in stretta contiVisicato e A. Westenholz, che qui si ringraziano per le informazioni fornite riguardo ai testi della Banca d’Italia. 5 In particolare, per la menzione di dSˇ a-ma-gan/-nu nei rendiconti mensili di uscite di ovini da Ebla, in cui il dio è citato sempre al primo posto, cf. G. PETTINATO, OrAn 18 (1979), p. 110, 36. 6 cf. F. POMPONIO, Or 53 (1984), p. 4. 7 La gran parte della documentazione in questione è suddivisa tra le collezioni della Real Academia de la Historia di Madrid e della Banca Centrale d’Italia; un piccolo gruppo di tavolette, infine, fa parte della collezione di L. Michail, edita da G. PETTINATO in L’uomo cominciò a scrivere, Milano 1997. 8 Per una discussione sulla distinzione tra i segni KU e DÚR, cf. R. D. BIGGS, JCS 20 (1966), pp. 77-78 n. 37.

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Maria Elena Milone

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nuità con le fasi precedenti durante l’Early Sargonic, che si sia, di contro, avuta una variazione generale a partire dal Middle Sargonic. Questa fase di transizione appare caratterizzata da rapidi mutamenti e dalla peculiare commistione tra tratti tradizionali e moderni. In prosieguo di tempo la grafia, più o meno rapidamente e in maniera non certo uniforme e lineare, per fattori particolari che non siamo in grado di determinare, si sarebbe evoluta in quella tanto apprezzata per l’armonia e l’eleganza del periodo Classical Sargonic che caratterizza le tavolette databili all’ultima parte del regno di Naram-Sîn e soprattutto a quello di Sˇ ar-kali-sˇarri9. Tenendo conto degli elementi su indicati, sembra possibile ipotizzare per la nostra tavoletta una datazione a un momento non precisabile tra l’Early e il Middle Sargonic. Tale attribuzione, se da un canto dà ragione dei tratti arcaici della grafia, dall’altro potrebbe giustificare la mancanza di solidi links prosopografici tra il nostro registro di personale e la documentazione Middle Sargonic di Adab10. Tra i personaggi che infatti figurano nel nostro testo, fatta eccezione per Meszi, nessun altro è altrove menzionato nel corpus di più di 400 tavolette di Adab riferibili a questa fase; lo stesso scriba vi figura con certezza una sola volta. Infine, che la nostra tavoletta sia più antica di RAH 183 sembra confermato dal fatto che il rango ricopertovi da Meszi appare inferiore rispetto a quello tenuto in RAH 183, in cui figura come destinatario di un letter-order indirizzatogli in prima persona dal governatore e riguardante beni di proprietà del sovrano. MARIA ELENA MILONE

9 La documentazione che riflette tali caratteristiche è edita in OIP 14 e PPAC 1, cui è da aggiungere un’altra quarantina di tavolette della collezione della Banca d’Italia. 10 Non è possibile stabilire un confronto con la documentazione Early Sargonic di Adab in quanto il numero di tavolette databili a tale fase al momento disponibile è alquanto esiguo.

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Una tavoletta sargonica da Adab

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APPENDICE Nella tavola che segue si danno le varianti ritenute più significative, per quanto riguarda la datazione, di una selezione di segni presenti nel nostro testo (colonna 1) e quelle, di contro, più comuni nella documentazione Middle Sargonic di Adab (colonna 2).

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I TEMPLI DELL’OCCIDENTE PUNICO: LA SARDEGNA Lo studio della religiosità nelle culture antiche può essere intrapreso attraverso vari percorsi conoscitivi, con una pluralità di prospettive che solo se ricomposte possono fornire un quadro capace di riflettere, seppure parzialmente, il senso del sacro espresso a livelli diversi: uno di questi possibili approcci è quello dell’analisi architettonica nella sua espressione planimetrica e nei suoi dettagli decorativi. In tale ambito, l’individuazione di tipologie icnografiche reiterate può divenire un elemento di collegamento tra realizzazioni pertinenti alla medesima matrice culturale o, ancora, esemplificative di mediazioni e rielaborazioni di elementi allogeni; in una ricerca meditata, però, l’analisi planimetrica di un manufatto e il suo inserimento in uno schema tipologico deve costituire il presupposto, non l’unica finalità, e, soprattutto, deve confrontarsi con il contesto storico e materiale pertinente, per poter approdare ad una comprensione ampliata e non unicamente tecnica, all’interno della quale possano trovare giusta collocazione anche eventuali elementi dissonanti rispetto ad una proiezione tipologica astratta e standardizzata. In tal senso, utile è l’annotazione di J. Margueron che sottolinea come non sempre risulti valida l’equazione «à plan défini, fonction définie», quindi come non automaticamente una specifica planimetria consenta una corretta identificazione funzionale, ma, piuttosto, dalla combinazione di più elementi (disposizione planimetrica, arredi fissi, materiale mobile) sia possibile risalire alla destinazione cultuale di un manufatto strutturale1. Se partendo da tali presupposti ci si rivolge a considerare quanto in tal senso si sia fatto negli studi fenici e punici, ci si trova a constatare la mancanza di un lavoro complessivo in grado di correlare tutti i dati relativi alle strutture sacre poste in luce fino ad oggi2: tale carenza, in parte giustificata dallo stato dei resti archeologici, trova la sua migliore spiegazione nella varietà e pluralità 1 MARGUERON 1991b: 1113-1116. Diversa l’opinione di Wright, che vede uno stretto legame tra espressione planimetrica ed individuazione funzionale: WRIGHT 1985: 225. 2 Una rapida rassegna dei templi nel mondo fenicio e punico, con particolare attenzione per gli edifici di contesto occidentale è proposta da FANTAR 1986: 15-59, ma non comprende i dati più recenti

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Antonella Mezzolani

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di moduli architettonici e decorativi che con grande difficoltà e, forse, solo con un eccesso di artificio si potrebbero comporre in un quadro tipologico schematico3. In tale contesto, dunque, l’architettura sacra non sembra esprimersi in maniera univoca e già nella sua stessa definizione come «fenicia» o «punica» si pongono le prime distinzioni che travalicano, a mio avviso, semplici considerazioni di carattere cronologico o topografico4; se già per le strutture di culto della Fenicia vera e propria pare difficile delineare una linea di sviluppo icnografico continua, fondata sulla reiterazione di codici compositivi costanti, che copra l’intero arco di tempo tra età del Bronzo5 ed età del Ferro6, prendendo in esame anche il periodo persiano7, per l’area del Mediterraneo occidentale la cronologia dei complessi rinvenuti, le specificità regionali e le interazioni tra le diverse regioni, nonché l’apporto della cultura egiziana, così come di quella ellenistica, attraverso mediazioni attribuite, di volta in volta, alla Fenicia8, ad

provenienti, in particolare, da Cartagine. In generale, sui templi punici in area occidentale si veda anche LIPIN´ ski 1995: 427-438. 3 Un esempio di questa tendenza allo schematismo si può cogliere nel continuo rimando al tempio di Gerusalemme voluto da Salomone, utilizzato come modello virtuale e raffronto imprescindibile per ogni edificio di carattere sacro in area fenicia e punica. Sul tempio di Salomone, cf. BUSINK 1970; per le analogie con altre fabbriche templari in area vicino-orientale, si veda anche ORRIEUX 1984. Per la questione dell’origine del modello planimetrico adottato nel tempio di Salomone, cf. tra gli altri BUSINK 1970: 582-88 e BRIQUEL-CHATONNET 1992: 353-359. 4 In tal senso sembrano da intendersi le annotazioni di MOSCATI 1988: 3-6. Notevole complessità interpretativa si può cogliere nella nota di ACQUARO 1982. 5 La documentazione architettonica relativa ai santuari della Fenicia sembra limitarsi, per l’età del Bronzo antico e medio, alle attestazioni gublite, che spesso mantengono la loro funzione cultuale anche nei periodi successivi. Interessante, per il tipo di soluzione compositiva, è la disposizione planimetrica del «tempio di Reshef», sostanzialmente conservata anche nel successivo «tempio degli obelischi», che si compone di un’area a cielo aperto con profilo poligonale, preceduta da uno spazio di accesso e corredata da vani accessori, all’interno della quale il fulcro è rappresentato dalla cappella in posizione centrale: per la peculiarità di questo schema planimetrico, MATTHIAE 1975: 67-68; WRIGHT 1985: 234235. Per un quadro complessivo delle fabbriche cultuali di Biblo, BUSINK 1970: 430-456. 6 Il primo impianto del sacello di Sarepta, che svolgerà la sua funzione di culto fino al IV sec. a.C., risale all’età del Ferro: PRITCHARD 1975: 39-40. 7 Tra i luoghi di culto riferibili all’età persiana, di sovente vitali anche in piena epoca ellenistica e romana, si possono ricordare il santuario di Amrit, quello collocato nell’area funeraria a Tell Suqas e il grande tempio di Eshmun, nei pressi di Sidone. Cfr. DUNAND - SALIBY 1985; RIIS 1991; DUNAND 1973. 8 Le esperienze dell’Oriente fenicio, non solo per l’epoca arcaica, ma forse anche per il periodo ellenistico sembrano recepite sia a Tharros, sia a Cartagine: ACQUARO 1990: 14.

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I templi dell’Occidente punico: la Sardegna

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Alessandria9 e alla Sicilia10 e rielaborazioni che sembrano trovare un proficuo campo di attività in Nord-Africa11, rendono ancora più complessa la situazione interpretativa. Affrontare in toto la documentazione architettonica punica d’Occidente riferibile a contesti sacri, dunque, sembra impresa assai difficile e, al momento, poco costruttiva, mentre pare preferibile confrontarsi di volta in volta con una regione del quadrante mediterraneo occidentale: la presente nota non a caso si rivolge alla documentazione sarda, che pare tra le più cospicue12, sebbene, in qualche caso, di controversa lettura, e che recentemente è stata oggetto di un studio monografico ad opera di Carla Perra13. Il volume in questione è incentrato sul problema delle origini orientali dei templi fenici e punici di Sardegna e si articola fondamentalmente in tre parti: una introduzione, una parte analitica sui templi orientali e sui templi sardi e, infine, una sezione documentaria costituita da una sequenza di schede relative agli edifici templari presi in considerazione. La lettura di questa trattazione solleva alcune perplessità di carattere metodologico, che si presentano in questa sede come riflessioni utili a proporre un diverso approccio alla questione dell’architettura templare. Innanzi tutto, il proposito: dimostrare che le strutture cultuali puniche in Sardegna abbiano strette connessioni tipologiche con equivalenti della madrepatria14. A mio avviso, la ricerca di possibili antecedenti orientali per le realizzazioni architettoniche delle colonie fenicie d’Occidente, se pure costituisce un 9 L’ipotesi di una trasmissione alessandrina di elementi egiziani di età ellenistica, senza richiamarsi a forme attardate derivate dalla madrepatria fenicia, è stata proposta per alcuni elementi architettonici dell’impianto santuariale di Tas Silg, a Malta, ma potrebbe essere plausibile anche per altre aree puniche occidentali: CIASCA 1991: 757-758. Allo stesso modo, il rinvenimento a Mozia di elementi architettonici come il singolare capitello caliciforme, dalla zona K est, e l’architrave a baccellature verticali dal tofet, oltre alle più usuali gole egizie, ripropone la questione dell’assimilazione di moduli decorativi egiziani in area punica: per il capitello, SPANÒ GIAMMELLARO 1991. Per l’architrave baccellata, CIASCA 1980: 512-513; CIASCA 1992: 140. 10 Per l’apporto fondamentale della Sicilia greca, in particolare nella trasmissione dell’ordine dorico, ma anche per altri elementi di decorazione architettonica, si vedano, tra gli altri, LÉZINE 1960: 6371; RAKOB 1996. 11 Gli esiti più proficui e originali di questi processi rielaborativi, capaci di connettere elementi architettonici di diversa ascendenza per realizzare uno stile «eclettico», ma caratterizzante, si possono rilevare soprattutto nei monumenti funerari nord-africani, che pur appartenendo al periodo neo-punico, sembrano proseguire tradizioni di decorazione architettonica già consolidate nell’epoca precedente: DI VITA 1968; RAKOB 1979; STUCCHI 1987; CAMPS 1995. Per cogliere elementi di sintassi decorativa, utili risultano le raffigurazioni di mausolei a torre in tombe puniche e haouanet: cfr. LONGERSTAY 1993. Più inclini ad interpretare i monumenti funerari neo-punici come espressione di una diretta ellenizzazione dei regnanti numidici COARELLI - THÉBERT 1988. 12 Anche se i vari templi e santuari sardi sono stati spesso studiati singolarmente o ne è stata data notizia in rapidi rapporti di scavo, ci si limita in questa sede a citare i due lavori complessivi che possono risultare utili per un quadro completo della documentazione: BARRECA 1986: 107-183; TORE 1989. 13 PERRA 1998. 14 PERRA 1998: 11-12.

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percorso plausibile15, deve essere intrapresa nella consapevolezza che, oltre alle difficoltà imposte da acquisizioni archeologiche quantitativamente e qualitativamente di complessa gestione, il fulcro della questione risiede nella corretta impostazione metodologica e, quindi, nella meditata analisi di realtà culturalmente correlate e al tempo stesso differenziate16. Come sottolineato da P. Matthiae nella prefazione al libro in questione, troppo spesso nel cercare affinità planimetriche per i templi di epoca punica di Sardegna ci si è rivolti a monumenti orientali in maniera «quasi sempre arbitraria, sommaria e per lo più discutibile»17. Se ai punicologi, però, può frequentemente sfuggire «la complessa problematica dello sviluppo dell’architettura templare siro-palestinese»18, è altrettanto vero che la realtà architettonica punica è anche sostanziata da peculiarità regionali e apporti non strettamente orientali e, soprattutto, si caratterizza per elaborazioni che non sempre trovano esatti riscontri in area levantina: nelle attestazioni puniche del Nord-Africa, ad esempio, sembra possibile rintracciare nella configurazione planimetrica bidimensionale elementi di assonanza con schemi orientali19, ma non mancano soluzioni differenziate nella partizione degli spazi interni, equilibri variati nella correlazione tra elementi costruiti e aree non edificate20 e, non ultime, soluzioni di decorazione architettonica articolate nella composizione di elementi diversi, spesso attinti dal patrimonio decorativo egiziano e greco, che, lungi dall’essere semplici «habillages intérieurs ou exté-

15 Confronti con l’area fenicia sono stati proposti, seppure in termini non particolarmente diffusi, per l’abitazione n.1 indagata dalla missione archeologica dell’Università di Amburgo a Cartagine; per quanto sia forse opportuno un ulteriore approfondimento della questione, una filiazione del modello da antecedenti vicino-orientali è plausibile su base cronologica, anche se più difficile da comprendersi è il cambiamento avvenuto nel corso di pochi anni da una struttura abitativa Hofhaus ad una Four-rooms: per le varie fasi della abitazione, cfr. NIEMEYER - DOCTER 1993: 201-214. 16 Il rapporto tra la madrepatria fenicia e le colonie non può considerarsi alla stregua di una semplice trasmissione di codici ed espressioni, ma deve essere visto come una dialettica in costante movimento, in cui fenomeni di omogeneità e differenziazione, più riconoscibili nelle realizzazioni artigianali, devono aver improntato anche le espressioni strutturali ed architettoniche. Si vedano, tra gli altri, MOSCATI 1974: 59-70. 17 MATTHIAE 1998: 7. 18 MATTHIAE 1998: 7. 19 Analogie con la tripartizione in senso longitudinale del tempio di Salomone a Gerusalemme sono state rilevate per il sacello di Sidi Bou Saïd, pur nella differenza dimensionale: cfr. LÉZINE 1959: 251-253; FERRON 1991: 262-265. Anche per i templi africani a tre celle di epoca romana, si è pensato di poter rintracciare una linea evolutiva che trova origine in ambito orientale: cfr. PENSABENE 1990: 281-290. 20 Occorre tener presente che, molto spesso, la configurazione finale dei santuari è dettata spesso da operazioni di modificazione strutturale e architettonica che ne variano inevitabilmente la primitiva organizzazione spaziale; l’inserimento di nuove strutture di culto o votive, dilazionato nel tempo, rende questi complessi un campo di applicazione in cui si può rivelare, talvolta, una concezione dello spazio sacro anche svincolata dalle primarie impostazioni planimetriche che potrebbero rifarsi a modelli orientali.

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I templi dell’Occidente punico: la Sardegna

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rieurs»21, contribuiscono, a mio avviso, a creare moduli architettonici e stilistici nuovi22. A prescindere da queste considerazioni, il problema risiede nella possibilità di cogliere linee tipologiche definite nella documentazione architettonica di carattere sacro in Sardegna: le attestazioni a nostra disposizione sono molto spesso riferibili a elementi architettonici erratili o a depositi votivi che, pur indicando la presenza di una zona di culto, non contribuiscono affatto a chiarirne la dimensione strutturale e la proiezione planimetrica23. A ciò si aggiunga il fatto che molti complessi sacri, spesso giunti a noi in condizioni quasi illeggibili, sono stati indagati in maniera sommaria e non offrono corrispondenze stratigrafiche certe24; infine, la tendenza a voler ancorare ad una matrice culturale orientale tali fabbriche ha condotto di frequente ad ipotesi restitutive non sempre convincenti25. Nella trattazione di C. Perra queste difficoltà, seppure sottolineate, non sembrano trovare soluzione, tanto più che l’interesse incentrato su una catego21

LÉZINE 1959: 258. All’interno di alcune strutture di culto, l’adozione di stucchi di tipo ellenistico è provata e, certamente, incideva sulla percezione visiva di chi poteva accedere all’interno degli edifici. Si veda, ad esempio, la c.d. Chapelle Carton: cfr. la ricostruzione dell’allestimento decorativo proposta da FERCHIOU 1987: 15-26. 23 Un quadro complessivo in TORE 1989: 35-50. 24 Strutture come quelle impiantate nell’area del tofet di Bitia, a causa del deplorevole stato di conservazione, non offrono certo la possibilità di un sicuro riconoscimento volumetrico e, per quanto attiene alla loro possibile funzione cultuale, trovano una possibile giustificazione proprio nella loro collocazione all’interno di un’area sacra: BARRECA 1965: 145-152. Se per l’edificio C, interpretato come altare a cielo aperto e attribuito al VII-VI sec.a.C., la connessione con le urne in deposizione può avvalorarne il carattere sacro, per i due edifici A e B la situazione appare molto più oscura, in mancanza di indicazioni su eventuale materiale in contesto primario e non mostrando il tofet una continuità di utilizzo in epoche più avanzate. Sempre a Bitia, per il c.d. tempio di Bes le indicazioni fornite nella notizia di scavo sono estremamente sommarie e, dunque, suscitano perplessità riguardo alla funzione dei diversi impianti e vani, oltreché sull’afferenza cronologica degli stessi: TARAMELLI 1933-1934: 290-291. L’attività cultuale in epoca punica è indiziata dal rinvenimento, all’interno del complesso, di una stipe votive contenente anche monete e vasi punici, ma non ci sono indicazioni fruibili per individuare eventuali restauri in epoca successiva, testimoniati, d’altronde, dalla iscrizione di periodo medio-imperiale: PESCE 1961a: 11; per l’iscrizione, LEVI DELLA VIDA 1934-1935; AMADASI GUZZO 1967: 133-136. Anche per la statua di Bes rinvenuta nel santuario si è proposta di recente, in alternativa ad una cronologia punico-ellenistica, l’appartenenza a «pieno periodo romano»: AGUS 1983: 47. 25 Un tentativo di riconoscimento di irregular plan è stato proposto per il «tempietto» di Capo San Marco, a Tharros, e per il sacello del tofet di Monte Sirai da CECCHINI 1984-1985. Il richiamo al tempio 131 di Tell Qasile non mi pare del tutto pertinente, per differenze nella disposizione del vano di accesso, nell’organizzazione dei percorsi, nella funzione delle colonne e nella collocazione di possibili altari. In particolare, per quanto concerne il «tempietto» di Capo San Marco, torno a ribadire la convinzione che la fabbrica non può essere indiscutibilmente ascritta ad un periodo arcaico, perché la tecnica strutturale non costituisce, a mio avviso, una prova dirimente dal punto di vista cronologico: cfr. ACQUARO - MEZZOLANI 1996: 47. La menzione di ceramica campana C, recuperata nel corso degli scavi, e l’individuazione, grazie a recenti ricognizioni nell’area immediatamente circostante all’edificio, di frammenti fittili di periodo romano e medievale consigliano di ascrivere l’edificio quanto meno all’epoca repubblicana, non potendo accertare una fase di frequentazione anteriore: BARRECA 1967: 120; FARISELLI PISANU - SAVIO - VIGHI 1999: 100. 22

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ria di strutture sacre attestate in Oriente, quella dei «temples with irregular plan»26, alla quale viene dedicata tutta la sezione documentaria orientale27, finisce per suscitare l’idea di una stretta connessione tra questi e gli edifici di culto di Sardegna: la transazione da un modello orientale di riferimento, quello del tempio salomonico, troppo spesso chiamato in causa per la «tipica tripartizione fenicia»28, ad un altro, sempre proveniente dalla medesima regione, rischia di riproporre, pur nel cambiamento del termine di confronto, equivalenze troppo facili e correlazioni non plausibili. I templi ad irregular plan costituiscono una «categoria» singolare nel panorama generale dell’architettura sacra del Bronzo Tardo e dell’età del Ferro e sembrano interessare un’ampia area geografica29; la loro «alterità» rispetto alle fabbriche templari più monumentali ad ante è stata considerata come segno di un diverso ruolo all’interno di una eventuale gerarchia architettonica templare30, ma anche come possibile indizio di una origine esterna alla tradizione cananea31. In ogni caso non è del tutto chiaro come questi edifici si correlino con l’apporto dei Popoli del Mare o, ancor più specificamente, con quello filisteo32 e, soprattutto, sembra possibile cogliere anche all’interno di questa cate26

La definizione e una fondamentale rassegna di questi templi, caratterizzati da una disposizione spaziale non assiale, da un accesso per lo più indiretto e da arredi interni quali banchetti alle pareti, altari e tavole offertorie, si trova in MAZAR 1980: 61-73. 27 Nel corso della sua trattazione, C. Perra (PERRA 1998: 24-25) ha presentato gli esemplari templari afferenti alla tipologia irregular plan, facendo solo un cenno assai rapido a templi che secondo alcuni autori rientrano nella medesima categoria, pur differenziandosi dal gruppo più numeroso per la particolarità del sancta sanctorum in posizione sopraelevata rispetto alla cella: per gli edifici di BethShan, cfr. tra gli altri OTTOSON 1980: 43-51. La motivazione di questa scelta è stata dettata dal carattere fortemente egittizzante di queste fabbriche templari, ma di diversa opinione sembra invece STERN 1984: 32-33, che interpreta tali fabbriche (Summit temple di Lachish e templi degli strati VII-VI di Beth-Shan e anche tempio nord del livello V di Beth-Shan) come facenti parte di un sottogruppo degli irregular plan. A. Mazar, pur sottolineando il carattere «purely Canaanite» del tempio di livello VII di Beth-Shan e adducendo ad una forte influenza egiziana la presenza di elementi decorativi quali capitelli lotiformi e cornici egizie, considera gli edifici in questione (templi di livello VII-VI di Beth-Shan; tempio dell’area P di Lachish) come caratterizzanti dell’epoca del controllo egiziano in terra di Canaan: MAZAR 1992: 173-177. 28 TORE 1989: 40. 29 MAZAR 1980: 61-73; STERN 1984: 31-36; MAZAR 1992: 177-183. 30 Interpretati come tipici templi palestinesi-cananei di dimensioni medio-piccole, in qualche caso con funzione di «road sanctuaries» in STERN 1984: 35-36. Anche A. Mazar, di recente, ha pensato per gli irregular plan ad una tipologia cananea di templi di status inferiore o di diversa funzione rispetto ai monumentali edifici di culto a sviluppo longitudinale e simmetrico: MAZAR 1993: 613-614. 31 MAZAR 1980: 66. 32 Molti autori si trovano concordi sull’interpretazione dei templi ad irregular plan come prodotto che attinge ad una tradizione cananea del Bronzo Tardo, probabilmente riferibile a realizzazioni non monumentali, ma nel quale si adottano anche elementi architettonici e di apprestamento interno diffusi nell’area egea: cfr., tra gli altri, MAZAR 1980: 68; MATTHIAE 1997: 232. Interessante è, in tal senso, la scoperta di un edificio (Building 350), interpretabile con tutta probabilità come tempio, a Tel Miqne/Ekron, composto da un vestibolo d’accesso con due colonne in antis e una sala principale, con due basi di pilastri sull’asse nord-sud, su cui si aprono tre vani minori, affiancati, ma non comunicanti tra loro; annesso ad una delle stanze è un altro ambiente. Una piattaforma a gradini, in mattoni crudi, è col-

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goria difficilmente riconducibile ad un prototipo planimetrico fisso, ma accomunata più dalla presenza di arredi interni, di soluzioni spaziali secondarie e di precise modalità di accesso non assiali33, una serie di primi esemplari pienamente inseriti in contesto cronologicamente e culturalmente cananeo34, che ripropongono la questione di una pertinenza a tale matrice e, quindi, di una relazione con il mondo egeo da riesaminare35. Complessa risulta anche la relazione di questi templi con i moduli architettonici di alcune realizzazioni di Cipro36: se infatti, dal punto di vista planimetrico, i templi 2, 4 e 5 di Kition37 sembrano avvicinarsi molto al modulo icnografico di Lachish o Tell Qasile (accesso indiretto, presenza di una o due file di pilastri nel vano maggiore, sancta sanctorum costituito da una piattaforma rilevata disposta in fondo all’ambiente maggiore, vani minori retrostanti) l’interpretazione per essi proposta dal loro scopritore, come di strutture con ampia corte porticata da cui si accedeva ad un vano a sé stante che fungeva da sancta sanctorum38, modifica il rapporto intercorrente tra spazio coperto e spazio ipetrale e, soprattutto, sminuisce l’importanza del vano maggiore rispetto a quello locata nella stanza centrale, mentre nella sala principale sono posizionati un banchetto ed un focolare. Questo edificio di culto, pur presentando elementi in comune con il tempio 131 di Tell Qasile, se ne discosta soprattutto per l’impianto del sancta sanctorum in un vano a sé stante e non direttamente nella sala principale. Alla tradizione egea sembrano riportare soprattutto il tipo di focolare e anche il materiale ceramico rinvenuto: DOTHAN 1995; DOTHAN 1998. Per focolari di simile struttura in area cipriota, KARAGEORGHIS 1998: 276-280. Per la possibile relazione tra la struttura di culto ed il palazzo, GITIN - DOTHAN 1987: 205. Un confronto tra il tempio di Tel Miqne e quello di Tell Mazar è stato proposto da ARATA MANTOVANI 1992: 59-60. Sempre a Tel Miqne, un altro piccolo sacello, che insiste su strutture di culto più antiche, presenta un ampio pavimento intonacato, banchetti, una piattaforma e, in un’area adiacente, una serie di figurine fittili: DOTHAN - DOTHAN 1992: 242. 33 Per le caratteristiche dei templi ad irregular plan, da ultimo MAZAR 1992: 181-182. Una dettagliata trattazione degli elementi accessori del tempio 131 e del sacello 300 a Tell Qasile in MAZAR 1980: 68-73, mentre per Tel Mevorakh si veda STERN 1984: 28-35. 34 Un importante tassello nel quadro di ricostruzione della tradizione architettonica dei templi ad irregular plan è costituito dall’edificio di culto del Bronzo Tardo I indagato di recente a Beth-Shan: MAZAR 1993: 611-614. In base al rinvenimento di questo tempio, l’autore collega l’intera categoria degli irregular plan ad una tradizione cananea, non escludendo possibili apporti urriti ed indoeuropei e proponendo anche una eventuale origine in Israele: MAZAR 1997: 152; MAZAR 1992: 182. 35 Ad una introduzione in area egea di modelli architettonici ad opera di mercanti canaanei (Cipro, Phylakopi, Micene) pensa NEGBI 1988: 356-357. Al contrario, A. Mazar considera la combinazione di un tempio maggiore e di un sacello rilevata a Tell Qasile come riflesso di una tradizione egea, riproposto probabilmente dai Filistei: MAZAR 1992: 182, nota 78. 36 Una somiglianza è stata colta, ad esempio, tra il Building 30 di Tell Abu Hawam IVa e il tempio del «dieu du lingot» ad Enkomi: MAZAR 1980: 64, 67. Per il tempio cipriota si veda, da ultimo, IONAS 1984: 102-103. 37 Allo stessa area sacra appartiene anche il tempietto 3 di Kition, in uso solo nel XIII sec. a.C., che presenta nella sua organizzazione spaziale, nell’accesso ad asse spezzato e nella disposizione di elementi accessori, quali i banchetti, alcune affinità con il più recente tempio 131 di Tell Qasile: KARAGEORGHIS 1976: 56-57. 38 Per i templi menzionati, KARAGEORGHIS 1981. Una siffatta configurazione si presenta sotto una veste più monumentale e con una proiezione fortemente longitudinale nel tempio 1: per una descrizione delle diverse fasi che interessarono questo monumento si veda, tra gli altri, KARAGEORGHIS 1971, dove si interpreta la grande sala con basi di colonne o pilastri come vano coperto, ipotesi poi rivista in seguito

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minore che diviene il punto più sacro del complesso, contrariamente a quanto accade nei templi ad irregular plan39. Il riconoscimento di proiezioni planimetriche simili, corredate da medesimi arredi (altari, focolari, banchetti), dunque, non sembra garantire l’appartenenza ad una medesima categoria strutturale o, meglio, non esclude elaborazioni autonome e variazioni nell’utilizzo spaziale e volumetrico, cui potrebbero corrispondere diversità nello svolgimento rituale o nella funzione cultuale. Il problema sostanziale, sottolineato anche dall’autrice del volume in esame40, è come porre in correlazione i templi ad irregular plan o i templi a sviluppo longitudinale e assiale, che costituiscono il riferimento tipologico più pertinente per il tanto citato tempio di Salomone a Gerusalemme41, con le realizzazioni di area propriamente fenicia, dove edifici «minori» come i sacelli di Sarepta42 e di Tell Suqas43 si confrontano con una tradizione architettonica santuariale di maggiore monumentalità, o meglio, di più ampia e complessa spazialità, che pare contraddistinta dalla presenza di un temenos all’interno del quale, oltre a vari annessi e strutture funzionali, si trova in posizione preminente una cella44. La situazione documentaria dell’area fenicia, dunque, al momento, non pare consentire la presentazione di uno schema organico all’interno del quale tipologie templari e santuariali diverse per organizzazione spaziale e, talvolta, con la restituzione di una sala porticata su due lati e aperta nella navata centrale, in KARAGEORGHIS 1976: 96-117. 39 Si vedano in tal senso, le annotazioni di MAZAR 1980: 67. 40 PERRA 1998: 53. 41 Si vedano, in tal senso, le considerazioni espresse da MATTHIAE 1992: 137-140. Per attestazioni dell’età del Bronzo medio in area siriana, cfr. MATTHIAE 1975: 45-67. 42 PRITCHARD 1975: 13-40. Il tempio, nella sua prima fase, era accessibile attraverso un ingresso trasversale; questa caratteristica lo avvicina soprattutto al tempio di Tel Mevorakh (strato XI), ma non mancano consonanze con edifici sacri di area siriana, come il modesto sacello di Tell Chuera e il tempio nord di Tell Fray: MATTHIAE 1992: 134-136. 43 RIIS 1979. 44 Santuari configurati in tal modo sono soprattutto quelli gubliti dell’età del Bronzo, che sembrano quasi costituire una tradizione architettonica autonoma: BUSINK 1970: 430-456; MATTHIAE 1975: 67-68; WRIGHT 1985: 246. Anche nel santuario di Amrit sembra riproposto lo stesso schema di un’area a cielo aperto e di una edicola in posizione centrale, ma in tale contesto risaltano la soluzione a portico su tre lati, la monumentalità dell’ampio bacino e l’adozione di elementi decorativi che combinano apporti egizi (gole egizie) e persiani (pinnacoli a gradini): per l’organizzazione spaziale del santuario e per le soluzioni architettoniche, cfr. DUNAND - SALIBY 1985: 9-36. La configurazione a naos della cappella di Amrit e delle edicole di Ain el- Hayat, pur collegandosi a realizzazioni egiziane, trova nella collocazione all’interno di un recinto a cielo aperto una rielaborazione peculiare dell’area fenicia, con possibili connessioni con tradizioni architettoniche precedenti, come quella dei templi di Biblo: SCANDONE MATTHIAE 1981: 76-77; WAGNER 1980: 2-10, 102-103, 177-178. Quanto all’apporto persiano, lo si potrebbe cogliere, ad esempio, nell’impiego di pinnacoli a gradini che, pur essendo attestati in area palestinese anche per complessi architettonici più antichi e legati a presumibili influssi di area mesopotamica, sono riscontrabili in almeno tre santuari di epoca persiana, cioè Amrit, Tell Suqas e tempio di Eshmun a Sidone: cfr. STERN 1977: 17-18; RIIS 1979: 48; STERN 1982: 66; STUCKY 1991: 469.

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lontane per cronologia si dispongano secondo una o più linee di sviluppo continue45; in tal senso la trattazione dei templi ad irregular plan e ad ante, se può risultare di qualche utilità per le possibili interferenze con tradizioni architettoniche fiorite nell’area palestinese46 e siriana47, rischia tuttavia di divenire foriera di equivoci, nel proporre modelli che non trovano, al momento, un’ampia corrispondenza in area fenicia. In base alla documentazione sarda, poi, non pare possibile individuare in maniera oggettiva nelle attestazioni isolane riflessi plausibili di tali categorie48; al di là del dato cronologico, che non sembra mai criticamente valutato nella considerazione delle realizzazioni sacre sarde in relazione con possibili antecedenti orientali49, la palese differenza tra tali fabbriche e gli esemplari orientali selezionati per confronto induce a chiedersi quali siano le connessioni tra i due ambiti che l’autrice si proponeva di chiarire nell’introduzione50 e se non ci sia, piuttosto, una discrepanza fra le due documentazioni che non si è potuto evidentemente ricomporre in un quadro più organico. La lamentata frammentarietà della documentazione di realizzazioni architettoniche a carattere sacro in Sardegna è dato oggettivo, ma non giustifica, a mio avviso, una ricerca indifferenziata di collegamenti con la madrepatria orientale e, tantomeno, una omologazione fra manufatti funzionalmente e tipo-

45 Si potrebbe pensare, quanto meno, a due linee di sviluppo diverse, una per i santuari con ampia corte (Biblo e Amrit) ed una per sacelli minori (Sarepta). Ad una diversa tradizione architettonica sembra da riferirsi la tipologia del complesso sacro caratterizzato da alto podio monumentale, attestato anche in area fenicia per l’epoca persiana: DUNAND 1969. 46 Per un quadro generale dell’architettura templare tra età del Bronzo ed età del Ferro in Palestina, cfr., tra gli altri, SETON WILLIAMS 1949; WRIGHT 1971; KUSCHKE 1977; OTTOSON 1980; ARATA MANTOVANI 1984; WRIGHT 1985: 215-246; MAZAR 1991; MAZAR 1992. 47 Per la Siria nell’età del Bronzo e del Ferro, cfr., tra gli altri, MATTHIAE 1975; MATTHIAE 1992. Per Ras Shamra, da ultimo, YON 1984. 48

Cfr. supra, nota 25.

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La constatazione che per lo più le attestazioni sarde si riferiscono al periodo tardo-punico consiglia prudenza nell’individuare meccaniche consonanze con edifici templari più antichi di vari secoli; riguardo agli edifici sacri di Sardegna ritenuti arcaici, fatto salvo l’esempio dell’altare del tofet di Bitia, la cui cronologia arcaica può trovare giustificazione nella connessione con le urne deposte, a mio avviso non ci sono sufficienti prove per una datazione alta per il «tempietto» di Capo San Marco: cfr. supra, nota 25. Di recente, per il luogo di culto nel «mastio» di Monte Sirai si è proposto che la funzione religiosa del complesso risalisse al suo primo impianto, cioè all’ultimo quarto dell’VIII sec. a. C., ma la motivazione addotta, ossia la presenza, seppure in strati tardi, di una statua di culto di fattura anteriore, non mi sembra del tutto rilevante nella considerazione planimetrica del complesso, che sembra appartenere per l’appunto all’ultima fase: cfr., da ultimo, BARTOLONI 1994: 827; BARTOLONI 1997: 86; PERRA 1998: 170, nota 2. 50

PERRA 1998: 12.

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logicamente diversi51: altari52, cappelle isolate53, strutture a più vani54 afferiscono a categorie strutturali diverse e disancorati dal contesto che li ospitava perdono gran parte della loro pregnanza; la dimensione composita di santuario, menzionata nel testo come determinante elemento di connessione tra le aree sacre di Sardegna e precedenti orientali55, sembrerebbe per lo più limitarsi alla possibile persistenza di moduli planimetrici di ascendenza vicino-orientale56. Ferma restando la possibilità di legare questa proiezione santuariale composita ad una tradizione di ascendenza fenicia, quel di cui si avverte la mancanza nel volume di C. Perra è un’analisi architettonica più puntuale e critica delle attestazioni sarde, in cui, laddove possibile, trovino chiarimento dinamiche di composizione spaziale, espresse dalle relazioni interne tra costruito e non costruito57 o anche tra ambienti coperti e vani ipetrali all’interno di un singolo

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La questione è accennata da PERRA 1998: 60, dove si menziona la disomogeneità degli ambiti cui si riferiscono i templi sardi, che avrebbe potuto determinare organizzazioni spaziali differenziate. Non mi pare, piuttosto, che si sia prestata attenzione alle peculiarità funzionale dei manufatti, che non assolvono tutti allo stesso compito e, dunque, appartengono a categorie distinte. Per la distinzione tra tempio e altare, si veda, ad esempio, HARAN 1981: 31-33. 52 Altare nel tofet di Bitia: BARRECA 1965: 148-151. Restituzione di altare su podio monumentale per il «tempio delle semicolonne doriche» di Tharros: ACQUARO 1991: 549 (diversa l’interpretazione di PESCE 1961b: 393-395). Il fatto che questi manufatti fossero a cielo aperto li distingue in qualche modo da possibili omologhi posti all’interno dei vani: sui diversi apprestamenti connessi allo spazio sacrificale, si vedano BISI 1991; MARGUERON 1991a. 53 Struttura a vano semplice interpretata come cappella nel tofet di Bitia: BARRECA 1965: 147. Basamenti per possibili edicole nel santuario di Sa Punta ’e su Coloru a Nora, una delle quali connessa con l’architrave ad urei: PESCE 1955: 476-477. Basamento per edicola nel tempio di Bes a Bitia: TARAMELLI 1933-1934: 290. 54 «Tempietto» di Capo San Marco: BARRECA 1958. Sacello del tofet di Monte Sirai: BONDÌ 1990. Mastio di Monte Sirai: BARRECA 1966. Tempietto a due vani nel tofet di Bitia: BARRECA 1965: 147-148. Tempio di Antas: BARRECA 1969: 33-40. 55 PERRA 1998: 72-73. 56 Si menziona in particolare il modulo delle celle breitraum: PERRA 1998: 72. In un contributo più recente l’autrice presenta in maniera più articolata i dati a disposizione sui santuari di epoca punica in Sardegna, relativamente agli aspetti compositivi e spaziali: PERRA 1999: 52-62. 57 Un interessante approccio metodologico è proposto, in tal senso, da J.C. Margueron per gli spazi sacri in Vicino-Oriente: MARGUERON 1984. La relazione degli spazi costruiti e spazi non edificati può fornire utili indicazioni relativamente ai percorsi e alle prospettive visive dell’insieme e pare affrontabile nel caso di santuari compositi: oltre alla organizzazione spaziale del tofet, che spesso comprende al suo interno edifici o altari, sarebbe interessante verificare, laddove possibile, la distribuzione di volumi all’interno di santuari che comprendono all’interno del temenos apprestamenti costruiti diversi: ad esempio, con tutte le riserve dettate dalla cronologia non chiara, per il c.d. tempio di Bes a Bitia una ipotetica restituzione del complesso come insieme a cielo aperto, adombrata dalla descrizione di Taramelli, ma in seguito non accolta in letteratura, potrebbe offrire l’immagine di un santuario con un percorso sostanzialmente assiale, diretto verso il basamento maggiore, ma con una serie di vani accessori funzionali e di apprestamenti minori, che ne moltiplicano le linee di visione: cfr. TARAMELLI 1933-1934: 290. Una pluralità di strutture costruite potrebbe essere plausibile anche per il «tempio delle semicolonne doriche» di Tharros, ma solo un’attenta analisi di tutti gli elementi architettonici erratili, diversi spesso per modulo e soluzione decorativa, potrà fornire più lumi. Per Antas, infine, il rapporto tra tempio e teme-

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edificio58, attraverso le quali impiantare un confronto non solo con monumenti orientali, ma anche con analoghe realizzazioni nord-africane59 e siciliane60. Infine, se le tecniche edilizie possono costituire un mezzo di comprensione del confronto con il territorio e della capacità di sfruttamento dello stesso61 e i moduli metrologici possono ancorare ad una matrice culturale le fabbriche antiche62, maggiore attenzione si dovrebbe porre anche alla dimensione decorativa, che, per quanto fortemente frammentaria e incapace di fornire quadri apprezzabili nel complesso, indica un livello di lettura non trascurabile del manufatto architettonico nella sua espressione volumetrica ed estetica; la commistione stilistica che si può cogliere nel podio del «tempio delle semicolonne» a Tharros63 e nei resti di Antas64 non è nuova per il mondo punico e trova i suoi nos sembra completamente da rivedere, sulla base di recenti acquisizioni che fanno rimontare il recinto ad epoca medio-imperiale: BERNARDINI - MANFREDI - GARBINI 1997: 105-106. 58 Ipotesi restitutive che prevedevano la presenza di vani scoperti erano state proposte nelle prime edizioni sia per il «tempio» di Capo San Marco, sia per quello di Antas; sarebbe interessante valutare la eventuale coesistenza di ambienti coperti e scoperti nelle attestazioni di Monte Sirai. 59 Un esempio sicuramente riferibile all’epoca punica è quello del tempio di Kerkouane, caratterizzato dalla centralità di un podio (a cui in un momento successivo ne viene addossato un secondo), che presumibilmente sosteneva una cappella; il tempio, ancora non indagato nella sua completezza, mostra già un carattere composito: FANTAR 1986: 147-221. Il rinvenimento più interessante, però, è costituito da un’area sacra indagata a Cartagine, in cui avrebbe trovato collocazione un tempio di età ellenistica; per quanto, al momento, si possa pensare solo ad ipotesi restitutive, il fatto che il luogo consti di un’ampia corte su cui sembra affacciarsi un edificio a più vani, dietro al quale, ad un livello inferiore, si trovava un secondo spazio a cielo aperto, può consolidare l’idea che anche nella metropoli punica esistessero santuari compositi, attestati peraltro dalla tradizione letteraria: RAKOB 1995: 424, abb. 6 a-b, 427-435. Per le fonti classiche relative ai templi della città di Cartagine in età punica, si veda, da ultimo, FANTAR 1993: 144-148. La composizione a santuario con ampia corte e cella in posizione preminente sembra attestata a Thinissut, secondo l’ipotesi di LÉZINE 1959: 256-257, mentre diversa è la sequenza architettonica proposta da BULLO - ROSSIGNOLI 1998: 264-267. Sempre per la regione nord-africana, si può ricordare il santuario di El-Hofra, a Costantina, in cui al centro di una corte, delimitata ai lati da un corridoio e da un possibile vano, si collocava un piccolo ambiente: BERTHIER - CHARLIER 1955: 221-223, 227-230. 60 Si ricordano, ad esempio, i due templi di Monte Adranone, per la loro interessante composizione a vani affiancati non comunicanti tra loro, uno dei quali, presumibilmente quello di maggiore importanza per il culto, ipetrale: FIORENTINI 1980. Edifici di culto a vani affiancati, non comunicanti tra loro, sono stati individuati anche a Solunto: da ultimo, TUSA 1983. 61 DE SOCIO 1983. 62 Due moduli metrologici sono stati individuati nelle strutture a carattere sacro della Sardegna punica, il cubito di 0,52 cm, a Nora, e quello di 0,46, a Tharros: ACQUARO 1991: 549-558; BONDÌ 1993: 120-121. Quanto alla misura di 0,52 cm che parrebbe contraddistinguere alcuni muri del «tempio» di Capo San Marco e che ne garantirebbe l’arcaicità (PERRA 1998: 148-149, nota 2), l’irregolarità stessa dei paramenti murari, non costituiti da blocchi litici in cui verificare il modulo di taglio impiegato nella cava, consiglia prudenza; a ciò si aggiunga a possibilità di una persistenza, anche in epoca romana, dei moduli punici, come attestato per quello di 0,516 cm in Nord-Africa: BARRESI 1991. 63 PESCE 1961b: passim; ACQUARO 1991: 549-558. Tra tutti gli elementi rinvenuti in stato di reimpiego nell’area del santuario, si ricorda in particolare il blocco a piattorilievo con capitello eolico, che trova confronti abbastanza stringenti in un esemplare maltese, diverso da quello già indicato da E. Acquaro: DAVICO 1973: 85, fig. 45, 3. 64 Si tratta di elementi architettonici erratili (capitelli dorici, gole egizie), che si sono ricomposti in una restituzione da rivalutare alla luce delle acquisizioni più recenti: BARRECA 1969: 26. Per confronti nord-africani delle cornici a toro poligonale, LÉZINE 1960: 97-99.

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confronti più pertinenti nell’area nord-africana65. Connessioni stilistiche con l’area vicino-orientale sembrano interessare monumenti per così dire minori, quali l’architrave con urei di Nora66 e le edicole ipoteticamente ricostruite sulla base dei rinvenimenti nel tofet tharrense67, ma sollevano, in ogni caso, il problema dei tramiti attraverso i quali moduli decorativi egiziani siano sopraggiunti in terra sarda. Se nella disposizione planimetrica, nei rapporti spaziali interni ed esterni, nella distribuzione dei percorsi possono leggersi norme codificate di culto e implicazioni funzionali, nella espressione decorativa sembra possibile cogliere i tentativi di sperimentazione, la capacità di assimilazione e rielaborazione, la percezione del complesso nella sua visibilità: attraverso il superamento della pura ricerca tipologica e la individuazione di questi diversi livelli di lettura ci si può avvicinare alla comprensione di una tradizione architettonica. ANTONELLA MEZZOLANI

65 Un esempio di commistione è dato dal naiskos di Thuburbo Maius, per il quale si veda LÉZINE 1960: 7-26. Oltre all’impiego dell’ordine dorico e dello ionico, sono frequenti le attestazioni di capitelli eolici angolari, di resa più naturalistica rispetto ai prototipi orientali, nei mausolei neopunici; di recente, però, un nuovo esemplare è stato ritrovato anche nell’area del c.d. tempio ellenistico a Cartagine: RAKOB 1991: abb.11, 1-2; FERCHIOU 1989: 94, No IV.I.25. Per una rassegna dei capitelli eolici in Nord-Africa, POINSSOT - SALOMONSON 1963: 83-88. 66 Questo elemento architettonico, attribuito inizialmente ad epoca arcaica, è stato datato anche dallo stesso Pesce al periodo tra 409 e 238 a.C., in base all’atrofizzazione nella resa degli urei: PESCE 1966: 148-149. Per lo stato di conservazione del monumento è difficile comprendere se vi siano somiglianze stringenti con i serpenti urei, senza nimbo, scolpiti su alcuni blocchi rinvenuti nell’area del «tempio delle semicolonne doriche» a Tharros: PESCE 1961b: 389-393. Per analogie in ambito vicino-orientale, tutte riferibili all’epoca persiana, si veda anche LÉZINE 1960: 40. Sarebbe utile verificare se la stilizzazione nella resa dei serpenti può risalire ad una tradizione egizia, rivitalizzata in epoca ellenistica dalla mediazione di Alessandria, come proposto, ad esempio, per la falsa porta nel mausoleo B di Sabratha: DI VITA 1992: 110, 115 figg. 3 e, per confronto, 4. 67 FRANCISI 1991: 233-237. L’ipotesi di edicole votive nel tofet getta nuova luce sul valore simbolico delle stele e contribuisce a restituire una visione composita del santuario, in cui il fenomeno edilizio non è affatto trascurato: ACQUARO 1995: 523-528. Per la presenza di strutture votive e di culto nei tofet, si veda, da ultimo, GARBINI 1994: 77-81.

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NOTA

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Antonella Mezzolani

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SUMMARY The article, a review of a recently published book which looks at the question of the possible Eastern origin of the layout of Western Punic sanctuaries, raises a number of issues relating to methodology. The Temple of Solomon, referred to in the Bible, is the most frequently mentioned Eastern model for the sacred buildings of Western Phoenician colonies. However the archaeological features of the Levant differ so widely that it is difficult to argue that a unique model exists for later Western Punic buildings. Chronological differences and the fragmentary nature of the evidence would suggest caution in assessing the perhaps plausible connections with Eastern buildings. In Sardinia, particularly, it is important to note that most of the sacred buildings are of the late Punic period, when even the Eastern architectural heritage seems to have been enriched with Hellenic elements. In the sacred buildings of Punic Sardinia, therefore, the search for possible Eastern models must not only take into consideration the quality and quantity of archeological evidence. We must also consider possible architectural changes occurring in individual buildings given the length of time these sacred buildings were in use and the influence of other cultures. Understanding the structure of a building can start with a study of its layout, but limiting onself to this element alone can result in over simplification. This may obscure the possible importance of new spatial and visual perceptions over time of the sacred space resulting from experiments with, for example, the juxtaposition of structural components and the reinterpretation of decoration.

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¯ N SULLA LUNA. ZURWA ASPETTI DELLA GNOSI ARAMAICO-IRANICA

... kai` oyçtvw y™perbai´nein ei∫w to` a¢nv me´row... (Epiph. Pan. haer. 26, 10, 10).

I Nella gnosi manichea le particelle luminose liberate dalla yçlh rappresentano gli elementi noetici costituenti una immensa colonna di Luce che si innalza dalla terra al cielo1. Questo stelo iridescente, giunto sulla Luna, si configura come immagine macroantropica dell’«Uomo perfetto», a∫nh´r o™ te´leiow, il Gesù cosmico, sintesi di tempo e di eternità. Simulacro che dal punto di vista escatologico coincide sia con il dio iranico del Tempo Zurwa¯ n nel suo divenire scandito in passato, presente e futuro (vd. fig. 1), sia con l’«ultimo Dio», istome¯ nyazd, l’ultima a∫ndri´aw dei testi copti2, l’immensa statua luminosa corrispondente al prv^tow a¢n&rvpow, il tan ¯ı pase¯ n, il «Corpo finale» dell’escatologia mazdeo-zoroastriana e zurvanita3, l’icona macroantropica che nel tempo finale s’innalzerà fino al cielo a guisa di una Colonna di Luce cosmica4, la ba¯ m istu¯ n dei testi in medio-iranico. 1 Ho parlato di questo in modo più approfondito nel mio lavoro L’Anima e il Tempo. Riflessioni sullo Zurvanismo in Eznik di Kol/ b, in Studi sull’Oriente Cristiano, 5 (2000), pp. 5-36. 2 Cfr. C. SCHMIDT-H.J. POLOTSKY, Ein Mani-Fund in Ägypten. Originalschriften des Mani und seiner Schüler. Mit einer Beitrag von H. Ibscher, in Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Phil.-Hist. Klasse, Berlin, 1933, p. 79; G.G. STROUMSA, Aspects de l’eschatologie manichéenne, in Revue de l’Histoire des Religions, 198 (1981), pp. 176 ss. 3 Cfr. GH. GNOLI, Un particolare aspetto del simbolismo della luce nel Mazdeismo e nel Manicheismo, in AION, N.S. 12 (1962), p. 119; R.C. ZAEHNER, Zurva¯ n. A Zoroastrian Dilemma, Oxford, 1955 (repr. New York, 1972), p. 133. 4 Cfr. il mio lavoro L’Anima viva e la Seduzione degli Arconti tra gnosticismo e manicheismo, in Asprenas, 44 (1997), pp. 191-192 (anche se il tutto andrebbe rivisto in una prospettiva più ampia).

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L’idea è esplicitamente affermata in una difficile sequenza dei Kephalaia copti: le favolose entità, divine e demoniache, che popolano l’universo onirico manicheo sono qui integrate in una complessa analisi psicologico-religiosa nella quale sono descritte le omologie tra macrocosmo e microcosmo, tra mondo e uomo5. Un discepolo pone a Mani una serie di domande riguardanti il Noûs-Luce (pnous nouaine), l’essenza celeste che penetrando nel cuore dello gnostico provoca in lui una trasmutazione salvifica6. Mani inizia a rispondere parlando del macrocosmo: l’universo è foggiato in forma umana, è un macroantropo in cui Vita ed Anima sono i Cinque figli dell’Uomo primigenio, mentre i Cinque figli dello Spirito Vivente rappresentano le attitudini noetiche, cioè i modi del pensiero, ciascuno insediato in un luogo ben definito del cosmo, i quali vegliano instancabilmente sull’integrità della mente universale. Ad essi vanno aggiunte due altre importanti ipostasi del credo manicheo: tohme e sotme, l’«invocazione» ˘ salvifica e la «risposta» del mondo divino7, le quali rappresentano il sesto figlio rispettivamente per l’Uomo primigenio e per lo Spirito Vivente. Infine – spiega sempre Mani – il presbeyth´w, il «Messaggero», il Narı¯sahyazd delle fonti medio-iraniche, nell’ordinare gli elementi del cosmo: «... collocò in esso il Grande Noûs (pnacˇ ennous), che è la Colonna di Gloria, l’Uomo perfetto»8.

L’espressione copta pnacˇ ennous corrisponde esattamente al medio-iranico wahman (manohmed in partico) wuzurg, lo o™ me´gaw noy^w, il «Grande Noûs» che dimora nelle altezze adamantine dell’anima umana; coincidenza linguistica e semantica sottolineata per la prima volta dal grande Hans Jacob Polotsky in un famoso saggio del 1933, scritto in collaborazione con Carl Schmidt, sulle allora sensazionali scoperte degli Originalschriften des Mani und seiner Schüler in ver5

Cfr. Keph. 38 (Gardner pp. 94 ss.; SPB pp. 89, 19 ss.). Per i testi iranici riguardanti il Noûs, vd. anche W. SUNDERMANN, Der Sermon von Licht-Nous. Eine Lehrschrift des östlichen Manichäismus (Berliner Turfantexte XVII), Berlin, 1992, in partic. pp. 22 ss.; sul medesimo tema si è recentemente tenuto un importante convegno i cui Atti sono stati editi da Alois van Tongerloo in collaborazione con Johannes van Oort: The Manichaean NOYS, Proceedings of the International Symposium Organized in Louvain from 31 July to 3 August 1991 (Manichaean Studies II), Louvain, 1995. 7 Cfr. in partic. J. RIES, Le Dialogue Gnostique du Salut dans les Textes Manichéens Coptes, in Orientalia Lovaniensa Periodica, 6/7 (1975-1976), (= Miscellanea in honorem G. Vergote), pp. 509-520; P. VAN LINDT, The Names of Manichaean Mythological Figures. A Comparative Study on Terminology in the Coptic Sources (Studies in Oriental Religions, Vol. 26), Wiesbaden, 1992, pp. 69-74; per lo sfondo aramaico-iranico che presuppongono i due termini, cfr. G. WIDENGREN, The Great Vohu Manah and the Apostle of God. Studies in Iranian and Manichaean Religion (Uppsala Universitets Årsskrift 5), UppsalaLeipzig, 1945, p. 20 n. 1; ed anche SCHMIDT-POLOTSKY, Ein Mani-Fund, pp. 76-77. 8 Keph. 38 (Gardner p. 97; SPB p. 92, 5-6). 6

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sione copta9. In questo lavoro il Polotsky ha portato altre prove, dimostrando che il Grande Noûs nella gnosi manichea esprime e personifica l’aspetto attivo di Gesù10. Il medesimo Gesù-Splendore che nei testi copti possiede quale controparte terrena Ie¯ s(ous) plilou, «Gesù il fanciullo»11, l’alter ego lunare12 che si manifesta in sembianze di bimbo. Di fatto nel sistema manicheo il principio noetico del cosmo non si manifesta in ogni essere vivente, ma viene in un certo senso attirato a sé dalla parte attiva e fecondante dell’anima. Il solo, unico, potente mezzo che permette di ritornare a Dio, al Paradiso delle Luci, è quindi l’aspetto volitivo e profetico di Gesù, effigiato, figurato nel Noûs-Luce, la scintilla luminosa che viene a risvegliare Adamo immerso nell’oblivione del cosmo arcontico. Esiste così una precisa convergenza fra il principio noetico che dimora nell’uomo e la frazione di questo che risiede stabilmente nelle regioni celesti. Il Polotsky ha fatto rilevare inoltre come in una formula di abiura in latino13 si possano ritrovare le medesime concezioni: Si quis patrem et filium animam et sensum dicit esse anathema sit14.

Nel lessico latino sensus è il calco del greco noero`w (< noy^w) che il Polotsky ha ritrovato in una sequenza della Prima Lettera ai Corinzi15. Si tratta di un passo in cui San Paolo (o chi per lui) parla dell’uomo pneumatikós che disputa e giudica ogni cosa (a∫nakri´nei [ta`] pa´nta) e non è sottomesso a nessuna legge o vincolo morale, poiché in lui alberga il noy^w di Cristo16. L’identica sovrapposizione tra noy^w e immagine cristica è presente nel sistema manicheo confutato dal neoplatonico e «semicristiano»

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Cfr. SCHMIDT-POLOTSKY, Ein Mani-Fund, p. 68. Tralascio di occuparmi delle multiformi epifanie di Gesù nel sistema manicheo, limitandomi a queste due; un’ampia documentazione a riguardo è in E. Rose, Die Manichäische Christologie (Studies in Oriental Religions, Vol. 5), Wiesbaden, 1979, passim; J. RIES, Jésus Christ dans la Religion de Mani, in Augustiniana, 14 (1964), pp. 437-454; e I. GARDNER, The Docetic Jesus: Some Interconnections between Marcionism, Manichaeism and Mandaeism, in Coptic Theological Papyri II: Edition, Commentary, Translation, Vienna: In Komission Bei Brüder Hollinek, 1988, pp. 57-85. 11 Cfr. Keph. 38 (SPB p. 92, 7; VAN LINDT, The Names of Manichaean, pp. 149-153). 12 Cfr. A. CHRISTENSEN, L’Iran sous les Sassanides, Copenhague, 19442, p. 189 e n. 2; di fatto Gesù nel manicheismo è il «Dio della Luna», Ma¯ hyazd in medio-persiano; per questo cfr. in partic. E. MORANO, The Sogdian Hymns of Stellung Jesus, in East and West, 32 (1982), pp. 35 ss.; lo stesso autore sta preparando un’importante monografia sull’argomento. 13 Si tratta del cosiddetto «Anatema di Milano» pubblicato dal Muratori nel 1698 (Anecdota II, p. 112) e riportato con annessa documentazione fotografica nell’articolo di W. BANG, Manichaeische Hymnen, in Le Muséon, 38 (1925), p. 53. 14 Ibid.; vd. anche WIDENGREN, The Great Vohu Manah, p. 16. 15 Cfr. SCHMIDT-POLOTSKY, Ein Mani-Fund, p. 68 n. 4. 16 Cfr. I Cor. 2, 15-16. 10

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Alessandro di Licopoli, dov’è esplicitamente affermato che to`n de` Xristo`n ei®nai noy^n17. Senza entrare nel merito dei complessi problemi che nel mito manicheo la cosiddetta «Terza creazione» o «Terza evocazione» implica, basti per tutto citare lo schema elaborato dal Polotsky18 e riprodotto dallo Schaeder e dal Christensen19, nel quale si rileva come le due serie parallele di divinità (vd. fig. 2) non rappresentino altro che aspetti differenti del medesimo simbolismo luni-solare. In un precedente lavoro20 ho spiegato come la triade manichea formata da Gesù, dalla Vergine luminosa e dal Wahman/Noûs sia strettamente connessa alla teofania del «Dio del Tempo» e «Padre della Grandezza» Zurwa¯ n. Un inno in medio-persiano celebra questi tre personaggi come *sena¯ n a¯ ya¯ ga¯ n, i «tre che giungono»21, i quali si manifestano nel mondo per salvare (bo¯ xtag) le scintille di Luce in esso intrappolate. I «tre giungenti» sembrano in qualche modo legati alla triade zurvanita di cui parlano i testi siriaci, formata da a¯ sˇu¯ qar, fra¯ sˇu¯ qar e za¯ru¯ qar, tre ipostasi che esprimono i tre stadi della vita in cui lo Zurwa¯ n akana¯ rag, il «Tempo infinito», riversa il suo potere nel cosmo. Ogni cosa infatti risulta creata in vista ed in funzione del compimento escatologico, il quale essendo il fine naturale del creato e della volontà di Zurwa¯ n, è in qualche modo implicito alla creazione stessa: a¯ sˇu¯ qar presiede al concepimento del cosmo, fra¯ sˇu¯ qar alla sua rigenerazione, za¯ ru¯ qar alla sua trasfigurazione, mentre Zurwa¯ n rappresenta il riassorbimento nell’infinito22; una sequenza questa, che si manifesta sia a livello macrocosmico che microcosmico, rivelandosi in differenti gradi e stati di esistenza. È il caso delle fasi lunari che si susseguono dalla Luna nuova alla Luna piena (e viceversa) nell’intercalare delle due fasi intermedie di Luna crescente e Luna calante (vd. fig. 1). I poli estremi di novilunio e plenilunio nel sistema manicheo esemplificano quindi il dramma della Luce prigioniera nella yçlh, Luce che si emancipa nella sty´low th^w do´jhw, la Colonna di Gloria. Il svth´r, il Gesù cosmico, versione lunare del Legatus Tertius, il «Messaggero» che 17 Contra Manich. op. dis. IV (BRINKMANN p. 7, 14); cfr. anche ibid. XXIV (BRINKMANN p. 34, 1821); e il mio articolo Alessandro di Licopoli e il Manicheismo. Ontologia e soteriologia in un mito gnostico, in Teresianum, 48 (1997), p. 753. 18 Cfr. SCHMIDT-POLOTSKY, Ein Mani-Fund, p. 69 n. 2. 19 Cfr. CHRISTENSEN, L’Iran, p. 189. 20 Cfr. E. ALBRILE, L’Anima e il Tempo, cit. alla n. 1. 21 Cfr. M543 R 7 (= F.W.K. MÜLLER, Handschriften-Reste in Estrangelo-Schrift aus Turfan, Chinesisch-Turkestan, II. Teil, in Abhandlungen der Königl. Preussischen Akademie der Wissenschaften, Berlin, 1904, p. 79; BOYCE, Reader, cqa, 1 [p. 149]); l’integrazione *sena¯ n a¯ ya¯ ga¯ n, «die drei Kommenden», è fatta da Henning in Mir.Man. II, p. 37 [328] n. 1; seguito da WIDENGREN, The Great Vohu Manah, p. 11 («the three coming ones») e da H.-J. KLIMKEIT, Hymnen und Gebete der Religion des Lichts. Iranische und türkische liturgische Texte der Manichäer Zentralasiens (Abhandlungen der Rheinische-Westfälische Akademie der Wissenschaften, Bd. 79), Opladen, 1989, p. 138. 22 Cfr. ZAEHNER, Zurva¯ n, p. 225.

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nei testi medio-iranici prende il nome di Narı¯sahyazd, alla fine dei tempi attuerà il frasˇ(a)gird, «renderà splendida» l’esistenza trasfigurando il tempo nell’eternità del Paradiso di Luce. Un’omologia, quella tra Gesù e la Luce, di cui troviamo ancora traccia in un cronografo e storico bizantino, Michele Glica: ÊOti de` h™ selh´nh ayçth th^w «Ekklhsi´aw ei∫ko´na fe´rei, v ™ say´tvw o™ ai∫s&hto`w oy©tow hçliow toy^ nohtoy^ h™li´oy ay∫toy^ dhladh` toy^ Xristoy^...23

Il Grande Noûs (o™ me`gaw noy^w), il Wahman wuzurg, è un principio cosmico che nei testi medio-iranici è «piantato», «collocato», winna¯ rd, nel cuore degli auditores manichei24. La sty´low th^w do´jhw, la Colonna di Gloria o di Luce, è formata dai singoli wahman emancipati dai vincoli corporei: questi elementi noetici – emanazioni del Wahman supremo, il Grande Wahman – obliati nel cosmo costituiscono l’essenza intelligibile dell’uomo e, una volta liberati, si uniscono nella Colonna luminosa che dalla terra s’innalza alla Luna e da qui fino al Sole. Il Wahman wuzurg, il Grande Noûs, è al medesimo tempo una forza cosmica ed una facoltà divina racchiusa nelle profondità dell’animo umano: esso è il principio noetico, l’essenza luminosa che prende il nome di «Anima vivente», grı¯w zı¯ndag, o di «Spirito vivente», waxsˇ zı¯ndag, inteso come frammento della Luce sorgiva. Tale potere cosmico ed intelligibile «piantato», «collocato» nel cuore degli uomini, nella gnosi manichea ha una funzione prettamente soteriologica. In un testo partico è espressamente appellato bo¯ zegar, Redentore, il quale intrattiene un dialogo salvifico con l’anima (gya¯ n) dell’uomo, episodio ben noto ai frequentatori di testi gnostici25, dove il Messaggero, il Redentore celeste, si rivela all’essenza spirituale incatenata ai ceppi della yçlh: ud ad man wya¯ warad... um grı¯w padra¯ za¯ d... usˇ wazˇid o¯ man awar gya¯ n ma¯ tirsa¯ h

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Ann. I, 24 (PG 158, 69). Cfr. W.B. HENNING, Ein manichäisches Bet- und Beichtbuch, in Abhandlungen der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Phil.-Hist. Klasse, No 10, 1936, p. 27, 329-330 (= Selected Papers I, p. 441). 25 Per tutto cfr. in partic. G.W. MACRAE, Discourses of the Gnostic Revealer, in G. WIDENGREN (ed.), Proceedings of the International Colloquium on Gnosticism, Stockholm August 20-25, 1973 (Filologisk-filosofiska serien 17), Stockholm-Leiden, 1977, pp. 111-122. 24

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az he¯ m to¯ manohmed ud framanyu¯ g muzˇdag ud to¯ *ay man tan padmo¯ zˇa[n bam]ig cˇe¯ ahra¯ sa¯ d za¯ wara¯ n ud az he¯ m to¯ ro¯ sˇn ispixt hase¯ nag manohmed kala¯ n ud framanyu¯ g ispurr26 «... e mi parlò... e la mia anima fu innalzata... e mi dice: «Vieni, anima, non aver paura! Sono il tuo Noûs ed un annunzio di speranza, e tu sei lo splendido vestito del mio corpo, che fa indietreggiare27 le potenze, e sono la tua Luce, splendore sorgivo, il maestoso Noûs e la speranza realizzata28...».

Le zawa¯ ra¯ n, le «potenze» menzionate in questo inno, altro non sono che le forze arcontiche, le «potenze della Tenebra», le quali in testi gnostici come l’Apocryphon Johannis o lo Scriptum sine Titulo29 dispensano il loro malefico potere sulla ei™marme´nh cosmica. Di esse si parla in un altro testo in partico, nel quale si descrivono la salvezza finale della Luce ed il ritorno delle «anime viventi» nel Paradiso adamantino: 26 T II D 178 III Rev 2a-5b (cfr. E. WALDSCHMIDT-W. LENTZ, Die Stellung Jesu in Manichäismus, in Abhandlungen der Preussischen Akademie der Wissenschaften, Phil.-Hist. Klasse, Nr. 4, 1926, p. 133, con lezione errata di muzˇdag, «annunzio, novella», inteso come «Vangelo», che viene letto come muhrag, «sigillo» [seguito da WIDENGREN, The Great Vohu Manah, p. 17]); il passo fa parte dell’Angad ro¯ sˇna¯ n edito da Mary Boyce (The Manichaean Hymn Cycles in Parthian [London Oriental Series No. 3], Oxford University Press, London, 1954, p. 140 [testo]; 141 [trad.]). In esso si usano due termini medio-iranici differenti per designare l’anima: grı¯w quando si fa riferimento all’Anima luminosa e vivente, frazione del Wahman luminoso, e gya¯ n (da cui il neo-persiano ˇja¯ n, «anima») per indicare l’anima individuale, maculata dalla personalità mondana; infine per l’integrazione «splendido vestito», padmo¯ zˇa[n bam]ig, ho dato ampie giustificazioni nel mio articolo L’Uovo della Fenice: aspetti di un sincretismo orfico-gnostico, in Le Muséon, 13 (2000), pp. 83-84. 27 Letteralmente «che atterrisce», ahra¯ sa¯ d; cfr. M. BOYCE, A Word-List of Manichaean Middle Persian and Parthian (Acta Iranica 9a/ Textes et Mémoires II-Supp.), Téhéran-Liège, 1977, p. 10. 28 Letteralmente «perfetta, compiuta», ispurr; cfr. ibid., p. 22. 29 Di queste tematiche mi sono occupato nel mio lavoro ... In principiis lucem fuisse ac tenebras. Creazione, caduta e rigenerazione spirituale in alcuni testi gnostici, in Annali dell’Istituto Universitario Orientale di Napoli (A.I.O.N.), Dipartimento di Studi del Mondo Classico e del Mediterraneo Antico/ Sezione Filologico-Letteraria, 17 (1995), pp. 109 ss.

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ud haw-izˇ cˇe¯ andar zambag panz ro¯ sˇn o¯ Ohrmizdbag padwaha¯ d ku¯ -man ma¯ hirze¯ h pad ta¯ r handa¯ m bezˇ-man za¯ war ud adya¯ war frasˇa¯ wa¯ ud Ohrmizbag o¯ haw-e¯ n padista¯ wad ku¯ -tan ne¯ anda¯ sa¯ n pad ta¯ r za¯ wara¯ n «... e poi quelle Cinque Luci, mentre combattevano, supplicarono il Dio Ohrmizd (= prv ^ tow a¢n&rvpow): «Non abbandonarci nel corpo30 di Tenebra, ma mandaci una forza ed un aiuto!». E il Dio Ohrmizd promise loro: «Non vi abbandonerò alle potenze della Tenebra!»...»31.

Se torniamo per un attimo all’inno precedente, possiamo notare come in esso il Manohmed-Noûs designi la Luce dell’anima, lo «splendore sorgivo», ispixt hase¯ nag, che si unisce all’anima diventandone il «vestito», il «corpo luminoso»32. Il Manohmed-Noûs sgorga dalla Luce primigenia, essenza e dimora del Padre della Grandezza Zurwa¯ n: esso è la «lieta novella», framanyu¯ g muzˇdag, l’«annunzio di speranza» dell’anima, promessa di salvezza compiuta, realizzata. Il svth´r, il Manohmed wuzurg, il Grande Noûs, è l’elemento luminoso racchiuso, celato negli ascosi recessi dell’interiorità umana. Principio divino, esso è al medesimo tempo l’«aiuto», adya¯ war, verso la salvezza: è il ben noto motivo del «Salvatore salvato» (der erlöste Erlöser), una definizione coniata dal Reitzenstein33 e modificata da Carsten Colpe in «Salvatore salvando»34, che spiega come il Dio, il Noûs, il Wahman, siano contemporaneamente strumento e fine del processo salvifico. Evento che evoca la restaurazione del tempo iniziale per opera del «soccorritore»35, il Saosˇyant-, il Salvatore futuro della teologia mazdeo-zoroastriana.

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Da rilevare come il termine handa¯ m significhi letteralmente «parte, membro», riferito al corpo umano; cfr. BOYCE, A Word-List, p. 46; Nyberg, p. 96b. 31 M2 R I 25-34 (= Mir.Man. III, p. 5 [850]; BOYCE, Reader, ac, 3 [p. 85]). 32 Cfr. WIDENGREN, The Great Vohu Manah, p. 18; 39; 51. 33 Cfr. R. REITZENSTEIN, Das iranische Erlösungsmysterium. Religionsgeschichtliche Untersuchungen, Bonn a. Rh., 1921, p. 42. 34 Cfr. C. COLPE, Die gnostische Gestalt des Erlösten Erlösers, in Der Islam, 32 (1957), pp. 195 ss. 35 Per l’uso, forse desueto, di questo termine, cfr. G. MESSINA, I Magi a Betlemme e una predicazione di Zoroastro (Sacra Scriptura Antiquitatibus Orientalibus Illustrata 3), Roma, 1933, p. 27 n. 1; maggiori ragguagli bibliografici nel mio Il Mistero di Seth. Sincretismo gnostico in una perduta apocalisse, in Laurentianum, 39 (1998), p. 434.

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II In alcune notevoli ricerche lo storico delle religioni svedese Geo Widengren ha mostrato come l’idea della sostanza luminosa che assume plasticamente le sembianze di vestito dell’anima36 si possa rintracciare in un importante documento gnostico di epoca partica, il cosiddetto «Inno della Perla» contenuto in un apocrifo cristiano, gli Atti di Tommaso37: in essi il giovane Principe disceso nell’oblìo per cogliere la Perla custodita nelle spire del terribile «Serpente sibilante», nel fare ritorno alla dimora avita riceve uno «splendido vestito» (lbusˇa lazhı¯ta¯ ) intessuto di pietre preziose38. La Perla e l’Abito di Luce esprimono l’identica realtà spirituale, quella dell’anima divina obliata, smarrita nel mondo della Tenebra, la stessa che troviamo nel Wahman-Noûs dei testi manichei. Ma c’è di più: tra Perla e Vestito di Luce esiste il medesimo rapporto tra esterno (il Paradiso di Luce) ed interno (il cuore dell’uomo) che intercorre tra il Wahman posto al vertice della gerarchia celeste ed il wahman celeste nell’interiorità umana. Nel Talmud l’aramaico marga¯ nı¯ta¯ , «perla», nelle varianti giudaico-palestinese marga¯ lı¯ta¯ e giudaico-babilonese margenı¯ta¯ 39, in ragione della sua preziosità designa metaforicamente una sentenza di rilievo: si parla infatti della «bocca da cui sono scaturite perle»40. Ancora nel talmudico Baba batra le mirabolanti e meravigliose descrizioni del mondo escatologico parlano di perle gigantesche che fungono da porte della città santa41. È il caso dell’esegesi di Isaia 54, 12, dove è detto che Dio «un giorno metterà a disposizione pietre preziose e perle della grandezza di trenta [cubiti] per trenta. Le stesse sono tagliate [per un’altezza] di venti [cubiti] e [una larghezza] di dieci per servire come porte di Ge-

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Motivo sicuramente indo-iranico; per tutto basti citare G. WIDENGREN, Fenomenologia della Religione, Bologna, 1984, pp. 686 ss.; per una rassegna delle idee contra questa tesi, cfr. PH. GIGNOUX, L’apocalyptique iranienne est-elle vraiment ancienne?, in Revue de l’Histoire des Religions, 216 (1999), pp. 215-216. 37 Cfr. Acta Thom. IX, 108-113; vd. ora l’edizione di A.F.J. KLIJN, The Acts of Thomas (Suppl. to Novum Testamentum, Vol. V), Leiden, 1962, pp. 120-125, con commento alle pp. 273 ss.. 38 Cfr. Acta Thom. IX, 108; 112, rispettivamente al v. 9 ed al v. 76 del testo di P.-H. POIRIER, L’Hymne de la Perle des Actes de Thomas. Introduction – Traduction – Commentaire (Homo Religiosus 8), Louvain-la-Neuve, 1981, pp. 329 e 334. 39 Per l’etimologia iranica della parola, si vd. il definitivo studio di F.A. PENNACCHIETTI, Arabo Marwa¯ n e margˇ a¯ n «perla»: ipotesi di una comune origine iranica, in AA.VV., Afroasiatica Neapolitana («Studi Africanistici. Serie Etiopica» 6), Istituto Universitario Orientale, Napoli, 1997, pp. 305315. 40 Cfr. Qid. b. 39b cit. in H.L. STRACK-P. BILLERBECK, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrasch, I, München, 1922, pp. 447 ss.; altri esempi ivi, III, München, 1926, p. 325; vd. anche F. Hauck, margari´thw, in GLNT, VI, Brescia, 1970, coll. 1267 ss. 41 Cfr. Bab. b. b. 123b, in RABBI DR. I. EPSTEIN (ed.), The Babylonian Talmud, Seder Nezikin: II, ˙ London, 1935, p. 512.

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rusalemme»42. Il motivo della città finale e delle porte che sigillano l’accesso ai cieli ha un probabile retaggio nella visione del profeta Zaccaria43 e lo si ritrova nell’Apocalisse giovannea, dove le dodici porte della Nuova Gerusalemme, corrispondenti alle dodici porte del cielo rappresentate dai dodici segni dello Zodiaco, sono costruite con una margari´thw colossale e meravigliosa44. Negli Atti di Pietro Gesù ridà la vista a tre anziane donne cieche apparendo loro nel triplice aspetto di vecchio, di adolescente e di bambino45: sembra ovvio l’avvicinamento alle tre ipostasi del Dio del Tempo Zurwa¯ n nel manicheismo e nello zurvanismo46. Nell’eulogia che precede il miracolo, sicuramente molto antica ed anteriore al resto degli Atti, Gesù è definito tempore adparentem et in aeternum utique inbisibilem47. Questo dominare da parte di Gesù i due stati di esistenza, quello visibile e manifesto e quello invisibile e germinale, in bilico tra tempo ed eternità, può inoltre evocare l’analogo dilemma iranico delle due esistenze48, il me¯ no¯ g e il ge¯ tı¯g, tematica che lo storico del cristianesimo, Luigi Cirillo, ha ritrovato in un testo gnostico ascritto a Simone il Mago49. Quasi a confermare la sovrapposizione tra idee iraniche e cristianità di lingua aramaica, l’inno prosegue attribuendo a Gesù una sequela di epiteti fra i quali si distinguono quelli di «seme», «tesoro» e «perla», margaritam50. Ancora, il fatto che poco dopo lo stesso Gesù, prima di apparire alle anziane donne, si manifesti in un bagliore simile ad un fulmine51, fa pensare ad un’interferenza con le tradizioni greche sull’origine della perla, generata da un lampo di fulmine (= Zeus), il quale inabissatosi nel mare feconda le spire di una conchiglia52. Nel mito tutto ciò veniva utilizzato per illustrare la nascita della «dea liquida» Afrodite, venerata appunto come dea delle perle. In ambito cristiano il 42

Cfr. Bab. b. b. 75a, in Epstein, p. 300. Cfr. in partic. Zach. 3, 7, dove si fa menzione degli «atri celesti» nella visione di Gerusalemme; vd. ancora F. Hauck, art. cit. coll. 1267-1268 e nn. 9-12. 44 Cfr. Apoc. 21, 21. 45 Cfr. Acta Petri 21, 2-4 (LIPSIUS-BONNET I, pp. 68, 30-69, 19). 46 L’evento è iterato in altri testi apocrifi e gnostici da me studiati in La gnosi e la trasmutazione del tempo. Appunti sul sincretismo iranico-mesopotamico, in Teresianum, 51 (2000), pp. 498 ss. 47 Acta Petri 20, 4 (LIPSIUS-BONNET I, p. 68, 3-4). 48 Cfr. in partic. i lavori di GH. GNOLI, Osservazioni sulla dottrina mazdaica della creazione, in AION, N.S. 13 (1963), pp. 163 ss. e di S. SHAKED, The Notions me¯ no¯ g and ge¯ tı¯g in the Pahlavi Texts and their relation to Eschatology, in Acta Orientalia, 33 (1971), pp. 57-70. 49 Cfr. L. CIRILLO, «Potenza e sacralità nella storia delle religioni»: la «Potenza Nascosta» (dal testo della «Grande Rivelazione», Elenchos VI, 9-18), in L. Arcella-P. Pisi-R. Scagno (cur.), Confronto con Mircea Eliade. Archetipi mitici ed identità storica (Di Fronte e Attraverso 482), Milano, 1998, pp. 281-283. 50 Cfr. Acta Petri 20, 5 (LIPSIUS-BONNET I, p. 68, 12-13). 51 Ibid. 21, 2 (LIPSIUS-BONNET I, p. 68, 32: variante testuale fulgor). 52 Cfr. ATHEN. 3 (p. 93 e); PLIN. Hist. nat. 9, 107 ss.; ORIG. Comm. in Mt. 13, 45-46; tutti i testi sono cit. in F. HAUCK, margari´thw, col. 1268 n. 13. 43

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mitologhema è impiegato inoltre per raffigurare la generazione divina e immacolata della Vergine Maria, immagine che troviamo predominante in Efrem Siro, di cui parleremo. Sempre rimanendo in tema di apocrifi è importante menzionare gli Atti di Giovanni: nella preghiera che precede la propria morte, Giovanni di Patmos invoca Gesù usando egualmente gli epiteti di «seme», «tesoro», e «perla indicibile», to`n a¢lekton margari´thn53. Di passaggio è interessante notare come nella stessa sequenza innica Gesù sia ancora menzionato quale h™ r™´iza th^w a∫&anasi´aw, «radice dell’immortalità»54, riprendendo un’espressione cara alla cristianità di lingua aramaica, basti pensare alla menzione della sˇirsˇa d-hiia, «radice della ¯ Vita», o sˇirsˇa rba d-hiia, «radice della grande Vita»55, che negli scritti dei Man¯ dei designa il regno della pura Luce pleromatica; idea che ritroveremo ampiamente sviluppata nella gnosi manichea. Nei testi medio-iranici Mani infatti parla di una «rivelazione delle due radici», *abhumisˇn ¯ıg do¯ bun56, la Vita e la non-Vita, la Luce e la Tenebra, poste quale fondamento ontologico del tutto. Un autore siriaco in cui si rifrange questa intricata temperie culturale è sicuramente Efrem Siro. Come un’immensa litania, l’opera essenzialmente poetica di Efrem riflette un cristianesimo aramaico intriso di elementi iranico-mesopotamici57: in effetti il dottore di Nisibi è un testimone privilegiato della tradizione connessa agli esordi della Chiesa persiana58, di cui conserva e trasmette i moduli espressivi peculiari. Oltre ad una cospicua serie di citazioni in cui la Perla è sostanzialmente intesa quale immagine della Luce cristica disvelatasi alla Vergine Maria59, al simbolo della marga¯ nı¯ta¯ Efrem dedica una speciale serie di inni. In uno di questi la Perla è così invocata: ’o¯ ba(r)t mayya¯ d-sˇebqat yamma¯ ¯ ¯ d-ı¯lı¯da¯ be¯ h l-yabsˇa¯ selqat ¯ 53

Acta Joh. 109, 1 (JUNOD-KAESTLI I, p. 301, 8; LIPSIUS-BONNET II1, pp. 207, 14-208, 1). Ibid. (JUNOD-KAESTLI I, p. 303, 12-13). 55 Cfr. il mio La Libagione d’Immortalità. Note sul Martirio di Santo Stefano, in Salesianum, 59 (1997), pp. 602-603; ed in partic. G. WIDENGREN, Mesopotamian Elements in Manichaeism. Studies in Manichaean, Mandaean, and Syrian-Gnostic Religion (King and Saviour II), (Uppsala Universitets Årsskrift 3), Uppsala-Leipzig, 1946, p. 15 e n. 1. 56 Cfr. BOYCE, Reader, a, 4 (p. 30). 57 Si vd. la cospicua serie di esempi riportati in WIDENGREN, Mesopotamian Elements, pp. 19-20; 60 ss.; 88-89; 98 ss.; 125 ss.; e passim. 58 Cfr. A. VÖÖBUS, History of Asceticism in the Syrian Orient. A Contribution to the History of Culture in the Near East, II: Early Monasticism in Mesopotamia and Syria (CSCO 197/Subsidia 17), Louvain, 1969, pp. 84 ss. 59 Si vd. in partic. gli indici delle singole opere di Efrem Siro pubblicate nel CSCO. 54

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da-rh¯ıma¯ be¯ h wa-rhem(w) hatpu¯ h ˙ ˙ ˙ ˙ w-estabbat(w) bah ’a(y)k haw yalda¯ ˙˙ ¯ da-rhem(w) ‘amme¯ w-etkallal(w) be¯ h ˙ ¯ «Oh Figlia dell’Acqua, che lasciò il mare in cui fu concepita e salì sull’asciutto dove fu amata; ed essi l’amavano seducendola ed ornandosi di lei come quel bimbo che i popoli amarono e di lui si adornarono»60.

L’epiteto ba(r)t mayya¯ , Figlia dell’Acqua, è inteso nella duplice accezione corporea61 ed archetipica: la Perla, pietra marina, è virginea e immacolata come Maria, è la stella maris62, simbolo germinale in cui si coagula l’esperienza mistica e metafisica della Luce. Secondo queste tradizioni essa nasce da una goccia di rugiada lunare che, caduta sulla superficie del mare, è inghiottita dalle valve affioranti di una conchiglia, la quale, fecondata da un soffio di vento e da un raggio di Sole, si richiude e si inabissa, cadendo in uno stato di gestazione. Espressione quindi di un mito luni-solare, la Perla simboleggia le potenzialità embrionali del divenire coagulate in un germe luminoso: è l’idea che troviamo nei giudeo-gnostici Naha¯ sˇ¯ım, meglio conosciuti come Naasseni «Adoratori di ˙ serpenti»63, secondo i quali le «cose viventi», zv^nta, cioè la coscienza divina e luminosa dell’umanità, sarebbero come le «perle di quello senza figura»64, toy`w margari`taw e∫kei´noy toy^ a∫xarakthri´stoy, cioè dell’Anthro¯ pos, l’Uomo primigenio, il principio noetico dalle fattezze di Salvatore ipercosmico che, in ragione della sua natura aniconica celata in uno stato di crisalide embrionale, risulta impossibile definire e racchiudere nei parametri spazio-temporali. A livello comparativo si può portare il parallelo con il Logos della gnosi dei Perati, il FiglioAy∫togenh´w il quale riceve dal Padre-Noy^w le potenze, le impronte e le idee che trasmette alla Materia mutevole e cangiante, canalizzando in qualche modo il loro scorrimento, come un pittore che faccia passare sulla tavolozza – cioè sulla 60 Hymn. de fide 82, 9 = De margarita II, 9 (ed. E. BECK in CSCO 154/Syri 73, Louvain, 1955, p. 253, 11-15 [testo]; CSCO 155/Syri 74, Louvain, 1955, p. 215, 19-23 [trad.]); per la presente traduzione ringrazio il prof. Fabrizio Pennacchietti. 61 Sul significato di «perla» come uovo dell’«uccello-conchiglia» o dell’«uccello-ostrica», vd. in partic. PENNACCHIETTI, Arabo Marwa¯ n, pp. 307-309; ed infra quanto detto per i Yezidi. 62 Cfr. Hymn. de fide 84, 14 = De margarita IV, 14 (testo ed. Beck in CSCO 154/Syri 73, pp. 259260; vd. in partic. la trad. in CSCO 155/Syri 74, p. 221 e n. 12); di passaggio si deve rilevare come queste concezioni siano compendiate da Dante in Par. II, 31-36. 63 Per la menzione dei Naha¯ sˇ¯ım cfr. il mio Le Acque del Drago. Note in margine alla Passione e ˙ Martirio di Santo Stefano Protomartire, in Studi sull’Oriente Cristiano, 3 (1999), p. 11. 64 Hipp. Ref. V, 8, 32 (WENDLAND II, p. 95, 5).

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yçlh – le forme ed i colori che vengono dal Padre65. Nella gnosi dei Naasseni

troviamo la stessa concezione: le perle, immagine dell’Anthro¯ pos ineffabile e dell’infinità delle potenze autogenerate, sono come «frutti gettati nella creazione», e∫rrimme´noyw ei∫w to` pla´sma karpoy´w. Sembra chiara a questo punto la prospettiva soteriologica del mito: le perle rappresentano la virtualità del divenire nella sua essenza atemporale ed infinita, paradossale icona nella quale coesistono tempo ed assenza di tempo, istante ed eternità. Non si può, di riflesso, non menzionare il mandeismo, che fa proprie e compendia in una sincresi peculiare gran parte di queste tradizioni: evidentemente tale mitologhema, virginale e ierogamico al medesimo tempo, legato all’in fieri del divenire, sottintende la doppia natura, lunare e solare, acquatica ed ignea della Perla. Di conseguenza nella gnosi mandea essa è vista come simbolo efficace del Messaggero di Luce, del Redentore celeste personificato nel Mana, parola che ha lo stesso ascendente del Wahman mazdeo e manicheo, cioè l’avestico manah-, «mente, pensiero»66, l’essenza divina che vivifica il corpo dell’uomo: atai bsˇlam manharanita d-anhrth ¯ ¯ lbaita napla atai bsˇlam mbasmaniata d-basimta lpagra ¯ zapra atai bsˇlam marganita d-mn ginzaihun d-hiia ¯ ¯ ‘tnisbat ˙ «... Vieni in pace, tu lucente che illumini l’effimera dimora (= ko´smow)67. Vieni in pace, tu dal soave profumo, che colmi di fragranza il fetido corpo. Vieni in pace, tu Perla, che fosti tratta dal Tesoro vivente68»69.

La Perla-Mana è l’elemento vivificante per eccellenza, esso corrisponde allo pney^ma dei sistemi gnostici. È la sostanza luminosa scaturita dal «Tesoro vivente», ginzaihun d-hiia, manifestazione tangibile della potenza divina, la forza ¯ 65

Ibid. V, 17,2 (WENDLAND II, p. 114, 17-23); vd. inoltre il mio Le Acque del Drago, p.

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Cfr. AirWb coll. 1126-1133. Letteralmente «casa decaduta», baita napla, dalla radice NPL, «cadere, precipitare» (cfr. DROWER-MACUCH p. 303 a-b), la stessa che è alla base dei nefı¯lı¯m biblico-enochici. 68 Letteralmente «Tesoro della Vita», ginzaihun d-hiia, termine tecnico che ritroviamo nel mani¯ cheismo; per il retaggio gnostico-iranico dei termini «tesoro», «tesoriere» («Inno della Perla», Pistis Sophia, etc.), cfr. WIDENGREN, Mesopotamian Elements, pp. 98 ss.; 152 n. 2; e WIDENGREN, Fenomenologia, pp. 588-590. 69 Ginza smala III, 6 (PETERMANN 81, 17-20; LIDZBARSKI 515, 20-25). 67

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ipercosmica antitetica alla Tenebra, hsˇuka. Quest’ultima nel mito mandaico è effigiata nelle sembianze di Ruha (versione diabolica della rua¯ h biblica) e dei ˙ suoi sette figli, cioè i sette Pianeti, stigma della proliferazione della forza demoniaca in senso spazio-temporale. Conseguentemente, all’epifania della PerlaMana, Ruha ed i suoi pargoli cadono, afflitti, nella desolazione più profonda: ruha d-iatba bmalia usˇuba btihma ¯ iatbia kitun kukbia sdaqia «... Ruha siede costernata, i sette siedono sgomenti, il manto di stelle è lacerato...»70.

Nella medesima prospettiva soteriologica va collocata la pmargarite¯ s nouaine, la «Perla luminosa» irradiante un fulgido splendore che nei testi manichei copti71 viene pescata nel mare della yçlh, cioè nel mare della finitudine e della morte72. Più rilevante è la menzione che il citato passo del Ginza fa del kitun kukbia, il «manto di stelle», il velo astrale squarciato nell’opera cosmogonica. Il mandaico kitun, «vestito, abito, tunica»73, è sicuramente connesso al greco xitv´n, termine specifico che nella mistica neoplatonica designa l’abito celeste che l’anima indossa o sveste74 nel viaggio astrale. Il termine è parallelo a lbusˇa, il «vestito» luminoso menzionato nell’«Inno della Perla», parola che troviamo nel mandeismo con la stessa accezione: negli inni del Qolasta si parla infatti dell’Uovo cosmico-cosmogonico come di un lilbusˇia gauaiia d-mn kasia, un ¯ «vestimento interiore che proviene dal segreto»75. È l’idea del Wahman-Noy^w quale padmo¯ zˇan bamig, lo «splendido vestito» di cui parla l’inno manicheo citato nelle righe precedenti: un’antica concezione indo-iranico-gnostica che vede nella volta celeste il vestito stellare di Ahura Mazda¯ 76, cioè il kitun kukbia 70

Ibid. III, 7 (PETERMANN 82, 8-9; LIDZBARSKI 516, 7-10). Cfr. Hom. p. 55, 18 (ed. H.J. POLOTSKY, Manichäische Homilien, mit einen Beitrag von H. Ibscher [Manichäische Handschriften der Sammlung A. Chester Beatty, Band I], Stuttgart, 1934). 72 Ibid. p. 12, 16-17 (ed. Polotsky). 73 Cfr. DROWER-MACUCH p. 216b. 74 Cfr. in partic. P. WENDLAND, La cultura ellenistico-romana nei suoi rapporti con giudaismo e cristianesimo, edizione a cura di H. Dörrie, Brescia, 1986, p. 227 n. 19, che cita i lavori di Reitzenstein e Cumont. Su questa tematica è importante la testimonianza di Proclo: cfr. In Tim. I, 35A-C; V, 330C (in PROCLI DIADOCHI, In Platonis Timaeum Commentaria, ed. E. Diehl, I, Lipsiae, 1903 [repr. Amsterdam, 1965], pp. 112, 18 ss.; III, Lipsiae, 1906 [ivi], pp. 297, 19 ss.); e De mal. VII, 24 (in PROCLI DIADOCHI, Tria Opuscula, ed. H. Boese, Berlin, 1960, pp. 203, 29 ss.). 75 Cfr. Qolasta 376 (= CP p. 416r, 2-6 [testo]; 277v [trad.]); ho parlato di questo nel mio L’Uovo della Fenice, dove riporto altri esempi comparativi. 76 Cfr. anche A. PARPOLA, The Sky-Garment. A Study of the Harappan religion and its relation to 71

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menzionato nel Ginza. Questo manto astrale viene squarciato, lacerato dalle forze planetarie che presiedono alla creazione del cosmo, idea affine al mito iranico, secondo cui Ahriman penetra e contamina la creazione ahurica lacerando le sfere celesti; le stesse che, per sigillare lo squarcio provocato da Ahriman, si mettono in movimento dando origine al fluire del tempo ed imprigionando irrimediabilmente il Principe delle Tenebre nella creazione77.

III Primo Padre della Chiesa siriaca, Afraate di Edessa è un testimone privilegiato di un’esegesi biblica compendiata con tradizioni targumiche provenienti dalle prime comunità giudeo-cristiane della Mesopotamia e nelle quali si raccolgono elementi gnostico-iranici78. Anche soprannominato «Saggio persiano», perché suddito dell’impero sassanide, Afraate aderisce ad una cerchia ascetica79 all’epoca conosciuta come bnay qya¯ ma, differentemente tradotta con «figli del patto» o, meglio, con «figli della resurrezione», la cui definitiva scelta encratita era sancita dal rito battesimale80. I lineamenti della teologia ascetica di Afraate sono contenuti nelle Dimostrazioni, un’opera indirizzata proprio ai bnay qya¯ ma: in essa si parla del primato della carità, il quale ha per oggetto le tre persone divine e procede di pari passo con il dimorare dello Spirito di Cristo nell’Anima. Il conseguimento della «carità», hubba¯ , perfetta è subordinato al rifiuto del ga´mow matrimoniale, ˙ in sintonia con una tradizione ascetico-encratita molto antica81. Di fatto, secondo Afraate, l’essenza cristica dimora nell’Anima dell’uomo pio, poiché «la carità è il sigillo perfetto, perla preziosa e tesoro (hwb’ tb‘’ tb’ mrgnyt’ ˙ ˙ ˙ mytrt’ wsymt’)»82. Ora il passo in questione stabilisce una corrispondenza

the Mesopotamian and later Indian religions (Studia Orientalia, Vol. 57), Helsinki, 1985, pp. 140 ss. 77 Cfr. PH. G. KREYENBROEK, Cosmogony and Cosmology, I. In Zoroastrianism/Mazdaism, in E. YARSHATER (ed.), Encyclopaedia Iranica, VI, Costa Mesa, 1993, pp. 303b-304a. 78 Cfr. WIDENGREN, Mesopotamian Elements, passim. 79 Cfr. VÖÖBUS, History of Asceticism, I: The Origin of Asceticism. Early Monasticism in Persia (CSCO 184/Subsidia 14), Louvain, 1958, pp. 197 ss. 80 Su questo cfr. E. SEGELBERG, Evangelium Veritatis – a confirmation homily and its relation to the Odes of Solomon, in Orientalia Suecana, 8 (1959), pp. 3-42 (per lo sfondo cultuale); e la monografia di A. VÖÖBUS, Celibacy. A Requirement for Admission to Baptism in the Early Syrian Church (Papers of the Estonian Theological Society in Exile I), Stockholm, 1951, passim. 81 Cfr. G. QUISPEL, The Study of Encratism: A Historical Survey, in U. BIANCHI (cur.), La Tradizione dell’Enkrateia. Motivazioni ontologiche e protologiche, Atti del Colloquio Internazionale (Milano, 20-23 aprile 1982), Roma, 1985, pp. 35-81. 82 Dem. XIV (ed. I. PARISOT, Patrologia Syriaca, I/1, Paris, 1894, col. 605, 18-19).

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diretta tra il «sigillo», tab‘a¯ , e la «perla», marga¯ nı¯ta¯ , stigma del raggiunto ˙ stato di purità e di perfezione edeniche83. I termini «sigillo» e «sigillazione» hanno una posterità ben assestata nella cultura del Vicino Oriente Antico: essi sono probabilmente alla base della sfragi´w nella gnosi ofitico-sethiana84, cioè l’idea della «sigillazione» quale atto cosmogonico che limita le potenze infere, abissali85. Idea che ritroviamo, speculare, nelle coppe magiche di ambiente aramaico86, dove il termine hatma ˙ (ebraico hota¯ m, arabo hatam) designa il «sigillo» che trattiene e ostacola le ˙ ˘ forze del caos demonico sovente personificate nell’ebdomade planetaria87. Non a caso ed in modo speculare i testi magici greco-bizantini parlano di sfragi^dew tv ^ n e™pta` planhtv ^ n kai` tv ^ n dv ´ deka zvdi´vn, come il «Trattato di Magia» edito 88 dal Delatte . Nel medesimo intendimento si situa un altro testo magico, trascritto nel Catalogus Codicum Astrologorum Graecorum sempre dal Delatte, il cui incipit recita: »H sfragi´da toy^ daktylidi´oy o™poy^ o™ Mhxah`l o™ a∫rxa´ggelow...89 Erede di una tradizione magico-salomonica ben consolidata, il sigillo diviene qui la forza teurgica evocata al fine di soggiogare le potenze arcangeliche poste a tutela e salvaguardia delle sfere planetarie. Anche nel mandeismo l’idea di «sigillazione» è intesa quale protezione dalle potenze infere negli usuali due livelli, quello cosmogonico e quello magico-rituale. Un termine utilizzato spesso è hatma, «sigillo»90. Così si parla di un hibil ziua d-hu hatma d-ginza, cioè di un «sigillo del tesoro» di Hibil Ziwa91, ¯ ¯ 83

Cfr. anche Dem. VI (ed. Parisot, coll. 241, 8 ss.). Cfr. il mio I Sethiani: una setta gnostica al crocevia tra Iran e Mesopotamia, in Laurentianum, 37 (1996), p. 359 (con ampia bibliografia). 85 Cfr. in partic. J.E. FOSSUM, The Name of God and the Angel of the Lord. Samaritan and Jewish Concepts of Intermediation and the Origin of Gnosticism (WUNT 36), Tübingen, 1985, pp. 245 ss. (sulle tradizioni giudaiche circa la «sigillazione» dell’abisso-tehom). 86 Sulle magic bowls la bibliografia è ormai sterminata, basti per tutto citare l’opera pionieristica di J.A. MONTGOMERY, Aramaic Incantation Texts from Nippur (University of Pennsylvania, The Museum Publications of the Babylonian Section, Vol. III), Philadelphia, 1913, e da ultimo il prezioso lavoro di E.C.D. HUNTER, Who are the Demons? The Iconography of Incantation Bowls, in Studi Epigrafici e Linguistici, 15 (1998), pp. 95-115; il medesimo argomento è oggetto di una recente tesi del dr. Marco Moriggi sulle «Coppe magiche del Museo Nazionale d’Arte Orientale a Roma», un lavoro molto interessante per la cospicua mole di dati bibliografici raccolti nel definire lo status questionis. 87 Cfr. in partic. E.C.D. HUNTER, Incantation Bowls: A Mesopotamian Phenomenon?, in Orientalia, 65 (1996), p. 232, dove si parla delle sette potenze legate dai «sette sigilli», bsˇb‘h htmyn. ˙ 88 Cfr. A. DELATTE, Anecdota Atheniensia, Tome I: Textes grecs inédits relatifs à l’histoire des religions (Bibliothèque de la Faculté de Philosophie et Lettres de l’Université de Liège, Fasc. XXXVI), Liège-Paris, 1927, p. 100, 23-24. 89 Cfr. Codices Athenienses, descripsit A. Delatte (Catalogus Codicum Astrologorum Graecorum, Tomus X), Bruxelles, 1924, p. 48 (25, f. 65v). 90 Cfr. DROWER-MACUCH p. 128b 91 Ibid., riportato nel cosiddetto «Diwan di Parigi», un rotolo mandaico che raccoglie parti dell’Alf Trisar Sˇ uialia, le «Mille e dodici Domande» (poi edite in versione integrale dalla Drower [Berlin, Akademie-Verlag, 1960]). 84

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strumento magico tramite cui il svth´r mandeo penetra nel Mondo della Tenebra. Negli inni che accompagnano il masbuta, la liturgia lustrale mandaica, al ˙ fine di difendere il battezzando dagli attacchi diabolici vengono invocate «la salvaguardia, la sigillazione e la protezione» (‘usruia uhutmuia unatruia)92. Un ˙ altro termine mandaico usato per indicare la sigillazione dalle forze malefiche è ‘siqta93 il quale, oltre a designare l’anello-sigillo da portare al dito, nel suo significato di «costrizione, obbligo» precisa la funzione apotropaica del medesimo quale elemento che «costringe» e racchiude le potenze demoniache in uno spazio ed in un tempo limitati rendendole inoffensive94. Sinonimo di ‘siqta è gusˇbanqa, indicante sempre l’anello-sigillo di probabile origine sumerico-babilonese95. Esso è rintracciabile in una sequenza visionaria del Qolasta. Si tratta di un inno, parte di un ciclo dedicato a Sˇ isˇlam-Rba, un adamita celeste dalle funzioni soteriologiche96, nel quale troviamo la medesima concatenazione di elementi simbolici quali il «tesoro», il «sigillo» e la «perla»: bsˇuma d-hiia rbia biuma d-traslh ¯ ¯ ˙ ¯ taga lsˇisˇlam rba nharubh simat ¯ hiia u‘starar balbusˇih trisar ˙˙ ¯ nauria nauria trisar balbusˇih ‘starar ¯ ˙˙ usˇuba hurinia bgusˇbanqh ¯ hamisˇ nitupiata uainia prisˇibun ˙ ginza sˇania ‘lania sarsin dahba uanpisˇ tunaiun margania man minaihun ˙ d-malkia kulhun d-nasˇar unihizih ltaga ¯ ¯ ¯ d-traslh mn risˇ brisˇ sa ¯ ˙ ¯ «Nel nome della Grande Vita, nel giorno in cui essi incoronarono Sˇ isˇlam-Rba, Tesoro vivente, in lui splendettero e presero forma nel suo vestimento

92

Cfr. Qolasta 13 (= CP p. 19v, 2-3 [testo]; p. 10r [trad.]). Cfr. CP p. 10r n. 1; DROWER-MACUCH p. 354b: «sigillato» nel senso di «costretto, obbligato, confinato». 94 Cfr. Qolasta 319 (= CP p. 346v, 9-14 [testo]; pp. 225-226r [trad.]). 95 Per i sigilli cilindrici nella tradizione mesopotamica, cfr. in partic. H. FRANKFORT, Cylinder Seals, London, 1939, passim; e H. LIMET, Les légendes des sceaux cassites (Mémoires de l’Académie Royale de Belgique, Classe des Lettres et des Sciences Morales et Politiques, Tome LX), Bruxelles, 1971, passim. 96 Cfr. CP pp. 220r ss.; per l’etimologia di Sˇ isˇlam-Rba, cfr. E.S. DROWER, The Coronation of the Great Sˇ isˇlam being a description of the rite of the coronation of a Mandaean Priest according to the ancient canon, Leiden, 1962, p. 39; di questo singolare personaggio mi sono occupato nel mio lavoro I Magi e la «Madre Celeste». Appunti per una teologia del sincretismo iranico-mesopotamico, in Antonianum, 75 (2000), pp. 311-332, alle note 90-92. 93

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dodici specchi, dodici specchi presero forma nel suo vestimento e sette altri nel suo sigillo, e cinque gocce e occhi97 percepirono in loro [= negli specchi] il sublime tesoro: alberi98 intrecciati d’oro, e munifica è la loro messe di perle. Chi, fra tutti i Re, consoliderà e vedrà la corona che essi posero di capo in capo?»99.

Sarebbe troppo lungo commentare questo splendido inno alla luce di una probabile esperienza visionaria ed enteogena100. Ciò che preme evidenziare è la presenza di un linguaggio simbolico modulato nei canoni espressivi di quella che a ragione possiamo definire «gnosi aramaico-iranica»101. Non a caso la visione del vestito nel quale prendono forma dodici specchi luminosi ha un parallelo diretto con l’abito ingemmato e colmo di pietre preziose dell’«Inno della Perla». Il giorno dell’intronizzazione celeste102, nel momento in cui la taga, la «corona», scende sul capo di Sˇ isˇlam-Rba, ciò provoca una trasmutazione nel suo vestito: in esso si materializzano dodici specchi lucenti, mentre altri sette prendono forma nel sigillo che egli porta al dito. Oltre al chiaro riferimento zodiacale e planetario (le dodici costellazioni ed i sette pianeti) questi specchi recano l’immagine del ginza sˇania, il «sublime tesoro», cioè l’Albero della Vita intrecciato di rami dorati dai quali pendono, come frutti, perle preziose103. Esiste quindi una relazione abbastanza esplicita tra il «sigillo planetario» e gli specchi zodiacali nei quali prende forma l’immagine dell’Albero di Perle. 97 Passo abbastanza oscuro: non si capisce la funzione di queste «gocce», nitupiata, che in altri ambiti hanno una connotazione tipicamente sessuale ed un ruolo soteriologico; di questo ho parlato nel mio Il Mistero di Seth, p. 445. 98 Si vd. la curiosa analogia con un sigillo cilindrico babilonese studiato da K. VAN LERBERGHE, An Enigmatic Cylinder Seal Mentioning the Usˇûm-Tree in the Royal Museum of Art and History, Brussels, in M. STOL, On Trees, Mountains, and Millstones in the Ancient Near East, Leiden, 1979, pp. 31-49. 99 Qolasta 306 (= CP p. 340v, 5-14 [testo]; pp. 220-221r [trad.]); l’idea è quella della trasmissione iniziatica del potere regale e divino, cfr. G. WIDENGREN, The Sacral Kingship of Iran, in AA.VV., La Regalità Sacra, Contributi al tema dell’VIII Congresso Internazionale di Storia delle Religioni (Numen Suppl. IV), Leiden, 1959, pp. 242-257; e WIDENGREN, Fenomenologia, pp. 503 ss. 100 Per questo mi rifaccio allo studio di G. SAMORINI, Halluzinogene in Mythos. Vom Ursprung psychoaktiver Pflanzen, Solothurn (Switzerland), 1998 (riveduto sull’edizione italiana Torino, 1995), passim. 101 Il pioniere di questi studi è Geo Widengren nel suo Iranisch-semitische Kulturbegegung in parthischer Zeit (Arbeitsgemeinschaft für Forschung des Landes Nordrhein-Westfalen, Geisteswissenschaften, Heft 70), Köln-Opladen, 1960, passim. 102 Su questo mitologhema cfr. G. WIDENGREN, Heavenly Enthronement and Baptism: Studies in Mandaean Baptism, in J. NEUSNER (ed.), Religions in Antiquity, Essays in Memory of E.R. Goodenough (Numen Suppl. XIV), Leiden, 1968, pp. 551-582. 103 Per le analogie con la rappresentazione sumerico-babilonese dell’Albero della Vita, cfr. il mio La Libagione d’Immortalità, pp. 610 ss.

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IV Espressione di un mito luni-solare e ricettacolo della Luce cristica, la rappresentazione della Perla si sovrappone a quella della pietra posta a sigillo del sepolcro di Gesù. La figurazione è attestata nelle due recensioni siriache della Caverna dei Tesori, una sorta di midrasˇ cristiano che si rifà ai libri del ciclo adamico104. Secondo questo importante documento, ascrivibile anch’esso alla cristianità di lingua aramaica, dopo la crocefissione Giuseppe, Nicodemo e Cleofa depongono il corpo di Gesù in un sepolcro nuovo chiuso da una pietra. Il passo rimanda ovviamente a Matteo 27, 60: infatti i sacerdoti ed i capi del Sinedrio, in combutta con Pilato, «pongono un sigillo sul sepolcro e sulla pietra» (w’ rmyw tb‘’ l’l mnh dqbr’ wdk’ p’)105. Più avanti apprendiamo che questa «pietra è il Mes˙ sia stesso» (wk’ p’ hy dhw msˇyh’)106, affermazione ripetuta al versetto succes˙ sivo107. L’exemplum è veterotestamentario: è la pietra percossa dal bastone di Mosè, dalla quale sgorga l’acqua che disseta gli ebrei nel deserto108, solo che nel nostro presunto midrasˇ si perfeziona e si arricchisce di nuovi contenuti, poiché diventa il tramite simbolico in cui si esprime la metamorfosi del divino che dal mondo infero si trasmuta e fa ritorno alla patria celeste. Il sigillo posto sulla pietra sepolcrale109 da emblema delimitante il mondo dell’Ade diventa un tutt’uno con la pietra, immagine cristica. Questa sovrapposizione tra «sigillo» e «perla» e tra «sigillo» e «pietra» è un tratto importante nel patrimonio simbolico e dottrinale della cristianità antica, nel quale si fondono elementi della gnosi aramaico-iranica, la stessa che è alla base del mandeismo e del manicheismo. Tali tradizioni sincretistiche al crocevia fra l’Iran e la Palestina riaffiorano insospettabilmente, in parvenze islamiche, nei cicli leggendari – meglio conosciuti come kalam – di una confraternita esoterica kurda, gli Ahl-e Haqq, «Fe˙ deli di Verità»110. 104

Ho trattato di questo con ampia bibliografia nel mio Il Mistero di Seth, pp. 426-427 e n.

78. 105 Cav. Thes. LIII, 10 (ed. Su-Min Ri in CSCO 486/Syri 207, p. 448, 1-2 [testo]; CSCO 487/Syri 208, p. 174 [trad.]); delle due recensioni siriache si è presa in considerazione quella orientale (R. Or.). 106 Ibid. LIII, 14 (ed. Su-Min Ri in CSCO 486/Syri 207, p. 448, 11 [testo]; CSCO 487/Syri 208, p. 174 [trad.]); R. Or. 107 Ibid. LIII, 15 (ed. Su-Min Ri, ivi, p. 448, 14 [testo]; p. 174 [trad.]); R. Or. 108 Cfr. Es. 17, 6. 109 Del sepolcreto quale luogo della resurrezione nel giudeo-cristianesimo ho parlato diffusamente nel mio lavoro Il Segreto della Madre Lucente. Estasi e teurgia nel sincretismo gnostico, di prossima pubblicazione. 110 Per una introduzione generale, cfr. M. MOKRI, L’Esoterisme Kurde. Aperçus sur le secret gnostique des Fidèles de Vérité, Paris, 1966; H. HALM, Ahl-e Haqq, in E. YARSHATER (ed.), Encyclopaedia Ira˙ mio lavoro divulgativo Fedeli di Verità. Note nica, I, London, 1985, pp. 635b-637a; altra bibliografia nel di esoterismo curdo (Biblioteca Universale 5), Borzano (RE), 1993, passim.

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Poiché ritenuti depositari di una sapienza arcaica e «indicibile», gli Ahl-e Haqq sono anche chiamati Ahl-us-Sirr, «Gente del Segreto»111. La loro dottrina ˙ infatti è incentrata sostanzialmente sull’idea di una Verità assoluta e «preeterna», azal, obnubilata ai profani ed accessibile unicamente agli iniziati. La ierostoria degli Ahl-e Haqq è narrata nel Keta¯ b-e saranjˇa¯ m o «Libro ˙ della perfezione». In esso leggiamo112 che un giorno ‘Alı¯, cioè ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯ leb, ˙ cugino e genero di Muhammad ritenuto dagli Ahl-e Haqq quale seconda mani˙ ˙ 113 festazione ed incarnazione di Dio , mentre sedeva all’interno della moschea di Ku¯ fa volle rivelare la propria Essenza divina ai discepoli riuniti accanto a lui. Immantinenti fece scendere dal cielo un «documento», qaba¯ la, luminoso e splendente come il Sole (war < m.-p. xwar < av. hvar-)114 e con un calamo vergò in esso il «Segreto indicibile», affinché un giorno fossero rivelati agli Ahl-e Haqq i riti e le dottrine della religione della Verità115. ˙ Ora, un’anziana donna ahl-e haqq che di buon’ora ogni mattina portava ad ˙ ‘Alı¯ una ciotola con un «po’ di latte cagliato» (= yogurt) sopraggiunse come d’abitudine: ‘Alı¯ prese la tazza di yogurt e si accostò ad una colonna della moschea. Con la mano sinistra afferrò e sradicò la colonna e con la destra posò su di essa la ciotola di latte caglio con sopra il documento sacro. Infine rimise tutto a posto, spiegando che un giorno qualcuno sarebbe giunto dal paese di Faylı¯ (Luristan) compiendo prodigi quali il far scendere il Sole dal cielo per ben tre volte. Il medesimo personaggio avrebbe preso il documento nascosto sotto la colonna, dimostrando così di essere lo stesso ‘Alı¯: «Noi siamo lui, e lui noi»116. 111 Cfr. M. MOKRI, Le «Secret indicible» et la «Pierre noire» en Perse dans la tradition des Kurdes et des Lurs Fidèles de Vérité (Ahl-e Haqq), in Journal Asiatique, 250 (1962), p. 369. 112 Ibid., pp. 377 ss.; testo gurani alle pp. 425 ss. (App. II). 113 Cfr. HALM, Ahl-e Haqq, p. 636a; la figura di ‘Ali svolge un ruolo centrale in tutti la gnosi sciita; cfr. in partic. H. Halm, Die islamische Gnosis. Die Extreme Schia und die ‘Alawiten, Zürich-München, 1982, pp. 23 ss. 114 Cfr. NYBERG p. 220b. 115 La tematica dello scritto o del libro che cade dal cielo, vergato in lingua divina, ha una lunga tradizione nel Vicino Oriente Antico (cfr. G. WIDENGREN, The Ascension of the Apostle and the Heavenly Book [King and Saviour III] , [Uppsal Universitets Årsskrift 7], Uppsala-Leipzig, 1950, pp. 7 ss. e passim) e trova una sua formulazione compiuta nel giudeo-cristiano e gnostico Elchasai (cfr. in partic. G.P. LUTTIKHUIZEN, The Revelation of Elchasai. Investigations into the Evidence for a Mesopotamian Jewish Apocalypse of the Second Century and its Reception by Judeo-Christian Propagandists [Texte und Studien zum Antike Judentum 8], Tübingen, 1985, passim; e L. CIRILLO, Elchasai e gli Elchasaiti. Un contributo alla storia delle comunità giudeo-cristiane [Univ. degli Studi della Calabria – Centro Interdipartimentale di Scienze Religiose – Studi e Ricerche 1], Cosenza, 1984, passim). 116 Cfr. anche le affinità con il logos di rivelazione del Vangelo di Eva citato da Epifanio: «Io sono te e tu sei me; dovunque ti trovi, io mi trovo. Io sono seminato dappertutto. Tu mi puoi raccogliere donde vuoi. Raccogliendo me, raccogli te stesso» (Pan. haer. 26, 3, 1 [HOLL I, p. 278]); cfr. MACRAE, Discourses of the Gnostic, p. 113; per l’espressione e∫gv´ sy` kai` sy` egv´ vd. ancora gli Acta Petri 39; IR. Adv. haer. I, 13, 3 (Marco il Mago); EPIPH. Pan. haer. 26, 9, 9 (Gnostikoi); Pistis Sophia 96 (SCHMIDT p. 567, 5 ss.); Corpus herm. I (FESTUGIÈRE-NOCK p. 68 n. 33).

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L’evento profetizzato da ‘Alı¯ si compie nella teofania di Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın, terza grande manifestazione e incarnazione divina del credo ahl-e haqq. Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın in ˙ effetti si reca alla moschea di Ku¯ fa, appoggiandosi alla colonna sotto la quale si trova il documento che racchiude il «Segreto indicibile». Come aveva fatto ‘Alı¯, egli sradica e rimuove il pilastro dal suo basamento e prende lo scritto assieme alla tazza di yogurt, rimasta miracolosamente intatta. Il latte caglio aveva mantenuto tutta la fragranza originaria e nello strato superficiale più denso erano impressi i sigilli dei dodici Imam che a suo tempo avevano siglato il documento. Alla vista di tale prodigio tutti i compagni di Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın abbracciarono il credo ahl-e haqq. Allora egli disse loro: «Io sono il Signore del Cielo e della Terra». ˙ Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın promise inoltre che in un tempo futuro sarebbe giunto un personaggio, accompagnato da sette altri, il quale sedutosi su di una pietra avrebbe intinto un dito nella tazza di yogurt – in seguito libata con i propri compagni – leggendo poi il documento. Detto questo, Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın riavvolse lo scritto e, assieme alla ciotola di latte caglio, lo pose su di una montagna chiamata Ta¯ sˇ-e Hu¯ rı¯n, alta ben centomila metri. Infine si diresse verso il mare. I suoi compagni lo seguirono gettandosi nell’acqua; essi guardavano Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın che in mezzo ai flutti, ed in sella al proprio scalpitante destriero, giocava una solitaria partita a polo. I compagni di Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın, cioè Benyamin (= Gabriele) e gli altri angeli manifestati in forma corporea, restarono parecchi anni sulla riva ad attenderlo, fin¯ lı¯. Giunti ché decisero di comune accordo di recarsi dal grande Veggente Pı¯r-A alla sua presenza, lo pregarono di mettersi alla ricerca del Re del Mondo117, poi¯ lı¯ di esaudire i suoi voti ed i suoi ché quest’ultimo aveva promesso a Pı¯r-A desideri. ¯ lı¯ si trasformò in una rondine e attraversò l’intero Dapprima Pı¯r-A firmamento senza trovare il Re. Allora assunse l’aspetto di un piccolo cane da caccia118 e con le zampe iniziò a scavare una buca talmente profonda da giungere sino al mare. Lì, in fondo all’Oceano, trovò il Re mentre rivelava il «Segreto della Verità» ai suoi abitanti, assiso sul Sa¯ˇj-e Na¯ r, un albero mitico affine sin nel nome all’Albero Sae¯ na della cosmologia mazdeo-zoroastriana, l’Albero in cui sono racchiusi i semi di tutte le piante, il quale si erge maestoso al centro del mitico mare onirico Vouru.kasˇa119. ¯ lı¯ di avvicinarsi Il calore sprigionato da quest’albero impedì però a Pı¯r-A al Re del Mondo, costringendolo a desistere dall’impresa. 117 Concezione questa che avrà molta fortuna nell’esoterismo occidentale (cfr. R. GUÉNON, Il Re del Mondo [Piccola Biblioteca Adelphi 51], Milano, 19823, passim) e che ritroviamo, secolarizzata, nell’idea rosicruciana-massonica del Superior incognitus. 118 L’immagine del cane tradisce uno sfondo simbolico sicuramente mazdeo-zoroastriano; cfr. il mio articolo L’anomalia gnostica. Fascinazioni iraniche nel sincretismo antico, in Convivium Assisiense, N.S. 1 (1999), p. 137 (con ampi rimandi bibliografici). 119 Cfr. Yasˇt 12, 17; ed anche M. BOYCE, A History of Zoroastrianism, Vol. I: The Early Period (Handbuch der Orientalistik, Band VIII/I.2.2A), Leiden-Köln, 1975, pp. 138-139; e GH. GNOLI, La reli-

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¯ lı¯ informò Benyamin sull’eImboccata la via del ritorno, il Veggente Pı¯r-A sito negativo del viaggio. Sentito il racconto, Benyamin, l’Angelo più vicino a Dio, si recò egli stesso dal Re del Mondo. Giunto innanzi al Sovrano, si rivolse a lui dicendo che il mondo intero stava attendendo la sua venuta e che i suoi compagni, seduti sulla riva del mare stavano ormai perdendo la pazienza. Il Re del Mondo promise allora di incontrarsi con Benyamin e con gli altri angeli sul monte Sˇ a¯ hu¯ , un picco situato nella catena dei monti Zagros, nei pressi della fontana di Sˇ olta¯ n. Quest’ultimo personaggio altri non è che Sˇ olta¯ n Sˇ oha¯ k, ˙ ˙ quarta teofania del credo ahl-e haqq, l’inviato celeste con cui si compie la profezia di Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın: egli infatti si reca a Sˇ ahrezu¯ r (Sˇ ahr-e Zu¯ r), si siede sulla pietra nera di Waza¯ war e prende dal monte Ta¯ sˇ-e Hu¯ rı¯n il documento nel quale è vergato il «Segreto indicibile»; dopo averne rivelato il contenuto ai propri compagni e discepoli, lo rimette al suo posto sul monte, pronunciando le medesime parole con cui Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın a suo tempo aveva profetizzato la futura teofania120. In un altro poema in versi, il Dawra-y Wazawa¯ r magistralmente edito dal Mokri121, apprendiamo che il mitico monte onirico sul quale è collocata la pietra nera di Wazawar è situato all’imbocco delle acque primordiali122, acque in cui fluttuava la Perla (dorr) primigenia123. Sempre lo stesso kalam fa riferimento al carattere infinito e «preeterno» (azal) della Pietra nera124: come la Perla primigenia, Waza¯ war è azal nisˇa¯ n, «stigma della preeternità», il segno immutabile ed eterno che, situato all’apice del firmamento (arsˇ), costituisce il luogo ierofanico dove si riunisce l’Assemblea degli «Uomini del Segreto», marda¯ n-e botu¯ n125. La ˙ stessa pietra è anche considerata come il trono di Dio poiché su di essa si posa 126 l’Aquila (ba¯ z) reale . Nella cosmologia mazdeo-zoroastriana il firmamento, la volta celeste, girdgione zoroastriana, in G. FILORAMO (cur.), Storia delle religioni, 1. Le religioni antiche, Roma-Bari, 1994, p. 519. 120 Cfr. MOKRI, Le «Secret indicible», p. 379. 121 Ibid., pp. 394 ss. 122 Per questo mitologhema, cfr. WIDENGREN, Fenomenologia, pp. 529 ss.; ed in partic. il magistrale lavoro di W.F. ALBRIGHT, The Mouth of the Rivers, in The American Journal of Semitic Languages and Literatures, 35 (1919), pp. 161-195. 123 Cfr. MOKRI, Le «Secret indicible», p. 403; ed anche M. MOKRI, Le symbole de la perle dans le folklore persan et chez les Kurdes Fidèles de Vérité (Ahl-e Haqq), in Journal Asiatique, 248 (1960), pp. 463 ss.; il motivo si coniuga inoltre con i cicli leggendari di El-Khidr e la «Fontana della Vita»; cfr. in partic. ˙ -G. SCARCIA (cur.), Ex libris Franco CoS. CRISTOFORETTI, Su Khidr, patrono di contaminazioni, in D. BREDI slovi (Euroasiatica 40), ˙Venezia, 1996, pp. 213-228. 124 Dawra-y Waza¯ war, vv. 11-13; cfr. MOKRI, Le «Secrte indicible», p. 396 (testo); pp. 400-401 (trad.). 125 Cfr. MOKRI, Le «Secret indicible», p. 414. 126 Una serie specifica di kalam è dedicata all’omologia tra l’aquila reale e Dio; cfr. M. MOKRI, Le chasseur de Dieu et le mythe du Roi-Aigle (Dawra-y Damyari), Wiesbaden, 1967, p. 62; 102 e passim.

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a¯ sma¯ n (o più semplicemente a¯ sma¯ n), è immaginata come una immensa sfera rocciosa127. L’idea della Perla primigenia, che in un’altra cosmogonia kurda, quella degli Yezidi, è vista come scaturigine del cosmo128, si coniuga quindi assai bene con questa rappresentazione. Dal Meshefa resˇ, lo «Scritto nero» yezidico, apprendiamo infatti che dalla ˙˙ frantumazione della Perla primigenia nacque il mare primordiale. Nonostante ciò il mondo corporeo non perdette la propria sfericità e restò bila¯ tahallul, ˘ «senza perforature»129, intendendo con tale espressione far riferimento alla natura perfetta, «globulare», della creazione in seguito perfezionata da Dio, il quale con i frammenti sferoidali della Perla crea la volta celeste, mentre con i frammenti più piccoli crea il Sole, la Luna e gli astri come ornamento cosmico130. Alla luce di tutti questi dati sembra quindi indubbia l’esistenza di un comune milieu religioso che si esprime nei mitologhemi e nelle forme simboliche care a quella da noi definita «gnosi aramaico-iranica».

V Le vicissitudini di Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın assumono un significato nuovo e peculiare se analizzate in una prospettiva cosmologica. Innanzi tutto la coppa di latte cagliato, o di yogurt che dir si voglia, assieme a cui è nascosto il documento del «Segreto indicibile», allude sicuramente all’haoma (> ho¯ m), il fluido vitale e vivificante della religiosità mazdeo-zoroastriana, l’ambrosia preparata dal Saosˇyant-, la bevanda magica che fa rivivere i defunti e rende immortali i viventi131. Fulcro della narrazione ahl-e haqq è la ricerca della salvezza intesa come ricerca ˙ di un centro metafisico dell’essere132: non è quindi un caso che il gioco in cui si cimenta l’inviato celeste Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın sia proprio il «polo», qutb, gioco che sin nel nome rimanda all’idea di una ricerca del centro, di un cardine immutabile ed eterno dell’esistenza. In questo senso si deve interpretare la ricerca del Re del ¯ lı¯ dapprima percorre il cielo in Mondo, il «Re eterno», Pa¯ desˇa¯ h-e azalı¯133: Pı¯r-A sembianze di uccello cercando il qutb, il «polo metafisico», senza trovarlo, 127

Cfr. BOYCE, A History of Zoroastrianism, pp. 132-133. Cfr. G. FURLANI, Testi religiosi dei Yezidi (Testi e Documenti per la Storia delle Religioni 3), Bologna, 1930, p. 83; PH.G. KREYENBROEK, Yezidism – It’s Background, Observances and Textual Tradition (Texts and Studies in Religion Vol. 62), Lewiston-Lampeter, 1995, pp. 17 ss. 129 Cfr. FURLANI, Testi, p. 83 n. 3. 130 Ibid., p. 84. 131 Per la bibliografia a riguardo, cfr. GH. GNOLI, Lichtsymbolik in Alt-Iran. Haoma-Ritus und Erlöser-Mythos, in Antaios, 8 (1967), pp. 528-549; ed il mio La Libagione d’Immortalità, pp. 612-613. 132 Cfr. R. GUÉNON, Simboli della Scienza sacra, Milano, 19874, pp. 63 ss.; ed in partic. pp. 185 ss. 133 Cfr. MOKRI, Le «Secret indicible», p. 390. 128

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quindi si trasforma in un cane, zoomorfismo, come spiegato diffusamente in un precedente lavoro, in cui è rintracciabile una chiara allusione alla stella Sirio134 intesa quale patria metafisica e luogo di ritorno celeste. Sotto questo «avatar» ¯ lı¯ si mette a scavare sino a raggiungere il fondo dell’Oceano: l’episodio, Pı¯r-A apparentemente inspiegabile, può forse riferirsi ad un ipotetico «transito» dal ¯ lı¯ trova il polo australe a quello boreale. Qui, negli abissi del polo boreale, Pı¯r-A Re del Mondo seduto sull’Albero cosmico, intento a rivelare il «Segreto indicibile» agli abitanti dell’Oceano. L’Albero rappresenta l’axis mundi ed il Re è identificato ad esso: egli è il polo cosmico e metafisico scaturigine, fonte della sapienza sorgiva. Il fatto che da esso si sprigioni calore designa probabilmente la posizione del Sole al centro dell’asse terrestre durante l’estate boreale, evento che coincide con il levarsi eliaco di Sirio. ¯ lı¯ allude quindi alla ricerca del «polo», sia metafisico La ricerca di Pı¯r-A che cosmologico. L’inviato celeste Sˇ a¯ h-Xo¯ sˇ¯ın, manifestazione del divino in forma corporea, ed il Re del Mondo, rappresentano i due poli, quello australe e quello boreale, il Sud ed il Nord, coniugati nell’incontro sulla montagna cosmica. Di questo mitologhema indo-iranico, trasmesso nella tradizione kurda degli Ahl-e Haqq, si può presupporre un’origine australe. È l’idea dell’avvicen˙ damento ciclico dei poli135, che in questo racconto si definisce in relazione alla comparsa degli inviati divini. Si tratta di fatto dell’inverarsi di una vicenda archetipica, immemore ed antichissima, basti pensare ai Magi evangelici, triplice manifestazione della forza e dell’identità «polare» di Zurwa¯ n136, i quali si recano a Betlemme dall’«inviato celeste» Gesù. Unica dissonanza in questa intricata vicenda è il «rovesciamento di prospettiva» dei referenti simbolici: il Veggente ¯ lı¯ parte infatti dal polo australe per finire la sua ricerca ed il suo viaggio Pı¯r-A nell’emisfero boreale, il che, come s’è detto, porta ad ipotizzare un’origine «antartica» del mito. Si tratta ovviamente di una ipotesi basata su dati puramente teoretici e speculativi, ipotesi in cui però trovano spiegazione molti eventi appa¯ lı¯. rentemente contraddittori nella storia di Sˇ ah-Xo¯ sˇ¯ın e di Pı¯r-A Al di là dell’indagine sui significati onto-cosmologici latenti, si deve infine sottolineare come il carattere arcaico e perenne del mito testé esposto, modulato su immagini e metafore care a quella che abbiamo definito «gnosi aramaico-iranica», trovi in queste tarde elaborazioni una nuova e più ampia for134

Cfr. E. ALBRILE, ... In principiis lucem fuisse ac tenebras, pp. 140 ss. Devo queste informazioni all’amico dr. Giuseppe Acerbi, che tratta di questi argomenti in un lavoro di prossima pubblicazione intitolato Introduzione al ciclo avatarico. 136 Cfr. in partic. J. DUCHESNE-GUILLEMIN, A Vanishing Problem, in J.M. KITAGAWA-CH.H. LONG (eds.), Myths and Symbols, Studies in Honor of Mircea Eliade, Chicago-London, 1969, pp. 275-277; ripreso in M. BUSSAGLI-M.G. CHIAPPORI, I Re Magi. Realtà storica e tradizione magica, Milano, 1985, pp. 98 ss.; cfr. anche, in una prospettiva differente, G. SCARCIA, Vent’anni di ricerche sui Magi evangelici, in L. LANCIOTTI (cur.), Venezia e l’Oriente (Civiltà Veneziana – Studi 42), Firenze, 1987, pp. 278 ss. 135

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mulazione. L’angoscia nei confronti della possibile distruzione dell’essenza luminosa, intesa quale prigionia nel ko´smow arcontico, porta l’uomo alla ricerca di «valori emozionali» in grado di ripristinare l’unità perduta: è il caso dell’immagine della Perla, che rappresenta l’unità conchiusa da cui scaturisce il tempo nel suo fluire cosmogonico. Il senso del tempo è infatti percepito nella sua dimensione «lunare», cioè il noy^w, l’aspetto attivo dell’inviato celeste. Il paradosso dei «valori emozionali» espressi nel mito è che essi sono più veri e «reali» di ciò che ordinariamente consideriamo sia la realtà: tale trasposizione dal mondo emozionale all’universo reale rappresenta l’unico punto di riferimento nell’anamnesi, nel ricordo della vera essenza luminosa obliata nell’involucro somatico dell’uomo: infatti la «scissione», la «caduta» si è prodotta in un’altra modalità di esistenza cosmica, nella quale la relazione tra l’esteriore e l’interiore, tra i due elementi noetici (l’«attivo» e il passivo), era diversa, poiché in essa l’Uomo primigenio racchiudeva in sé l’intero universo137. EZIO ALBRILE

Principali abbreviazioni: AION AirWb

= Annali dell’Istituto Orientale di Napoli. = Ch. Bartholomae, Altiranisches Wörterbuch, Zusammen mit den Nacharbeiten und Vorarbeiten, Strassburg, 19041906 (repr. Berlin-New York, 1979). Boyce, Reader = M. Boyce, A Reader in Manichaean Middle Persian and Parthian (Acta Iranica 9/ Textes et Mémoires II), Téhéran-Liège, 1975. Brinkmann = Alexandri Lycopolitani, Contra Manichaei opiniones disputatio, ed. A. Brinkmann, Lipsiae, 1885. CP = E.S. Drower (ed.), The Canonical Prayerbook of the Mandaeans, Leiden, 1959. CSCO = Corpus Scriptorum Christianorum Orientalium. Drower-Macuch = E.S. Drower-R. Macuch, A Mandaic Dictionary, Oxford, 1963. Gardner = I. Gardner (ed.), The Kephalaia of the Teacher. The Edited Coptic Manichaean Texts in Translation with Commentary (Nag Hammadi and Manichaean Studies XXXVII), LeidenNew York-Köln, 1995. 137 Cfr. il lavoro di O. CLÉMENT, Occhio di fuoco. Eros e kosmos, Comunità di Bose (Magnano), 1997, p. 45; ringrazio ancora la dr.ssa Emanuela Turri.

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GLNT

Junod-Kaestli

Lidzbarski

Lipsius-Bonnet Mir.Man.

Nyberg Petermann

SPB

Wendland

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= Grande Lessico del Nuovo Testamento, fondato da G. Kittel e continuato da G. Friedrich, ed. italiana a cura di F. Montagnini-G. Scarpati-O. Soffritti, Brescia, 1965-. = E. Junod/J.-D. Kaestli (cur.), Acta Johannis, I. Praefatio-Textus, II. Textus alii-Comm.-Ind. (Corpus Christianorum, Series Apocryphorum 1-2), Tournhout, 1983. = M. Lidzbarski, Ginza¯ . Der Schatz oder das grosse Buch der Mandäer (Quellen der Religionsgeschichte 13), Göttingen, 1925. = R.A. Lipsius-M. Bonnet (eds.), Acta Apostolorum Apocrypha, I-II/1-2, Lipsiae, 1891-1903. = W.B. Henning-F.C. Andreas (Hrsg.), Mitteliranische Manichäica aus Chinesisch-Turkestan, I-III, in Sitzungsberichte der Preussischen Akademie der Wissenschaften in Berlin, Phil.Hist. Klasse, 1932-1934. = H.S. Nyberg, A Manual of Pahlavi, Part II: Glossary, Wiesbaden, 1974. = H. Petermann, Thesaurus, sive Liber Magnus, vulgo «Liber Adami» appellatus, opus Mandaeorum summi ponderis, I (text. cont.)-II (lect. codd. addit. et corr. cont.), Lipsiae, 1867. = C. Schmidt-H.J. Polotsky-A. Böhlig (Hrsg.), Kephalaia, Band I, 1 Hälfte, Lieferung 1-10 (Manichäische Handschriften der Staatlichen Museen Berlin), Stuttgard, 1935-1940. = P. Wendland (Hrsg.), Hippolytus Werke, III: Refutatio omnium haeresium, Leipzig, 1916.

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Fig. 1. – Le fasi della Luna messe in relazione con gli elementi del sistema manicheo e zurvanita.

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Fig. 2. – Divinità solari e lunari della «Terza creazione» nel sistema manicheo.

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SUMMARY The research on the origins of the Gnostic phenomenon cannot leave out the analysis of its Iranian-Aramaic background. Common themes to Mandaeism, Manichaeism and primitive Christianity join in it. Starting from this assumption, the article studies a specific Gnostic motive, that of the catabasis and anabasis of divine and shining essence, with regard to the figure of the Redeemer and in comparative perspective. In the Manichaean Gnosis Jesus is a «Moon-god» and at the same time he is identified in Zurwa¯ n, the Iranian god of Time. Because the Moon is the heavenly place where the particles of Light gather in a Column raising up from the Earth, and this «Column of Glory» is the cosmic image of pro¯ tos anthro¯ pos. This symbolism refers to the passage from a form of existence to another, and we find the same symbolical structure in the late cosmology of the Kurds Ahl-e Haqq. ˙

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¯ ’IM AND THE END OF THE WORLD1 JESUS, THE QA The goal of this paper is to address an intriguing aspect of Islamic religious development, which, to my knowledge, has thus far gone unmentioned by western scholars. Our task can be described quite succinctly: the Jesus of Sunnı¯ Islam is a uniquely charismatic prophet, whose life is framed by two extraordinary events: his miraculous birth and his return in the end times to defeat evil and establish the universal rule of Islam. While the first event is equally true of the Jesus of Shı¯‘ı¯ Islam, the second event is less so. For through the furious theological development that followed the Twelfth Ima¯ m’s occultation, this latter figure was given the eschatological role that Sunnı¯s assign to Jesus. Two questions, then, present themselves: why does the Hidden Ima¯ m, and not Jesus, play this role in Shi‘ism? And, what role is thereby left for Jesus? Our consideration of these questions will begin by looking at Jesus’ place in the Qur’a¯ n, especially in those passages which seem to assign to him eschatological importance. We will continue with an argument for the importance of Jesus to Sunnı¯ eschatology, whether or not he is identified as the eschatological ruler (Mahdı¯). Thereafter, we will examine, briefly, the precipitous events that 1 In order to designate the Shı¯‘ı¯ community under consideration, I have used the term Ima¯ miyya (and hence Ima¯ mı¯ as the adjective), over the term Twelver Shi‘ism. Although the term Ithna‘ashariyya is found in Arabic sources, and is helpful for distinguishing the community from the Zaydiyya and Isma¯ ‘ı¯liyya, it is anachronistic for our purposes, since the Ima¯ miyya did not become «Twelvers» until the doctrine of 12 Ima¯ ms had become firmly established (no earlier than the late 4th/10th century). On this question, see S. A. ARJOMAND, The Shadow of God and the Hidden Ima¯ m (Chicago 1984), 43 and E. KOHLBERG, «From Ima¯ miyya to Ithna-‘Ashariyya», Bulletin of the School of Oriental and African Studies 39 (1976), 531ff. I have chosen to avoid the term «apocalypse» and use the term «eschatology» as a subject label to connote our general topic; that is, the end times (coming from the Greek esxatow last or latest). Recent

scholarship has differentiated between «apocalypse», the literary genre; «apocalypticism», the phenomenon; and «apocalyptic eschatology», the Weltanschauung (see J. COLLINS, «APOCALYPSE», The Encyclopedia of Religion, Ed. Mircea Eliade (New York 1987), I: 334-36.). However, formal literary apocalypses are rare in Islamic literature and apocalypticism implies a transformation of the earth, a concept rather out of place in Islam. Moreover, other terms are also ill-fitting, for example «millenialism» which is properly a biblical term, and «messianism», which is not necessarily eschatological in Islam. Most importantly, the time under consideration is neither apocalyptic nor millenial, but belongs fully to the pre-apocalytptic realm of history no less than the present time. This is a crucial point to remember in order to keep the Islamic understanding of Jesus’ descent clear of Christian categories.

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struck Ima¯ mı¯ (Twelver) Shı¯‘ism during the late 3rd (9th) – mid 4th (10th) centuries, and which forever separated it from Sunnism. This will lead into a discussion of the development, during this time, of the doctrine surrounding the Hidden Ima¯ m. In particular we will isolate references among key authors to his eschatological parousia (zuhu¯ r) and its relation to Jesus’ eschatological descent ˙ (nuzu¯ l). Finally, we will consider how the Qa¯ ’im of Shi‘ism differs from the Mahdı¯ of Sunnism, and why. In answering the above questions, I will emphasize the importance of the Hidden Ima¯ m’s role as avenger of his community, a role not taken up by the Mahdı¯ of Sunnism. It is a role which could not be fulfilled by Jesus, but only by that community’s leader, a descendent of the Prophet, ‘Alı¯ b. Abı¯ Ta¯ lib and his son Husayn. ˙ ˙ I. JESUS

IN THE

QUR’A¯ N: A SIGN

OF THE

HOUR

Islamic doctrine on the nature of Jesus (‘I¯sa¯ ) is unequivocal: he is a prophet (nabı¯) and a messenger (rasu¯ l), but no more2. He was sent by God to his people, with the same message of divine law (sharı¯‘a) and submission (isla¯ m), that other prophets brought to other peoples. More specifically, Jesus is one link in the chain made up of Abrahamic prophets, each of whom brought a written scripture. Abraham brought the suhu¯ f; Moses the tawra¯ t; David the za˙ ˙ bu¯ r; Jesus the injı¯l; and Muhammad the Qur’a¯ n. The place of Jesus as prophet, ˙ and no more, is insisted upon by exegetes such as Abu¯ Ja‘far al-Tabarı¯ ˙ (310/923): «Christ is not, O you heedless ones among the People of the Book, the son of God as you claim, but rather Jesus son of Mary...He is a prophet of God whom God sent in truth to those creatures to whom He sent him»3. Yet the Qur’a¯ nic picture of Jesus is much less clear. Jesus appears in the

2 The precise meaning of these terms and their relationship to each other remains unclear. Traditional Muslim understanding holds that a nabı¯ is one who receives a message from God, while a rasu¯ l is one who is sent with that message to a specific people (hence the doctrine that a messenger has been sent to every people «li kullı¯ ummatin rasu¯ lun,» Qur’a¯ n: 10:47). Thereby every messenger is a prophet, but every prophet is not a messenger. In fact, the Qur’a¯ nic evidence is not that clear, as some figures, generally thought of as prophets, are called therein only messengers (e.g. Hud, Sa¯ lih) and others, who are ˙ ˙ authors also identify considered to be also messengers, only prophets (e.g. Abraham). Other Muslim prophet as the more inclusive category, but specify messengers as those prophets who bring a revealed law. This, of course, runs into the same conflict with Qur’a¯ nic evidence. Therefore, western scholars have tended to see the two terms as interchangeable. See BIJLEFED, W. «A Prophet More than a Prophet? Some Observations on the Qur’a¯ nic Use of the Terms Prophet and Apostle». Muslim World 59 (1969), 1-28. 3 His comments on Qur’a¯ n 4:171. Abu¯ Ja‘far al-Tabarı¯, Ja¯ mi‘ al-baya¯ n ‘an ta’wı¯l a¯ yi l-qur’a¯ n. 12 ˙ Vols. (Cairo 1373/1954), IX:418.

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Qur’a¯ n through a miraculous virgin birth4, and disappears in a miraculous assent to heaven5. In the meantime, his life on earth is marked by miracles unlike those of any other prophet, including Muhammad, most notably his raising of ˙ the dead6. Moreover, a hadı¯th found in many important Qur’a¯ nic commenta˙ ries explains that of all humanity, only Jesus and his mother have been born sinless: «Every son of Adam when newly born is touched by Satan, except for the Son of Mary and his mother; it is at this contact that the child utters his first cry»7. In light of all of this, certain western scholars have maintained that the Qur’a¯ n affirms every Christian doctrine about Jesus, except his divinity8. Others have questioned whether even his divinity is rejected9. In addition, the Qur’a¯ n accords titles unto Jesus that it ascribes to no other prophet, including Muhammad, such as «Spirit of God» (ru¯ h Alla¯ h) and «Word of God» (kalimat ˙ ˙ Alla¯ h) and, of course, Christ (al-ması¯h)10. ˙ It is this last title, of course, which should attract our attention in this pa4

Qur’a¯ n 21:91. Qur’a¯ n 4:157-8. 6 Qur’a¯ n 3:143, 5: 110. The raising of the dead, it should be added, is always done with God’s permission. Among Christ’s other Qur’a¯ nic miracles: speech as an infant (Qur’a¯ n 3:46, 5:110, 19:29), creation of live birds from clay (3:49, 5:110), curing of a blind man and a leper (5:110), bringing down a table from the sky with a banquet (5:112-5). While later Muslim tradition asserts a number of miracles for Muhammad, the Qur’a¯ n is unequivocal that the scripture itself is his only miracle (cf. Qur’a¯ n 34:50, ˙ 40:55, 47:19). For the relation of Christ’s miracles to biblical and apocryphal accounts, see M. HAYEK, Christ de l’Islam (Paris 1959), H. MICHAUD, Jesus selon le Coran, Cahiers theologiques (Neuchatel 1960), G. PARRINDER, Jesus in the Qur’an (London 1965), and ANAWATI, «‘I¯sa¯ », Encyclopaedia of Islam New Edition (Henceforth EI2), IV:82. 7 The genesis of this hadı¯th is related to Qur’a¯ n 3:36, where Zakariyya¯ ’ places Mary, and her de˙ to be protected from Satan. Tabarı¯ quotes this hadı¯th, in several versions, scendents, in the care of God ˙ when commenting on this verse (see VI:337ff.). It is also contained in Ibn H˙anbal’s Musnad, although ˙ not in either of the Sah¯ı¯s of Bukha¯ rı¯ and Muslim. See A. WENSINCK, Concordance de la tradition musulman, 7 Vols. (Leiden˙ 1967), VI:209. cf. G. ANAWATI, «Islam and the Immaculate Conception», The Dogma of the Immaculate Conception (South Bend 1958), 447-61; and G. ANAWATI, «‘I¯sa¯ », EI2, IV:82. 8 Michel Hayek argues that the Qur’an supports the Immaculate Conception, the Virgin Birth, the Ascension, and the Assumption. Hayek, 65. 9 The verses most often cited as rejecting Christ’s divinity are Qur’a¯ n 5:17, 72 and 4:171. It could be argued, however, that these verses do not actually reject Christ’s divinity, but merely the identification of Alla¯ h with him. Moreover, mention must be made of another intriguing verse, 9:31a, which Muslims scholars universally see as a condemnation of the divinity of Christ. In fact, it may be legitimately argued that it does the opposite. The verse reads as a condemnation of Jews and Christians: «They took their rabbis and monks and Christ the Son of Mary as Lords apart from God». However, the verse is more clearly read with al-ması¯h in the genitive (along with the preceding Alla¯ h) «They took their rabbis ˙ God and Christ the Son of Mary». This is one of the arguments brought and monks as Lords apart from forward by I. di Matteo, who suggested that the Qur’a¯ n nowhere explicitly denies divinity to Christ. His argument is neither poorly reasoned or without evidence in its favor, yet it has been quite thoroughly ignored by later scholarship. This, however, is more likely due to the fact that he wrote in Italian, than to any conspiracy of silence. See his La divinità di Cristo e la dottrina della Trinità in Maometto e nei polemisti musulmani (Rome 1938), ch. 1. 10 «Spirit of God» 4:171; «Word of God», 3:45, 4:171, «Christ», eleven times, all of which, notably, are Medinan. See ANAWATI, «‘I¯sa¯ », EI2, IV:82. 5

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per, as in other contexts it is unequivocally messianic. The Hebrew (mashiah) ˙ and Aramaic (mashı¯ha) cognates of the word, whence it most likely derives11, have decidedly eschatological significance. In the Qur’a¯ n’s case, however, Muslim exegetes have not found any such meaning, and indeed the Qur’a¯ n itself seems to understand it simply as a proper name. al-Ması¯h is used therein only ˙ to refer to Jesus. Yet Muslim exegetes were certainly aware of the Christian understanding of Jesus’ title, and they were accordingly anxious to prove its innocuous connotation. In doing so they suggest a number of possible explanations for the term, none of which are soteriological or eschatological12. Tabarı¯ ˙ writes: The root of «al-ması¯h» is «al-mamsu¯ h (the annointed)»...God named him so ˙ ˙ because He purified [Jesus] from sins...Some people have claimed that the root of this word is Aramaic or Syriac, «mashı¯¯a¯ » which was Arabicized as «al-ması¯h», just ˙ as the rest of the prophets’ names in the Qur’a¯ n were Arabicized, such as Isma‘ı¯l, Isha¯ q, Mu¯ sa¯ and ‘I¯sa¯ ...but if «al-ması¯h» was not from Arabic speech and Arabs did ˙ ˙ not understand its meaning, it would not have been proclaimed13.

Yet while Sunnı¯ Muslim exegetes see no eschatological importance in the name al-ması¯h, they see plenty such importance in the person so named. How ˙ exactly he came to be thus understood is a question that we will address shortly, because the Qur’a¯ n itself gives no clear statement to that effect14. What we have, instead, are a couple of passages that give us some vague suggestions. Foremost is Qur’a¯ n 4:157-915: ... and for their saying, ‘We slew the Messiah, Jesus son of Mary, the Messenger of God’ – yet they did not slay him, neither crucified him, only a likeness of

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This is the scholarly consensus, against the view of Horovitz, that it was borrowed from Ethiopic. Many Muslim exegetes, including Tabarı¯, Zamakhsharı¯ and Baydawı¯, allow the possibility that the word is foreign, coming from Hebrew˙ or Syriac. See A. WENSINCK ˙and C. BOSWORTH, «Ması¯h», EI2, ˙ VI:726; and ANAWATI, «‘I¯sa¯ ,» EI2, IV:82. 12 One exegete, al-Fı¯ru¯ zabadı¯, remarks that there are fifty different explanations for this title. Most of them can be divided between those who associated the word with the verb masaha (to rub or ˙ anoint), and those who did so with the verb sa¯ ha (to travel or go on a pilgrimage). The former trend emphasizes either how Jesus was anointed (with blessings, by the wing of the angel Gabriel that protected him from sin, etc.) or was himself an anointer (when he anointed the eyes of the blind or he anointed the sick by rubbing them with his hand, etc.). See ANAWATI, «‘I¯sa¯ », EI2, 4:82. 13 His comments on Qur’a¯ n IV:171. Tabarı¯, IX:417-18. ˙ 14 «Muslim tradition has long thought that Jesus will come again to restore all things and reign as a just king, and it seems that it was affected by early Christian hopes of a Second Advent. The Qur’an has none of this, though there are hints which suggest Jesus as an eschatological figure». PARRINDER, 123. 15 This passage and the following one are from Arberry’s translation. Elsewhere the translation is mine.

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that was shown to them. Those who are at variance concerning him surely are in doubt regarding him; they have no knowledge of him except the following of surmise; and they slew him not of a certainty. No indeed; God raised him up to Him; God is All-mighty, All-wise. There is not one of the People of the Book but will assuredly believe in him before his death (mawtihi), and on the Resurrection Day he will be a witness against them.

The beginning of this passage, the Qur’a¯ nic version of the crucifixion, leaves plenty of room open for discussion about who (or what) exactly hung on the Cross that day. At the same time, it emphatically insists that it was not Jesus16. For he was «raised up to Him» and remains alive to this day in heaven. Thus we have the first Qur’a¯ nic hint that Jesus will return at the end of time, for it is understood that he must die like all other prophets, and all other humans. God must have spared him death for the time being, but will send him back down later to finish his earthly life. Accordingly, tradition has it that an empty tomb waits for him next to that of Muhammad at the Prophet’s mosque in ˙ Medina17. While the beginning of our first passage is open to interpretation, its end is no less so. The object of controversy among exegetes here is the small pronoun, «hi», at the end of the word «mawt» (death). The question surrounding it is, whose death are we talking about? If it is the death of a «person of the book»18, 16 Two positions came to the forefront in this debate. The first is that a mere form, a phantom, was put in the place of Christ, a doctrine also held by Christian Docetists, who likewise rejected the reality of Christ’s crucifixion. The other position is represented, for example by ‘Abd al-Jabba¯ r (415/1025), who argues that another man was crucified in his place. This second position naturally led to the question of who that man was. Certain thinkers, such as the second century Christian Basilides, identify that man as Simon of Cyrene (who volunteered due to his love of Christ). Others, such as the Muslim alTha‘labı¯ (427/1036) identify him as Judas Iscariot (who was chosen unwillingly as a punishment). ‘Abd al-Jabba¯ r, on the other hand, concludes that the crucified man was chosen by a random mishap, when Judas kissed the wrong man. See S. STERN «Quotations from Apocryphal Gospels in ‘Abd al-Jabba¯ r», Journal of Theological Studies 18 (April 1967), 44-7. At the same time, other Muslim authors, such as the exegete al-Ra¯ zı¯ (605/1209, in his al-Tafsı¯r al-Kabı¯r on this verse), also considered the view that Jesus indeed died on the Cross before being raised to heaven. See J. JOMIER, «Unité de Dieu, Chrétiens et Coran selon Fakhr al-dîn al-Râzî», Islamochristiana 6 (1980), 149-177. A more complete consideration of these questions should also consider those verses that speak of the ascension of Christ, e.g. 3:55: «God said, O Jesus, I will make you pass away and raise you to myself and sanctify you from those who disbelieve» [cf. also Qur’a¯ n 4:158]. 17 When Sir Richard Burton made his remarkable journey to Mecca and Medina (see Personal Narrative of a Pilgrimage to al-Madinah and Meccah, 2 Vols. (New York 1964)), it was apparently commonly accepted that such a tomb existed. My Muslim friends who have visited the Prophet’s mosque, however, have not heard of such a tomb. 18 Ahl al-kita¯ b is a designation for those non-Muslims who are monotheistic and hold a written scripture. According to Islamic Law they are protected from a ban that, ideally, would eliminate all others from an Islamic state. This status is given in the Qur’a¯ n, to Christians, Jews, Zoroastrians and the mysterious Sa¯ bi’u¯ n, and but has been extended to others. See e.g. Qur’an 3:110-115; 5:51, 57, 65-66; and 33:26-27. ˙

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then the exegete is in the uncomfortable position of trying to explain (1) what belief in Jesus means and (2) what it means that the People of the Book have all believed in them before their death. Many people of the book (Jews, for example) have of course died without believing in Jesus. Alternatively, this pronoun could be seen as referring to Jesus, which makes the meaning of «belief in Jesus» more reasonable (since Jesus will not die before the eschaton). Either option, however, leaves the exegete with the uncomfortable task of explaining why the Qur’a¯ n singles out belief in Jesus at all. The exegete al-Baydawı¯, sugge˙ sts how both of these options might be formulated, and opts for the first one: The pronoun of «in him» refers to Jesus, but the pronoun of «his death» refers to one [of the People of the book], meaning that no one of the Jews and Christians will not believe that Jesus is a servant of God and His prophet before he dies, even if at the time when he gives up his ghost, but this belief will not benefit them. Yet it is also said that both of the pronouns refer to Jesus, meaning that when he descends from the sky, all sects will believe in him. That is, when he descends from the sky...there will be no one of the People of the Book, except who believes in him, so that there will be one sect, and this is the sect of Islam19.

The second relevant passage, Qur’a¯ n 43:61, is an equally contentious one for Muslim scholars: It (innahu) [Jesus? Qur’an?] is knowledge (‘ilm) [sign (‘alam)? warning (dhikr)?] of the Hour; doubt not concerning it, and follow me. This is a straight path.

Here the dispute is not simply over the interpretation of the words, but over the words themselves. For this is one of the rare cases where the different canonical readings (qira¯ ’a¯ t) vary not only in their voweling, but even in the consonantal text20. The verse, according to the most popular reading (Hafs ‘an ˙ ˙ ¯ sim), reads wa-innahu la-‘ilmunli-l-sa¯ ‘ati, «He [Jesus] is truly a knowledge of ‘A ˙ 19

NAS¯ıR AL-Dı¯N AL-BAYDAW¯ı, Anwa¯ r al-tanzı¯l wa-asra¯ r al-ta’wı¯l (Beirut 1304/1984), 130. ˙ ˙ From the precedent of Ibn Muja¯ hid (324/936), the qira¯ ’a¯ t are generally considered to be seven (each with two different recesions), although some Muslims have acknowledged the «three after the seven» and the «four after the ten» to come up with fourteen. Previously, scholars (most notably A. Jeffery) were vigilant in comparing the various versions (along with reports of pre-‘Uthma¯ nic codices). More recently, J. WANSBOROUGH and J. BURTON have both cast grave doubts (although in very different ways) over the traditional account of Qur’a¯ nic collection and standardization. The relevant question, then, for our purposes (to which I do not know the answer), is whether or not the variations on Qur’a¯ n 43:61 return to an early stage of Islamic exegetical development or are a much later projection onto that development. See R. PARET, «Kira¯ ’a», EI2, V:127-9; J. WANSBROUGH, Qur’a¯ nic Studies (Oxford 1977), esp. 202ff.; and J. BURTON, Collection of the Qur’a¯ n (Cambridge 1977), esp. 203ff. 20

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the Hour». This is usually interpreted as saying that the end times can be known by his descent. The second reading (Warsh ‘an Na¯ fi’), and the only other one still is commonly used, reads la-‘alamun «He is truly a sign of the Hour»; while yet another reading reads la-dhikrun «He is truly a warning of the Hour». Another common interpretation agrees with the text of Hafs but interprets the ˙ ˙ pronominal suffix (hu) as referring to the Qur’a¯ n, not to Jesus21. Baydawı¯ ma˙ kes mention of this alternative interpretation, but opts for the first: «’He’ refers to Jesus...For his descent is one of the conditions of the Hour, by which its advent will be known. Yet it is also said that the pronoun [refers] to the Qur’a¯ n, for in it are signs of [the Hour’s] occurrence and indications about it»22.

It may be concluded, then, the Qur’a¯ n can be read as saying that Jesus will have a role to play in the eschaton, but it is remarkably unclear about what that role will be. Its commentators, as well, were divided over the interpretation of crucial verses. We will see this uncertainty mirrored in later Islamic eschatological writings23.

II: JESUS: THE SUNN¯ı MAHD¯ı? In looking at Sunnı¯ writings and hadı¯th on eschatology, I will not attempt ˙ to trace the historical development of doctrine concerning the Mahdı¯. This remains a question too unclear and controversial to be easily summarized. Nor is my goal in this section to give an exhaustive appraisal of Sunnı¯ eschatology, but simply to provide a backdrop for the section on Shı¯‘ı¯ eschatology24. The term Mahdı¯, and any idea of such a figure (other than the references about Jesus that we have discussed), find no mention whatsoever in the Qur’a¯ n. The question of its historical genesis, then, is intimately connected with the historical events and religious environment of early Islam; the traditions about the Mahdı¯ that exist reflect the diverse elements of that setting. Many scholars 21 See ANAWATI, 84 and PARRINDER, 34, who argues that the second reading should be taken as the most correct. 22 BAYDAW¯ı, 253. ˙ 23 «In spite of the support of the belief in the Mahdı¯ by some prominent traditionists and Su¯ fı¯s, it ˙ never became an essential part of Sunnı¯ religious doctrine. Sunnı¯ creeds mention it but rarely. Many famous scholars like al-Ghazza¯ lı¯ avoided discussing the subject. This attitude was often probably less motivated by doubts concerning the truth of the belief than by fear of encouraging politically disruptive movements in the Muslim community. Open criticism of the belief like that of Ibn Khaldu¯ n who, in his Muqaddima undertook to refute the authenticity of all hadı¯ths concerning the Mahdı¯, was exceptional». ˙ W. MADELUNG, «Mahdı¯», EI2, V:1235. 24 Thus I will rely heavily on secondary literature, particularly the scholarship of Madelung.

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have argued, convincingly in my opinion, that the formation of this doctrine was heavily influenced by extra-Islamic sources, whether Zoroastrian, Christian or Jewish. In any case, the issues involved in this process lie beyond our scope, which for now will be directed simply at the conceptions that resulted from that process and the place of Jesus therein. Sunnı¯ traditions regarding the Mahdı¯ can be roughly categorized into three separate views. The first and apparently earliest view, which need not concern us here, is represented by those traditions which identify the Mahdı¯ as a political leader, whether a caliph (such as the ‘Umayyad ‘Umar II or the ‘Abba¯ sid al-Saffa¯ h) or a political insurgent (such as Muhammad b. al-Hanifiyya ˙ ˙ ˙ or al-Nafs al-Zakiyya)25. This figure is entitled the Mahdı¯ by virtue of his restoring the righteousness of earliest Islam, defeating wrongdoers and establishing a just rule26. Such an understanding of the Mahdı¯ need not have any eschatological aspect whatsoever: «As an honorific epithet without messianic significance, the term was employed from the beginning of Islam»27. The second view, and the most widely accepted today, portrays the Mahdı¯ as a messianic figure who will gather Muslims together under his rule before the descent of Jesus and, together with Jesus, lead them to ultimate victory in anticipation of the Day of Resurrection. The rise of the Mahdı¯ into power will be preceded by a period of increasing lawlessness and debauchery, during which both the Sharı¯‘a and the natural order will be threatened. The protaganist of this dark age will be a figure known as al-Dajja¯ l: «when one sees many preachers and few healers appear; when the human order is disorganized, when men act like women and women like men; when men make couples among themselves and the women do the same, then it is that God will send the Dajja¯ l against them to dominate and oppress»28. al-Dajja¯ l, a figure who does not appear in the Qur’a¯ n but does appear in Syriac Christian literature29, will seduce the world with his miracles and riches, but in the end is destined to be killed. 25

See MADELUNG, «Mahdı¯», 1230ff. Several widespread hadı¯th reflect this understanding of the Mahdı¯ as nothing more than a ri˙ ghteous ruler. Among tham: «The Prophet said: There will be in my community the Mahdı¯ for a short time, seven (years), otherwise nine. My community will then enjoy prosperity as they have never enjoyed. [The earth] will bring forth its fruit for them and will not hoard anything away from them. Money will at that time be in heaps, and whenever a man will get up and say ‘O Mahdı¯, give me’, he will say ‘Take.’» IBN MA¯ JA, Ba¯ b khuru¯ j al-Mahdı¯, 4172 (cf. al-Tirmidhı¯, Ba¯ b ma¯ ja¯ ’a fı¯ al-Mahdı¯, 2268). Another tradition quotes the Prophet saying «among your chaliphs, there will be a caliph who will spread money around without counting it». Muslim, Ba¯ b la¯ taqu¯ m al-sa¯ ‘a, 7266. See also MADELUNG, «Mahdı¯», 1231-2. 27 MADELING, 1230. The word itself (coming from the root h-d-y) need not imply any eschatological significance, but rather suggests a meaning simply of «guide». Furthermore, the earliest applications of Mahdı¯, as far as we can tell, were divorced from any messianic connotations. Both Muhammad and al˙ Husayn b. ‘Alı¯ b. Abı¯ Ta¯ lib were reportedly called «Mahdı¯» for their status as righteous leaders. See Ma˙ ˙ delung, 1230. 28 HINDI¯, Muntakhab, VI, 56. Translated by Hayek, 256. 29 A. Abel traces the characteristics of the Islamic al-Dajja¯ l back to the Biblical anti-Christ and to 26

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What is most interesting, perhaps, is the inversion of natural order that will occur during under his reign (men acting like women, etc). al-Dajja¯ l himself carries signs of reversing nature, like the water he will bring that will be made of fire and the fire that will be made of water30. All of this comes from the Muslim community’s neglect of the divine law, the sharı¯‘a. Just as the Israelites disobe¯ dites disobeyed the message of Hud32, so yed the message of Moses31, as the ‘A too will the Muslims eventually turn away from Islamic law and find themselves heading for doom instead of salvation. At this time, the Mahdı¯, who will come from the family of Muhammad ˙ (through either the Husaynids or the Hasanids), will rise up to power in oppo˙ ˙ sition to al-Dajja¯ l, gathering Muslims together and, according to many traditions, conquer Constantinople (and sometimes Rome as well)33. Under his rule, which is usually understood as either forty days or forty years, the sharı¯‘a will be fully carried out and he will fill the world «with equity and justice as it was filled with oppression and injustice»34. During this time Jesus will descend and pray behind the Mahdı¯ in the great communal prayer of all Muslims. Thereafter, the two figures, or Jesus alone35, will together kill al-Dajja¯ l, break Crosses and kill Jews36. Jesus will then live out his days peacefully under the Mahdı¯’s rule and be buried in the tomb waiting for him in Medina. So it is that the role of the Mahdı¯ is to set things right again. He is precisely the foil of al-Dajja¯ l, without whom there would be no need of a Mahdı¯. Thus is Sunnı¯ eschatology separated from both Christian and Shı¯‘ı¯ eschatology. The Mahdı¯ does not usher in a new «millenium» or transform the world and its order. Rather, he re-establishes the divine law that Muhammad has already received and promulgated, the sharı¯‘a, which is

the Christian al-dagga¯ la¯ who appears in the Syriac writings of St. Ephraem, Ps. Methodius and the Apocalypse of al-Bah¯ıra. See «al-Dadjdja¯ l», EI2, II:75-7. ˙ 30 Abel, 75. Here he is quoting a tradition from the Ba¯ b dhikr al-Dajja¯ l of both Bukha¯ rı¯ and Muslim. 31 See Qur’an 7:138-140. 32 See Qur’an 11:50-60, 7:65-72. 33 See MADELUNG, «Mahdı¯», 1234. 34 This refrain appears repeatedly in eschatological traditions, e.g. from Ahmad b. Hanbal: «The Mahdı¯ will come from my community, whether his life is lengthened or shortened.˙ He will ˙live seven, eight or nine years. He will fill the earth with equity and justice as it was filled with oppression and injustice». Musnad, 10982. 35 According to Madelung, earlier traditions have Jesus alone killing al-Dajja¯ l, while only in later traditions does the Mahdı¯ get involved in the action. He does not, however, offer any evidence for this conclusion. See MADELUNG, «Mahdı¯», 1234. 36 Note the widespread hadı¯th: «...the earth cried out and there did not remain a rock, nor a tree, nor anything except that which˙ said, ‘O Muslim! There is a Jew behind me, so kill him!’ except for the ghurdaqa, for it is a Jewish tree». Bukha¯ rı¯, Ba¯ b qita¯ l al-yahu¯ d, 2858; Muslim Ba¯ b la¯ taqu¯ m al-sa¯ ‘a hata¯ ..., ˙ 7284.

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both perfect and eternal. Under the Mahdı¯’s reign, the sharı¯‘a will be fully implemented, and the world will return to its natural order: Tranquillity will be established and there will be peace; a man will encounter a lion without danger; he will pick up a snake without harm. The earth will provide vegetation as it did in the time of Adam. All of the inhabitants of the world will believe in Jesus and all will form one religious community37.

Jesus, then, still has a central role in this second view, even though he is not identified with the Mahdı¯. For it is Jesus who will «will descend from the sky on the hill of ‘Afı¯q38, as a guiding ima¯ m, a just judge, dressed in a short, smooth burnus with a large front, carrying in his hand a lance with which he will kill Dajja¯ l»39. Moreover, while most of these traditions have the Mahdı¯ leading the general prayer in Jerusalem, with Jesus behind him, others put Jesus in front. For some found it impossible that a prophet would pray behind the Mahdı¯, who is after all a regular human and therefore necessarily inferior to all prophets40. Other traditions are still more focused on Jesus, relating that the Mahdı¯ will ultimately hand over his rule to Jesus, who will reign in anticipation of the Day of Religion41. Finally, we have a third view, most famously expressed by the prophetic hadı¯th passed down by al-Hasan al-Basrı¯ (110/728): «The affair will only get ˙ ˙ ˙ more distressful, and the world will be in flight; People will only get more greedy, and the Hour will come upon the evil ones of the people. There will be no Mahdı¯ other than Jesus son of Mary»42. According to this view, there is only one figure to rise up (or descend, as it were) in the end times: Jesus. It is he who leads the prayer and kills al-Dajja¯ l, and also Jesus who will rule at the eschaton. This third view, however, later lost popularity, certainly weakened by its uncomfortably Christian tenor. Proponents of the second view attempted to interpret away al-Hasan’s statement as meaning that no one but Jesus spoke in ˙ the cradle (mahd)43, or that the Mahdı¯ would rule only in submission to Jesus’ 37

HINDI¯, Muntakhab, translated HAYEK, 256. A place usually considered to be in Palestine. Other traditions have Jesus appearing in Damascus. See ANAWATI, 83. 39 HINDI¯, Muntakhab, reference from Hayek, 256. 40 Al-Taftaza¯ ni (792/1390) argued that it would only befit a prophet to be in front of the Mahdı¯. Suyu¯ tı¯, Haytamı¯ and others argued that such homage paid to the Mahdı¯ is a disrespect to Abu¯ Bakr and ‘Umar who are the two most excellent of men after the prophets. See MADELUNG, «Mahdı¯», 1235. 41 See MADELUNG, «Mahdı¯», 1233. 42 Preserved by Ibn Ma¯ ja, in his Ba¯ b shiddat al-zama¯ n (4162). However, In the same book, Ibn Ma¯ ja includes hadı¯th relating that the Mahdı¯ will be from the offspring of Fa¯ tima (e.g. 4185). ˙ ˙ 43 See Qur’a¯ n 19:30. 38

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guidance. Modern scholars, too, have criticized this hadı¯th, arguing that it was ˙ fabricated by Sunnı¯s to combat the Shı¯‘ı¯ notion of the Qa¯ ’im/Mahdı¯, which was based on the dictum that he would be a direct descendent of the prophet44, Yet, as Massignon long ago argued, this third viewpoint is widely accepted in the earliest sources45. The later scholarly conflict over this hadı¯th is evident in the consideration ˙ given it by Ibn ‘Asa¯ kir al-Dimashqı¯ (571/1176). He begins by quoting those who have their doubts about its authenticity: «Ibn Sha¯ hı¯n said, ‘the only one to report this hadı¯th is al-Sha¯ fi‘ı¯ and I do not know anyone who reports it from ˙ him other than Yu¯ nis. This is a hadı¯th with a strange isna¯ d and a famous matn, ˙ except for the statement, ‘there is no Mahdı¯ except for Jesus son of Mary’»46. Yet Ibn al-‘Asa¯ kir himself is not ready to cast the hadı¯th aside so quickly. He ˙ goes on to quote a similar hadı¯th, with the same isna¯ d, that also includes the fa˙ mous statement about Jesus47. Thereafter he directly contests the statement of Ibn Sha¯ hı¯n above, by stating that «[this hadı¯th] has indeed been transmitted by ˙ another path than Yu¯ nis», and by quoting another isna¯ d48. Finally, he relates two accounts from the famous Successors, Muja¯ hid (ca. 102/720) and al-Hasan ˙ al-Basrı¯ himself, that explicitly affirm «the Mahdı¯ is Jesus son of Mary»49. The ˙ implication is clear: for Ibn al-‘Asa¯ kir, there is no Mahdı¯ except for Jesus. His witness, and this third view, are strengthened by other strands of tradition that portray Jesus as the Mahdı¯, although less explicitly. Notice, for example, the hadı¯th recorded by Ahmad b. Hanbal: ˙ ˙ ˙ Jesus the son of Mary will descend as a just ima¯ m, with a righteous decree. He 44 The logic behind their argument relates to the Shı¯‘ı¯ insistence that the ima¯ mate belongs to a direct descendent of the Prophet through his daughter Fa¯ tima, who will ultimately restore the prophet’s ˙¯ and the restorer, Sunnı¯s cut out the heart of family to its rightful place. By naming Jesus as the Mahdı Shı¯‘ı¯ eschatology. See HAYEK, 243; A. SACHEDINA, Islamic Messianism (Albany 1981), 172. The validity of this theory rests on the question of whether the Shı¯‘ı¯ idea of the Qa¯ ’im/Mahdı¯ had clearly developed before this hadı¯th was circulated (certainly by the time of Sha¯ fi‘ı¯, 204/820). Meanwile, other scholars, in˙ cluding Modarressi, suggest that the influence also occurred the other way around, that the idea of the Shı¯‘ı¯ Qa¯ ’im was heavily influenced by that of the Sunnı¯ Mahdı¯. While the idea seems circular, such mutual influence is not improbable, as the co-existing communities experienced parallel doctrinal development. See H. MODARRESSI, Crisis and Consolidation in the Formative Period of Shi’ite Islam (Princeton 1993), 89-91. 45 See L. MASSIGNON, «L’Homme parfait en Islam», Opera Minora, 3 Vols. (Beirut 1963), I:114, note 3. Here he provides references to several authors who gave credence to this view, including alDhahabı¯, Ibn Khaldu¯ n and al-Subkı¯. Later, however, Massignon concedes that the genesis of this hadı¯th ˙ is likely related to anti-Shı¯‘ı¯ sentiment. p. 118. 46 IBN AL-‘ASA¯ KIR, Sı¯rat al-sayyid al-Ması¯h, Ed. Suleiman Mourad (Beirut 1996), 273. ˙ 47 This version adds the phrase, «and the era [or the world] will only increase in flight». IBN AL‘ASA¯ KIR, 275. 48 IBN AL-‘ASA¯ KIR, 275. 49 IBN AL-‘ASA¯ KIR, 277-278.

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will break Crosses, kill swine, and bring back peace. He will make swords into sickles...The sky will let down its sustenance and the earth will send forth its blessing. A child will play harmlessly with a snake. The wolf will shepherd flocks and the lion cattle, without harming them50.

Another, shorter version of the same hadı¯th gives us the clue that we are ˙ looking for, naming Jesus as «just ima¯ m and Mahdı¯»51. In this third view, then, Jesus takes center stage in the eschatological drama. Not only is he the one to lead the prayer, kill al-Dajja¯ l and rule in anticipation of the Resurrection, but certain traditions even portray him as the judge when the Hour arrives52. Thus a significant strand of Sunnı¯ tradition explicitly identifies Jesus as the Mahdı¯. Moreover, even the more prevalent view, which allows for the Mahdı¯ and Jesus two different roles in the eschaton, makes Jesus a prominent, if not central, figure. Thus the Sunnı¯ Islamic Jesus carries both the title (al-Ması¯h) and ˙ the role (as eschatological protagonist) of the Christian Jesus, only the association of that title with that role is missing. Yet this only makes us ask, why is it Jesus that fulfills this role? According to strict Islamic doctrine, all prophets are created equal, although Muhammad ˙ as the kha¯ tam al-nabiyyı¯n has a certain priority. Why then, would Jesus be God’s instrument in the end times? Several reasons might be suggested. We have already had a glance at the first one, which is Jesus’ high standing in the Qur’a¯ n. A further point regarding this might be added. In Islam, like in Christianity, Jesus can be considered the new Adam, although not in the sense of Saint Paul (Rom. 5). The Islamic Jesus is the new Adam simply by being born without a father, directly through the divine decree «He merely says ‘be’ and it is»53. Thus like Adam, with whom human history began, Jesus was created directly from the will of God, and it is fitting that human history should end with him. Moreover, it should never be forgotten in the consideration of these questions that Islam was born with Christian neighbors all around her. From Syria to Palestine to Egypt; from Ethiopia to Yemen to Iraq, the Christian world formed a veritable circle around Muhammad’s Arabia. With the Islamic conque˙ 50

Musnad, 10044. See IBN HANBAL, Musnad, 9220. ˙ 52 It is generally accepted that Jesus will have a role on the Day of Religion as a witness against the Christians. Cf. Qur’a¯ n 5:116 and 4:159. Note also the hadı¯th recorded by Bukha¯ rı¯: «At the Last Jud˙ gment, the Christians will be told, ‘What have you worshipped?’ They will reply, ‘We have worshipped al-Ması¯h, the Son of God.’ For this they shall wallow in Hell». Bukha¯ rı¯, Ba¯ b qawl Alla¯ h ta‘a¯ la¯ wuju¯ h..., ˙ also WENSINCK, «al-Ması¯h», EI2, VI:726. What is more, certain Su¯ fı¯s have given˙Jesus a still hi7273. See ˙ ˙ ¯’s statement, «Know that wigher place, as the very judge over humanity. Note for example, Ibn ‘Arabı thout doubt Jesus will descend and will be our judge». See ANAWATI, 85. 53 Qur’a¯ n 3:48. 51

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sts, Muslims plunged into the heart of that world and were in constant dialogue with it. Moreover, converts from Christianity gradually filled its ranks. It would be unreasonable to expect, then, that Christian influences would not infiltrate into the Islamic religious system, and into the area of eschatology. We have already seen the Syriac Christian origin of al-Dajja¯ l. In fact, we can trace other parallels with biblical (e.g. Daniel, Mark XIII and Revelation) and non-biblical (e.g. the Apocalypse of St. Ephraem) texts54. Related to this last point is the picture drawn of Jesus in early Islamic traditions as the epitome of piety and other-worldliness. In many of these accounts, Jesus appears as the model ascetic (za¯ hid) and mystic. His description centers on «poverty, on detachment from the life of this world, denunciation of false wisdom and of the specious sureties of this world»55. This picture is painted in vivid colors by the Swedish bishop Tor Andrae, who, in his Garden of Myrtles, introduces the ascetic Christ as the model of righteousness for early Muslim mystics, even before the figure of Muhammad56. It is this aspect of Je˙ sus’ character that makes him perfectly suited to call the world into repentance and submission to God in the end times. This reverence for Jesus also appears later, with several Su¯ fı¯s. We find ˙ both Halla¯ j (309/922) and Ibn al-‘Arabı¯ (638/1240), from opposite ends of the Islamic world, referring to Jesus as kha¯ tam al-awliya¯ ’ (the seal of the saints, in parallel to the designation of Muhammad as kha¯ tam al-nabiyyı¯n, seal of the prophets)57. This phrase carried two parallel meanings. The first is qualitative, that Jesus epitomizes saintliness, particularly in his zuhd (asceticism) and his purity. Jesus was born with the mystical orientation, a simple and correct standing with God, for which others must constantly and arduously strive58. The second meaning is temporal, that Jesus as the «seal» is the last of the saints, the one whose descent marks the arrival of the eschaton. 54 In S.A. Arjomand’s unpublished paper «Islamic Apocalypticism in the Classic Period», he points out some intriguing connections between Daniel and Islamic eschatological notions, including the relation between the Hebrew «mila¯ ma» and the Arabic «mala¯ him», which is used in parallel to «fitan» (Cf. MARWAZ¯ı’s kita¯ b al-Fitan). In his EI2 article «al-Dadjdja¯ l», Longrigg traces a tradition of the Christ/anti-Christ drama from the New Testament (Mark XIII, Revelation) to Pseudo-apocalyptic literature (St. Ephraem, Pseudo-Methodius), and then to Ibn Hanbal and other Islamic writers. See ˙ EI2,III:76. 55

HAYEK, 85. See T. ANDRAE, In the Garden of Myrtles: Studies in Early Islamic Mysticism, Trans. B. Sharpe (Albany 1987), esp. Ch. 1. 57 In other places of course, Ibn al-‘Arabı¯ uses this term to refer to himself. See Ibn al-‘Arabı¯’s Futu¯ ha¯ t and the chapter therein on Jesus. 58 Entendez...que Jésus est le seul homme né absolument pauvre de lui-même, vis-à-vis de Dieu, puisque lui seul n’a jamais eu d’autre agent d’individuation que l’Esprit de Dieu; ce que les autres saints deviennent, avec la transformation et renaissance graduelles de leur moi (nafs) charnel en moi spirituel (rou¯ h), à l’aide de l’Eprit qui les sanctifie – Jésus l’a été dès sa naissance même, du premier jet; un pur kon! (be!)» MASSIGNON, La Passion d’al-Hallaj (Paris 1922), II:687. 56

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III. THE QA¯’IM: HIS BIRTH

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DISAPPEARANCE

The development of Shı¯‘ı¯ eschatological doctrine is at once more evident and equally obscure as that of the Sunnı¯s59. For unlike Sunnı¯ doctrine, its genesis can be traced directly to a series of historical events. These events, however, remain ultimately out of reach of the historian. Nevertheless, they led to a fundamental change in the character of Ima¯ mı¯ Shi‘ism. As expressed by S. A. Arjomand, the result was «a basic transformation of the ima¯ mate from a legitimist theory of authority of the descendants of ‘Alı¯ into a principle of salvation»60. We will argue here that yet another transformation occurred thereby: Ima¯ mı¯ Shi‘ism turned into a fundamentally eschatological religion. In the year 260/874, the eleventh ima¯ m of the Ima¯ miyya, al-Hasan al˙ ‘Askarı¯ (260/874), died, apparently without leaving any offspring to take over 61 his role . What in another context might mean internal dissension and struggle for power, entailed still graver consequences for the Ima¯ miyya. For they held both that the ima¯ mate must be designated (nass) from father to son, and that ˙˙ the world could not exist, even for an instant, without an ima¯ m, who is the proof (hujja) of God, the very axis (qutb) around which the world ˙ ˙ spins62. The Shı¯‘a had already been through grave crises over the succession of the Ima¯ mate, most notably with the death of the sixth Ima¯ m, Ja‘far al-Sa¯ diq (148/765). Ja‘far’s son and designated successor (Isma¯ ‘ı¯l) had pre-deceased him, yet also had left an infant son, Muhammad, behind. Many questioned ˙ whether that designation was valid if the designated died before becoming ima¯ m, and whether an infant might be capable of receiving the ima¯ mate. Thus, while a party of the Shı¯‘a followed the ima¯ mate of Muhammad b. Isma¯ ‘ı¯l b. ˙ 59 In this section, as will been seen, I am heavily reliant on S. A. Arjomand, who has recently written a series of valuable articles on the formation of the theology of occultation. See ARJOMAND, «The Crisis of the Ima¯ mate and the Institution of Occultation in Twelver Shı¯‘ı¯sm: A Sociohistorical Perspective», International Journal of Middle East Studies, 28.3 (1996), 491-515; «The Consolation of Theology: The Shı¯‘ı¯te Doctrine of Occultation and the Transition from Chiliasm to Law», Journal of Religion, 76.4 (1996), 548-571; «Ima¯ m Absconditus and the Beginning of a Theology of Occultation», Journal of the American Oriental Society, 117.1 (1997), 1-12. See also ARJOMAND, The Shadow of God, Introduction. 60 ARJOMAND, «Consolation of Theology», 549. 61 «He died and no offspring was seen after him». Quoted by both Sa‘d b. ‘Abd Alla¯ h al-Qummı¯ (k. al-Maqa¯ la¯ t wa al-firaq) and Hasan b. Mu¯ sa¯ al-Nawbakhtı¯ (k. Firaq al-Shı¯‘a). See ARJOMAND, «Imam ˙ Absconditus», 1. 62 The Ima¯ m «is a pillar of God’s unity. The Ima¯ m is immune from sin and error. The Ima¯ ms are those from whom «God has removed all impurity and made them absolutely pure» [Qur’a¯ n 33:33]; they are possessed of the power of miracles and of irrefutable arguments [dala¯ ’il]; and they are for the protection of the people of the earth just as the stars are for the inhabitants of the heavens. They may be likened, in this community, to the ark of Noah: he who boards it obtains salvation and reaches the gate of repentance». S. JAFRI, Origins and Early Development of Shı¯‘ı¯ Islam (London 1979), 294. Quoted by ARJOMAND, Shadow of God, 35.

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Ja‘far (and eventually formed the Isma¯ ‘ı¯liyya), the majority eventually turned to another of Ja‘far’s sons, Mu¯ sa¯ al-Ka¯ zim (183/799) (and eventually formed the ˙ Ima¯ miyya)63. When Hasan al-‘Askarı¯ died, strife once again befell the Ima¯ mı¯ ˙ community. The resolution would once again come by acknowledging the ima¯ mate of the deceased’s son, only in this case he was a son that only a few even claimed to have seen. al-‘Askarı¯’s death plunged the Shı¯‘ı¯ community into a state of confusion and division even greater than that which followed Ja‘far’s death. Hasan b. ˙ Mu¯ sa¯ al-Nawbakhtı¯ (305/917), the Shı¯‘ı¯ heresiographer par excellence, provides for us a list of fourteen different sects that arose at the time, each with a different conception of the ima¯ mate64. The group that ultimately prevailed maintained that a son by the name of Muhammad had been born to the late Ima¯ m65. ˙ The new Ima¯ m, they maintained, had disappeared into occultation (ghayba), a state where he was fully alive and still acting as God’s hujja, yet invisible to hu˙ manity. The account of his birth and occultation, as related by Hakı¯ma, the ˙ guardian of the Ima¯ m’s mother66, reveals the extraordinary nature of the new Ima¯ m: I woke up with the sense of my Master, so I lifted up her [the Ima¯ m’s mother] covering and he (peace be upon him) was prostrating...I held him (peace be upon him) close to me and he was entirely clean...[Hasan al-‘Askarı¯] said to him, «speak ˙ my son!» And he said, «I bear witness that there is no god but God alone – He has no partner – and that Muhammad is the messenger of God». Then he blessed the ˙ Commander of the Faithful [‘Alı¯ b. Abı¯ Ta¯ lib], and all of the Ima¯ ms until he stop˙ 67 ped with his father .

63 These were not the only sects that formed. Others (the Fathiyya) followed the ima¯ mate of ano˙ ¯˙ siyya, in contrast, maintained that ther son, ‘Abd Alla¯ h, who died shortly after his father. The Na¯ wu Ja‘far had not died, but rather went into occultation. See E. KOHLBERG, «Mu¯ sa¯ al-Ka¯ zim», EI2, ˙ VII:645ff. 64 Of these, some maintained that al-‘Askarı¯ himself was the Qa¯ ’im, others looked to ‘Askarı¯’s brother Ja‘far as a new Ima¯ m or accepted the idea that al-‘Askarı¯ had a son in concealment. One of the groups, simply, «put off any statement until the matter became clear for them». See SACHEDINA, 42-56 for a full list of these groups. 65 The choice of this name is not coincidental, as many traditions relate that the Mahdı¯ will bear the same name of the prophet. The same name was borne by other Mahdı¯ candidates, such as Muhammad b. al-Hanafiyya (81/700) and Muhammad al-Nafs al-Zakiyya (145/763). The latter also bore˙ the ˙ ˙ further supported his claim. See H. LAOUST, Les Schismes dans prophet’s kunya «ibn ‘Abd Alla¯ h», which l’Islam: introduction à une étude de la religion musulmane (Paris 1983), 30ff. See also MODARRESSI, 90, n. 198, for references to traditions on the subject. 66 The daughter of the ninth Ima¯ m (Muhammad al-Jawa¯ d) (220/835) and paternal aunt of the ele˙ venth Ima¯ m, al-‘Askarı¯. The Hidden Ima¯ m’s mother, according to the sources, was a Byzantine slave girl by the name of Narjis. See SACHEDINA, 72. 67 IBN BA¯ BU¯ YA, Kama¯ l al-dı¯n wa tama¯ m al-ni‘ma, 2 Vols. (Tehran 1378/1959), II:98, most likely the earliest version of the account. A more developed version can be seen in Muhammad b. al-Hasan Al˙ Tu¯ s¯ı, Kita¯ b al-ghayba (Qumm 1411), 237 and 239. Cf. SACHEDINA, 73-74. ˙ ˙ ˙

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The Ima¯ m’s miraculous ability of speech as a child should immediately conjure up in us analogies to Jesus’ miraculous speech in the cradle (Qur’a¯ n 3:46, 19:29-30). Indeed, at least one Ima¯ mı¯ author, al-Shaykh al-Mufı¯d (413/1022), made this comparison to justify the reasonableness of the birth account. He does not draw the analogy any further however, and he makes a similar comparison to John’s (Yahya¯ b. Zakariyya) «authority when only a child» ˙ (Qur’a¯ n 19:12)68. The above account is continued by Tu¯ s¯ı, who relates that when Hakı¯ma ˙ ˙ ˙ returned on the third day (or the seventh, in another version) to visit the child, al-‘Askarı¯ told her «O aunt!, The child is within the shelter and sanctuary of God, who has concealed him and hidden him (ghayyabahu) until the permission of God is given to him»69. Thus the new Ima¯ m became the Hidden Ima¯ m, and will remain so until his parousia (zuhu¯ r), when he will return as the Qa¯ ’im ˙ (the Riser or Redresser) to rally his followers against their enemies. The idea of a hidden Ima¯ m was not without precedent among the ‘Alids. The idea that ‘Alı¯ b. Abı¯ Ta¯ lib himself did not die, but rather was in some type ˙ of occultation, is often attributed to the obscure figure ‘Abd Alla¯ h b. Saba¯ ’ and his followers (sometimes referred to as the Saba¯ ’iyya)70. When ‘Alı¯’s son (not by Fa¯ tima) Muhammad b. al-Hanafiyya died (81/700), a somewhat better known ˙ ˙ ˙ party, the Kaysaniyya, maintained that he had disappeared into ghayba in the mountains outside of Medina known as Radwa, and would return as the Mahdı¯. Similar claims were made on behalf of his son, Abu¯ Ha¯ shim (98/717), who died childless. Likewise, the Hasanid Muhammad al-Nafs al-Zakiyya (the Pure Soul, ˙ ˙ 145/762) was thought to have disappeared into ghayba and his parousia as the Mahdı¯ was imminently expected. Most relevant, perhaps, is the Shı¯‘ı¯ movement known as the Wa¯ qifiyya, who argued that the historical ima¯ mate had come to a stop (wa¯ qif) with the seventh Ima¯ m, Mu¯ sa¯ al-Ka¯ zim. al-Ka¯ zim, they argued, ˙ ˙ would soon emerge from ghayba to lead his followers to triumph71. Thus, it has been argued, the pragmatic leadership of the Ima¯ miyya borrowed the notion of ghayba from «chiliastic extremists», but used it to consolidate their power and stabilize their community72. The Hidden Ima¯ m’s ghayba was different in at least one respect, however Unlike his predecessors he continued to address the Ima¯ mı¯ community for 68

See SACHEDINA, 58. Tu¯ s¯ı, 238. 70 ˙ ˙ See M. HODGSON, «‘Abd Alla¯ h b. Saba¯ ’», EI2, I:51. 71 Hence the genre of literature on the ghayba that appears in the early ninth century, well before al-‘Askarı¯’s death. This was the arena of debate between the Wa¯ qifiyya and the mainstream Ima¯ mı¯ community, who recognized the ima¯ mate of ‘Alı¯ al-Rida¯ (203/818). Unfortunately, the vast majority of these ˙ by MODARRESSI, 87, n. 184. books are not extant today. See the list compiled 72 See ARJOMAND, «Consolation of Theology», 550. 69

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some time. He communicated through the appointed leader of that community, alternatively referred to as the gate (ba¯ b), mediator (safı¯r) or agent (wakı¯l or wasiyy)73. In 329/940, however, the fourth and final of these agents, ‘Alı¯ b. Muhammad al-Samarrı¯ (329/941) announced that, «Indeed, the second occul˙ tation has occurred, and there will be no parousia save with God’s permission»74. With this, the twelfth and final Ima¯ m of the Shı¯‘a went into complete occultation (al-ghayba al-kubra¯ or al-tamma)75. He remains in the same state today, fully alive and waiting for the Hour to arrive when he will reveal himself as the Riser of Muhammad’s family (Qa¯ ’im a¯ l Muhammad), the Lord of Time ˙ ˙ (Sa¯ hib al-zama¯ n) and the Redresser by the Sword (al-Qa¯ ’im bi l-sayf)76. ˙ ˙ The Ima¯ miyya also added another title to their Hidden Ima¯ m, one likely borrowed from the type of Sunnı¯ traditions that we have seen above: al-Mahdı¯, the one «to fill the earth with equity and justice as it was filled with oppression and injustice»77. While at first there was some confusion over the identity of the Qa¯ ’im and Mahdı¯78, eventually the Ima¯ miyya began to use the terms interchangeably. This is seen, for example, in the writings of al Mufı¯d, who reports that they simply describe different aspects of his character: «The Qa¯ ’im is named 73 The first of these was ‘Uthma¯ n ibn Sa‘ı¯d al-‘Amrı¯ (304/917), who successfully rallied the support of the Imamiyya in opposition to Ja‘far al-‘Askarı¯, the brother of the eleventh ima¯ m. al-‘Amrı¯ (along with his father) had run affairs for the tenth and eleventh ima¯ ms. Their decrees to the faithful appeared in ‘Amrı¯’s handwriting. After the death of Hasan al-‘Askarı¯, the faithful continued to receive decrees in ˙ the same handwriting, which were now identified as coming from the twelfth Ima¯ m, identified as the Sa¯ hib al-bayt or the Sa¯ hib al-zama¯ n or al-Ima¯ m al-gha¯ ’ib. The next two wakı¯ls were both from the power˙ful˙ house of al-Nawbakhtı ˙ ˙ ¯: Abu¯ Sahl Isma¯ ‘ı¯l b. ‘Alı¯ (310/923) and Abu¯ l-Qa¯ sim ibn Ru¯ h(326/938). The ˙ occultation: final wakı¯l is a little known figure, remembered only for announcing the onset of the major ‘Alı¯ b. Muhammad al-Samarrı¯ (329/941). See ARJOMAND, «Crisis of the Imamate», 502-508. ˙ 74 A tradition quoted by both Ibn Ba¯ bu¯ ya and al-Tu¯ sı¯. See ARJOMAND, «Crisis of the Ima¯ mate», 508. 75 The earlier period was now seen as the Short Occultation (al-ghayba al-qas¯ıra). ˙ 76 Other titles include: al-Qa¯ ’im bi-amr Alla¯ h, «The one to rise by the command of God », or «The one to carry out the command of God», and «Sa¯ hib hadha l-Amr,» «The lord of this command». ˙ the same time, another vein of tradition identiSee MADELUNG, «Ka¯ ’im a¯ l Muhammad», EI2, IV:456.˙ At fies all of the Ima¯ ms as «Qa’im», since they all «rose by the command of God». In a tradition preserved by al-Kulaynı¯, a man by the name of al-Hakam reports how he encountered the fifth Ima¯ m (Muhammad ˙ not leave Medina until I know whether or not you˙ are the al-Ba¯ qir) in Medina, and declared «’I will ¯ l Muhammad [of Muhammad’s family]’...so he said «O Hakam, each one of us is Qa¯ ’im bi-amr Qa¯ ’im A ˙ [nahdı¯] to God.’ I said, ‘So you are ˙ Alla¯ h.’ I said,˙‘So you are the Mahdı ¯?’ He said, ‘Each one of us guide the Sa¯ hib bi-l-sayf [Lord by the Sword]?’ He said, «Each one of us is Sa¯ hib bi-l-sayf and the inheritor of ˙ ˙ ˙ Cf. also 1405. the ˙sword.’» Usu¯ l al-ka¯ fı¯, Ba¯ b inna al-a’imma kullahum qa¯ ’imu¯ n, 1404. ˙ 77 This refrain appears among Shı¯‘ı¯ authors (e.g. Tu¯ s¯ı, 178ff., 261; Ibn Ba¯ bu¯ ya, Kama¯ l al-dı¯n ˙ ˙ I:369ff., 403-405) verbatim with the hadı¯th in Sunnı¯ collections. ˙ 78 On the historical process by which the Shı¯‘a included the concept of Mahdı¯ into that of Qa¯ ’im, see Modarressi, 89-91. Mentioned therein is a tradition where the ninth Ima¯ m, Muhammad al-Jawa¯ d ˙ (220/835) is asked by one of his students whether the Qa¯ ’im and the Mahdı¯ are two persons or one. He responds that they are, indeed, the same person. Ja‘far al-Sa¯ diq is reported to have given an explanatory answer to the same question, saying that he is named Mahdı¯, «because he guides to the secret things; and he is named Qa¯ ’im because he will rise after death. He will rise for an important task». See ARJOMAND, Shadow of God, 40.

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Mahdı¯ simply because he will guide (yahdı¯) to the matter that has been neglected. He is called Qa¯ ’im because for his rising (qiya¯ ma) with the truth»79. In the same statement above, delivered by al-Samarrı¯ on behalf of the Hidden Ima¯ m, the Shı¯‘a were also warned against following pretenders who claim to act on behalf of the Ima¯ m80. The Shı¯‘a were not to rise up before his parousia, but rather to wait patiently, practicing taqiyya81. While pretenders arose the great majority of the community was eventually unified under this new eschatological doctrine, which at once encouraged Shı¯‘ı¯ religious hopes and political quietism. In this way, the de facto de-politization of the Ima¯ mate did not become de jure, yet the Ima¯ m continued to be acknowledged as the head of the community. In fact, Ima¯ mi theologians such as Ibn Ba¯ bu¯ ya (381/991-2) postulated that the Ima¯ m, as the vehicle of God’s grace (lutf) and the proof of God ˙ (hujja) must still be the leader of the Shi‘a, even if he is hidden: ˙ The heart is hidden to the rest of the body parts. It is not seen with the eye, smelled with the nose, tasted with the mouth or touched with the hand. Yet it is the one that manages these body parts, and ensures their well-being, although it is hidden from them. If the heart was not there, the management of the body parts would fail and its functions would not be right. So the heart is needed to ensure the well-being of the body parts. Thus the world needs the Ima¯ m to ensure its well-being82.

Of particular interest to us here is the question of how this religious system, with its accompanying eschatological doctrine, coalesced out of the chaos that followed the death of the eleventh ima¯ m, al-Hasan al-‘Askarı¯ ˙ (260/874)83. For this period was not only one of doctrinal speculation, but also

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al-Mufı¯d, k. al-Irsha¯ d (Beirut 1399/1979), 364. «There will soon be among my Shı¯‘a those who claim to have seen me. Indeed whoever claims seeing me before the rising of the Sufya¯ nı¯ and the cosmic battle cry (Sayha) is a slanderous liar». See Ar˙ ˙ jomand, «Crisis of the Ima¯ mate», 508. 81 Taqiyya is the Shı¯‘ı¯ doctrine that legitimates dissimulation. Thereby, if one is in hostile surroundings, one can deny being a Shı¯‘ı¯ . Its institution allowed for communal survival in the face of Sunni persecution. At the same time, the institution of taqiyya theoretically means the abrogation of jiha¯ d. Conversely, its abrogation will mean the institution of jiha¯ d. While early writers see taqiyya as optional, beginning with Ibn Ba¯ bu¯ ya (381/991-2), many writers describe it as obligatory. Al-Mufı¯d (413/1032) built on the relation of taqiyya and jiha¯ d by subverting the traditional dichotomy of da¯ r al-isla¯ m (the sphere of Islam, which all Muslims must fight to increase) and da¯ ral-harb (the sphere of war, where, collectively, ˙ of da¯ r al-ima¯ n (the sphere of faith) which the Islamic community must wage war). He adds the category is constituted by the Shi‘a who are within the da¯ r al-isla¯ m. According to Mufı¯d, Shı¯‘ı¯s are not called to fight in the da¯ r al-harb, but rather to transform the da¯ r al-isla¯ m by converting those therein to Shı¯‘ı¯sm. See ˙ S.A. ARJOMAND, Shadow of God, 61-62. 82 IBN BA¯ BU¯ YA, Kama¯ l al-dı¯n I:317. 83 Arjomand describes the doctrine surrounding the Hidden Ima¯ m as the outcome of «a desperate effort to resolve the immediate problems of the ima¯ mate..». «Consolation of Theology», 548. 80

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one of intense social struggle84. As one interested party remarked: «We were wrangling over this matter like dogs over a corpse»85. Ima¯ mı¯ Shı¯‘ı¯sm was indeed threatened with extinction by the confusion (hayra) set off first by al-‘Askarı¯’s death and then by al-ghayba al-tamma86. Yet ˙ through this turbulent period a remarkably productive process of theological development occurred, so that by the time Muhammad b. al-Hasan al-Tu¯ sı¯ ˙ ˙ (459/1067) sat down to write his k. al-Ghayba, he could say «We know therefore the soundness of the son of Hasan [al-‘Askarı¯], peace be upon him, and ˙ the soundness of his ghayba and his birth. We need not be troubled with discourse on affirming his birth and the reason for his ghayba»87. This process can be witnessed in the work of a select group of Ima¯ mı¯ theologians who, aided by a conducive political climate88, established the theological system that would endure permanently as orthodox Ima¯ mı¯ Shi‘ism. They unified Shı¯‘ı¯ views about the reality of the al-‘Askarı¯’s son, his ghayba and his eschatological return as the Qa¯ ’im. At the same time these writers also built a coherent and enduring theological system upon that event: «The idea of occultation was deapocalypticized and transformed into a fixed component of the Shı¯‘ı¯ theodicy and theology»89. Ultimately, it is this experience, and its theological aftermath as seen with these writers, that would irrevocable separate Shi‘ism from Sunnism. The crucial element in this separation, we will argue, is the nature and meaning of the eschatological event. Thus we will aim to show how, by examining the work of these writers, the understanding of the Qa¯ ’im’s role in the eschaton was formed, and the resulting implications for the figure of Jesus.

84 We have not here addressed the socio-political aspect of these events, which were unquestionably critical in the determination of the victorious party. Addressed from this perspective, the theological developments of taqiyya, the ghayba and the return (ma‘a¯ d) can be understood as inspired by the pragmatism and sobriety of the Ima¯ mı¯ leaders. For example, the two main factions that emerged after the death of al-‘Askarı¯ were those who supported the idea of a Hidden Ima¯ m (led by the first agent (wakı¯l) of that Ima¯ m, al-‘Amrı¯), and those who had opposed it in favor of naming al-‘Askarı¯’s brother, Ja‘far, the twelfth ima¯ m. The first party was «encouraged» in their beliefs, as Modarressi suggests, by their desire to keep al-‘Askarı¯’s estate out of the hands of his brother. See Modarressi, Ch. 3. 85 This from Shalmaghanı¯, who was initially the deputy of the third wakı¯l, Ibn Ru¯ h. When the lat˙ the Hidden ter was imprisoned, however, Shalmaghanı¯ claimed himself to be the intermediary with Ima¯ m, but apparently conceived the latter more in terms of a Persian/Zoroastrian «savior-king» than in Islamic terms. See ARJOMAND, «Crisis of the Ima¯ mate», 507-8. 86 Evidence for this is seen in the writings of Ibn Ba¯ bu¯ ya, who uses the word ghayba almost interchangeably with hayra, or confusion. This is seen frequently in his al-Ima¯ ma wa-al-tabsira min al-hayra ˙ ˙ ˙ (Beirut 1407/1987). 87 TU¯ S¯I, 3. 88 ˙ ˙ The period from the mid-ninth to the mid-tenth century is known as the «Shı¯‘ı¯ century», in part due to the rule of the Shı¯‘ı¯ Bu¯ yids in Baghdad and throughnt Iran. 89 ARMOJAND, «Crisis of the Ima¯ mate», 509.

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IV. THE QA¯’IM

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JESUS

THROUGH

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SH¯ı‘ı¯ EYES

One of the earliest mentions that we have of the Hidden Ima¯ m’s ghayba comes from the aforementioned Abu¯ Sahl al-Nawbakhtı¯. Around the year 290/903, al-Nawbakhtı¯ relates that al-‘Askarı¯’s son was expected to return from hiding, a concept he finds not unreasonable since he had been in hiding for only thirty years90. In his Firaq al-Shı¯‘a91, Nawbakhtı¯ introduces the various Shı¯‘ı¯ sects that had appeared upon al-Hasan’s death, fourteen in all, and argues ˙ in favor of the one that would become the Ima¯ miyya. Their position is the strongest, he argues, since «there can be no ima¯ mate vested in two brothers, following one another, after al-Hasan and al-Husayn. Therefore, the ima¯ mate is ˙ ˙ not possible except among the descendants of al-Hasan b. ‘Alı¯ (al-‘Askarı¯)». ˙ And there must be a living descendant since, «If the ima¯ mate disappeared from the world even for a moment, the earth and its inhabitants would perish»92. Nawbakhtı¯, however, pays little attention to the parousia of the Qa¯ ’im, and none to the place of Jesus in the end times. The Ima¯ mı¯ traditionist al-Kulaynı¯ (329/940-1) includes a Ba¯ b fı¯ l-ghayba in his Usu¯ l al-ka¯ fı¯93, yet like Nawbakhtı¯ he gives attention only to the question of ˙ the Occultation and is less forthcoming on the question of the parousia. Moreover, the doctrines surrounding the lesser and greater occultation, along with the eschatological nature of the parousia (khuru¯ j) are clearly not fully developed in his work94. The following tradition preserved Kulaynı¯ shows just how vague these remained: 90 It comes clear from this statement by Nawbakhtı¯ that the Ima¯ mı¯ community initially expected the Qa¯ ’im to emerge after only brief exile. Notice, to this effect, his comment that the Wa¯ qifiyya were absurd for expecting the return of Mu¯ sa¯ al-Ka¯ zim, whose death (or occultation as them claim) occurred ˙ MODARRESSI, 88-9). When the Qa¯ ’im failed to emerge over 105 years ago (This in his k. al-Tanbı¯h. See and it became accepted that his return would be at the end times, Ima¯ mı¯ theologians explained the apparent change in divine will with a concept borrowed from the Mu‘tazila: bada¯ ’ (here meaning change, alteration). Ibn Ba¯ bu¯ ya had misgivings about the idea of bada¯ ’, as it seemed to imply that God changed His mind and thus to be a defect. Mufı¯d, however, refined the Shı¯‘ı¯ interpretation of bada¯ ’, presenting it as a parallel idea to naskh (abrogation), which was universally accepted as an active force in the divine authorship of the Qur’an. Tu¯ sı¯ describes bada¯ ’ not as an alteration of the divine will, but rather as a new disclosure of a constant truth. He also maintained that certain fundamental truths are unalterable, e.g. the attributes of God and the promise of reward to the ahl al-bayt. See SACHEDINA, 153-156. 91 Ed. Helmut Ritter (Istanbul 1931). 92 ABU¯ SAHL AL-NAWBAKHTI¯, Firaq al-Shı¯‘a, quoted by SACHEDINA, 49-50. 93 al-Kulaynı¯’s reputation, initially, was not well established as his traditionalist approach was disparaged by rationalist, Mu‘tazilı¯ influenced Ima¯ mı¯ Shı¯‘ı¯s such as Sharı¯f al-Murtada¯ (436/1044). Yet Ku˙ laynı¯’s influence on the scholars that we will subsequently consider is unmistakable. Ibn Ba¯ bu¯ ya followed in his footsteps in Qu¯ mm, while both al-Mufı¯d and al-Tu¯ s¯ı overtly praised his work. Ultimately, his ˙ Usu¯ l al-ka¯ fı¯ became recognized as one of the canonical four˙ books of Shı¯‘ı¯ tradition, and is generally re˙ garded as the most authoritative. See MADELUNG, «al-Kulaynı¯», EI2, V:362-3. 94 Kulaynı¯ reports a hadı¯th that shows the idea of the two ghaybas in the midst of development, «[Ja‘far al-Sa¯ diq] said, The ˙Qa¯ ’im has two ghaybas. In one of them he will attend the [Hajj]. He will see ˙ people, but they will not see him». Ba¯ b fı¯ l-ghayba, 494.

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I [al-Asbagh b. Nuba¯ ta] came to the Amı¯r al-mu’minı¯n [‘Alı¯ b. Abı¯ Ta¯ lib] and ˙ ˙ found him pondering, as he was scratching the earth. So I said, ‘O Amı¯r al-mu’minı¯n, why is that I see you pondering, scratching the earth, do you desire something from it?’ He said, ‘No, by God, I will never desire anything from it or from the world, but I was thinking about the birth that will appear from the eleventh of my descendants. He will be the Mahdı¯ that will fill the earth with equity and justice as it was filled with oppression and injustice. There will be [surrounding] him ghayba and confusion, during which some peoples will be led astray and others rightly guided.’ So I said, ‘O Amı¯r al-mu’minı¯n, how long will there be confusion and ghayba?’ He said, «Six days or six months or six years»...So I said, ‘What will there be after that?’ He said, «Then God will do what He wishes. For He has beginnings and desires and goals and conclusions95.

These doctrinal developments are more evident in the writings of Ibn Abı¯ Zaynab al-Nu‘ma¯ nı¯ (359/970-71), especially his k. al-Ghayba. Yet Nu‘ma¯ nı¯, like his predecessors, was writing in an atmosphere where great doubt about the occultation pervaded the Shı¯‘ı¯ community. The details of the Qa¯ ’im’s parousia, and his relation to Jesus, were of secondary importance. His primary goal was rather to establish proofs for the Ima¯ miyya’s version of the ghayba96. Nu‘ma¯ nı¯’s strategy in doing so was, firstly, to argue that only twelve Ima¯ ms could exist, and secondly to argue that the occultation and the parousia of the last Ima¯ m followed necessarily. In accomplishing the first task, he records a large number hadı¯th to that ˙ effect. The most important one, perhaps, is a hadı¯th that was already present in ˙ orthodox Sunnı¯ collections97, wherein the Prophet Muhammad declares that ˙ he will be followed by twelve caliphs (alternative versions have twelve amı¯rs – commanders or qayyims – guardians)98. Nu‘ma¯ nı¯ argued, naturally, that the intent here was the twelve Ima¯ ms, the direct descendants of the Prophet. The last of these is the Hidden Ima¯ m, the Qa¯ ’im and the Mahdı¯, who Sunnı¯s admit must

95 Usu¯ l al-ka¯ fı¯, Ba¯ b fı¯ l-ghayba, 889. On Kulaynı¯ and the development of the ghayba doctrine, see ˙ SACHEDINA, 49-50, 83-4. 96 «By the end of the fourth decade [i.e. 340/952] when Muhammad b. Ibra¯ hı¯m al-Nu‘ma¯ nı¯ wrote his work on the topic [k. al-Ghayba], the absolute majority of the˙ Ima¯ mites in the western parts of the Shı¯‘ite homeland (in fact, the whole community with very few exceptions) were in a similar state of fierce doubt and one way or another rejected the existence of a vanished Ima¯ m». MODARRESSI, 97. Note also the remark of Arjomand, «Despite Abu¯ Sahl Nawbakhtı¯’s efforts, the period of «confusion» (hayra) for ˙ the Ima¯ miyya continued into the second half of the tenth/fourth century». Shadow of God, 43. 97 The hadı¯th appears in both Bukha¯ rı¯ (as amı¯rs Ba¯ b al-istakhla¯ f, 7062) and Muslim (as «caliphs», ˙ Ba¯ b al-na¯ s taba‘ l-Quraysh, 4667). Similar traditions had already been recorded by Kulaynı¯ and ‘Alı¯ b. Ba¯ bu¯ ya (328/940-1). See ARJOMAND, «Consolation of Theology», 552. 98 AL-NU‘MA ¯ NI¯, k. al-Ghayba (Beirut 1983), 14. Another Shı¯‘ı¯ version of this hadı¯th exists, speaking ˙ of 12 wasiyys (agents). See, for example TU¯ S¯I, 141. ˙ ˙ ˙

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come from his descendents99. Yet the Sunnı¯s have instead attacked the Prophet’s family, which is the reason why the Ima¯ m has gone into hiding100. This adversarial aspect of the Qa¯ ’im doctrine is clearly reflected in the title of Nu‘manı¯’s first chapter: «What is told about the guarding of the secret of the family of Muhammad (peace be upon them) from those who are not of his family; about the training in the ways of the friends of God and the screening of them from those not of his family, the stubborn, and the refusers of his proclamation to them and of their knowledge101.

Nu‘ma¯ nı¯ later refers to the parousia of the Qa¯ ’im as the ‘adha¯ b; that is, the chastisement, or the suffering (which will be received by the opponents of the ahl al-bayt, both Sunnı¯s and other ‘Alid sects)102. With language like this, he rallies the Imamiyya community to continued dedication to the family of the Prophet (a¯ l Muhammad), trusting that they will be vindicated. ˙ Nu‘ma¯ nı¯’s interest in writing about the ghayba and the zuhu¯ r is intimately ˙ connected with the state of that community. By insisting on the doctrine of the complete ghayba, he encourages political quietism, discouraging pretenders claiming to be the agent of the Qa¯ ’im, or the Qa¯ ’im himself. By describing the eschatological zuhu¯ r of the Hidden Ima¯ m, he provides motivation for that quie˙ tism, insuring the Shı¯‘a that they will have the ultimate victory103. This is most definitely an affair, then, of the Shı¯‘ı¯ community vs. its enemies, and Jesus, not surprisingly, finds no significant place therein. For he is not a uniquely Shı¯‘ı¯ character. Yet the question of Jesus’ place in the end times had to be ultimately confronted, in light of the weight of the Qur’a¯ nic evidence and the Sunnı¯ traditions that we have above examined. The unfolding of this process during the following century can be seen in the work of several authors who were the central players in establishing orthodox Ima¯ mı¯ doctrine. These three thinkers – Ibn Ba¯ bu¯ ya (381/991-2), al-Mufı¯d (413/1022) and Muhammad b. Hasan al-Tu¯ s¯ı ˙ ˙ ˙ ˙ 99 Note the Sunnı¯ hadı¯ths: «The Mahdı¯ will come from my community..». IBN HANBAL, Musnad, ˙ us, the people of the house [ahl al-bayt]». IBN MA¯ JA¯, Ba¯ b ˙khuru¯ j al-Mahdı¯, 10982; «The Mahdı¯ is from 4174. 100 A tradition from the sixth Ima¯ m, Ja‘far al-Sa¯ diq, relates, «There is no choice for the Qa¯ ’im but ghayba...he is afraid for himself». IBN BA¯ BU¯ YA, Kama¯ l al-dı¯n, II:157. Cf. IBN BA¯ BU¯ YA, ‘Ilal al-shara¯ ’i‘ (Najaf 1963), 246; and KULAYNI¯, Ba¯ b fı¯ l-ghayba, 891. See also SACHEDINA, 103. 101 NU‘MA¯ NI¯, 21. 102 NU‘MA¯ NI¯, 160. 103 «Know that God revives the earth after its death [Qur’a¯ n 30:18]. Indeed God revives it by the justice of the Qa¯ ’im upon his parousia, after its death due to the injustice of the Ima¯ ms of error [i.e., illegitimate rulers]». NU‘MA¯ NI¯, 14. Translation from ARJOMAND, «Consolation of Theology», 552.

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(459/1067) – confronted questions such as ours in order to «allay the confusion of the Shı¯‘ites»104. In the process, they created a coherent theological system that would endure through the present day. The first of them, Ibn Ba¯ bu¯ ya, wrote his Kamal al-dı¯n wa tama¯ m al-ni‘ma for a community still divided over the reality of the Hidden Ima¯ m. The new Ima¯ mı¯ doctrine was still far from being universally accepted: «Ibn Ba¯ bawayh found most of the Shı¯‘ites he met in Khura¯ sa¯ n, even respected scholars of the Ima¯ mite community, extremely doubtful about the vanished Ima¯ m»105. His work, then, resembles that of Nu‘ma¯ nı¯ before him, as he sought therein primarily «to demonstrate that occultation did not mean nonexistence (‘adam)»106. This comes clear, from the tone of Ibn Ba¯ bu¯ ya’s writing. He speaks of the ghayba as a divine test to see who is truly faithful, «It is simply a trial from God, by which He examines his creation»107. To lend credibility to the twelfth Ima¯ m’s occultation, Ibn Ba¯ bu¯ ya repeatedly draws analogies with the occultation (and return) of other figures, including Joseph, Khadir and Dhu l-Qarnayn108. And ˙ he insists that the designation of the twelfth Ima¯ m was no less sound than that of his forefathers: «They have conveyed [his ima¯ mate] just like they conveyed the ima¯ mate of his fathers, while the opposition opposed it. It is like how Muslims must convey the soundness of the acts of the Prophet (God’s peace and blessing be upon him), except for the Qur’a¯ n, while their enemies (from the People of the Book, the Zoroastrians, the Free Thinkers and the Materialists)109 opposed them»110. Ibn Ba¯ bu¯ ya relates numerous and repetitive hadı¯th, and comments on va˙ rious Qur’a¯ nic passages in order to prove three basic assertions111: that the number of Ima¯ ms will be twelve, that the last of these will have a short and a long ghayba, and that he will finally emerge as both the Mahdı¯ and the «Qa¯ ’im of my community, to fill the world with equity and justice as it was filled with oppres104

ARJOMAND, Shadow of God, 43. MODARRESSI, 98. 106 ARJOMAND, Shadow of God, 43. 107 IBN BA¯ BU¯ YA, ‘Ilal al-shara¯ ’i‘, 244. 108 On Khadir see IBN BA¯ BU¯ YA, Kama¯ l al-dı¯n II:57 and ‘Ilal al-shara¯ ’i‘, 246; on DHU L-QARYNAYN, IBN BA¯ BU¯ YA, Kama¯˙l al-dı¯n II:63. Elsewhere, Ibn Ba¯ bu¯ ya seeks to draw analogies between the place of agents (awsiya¯ ’) during these various ghaybas and those during the ghayba of the twelfth Ima¯ m. See al˙ Ima¯ ma wa-al-tabs ira, 151ff. ˙ 109 «al-maju¯ s, wa-l-zana¯ diqa, wa-l-dahriyya». 110 IBN BA¯ BU¯ YA, Kama¯ l al-dı¯n I:149. 111 «Ibn Ba¯ bu¯ ya, the Imamite traditionist, ventured to demonstrate the Ima¯ mate of the Hidden Ima¯ m by relying mainly on al-dalı¯l al-sa¯ mi‘, the so-called scriptural and traditional proof, proving every statement with the appropriate Qur’a¯ nic quotations, ignoring in the process, at times, the context in which the verse appeared, and not giving any consideration to the historical circumstances under which it may have been revealed. Often these quotations were supplemented by the traditions attributed to the Prophet and the Imams». SACHEDINA, 109. 105

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sion and injustice»112. He does not go into detail about the events of the end times, even in his chapter dedicated to the signs that will anticipate the Qa¯ ’im’s arrival113. Likewise, in his chapter on «al-Dajja¯ l», Ibn Ba¯ bu¯ ya does not discuss whether Jesus or the Qa¯ ’im will kill him. And when he relates a lengthy anecdote about Jesus, Ibn Ba¯ bu¯ ya makes no mention of his eschatological role114. However, Ibn Ba¯ bu¯ ya has elsewhere left us one enticing clue about the end times, when he records that «the one behind whom Jesus the son of Mary will pray is the twelfth of the descendants and the ninth of the sons of Husayn ˙ b. ‘Alı¯»115 What is remarkable about this statemment is not so much the affirmation that Jesus will be behind the Qa¯ ’im, but the fact that such is affirmed so easily. What was, as we have seen, the source of a theological quandary for Sunnı¯s causes no difficulty for Ibn Ba¯ bu¯ ya. For the Qa¯ ’im is an Ima¯ m, and the Ima¯ ms are no less worthy of priority than the prophets116. By the time that al-Shaykh al-Mufı¯d (413/1032) addressed the question of the Qa¯ ’im, the situation of the Ima¯ miyya had clearly changed. Unlike, Nu‘ma¯ nı¯ and Ibn Ba¯ bu¯ ya, al-Mufı¯d is not fully preoccupied on establishing signs (dala¯ ’il) that verify their version of the ima¯ mate. Rather, he is concerned with developing a theological system which expresses the reasonability of Ima¯ mı¯ doctrine surrounding the Hidden Ima¯ m. This is the period of «the maximal Mu‘tazilite impact on Ima¯ mı¯ Shi‘ism»117, and Mufı¯d was heavily influenced by the Mu‘tazila

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IBN BA¯ BU¯ YA, Kama¯ l al-dı¯n I:370. See his chapter on «Signs of the Appearance (khuru¯ j) of the Qa¯ ’im», II:362ff. 114 Here Ibn Ba¯ bu¯ ya records a hadı¯th from ‘Alı¯ b. ‘Alı¯ Ta¯ lib, who, inspired by smelling the dung of ˙ ˙ a gazelle, relates the following account. One day, Jesus passed through the field in Karbala¯ ’ where Hu˙ sayn and his companions would be martyred over six hundred years later. As he was walking, a gazelle spoke to him about what would occur there. Distraught, Jesus sat down and wept, much to the confusion of the disciples (Hawa¯ riyyu¯ n), who asked him «O Spirit of God and His Word, what has made you weep?» After explaining, Jesus struck the dung of this gazelle with his hand, saying, «O God, make this stay eternally, so that [Husayn’s] father will smell it and it will be a consolation to him». Ibn Ba¯ bu¯ ya’s in˙ terest in the story comes clear from ‘Alı¯’s concluding statement, «This dung has stayed for over five hundred years without changing from time or rain or wind that has passed over it, through days and nights and the sun upon it. Yet they will not believe that the Qa¯ ’im from a¯ l Muhammad (peace be upon him) ˙ will remain until he emerges with the sword to destroy the enemies of God!» IBN BA¯ BU¯ YA, Kama¯ l al-dı¯n II:213-4. 115 IBN BA¯ BU¯ YA, Kama¯ l al-dı¯n II:208. 116 «Ima¯ mı¯ doctrine on the ima¯ mate in its basic conceptions was formulated in the time of Ima¯ m Ja‘far al-Sa¯ diq (d. 148/765). It founded the ima¯ mate on the permanent need of mankind for a divinely guided, infallible leader and authoritative teacher in religion. The ima¯ mate was thus raised to the level of prophecy. The only difference between the messenger prophet (rasu¯ l) and the Ima¯ m was that the Ima¯ m did not transmit a divine scripture. To ignore or disobey the divinely invested Ima¯ m was infidelity equal to ignoring or disobeying the prophet. The conception that the Ima¯ m must be fully immune (ma‘su¯ m) ˙ from sin and error was fundamental to Ima¯ mı¯ thought». W. MADELUNG, «Ima¯ ma», EI2, III:1166. 117 ARJOMAND, «Crisis of the Ima¯ mate», 509. 113

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in constructing his system118. Thus his career marks a watershed in the history of Ima¯ mı¯ thought: «from Mufı¯d onwards the Ima¯ mites seem to contribute to the fundamentality of the reason in establishing the truth about the ima¯ mate during the occultation»119. Another important influence upon Mufı¯d’s thought, and one which has been less emphasized by scholars, was the environment of intense Sunnı¯/Shı¯‘ı¯ conflict in which he was writing. The competition between the caliph al-Qa¯ dir (r. 381/991-422-1031) and the ruling, Shı¯‘ı¯, Bu¯ yids led to recurrent street violence in Mufı¯d’s Baghdad. Due to his prominence in the Shı¯‘ı¯ community, Mufı¯d was three times banned from Baghdad in the midst of this violence120. Likely due to this political and social atmosphere, Mufı¯d has quite a different emphasis in his eschatological writing. He does not mention Jesus at all, and absent are the accounts of killing al-Dajja¯ l and leading the general prayer. Instead, the emphasized role of the Qa¯ ’im is to exact revenge on those who have opposed his people: the Sunnı¯s. In fact, for Mufı¯d this is the very quality that distinguishes the Twelfth Ima¯ m from his predecessors, and the cause for his ghayba. The twelfth Ima¯ m is the only Ima¯ m to go into occultation because he is the only Ima¯ m who will emerge with the sword and seek vengeance. The world was not yet ready for such a violent emergence, yet the Qa¯ ’im could not practice taqiyya, which is anathema to his martial nature. Thus ghayba was his only option121. When the Hidden Ima¯ m finally does emerge, he will call «from the sky in the beginning of the day, that the truth is with ‘Alı¯ and his Shı¯‘a. Then Iblı¯s will call from the earth at the end of the day that the truth is with Mu‘a¯ wiya..».122 Thus is the mythical conflict between good and evil, between the Shı¯‘a and 118 al-Mufı¯d utilized Mu‘tazilı¯ categories to more fully express Shı¯‘ı¯ doctrine. As expressed by Arjomand: «The pivotal concepts taken from the Mu‘tazila for Mufı¯d’s ethicotheological rationalization of Ima¯ mı¯ Shi‘ism were those of the divine Justice (‘adl) and Grace (lutf). The first concept makes it unjust ˙ concept, Grace is wa¯ jib (necessary for God to command the impossible, while according to the second or incumbent) on God in that He is obliged to order the world and to provide mankind with guidance...Mufı¯d integrates the idea of occultation into the Shı¯‘ite rational theology by linking it to the fundamental Mu‘tazilite tenet of Grace and to the Shı¯‘ite priciple of Infallibility (of the divinely appointed Prophet and Ima¯ ms)». Arjomand, «Consolation of Theology», 562. See also, M. MCDERMOTT, S.J., The Theology of al-Shaikh al-Mufı¯d (Beirut 1978), 2ff. 119 SACHEDINA, 112. Elsewhere, he describes this transformation as a move from reliance on dalı¯l sa¯ m‘ı¯ (revelatory evidence) to dalı¯l ‘aqlı¯ (intellectual evidence). 120 See MCDERMOTT, 17-21. Mufı¯d was thoroughly intertwined with the politics of Baghdad through his close relationship the ruling Bu¯ yids, particularly the most powerful of their rulers: ‘Adud al˙ ˙ Dawla. See W. MADELUNG, «Mufı¯d», EI2, VII:312. 121 Mufı¯d came to emphasize the connection between the Twelfth Ima¯ m’s ghayba and the his abrogation of taqiyya in the course of apologetics for the necessity of the ghayba. See MCDERMOTT, 129. 122 MUFI¯D, al-Irsha¯ d, 385. Cf. Mufı¯d’s other, less developed accounts of the end times: Awa¯ ’il almaqa¯ la¯ t fı¯ l-madha¯ hib al-mukhta¯ ra¯ t. (Tabriz 1371), 50; and Khams rasa¯ ’il fı¯ ithba¯ t al-hujja (Najaf 1951), ˙ st 1 letter, x, 29-31. See also MCDERMOTT, 52.

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their enemies, established. Mufı¯d’s accounts of the Qa¯ ’im’s zuhu¯ r reflect the ad˙ versarial mentality of the Ima¯ mı¯ community of his day. The Qa¯ ’im’s victims will be first and foremost those who have attacked that community. Thus he will violently confront the Quraysh, the paradigmatic enemies of the ahl al-bayt for the opposition of Abu¯ Sufya¯ n to Muhammad and his son Mu‘a¯ wiya b. Abı¯ Su˙ fya¯ n to ‘Alı¯. «Five hundred of the Quraysh will rise [against him], then he will strike them down. Then five hundred of the Quraysh will rise and he will strike them down. Then five hundred more until he has done that six times»123, Another account describes how the Qa¯ ’im will sever the hands of the Sunnı¯ tribe that is entrusted with the keeping of the Ka‘ba (b. Shayba), hanging those hands on the sacred Ka‘ba in Mecca and writing, «these are the thieves of the Ka‘ba»124. Yet his vengeance will not stop there. The Qa¯ ’im will also attack the city of Ku¯ fa, which, although traditionally an ‘Alid stronghold, is also the site of ‘Alı¯ b. Ta¯ lib’s murder in the principle mo˙ sque. Accordingly, the Qa¯ ’im will raze the mosques of Ku¯ fa, and kill the hypocrites (muna¯ fiqı¯n) and the doubters of the city. He will «destroy its houses and kill its fighters so that God might be pleased»125. More intriguing still is Mufı¯d’s account that the Qa¯ ’im will conquer Constantinople, China and the mountains of Daylam126. That the Mahdı¯ will conquer Constantinople is frequently seen in Sunnı¯ accounts, and the conquest of China might be easily explained as its extreme Eastern counterpart, and as an equally impregnable power. The «mountains of Daylam», however, is quite an unusual reference, even if this area was famously obstinate in the face of caliphal forces. Most likely the reference reflects the troubles that this traditionally Shı¯‘ı¯ region (Zaydı¯, however) was offering to Ima¯ mı¯ Bu¯ yid rule at this time. The Bu¯ yids, with whom al-Mufı¯d was well connected, were originally from Daylam., but now were facing rebellions from their very homeland127. Here, then, is another site of ‘Alid «muna¯ fiqu¯ n». The most important insight here, for our purposes, is the portrait of the Qa¯ ’im that becomes increasingly clear with Mufı¯d. He is the eschatological warrior, and the Ima¯ miyya are his people. Mufı¯d even refers to them as the Shı¯‘at al-Mahdı¯, in addition to the usual Shı¯‘at ‘Alı¯128. Only the Qa¯ ’im could be the eschatological protagonist of the Ima¯ miyya, for only he has the right to carry out revenge on behalf of his people. 123 124 125 126 127 128

MUF¯ıD, MUF¯ıD, MUFI¯D, MUFI¯D, See V. MUFI¯D,

al-Irsha¯ d, 364 al-Irsha¯ d, 364. al-Irsha¯ d, 364. al-Irsha¯ d, 365. MINORSKY, «Daylam», EI2, II:192 and C. CAHEN, «Buwayhids», EI2, I:1350. al-Irsha¯ d, 362.

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With al-Tu¯ s¯ı we meet still another approach to the end times129. His k. al˙ ˙ Ghayba makes a contrast both to Mufı¯d and the work of the same title written by Nu‘ma¯ nı¯ over a century earlier. True, Tu¯ s¯ı repeats some of the tasks taken ˙ ˙ up by his predecessors, including a refutation of those groups who disagree 130 with the Ima¯ mı¯ view on the ghayba , a presentation of those who agree with that view (including a curious anecdote about the famous Su¯ fı¯ al-Halla¯ j)131, and ˙ a creative exegesis on a number of Qur’a¯ nic verses132. Also like his predecessors, Tu¯ s¯ı portrays the coming of the Qa¯ ’im as the day of liberation and vengeance ˙ ˙ for the Shı¯‘a. He quotes the Prophet saying, that by the Qa¯ ’im «God will obliterate falsehood and the time of the dogs will end. By him the humiliation of slavery will be removed from your necks»133. Unlike his predecessors, however, Tu¯ s¯ı was writing at a time (mid 5th/11th ˙ ˙ century) when the Ima¯ miyya had become overwhelmingly unified behind the Hidden Ima¯ m. By this time, as well, it was accepted doctrine that the Ima¯ m would only emerge at the eschaton, a time unknown and unpredictable134. Likely due to his distance from the days of hayra and the triumph of the Hidden ˙ Ima¯ m doctrine, Tu¯ s¯ı is willing to include Jesus in his eschatological picture. He ˙ ˙ reports a hadı¯th seen in several Sunnı¯ collections, where the Prophet Muham˙ ˙ mad says, «I am the first of this community (umma), the Mahdı¯ is its middle, and Jesus is its end»135. Tu¯ s¯ı thereby even allows some priority for Jesus, if his ˙ ˙ being the «end» of the community, might be seen as such. Other Shı¯‘ı¯s rejected or creatively interpreted this tradition, since it implies that Jesus will outlive the Mahdı¯. This would leave the world with no Ima¯ m in the end times, which as we have seen is quite impossible in the Ima¯ mı¯ theological system136. At the same time, Tu¯ s¯ı conspicuously places Jesus behind the Ima¯ m in the ˙ ˙ 129 Tu¯ s¯ı was the student of al-Sharı¯f al-Murtada¯ (436/1044, himself the student of Mufı¯d), who was ˙ this process of doctrinal development, ˙ but whose work is largely lost. Arjomand refers to also critical˙ in Tu¯ s¯ı as the last of the «rationalist doctors». «Consolation of Theology, 564. ˙ ˙ 130 Including Zaydis, Isma¯ ‘ı¯lis, and those who proclaimed Muhammad Ibn al-Hanafiyyah, Ja‘far alSa¯ diq, or Muhammad al-‘Askarı¯ as Mahdı¯ or Qa¯ ’im. al-Tu¯ s¯ı, 192-229. ˙ ˙ 131 TU¯ S¯I, 340-418. Here Abu¯ Sahl al-Nawbakhtı¯ meets al-Halla¯ j, who had heretically proclaimed himself the˙ S˙a¯ hib al-zama¯ n. Nawbakhtı¯ confronts Halla¯ j about the˙matter, and the latter «realized that he ˙ ˙ had been mistaken» 401-2. 132 TU¯ S¯I, 175, ff. In Tu¯ s¯ı’s reading, both «aya» (sign) and «rizq» (sustenance) become names of the ˙ ˙thereby appears ˙ ˙ throughout the Qur’a¯ n. Qa¯ ’im, who 133 TU¯ S¯I, 185. 134 ˙ ˙ «The Mahdı¯ will come out at the end of time», Tu¯ s¯ı, 178, cf. also 180. Tu¯ s¯ı also includes several ˙ Qa¯ ’im’s zuhu¯ r, the ˙ ˙«Waqqa¯ tu¯ n». Among traditions refuting those who would predict the time of˙ the ˙ an [appointed] time?» He rethem is one where Muhammad al-Ba¯ qir is asked, «Does this event have ˙¯ n have lied. The Waqqa¯ tu¯ n have lied. The Waqqa¯ tu¯ n have lied». Tu¯ s¯ı, sponds, «The Waqqa¯ tu ˙ ˙ 426. 135 TU¯ S¯I, 185. 136 ˙ ˙ Some Shı¯‘a argued that Jesus would be the «end» only in the sense that he would be the last da¯ ‘ı¯ (caller/missionary) of Islam, but he would not outlive the Ima¯ m. See MADELUNG, «MAHDI¯», 1237.

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final prayer, something which has clearly become by now orthodox Ima¯ mı¯ teaching. Moreover, Tu¯ s¯ı’s emphasis of this point in the following hadı¯th clearly ˙ ˙ ˙ shows that this has become a sort of Shı¯‘ı¯ slogan, for this particular tradition need not mention Jesus at all, except to emphasize his inferiority to the Qa¯ ’im. Here, Muhammad speaks to his daughter Fa¯ tima (the wife of ‘Alı¯ b. Abı¯ Ta¯ lib), ˙ ˙ ˙ saying, «From us are the two grandsons of this community, your sons al-Hasan ˙ and al-Husayn. From us (by God and there is no god but He) is the Mahdı¯ of ˙ 137 this community, behind whom Jesus will pray» . Before concluding this section, let us skip ahead some six centuries to see how this doctrine would endure. In his monumental work on Shı¯‘ı¯ doctrine, Biha¯ r al-anwa¯ r (which was most recently published in 114 volumes), Muham˙ ˙ mad Ba¯ qir Majlisı¯ (1110/1698) devotes 8 chapters exclusively to Jesus, one of which touches on his role in the end times138. His account of the general prayer makes it clear, however, that the Qa¯ ’im receives priority above him: There will come upon the people a time when they do not know what God and his oneness are so that there takes place the emergence of al-Dajja¯ l and so that Jesus son of Mary (peace be upon him) descends from the sky. And God kills alDajja¯ l with his hands. Then a man from among us, the people of the house [of the Prophet], will lead [the people] in prayer. Don’t you see that Jesus (peace be upon him) prays behind him? He is a prophet of God, but we are set above him139.

V. CONCLUSION If Jesus is not God’s eschatological protagonist in the Shı¯‘ı¯ sources, then who is he? The question might be most simply answered by saying that, with this one exception, Jesus is everything that he is to Sunnı¯s. He is the uniquely charismatic prophet of God, who spoke in the cradle, brought the dead to life, and ascended deathlessly into heaven. Moreover, he is also the model of piety and asceticism, whose holiness led both al-Halla¯ j and ibn al-‘Arabı¯ to call him ˙ the «seal of the saints»140. It is this particular charism of Jesus which is especially emphasized in Shı¯‘ı¯ traditions. 137

TU¯ S¯I, 191. ˙ ˙ MAJLISI¯ records thirteen hadith in reference to the role of Jesus after his ascension. Of these, the first nine deal with speculation on the duration of time between Jesus and Muhammad and only the last four treat the eschatological role of Jesus. In contrast Majlisı¯ provides seventy-two hadith on the moral exhortations of Jesus. 139 MAJLISI¯, Biha¯ r al-anwa¯ r (Beirut 1983), 14:349. ˙ 140 On this see LOUIS MASSIGNON, «L’Homme parfait en Islam», where he discusses other authors, such as al-Tirmidhı¯ and Ibn Sabı¯n, who identify Jesus as «kha¯ tim al-awliya¯ ’». Opera Minora, I:114. 138

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Several years ago, the English language Shı¯‘ı¯ journal al-Tawh¯ıd published, ˙ in two parts, a collection of such traditions, gathered from a variety of sources141. Of the ninety-six different traditions gathered there, exactly zero deal with Jesus in the context of eschatology. Instead, Jesus appears in his prophetic role, delivering the message of ‘adl (God’s justice) and tawh¯ıd (proclamation of ˙ God’s oneness) and urging people towards tawba (repentance). Jesus’ distinction from the rest of the prophets does not relate to his deathless ascension into heaven or to his return as God’s protagonist in the end times. Rather, Jesus appears most distinctly here as a model ascetic and a preacher, who disdains this world out of devotion to the next: ... [Jesus] used a stone as his pillow, wore coarse clothing and ate rough food. His stew was hunger and his lamp in the night was the moon. His cover in the winter was the east of the earth and its west. His fruit and his basil that which grows from the earth for the cattle. He had no wife to try him, and no son to grieve him. He had no wealth to distract him, nor greed to abase him. His mount was his feet and his servant was his hands142. Jesus said, «This world and the next one are rivals. When you please one of them you displease the other!»143. The world took the form, for Jesus, of a woman whose eyes were blue. Then he said to her: ‘How many have you married?’ She said, ‘Very many». He said, ‘Then did they all divorce you?’ She said, ‘No, but I killed all of them.’ He said, ‘Then woe be to the rest of your husbands! How they fail to learn from the example of the predecessors!»144.

Many of Jesus’ proclamations in these traditions have the quality of wisdom literature. Jesus provides an esoteric and gnostic knowledge, revealing God’s truth which is so often veiled to the average observer. In carrying out his prophetic role, Jesus plays the mystic: It is reported...from Ima¯ m Ja’far al-Sa¯ diq, Peace be upon him, in a long ha˙ dı¯th, that he said: «Jesus the son of Mary, Peace be upon our Prophet and upon 141 By far the most frequently cited source is Majlisı¯’s aforementioned Biha¯ r al-anwa¯ r. Also fre˙ quently quoted is al-Ka¯ fı¯ of al-Kulaynı¯. See M. QA¯’IM and M. LEGENHAUSEN, «Words of the Word of God: Jesus Christ Speaks through Shı¯‘ı¯ Narrations», Tawhid. 13.3 (1996), 21-40. And 13.4 (1996), ˙ 45-56. 142 QA¯’IM and LEGENHAUSEN, 13.4, 47. This tradition is related by ‘Alı¯ b. Abı¯ Ta¯ lib in the Nahj al˙ bala¯ gha, the collection of ‘Alı¯’s sermons as recorded by Sharı¯f al-Rad¯ı (406/1016), which is revered by ˙ the Shı¯‘a only slightly less than the Qur’a¯ n. 143 144

QA¯’IM and LEGENHAUSEN, 13.3, 29. From MAJLISI¯’S Biha¯ r al-anwa¯ r. ˙ QA¯’IM and LEGENHAUSEN, 13.3, 29. From MAJLISI¯’S Biha¯ r al-anwa¯ r. ˙

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him, used to spend some time with the disciples and advise them, and he used to say: ‘He who does not know me knows not his soul, and he who does not know the soul between his two sides, does not know the soul between my two sides. And he who knows his soul which is between his sides, he knows me. And he who knows me knows He who sent me»145.

The Shı¯‘ı¯ Jesus, then, can be quite dramatically contrasted to the figure of the Qa¯ ’im, who will come not to speak of enlightenment, but to speak with his sword. The Qa¯ ’im will emerge from his ghayba with fearsome violence, leading ¯ l Muhammad to revenge and deliverance. the A ˙ Thus is the Qa¯ ’im also put in contrast with the Sunnı¯ Mahdı¯. The latter, most distinctively, is a just ruler, who will restore the sharı¯‘a after a period of lawlessness led by al-Dajja¯ l, and thereby fill the world «with equity and justice as it was filled with oppression and injustice». Now we have seen that the concept of Mahdı¯ was ultimately included within the identity of the Qa¯ ’im. Yet the key difference between the Sunnı¯ Mahdı¯ and the Shı¯‘ı¯ Mahdı¯/Qa¯ ’im remained: while the former restores the world to it was, the latter transforms the world into something new. If the Mahdı¯ leads an eschatological campaign from above, being a restorer of the sharı¯‘a and correct order, then the Qa¯ ’im does so from below, destroying the perfidious rulers and exacting revenge for their victims. al-Qa¯ ’im, the standing one, contrasts with al-Qa¯ ’id, the sitting one; i.e. the passive one, the one who refuses to join battle. The distinctive meaning of the term is crucial to the cohesiveness of Shı¯‘ı¯ theology, for it contains the revolutionary hope that has reconciled the Shi‘a to their misfortunes. The Qa¯ ’im is the one who will finally lead the Shi‘a out of their political quietism and into battle; he is the one to abrogate the quietist policy of taqiyya and institute the Shı¯‘ı¯ jiha¯ d. This combination of quietism and revolutionary hopes is most typically explained socio-historically, as a result of historical disenfranchisement of the Shı¯‘a146. The disenfranchisement, seen most vividly in the murders of ‘Alı¯ ibn Abı¯ Ta¯ lib and his son (through the prophet’s daughter Fa¯ tima) ˙ ˙ Husayn, lies at the very core of Shı¯‘ı¯ religious ideology. For the Shı¯‘a, ˙ there is no such thing as realized messianism147. The best of all possible 145

QA¯’IM and LEGENHAUSEN, 13.3, 32. Many sociologists have attributed chiliastic movements to social dissatisfaction, as explained by «Relative Deprivation» theory. The Shı¯‘ı¯ experience, with its historical tragedies, would lend itself well to such an analysis. At the same time, other scholars have looked to external influences, particularly Zoroastrianism. Among them is H. Corbin who asserts that Shı¯‘ı¯ concepts of the Qa¯ ’im drew from the Zoroastrian doctrine of the Sayoshant. See Spiritual Body and Celestial Earth, Trans. Nancy Pearson (Princeton 1977), esp. Ch. 1-2. See also PHILIP KREYENBROOK, «On the Concept of Spiritual Authority in Zoroastrianism», Jerusalem Studies in Arabic and Islam, 17 (1994), 1-15. 147 Some scholars have suggested that Sunnı¯ eschatological hopes were fulfilled in the success of 146

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worlds is yet to come. Their Mahdı¯, the Qa¯ ’im, will assume the role of an avenger. While Sunnı¯ historiography is filled with triumphant stories of battles (ghazwa¯ t) and conquests (futu¯ h), Shı¯‘ı¯ historiography reads as a list of unjust ˙ tragedies: Saqı¯fat banı¯ Sa¯ ’ida, where Abu¯ Bakr wrongly took control of the Islamic community; the Battle of Siffı¯n, where ‘Alı¯’s army wrongly agreed to a me˙ diation with the usurper Mu‘a¯ wiya; Karbala¯ ’, where Yazı¯d’s army massacred the grandson of the prophet (Husayn) and his companions; and finally the mur˙ ders of Husayn’s descendents, the Ima¯ ms. Certain Shı¯‘ı¯ traditions, in fact, main˙ tain that each of the imams, beginning with ‘Alı¯, was murdered, with one exception: the twelfth ima¯ m, Muhammad al-Mahdı¯. ˙ M. Hodjson has suggested that the doctrine of the Ima¯ mate is the one irreconcilable difference between Shı¯‘ı¯sm and Sunnism148. Indeed, there are many groups who differ in their theology and law who have remained comfortably within the fold of Sunnism. However, Shı¯‘ı¯sm’s doctrine of the Ima¯ ms, particularly the last and Hidden Ima¯ m, has proved irreconcilable with Sunnism. We might add to Hodjson’s observations by noting that the doctrine of the Hidden Ima¯ m necessarily separates Shi‘ism from Sunnism. For when he arrives, it is foremost the Sunnı¯s upon whom he will exact revenge. The Shı¯‘a are waiting for that moment with «la conviction que toutes les injustices et les souffrances subies par les croyants seront vengées et qu’il sera possible de prendre sa revanche à l’encontre de criminels ayant commis toutes sortes d’atrocités»149. It is only the Hidden Ima¯ m, the unceasing leader of the Shi‘a even in ghayba, and not Jesus, who can rightfully exact such vengeance for his oppressed people. So it is that Jesus cannot play the role of the eschatological protagonist in Shi‘ism. Instead, the Shı¯‘ı¯ Jesus retains the role of the pious ascetic, while the Qa¯ ’im is the avenger of the ahl al-bayt. The contrast between their characters is salient and unquestionable. We should not, then, be led astray by comparisons between the two in Ima¯ mı¯ sources, such as their ability to speak as infants or the portrayal of Jesus’ deathless ascension to heaven as a precursor to the Qa¯ ’im’s ghayba150. These are nothing more than individual anecdotes about Jesus Muhammad and the rise of Islam. Thus, Muhammad was already the Messiah of Islam and the battle ˙ evil has already been won. Arjomand,˙ for example, has supported this view, even naming the against Battle of Badr as the apocalyptic battle against evil. S.A. ARJOMAND, «Islamic Apocalypticism in the Classic Period», Unpublished paper Delivered at Yale University Spring 1998. 148 MARSHALL HODGSON, «How did the early Shi‘a become sectarian?» Journal of the American Oriental Society 75 (1955), 158. 149 MUHAMMAD BA¯ QIR AL-HAKI¯M, «L’Ima¯ m al-Mahdı¯ et la formation du noyau vertueux», Aux Sources de la Sagesse, 10.3 (1996), 42. 150 I have mentioned the first point above in the description of the Hidden Ima¯ m’s birth. The lat-

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put to use in defense of the doctrine surrounding the Qa¯ ’im. Indeed, elsewhere traditions surrounding other prophets or individuals are used in a similar fashion151. Finally, we can conclude that the Shı¯‘ı¯ understanding of the end times is not only very different from that of Sunnı¯s, but it is also much more central to their conception of human history. Until the Qa¯ ’im shows himself to the world, it will remain in a dark state of dis-equilibrium and tension, as injustice will continue to reign and God’s chosen family will continue to suffer. The Shı¯‘a wait in hopeful expectation for this moment, proclaiming at the mention of the Hidden Ima¯ m’s name: «‘Ajjala Allahu farajahu (May God hasten his appearance)». They long for his parousia when he will exact revenge for all of the wrongs that they have endured, and raise up the ahl al-bayt to their rightful station152. Thus do eschatological hopes lie at the very heart of the Ima¯ mı¯ Shi‘ism153. GABRIEL SAID REYNOLDS

ter point is seen in Ima¯ mı¯ traditions that justify the concept of the ghayba and the possibility of the Qa¯ ’im living such a long time. Tu¯ s¯ı records an example: «As for the ghayba of Jesus (peace be upon ˙ that he was killed, but God has shown them to be liars with [Quhim), the Jews and the Christians˙ agree r’a¯ n 4:157]. Thus, too, the ghayba of the Qa¯ ’im, although the [Islamic] community will reject it because of its length». 170. 151 Note the tradition from MUHAMMAD AL-BA¯ QIR: «The Lord of this Command has models in four ˙ be upon him) is that he was afraid and on the watch. His moprophets...His model from Moses (peace del from Joseph (peace be upon him), is the ghayba. His model from Jesus is, as it is said ‘he died and did not die». His model from Muhammad (God’s blessing and peace be upon him and his family) is that he ˙ Elsewhere the longevity of the Qa¯ ’im is justified by comparison with condones the sword». Tu¯ s¯ı, 424. ˙ ˙ (cf. Gen. 9:29, 950 years), or to that of Muhammad’s companion Salman alNoah, who lived 995 years Fa¯ risı¯, who had been around to meet Jesus some six hundred years˙ earlier. See Tu¯ s¯ı, 113. ˙ ˙ 152 «Le temps, pour les pauvres et les abandonnés, est l’espérance en une apocalypse de justice terrible, régénératrice». L. MASSIGNON, «Elie et son role trans-historique, Khadiriya, en Islam», Opera Minora, I:160. 153 This fact remains so today, although many developments have taken place in Shı¯‘ı¯ thought (most notably the idea of wila¯ yat-i faqı¯h that gave legitimacy to the political activism of the Iranian revolution). I recently saw, for example, a call-in television program (on the station run by the Lebanese Shı¯‘ı¯ militia and political party Hizballah, «al-Mana¯ r») that was entirely dedicated to a discussion of the emer˙ gence (khuru¯ j) of «Ima¯ m al-Mahdı ¯» and the accompanying events. Similar is the observation of T, Khalidi, that on the occasion of the Mahdı¯’s birthday in Beirut huge banners were raised which «congratulated the expectant believers for the dawning of the light of salvation upon the appearance of the Mahdı¯ and the Prophet Jesus son of Mary». Muslim Jesus (Cambridge, MA: Harvard, 2001), 229, n. 42.

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¯ LAT AL-HUDA ¯ OF MUHAMMAD NU ¯ RBAKSˇ (d. 869/1464) THE RISA ˙ ¯ CRITICAL EDITION WITH INTRODUCTION INTRODUCTION Although messianism has been a significant religio-political paradigm throughout the course of Islamic history, it is possible to identify certain periods as being particularly conducive to the rise of activist messiahs1. In the Islamic East, the interregnum between the demise of unified I¯lka¯ nid ¯ rule and the establishment of the Safawid, Ottoman, Uzbek, and Mug¯ al ˙ states (1335 - ca. 1500 CE) had messianism as a distinguishing feature of its religious history2. The period’s political history was marked most strongly by the rise of Tı¯mu¯ r (d. 807/1405) and the slow dissipation of his vast empire in the hands of his successors. The upsurge in radical religion resulted from the complex interaction of various trends in the political, social, and intellectual history of the region. The harshness of Tı¯mu¯ r’s campaigns followed by unceasing warfare between his successors resulted in a chronically unstable socio-political environment in which alternative models of political power gained in popularity. The cAbba¯ sid empire with its (at least nominal) caliph was long forgotten by this time, and even the Turko-Mongol tradition of universal rule on which Tı¯mu¯ r had founded his empire provided little security to his successors3. A messianic deliverer, who invoked divine commission and legitimized his political quest 1 The history of Islamic messianic doctrines is summarized in W. Madelung, «Mahdı¯, al,» Encyclopaedia of Islam, Second Edition, 5:1230-38. 2 The religious history of this period is reviewed in: B. S. AMORETTI, «Religion under the Tı¯mu¯ rids and the Safavids,» in The Cambridge History of Iran, vol. 6, eds. Peter Jackson and Laurence Loc˙ khart (Cambridge: Cambridge University Press, 1986), 6:610-23; SAID AMIR ARJOMAND, Shadow of God and the Hidden Imam (Chicago: University of Chicago Press, 1984), 66-84; ANNEMARIE SCHIMMEL, «The Ornament of the Saints: The Religious Situation in Pre-Safavid Times,» Iranian Studies 7 (1974), 88-111; ˙ SHAHZAD BASHIR, «The Imam’s Return: Messianic Leadership in Late Medieval Shicism,» in The Most Learned of the Shi ca, ed. Linda Walbridge (New York: Oxford University Press, 2001). 3 Cf. BEATRICE FORBES MANZ, The Rise and Rule of Tamerlane (Cambridge: Cambridge University Press, 1989), 1-16.

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through the possibility of an era of peace and justice, appealed quite naturally to the sensibilities of populations long subsisting under inhospitable conditions. In tandem with the unstable socio-political situation, the Tı¯mu¯ rid era also saw the further solidification of the position of the su¯ fı¯ sˇayk as a paradigm of ˙ ¯ not only spiritual but also social and political power. Under the influence of the thought of Ibn al-cArabı¯ (d. 638/1240) and his followers, Persianate Su¯ fism du˙ ring this period was permeated by ideas such as the Seal of Sainthood (ka¯ tam ¯ al-wala¯ ya) and the Perfect Man (insa¯ n-i ka¯ mil) that postulated spiritual hierarchies presided over by supreme guides4. In addition, rulers of the age now came to rely on their connections to genealogical or pedagogical su¯ fı¯ lineages to ˙ legitimize their rule, thus giving prominent su¯ fı¯ sˇayks a direct interest in politi˙ ¯ cal matters5. Su¯ fism in its social and organizational dimensions was a source of ˙ much needed societal cohesion in this period, which also facilitated the transformation of the su¯ fı¯ master from a spiritual guide into an influential member ˙ of the social elite. A further element contributing to the rise of messianic activity in this period was the coming together of Su¯ fism and Sˇ ¯ıcism that resulted in the creation ˙ of new religious outlooks6. With his religious prestige and political pretensions, the new type of su¯ fı¯ sˇayk now becoming common resembled more and ˙ ¯ more the Sˇ ¯ıc¯ı Ima¯ m in his universalistic spiritual claims. Furthermore, in the Iranian world, the lines of demarcation between Twelver, Isma¯ c¯ılı¯, Zaydı¯, and Ghula¯ t sub-sects of Sˇ ¯ıcism were becoming blurred, allowing for the generation of a new Sˇ ¯ıcism which retained its connection to the claims of the family of cAlı¯ but strained against particular sectarian doctrines such as the occultation of the 4 For the influence of such ideas in Persian Su¯ fı¯sm during this period see particularly: WILLIAM ˙ ¯ to al-Qaysarı¯,» Muslim World, 72, no. 2 (1982), CHITTICK, «The Five Divine Presences from al-Qu¯ nawı ˙ Sufism of Jami,» Studia Islamica, 49 107-28; IDEM, «The Perfect Man as the Prototype of the Self in the [1979], 135-57; R. A. NICHOLSON, Studies in Islamic Mysticism (Cambridge: Cambridge University Press, 1921, reprint 1989), 77-161; cAZI¯Z-I NASAFI¯, Le livre de l’homme parfait (Kita¯ b al-insa¯ n al-ka¯ mil), ed. Marijan Molé (Tehran: Departement d’Iranologie de l’Institut Franco-Iranien, 1962); HENRY CORBIN, En Islam Iranien, Tome III: Les fidèles d’amour, Shîcisme et soufisme (Paris: Gallimard, 1972). 5 Su¯ fı¯ orders (turuq) and masters indulged in or shunned the practice of associating with rulers in ˙ ˙ varying degrees according to group practice or personal preference. For some prominent examples of the phenomenon see: LAWRENCE POTTER, «Sufis and Sultans in Post-Mongol Iran,» Iranian Studies 27, nos. 1-4 [1994], 77-102; AZIZ AHMAD, «The Sufi and the Sultan in Pre-Mughal Muslim India,» Der Islam 38 (1963), 142-53; and JO-ANN GROSS, «Khoja Ahrar: A Study of the Perceptions of Religious Power and Prestige in the Late Timurid Period,» Ph.D. diss., New York University, 1982. 6 The case for a rapprochement between Su¯ fism and Sˇ ¯ıcism is articulated most forcefully for the ˙ Kubrawı¯ su¯ fı¯ lineage in MARIJAN MOLÉ, «Les Kubrawiya entre sunnisme et shiisme au huitième et neu˙ de l’hégire,» Revue des Études Islamiques, 29 (1961), 61-142. While Molé’s argument has vième siècles been criticized rightly in recent years for overemphasizing the Sˇ ¯ıc¯ı proclivities of all Kubrawı¯ sˇayks, his ¯ conclusions do fit the individual case of Muhammad Nu¯ rbaksˇ (cf. DEVIN DEWEESE, «Sayyid cAlı¯ Hama˙ in The Legacy ¯ of Medieval Persian Sufism, ed. Leonard da¯ nı¯ and Kubrawı¯ Hagiographical Traditions,» Lewisohn [London: Khanqahi Nimatullahi Publications, 1992]).

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Twelfth Ima¯ m. Conversely, one could also say that Su¯ fism during this period ˙ came to include cAlid-loyalism as one of its chief tenets7. The end result of the workings of these various historical processes was the production of a new religious sensibility that partook of both su¯ fı¯ and Sˇ ¯ıc¯ı ˙ ideas in responding to contemporary social conditions. This new religiosity was embodied most conspicuously in the various Mahdı¯s who, as messianic deliverers, represented the hope for a better future in both religious and material terms. Irrespective of their levels of success, the messiahs from this period laid the groundwork for messianic legitimacy to become a prominent part of the ideologies of dynasties ruling the empires of the Islamic East from the fifteenth century onwards. This is most clearly evident in the rhetoric of Isma¯ c¯ıl I who founded the Safawid dynasty after coming to power as the leader of a chiliastic ˙ movement8. Messianic rhetoric can, moreover, be detected in rulers belonging to the Ottoman, Mug¯ al, and Shïbanid houses as well9. A careful consideration of fifteenth-century Mahdı¯s and their movements is, therefore, a necessary precondition for a comprehensive historical understanding of the Tı¯mu¯ rid period.

MUHAMMAD NU¯ RBAKSˇ (795/1392 - 869/1464)10 ˙ ¯ Among major fifteenth-century religious figures, Muhammad Nu¯ rbaksˇ ˙ ¯ best exemplifies the period’s messianic activity. His life’s story combines togec ther a Twelver Sˇ ¯ı ¯ı background, su¯ fı¯ training and reputation as a major Ku˙ brawı¯ sˇayk, and unwavering personal belief in the idea that he was indeed the ¯ Mahdı¯ of Islamic tradition. His Risa¯ lat al-huda¯ (Treatise on Guidance) edited here is, furthermore, an important text for the period’s religious history since it articulates his personal messianic ambition in terms of his overall religious worldview. 7 Cf. MARSHALL HODGSON, The Venture of Islam (Chicago: University of Chicago Press, 1974), 2:495-500. 8 The rise of the Safawids is discussed in detail in MICHEL MAZZAOUI, The Origins of the Safawids ˙ (Wiesbaden: F. Steiner,˙ 1972), and ARJOMAND, Shadow of God and the Hidden Imam. 9

Cf. CORNELL FLEISCHER, «The Lawgiver as Messiah: The Making of the Imperial Image in the Reign of Süleymân,» in Süleymân the Magnificent and his Time: Acts of the Parisian Conference Galeries Nationales du Grand Palais, 7-10 March 1990, ed. Gilles Veinstein (Paris: École des Hautes Études en Sciences Sociales, 1990), 163-67; ABU¯ L-FADL cALLA¯ MI¯, Akbarna¯ ma of Abu-l-Fazl, tr. H. Beveridge, (De˙ lhi: Ess Ess Publications, 1977), 3:364; DOUGLAS E. STREUSAND, The Formation of the Mughal Empire (Delhi: Oxford University Press, 1989), 132; ANDRÁS J. E. BODROGLIGETI, «Muhammad Shayba¯ nı¯ Kha¯ n’s ˙ Apology to the Muslim Clergy,» Archivum Ottomanicum, 8 (1993-1994), 85-100. 10 Muhammad Nu¯ rbaksˇ’s life and thought are discussed in detail in my forthcoming book Messia˙ Mystical Visions: ¯ The Nu¯ rba Khshı¯a Between Medieval and Modern Islam (Columbia, SC: nic Hopes and University of South Carolina Press, 2003).

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Muhammad b. Muhammad b. cAbdalla¯ h was born in Quhista¯ n, Kura¯ sa¯ n, ˙ ˙ ¯ in 795/139211. His father, originally from the Twelver Sˇ ¯ıc¯ı region of al-Ahsa¯ ’ in ˙˙ Bahrain, had traveled to Masˇhad to visit the grave of Ima¯ m Mu¯ sa¯ ar-Rida¯ (d. ˙ 203/818) and had settled in Quhista¯ n after the pilgrimage12. Nu¯ rbaksˇ received ¯ his early education in Quhista¯ n and then traveled to Herat to seek further knowledge while still in his teens. Here a su¯ fı¯ associate invited him to become a di˙ sciple of Kwa¯ ja Isha¯ q Kuttala¯ nı¯, an important sˇayk affiliated with the Kubrawı¯ ¯ ˙ ¯ ¯ 13 silsila . He accepted this invitation and moved to the region of Kuttala¯ n (in ¯ present-day Tajikistan) to become a part of Kuttala¯ nı¯’s circle. Being a talented ¯ student, he became a leading disciple of Kuttala¯ nı¯ who gave him the title Nu¯ r¯14 baksˇ (giver of light) based upon a dream . A few years later, in 826/1423, he ¯ proclaimed himself the Mahdı¯ amidst a complicated political situation. The claim was perceived as an insurrection by the Tı¯mu¯ rid governor of the area, who arrested both Nu¯ rbaksˇ and Kuttala¯ nı¯ and sent them towards Herat to ¯ ¯ Mı¯rza¯ Sˇ a¯ hruk (d. 850/1447), the Tı¯mu¯ rid ruler of the day. Tı¯mu¯ rid authorities ¯ executed Kuttala¯ nı¯ shortly following the incident, while Nu¯ rbaksˇ himself was ¯ ¯ imprisoned for six months15. His life was spared at this occasion and in later incidents probably due to his Sayyid genealogy. Nu¯ rbaksˇ was released after being taken to the city of Bihbaha¯ n near Shi¯ raz, from where he took a tour of Sˇ ¯ıc¯ı religious sites in Iraq16. He eventually arrived in the region occupied by Lur and Kurd tribes (southwestern Iran), where he was able to gain a considerable following. His success here provoked Sˇ a¯ hruk’s wrath once again, resulting in a recapture by Tı¯mu¯ rid forces. After ¯ being taken to Herat in captivity, he was ordered to renounce his claim in the main mosque during a Friday prayer some time in 840/143617. He was freed for a short period after this disavowal, and then captured once again in Azerbaijan. Although directed to proceed to Anatolia, he was able to advance towards Sˇ ir11 MUHAMMAD NU¯ RBAKSˇ, Risa¯ lat al-huda¯ , 24. All references to this work in the introduction are to ˙ below. ¯ the text edited 12 QA¯ D¯i NU¯ RULLA¯ H Sˇ USˇTARI¯, Maja¯ lis al-mu’minı¯n, ed. Ha¯ jj Sayyid Ahmad (Tehran: Kita¯ bfuru¯ sˇ¯ı-yi ˙ ˙ ˙ Isla¯ mı¯ya, 1975), 1:113. 13 Ibid., 2:143. 14 Ibid., 2:144. An alternative version for the bestowal of the title is given in HA¯ FIZ HUSAYN IBN AL˙ Bunga ˙ ˙ ¯ h-i Tarjama KARBALA¯’¯I, Rawda¯ t al-jina¯ n wa-janna¯ t al-jana¯ n, ed. Jacfar Sulta¯ n al-Qurra¯ ’ı¯, (Tehran: ˙ 1970), 2:249. ˙ wa Nasˇr-i Kita¯ b, 15 The details of this incident are discussed in my forthcoming book and DEVIN DEWEESE, «Eclipse of the Kubravı¯yah in Central Asia,» Iranian Studies, 21, no. 1-2 (1988), 59-83. 16 ˇ Susˇtarı¯ writes that Nu¯ rbaksˇ studied with the renowned Twelver Sˇ ¯ıc¯ı scholar Ibn Fahd al-Hillı¯ ¯ ˙ (d. 840/1437) during this period (Maja ¯ lis, 2:579). Sˇ usˇtarı¯’s statement seems to be a fabrication since Nu¯ rbaksˇ never mentions al-Hillı¯ in any of his works despite the persistent habit of legitimizing his claim ¯ by reference to the words ˙of prominent teachers. 17 For contrasting reports on this incident see Sˇ USˇTARI¯, Maja¯ lis, 2:145, and cABD AL-WA¯ SIc NIZA¯ MI¯ ˙ BA¯ KARZI¯, Maqa¯ ma¯ t-i Ja¯ mı¯, ed. Najı¯b Ma¯ ’il-i Hirawı¯, (Tehran: Nasˇr-i Nay, 1992), 192. ¯

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wa¯ n after his third imprisonment. He later settled in Gı¯la¯ n for approximately ten years (1437-47), where he again achieved success in attracting people to his cause. It is during this period that Sˇ ams ad-Dı¯n Muhammad b. Ya¯ hya¯ La¯ hı¯jı¯ (d. ˙ ˙ 921/1515), author of the famous Mafa¯ tı¯h al-icja¯ z fı¯ sˇarh Gulsˇan-i ra¯ z18, recalls ˙ 19 ˇ ˙ meeting his master for the first time . Sa¯ hruk’s death in 850/1447 marked the ¯ end of Nu¯ rbaksˇ’s troubles with ruling authorities, and he spent the last nine¯ teen years of his life peacefully instructing students in the village of Su¯ liqa¯ n near Rayy. Like most of his other works, his messianic confession the Risa¯ lat alhuda¯ was composed during the tranquility of this period20. Nu¯ rbaksˇ died in Su¯ ¯ liqa¯ n in 869/146421, leaving behind numerous descendants and disciples who 22 continued to propagate his ideas in original or attenuated forms . The Nu¯ rbakhshı¯ya was transplanted into Kashmir later in the fifteenth century, though severe persecution by rulers and the incorporation of Kashmir into the Mug¯ al empire eventually led to a complete extinction from the region by the seventeenth century23. However, the presence in Kashmir led to conversions in Baltistan and Ladakh where the Nu¯ rbaksˇ¯ıya survives to the present24. ¯ RISA¯ LAT

AL-HUDA ¯:

RATIONALE

AND

SUMMARY

OF

CONTENTS

If Muhammad Nu¯ rbaksˇ best exemplifies messianic religion in the fifteenth ˙ ¯ century, then his work Risa¯ lat al-huda¯ is the text which most succinctly articulates the ideas of a messianic claimant from the period25. After stating that any accomplished saint (walı¯) must make his knowledge available to others, Nu¯ rbaksˇ ¯ 18 ˇ SAMS AD-D¯IN MUHAMMAD ASI¯RI¯ LA¯ HI¯JI¯, Mafa¯ tı¯h al-icja¯ z fı¯ sˇarh Gulsˇan-i ra¯ z, ed. Muhammad Rida¯ ˙ ˙ ˙ Ba¯ rzgar Kalı¯qı¯ and cIffat ˙Karba¯ sı¯ (Tehran: Zawwar,˙ 1992). 19 ¯ ¯ l-i Da¯ wu¯ d (Tehran: Mu¯ ’asLa¯ hı¯jı¯ refers to this encounter in his work Asra¯ r asˇ-sˇuhu¯ d, ed. cAlı¯ A sasa-yi Muta¯ lica¯ t wa Tahqı¯qa¯ t-i Farhangı¯, 1989), 85-87. ˙ ˙ 20 The last year mentioned in the text is 859/1454-55 when Nu¯ rbaksˇ’s son Qa¯ sim Faydbaksˇ star¯ ¯ ted instructing disciples (p. 44). For all of Nu¯ rbaksˇ’s works and their extant manuscripts see˙ SHAHZAD BASHIR, «Between Mysticism and Messianism: The¯ Life and Thought of Muhammad Nu¯ rbaksˇ», Ph.D. ¯ ˙ diss., Yale University, 1997, 260-73. 21 ˇ SUSˇTARI¯, Maja¯ lis, 2:147. 22 The development of Nu¯ rbaksˇ’s order following his death is treated in detail in BASHIR, Messia¯ nic Hopes and Mystical Visions (forthcoming). 23 The history of the Nu¯ rbaksˇ¯ıya in Kashmir is also discussed in my forthcoming book. For the ¯ MOHIBBUL HASAN, Kashmı¯r Under the Sulta¯ ns (Calcutta: Iran Somost extensive treatment to date see ˙ ciety, 1959). 24 Cf. ANDREAS RIECK, «The Nurbachshis of Baltistan - Crisis and Revival of a Five Centuries Old Community,» Die Welt des Islams, 35, no. 2 (1995), 160-65. 25 The writings of other messianic figures from the period include the Kala¯ m al-mahdı¯ of Muhammad b. Fala¯ h Musˇacsˇac and the extensive literary output of Fadlalla¯ h Astara¯ ba¯ dı¯, founder of the H˙uru¯ ˙ ca¯ rif fı¯ya (cf. cALI¯˙RIDA¯ DAKA¯ WATI¯ QARA¯ GUZLU¯, «Nahdat-i musˇacsˇac-ı¯˙ wa guza¯ rı¯ bar Kala¯ m al-mahdı¯,» Ma ˙ , Hurûfîlik Metinleri Katalog˘ u [Ankara: Türk Tarih ˙ ¯ 59-67; ABDÜLBÂKI GÖLPINARLI 13, no. 1 [July 1996],

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explains the impetus behind composing the work in the following words: «It is my obligation to set forth all the signs, characteristics, qualities, and distinctions which point towards me in the sayings of my predecessors and the discoveries of my contemporaries. Utilizing these, everyone who has yet to recognize me will be rescued from the ignorance mentioned in his (Muhammad’s) state˙ ment: whoever dies without knowing the ima¯ m of his age dies the death of 26 ignorance (ja¯ hilı¯ya) . (Moreover), these will increase the knowledge of those who already know me»27. Corresponding with these stated intentions, the contents of the Risa¯ lat al-huda¯ can be divided into two categories: historical information regarding the circumstances of Nu¯ rbaksˇ’s life and the composition of ¯ his following; and a theoretical argument that attempts to reconcile the Islamic messianic tradition with Nu¯ rbaksˇ’s personal claim. ¯ Historical Content The Risa¯ lat al-huda¯ is an indispensable source for reconstructing the history of Nu¯ rbaksˇ’s movement for a number of reasons. First of all, the work is ¯ crucial for assessing Nu¯ rbaksˇ’s family background and the circumstances lea¯ ding up to the proclamation of Mahdı¯hood, greatly complementing what we know from later sources. Seen from Nu¯ rbaksˇ’s own perspective, his father was ¯ aware of his son’s exceptional status even before birth and had made numerous predictions regarding it during Nu¯ rbaksˇ’s childhood. His premonitions became ¯ true when Nu¯ rbaksˇ’s sˇayk Kwa¯ ja Isha¯ q Kuttala¯ nı¯ called him to his seclusion ¯ ¯ ¯ ˙ ¯ chamber one night and told him that he had been informed that Nu¯ rbaksˇ was ¯ the Mahdı¯28. Based upon the Risa¯ lat al-huda¯ , it seems likely that Nu¯ rbaksˇ had ¯ harbored the ambition of being the Mahdı¯ before joining the Kubrawı¯ ka¯ nqa¯ h, ¯ and Kuttala¯ nı¯’s acquiescence to the claim, given at a very advanced age, proba¯ bly resulted from pressure by Nu¯ rbaksˇ and his followers. ¯ In addition to the early years of Nu¯ rbaksˇ’s career, the Risa¯ lat al-huda¯ pro¯ vides us much direct and indirect information about his activities as a Mahdı¯ and the composition of his following. It refers to the martyrdom of Kwa¯ ja Isha¯ q ¯ ˙ for the cause, and recalls many years of trepidation while trying to escape Tı¯-

Kurumu Basımevi, 1973]). The much later Dala¯ ’il-i sabca (Tehran: n.p., n.d.) of Sayyid cAlı¯ Muhammad ˙ Sˇ ¯ıra¯ zı¯ «Ba¯ b» is also comparable to the Risa¯ lat al-huda¯ as an apologia defending a Mahdist claim. 26 c c c Cf. ALI¯ KU¯ RA¯ NI¯, ed., Mu jam aha¯ dı¯t al-Ima¯ m al-Mahdı¯ (Qum: Mu’assasat al-Ma a¯ rif al-Isla¯ mı¯ya, ˙ ¯ 1990), vol. 2, nos. 551-55. 27 NU¯ RBAKSˇ, Risa¯ lat al-huda¯ , 19 (this goal is restated on page 30). ¯ 28 Ibid., 24.

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mu¯ rid persecution29. He recounts the death of his son Sacd al-Haqq al-Kabı¯r at ˙ a young age, the birth of his youngest son Jacfar in 850/1446, and the merits of his eldest son Qa¯ sim Faydbaksˇ (d. 919/1513-14) that made him a worthy suc˙ ¯ cessor to the father’s mantle30. Citing the exceptional qualities of his followers as a source for his claim’s legitimacy, Nu¯ rbaksˇ inserts a list of two hundred and ¯ twelve names (including one woman) in the middle of Risa¯ lat al-huda¯ (Part Two in the edition below). This is invaluable information since only one other work by him (the versified Matnawı¯ sah¯ıfat al-awliya¯ ’)31 contains specific na¯ ˙ ˙ mes, and very few of his followers can be traced outside of the descriptions in Risa¯ lat al-huda¯ . One particularly significant aspect of Nu¯ rbaksˇ’s list of names is that it ena¯ bles us to judge the regional distribution of his companions. Followers with nisbas to identifiable place-names can be divided into five groups from particular regions of western and Central Asia. The list contains twenty-two companions from Transoxiana, thirteen of whom were already deceased at the time the Risa¯ lat al-huda¯ was composed (after 859/1454-5)32. Most of these individuals joined the Kubrawı¯ path in Kuttala¯ n, and, as Nu¯ rbaksˇ indicates in some of his en¯ ¯ tries, they had accepted Nu¯ rbaksˇ as their guide after the death of Isha¯ q Kutta¯ ˙ ¯ la¯ nı¯. The Transoxianan group formed Nu¯ rbaksˇ’s entourage during the first ¯ phase of his life since he never returned to this area after his arrest in 826/1423. In parallel with his Central Asian ‘spiritual’ heritage, Nu¯ rbaksˇ’s continued ¯ connection to his familial roots in Quhista¯ n is reflected in a group of thirteen names, including a number of his relatives from the cities of Qa¯ ’ı¯n and Tu¯ n. The third group reflects Nu¯ rbaksˇ’s activity in Lurista¯ n and Kurdista¯ n and con¯ sists of seventeen names with nisbas from the provinces of Jiba¯ l and Azerbaijan33, three ‘Kurds,’ and four ‘Ju¯ ra¯ nı¯s’34. His extended stay in Gı¯la¯ n is reflected in the fourth group (thirty five individuals) related to localities along the southern and southwestern shores of the Caspian Sea35. The last group, smaller than the rest, has names with nisbas from Rayy (five), Qazwı¯n (two), and a soli29

Ibid., 25-26. Ibid., 41-42, 44-45. 31 JACFAR SADAQIYA¯ NLU¯, Tahqı¯q dar ahwa¯ l wa a¯ ta¯ r-i Sayyid Muhammad Nu¯ rbaksˇ Uwaysı¯ Quhista¯ nı¯ ˙ ¯ ˙ ¯ (Tehran: n. p., ˙1972), 49-57. ˙ 32 The particular place names in Transoxiana are: Badaksˇa¯ n, Kuttala¯ n, Uzgand, Tirmid, Farg¯ a¯ na, ¯ ¯ ¯ Samarqand, Kisˇm, and Rusta¯ ba¯ za¯ r. 33 c c Abhar, Bidlı¯s, Kalka¯ l, Ira¯ q-i Ajam, Karahru¯ d, Kalu¯ r, Kurrama¯ ba¯ d, Sulta¯ nı¯ya, Buru¯ jird, Irbil, ¯ ¯ ¯ ˙ and Tabrı¯z. 34 Gu¯ ra¯ n (Arabicized to Ju¯ ra¯ n) is one of the major Kurdish tribes (cf. V. MINORSKY, «Kurds» and D. N. MACKENZIE, «Gu¯ ra¯ n,» in Encyclopaedia of Islam, Second Edition, 6:456, 2:1139-40). 35 ¯ mul, Rustamda¯ r, Daylam, Rasˇt, Ru¯ dba¯ r, Sˇ irwa¯ n, Ta¯ lisˇ, Fu¯ min, The places of origin are: Jı¯la¯ n, A ˙ La¯ hija¯ n, and Ma¯ zandara¯ n. 30

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tary ‘Suliqa¯ nı¯’. Aside from these groups, Nu¯ rbaksˇ’s following included indivi¯ duals from most other regions in present-day Iran (Kura¯ sa¯ n, Fa¯ rs, Ku¯ zista¯ n) as ¯ ¯ ¯ azna, Delhi, and well as Baghdad, Bahrain, Ru¯ m, G Multa¯ n. The survey of nisbas shows that Nu¯ rbaksˇ successfully attracted students in ¯ every area where he spent an extended period of time. The composition of his following changed during the course of his life as he moved from Central Asia to various provinces in Iran. Quite significantly, a majority of his followers came from remote towns rather than urban centers, and the areas to yield the greatest number of students had a reputation for supporting ‘extremist’ Shı¯c¯ı trends (Lurista¯ n, Kurdista¯ n, and the southern Caspian basin). The institutional base of his movement was thus anchored in populations known to deviate from ¯ a¯ ’. Of companions mentioned by Nu¯ rbaksˇ, the Islam of the mainstream culam ¯ only one is described as a qa¯ d¯ı (in Sulta¯ nı¯ya and Qazwı¯n)36, while all the rest are ˙ ˙ praised for their competence in the esoteric (ba¯ tinı¯) sciences. ˙ Justification for Mahdı¯hood Besides historical information, the Risa¯ lat al-huda¯ gives us a clear idea of Nu¯ rbaksˇ’s sense of his own mission. From traditional Islamic literature, his ¯ mainstay for proving his designation are the Qur’a¯ n (cited fourteen times)37, and hadı¯t reports (thirty three citations included two hadı¯t qudsı¯) mostly con˙ ¯ ˙ ¯ cerned directly with the Mahdı¯. He makes very few references to any other literature, and somewhat surprisingly for one raised as a Twelver Sˇ ¯ıc¯ı, he invokes c Alı¯ only four times in this text38. The remaining eleven among the twelve Ima¯ ms are mentioned twice in an incidental fashion, and the text makes no references to their traditions39. Nu¯ rbaksˇ’s foremost sources of reference among past authorities are his ¯ su¯ fı¯ forebears. These include a number of masters associated with the Kubrawı¯ ˙ silsila, Nu¯ rbaksˇ’s personal affiliation, and Ibn al-cArabı¯ (d. 638/1240)40. The sˇa¯ yks with Kubrawı¯ connections are: Sacd ad-Dı¯n Hamuwayı¯ (d. 650/1252-3)41, ˙ ¯ Najm ad-Dı¯n Da¯ ya Ra¯ zı¯ (d. 654/1256)42, cAla¯ ’ ad-Dawla Simna¯ nı¯ (d. 36

32).

¯ iya¯ t ad-Dı¯n Muhammad b. cAbdalla¯ h as-Sayyid al-Husaynı¯ (NU¯ RBAKSˇ, Risa¯ lat al-huda¯ , G ¯ ˙ ˙ ¯

37 These citations, in the order of appearance in the text, are: 51:56, 48:1, 3:159, 3:103, 35:28, 42:23, 9:119, 4:82, 42:13, 6:153, 6:116, 10:36, 52:23, 53:28. 38 NU¯ RBAKSˇ, Risa¯ lat al-huda¯ , 20, 26, 32. ¯ 39 Ibid., 20, 33-34. 40 Ibid., 21, 28. 41 Ibid., 21, 22. 42 Ibid., 22.

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The Risa¯ lat al-huda¯ of Muhammad Nu¯ rbaksˇ ˙ ¯

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736/1336)43, Mahmu¯ d Mazdaqa¯ nı¯ (d. 766/1364-5)44, cAlı¯ Hamad¯ nı¯ (d. ˙ 786/1385)45, and Kwa¯ ja Isha¯ q Kuttala¯ nı¯46. ¯ ˙ ¯ Besides religious figures, Nu¯ rbaksˇ also cites philosophers’ predictions ¯ about the time of the appearance of the Mahdı¯. He refers twice to ancient huka˙ ma¯ ’ in general, once to Ptolemy, and once to the famous Sˇ ¯ıc¯ı polymath Nas¯ır ad˙ Dı¯n at-Tu¯ sı¯ (d. 672/1274)47. Tu¯ sı¯ is said to have related a tradition from the ˙ ˙ ˙ pre-Islamic Persian astrologer Ja¯ ma¯ sp48, and Nu¯ rbaksˇ contends that he predic¯ ted the beginning of Mahdı¯’s mission in the middle of Rajab, 826. However, an excerpt from Tu¯ sı¯’s poem Ja¯ ma¯ sp-na¯ ma states the time as only sometime after ˙ 800 AH49. These references indicate that Nu¯ rbaksˇ was familiar with aspects of ¯ Islamic philosophy and astrology, though he was liable to modify predictions based on these methodologies to make them fit his own needs. This summary of citations to past authorities in the Risa¯ lat al-huda¯ reveals that Nu¯ rbaksˇ based the legitimacy of his claim primarily on the Qur’a¯ n, ¯ Muhammad, cAlı¯, and Su¯ fism. His many references to prophetic hadı¯t reflect ˙ ˙ ˙ ¯ his detailed familiarity with Sˇ ¯ıc¯ı literature on the Mahdı¯’s identity and functions. The absence of references to the Ima¯ ms after cAlı¯ places Nu¯ rbaksˇ quite outside ¯ the scholarly paradigms of his ancestral Twelver Sˇ ¯ıcism. By concentrating on Muhammad and cAlı¯, Nu¯ rbaksˇ’s Mahdism appropriates Sˇ ¯ıcism’s charismatic ˙ ¯ appeal as the ideological system representing the prophet’s family. However, the post-prophetic intellectual orientation used by Nu¯ rbaksˇ is Su¯ fism rather ¯ ˙ than any strain of mature Sˇ ¯ıc¯ı thought. The ‘past’ Nu¯ rbaksˇ considers crucial in¯ cludes the Sˇ ¯ıc¯ı claim to religio-political leadership and the mystical system of thought represented by medieval Su¯ fism. ˙ Like all of Nu¯ rbaksˇ’s other works, the overall perspective of the Risa¯ lat al¯ huda¯ reflects a mystical worldview in which the spiritual elect of the world are

43

Ibid., 23. Ibid. 45 Ibid., 24, 36. 46 Ibid., 24. 47 Ibid., 22. 48 Ja¯ ma¯ sp, who is mentioned also in Nu¯ rbaksˇ’s Insa¯ n-na¯ ma (MS. Persan 39, Bibliothèque Natio¯ nale, Paris, 83b), was particularly known in Islamic philosophical tradition for his predictions based upon astrological conjunctions. For works attributed to Ja¯ ma¯ sp see: FUAT SEZGIN, Geschichte des arabischen Schrifttums, 4:59-60, 7:86-88; and E. BLOCHET, «Études sur le Gnosticisme musulman,» Rivista degli Studi Orientali, 4 (1911-12), 278-91. Ja¯ ma¯ sp’s particular association with apocalypticism in pre-Islamic Persian literature is described in TORD OLSSON, «The Apocalyptic Activity: The Case of Ja¯ ma¯ sp Na¯ mag», in Apocalypticism in the Mediterranean World and the Near East, ed. David Hellholm, Second Enlarged Edition (Tübingen: J. C. B. Mohr [Paul Siebeck], 1989), 21-49. 49 MOLÉ, «Les Kubrawiya entre Sunnisme et Shiisme,» 131, based upon Ja¯ ma¯ sp-na¯ ma az gufta¯ r-i Kwa¯ ja Nas¯ır Tu¯ sı¯ (MS. Ayasofya 4795, Süleymaniye Library, Istanbul, 824b-826a). I was unable to see ¯ ˙ ˙ this manuscript personally since it was under repair in Spring 1999. 44

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made privy to cosmic secrets in visionary encounters50. The greatest fund of Nu¯ rbaksˇ’s proofs for his Mahdı¯hood come from the experiences of his teachers ¯ and followers who were all made aware of his status through dreams and visions. Some of these are told outright that Nu¯ rbaksˇ is the awaited Mahdı¯51, ¯ while others see him protected by the angel Gabriel like prophets, or find him occupying exalted heavenly stations due to his knowledge52. Nu¯ rbaksˇ claims ¯ that all spiritual adepts alive during his lifetime can identify him and that at the moment of writing the Risa¯ lat al-huda¯ , they all expect the fulfillment of the Mahdı¯’s traditional mission through Nu¯ rbaksˇ’s inevitable triumph53 ¯ A fundamental difficulty faced by any Mahdı¯ relying on Islamic messianic traditions is the necessity of subverting the views of those who already regard a specific person as the Mahdı¯. Nu¯ rbaksˇ was faced with this issue with respect to ¯ Jesus, considered the Mahdı¯ by many Sunnı¯s, and Muhammad b. al-Hasan, the ˙ ˙ Twelfth Ima¯ m, who was the unequivocal Mahdı¯ for Twelver Sˇ ¯ıc¯ıs and had even 54 been accepted by many Sunnı¯s by the thirteenth century . Nu¯ rbaksˇ’s solution ¯ to this problem was the concept of buru¯ z or baraza¯ t (‘spiritual projection’) through which the souls of deceased individuals can reappear in the terrestrial world. As he explains in the Risa¯ lat al-huda¯ : Spiritual projection of the perfecting saints (baraza¯ t al-mukammil) is not transmigration (tana¯ suk). These differ in that transmigration occurs when a soul de¯ parts one body and enters an embryo ready for a soul – meaning in the fourth month after the sperm first settles in the womb – and this removal from one body and arrival at the other occurs instantaneously, without a time interval. However, projection occurs when a perfecting soul pours into a perfect being (ka¯ mil), in the same way as epiphanies pour into him and he becomes their locus of manifestation (mazhar)55. ˙

Nu¯ rbaksˇ claims that, through the process of projection, his own body has ¯ become the receptacle for the souls of Muhammad (in the form of the primor˙ dial Muhammadan Reality), Jesus, the Twelfth Ima¯ m, and prominent su¯ fı¯ sha˙ ˙ 50 For a full account of Nu¯ rbaksˇ’s worldview see BASHIR, Messianic Hopes and Mystical Visions ¯ (forthcoming). 51 NURBAKSˇ, Risa¯ lat al-huda¯ , 25-27. ¯ 52 Ibid., 27. 53 Ibid. 54 MADELUNG, «al-Mahdı¯» 5:1236. Madelung cites the Kita¯ b al-baya¯ n fı¯ akba¯ r sa¯ hib az-zama¯ n of ¯ as˙ well ˙ as works by the Syrian Sˇ a¯ fic¯ı traditionist Muhammad b. Yu¯ suf al-Ganjı¯ al-Qurasˇ¯ı (d. 658/1260), ˙ a al-cAdawı¯ an-Nis¯ıbı¯nı¯ (writing in 650/1252) and the Sibt Ibn al-JaKama¯ l ad-Dı¯n Muhammad b. Talh ˙ of˙ this trend. ˙ ˙ wzı¯ (d. 654/1256)˙ as examples 55 NU¯ RBAKsˇ, Risa¯ lat al-huda¯ , 21. For the use of the term buru¯ z by other su¯ fı¯s see BASHIR, Messianic ¯ ˙ Hopes and Mystical Visions (forthcoming).

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The Risa¯ lat al-huda¯ of Muhammad Nu¯ rbaksˇ ˙ ¯

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ykhs such as cAlı¯ Hamada¯ ni¯56. To obviate the Twelver objection to his claim in particular, he argues that the limitation of the number of Ima¯ ms to twelve was actually a lie promulgated by the cAbba¯ sids who wanted to deprive Sˇ ¯ıc¯ıs of capable leaders. The twelfth Ima¯ m Muhammad b. al-Hasan, according to him, ˙ ˙ had died a natural death like his forefathers, and the line of Ima¯ ms was to continue after him in a normal fashion57. However, he does not identify any other individuals as Ima¯ ms between the Twelfth Ima¯ m and himself. The narrative of the Risa¯ lat al-huda¯ makes it clear that Nu¯ rbaksˇ had unwa¯ vering faith in the truth of his identity and the inevitable fulfillment of his mission. According to a calculation collating a popular hadı¯t report with an astro˙ ¯ logical prediction, he states that the full extent of his political power as the Mahdı¯ would be realized only when he would turn eighty58. This of course did not happen since Nu¯ rbaksˇ died at the age of seventy-two solar (or seventy-four ¯ lunar) years, though the fact that some of his descendants continued to believe in the claim makes it likely that Nu¯ rbaksˇ did not resign from the idea even at ¯ his deathbed. He writes in the Risa¯ lat al-huda¯ that, based upon a direct divine command, the great prophets and saints of the past had forced him to accept his designation even against his will. If it were up to him solely, he would rather travel the world in the manner of his Kubrawı¯ predecessor cAlı¯ Hamada¯ nı¯, but this luxury was not available to him. Appropriately summarizing Nu¯ rbaksˇ’s ¯ perspective, the Risa¯ lat al-huda¯ concludes with the following words: «I cannot oppose what God, His messenger, and many among His saints, have commanded me. I place my trust in God, delegate my affairs to Him, and await what He has promised me. He is the ‘best of the victorious’ (3:150)»59.

THE MANUSCRIPTS Two manuscripts of the Risa¯ lat al-huda¯ in Turkey were identified by Marijan Molé in 1961 who also stated his intention of preparing an edition, which eventually never materialized60. To date, no other manuscripts have surfaced anywhere else in the world. Both known manuscripts are in the Süleymaniye library in Istanbul (Ascad [Esad] Efendi 3702, folios 85b-108a, and Fa¯ tih 5367, ˙ folios 101a-139a) and are generally highly readable and free of debilitating er-

56 57 58 59 60

NU¯ RBAKSˇ, Risa¯ lat al-huda¯ , 24-25, 28-29, 34. ¯ Ibid., 34. Ibid., 27. Ibid., 36. MOLÉ, «Les Kubrawiya entre Sunnisme et Shiisme,» 128, 131-37.

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rors61. In preparing the edition, I have used Ascad Efendi 3702 as the primary basis (denoted by ‘A’ in the critical apparatus) since it is dated (Constantinople, 26 Juma¯ da I, 1003 /February 6, 1595) and is generally more reliable62. The two manuscripts may belong to the same manuscript tradition, though it is impossible to prove or disprove this definitively based upon the available evidence. As mentioned above, the Risa¯ lat al-huda¯ contains a long list of names of Nu¯ rbaksˇ’s followers inserted in the middle of the narrative. This list has been ¯ separated out in the edition below (Part Two) to facilitate the flow of Nu¯ rbaksˇ’s argument. Furthermore, each entry in the original list is followed by exten¯ sive praises for the spiritual qualities of the person named, which makes for tedious reading. I have omitted these praises in the edition, retaining only those matters that differentiate the person in question from others. Including this repetitious matter here would have lengthened the edition considerably without adding substantively to our understanding of the work. Textual variants are noted in the apparatus at the bottom of the page while the notes following the text provide contextual information and identify individuals named to the extent possible. SHAHZAD BASHIR

61 I am grateful to the Süleymaniye library for allowing me to see the manuscripts and providing microfilms during the summer of 1994. 62 Folio numbers for this manuscript are marked in square brackets within the edited text.

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Notes to Arabic Text 1. Cf. BADI¯c AZ-ZAMA¯ N FURU¯ ZA¯ NFAR, Aha¯ dı¯t-i matnawı¯ (Tehran: Amı¯r Kabı¯r, ˙ ¯ ¯ 1361/1983), 25-26. 2. Ibid., 28-29. 3. Cf. MUHAMMAD BA¯ QIR MAJLISI¯, Biha¯ r al-anwa¯ r (Tehran: Matbaca al-Isla¯ mı¯ya, ˙ ˙ ˙ 1956-72), 23:79-95 which cites this tradition in twenty-six different forms. c c 4. Cf. ALI¯ AL-KU¯ RA¯ NI¯, Mu jam aha¯ dı¯t al-Ima¯ m al-Mahdı¯, nos. 64, 69, 70, 75, 85, ˙ ¯ 93. This recent compilation contains all Sˇ ¯ıc¯ı as well as Sunnı¯ hadı¯t reports rela˙ ¯ ting to the Mahdı¯ with full references to the original sources. 5. Ibid., nos. 74, 76, 81. 6. Ibid., nos. 71, 72, 88. 7. Ibid., nos. 222, 235. 8. Ibid., no. 90. 9. Ibid., nos. 44, 53. 10. Ibid., nos. 139, 144, 319. 11. Ibid., nos. 139, 144. 12. Ibid., no. 91. 13. Ibid., no. 73. 14. Ibid., no. 251. 15. Ibid., no. 253. 16. Ibid., no. 110. 17. Ibid., no. 154. 18. Ibid., no. 230. 19. Ibid., no. 2. 20. For Ibn al-cArabı¯’s own description of this dream see his al-Futu¯ ha¯ t ˙ al-makkı¯ya (Beirut: Da¯ r Sa¯ dir, 1968), 1:318-19. The context for this dream in ˙ c Ibn al- Arabı¯’s work is discussed in MICHEL CHODKIEWICZ, The Seal of the Saints (Cambridge, UK: The Islamic Texts Society, 1993), 128-29. 21. For the life and work of Sacd ad-Dı¯n Hamuwayı¯ (d. 649/1252) see JAMAL ˙ ELIAS, «The Sufi Lords of Bahrabad», Iranian Studies 27, nos. 1-4 (1994), 53-75. 22. This verse forms a part of Hamuwayı¯’s general speculation on the basmala ˙ formula (cf. Kita¯ b sˇarh-i bismilla¯ h, MS. Çorlulu Ali Pas¸a 445, Süleymaniye Li˙ brary, Istanbul, fols. 1b-7b). The verse is discussed by Ibn al-Karbala¯ ’ı¯ (Rawda¯ t ˙ al-jina¯ n wa janna¯ t al-jana¯ n, 2:392), and appears also as a justification for messianic expectation in an excerpt from a Huru¯ fı¯ work (HASAN B. HAYDAR ASTARA¯˙ ˙ ˙ BA ¯ DI¯, az Hida¯ yatna¯ ma, MS. Farsça 139, Istanbul University Library, fols. 57b-58a). 23. For extant manuscripts of this work see ELIAS, «Sufi Lords of Bahrabad».

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24. Ahmad al-Quraysˇ¯ı is mentioned as a companion below (p. 30), though Nu¯ r˙ baksˇ provides no specific information about him. ¯ 25. Da¯ ya (d. 654/1256) was a major disciple of Najm ad-Dı¯n Kubra¯ , the eponym of the Kubrawı¯ order. For his life and work see the Introduction in The Path of God’s Bondsmen from Origin to Return, tr. Hamid Algar (Delmar, California: Caravan, 1982). 26. Tu¯ sı¯ (d. 672/1274) was the last of the great Islamic polymaths in the tradi˙ tion of Ibn Sı¯na¯ . For his life and work see MUDARRIS RADAWI¯, Ahwa¯ l wa a¯ ta¯ r-i ... ˙ ¯ ˙ Muhammad b. Muhammad b. al-Hasan at-Tu¯ sı¯ mulaqqab bi-Nas¯ır ad-Dı¯n ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ (Tehran: Bunya¯ d-i Farhang-i Ira¯ n, 1354/1976). 27. See notes 48 and 49 in Introduction. 28. For Simna¯ nı¯ (d. 736/1336), a towering figure in the Kubrawı¯ silsila, see JAc MAL ELIAS, The Throne Carrier of God: The Life and Thought of Ala ¯ ’ ad-dawla as-Simna¯ nı¯ (Albany: State University of New York Press, 1995). 29. Mahmu¯ d Mazdaqa¯ nı¯ (d. 766/1364-65) was a student of Simna¯ nı¯ who occurs ˙ in Nu¯ rbaksˇ’s silsila (MUHAMMAD NU¯ RBAKSˇ, Risa¯ la-yi kasˇf al-haqa¯ ’iq, MS. Persan ˙ ˙ ¯ ¯ 39, Bibliothèque Nationale, Paris, 63b-64a). 30. This statement implies that Nu¯ rbaksˇ’s father died in 802/1399-1400. ¯ ¯ yatı¯ calls the village 31. Muhammad Husayn A Sı¯waja¯ n and states that it is in the ˙ ˙ district of Sanja¯ bru¯ d near Qa¯ ’ı¯n (Baha¯ rista¯ n dar ta¯ rı¯k wa tara¯ jim-i rija¯ l-i Qa¯ yina¯ t ¯ wa Quhista¯ n [Masˇhad: Intisˇa¯ ra¯ t-i Da¯ nisˇga¯ h-i Firdu¯ sı¯, 1992], 17). 32. Nu¯ rbaksˇ’s understanding of physiognomy explains why the Mahdı¯ could ¯ not have blue eyes. He writes that blue gray eyes are a sign of immodesty or shamelessness (bı¯sˇarmı¯), whereas eyes between dark and light blue indicate fear (tars) and cowardliness (jubn) (NU¯ RBAKSˇ, Insa¯ n-na¯ ma, 84b). ¯ 33. cAbd ar-Rahma¯ n al-Quraysˇ¯ı is mentioned in the hagiographic collection Sil˙ silat al-awliya¯ ’ attributed to Nu¯ rbaksˇ (cf. MUHAMMAD TAQI¯ DA¯ NISˇPAZˇ UH, ed., ¯ ˙ «Silsilat al-awliya¯ -yi Nu¯ rbaksˇ-i Quhista¯ nı¯», in Mélanges offerts à Henry Corbin, ¯ ed. Seyyed Hossein Nasr [Tehran: McGill University Institute of Islamic Studies, Tehran Branch, 1977], 48). 34. For Kuttala¯ nı¯ (d. 826/1423), Nu¯ rbaksˇ’s immediate teacher in the Kubrawı¯ ¯ ¯ silsila, see BASHIR, Messianic Hopes and Mystical Visions (forthcoming). 35. cAlı¯ Hamada¯ nı¯ (d. 786/1385) was Kuttala¯ nı¯’s teacher and the greatest in¯ fluence on Nu¯ rbaksˇ’s thought. For his life and work see GERHARD BÖWERING ¯ c « Alı¯-yi Hamada¯ nı¯», Encyclopedia Iranica, 1:862-64, and JOHANN KARL TEUFEL, Eine Lebensbeschreibung des Scheichs cAlı¯-i Hamada¯ nı¯ (Leiden: E. J. Brill, 1962). 36. Mahmu¯ d al-Ka¯ mil was a disciple of cAlı¯ Hamada¯ nı¯ (cf. IBN AL-KARBALA¯’¯I, ˙ Rawda¯ t al-jina¯ n, 2:248). ˙ 37. Bag¯ la¯ nı¯ was one of Nu¯ rbaksˇ’s earliest and most trusted disciples (p. 37 be¯ low). He is probably the su¯ fı¯ named Kalı¯l who saw a dream in which light de˙ ¯

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scended upon Nu¯ rbaksˇ from the sky and was dispersed to others through him. ¯ This incident inspired Kuttala¯ nı¯ to bestow the title ‘Nu¯ rbaksˇ’ (giver of light) on ¯ ¯ his young disciple in the period before the Mahdist proclamation (cf. IBN ALKARBALA¯’¯I, Rawda¯ t al-jina¯ n, 2:248-9). Kalı¯l is mentioned also as a companion of ˙ ¯ both Kuttala¯ nı¯ and, before him, cAlı¯ Hamada¯ nı¯ (cf. HAYDAR BADAKSˇ¯I, Manqabat ˙ ¯ ¯ al-jawa¯ hir, MS. India Office 1850, British Library, London, 376a, 392a). 38. Mentioned below as a companion (p. 37) where Nu¯ rbaksˇ states that he was ¯ a disciple of Kuttala¯ nı¯ before accepting Nu¯ rbaksˇ as his guide. ¯ ¯ 39. Ibid. 40. Sˇ iha¯ b ad-Dı¯n Ju¯ ra¯ nı¯ is mentioned in the list of companions below (p. 42) where Nu¯ rbaksˇ praises him for his fidelity and his abilities in interpreting ¯ dreams. The Risa¯ la-yi nu¯ rı¯ya, one of Nu¯ rbaksˇ’s principle mystical works, is also ¯ dedicated to Ju¯ ra¯ nı¯ (cf. SADAQIYA¯ NLU¯, Tahqı¯q dar ahwa¯ l wa a¯ ta¯ r, 148). ˙ ˙ ¯ ˙ 41. This refers to Nu¯ rbaksˇ’s imprisonment in a well in Herat after his first alter¯ ˇ cation with the Tı¯mu¯ rids (SUSˇTARI¯, Maja¯ lis, 2:145) 42. Mentioned in the list of companions below (pp. 43-44). 43. This is probably the same as the Husayn Kalka¯ lı¯ mentioned below (p. ˙ ¯ ¯ 47). 44. Mentioned below as a companion (p. 44). 45. See note 42 above. 46. See note 9 above. 47. See note 20 on Ibn al-cArabı¯ above. 48. The list following this statement is edited as Part Two of the work below. 49. Mentioned in the list below (p. 42) where Nu¯ rbaksˇ states that he used to say ¯ verses in a state of spiritual intoxication. He died as a young man after achieving perfection as a guide. 50. Prophetic hadı¯t reported by Muslim, Tirmid¯ı, and Ibn Hanbal. ˙ ¯ ¯ ˙ 51. See note 3 above. 52. Reported in Buka¯ rı¯ and Tirmid¯ı in the form: hum al-julasa¯ ’ la¯ yasˇqa¯ bihim ¯ ¯ jalı¯suhum. 53. Cf. Muslim, Abu¯ Da¯ wu¯ d, Tirmid¯ı, and Ibn Hanbal where the report ap¯ ˙ pears as: man dalla cala¯ kayr falahu mitl ajar fa¯ cilihi. ¯ ¯ 54. This concept is explained above (p. 21). 55. Cf. Ibn Ma¯ ja. 56. Mentioned in the list of companions below (p. 37). 57. This famous hadı¯t is the cornerstone of traditional Islamic heresiography ˙ ¯ (cf. ISRAEL FRIEDLANDER, «The Heterodoxies of the Shiites in the Presentation of Ibn Hazm», Journal of the American Oriental Society 28 [1907], 6-7). 58. Cf. Buka¯ rı¯, Tirmid¯ı, Ma¯ lik, and Ibn Hanbal where the text states: iyya¯ kum ¯ ¯ ˙ wa-z-zann fa-inna z-zann akdab al-hadı¯t. ˙˙ ˙˙ ¯ ˙ ¯

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59. This saying occurs under the title «Qisa¯ r al-hikam» in Nahj al-bala¯ g¯ a (cf. ˙ ˙ KA¯ ZIM MUHAMMADI¯ and MUHAMMAD DASˇTI¯, al-Mucjam al-mufahras li-alfa¯ z Nahj ˙ ˙ ˙ ˙ al-bala¯ g¯ a [Beirut: Da¯ r al-Adwa’, 1986], 114). 60. A work attributed to Nu¯ rbaksˇ’s disciple cAla¯ ’ ad-Dı¯n Kiya¯ (p. 46 above) was ¯ composed on the request of this Isha¯ q Multa¯ nı¯ (cf. SADAQIYA¯ NLU¯, Tahqı¯q dar ˙ ˙ ˙ ahwa¯ l wa a¯ ta¯ r, 10). ˙ ¯ 61. Nu¯ rbaksˇ’s extant works contain a letter to cAla¯ ad-Dı¯n Kiya¯ (SADAQIYA¯ NLU¯, ˙ ¯ Tahqı¯q dar ahwa¯ l wa a¯ ta¯ r, 86-88). ˙ ˙ ¯ 62. A Tadkira-yi mazı¯d attributed to Muhammad Samarqandı¯ (which does not ¯ ˙ survive) is noted as the chief source for the biography of Nu¯ rbaksˇ given in Sˇ u¯ sˇtarı¯’s Maja¯ lis al-mu’minı¯n (2:143-5). 63. Qa¯ sim Faydbaksˇ was Nu¯ rbaksˇ’s successor as the head of the Nu¯ rbaksˇ¯ı or˙ ¯ ¯ ¯ der following the Mahdı¯’s death. For his life and activities see BASHIR, Messianic Hopes and Mystical Visions (forthcoming). 64. Jacfar’s name appears in some later sources dealing with the Tı¯mu¯ rid court at Herat (cf. BASHIR, Messianic Hopes and Mystical Visions, forthcoming). 65. Both manuscripts give the nisba as ‘Kawkawı¯’ (or some other vocalization), although this person is likely to be the Husayn ‘Kawkabı¯’ mentioned as a pro˙ minent Nu¯ rbaksˇ¯ı sˇayk in the period following Nu¯ rbaksˇ’s death in the Tuhfat al¯ ¯ ¯ ˙ ahba¯ b of MUHAMMAD cALI¯ KASˇMI¯RI¯ (MS. cAwn cAlı¯ Sˇ a¯ h, Baltista¯ n [Pakistan], 22˙ ˙ 23). The Tuhfat al-ahba¯ b is very rare work on Nu¯ rbaksˇ¯ı history that survives ˙ ˙ ¯ only in manuscripts in Baltista¯ n and Kashmir. My references here are to pages in the photocopy of a complete manuscript (copied 1052/1642) belonging to ¯ ula¯ m Hasan the late pı¯r of Nu¯ rbaksˇ¯ıs in Kaplu, Baltista¯ n. I am thankful to G ¯ ¯ ˙ Suhrawardı¯ Nu¯ rbaksˇ¯ı of Kaplu for very graciously providing me a copy of his ¯ ¯ own photocopy of this manuscript. A summary Urdu translation of this work has now been published in Baltista¯ n (Tuhfa-yi Kasˇmı¯r, tr. Muhammad Rida¯ ˙ ˙ ˙ Aku¯ ndza¯ da [Kaplu: Bara¯ t Library, 1997]). ¯ ¯ 66. Muhammad g¯ aybı¯ is also mentioned as a Nu¯ rbaksˇ¯ı s¯ayk in KASˇMI¯RI¯, Tuhfat ˙ ˙ ¯ ¯ al-ahba¯ b, 72. ˙ 67. See notes 18 and 19 in Introduction. 68. Husa¯ m ad-Dı¯n Bidlı¯sı¯ migrated to the Ottoman empire and died in Bidlı¯s in ˙ 900/1494-5. He is credited with an extensive tafsı¯r and commentaries on the works of cAbd ar-Razza¯ q Qa¯ sˇa¯ nı¯ and Mahmu¯ d Sˇ abistarı¯ (cf. MUHAMMAD TA¯ HIR ˙ ˙ ¯ mira, 1333˙ AH], 1:58). Bursalı, Osmanlı muellifleri [Istanbul: Matbac-yi cA ˙ 69. Burha¯ n Bag¯ da¯ dı¯ is mentioned as a prominent Nu¯ rbaksˇ¯ı master in KASˇMI¯RI¯, ¯ Tuhfat al-ahba¯ b, 13. ˙ ˙ 70. Ibid., 17-18.

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ON A TERRACOTTA FIGURINE FROM UCH KULAKH (BUKHARA OASIS) The wealth of anthropomorphic and zoomorphic baked-clay images housed in Central Asian museums testifies to the fortune that in ancient times coroplastics enjoyed all over Transoxiana. As a matter of fact, from the 3rd-2nd centuries BC up to the 5th century AD circa – that is from the Hellenistic period up to the eve of the Early Medieval cultural blooming1 – terracotta figurines represent a major source for the study of the religious beliefs and, in general, of the artistic production of pre-Islamic Central Asia. This is particularly true for Sogdiana, as no examples of monumental sculpture or painting (with the only exception of the Erkurgan fragments) can be dated to this long period. Praiseworthy attempts have been made to put order in the huge amount of Central Asian terracottas. This is by no means an easy task, as the largest part of the material is formed by stray finds (only a relatively meagre percentage of the figurines comes from reliable stratigraphic contexts). Nonetheless scholars have tried to build up typologic classifications which, due to the scantiness or even the lack of firm chronological landmarks (this is the case, for instance, of the Afrasiab terracottas, which represent the bulk of Sogdian coroplastics)2, are necessarily based upon iconographic and stylistic grounds. Such are the criteria of the classifications worked out by G.A. Pugacˇ enkova for the clay figurines from Margiana and Bactria, by M.G. Vorob’eva for Chorasmian terracottas and, above all, by V.A. Mesˇkeris for the rich coroplastic repertory that Sogdia has so far generously yielded, her Koroplastika Sogda (1977) and Sogdijskaja terrakota (1989) being perhaps the most notable efforts towards a comprehensive analysis of this production. Yet there are still substantial problems to be solved. Both the iconogra-

1

We shall set aside the Bronze Age coroplastics, abundantly attested especially in Mar-

giana. 2 There are, of course, a few exceptions, such as, for example, the clay figurines from Dalverzin Tepe or Kara Tepe, in Bactria, and those from Erkurgan, in Sogdia.

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phic and stylistic approaches are sometimes not very rigorous3 and a priori schemata are given overwhelming weight. This seems to be case with the postulation of a ‘‘Hellenistic’’ phase within this production, a phase which, according to several scholars, is represented almost throughout Central Asia. However, as we remarked above, no stratigraphic finds are known from this epoch and a ‘‘Hellenistic’’ date for a certain amount of Margian, Bactrian and Sogdian terracottas is inferred from their ‘‘Western’’ attire and from the naturalistic rendering of their physiognomy and stance. Such an assumption is not as obvious as it may seem if we remember that the persistence or even a later spread of Classical iconographic and stylistic patterns up to the first centuries AD is a well attested phenomenon from the Parthian empire to Gandhara. The fact that the Greek town of Ai Khanum yielded almost no Hellenistic coroplastics4 makes the presumption of a ‘‘Hellenistic phase’’ in Central Asian coroplastics even more conjectural.

Fig. 1a-b – Terracotta figurine from Uch Kulakh (front view and three-quarter view) (Photo F. Filipponi).

From a religious viewpoint, the analysis of these figurines still has many a point to clarify. A conspicuous amount of Central Asian terracottas represent 3

See Grenet’s (1991) and Staviskij’s (STAVISKY 1996) reviews of Mesˇkeris 1977 and 1989. The clay figurines found in the town can be safely ascribed to the Kushan epoch, see ABDUL1996. 4

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female figures, all of which are considered to portrait a local goddess, characterised, in the various regions, by a specific attire and attribute (when she holds one). Unfortunately there are no local written sources apt to shed light onto the identity of these deities and there are no iconographic analogies we could point out between them and the deities depicted on Kushan coinage, on the one hand, and with those occurring in early Medieval painting, on the other. Moreover there seem to be no grounds to relate them with anyone of the goddesses described in Mazdean literature; in particular, as rightly suggested by Lelekov (1985) and Pugacˇ enkova (1992: 51), the hypothesis that part of these figurines may represent the Iranian water goddess Anahita should be definitely abandoned. All things considered, we are not in a position to give a name to any of the Bactrian, Margian, Chorasmian and Sogdian goddesses. To the manifold repertory sketched above we can now add a further piece of evidence, which is the main subject of our short notes. During the 1998 Uzbek-Italian excavation campaign in the site of Uch Kulakh (Bukhara)5, a baked red-clay statuette depicting a female figure (height: 10 cm; width 3,5 cm) was brought to light (fig. 1a-b). It is integrally preserved, although the relief is rather worn. The figure was most probably moulded, the back side being left flat. She is represented as standing in a frontal position. The head is disproportionally large with regard to the rest of the body. Her voluminous hair-dress is rendered with parallel oblique diverging lines and tied with a narrow band or a diadem over the forehead (a circular motif above the right temple might represent an ornament). She has oval face with small chin, large almond (almost rhomboid) eyes with eyelids and pupils in strong relief; a protuberance in the middle of the forehead might be what remains of an ornament or tattoo; nose and lips are much worn. Her neck is adorned with a pearl necklace within two plain fillets; she wears a mantle with waist-belt, below which it falls with regular parallel folds; the ‘‘V’’ shaped opening is decorated by a double row of pearls; feet and arms are not indicated. Let us now try to give the Uch Kulakh statuette a place in the multifarious scenery of Central Asian terracotta goddesses. To begin with, the circumstances of its finding (a stratigraphical context seriously disturbed by one of the many pit-holes dug in the Islamic period) deprive us of any chronological clue. Therefore we are bound to resort to the iconographic criterium, which, on the other hand, provides interesting results. Our statuette, in fact, seems not to match anyone of the well-established types of Sogdian terracotta goddesses. Their attire – often a tunic covered by a long mantle – is profusely ornamented and they very often hold an attribute (a 5

See Silvi Antonini (in print).

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fruit, a cup, a branch or a wheat-ear); the general stylistic treatment is also quite different. A few moulded terracotta figurines were also unearthed in the Varakhsha area; a group of them, representing one and the same subject (although by means of different moulds), were found at Ayak Tepe 2 (fig. 2)6. All of them represent a female figure wearing a folded tunic and a pearl necklace, resting her right hand on the womb; however both in the general rendering and in the iconographic details there is almost nothing in common our terracotta; the difference is particularly evident if we compare the sharp, almost plastic physiognomic traits (head and face) of the Ayak Tepe figurines with the flatness of our statuette.

Fig. 2 – Terracotta figurines from Ayak Tepe 2 (after Culture and Art of Ancient Uzbekistan, I, Moscow 1991).

We do not find closer analogies in Margiana, where female figurines (usually holding a cup or a mirror) are dressed in long tunics which are either richly draped or literally covered with impressed circles. No direct comparisons can be pointed out in a series of clay female figurines from the middle Amu Darya (KOSˇELENKO [ed.], 1985: tab. CVI), nor do we find similarities in the repertory of ‘‘Chorasmian goddesses’’, which in their attire, physiognomy and attributes represent in their turn a peculiar tradition (VOROB’EVA 1981). Unexpectedly enough the Uch Kulakh goddess finds closer analogies in the Bactrian repertory of female statuettes, namely among the terracottas unearthed at Dalverzin Tepe. As for the dress, we may compare our statuette to the lute-player

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See Sˇ ISˇKIN 1963: fig. 73, and ABDULLAEV et alii (eds.) 1991: I, figs. 247-248.

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found in the house DT-6 (fig. 3)7; in fact the lower part of the girted mantle is rendered in a very similar fashion (straight parallel folds); we may compare also the high arched hair-dress with radial lines above the forehead, the oval face with pointed chin, the almond eyes with thick eyelids, an ornament or tattoo in the middle of the forehead. Also in another female figurine (fig.4), unearthed in a small shrine (DT-9) within the potters’ quarter, the mantle falls down in straight parallel folds below the waist, moreover it shows a ‘‘V’’ opening; in this case, however, the figure wears also a ‘‘himation’’, the lower part of which is visible below the thick-bordered lower hem of the mantle. The hair is rendered with radiant lines above the forehead and with straight vertical lines on both sides of the face; the forehead shows a flower-like (?) ornament or tattoo.

Fig. 4 – Terracotta figurine from Dalverzin Tepe (after PUGACˇ ENKOVA 1978: fig. 40).

Fig. 3 – Terracotta figurine from Dalverzin Tepe (after PUGACˇ ENKOVA 1978: fig. 42).

We think that the similarities between the Dalverzin Tepe terracottas and the statuette from Uch Kulakh are significant enough as to authorize the hypothesis that the latter might have been manufactured in Bactria and that, in some 7 A mould depicting the same figure was found in the town outskirts: PUGACˇ ENKOVA 1978: 62, N. 41; PUGACˇ ENKOVA (ed.) 1991: n. 66.

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way, it reached the Sogdian site. What is particularly interesting from an archaeological viewpoint is that, according to the chronology proposed by Pugacˇ enkova, the Dalverzin terracottas date to the 1st-2nd centuries AD. The attribution of the Uch Kulakh statuette to the same chronological span – that we may cautiously extend to the 3rd century – would represent (together with the finding of a coin of the Kushan king Vasudeva) an interesting hint pointing to a much earlier settlement than the Early Medieval fort we are at present bringing to light. A hypothesis that the prosecution of the excavation may confirm. CIRO LO MUZIO

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REFERENCES ABDULLAEV, K. (1996) Terrakotovaja plastika Aj-Chanum, in Rossijskaja Archeologija, 1, pp. 55-67. ABDULLAEV, K. et alii (ed.) (1991), Culture and Art of Ancient Uzbekistan, 2 vols., Moskva. GRENET, F. (1991) Review to MESˇKERIS 1989, in Abstracta Iranica, 14, pp. 65-66. KOSˇELENKO, G.A. (ed.) (1985) Drevnejsˇie gosudarstva Kavkaza i Srednej Azii, Moskva. LELEKOV, L.A. (1985) Voprosy interpretacii sredneaziatskoj koroplastiki ellinisticˇeskogo vremeni (po materialam Zartepe), in Sovetskaja archeologija, 1, pp. 55-60. MESˇKERIS, V.A. (1962) Terrakoty Samarkandskogo muzeja. Katalog, Leningrad. MESˇKERIS, V.A. (1977) Koroplastika Sogda, Dusˇanbe. MESˇKERIS, V.A. (1989) Sogdijskaja terrakota, Dusˇanbe. PILIPKO, V.N. (1977) Zˇ enskie kul´tovye statuetki s beregov Srednej Amudar´i, in Sovetskaja archeologija, 1977, I, pp. 187-202; [PUGACˇ ENKOVA] POUGATCHENKOVA, G.A. (1978) Les trésors de Dalverzine-Tépé, Leningrad. [PUGACˇ ENKOVA] PUGACHENKOVA, G.A. (1992) New Terracottas from North Bactria, in East and West, 42, 1, pp. 49-67. PUGACˇ ENKOVA, G.A. (ed.) (1991) Drevnosti Juzˇnogo Uzbekistana, Soka. SILVI ANTONINI, CH. (in print) Gli scavi della missione archeologica italiana in Uzbekistan. In: Atti del convegno Oriente-Occidente. In ricordo di Mario Bussagli, Roma 1999. Sˇ ISˇKIN, V.A. (1963) Varachsˇa, Moskva 1963. STAVISKY, B. (1996) Review to MESˇKERIS 1977 and 1989, in Information Bulletin IASCCA, 20, pp. 233-235. VOROB’EVA, M.G. (1981) Chorezmijskie terrakoty, in Kul´tura i iskusstvo drevnego Chorezma, Moskva.

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¯ RA - A DIFFERENT APPROACH THE RTUSAMHA ˙ ˙ Most discussions of the Rtusamha¯ ra have centered around the question of ˙ ˙ its authorship. There are essentially only two schools of thought: the majority of scholars believe that it is a juvenile work by Ka¯ lida¯ sa, while a few deny that it is a work of Ka¯ lida¯ sa at all. The lengthy literature on this question is often paired with the seemingly unsolvable question of Ka¯ lida¯ sa’s date1. Furthermore, the editions of the Rtu. have been influenced by the editor’s position: if an editor ˙ believes that the Rtu. is the work of Ka¯ lida¯ sa, he shows a marked tendency to ˙ choose readings which best correspond to other works certainly by Ka¯ lida¯ sa. Thus R.P. DWIVEDI, commenting on Rtu. I.1, states as an editorial principle that ˙ «the present editor has not hesitated to change the word sada¯ into sukha¯ o on the ground of other similar usages of Ka¯ lida¯ sa...»2. The main external argument for rejecting the authorship of Ka¯ lida¯ sa is the fact that there is no commentary by Mallina¯ tha, who wrote commentaries on the other three poems which are generally agreed to be by Ka¯ lida¯ sa. Mallina¯ tha himself mentions only three lyrical poems of Ka¯ lida¯ sa. RA¯ GHAVAN argues that the Rtu. is so simple that it did not need a commentary3, which is largely true, ˙ but it does not explain why Mallina¯ tha uses the word traya in two cases4. 1 All the standard histories of Sanskrit literature (WINTERNITZ, MCDONNELL, DASGUPTA-DE, A.B. KEITH, et alia) attribute the Rtu. to Ka¯ lida¯ sa, sometimes with cautious reservations. A. SCHARPE includes ˙ the Rtu. in his Ka¯ lida¯ sa-Lexicon, V. RAGHAVAN (Rtu in Sanskrit Literature, pp. 38-58) argues forcefully ˙ ¯ lida¯ sa’s authorship, MIRASHI and NAVLEKAR ˙ affirm that «It has now been accepted on all hands for Ka that the two lyrics – the Ritusamha¯ ra and the Meghadu¯ ta... are definitively the works of Ka¯ lida¯ sa». ˙ ˙ (1969, p. 107) A. HILLEBRANDT (1921, pp. 66-68) sums up of the arguments on both sides, and opts in the end for Ka¯ lida¯ sa. Among the few against Ka¯ lida¯ sa are notably J. NOBEL (1912), KARMARKAR (1971) and K. KRISHNAMOORTHY (1972, pp. 21-27), who is very critical of the Rtu.: «one need not regret if scholarship ultimately proves that this work is apocryphal» (p. 27). ˙ 2 DWIVEDI gives S´ akuntala¯ I.3 and Raghuvams´a XVI.54 as examples. See DWIVEDI edition p. ˙ liv. 3 V. RAGHAVAN: Rtu in Sanskrit Literature, p. 39. ˙ 4 In the introduction to his commentary on the Raghuvams´a Mallina¯ tha says: mallina¯ thakavih ... ˙ ayasa¯ gar, Mumbaı¯ 1948. According ˙ vya¯ caste ka¯ lida¯ sı¯yam ka¯ vyatrayam ana¯ kulam, p. 1, Velan˙ kar ed., Nirn ˙˙ ˙ ˙

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What about the work itself? A reading of the text reveals a persistent pattern of repetitions, as was already observed by JOHANNES NOBEL in 19125, who draws attention to the frequency of the past participles tapta (I.13, abhitapta IV.14, samtapta I.27) and ta¯ pita (I.10, 11, 20) and the derivatives a¯ tapa (I.10, 11, ˙ 20 IV.13) and ta¯ pa (II.23, 27) in the first sarga. KALE also noted this, and dismissed the poem with the scornful sentence «It is ill put together, rude and full of tame repetitions»6. Neither NOBEL nor KALE believed that the Rtusamha¯ ra ˙ ˙ was written by Ka¯ lida¯ sa, but this did not prevent the latter from using the title «The Rtusamha¯ ra of Ka¯ lida¯ sa». ˙ ˙ In fact, repetitions and clichés of many types permeate the whole work: the women have the obligatory round and full breasts (stana-mandala and pı¯na˙˙ payodhara), ample hips (nitamba-bimba, s´roni-tata), lotus faces, red lips, white ˙ ˙ teeth, masses of black hair, the lovers have their minds distracted and befuddled in all seasons. These repetitions, I wish to suggest, are deliberate and very much part of the poem’s narrative structure. Nobel only paid attention to the repetition of the same word and its derivatives. In fact, the repetitions are far more subtle than that: there may be synonyms conveying the same idea or other devices (see below)7. Let us consider the following 5 verses from the second sarga which depicts the rainy season: II.18

s´iroruhaih s´ronitata¯ valambibhih ˙ ˙ ˙ ˙ krta¯ vatamsaih kusumaih sugandhibhih  ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ stanaih saha¯ rair vadanaih sası¯dhubhih ˙ ˙ ˙ striyo ratim samjanayanti ka¯ mina¯ m  ˙ ˙

II.19

tadil-lata¯ -s´akra-dhanur-vibhu¯ sita¯ h ˙ ˙ ˙ payodhara¯ s toya-bhara¯ valambinah  ˙ striyas´ ca ka¯ ñcı¯-mani-kundalojjvala¯ ˙ ˙˙ haranti ceto yugapat prava¯ sina¯ m 

II.20

ma¯ la¯ h kadamba-nava-kesara-ketakı¯bhir ˙ a¯ yojita¯ h s´irasi bibhrati yosito ’dya  ˙ ˙ karna¯ ntaresu kakubha-druma-mañjarı¯bhir ˙ ˙ iccha¯ nuku¯ la-racita¯ n avatamsaka¯ ms´ ca  ˙ ˙

to J. NOBEL (ZKMG LXVI, 1912, p. 281) Mallina¯ tha uses the words ka¯ lida¯ sa-traya-samjı¯vinya¯ m in his ˙ Keith commentary to Ma¯ gha’s S´ is´upa¯ lavadha 13, 24. There is a heated debate between J. Nobel˙ and A.B. if traya is to be interpreted as the three or just three (NOBEL, op. cit. and A.B. KEITH in JRAS 1912 and 1913). 5 J. NOBEL: ZDMG LXVI, 1912 pp. 275-282. 6 KALE ed. p. xi. 7 The meters will be discussed in a forthcoming monograph on the Rtu. ˙

[3]

The Rtusamha¯ ra - a different approach ˙ ˙ II.21

ka¯ la¯ guru-pracura-candana-carcita¯ n˙ gyah ˙ puspa¯ vatamsa-surabhı¯-krta-kes´a-pa¯ s´a¯ h  ˙ ˙ ˙ ˙ s´rutva¯ dhvanim jalamuca¯ m tvaritam pradose ˙ ˙ ˙ ˙ s´ayya¯ -grham guru-grha¯ t pravis´anti na¯ ryah  ˙ ˙ ˙ ˙

II.22

kuvalaya-dala-nı¯lair unnatais toya-namrair mrdu-pavana-vidhu¯ tair manda-mandam caladbhih  ˙ ˙ ˙ apahrtam iva cetas toyadaih sendra-ca¯ paih ˙ ˙ ˙ pathika-jana-vadhu¯ na¯ m tad-viyoga¯ kula¯ na¯ m  ˙

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In II.18 we find «women striyah with hair s´iroruhaih hanging down ˙ ˙ avalambibhih to the banks of the hips s´ronitata-, with ear ornaments avatamsaih ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ made of fragrant flowers kusumaih sugandhibhih, with breasts [decked with] ˙ ˙ pearl necklaces stanaih saha¯ rair, and their mouths with wine-[scented breaths] ˙ – [these women] give rise to the lust of [their] lovers ka¯ mina¯ m». In II.19 striyah is repeated, but the lovers ka¯ mina¯ m are replaced with the ˙ absent lovers prava¯ sina¯ m whose mind[s] is [are] distracted, lit. stolen by both the clouds and the women. The clouds payodhara with ‘vines of lightening’ tadil-lata¯ – taking up the pearl-decorated breasts saha¯ ra stana in the previous ˙ verse but with another or a double meaning – are hanging [low] full of water and are presumably dark as the hair hanging down in the previous verse – note the repetition of avalambin. The jewelled earrings mani-kundala allude to the ˙ ˙˙ earlier flower earrings avatamsa, and the girdle, ka¯ ñcı¯, presumably placed on ˙ the hips, alludes to s´roni in the preceding verse. ˙ In II.20 striyah is replaced by yositah, and the description of head and ear ˙ ˙ ˙ ornaments continues: the women wear on their heads – s´iras taking up s´iroruha in II.18 – garlands ma¯ la¯ h made of kadamba, kesara and ketakı¯ flowers8 and ear ˙ ornaments avatamsaka are again mentioned. The kakubha tree mentioned in ˙ II.20 is the same as the arjuna tree9 mentioned in II.17: kadamba-sarja¯ rjuna-ketakı¯-vanam. ˙ In II.21 the word avatamsa returns, now in the sense of ‘garland’ puspa˙ ˙ ¯vatamsa taking up ma¯ la¯ in II.20 and again decorating the fragrant hair surabhı¯˙ krta-kes´apa¯ s´a¯ h which alludes to s´iroruha in II.18 and s´iras in II.20 and the fra˙ ˙ grant sugandhin ear ornaments in II.18. The women, here na¯ ryah, have bodies ˙ smeared with sandalpaste candana and black aloe ka¯ la¯ guru: the yellow sandalwood paste reminds the reader (or listener) of the golden-white flowers in 8 kadamba (Neolamarckia cadamba) and ketakı¯ – the unpoetic screwpine, Pandanus odorantissimus, have yellow flowers, while kesara (Crocus sativus) usually has blue flowers; but since kesara generally refers to its product saffron it also implies yellow. 9 Terminalia arjuna with white flowers.

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II.20, and the black aloe has the colour of clouds, here jalamuc, alluding back to the water-filled clouds toya-bhara¯ valambinah payodhara¯ h in II.19 and to the ˙ ˙ [presumably dark] hair in II.18. In II.22 the prava¯ sinah of II.19 has become pathika-jana, and na¯ rı¯ of II.21 ˙ is now vadhu¯ . The clouds, now toyada instead of jalamuc, continue to be dark blue like blue lotuses – kuvalaya-dala-nı¯laih. And the rainbow s´akra-dhanus ˙ from II.19 has become indra-ca¯ pa. Now it is the minds of the women which are agitated by the separation as opposed to the minds of the absent lovers / husbands in II.19, with the word cetas repeated. This type of analysis can be made throughout the poem: one verse takes up some word(s) or theme(s) from the preceding one, and so it continues, usually in patterns of 5-7 verses. As already hinted at in the analysis above, sometimes the allusions to the preceding verse(s) are made mainly through colours. Each season has its specific colours. One of the most obvious is the white colour of autumn as illustrated by the following verses: III.1

ka¯ s´a¯ ms´uka¯ vikaca-padma-manojña-vaktra¯ ˙ sonma¯ da-hamsa-rava-nu¯ pura-na¯ da-ramya¯  ˙ a¯ pakva-s´a¯ li-rucira¯ nata-ga¯ tra-yastih ˙˙ ˙ pra¯ pta¯ s´aran nava-vadhu¯ r iva ru¯ pa-ramya¯ 

III.2

ka¯ s´air mahı¯ s´is´ira-dı¯dhitina¯ rajanyo hamsair jala¯ ni sarita¯ m kumudaih sara¯ msi  ˙ ˙ ˙ ˙ saptacchadaih kusuma-bha¯ ra-natair vana¯ nta¯ h ˙ ˙ s´uklı¯-krta¯ ny upavana¯ ni ca ma¯ latı¯bhih  ˙ ˙

III.3

cañcan-manojña-s´apharı¯-rasana¯ -kala¯ pa¯ h ˙ paryanta-samsthita-sita¯ ndaja-pan˙ kti-ha¯ ra¯ h  ˙ ˙˙ ˙ nadyo vis´a¯ la-pulina¯ nta-nitamba-bimba¯ mandam praya¯ nti samada¯ h pramada¯ iva¯ dya  ˙ ˙

III.4

vyoma kvacid rajata-s´an˙ kha-mrna¯ la-gaurais ˙˙ tyakta¯ mbubhir laghutaya¯ s´atas´ah praya¯ taih  ˙ ˙ samlaksyate pavana-vega-calaih payodai ˙ ˙ ˙ ra¯ jeva ca¯ mara-s´atair upavı¯jyama¯ nah  ˙

In III.1 we find the white ka¯ s´a grass typical of the autumn season, although it might appear unusual that a bride, a nava-vadhu¯ , is dressed in white,

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The Rtusamha¯ ra - a different approach ˙ ˙

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her face is likened to a white lotus padma, she weares anklets nupu¯ ra, presumably made of silver, and, finally, her [presumably fairskinned] body ga¯ tra-yasti ˙˙ is slightly bent like the ripened yellowish-white rice a¯ pakva-s´a¯ li. In III.2 we find a nature image painted in white: the ka¯ s´a grass returns, padma is replaced by kumuda ‘white night-lotus’, s´is´ira-dı¯dhiti ‘the one with cool rays’, i.e. the moon, saptacchada is a ‘tree with greenish-white flowers’, and the groves made white with jasmine flowers s´uklı¯-krta¯ ny upavana¯ ni ca ma¯ latı¯bhih. In III.3 the light ˙ ˙ colour is evoked by the ‘silver-coloured fish’ s´aphari, the silver belt rasana¯ , the white birds sita¯ ndaja, and pearl-necklaces ha¯ ra¯ h. In III.4 we encounter silver ra˙˙ ˙ jata, the white clouds [of autumn] gauraih payodaih, and the white yak-tail fans ˙ ˙ ca¯ mara10. White is again stressed in the description of the winter season, the hemanta-ka¯ la in the fourth sarga: IV.1

nava-prava¯ lodgama-sasya-ramyah ˙ praphulla-lodhrah paripakva-s´a¯ lih  ˙ ˙ vilı¯na-padmah prapatat tusa¯ ro ˙ ˙ hemanta-ka¯ lah samupa¯ gato ‘yam  ˙

IV.2

manoharais´ candana-ra¯ ga-gaurais tusa¯ ra-kundendu-nibhais´ ca ha¯ raih  ˙ ˙ vila¯ sinı¯na¯ m stana-s´a¯ linı¯na¯ m ˙ ˙ na¯ lamkriyante stana-mandala¯ ni  ˙ ˙˙

The grain sasya is presumably light yellowish, the blooming lodhra flowers are white, the ripe rice paripakva-s´a¯ li is yellowish white, the white padma lotus, the white snow tusa¯ ra. In the second stanza the idea of golden-white continues ˙ with pearl necklaces ha¯ ra fair gaura like the colour of sandalwood candana looking like snow tusa¯ ra, repeated from the preceding stanza, jasmine kunda ˙ and the moon indu. One may safely assume that the stana-mandala are fair˙˙ skinned also. Note also the pun with s´a¯ li – s´a¯ linı¯. We should not underestimate the close connection between painting and poetry in classical India11. As has been often pointed out, miniature pictures are conjured up in almost every verse. What is more interesting is that they are 10 I have deliberately left out the hamsa in III.2, since the standard translation as ‘swan’ is not ˙ JEAN PHILIPPE VOGEL: The Goose in Indian Art and Literaright (judging from sculptural evidence – see ture, Leiden 1962). However, the hamsa’s association with Brahma¯ and with purity may suggest the co˙ lour white. 11 The pictoral quality of the muktaka poems is well known, and the presence and importance of

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quite in keeping with the directions in the citrasu¯ tra chapters in the Visnudhar˙˙ mottara Pura¯ na. For instance the directions for painting the hot season ˙ are: ... pradars´ayet  kla¯ ntaih ka¯ ryam narair grı¯smam mrgais´ cha¯ ya¯ gatais tatha¯  ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ mahisaih pan˙ ka-samlı¯nais tatha¯ s´uska-nala¯ s´ayam  ˙ ˙ ˙ ˙ vihan˙ gair druma-samlı¯naih simha-vya¯ ghrair guha¯ gataih  ˙ ˙ ˙ ˙ Citrasu¯ tra 42.74b-75

«Summer is to be delineated by the fatigue experienced by men, animals seeking the shade of trees and arbours, buffalos enjoying a dip in the mire of muddy water as the pools dry up, birds hiding themselves in the thick verdure of trees and wild animals like the lion and tiger repairing to the cool comfort of their mountain caverns». (C. SIVARAMAMURTI tr. p. 192) This corresponds very closely to the verbal depiction of the hot season in sarga 1 of the Rtu. where red, brown and ochre colours predominate. ˙ An even closer resemblance is found in the earlier quoted II.19, where the rainy season is portrayed with dark greyish-blue clouds and bright yellow lightening: tadil-lata¯ -s´akra-dhanur-vibhu¯ sita¯ h ˙ ˙ ˙ payodhara¯ s toya-bhara¯ valambinah  ˙

These words are almost identical to the instructions how to paint the rainy season found in the Citrasu¯ tra: toya-namra-ghanair yukta¯ m sendraca¯ pa-vibhu¯ sanaih  ˙ ˙ ˙ ˙ vidyudvidyotanair yukta¯ m pra¯ vrsam dars´ayet tatha¯  ˙ ˙˙ ˙

Citrasu¯ tra 42.76

«The rainy season is portrayed by dark laden clouds rather bent down by their aquatic burden and beautified by the colourful impact of the rainbow lit up now and then and again by the flash of streaks of lightning». (C. SIVARAMAMURTI tr. p. 192) Another frequently encountered theme in painting is the abhisa¯ rika¯ on her way to her lover in the rainy season. In the Rtu. II.10 she is ˙ described thus: paintings in Sanskrit dramas equally so. See for ex. J. TILAKASIRI and C. SIVARAMAMURTI in the bibliography.

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abhı¯ksanam uccair dhvanata¯ payo-muca¯ ˙ ˙ ghana¯ ndhaka¯ rı¯-krta-s´arvarı¯sv api  ˙ ˙ tadit-prabha¯ -dars´ita-ma¯ rga-bhu¯ mayah ˙ ˙ praya¯ nti ra¯ ga¯ d abhisa¯ rika¯ h striyah  ˙ ˙

Needless to say the abhisa¯ rika¯ goes out in the dark night usually dressed in a dark cape finding her way through the darkness thanks to the lightnings a common image12. Colours are also associated with specific rasas. The spring, the last sarga of the Rtu., is described as a warrior vasanta-yoddha¯ with sharp arrows to pierce ˙ the hearts of lovers: VI.1

praphulla-cu¯ ta¯ n˙ kura-tı¯ksna-sa¯ yako ˙˙ dvirepha-ma¯ la¯ -vilasad-dhanur-gunah  ˙ ˙ mana¯ msi bhettum surata-prasan˙ gina¯ m ˙ ˙ ˙ vasanta-yoddha¯ samupa¯ gatah priye  ˙

The spring, the time for love and passion par excellence, is mainly portrayed in red, which also happens to be the colour of the raudra-rasa, a rasa very suitable for a warrior and for passion – ra¯ ga. The earth is like a new bride clad in red rakta¯ ms´uka¯ nava-vadhu¯ r iva bha¯ ti bhu¯ mih (VI.19), a nice contrast to the ˙ ˙ bride unexpectedly clad in white ka¯ s´a¯ ms´uka¯ ... nava-vadhu¯ h (III.1) in the au˙ ˙ tumn picture quoted above. What is the point of all these repetitions and all these clever allusions to colours? They begin to make sense if we imagine a group of bon-vivants, na¯garikas, meeting in the palace of one of them, surrounded by paintings, musicians and dancers, reciting and composing poetry as a kind of parlour game. So, instead of dwelling on the unanswerable question of whether a young Ka¯ lida¯ sa is or is not the author of the Rtu., the apparent problems in the poem disappear ˙ if we envisage it as a cooperative or competitive effort by several poets. My guess is they were about five, six or seven. The character of the verses in the Rtu. is such that a connoisseur, a sahrdaya, could easily make them up on the ˙ ˙ spot – as witnessed by the deliberate repetitiveness and standard metaphors which abound in the poem and the absence of complicated verb forms. It is worthwhile to note here that all the finite verbs are in the present tense third person singular or plural or in imperative 3rd person singular, or a past participle is used, the two exceptions being bhavet in VI.18 and caka¯ ra in VI.11. The 12 For ex. Gı¯tagovinda 11.4. See S. SANDAHL-FORGUE: Le Gı¯tagovinda. Tradition et innovation dans le ka¯ vya, n. 96 on p. 146, and pp. 146-147.

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extraordinary intensive vitarı¯tarı¯tu in VI.28 does not in my view belong to the Rtu. at all. This verse does not appear in DWIVEDI’s edition13. ˙ The likeness to certain verses by Ka¯ lida¯ sa which has been repeatedly pointed out by the supporters of Ka¯ lida¯ sa’s authorship is better explained as a natural consequence of a sahrdaya’s literary learning. In a small elite culture it is ˙ very likely that the educated few knew many, if not all verses by famous poets by heart. So the similarities to Ka¯ lida¯ sa’s verses were probably deliberate allusions. We also know from the Ka¯ vya¯ dars´a that there were so called prahelika¯ meetings where complicated riddles were presented14. I would consider these also jeux de salon which Dandin calls krı¯da¯ -gosthi-vinoda15. If the hypothesis ˙˙ ˙ ˙˙ is right that the poem is by several poets and that it is a sort of parlour game, then it is obvious why there is no commentary by Mallina¯ tha – why would he bother with a little jeu de salon of this type? It also explains the uneven quality of the verses – some of them being horribly contrived and downright bad. As for example: IV.7

pı¯na-stanorah-sthala-bha¯ ga-s´obha¯ m ˙ a¯ sa¯ dya tat-pı¯dana-ja¯ ta-khedah  ˙ ˙ trna¯ gra-lagnais tuhinaih patadbhir ˙˙ ˙ a¯ krandatı¯vosasi s´¯ıta-ka¯ lah  ˙ ˙

A minor poet seems to have been at work here! And it further explains why there are hardly any references to the Rtusam˙ ˙ ha¯ ra in the anthologies, and no mention of it in works on rhetoric. My hypothesis is based on conjecture and I do not have any hard evidence to support it except possibly one word in the Rtu. itself, namely sahrdaya which ˙ ˙ occurs in VI.18

ka¯ nta¯ -mukha-dyuti-jusa¯ m acirodgata¯ na¯ m ˙ ˙ s´obha¯ m para¯ mkurabaka-druma-mañjarı¯na¯ m  ˙ ˙ ˙ drstva¯ priye sahrdayasya bhaven na kasya ˙ ˙˙ ˙ kandarpa-ba¯ na-patana-vyathitam hi cetah  ˙ ˙ ˙

Assuming that the word sahrdaya here is used also – punningly – in the ˙ sense of connoisseur, it indicates that the work was intended for – and most 13 DWIVEDI’s edition ends with VI.25 which is different from KALE’s VI.25. I shall discuss the different editions in a forthcoming monograph. 14 Dandin: Ka¯ vya¯ dars´a III.96-125. ˙˙ 15 Op. cit. III.97.

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likely played by – sahrdayas. Of course, all Sanskrit ka¯ vya was written for con˙ noisseurs, but this is rarely stated in the literary piece itself as it is here. So when did the word sahrdaya come into use in this sense? If we can establish a possible ˙ date, that may be a clue to the date of the Rtu. as well16. ˙ STELLA SANDAHL

16 See K. KUNJUNNI RAJA: «Sahrdaya: the ideal art-connoisseur», in Lex et Litterae. Studies in Ho˙ Lienhard and Irma Piovano, Torino 1997. Unfortunately, this nour of Oscar Botto, edited by Siegfried article does not say anything about the date of the term.

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BIBLIOGRAPHY Editions used: DWIVEDI, R.P.: The Rtusamha¯ ra of Ka¯ lida¯ sa, Sahitya Akademi, New Delhi 1990. ˙ ˙ KALE, M.R.: The Rtusamha¯ ra of Ka¯ lida¯ sa. With a new commentary by Shastri ˙ ˙ Vyankatacharya Upadhye and introduction, notes and translation by M.R. nd Kale, 2 ed., 1967, Motilal Banarsidass, Reprint Delhi 1997. Secondary sources which appear in the text or in the notes (standard histories of Sanskrit literature excluded): HILLEBRANDT, A.: Kalidasa. Ein Versuch zu seiner literarischen Würdigung, Breslau 1921. KARMARKAR, R.D.: Ka¯ lida¯ sa, Karnatak University, Dharwar 1971. KEITH. A. BERRIDALE: «The Authenticity of the Rtusamhara», JRAS 1912, pp. ˙ 1066-1070, and again in JRAS 1913, pp. 410-412. KRISHNAMOORTHY, K.: Ka¯ lida¯ sa, Twayne Publishers, New York 1972. KUNJUNNI RAJA, K.: ‘‘Sahrdaya: the Ideal Art-connoisscur’’; in Lex et litterae. ˙ Studies in Honour of Oscar Botto, edited by S. Lienhard and I. Piovano, Torino, 1997, pp. 419-423. MIRASHI, V.V. and NAVLEKAR, N.R.: Ka¯ lida¯ sa. Date, Life and Works, Bombay 1969. NOBEL, J.: «Zur Echtheitsfrage des Rtusamha¯ ra», ZDMG LXVI, 1912, pp. ˙ ˙ 275-282. RAGHAVAN, V.: Rtu in Sanskrit Literature, Delhi 1972. ˙ SANDAHL-FORGUE, S.: Le Gı¯tagovinda. Tradition et innovation dans le ka¯ vya, Stockholm 1977. SCHARPE´ , A.: Ka¯ lida¯ sa-Lexicon, Vol. 1, Part III, Brugge, 1958; Vol. II, Part I, Brugge 1975. SIVARAMAMURTY, C.: Sanskrit Literature and Art – Mirrors of Indian Culture, Memoirs of the Archeological Survey of India, Delhi 1955. SIVARAMAMURTY, C.: Chitrasu¯ tra of the Vishnudharmottara, New Delhi ˙ 1978. TILAKASIRI, J.: «Sanskrit poetry, Fine Arts and Erotic Theory» in Lex et Litterae. Studies in Honour of Oscar Botto, edited by S. Lienhard and I. Piovano, Torino 1997, pp. 531-536. VOGEL, J.P.: The Goose in Indian Art and Literature, Leiden 1962.

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Respectfully dedicated to Professor Dr. Albrecht Wezler on his 65th Birthday

THE HINDU CONCEPT OF FRIENDSHIP A Note on Sanskrit pranaya ˙ (0-1) As the well-known Roman writer, Cicero, called a friend (amicus) a divine gift1, a similar thought is also found in classical India. We read in the Hitopades´a 1.210 as follows: s´oka¯ ra¯ ti-bhaya-tra¯ nam prı¯ti-vis´rambha-bha¯ janam ˙ ˙ kena ratnam idam srstam mitram ity aksara-dvayam (IS 6527) ˙ ˙˙˙ ˙ ˙ By whom was created this jewel, viz., friend (mitra), consisting of two syllables, which protects (one) from the fear arising from the enemy, sorrow, and which is the abode of delight and confidence?2

Cicero further asks: what is sweeter than to have someone with whom one may dare discuss anything as if he were communing with himself?3 So also it is said in India: yasya mitrena sambha¯ sa¯ yasya mitrena samsthitih ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ yasya mitrena samla¯ pas tato na¯ stı¯ha punyava¯ n (IS 5390) ˙ ˙ ˙ In this world there is nobody more fortunate (punyavat) than he who has a ˙ friend to discuss with (sambha¯ sa¯ ), who has a friend to live with (samsthiti), and ˙ ˙ ˙ who has a friend with whom he can make confidential talk (samla¯ pa). ˙ 1 ... qua quidem haud scio an excepta sapientia nil quicquam melius homini sit a dis immortalibus datum (De amicitia 6.20) 2 Cf. kena¯ mrtam idam srstam mitram ity aksara-dvayam ˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙ a¯ pada¯ m ca paritra¯ nam s´oka-samta¯ pa-bhesajam (IS 1908=/=4328) ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ By whom is created this nectar of the two-syllabled word mitra (friend), the rescuer from calamity and the remedy of agony agony of grief? Cf. also, vya¯ dhitasya¯ rtha-hıˇnasya s´atrubhis tra¯ sitasya ca hrdaye s´oka-dagdhasya suhrd-dars´anam ausadham (IS 7606) ˙3 ˙ ˙ quid dulcius quam habere quicum omnia audeas sic loqui ut tecum (De amicitia 6.22).

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The embracing of a friend is an invaluable (mu¯ lya-vivarjita) relish. amrtasya prava¯ haih kim ka¯ ya-ksa¯ lana-sambhavaih ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ cira¯ n mitra-parisvan˙ go yo ’sau mu¯ lya-vivarjitah (IS 534) ˙ ˙ What use is the flow of nectar for cleansing one’s body? This embrace of a friend after a long interval is invaluable (lit.: bereft of purchasability)4.

(0-2) As a friend (mitra) is comparable to a jewel (ratna) and ambrosia (amrta), so also the abstract concept «friendship» is highly valued. Friendship ˙ with a good man (sujana-preman) is equated with the absolute brahman. anirva¯ cyam anirbhinnam aparicchinnam avyayam brahmeva sujana-prema duhkha-mu¯ la-nikrntanam (IS 300) ˙ ˙ Friendship with a good man is like brahman, beyond description (anirvacanı¯ya), unbreakable, limitless, unchanging, and uprooting (all sorts of) suffering.

Among the word-group expressive of «friendship» in Sanskrit such as maitra, maitrı¯, preman, etc.5, the word pranaya is also included. Thus, the word ˙ pranaya appears also in the high valuation of friendship. In order to illustrate ˙ this, two examples are quoted below. (0-2-1) In the well-known dialogue between Sa¯ vitrı¯ and Yama in the Maha¯ bha¯ rata, we read, a¯ tmany api na vis´va¯ sas ta¯ va¯ n bhavati satsu yah ˙ tasma¯ t satsu vis´esena sarvah pranayam icchati (MBh 3.281.41a=IS 900) ˙ ˙ ˙ ˙ A man does not have so much confidence even in himself as he has in the good. Therefore above all things all men wish for friendship with the good. (BROUGH)

(0-2-2) With such a noble-minded person, one can enjoy life-long friendship. 4 Cf. amrtam s´is´ire vahnir amrtam priya-dars´anam ˙ ¯ ja-sam ˙ ˙ sam ˙ gatih sata¯ m (IS 529) amrtam ra ma¯ nam amrtam ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ kim candanaih sakarpu¯ rais tuhinaih kim ca s´¯ıtalaih ˙ ˙ ˙ ˙ sarve te mitra-ga¯ trasya kala¯ m na¯ rhanti sodas´¯ım (IS˙ 1742) ˙ ˙ ˙ 5 For example, maitra (IS 3677), maitrı¯ (IS 940, 1004, 1088, 1996, 2024, 2026, 2512, 2991, 4316, 6875), preman (IS 300), prı¯ti (IS 2832), sauhrda (IS 6723), sauha¯ rda (IS 367, 7290), sakhya (IS ˙ 3666).

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a¯ marana¯ nta¯ h pranaya¯ h kopa¯ s tat-ksana-bhan˙ gura¯ h ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ paritya¯ ga¯ s´ ca nihsan˙ ga¯ bhavanti hi maha¯ tmana¯ m (Hitopades´a 1.189=IS 976) ˙ Friendship with the noble-minded lasts till death; their anger vanishes at that very moment and their liberality is always disinterested.

(0-3) However, since O. BÖHTLINGK (BR) rendered the word pranaya into ˙ such German words as vertrautes Verhältniss and Zuneigung, we wonder whether the English abstract noun «friendship» is equivalent to the Sanskrit word pranaya. Furthermore, as ordinary experience teaches, we must admit ˙ that friendship presupposes affection (Zuneigung) and trust (Vertrauen). Also, the indigenous dictionaries beginning with Amara-kos´a equate the word pranaya with vis´rambha (trust), preman (affection) and even ya¯ cña¯ (re˙ quest)6. At first sight, these four meanings pranaya, vis´rambha, preman and ya¯ cña¯ ˙ have nothing in common with each other, but in a further scrutiny, we find that all these three, vis´rambha, preman and ya¯ cña¯ , are organically incorporated in pranaya. A few examples would suffice to illustrate the point. ˙ (0-3-1) In the well-known verse in the Bhagavadgı¯ta¯ , Arjuna begs forgiveness of Krsna for his impolite behaviour when not knowing the latter’s identity ˙˙ ˙ as an incarnation of the god. sakheti matva¯ prasabham yad uktam he krsna he ya¯ dava he sakheti ˙ ˙ ˙˙ ˙ aja¯ nata¯ mahima¯ nam tavedam maya¯ prama¯ da¯ t pranayena va¯ pi ˙ ˙ ˙ (Bhagavadgı¯ta¯ 11.41) Whatever I said rashly, thinking Thee my boon-companion, calling Thee ‘Kr˙ sna, Ya¯ dava, Companion!,’ not knowing this (truth, namely) Thy greatness, thru ˙˙ careless negligence, or even thru affection. (EDGERTON)

Here in Arjuna’s apology, both trust (vis´rambha) and affection (preman) are presupposed, for S´ an˙ kara renders pranaya here as sneha-nimitto vis´rambha. ˙ 6 pranaya¯ s tv amı¯ vis´rambha-ya¯ cña¯ -prema¯ nah (Amara) ˙ ˙ pranayah premni vis´rambhe ya¯ cña¯ -prasarayor api ˙ ˙ ˙ (Vis´vapraka¯ s´a Chowkhamba SS. nos. 160-168 1911 p. 120 65ab) pranayah pras´raye premni ya¯ cña¯ -vis´rambhayor api ˙ ˙ ˙ (Medinı¯kos´a Kashi SS. 41 1940 p. 119 89ab) pranayah sya¯ t paricaye ya¯ cña¯ ya¯ m sauhrde ’pi ca ˙ ˙ ˙ ˙ (Vaijayantı¯kos´a 7.1.44cd, Chowkhamba SS. Office 1971 p. 182) premani pranayam vidya¯ d ya¯ cña¯ -vis´rambhayor api ˙ ˙ ˙ (S´ a¯ s´vatakos´a 327ab ed. by Th. Zachariae Berlin 1882)

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Arjuna addresses Krsna impolitely out of pranaya, that is, in his presupposition ˙˙ ˙ ˙ of personal confidence (vis´rambha) and attachment (sneha). (0-3-2) In the opening of Ka¯ lida¯ sa’s drama Vikramorvas´¯ıya the stage-manager, Su¯ tradha¯ ra, i.e. the requests his audience as follows, Su¯ tradha¯ rah – ya¯ vad ida¯ nı¯m a¯ ryamis´ra¯ n vijña¯ paya¯ mi ˙ pranayisu va¯ da¯ ksinya¯ d atha va¯ sad-vastu-purusa-bahuma¯ na¯ t ˙ ˙˙ ˙ s´rnuta manobhir avahitaih kriya¯ m ima¯ m ka¯ lida¯ sasya (Vikramorvas´¯ıya 1.2) ˙˙ ˙ ˙ Stage-manager: Now let me tell our respected audience as follows: Listen to this work of Ka¯ lida¯ sa with attentive mind either in consideration of your regard toward (us), your humble servants (pranayin), or out of your respect for the excellent ˙ hero of this play.

Here pranaya means humble request, that is, petition (ya¯ cña¯ ). The stage˙ manager in his capacity as a pranayin requests his audience’s patience to listen ˙ to this new piece of drama until the end, presuming his confidence (vis´rambha) in the audience’s interest (prı¯ti) in drama in general. Three factors, ya¯ cña¯ , vis´rambha and preman, are here implied in the single word pranaya. ˙ (0-3-3) Furthermore, in the well-known self-utterance of the king Duhsyanta we read, ˙˙ a¯ laksya-danta-mukula¯ n animitta-ha¯ sair ˙ avyakta-varna-raman¯ıya-vacah-pravrttı¯n ˙ ˙ ˙ ˙ an˙ ka¯ s´raya-pranayinas tanaya¯ n vahanto ˙ dhanya¯ s tad an˙ ga-rajasa¯ parus¯ı-bhavanti (S´ akuntala 7.17) ˙ Carrying their sons, whose bud-like teeth are visible because of unaccountable bursts of laughter, whose first words are charming because of their indistinct sounds, who love to shelter in their father’s laps. Happy they are soiled by the dirt of those children’s bodies. (EMENEAU)

Here, babies as pranayin seek their father’s lap out of their expectation ˙ (ya¯ cña¯ ) to be held (a¯ s´raya) (by him), in trust (vis´rambha) and affection (preman) for their father. These three elements are again incorporated in the concept of pranaya. ˙ (0-4) These examples are sufficient to convince us that the word pranaya is ˙ unique for its semantic content, though included among the words expressive of «friendship» together with maitra, preman, prı¯ti, sauhrda, sakhya, etc. Yet, ˙ the meaning-complex indicated by pranaya, which is composed of affection, ˙ trust and request, seems to correspond to man’s emotional and volitional state at a certain stage of the formulation of friendship. It is a matter of ordinary ex-

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perience that, when people meet each other and they become friends, the friendship formulated between them passes through several stages. At the first acquaintance, formality prevails between the two, but in the course of its development, formality retreats and familiarity increases instead. In proportion to increasing intimacy, trust (vis´rambha) and affection (preman) germinate and people speak to each other without reserve. This stage of friendship corresponds, so to speak, to that of the French tutoiement and German Duzfuss. People begin to open their minds for the sake of friendship and share secrets with each other7 upon the presumption (ya¯ cña¯ ) of mutual intimacy. Between a man and a woman, the process is nothing but the development from mere acquaintance to love. At this advanced stage of friendship, friends owe a duty to each other (affektische Aufladung)8 and are not expected to betray mutual trust (vis´rambha, vis´va¯ sa). Once the confiding relationship is broken, friendship ceases9. Then, friendship (maitrı¯) retreats and friends become estranged from each other (apranaya)10. ˙ However, as long as pranaya still prevails between the two, particularly be˙ 7 Cf. asampattau paro la¯ bho guhyasya kathanam tatha¯ ˙ anam caiva mitrasyaitat phala-trayam ˙ (IS 763) a¯ pad-vimoks ˙ ˙ ˙ asukhais´ ca vina¯ la¯ po guhyasya kathanam tatha¯ ˙ vipad-vimoksanam caiva mitrata¯ ya¯ h phala-trayam (IS 783) ˙ ˙ ˙ ˙ pa¯ pa¯ n niva¯ rayati yojayate hita¯ ya guhya¯ ni gu¯ hati guna¯ n prakat¯ıkaroti ˙¯ ti ka¯ le a¯ pad-gatam ca na ˙jaha¯ ti dada ˙ san-mitra-laksanam idam pra¯ danti santah (IS 4060) ˙ ˙ ˙ ˙ dada¯ ti pratigrhna¯ ti guham a¯ khya¯ ti prcchati ˙ ˙ bhun˙ kte bhojayate caiva sad-vidham˙ prı¯ti-laksanam (IS 2703) ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ Cf. also satyam mitraih priyam strı¯bhir alı¯kam madhuram dvisa¯ ˙ ¯ mina¯ saha˙ (IS ˙6735) anuku˙¯ lam ca ˙satyam ˙ca vaktavyam sva ˙ ˙ ˙ 8 SCHELLER 21. 9 Cf. SCHELLER 105 (die Freunde gehen bestimmte Verpflichtungen ein, deren Nichteinhalten das Ende des Freundschafts-verhältnisses nach sich zieht). 10 Cf. daurmantrya¯ n nrpatir vinas´yati yatih san˙ ga¯ t suto la¯ lana¯ d ˙ ˙ khalopa¯ sana¯ t vipro ’nadhyayana¯ t kulam kutanaya¯ c chı¯lam hrı¯r madya¯ d anaveksana¯ ˙d api krsih snehah˙ prava¯ sa¯ s´raya¯ n ˙ ˙ ddhir anaya ˙˙ ¯˙t tya¯ ga¯ t˙ prama¯ da¯ d dhanam (IS 2991) maitrı¯ ca¯ pranaya¯ t samr ˙ ˙ A king perishes by bad council, an ascetic by attachment, a son by fondling, a Brahmin by absence of studies, a family by a bad son, character by serving the bad, shame by drinking, tilling by carelessness, affection by absence, friendship (maitrı¯) by absence of affection (apranaya), possession by absence of po˙ licy and wealth by giving and carelessness. Furthermore, pranaya is considered as one of the elements essential to mitra-vrtti. ˙ ˙ vis´va¯ sas´ ca¯ rthacarya¯ ca sa¯ ma¯ nyam sukha-duhkhayoh ˙ ˙ ˙ marsanam pranayas´ caiva mitra-vrttir iyam sata¯ m (Saundarananda 11.17) ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ Among the good, the conduct of a friend is marked by confidence, consideration of the other’s interest, participation in joy and sorrow, forbearance and affection (JOHNSTON).

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tween a man and a woman in love, it continues to exist with some modification. Yet, a breach of trust (pranaya-bhan˙ ga) naturally results in resentment and ˙ quarrelling between the loving couple, hence the Sanskrit compounds pranaya˙ kopa and pranaya-kalaha, often on the part of women. But such resentment ˙ caused by jealousy (ma¯ na) is pacified, and quarrelling ceases after reconciliation on the part of offender. It is supposed that a similar sort of reconciliation is also possible among family-members such as father and son, and between brothers who are brought up in the same family atmosphere. All these aspects of pranaya as outlined above will be discussed in detail in ˙ the pages which follow. By elucidating the semantic content of the Sanskrit word pranaya we may reveal some aspects of the Hindu concept of friend˙ ship.

1. PRANAYA = ˙

PREMAN

As the word friendship (amicitia) is derived from the word for love (amor) (De amicitia 8.26), Indian friendship (pranaya) is also inseparable from love ˙ (prı¯ti, preman, sneha). Three examples are quoted here from the S´ akuntala, where the word is apparently used in the sense of love between a man and a woman. (1-1-1) Ra¯ ja¯ (sasmitam) – sakrt krta-pranayo ’yam janah (S´ akuntala 5.8.3) ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ King (with a smile) – I once made love (pranaya) to her (i.e. Queen Hamsa˙ ˙ vatı¯). (EMENEAU) (1-1-2) mayy eva vismarana-da¯ runa-cittavrttau ˙ ˙ ˙ vrttam rahah pranayam apratipadyama¯ ne ˙ ˙ ˙ ˙ bheda¯ d bhruvoh kutilayor atilohita¯ ksya¯ ˙ ˙ ˙ bhagnam s´ara¯ sanam iva¯ tirusa¯ smarasya (S´ akuntala 5.24) ˙ ˙ Since I, with my mind pitiless because I do not remember, do not acknowledge a love (pranaya)11 that happened clandestinely, she, her eyes extremely red ˙ with anger, with a contraction of her knitted brows in great anger, has seemed to snap Love’s bow. (EMENEAU)

11

Commentator paraphrases pranaya as sneha (NSP 1958). ˙

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(1-1-3) muni-suta¯ -pranaya-smrti-rodhina¯ mama ca muktam idam tamasa¯ manah ˙ ˙ ˙ ˙ manasijena sakhe praharisyata¯ dhanusi cu¯ ta-s´aras´ ca nives´itah ˙ ˙ ˙ (S´ akuntala 6.8) No sooner, my friend, was my mind released from the darkness which overpowered my memory of my love (pranaya)12 for the sage’s daughter, than the god ˙ of love who is born from the mind, wishing to shoot at me, placed upon his bow the mango-flowered arrow. (EMENEAU)

(1-1-4) The word appears also in Damayantı¯’s address to Nala in the Nalopa¯ khya¯ na. The heroine, after having listened to a message of the gods delivered so objectively and impersonally by the loving hero against her expectation, says as follows. Here we have also its verbal form (pranayasva). ˙ sa¯ namaskrtya devebhyah prahasya nalam abravı¯t ˙ ˙ pranayasva yatha¯ -s´raddham ra¯ jan kim karava¯ ni te (1) ˙ ˙ ˙ ˙ aham caiva hi yac ca¯ nyan mama¯ sti vasu kimcana ˙ ˙ sarvam tat tava vis´rabdham kuru pranayam ¯ıs´vara (MBh 3.53.2) ˙ ˙ ˙ Having bowed to the gods, she said to Nala with smile13, «Show your feelings without reserve (pranayasva)14 as you like15, king! What can I do for you? I myself ˙ and whatever possessions I own are all yours – manifest your affection with confidence (kuru pranayam)16, my lord». ˙

Here both the hero and heroine are well-aware of mutual love through the medium of a hamsa, but Nala conceals his personal feelings, thinking solely of ˙ his duty as a messenger (du¯ ta). Knowing this, the heroine requests him to reveal his personal love-feeling without reserve (pranaya)17. ˙ (1-1-5) The same imperative form (pranayam kurusva) is used not only be˙ ˙ ˙ tween lovers, but also between intimate friends. Thus we read in the Buddhacarita, where S´ renya, lord of the Magadha land, gives friendly advice to the ˙ Bodhisattva.

12 13 14 15 16 17

Commentator paraphrases pranaya as preman (NSP 1958). ˙ Cf. HAUSCHILD «zu lachen beginnen.» Cf. BR «ohne Umstände.» HARA 1992. Cf. LANMAN 194b pranaya «manifestation of one’s affection.» ˙ Cf. HAUSCHILD «vertrauliche Annäherung unter Liebenden.»

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evam hi na sya¯ t svajana¯ vamardah ka¯ la-kramena¯ pi s´ama-s´raya¯ s´rı¯h ˙ ˙ ˙ ˙ tasma¯ t kurusva pranayam mayi tvam sadbhih sahı¯ya¯ hi sata¯ m samrddhih ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ (Buddhacarita 10.26) For thus there wil be no need to oppress your kinsfolk, and in course of time sovereignty will come to you peacefully. Therefore do me this kindness; for association with the good makes for the prosperity of the good. (JOHNSTON)

Despite Johnston’s rendering as above, one may better translate as «manifest your own feeling without reserve». Here, S´ renya requests him to unbosom ˙ himself to his intimate friend. (1-1-6) The intense friendship that is love is most clearly discerned in the compound pranaya-unmukha. ˙ visrja sundari samgama-sa¯ dhvasam tava cira¯ t prabhrti pranayonmukhe ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ parigrha¯ na gate sahaka¯ rata¯ m tvam atimuktalata¯ caritam mayi ˙ ˙ ˙ ˙ (Ma¯ lavika¯ gnimitra 4.13=IS 6234) O beautiful lady, give up this fear of union with me who has been long since entertaining an intense love (pranaya-unmukha) to you. Assume the role of an ˙ as´oka creeper towards me, treating me as a mango tree18.

(1-1-6) Thus, the so-called abhisa¯ rika¯ is termed pranayinı¯. In the fifth act ˙ of the Mrcchakatika the courtesan Vasantasena¯ , who hastens in a storm to the ˙ ˙ house of Ca¯ rudatta, is twice styled as pranayinı¯. ˙ apadma¯ s´rı¯r esa¯ praharanam anan˙ gasya lalitam ˙ ˙ kula-strı¯na¯ m s´oko madana-vara-vrksasya kusumam ˙ ˙ ˙ ˙ salı¯lam gacchantı¯ rati-samaya-lajja¯ pranayinı¯ ˙ ˙ rati-ksetre ran˙ ge priya-pathika-sa¯ rthair anugata¯ (Mrcchakatika 5.12) ˙ ˙ ˙ She is the goddess of fortune without the lotus (in her hand), the lovely weapon of the bodyless cupid, the chagrin of well-bred women, the flower of the excellent tree in the form of love. Though walking playfully, she is bashfulness itself at the time of amorous sports. Though followed by hosts of gallants on the stage in the form of a love-field, she is the loving woman (pranayinı¯) going wilfully ˙ to the stage, she is solicitous of love (of her loving Ca¯ rudatta). esa¯ mbhoda-sama¯ gama-pranayinı¯ svacchandam abhya¯ gata¯ ˙ ˙ 18 Cf. pranaya-vimukha in the Meghadu¯ ta 27b (saudhotsan˙ ga-pranaya-vimukho ma¯ sma bhu¯ r ˙ ˙ ujjayinya¯ h). ˙

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rakta¯ ka¯ ntam iva¯ mbaram priyatama¯ vidyut sama¯ lin˙ gati (Mrcchakatika 5.46cd) ˙ ˙ ˙ Here this red lightning, desiring to be united with the rain-clouds, has appeared of its own will and is embracing the sky like a beloved mistress (who, being in love [rakta¯ ], desires union with her lover [sama¯ gama-pranayinı¯] at the advent of ˙ the clouds and goes to him of her own will).

(1-2) However, the word pranaya is differentiated from other words ex˙ pressive of love. (1-2-1) First, it is differentiated from ka¯ ma. In the following passage these two stand in the relation of fire and fuel. ayam ca surata-jva¯ lah ka¯ ma¯ gnih pranayendhanah ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ nara¯ na¯ m yatra hu¯ yante yauvana¯ ni dhana¯ ni ca (Mrcchakatika 4.11=IS 548) ˙ ˙ ˙ ˙ The fire of carnal desire (ka¯ ma) which has its fuel in the form of friendliness (pranaya) flames out in sexual union (surata), wherein men offer their youth and ˙ wealth.

Here the word is used in the sense of friendliness or intimacy (Vertraulichkeit: BÖHTLINGK). (1-2-2) Secondly, it is differentiated from preman in the following passage. prema¯ rdra¯ h pranaya-sprs´ah paricaya¯ d udga¯ dha-ra¯ godaya¯ s ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ta¯ s ta¯ mugdha-drs´o nisarga-madhura¯ s´ cesta¯ bhaveyur mayi ˙ ˙˙ (Ma¯ latı¯ma¯ dhava 5.7ab) Each and every action of the innocent-eyed (lady), sweet by nature, moist-soft by affection (prema-a¯ rdra), confidence-provoking (pranaya-sprs´), and passion-in˙ ˙ creasing because of familiarity would be manifest (now again) toward me19.

Here, the compound pranaya-sprs´- is paraphrased by Jagaddhara as ˙ ˙ vis´va¯ sam upetya citta-prasa¯ da-sprs´-. ˙ (1-2-3) Thirdly, pranaya and sneha are also differentiated in the following ˙ passage. yan ma¯ m vidheya-visaye sa bhava¯ n niyun˙ kte ˙ ˙ 19

Cf. pranaya-madhura¯ h premodga¯ dha¯ rasa¯ d alasa¯ s tatha¯ ˙ ˙ ¯ ya¯ h praka ˙ ¯ s´ita-sammada¯ h bhanittimadhura ¯ mugdha-pra ˙ ti-subhaga¯ vis´rambha¯ rha¯ h ˙smarodaya-da¯ yino ˙ ˙ prakr ˙ kim api svaira¯ la¯ pa¯ haranti ˙ rahasi mrgı¯-drs´a¯ m (IS 4218). ˙ ˙

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snehasya tat phalam asau pranayasya sa¯ rah (Ma¯ latı¯ma¯ dhava 1.9ab) ˙ ˙ That his honour appoints me to such a duty is the fruit of his affection (sneha) and the decoction of his regard (pranaya) for me. ˙

The same commentator renders pranayasya sa¯ rah as pras´rayasya... utkarso ˙ ˙ ˙ nirya¯ so va¯ . (1-2-4) In the following passage of the well-known court-scene in the Mrc˙ chakatika the three words prasakti, pranaya and prı¯ti are apparently differenti˙ ˙ ated. But it is not easy to ascertain whether these three are enumerated in an ascending order or a descending one. Adhikaranikah – a¯ rya carudatta, asti bhavato ’sya¯ a¯ rya¯ ya¯ duhitra¯ saha prasaktih ˙ ˙ ˙ pranayah prı¯tir va¯ (Mrcchakatika 9.16 prose) ˙ ˙ ˙ ˙ Judge – Mr. Ca¯ rudatta! What do you have for the daughter of this lady, attachment (prasakti), affection (pranaya), or love (prı¯ti)? ˙

(1-2-5) In the following passage, the three items pranaya, utsuka and a¯ s´a¯ ˙ are also differentiated. arhattvam a¯ sa¯ dya sa satkriya¯ rho nirutsuko nispranayo nira¯ s´ah ˙ ˙ ˙ (Saundarananda 17.61ab) By reaching arhat-ship he became worthy of reverence, bereft of yearning, making demands on none, untroubled by hope. (JOHNSTON)

Apparently, JOHNSTON takes the word in the sense of ya¯ cña¯ which we shall discuss later in chapter four20.

2. PRANAYA = ˙

VIS´VA ¯ SA

As Cicero remarks that the support of the unswerving constancy which we look for in friendship is loyalty (fides: De amicitia 18.65), constancy is essential 20

The outside manifestations of pranaya inside are spoken in various ways. ˙ strı¯na¯ m a¯ dyam pranaya-vacanam vibhramo hi priyesu (Meghadu¯ ta 28d) ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ... for women’s first avowal of fondness is confusion before their lovers. (EDGERTON) ta¯ m praty abhivyakta-manoratha¯ na¯ m mahı¯patı¯na¯ m pranaya¯ gra-du¯ tyah ˙ ¯ la-s´obha¯ iva pa¯ dapa¯ na¯ m s´rn¯ ga¯˙ra-cesta¯ vividha ˙ ¯ babhu ˙ ¯ vuh ˙ prava ˙ ˙ ˙˙ ˙ (Raghuvams´a 6.12) ˙ The love-gestures, that are the forerunning female messengers of affection...

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to friendship and trust is the foundation of friendship. Though the word pranaya does not occur, we read in a definition of friend (mitra) as ˙ follows, te putra¯ ye pitur bhakta¯ h sa pita¯ yas tu posakah ˙ ˙ ˙ tan mitram yatra vis´va¯ sah sa¯ bha¯ rya¯ yatra nirvrtih (IS 2611) ˙ ˙ ˙ ˙ They are sons who love their father; he is father who nourishes (his family); he is friend in whom one finds confidence (vis´va¯ sa); she is wife in whom one finds repose21.

The relation between pranaya and vis´va¯ sa is expressed positively as well as ˙ negatively. (2-1) Fidelity is the foundation of friendship. (2-1-1) One trusts (vis´vas-) somebody out of pranaya. ˙ pranaya¯ d upaka¯ ra¯ d va¯ yo vis´vasiti s´atrusu ˙ ˙ sa supta iva vrksa¯ gra¯ t patitah pratibudhyate (Hitopades´a 4.11=IS 4219) ˙ ˙ ˙ He, who confides (vis´vas-) in his enemies, either from unreserved affection (pranaya) (on his part) or from (an outward) friendly act (upaka¯ ra) (on their part), ˙ is awakened (roused to stern reality) when ruined, like a man sleeping when fallen from the top of a tree22.

As is the case with Bhagavadgı¯ta¯ 11.41, where pranaya is juxtaposed with ˙ prama¯ da, a similar tone of carelessness is repeated here.

21

Cf. sa¯ bha¯ rya¯ ya¯ priyam bru¯ te sa putro yatra nirvrtih ˙ ˙ tan mitram yatra vis´va¯ sah˙ sa des´o yatra jı¯vyate (IS 7006) ˙ ˙ sa¯ s´rı¯r ya¯ na madam kurya¯ t sa sukhı¯ trsnayojjhitah ˙ ´va¯ sah purusah sa ˙jitendriyah ˙˙ ˙(IS 7032) tan mitram yasya vis ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ na tan mitram yasya kopa¯ d bibheti yad va¯ mitram s´an˙ kitenopacaryan ˙ ¯ nı¯tara¯ ni (IS 3265) yasmin mitre˙ pitarı¯va¯ s´vası¯ti tad vai mitram samgata ˙ ˙ ˙ na ma¯ tari na da¯ resu na sodarye na ca¯ tmaje ˙ vis´rambhas ta¯ drs´ah pumsa¯ m ya¯ drn˙ mitre nirantare (IS 3370) ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ In the following, mitra is replaced by sakhi. sa bandhur yo hitesu sya¯ t sa pita¯ yas tu posakah ˙¯ sah sa¯ bha¯ rya¯ yatra nirvr ˙ tih˙ (IS 6836). sa sakha¯ yatra vis´va ˙ ˙ ˙ 22 A similar juxtaposition of pranaya and upaca¯ ra is found in the description of the courtesan ˙ Vasantasena¯ . ves´ya¯ m aves´a-sadrs´a-pranayopaca¯ ra¯ m (Mrcchakatika 8.23b) ˙ ˙ ˙ ˙ (Vasantasena¯ ) ... though herself a courtesan, yet is unlike a courtesan with respect to her affection and friendly act.

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(2-1-2) The intimate relationship between trust (vis´va¯ sa) and friendship (pranaya or sauhrda) is emphasised in Sa¯ vitrı¯’s words to Yama. ˙ ˙ a¯ tmany api na vis´va¯ sas ta¯ va¯ n bhavati satsu yah ˙ tasma¯ t satsu vis´esena sarvah pranayam icchati (41) ˙ ˙ ˙ ˙ sauhrda¯ t sarva-bhu¯ ta¯ na¯ m vis´va¯ so na¯ ma ja¯ yate ˙ ˙ tasma¯ t satsu vis´esena vis´va¯ sam kurute janah (MBh 3.281.42) ˙ ˙ ˙ ˙ A man does not have so much confidence (vis´va¯ sa) even in himself as he has in the good. Therefore above all things all men wish for friendship (vertrautes Verhältnis) (pranaya) with the good. ˙ Trust (vis´va¯ sa) indeed arises from friendship (sauhrda) in the case of all crea˙ tures. Therefore above all a man places his trust (vis´va¯ sa) in the good. (BROUGH)

(2-2) This inseparable relationship between trust and friendship is spoken negatively in the words of warning. (2-2-1) Though the word pranaya does not occur, there is a warning that ˙ one should not confide in a suspicious person. ari-paksa¯ s´rite mitre marma-vedi-priyamvade ˙ ˙ vis´va¯ so naiva kartavyah yadi sa¯ ksa¯ d brhaspatih (IS 575) ˙ ˙ ˙ ˙ One should not confide in a friend (mitra) who sides with his enemy, and knows his weak-point, yet speaks sweet words, even if he is Brhaspati himself. ˙

(2-2-2) In Krsna’s warning to Yudhisthira against Duryodhana, we ˙˙ ˙ ˙˙ read: tatha¯ -s´¯ıla-sama¯ ca¯ re ra¯ jan ma¯ pranayam krtha¯ h ˙ ˙ ˙ ˙ vadhya¯ s te sarva-lokasya kim punas tava bha¯ rata (MBh 5.71.13) ˙ King, have no trust (pranaya) in a man of such character and behaviour. They ˙ deserve death at anybody’s hand, how much more then at yours, o scion of Bharata!23

23 Vertrauen (BR) or friendly regard (PARGITER) is used in the following passage of the Ma¯ rkandeya Pura¯ na. ˙˙ ˙ yasya va¯ m va¯ ñchitam da¯ tum dhanam ratnam atha¯ pi va¯ ˙ ˙ ˙ ˙ tad dı¯yata¯ m dvija-sutau yadi va¯ m pranayo mayi (MP 23.80-81) ˙ ˙ ˙ But whatever ye desire should be given you, riches or jewels, let that be given you, O young dvijas, if ye have friendly regard for me. (PARGITER)

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(2-2-3) One should not confide in anybody from the very outset, for he may later turn out unworthy of confidence (apranayin). ˙ a¯ dau na va¯ pranayina¯ m pranayo vidheyo ˙ ˙ ˙ datto ’tha va¯ pratidinam pariposan¯ıyah ˙ ˙ ˙ ˙ utksipya yat ksipati tat prakaroti lajja¯ m ˙ ˙ ˙ bhu¯ mau sthitasya patana¯ d bhayam eva na¯ sti (Pañcatantra 1.246=IS 941) From the beginning one should not place (unreserved affectionate) confidence (pranaya) in those who do not deserve it (apranayin); but once it is given, it ˙ ˙ should be nourished day by day. It causes shame if one falls after having been highly elevated. A man who stays on the ground has no fear whatsoever of falling down!

(2-2-4) Such a careless person who confides in an untrue friend is destined for ruin. dhu¯ rtair indriya-na¯ mabhih pranayita¯ m a¯ pa¯ dayadbhih svayam ˙ ˙ ˙ ˙ sambhoktum visaya¯ n ayam kila puma¯ n saukhya¯ s´aya¯ vañcitah ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ taih s´ese krta-krtyata¯ m upagatair auda¯ syam a¯ lambitam ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ sampraty esa vidher niyoga-vas´agah karma¯ ntarair badhyate (IS 3166) ˙ ˙ ˙ With hope for happiness, a man (=soul) is deceived by the rogues called sense-organs who approach with friendliness (pranayita¯ ) with the intention of en˙ joying themselves the objects of sense. Having attained their object, they become indifferent, whereas the soul, being subject to fate, is bound by other works.

(2-3) Thus, a careful person does not confide in anybody. The goddess of fortune S´ rı¯ is careful enough not to confide even in men of excellent learning. tı¯ksna¯ d udvijate mrdau paribhava-tra¯ sa¯ n na samtisthate ˙˙ ˙ ˙ ˙˙ mu¯ rkha¯ n dvesti na gacchati pranayita¯ m atyanta-vidvatsv api ˙˙ ˙ s´u¯ rebhyo ’bhyadhikam bibhety upahasaty eka¯ nta-bhı¯ru¯ n aho ˙ s´rı¯r labdha-prasareva ves´a-vanita¯ duhkhopacarya¯ bhrs´am ˙ ˙ (Mudra¯ ra¯ ksasa 3.5) ˙ She shrinks from one who is austere; abides not with one who is meek from fear of insult; hates a fool, but never fully comes to unreserved friendliness (pranayita¯ ) with even the most learned either; she feels exceedingly shy of the ˙ brave; but scoffs at those who are always timid; the goddess of wealth is very difficult to please like a harlot who has gained ascendancy (over her lover).

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[14]

(2-4) Under such circumstances, both excess and absence of pranaya ˙ should be avoided, and the middle way should be chosen between them. Hence, the last advice of Va¯ lin to his son An˙ gada, where the words atipranaya ˙ and apranaya are contrasted. ˙ na ca¯ tipranayah ka¯ ryah kartavyo ’pranayas´ ca te ˙ ˙ ˙ ˙ ubhayam hi maha¯ -dosam tasma¯ d antara-drg bhava (R 4.22.23) ˙ ˙ ˙ ˙ You must not show either excessive affection or lack of affection: both are serious faults, so observe moderation. (LEFEBER)

Here, pranaya is a mixture of affection and trust, so to speak. ˙ 3. PRANAYA = ˙

PARICAYA

(INTIMACY)24

Presuming upon mutual affection (preman) and trust (vis´va¯ sa), at this stage friends become confidants with each other. (3-1) However, such intimacy as this naturally exists among brothers and cousins brought up in the same family atmosphere. Two examples suffice to illustrate the situation. (3-1-1) Between brothers brought up in the same house, one can naturally behave straight away without reserve. In Indrajit’s advice to his uncle Vibhı¯sana, we read: ˙ ˙ yadi tvam parusa¯ ny uktah pitra¯ mama nis´a¯ cara ˙ ˙ ˙ ˙ gaurava¯ t pranaya¯ d va¯ pi tathaiva parisa¯ ntvitah ˙ ˙ yathaiva pranaya¯ d va¯ pi gurur vadati vipriyam ˙ tathaiva sa punar mu¯ dha la¯ layaty avica¯ rayan ˙ (R 6.74.1651*=G 6.66.17-18cd) Even when you are blamed harshly by my father (Ra¯ vana), he may be easily ˙ pacified either by (paying) respect or (showing) affection (pranaya). As he utters ˙ unpleasant words (to you) out of trusting affection (pranaya), o innocent one, so he ˙ 25 may dandle (you) again without further consideration .

One should not take it seriously, for a brother’s harsh words may be presumptuous, but not malign. 24 25

Cf. note 6 above (pranayah... paricaye: Vaijayantı¯kos´a). ˙ ˙ Cf. IS 472 and 5282 as quoted above.

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(3-1-2) Among cousins brought up in the same court, the same pranaya ˙ prevails. Thus we read in Bhı¯sma’s advice to Duryodhana, defending his ˙ cousins, the Pa¯ ndavas. ˙˙ ye durbala¯ s´ ca krpana¯ s´ ca nira¯ s´raya¯ s´ ca ˙ ˙ tvattas´ ca s´arma mrgayanti na garvayanti ˙ jyestho bhava¯ n pranayinas tvayi te kutumbe ˙˙ ˙ ˙ ta¯ n dha¯ rayisyasi mrgaih saha vartayantu (Pañcara¯ tra 1.37) ˙ ˙ ˙ They are powerless, miserable, and without resort. Humbly they seek conciliation with you. You are the eldest and they are affectionate and trusting (pranayin) ˙ toward you. Will you sustain them in your household, or shall they remain with beasts (being banished from the country)?

What Bhı¯sma has in mind is that these miserable cousins are expecting ˙ from Duryodhana friendly assistance for cousinhood’s sake26. (3-2) At this advanced stage of friendship when friends become as dear as one’s brother and cousin, they unburden their heart of a secret in the name of intimacy. It takes place particularly in the case of one’s distress27. People want to be consoled by friends through confidential conversation. This aspect of pranaya seems to be best illustrated by the association of its ablative case ˙ (pranaya¯ t) with the verb vac- and bru¯ -, and their derivatives. ˙ (3-2-1) Thus, Sugrı¯va in distress reveals his secret to Ra¯ ma. In the introductory portion of the Ra¯ ma¯ yana we read: ˙ tato va¯ nara-ra¯ jena vaira¯ nukathanam prati ˙ ra¯ ma¯ ya¯ veditam sarvam pranaya¯ d duhkhitena ca ˙ ˙ ˙ ˙ va¯ linas´ ca balam tatra kathaya¯ ma¯ sa va¯ narah (R 1.1.49) ˙ ˙ 26 The same benignancy can be applied also to one’s wife (bha¯ rya¯ ), though the word pranaya does ˙ not occur in the following passage. yady api bhra¯ tarah kruddha¯ bha¯ rya¯ va¯ ka¯ rana¯ ntare ˙ (IS 5283=MBh 12.136.147) svabha¯ vatas te prı¯˙yante netarah prı¯yate janah ˙ ˙ Brothers or wives, even when they are angry for some reason, are pleasing by their nature, but not another person.

The same is also applied to the beloved one (vallabha), who never fails to gladden one’s heart. apriya¯ ny api kurva¯ no nisthura¯ ny api ca bruvan ˙˙ ¯ vastha ˙ ¯ su vallabhah (IS 472) cetah ˙prahla¯ dayaty ˙eva sarva ˙ ˙ Even doing something unpleasant, and even uttering harsh words, the beloved one (vallabha) gladdens one’s mind in every situation. Dearness surpasses everything. 27 Cf. dhanya¯ s te ye na s´rnvanti dı¯na¯ h pranayina¯ m girah (IS 847ab). ˙˙ ˙ ˙ ˙ ˙

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The king of the monkeys in distress revealed to Ra¯ ma the whole story of his feud out of intimacy (pranaya¯ d). And the monkey told him also of Va¯ lin’s ˙ might.

(3-2-2) Three examples are quoted below from the Saundarananda. atha¯ para¯ ta¯ m manaso ’nuku¯ lam ˙ ˙ ka¯ lopapannam pranaya¯ d uva¯ ca (Saundarananda 6.44cd) ˙ ˙ Then another woman spoke to her affectionately (pranaya¯ d) what was pleasing to ˙ her mind and was suited to the occasion. (JOHNSTON)28 abhigamya¯ bravı¯n nandam a¯ nandah pranaya¯ d idam (Saundarananda 11.8cd) ˙ ˙ ¯ nanda came to Nanda and said affectionately (pranaya¯ d). (JOHNSTON) A ˙ tad idam tva¯ vivaksa¯ mi pranaya¯ n na jigha¯ msaya¯ (Saundarananda 11.18ab) ˙ ˙ ˙ ˙ So my wish to speak to you springs from affection (pranaya¯ d) and not from wish to ˙ hurt you. (JOHNSTON)

(3-3) The same phenomenon can be seen also in the use of sapranaya. ˙ (3-3-1) Two examples of its association with va¯ kya: First, in the loving address of Lopa¯ mudra¯ to Agastya, we read, tatah sa¯ pra¯ ñjalir bhu¯ tva¯ lajjama¯ neva bha¯ minı¯ ˙ tada¯ sapranayam va¯ kyam bhagavantam atha¯ bravı¯t (MBh 3.95.15) ˙ ˙ ˙ With folded hands she stood there, blushing as though bashful, and addressed the blessed lord with this love-pleading word. (VAN BUITENEN)

(3-3-2) Another example is quoted from KSS. s´rutvaitac cha¯ nta-citto ’bhu¯ t tatkrte sa vanig-varah ˙ ˙ ˙ vya¯ ja-sapranayair va¯ kyair jananya¯ ko na vañcyate (KSS. 29.82) ˙ When the good merchant heard that, he departed with his mind easy on her account. For who is not deceived by the hypocritically affectionate speeches of a mother? (TAWNEY) 28

out.’

JOHNSTON makes the remark that pranaya¯ t may also mean ‘without formality,’ ‘straight ˙

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(3-3-3) Two examples of its association with vacas: First from the Epic. tam uva¯ ca tato jyestho bhra¯ ta¯ sapranayam vacah ˙˙ ˙ ˙ ˙ muñcainam adhama¯ ca¯ ram prama¯ nam yadi te vayam (MBh 3.256.17) ˙ ˙ ˙ Then, the eldest brother spoke to him the affectionate word: «Let the wretch go, if you take notice of our words».

(3-3-4) Another example is quoted from KSS. evam kalin˙ gasena¯ ya¯ h s´rutva¯ sapranayam vacah ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ somaprabha¯ sa¯ sarvam tat krama¯ d vaktum pracakrame (KSS 29.11) ˙ ˙ On hearing this affectionate speech from Kalin˙ gasena¯ , Somaprabha¯ began to tell the whole story in due course. (TAWNEY)

(3-4) The intimacy further results in coaxing. Thus, the word pranaya ˙ stands in close juxtaposition with the verb lal- and its derivatives. (3-4-1) Once a man has made his beloved trust in him and thus dallied with her, it becomes hard for her to be betrayed. datto ’sya¯ h pranayas tvayaiva bhavata¯ seyam ciram la¯ lita¯ ˙ ˙ ˙ ˙ daiva¯ d adya kila tvam eva krtava¯ n asya¯ navam vipriyam ˙ ˙ manyur duhsaha esa ya¯ ty upas´amam no sa¯ ntva-va¯ daih sphutam ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ he nistrims´a vimukta-kantha-karunam ta¯ vat sakhı¯ roditu ˙ ˙˙ ˙ ˙ (Amarus´ataka 7=IS 2696) It was you who gave full trust (pranaya) to her, and it was you who coaxed her ˙ for a long time; and it is you who have, as fate would have it, inflicted a sudden grief on her. The resentment she feels is hard to overcome and cannot be obviously allayed by soothing words. Oh cruel one! let this girl-friend now weep piteously out of an unloosed throat.

(3-4-2) It is further construed with such words as lı¯la¯ and pariha¯ sa. In Ma¯ dhava’s address to the wicked Aghoraghanta, we read. ˙˙ pranayi-sakhı¯-salı¯la-pariha¯ sa-rasa¯ dhigatair ˙ lalita-s´irı¯sa-puspa-hananair api ta¯ myati yat ˙ ˙ vapusi vadha¯ ya tatra tava s´astram upaksipatah ˙ ˙ ˙ patatu s´irasy aka¯ nda-yama-danda ivaisa bhujah (Ma¯ latı¯ma¯ dhava 5.31) ˙˙ ˙˙ ˙ ˙ Let this arm (of mine) fall, like the untimely rod of Yama, on the head of you

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who has raised your weapon to strike a body (of Ma¯ latı¯), which experienced fatigue even by the strokes of the tender S´ irı¯sa flowers, sportively cast at her in their ˙ fondness for jokes (salı¯la-pariha¯ sa) by her loving friends (pranayi-sakhi)29. ˙

4. PRANAYA = ˙

YA ¯ CÑA¯

We have seen above that the indigenous dictionaries are unanimous in assigning the meaning of ya¯ cña¯ to pranaya, but how are these two words, pranaya ˙ ˙ and ya¯ cña¯ , and their semantic contents related to each other? Next, we shall proceed to examine this semantic aspect of the word pranaya. ˙ Cicero says that when Fortune is fickle the faithful friend is found (amicus certus in re incerta cernitur: 17.64) and we have an English proverb «a friend in need is a friend indeed». A similar thought is also traced in the Sanskrit literature. a¯ pat-ka¯ le tu sampra¯ pte yan mitram mitram eva tat ˙ ˙ vrddhi-ka¯ le tu sampra¯ pte durjano ’pi suhrd bhavet (IS 952) ˙ ˙ ˙ A friend when misfortune falls is a friend indeed. At the time of affluence even an evil man could become a friend. ja¯ nı¯ya¯ t presane bhrtya¯ n ba¯ ndhava¯ n vyasana¯ game ˙ ˙ ˙ mitram ca¯ patti-ka¯ lesu bha¯ rya¯ m ca vibhava-ksaye (IS 2405) ˙ ˙ ˙ ˙ One can discern servants in commissioning, relatives at the advent of misfortune, a friend at the time of distress and a wife at the loss of wealth30.

An aspect of pranaya, which is composed of trust (vis´va¯ sa) and attachment ˙ (preman), naturally leads one to rely on his friend in case of need. At this advanced stage of intimacy (paricaya), one presumes on his friend’s kindness and the friend in need is entitled, so to speak, to make a request to his friend without reserve (ya¯ cña¯ ). A verse from the Kuma¯ rasambhava, where the god S´ iva in ˙ the disguise of an ascetic addresses Pa¯ rvatı¯, illustrates the situation. api prasannam harinesu te manah ˙ ˙ ˙ ˙ karastha-darbha-pranaya¯ paha¯ risu ˙ ˙ ya utpala¯ ksi pracalair vilocanais ˙ tava¯ ksi-sa¯ drs´yam iva prayuñjate (Kuma¯ rasambhava 5.35) ˙ ˙ ˙ 29

Cf. R 6.74.1651*=G 6.66.17-18cd as quoted above (3-1-1). Cf. also IS 2593, 6962. Misfortune is called a testing stone of friendship (a¯ pan-nikasa-pa¯ sa¯ na IS ˙ ˙ ˙ 4387, 4862 tattva-nikasa-gra¯ van IS 4860. ˙ 30

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Is your mind pleasingly disposed towards fawns who take the darbha-grass from your hands through their attachment (to you) and who, o lotus-eyed one, present a close resemblance to your eyes by their unsteady glances31.

Here, Mallina¯ tha glosses pranayena as snehena. But, while introducing an˙ other reading ‘Karastha-darbha-pranaya¯ para¯ dhisu’ iti pa¯ the, he gives a comment ˙ ˙ ˙ darbha¯ na¯ m pranayena pra¯ rthanaya¯ para¯ dhisu harinesu (fawns guilty of making a ˙ ˙ ˙ ˙ 32 ˙ ˙ presumptuous request for the darbha-grass) . Since friends are supposed to share both joys and sorrows with each other33, it is expected of «a friend indeed» to share the sorrow of his «friend in need» and do his best to help him34. Obviously, this expectation presupposes intimacy (prı¯ti, paricaya) between them, which, in its turn, is based upon affection (sneha) and trust (vis´va¯ sa), as we have seen above. Viewed from the side of «a friend in need», he is entitled to expect help from the side of «a friend indeed», but usually the latter is hesi31 The idea of pranaya is existent often between domesticated animals and their keepers. Cf. ˙ ¯ tassim jeva udae mae gahide kido tena panao/etthantare vihasia bhanidam S´ akuntala¯ — ...paccha ˙ (comm. ˙ ˙ tae/saccam savvo sagandhe˙ vı¯sasadi... (S´ akuntala 5.21.16-18) [NSP 1958]: prı¯ti).˙ ˙ 32 In the following verses, both preman and ya¯ cña¯ seem to be implied in (nis-)pranaya. ˙ ˙ ava¯ n˙ -mukho nispranayas´ ca tasthau bhra¯ tur grhe ’nyasya grhe yathaiva ˙ 4.25ab) ˙ ˙ ˙ (Saundarananda

He stood in His brother’s house, just as He would have in any other house, with downcast gaze and making no request (pranaya) for alms. (JOHNSTON) ˙ arhattvam a¯ sa¯ dya sa satkriya¯ rho nirutsuko nispranayo nira¯ s´ah (Saundarananda 17.61) ˙ ˙ ˙ By reaching Arhatship he became worthy of reverence, bereft of yearning, making demands on none. (JOHNSTON) 33 prı¯na¯ ti yah sucaritaih pitaram sa putro ˙ ˙ eva hitam˙ icchati˙ tat kalatram yad bharatur tan mitram a¯ padi sukhe ca samakriyam yad ˙ etat trayam jagati punya-krto labhante (IS 4363) ˙¯ti-rasa¯ yanam ˙ nayanayor ˙ mitram prı a¯ nandanam cetasah ˙ yat sukha-duh˙khayoh saha bhaven mitren ˙ ˙ durlabham (IS 4860ab). pa¯ tram a tad ˙ ˙ ˙ ˙ 34 The concept of «need» is expressed by such words as a¯ pad(-dharma), vipad, vidhura, vyasana. ista¯ ni ca¯ pya apatya¯ ni dravya¯ ni suhrdah priya¯ h ˙ ˙ a¯˙pad-dharma-pramoks a¯ ya bha˙¯ rya¯ ca¯˙pi ˙sata¯ m matam (IS 1131) na tatra tisthati bhra˙¯ ta¯ na pita¯ nyo ’pi va¯ ˙janah ˙˙ ˙ pumsa¯ m a¯ pat-pratı¯ka¯ re san-mitram yatra tisthati (IS 3254) ˙ ˙ ˙˙ mitra¯ ni ta¯ ni vidhuresu bhavanti ya¯ ni, ˙ dita¯ jagati ye ˙purusa¯ ntarajña¯ h (IS 4863ab) te pan ˙˙ ˙ ˙ sa bandhur yo vipanna¯ na¯ m a¯ pad-uddharana-ksamah ˙ ˙ ˙ na tu bhı¯ta-paritra¯ navastu¯ pa¯ lambha-panditah (IS 6835) ˙ ˙˙ ˙ sarvesa¯ m eva martya¯ na¯ m vyasane samupasthite ˙ ¯ trena¯ pi sa¯ ha¯ yyam˙ mitra¯ d anyo na samdadhe (IS 6954). va¯ n˙ -ma ˙ ˙ ˙

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tant to make a request to the former lest he should give an impression of presumptuousness or audacity. Nevertheless, when a «friend in need» is disappointed by his friend, their friendship is destined for ruin, for disappointment is the last thing one expects from his friend. On the contrary, people sometimes make a presumptuous request in the name of friendship35. This aspect of friendship, denoted by the word pranaya which is imbued with ya¯ cña¯ , yet at the ˙ same time intermingled with affection and trust, will be investigated in due order. (4-1) To begin with, let us make it clear that the word means an ardent request (ya¯ cña¯ or pra¯ rthana) in a general context. (4-1-1) In his address to Citrarekha¯ who brought news from Urvas´¯ı, king Puru¯ ravas says as follows: paryutsuka¯ m kathayasi priya-dars´ana¯ m ta¯ m ˙ ˙ a¯ rtim na pas´yasi puru¯ ravasas tad-artha¯ m ˙ sa¯ dha¯ rano ’yam ubhayoh pranayah smarasya ˙ ˙ ˙ ˙ taptena taptam ayasa¯ ghatana¯ ya yogyam (Vikramorvas´¯ıya 2.15) ˙ You tell me that the fair one is pining in love, but you do not see how Puru¯ravas is afflicted on her account. Alike is our ardent request (with regard) to the God of love; hot iron deserves to be united with hot iron!

A similar wording is repeated in S´ akuntala 3.21.18 (sa¯ dha¯ rana esa ˙ ˙ pranayah) which EMENEAU translates as «this desire is common to us both», but ˙ ˙ it is to be understood as above in the context of love. (4-1-2) Thus, the word pranayavat is translated as «desirous». In Duhsan˙ ˙˙ ta’s regret, we read: sa¯ ksa¯ t priya¯ m upagata¯ m apaha¯ ya pu¯ rvam ˙ ˙ citra¯ rpita¯ m punar ima¯ m bahu-manyama¯ nah ˙ ˙ ˙ srotovaha¯ m pathi nika¯ ma-kala¯ m atı¯tya ˙ ja¯ tah sakhe pranayava¯ n mrgatrsnika¯ ya¯ m (S´ akuntala 6.17) ˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙ Having formerly repulsed my beloved when she appeared before my eyes, but now thinking much of her when she is delineated in a painting, I have passed on the way by a river with abundant water and, my friend, have come to be desirous (pranayavat) of mirage. (EMENEAU) ˙ 35

A rule in this respect can be seen in Buddhacarita 2.10, where the ideal government is described. prthag vratibhyo vibhave ’pi garhye na pra¯ rthayanti sma nara¯ h parebhyah ˙ abhyarthitah su¯ ksma-dhano ’pi ca¯ ryas tada¯ na kas´cid vimukho˙ babhu¯ va. ˙ ˙ ˙

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(4-2) The ardent request of «a friend in need,» which is hopefully expected to be duly responded to by his friend, is described positively as well as negatively. (4-2-1) With a pathetic tone, the king Dilı¯pa, wishing to sacrifice himself to a lion for Nandinı¯’s life, requests that lion as follows, sambandham a¯ bha¯ sana-pu¯ rvam a¯ hur vrttah sa nau samgatayor vana¯ nte ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ tad bhu¯ tana¯ tha¯ nuga na¯ rhasi tvam sambandhino me pranayam vihantum ˙ ˙ ˙ (Raghuvams´a 2.58) ˙ People say that friendship proceeds from conversation. Now, it is formed between us two, meeting together in the midst of the forest. Under such circumstances you should not refuse, O follower of the lord of living beings (S´ iva), the request (pranaya) of mine, your friend! ˙

Here, Mallina¯ tha glossed pranaya as ya¯ cña¯ . ˙ (4-2-2) Puru¯ ravas «in need» (a¯ pad-gata) in his search for the lost Urvas´¯ı is disappointed at the cool response of a female-cuckoo. mahad api para-duhkham s´¯ıtalam samyag a¯ huh ˙ ˙ ˙ ˙ pranayam aganayitva¯ yan mama¯ pad-gatasya ˙ ˙ adharam iva mada¯ ndha¯ pa¯ tum esa¯ pravrtta¯ ˙ ˙ phalam abhinava-pa¯ kam ra¯ ja-jambu¯ -drumasya ˙ (Vikramorvas´¯ıya 4.27) People rightly say that others’ pains are refreshing, however great they may be, because, with no regard to the ardent request (pranaya) of mine in distress, that ˙ female cuckoo, intoxicated in love, began to drink a newly ripened fruit of the magnificent Jambu-tree, as if sucking the upper-lip!

(4-2-3) Thus, «friend indeed» makes his best to fulfil the expectation of «friend in need». The sage Rcı¯ka promises Satyavatı¯ who approached him out of affec˙ tion and trust. gunavantam apatyam vai tvam ca sa¯ janayisyathah ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ jananya¯ s tava kalya¯ ni ma¯ bhu¯ d vai pranayo ’nyatha¯ (MBh 13.4.25) ˙ ˙ Both you and she (your mother) will give birth to a son possessed of virtue. O lovely one, let not the ardent request (pranaya) of both of you be otherwise! ˙

(4-3) Yet, even in the state of distress and need, one is hesitant to make such a request to his friend. Poor Ca¯ rudatta is ashamed of himself for demanding his wife’s wealth.

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arthesu ka¯ mam upalabhya manoratho me ˙ strı¯na¯ m dhanesv anucitam pranayam karoti (Ca¯ rudatta 3.18ab) ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ My desire that found its pleasure in my wealth now pays unseemly court to women’s treasure. (WOOLNER)

Though a commentator equates pranaya with a¯ sakti, it means ya¯ cña¯ (pre˙ sumptuous request). (4-4) On the other hand, there are audacious people in the world who demand too much from their friend in the name of friendship. Thus, people in Ujjainı¯ presumed on Ca¯ rudatta’s generosity. sa mad-vidha¯ na¯ m pranayaih krs´¯ı-krto na tasya kas´ cid vibhavair amanditah ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙ nida¯ gha-sams´uska iva hlado maha¯ n nrna¯ m tu trsna¯ m apanı¯ya s´usyati ˙ ˙ ˙˙ ˙ ˙˙ ˙ ˙ (Ca¯ rudatta 1.26=/=Mrcchakatika 1.46) ˙ ˙ He is beggared by the suits of men like me. There is none but has been adorned by his riches. He is like a great tank dried up in summer, but it dried up after quenching men’s thirst. (WOOLNER)

Here, pranayaih is glossed as pra¯ rthana¯ bhih36. ˙ ˙ ˙ (4-5) At this point, mention must be made of its usage in the Kautilya˙ artha-s´a¯ stra, for the connotation of the same «presuming demand»(ya¯ cña¯ ) is apparently detected in this treatise of political science. As KANGLE renders the word in «a specially forced levy» the word is used in the sense of the state’s act of imposing tax. Here, «a friend in need» is apparently replaced by «a state in need», or «a king in need», who presumes on the subjects’ benevolence and makes a presumptuous request on them by imposing an extra tax. (4-5-1) The word pranaya in this sense is used three times in KAS. ˙ iti karsakesu pranayah (KAS.5.2.16) ˙ ˙ ˙ ˙ Thus ends (the topic of) making demands on farmers. (KANGLE)37

The same phraseology is repeated in KAS 5.2.26 and 29, replacing

36 The same Ca¯ rudatta is called panaijana-kappa-pa¯ dava=pranayi-jana-kalpa-pa¯ dapa (the wish˙ granting tree of all supplicants: WOOLNER˙). 37 Cf. MEYER 374.9 (Dies die Auferlegung auf die Bauern) where he also refers in his note to karapranayana (Auferlegung von Steuern), Vara¯ hamihira Yogaya¯ tra¯ 1.17 dandam pranayati (Strafe auferle˙ Cf. also his Index 963. ˙˙ ˙ ˙ gen).

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karsakesu by vyavaha¯ risu (dealers)38 and yoni-posakesu (breeders of animals)39 ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ respectively. (4-5-2) This sort of «royal demand in need» (pranaya) naturally afflicts (pı¯˙ dayati) the subject-people. ˙ ra¯ ja-viha¯ ras tu svayam vallabhais´ ca svayamgra¯ ha-pranaya-panya¯ ga¯ ra-ka¯ ryopagrahaih ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ pı¯dayati (KAS 8.4.23) ˙ (Whereas) indulgence in pleasures by the king afflicts (the subjects) through seizure of what he pleases, demands, gifts and seizure of works by (the king) himself and by his favourites. (KANGLE)

(4-5-3) The same phraseology is repeated in KAS 8.4.24. ‘subhaga¯ -kuma¯ rayoh kuma¯ rah svayam vallabhais´ ca svayamgra¯ ha-pranaya-panya˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ¯ga¯ ra-ka¯ ryopagrahaih pı¯dayati, subhaga¯ vila¯ sopabhogena’ ity a¯ ca¯ rya¯ h (KAS ˙ ˙ ˙ 8.4.24) ‘Of the king’s beloved and the prince, the prince harasses through seizure of what he pleases, demands, gifts and seizure of works by himself and by his favourites, the king’s beloved through enjoyment of pleasure,’ say the teachers. (KANGLE)

(4-5-4) Though, in the above passages, KANGLE takes the compound svayamgra¯ ha-pranaya as a dvandva (seizure and demand), it would be better ˙ ˙ taken as a karmadha¯ raya. As a matter of fact, the present writer happened to ¯ ryaka and Ca¯ rucome across the same compound in the dialogue between A datta found in the Mrcchakatika. ˙ ˙ ¯ ryakah— sakhe ca¯ rudatta, aham api pranayenedam pravahanam a¯ ru¯ dhah, tat A ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ksantavyam ˙ Ca¯ rudattah— alamkrto ’smi svayamgra¯ ha-pranayena bhavata¯ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ (Mrcchakatika 7.6 prose) ˙ ˙ ¯ ryaka— Friend Ca¯ rudatta, it was because of (presuming upon your) trustA ing-affection (towards me) (pranaya) that I got in this chariot of yours. So kindly ˙ forgive it. Ca¯ rudatta— I am honoured by your presumptuous trusting-affection (svayamgra¯ ha-pranaya) (towards me). ˙ ˙ 38 39

«Dies was den Haendlern und Handwerkenrn auferlegt wird» (MEYER). «Dies was den Viehzuechtern auferlegt wird» (MEYER).

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¯ ryaka had a hair’s breadth escape As is obvious from the previous act six, A from the police-men’s pursuit by catching Ca¯ rudatta’s chariot that happened to arrive at that moment. He rode in it without Ca¯ rudatta’s permission, and now in this act seven he apologizes for his former behaviour in the presence of its owner. Ca¯ rudatta, for his part, consoles him, saying that his presumptuous decision at the critical moment with no regard to its owner’s consent was the right ¯ ryaka’s presumptuous one, and that Ca¯ rudatta himself is delighted to know A decision as a proof of his full trust in their friendship (svayam-gra¯ ha-pranaya). ˙ ˙ ¯ ryaka’s action at the critical moment presupposed Obviously, A Ca¯ rudatta’s friendly consent as granted. In view of the usage of our compound svayam-gra¯ ha-pranaya (presumptu˙ ˙ ous friendship) in the Mrcchakatika, one may take the same compound in the ˙ ˙ political treatise in the sense of «presumptuous demand (on the part of the royal family), taking their subjects’ consent as if granted». If we can take the compound in this sense, the remaining part of the compound, that is, panya¯ ˙ ga¯ ra-ka¯ ryopagraha should mean «(wilful, or presumptuous) seizure (or decision) (upagraha) with regard to business (ka¯ rya) in market-houses) (panya¯ ga¯ ra) ˙ by the royal family40».

5. PRANAYA-KOPA, -KALAHA ˙

ETC.

Among various Sanskrit words expressive of love, the word pranaya is ˙ characterized by its construction with words expressive of anger (kopa) and quarrelling (kalaha). But why is it possible for pranaya to be thus exclusively ˙ construed with the words for anger and quarrelling? And why and how do people in love quarrel with each other? A clue to solving the probem seems to lie in the semantic content of the word itself as has been analysed above. That is to say, at the developed stage of friendship which originated out of affection (preman) and trust (vis´va¯ sa), one is privileged to demand (ya¯ cña¯ ) from the other. At this fully ripened stage, friendship is exposed to a sort of danger, if one has indulged in the privilege and becomes too demanding. It is particularly so in the case of a loving couple. Presuming upon intimacy (paricaya) and taking advantage of the good-naturedness of others, it is not impossible for a man to behave inconstantly in love. Then, a woman becomes angry (kupita), despite the presence of love (preman) and because of the breach of trust (vis´va¯ sa). In classical Sanskrit literature

40 For panya¯ ga¯ ra, cf. MEYER 549.4-5, 25-27 (Warenhaus 308,4, 330,16 etc., Warenhausabgabe ˙ 143,3=Kaufmannsgut).

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women in the sulks are depicted as pranaya-kupita¯ , and quarrelling between the ˙ beloveds is called pranaya-kalaha. The lady’s resentment (pranaya-kopa) which ˙ ˙ is caused by infidelity on the part of her beloved is often pacified by the man’s self-surrendering prostration at her feet. The resentment that arises between persons in love is technically called pranaya-ma¯ na and is analysed in detail by the authors of classical dramaturgy. ˙ According to the Das´aru¯ pa and Sa¯ hitya-darpana, this sort of resentment (ma¯ na) ˙ is of two kinds, that which arises in a state of fondness (pranaya-samudbhava) ˙ and that which arises from jealousy (ı¯rsya¯ -samudbhava). While the Das´aru¯ pa ˙ simply mentions that pranaya-ma¯ na arises between the two who get angry41, the ˙ Sa¯ hitya-darpana goes on to say that the resentment (ma¯ na), arising in a state of ˙ fondness (pranaya-samudbhava), is anger (kopa) which comes out without spe˙ cial reason in the very presence of great fondness (pramoda). This takes place because of the crooked course of love (preman)42. Thus, pranaya-ma¯ na is only ˙ possible between a couple in love (preman) who confide in each other 43 (vis´va¯ sa) . This construction with -kopa and -kalaha peculiar to the word pranaya is ˙ thus explainable in view of its semantic complexity, which is composed of vis´va¯ sa, preman, paricaya and ya¯ cña¯ . In order to illustrate this in detail, we shall enumerate below the compounds in which the word pranaya stands as the first ˙ member. (5-1) pranaya-bhan˙ ga (breach of pranaya). This compound means incon˙ ˙ stancy or infidelity on the part of a man. Puru¯ ravas addresses Urvas´¯ı who disappeared from his sight as follows, tvayi nibaddha-rateh priya-va¯ dinah pranaya-bhan˙ ga-para¯ n˙ mukha-cetasah ˙ ˙ ˙ ˙ kam apara¯ dha-lavam mama pas´yasi tyajasi ma¯ nini da¯ sa-janam yatah ˙ ˙ ˙ (Vikramorvas´¯ıya 4.55) Oh, resentful lady, devoted to you, speaking of love, my mind being ever

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tatra pranayama¯ nah sya¯ t kopa¯ vasitayor dvayoh 4.66: Cf. HAAS p. 135. ˙ ˙ ˙ dvayoh pranaya-ma¯ nah sya¯ t pramode sumahaty api premnah kutila-ga¯ mitva¯ t kopo yah ka¯ ranam ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ vina¯ 218: SCHMIDT pp. 102-104. 43 a¯ s´an˙ kiya pranatim pata¯ nta-pihitau pa¯ dau karoty a¯ dara¯ d ˙ ˙ ˙ vya¯ jena¯ gatam a¯ vrnoti hasitam na spastam udvı¯ksate ˙ ˙ ¯pa-vacana ˙ ¯ sakhya¯˙˙samam bha ˙¯ sate mayy a¯ la¯ pavati pratı ˙ tanvya¯ s tisthatu nirbhara-pranayita¯ ma¯ no ’pi˙ ramyodayah ˙˙ ˙ ˙ (Amarus´ataka 42= IS 1043) Expecting that I would fall at her feet she carefully covers them up with the hem of her garment; she conceals the smile upon her face under some pretext, and does not look me in the face; when I talk to her, being averse to talking (to me), she engages her friend in conversation; let alone her ardent love, even this anger of the slender one, as it rises within her, is so sweet. 42

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Minoru Hara

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averse to a breach in love-trust (pranaya), what portion of offence do you see of ˙ mine, while leaving this servant of yours?

(5-2) pranaya¯ para¯ dha (an offence in pranaya). As is mentioned above, a ˙ ˙ lady who is offended by her beloved with bad behaviour is pacified by the offender who prostrates himself at her feet to submit to her kick. sa¯ laktakena nava-pallava-komalena pa¯ dena nu¯ puravata¯ madala¯ lasena yas ta¯ dyate dayitaya¯ pranaya¯ para¯ dha¯ t ˙ ˙ so ’n˙ gı¯krto bhagavata¯ makaradhvajena (Amarus´ataka 101=IS 7031) ˙ Whosoever, sinning in love, is struck by the beloved with her foot, with lac dye on, tender as a young sprout, clasped with an anklet, and languid through passion, him the divine God of love marks as his own44!

(5-3) pranaya-kopa (anger in pranaya). Though occasionally this com˙ ˙ pound is translated as «feigned anger,» it presupposes the presence of affection (preman) and trust (vis´va¯ sa). In the following verse, love-anger pranaya-kopa is ˙ contrasted to pranayin, the lover. ˙ pranaya-kopa-bhrto ’pi para˙ n˙ -mukha¯ h sapadi va¯ ridhara¯ rava-bhı¯ravah ˙ ˙ ˙ ˙ pranayinah parirabdhum atha˙ gana¯ vavalire valirecita-madhyama¯ h ˙ ˙ ˙ (S´ is´upa¯ lavadha 6.38) Though filled with love-anger (Liebeszorn: HULTZSCH) and thus having their faces turned away, suddenly filled with fear of thunder, these ladies hastened to their beloved45 for embrace, while their waist was free from folds (trivali).

The resentment of ladies in love ceases through the medium of the thunder. (5-4) pranaya-kupita¯ (the lady in resentment). Such a lady is described as ˙ follows. tva¯ m a¯ likhya pranaya-kupita¯ m dha¯ tu-ra¯ gaih s´ila¯ ya¯ m ˙ ˙ ˙ a¯ tma¯ nam te carana-patitam ya¯ vad iccha¯ mi kartum ˙ ˙ ˙ asrais ta¯ van muhur upacitair drstir a¯ lupyate me kru¯ ras tasminn api na ˙˙˙ sahate samgamam nau krta¯ ntah ˙ ˙ ˙ ˙ (Meghadu¯ ta 102) 44 Cf. pranaya¯ para¯ dhin: a variant reading karastha-darbha-pranaya¯ para¯ dhisu in Kuma¯ rasambhava ˙ ˙ ˙ ˙ 5.35b as is mentioned above. 45 Mallina¯ tha paraphrases pranayin by priya. ˙

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With earthern dyes I sketch on a rock thy form in loving pique, but when I try to limn myself fallen at thy feet, at once my sight is blinded by ever-welling tears; Even there, savage fate does not suffer our reunion. (EDGERTON)46

(5-5) pranaya-kalaha (quarrelling in pranaya). The resentment results in quar˙ ˙ relling, hence the compound pranaya-kalaha. ˙ (5-5-1) The parrot Vais´ampa¯ yana is introduced to the king S´ u¯ draka as ˙ follows. pranaya-kalaha-kupita-ka¯ minı¯-prasa¯ danopa¯ ya-caturah (Ka¯ dambarı¯ 25.4-5) ˙ ˙ He is skilled in means of conciliating the loving woman (who is) angry because of love-quarrelling47.

(5-5-2) The learned Vararuci had a wife who seems to have been spoiled by his excessive love. Thus, once she got angry, it was difficult to appease her. tasya ca pranaya-kalahena ja¯ ya¯ kupita¯ /sa¯ ca¯ tı¯va vallabha¯ neka-praka¯ ram paritosyama¯ ˙ ˙ ˙ na¯ pi na prası¯dati ˙ (Pañcatantra 4.49 prose Kosegarten p. 223, lines 5-6) His wife got angry due to love-quarrelling. She is not pacified, though gratified in various ways by her husband. 46 The compound pranaya-kupita does not only appear between a man and a woman in love, but also among persons of the ˙same sex.

tatah sneha¯ rdra-vadanau ta¯ v ubhau na¯ ga-nandanau ˙ nrpateh putram kimcit pranaya-kopitam (MP 23.85-6) u¯ catur ˙ ˙ ˙ ˙ ˙ Thereupon both the young Na¯ gas, their faces beaming with affection, replied to the king’s son, somewhat feigning anger. (PARGITER) One may take liberties with his superior. Thus, a servant also is styled as pranaya-kupita to his ma˙ ster. In the Pañcatantra Garuda is depicted as such to the god Visnu. ˙ ˙˙ atha du¯ ta-mukhena pranaya-kupitam vainateyam vijña¯ ya bhagava¯ ms´ cintaya¯ m a¯ sa (Pañcatantra 1 ˙ ˙ ˙ ˙ Katha¯ 15, p.73, lines 21-22) Then, having known through the mouth of the messenger that the son of Vinata¯ was angry presuming upon his master’s affection, the Lord thought as follows. One may also become pranaya-kupita in the company of friends. Thus the deer Citra¯ n˙ ga speaks to ˙ the crow Laghupatanaka as follows, tat ksantavyam tvaya¯ yat kimcin maya¯ pranaya-kupitena subha¯ sita-gosthı¯sv abhihitam (Pañcatantra ˙ p. 142, lines ˙ 23-4) ˙ ˙ ˙˙ ˙ Kosegarten˙ 2.180.1-2 Thus you should forgive me for what is said in the midst of the society of the well-said by me, being angry out of affection. 47 Cf. pranayinyeva vihita-kes´a-grahaya¯ ..d˙ araya¯ ..dhavalı˙-krta-vigraham. (Ka¯ dambarı¯ 83.1.) ˙ ˙ ˙

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(5-6) All these passages above indicate that pranaya here means nothing ˙ more than the intimacy (paricaya) between the loving couple, which is composed of affection (preman) and trust (vis´va¯ sa). Presuming upon this intimacy (pranaya), a man is apt to behave wrongly with the result that he would cause ˙ resentment in his beloved. Nevertheless, thanks to this same pranaya, they ˙ come to reconciliation, regaining love and trust. They are quarrelling with each other freely as well as frankly due to the presence of pranaya, until they eventu˙ ally reach reconciliation. It encircles the safety-zone, so to speak, within which people in love feel safe even when they get angry and quarrel with each other without feeling any danger in their love-catastrophe, that is, divorce or disengagement.

6. CONCLUSION All these discussions above show that the semantic field that the Sanskrit word pranaya comprises is too intricate to be translated by such single English ˙ words as love, trust, request and the like. It is a complex concept, in which affectionate emotion (preman or prı¯ti), trusting judgement (vis´va¯ sa) and even demanding volition (ya¯ cña¯ ) are all present and inseparably related with each other. It may correspond to «intimacy» or «familiarity» (paricaya) at the fully ripened stage of friendship, where the danger of its break-up can creep in, if friends are careless and become too presumptuous48. Coming back to Arjuna’s address to Krsna in Bhagavad-gı¯ta¯ 11.41, there ˙˙ ˙ the former apologizes to the latter for his pranaya, due to which he impudently ˙ treated him as a common man in full trust and affection. Also, in Damayantı¯’s address to Nala, she requests him to speak out beyond his capacity as a mere messenger more freely and frankly to her with his confidence and affection. Yet, one should be always mindful (a-prama¯ da) not to indulge in excessive intimacy as we see in Arjuna’s apology (prama¯ da¯ t pranayena), for the enmity (vaira) ˙ which can germinate in a friend once trusted is dangerous enough to destroy the friendship itself completely! In such a case, the old friend who knows one’s weak point (marma-vid), turns out to be more troublesome than ordinary people. mitra¯ ny eva hi raksanti mitrava¯ n na¯ vası¯dati ˙ ˙ 48 Cf. atiparicaya¯ d avajña¯ samtata-gamana¯ d ana¯ daro bhavati ˙ malaye bhiksu-puramdhrı¯ candana-tarum indhanam kurute (IS 140). ˙ ˙ ˙

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mitra¯ d utpa¯ ditam vairam api mu¯ lam nikrntati (IS 4865) ˙ ˙ ˙ Only friends protect (us), and he who has a friend is never in distress. But, enmity originating from the friend destroys root and branch. duhkhena s´lisyate bhinnam s´listam duhkhena bhidyate ˙ ˙ ˙ ˙˙ ˙ ˙ bhinna-s´lista¯ tu ya¯ prı¯tir na sa¯ snehena vartate (IS 2832) ˙˙ Once broken, it is hard to be united. Once united, it is hard to be broken. But friendship which is once broken and again united exists no longer with affection49. MINORU HARA

49

Cf. IS 3429, 3433.

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ABBREVIATIONS

Minoru Hara

AND

BI BR

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TEXTS

HOS IS KAS KSS MBh MP NSP POS R SS

Bibliotheca Indica O. BÖHTLINGK R. ROTH, Sanskrit Wörterbuch (St.Petersburg 1855-75) Harvard Oriental Series (Cambridge, Mass.) O. BÖHTLINGK, Indische Sprüche (Osnabrück Reprint 1966) Kautilya-Artha-S´ a¯ stra, ed., by R.P. KANGLE (Bombay 1966) ˙ The Katha¯ -sarit-sa¯ gara of Somadevabhatta (NSP 1930) The Maha¯ bha¯ rata (Poona Critical Edition) Ma¯ rkandeya Pura¯ na (BI 29) (Osnabrück Reprint 1988) ˙˙ ˙ Nirnaya Sagar Press (Bombay) Poona Oriental Series The Va¯ lmı¯ki Ra¯ ma¯ yana (Baroda Critical Edition) ˙ Sanskrit Series

Amarus´ataka Bhagavadgı¯ta¯ Buddhacarita Ca¯ rudatta Hitopades´a Ka¯ dambarı¯ Kuma¯ rasambhava ˙ Ma¯ latı¯ma¯ dhava Ma¯ lavika¯ gnimitra Meghadu¯ ta Mrcchakatika ˙ ˙ Pañcara¯ tra Pañcatantra Raghuvams´a ˙ S´ akuntala S´ is´upa¯ lavadha Saundarananda Vikramorvas´¯ıya

NSP (1954) HOS 38 (1952) edited by E.H. JOHNSTON (Delhi Reprint 1972) Bha¯ sa-na¯ taka-cakram (POS 54, 1951) ˙ ed., by M.R. KALE (Bombay 1924) NSP (1921) NSP (1955) Bombay Sanskrit and Prakrit Series 15 (1970) NSP (1950) NSP (1953) NSP (1950) Bha¯ sa-na¯ taka-cakram (POS 54 1951) ˙ NSP 1959 (unless otherwise indicated) NSP (1948) ed., by R. PISCHEL (HOS 16 1922) NSP (1957) ed., by E.H. JOHNSTON (Kyoto Reprint 1971) ed., by H.D. VELANKAR (New Delhi 1961)

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SECONDARY LITERATURE EDGERTON EDGERTON

EMENEAU HAAS HARA 1992 HAUSCHILD HULTZSCH

JOHNSTON

KANGLE LANMAN MEYER

PARGITER SCHELLER SCHMIDT WOOLNER

F. EDGERTON, Bhagavadgı¯ta¯ HOS 38 (Cambridge Mass., 1952). KALIDASA, The Cloud Messenger translated from the Sanskrit Meghaduta by F. and E. EDGERTON, Meghadu¯ ta (Ann Arbor 1964). M.B. EMENEAU, Ka¯ lida¯ sa’s Abhijña¯ na-s´akuntala, (Westport 1962). The Das´aru¯ pa, A Treatise on Hindu Dramaturgy, by G.C.O. HAAS (Indian Reprint 1962). M. HARA, «S´ raddha¯ in the sense of desire,» Festschrift J. May (Asiatische Studien 46 1992) pp. 180-194. A. THUMB und R. HAUSCHILD, Handbuch des Sanskrit, II Teil Texte und Glossar (Heidelberg 1953). Ma¯ gha’s S´ is´upa¯ lavadha, nach den Kommentaren des Vallabhadeva und des Mallina¯ thasu¯ ri, ins Deutsche übertragen von E. HULTZSCH (Leipzig 1926). E.H. JOHNSTON, The Buddhacarita (Indian Reprint 1972). E.H. JOHNSTON, The Saundarananda, or Nanda the Fair (Kyoto Reprint 1971). R.P. KANGLE, The Kautilı¯ya Arthas´a¯ stra, Part II (Bombay ˙ 1972). CH. R. LANMAN, Sanskrit Reader (Cambridge, Mass., 1955). Das altindische Buch vom Welt- und Staatsleben, das Arthas´a¯ stra des Kautilya, aus dem Sanskrit übersetzt und mit Einleitung und ˙ Anmerkungen versehen von J.J. MEYER (Graz Reprint 1977). The Ma¯ rkandeya Pura¯ na, translated with Notes by F.E. PARGITER ˙˙ ˙ (Varanasi Reprint 1981). M. SCHELLER, Vedisch priya- und die Wortsippe frei, freien, Freund (Göttingen 1959). R. SCHMIDT, Beiträge zur indischen Erotik (Darmstadt Reprint). Thirteen Plays of Bha¯ sa, translated into English by A.C. WOOLNER and L. SARUP (Lahor 1929)

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LE NOZZE DEL SERPENTE* Il tema delle nozze del serpente richiama, alla mente del lettore di cultura occidentale, la vasta fioritura di leggende medievali sviluppatesi intorno alla figura di Melusina. È questa una fata che si presenta nelle vesti di una donna di straordinaria bellezza e innamora di sé un cavaliere ignaro del fatto che ella ha natura di serpente. Melusina sposa l’uomo, vincolandolo, però, a un patto nuziale: egli non dovrà mai vederla di sabato. Promette, tuttavia, a Raimondo – tale è il nome del cavaliere – grande fortuna personale e della casata di Lusignan, cui egli appartiene, se la promessa rimarrà segreta e, soprattutto, se sarà mantenuta. Le nozze hanno luogo e Melusina attende ad accrescere la potenza e la ricchezza dello sposo. Costruisce castelli, dissoda terre incolte e le rende fertili, mette al mondo dieci figli. Tutto procede nel migliore dei modi, finché Raimondo non cede al sospetto, riguardo quanto la sposa fa il sabato, e decide di spiarla. Coglie Melusina nell’atto di fare il bagno e scopre così che ella è per metà donna e per metà serpente. La fata, infranta la promessa da parte dello sposo e rivelata la sua doppia natura, fugge in volo, attraverso una finestra, trasformandosi in serpente. Questo, in sintesi, il racconto della leggenda, trasmessoci dai narratori francesi medievali Jean D’Arras e Couldrette, che lo redassero in prosa sul finire del XIV secolo, il primo, in versi, agli inizi del XV, il secondo1. L’am-

* Il presente lavoro costituisce la prima parte di un’ampia premessa allo studio dell’immagine del serpente nell’iconografia dell’India antica. È apparso necessario, infatti, prima di procedere all’indagine più propriamente storico-artistica dell’argomento, riconoscere ed esaminare i valori simbolici, che a quella figura vengono connessi nell’immaginario indiano, quali si riflettono nella letteratura religiosa, nel patrimonio leggendario e nella devozione popolare. Tale ricerca, diretta dall’autrice, è finanziata dall’Università di Roma «La Sapienza». 1 J. D’ARRAS, Le roman de Mélusine, ed. L. Stouff, Dijon et Paris 1932. Traduzione in francese moderno di M. PERRET, Le roman de Mélusine ou l’histoire des Lusignan, Paris 1979. Il romanzo di Couldrette è stato pubblicato da Fr. MICHEL, Mellusine, Niort 1854. Va rilevato che leggende simili a quella di Melusina sono attestate, in epoca più antica di quella in cui scrissero Jean D’Arras e Couldrette, in testi latini quali il De nugis curialium, di GAUTIER MAP, che visse alla corte inglese e redasse la sua opera fra il 1181 e 1193, e gli Otia imperialia di GERVAIS DE TILBURY, scritti fra il 1209 e il 1214. Il tema è, inoltre, ampiamente presente sia in opere letterarie, sia nel folklore celtico e si diffonde poi in varie altre tradi-

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biente in cui si svolgono le vicende narrate è il Poitou e, in particolare, il castello di Lusignan, dimora della nobile famiglia omonima, che alla donna-serpente ricollega la propria origine. Un’unione simile a quella di Raimondo e Melusina costituisce il tema fondamentale di un altro racconto, relativo a un paese e a un’epoca assai lontani dalla Francia medievale. Si tratta della leggenda di fondazione del Fu-nan, un regno sorto nella penisola indocinese nel I secolo d.C., che divenne la maggiore potenza dell’Asia sud-orientale e tale rimase fino al VI secolo, quando fu sconfitto e conquistato dai Khmer. Le notizie che ci sono pervenute, riguardo questo regno, derivano eminentemente da fonti cinesi. A esse si sono aggiunti, poi, i dati forniti dagli scavi archeologici effettuati da Louis Malleret2 negli anni 1940-45, che hanno portato alla luce i resti dell’importante centro portuale di Oc-eo, sulla costa orientale del golfo di Thailandia. Nonostante ciò, la conoscenza della storia del Fu-nan resta, per molti aspetti, lacunosa. La Cina si interessò del Fu-nan a causa dell’ampiezza dei commerci che, dall’Occidente romano e dall’India, mettevano capo ai porti del regno e, al fine di ottenere una conoscenza diretta di tale mercato, inviò sul luogo due personaggi, a nome K’ang T’ai e Chu Ying, verso la metà del III secolo d.C. La relazione, che costoro redassero al loro rientro in patria, è purtroppo perduta, ma vari brani di questo testo sono riportati dalle storie dinastiche cinesi. Oltre le notizie riguardanti l’aspetto fisico, gli usi, i costumi degli abitanti dello stato indocinese, i due inviati riportarono una leggenda relativa alla fondazione del regno. Il Chin shu o Storia dei Chin, che riguarda il periodo compreso fra il 265 e il 419 d.C. e che fu redatto fra il 578 e il 648, la racconta nel modo seguente, secondo la traduzione in francese di Paul Pelliot: «Leur souverain était originairement une femme, appelée Ye-lieou. Il y eut alors un éntranger, appelé Houenhouei, qui pratiquait le culte des génies; il rêva que le génie lui donnait un arc, et de plus lui ordonnait de monter sur une jonque et de prendre la mer. Houenhouei, au matin, se rendit au temple du génie; il y trouva un arc, puis, à la suite de marchands, s’embarqua sur mer. Il arriva en dehors de la ville du Fou-nan. zioni europee. Cfr. C. LECOUTEUX, Mélusine et le Chevalier au Cigne, Paris 1982, trad. it., Lohengrin e Melusina, Milano 1989, pp. 57 e sgg. Dalla letteratura esso passa poi alla musica, come attestano varie composizioni di epoca romantica, fra le quali Die schöne Melusine, ouverture in fa magg., op. 32 di FELIX MENDELSSOHN-BARTHOLDY, e alcune opere liriche tra cui Melusine di CONRADIN KREUTZER e La magicienne di JACQUES HALÉVY. In tempi più recenti, la storia della fata celtica riappare nella Melusine di ARIBERT REIMAN e nella leggenda musicale La bella Melusina di CARLO GALANTE. Va rilevato anche che la storia di Melusiana è strettamente connessa al tema della «sposa laida», presente nel folklore celtico e in numerose altre tradizioni. In questo genere di racconti la protagonista è caratterizzata da un aspetto particolarmente spiacevole dal quale il personaggio maschile non deve lasciarsi ostacolare, allorché ella chiede una manifestazione d’amore. Vedi A.K. COOMARASWAMY, «On the loathly bride», Speculum, XX, 1945, ripubblicato in A.K. COOMARASWAMY, 1: Selected Papers, Traditional Art and Symbolism, edited by Roger Lipsey, Princeton 1977, pp. 353-370. 2 L. MALLERET, L’Archéologie du Delta du Mekong, tomi 4, Pubbl. EFEO, Paris 1959-1963.

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Ye-lieou amena des troupes pour lui résister. Houen-houei leva son arc. Yelieou eut peur et se soumit à lui. Sur quoi Houen-houei la prit pour femme et s’empara du royaume»3. La medesima leggenda è narrata, con alcune aggiunte e varianti, nel Nan chi shu o Storia dei Chi meridionali, relativa al periodo compreso fra il 479 e il 501, che fu redatta agli inizi del VI secolo4. Diversamente dal testo precedente, in questa cronaca lo straniero è chiamato Huen-t’ien, forma che appare anche in altre opere e che è ritenuta essere quella corretta. Il problema, relativo al nome del personaggio, non è, peraltro, trascurabile poiché la forma Huen-t’ien è ritenuta la trascrizione cinese del nome indiano Kaundinya, così come la pratica del culto dei geni, attribuita dal ˙˙ testo all’uomo, sembra corrispondere a un’espressione usata dai Cinesi per indicare un seguace del culto brahmanico5. Il Nan chi shu precisa, inoltre, che egli lanciò una freccia contro il naviglio della regina che gli si era fatta incontro con intenzioni ostili. Il dardo trapassò il fianco della nave e colpì qualcuno che si trovava a bordo. La regina ebbe paura e si sottomise. Lo straniero la sposò, ma scontento di vederla andare nuda, le fece passare la testa attraverso una stoffa, nella quale era stato praticato un foro, e in tal modo la coprì6. Nel Liang shu o Storia dei Liang, comprendente il periodo che va dal 502 al 556 e redatta nella prima metà del VI secolo, la leggenda viene ancora una volta riportata e, in aggiunta alle notizie già riferite, si dice che era costume generale degli abitanti del Fu-nan, andare a corpo nudo e tatuato e che la regina Liu-ye (Foglia di salice) era giovane e robusta e assomigliava a un ragazzo7. Si è tentato di ricavare, da questo racconto, qualche indicazione di carattere storico; è sembrato, infatti, di poter dedurre, dalle notizie che esso fornisce, che il fondatore del regno provenisse dall’India e che la leggenda, nel complesso, adombrasse il fenomeno dell’irradiazione della civiltà indiana nelle terre dell’Asia sud-orientale, in particolare nella penisola indocinese8. Ma, anche a voler dare qualche credito storico al racconto, è tuttaltro che certa la provenienza dall’India del protagonista della vicenda. Quanto al nome indiano di Kaundinya, va ricordato che esso appare in brani del testo perduto degli inviati ˙˙ 3

P. PELLIOT «Le Fou-nan», Bulletin de l’École Française d’Exrême-Orient, BEFEO, II, 1902, p.

254. 4

P. Pelliot, op. cit., p. 256. Ibid., p. 254, note 4 e 5. 6 Ibid., p. 256. 7 Ibid., p. 265. 8 Cfr. G. COEDÈS, Les états hindounisés d’Indochine et d’Indonesie, Paris 1948, Nouvelle édition, 1964, p. 65. M. MARIOTTINI SPAGNOLI, La penetrazione della civiltà indiana nell’Asia sud-orientale, Roma, 1982, p. 14 5

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cinesi nel Fu-nan, riportati da storie dinastiche, redatte fra il VI e il VII secolo, a notevole distanza temporale dall’epoca cui risale l’opera originaria. Per giunta, secondo quanto riferisce la Storia dei Liang, nel V secolo un altro personaggio, anch’egli di nome Kaundinya, sarebbe stato spinto da una voce divina ˙˙ ad andare a regnare sul Fu-nan.9 Quale che sia il fondamento storico del racconto relativo alle origini del regno, si sarà rilevato che, in contrasto con quanto si è detto sopra, esso non sembra presentare particolari affinità con il tema di Melusina, se non per il fatto che entrambi i matrimoni procurano allo sposo potere e ricchezza. Ma altri documenti forniscono una versione diversa della leggenda indocinese. Un’iscrizione sanscrita, rinvenuta a Mı^-so’n, nell’antico Champa, datata al 658 d.C. (579 dell’era s´aka), ci informa che nella città che aveva il nome di Bhava (Bhavapura), il grande brahmano Kaundinya conficcò il giavellotto che aveva ricevuto da ˙˙ As´vattha¯ man, figlio di Drona, e aggiunge che una figlia del re dei na¯ ga, fondò una stirpe, che porta il nome di Soma¯ , e che Kaundinya la sposò per il compi˙˙ mento dei riti10. Il testo presenta delle lacune, tuttavia, le informazioni che esso fornisce sono preziose ai fini della ricostruzione della leggenda che, probabilmente, i Cinesi avevano riferita in una forma razionalizzata. Oltre all’attestazione diretta del nome dello straniero, vi si trova quello della sposa, Soma¯ , della quale si dice che era figlia di un re dei na¯ ga. Ella era, dunque, un membro della vasta e antica famiglia di divinità-serpenti cui, in India, si rivolge ancor oggi una sentita devozione. Come è noto, questi esseri divini possono presentarsi in forma ofidica o assumere aspetto umano. Tali caratteristiche e i racconti, a esse ispirati, riempiono le tradizioni religiose e il folklore dell’India11, ove le na¯ gı¯ seducono personaggi di sesso maschile, esercitando capacità di fascinazione non diverse da quelle possedute dalla bella Melusina. Nella penisola indocinese la leggenda della na¯ gı¯ ebbe ampia e durevole fortuna. Se ne trovano attestazioni in tradizioni e documenti diversi, fra i quali vanno ricordate alcune iscrizioni che si aggiungono a quella già ricordata di Mı^so’n. Talvolta esse contengono delle semplici menzioni della famiglia di Soma¯ e di Kaundinya, come nell’iscrizione incisa sulla stele di Prah Einkosei12. Analoga ˙˙ ˙ 9 Sulla questione del primo e del secondo Kaundinya v. G. COEDÈS, op. cit., p. 65 e p. 110, n. 1. ˙ Centre d’Études sinologiques de Pékin, 1-3, Cfr. anche R. STEIN, «Le Lin-yi», Han-hiue, Bulletin˙du 1947, p. 258. B. R. CHATTERJI, «Recent Advances in Kambuja Studies», Journal of the Greater India Society, V, 1939, p. 139. K. A. SASTRI, «A Note on the Kaundinyas in India, «Artibus Asiae, XXIV, 1961, p. ˙˙ 403. 10 L. FINOT, Notes d’épigraphie», BEFEO, IV, 1904, p. 923. Idem, «Sur quelques traditions indochinoises», Bulletin de la Commission Archéologique de l’Indochine, 1911, p. 32. 11 Cfr. J. PH. VOGEL, Indian Serpent Lore, London 1926, passim. 12 G. COEDÈS, «Inventaire des inscriptions du Champa et du Cambodge», BEFEO, VIII, 1-2, n. 263, IDEM, «L’inscription de Bàksei Camkron˙ », Journal Asiatique, 1909, pp. 476-78. ˙

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testimonianza è fornita dall’iscrizione sanscrita, incisa sui piedritti della torre di Baksei Chamkron˙ , che risale al 947 d.C. (869 dell’era s´aka)13. Anche in questo ˙ documento è ricordata la coppia Kaundinya-Soma¯ come antenata di un so˙˙ vrano di nome Rudravarman. Nel 1295, il cinese Chou Ta-kuan accompagnò l’ambasciatore dei Mongoli, inviato presso la corte khmer per chiedere il tributo. Egli scrisse una preziosa opera nella quale erano raccolte notizie sul Cambogia, derivanti da conoscenza diretta del paese. In essa era riportata, tra l’altro, una leggenda secondo la quale il sovrano, ogni sera, doveva recarsi in una torre ove si incontrava con una na¯ gı¯ e a lei si univa. Più tardi egli poteva andare a giacere con le sue concubine. Se, però, l’incontro con la na¯ gı¯ non fosse avvenuto, ne sarebbe seguita la fine del regno e della vita del sovrano14. La tradizione del connubio o dell’unione fra un personaggio maschile e una donna-serpente, ai fini della costituzione o della preservazione di un regno, continua a sussistere anche in epoca moderna, come attesta una leggenda riportata dagli Annali reali cambogiani. Essi narrano che un personaggio, di nome Prah Thon˙ , figlio del re di Indraprastha (Delhi), venne esiliato dal proprio ˙ paese e giunse nel Cambogia ove, nottetempo, incontrò una na¯ gı¯ uscita dall’acqua. Affascinato dalla bellezza di lei, la sposò. Il re dei na¯ ga, padre della giovane, bevve l’acqua che ricopriva la terra e suscitò, per magia, splendidi palazzi in quel territorio15. Etienne Aymonier riferisce che, ancora ai suoi tempi, durante i riti nuziali, celebrati in alcuni villaggi cambogiani, veniva ricordata nel canto la mitica coppia fra la commozione dei presenti16. Il matrimonio tra un personaggio umano e un membro della famiglia dei na¯ ga o, più in generale, un essere acquatico, oltre che nel Cambogia e nel Champa, è presente anche nelle leggende dell’area birmana, nel Pegu, fra i Thai e nell’Indonesia, per citare solo alcune delle regioni dell’Asia sud-orientale in cui il tema è attestato, ma la sua diffusione è ben più vasta17. George Coedès segnalò, nel 1911, l’esistenza di due iscrizioni, nell’India meridionale, collegate alla dinastia dei Pallava e risalenti al IX secolo circa18. La prima derivava dal re Skandas´isya, che annoverava fra i suoi antenati un omo˙ 13

G. COEDÈS, «L’inscription de Bàksei Camkro˙ n», cit., p. 477. P. PELLIOT, «Memoires sur les coutumes˙ du Cambodge», BEFEO, II, 1902, pp. 144-45. 15 J. MOURA, Le royaume du Cambodge, 2 vols. Paris 1882-83, II, p. 4 sgg. L. FINOT, «Sur quelques traditions indochinoises», cit., pp. 30-31. E. PORÉE-MASPERO, «Nouvelle Étude sur la Na¯ gı¯ Soma¯ » Journal Asiatique, 1950, p. 238 sgg. 16 L’Histoire de l’ancien Cambodge, Paris 1920, p. 11. 17 L. FINOT, «Sur quelques traditions indochinoises», cit., p. 32 sgg. J. PRZYLUSKI, La princesse à l’odeur de poisson et la na¯ gi dans les traditions de l’Asie Orientale, Études Asiatiques EFEO, II, 1924, pp. 265-84. 18 «Études Cambodgiennes: I - La légende de la na¯ gı¯», BEFEO, XI, 1911, 3-4 p. 391. 14

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Maria Spagnoli

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nimo Skandas´isya, figlio di As´vattha¯ man e nipote di Drona. As´vatthaman aveva ˙ ˙ avuto – secondo quanto afferma l’iscrizione – quel valoroso figlio da una 19 donna-serpente . Un’altra iscrizione, del re Nandivarman III, ricorda, fra gli antenati dei Pallava, Vı¯raku¯ rcha, che «sposò una na¯ gı¯ e ottenne da lei le insegne della regalità»20. Inoltre alcune opere letterarie tamil riferiscono, in vario modo, la leggenda. Nel Manime¯ galai21, un poema di argomento buddhista, si narra di un re ˙ cola, di nome Killi, che sposò la figlia di un re dei na¯ ga e ne ebbe un figlio che ˙ ˙˙ divenne un Tondaima¯ n, cioè un Pallava di Ka¯ ñcı¯. Due altri poemi tamil, il Vik˙˙ kirama-s´o¯ jan-ula22 e il Kalin˙ gattuparani23 raccontano la storia di un Cola che, ˙ ˙ entrato in una caverna, vi incontrò una figlia del re dei na¯ ga e a lei si unì. Il Pe24 rumba¯ na¯ t’t’uppadai narra una vicenda analoga, aggiungendo che dall’unione ˙ del Cola e della na¯ gı¯ nacque un figlio che diventò un Tondaima¯ n. ˙ ˙˙ È stato rilevato che, mentre le iscrizioni riferiscono la leggenda ai Pallava, le opere letterarie presentano, come protagonista del racconto un Cola. En˙ trambe le tradizioni, tuttavia, concordano nel sostenere che il figlio nato dall’unione con la na¯ gı¯ fosse un Pallava. È, dunque, all’origine mitica di questa dinastia che la storia si riferisce25. Come nota George Coedès26, le analogie che legano la leggenda di fondazione del Fu-nan a quelle relative alla dinastia dei Pallava, sono assai strette anche perché, nella versione fornita dall’iscrizione di Mı^-so’n, è As´vattha¯ man, indicato come sposo della na¯ gı¯ in un’iscrizione pallava, che fornisce a Kaundinya ˙˙ l’arma divina, il lancio della quale segna il luogo della capitale del regno. Poiché, tuttavia, le nozze con un essere di natura ofidica o, più genericamente acquatica, costituiscono un tema leggendario proprio sia dell’India, sia dell’Asia sud-orientale, si è tentato di chiarire in quale delle due regioni esso avesse avuto origine. Mentre ad alcuni studiosi la somiglianza con i racconti relativi alla dinastia dei Pallava sembrava indicare l’origine indiana della leggenda funanese27, di diverso avviso fu Jean Przyluski28 che, nel 1924, pubblicò un fondamentale lavoro in cui erano raccolte ampie testimonianze della diffusione del tema relativo all’unione di un essere umano con una creatura acquatica – non solo ser19 Cfr. E. HULTZSCH, «Rayakata Plates of Skandas´isya», Epigraphia Indica, V, 1898-99, p. 49. Il te˙ sto è costituito da tre versi sanscriti e una parte in prosa tamil. 20 G. COEDÈS, «La legende de la na¯ gı¯», luogo cit. 21 Ibid., p. 392. 22 India Antiqua, XXII, p. 148. 23 Ibid, XIX, p. 341. 24 Cfr. E. HULTZSCH, South Indian Inscriptions, II, parte 3, p. 377, n. 5. 25 G. COEDÈS «La legende de la na¯ gı¯», cit., pp. 392-93. 26 Ibidem. 27 Ibidem. 28 Op. cit., pp. 265-84.

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pente ma, in alcuni casi, anche pesce, lumaca d’acqua, lucertola e drago – oltre che in India, nell’Asia sud-orientale continentale e insulare e in Cina. Delle leggende considerate e delle numerose varianti, che esse presentavano, lo studioso individuò, come esemplare, quella nella quale protagonista femminile era una fanciulla nata da un pesce. Di questo ella conservava l’odore sgradevole che diveniva causa dell’allontanamento della ragazza dalla famiglia. L’unione con un uomo che non si era lasciato vincere dal disgusto, provocato da quel difetto, dava vita a una dinastia o a un personaggio famoso. È tale il caso per quanto concerne la nascita di Vya¯ sa29, considerato l’autore dei cinque Veda, i quattro costituenti il gruppo più antico, ai quali si aggiunge il Maha¯ bha¯ rata. Ma il tema leggendario appare anche in racconti birmani, del Tenasserim e dei Palaung del bacino del Saluen. In quest’ultimo caso protagonista della storia non è una fanciulla, bensì un giovane che è figlio di una lumaca d’acqua e che, dopo varie avventurose vicende, sposa una principessa30. Altri esempi indiani e cinesi di unione fra un essere umano e una creatura acquatica sono indicati da Przyluski31 il quale, dal complesso delle leggende esaminate, trae la conclusione che l’area nella quale questo tema ha avuto origine è quella su cui si estendeva la civiltà marittima dell’Asia sud-orientale. Qui, a parere dello studioso, fra le popolazioni austro-asiatiche che vivevano sulle rive del mare o sui delta dei fiumi poteva, meglio che nelle regioni continentali, nascere l’idea che la forza magica che crea gli eroi risieda nelle acque. Il tema si sarebbe poi diffuso verso l’India e verso la Cina ove avrebbe subito trasformazioni derivanti dall’adattamento alle due diverse civiltà. Il pesce sarebbe divenuto un na¯ ga a Ovest e un drago a Nord32. Il problema dell’origine del nucleo leggendario in questione è, tuttavia, ancora più complesso di quanto sia apparso sin qui. Victor Goloubew33 aveva segnalato infatti, già nel 1924, la stretta analogia che lega la leggenda funanese della na¯ gı¯ e dello straniero a quella di Eracle e Echidna, quale è narrata nel IV libro delle Storie di