Le ragioni della filosofia. Filosofia moderna [Vol. 2] [PDF]

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Zitiervorschau

29-03-2011

14:06

Q UESTO

Pagina 1

VOLUME SPROVVISTO DEL TALLONCINO A FRONTE ( O OPPORTUNAMENTE PUNZONATO

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LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA

Le ragioni della filosofia

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Luca Fonnesu | Mario Vegetti Elena Castellani | Claudio La Rocca | S. Filippo Magni Roberta Picardi | Elisabetta Scapparone

LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA 2 - Filosofia moderna

0 I-II Vegetti-Filosofia 2

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Luca Fonnesu - Mario Vegetti Elena Castellani - Claudio La Rocca - S. Filippo Magni Roberta Picardi - Elisabetta Scapparone

LE RAGIONI DELLA FILOSOFIA 2 Filosofia moderna

© 2008 by Mondadori Education S.p.A., Milano Tutti i diritti riservati © 2008 by Mondadori Education S.p.A., Milano www.mondadorieducation.it Tutti i diritti riservati www.mondadorieducation.it

Prima edizione : febbraio 2008

Il Sistema Qualità di Mondadori Education S.p.A. è certificato da Bureau Veritas Italia S.p.A. secondo la Norma UNI EN ISO 9001:2008 per le attività di: progettazione, realizzazione di testi scolastici e universitari, stru6 5 4 menti didattici multimediali e dizionari. Il Sistema Qualità di Mondadori Education S.p.A. è certificato da Bureau Veritas Italia S.p.A. secondo la Norma UNI EN ISO 9001:2008 per le attiviEdizioni 2014 2015 2013 2012 2011 di: progettazione, realizzazione testi scolastici e universitari, struLetà fotocopie per uso personale del lettoredipossono essere effettuate nei limiti del 15% 10 9 8 7materiale 6 protetto 5 da4copyright e non può esseredicopiato, menti multimediali e dizionari. ciascundidattici volume/fascicolo ditrasferito, periodico dietro pagamento allanoleggiato, SIAE del compenso preQuesto ebook contiene riprodotto, distribuito, licenvistodi dall’art. 68, commi 4 e 5,specificamente della legge 22 aprile autorizzato 1941 n. 633. Le riproduzioni diverziato o2012 utilizzato2011 in alcun altro modo ad eccezione quanto è stato dall’editore, 2015 o trasmesso 2014 in pubblico, 2013 se da quelle sopraindicate (per uso non personale – cioè, a titolo esemplificativo, comQuesto volume è stampato Le fotocopie per uso personale dellegge lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% ai termini e alle condizioni alleda: quali è stato acquistato o da quanto esplicitamente previsto dalla applicabile. Qualsiasi distribulimite del 15%) potranno avvenire solo merciale, economico o professionale – e/o oltre ilpagamento di ciascun volume/fascicoloelettroniche di periodico dietro alla SIAE del compenso preLTV - oLafruizione Tipografica Varese S.p.A, Varesetesto così come l’alterazione delle zione non autorizzata di questo informazioni suldaregime dei costituia seguito di specifica autorizzazione rilasciata AIDRO, Corso didiritti Porta Romana 108, visto dall’art. 68,penalmente commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941previsto n. 633. Le riproduzioni diversce una violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente secondo quanto dalla Legge Stampato in Italia - Printed in Italy Milano 20122,ee-mail [email protected] e sito web www.aidro.org. se da quelle sopraindicate (per uso non personale – cioè, a titolo esemplificativo, comQuesto volume è stampato da: 633/1941 e successive modifiche. merciale, economico o professionale – e/o oltre il limite del 15%) potranno avvenire solo

Edizioni Prima 2008 1 0 edizione 9 : febbraio 8 7

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Questo non potrà ininalcun prestito, acquisto o altrimenti diffuso Stampatoebook in Italia - Printed Italy modo essere oggetto di scambio, commercio, Milano 20122, e-mailrivendita, [email protected] e sitorateale web www.aidro.org. senza il preventivo consenso scritto dell’editore. In caso di consenso, tale ebook non potrà avere alcuna forma diversa da quella in cui l’opera è stata pubblicata e le condizioni incluse alla presente dovranno essere imposte anche al fruitore successivo.

L’opera è frutto della collaborazione fra gli autori. In particolare: Luca Fonnesu, oltre alle Introduzioni alle tre parti del volume, ha curato le Unità 4 L’età cartesiana, 9 Vico, 10 Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia, 11 L’Illuminismo in Francia, 12 Rousseau, 13 L’Illuminismo in Italia e in Germania, L’opera è frutto della collaborazione fra gli autori. In particolare: 17 Hegel, i Percorsi tematici Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male?, Che cos’è un’idea? e i Laboratori Luca Fonnesu, oltre alle Introduzioni alle tre parti del volume, ha curato le Unità 4 L’età cartesiana, 9 Vico, 10 Hume sul lessico Natura / naturale, Dovere e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia, 11 L’Illuminismo in Francia, 12 Rousseau, 13 L’Illuminismo in Italia e in Germania, Elisabetta Scapparone ha curato l’Unità 1 Umanesimo e Rinascimento 17 Hegel, i Percorsi tematici Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male?, Che cos’è un’idea? e i Laboratori Elena Castellani ha curato le Unità 2 La rivoluzione scientifica (tranne Bacone e il metodo scientifico), 8 Newton sul lessico Natura / naturale, Dovere Claudio La Rocca ha curato le Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna, 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza Elisabetta Scapparone ha curato l’Unità 1 Umanesimo e Rinascimento e Leibniz (la parte su Leibniz), 14 Kant e il Laboratorio sul lessico Coscienza / autocoscienza / io Elena Castellani ha curato le Unità 2 La rivoluzione scientifica (tranne Bacone e il metodo scientifico), 8 Newton Roberta Picardi ha curato le Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz (la parte su Spinoza), 6 Il soggetto Claudio La Rocca ha curato le Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna, 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley, 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo, e Leibniz (la parte su Leibniz), 14 Kant e il Laboratorio sul lessico Coscienza / autocoscienza / io 15 Fichte e la dottrina della scienza, 16 Il Romanticismo e Schelling e i Percorsi tematici Che rapporto c’è tra anima Roberta Picardi ha curato le Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz (la parte su Spinoza), 6 Il soggetto e corpo?, È legittimo resistere al potere politico?, Meccanicismo o teleologia? e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley, 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo, S. Filippo Magni ha curato l’Unità 2 La rivoluzione scientifica (la parte su Bacone e il metodo scientifico) e il Laboratorio 15 Fichte e la dottrina della scienza, 16 Il Romanticismo e Schelling e i Percorsi tematici Che rapporto c’è tra anima sul lessico Diritto e corpo?, È legittimo resistere al potere politico?, Meccanicismo o teleologia? S. Filippo Magni ha curato l’Unità 2 La rivoluzione scientifica (la parte su Bacone e il metodo scientifico) e il Laboratorio Redazione Andrea Bencini, Elisabetta Zappia, Polaris Studio redazionale (Firenze) sul lessico Diritto Impaginazione Polaris Studio redazionale (Firenze) Progetto grafico Alfredo La Posta Redazione Andrea Bencini, Elisabetta Zappia, Polaris Studio redazionale (Firenze) Copertina Walter Sardonini/SocialDesign (Firenze) Impaginazione Polaris Studio redazionale (Firenze) Ricerca iconografica Alberto Mori Progetto grafico Alfredo La Posta In copertina Piero Francesca, Madonna del Duca Federico (particolare) Copertina Walterdella Sardonini/SocialDesign (Firenze) Milano, Pinacoteca di Brera - © 1990 Foto Scala (Firenze). Ricerca iconografica Alberto Mori Su concessione del Ministero per i Beni e le Attività Culturali In copertina Piero della Francesca, Madonna del Duca Federico (particolare) Milano, Pinacoteca di Brera - © 1990 Foto Scala (Firenze). Revisione testi Su concessione del Annalia MinisteroCelli, per Luciana i Beni e Ceri, le Attività Culturali e apparati didattici Alessandro Becchi, Francesco Cirri Revisione testi e apparati didattici

Alessandro Becchi, Annalia Celli, Luciana Ceri, Francesco Cirri Per eventuali e comunque non volute omissioni e per gli aventi diritto tutelati dalla legge, l’editore dichiara la piena disponibilità.

Per informazioni e segnalazioni: Per eventuali e comunque volute omissioni e per gli aventi diritto tutelati dalla legge, l’editore dichiara la piena disponibilità. Servizio Clienti Mondadorinon Education e-mail [email protected] Per informazioni numero verde 800e segnalazioni: 123 931 Servizio Clienti Mondadori Education e-mail [email protected] numero verde 800 123 931

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Pagina III

Indice 5. L’uomo nell’infinito: Bruno

Parte prima

La nascita della filosofia moderna

T9 L’uomo nell’infinito (p. 49); T10 La ‘rivelazione’ dell’universo infinito (p. 49)

La nascita della filosofia moderna . . . . . . . . . .

5

2. L’ontologia: materia, anima, vicissitudine . . . . . . . 3. L’etica: la critica dell’ozio e l’esperienza del furore . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1. La critica della tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Ruolo della ragione e collocazione dell’uomo . . .

6 7

T11 Divina magia degli egizi, stolta idolatria dei cristiani (p. 53); T12 Caratteri del «furore eroico» (p. 54)

La parola al critico: I caratteri della filosofia moderna secondo Cassirer . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

9

4. La religione: dalla «nova filosofia» alla riforma del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Introduzione



46 47

......................

1. La cosmologia: universo infinito e infiniti mondi . .

49 52

55

6. La riflessione politica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Unità 1

Umanesimo e Rinascimento . . . . . . . . . . . . . . . . .

13

1. I caratteri dell’Umanesimo

14 14 15

......................

1. Il ritorno degli antichi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Una nuova figura di intellettuale . . . . . . . . . . . . . . . 3. Impegno civile e dignità dell’uomo: Pico della Mirandola . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

16

T1 La natura dell’uomo è la libertà (p. 17)

2. Dall’Italia all’Europa: diffusione dell’Umanesimo e riforma religiosa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. Filosofia cristiana e umori critici: Erasmo . . . . . . .

18 19

2. La politica fra «discrezione» e analisi del «particulare»: Guicciardini . . . . . . . . . . . . . . . .

60

T15 Il potere della fortuna (p. 61); T16 L’arte della discrezione (p. 61); T17 Complessità della nozione di interesse proprio (p. 61)

62

Sommario (p. 66), Parole chiave (p. 67), Questionario (p. 68)

Unità 2 20 25

T3 Montaigne si presenta ai suoi lettori (p. 25); T4 Diversità e varietà della natura (p. 26); T5 La barbarie degli europei (p. 27) ...........

1. Platone e Aristotele dopo il Medioevo . . . . . . . . . . 2. Fra Ermete e Platone: la «teologia platonica» di Ficino . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Fra Platone e Aristotele: la pax philosophica di Pico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Fra neoplatonismo e tradizione mistica: la «dotta ignoranza» di Cusano . . . . . . . . . . . . . . . .

4. La filosofia della natura fra magia e scienza

La rivoluzione scientifica

....................

69

1. Che cos’è la rivoluzione scientifica . . . . . . . . . . . . . . 2. La rivoluzione copernicana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

70 72 73

1. Il moto della Terra . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 28 28

T1 L’ipotesi del moto della Terra è coerente con i dati osservativi (p. 73)

29

2. Il sistema tolemaico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Il sistema copernicano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

31

T2 Contro l’uso degli eccentrici (p. 77); T3 Il Sole al centro (p. 78); T4 Tesi principali della teoria di Copernico (p. 78)

33

T6 Intelletto e verità (p. 34); T7 Origine e caratteri delle congetture (p. 35); T8 L’uomo come microcosmo (p. 37)

1. 2. 3. 4.

T13 La fortuna varia con il tempo (p. 58); T14 Verità effettuale della politica (p. 59)

3. Il reale e l’immaginario: le ‘città ideali’ di Moro e Campanella . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

T2 La follia della croce (p. 19)

2. La crisi religiosa: Riforma protestante e Controriforma . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Una ragione non dogmatica: Montaigne . . . . . . . . .

3. Il nuovo platonismo del Rinascimento

56 1. La lezione degli antichi e l’esperienza dei moderni: Machiavelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 57

4. La disputa sul De revolutionibus . . . . . . . . . . . . . . .

......

38 38 40 42 45

78

T5 Le ragioni di Copernico (p. 79)

3. Il compromesso di Tycho Brahe

Il naturalismo aristotelico: Pomponazzi . . . . . . . . . Il naturalismo antiaristotelico: Telesio . . . . . . . . . . Un nuovo sistema filosofico: Campanella . . . . . . . . La magia e la scienza moderna . . . . . . . . . . . . . . . .

74 77

81

.................

T6 L’osservazione delle comete contro la realtà delle sfere celesti (p. 82); T7 Il moto dei pianeti intorno al Sole (p. 85)

4. Keplero: verso una moderna fisica dei cieli . . . . . . .

86 86

1. Il Mysterium cosmographicum . . . . . . . . . . . . . . . . . T8 Sei cieli per cinque solidi regolari (p. 88)

III

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Indice

2. La «nuova astronomia» e le prime due leggi . . . . .

90

3. L’«Armonia del mondo» e la terza legge . . . . . . . . 4. La fortuna di Keplero . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

5. Galileo e la nascita della scienza moderna

.......

1. Il Sidereus Nuncius . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

T1 Cercare da solo le ragioni degli altri (p. 137)

2. In cammino nell’Europa del Seicento . . . . . . . . . . . 139 3. Un pensatore su molti fronti e l’unità del sapere . . 141

T9 Dalle orbite circolari alle orbite ellittiche (p. 90); T10 La «facoltà magnetica» è la causa fisica del moto dei pianeti (p. 91)

91 93 94 94

T2 L’albero della conoscenza (p. 142); T3 Rapporti e proporzioni (p. 144); T4 Una logica generale della conoscenza (p. 145); T5 L’unità del metodo (p. 145); T6 Il dominio sulla natura (p. 146)

4. Costruire il mondo (e l’uomo): fisica e fisiologia . . 146

T11 L’esperienza sensibile dei corpi celesti (p. 95); T12 L’osservazione sostiene la teoria copernicana (p. 96)

2. Lo studio sperimentale e matematico dei moti terreni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 98 3. La teoria della conoscenza del Saggiatore . . . . . . . 100 T13 Distinzione tra le qualità oggettive e le qualità soggettive (p. 101); T14 L’Universo è un libro scritto in caratteri matematici (p. 102)

T7 L’origine del mondo (p. 147); T8 L’uomo come sistema meccanico (p. 151)

5. Idee come rappresentazioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 153 T9 Il meccanismo della rappresentazione (p. 154); T10 La distinzione tra idee e immagini mentali (p. 155)

6. Ritrovare il fondamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 156

4. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, la condanna, l’abiura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 103 T15 Contro il principio dell’autorità (p. 104); T16 L’abiura di Galileo (p. 105)

6. Bacone e il metodo scientifico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 106 1. Gli errori della tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 107 T17 La magia tradisce l’esperienza (p. 107); T18 Accusa alla filosofia contemplativa (p. 108)

T11 Certezza e verità assoluta (p. 156); T12 La chiarezza e la distinzione (p. 159); T13 Ricominciare dalle fondamenta (p. 160); T14 Dal dubbio alla certezza di esistere (p. 161); T15 Scienza e conoscenza interiore (p. 163); T16 Il cogito e l’evidenza (p. 163); T17 La prova ontologica (p. 166); T18 Io e il mio corpo (p. 170); T19 L’azione del corpo sull’anima (p. 171); T20 Non esiste un luogo dell’anima (p. 172); T21 Il controllo delle passioni (p. 174) Sommario (p. 177), Parole chiave (p. 178), Questionario (p. 179)

2. La teoria degli «idoli» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 108 T19 Gli «idoli» condizionano anche chi ha accesso alla verità (p. 109); T20 I quattro tipi di «idoli» (p. 109)

3. Il metodo della scienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 111 T21 Critica dell’uso del sillogismo (p. 111); T22 L’enumerazione semplice (p. 111); T23 I tre passaggi del metodo induttivo (p. 112); T24 La tavola della presenza (p. 113); T25 Interpretare per andare oltre le tre tavole (p. 113); T26 L’esperimento cruciale (p. 114)

Laboratorio di lettura: Le Meditazioni metafisiche . . . . . . 180 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 185 Percorso tematico • Che rapporto c’è tra anima e corpo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 187 Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 199

Unità 4

L’età cartesiana

4. La conoscenza delle forme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 114 T27 Api, ragni e formiche: la scienza oltre l’empirismo e il dogmatismo (p. 114); T28 Conoscenza della causa formale e principi della trasformazione dei corpi (p. 116)

5. Scienza e tecnica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 116 T29 Il rapporto dell’uomo con la natura e l’importanza degli strumenti (p. 117); T30 Gli strumenti tecnici immaginati da Bacone (p. 117)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 201

1. Razionalismo cartesiano e sapere erudito

. . . . . . . . 202 1. Il dibattito sulla filosofia cartesiana . . . . . . . . . . . . 202 2. L’erudizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 203 3. Gli antichi, i moderni, la tradizione . . . . . . . . . . . . 205

2. In dialogo con Cartesio: Gassendi e Arnauld

. . . . . 206 1. Gassendi: atomismo ed empirismo . . . . . . . . . . . . . 206 2. Arnauld: razionalismo e difesa della religione . . . 208

T1 Il dubbio e la certezza in Agostino (p. 209)

Sommario (p. 119), Parole chiave (p. 120), Questionario (p. 121)

3. L’ordine metafisico: Malebranche

Laboratorio di lettura: Galileo, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 122 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 129

. . . . . . . . . . . . . . . . 210 1. La teoria delle idee e l’occasionalismo . . . . . . . . . . 211 2. La critica dell’erudizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212

T2 La superiorità di Cartesio su Aristotele (p. 212)

3. Il rapporto tra fede e ragione . . . . . . . . . . . . . . . . . . 212

LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Natura / naturale . . . 131 Esercitiamoci sulla natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 134

4. L’ordine del cuore: Pascal . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 214

Unità 3

Cartesio e la nascita della filosofia moderna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

1. Pascal e la scienza moderna . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 215 2. I limiti della ragione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 216 135

1. «La libertà di giudicare da sé» . . . . . . . . . . . . . . . . 136

IV

T3 La fede e l’evidenza razionale (p. 212)

4. L’agire divino: la metafisica dell’ordine e la semplicità delle vie . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 213 5. Il problema del male . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 213

T4 L’amor proprio (p. 217)

3. La ragione e il cuore: geometria e finezza . . . . . . . 217

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Indice

4. La duplicità dell’uomo: grandezza e miseria . . . . . 218 T5 L’uomo è una canna che pensa (p. 218); T6 La morte e il divertimento (p. 219)

5. Il dio nascosto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 219 6. La scommessa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 220 7. La morale e la polemica con i gesuiti . . . . . . . . . . . 220

5. Critica della tradizione e teodicea: Bayle . . . . . . . . . 222 1. La critica della superstizione e dell’idolatria . . . . 223 T7 L’ateo superiore all’idolatra (p. 223); T8 I costumi di una società senza religione (p. 224)

2. La tolleranza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 224 3. Il problema del male e la critica della teodicea . . 225 T9 La realtà del male (p. 225)

5. Sostanza e mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 285 T33 La sostanza come essere completo (p. 286); T34 La sostanza come specchio dell’universo (p. 287); T35 La forza (p. 288); T36 I punti metafisici di sostanza (p. 289); T37 Un principio vitale (p. 290); T38 L’animale come struttura complessa (p. 290); T39 L’autonomia della spiegazione meccanicistica (p. 292)

6. Il finalismo, Dio e i possibili, la libertà . . . . . . . . . 294 T40 Il limite della spiegazione meccanicistica (p. 294); T41 Progetto e strumenti (p. 295); T42 La scelta di Dio (p. 296); T43 L’origine del male metafisico (p. 298)

Sommario (p. 228), Parole chiave (p. 229), Questionario (p. 230)

Unità 5

Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

T27 Le idee nell’intelletto divino (p. 277); T28 I caratteri e il calcolo (p. 279); T29 I benefici della caratteristica universale (p. 280); T30 Verità di ragione e verità di fatto (p. 282); T31 L’individuo racchiude infiniti fatti (p. 283); T32 Nulla è senza una ragione (p. 284)

Sommario (p. 302), Parole chiave (p. 303), Questionario (p. 304)

231

Laboratorio di lettura: Spinoza, Etica . . . . . . . . . . . . . . . . . . 305 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 312

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 232 1. Lo ‘scandalo’ dello spinozismo . . . . . . . . . . . . . . . . . 232 2. Una vita ‘per la verità’ . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 233

Tesi a confronto Spinoza ateo o «ebbro di Dio»: chi è il Dio di Spinoza? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 313

1. Spinoza

T1 La libera ricerca come valore supremo (p. 235)

3. Il Dio-Natura dimostrato con «metodo geometrico» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 235 T2 Le definizioni di sostanza, attributo, modo (p. 236); T3 Legge necessaria della natura divina (p. 239); T4 La libertà vera e la libertà fittizia (p. 239); T5 La libera potenza di Dio (p. 240); T6 L’ordine necessario delle cose (p. 241); T7 L’equivocità del nostro parlare di Dio (p. 243)

4. Antropologia e morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 243 T8 Il carattere illusorio della libertà di scelta (p. 245); T9 La natura necessaria di tutti gli affetti (p. 248); T10 La regola di vita del saggio (p. 250); T11 La conquista della serenità (p. 252); T12 «Nulla è più utile all’uomo degli altri uomini» (p. 253)

5. La teoria della conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 254 T13 Le forme della conoscenza (p. 254); T14 La conoscenza immaginativa è in sé positiva (p. 257)

6. La critica della religione rivelata . . . . . . . . . . . . . . 259 T15 La difficile via della saggezza (p. 259); T16 La credulità umana è figlia della paura (p. 259); T17 L’origine delle lotte di religione (p. 260); T18 Lo scontro sulla interpretazione delle Scritture (p. 261); T19 Studio della Scrittura e studio della natura (p. 262); T20 La fede e la libertà di filosofare (p. 263); T21 Elogio dell’uomo virtuoso e saggio (p. 265); T22 Il miracolo nasce dall’ignoranza delle leggi naturali (p. 265)

2. Leibniz

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267 1. L’ultima armonia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 267 2. Un genio universale tra teoria e prassi . . . . . . . . . . 268

T23 Il progresso dell’umanità (p. 270)

3. Anime come specchi: la rappresentazione del mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 271 T24 Il mulino (p. 271); T25 L’espressione (p. 273); T26 Segni come gettoni in luogo di denaro (p. 276)

4. La logica e i suoi presupposti metafisici . . . . . . . . 276

Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 320

Percorso tematico • Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male?

. . . . . . . . . . . . . 321

Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 333

Unità 6

Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

335

1. Hobbes . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 336 1. Dalla nuova scienza a una nuova politica . . . . . . . 336 2. L’umanista, il filosofo e l’eretico . . . . . . . . . . . . . . . 337 3. Il monismo materialistico hobbesiano . . . . . . . . . . 339 T1 Corpi in movimento l’unica realtà (p. 340); T2 Il corpo è l’unica sostanza (p. 341); T3 La negazione della sostanza pensante (p. 342); T4 La corporeità di Dio (p. 343)

4. La teoria della conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 345 T5 Le cause della sensazione (p. 345); T6 I limiti della conoscenza sensibile (p. 347); T7 Non vi è nulla di universale al di fuori dei nomi (p. 348); T8 I nomi nascono dall’arbitrio (p. 349); T9 Ragionare è calcolare (p. 350); T10 Dimostrazioni a priori e dimostrazioni a posteriori (p. 353)

5. Antropologia e morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 354 T11 La genesi dell’appetito e dell’avversione (p. 354); T12 L’uomo desidera senza sosta (p. 354); T13 La critica della libertà di scelta (p. 355); T14 Bene e male: concetti relativi (p. 357); T15 La diversità di giudizi etici causa conflitti (p. 357)

2. Locke

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 358 1. Tra empirismo e razionalismo . . . . . . . . . . . . . . . . . 358

T16 La genesi del Saggio sull’intelletto umano (p. 359)

2. Un filosofo nel mondo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 359 3. La teoria delle idee . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 362 T17 L’innatismo come ostacolo al libero uso della ragione (p.

V

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362); T18 Nessun principio ottiene un assenso universale effettivo (p. 364); T19 Sensazione e riflessione sono la fonte di tutte le idee (p. 365); T20 Le idee di sostanza sono oscure e confuse (p. 369); T21 I confini dei nostri pensieri (p. 371); T22 Gli universali riguardano solo idee e parole (p. 372)

T7 L’erede di Adamo è sconosciuto (p. 431)

2. Privilegi e difetti dello stato di natura . . . . . . . . . . 432 T8 Lo stato di natura non coincide con lo stato di guerra (p. 433)

3. La genesi del potere politico . . . . . . . . . . . . . . . . . . 434

4. Le forme del sapere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 373 T23 Il problema della realtà della conoscenza (p. 375); T24 I limiti angusti della conoscenza certa (p. 376); T25 Il crepuscolo del probabile e la sua utilità (p. 377); T26 La fede non può essere contraria alla ragione (p. 379)

4. I tratti distintivi della dottrina liberale . . . . . . . . . . 437 T11 La critica dell’assolutismo (p. 438); T12 La gerarchia dei poteri dello Stato e il diritto di resistenza (p. 439)

5. Religione e tolleranza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 379 T27 La legge di natura e i precetti morali del Vangelo (p. 380); T28 La fede opera attraverso l’amore, non con la forza (p. 381); T29 La controversia tra le Chiese è irresolubile (p. 381); T30 La coazione non può produrre una conversione interiore (p. 382); T31 La cura delle anime non spetta allo Stato (p. 382); T32 Non è lecito colpire i beni civili per motivi religiosi (p. 383)

3. Berkeley

...................................... 1. Un illuminismo cristiano . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. Un ecclesiastico attivo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3. Immaterialismo e antiastrattismo . . . . . . . . . . . . . . .

T14 Il patto non può avere alcuna forza se non per la sua utilità (p. 443)

384 384 384 386

T37 Le cose che esistono in natura non sono chimere (p. 394)

5. L’apologia della tradizione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 395 Sommario (p. 398), Parole chiave (p. 399), Questionario (p. 400) . . . . . . . . . . . . . 401

Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 411

Unità 7 413

1. L’officina della modernità

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 414 1. Lo stato di natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 415

2. Hobbes e la teoria dello Stato assoluto

. . . . . . . . . . . 418 1. L’ideale di una scienza politica dimostrativa . . . . . 418

T1 I dogmi biformi dei filosofi morali (p. 419)

2. Lo stato di natura come «guerra di tutti contro tutti» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 419 T2 L’uomo non è un animale sociale (p. 421); T3 Alcune differenze tra gli uomini e le formiche (p. 421)

3. Il diritto di natura e le leggi di natura . . . . . . . . . . 422 T4 Il rapporto tra diritto naturale e leggi di natura (p. 423)

4. Il patto d’unione e la rappresentanza politica . . . . 425 T5 La generazione dello Stato (p. 426)

5. La sovranità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 427 T6 Il sovrano è il vicereggente di Dio sulla terra (p. 429)

3. Locke e la dottrina liberale

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 430 1. Contro il diritto divino: il Primo trattato sul governo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 431

VI

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 440 1. Diritto naturale e potenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 441

2. Assolutezza e limiti del potere politico . . . . . . . . . 442

4. Chimere, cose reali e mente divina . . . . . . . . . . . . . 393

Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo . . . . . . . . . . . . . . .

4. L’anomalia di Spinoza

T13 Il diritto naturale di ogni individuo coincide con la sua potenza (p. 442)

T33 La soluzione berkeleiana del problema di Molyneux (p. 387); T34 L’uomo è privo della facoltà di formare idee astratte (p. 389); T35 L’universalità deriva solo dalla relazione (p. 390); T36 L’essere consiste nell’essere percepito (p. 391)

Percorso tematico • Che cos’è un’idea?

T9 Il contratto originario e il potere della maggioranza (p. 435); T10 Potere costituente e popolo (p. 436)

3. Democrazia e libertà di espressione . . . . . . . . . . . . 445 T15 I vantaggi della democrazia (p. 445) Sommario (p. 447), Parole chiave (p. 448), Questionario (p. 449)

Laboratorio di lettura: Hobbes, Leviatano . . . . . . . . . . . . . . 450 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 457 LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Diritto . . . . . . . . . . . . . 459 Esercitiamoci sul diritto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 462

Unità 8

Newton

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 463

1. Il completamento della «rivoluzione scientifica» . . 464 T1 Non invento ipotesi (p. 466); T2 Le quattro regole del filosofare (p. 466)

2. Newton, un personaggio complesso . . . . . . . . . . . . . 467 3. Le premesse fondamentali della scienza newtoniana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 469 T3 1665-1666: due anni straordinari (p. 469)

4. I Principia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 475 T4 Spiegare i moti planetari (p. 476); T5 Il ruolo di Dio nel mondo fisico (p. 477); T6 L’etere universale (p. 477); T7 Tempo e spazio, assoluti e relativi (p. 478); T8 L’esperimento del secchio ruotante (p. 479); T9 Le tre leggi newtoniane del moto (p. 481) Sommario (p. 484), Parole chiave (p. 485), Questionario (p. 486)

Unità 9

Vico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

487

1. L’importanza di Vico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 488 T1 L’errore nel giudicare il passato (p. 488)

2. Un personaggio isolato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 489 3. Contro Cartesio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 491 T2 Il vero e il fatto (p. 493); T3 La conoscenza del mondo civile (p. 494)

4. Storia sacra e storia profana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 494

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T4 La provvidenza (p. 496); T5 Il diritto naturale (p. 497); T6 La teologia civile (p. 497)

5. Il corso della storia delle nazioni . . . . . . . . . . . . . . 498

T1 Lo studio delle società umane (p. 559); T2 Lo spirito generale (p. 559); T3 Le leggi e lo spirito delle leggi (p. 560)

T7 La storia ideale eterna (p. 499); T8 La provvidenza dà unità alla storia (p. 501)

2. Le forme di governo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 560 3. La divisione dei poteri . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 561

Sommario (p. 503), Parole chiave (p. 504), Questionario (p. 504)

3. Voltaire . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 562 1. Il patriarca dell’Illuminismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 562 2. Il modello inglese . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 563 T4 Elogio di Locke (p. 563)

Parte seconda

3. Il deismo e la critica dell’ottimismo . . . . . . . . . . . . 564 4. La difesa della borghesia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 564

Il secolo dei lumi

T5 Il commerciante e il nobile (p. 564)

5. La tolleranza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 565

Introduzione

T6 La convivenza tra le religioni (p. 565)

L’età dei lumi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1. 2. 3. 4. 5. ◆

Una periodizzazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . L’ascesa della borghesia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . La nuova diffusione della cultura . . . . . . . . . . . . . . La scienza e la divulgazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . I temi filosofici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

509 510 510 511 511 512

La parola al critico: Belaval legge l’Illuminismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 514

Unità 10

Hume e l’Illuminismo in Inghilterra e Scozia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

6. La polemica verso l’ateismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 565 7. Le opere storiche . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 566

4. L’Enciclopedia: Diderot e d’Alembert

. . . . . . . . . . . . 567 1. L’Enciclopedia, un grande successo editoriale . . . 568

T7 La critica dei sistemi metafisici (p. 569)

2. Il progetto di una nuova cultura . . . . . . . . . . . . . . . 569

5. Sensismo e materialismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 570 1. Condillac e il sensismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 570 2. Il materialismo: La Mettrie, Helvétius e d’Holbach . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 571 T8 L’uomo è una macchina (p. 573)

519

1. La critica della religione e la scienza della natura umana . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 520 2. Hume: limiti della ragione e scetticismo . . . . . . . . 523 3. La scienza della natura umana . . . . . . . . . . . . . . . . 524 T1 La scienza dell’uomo (p. 525); T2 L’anatomista e il pittore della natura umana (p. 526)

4. La conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 527 T3 Impressioni e idee (p. 527); T4 Relazioni di idee e materia di fatto (p. 529); T5 La mente non è una sostanza (p. 531)

5. La morale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 532 T6 La legge di Hume (p. 534); T7 Il senso morale (p. 535)

6. La critica della religione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 537 T8 La miseria del mondo (p. 538)

7. Adam Smith: sentimenti morali e dinamica economica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 539 8. Bentham e la nascita dell’utilitarismo . . . . . . . . . . 541 T9 Il piacere e il dolore (p. 542); T10 Il principio di utilità (p. 543) Sommario (p. 545), Parole chiave (p. 546), Questionario (p. 547)

Laboratorio di lettura: La Ricerca sull’intelletto umano . . 548 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 553

6. L’idea di progresso

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 575 1. Turgot . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 576 2. Condorcet . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 577

Sommario (p. 580), Parole chiave (p. 581), Questionario (p. 582)

Unità 12

Rousseau . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

583

1. Filosofia e autobiografia. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 584 2. Un’esistenza tormentata . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 586 T1 L’affermazione della propria unicità (p. 587)

3. La critica della civiltà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 587 T2 La funzione mistificante delle scienze e delle arti (p. 588); T3 Tutto dipende dalla politica (p. 589); T4 La pietà dello stato di natura (p. 590); T5 L’errore di Hobbes (p. 591); T6 L’origine della proprietà privata (p. 592)

4. Il contratto sociale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 593 T7 Il problema fondamentale (p. 593); T8 L’alienazione totale di ciascuno alla comunità (p. 594); T9 La volontà generale (p. 595); T10 Il rifiuto della rappresentanza (p. 596)

5. Educazione, morale e religione . . . . . . . . . . . . . . . . 597 T11 Robinson Crusoe (p. 598) Sommario (p. 601), Parole chiave (p. 602), Questionario (p. 602)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 555

Laboratorio di lettura: Discorso sull’origine della disuguaglianza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 603 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 610

1. Atteggiamento critico e diffusione dei «lumi» . . . . 556 2. Montesquieu . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 557

Percorso tematico • È legittimo resistere al potere politico? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 611

1. Le società umane e le leggi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 558

Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 622

Unità 11

L’Illuminismo in Francia

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Unità 13

L’Illuminismo in Italia e in Germania

. . . . . 623

1. L’Illuminismo in Italia

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 624 1. Napoli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 624 2. Milano: Pietro Verri e Cesare Beccaria . . . . . . . . . 625

T1 Il fine delle pene (p. 626)

2. L’Illuminismo in Germania . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 627 1. I caratteri dell’Illuminismo tedesco . . . . . . . . . . . . 627 2. Thomasius: critica alla tradizione scolastica e primato della volontà . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 628 T2 Il primato della volontà (p. 629)

3. Wolff: il metodo matematico in filosofia . . . . . . . . . 630 T3 Identità del metodo filosofico e matematico (p. 630)

4. Wolffiani e antiwolffiani. Crusius . . . . . . . . . . . . . . . 632 T4 Causalità e moralità (p. 633)

5. La «filosofia popolare» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 634 6. Il rinnovamento della teologia. Lessing . . . . . . . . . 635 T5 Religioni positive e storia umana (p. 636); T6 Il nuovo Vangelo eterno (p. 637) Sommario (p. 639), Parole chiave (p. 640), Questionario (p. 640)

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 641

1. Kant e il suo tempo

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 642

T1 La ragione e la critica (p. 642)

1. L’età della critica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 642 2. Un filosofo cosmopolita . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 643 T2 Il conoscere e i diritti dell’umanità (p. 644)

3. Il «sonno dogmatico» . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 646

2. La conoscenza e la metafisica: la ragion pura . . . . . 649 1. Il progetto di una nuova organizzazione del sapere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 649 T3 Due concetti di filosofia (p. 649); T4 Scienze empiriche, filosofia, critica, saggezza (p. 650); T5 Il compimento di ogni cultura della ragione umana (p. 651)

2. La metafisica come problema . . . . . . . . . . . . . . . . . . 652 3. La domanda critica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 654 T6 L’inevitabile interesse per la metafisica (p. 655); T7 Nessuna domanda senza risposta nella ragione pura (p. 655)

4. Gli strumenti concettuali dell’indagine critica. La catena delle questioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 656 T8 Giudizi sintetici e giudizi analitici (p. 657); T9 Intuizioni e concetti, sensibilità e intelletto (p. 659); T10 I concetti empirici (p. 660)

5. Alla ricerca della conoscenza pura: l’indagine critica e la sua articolazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 661 T11 La conoscenza trascendentale (p. 662)

6. Le forme a priori della sensibilità: l’Estetica trascendentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 663 T12 Materia e forma della sensazione (p. 665); T13 Risultato dell’Estetica trascendentale (p. 666)

7. Il concetto di fenomeno . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 666

VIII

8. Le forme a priori dell’intelletto: l’Analitica trascendentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 670 T18 L’a priori e l’esperienza (p. 672); T19 L’io penso e le rappresentazioni (p. 677); T20 Il principio supremo della conoscenza umana (p. 677)

9. La ragione in senso stretto: la Dialettica trascendentale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 679 T21 L’uso logico della ragione e l’incondizionato (p. 679); T22 L’essere non è un predicato reale (p. 683)

10. Oltre i fenomeni: l’orizzonte della ragion pratica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 686 T23 Uno spazio vuoto da riempire (p. 687); T24 Lo scopo ultimo della ragione (p. 687); T25 Il dovere e la ragion pratica (p. 688)

3. L’azione e la libertà: la ragion pratica

. . . . . . . . . . . . 689 1. Gli strumenti concettuali della critica della ragion pratica: regole pratiche e imperativi . . . . . . . . . . . . 689

T26 Gli imperativi (p. 691)

2. L’oggetto autentico della valutazione morale . . . . . 692 T27 Conforme al dovere e per dovere (p. 692); T28 La volontà (p. 693)

Unità 14

Kant

T14 Trasformazione dell’ontologia (p. 667); T15 La rivoluzione copernicana in filosofia (p. 667); T16 Fenomeni come rapporti (p. 669); T17 La materia (p. 669)

3. Alla ricerca di un imperativo categorico . . . . . . . . 694 T29 La metafisica dei costumi (p. 694); T30 La critica della ragion pratica (p. 695); T31 La forma di una legislazione universale (p. 696); T32 L’imperativo categorico (p. 696)

4. Libertà e autonomia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 698 T33 L’idea della libertà (p. 699); T34 La legge e il mondo intelligibile (p. 699); T35 Il sentimento di rispetto per la legge (p. 700)

5. Virtù e felicità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 701 T36 I postulati della ragion pratica (p. 702); T37 Giobbe e la fede (p. 704)

4. Gli scopi della natura: la facoltà di giudizio

. . . . . . 704 1. Un nuovo principio, una facoltà ripensata: la Critica della facoltà di giudizio . . . . . . . . . . . . . . 705 2. La facoltà di giudizio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 707

T38 Facoltà di giudizio determinante e riflettente (p. 708); T39 Difficoltà per il principio della facoltà di giudizio (p. 709); T40 Il ruolo del gusto nella critica della facoltà di giudizio (p. 709); T41 Il principio di conformità a scopi (p. 710)

3. Il piacere e le sue forme . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 712 T42 Il piacere come percezione del libero gioco delle facoltà conoscitive (p. 714); T43 Due forme del sublime (p. 717)

4. La conformità a scopi nella natura organica . . . . . 718 T44 L’organismo come «scopo naturale» (p. 719); T45 Due sensi del principio di conformità a scopi (p. 720)

5. Gli scopi oltre la natura. Cultura e storia . . . . . . . . 721 T46 L’uomo come scopo ultimo condizionato della natura (p. 722); T47 Società civile e tutto cosmopolitico come condizioni dello scopo ultimo (p. 724) Sommario (p. 727), Parole chiave (p. 728), Questionario (p. 730)

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Indice

Laboratorio di lettura: Risposta alla domanda: che cos’è l’illuminismo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 731 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 742 Tesi a confronto In Kant la realtà è indipendente dalla mente? . . . . . . . . . . . . . . . . . 743 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 751

Percorso tematico • Meccanicismo o teleologia?

. . . . . 753

Questionario . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 764

LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Dovere . . . . . . . . . . . . . 765 Esercitiamoci sul dovere . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 768

LABORATORIO SUL LESSICO Filosofia e vita quotidiana: Coscienza / autocoscienza / io . . . . . . . . . . . . . . . . . . 833 Esercitiamoci sulla coscienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 838

Unità 16

Il Romanticismo e Schelling

. . . . . . . . . . . . . . . . 839

1. L’età di Goethe e il pensiero romantico

. . . . . . . . . . 840 1. Classicismo e ‘filosofia del Romanticismo’ . . . . . . 840 2. Arte e verità: Schiller e Schlegel . . . . . . . . . . . . . . . 843

3. La natura vivente: Goethe . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 845 T2 Contro il metodo sperimentale (p. 846)

L’idealismo

4. Fede e religione: Schleiermacher . . . . . . . . . . . . . . 847 T3 La religione: intuizione e sentimento (p. 848)

Introduzione 775

1. La «terza età d’oro del pensiero occidentale» . . . . 776 2. Idealismo come filosofia della libertà . . . . . . . . . . . 776 3. Verso il sistema . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 777 ◆

Laboratorio di lettura: La destinazione del dotto . . . . . . . . 825 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 832

T1 Ironia, filosofia e poesia (p. 844)

Parte terza

L’idealismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Sommario (p. 822), Parole chiave (p. 823), Questionario (p. 824)

La parola al critico: Cesa legge le origini dell’idealismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 779

5. La riscoperta delle origini: Herder . . . . . . . . . . . . . 849 6. Il pensiero politico romantico . . . . . . . . . . . . . . . . . 851

2. Schelling

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 852 1. Schelling: un filosofo in continua evoluzione . . . . 852 2. La filosofia della natura . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 854

T4 ll nesso organico come rapporto oggettivo (p. 856); T5 L’armonia prestabilita tra spirito e natura (p. 857)

3. Il Sistema dell’idealismo trascendentale . . . . . . . . . 859

Unità 15

Fichte e la dottrina della scienza . . . . . . . . . . .

785

1. Evoluzione e ricezione della dottrina della scienza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2. L’ascesa e il declino di un ‘astro filosofico’ . . . . . . 3. Il dibattito sul criticismo . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4. Significato e caratteri della dottrina della scienza .

786 787 789 791

T1 La soggettività come opposto della sostanza (p. 793); T2 La scelta della filosofia riflette la propria personalità (p. 794)

5. Dottrina dei principi e metafisica del soggetto . . . 796 6. La conoscenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 800 T3 La parte pratica ha per oggetto il «conosciuto» (p. 801); T4 Lo Streben come termine medio tra infinitezza e finitezza (p. 801); T5 L’Io sviluppa da se stesso il materiale della conoscenza (p. 803); T6 La dottrina della scienza come «idealrealismo» (p. 805)

7. Etica e intersoggettività . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 806 T7 Causalità naturale e causalità per libertà (p. 808)

8. La dottrina della scienza come metafisica dell’Assoluto . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 810 T8 Contro il misticismo (p. 811); T9 Teoria della verità e teoria dell’apparire (p. 812); T10 Punto di vista della legalità e morale inferiore (p. 814)

9. Politica e storia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 815 T11 La negazione del ‘diritto naturale’ (p. 816); T12 La nazione come «natura spirituale» (p. 820)

T6 Libertà e legge nella storia (p. 861); T7 L’arte come supremo organo della filosofia (p. 864)

4. La filosofia dell’identità . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 865 T8 La Ragione assoluta e la filosofia come scienza delle cose in sé (p. 866)

5. La filosofia della libertà: Dio, l’uomo e il male . . . 867 T9 Il punto più difficile della dottrina della libertà (p. 868)

6. Filosofia negativa e filosofia positiva . . . . . . . . . . . . 870 Sommario (p. 873), Parole chiave (p. 874), Questionario (p. 875)

Unità 17

Hegel

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 877

1. La filosofia come sistema della comprensione razionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 878 T1 Il sistema come scienza dell’Idea (p. 879); T2 La filosofia come nottola di Minerva (p. 881)

2. Un professore e le sue lezioni . . . . . . . . . . . . . . . . . 882 3. Religione e filosofia: gli scritti giovanili . . . . . . . . . 884 4. Gli scritti critici di Jena . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 886 T3 La genesi della filosofia (p. 887); T4 La ragione e l’Assoluto (p. 888); T5 L’importanza di una distinzione terminologica (p. 890)

5. La Fenomenologia dello spirito . . . . . . . . . . . . . . . . 891 T6 La negazione determinata (p. 893); T7 La lotta per il riconoscimento (p. 896)

IX

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Indice

6. Dalla fenomenologia alla logica . . . . . . . . . . . . . . . . 900 T8 La struttura del sistema (p. 901)

7. Il sistema: la logica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 902 T9 Il contenuto della logica (p. 903); T10 L’identità di pensiero ed essere (p. 904); T11 La dialettica (p. 904); T12 La contraddizione (p. 905); T13 Le forme logiche e la realtà (p. 907)

8. Il sistema: la filosofia della natura . . . . . . . . . . . . . . 909 T14 La natura (p. 909); T15 Contro la divinizzazione della natura (p. 910)

9. Il sistema: la filosofia dello spirito . . . . . . . . . . . . . . 911 T16 La conoscenza dello spirito (p. 911)

10. La filosofia dello spirito: lo spirito oggettivo . . . . . 913 T17 Realtà e razionalità (p. 914); T18 Non tutto ciò che esi-

X

ste è razionale (p. 914); T19 Socrate come fondatore della morale (p. 918); T20 I doveri e i diritti (p. 919); T21 Il cittadino come bourgeois (p. 920); T22 Stato e società civile non vanno confusi (p. 921); T23 Gli individui «cosmico-storici» (p. 923)

11. La filosofia dello spirito: lo spirito assoluto . . . . . . 924 Sommario (p. 928), Parole chiave (p. 929), Questionario (p. 930)

Laboratorio di lettura: Lezioni sulla filosofia della storia . 931 Questionario sull’argomentazione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 938 Tesi a confronto Hegel: reazionario difensore dell’esistente o lucido analista dei problemi del proprio tempo? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 939 Per seguire il dibattito . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 945

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Indice delle opere antologizzate L’indice fa riferimento ai testi presenti nelle Unità e nei «Percorsi tematici» ALEMBERT J. - LE ROND B. D’ Discorso preliminare, in Enciclopedia: 569 ARNAULD A. - P. NICOLE La logica, o l’arte di pensare: 209 BACONE F. Il parto maschio del tempo: 107, 108; La grande Instaurazione: 111; Nuova Atlantide: 117; Nuovo Organo: 109, 112, 113, 114, 116, 117 BAYLE P. Dizionario storico-critico: 225, 323, 325; Pensieri sulla cometa: 223, 224 BECCARIA C. Dei delitti e delle pene: 626 BENTHAM J. Introduzione ai principi della morale e della legislazione: 542, 543 BERKELEY G. Saggio per una nuova teoria della visione: 387; Trattato sui principi della conoscenza umana: 389, 390, 391, 394 BRAHE T. De mundi aetherei recentioribus phaenomenis: 85; Lettera di T. Brahe a J. Keplero: 82 BRUNO G. Cena de le Ceneri: 49; De gli eroici furori: 54; De la causa, principio et uno: 49; Spaccio de la bestia trionfante: 53 CARTESIO Discorso sul metodo: 144, 146, 147, 151, 163; I principi della filosofia: 142, 159; Le passioni dell’anima: 171, 172, 174; L’uomo: 154, 155; Meditazioni metafisiche: 156, 160, 161, 163, 166, 170, 403; Regole per la guida dell’intelligenza: 137, 145; Risposte alle quinte obiezioni: 189 COPERNICO N. Commentariolus: 78; De revolutionibus orbium caelestium libri sex: 73, 77, 78, 79 CRUSIUS C.A. Sull’uso e i limiti del principio di ragione determinante: 633 CUSANO N. De coniecturis: 35; La dotta ignoranza: 34, 37 ERASMO 19

DA

ROTTERDAM Elogio della follia:

FICHTE J.G. Discorsi alla nazione tedesca: 820; Dottrina della scienza 1804/II: 812; Fondamento del diritto naturale secondo i principi della dottrina della scienza: 816; Fondamento dell’intera dottrina della scienza: 801, 803, 805; L’avviamento alla vita beata: 811, 814; Prima introduzione alla dottrina della scienza: 793, 794; Sistema di etica secondo i principi della dottrina della scienza: 808 GALILEI G. Dialogo sopra i due massimi sistemi: 104, 755; Il Saggiatore: 101, 102; L’atto di abiura: 105; Lettera di G. Galilei a Giuliano dei Medici: 96; Sidereus Nuncius: 95 GOETHE W. Gli anni di peregrinazione di Wilhelm Meister: 846 GUICCIARDINI F. Ricordi: 61

HEGEL G.W.F. Differenza fra il sistema filosofico di Fichte e quello di Schelling: 887; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1817: 901; Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio 1827-1830: 879, 907, 909, 910, 911, 914; Fede e sapere: 888; Fenomenologia dello spirito: 893, 896; Filosofia della storia: 918, 923; Le diverse maniere di trattare scientificamente il diritto naturale: 890; Lineamenti di filosofia del diritto: 881, 914, 919, 920, 921; Scienza della logica: 903, 904, 905 HOBBES T. Critique du «De Mundo» de Thomas White: 757; De cive: 357, 419, 421; De corpore: 345, 349, 350; De homine: 353; Della libertà e necessità: 355; Elementi di legge naturale e politica: 340, 347, 348, 354, 357; Leviatano: 341, 354, 421, 423, 426, 429, 615, 618; Risposta a Bramhall: 343; Terze obiezioni e risposte alle Meditazioni metafisiche: 342 HOLBACH P.T. D’ Il buon senso: 332 HUME D. Dialoghi sulla religione naturale: 331, 538; Estratto del trattato sulla natura umana: 531; Lettera a Francis Hutcheson del 17 settembre 1739: 526; Ricerca sull’intelletto umano: 529; Trattato sulla natura umana: 525, 527, 534, 535 KANT I. Annotazioni alle Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime: 644; Critica della facoltà di giudizio: 708, 709, 710, 714, 717, 719, 720, 722, 724, 763; Critica della ragion pratica: 695, 696, 702; Critica della ragion pura: 642, 649, 650, 651, 655, 657, 659, 660, 662, 665, 666, 667, 669, 672, 677, 679, 683, 687, 688; Fondazione della metafisica dei costumi: 691, 692, 693, 694, 699, 700; Sul detto comune: 617; Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea: 704 KEPLERO J. Astronomia nova: 90, 91; Mysterium cosmographicum: 88 LA METTRIE J.O. DE L’uomo macchina: 192, 573 LEIBNIZ G.W. Che cos’è un’idea: 273; Chiarimenti sulle difficoltà che il sign. Bayle ha trovato nel «Nuovo sistema dell’unione dell’anima e del corpo»: 197; Discorso di metafisica: 286, 287, 288, 292, 294, 295; Dissertazione sull’arte combinatoria: 282; Lettera ad Arnauld: 290; Lettera a De Volder: 290; Monadologia: 271; Nuovi saggi sull’intelletto umano: 270, 277, 409; Nuovo sistema della natura: 289; Nuovo sistema per spiegare la natura delle sostanze: 759; Pensieri senza pretese intorno all’uso e al miglioramento della lingua tedesca: 276; Prefazione alla scienza generale: 279; Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità:

283; Saggi di teodicea: 284, 296, 298, 326, 327; Storia ed elogio della lingua caratteristica universale: 280 LESSING G.E. L’educazione del genere umano: 636, 637 LOCKE J. Fede e ragione: 379; La ragionevolezza del cristianesimo: 380; Lettera sulla tolleranza: 381, 382, 383; Primo trattato sul governo: 431; Saggio sull’intelletto umano: 198, 359, 362, 364, 365, 369, 371, 372, 375, 376, 377, 406, 407; Secondo trattato sul governo: 433, 435, 436, 438, 439, 621, 622 MACHIAVELLI N. Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: 58; Il principe: 59 MALEBRANCHE N. La ricerca della verità: 212, 405 MONTAIGNE M. DE Saggi: 25, 26, 27 MONTESQUIEU Lo spirito delle leggi: 559, 560 NEWTON I. Principi matematici della filosofia naturale: 466, 476, 477, 478, 479, 481 PASCAL B. Pensieri: 217, 218, 219 PICO DELLA MIRANDOLA G. Oratio de hominis dignitate: 17 POPE A. Saggio sull’uomo: 328 ROUSSEAU J.-J. Confessioni: 587, 589; Del contratto sociale: 593, 594, 595, 596; Discorso sulle scienze e sulle arti: 588; Discorso sull’origine della disuguaglianza: 590, 591, 592; Emilio: 598; Lettera di J.J. Rousseau a Voltaire: 330 SCHELLING F.W.J. Esposizione del mio sistema filosofico: 866; Idee per una filosofia della natura come introduzione allo studio di questa scienza: 856, 857; Ricerche filosofiche sull’essenza della libertà umana: 868; Sistema dell’idealismo trascendentale: 861, 864 SCHLEGEL F. Lyceum der schönen Künste: 844 SCHLEIERMACHER F.D.E. Discorsi sulla religione: 848 SPINOZA B. Epistolario: 235, 239; Etica: 194, 236, 239, 240, 241, 243, 245, 248, 250, 252, 253, 254, 257, 259; Trattato teologico-politico: 259, 260, 261, 262, 263, 265, 442, 443, 445; Trattato politico: 619 THOMASIUS C. Fondamenti del diritto di natura e delle genti: 629 VICO G.B. L’antichissima sapienza degli italici: 493; Principi di scienza nuova: 488, 494, 496, 497, 499, 501 VOLTAIRE Dizionario filosofico: 329; Lettere inglesi: 563, 564, 565 WOLFF C. Filosofia razionale o Logica: 630

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Indice delle parole chiave Abitudine, 546 Accelerazione, 120 Affetto, 303 Alienazione / Estraniazione, 602, 929 Antiastrattismo, 399 Appercezione, 303 Appetito / Avversione, 303, 399 Armonia, 303; Armonia prestabilita, 874 Arte, 874 Arti meccaniche, 581 Associazione delle idee, 546 Assolutismo, 448 Assoluto, 823 Astrazione, 120 Ateismo, 229 Attributo, 303 Aufklärung, 640 Azioni / Passioni, 303 Barbarie, 67 Base osservativa, 120 Boria dei dotti / Boria delle nazioni, 504 Buon senso, 581 Categorie, 728 Cinematica, 485 Civiltà, 602 Clima, 581 Comandi / Imperativi, 728 Conato, 399, 504 Conatus, 303 Concetto, 728, 929; Concetto / Essere completo, 303 Consenso universale, 399 Contraddizione, 929 Contrattualismo, 448 Corpo, 399 Corpuscolo, 178 Coscienza, 178 , 929 Credenza, 546 Cuore, 229 Cupiditas, 303 Degnità, 504 Deismo, 399 Destinazione, 823 Dialettica, 929 Diffusione della cultura, 581 Dignità dell’uomo, 67 Dinamica, 485 Diritto di resistenza, 448; Diritto naturale / Diritto positivo, 448 Discrezione, 67 Dispotismo, 581; Dispotismo illuminato, 640 Divertissement, 229 Divisione dei poteri, 581 Dotta ignoranza, 67 Dottrina della scienza, 823; Dottrina dell’intersoggettività, 823 Dualismo, 178 Dubbio, 178 Eliocentrico, 120 Empirismo, 399 Enciclopedia, 581 Erudizione, 229 Espressione, 303 Estensione, 178 Etere / Sostanza eterea, 485 Evidenza, 178 Facoltà di giudizio, 728 Fantasma, 399 Felicità, 546, 581 Fenomeno / Cosa in sé, 728 Fenomenologia, 929 Fideismo, 229 Figura, 929 Filologia, 504

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Filosofia critica o criticismo, 729; Filosofia della storia, 581; Filosofia negativa / Filosofia positiva, 874; Filosofia trascendentale / Idealismo trascendentale, 874 Finito / Infinito, 929 Fluente / Flussione, 485 Follia, 67 Forma originaria, 874; Forma sistematica, 823 Forme dell’intuizione, 729 Furore eroico, 67 Generosità limitata, 546 Geocentrico, 120 Giansenismo, 229 Giudizio, 399, 729 Giusnaturalismo, 448 Giustificazione, 67 Gravità / Gravitazione / Attrazione gravitazionale, 485 Grazia sufficiente / Grazia efficace, 229 Guerra / Pace, 448 Gusto, 729 Idea, 178, 546, 729, 929; Idea di progresso, 581 Idealismo / Dogmatismo, 823 Identità, 874 Idolatria, 229 Immaginazione, 546, 729; Immaginazione produttiva, 823 Immanenza / Immanentismo, 874 Immaterialismo, 399 Impressioni, 546 Inconscio, 874 Induzione, 120 Inerzia, 485 Intelletto, 399, 729 Intersoggettivo, 120 Intuizione, 729, 874 Io assoluto / empirico / pratico, 823; Io oggettivo, 874; Io penso o appercezione trascendentale, 729 Ironia, 874 Laetitia (gioia) / Tristitia (tristezza), 303 Legge (fisica), 120; Legge di gravitazione universale, 485; Legge di Hume, 546; Legge di natura, 448 Legittimità, 448 Letteratura clandestina, 229 Liberalismo, 448 Libertà civile, 602; Libertà d’azione, 399; Libertà naturale, 602 Libertinismo, 229 Magia, 67 Manicheismo, 229 Massime / Leggi, 729 Materialismo / Idealismo, 399 Mathesis universalis, 178 Meccanica, 485 Meccanicismo, 178 Metafisica del soggetto, 823 Metafisica razionalistica (razionalismo), 229 Metodo, 178; Metodo matematico, 640 Microcosmo, 67 Modi, 303 Monade o punto metafisico, 303 Mondo celeste, 120; Mondo possibile, 303; Mondo terrestre (o sublunare), 120 Moto naturale, 120; Moto o movimento, 399; Moto violento, 120 Natura, 546, 602, 874; Natura / Spirito, 929 Non-io, 823 Obbligazione politica, 448 Occasionalismo, 229 Opposizione, 929 Organicismo, 874 Ottimismo, 581

Panteismo / Panenteismo, 874 Passione, 178 Patto, 448 Pena, 640 Pensiero, 178 Percezione, 546; Percezioni insensibili, 303 Pia philosophia, 67 Pietismo, 640 Poliedri platonici, 120 Popolo, 823 Potenza, 874 Potere politico, 448 Primalità, 67 Principi dell’intelletto, 729 Principio di causalità, 546; Principio di maggioranza, 448; Principio di utilità, 546; Principio positivo / Principio negativo, 874 Problema mente-corpo, 178 Progresso, 602 Proprietà privata, 602 Prudenza, 399 Qualità oggettive, 120; Qualità soggettive, 120 Ragione, 729 Rappresentanza, 448 Rappresentazione, 303 Razionalismo, 399 Relatività (principio galieiano di), 120 Religione positiva, 640 Res cogitans / Res extensa, 178 Ricorsi, 504 Rinascimento, 67 Riscontro, 67 «Salvare i fenomeni», 120 Sapienza poetica, 504 Scienza nuova, 504 Scommessa, 229 Scuola fisiocratica, 581 Sensibilità, 729 Sensismo, 581 Senso comune, 504 Sentimento, 823, 874; Sentimento morale, 546 Simpatia, 546 Sistema, 929; Sistema tolemaico / Astronomia tolemaica / Cosmologia tolemaica, 120 Società civile, 929 Soggettività / Egoità, 823 Sovranità, 448 Spazio assoluto e Tempo assoluto, 485 Spettatore imparziale, 546 Spiriti animali, 178 Spirito di geometria / Spirito di finezza, 229; Spirito generale, 581 Stati o ceti, 929 Stato, 448, 929; Stato di natura, 448 Storia ideale eterna, 504 Streben, 823 Studio della società, 581 Sub specie aeternitatis, 303 Teleologia, 729 Teologia civile, 504; Teologia della Croce, 67 Tolleranza, 399 Totalità, 929 Trascendentale, 729 Umanesimo, 67 Unione mente-corpo, 178 Uomo-macchina, 581 Utilitarismo, 546 Utopia, 67 Verità de fide, 120; Verità de rerum natura, 120; Verità di ragione / Verità di fatto, 303 Vicissitudine, 67 Vortice, 178

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

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Dublino Thomastown

C Derby

Cloyne

Oxford Devonshire

Cambridge

Rost Leida L'Aia

Hannover Amsterdam Rotterdam Malmesbury Anversa Ypres Eisleben Lovanio Francoforte Jena Clemont e Clarat Turi Cues Meaux Magonza Londra

Parigi Strasburgo

Heidelberg Neuburg Tubinga

Basilea

Ingo

La Haye Ginevra

Zurigo

Lione

Trento Milano Mantova

Montpellier Champtercier Pisa

Verona V Padov Ferrar Bologn Firenze

Urb Alcalà de Henares

Rom

Valencia

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Stoccolma

Copenaghen

Introduzione

Rostock Toru (Pomerania)

annover m

Berlino Wittenberg Lipsia / Leipzig Chemniz

Eisleben

Jena Turingia Magonza Erfurt

Heidelberg Neuburg ga

Praga

Ratisbona / Regensburg

Ingolstadt

Linz Vienna

Danzica

Frombork La nascita della filosofia moderna

Unità 1 Umanesimo e Rinascimento Unità 2 La rivoluzione scientifica Laboratorio sul lessico Natura / naturale Cracovia Unità 3

Cartesio e la nascita della filosofia moderna Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo? Unità 4 L’età cartesiana

go Trento

Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Verona Venezia Padova Ferrara Bologna Firenze

Percorso tematico Se Dio è buono e onnipotente perché permette il male? Unità 6 Il soggetto e l’esperienza: Hobbes, Locke, Berkeley Percorso tematico Che cos’è un’idea?

Urbino

Unità 7 Il soggetto e lo Stato: il giusnaturalismo moderno e il contrattualismo

Roma Nola

Laboratorio sul lessico Diritto

Napoli

Cosenza Stilo

Unità 8 Newton Unità 9 Vico

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Introduzione La nascita della filosofia moderna

1. La critica della tradizione 2. Ruolo della ragione e collocazione dell’uomo

♦ La parola al critico: I caratteri della filosofia moderna secondo Cassirer

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

1 Rottura con il passato

La reazione della Chiesa

Una nuova concezione della natura ➥ La parola al critico, p. 9

Critica della tradizione

Nuovi luoghi e strumenti di diffusione delle idee

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La critica della tradizione Con l’età umanistica e rinascimentale si comincia ad affermare in Europa l’esigenza di un profondo rinnovamento della società, delle istituzioni e del sapere. Uno dei segni di questa rottura con il passato, con l’età di mezzo – medio evo –, è la Riforma protestante, che vede nell’età di mezzo l’epoca della corruzione del cristianesimo originario che dovrebbe essere ristabilito. L’atteggiamento polemico verso il Medioevo e la sua identificazione con un’età ‘buia’ comincia infatti proprio a ridosso della sua conclusione: se per Lutero (1483-1546) esso rappresenta la corruzione del cristianesimo, per gli umanisti e per il Rinascimento esso costituisce la perdita del contatto diretto con il mondo classico, greco e latino, che solo in questi decenni verrebbe ripreso e potrebbe quindi ‘rinascere’, appunto. La Chiesa cattolica non manca di prendere le sue contromisure, con la Controriforma e il Concilio di Trento (1545-1563): la reazione alla Riforma protestante lascia un segno pesante sulla vita culturale europea, colpendo i fermenti intellettuali che in essa proliferano. Finita l’emergenza protestante, i rischi per la religione vengono infatti individuati proprio nelle nuove idee che cominciano a circolare, a partire dalla tesi eliocentrica di Niccolò Copernico (1473-1543), che costituisce non solo una rivoluzione di concezioni astronomiche, ma un radicale mutamento della visione del mondo e dell’uomo. L’Italia, sede della Chiesa di Roma, è la prima a fare le spese del nuovo corso ecclesiastico, come testimoniano le drammatiche vicende di Giordano Bruno (1548-1600) e di Tommaso Campanella (1568-1639). Per una caratterizzazione davvero ‘moderna’ della filosofia, però, si dovranno aspettare, sulla scia della rivoluzione scientifica, coloro che ad essa si ispirano per un rinnovamento radicale degli strumenti concettuali, a partire da Cartesio (1596-1650). La rottura non riguarda allora soltanto il Medioevo e la scolastica, ma anche l’immagine vivente e dinamica della natura presente nella cultura rinascimentale: anche a questa viene contrapposto il meccanicismo fondato sulle leggi della matematica e della geometria. Certo è che la critica della tradizione e delle istituzioni tradizionali, anche di quelle educative, segna con forza gli anni tra la seconda metà del Cinquecento e la prima metà del Seicento. Si tratta di un elemento costante, che accomuna personaggi anche molto diversi. Contro la cultura tradizionale, ritenuta libresca e inutile, tuona Montaigne (15331592), e Francesco Bacone (1561-1626) ha parole di disprezzo per autori della grandezza di Platone, con le sue pretese di possedere e promuovere un sapere che va al di là dell’esperienza e non proviene da essa. Cartesio ha molte cautele, ma non manca di rilevare come l’insegnamento tradizionale sia insufficiente per un reale avanzamento del sapere, a partire dalla logica scolastica e aristotelica: è urgente, invece, un nuovo metodo della conoscenza. Se si eccettua la Germania – dove la Riforma luterana, con l’opera di Melantone (1497-1560), aveva promosso una riforma degli studi universitari –, le università non costituiscono più, in Europa, il centro del dibattito intellettuale e scientifico. Altri sono i luoghi e i mezzi per la circolazione delle idee: è significativo che lo stesso Galileo Galilei (1564-1642) insegni a Padova secondo il sistema geocentrico di Tolomeo (vissuto nel II secolo d.C.), pur se è già un sostenitore delle

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Introduzione La nascita della filosofia moderna

tesi copernicane, e non è un caso se finirà per abbandonare l’università diventando il «matematico e filosofo» del granduca di Toscana. Il ruolo degli epistolari Nel corso del Seicento diventano ricorrenti le riunioni tra gli intellettuali del tempo per discutere dei problemi più diversi, e una vera novità del secolo è costituita dagli epistolari, vero strumento di circolazione delle idee che coinvolge tutti i grandi filosofi dell’epoca, da Cartesio a Leibniz (1646-1716). Anche personaggi minori, come il frate Mersenne (1588-1648), passano così alla storia: è da lui, in place Royal a Parigi, che ci si ritrova per discutere, ed è ancora lui che intrattiene scambi di lettere con i grandi pensatori contemporanei. Per non dire che Mersenne è anche il peculiare redattore di quello che può essere visto come uno dei più importanti epistolari della storia della filosofia: le obiezioni e le risposte alle Meditazioni metafisiche di Cartesio, per le quali Mersenne funge da mediatore. Nascita di accademie Fuori dalle università, nascono in tutta Europa, nel corso del Seicento, le mage riviste giori società scientifiche, come l’Accademia del Cimento in Italia (1657) o la Royal Society in Inghilterra (1662). Verso la fine del secolo, poi, cominciano a uscire, a partire dal 1665, le riviste «Journal des Savants», «Philosophical Transactions», «Mémoires de Trevoux» (l’influente rivista dei gesuiti, dal 1682), «Acta Eruditorum» (1683). Anche per il primo emergere di una nuova, attiva classe sociale, la borghesia, cambiano nel Seicento le forme di organizzazione e comunicazione del sapere, un processo che avrà una più compiuta realizzazione nel secolo successivo.

2 Una nuova concezione di Dio

L’indagine sulla ragione umana ➥ Percorso tematico, p. 401

Critica razionale della religione

Ruolo della ragione e collocazione dell’uomo Nella nuova atmosfera successiva a Riforma protestante, Controriforma e guerre di religione, la religione ha sicuramente un ruolo centrale, e non solo per gli avvenimenti storici e storico-culturali, ma anche per quanto riguarda il contenuto delle teorie filosofiche. Una nuova figura di Dio, costruita secondo i canoni della nuova scienza, gioca per tutto il Seicento un ruolo da protagonista nei grandi sistemi filosofici: come garante dell’evidenza della verità in Cartesio, come espressione dell’ordine geometrico in Baruch Spinoza (1632-1677), come massimo esempio delle capacità del calcolo matematico in Leibniz – un calcolo che, non potendo che essere perfetto, ha prodotto il migliore dei mondi possibili. L’altra protagonista è la ragione, innanzitutto come ragione umana che diventa, con Cartesio, una mente il cui contenuto è fatto di idee: queste non sono più i modelli della realtà della tradizione platonica, poi per Agostino modelli della mente di Dio, ma contenuti della mente umana che ne esprimono le capacità conoscitive. Dio è il punto di riferimento, ma il punto di partenza è la ragione umana. È il grande, nuovo tema del soggetto moderno che investiga le proprie capacità analizzando la propria mente, un’indagine che troverà per più versi un punto di arrivo, e l’inizio di una nuova storia, solo con la Critica della ragion pura di Immanuel Kant (1724-1804), ma che comincia proprio con le Meditazioni cartesiane: si tratta appunto di «meditazioni», nelle quali l’accento cade sul modo di conoscere del soggetto della conoscenza, l’uomo. All’esame della ragione non può sottrarsi nemmeno la tradizione religiosa, che come ogni tradizione deve essere sottoposta a critica. Di qui lo studio accurato dei testi sacri, che corre il rischio di diventare pericoloso per la Chiesa soprat7

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La scienza diventa fondamento della filosofia

Riflessione sui problemi morali e politici

tutto quando mostri le difficoltà, di fronte all’esame critico, dei tanti racconti di miracoli contenuti nelle Scritture. Ma non solo: l’esame accurato di queste ultime mostra, quando lo si confronti con altre fonti di informazione e con altre civiltà che non sono più, dopo le scoperte geografiche, del tutto ignote, quanto le misure del tempo possano essere diverse da quelle fornite dalla Bibbia. Nel Seicento si scatena infatti il dibattito sulla cronologia: il libro della religione cristiana non può essere preso alla lettera, a meno di non rassegnarsi a una ottusa ignoranza; la storia degli uomini è in realtà ben più antica di quella del popolo ebraico, come dimostrano tutte le testimonianze che i cristiani incontrano al di fuori del loro libro sacro, ovvero le notizie sugli egiziani, sui caldei, sui cinesi. È dall’intersecarsi di razionalismo e di erudizione che nascono i libertini (vedi Unità 4, p. 204), il massimo pericolo per la religione, ed è a questo orizzonte problematico che appartiene l’anticartesiano (e antimoderno) Giambattista Vico (1668-1744), pur se la sua Scienza nuova apparirà a Settecento inoltrato (nel 1725). La scienza moderna, fondata sulla matematica e sulla geometria, costituisce ben più che lo sfondo della nuova prospettiva filosofica: essa ne costituisce piuttosto lo scheletro. Ma non si tratta soltanto di astrazioni matematiche; è cominciata, infatti, la progressiva riabilitazione delle arti meccaniche che proseguirà nel secolo successivo: la polemica verso il sapere tradizionale è anche polemica verso la sua inutilità, mentre il XVII secolo procura, sulla base delle acquisizioni scientifiche, strumenti che realizzano l’auspicio baconiano di un sapere utile, come la macchina calcolatrice di Blaise Pascal (1623-1662) e di Leibniz o il cannocchiale di Galileo. Questa scienza non offre, però, soltanto trionfi: essa celebra sì la ragione umana, ma alla tranquilla collocazione della Terra al centro dell’universo offerta dal sistema tolemaico sostituisce una concezione che sembra togliere all’uomo almeno parte della sua grandezza, con la rivoluzione copernicana. Né mancano coloro che, come Bruno e Fontenelle (1657-1757), parlano della Terra soltanto come di un mondo tra altri, che potrebbero essere infiniti. E così nascono le perplessità, lo scetticismo e la travagliata meditazione di Pascal su grandezza e miseria dell’uomo, erede dello scetticismo di Montaigne. La ragione umana non può, infine, trascurare le questioni morali e politiche, come dimostra il giusnaturalismo moderno, che, avviato nel Seicento soprattutto con Thomas Hobbes (1588-1679), Spinoza e John Locke (1632-1704), dominerà la discussione filosofico-politica fino a Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), che ne sarà, invece, un aspro critico. È dal calcolo razionale e intelligente degli individui, infatti, attenti al proprio interesse e alla difesa di se stessi, che nasce e riceve legittimità lo Stato, frutto di un contratto tra individui, in linea di principio, uguali: si tratta della stessa uguaglianza che diventerà nel secolo successivo la parola d’ordine di una borghesia sempre più affermata contro i privilegi del clero e della nobiltà.

Suggerimenti bibliografici In generale, sulla genesi della filosofia moderna vedi P. Rossi - C.A. Viano (a cura di), Storia della filosofia, 3. Dal Quattrocento al Seicento, Laterza, Roma-Bari 1995. Per la storia dello scetticismo nella prima età moderna vedi R. Popkin, Storia dello scetticismo da Erasmo a Spinoza, Anabasi, Milano 1995. Sulla figura dell’intellettuale nel Seicento e sul suo rapporto con le istituzioni vedi l’antologia di L. Mannarino, La condizione dell’intellettuale nel Seicento, Loescher, Torino 1980.

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Introduzione La nascita della filosofia moderna

La parola al critico I caratteri della filosofia moderna secondo Cassirer Il filosofo Ernst Cassirer (1874-1945) delinea, nel brano che segue, la nascita della filosofia moderna. Essenziale è il confronto con la scienza esatta, che promuove il rinnovamento metodologico e logico prima che la filosofia vi rifletta in modo compiuto. La centralità della questione del metodo emerge già nel Rinascimento ed è ben presente nella riflessione di Galileo, ma solo con Cartesio diventa il principio ispiratore di un’indagine sul soggetto conoscente e segna l’inizio di una nuova epoca nella storia del pensiero filosofico.

Il problema non risolto della conoscenza da E. Cassirer, Storia della filosofia moderna. Il problema della conoscenza nella filosofia e nella scienza

Con Cartesio riemerge il problema della conoscenza

Galileo non formula una teoria sistematica della conoscenza

Partiti come siamo dal principio generale che la concezione che ogni epoca ha della natura e della realtà delle cose è solo l’espressione e il riflesso del suo ideale di conoscenza, dobbiamo ormai cercare di chiarirci nei particolari le condizioni attraverso le quali ha preso forma il concetto moderno e il sistema moderno della conoscenza. […] La storia delle teorie della conoscenza non ci dà un quadro completo e sufficiente dello sviluppo interno del concetto di conoscenza. Nella ricerca empirica di un periodo, nei mutamenti delle sue concezioni concrete del mondo e della vita dobbiamo seguire la trasformazione delle sue categorie logiche. Le teorie sulla nascita e l’origine della conoscenza riassumono il risultato, ma non ci rivelano le fonti e gli impulsi più lontani. In tal modo vediamo come la rinascita vera e propria del problema della conoscenza sia preparata dai più diversi lati, – dalla scienza naturale come dalla storiografia umanistica, dalla critica dell’aristotelismo come dalla interna trasformazione immanentistica delle dottrine peripatetiche nell’epoca moderna, – prima che essa giunga a maturazione e a conclusione provvisoria nella filosofia di Cartesio. Le produzioni logiche che non riescono a raggiungere né un esplicito riconoscimento né una particolare formulazione astratta non sono le meno importanti e le meno feconde. La storia del pensiero moderno non conosce forse scoperta logica altrettanto importante e decisiva quanto la fondazione della scienza esatta della natura da parte di Galileo; ma i singoli punti di vista che in essa avevano valore direttivo e che lo scopritore stesso vedeva nella loro piena chiarezza concettuale, non sono giunti in alcun modo a una sintesi teoretica e a una esposizione sistematica indipendente. Se noi volessimo perciò desumere la nostra misura unicamente dalla considerazione della successione

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Importanza del rapporto tra filosofia e scienza

Solo la scienza dà unità al concetto di conoscenza

L’esperienza viene sostituita alla logica

La scienza ha bisogno di un metodo

Oggetto della filosofia è il modo di conoscere

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storica delle «teorie della conoscenza», Galileo dovrebbe allora star dietro a un contemporaneo come il Campanella, al quale è incomparabilmente superiore non solo come scienziato, ma anche per la produttività e la profondità del suo pensiero puramente filosofico. […] Il rapporto tra filosofia e scienza è colto e descritto solo esteriormente, finché si parla di uno scambievole «influsso» che ambedue esercitano l’una sull’altra. […] Per ciò che il concetto moderno di conoscenza significa, Galileo e Keplero, Newton e Euler sono testimoni altrettanto importanti e pienamente validi di Cartesio e Leibniz. L’intero sviluppo ci apparirebbe saltuario e lacunoso se noi volessimo rinunciare a considerare questo importantissimo anello di congiunzione. Solo in esso e in virtù del suo rapporto con esso, infatti, il pensiero filosofico conserva la sua vera continuità interna. Che ci sia conoscenza come rigoroso e univoco concetto logico, viene dimostrato solo qui completamente. Anche gli altri campi dell’attività spirituale, anche il diritto e la lingua, l’arte e la religione, portano un particolare contributo al problema generale della conoscenza. Ma poiché essi si avvicinano a questo problema dai più svariati punti di vista, non è possibile accertare se e quanto lo intendano in un senso veramente unitario. Anche in essi ci si presenta una serie di caratteristiche prese di posizione di fronte all’«io» e alla «realtà», ma spesso è discutibile che in questa abbondanza di motivi si possa distinguere e fissare una tendenza fondamentale comune. Soltanto nella scienza esatta, nel suo progresso continuo, malgrado tutte le oscillazioni, l’unità del concetto di conoscenza, che in tutti gli altri campi rimane solo un’esigenza, ha il suo vero compimento e la sua conferma. […] Se si vuol mettere in rilievo nelle varie correnti e tendenze di pensiero che cooperano alla formazione della filosofia moderna un aspetto fondamentale comune, si presenta in prima linea, come caratteristica distintiva, il rapporto in cui esse stanno con la concezione medievale della logica. Nel rifiuto della dialettica e del sillogismo come mezzi fondamentali della conoscenza si incontrano scepsi e scienza sperimentale, umanesimo e filosofia della natura. Per qualche tempo poté sembrare che con questa negazione fosse stata detta l’ultima parola, che l’osservazione immediata delle cose dovesse respingere e sostituire la riflessione sull’essenza del concetto e sulle leggi della sua struttura. Lo spirito non ha più bisogno della scuola e della guida della dialettica: esso si pone immediatamente di fronte all’esperienza interna ed esterna, nella quale gli si offre una fonte di conoscenza più ricca e più sicura. Tuttavia nella storia dell’origine e della formazione della scienza moderna abbiamo riconosciuto, come caratteristica peculiare di questa, che pur nel suo abbandono alla materia della conoscenza le si offre quasi da sé una nuova metodica della ricerca. Anche questa coscienza si esprime sempre più chiaramente man mano che si procede nel suo sviluppo, e l’idea di un «nuovo organo» assume un’importanza sempre più centrale. Non è solo Bacone a sostenere quest’esigenza; anche nella filosofia speculativa della natura [del Rinascimento], che conformemente alla sua idea fondamentale cerca di comprendere lo spirito come un oggetto tra gli oggetti, si rivela a poco a poco un mutamento d’indirizzo nell’indagine. Nel Campanella, la cui filosofia non fa che continuare e portare a compimento la dottrina del Telesio, è già presente tuttavia il piano di una scienza

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Introduzione La nascita della filosofia moderna

Riflessioni diverse sull’importanza del metodo

La svolta cartesiana: il metodo come fondamento di ogni sapere

Galileo elabora un nuovo concetto di natura, dominata dalla necessità

Problema dell’origine della necessità

sua propria, che non deve più avere per oggetto la natura delle cose, ma il modo della nostra conoscenza; «rerum naturas cognoscere difficile quidem est, at modum cognoscendi longe difficilius» («Conoscere la natura è difficile, ma ben più difficile è il modo della conoscenza»). E in Bruno, se si considera il complesso della sua produzione letteraria, gli scritti «metodologici» sono più numerosi delle sue opere sulla riforma della cosmologia e dell’intuizione della natura. Ma proprio questo esempio mostra chiaramente che il significato del problema, in tutti questi tentativi, non è compreso e definito univocamente. In Bacone il metodo, per quanto apparentemente gli sia assegnato il compito di raccogliere e di vagliare il materiale empirico, deve servire in ultima analisi a scoprire le «forme» delle cose in senso scolastico: in Bruno esso diventa lo strumento dell’arte lulliana, in virtù della quale il contenuto infinito della conoscenza deve essere costretto nella fitta rete di determinate formule simboliche e tenuto in serbo per la memoria. Così in tutti questi esempi il metodo è soltanto una parola d’ordine, che nasconde contenuti molto diversi e che in se stessa non significa e non garantisce ancora un rinnovamento basilare dell’ideale di conoscenza. Anche là dove esso è compreso e applicato nel senso più autentico non costituisce il principio fondamentale, ma una istanza accessoria, che sostiene e controlla l’acquisizione del sapere. Esso conduce alle fonti da cui proviene la conoscenza; ma in sé non ne è né la causa prima né il fondamento. Cartesio è considerato il fondatore della filosofia moderna non perché mette in prima linea l’idea del metodo, ma perché vi coglie un nuovo compito. Non soltanto la struttura formale, ma anche l’intero contenuto della conoscenza «pura» deve venir ricavato e dedotto da una concatenazione ininterrotta, da un originario principio metodico. Lo stesso Cartesio ha considerato e definito tutte le sue varie produzioni scientifiche come altrettanti sviluppi e ramificazioni di quest’unico nucleo fondamentale. La geometria analitica, che è all’inizio delle sue scoperte e che di tutte costituisce la premessa costante, non è altro per lui che «il frutto spontaneo del principio innato del metodo». Rendersi conto di questa relazione e seguirla fino nei suoi sviluppi concreti nella fondazione della meccanica e della fisica speciale è l’esigenza fondamentale per la comprensione del sistema filosofico di Cartesio. Questa metodica è storicamente legata al nuovo concetto della natura e della conoscenza della natura sorto nel frattempo. A prima vista la sua caratteristica principale sembra essere il rivolgersi all’esperienza interna, all’analisi dei soli processi della coscienza. Ma un’indagine più precisa mostra che qui si tratta di un singolo momento, subordinato a un compito più generale. […] Galileo contrappone alla concezione della natura della sua epoca l’idea della necessità. La necessità è per lui, com’era stata per Leonardo da Vinci, l’«inventrice della natura» e la sua maestra e tutrice. Galileo resta fermo a essa, che è fondata sulle regole universali della geometria e della matematica. Non è necessario spiegare ulteriormente il suo significato: lo comprende chiunque abbia capito veramente anche una sola volta un principio matematico e abbia «gustato» in esso com’è fatto il sapere. È tipico della mentalità di Cartesio e dell’indirizzo della sua ricerca che egli non si appaghi di questa forma di giustificazione. Non si tratta solo di sperimentare internamente che cosa sia la necessità, ma anche di com-

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Dalla necessità del pensiero alla necessità dell’essere

La conoscenza e la realtà

Kant pone nuovi problemi all’indagine sulla conoscenza

prendere donde essa derivi. Infatti nel trasportare questo concetto sulla «natura», sull’essere delle cose concrete, sono già insiti un duplice significato e una difficoltà interna. Secondo il suo senso originario vero e proprio, la necessità non si riferisce a cose o processi determinati, ma unicamente a conoscenze determinate. È una caratteristica riguardante i giudizi e la diversa validità di classi di giudizi. La concezione matematica della natura, che Cartesio scopre indipendentemente e parallelamente a Galileo, applica questo termine del pensiero direttamente all’essere. Come si spiega questo passaggio e come lo si può giustificare? Così il risultato del lavoro intellettuale dell’indagine moderna diventa nuovamente un problema. Il filosofo analista comincia la sua opera proprio al punto a cui doveva arrestarsi la scienza esatta. L’armonia tra la conoscenza e la realtà, che stava alla base di essa come una premessa implicita, viene ora annullata dal dubbio critico, e sorge il compito di ricomporlo per altra via. […] Il compito analitico posto al pensiero moderno trova la sua conclusione logica nel sistema di Kant. Qui viene fatto l’ultimo passo decisivo, poiché il conoscere viene posto completamente su se stesso e non è più anteposto alla sua propria normatività nel campo dell’essere e della coscienza. Ma proprio per il fatto di aver compiuto questa svolta, Kant non porta tanto a compimento la speculazione precedente quanto piuttosto crea nuovi problemi che arrivano direttamente fino alla speculazione attuale. (Einaudi, Torino 1978, 1, pp. 22-25, 30, 483-485, trad. di A. Pasquinelli)

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento 1. I caratteri dell’Umanesimo 1. Il ritorno degli antichi 2. Una nuova figura di intellettuale 3. Impegno civile e dignità dell’uomo: Pico della Mirandola

2. Dall’Italia all’Europa: diffusione dell’Umanesimo e riforma religiosa 1. Filosofia cristiana e umori critici: Erasmo 2. La crisi religiosa: Riforma protestante e Controriforma 3. Una ragione non dogmatica: Montaigne

2. Il naturalismo antiaristotelico: Telesio 3. Un nuovo sistema filosofico: Campanella 4. La magia e la scienza moderna

5. L’uomo nell’infinito: Bruno 1. La cosmologia: universo infinito e infiniti mondi 2. L’ontologia: materia, anima, vicissitudine 3. L’etica: la critica dell’ozio e l’esperienza del furore 4. La religione: dalla «nova filosofia» alla riforma del mondo

6. La riflessione politica 3. Il nuovo platonismo del Rinascimento 1. Platone e Aristotele dopo il Medioevo 2. Fra Ermete e Platone: la «teologia platonica» di Ficino 3. Fra Platone e Aristotele: la pax philosophica di Pico 4. Fra neoplatonismo e tradizione mistica: la «dotta ignoranza» di Cusano

1. La lezione degli antichi e l’esperienza dei moderni: Machiavelli 2. La politica fra «discrezione» e analisi del «particulare»: Guicciardini 3. Il reale e l’immaginario: le ‘città ideali’ di Moro e Campanella

4. La filosofia della natura fra magia e scienza 1. Il naturalismo aristotelico: Pomponazzi

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

I caratteri dell’Umanesimo

1 I testi

G. Pico della Mirandola Oratio de hominis dignitate: La natura dell’uomo è la libertà, T1

Categorie storiografiche discusse

Un programma di rinnovamento della cultura

Il mito degli antichi

1 Ricerca e trascrizione di manoscritti di opere ‘perdute’

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Cercare di tracciare, in forma sintetica, le linee di forza della cultura filosofica dell’età dell’Umanesimo e del Rinascimento è operazione complessa. E lo è non solo per la presenza in questa stagione culturale di componenti molteplici e talvolta contraddittorie. Ma anche perché un’operazione del genere richiederebbe la discussione preliminare delle stesse categorie di «Umanesimo» e «Rinascimento» e del loro rapporto, da un lato, con il Medioevo, dall’altro, con la modernità: un problema storiografico ormai classico, lungamente dibattuto, e tuttavia decisivo per l’interpretazione di questa età. Limitiamoci quindi a ricordare un dato indiscutibile: in Europa, a partire dalla seconda metà del Trecento e per quasi tre secoli, si afferma una cultura il cui obiettivo è quello di realizzare un programma complessivo di rinnovamento del sapere ispirato a ideali conoscitivi e a una scala di valori sensibilmente diversi da quelli privilegiati nei secoli immediatamente precedenti. Si tratta, anzi, di una cultura che orgogliosamente si presenta e si autodefinisce in polemica, consapevole antitesi con l’‘età di mezzo’. Come è noto, sono infatti gli umanisti a elaborare per primi il mito – poi ripreso con forza dagli illuministi e in particolare da Jean-Baptiste Le Rond d’Alembert (1717-1783)– della rinascita, di un ritorno alla luminosa cultura greco-romana messo in atto per liberare gli uomini dalle tenebre del barbaro e ignorante Medioevo, tutto orientato verso la dimensione trascendente e incurante delle esigenze effettive degli uomini.

Il ritorno degli antichi Il ritorno degli antichi, la riscoperta dei classici costituisce dunque l’origine e la nota dominante di questa cultura. A partire dalla fine del Trecento, gli umanisti si dedicano a un’intensa attività di ricerca e trascrizione di manoscritti antichi, secondo due linee di esplorazione convergenti: i testi latini vengono individuati attraverso una capillare ricognizione delle biblioteche monastiche italiane ed europee; per i testi greci si guarda invece al mondo del mercato librario di Costantinopoli. Nel giro di pochi anni viene così rimessa in circolazione una notevole quantità di opere letterarie, filosofiche, scientifiche, enciclopediche delle quali il Medioevo aveva perduto memoria, o aveva avuto una conoscenza frammentata, sommaria, imprecisa. E alla riscoperta si accompagna un’intensa opera di correzione, emendazione e quindi traduzione, ispirata a criteri di chiarezza ed ele-

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

La filologia: prospettiva storica e rapporto critico con i testi

Nuovi fondamenti epistemologici e recupero di autori antichi

2 Nuovi ceti intellettuali laici e cittadini

Trasformazione delle università

Nuovi centri di ricerca e di insegnamento

ganza ancora una volta contrapposti alla rozzezza, alla letteralità e all’oscurità delle versioni medievali. Questo processo ha un significato che va ben al di là del mero dato quantitativo, pure imponente. Come ci ha insegnato uno dei maggiori studiosi di questo periodo, Eugenio Garin, quel che conta sono le forme dell’approccio, gli interessi e le domande del presente a cui questa riscoperta risponde. Diversamente dai pensatori medievali – che pure avevano assimilato, anche se in forme ‘cristianizzate’, aspetti del sapere antico –, gli umanisti si accostano alle opere della classicità con la consapevolezza del fatto che si tratta di una cultura straordinaria sì, ma diversa e irriducibile alla propria. Verso il passato l’Umanesimo assume, per la prima volta, un’autentica prospettiva storica. Con i testi si stabilisce così un rapporto critico, che trova la propria espressione emblematica in una disciplina allora nascente: la filologia, che è, appunto, analisi rigorosamente storica delle opere, indagate nella loro costituzione testuale e nella loro espressione linguistica. Nel corso di questo processo di rifondazione del sapere, le singole discipline – dalla storia alla politica, dalla medicina alla filosofia – vengono, da un lato, discusse nei loro fondamenti epistemologici; dall’altro, rese autonome dallo schema enciclopedico scolastico, dominato dalla teologia e dalla metafisica. Ma la cultura umanistica incrina i fondamenti della tradizione costituita anche moltiplicando le voci del dialogo culturale, attraverso una serie di auctoritates assai più nutrita e articolata rispetto al Medioevo. Così, alla voce di Aristotele, egemone nei secoli precedenti, se ne affiancano progressivamente altre, a cominciare da quella di Platone, fino a reintegrare nel dibattito culturale – grazie anche alla diffusione delle Vite dei filosofi di Diogene Laerzio – correnti di pensiero trascurate o sottovalutate, come lo stoicismo, o addirittura rifiutate, come l’epicureismo.

Una nuova figura di intellettuale Lo sviluppo della nuova cultura umanistica porta con sé un sensibile mutamento anche nella geografia dei tradizionali luoghi di elaborazione, trasmissione e applicazione del sapere. A partire dal tardo Trecento, protagonisti di questo rinnovamento sono i nuovi ceti intellettuali cittadini, estranei al mondo universitario, e provenienti da studi giuridici o dall’insegnamento grammaticale e retorico. Notai, segretari, maestri condividono il distacco dalla tradizione scolastica, dal suo linguaggio altamente formalizzato, dai suoi tecnicismi, dalla sua astrazione. In una società e in una cultura in rapida evoluzione gli umanisti contribuiscono così, da un lato, a mettere in discussione le gerarchie costituite del sapere; dall’altro, a proporre alternative alle professioni intellettuali consuete. I luoghi tradizionali del sapere – le università – si aprono abbastanza presto ad accogliere alcuni aspetti del rinnovamento umanistico, a partire dalla scelta di leggere gli auctores, compreso lo stesso Aristotele, o nella loro lingua originaria o in traduzioni e commenti umanistici. Tuttavia, in questi decenni, le università non possono più essere considerate le uniche (e neanche le più importanti) istituzioni dove si producono e circolano la cultura e la filosofia. Accanto ad esse – e talvolta contro di esse – si formano nuovi centri di ricerca e di insegnamento: da semplici circoli umanistici a vere e proprie accademie; dalle nuove biblioteche, anche pubbliche (rapidamente incrementate grazie ai ritmi 15

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

di produzione dei libri resi possibili dalla recente invenzione della stampa), alle cancellerie politiche, allo spazio istituzionale privilegiato per l’intellettuale di questi secoli: la corte signorile, che garantisce protezione, mecenatismo e tranquillità negli studi, anche se talvolta a prezzo di condizionamenti ideologici tutt’altro che irrilevanti. Nuove figure Va inoltre sottolineata la feconda circolazione di idee che si realizza, a partire dal di intellettuali Quattrocento, tra filosofi naturali, artisti e tecnici, superando in parte la classica contrapposizione tra lavoro manuale e attività intellettuale. E comincia a delinearsi il profilo di uomini di cultura pronti a coniugare – come faranno ai livelli più alti Filippo Brunelleschi (1377-1446) o Leon Battista Alberti (1406-1472) – competenze intellettuali e abilità manuali, riflessione morale e pratica di ingegneria o di architettura.

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Impegno civile e dignità dell’uomo: Pico della Mirandola

L’educazione imperniata sugli studi umanistici si collega anche a un nuovo concetto di cittadino. Questo concetto – che interpreta la politica della città come terreno in cui le potenzialità umane si esercitano nel modo più compiuto – si sviluppa in modo particolare nell’Umanesimo fiorentino, dove le strutture politiche – fino alla metà del Quattrocento ancora repubblicane – favoriscono la formazione di una figura del tutto nuova: l’umanista-cancelliere, insieme politico attivo e uomo di cultura. I rappresentanti più tipici e noti di questo atteggiamento politico-culturale, che va sotto il nome di «Umanesimo civile», sono Coluccio Salutati (1331-1406) e Leonardo Bruni (1374-1444). La riflessione Ma al centro della filosofia morale quattrocentesca è certo la riflessione sulla disulla dignità dell’uomo gnità dell’uomo e la sua nobiltà. Il tema è modulato in forme diverse, soprattutto nell’ambito della cultura fiorentina: costituisce, per esempio, il nucleo dell’opera di Giannozzo Manetti, intitolata appunto De dignitate et excellentia hominis, e composta intorno al 1452. Ma esso trova il suo vertice nella Oratio de hominis dignitate di Giovanni Pico della Mirandola, scritta alla fine del 1486 come introduzione alla grande disputa destinata a mostrare la convergenza e l’accordo fra le diverse tradizioni e filosofie (vedi p. 32). L’Umanesimo civile

La vita e le opere Giovanni Pico nacque il 24 febbraio 1463 nel feudo di Mirandola e Concordia, fra Modena e Ferrara, figlio di un uomo d’armi, Giovan Francesco I, e di Giulia Boiardo, zia dell’autore dell’Orlando innamorato. Dopo aver studiato diritto canonico a Bologna, passò alla corte estense di Ferrara. Fra il 1480 e il 1483 fu a Padova, centro dell’aristotelismo, dove studiò sotto la guida del celebre maestro Nicoletto Vernia e conobbe Elia del Medigo, che lo introdusse alla lettura dei commentatori arabi di Aristotele. Per approfondire la conoscenza della teologia scolastica, nel 1485 si recò a Parigi, alla Sorbona. Nello stesso anno, da Firenze, dove aveva intanto intrecciato rapporti con il circolo radunato attorno a sé da Lorenzo de’ Medici, indirizzò a Ermolao Barbaro la let-

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tera De genere dicendi philosophorum («Il genere del discorso filosofico»), in cui rivendicava la profondità di pensiero dei filosofi medievali, criticando la possibile degenerazione retorica dell’Umanesimo. Ritornato in Italia nel 1486, intraprese lo studio dell’arabo e dell’ebraico con Flavio Mitridate, che tradusse per lui alcuni testi cabbalistici. Nel dicembre 1486 giunse a Roma per un incontro dei dotti progettato per il 6 gennaio 1487, e in vista del quale erano state redatte sia le Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae («Conclusioni filosofiche, cabbalistiche e teologiche») che la Oratio de hominis dignitate («Orazione sulla dignità dell’uomo»). La discussione venne bloccata per intervento del papa Innocenzo VIII, il quale condannò alcune tesi nell’agosto del 1487; negli stessi mesi, Pico le

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

difese in un’Apologia. Costretto a rifugiarsi in Francia, venne arrestato nel 1488 e imprigionato nel carcere di Vincennes, a Parigi. Liberato per intercessione di Lorenzo de’ Medici, ma profondamente segnato dalla vicenda, tornò a vivere a Firenze, dove frequentò assiduamente Girolamo Savonarola e Angelo Poliziano. Qui pubblicò nel 1488 l’Heptaplus, un commento in stile cabbalistico dei primi versetti della Genesi, e nel 1491 il De ente et uno («L’ente e l’uno»), per dimostrare la conLa riflessione sull’essenza dell’uomo

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La natura dell’uomo è la libertà

G. Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate

cordanza tra il pensiero di Platone e quello di Aristotele. Negli ultimi anni di vita lavorò a un commento ai Salmi, rimasto incompiuto, e alla stesura di un’opera contro l’astrologia, le Disputationes adversus astrologiam divinatricem («Dissertazioni contro l’astrologia divinatrice»), in dodici libri, pubblicata postuma nel 1496. Morì, ancora giovane, il 17 novembre 1494, forse per veleno, chiedendo di essere sepolto con il saio dei domenicani, l’ordine religioso di Savonarola.

L’Oratio de hominis dignitate è davvero notissima, e ha avuto un suo rilievo e una sua fortuna anche nella filosofia successiva. Intrecciando temi della tradizione cristiana, platonica ed ermetica (va ricordato, a questo proposito, che l’Oratio si apre con la battuta del trattato ermetico Asclepius: «Grande miracolo, o Asclepio, è l’uomo», vedi sotto p. 29), Pico svolge un ragionamento il cui nucleo centrale si può riassumere così: la natura dell’uomo si identifica con la più totale, assoluta libertà. All’inizio di questo testo Pico presenta una scena in cui Dio stesso, dopo aver creato le essenze di tutte le cose, dalle intelligenze angeliche all’ultimo degli animali, si rivolge direttamente all’uomo per annunciargli che a lui non verrà donata un’essenza definita e stabile, uno statuto ontologico preciso. […] stabilì finalmente l’ottimo artefice che a colui cui nulla poteva dare di proprio fosse comune tutto ciò che aveva singolarmente assegnato agli altri. Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo così gli parlò: «Non ti ho dato, o Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché quel posto, quell’aspetto, quelle prerogative che tu desidererai, tutto secondo il tuo voto e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai da nessuna barriera costretto, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai. Ti posi nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi tutto ciò che è nel mondo. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine».

È Dio stesso, dunque, che ha voluto immettere nella natura dell’uomo il dono dell’assoluta libertà. Posto al centro del mondo, egli può contemplarlo tutto, ammirandone la bellezza e afferrandone la più profonda ragione di essere. E può, di volta in volta e nel corso della stessa vita, aderire a questa o quella parte di mondo, scegliere scale dissimili di valori e forme diverse di esistenza, innalzandosi – come un angelo – verso Dio e il mondo celeste, oppure abbassandosi – come un bruto – verso la bestialità. L’uomo Vale la pena di insistere ancora sull’immagine di uomo che affiora dalle pagine è un «camaleonte» dell’Oratio: quella di un «camaleonte», pronto ad assumere tutti i colori; oppure di un Proteo, la divinità marina dai mille volti, «per l’aspetto cangiante e la natura mutevole»; quella, insomma di un essere disponibile a ogni tipo di metamorfosi, come del resto, secondo Pico, concordemente insegnano le molte fonti ➥ Sommario, p. 66 antiche che riecheggiano e si intrecciano in questo testo.

La libertà come dono di Dio all’uomo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Dall’Italia all’Europa: diffusione dell’Umanesimo e riforma religiosa

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I testi E. da Rotterdam Elogio della follia: La follia della croce, T2

Una diffusione omogenea ma asimmetrica

Una società internazionale di dotti uniti dal latino

Erasmo e Montaigne: i maggiori protagonisti dell’Umanesimo europeo

L’evoluzione dell’esperienza dell’Umanesimo

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M. de Montaigne Saggi: Montaigne si presenta ai suoi lettori, T3; Diversità e varietà della natura, T4; La barbarie degli europei, T5

Nella sua prima fase, l’Umanesimo si caratterizza come fenomeno in prevalenza italiano. A partire dalla fine del Quattrocento, al processo di formazione degli umanisti come ceto autonomo si accompagna la diffusione di questa nuova cultura dall’Italia agli altri Paesi d’Europa – dalla Francia ai Paesi Bassi, dall’Inghilterra alla Germania, alla Spagna. Si tratta di un processo che, pur presentando una linea di evoluzione omogenea, si sviluppa secondo tempi asimmetrici e in forme diverse da Paese a Paese. In Francia, per esempio, la prima ricezione della cultura umanistica si configura nei termini di una notevole diffusione del platonismo ficiniano (vedi sotto p. 29), spesso in combinazione con tradizioni esoteriche di pensiero. In altri Paesi le istanze umanistiche si intrecciano invece in maniera privilegiata con le esigenze di rinnovamento religioso o con la riflessione politica. Altro aspetto significativo della diffusione dell’Umanesimo è l’emergere di una società internazionale di dotti, unificata dall’uso del latino come lingua comune, che intreccia un dialogo fitto e costante, testimoniato dagli epistolari. E alcune di queste raccolte, per esempio quella – straordinaria – di Erasmo, ci consentono di tracciare una vera e propria mappa del sapere europeo del tempo. I due grandi protagonisti della cultura filosofica umanistico-rinascimentale presi in esame in queste pagine – Erasmo e Montaigne – incarnano in forma addirittura paradigmatica il mutamento complessivo che investe, nell’arco di due generazioni, la figura stessa dell’intellettuale. Se Erasmo è il rappresentante più celebre del sogno umanistico di tolleranza e di pace coltivato, in forme diverse, per tutto il Quattrocento, Montaigne vive invece la realtà drammatica degli odi confessionali e delle guerre di religione che insanguineranno l’Europa per più di un secolo. L’orgogliosa indipendenza di Erasmo è destinata così a lasciare il posto alla sorte ben più drammatica di tanti pensatori del secondo Cinquecento o del primo Seicento, posti di fronte a un’alternativa davvero amarissima: affrontare lo scontro con il potere politico o religioso, con gli esiti spesso tragici testimoniati dalle vicende di Giordano Bruno e Tommaso Campanella; oppure, di fronte al divampare dei conflitti e al dissolversi di ogni certezza, ritirarsi nella propria interiorità nutrita della lezione dei classici e di scetticismo, come nel caso dello stesso Montaigne.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

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Filosofia cristiana e umori critici: Erasmo Rinascita delle buone lettere e aspirazione al rinnovamento della vita religiosa sono i due assi fondamentali intorno ai quali ruota il pensiero del grande filologo e studioso olandese Erasmo da Rotterdam.

La vita e le opere Desiderio Erasmo nacque a Rotterdam nel 1466 o 1469. Dopo aver frequentato a Deventer la scuola dei Fratelli della vita comune, si avvicinò alla vita monastica nel convento agostiniano di Steyn, presso Gouda. Una volta ordinato sacerdote, abbandonò ben presto il convento per viaggi di studio che lo portarono prima a Parigi, quindi, a più riprese, in Inghilterra (dove strinse una duratura amicizia con Thomas More), e poi in Svizzera, in Germania, in Italia. La sua fama di grande umanista si diffuse così in tutta Europa, come testimonia la ricchissima corrispondenza (il suo epistolario comprende più di tremila lettere) che egli intrattenne con i maggiori dotti contemporanei. Nel 1522 si stabilì a Basilea dove, fatta eccezione per un soggiorno a Friburgo durato alcuni anni (1529-1535), visse fino alla morte, avvenuta nel 1536. Tra le sue opere principali vanno ricordati: l’Enchiridion I modelli classici

La critica del cristianesimo contemporaneo

Ritorno a un linguaggio universale e cristiano: la follia positiva

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La follia della croce

E. da Rotterdam, Elogio della follia

militis christiani («Il manuale del soldato cristiano»), del 1503, che presenta le linee del suo progetto di riforma della cristianità; L’elogio della follia, del 1511, un testo aspramente satirico, in cui Erasmo svolge una critica serrata del rovesciamento di ogni valore tipico del proprio tempo; l’Institutio principis Christiani («L’educazione del principe cristiano»), del 1516, manifesto del suo pacifismo e cosmopolitismo; l’antiluterana De libero arbitrio diatribe («Discussione sul libero arbitrio»), del 1524, cui vanno aggiunte le raccolte degli Adagia («Proverbi») e dei Colloquia («Conversazioni»). Fondamentali sono inoltre i frutti della sua intensa attività di filologo: l’edizione critica del Nuovo Testamento (accompagnata dalla traduzione latina e da importanti annotazioni), pubblicata in più edizioni a partire dal 1516, e l’edizione critica delle opere di molti Padri della Chiesa. Dopo la sua morte, nel 1559, le sue opere furono messe all’Indice dall’Inquisizione.

L’opera più nota e celebrata di Erasmo è L’elogio della follia. Dal punto di vista letterario, l’operetta si ispira a modelli classici: in quanto elogio ironico di ciò che è assurdo e irragionevole, essa rimanda infatti alla satira greca, e in particolar modo a Luciano di Samosata (120-190 ca.). Del tutto aderenti all’attualità sono invece i contenuti. Nell’Elogio la corrosiva critica erasmiana investe tutti gli aspetti dell’esperienza cristiana contemporanea, dominata da un formalismo astratto e sterile e da un conformismo che sono la vera causa della sua profonda decadenza e corruzione. Egli critica le pratiche di culto ridotte a pura messinscena o assimilabili a rituali superstiziosi e la vita dissoluta di monaci ed ecclesiastici. E ancora: il dogmatismo dei teologi, che hanno ridotto il genuino linguaggio apostolico a un insieme di formule incomprensibili e controverse; la divaricazione tra professione di fede e comportamenti effettivi; la mondanizzazione della corte papale, dove ora, al posto della semplicità e povertà autenticamente cristiane, regnano i principi e i costumi della politica più concreta e spregiudicata. Se questa follia negativa ha trasformato la spiritualità del cristianesimo in una pratica superficiale e vana, occorre superare lo schermo delle apparenze per ricostituire un linguaggio davvero universale e cristiano. Per far questo, bisogna mettere al centro un altro tipo di «follia», stavolta di segno positivo: l’imitazione di Cristo, la «follia della croce», di cui ha parlato Paolo di Tarso (più avanti indicato solo come Paolo) nella seconda Lettera ai Corinzi. Questa sorta di raptus conoscitivo e amoroso è in grado di liberare l’uomo dalle false ambizioni e di ricondurlo a Dio. Questa è la parte della follia che il passaggio da una vita all’altra non toglie, ma porta a perfezione. Quelli che hanno potuto parteciparne – pochissimi invero – sono colti da un turbamento che alla follia è vicinissimo; fanno discorsi incoerenti, proferendo parole strane e senza senso; e poi all’improvviso mutano completamente d’espressione. Ora alacri, ora depressi; ora piangono, ora ridono, ora 19

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sospirano; insomma sono davvero del tutto fuori di sé. Appena poi rientrano in se stessi dicono di non sapere dove sono stati, se nel corpo o fuori del corpo; di ignorare se erano svegli o addormentati; di non sapere che cosa hanno udito, che cosa hanno detto, che cosa hanno fatto; hanno solo dei ricordi che sembrano filtrare attraverso il velame della nebbia o del sogno. Una sola cosa sanno: di essere stati al colmo della beatitudine quando erano in quello stato. Il ritorno al messaggio originario del cristianesimo si intreccia saldamente in Erasmo con un altro motivo profondo della sua riflessione: il richiamo al valore supremo della pace. Il messaggio di Cristo rigenera infatti la vita di ognuno solo nella misura in cui è compenetrazione di teoria e pratica, all’insegna di una concordia che va prima praticata individualmente, quindi proiettata anche sull’orizzonte della comunità politica. Se il fondamento della pace è nel Vangelo, per recuperarlo è necessario ripristinare e rendere di nuovo disponibile il messaggio cristiano, oscurato da secoli di false interpretazioni, dispute e contrasti. Recupero filologico Da qui, il richiamo erasmiano all’insegnamento dei Padri della Chiesa – in primo dei testi cristiani luogo Girolamo – e l’esigenza di approntare un’edizione filologicamente attendibile e una buona traduzione del Nuovo Testamento, affinché esso torni a essere patrimonio condiviso dei fedeli e non mero appannaggio dei teologi. La nuova edizione del testo greco del Nuovo Testamento vedrà la luce per la prima volta nel 1516, accompagnata dalla traduzione latina e da un corposo apparato di note. Cristianesimo ed eticità Una volta liberata dalle interpolazioni e dagli irrigidimenti dottrinali, la parola di Dio trasmette all’uomo un messaggio che Erasmo definisce philosophia Christi. Si tratta di un cristianesimo fortemente connotato in senso etico, di un progetto – in cui Cristo è guida e maestro – che investe a un tempo mente e cuore, cultura classica e condotta di vita, saggezza profana e prassi evangelica. Il valore della pace

Erasmo

Erasmo: critica alla Chiesa e rinnovamento del cristianesimo

2 La questione cristiana nell’Europa del Cinquecento

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Critiche alla Chiesa – Rifiuto del formalismo e del conformismo religiosi – Condanna delle pratiche di culto – Contrapposizione tra fede e comportamenti – Opposizione alla mondanizzazione e alla ricerca del potere politico e temporale nella corte papale Proposte per il rinnovamento del cristianesimo – Imitazione di Cristo e «follia della croce» – Esaltazione della pace – Traduzione e recupero filologico dei testi cristiani – Cristianesimo fortemente connotato in senso etico – Conciliazione tra cristianesimo e cultura classica

La crisi religiosa: Riforma protestante e Controriforma Attraverso la propria riflessione Erasmo esprime un sentimento diffuso nella cultura del tempo: l’insoddisfazione per l’atteggiamento della Chiesa, sempre più coinvolta nelle questioni di potere e impegnata nel ruolo politico e sempre meno fedele alla tradizione dottrinale e all’impegno pastorale. La reazione erasmiana a questi problemi, intrisa di cultura umanistica, non è

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però l’unica: dall’interno stesso della Chiesa sorge infatti un vasto movimento che si pone inizialmente come un tentativo di correzione e di riforma, ma che con il tempo, anche a causa del sommarsi di una serie di fattori non solo teologici, ma politici, sociali e culturali, genera una radicale frattura nell’unità religiosa dell’Europa cristiana. L’iniziatore e il principale protagonista di questo movimento è un monaco agostiniano tedesco: Martin Lutero.

La grazia, la fede, la Scrittura: Lutero Il nucleo centrale della teologia di Martin Lutero si può sinteticamente racchiudere in una serie di formule: sola gratia, sola fide, sola Scriptura. Proviamo ad analizzarle più da vicino. La teologia di Lutero apre fra Dio e uomo un abisso incolmabile, fondato sulla netta contrapposizione fra carne e spirito, peccato e redenzione. Il peccato originale, secondo Lutero, ha infatti precipitato l’uomo in una condizione di corruzione assoluta, facendone una creatura segnata dal peso della carnalità e da una tendenza connaturata a operare il male. Salvezza e grazia Da questa condizione, l’uomo non è in grado in nessun modo di riemergere con le proprie forze, riscattandosi agli occhi di Dio attraverso la pratica delle buone azioni o l’osservanza della legge morale. Profondamente angosciato dalla prospettiva di non potersi salvare e rendere giusto di fronte a Dio, Lutero individua una soluzione nelle parole di Paolo nella Lettera ai Romani: «L’uomo è giustificato per la fede, indipendentemente dalle opere della legge». La salvezza non rimanda dunque allo sforzo dell’uomo di acquistare meriti agli occhi della divinità: sono la bontà e la misericordia di Dio a salvarci, attraverso l’opera esclusiva e imperscrutabile della grazia.

La frattura tra uomo e Dio operata dal peccato originale

La vita e le opere Martin Lutero nacque nel 1483 a Eisleben, in Sassonia, da una famiglia di origini assai modeste. Compì gli studi accademici a Erfurt. Diventato magister artium, si dedicò allo studio del diritto, ma nel luglio 1505, in seguito a una crisi spirituale, entrò nel monastero degli agostiniani osservanti della stessa città. Prese i voti l’anno successivo e venne ordinato sacerdote nel 1507; nel 1512 conseguì il dottorato in teologia e cominciò a insegnare teologia biblica all’università di Wittenberg. In anni di studio intenso e di severa vita ascetica, Lutero elaborò, fra dolorosi conflitti interiori, quel nuovo modo di interpretare il cristianesimo che presenterà a Wittenberg nel 1517, pubblicando novantacinque tesi, in cui criticava indulgenze, voti, pellegrinaggi, digiuni, opere devote, poiché tali manifestazioni pretendevano di riuscire gradite a Dio per efficacia propria. Al contrario, secondo Lutero – che sviluppò questi temi soprattutto nel Commento alla Lettera ai Romani di Paolo –, la salvezza non è legata alle buone opere o all’osservanza della legge, ma discende dalla grazia che Dio concede per sua libera iniziativa all’uomo peccatore. Nel 1518 Lutero venne dichiarato eretico; nel 1520 fu condannato dal papa e tre anni più tardi scomunicato. Rifiutando di ritrattare le sue opinioni, egli dichiarò guerra aperta al papa (identificato con l’Anticristo) e all’intero sistema ecclesiastico. In questi anni, il suo aperto distac-

co dalla Chiesa di Roma fu scandito da azioni spettacolari (il rogo della bolla papale di condanna), ma anche dalla composizione di tre importanti opere: Alla nobiltà cristiana della nazione tedesca, De captivitate Babylonica Ecclesiae («Della cattività babilonese della Chiesa»), De libertate christiana («La libertà del cristiano»). Grazie alla protezione dell’elettore di Sassonia, Lutero sfuggì all’incarcerazione, rifugiandosi nel castello di Wartburg, dove si dedicò alla traduzione in tedesco del Nuovo Testamento, condotta sul testo greco di Erasmo e pubblicata nel 1522; nel 1534 tradusse anche l’Antico Testamento, rendendo così accessibile il testo sacro a vasti strati di popolazione. Tornato a Wittenberg nel 1522, riprese la guida del movimento della Riforma, affidando sempre più la difesa dell’ordinamento delle nuove comunità religiose alla protezione dei principi protestanti (e schierandosi addirittura con loro nella repressione delle sommosse contadine del 1525, guidate dal teologo Thomas Müntzer). Fra il 1524 e il 1525, con la polemica con Erasmo sul libero arbitrio per la quale scrisse il De servo arbitrio («Il servo arbitrio»), si consumò anche la rottura tra la Riforma e una parte del mondo umanistico, che considerava la concezione della dignità dell’uomo inconciliabile con la severa antropologia luterana. Turbato negli ultimi anni dalle differenze dottrinali e dalle tensioni politiche esplose in nome della libertà evangelica, Lutero morì a Eisleben nel 1546.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La giustificazione attraverso la fede

La fede come unica ‘opera buona’

Imperscrutabilità del disegno divino

La teologia della Croce

Il rapporto tra credente e parola di Dio, senza la mediazione della Chiesa

Siamo al concetto centrale della teologia di Lutero: quello della giustificazione, ossia dell’intervento di Dio che redime dal peccato, in virtù della sola fede. La giustizia di Dio può essere infatti intesa in due modi: il primo corrisponde all’accezione comune, umana di giustizia, secondo la quale essa premia o punisce gli uomini a seconda dei loro comportamenti. Ma è considerando la giustizia secondo un’accezione del tutto diversa che l’uomo può sperare nella salvezza per dono di Dio. È per sola, univoca iniziativa della sua volontà impenetrabile che Dio libera gli uomini dalle loro colpe, anche se non dal loro peccato. La grazia non cancella il peccato, ma non ne attribuisce la colpa all’uomo (nel lessico teologico, non lo imputa all’uomo), se egli si impegna concretamente a resistere all’inclinazione della sua natura. Condizione essenziale perché tale processo si compia, è la fede: l’uomo peccatore può ricevere la giustizia che Dio gli promette, solo a condizione che egli abbia fede in questa promessa. Per Lutero, l’unica vera ‘opera buona’ è quindi la fede, alla cui luce ogni azione diventa giusta, perché segno di una natura umana illuminata dalla grazia. Il disegno divino che trasforma alcuni uomini da condannati in ‘giustificati’ ed eletti è misterioso e insondabile. Ma non è lecito pretendere di valutare con criteri razionali la giustizia del comportamento di Dio, che resta irriducibile a ogni misura umana. La fede giustifica l’uomo, infatti, per mezzo del sacrificio di Cristo. Il processo di salvezza ha così il suo culmine nella «teologia della Croce», vale a dire nella figura drammatica del Cristo crocifisso che accetta liberamente di salvare l’uomo dal peccato per mezzo della sua sofferenza. Altro punto importante è il rapporto fra credente e parola di Dio, fra sentimento religioso ed esame della Scrittura. Per Lutero, la Scrittura è fonte esclusiva della fede e norma infallibile di verità. Né fra uomo e Dio appare in alcun modo necessario il tradizionale rapporto di mediazione esercitato dalla Chiesa, con le sue regole, rituali e apparati, fondati sulla partecipazione, sulla condivisione, sull’obbedienza. Se il rapporto fra Dio e uomo è fondato su principi irriducibili alla giustizia umana e ai suoi criteri remunerativi, le espressioni esteriori di religiosità risultano destituite di ogni valore, così come le gerarchie ecclesiastiche (ogni cristiano è sacerdote e ministro di Dio) e ogni altro consueto elemento di intercessione o garanzia di un corretto rapporto fra Dio e i suoi fedeli – dal meccanismo delle indulgenze ai sacramenti (che Lutero intende riportare ai tre fondamentali: battesimo, penitenza, eucarestia).

La Riforma oltre Lutero: Zwingli e Calvino Il movimento riformatore non si esaurisce nella figura di Lutero. Negli stessi anni in cui il monaco di Wittenberg inizia la sua battaglia, Huldrych Zwingli (1484-1513) vive un’esperienza analoga a Zurigo, città della cui cattedrale diviene parroco nel 1518. Influenzato dalla lettura di Paolo e di Agostino, egli si distacca dal cristianesimo critico ed etico di Erasmo, a cui aveva aderito durante la sua formazione teologica, e raggiunge una propria visione teologica fondata: 1) sulla salvezza, come opera della grazia e non ottenuta attraverso le opere;

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2) sulla fede nella misericordia divina; 3) sulla Scrittura, come unico riferimento per l’agire religioso e morale. Sulla base di questi principi Zwingli, sostenuto anche dalle autorità di Zurigo, elimina dal culto cittadino tutte le pratiche liturgiche legate alla superstizione e prive di un fondamento nella Scrittura: le processioni, il culto di Maria e dei santi, i digiuni, le immagini sacre, il celibato dei sacerdoti e gli ordini monastici, i sacramenti, esclusi il battesimo e l’eucarestia. Nel 1525 Zwingli pubblica il De vera et falsa religione commentarius («Commentario sulla vera e sulla falsa religione») in cui espone in maniera organica le proprie concezioni teologiche. Divenuto la massima autorità non

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solo religiosa, ma anche politica nella sua città, Zwingli si confronta sia con i cattolici che con il nascente movimento luterano: nel 1529 incontra Lutero a Marburgo per trovare una posizione comune, ma l’accordo è reso impossibile dalle divergenze riguardo il valore della celebrazione eucaristica. Per Zwingli essa è semplicemente una commemorazione dell’Ultima cena, in cui pane e vino sono solo simboli della presenza di Cristo, mentre Lutero, pur rifiutando la teoria cattolica, crede nella presenza reale del sangue e del corpo di Cristo nel pane e nel vino. Lo scontro con i cattolici invece si conclude con una battaglia a Kappel nel 1531 fra i cantoni che aderiscono alla riforma di Zwingli e quelli fedeli a Roma, durante la quale il riformatore svizzero muore. Ben presto però il movimento zwingliano viene soppiantato in Svizzera dal calvinismo, la cui influenza all’interno della Riforma è pari, e forse superiore, al luteranesimo. L’iniziatore, Giovanni Calvino (1509-1564), è di origine francese e, dopo una formazione umanistica e giuridica, a causa del suo impegno per il rinnovamento della Chiesa, è costretto a lasciare la capitale, prima, e la Francia, poi. Giunto in Svizzera, inizialmente si rifugia a Basilea dove nel 1536 pubblica la sua opera fondamentale Christianae religionis institutio («Istituzione della religione cristiana»): opera che amplia nel 1545,

1550, 1559 e in cui si trovano i principi della sua teologia, destinati a influenzare tutte le Chiese riformate che si richiamano alla sua visione religiosa. Il tratto dominante del calvinismo, che condivide con gli altri movimenti riformatori il richiamo alla Scrittura come fondamento della teologia e della fede, è la concezione di Dio come un sovrano assoluto e un giudice inappellabile da cui deriva una teoria della predestinazione radicale. Secondo Calvino, l’elezione alla salvezza deve manifestarsi in ogni aspetto della vita, compresi il lavoro (il successo è un segno visibile del decreto divino che segna il destino di ognuno), il comportamento pubblico etico e politico, la sobrietà dei costumi e la rinuncia a tutto ciò che è superfluo. Chiamato a Ginevra, dopo vari contrasti che lo costringono ad abbandonare la città, Calvino vi si stabilisce definitivamente nel 1541 e modella la città sulla base dei propri principi teologici, etici e politici. Il governo è affidato a un concistoro che comprende dodici anziani e i pastori e una disciplina dura e intransigente viene imposta in ogni aspetto della quotidianità: abolizione del lusso, degli spettacoli, delle feste ecc. Durissimo è anche il trattamento che ricevono dissidenti o eretici. Nel 1559 a Ginevra viene fondata l’Accademia per la formazione teologica dei pastori, che fa della città uno dei centri del protestantesimo internazionale.

La risposta di Roma La Controriforma e il Concilio di Trento

Il libero arbitrio

L’importanza delle opere e il rifiuto della predestinazione

Alla sfida dottrinale e pastorale lanciata da Lutero e dagli altri riformatori la Chiesa di Roma risponde con quel moto di repressione, ma pure – per certi versi ed entro certi limiti – di rinnovamento, che va sotto il nome di «Controriforma». Espressione storica e normativa della Controriforma è il Concilio di Trento, tenutosi fra 1545 e 1563. Il Concilio si pone in primo luogo l’obiettivo di ribadire i punti fondamentali dell’ortodossia a proposito dei temi più scottanti discussi in quegli anni: le fonti della fede e il libero esame della Scrittura, i meccanismi della giustificazione e della salvezza, la predestinazione divina, la natura e la funzione dei sacramenti. A proposito del punto cruciale del libero arbitrio, il Concilio dichiara che la colpa di Adamo è stata trasmessa universalmente a tutti gli uomini, ma – a differenza di quanto proclamano i riformatori – essa ha solo attenuato e indebolito il libero arbitrio, senza corrompere integralmente la natura umana e la sua possibilità di compiere azioni morali. Sul piano della dottrina della salvezza, il Concilio sottolinea che la grazia e la liberazione dal peccato sono doni assolutamente gratuiti di Dio, ma respinge con fermezza il principio della giustificazione per sola fede. L’azione di Dio è solo il punto di partenza di un processo che, nell’uomo, non deve risolversi in pura passività, ma al contrario, in una libera adesione e cooperazione che si manifesta attraverso le scelte e le opere. Anche la dottrina della predestinazione – elaborata in modo particolare nella teologia di Calvino – viene condannata dal Concilio. 23

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In questo quadro teologico, viene ribadita anche l’importanza e l’efficacia dei sacramenti. Per quanto riguarda il rapporto dei fedeli con il testo sacro, il Concilio condanna la possibilità del libero esame (vale a dire, della meditazione individuale e privata) della Scrittura da parte del singolo credente: solo la Chiesa ha la competenza e l’autorità per giudicare del vero senso e della corretta interpretazione della parola di Dio. Repressione La preoccupazione di restaurare la disciplina in una comunità cristiana lacerata e attività missionaria e disorientata dal violento strappo di Lutero è alla base dell’istituzione o (come nel caso del Tribunale dell’Inquisizione) del potenziamento di un apparato di censura e repressione che opera sia attraverso un controllo capillare della stampa che tramite atti pubblici di sottomissione, processi e condanne di necessità esemplari e perciò terribili. Ma alla repressione e al disciplinamento delle coscienze si accompagna in questi decenni anche un’azione missionaria, volta a una sorta di vera e propria nuova cristianizzazione di ceti sociali rimasti ancora largamente ignoranti dei fondamenti della dottrina cristiana; ed è a questo scopo che la Chiesa si adopera nella formazione di un clero ben preparato e attento nella cura pastorale.

Sacramenti e rapporto con la Scrittura attraverso la mediazione della Chiesa

Erasmo e la Riforma Il rapporto di Erasmo con la Riforma è molto intenso e tormentato. Siamo in grado di ricostruirlo, da un lato, attraverso il carteggio intercorso con Lutero e con Melantone; dall’altro, attraverso una serie di opuscoli, fra i quali spicca la De libero arbitrio diatribe del 1524. Elementi comuni Testimone nel 1517 della violenta ribellione di Lutero alla Chiesa di Roma, Erae differenze con Lutero smo, pur condividendone alcuni presupposti (la battaglia contro la corruzione ecclesiastica e l’incultura scolastica; il richiamo prioritario alla parola di Dio consegnata alla Scrittura), sceglierà di difendere l’unità dei cristiani, ritagliandosi un ruolo difficilissimo di mediazione e compromesso, che finirà per scontentare entrambe le parti. La condanna di Roma Così, se Lutero (e non sarà il solo) lo accuserà di debolezza, ambiguità e scetticismo («lo Spirito Santo non è scettico», scriverà, con durezza, nel De servo arbitrio), la Chiesa di Roma finirà per considerarlo uno dei suoi avversari più pericolosi, accomunandolo agli eretici nella condanna integrale delle sue opere, inserite nell’Indice dei libri proibiti emanato nel 1559 da papa Paolo IV. Così, scrive lo storico Adriano Prosperi:

Un rapporto tormentato

Erasmo scomparve dalle letture degli italiani in un modo che non trova riscontro altrove […]. Allora, per una cultura italiana nel suo momento di egemonia europea, fu una pesante amputazione. Censure e roghi colpirono in Erasmo l’idea stessa di una cultura che, attingendo alle fonti della sapienza antica e del patrimonio cristiano, […] poneva gli strumenti della ragione critica […] al servizio dell’autonomia morale dell’individuo.

Ma indagini sistematiche hanno mostrato come, nonostante la repressione messa in atto dalla Controriforma, nell’Italia del Cinquecento Erasmo abbia trovato lettori appassionati e convinti di vedere nei suoi scritti – spesso interpretati con un radicalismo a lui ignoto – la conferma delle loro speranze di rinnovamento religioso. 24

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Montaigne si presenta ai suoi lettori M. de Montaigne, Saggi, 1

I temi dei Saggi

Una ragione non dogmatica: Montaigne Questo, lettore, è un libro sincero. Ti avverte fin dall’inizio che non mi sono proposto, con esso, alcun fine, se non domestico e privato. Non ho tenuto in alcuna considerazione né il tuo vantaggio né la mia gloria. […] Se lo avessi scritto per procacciarmi il favore della gente, mi sarei adornato meglio e mi presenterei con atteggiamento studiato. Voglio che mi si veda qui nel mio modo d’essere, semplice, naturale e consueto, senza affettazione né artificio: perché è me stesso che dipingo. Si leggeranno qui i miei difetti presi sul vivo e la mia immagine naturale, per quanto me l’ha permesso il rispetto pubblico. Che se mi fossi trovato tra quei popoli che si dice vivano ancora nella dolce libertà delle primitive leggi della natura, ti assicuro che ben volentieri mi sarei qui dipinto per intero, e tutto nudo. Così, lettore, sono io stesso la materia del mio libro. Con queste battute si apre uno dei capolavori della filosofia (e della letteratura) del Rinascimento: i Saggi di Michel de Montaigne, pubblicati tra 1580 e 1588. Nel breve spazio di una pagina, l’autore concentra alcuni temi centrali della sua riflessione, destinati a trovare poi ampia trattazione nelle riflessioni libere e ‘vagabonde’ che costituiscono la trama di questo testo affascinante e ricchissimo: il motivo dell’autobiografia come ricerca, e non semplice descrizione del sé; l’idea della filosofia come meditazione, riflessione, e non sapere oggettivo e normativo; la mediocrità come carattere costitutivo dell’uomo; e perfino lo sguardo attento e partecipe gettato sui «selvaggi» d’America, così vicini alla condizione di semplicità naturale ormai preclusa all’uomo europeo, soffocato dagli artifici e dalle disarmonie della civiltà.

La vita e le opere Michel Eyquem nacque nel 1533 nel castello di famiglia, a Montaigne, vicino Bordeaux. Ricevette un’educazione umanistica, sostanziata da una profonda conoscenza degli autori classici, prima sotto la guida di un precettore, poi al Collège de Guyenne. Dopo essersi dedicato anche allo studio del diritto, partecipò attivamente alla vita politica, come consigliere del Parlamento di Bordeaux. A partire dal 1571, in una Francia sconvolta dalle guerre di religione, si ritirò nel suo castello per dedicarsi alla stesura dell’opera di tutta una vita, i Saggi, pubblicati in una prima edizione in due libri nel 1580. Dopo un breve ritorno alla vita pubblica come

sindaco di Bordeaux (1581-1585), negli anni successivi continuò a rivedere e ampliare questo scritto, fino all’edizione in tre libri del 1588. La morte, nel 1592, lo colse nella sua casa ancora impegnato nella revisione dell’opera: e una nuova edizione dei Saggi sarà fatta stampare a Lione nel 1595 da Marie de Gournay, una sua giovane ammiratrice. Oltre che dei Saggi, Montaigne è autore di un Journal de voyage en Italie («Diario di un viaggio in Italia», pubblicato nel 1774) e della traduzione della Theologia naturalis sive Liber creaturarum («Teologia naturale o Libro delle creature») del teologo catalano Raymond Sebond, pubblicata a Parigi nel 1569.

È l’indagine sul sé a conferire compattezza e organicità alla materia dei Saggi, non certo l’organizzazione interna del testo: i saggi obbediscono infatti, almeno in apparenza, agli argomenti più diversi. Il gusto del frammento non obbedisce tuttavia solo a una scelta stilistica, ma corrisponde alla natura composita e sfuggente dell’oggetto da indagare, e riveste per questo un valore filosofico preciso. Proviamo a comprenderne i motivi. Un’ontologia qualitativa Montaigne aderisce a un’ontologia qualitativa, fondata sull’individuazione della fondata sulla differenza varietà, della differenza, della dissomiglianza come caratteri fondamentali dell’essere. Il mondo che ci circonda è, a suo parere, dominato da una diversità e da Unità d’indagine, varietà dell’oggetto

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una molteplicità tali da impedirci di individuare, una volta per tutte, quale sia il nucleo centrale della nostra vita e della nostra conoscenza. Si tratta di una posizione che egli illustra con chiarezza all’inizio del saggio intitolato Dell’esperienza.

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Diversità e varietà della natura M. de Montaigne, Saggi, 2

I limiti della conoscenza umana

Inafferrabilità dell’io

Osservare se stessi per capire la condizione umana

L’attacco all’antropocentrismo e l’attenzione al mondo animale

Varietà del mondo umano e relativismo morale

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La ragione ha tante forme che non sappiamo a quale appigliarci; l’esperienza non ne ha meno. La conseguenza che vogliamo trarre dalla somiglianza degli avvenimenti è mal sicura, poiché essi sono sempre dissimili: in quest’immagine delle cose non c’è alcuna qualità così universale come la diversità e la varietà. […] La somiglianza non rende tanto uguale quanto la differenza rende diverso. La natura si è obbligata a non far due cose che non fossero dissimili. L’uomo – creatura tutt’altro che privilegiata all’interno del mondo naturale – è costretto a muoversi entro un limite ontologico e conoscitivo assai angusto: «Io temo che la nostra conoscenza sia debole in ogni senso; noi non vediamo né molto lontano né molto indietro». Prigioniero del suo limitato orizzonte conoscitivo, l’uomo non può arrivare, né attraverso i sensi né attraverso la ragione, a conoscere la divinità o i meccanismi e i destini del mondo naturale. Ma non basta: perché nessuno può possedere mai, in maniera definitiva, neppure se stesso: «Il mio io di adesso e il mio io di fra poco, siamo certo due; ma quale sia migliore non posso davvero dirlo. Sarebbe bello esser vecchi se non procedessimo che verso il miglioramento. È un andamento da ubriaco, titubante, preso dalle vertigini, informe o di giunchi che il vento fa muovere a caso, a suo piacere». Eppure, per Montaigne, questa consapevolezza, se riconosciuta e accettata per se stessa, da limite ontologico insormontabile può rovesciarsi in norma di vita. Se non riusciamo a possedere il nostro io, possiamo però descriverlo, cogliendo momento per momento il cambiamento e la varietà che questo io sperimenta, sondandolo «fin nell’interno», spiandolo «più da vicino», ricercandolo «fin nelle viscere», per «penetrare le profondità opache delle sue pieghe interne». Mettendo a nudo se stesso, Montaigne attinge così una dimensione in qualche modo universale: l’io privato non costituisce una misura o un modello, ma un punto di vista particolare, che aiuta a verificare empiricamente cosa davvero sia la condizione umana: «Io studio me stesso più di ogni altro soggetto: è la mia metafisica, è la mia fisica. […] So meglio cos’è un uomo di quanto sappia che cosa sia animale, o mortale, o ragionevole». La critica all’arroganza della ragione sottesa a queste posizioni rientra poi in un attacco più generale alla prospettiva dell’antropocentrismo. Recuperando motivi propri della tradizione scettica, Montaigne denuncia così la vanità della pretesa umana di dominare gli altri esseri naturali, mettendo in discussione lo stesso presupposto di una differenza ontologica fra uomini e animali. È poi attraverso un uso sapiente delle fonti stoiche ed epicuree che egli presenta il suo ideale di misura e di saggezza: la saggezza consiste, da un lato, nell’imparare ad accettare gli eventi negativi e la stessa infelicità come segno del carattere contingente dell’esperienza umana; dall’altro, nel cercare di vivere in armonia con la natura, accettando – come fanno gli uomini più semplici e gli stessi animali – di prenderla per guida. L’atteggiamento di fondo di Montaigne emerge anche nella sua riflessione morale: se i caratteri universali del mondo naturale sono destinati a sfuggirci, questo sarà ancora più vero per quanto riguarda i valori supremi del bene e del male. Alla convinzione che Dio abbia iscritto leggi univoche ed eterne nella natura stessa dell’uomo, Montaigne oppone ancora una volta la considerazione della va-

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rietà che connota il mondo umano. Popoli diversi obbediscono infatti a precetti morali diversi, a seconda della loro storia, delle loro condizioni, della loro mentalità. E serrata è la sua critica all’abitudine a giudicare come «barbarie» tutto ciò che si discosta dal nostro costume. Lo dimostra in maniera esemplare il saggio Dei cannibali, dove il paragone certo inconsueto fra la pratica dell’antropofagia e gli orrori delle guerre civili appare funzionale a rovesciare sugli stessi europei l’accusa di «barbarie».

T5

La barbarie degli europei M. de Montaigne, Saggi, 1

Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi; sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del paese in cui siamo. Ivi è sempre la perfetta religione, il perfetto governo, l’uso perfetto e compiuto di ogni cosa. […] Penso che ci sia più barbarie nel mangiare un uomo vivo che nel mangiarlo morto, nel lacerare con supplizi e martiri un corpo ancora sensibile, farlo arrostire a poco a poco, farlo mordere e dilaniare dai cani e dai porci (come abbiamo non solo letto, ma visto recentemente, non fra antichi nemici, ma fra vicini e concittadini e, quel che è peggio, sotto il pretesto della pietà religiosa), che nell’arrostirlo e mangiarlo dopo che è morto.

La morale ha dunque un fondamento storico, non naturale: è qualcosa di appreso, è un insieme di regole condivise dalla società che l’individuo impara. Del resto, «c’è poco rapporto fra le nostre azioni, che sono in perpetuo mutamento, e le leggi fisse e immobili». E tuttavia le consuetudini sociali hanno una straordinaria forza di costrizione; così, «quello che è fuori dei cardini della consuetudine, lo si giudica fuori dei cardini della ragione». Sul piano teorico, dunque, Montaigne critica con la consueta lucidità gli automatismi che ci portano a giudicare i nostri simili in base ai criteri dell’abitudine, del conformismo, del pregiudizio. Sul piano pratico, tuttavia, egli è consapevole, con altrettanta lucidità, del carattere complicato e instabile delle società, che si fonda necessariamente sulla forza dei costumi ereditati e di una prassi giuridica collaudata. Il saggio tra A suo parere, è perciò necessario evitare con cura la tentazione – irrazionale e pela propria interiorità ricolosa – di opporre alle norme generali e condivise le scelte ispirate a una sage la morale comune gezza individuale e privata. Il saggio si adeguerà allora esteriormente agli usi e ai valori della sua comunità, senza pretendere di giudicarli, pur conoscendone il valore limitato, particolare, relativo. Solo all’interno di sé, nella sua libera coscienza, egli saprà trovare il suo equilibrio e la sua autonomia di fronte all’agitarsi delle passioni, in quella dialettica fra rispetto per l’ordine costituito e tutela della ➥ Sommario, p. 66 propria interiorità che rappresenta una delle cifre distintive della sua riflessione. Assunzione critica della storicità della morale

La filosofia di Montaigne Montaigne

Ontologia: fondata sulle differenze qualitative delle cose Gnoseologia: – limiti della conoscenza – inafferrabilità dell’io – studio della natura umana attraverso l’autosservazione Etica: – relativismo morale – storicità della morale – revisione della nozione di «barbarie» – distinzione tra morale del saggio e morale comune

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il nuovo platonismo del Rinascimento

3 I testi

N. Cusano La dotta ignoranza: Intelletto e verità, T6; L’uomo come microcosmo, T8

Ritorno agli antichi e rinnovamento filosofico

1 Il Platone perduto

Le nuove traduzioni alla base della riscoperta platonica La traduzione neoplatonizzante di Ficino

La missione del filosofo

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De coniecturis: Origine e caratteri delle congetture, T7

L’Umanesimo nasce come ricerca e recupero dei testi antichi ‘perduti’ e attraverso un nuovo sforzo interpretativo genera non solo una conoscenza più chiara e approfondita della cultura classica, ma anche sviluppi filosofici nuovi e originali. Erasmo e Montaigne, l’uno con la sua proposta di una filosofia che concilia Umanesimo e cristianesimo, l’altro con la sua analisi della natura umana e dei limiti della conoscenza e con la riflessione sulla varietà e la complessità del mondo morale, sono, come abbiamo visto, i due personaggi più rappresentativi di questo rinnovamento filosofico che ha le sue radici nella cultura umanista. Accanto a loro però incontriamo alcuni pensatori che vogliono rinnovare una delle più grandi tradizioni filosofiche occidentali: il platonismo.

Platone e Aristotele dopo il Medioevo Sul piano filosofico, l’Umanesimo risulta caratterizzato, soprattutto nella sua prima fase, da un forte richiamo a Platone, pensatore che, a differenza di Aristotele, era rimasto in larga parte sconosciuto al mondo latino. Per quanto riguarda la conoscenza diretta dei testi, nel Medioevo la ‘biblioteca’ platonica è infatti limitatissima. Essa si riduce al Menone, al Fedone e alla prima parte del Timeo nella traduzione latina e con il commento di Calcidio (IV secolo d.C.). Ignoti restano gli altri dialoghi platonici e testi fondamentali della tradizione neoplatonica, a cominciare dalle Enneadi di Plotino. Questa biblioteca si accresce nella prima metà del Quattrocento con le versioni di Leonardo Bruni. Fra 1404 e 1435 egli traduce infatti il Fedone, il Gorgia, l’Apologia di Socrate, il Critone, il Fedro, le Epistole e parte del Simposio. Ma è la traduzione integrale del corpus platonico di Marsilio Ficino, pubblicata a Firenze nel 1484, a dare finalmente accesso all’altro grande maestro dell’antichità. Con la sua opera di traduzione e commento, Ficino impone peraltro a Platone un timbro preciso e una chiave di lettura assai diversa da quella – civile, politica, socratica – prospettata da Leonardo Bruni, interpretandone i testi secondo un’ottica fortemente orientata in senso neoplatonico e antiaristotelico. Il Platone di Ficino porta in primo piano i temi del cosmo come unità vivente e animata, dell’armonia universale, dell’amore. Centrale, nella sua speculazione, è anche l’ideale della missione sacerdotale e riformatrice del filosofo, espressione di una tradizione filosofico-religiosa unita-

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

Gli opuscoli ermetici

Una teoria della salvezza ‘precristiana’

L’aristotelismo rinascimentale: l’attenzione per la natura e per l’anima

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ria, dalle origini remote, giunta infine a compimento con la rivelazione cristiana. Il platonismo si pone così, da un lato, accanto alla religione cristiana, come una sua premessa originaria e imperfetta; dall’altro, accanto alla tradizione ermetica, della quale, secondo Ficino, lo stesso Platone è uno dei rappresentanti. Gli opuscoli ermetici – tradotti anch’essi da Ficino nel 1463, per volontà di Cosimo de’ Medici, lavorando su un manoscritto appena arrivato dalla Macedonia – sono testi di argomento filosofico-teologico e magico-astrologico-teurgico (intendendo per «teurgia» la capacità da parte di individui eccezionali di controllare le divinità incarnate all’interno di oggetti o statue) composti da autori diversi a partire dal II-III secolo d.C. e conosciuti come Corpus hermeticum. Ma in età rinascimentale questi testi vengono attribuiti a un unico, mitico autore: il leggendario Ermete Trismegisto («tre volte grande»), una figura immaginaria nata da una sorta di sovrapposizione fra il dio greco Ermete e quello egiziano Thoth. I trattati del Corpus hermeticum, scritti in greco, e l’Asclepius, un testo latino dal contenuto affine, vengono perciò ritenuti antichissimi e fonti della originaria rivelazione precristiana, poi sviluppatasi nel platonismo antico. Al centro dei testi ermetici di argomento filosofico-teologico c’è in effetti una gnosi, una dottrina della salvezza, inserita in una prospettiva cosmologica che ha al centro l’idea di una profonda armonia fra macrocosmo e microcosmo e un’immagine dell’uomo come creatura di origine celeste. Con il peccato e la caduta nel mondo materiale l’uomo ha perso consapevolezza della sua natura divina, ma è in grado di riconquistarla attraverso una vita di ascesi e di conoscenza. In Italia, per tutto il Rinascimento, l’aristotelismo continua comunque a dominare nelle università. Soprattutto negli studi più prestigiosi, e in primo luogo a Padova, la tradizione peripatetica viene però progressivamente distaccandosi dalle problematiche metafisiche e teologiche tipicamente medievali, per indirizzarsi, da un lato, verso questioni di ordine fisico e logico, dall’altro, soprattutto a partire dalla seconda metà del Quattrocento, verso la discussione delle difficoltà e dei problemi suscitati dalla dottrina aristotelica dell’anima.

Fra Ermete e Platone: la «teologia platonica» di Ficino

Marsilio Ficino è uno dei più significativi rappresentanti della cultura filosofica italiana ed europea della seconda metà del Quattrocento. Pensatore innovativo e originale, egli è, in primo luogo, attraverso il suo eccezionale impegno di traduttore e interprete della tradizione platonica e neoplatonica, il creatore di una ‘biblioteca’, capace di incidere a fondo sulla vita culturale e filosofica dell’Europa almeno fino alla fine del Seicento. Le sue traduzioni includono non solo tutti i dialoghi di Platone e i trattati ermetici, ma anche le Enneadi di Plotino e le opere dello Pseudo Dionigi Areopagita, di Giamblico, di Proclo, di Porfirio, dello storico e filosofo bizantino Michele Psello (1018-1078) e di altri ancora. Ripristino dell’unione All’origine della monumentale impresa di Ficino c’è la volontà di contribuire a di filosofia e teologia: ripristinare l’antica unione di filosofia e religione, ridisegnando i contorni di la pia philosophia quella pia philosophia che era la caratteristica originale della tradizione ermetico-platonica, e che è ormai andata perduta. Il tema cruciale dell’unione fra filosofia e teologia è sviluppato da Ficino soprattutto nel De christiana religione, pubblicato, sia in latino che in volgare, nel 1474. L’opera di traduttore di Ficino

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La vita e le opere Marsilio Ficino nacque a Figline Valdarno nel 1433. Nel 1454 seguì il padre Dietifeci, nominato medico di fiducia di Cosimo de’ Medici, a Firenze: qui trascorse quasi tutta la sua vita, tra la città e la villa suburbana di Careggi, donatagli da Cosimo per farne la sede dell’Accademia platonica, cenacolo intellettuale da cui Ficino esercitò un’influenza profonda sulla cultura, non solo fiorentina, del tempo. Dopo gli studi di filosofia sotto la guida dell’aristotelico Niccolò Tignosi e un iniziale avvicinamento all’epicureismo, Ficino si appassionò alle tematiche platoniche, riuscendo presto a studiarle direttamente sulle fonti, grazie all’acquisita conoscenza del greco. A partire dal 1462 intraprese le sue traduzioni dal greco in latino, col programma di restituire al dibattito filosofico i testi – platonici, neoplatonici, ermetici – di quella che considerava un’antichissima tradizione filosofico-religiosa di pensiero.

Degenerazione paganizzante del cristianesimo aristotelico

Valore religioso ed etico della tradizione ermetico-platonica

Platone come teologo precristiano

Cristo come autorivelazione di Dio e mediatore con l’uomo

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Ordinato sacerdote nel 1473, nel 1487 diventò canonico della cattedrale di Firenze. Morì a Careggi nel 1499. Il corpus delle sue traduzioni è davvero imponente: oltre a tutti i dialoghi di Platone (pubblicati a Firenze nel 1484), tradusse le Enneadi di Plotino (pubblicate nel 1492), ma anche Proclo, Porfirio, Giamblico, Psello, lo pseudo-Dionigi Areopagita e soprattutto i trattati ermetici (pubblicati a Treviso nel 1471). Al lavoro di traduzione e commento Ficino intrecciò la composizione di opere originali, fra le quali spiccano il De christiana religione («La religione cristiana», 1474), la Theologia platonica de immortalitate animorum («Teologia platonica sull’immortalità dell’anima», 1482), il De triplici vita («La triplice vita», 1489). Notevole pure l’Epistolario, in dodici libri (pubblicato nel 1495), che testimonia di un fecondo scambio intellettuale con i maggiori umanisti d’Europa.

Ficino è certo che, nel corso degli ultimi secoli, si sia compiuta una frattura dolorosa e pericolosa fra verità divina e sapienza umana, fra religione e filosofia. Preda di sacerdoti rozzi e ignoranti, la religione si è trasformata in pratica esteriore o in mera superstizione, mentre la filosofia, contaminata dalle varianti più nocive e irreligiose della tradizione aristotelica – l’alessandrinismo e l’averroismo – è diventata luogo di empietà e incredulità. Per annullare gli effetti della involuzione superstiziosa subita dal cristianesimo e della parallela paganizzazione della filosofia, la strada da battere è una sola: ritornare alle antiche fonti della verità. Secondo Ficino, gli insegnamenti della tradizione ermetico-platonica tramandano una verità razionale concessa in ogni tempo da Dio all’uomo, e, insieme, un vero e proprio programma di liberazione filosofica: una teoria della felicità e della salvezza che coincide, al fondo, con la contemplazione intellettuale del divino. Si tratta di una dottrina che stringe insieme esigenze di conoscenza e di purificazione etica: una philosophia intimamente pia, perché incentrata sul motivo della natura immortale dell’anima, sul riconoscimento di un cosmo pervaso da ragioni divine, sull’appassionata difesa della dimensione soprasensibile. In questo senso la tradizione filosofica degli antichi teologi ha avvicinato pensatori ancora pagani alla comprensione dell’Uno-bene, alla nozione di trinità, di incarnazione, di redenzione. Tuttavia, se Platone può essere considerato a pieno titolo un teologo precristiano, del tutto compatibile, nei suoi punti essenziali, con la dottrina espressa da Mosè nella Scrittura, è vero che per Ficino il vertice della connessione fra religione e sapienza si ha solo con il cristianesimo. Cristo ha illuminato il valore dell’antica filosofia, liberandolo dalle ombre, dalle favole e dalle allegorie necessarie per preservare una verità connotata, fin dalle sue origini, da un tratto esoterico. Per operare la necessaria mediazione tra il creatore e l’intera creazione, il Figlio-Logos – parola divina incarnata e, a un tempo, autorivelazione e immagine perfetta di Dio – ha scelto come strumento la natura umana. Una natura che rappresenta – in un’ottica decisamente umanistica – il centro di tutta la creazione e tutta la comprende in sé. Ma non basta: perché la discesa da parte del Cristo-Verbo nella natura umana ha un significato che rimanda a un processo speculare e ascendente: la scelta del figlio di Dio di farsi uomo mostra, nella forma più estrema e significativa, come l’uomo possa a sua volta farsi figlio di Dio.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento La dottrina platonica dell’amore

L’anima razionale come luogo di mediazione universale

Grande influenza dell’opera di Ficino

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È un tema su cui Ficino non si stanca di insistere: il recupero dell’eccellenza umana è possibile solo fuggendo dalla seduzione dei corpi, secondo il percorso già delineato da Platone nell’illuminante paradigma della sua dottrina d’amore, espressa nel Simposio – dove attraverso le parole di Diotima viene descritto il processo attraverso cui si passa dall’amore delle cose belle alla contemplazione della bellezza in sé –, tentando la via di una rinascita tutta interiore, di un’ascesa che la divinità stessa rende possibile e favorisce. Questi temi sono svolti soprattutto nell’opera principale di Ficino, la Theologia platonica de immortalitate animorum. Qui il filosofo riconosce la funzione privilegiata svolta nell’economia del creato dall’anima razionale, destinata, grazie ai suoi caratteri peculiari, a giocare un ruolo determinante di mediazione fra finito e infinito, tempo ed eternità, mondo sensibile e mondo intelligibile. In modo particolare, il compito dell’uomo si identifica per Ficino con il tentativo di risalire dall’ombra della dimensione corporea alla luce divina attraverso la pratica di una concentrazione interiore e di una purificazione dell’anima, che risultano garantite da una lettura dell’universo come organismo ordinato e comunicante, pervaso anch’esso da un principio animato (l’«anima del mondo»). All’interno di questa visione dell’universo si inseriscono limpidamente la fiducia nelle conoscenze astrologiche e l’attenta valorizzazione della magia naturale, affidata in modo particolare ai libri De triplici vita. Fondamentale per tutto il Rinascimento europeo, l’opera di Ficino continuerà a essere ristampata in numerosissime edizioni. Particolarmente fortunato è il suo De amore – un commento al Simposio di Platone composto negli anni sessanta sia in latino che in volgare, destinato a inaugurare un vero e proprio genere letterario. Ma anche la sua concezione del cristianesimo come sintesi e perfezionamento di ogni verità filosofica e religiosa avrà importanza decisiva, almeno fino alla Riforma.

Fra Platone e Aristotele: la pax philosophica di Pico

Ancora più originale, complessa e sfaccettata è la posizione dell’altro grande protagonista della cultura filosofica della Firenze laurenziana: Giovanni Pico della Mirandola. Personalità geniale ed eclettica, Pico va ricordato, oltre che per le riflessioni sulla libertà come essenza della natura umana (vedi p. 16 ss.), per il proprio ideale di ricerca della pace e di concordia fra le diverse dottrine e filosofie. Il suo progetto di conciliazione raggiunge livelli significativi di mediazione culturale, oltrepassando l’orizzonte delineato da Ficino, per aprirsi ad ambienti e tradizioni rimasti estranei alla catena sapienziale ermetico-platonica. La cabbala Un esempio su tutti: l’apertura alla cultura ebraica, e in modo particolare alla tracome chiave dizione cabbalistica, considerata come chiave per penetrare i segreti dei testi sainterpretativa cri e della realtà naturale. La cabbala (dall’ebraico qabbalah, «ricezione» e per estensione «tradizione») è un insieme di dottrine della cultura ebraica esoteriche e mistiche: una tradizione millenaria condensata in una enorme mole di scritti, sia pubblicati che manoscritti, ai quali si affiancano molti materiali orali. In essa troviamo perciò una grande varietà di scuole e di metodi influenzati da molte correnti filosofiche e religiose (platoniche e neoplatoniche, gnostiche e cristiane, aristoteliche ecc.) ma caratterizzati da due elementi costanti: 1) una sapienza originaria (tradizione) presente alle creature prima del peccato;

L’opera di mediazione culturale di Pico

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’influenza dell’aristotelismo medievale

Molte filosofie, un’unica verità

La preparazione dell’incontro di Roma

La continua ricerca della concordia filosofica

L’interpretazione cabbalistica della Genesi

L’influenza di Savonarola

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2) l’ispirazione, raggiunta grazie alla comunicazione diretta di Dio, che consente una visione profetica sulla natura di Dio e sul suo rapporto con il cosmo e le creature. Colui che raggiunge questa ispirazione lo fa attraverso un potenziamento di tutte le sue facoltà, fisiche, psichiche e intellettuali. Della tradizione fanno parte anche alcune tecniche esegetiche che permettono di cogliere il significato mistico della Bibbia, andando al di là del senso letterale, grazie alla conversione delle lettere dell’alfabeto ebraico in simboli o numeri. Ma fondamentale per la formazione di Pico è anche la profonda conoscenza dell’aristotelismo medievale, nelle sue diverse articolazioni e varianti. E Pico difenderà sempre – per esempio nella celebre lettera del giugno 1485 all’umanista veneziano Ermolao Barbaro sul rapporto tra la filosofia e la sua espressione linguistica – la forza e la profondità speculativa dei filosofi medievali, lontani da ogni ricerca di eleganza formale, eppure decisivi per la crescita e la trasmissione del sapere. Pico è portavoce di una concezione della filosofia secondo la quale tutte le scuole e tutti i pensatori hanno espresso un aspetto – necessariamente limitato e parziale – di una conoscenza e di una verità che è, di per se stessa, unica. Chi intende veramente fare filosofia, da un lato, deve comprendere la dinamica della comparsa progressiva delle varie scuole, il loro apporto originale, il loro stile di pensiero; dall’altro individuare e attuare il legame segreto che esse celano. Questa presa di posizione ispira anche il progetto di un incontro di pacificazione universale (pax philosophica), una grande disputa pubblica fra i dotti da tenersi a Roma il giorno dell’epifania del 1487: di questo incontro, la Oratio de hominis dignitate avrebbe dovuto costituire l’introduzione. Come base per la discussione, Pico raccoglie novecento tesi – le Conclusiones philosophicae, cabalisticae et theologicae, pubblicate il 7 dicembre 1486 –, un insieme di affermazioni di carattere fisico, metafisico, teologico, in cui – accanto ad ampi prestiti dalla tradizione ermetica, pitagorica, cabbalistica, magica – grande spazio è dato alla filosofia e teologia scolastica e ai più significativi rappresentanti della tradizione arabo-ebraica, da Averroè a Mosè Maimonide. La discussione pubblica a Roma viene impedita dall’intervento del papa Innocenzo VIII. Ma nonostante la successiva condanna papale di tredici conclusiones, l’ideale della concordia filosofica continua a guidare Pico in tutti i suoi lavori successivi. Così, nel De ente et uno (1491) il punto di verifica del sostanziale accordo fra Platone e Aristotele viene individuato – a partire dall’interpretazione del Parmenide platonico come mero esercizio dialettico – nell’interpretazione di Dio come pienezza dell’essere, al di sopra e al di là degli enti. Nell’Heptaplus (1488), un commento filosofico dei versetti della Genesi relativi alla creazione del mondo, le tecniche esegetiche mutuate dalla qabbalah permettono di dimostrare come Mosè nella Genesi abbia esposto in forma cifrata le più alte verità cosmologiche e filosofiche, «in modo che parole, contesto, ordine, convengano pienamente a raffigurare i segreti di tutti i mondi e di tutta la natura». Un’affinità profonda lega fra loro le parole e le cose in ogni parte dell’universo e, una volta stabilite le analogie fra mondo angelico, celeste, elementare (terrestre), risulta poi evidente come sia il quarto mondo – l’uomo – a rispecchiare nel modo più evidente questa armonia e a esprimerla in modo mirabile. Gli ultimi anni di vita di Pico sono profondamente influenzati dalla predicazione e dal carisma del frate domenicano Girolamo Savonarola (1452-1498). Così, egli si dedica a una meditazione sempre più intensa della Scrittura, allo studio dei Salmi e a un vasto progetto in difesa della religione cristiana contro la superstizione.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento La critica dell’astrologia e la difesa dell’astronomia

4 La formazione di Niccolò Cusano

All’interno di quest’ultimo progetto si collocano le Disputationes adversus astrologiam divinatricem, rimaste inedite e pubblicate, a cura del nipote Giovan Francesco, nel 1496. L’opera è una dura critica dell’astrologia divinatrice (ossia la disciplina che ritiene di poter prevedere, «divinare», il futuro sulla base della posizione degli astri) in difesa, da un lato, del corretto rapporto dell’uomo con la dimensione del trascendente; dall’altro, della libertà della volontà umana, superiore agli astri e per nulla condizionata dagli influssi celesti. L’assoluta inconsistenza teorica di una disciplina come l’astrologia riposa su un formidabile errore di fondo: gli astrologi non sanno distinguere tra gli influssi celesti – che sono cause universali, generalissime – e la varietà dei fenomeni sublunari, i quali si realizzano a seconda delle condizioni (sempre specifiche e diverse) della materia delle cose inferiori. Differente è invece il caso dell’astronomia matematica, che studia il movimento dei corpi celesti e la loro indiscutibile e uniforme azione causale nel mondo sublunare, attraverso il movimento, la luce e il calore.

Fra neoplatonismo e tradizione mistica: la «dotta ignoranza» di Cusano La formazione di Niccolò Cusano si svolge a partire da problemi e dottrine diversi da quelli degli umanisti e risulta legata, piuttosto, a motivi della tradizione neoplatonica tardoantica e medievale e a correnti di pensiero mistico, ancora vive negli ambienti tedeschi e fiamminghi. Nella sua biblioteca, messa insieme anche per impulso degli amici italiani conosciuti nello Studio di Padova, spiccano infatti, oltre a una raccolta di testi matematici e astronomici, gli scritti di Proclo e dello Pseudo Dionigi con i commenti di Alberto Magno, le opere di Giovanni Scoto Eriugena, dei pensatori della Scuola di Chartres e di Meister Eckhart, oltre a un significativo numero di scritti del filosofo e teologo spagnolo Raimondo Lullo (1235-1315).

La vita e le opere Nikolaus Krebs (italianizzato in Niccolò Cusano, dal suo luogo di nascita) nacque a Cues (Cusa), vicino Treviri, nel 1401. Fra il 1416 e il 1425 studiò nelle università di Heidelberg, Padova e Colonia, maturando presto, accanto all’attenzione per gli aspetti matematici e scientifici del sapere, spiccati interessi teologici e religiosi. Ordinato sacerdote nel 1432, partecipò ai lavori del Concilio di Basilea, dove strinse amicizia con alcuni umanisti italiani, fra i quali Enea Silvio Piccolomini, il futuro papa Pio II. Schierato in un primo tempo a favore della supremazia del Concilio, Cusano aderì poi alla parte del papa Eugenio IV, facendosi strenuo difensore della supremazia del pontefice. Nel 1437 divenne membro della delegazione inviata dal papa presso il patriarca di Costantinopoli per perseguire il progetto dell’unione fra Chiesa latina e Chiesa ortodossa. Diventato cardinale nel 1448, compì numerosi viaggi in Germania, in Boemia e nei Paesi Bassi, in qualità di visitatore apostolico. Nel 1450 fu nominato principe-vescovo di

Bressanone. All’indomani della caduta di Costantinopoli nelle mani dei turchi (maggio 1453), che sancì la fine dell’Impero romano d’Oriente, compose il De pace fidei («La pace della fede»), cui affidò una visione ecumenica e tollerante della fede religiosa, capace di oltrepassare la diversità esteriore delle cerimonie e dei riti, tutti legittimi, ma tutti ugualmente parziali e lontani dall’esprimere e rappresentare compiutamente un Dio inconoscibile e ineffabile. Richiamato a Roma da Pio II, morì a Todi nel 1464, durante un viaggio verso Ancona, dove si stava recando per dirigere i preparativi per la crociata contro i turchi indetta dal papa. Fra le sue opere vanno ricordate il De concordantia catholica («La concordanza cattolica», 1432), La dotta ignoranza e il De coniecturis («Le congetture», 1440), il De visione Dei («La visione di Dio», 1453), il De possest («Il poter essere», 1455), il De non aliud («Il non-altro», 1462), il De venatione sapientiae («La caccia della sapienza», 1463).

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Parte prima La nascita della filosofia moderna L’approccio gnoseologico al problema Uno-molti La via ‘negativa’ come metodo della conoscenza

Dio non può essere colto dalla ragione discorsiva

Il «Dio nascosto»

Dio come unità assoluta e «coincidenza degli opposti»

La «dotta ignoranza» come ammissione dei limiti umani

T6

Intelletto e verità

N. Cusano, La dotta ignoranza

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Al centro della filosofia di Cusano emerge un motivo classico della tradizione neoplatonica: il problema del rapporto fra unità e molteplicità, fra Dio e mondo. Se il problema è antico, merito di Cusano è quello di averlo tradotto in termini moderni, dandone una lettura in chiave eminentemente gnoseologica. Fino dalle sue prime opere, La dotta ignoranza e il De coniecturis, egli insiste sui limiti strutturali della conoscenza umana. Muovendo da un’idea della tradizione mistica – non può darsi discorso positivo su Dio e alla sua idea possiamo accostarci solo in via negationis («attraverso definizioni negative»), dicendo di lui quello che non è –, Cusano estende questo criterio all’intero campo della conoscenza filosofica. Per sviluppare il suo ragionamento, egli parte da un presupposto preciso: la conoscenza umana procede sempre in maniera discorsiva e comparativa. La ragione mette in relazione e confronta i dati della realtà, cercando di comprendere i rapporti logici che collegano fra loro gli enti finiti attraverso una catena di proporzioni, paragoni e collegamenti tra quello che è noto e quello che è ignoto, quello che è certo e quello che è incerto. «Ma l’infinito, in quanto infinito, poiché si sottrae a ogni proporzione, ci è sconosciuto». Questo procedimento proporzionale e comparativo, dunque, non riuscirà mai a farci cogliere Dio, che è il fondamento ontologico dell’intera realtà e l’infinito in atto, vale a dire l’essere in cui tutte le possibili proprietà sono realizzate nella forma più piena e completa. In quanto tale, Dio si sottrae a ogni sforzo conoscitivo dell’uomo e rimane indecifrabile, impenetrabile alla sua ragione. Egli è per noi un «Dio nascosto» – titolo di un dialogo cusaniano –, inaccessibile proprio in quanto incommensurabile e sottratto a ogni forma di correlazione e riduzione alla logica umana, che opera nel finito e si fonda sul principio di non contraddizione. Nessun concetto riesce a definire, a ‘catturare’ l’essenza di Dio, perché egli non esclude nulla, ma concentra tutto in sé e dà origine a ogni cosa. In lui le cose esistono nella sua unità semplicissima e senza alcuna opposizione tra loro. Dio è l’unità assoluta, anteriore a ogni forma di distinzione: egli è, insieme, massimo assoluto (in quanto non può darsi nulla di superiore a lui) e minimo assoluto (in quanto unità non ulteriormente divisibile). La mente umana, quindi, di fronte all’idea di Dio, può solo intuire (grazie alla potenzialità dell’intelletto, in grado, per alcuni aspetti, di intravedere e oltrepassare i limiti della ragione), senza poter comprendere, che in lui si realizza quella composizione dei contrari, quella coincidentia oppositorum («coincidenza degli opposti») che la logica classica tradizionalmente esclude e la mente umana non riesce neppure a pensare. L’uomo, di fronte all’inattingibile infinità di Dio, deve consapevolmente rifugiarsi nella «dotta ignoranza», ossia in una consapevole ammissione di insufficienza e di inadeguatezza dei suoi strumenti concettuali. Ma Cusano estende e applica il concetto di «dotta ignoranza» dalla teologia a tutti gli ambiti della conoscenza umana. Se non riusciamo a cogliere fino in fondo Dio, che è il fondamento ontologico del reale, a maggior ragione non potremo mai avere conoscenza vera delle cose del mondo, penetrarne l’essenza più profonda. La verità, nella sua precisione, rimane preclusa agli uomini, necessariamente legati a un sapere ipotetico, che si approssima progressivamente al suo oggetto, senza tuttavia mai riuscire ad attingerlo. L’intelletto finito non può intendere in modo preciso la verità delle cose procedendo per similitudini. La verità non è né di più né di meno: consiste in qualcosa di indivisibile e non può con precisione misurarla tutto ciò che non è il vero stesso: così come il non-circolo non può misurare il circolo, il cui essere consiste in qualcosa di indivisibile. L’intelletto, dunque, che non è la verità, non com-

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prende mai la verità in modo così preciso da non poterla comprendere più precisamente ancora all’infinito, perché sta alla verità come il poligono sta al cerchio. Quanti più angoli avrà il poligono inscritto, tanto più sarà simile al cerchio: tuttavia, non sarà mai uguale ad esso, anche se avremo moltiplicato i suoi angoli all’infinito, a meno che non si risolva nell’identità con il circolo. È evidente, dunque, per quanto riguarda il vero, che noi non sappiamo altro se non che esso non è comprensibile, in maniera precisa, nella sua realtà, perché la verità è come la necessità più assoluta, la quale non può essere né più né meno di quel che è, mentre il nostro intelletto è come la possibilità. L’essenza delle cose, che è la verità degli enti, è inattingibile nella sua purezza, cercata da tutti i filosofi, ma da nessuno trovata nella sua realtà in sé. E quanto più profondamente saremo dotti di questa ignoranza, tanto più ci avvicineremo alla verità. La «congettura» come conoscenza che partecipa della verità

T7

Origine e caratteri delle congetture N. Cusano, De coniecturis, 1,3

Concetti matematici e conoscenza vera

Tre concetti che esprimono i rapporti veri tra Dio e l’universo

Tuttavia, la consapevolezza del carattere limitato e provvisorio della conoscenza non comporta una svalutazione del sapere umano. Al contrario, Cusano dà al concetto di «congettura» (che è la conoscenza di cui l’uomo è capace) una connotazione positiva. Come qualsiasi prodotto delle facoltà umane, la congettura è conoscenza parziale, limitata, determinata, mai coincidente con la verità degli enti reali; eppure, si tratta di una conoscenza che in qualche modo partecipa della verità. Questo perché la verità assoluta rimane sempre trascendente e nascosta, ma si rivela in ognuna delle sue manifestazioni finite e parziali. La verità si frantuma nella molteplicità e nell’alterità: eppure, ogni frammento, ogni congettura riflette un aspetto o un momento della stessa verità. E anzi è proprio in quanto origine delle congetture che la mente umana si mostra in qualche modo partecipe dell’infinità creativa di Dio. Siccome […] la mente umana, nobile similitudine di Dio, partecipa, per quanto può, della fecondità della natura creatrice, essa trae da se stessa, come dall’immagine della forma onnipotente, degli enti di ragione, al fine di raffigurarsi quelli reali. Così la mente umana risulta forma del mondo congetturale, come quella divina lo è del reale. Per la qual ragione, come quella assoluta divina entità è tutto ciò che è reale in qualunque cosa sia, così anche l’unità della mente umana è l’entità delle sue proprie congetture. Questo è vero in modo particolare per i concetti e i simboli della matematica e le figure e nozioni della geometria, che più si avvicinano alla effettiva struttura dell’universo e al rapporto metafisico che lega Dio al mondo. Dio dà origine a tutti i molteplici enti finiti e comprende in sé, in forma unitaria, tutto l’universo, pur non identificandosi con esso e non risolvendosi in esso. Cusano spiega il complesso rapporto fra Dio e universo facendo ricorso ai concetti – già utilizzati nel XII secolo dai teologi della Scuola di Chartres – di complicatio, explicatio e contractio. 1) Dio contiene in sé tutte le cose: egli è dunque la complicatio, la coincidenza, la concentrazione del molteplice nell’unità, così come l’unità numerica ha già in sé tutti i numeri che ne deriveranno e il punto ha già in sé tutte le figure geometriche che si dispiegheranno nello spazio. 2) L’universo, per converso, manifesta e riflette l’unità e infinità divine in modo plurale e finito: è il dispiegarsi, il distinguersi, l’esplicarsi (explicatio) dell’unità di Dio nella dimensione del molteplice e del tempo. 3) Nell’universo, Dio è concentrato e ristretto nel molteplice: la realtà divina si determina, si spazializza, si contrae (contractio) nelle forme della pluralità. 35

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Comunicazione tra Dio e il mondo

Dio e mondo: due diverse nozioni di infinito

Universo indefinito e nuova cosmologia

Cristo come sintesi di Dio e universo

Dio, mondo e uomo nella filosofia di Cusano

Tra i due poli (Dio e l’universo) si dà un rapporto di comunicazione e di compenetrazione: Dio, partecipandosi ad altro da sé, si diffonde nel mondo, pur non risolvendosi in esso e restandone il fondamento trascendente; mentre l’universo, a sua volta, si configura come immagine del principio divino, in cui ogni ente è un microcosmo che riproduce e rispecchia l’essere dell’intero universo. Da questa concezione del rapporto fra Dio e mondo discendono anche prospettive cosmologiche assai moderne e innovative sviluppate nei capitoli finali del II libro della Dotta ignoranza. Se l’universo è esplicazione e manifestazione di Dio, esso dovrà essere a sua volta non circoscritto da limiti. Tuttavia, Cusano istituisce una differenza fra l’infinità di Dio e l’infinità dell’universo: Dio è infinito in atto, pienezza infinita dell’essere, e dunque la sua infinità va intesa come assenza di ogni limite alla sua perfezione; diversamente, l’universo non è infinito in atto e pienamente dispiegato, perché altrimenti coinciderebbe con Dio. Nel caso dell’universo, si tratta allora di un infinito (o meglio, di un indefinito, di un interminatum) che consiste nell’indeterminazione, nella mancanza di precisione e di punti di riferimento. L’universo non possiede così né un centro assoluto e immobile, né una circonferenza assoluta, sebbene il cielo delle stelle fisse si avvicini a essere circonferenza, così come la Terra si avvicina a essere centro. Per lo stesso motivo, viene meno l’idea di una perfetta circolarità delle orbite dei corpi celesti e di una uniformità della loro velocità di rivoluzione. Nella cosmologia di Cusano si dissolvono anche l’idea della perfetta sfericità della Terra, in quanto la perfezione geometrica delle figure non è data in natura; la distinzione tra la regione sublunare, soggetta alla generazione e corruzione, e la perfezione incorruttibile degli astri; la considerazione della Terra come solo mondo abitato da forme di vita. Nel III libro della Dotta ignoranza, dedicato a Cristo, quest’ultimo – la cui figura è analizzata da un punto di vista speculativo e non dottrinale – è presentato come il massimo contratto (contractio) e assoluto a un tempo, sintesi di Dio e dell’universo e, in questo senso, compimento e punto più alto della creazione. Questa coincidenza fra creatura e creatore si realizza in quella natura che – in quanto punto medio e nodo di congiunzione di tutta la realtà – rappresenta davvero un luogo di eccellenza e di elezione, l’unico degno di potersi congiungere con la natura divina. Questa natura intermedia è l’uomo. Uomo – Possiede solo una conoscenza discorsiva che non è applicabile a Dio – Deve accettare la propria «dotta ignoranza» rispetto all’essenza di Dio – Ha la capacità di fare «congetture» che gli permettono di raggiungere una forma di conoscenza vera. In quanto è capace di fare congetture la mente umana si avvicina all’infinità di Dio – Possiede dei concetti matematici che gli permettono di conoscere la struttura del mondo e i rapporti tra Dio e mondo Approccio gnoseologico al problema Uno / molti

Dio Dio è infinito in atto. Dio è per l’uomo «nascosto» e può essere colto solo come «coincidenza degli opposti»

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Rapporti tra Dio e il mondo – Dio contiene in sé tutte le cose: complicatio – L’universo è il dispiegarsi, il distinguersi, l’esplicarsi (explicatio) dell’unità di Dio nella dimensione del molteplice e del tempo – Nell’universo Dio si determina, si spazializza, si contrae (contractio) nelle forme della pluralità

Mondo Il mondo è indefinito e privo di centro o punti fissi

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

T8

L’uomo come microcosmo

N. Cusano, La dotta ignoranza

Influenza di Cusano sugli umanisti francesi e su Bruno

➥ Sommario, p. 66

Tradizioni e influenze nei platonici rinascimentali

Il massimo con il quale coincide il minimo deve comprendere una sola natura in modo tale da non escludere le altre, ma da abbracciarle tutte insieme. Perciò, la natura media, che è il mezzo della connessione tra la natura inferiore e quella superiore, è unicamente la potenza di Dio massimo infinito che può essere convenientemente elevata al massimo. […] la natura umana è quella che risulta elevata al di sopra di tutta l’opera di Dio ed è di poco inferiore alla natura angelica. Essa complica [unisce] la natura intellettuale e quella sensibile, racchiude in sé tutti gli universi e, per questo, gli antichi sapienti l’hanno chiamata giustamente «microcosmo», ossia piccolo mondo. Essa è la natura che costituirebbe la pienezza di tutte le perfezioni dell’universo e di ogni essere singolo, se fosse elevata all’unione con la massimità, sicché tutti gli esseri potrebbero raggiungere nell’umanità stessa il loro grado supremo. Per quanto riguarda la fortuna della speculazione di Cusano nella filosofia rinascimentale, vanno sottolineati due aspetti: l’influenza delle sue dottrine sui primi circoli umanisti francesi; e il rilievo decisivo che le sue posizioni rivestono per la genesi e lo sviluppo della filosofia di Giordano Bruno. Al «divino Cusano» Bruno riconosce infatti il merito di avere liberato dagli errori della tradizione aristotelica importanti verità metafisiche, cosmologiche e matematiche, delle quali egli si propone come l’erede e l’interprete più autentico. Tuttavia, all’elogio per aver superato molti errori si accompagna la critica per non aver compreso e sviluppato appieno le intuizioni di partenza. Così Bruno non manca di rilevare i limiti della filosofia cusaniana, individuandoli in primo luogo nell’insistenza sulla figura mediatrice di Cristo e nel mancato riconoscimento dell’universo come infinito in atto, immagine e «ritratto» davvero adeguato dell’infinità di Dio.

Ermetismo (Corpus hermeticum, tradotto da Ficino nel 1463)

Ficino Platonismo: nuove traduzioni dei testi platonici: – prima da parte di Bruni – poi Ficino traduce integralmente i testi di Platone (1484)

Tradizione cabbalistica Aristotelismo medievale Astronomia matematica

Pico della Mirandola Neoplatonismo: la tradizione neoplatonica antica e medievale. Ficino traduce le Enneadi di Plotino e le opere dello Pseudo Dionigi Areopagita, di Giamblico, Proclo, Porfirio, Psello

Influenza di Savonarola Pensiero mistico medievale (Eckhart e la mistica tedesca) Filosofia delle scuole (Eriugena, Scuola di Chartres) Cusano Pensiero matematico e geometrico Pensiero di Lullo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La filosofia della natura fra magia e scienza

4 Magia e scienza come forme di conoscenza della natura

➥ Laboratorio sul lessico, Natura / naturale, p. 131

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Nel corso della seconda metà del Cinquecento si determina un nuovo interesse per lo studio della natura. Comincia così a delinearsi un orientamento destinato a rivelarsi di grande importanza storica: anziché ricorrere a schemi astratti o a enti esterni alla natura, i filosofi preferiscono individuare principi, forze e meccanismi che consentano di spiegare gli eventi senza uscire dal mondo dell’esperienza. Nella filosofia rinascimentale della natura confluiscono tradizioni diverse, anche di carattere occulto e prescientifico (astrologia, magia, alchimia), che convivono con il progressivo emergere di un atteggiamento scientifico in senso moderno. Pur nelle insopprimibili differenze di carattere epistemologico e metodologico, è tuttavia comune sia alla magia che alla scienza l’idea che il mondo naturale possa essere conosciuto nelle leggi che lo regolano e, a partire da questa conoscenza, controllato e indirizzato verso comportamenti ed effetti precisi.

Il naturalismo aristotelico: Pomponazzi Il ruolo svolto dall’aristotelismo nel dibattito filosofico rinascimentale trova la sua espressione più efficace e articolata nell’opera di Pietro Pomponazzi.

La vita e le opere Pietro Pomponazzi nacque a Mantova nel 1462. Studiò all’università di Padova, laureandosi nel 1487. A partire dall’anno successivo, lo Studio padovano gli affidò l’insegnamento straordinario di filosofia e quindi il corso ordinario di filosofia naturale, con il compito di commentare, in modo particolare, le opere aristoteliche di fisica. Dopo la chiusura dello Studio in seguito alla disfatta subita da Venezia a opera della Lega di Cambrai (1509), Pomponazzi si trasferì a Ferrara – dove commentò il Sull’anima di Aristotele –, infine a Bologna, dove insegnò filosofia ordinaria e dove rimase fino alla morte, avvenuta nel 1525. Fra le opere edite in vita da Pomponazzi va ricordato soprattutto il De immortalitate animae («L’immortalità delCritica dell’aristotelismo cristiano

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l’anima»), pubblicato a Bologna nel 1516 e volto a negare la dimostrabilità dell’immortalità dell’anima, seguendo l’interpretazione di Aristotele data da Alessandro di Afrodisia. Al 1520 risale la stesura del De naturalium effectuum causis sive de incantationibus («Le cause degli effetti naturali o gli incantesimi») e del De fato, libero arbitrio, praedestinatione et providentia Dei («Il fato, il libero arbitrio, la predestinazione e la provvidenza divina»), che saranno però pubblicati solo postumi, a Basilea, rispettivamente nel 1556 e nel 1567, a cura del medico bergamasco riformato Guglielmo Gratarol, per evitare di suscitare nuove polemiche, dopo l’accusa di eresia seguita alla pubblicazione del De immortalitate animae.

All’interno di una riflessione complessiva sul pensiero di Aristotele e sulle sue interpretazioni antiche e contemporanee, Pomponazzi si sofferma soprattutto sull’analisi dell’interpretazione cristiana dello Stagirita. Dichiarata per un verso l’indiscutibilità del cristianesimo in quanto insieme di dottrine credute per fede, anche se non suffragate dall’evidenza razionale, Pomponazzi concentra la sua critica sul cristianesimo come sistema dotato di ambizioni filosofiche.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento L’immortalità dell’anima non è dimostrabile

La morale del saggio

La morale del volgo

Verità filosofica e verità religiosa Negazione degli eventi soprannaturali

Influsso degli astri sul mondo sublunare

Influssi astrali e sviluppo delle religioni

Nel De immortalitate animae, muovendosi fra le varie soluzioni del problema fornite dai commentatori del Sull’anima aristotelico – in primo luogo, Alessandro di Afrodisia e Tommaso d’Aquino –, egli nega che la ricerca filosofica, sulla base dei principi aristotelici, possa approdare alla dimostrazione dell’immortalità dell’anima. Il testo aristotelico, la ragione e l’esperienza mostrano concordemente che l’anima è mortale: il pensiero è infatti elaborazione di elementi provenienti dall’esperienza, e ha necessariamente bisogno del corpo come canale di accesso al mondo esterno e luogo di conservazione dei dati percettivi e delle immagini. Il carattere indecidibile del problema dell’immortalità non implica però alcuna ricaduta negativa sul piano della morale. Secondo Pomponazzi – che recupera motivi tipici dello stoicismo – la virtù non solo è autonoma da ogni riferimento a premi o punizioni ultraterrene, ma è anzi tanto più pura quanto più sa trovare in se stessa la propria ragione. Se questa è la morale – e la felicità – propria del sapiente, diversa è la questione per quanti non sanno regolare autonomamente la propria condotta e necessitano di un sistema di premi e punizioni. Se la norma morale è chiara solo per il sapiente, per chi sa far buon uso della ragione, ai legislatori religiosi – che hanno di mira non la perfezione individuale, ma lo sviluppo armonico del corpo politico e la convivenza civile – spetta il compito di condurre il volgo alla pratica della virtù attraverso il ricorso al consueto scenario ultraterreno (immortalità dell’anima, paradiso, inferno). Il problema dell’immortalità dell’anima dimostra che la verità filosofica è nettamente separata da quella religiosa, portando in primo piano il problema dei compiti pedagogici e civili della religione, e addirittura di un suo uso politico. Una prospettiva analoga attraversa anche il De incantationibus. In questo testo Pomponazzi riconduce a cause naturali quei fenomeni che apparentemente sembrano collocarsi al di sopra dell’ordine della natura: magia, operazioni straordinarie, miracoli. In realtà si tratta semplicemente di eventi che accadono raramente e che i profani, gli incolti considerano miracolosi, perché ne ignorano le cause effettive: le virtù occulte proprie di ogni ente; il potere dell’immaginazione; gli influssi astrali. Cercando di spiegare in termini aristotelici quei fenomeni naturali che la tradizione ficiniana aveva interpretato all’interno del quadro concettuale neoplatonico, Pomponazzi individua le cause universali e necessarie degli eventi nelle intelligenze motrici delle sfere celesti, che utilizzano gli astri come strumenti di mediazione e comunicazione con il mondo sublunare. Questo assetto metafisico perenne e autosufficiente ha una sua immediata ricaduta sul piano fisico, in quanto impone i suoi ritmi alla vicenda di generazione e corruzione che riguarda tutti gli enti del mondo sublunare. Al pari di ogni altro evento naturale, anche le religioni sono sottoposte a un ciclo di nascita, sviluppo e morte, e si susseguono le une alle altre secondo un ritmo sorretto dai cieli e stabilito astrologicamente. Così, i corpi celesti sono soliti produrre nel mondo inferiore eventi straordinari per facilitare il consolidarsi di una nuova religione, per poi dar luogo a influssi diversi, al fine di accreditare nuovi profeti e favorire il radicarsi di nuove leggi religiose. Sviluppando un tema che attraversa come un filo rosso tanta parte della riflessione filosofica cinquecentesca, Pomponazzi non manca di presentare anche lo stesso cristianesimo come una lex destinata a esaurirsi, e anzi prossima al suo tramonto. 39

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

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Il naturalismo antiaristotelico: Telesio

L’aristotelismo medievale, spogliato dagli elementi cristiani e da ogni traccia di eventi soprannaturali, diviene nel pensiero di Pomponazzi una forma di naturalismo in cui gli astri esercitano un influsso determinante sulla realtà terrena e umana. L’obiettivo dichiarato di Bernardino Telesio è, invece, quello di superare l’interpretazione aristotelica del mondo naturale. Aristotele ha infatti cercato di spiegare la realtà attraverso il ricorso a categorie puramente teoriche, a principi esterni e del tutto astratti (su tutti, i concetti di forma e materia, atto e potenza), sostituendo alla natura fisica e concreta una natura metafisica e fittizia. Ricerca dei veri principi Diversamente, Telesio rivendica un nuovo modo di porsi di fronte al mondo natudi intelligibilità rale, ben sintetizzato dal titolo della sua opera maggiore, De rerum natura iuxta della natura propria principia, che significa appunto «La natura spiegata a partire dai suoi stessi principi»: la natura possiede in se stessa non solo i fondamenti della propria struttura, ma anche quelli della propria intelligibilità. L’uomo, per comprenderli, deve ascoltare la natura, che comunica con lui attraverso la sensibilità.

La critica di Telesio alla filosofia della natura aristotelica

La vita e le opere Bernardino Telesio nacque a Cosenza nel 1509, dove ricevette la prima educazione dallo zio Antonio, poeta e umanista. Nel 1527 si recò a Padova, dove seguì corsi di medicina, filosofia e matematica. Dopo essersi laureato nel 1534, viaggiò per diverse città italiane – da Roma a Bologna, a Napoli – ritirandosi infine per diversi anni nel convento benedettino di Seminara in Calabria, per lavorare con maggiore tranquillità all’elaborazione della propria dottrina filosofica. Nel 1565 pubblicò a Roma, in due libri, i risultati del suo lavoro, con il titolo De natura iuxta propria principia («La natura spiegata a partire dai suoi stessi principi»). Dopo una revisione approfondita, pubblicò di nuovo l’opera nel 1570 con il titolo, ormai definitivo, di De rerum Due principi agenti (calore e freddo) e un sostrato passivo (materia)

Il calore come origine del moto e della varietà naturale

La natura animata

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natura iuxta propria principia, aggiungendovi tre opuscoli, dedicati ad argomenti particolari di filosofia della natura (De his quae in aere fiunt et de terraemotibus, «Le cose che accadono nell’atmosfera e i terremoti»; De mari, «Il mare»; De colorum generatione, «L’origine dei colori»). Nel 1586 fece stampare a Napoli un’edizione ulteriormente ampliata dell’opera, in nove libri. Nello stesso periodo Telesio compose numerosi opuscoli, dedicati, da un lato, alla confutazione di Aristotele e Galeno attraverso l’esame di specifiche questioni fisiche e mediche; dall’altro, alla difesa della sua filosofia. Due anni dopo la morte di Telesio, avvenuta a Cosenza nel 1588, alcuni di questi opuscoli furono pubblicati dal suo discepolo Antonio Persio, con il titolo Varii de rebus naturalibus libelli («Opuscoli vari sulla natura»).

L’indagine sulla costituzione del mondo naturale porta Telesio a individuare due principi agenti universali: il calore e il freddo. Queste forze hanno poi bisogno di un principio passivo su cui esercitare la propria azione. Tale principio è per Telesio il sostrato corporeo, la materia, la quale subisce modificazioni sotto l’azione opposta dei due principi agenti che pervadono il mondo naturale, in una perenne lotta per la sopravvivenza e il predominio. Il caldo è forza che illumina, riscalda, dilata, alleggerisce, espande la materia e la mette in movimento; mentre il freddo condensa, ispessisce, appesantisce e arresta il movimento. Il Sole e i cieli, in quanto costituiti di calore, sono dotati di un moto naturale che non necessita, per essere spiegato, del ricorso al primo motore della tradizione aristotelica; mentre la Terra, principio del freddo, rimane necessariamente immobile al centro dell’universo. La natura trae dal suo interno la spinta al divenire: il calore celeste agisce sulla Terra e dallo scontro fra queste forze si genera la molteplicità degli enti, la cui diversità è correlata alla diversa intensità dell’azione del Sole sulle parti terrestri. Nella natura telesiana ogni corpo è dotato di un certo grado di sensibilità. Nei corpi organici questa sensibilità si caratterizza come spiritus. Lo spiritus è una

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

Omogeneità e differenza tra uomo e natura

La teoria della conoscenza e il sensismo

L’etica e il ruolo delle sensazioni

L’influenza di Telesio

Pomponazzi e Telesio: due forme di naturalismo

sostanza materiale estremamente sottile e rarefatta, «simile e parente del cielo» (vale a dire generata dal principio del calore), capace di movimento, coestensiva ai corpi e quindi mortale. E su questi presupposti si fonda anche l’idea di una continuità e omogeneità fra natura e uomo. Tutto l’uomo è composto di materia, e anche l’anima non è altro che spirito vitale: diversamente, essa non potrebbe ricevere sensazioni a partire dal corpo, né agire su di esso. Preoccupato che in questo modo non risulti sufficientemente definita la specificità umana, Telesio introdurrà successivamente il concetto di una mens superaddita, vale a dire un’anima superiore infusa da Dio e immortale, che si pone all’origine dell’aspirazione dell’uomo a valori soprasensibili ed eterni, trascendenti la semplice dimensione della vita naturale. Dal punto di vista gnoseologico, ancora una volta in opposizione all’astrattezza dell’approccio aristotelico, Telesio delinea una dottrina della conoscenza tutta incentrata sulla conoscenza sensibile (sensismo). Il processo conoscitivo ha inizio dalla sensazione, e consiste nella percezione della modificazione subita dallo spiritus a opera delle cose stesse, sulla base di affinità e diversità. Da presupposti analoghi deriva anche l’etica di Telesio, fondata sulle sensazioni piacevoli o negative che lo spiritus prova in occasione del contatto sensibile con le cose. Il fine ultimo e il vero bene di ogni essere naturale è l’autoconservazione e l’accrescimento: così, ciascun essere percepisce con piacere (e tende a ricercare) eventi e fenomeni che lo favoriscono e lo conservano, mentre percepisce con dolore (e tende a rifuggire) quanto può danneggiarlo o distruggerlo. La filosofia di Telesio esercita un immediato, potente richiamo sui contemporanei, interpretando l’esigenza diffusa di un ritorno alla concretezza del mondo naturale. Se attraverso Francesco Patrizi (1529-1597) e Antonio Persio (1542-1612) le sue dottrine vengono inserite nel più generale dibattito rinascimentale sull’eleatismo, l’incontro con il De rerum natura ha per Campanella il carattere di una vera e propria rivelazione; mentre Bruno, pensatore mai prodigo di elogi, nel De la causa, principio et uno ricorda con parole di consenso l’«onorata guerra» combattuta contro Aristotele dal «giudiciosissimo Telesio consentino».

Pomponazzi

Telesio

Aristotelismo naturalistico

Naturalismo antiaristotelico

Indimostrabilità dell’immortalità dell’anima

L’intera realtà è animata, tutti i corpi possiedono spiritualità, ma l’uomo possiede anche un’anima superiore infusa da Dio e immortale

Fondazione autonoma della morale e distinzione tra morale del saggio e morale comune

Etica fondata sulle sensazioni piacevoli o spiacevoli. Fine ultimo e bene di ogni ente è l’autoconservazione

Spiegazione dei fenomeni attraverso la catena delle cause e rifiuto degli eventi soprannaturali. Le cause universali e necessarie degli eventi sono le intelligenze motrici delle sfere celesti

Rifiuto di principi metafisici (potenza / atto, forma / materia ecc.) per spiegare la natura: la conoscenza è fondata sulla sensibilità. Due principi agenti (calore e freddo) e un sostrato passivo (materia) formano gli enti

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

3 I presupposti della filosofia di Campanella

Un nuovo sistema filosofico: Campanella Insofferente della disciplina aristotelica appresa nei conventi domenicani di Calabria, Tommaso Campanella trova un’alternativa affascinante e persuasiva, da un lato, nel naturalismo di Telesio; dall’altro, nella magia e nella dottrina dell’animazione universale. A partire da questi presupposti, egli, nel corso della sua vita tormentata, elabora un nuovo sistema filosofico radicalmente alternativo alla filosofia aristotelica, considerata come la fonte di tutte le false dottrine del tempo.

La vita e le opere Tommaso Campanella nacque a Stilo, in Calabria, nel 1568 e venne battezzato con il nome di Giovan Domenico. Nel 1582 entrò nell’Ordine domenicano, assumendo il nome di Tommaso, e qui si dedicò al tradizionale studio della filosofia aristotelica e del tomismo, pur affiancando agli studi curriculari letture eterodosse. Un evento fondamentale per la formazione del suo pensiero fu l’incontro con la filosofia di Telesio (1588), nel cui sensismo egli individuò quell’alternativa all’aristotelismo di cui era alla ricerca, e alle cui teorie si ispirò per comporre la Philosophia sensibus demonstrata («Filosofia che ci è mostrata dai sensi»), pubblicata nel 1591. Negli anni seguenti – trascorsi a Napoli – di particolare importanza sono le discussioni con Giovan Battista Della Porta, all’origine del De sensu rerum et magia, opera poi riscritta in italiano nel 1604 con il titolo Il senso delle cose e la magia (in cui il termine «senso» allude alla sensibilità di cui sono dotati tutti gli enti). Accusato di pratiche magiche, per sottrarsi all’obbligo impostogli dai suoi superiori di far ritorno in Calabria, Campanella si mosse fra Roma, Firenze e Padova, dove rimase fino al 1594. Arrestato con l’accusa di professare dottrine eterodosse, venne trasferito a Roma, processato e condannato alla pubblica abiura. Riabilitato dal Sant’Uffizio alla fine del 1596, pochi mesi dopo, in seguito a una nuova denuncia, fu arrestato una seconda volta e costretto a far ritorno in Calabria. Nell’estate del 1598 giunse a Stilo, dove ben presto divenne l’ispiratore di una cospirazione antispagnola, fondata sulla convinzione che l’imminente passaggio a un nuovo secolo avrebbe reso possibile la realizzazione di un nuovo ordine anche sociale, fondato sull’uguaglianza e la I principi della filosofia della natura: attenzione alla natura e sensibilità degli enti

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giustizia. Smascherato e catturato dagli spagnoli, nel novembre 1599 fu processato a Napoli, con l’accusa di eresia e ribellione contro l’autorità. Duramente torturato, scampò alla pena capitale simulando la follia, ma rimase prigioniero nelle carceri napoletane per ventisette anni. Nel corso di questa lunghissima reclusione, il filosofo ebbe la possibilità, in alcuni periodi, di far filtrare la propria voce all’esterno, intervenendo con propri scritti su importanti questioni: in modo particolare, va ricordata la sua coraggiosa Apologia pro Galileo (1616), in difesa della libertà e dei diritti di ogni vero filosofo-scienziato, il cui primo compito è quello di leggere nel libro della natura, e non nei libri degli uomini. Agli anni del carcere appartengono anche la Città del Sole (1602) e l’imponente Metafisica (terminata nel 1623). Liberato nella primavera del 1626, a causa dell’antico processo per eresia fu costretto a scontare altri due anni di prigionia a Roma: rinchiuso nel palazzo dell’Inquisizione, poté godere tuttavia di condizioni di detenzione meno gravose, anche a causa della simpatia di papa Urbano VIII, fortemente interessato alle sue pratiche magico-astrologiche. Ottenuta infine la libertà nel 1629, nel 1634, in seguito all’accusa di aver nuovamente complottato contro la Spagna, fu costretto a lasciare Roma: si diresse allora a Parigi, dove ricevette buona accoglienza sia da parte del re Luigi XIII e della corte che degli ambienti accademici. In questi ultimi anni Campanella si dedicò all’edizione delle proprie opere, ma anche alla composizione di nuovi scritti politici, nei quali – all’interno della consueta prospettiva profetica – esaltò il ruolo egemone della monarchia francese. Morì a Parigi nel maggio 1639.

Sensismo telesiano e dottrine di matrice neoplatonica – legate a una interpretazione originale del concetto di «anima del mondo» – contribuiscono a determinare l’impianto della filosofia della natura campanelliana, esposta nella sua prima opera a stampa, la Philosophia sensibus demonstrata, e in seguito – in forma più definita – nel De sensu rerum et magia. Da Telesio Campanella trae due fondamentali opzioni: la convinzione che l’indagine filosofica debba volgersi al libro divino della natura, piuttosto che ai libri degli uomini; e l’idea che tutti gli enti siano dotati di sensibilità. Ogni cosa desidera infatti perseverare nel proprio stato, autoconservarsi, ed è quindi dotata, in modi diversi, di ‘senso’, vale a dire della capacità di distinguere quanto può giovare alla propria vita da quel che invece le nuoce o la distrugge.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento Vari gradi di sensibilità degli enti

La conoscenza e il ruolo della mente

L’attività del mago

L’enciclopedia del sapere Gli scritti poetici

I tre principi dell’essere e le loro manifestazioni negli enti

Dio e gli altri enti

Ontologia e religione

Alcuni enti (per esempio, gli astri) possiedono una forma di sensibilità estremamente raffinata e più pura di quella animale; altri (per esempio, i minerali), appesantiti dalla materia, sono dotati di un senso più ottuso e torpido. Negli organismi animali vita e conoscenza sono collegate all’attività dello spiritus – costituito di materia estremamente rarefatta e mobile, assottigliata dal calore solare. Entrando in contatto con la realtà esterna attraverso gli organi di senso, lo spiritus viene modificato in forme diverse, dando luogo a percezioni e passioni. Rispetto agli animali, l’uomo è dotato di uno spiritus più sottile e puro, che gli consente di elaborare ragionamenti più complessi; ma soprattutto possiede una mens incorporea di origine divina, che rappresenta la sua dimensione specifica, grazie alla quale può superare la mera prospettiva dell’autoconservazione per volgersi a obiettivi e beni più alti. Sulla capacità di sentire universalmente diffusa si fonda anche l’attività del mago che, conoscendo la specifica qualità del senso che inerisce a ogni ente, è in grado di utilizzarlo in modo conveniente, ed è capace di indurre sullo spiritus determinate alterazioni e passioni. Nei lunghi anni di carcere, Campanella si dedica a un’opera di rifondazione dell’enciclopedia del sapere, componendo opere in cui prende in esame teologia e medicina, astrologia e metafisica, filosofia universale e religione naturale. Da questo ripensamento complessivo derivano, in primo luogo, gli straordinari scritti poetici, in cui il dramma personale dell’autore viene reso generale e storico, proiettandolo sullo sfondo della ‘commedia universale’, e di acute riflessioni sul male, sulla giustizia, sulla dissimulazione, sul destino del giusto profeta, sempre perseguitato e messo a morte. D’altra parte, prende a concretizzarsi il progetto di un nuovo sistema filosofico, capace di porsi come completa e praticabile alternativa all’aristotelismo. L’opera in cui questo intento sistematico si fa più esplicito è la Metafisica: questa disciplina, secondo Campanella, ha il compito di considerare razionalmente la realtà nel suo complesso, dal punto di vista della totalità degli enti. La dottrina fondamentale esposta in questo scritto è quella secondo cui i principi dell’essere si specificano in tre primalità, di cui compartecipano sia Dio che le creature. Ogni ente, secondo Campanella, è costituito dal nesso di tre propensioni o intenzioni originarie: il poter essere, il saper essere, il voler essere (nel lessico campanelliano, «possanza, senno e amore»). Ogni primalità segue il criterio per cui ogni cosa si riferisce prima a se stessa, quindi alle altre. Ogni ente ha dunque prima potenza su di sé, poi sugli altri enti; ha autoconsapevolezza, sapere innato di sé (benché con gradi diversi di chiarezza), e poi del mondo; ama se stesso e perciò è capace di porsi in sintonia con gli altri enti. Solo in Dio, ente assoluto, potenza, sapienza e amore sono presenti in forma perfetta e illimitata. Al contrario, negli enti finiti, nelle creature, questi principi sono limitati dalle primalità opposte (impotenza, ignoranza, odio). Queste ultime rendono ragione, da un lato, della contingenza degli enti creati; dall’altro, dell’imperfezione e dell’irrazionalità che si riscontrano nell’universo. Se da una parte la dottrina delle primalità fonda l’idea dell’animazione universale, dall’altra essa rappresenta l’espressione filosofica (e dunque conoscibile dalla ragione) del dogma cristiano della Trinità. A questo proposito, occorre tenere presente un altro aspetto della teoria religiosa di Campanella: egli ritiene che Dio sia oggetto, da parte delle creature, di un sentimento innato d’amore (religione naturale), che la rivelazione cristiana ha reso consapevole e manifesto. 43

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Ciò non significa, però, che Campanella assimili il cristianesimo a tutti gli altri culti. All’opposto, egli lo considera superiore a ogni altra religione e massimo inveramento della stessa razionalità naturale. Da ciò, l’obbligo di combattere e respingere con forza tutte le filosofie che si pongano in contrasto con l’autentica dottrina cristiana (da non confondere con il sistema filosofico-teologico della Scolastica). D’altra parte, gli uomini che, pur non illuminati dalla rivelazione, si lasciano guidare dai principi e dalle leggi della ragione, vanno considerati, sia pure in forma mediata e inconsapevole, anch’essi cristiani. Gli abitanti della Città del Sole (vedi p. 63), per esempio, pur non toccati dalla rivelazione e privi del sigillo dei sacramenti, conducono secondo Campanella una vita assai vicina e affine a quella di una società autenticamente cristiana. Un rinnovamento Nelle opere di argomento dichiaratamente politico, Campanella suggerisce la via sociale all’insegna da percorrere per instaurare una società secondo ragione nell’Europa del suo del cristianesimo tempo. Da un lato, al pari di Bruno, egli indica come prioritaria l’esigenza di superare i contrasti religiosi; ma dall’altro, a differenza del Nolano, crede che questo superamento possa realizzarsi sotto il segno di un cattolicesimo rigenerato e rinnovato. Campanella assegna ai grandi monarchi europei il ruolo di ‘braccio armato’ di una teocrazia universale guidata dal papa. In un primo tempo egli affida questo compito alla monarchia asburgica; mentre l’orientamento filospagnolo del suo pensiero è destinato a modificarsi nei suoi ultimi anni, per ragioni sia storiche che contingenti: è in Francia, infatti, che Campanella sarà costretto a cercare rifugio al termine della vita. La superiorità del cristianesimo

La filosofia di Campanella

Filosofia della natura (Influenza di Telesio) – Indagine sulla natura a partire dai suoi principi interni – Tutti gli enti sono dotati di sensibilità

Campanella

Teoria della conoscenza – Ogni ente conosce attraverso lo spiritus (principio di animazione) – Ogni ente conosce attraverso percezioni e passioni – L’uomo oltre allo spiritus possiede una mente incorporea di origine divina

Mago: conosce lo spiritus più profondamente degli altri uomini e può operare sugli enti

Ontologia – Ci sono tre principi dell’essere (primalità): «possanza, senno e amore» (potenza, saggezza, amore) – In Dio sono tutti e tre in forma perfetta e illimitata – Negli enti finiti sono limitati dalle primalità opposte (impotenza, ignoranza, odio) Religione – Dio è oggetto, da parte delle creature, di un sentimento innato d’amore – La rivelazione cristiana ha reso consapevole e manifesto questo amore – Superiorità del cristianesimo Politica – Obiettivo di instaurare una società secondo ragione nell’Europa del suo tempo – Esigenza prioritaria di superare i contrasti religiosi; ma questo superamento deve realizzarsi sotto il segno di un cattolicesimo rigenerato e rinnovato – Modello di una società ideale nella Città del Sole Generi letterari – Enciclopedia del sapere (teologia, medicina, astrologia, metafisica, filosofia universale, religione naturale) – Opere poetiche – Opere politiche

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

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La magia e la scienza moderna

Se è vero che la magia ha, in varie forme, sempre accompagnato il sapere dell’umanità, nel Rinascimento essa si trova al centro di una complessa mediazione di diverse tradizioni culturali. E risulta assai difficile – oltre che sbagliato – sottovalutare, o liquidare con sufficienza, l’importanza della magia (così come, per altro verso, dell’astrologia) in una civiltà in cui, come ci ha insegnato il grande storico dell’arte e della cultura Aby Warburg (1866-1929), i rapporti fra Atene e Alessandria, i due centri della filosofia antica simboli rispettivamente della razionalità e dell’irrazionalità, sono così mobili, fluidi, complessi. Il filosofo-mago Come ha scritto lo storico della filosofia Eugenio Garin, in un saggio intitolato Il filosofo e il mago:

Il ruolo della magia nella filosofia del Rinascimento

La ‘rivoluzione culturale’ che aveva accompagnato il massiccio ritorno dei filosofi antichi non cambiava solo i rapporti fra le discipline […]. Disegnava un’immagine diversa del teorico, del ‘filosofo’, come di colui che riflette criticamente sulle proprie esperienze e che, oltre che teorizzare, opera.

Magia come conoscenza, prassi e forma di potere

Elementi comuni e differenze tra scienza e magia

Una nuova figura di sapiente

Tra magia e scienza un passaggio graduale

➥ Sommario, p. 66

E per insistere sui caratteri operativi di questa immagine del filosofo, ricordava, poco oltre, un’espressione di Ficino: «il filosofo esperto delle cose naturali e di quelle celesti, quel filosofo che noi propriamente siamo soliti chiamare mago». L’attenzione alle tematiche magiche presenti nel Rinascimento è dunque importante, perché consente, in primo luogo, di mettere a fuoco la dimensione ‘pratica’ della cultura rinascimentale e della concezione della natura che contribuisce a elaborare. Conoscenza, prassi: ma la magia è certamente anche potere. Catturare l’energia dell’universo attraverso forme diverse di attrazione e fascinazione, indirizzarne le forze nella direzione desiderata, plasmare la materia consente all’uomo un dominio sulla realtà degno della sua centralità cosmica. E proprio in questa identificazione della magia con un momento operativo in grado di arricchire e perfezionare il carattere puramente contemplativo della scienza aristotelica risiede, secondo gli studiosi, anche l’importanza della magia per la nascita della scienza moderna. Quest’ultima si costituisce come forma di sapere in grado di recuperare e perpetuare il desiderio di potenza incarnato dalla magia rinascimentale, ma trasformandone profondamente le modalità. Pur nel permanere di alcune dottrine (parallelismo macrocosmo-microcosmo; principio della simpatia universale), fra la seconda metà del Cinquecento e la prima del Seicento si definisce una nuova concezione del sapiente e del sapere, che sostituisce ai requisiti della segretezza, della eccezionalità, della illuminazione spirituale, propri delle scienze occulte, un’esigenza di pubblicità e comunicazione dei risultati, una chiarezza, un rigore – e soprattutto una lettura meccanicistica e quantitativa del mondo naturale – che queste non possedevano. Tuttavia, pur tenendo presenti i criteri in base ai quali una consolidata tradizione storiografica ha finora distinto il mago dallo scienziato, occorre sottolineare che una tale trasformazione non avvenne di colpo: e se la scienza si emancipò gradualmente dalla mentalità magica, ciò fu reso possibile anche dalla progressiva ‘naturalizzazione’ della magia nell’epoca moderna e dal suo parallelo, consapevole rifiuto della dimensione rituale, demonica, teurgica per ricercare piuttosto, come dirà Giordano Bruno, «la forma e teorica della scienza» magica, i suoi fondamenti dottrinali e speculativi. 45

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’uomo nell’infinito: Bruno

5 I testi

G. Bruno De la causa, principio et uno: L’uomo nell’infinito, T9 Cena de le Ceneri: La ‘rivelazione’ dell’universo infinito, T10

Importanza e modernità di Bruno

Ruolo personale di Bruno nel processo di riforma culturale e civile

La personalità filosofica di Giordano Bruno, così come la sua drammatica vicenda biografica, è notevolmente complessa. Nella storia della filosofia del Rinascimento, egli si caratterizza per una serie di posizioni di dirompente novità sul piano metafisico come su quello cosmologico, etico e religioso. La modernità di Bruno nasce, da un lato, dalla densità di una posizione filosofica profondamente radicata nel suo tempo, come dimostrano le importanti suggestioni che egli recupera dalle dottrine di Ficino e Cusano; dall’altro, da un confronto serrato e assai consapevole con la tradizione filosofica classica: i presocratici, Platone e il neoplatonismo, ma anche Aristotele, la tradizione peripatetica e Tommaso d’Aquino. Il programma di Bruno non solo investe tutti i campi della riflessione filosofica, ma propone una riforma complessiva del sapere e della vita civile. Inoltre, si tratta di una prospettiva filosofica segnata da una forte componente personale, autobiografica: teorico di una concezione vicissitudinale (per la nozione di «vicissitudine» vedi sotto, p. 51) del sapere, ossia di una visione ciclica della storia della conoscenza umana, al cui interno la verità è periodicamente soggetta a una lunga fase di oblio, dalla quale viene fatta rinascere grazie all’opera dei filosofi, Bruno pensa se stesso come il messaggero di una nuova età di giustizia e di pienezza, destinato dagli dèi a illuminare gli altri uomini, riportando in luce le dottrine dell’«antiqua vera filosofia», occultata e dimenticata soprattutto a opera di Aristotele e dei suoi interpreti e seguaci.

La vita e le opere Giordano Bruno nacque nel 1548 a Nola, in Campania, e venne battezzato con il nome di Filippo. Nel 1562 si trasferì a Napoli per continuare gli studi: qui seguì dapprima lezioni private di dialettica e di logica, quindi, nel 1565, entrò come novizio nel convento domenicano di San Domenico Maggiore, assumendo il nome di Giordano. Ordinato sacerdote nel 1572 e licenziato in teologia nel 1575, assunse presto atteggiamenti ribelli e posizioni difficilmente conciliabili con l’ortodossia cattolica, che portarono all’apertura di un procedimento disciplinare nel 1575 e quindi alla fuga a Roma l’anno successivo. Abbandonato l’abito domenicano, Bruno cominciò così una vita errabonda attraverso l’Europa, che durò fino alla morte, alla continua ricerca di una sistemazione che gli consentisse di proseguire liberamente i suoi studi e, allo stesso tempo, di trovare un ambiente capace di accogliere il messaggio di rinnovamento di

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Spaccio de la bestia trionfante: Divina magia degli egizi, stolta idolatria dei cristiani, T11 De gli eroici furori: Caratteri del «furore eroico», T12

cui si sentiva portatore. Dopo essersi fermato in numerose città dell’Italia settentrionale, nel maggio 1578 giunse a Ginevra, dove entrò ben presto in attrito con le locali autorità calviniste. Si recò a Tolosa e nel 1581 giunse a Parigi, dove riuscì a interessare alla sua arte della memoria il re Enrico III e a ottenere l’incarico di «lettore reale», ovvero di docente stipendiato dal re. Nel 1582 Bruno dedicò proprio al re il De umbris idearum («Le ombre delle idee»). Nell’aprile 1583 lasciò Parigi per l’Inghilterra, al seguito dell’ambasciatore francese Michel de Castelnau. Nei primi mesi del soggiorno inglese fu impegnato nel tentativo di affermarsi nell’ambiente accademico di Oxford. Le sue lezioni non incontrarono però il successo sperato, anzi suscitarono la violenta reazione dell’ambiente universitario, che giunse ad accusarlo di plagio. In Inghilterrà pubblicò la Cena de le Ceneri, il primo dialogo in italiano, nel 1584. A questo stesso periodo inglese appartengono anche gli al-

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

tri grandi dialoghi filosofici scritti in italiano, di argomento cosmologico-teologico (oltre alla Cena, il De l’infinito universo e mondi), ontologico (De la causa, principio et uno), politico-religioso (Spaccio de la bestia trionfante, Cabala del cavallo Pegaseo), antropologico-gnoseologico (De gli eroici furori). Tornato a Parigi nell’ottobre 1585, Bruno fu costretto ben presto a lasciare la città in seguito a un suo violento attacco pubblico contro gli aristotelici. Scelse allora di raggiungere la Germania: visse prima a Marburg, quindi a Wittenberg, dove insegnò per due anni, dal 1587 al 1588. Costretto a lasciare anche questa città per l’egemonia qui esercitata dai calvinisti, si rifugiò a Praga, presso la corte di Rodolfo II, poi a Helmstädt, dove nel 1589 lo colpì la scomunica anche da parte della Chiesa luterana. In questo periodo Bruno si impegnò nella composizione di una serie di trattati di argomento magico, destinati a rimanere inediti fino alla fine dell’Ottocento. Nel 1591, mentre era a Francoforte per stampare i suoi notevoli poemi latini di ispirazione lucreziana – De triplici minimo et mensura («I tre tipi di minimo e la misura»), De monade, numero et figura («La monade, il numero e la figura»), De immenso et innumerabilibus («L’immenso e gli innumerabili») – venne raggiunto dall’invito del patrizio veneziano Giovanni Mocenigo, che desiderava apprendere da lui i segreti dell’arte della memoria. Convinto che Venezia, per la sua lunga tradizione di tolleranza, potesse garantire la sicurezza anche di un pensatore come lui, così lontano dall’ortodossia, Bruno accettò di tornare in Italia. A partire dall’agosto-settembre 1591 visse per qualche mese tra Venezia e Padova e dall’aprile del 1592 si trasferì a Palazzo Mocenigo: ma il giovane patrizio, deluso dall’insegnamento mnemotecnico di Bruno, e insieme turbato dal contenuto eterodosso delle sue idee, lo denunciò all’Inquisizione.

1 I dialoghi italiani

I «dialoghi cosmologici»: innovazione cosmologica e ontologica

Il processo, che vide Bruno imputato di eresia, fu lungo, complesso e articolato in due principali fasi: quella veneta e quella romana. Nel corso del processo veneto Bruno da un lato sottolineò e difese la portata essenzialmente filosofica del suo insegnamento; dall’altra, si dichiarò disposto ad ammettere i suoi eventuali errori di carattere teologico e dottrinale. Ottenuta l’avocazione del processo da parte dell’Inquisizione romana, nel febbraio 1593 Bruno venne trasferito a Roma e rinchiuso nel carcere del Sant’Uffizio, dove passò i suoi ultimi anni di vita. Nel gennaio 1599, su istanza del cardinale Roberto Bellarmino, gli vennero sottoposte otto proposizioni eretiche, perché egli le abiurasse. Bruno, mantenendo la linea di autodifesa adottata a Venezia, si dichiarò disposto alla confessione. Tuttavia, continuò a formulare una serie di distinguo sulle proposizioni incriminate, finché il tribunale, irrigidendosi, gli intimò di riconoscere i suoi errori entro quaranta giorni. Il 21 dicembre 1599 Bruno, evidentemente non disponibile a rinnegare aspetti fondamentali del suo pensiero, abbandonò ogni ricerca di compromesso e rifiutò di ritrattare. Condannato come eretico «impenitente» e «pertinace», venne arso vivo in Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600. Nel 1891 sono stati editi per la prima volta un gruppo di scritti, composti e rielaborati durante la permanenza in Germania tra il 1587 e il 1591, indicati come ‘trattati magici’: De magia mathematica («La magia matematica»), De magia naturali («La magia naturale»), Theses de magia («Articoli sulla magia»), De vinculis in genere («I vincoli in generale»), De rerum principiis et elementis et causis («I principi, gli elementi e le cause delle cose»), Medicina Lulliana partim ex mathematicis partim ex physicis principiis educta («Medicina Lulliana, tratta in parte da principi matematici, in parte da principi fisici»), Lampas triginta statuarum («La lampada delle trenta statue»).

La cosmologia: universo infinito e infiniti mondi Autore di numerose e importanti opere latine, a Londra, in due anni di lavoro intensissimo, Bruno pubblica fra 1584 e 1585 i suoi dialoghi italiani, che costituiscono un vero e proprio concentrato delle sue posizioni filosofiche più qualificanti. Questi sei dialoghi vengono tradizionalmente distinti in due gruppi, in base ai temi affrontati: dialoghi cosmologici e dialoghi morali. I cosiddetti «dialoghi cosmologici» – la Cena de le Ceneri, il De l’infinito universo e mondi, il De la causa, principio et uno – sono tutti pubblicati nel 1584. Questi testi presentano – in una prospettiva fortemente critica sia dell’aristotelismo dominante che degli ambienti accademici inglesi, pervasi dalla rigidità, dal letteralismo, ossia dall’interpretazione letterale della Scrittura, e dalla diffidenza per le novità dei professori puritani (seguaci dell’ala più radicale del protestantesimo inglese) – una cosmologia e una ontologia profondamente innovative e, insieme, decisamente eversive sia sul piano fisico che su quello metafisico. 47

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La piena adesione al copernicanesimo eliocentrico

Copernico come segno della rinascita della verità

Il limite di Copernico: mancanza di prospettiva filosofica

Bruno abolisce l’immagine di un universo chiuso

Un universo attualmente infinito

Abolizione della distinzione tra sfera celeste e sfera terrestre

Un universo privo di distinzioni gerarchiche

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Nella Cena de le Ceneri, Bruno prende apertamente posizione a favore del sistema cosmologico eliocentrico presentato dall’astronomo polacco Copernico nel De revolutionibus orbium coelestium («Le rivoluzioni – ossia i moti attorno a un centro gravitazionale – dei corpi celesti»), pubblicato nel 1543. Difendendo con energia tale dottrina dalle interpretazioni in chiave probabilistica (vedi Unità 2, p. 72 ss.), Bruno afferma la verità fisica e cosmologica dell’eliocentrismo. Agli occhi di Bruno, peraltro, Copernico non è un matematico come tanti, ma un momento importante della rinascita della verità dopo secoli di tenebre. Riproponendo e rinnovando l’antichissima concezione del moto della Terra – ormai disprezzata o addirittura dimenticata –, egli ha infatti aperto la strada alla liberazione dell’umanità dall’ignoranza e dall’impostura. Per definire il suo rapporto con Copernico, Bruno fa ricorso alla metafora del giorno: sotto questo profilo, l’astronomo rappresenta l’aurora, mentre Bruno incarna il sole della verità che torna nuovamente a illuminare gli uomini. Tuttavia, accanto a questo merito, Bruno riconosce anche il limite fondamentale di Copernico: egli ha svolto un discorso più «matematico» che «naturale», si è mosso da astronomo, non da filosofo. Rimanendo prigioniero delle osservazioni e dei calcoli, ma privo di prospettiva filosofica, non è riuscito a produrre, oltre che una nuova cosmologia, anche una nuova filosofia, che gli consentisse di «profondare», di calarsi in profondità dentro la struttura del mondo naturale. Bruno si assume il compito di portare alle estreme conseguenze la ‘scoperta’ di Copernico, oltrepassando ampiamente la sua prospettiva per sviluppare il modello eliocentrico in chiave infinitistica. Se nel De revolutionibus l’universo – finito e limitato dal cielo delle stelle fisse – mantiene come suo centro fisso e immobile il Sole, intorno al quale ruotano le orbite circolari dei pianeti, Bruno non si limita a sostituire alla posizione della Terra la nuova centralità del Sole, ma abolisce l’immagine di un universo chiuso e dissolve la nozione di centro assoluto. Infrangendo una tradizione secolare, egli afferma infatti che l’universo è attualmente (cioè, di fatto) infinito; in quanto infinito, è privo di centro e di circonferenza, ed è costituito da infiniti mondi, da infiniti sistemi solari. Esistono innumerevoli soli e innumerevoli terre, che girano loro intorno, mosse da un principio vitale interiore, da un’anima, ricevendone luce e calore. Soli, terre, mondi non si distinguono dal punto di vista della sostanza che li costituisce, che è unica e identica per tutte le cose. Si dissolve così un altro principio della cosmologia aristotelico-tolemaica: l’idea di una gerarchia del mondo naturale, suddiviso in una regione celeste incorruttibile e in una terrestre, dove si svolgono i processi di generazione e corruzione. Facendo coincidere materia del mondo sublunare e materia del mondo celeste, Bruno mostra l’inconsistenza della scala naturale, che, secondo i peripatetici, ordina tutti gli enti secondo gradi maggiori o minori di perfezione. Intrecciando adesione al copernicanesimo, motivi di ispirazione cusaniana ed elementi lucreziani, Bruno delinea così un modello di universo privo di distinzioni gerarchiche, infinito in estensione, composto da infiniti mondi di identica natura e tutti abitati da innumerevoli individui. La Terra, da centro dell’universo, si trasforma in uno degli infiniti mondi sparsi nel cosmo; l’uomo, concepito fino a quel momento come apice del creato, viene immesso nell’infinità, perdendo ogni primato e ogni centralità.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

T9

L’uomo nell’infinito

G. Bruno, De la causa, principio et uno

Alla proporzione, similitudine, unione et identità de l’infinito non più ti accosti con essere uomo che formica, una stella che un uomo: per che a quello essere non più ti avicini con esser sole, luna, che un uomo o una formica, e però nell’infinito queste cose sono indifferenti; e quello che dico di queste, intendo di tutte l’altre cose di sussistenza particulare. Profondamente convinto della radicale novità del suo pensiero, Bruno celebra la sua scoperta dell’infinito con toni accesi ed entusiasti, senza temere di istituire addirittura un paragone fra la sua ‘rivelazione’ e quella di Cristo.

T10

La ‘rivelazione’ dell’universo infinito G. Bruno, Cena de le Ceneri

L’universo infinito come immagine e manifestazione dell’infinità divina

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Or ecco quello ch’ha varcato l’aria, penetrato il cielo, discorse le stelle, trapassati gli margini del mondo, fatte svanir le fantastiche muraglia de le prime, ottave, none, decime, et altre che vi s’avesser potute aggiongere sfere per relazione de vani matematici e cieco veder di filosofi volgari. Cossì al cospetto d’ogni senso et raggione, co la chiave di solertissima inquisizione aperti que’ chiostri de la verità che da noi aprir si posseano, nudata la ricoperta e velata natura: ha donati gli occhi a le talpe, illuminati i ciechi che non possean fissar gli ochi e mirar l’imagin sua in tanti specchi che da ogni lato gli s’opponeno. Sciolta la lingua a muti, che non sapeano et non ardivano esplicar gl’intricati sentimenti; risaldati i zoppi che non volean far quel progresso col spirto, che non può far l’ignobile e dissolubile composto: le rende non men presenti, che si fussero proprii abitatori del sole, de la luna et altri nomati astri. Nella Cena la polemica di Bruno si indirizza prevalentemente contro le premesse filosofiche del geocentrismo e le rigidità e le contraddizioni presenti nella fisica e nella cosmologia peripatetica. Diversamente, nel De l’infinito egli – come farà poi nel poema filosofico latino De immenso et innumerabilibus, pubblicato nel 1591 – sostiene la sua concezione dell’infinito anche sulla base di un argomento di natura metafisica e teologica. L’universo infinito è effetto, manifestazione e immagine di Dio, ed è legato a lui da un rapporto di specularità: negarne l’infinità comporterebbe quindi negare anche l’infinità della sua causa divina, con il risultato – inaccettabile – di porre un limite all’onnipotenza e alla perfezione stessa di Dio.

L’ontologia: materia, anima, vicissitudine

Nella Cena e nel De l’infinito il problema di determinare la sostanza che costituisce l’universo e dalla quale hanno origine gli individui e i mondi innumerevoli rimane sullo sfondo. Per illustrare i fondamenti ontologici che sono alla base della sua cosmologia, Bruno scrive il De la causa, principio et uno, il più denso, complesso e difficile dei dialoghi italiani. Qui il filosofo affronta in modo specifico la questione di quale sia il fondamento della vita di tutti gli enti, di quale sia la sostanza prima e universale. Una duplice strategia E lo fa seguendo una duplice strategia: definitoria 1) in primo luogo, lascia sfumare il problema tradizionale di Dio e della causa prima – estranei all’orizzonte speculativo dell’uomo –, per prendere invece in esame i caratteri dell’universo, interpretato come «ombra», ritratto, explicatio (in senso cusaniano) della divinità; La definizione della sostanza dell’universo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La materia come energia e vita

La critica dell’ontologia aristotelica

La materia come principio attivo, infinito, eterno e universale

La materia come madre

Coincidenza di materia e forma

Il rapporto tra Dio e l’universo

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2) in secondo luogo, questa analisi si sviluppa attraverso un confronto serrato con la tradizione, soprattutto aristotelica, facendo ricorso a termini come «materia» e «forma», «potenza» e «atto», «principio» e «causa», «sostanza» e «accidente», ma modificandone in profondità il significato, fino a trasfigurarlo. Se la tradizione filosofica aveva concordemente identificato la materia con la potenza pura e ‘nuda’, fondamento inerte e privo di qualsiasi caratterizzazione, quel che interessa a Bruno è ripensare in termini nuovi questo concetto, trasformando la materia da prope nihil, «quasi nulla», a principio inesauribile di energia e di vita. Questo significa, inevitabilmente, istituire una polemica frontale in primo luogo con l’ontologia di Aristotele. Secondo Bruno, Aristotele è colpevole di aver infranto la visione unitaria e vitale dell’essere propria dei filosofi presocratici e soprattutto di Parmenide, sovrapponendo ad essa, per spiegare la natura, un astratto apparato di categorie logiche, che hanno avuto il risultato di far perdere di vista l’unità fondamentale della sostanza. Aristotele e i suoi interpreti medievali non sono riusciti a pensare la sostanza come ente unico ed eterno, sfondo immobile e immutabile di ogni movimento e cambiamento, ma l’hanno identificata nei singoli individui, attribuendole quindi una dimensione inevitabilmente dissolubile e corruttibile, e perdendo di vista la fonte unica da cui scaturisce la vita universale. A fondamento di tutti gli infiniti enti – i mondi, le specie, gli individui – di cui l’universo è costituito, Bruno pone al contrario una sostanza unica, che è il principio del dinamismo della vita naturale. Questa sostanza è una materia infinita, eterna, universale, una materia che è infinita energia formatrice, perché possiede in sé la vita. A differenza di quanto pensava Aristotele, che individuava nella materia il substrato passivo e meramente potenziale cui solo le forme sostanziali possono attribuire atto, virtù e perfezione, per Bruno la materia è principio attivo. Le forme non trascendono, ma sono immanenti alla materia, che le produce continuamente dal suo grembo. Questo è possibile, perché il principio materiale è compenetrato dall’anima del mondo e possiede quindi in sé anche il principio formale. Possiamo dire che la materia è priva di forma – scrive Bruno nel De la causa, principio et uno – solo nello stesso senso in cui diciamo che una donna incinta è priva di prole, nel senso che non l’ha ancora partorita, ma la possiede già in sé: «[la materia] la dico privata de le forme e senza quelle, non come il ghiaccio è senza calore, il profondo è privato di luce: ma come la pregnante è senza la sua prole, la quale la manda e la riscuote da sé; e come in questo emispero la terra la notte è senza luce, la quale con il suo scuotersi è potente di racquistare.» Nella sostanza bruniana, dunque, forma e materia coincidono. Ma non basta, perché in essa coincidono anche atto e potenza, principio e causa. Ripensando in profondità il concetto di materia e sottraendolo – grazie alla ripresa di motivi tratti da Plotino – a una connotazione puramente corporea, Bruno individua infatti una materia unica che si pone come fondamento sia del mondo intelligibile che del mondo sensibile, mettendo in comunicazione piani diversi dell’essere. In quanto si identifica con la vita infinita che percorre l’universo, questa sostanza finisce per diventare «uno essere divino nelle cose», coincidendo, in ultima analisi, con Dio, anche se Dio mantiene un margine di trascendenza rispetto ad essa (vedi sotto, p. 51). Dall’infinito, scrive Bruno, «sempre nova copia di materia sottonasce». La potenza infinita della vita universale si produce infatti secondo un ritmo infinito, inesauribile, dominato dalla tensione fra contrari, dando continuamente origine a nuovi enti. Ed è sullo sfondo di questa materia che si stagliano le varie configurazioni e le infinite sorti dei composti, dei singoli enti.

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento Gli enti accidentali come espressione temporanea dell’unico essere

Un universo in continuo mutamento

La «vicissitudine» come legge della natura

Le manifestazioni della «vicissitudine»

Necessità e inesauribilità del mutamento

Immanenza e trascendenza di Dio

L’uomo come ente uguale agli altri, sola natura

Il movimento, il cambiamento non incide sulla inalterabilità e immobilità della sostanza, ma coinvolge l’ente solo nei suoi aspetti accidentali, in quello che Bruno definisce il suo «volto». Gli individui che continuamente scaturiscono dalla sostanza sono soltanto forme accidentali della sua apparizione, realtà del tutto contingenti, espressioni temporanee, transitorie e corruttibili di questo unico essere. Una volta compiuto il proprio ciclo vitale, queste momentanee aggregazioni di parti si dissolvono, tornando nuovamente nella sostanza universale. A Bruno risultano, così, estranei sia il concetto di creazione che quelli di nascita e morte, a cui sostituisce quello di cambiamento, o meglio, di «mutazione». Il suo è un universo dominato dal tempo, dove non si dà nulla di perpetuo e stabile, ma tutto è in movimento. Questo movimento – va ribadito – investe solo gli accidenti e consente il continuo trasformarsi delle cose – il modificarsi del «volto» –, lasciando inalterata la sostanza. Per questo Bruno accoglie la tesi di Salomone, «che dice non esser cosa nova sotto il sole: ma quel che è, fu già prima». Su questo principio si fonda il concetto – fondamentale nella filosofia bruniana – di «vicissitudine». La vicissitudine è il principio che, all’interno della natura infinita, governa il movimento delle singole nature finite, sottoponendole a un continuo processo di mutazione e metamorfosi, di generazione e dissoluzione. La vicissitudine è la legge più generale e più profonda della natura. Essa è riscontrabile ovunque: nelle vicende della Terra e degli altri astri come nell’esistenza dell’uomo, sia sul piano individuale che su quello collettivo e storico. In quanto legge naturale e provvidenza divina, essa è lo strumento attraverso il quale l’universo raggiunge infine la sua perfezione: «la quale è che in diverse parti della materia tutte le forme abbiano attuale esistenza: nel quale fine tanto si deletta e si compiace l’intelletto [l’anima del mondo], che mai si stanca suscitando tutte sorte di forme da la materia». In effetti, se l’universo è necessariamente infinito in quanto explicatio della potenza e bontà coimplicate nell’unità di Dio, questo dispiegarsi non si dà solo sul piano spaziale, ma fa sì che in ogni parte dell’universo infinito diventino attuali, per quanto possibile, tutte le forme. Tuttavia, dato che la presenza di una forma esclude la simultanea presenza di altre, la materia può accettarle solo successivamente, sostituendo la forma precedente con una nuova. È questo processo che spiega la mutazione vicissitudinale del tutto: il succedersi delle forme al suo interno testimonia il desiderio inesausto della materia di farsi tutto e diventare tutto, per uguagliare l’infinità di Dio. Pur partecipando dei suoi attributi, l’universo non coincide infatti del tutto con Dio, che rispetto all’universo mantiene un complesso rapporto di immanenza e trascendenza, collocandosi contemporaneamente dentro e fuori di esso. Questa attualizzazione di tutto in tutto attraverso la vicissitudine esclude però la dimensione della ripetitività, il riproporsi degli stessi cicli: nell’infinito tutto si trasforma, in un movimento senza fine, ma niente torna mai uguale. Da qui la consapevolezza della transitorietà di ogni composizione, compreso l’uomo, che per Bruno è – non diversamente da tutti gli altri esseri – accidente finito tra infiniti accidenti finiti. La materia e l’anima che lo costituiscono sono le stesse di tutti gli altri esseri viventi, degli animali e perfino «delle cose stimate senz’anima». Ente fra gli enti, egli non possiede né uno statuto, né una dignità particolare. Bruno riduce l’uomo a sola natura, immergendo totalmente la sua esistenza nel flusso della vicissitudine ed eliminando ogni prospettiva di carattere trascendente. In tal modo, l’unione con la divinità è raggiungibile dall’uomo solo come contemplazione della natura infinita. 51

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Premesse

L’ontologia di Bruno

Non parte dalla nozione di Dio come causa prima

Prende in esame i caratteri dell’universo come «ombra» della divinità

Riprende i concetti aristotelici (potenza / atto, materia / forma ecc.) ma ne trasforma il significato

Ontologia

Materia = Sostanza unica – Principio attivo, eterno e universale – Energia infinita che ha in sé la vita – Compenetrata dall’anima del mondo, possiede il principio formale e ha in sé tutte le forme – È contemporaneamente potenza e atto, principio e causa

Dio e il mondo – Dio è immanente alla materia, pur mantenendo un margine di trascendenza rispetto alla realtà – Gli enti accidentali sono esseri transitori, forme temporanee assunte dall’unico essere che poi si dissolvono di nuovo nella materia – Tutto è in perenne «mutazione»

Vicissitudine – Principio interno alla natura che governa il mutamento perenne delle cose – Legge naturale ed espressione della provvidenza divina

Uomo – L’uomo è un ente come tutti gli altri e non ha nell’universo una posizione particolare, né maggiore dignità – Può unirsi alla divinità solo attraverso la contemplazione della natura infinita

3 Nuovi valori etici

Caratteri e virtù per il rinnovamento morale

L’operosità dell’uomo

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L’etica: la critica dell’ozio e l’esperienza del furore L’etica di Bruno, come abbiamo appena visto, è strettamente connessa al tema dell’infinito. Se la fondazione di un universo senza limiti e gerarchie dissolve radicalmente tutti i presupposti tradizionali, compresi quelli che definivano il ruolo, la dignità e la moralità dell’uomo, al tempo stesso pone le premesse per una riconfigurazione e per un rinnovamento dei valori. Questi temi trovano espressione nei cosiddetti «dialoghi morali»: lo Spaccio de la bestia trionfante, la Cabala del cavallo Pegaseo e De gli eroici furori. Lo Spaccio – costruito come il resoconto di un concilio degli dèi convocato da Giove per liberare il cielo dalle «bestie», cioè dai vizi – illustra i caratteri e le virtù che devono essere posti a base del rinnovamento morale, religioso e civile cui sono ormai chiamati gli uomini. Valorizzando concetti quali la Verità, la Sofia («Sapienza»), la Legge, e le virtù che sono a fondamento della convivenza umana, quali la Prudenza, la Fatica, la Sollecitudine, lo Studio, l’Industria, la Filantropia, la Magnanimità, Bruno sottolinea che l’uomo – pur sottoposto, come tutti gli altri enti, al ciclo infinito della vicissitudine – può tuttavia lasciare un segno della sua presenza nel mondo. E può farlo, grazie a un uso laborioso e consapevole degli organi che lo caratterizzano: l’intelletto e la mano. L’operosità consente all’uomo di farsi «dio de la terra», affiancandosi in certo modo a Dio nella trasformazione della natura. Se l’eccellenza dell’uomo scaturisce

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

La metempsicosi e il giudizio sulle azioni

Il rifiuto della dottrina luterana della giustificazione

Civiltà egizia come culla della vera giustizia

Armonia tra Dio, uomo e natura

T11

Divina magia degli egizi, stolta idolatria dei cristiani G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante

La critica radicale del cristianesimo

dalla sinergia fra azione e contemplazione, l’ozio e la passività ne costituiscono al contrario i vizi più gravi, e tali da assimilarlo a una condizione ferina. Questi sono i vizi che devono essere allontanati dal mondo, se è vero che la stessa legge divina guarda in primo luogo ai frutti delle azioni degli uomini. Per Bruno – che rielabora nello Spaccio la dottrina pitagorica della metempsicosi (trasmigrazione delle anime) –, il castigo di chi, vivendo oziosamente, ha rinnegato e mortificato la propria umanità è quello di vedersi imprigionato, nella successiva incarnazione, in un corpo inferiore e bestiale. In questo modo, il divenire della realtà, la vicissitudine delle infinite trasformazioni cui dà luogo l’esplicarsi della sostanza si configura anche come espressione di una provvidenza divina, trasformandosi da ciclo cieco e casuale a opera di giustizia, volta a ricompensare o punire ciascuno per quanto ha meritato nel corso dell’esistenza. Ogni tentativo di svincolare la giustizia dalla responsabilità e dal merito umano è destinato a produrre frutti perversi, come è accaduto con Lutero, che ha voluto ignorare i comportamenti dei singoli per proclamare l’uguaglianza uniforme di tutti gli uomini nel peccato. Ed è proprio a partire dal concetto di giustizia che Bruno nello Spaccio attacca con grande durezza la dottrina luterana della salvezza per sola fede, mettendone in discussione sia il valore teologico che la portata etica, e affermando con forza che «le giustizie interiori mai sono giustizie senza la prattica esterna». Lutero, presentando una religione che riconduce premi e punizioni ultraterrene al dono gratuito e casuale della grazia, ha infatti predicato una morale dell’ozio e dell’attesa passiva della salvezza divina, che è antitetica al ruolo proprio dell’uomo. Mostrando le radici teologiche e religiose della decadenza universale già denunciata, Bruno afferma dunque che la «vecchiaia» del mondo si è determinata quando la predicazione di Lutero ha affermato che non può esistere rapporto tra giustizia di Dio e giustizia degli uomini. Al contrario, nella civiltà dell’Egitto, reinterpretata anche sulla base dell’ermetismo, Bruno individua l’epoca della «giovinezza» del mondo, una stagione positiva e prospera della civiltà. Allora non regnava la falsa giustizia di Lutero, ma la giustizia vera, quella che nasce dalla corrispondenza e dalla concordia fra Dio, natura e uomo. Così, nell’ultima parte dello Spaccio, Bruno celebra le arti magiche dei sacerdoti egizi, i quali, da profondi conoscitori delle forze che agiscono nel mondo naturale, avevano elaborato un raffinato cerimoniale magico per comunicare con gli dèi. […] vedo come que’ sapienti con questi mezzi erano potenti a farsi familiari e domestici gli dèi che per voci che mandavano da le statue gli donavano consegli, dottrine, divinazioni et instituzioni sopraumane: onde con magici e divini riti per la medesima scala di natura salevano a l’alto della divinità, per la quale la divinità descende sino alle cose minime per la comunicazione di se stessa. Ma quel che mi par da deplorare, è che veggio alcuni insensati e stolti idolatri li quali, non più che l’ombra s’avicina alla nobilità del corpo, imitano l’eccellenza del culto de l’Egitto; e che cercano la divinità, di cui non hanno raggione alcuna, ne gli escrementi di cose morte et inanimate. Ma Bruno nella Cabala del cavallo Pegaseo – una delle sue opere più radicali – si spinge ancora oltre. Sottoponendo il cristianesimo a una critica e a una dissoluzione totale, egli afferma che la decadenza luterana non è che il frutto inevitabile dei germi di corruzione contenuti già all’origine nella predicazione di Cristo e di Paolo, tesa a esaltare come valori assoluti la passività e l’ignoranza, creando 53

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Una possibilità per l’uomo di raggiungere l’unità con l’essere infinito

«Furore eroico» come esperienza intellettuale

T12

Caratteri del «furore eroico»

G. Bruno, De gli eroici furori

«Furore» come affinamento interiore

Impossibilità per l’uomo di cogliere Dio

La visione dell’unità del reale

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così una società intimamente malata. Su questo punto si consuma anche il rapporto di Bruno con Erasmo: diversamente da quest’ultimo, Bruno non attribuisce al ritorno alle origini cristiane alcuna possibilità di rigenerazione e di riscatto. Il cristianesimo è fin dall’inizio una cattiva religione e un’etica della decadenza, perché non invita i propri fedeli all’amore per la conoscenza e a compiere imprese utili per il benessere della comunità civile, ma impone loro la disciplina ‘asinina’ della rassegnazione, dell’ascolto, dell’attesa della beatitudine ultraterrena. Se nello Spaccio vengono tracciate le linee-guida di una necessaria riforma dell’umanità, e oggetto privilegiato di riflessione è l’agire etico-civile, negli Eroici furori, l’ultima opera pubblicata da Bruno a Londra, l’eccellenza dell’uomo che, pur muovendo dalla sua insuperabile condizione di «accidente finito», riesce a entrare in contatto con la verità infinita, è esaltata in un’altra prospettiva. Il discorso si sposta ora sul piano esistenziale, per illustrare l’esperienza interiore attraverso la quale l’individuo può oltrepassare l’amore naturale – radicato nella bellezza ingannevole dei corpi – per protendersi verso l’oggetto supremo della conoscenza intellettuale: la bellezza divina, l’unità dell’essere infinito. Sul problema del rapporto tra finito e infinito Bruno si interroga fin dagli anni trascorsi a Napoli in convento e già da allora, aderendo a posizioni teologiche antitrinitarie, dimostra con chiarezza di non credere alla possibilità che finito e infinito possano entrare in relazione attraverso la figura mediatrice di Cristo. Intorno a questo problema cruciale continua però a interrogarsi in modo costante sia nelle opere latine che in quelle volgari, mantenendo fermo un punto, che per lui è irrinunciabile: la distanza incommensurabile tra finito e infinito non può essere colmata attraverso un ‘salto’ di tipo mistico. E anche il «furore eroico» è tutt’altro che un’esperienza irrazionale: anzi, potenzia in massimo grado le facoltà propriamente umane – in primo luogo, l’intelletto e la volontà. Questi furori de quali noi raggioniamo […] non sono oblio, ma una memoria; non sono negligenze di se stesso, ma amori e brame del bello e del buono con cui si procure farsi perfetto con transformarsi et assomigliarsi a quello. Non è un raptamento sotto le leggi d’un fato indegno […]: ma un impeto razionale che siegue l’apprension intellettuale del buono e bello che conosce, a cui vorrebbe conformandosi parimente piacere, di sorte che della nobiltà e luce di quello viene ad accendersi, et investirsi de qualitade e condizione per cui appaia illustre e degno. L’itinerario del «furioso», per le difficoltà di cui è costellato, non può essere portato a termine da tutti, ma è un processo di affinamento interiore assai raro e impervio. E questo perché il «furioso», dal punto di vista dell’ontologia bruniana, tenta davvero l’impossibile: lo sforzo di arrivare a contemplare l’unità del reale implica infatti il tentativo di sottrarsi a ogni ordine e necessità della natura, fino al punto da incrinare, insieme, il ritmo della realtà e l’unità strutturale della sua persona. Ma c’è un altro motivo che spiega perché Bruno insista con tanta forza sui limiti che comunque circoscrivono la vicenda del «furioso»: l’uomo non può arrivare, in nessun modo, a cogliere direttamente l’unità superessenziale, a ‘vedere’ e a comprendere Dio. Come è impossibile che Dio si possa incarnare, così è altrettanto impossibile che la sostanza corruttibile del «furioso» riesca a identificarsi perfettamente nell’immutabile sostanza divina. E tuttavia il «furioso» consegue infine un risultato straordinario: al termine del suo percorso, egli, pur senza poter penetrare la verità assoluta, Dio, riesce a ve-

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dere di fronte a sé – proiettandosi per un brevissimo istante oltre la sua natura – tutta la realtà concentrata e risolta in unità, al di là di ogni successiva distinzione. Non vede, certo, la luce prima e assoluta, ma la sua «genitura», la sua «immagine», la sua «monade», che è la natura. E tuttavia, pur rimanendo creatura finita e «cosa dell’universo», si misura in qualche modo con l’infinito ponendosi dal punto di vista dell’intero universo.

4 Le false promesse di salvezza del cristianesimo

I ‘trattati magici’ e il progetto di riforma politica

«Buona magia» e rinascita dell’umanità

Riforma religiosa oltre che politica

➥ Sommario, p. 66

La religione: dalla «nova filosofia» alla riforma del mondo Negli ultimi anni, la critica ha molto lavorato sulla polemica anticristiana di Bruno, insistendo soprattutto sulla nettezza e la durezza del suo giudizio verso il sistema di valori filosofici ed etico-civili incarnati storicamente dal cristianesimo, con le sue false promesse di salvezza fondate sul rovesciamento del corretto rapporto Dio-natura-uomo. Il cristianesimo costituisce infatti il consapevole fraintendimento di quella comunione con la divinità che l’uomo può attingere solo attraverso il «vivo simulacro» di Dio: il mondo naturale, l’universo infinito. Cristo, cosciente di tutto questo, ha corrotto e stravolto in mera superstizione i tratti dell’antico linguaggio magico, cancellando di fatto la consapevolezza della legge naturale propria in passato dell’umanità, e ponendosi come unico intermediario fra uomo e Dio. Bruno è fermamente convinto che una società non possa vivere senza religione e senza legge: ma non è nel cristianesimo che è possibile individuare il fondamento del «ben vivere» civile. È in un’altra direzione che bisogna cercare: nel rapporto organico tra conoscenza del mondo naturale, operazioni magiche e «civile conversazione». E negli ultimi scritti del filosofo – quei trattati di carattere magico pubblicati soltanto alla fine dell’Ottocento – viene presentata una figura di mago come depositario di un sapere efficace e fecondo, anche sul piano politico. La magia correttamente compresa e applicata insegna infatti ad aprirsi all’altro, a rispecchiarsi in lui, per individuare, nel confronto degli affetti e delle passioni, gli elementi di continuità che consentono di mettere in comunicazione individui diversi, indirizzandoli alla reciprocità e alla vita comune. Questa «buona magia» costituisce, secondo Bruno, un possibile antidoto alla decadenza, uno strumento concreto e potente per riannodare i fili fra Dio e uomo spezzati dal cristianesimo, riformando l’umanità e guidandola fuori dalla crisi del «secolo infelice». La riforma cui guarda Bruno in questi anni contempla anche l’idea di un vincolo di carattere religioso, nel quale possano riconoscersi e coesistere tutte le confessioni cristiane, attraverso una riduzione, drastica fino a dissolverli nella semplice idea filosofica di Dio, dei principi della fede; ma che, di fatto, non può coincidere con nessuna confessione particolare, e nemmeno con quella cristiano-cattolica. Il nuovo modello etico-politico individuato da Bruno è fondato piuttosto sul primato della pace e del bene pubblico, sul consenso, sulla reciprocità del rapporto governante-governato; ed è direttamente contrapposto sia all’esperienza luterana che a quella controriformistica, entrambe radicate nel principio della forza come espressione di potere e pratica di governo. 55

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Etica individuale e riforma religiosa e politica in Bruno

Nuova etica radicata nella concezione dell’infinito: – affermazione di una realtà priva di gerarchie – abbandono dei presupposti tradizionali dell’uomo (antropocentrismo, moralità legata a premi e castighi)

Etica individuale

Riforma della società

Eccellenza dell’uomo nella sinergia tra azione e contemplazione dell’infinito

Nuove virtù poste alla base del rinnovamento sociale, religioso e politico (Verità, Saggezza ecc.)

Condanna dell’ozio e della passività

Cristianesimo come religione che ha in sé i germi dell’ozio e della passività

Azione del principio di vicissitudine nel destino dell’individuo

Azione del principio di vicissitudine nella storia del mondo

Metempsicosi come espressione della giustizia: ognuno nella nuova vita avrà il destino che si è meritato (influenza del pitagorismo)

Successione delle epoche del mondo, a partire dall’Egitto come culla della vera giustizia, armonia tra Dio, uomo e natura (influenza dell’ermetismo)

Rifiuto della teoria luterana della giustificazione

Luteranesimo come segno della decadenza finale del cristianesimo

Possibilità per l’uomo di raggiungere l’eccellenza attraverso la contemplazione dell’unità di finito e infinito

Cambiamento sociale, religioso e politico fondato sul primato della pace e del bene pubblico, sul consenso, sulla reciprocità tra governantegovernato, sulla conciliazione tra le religioni (comprese le varie Chiese cristiane)

«Furore eroico» come processo di affinamento interiore individuale, raro e difficile, intellettuale e non mistico

«Buona magia» come rapporto organico tra conoscenza del mondo naturale, operazioni magiche e «civile conversazione»

La riflessione politica

6 I testi

N. Machiavelli Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio: La fortuna varia con il tempo, T13 Il principe: Verità effettuale della politica, T14

Verso lo Stato moderno

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F. Guicciardini Ricordi: Il potere della fortuna, T15; L’arte della discrezione, T16; Complessità della nozione di interesse proprio, T17

Il processo di formazione e consolidamento dello Stato moderno è accompagnato da un’intensa riflessione teorica. Il quadro dottrinale medievale – caratterizzato da una prospettiva universalistica e dal problema costante del rapporto fra potere politico e potere religioso – viene gradualmente abbandonato, per volgersi piuttosto alle grandi questioni della modernità: i meccanismi e i

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

principi dell’azione politica; i fondamenti e i limiti del potere; l’origine dei diritti. Mentre nell’Italia del Cinquecento l’auspicio di Machiavelli di un’unificazione territoriale e statale guidata da un «principe nuovo» di eccezionale personalità non riuscirà a farsi concreta opzione politica, nello stesso periodo, in Francia, dove l’unità nazionale è già un dato di fatto, si apre un intenso dibattito sulla fondazione della sovranità, reso più vivo dalla crisi delle guerre di religione. Jean Bodin (1530-1576), con la sua teorizzazione di uno Stato moderno fortemente centralizzato e ‘burocratizzato’, ne è uno dei protagonisti. La polemica contro Nella cultura della Controriforma, l’idea di una ratio, una giustificazione razionale teorie dell’autonomia le del potere dello Stato considerata come criterio fondamentale della prassi podel politico litica, al di fuori di ogni legittimazione trascendente, è destinata inevitabilmente a scontrarsi con un pensiero teso, al contrario, a riproporre il primato della dimensione religiosa su quella politica. Da qui la serrata polemica contro le posizioni di Bodin, ma soprattutto contro il ‘machiavellismo’ (spesso presentato in maniera distorta come prassi politica improntata a uno spregiudicato pragmatismo e alla più assoluta amoralità), che attraversa la seconda metà del Cinquecento. D’altra parte, una diversa risposta agli squilibri della società e alle devastazioni della guerra è fornita dai modelli di società ideali, improntate a equità e razionalità, ripresi sia dalla tradizione classica che dall’insegnamento erasmiano.

1 Un ingegno multiforme

La lezione degli antichi e l’esperienza dei moderni: Machiavelli Niccolò Machiavelli è uomo dai molteplici interessi. Storico, teorico della politica, letterato, egli fa interagire in maniera originale ‘antico’ e ‘moderno’, esperienza politica e diplomatica e lettura dei testi classici, in particolar modo di Livio. Né tralascia di prendere posizione anche su grandi temi della tradizione filosofica, a cominciare dalla questione cruciale dell’eternità del mondo, cui sono dedicate pagine importanti del II libro dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio.

La vita e le opere Niccolò Machiavelli nacque a Firenze nel 1469, da una famiglia antica, ma di limitate fortune. Dopo una formazione umanistica, nel 1498 entrò al servizio della Repubblica fiorentina come segretario della Cancelleria. L’esperienza acquisita nell’esercizio di questo incarico fu alla base della sua successiva riflessione storica e teorica, quando, con la caduta della Repubblica e il ritorno dei Medici al potere (1512), egli venne escluso dalla vita pubblica. Costretto a ritirarsi in campagna, nella sua casa di San Casciano, nel 1513 compose Il principe, con l’intento, di natura etico-civile, di esortare un «principe

nuovo» a liberare le istituzioni politiche italiane dalla crisi e dalla decadenza. A questi anni risale anche la stesura dei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, che saranno, come Il principe, pubblicati postumi (15311532). Nel 1520 riprese, sia pure in forme modeste, l’attività pubblica, al servizio dei Medici, e a causa di questa collaborazione venne messo da parte al momento della restaurazione della Repubblica (1527). Morì nel giugno dello stesso anno. A quest’ultimo periodo appartengono il trattato sull’Arte della guerra, pubblicato nel 1521, e le incompiute Istorie fiorentine, composte tra il 1520 e il 1525 e pubblicate nel 1532.

La varietà di interessi di Machiavelli risulta sostenuta da due cardini fortemente unitari: il primo, di carattere storico-politico; il secondo, di carattere antropologico: La crisi italiana 1) sul piano storico, tutto il suo lavoro testimonia di una riflessione costante e puntuale sulla crisi e la decadenza che attanaglia l’Italia fra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento – «sanza capo, sanza ordine, battuta, spo-

Due elementi unificanti

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La fissità della natura umana

Rapporto con gli antichi e concetto di «imitazione»

La ciclicità della storia illumina la natura umana

«Riscontro» tra individuo e storia

Il ruolo della «fortuna»

gliata, lacera, corsa [depredata]», preda delle mire espansionistiche dei sovrani stranieri e della violenza dei loro eserciti; 2) d’altra parte, la sua riflessione sulla natura e sulla storia (così come il progetto di una scienza della politica) poggia su una specifica antropologia: a suo modo di vedere, la natura umana è caratterizzata da una sorta di fissità. Gli uomini – al pari del cielo, del Sole, degli elementi –, lungo i secoli e la storia, sono stati sempre «a uno medesimo modo». Essi hanno sempre la stessa natura, e non è dato loro di poterla mutare, come accade invece all’uomo «camaleonte» e signore del proprio destino delineato da Pico nell’Oratio (vedi Unità 1, p. 16 s.). È su questa base che si innesta anche il rapporto istituito da Machiavelli con l’antichità, in particolare con gli storici, attraverso il concetto di «imitazione». A suo modo di vedere, sono le «storie operate da e regni e republiche antique» che hanno la capacità di mostrare l’effettivo fondamento della natura umana. Esse vanno quindi lette e conosciute non per trarne il «piacere di udire quella varietà degli accidenti che in esse si contengono», ma per la lezione che da esse è possibile ricavare. Lo studio delle storie antiche ci introduce direttamente dentro la natura dell’uomo, consentendoci di seguire i processi – e individuare i meccanismi – di un’indole che genera con costanza gli stessi desideri, le stesse passioni, gli stessi comportamenti. Attraverso la lezione delle storie – e in modo particolare della storia di Roma – riusciamo a comprendere la politica, gli Stati e le forme attraverso cui essi nascono, si sviluppano, decadono e inevitabilmente muoiono. Le istituzioni politiche, infatti, sono destinate a perire, in quanto sottoposte, come tutte le cose del mondo, a un destino ciclico. Si tratta di un processo che è possibile, in forme diverse, bilanciare o rallentare (e su questo punto, insistendo sul valore terapeutico del ‘ritorno ai principi’ e della mediazione dei conflitti, Machiavelli scriverà pagine fra le più note e importanti dei Discorsi), ma non fermare. Il problema è allora quello di individuare quali siano i cicli della politica, presupponendo che gli uomini operino con successo solo nel momento in cui si stabilisce un «riscontro» (altro termine fondamentale in Machiavelli) fra natura e storia, fra le caratteristiche del singolo individuo e il tempo storico in cui egli agisce. Cerchiamo di chiarire meglio questo punto fondamentale: ogni uomo, secondo Machiavelli, ha avuto dalla natura un carattere diverso dagli altri; ed è a partire da questo carattere, dalle sue qualità che egli si misura con il proprio tempo. Ma, mentre la natura di ognuno resta la medesima, il tempo muta, e con il tempo cambiano le situazioni storiche specifiche con cui l’uomo è chiamato a misurarsi. È dal «riscontro» con il tempo che dipende il successo o l’insuccesso di ogni azione umana. Se oggi un uomo può aver «fortuna», perché c’è corrispondenza e simmetria fra la sua natura e il tempo in cui egli vive e agisce, quello stesso uomo, in una situazione differente, è condannato allo scacco, perché non è in grado di assecondare il velocissimo mutare del tempo, elaborando una strategia alternativa.

N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio

E che noi non ci possiamo mutare, ne sono cagioni due cose: l’una, che noi non ci possiamo opporre a quello che c’inclina la natura; l’altra che, avendo uno con uno modo di procedere prosperato assai, non è possibile persuadergli che possa fare bene a procedere altrimenti; donde ne nasce che in uno uomo la fortuna varia, perché ella varia i tempi ed elli non varia i modi.

La fortuna e le repubbliche

È questa la radice del rapporto che l’uomo istituisce con la fortuna, con gli elementi che non è possibile prevedere. E se l’asimmetria fra la velocità del tempo e la len-

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La fortuna varia con il tempo

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tezza della natura umana conduce alla sconfitta l’individuo, nella possibilità di poter disporre di «diversi cittadini e diversi umori» riposa, per converso, la forza di una repubblica rispetto a un principato, secondo quanto leggiamo nei Discorsi: «Quinci nasce che una republica ha maggiore vita e ha più lungamente buona fortuna che uno principato, perché la può meglio accomodarsi alla diversità de’ tempi, per la diversità de cittadini che sono in quella, che non può uno principe». La passione politica Tuttavia, queste posizioni non devono essere interpretate come testimonianza di un atteggiamento radicalmente negativo nei confronti della realtà e di ogni sforzo inteso a modificarla. In Machiavelli, è stato sottolineato anche di recente, accanto al disincanto, c’è un elemento di insopprimibile passione politica. E ne è testimone il Principe in cui si pone il problema di come, in una situazione eccezionale, si possa conservare lo Stato, a costo di sacrificare la propria integrità morale.

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Verità effettuale della politica N. Machiavelli, Il principe

Sendo l’intento mio scrivere cosa utile a chi la intende, mi è parso più conveniente andare drieto alla verità effettuale della cosa che alla immaginazione di essa. E molti si sono immaginati republiche e principati, che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero, perché egli è tanto discosto da come si vive a come si doverrebbe vivere, che colui che lascia quello che si fa per quello che si doverrebbe fare, impara più tosto la ruina che la preservazione sua, perché uno omo che voglia fare in tutte le parte professione di buono conviene ruini fra tanti che non sono buoni. Onde è necessario a uno principe, volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono e usarlo e non usarlo secondo la necessità.

Nel Principe Machiavelli si concentra quindi sulla capacità di alcuni uomini di contrastare e frenare la fortuna. Questo obiettivo estremo e perfino innaturale può essere perseguito attraverso una «virtù» che, rinunciando a ogni connotazione tradizionale, si configura come consapevolezza storica, lucida razionalità e come sforzo di prevedere o assecondare tempestivamente il mutare delle circostanze, «acciò che, quando si muta la fortuna, lo truovi parato a resisterle». La religione Ma, come «virtù» e «fortuna», anche «forza» e «consenso» svolgono ruoli fra locome «vincolo» ro complementari. Senza il consenso, la forza delle armi, utile al momento della fondazione dello Stato, si rivela nel lungo periodo insufficiente. Machiavelli individua così nel concetto di «vincolo» il principio del consenso necessario per stabilire su basi solide una civiltà. Questo ruolo nei Discorsi è attribuito alla religione. Convinto che senza religione non possa darsi civiltà, Machiavelli ritiene che presso gli antichi romani la religione pagana abbia assolto una fondamentale funzione politica, mentre, al contrario, il cristianesimo ha indebolito le virtù civili.

La «virtù» del principe

Machiavelli

La filosofia politica di Machiavelli

Principi della teoria politica – Teoria della fissità della natura umana – Valore esemplare della riflessione dei classici, soprattutto degli storici («imitazione») – Teoria della ciclicità della storia – Concetto di «riscontro» tra individuo e storia – Ruolo della «fortuna» nelle vicende politiche individuali e collettive – Superiorità delle repubbliche perché governate da una maggior varietà di individui Analisi della crisi italiana e proposte di soluzione – Situazione di decadenza dell’Italia tra fine Quattrocento e inizio Cinquecento – Necessità di un «principe» in grado di unificare lo Stato italiano – Le virtù necessarie al principe: capacità di sfruttare la «fortuna», forza, consenso ecc. – Capacità di sfruttare il «vincolo» religioso per ricavarne consenso

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2 Differenze tra Machiavelli e Guicciardini

La politica fra «discrezione» e analisi del «particulare»: Guicciardini L’incontro con gli scritti di Machiavelli è essenziale agli sviluppi e all’approfondimento della riflessione di Francesco Guicciardini. Sul rapporto, e sulle divergenze, fra i due grandi storici fiorentini gli studiosi hanno molto insistito, prendendo in esame in modo particolare le differenze fra i due autori sui seguenti punti: i caratteri della natura umana; il nesso fra «tempo», «occasione» e «fortuna»; le leggi che presiedono alla fondazione e alla decadenza degli Stati; il modello e il meccanismo istituzionale dello Stato migliore, del «buon governo».

La vita e le opere Francesco Guicciardini nacque a Firenze nel 1483, da un’antica e nobile famiglia. Dopo gli studi di giurisprudenza a Ferrara, a Padova e a Pisa, si dedicò alla professione di avvocato, ma anche a una parallela carriera diplomatica e politica svolta per conto dei Medici, che gli affidarono vari e significativi incarichi ufficiali. La sua riflessione storiografica prese avvio tra il 1508 e il 1511, con la composizione delle Storie fiorentine, rimaste incompiute e, come tutti gli altri scritti di Guicciardini, inedite finché egli visse. Dopo essere stato nominato governatore di Modena (1516), di Reggio Emilia (1517) e di Parma, nel 1521 papa Leone X lo nominò commissario generale dell’esercito pontificio e nel 1524 il nuovo papa Clemente VII lo designò come presidente della Romagna. I drammatici eventi del 1527 – il saccheggio di Roma da parte dei lanzichenecchi di Carlo V e la cacciata dei Medici da Firenze – segnarono per lui

Un’etica fondata sull’analisi della natura umana

Una saggezza lucida e disincantata

Gli uomini sono al buio «delle cose»

Una visione pessimistica dell’uomo

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una profonda sconfitta politica e personale. A questo periodo di distacco dalla vita pubblica risalgono le Considerazioni intorno ai Discorsi di Machiavelli sulla prima deca di Tito Livio e la redazione definitiva dei Ricordi (1530), una raccolta di pensieri, massime, aforismi, di straordinario disincanto e modernità, che può essere considerata il codice dell’uomo «savio», fondato sulla conoscenza dei meccanismi e delle ambiguità della politica, ma anche della varietà della natura umana. Dopo un periodo trascorso a Roma, nel 1530, alla caduta della Repubblica, tornò a Firenze, dove sostenne il nuovo duca Alessandro de’ Medici. Messo bruscamente da parte dal suo successore, il granduca Cosimo, trascorse gli ultimi anni di vita dedicandosi, a partire dal 1537, alla composizione della Storia d’Italia: una grande opera, divisa in venti libri, che prende le mosse dalla morte di Lorenzo il Magnifico per arrivare a quella di Clemente VII. Morì a Firenze nel 1540.

Non meno di Machiavelli, Guicciardini ha consegnato alle sue opere storiche giudizi di straordinaria lucidità sugli eventi politici italiani. Ma, accanto all’impegno storiografico e all’analisi di temi politici, egli svolge una riflessione etica fondata su un’indagine sottile delle caratteristiche essenziali della natura umana, affidandola soprattutto alle pagine amare e disincantate dei Ricordi. I Ricordi non sono né un diario, né un’autobiografia, né una raccolta di memorie. Privilegiando una scrittura breve, frammentaria, quasi aforistica, Guicciardini consegna piuttosto a queste pagine una serie di riflessioni e precetti, che insistono su singoli spunti, ricercandone però un senso complessivo, una direttiva di vita ispirata a una saggezza lucida e disillusa, nella forte consapevolezza della fragilità della ragione e della labilità e mutevolezza delle «cose del mondo». Elaborata attraverso redazioni successive e in un lungo arco di tempo, la raccolta si confronta, da un lato, con la storia; dall’altro, con i rapporti familiari e sociali, fino a toccare i grandi temi della vita, della morte, della fede, pur rinunciando a ogni assunto di carattere metafisico: «E filosofi e e’ teologi e tutti gli altri che scrutano le cose sopra natura o che non si veggono, dicono mille pazzie: perché in effetto gli uomini sono al buio delle cose, e questa indagazione ha servito e serve più a essercitare gli ingegni che a trovare la verità». Sui suoi simili Guicciardini getta uno sguardo assai aspro e pessimistico: gli uomini sono per la maggior parte fragili, «poco buoni», «poco prudenti», senza fe-

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de e non riescono mai ad approdare alla saggezza, nemmeno alla fine della vita. Pur di soddisfare il suo perenne desiderio di gratificazione e di potere, l’uomo combatte, giorno dopo giorno, una vera e propria battaglia con i suoi simili, nella quale i confini tra verità e menzogna si attenuano fino a scomparire. Ma c’è un limite, un elemento irrazionale e imprevedibile che sfugge all’incalzare di simulazioni e di inganni propri della vita umana: ed è la fortuna.

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Il potere della fortuna

F. Guicciardini, Ricordi

Chi considera bene, non può negare che nelle cose umane la fortuna ha grandissima potestà, perché si vede che a ognora ricevono grandissimi moti da accidenti fortuiti, e che non è in potestà degli uomini né a prevedergli né a schifargli: e benché lo accorgimento e sollicitudine degli uomini possa moderare molte cose, nondimeno sola non basta, ma gli bisogna ancora la buona fortuna.

A proposito della complessità degli eventi che dipendono dalla fortuna, Guicciardini – distaccandosi dal modello normativo ed esemplare del mondo classico proposto da Machiavelli – insiste nel sottolineare i tratti specifici, irripetibili di ogni situazione. A partire da questi presupposti, Guicciardini indica al politico che voglia governare con successo la via di un realismo consapevole, vigile e talora spregiudicato. Al di fuori di ogni astrattezza e di ogni generalizzazione, il politico deve sapersi muovere usando l’arma decisiva della «discrezione». Discrezione e prudenza Quello di «discrezione» è un concetto fondamentale nel pensiero di Guicciardini, e indica proprio quelle doti di perspicacia, acume, capacità di analisi dettagliata delle circostanze che possono aiutare l’uomo «savio» a muoversi con «prudenza» nella complessità della vita pratica, valutando e risolvendo le singole situazioni. Ogni situazione è irripetibile

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È grande errore parlare delle cose del mondo indistintamente e assolutamente e, per dire così, per regola; perché quasi tutte hanno distinzione e eccezione per la varietà delle circunstanze, le quali non si possono fermare con una medesima misura: e queste distinzione e eccezione non si truovano scritte in su’ libri, ma bisogni le insegni la discrezione.

L’importanza degli interessi personali

Cercare nei libri regole efficaci di comportamento, irrigidire l’esperienza del passato in un sistema chiuso di prescrizioni e direttive non aiuta perciò a comprendere un presente nel quale la politica si rivela sempre più come lo scontro di forze e interessi personali – «particulari», secondo il lessico di Guicciardini. A differenza di quanto ha fatto una intera tradizione storiografica – inaugurata nell’Ottocento dallo storico della letteratura Francesco De Sanctis –, l’insegnamento di Guicciardini non può tuttavia essere tradotto in una professione di opportunismo, riducendolo alla pura ricerca e salvaguardia del proprio «particulare», del proprio interesse. Al contrario, la testimonianza di Guicciardini va interpretata come resoconto di una terribile disillusione storica e di una dolorosa esperienza personale, che cercano di tradursi e condensarsi nei precetti di una difficile, non banale moralità.

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Quegli uomini conducono bene le cose loro in questo mondo, che hanno sempre innanzi agli occhi lo interesse proprio, e tutte le azioni sue misurano con questo fine. Ma la fallacia è in quegli che non conoscono bene quale sia lo interesse suo, cioè che reputano che sempre consista in qualche commodo pecuniario più che nell’onore, nel sapere mantenersi la riputazione e el buono nome.

L’arte della discrezione F. Guicciardini, Ricordi

Complessità della nozione di interesse proprio F. Guicciardini, Ricordi

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Parte prima La nascita della filosofia moderna I principi della morale di Guicciardini Guicciardini

Pessimismo sulla natura umana: gli uomini sono per la maggior parte fragili, poco prudenti, ignorano la verità delle cose, sono senza fede e non raggiungono mai la saggezza

Ruolo determinante della fortuna nel destino degli uomini e irripetibilità di ogni situazione

«Discrezione » e «prudenza» sono le massime virtù dell’uomo

Importanza della capacità di perseguire il «particulare», ossia il proprio interesse: onore, reputazione, buon nome

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Il reale e l’immaginario: le ‘città ideali’ di Moro e Campanella

Il recupero della cultura classica e la spinta verso l’«imitazione» durante l’età umanistica e rinascimentale non sono limitati alla letteratura, alla filosofia, alla storia e alla riflessione politica, ma coinvolgono anche il mondo dell’arte: pittura, scultura, architettura e urbanistica. Di questo sguardo al passato fa parte anche il tema della ‘città ideale’, che trova una duplice incarnazione sia sul piano dell’immaginario che su quello reale. Moro e l’isola Analogamente, accanto al realismo politico, impegnato a studiare scientificache non c’è mente i processi che sono alla base di nuove strutture di governo e nuovi rapporti di potere, nel Rinascimento gli intellettuali individuano anche un diverso modo di confrontarsi con l’attualità politica, i problemi che pone, le disuguaglianze e le sofferenze che genera. Se tuttora definiamo «utopia» ogni costruzione e proposta di assetti, valori, modelli normativi astratti, lo dobbiamo a un neologismo (dall’unione delle parole greche ou, «non», e tòpos, «luogo») coniato da Tommaso Moro: Utopia è l’isola che non si trova in nessun luogo. L’operetta che reca questo titolo – e che inaugura, insieme, un nuovo modo di pensare la politica e un fortunato genere letterario – viene pubblicata nel 1516.

Il tema della ‘città ideale’

La vita e le opere Thomas More (latinizzato in Tommaso Moro) nacque a Londra nel 1477. Dopo aver studiato latino, greco e filosofia a Oxford, si dedicò agli studi giuridici. Percorse poi una brillante carriera politica durante il regno di Enrico VIII, fino a diventare gran cancelliere del regno. Nonostante gli obblighi connessi al suo ruolo, non smise di coltivare gli studi umanistici e l’amicizia con Erasmo, grazie al quale pubblicò, a Lovanio, nel 1516, la sua opera maggiore, Utopia. Nel 1534 rifiutò di sottoscrivere l’Atto di Le due parti dell’opera di Moro

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supremazia, che sanciva lo scisma anglicano dalla Chiesa di Roma. Accusato per questo di alto tradimento, venne incarcerato nella torre di Londra e condannato alla decapitazione: salì sul patibolo nel luglio 1535. La sua vasta produzione letteraria è fortemente segnata dall’attenzione per la dimensione religiosa e spirituale, e spazia da pagine di ispirazione mistica alla traduzione della Vita di Giovanni Pico scritta dal nipote – il savonaroliano Giovan Francesco –, alla confutazione delle tesi di Lutero e di altri riformatori.

Nella prima parte di Utopia, Raffaele Itlodeo, un navigatore che ha visitato il paese di Utopia, parla con Moro della situazione politica inglese, criticando le ingiustizie prodotte – soprattutto nei confronti dei contadini – dalle nuove di-

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L’organizzazione politica di Utopia

La proposta politica di Campanella

L’organizzazione politica della Città del Sole

L’abolizione della proprietà e della famiglia

Un sapere immediatamente fruibile ➥ Sommario, p. 66

namiche economiche e sociali in atto nel Paese e dalla sete di profitto dei proprietari terrieri. Nella seconda parte il viaggiatore presenta, come modello alternativo e paradigma per una riforma dei mali del presente, la descrizione di un’isola immaginaria, organizzata socialmente secondo moduli assai diversi da quelli consueti – tipici di una società in crisi, ormai dimentica dei veri valori cristiani. La repubblica di Utopia vive nella pace, nell’abbondanza, nella giustizia sociale, perché il suo illuminato fondatore Utopo l’ha voluta libera da ogni forma di proprietà privata, prima causa della violenza e dell’ingiustizia. Soppresso è anche l’uso del denaro, e il lavoro è un dovere sociale per tutti. Le leggi sono poche e di immediata comprensione. Le cariche politiche sono elettive e a rotazione (fatta eccezione per il principe, eletto a vita) e le tentazioni tiranniche punite severamente. I rapporti con gli altri popoli risultano assolutamente pacifici, in quanto fondati sulla razionalità e sul legame naturale di fratellanza tra gli uomini. Non esiste una religione di Stato, ma tutti gli Utopiani convengono sulla fede in una divinità creatrice e provvidenziale; sull’immortalità dell’anima; sull’esistenza di premi e castighi eterni; sulla contemplazione della natura come forma di preghiera. In un contesto di estrema libertà e tolleranza religiosa, solo l’ateismo viene punito con l’emarginazione sociale e la privazione dei diritti. Nell’Italia della Controriforma, ispirandosi anche all’utopia politica di Moro, Campanella affida la sua proposta di rinnovamento civile alla sua opera certo più famosa, la Città del Sole, composta in carcere nel 1602 e pubblicata, in traduzione latina, nel 1623. Nella forma di un dialogo fra un marinaio genovese e un cavaliere di Malta, Campanella contrappone all’ingiustizia, all’infelicità, alla «follia» del suo tempo una società ideale, in quanto espressione della ragione dell’uomo e risultato di un rapporto armonico con la natura. L’organizzazione dello Stato riprende così la struttura metafisica dell’universo: i Solari vivono in una repubblica retta da un sacerdote-filosofo, il Metafisico, e da tre magistrati – Pon, Sin e Mor –, che simboleggiano le tre primalità dell’essere teorizzate nella Metafisica (vedi p. 43), e sovrintendono rispettivamente alle armi, al progresso del sapere e allo sviluppo demografico. La città è felice, in quanto costituisce un vero e proprio organismo, un «corpo di repubblica», in cui le singole membra, molteplici e diversificate per funzioni, si integrano e si coordinano in funzione del bene comune. In tale società il lavoro viene distribuito equamente, rispettando le inclinazioni naturali, e per i Solari – a differenza che nella prospettiva politica aristotelica – le attività manuali non sono considerate inferiori o vili. Essi conducono una vita «alla filosofica in comune», nella quale, per impedire lo scatenarsi degli egoismi e dei particolarismi e favorire il senso della collettività, sono abolite ogni forma di possesso e ogni struttura familiare. La stessa generazione dei figli, in vista dell’interesse collettivo, è retta da ritmi astrologici e norme eugenetiche; i bambini, che non conoscono i propri genitori, vivono in locali comuni e sono educati a cura dello Stato. Sul piano del sapere, le sette cerchia di mura della città non si limitano semplicemente a difendere i suoi abitanti, ma svolgono anche una funzione didattica e formativa, in quanto costituiscono le pagine di una vera e propria enciclopedia. Fin da piccolissimi i bambini possono percorrerne le pareti – istoriate con le immagini di tutte le arti e le scienze –, imparando rapidamente e senza sforzo. 63

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Luoghi e autori della filosofia del Rinascimento Luoghi in cui risiede Bruno nel suo periodo in Germania

Vi nasce e muore Moro Vi nasce Cusano

Vi soggiorna Bruno

Pico vi si reca per studiare ed è qui imprigionato nel 1486. Vi muore Campanella. Vi soggiorna per pochi anni Bruno

Vi nasce Erasmo

Oxford

Londra

Helmstädt

Rotterdam

Wittenberg Marburg

Cues

Vi muore Erasmo

Francoforte Praga

Parigi

Vi è imprigionato e processato Bruno

Basilea

Vi nasce e muore Montaigne Montaigne

Vi nasce Pomponazzi Vi nasce Pico

Centro dell’aristotelismo rinascimentale

Venezia Padova Mantova Mirandola e Bologna Figline Concordia Firenze Valdarno Todi

Vi nasce Ficino

Vi muore Pomponazzi Roma

Nola Napoli

Vi nasce Bruno

Cosenza

Sede dell’Accademia platonica. Vi muoiono Ficino e Pico. Centro della vita e dell’attività politica e diplomatica di Machiavelli e Guicciardini

Qui Bruno viene arso sul rogo Vi muore Cusano

Stilo

Vi nasce e muore Telesio Vi nasce Campanella

Campanella vi trascorre in carcere ventisette anni

Suggerimenti bibliografici Momenti, caratteri, protagonisti della cultura filosofica umanistico-rinascimentale sono illustrati analiticamente in Le filosofie del Rinascimento, a cura di C. Vasoli, B. Mondadori, Milano 2002. Fondamentali anche i lavori di E. Garin, fra i quali ricordiamo: Medioevo e Rinascimento. Studi e ricerche, Laterza, Roma-Bari 19612; La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Sansoni, Firenze 19792; Il ritorno dei filosofi antichi, Bibliopolis, Napoli 19942. Su magia, astrologia, ermetismo: A. Warburg, La rinascita del paganesimo antico, a cura di G. Bing, La Nuova Italia, Firenze 1966; F. Saxl, La fede negli astri. Dall’antichità al Rinascimento, a cura di S. Settis, Bollati Boringhieri, Torino 1985; E. Garin, Lo zodiaco della vita. La polemica sull’astrologia dal Trecento al Cinquecento, Laterza, Roma-Bari 1976, 1996; E. Garin, Ermetismo del Rinascimento, Editori Riuniti, Roma 1988, ripr. anast., Edizioni della Normale, Pisa 2006; D.P. Walker, Magia spirituale e magia demonica da Ficino a Campanella, trad. it., Aragno, Torino 2002 (edizione originale Londra 1958).

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento Una biografia classica di Erasmo è quella di R.H. Bainton, Erasmo della cristianità, Sansoni, Firenze 1970, 1989 (edizione originale Londra 1969). Per la fortuna italiana, vedi S. Seidel Menchi, Erasmo in Italia 1520-1580, Bollati Boringhieri, Torino 1987, 1990. Su Montaigne vedi R. Ragghianti, Introduzione a Montaigne, Laterza, Roma-Bari 2001. Su Ficino vedi P.O. Kristeller, Il pensiero filosofico di Marsilio Ficino, Le Lettere, Firenze 19882 (edizione originale New York 1953); C. Vasoli, Quasi sit Deus. Studi su Marsilio Ficino, Conte, Lecce 1999. Per Telesio si può consultare R. Bondì, Introduzione a Telesio, Laterza, Roma-Bari 1997. Per una presentazione complessiva del pensiero di Campanella vedi G. Ernst, Tommaso Campanella. Il libro e il corpo della natura, Laterza, Roma-Bari 2002. Per conoscere meglio G. Bruno si può partire da M. Ciliberto, Introduzione a Giordano Bruno, Laterza, Bari 2003; oppure da Id., Giordano Bruno. Il teatro della vita, Mondadori, Milano 2007. Assai interessante è anche la lettura degli atti del processo inquisitoriale subito dal filosofo: L. Firpo, Il processo di Giordano Bruno, a cura di D. Quaglioni, Salerno, Roma 1993.

I testi antologizzati sono tratti da: G. Pico della Mirandola, De hominis dignitate, Heptaplus, De ente et uno e scritti vari, a cura di E. Garin, Vallecchi, Firenze 1942, ripr. anast., Aragno, Torino 2004. E. da Rotterdam, Elogio della follia, a cura di E. Garin, Mondadori, Milano 1992. M. de Montaigne, Saggi, a cura di F. Garavini, Adelphi, Milano 1996, voll. 1-2. N. Cusano, La dotta ignoranza, a cura di G. Federici Vescovini, Città Nuova, Roma 1998. Alla traduzione sono state apportate alcune modifiche. N. Cusano, De coniecturis, 1,3, in Grande antologia filosofica, Marzorati, Milano 1964, vol. 6. G. Bruno, De la causa, principio et uno, in Id., Dialoghi filosofici italiani, a cura e con un saggio introduttivo di M. Ciliberto, Mondadori, Milano 2000. G. Bruno, Cena de le Ceneri, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit. G. Bruno, Spaccio de la bestia trionfante, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit. G. Bruno, Eroici furori, in Id., Dialoghi filosofici italiani, cit. N. Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, introduzione di G. Sasso, note di G. Inglese, BUR, Milano 1996. N. Machiavelli, Il principe, a cura di M. Martelli, corredo filologico a cura di N. Marcelli, Salerno, Roma 2006. F. Guicciardini, Ricordi, a cura di G. Masi, Mursia, Milano 1994. Il brano di A. Prosperi citato a p. 24 è tratto da A. Prosperi, Introduzione a Erasmo da Rotterdam, Colloquia, a cura di C. Asso, Einaudi, Torino 2002. Il brano di E. Garin citato a p. 45 è tratto da E. Garin, Il filosofo e il mago, in L’uomo del Rinascimento, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1988.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Sommario 1. I

CARATTERI DELL’UMANESIMO

L’età dell’Umanesimo e del Rinascimento è caratterizzata dalla riscoperta, dallo studio filologico e dalla rielaborazione dei classici. La cultura umanistica si incarna in nuove figure intellettuali legate ai ceti cittadini emergenti e determina il rinnovamento delle università e la nascita di nuovi centri della vita culturale. [parr. 1 e 2] Inizialmente incontriamo un «umanesimo civile» la cui massima espressione è la nozione di dignità dell’uomo di Pico della Mirandola. [par. 3] 2. DALL’ITALIA

ALL’EUROPA: DIFFUSIONE

DELL’UMANESIMO E RIFORMA RELIGIOSA

L’Umanesimo diventa ben presto un fenomeno europeo, una società internazionale di dotti in continuo contatto reciproco. Erasmo da Rotterdam è il filosofo che più di ogni altro lo incarna attraverso la critica della «follia» negativa del cristianesimo contemporaneo e la proposta di un rinnovamento religioso e culturale. [par. 1] L’ansia di rinnovamento religioso è presente anche nella Riforma, il cui primo esponente è Martin Lutero, le cui tesi principali sono la giustificazione per fede, la centralità della teologia della Croce, il rapporto diretto con la Scrittura, il rifiuto della mediazione della Chiesa. La Chiesa cattolica reagisce con un movimento di Controriforma. [par. 2] La riflessione umanistico-rinascimentale sulla frattura morale e religiosa europea trova espressione nell’analisi delle diverse concezioni morali di Montaigne, in cui hanno un ruolo importante il concetto di barbarie, il rifiuto dell’antropocentrismo e il tema dell’inafferrabilità dell’io, per mostrare la varietà dei costumi, i limiti della conoscenza, il carattere relativo della morale. [par. 3] 3. IL

NUOVO PLATONISMO DEL

RINASCIMENTO

Il recupero del platonismo assume varie sfumature: in Ficino si orienta in senso neoplatonico e antiaristotelico, saldandosi con la tradizione ermetica, e difende una pia philosophia in cui Platone viene letto come teologo ‘precristiano’ e hanno un ruolo importante l’immagine dell’uomo come microcosmo, la teoria della salvezza, e la valorizzazione della magia naturale. [parr. 1 e 2] Pico si impegna in una vasta opera di mediazione culturale cercando di realizzare la concordia tra tutte le religioni. [par. 3] Cusano, attraverso la riflessione gnoseologica sul rapporto Uno-molti e sui limiti della conoscenza umana, enuncia la nozione di dotta ignoranza: di Dio si danno solo definizioni negative, ma si possono utilizzare concetti matematici e geometrici per esprimere il suo rapporto con l’universo. [par. 4] 4. LA

FILOSOFIA DELLA NATURA FRA MAGIA E SCIENZA

Al rinnovamento della filosofia della natura appartengono l’aristotelismo di Pomponazzi con la tesi dell’in-

66

dimostrabilità dell’immortalità dell’anima, la separazione tra filosofia e teologia e la negazione della magia; e il naturalismo antiaristotelico di Telesio che spiega i fenomeni naturali con l’azione di due principi, uno attivo e uno passivo, sulla materia, affermando che la natura è animata. Egli espone anche una teoria della conoscenza sensista e un’etica fondata sul piacere. [parr. 1 e 2]

La teoria sensista della conoscenza e quella dell’animazione universale sono fatte proprie anche da Campanella che elabora un sistema metafisico, per impulso del quale tutti gli enti agiscono in base a tre primalità, o principi: poter essere, saper essere e voler essere. Il sistema è il presupposto di una riforma religiosa e politica. [par. 3] Intanto la magia, come forma di conoscenza vera, prassi e capacità di dominio sulla natura, è un presupposto della nascita della scienza. [par. 4] 5. L’UOMO

NELL’INFINITO:

BRUNO

Bruno in cosmologia sostiene il copernicanesimo, aggiungendovi l’affermazione dell’infinità dello spazio e dei mondi e la negazione di ogni gerarchia interna. Anche sul piano ontologico egli afferma l’esistenza di una sostanza infinita, eterna, animata, in perenne mutamento sulla base del principio della vicissitudine, identica a Dio, che però mantiene un margine di trascendenza rispetto ad essa. [parr. 1 e 2] L’etica di Bruno è un umanesimo radicale, in cui l’uomo diviene artefice di un rinnovamento morale, fondato sull’azione e sulla contemplazione intellettuale dell’infinito e dell’unità del reale, la cui massima espressione è il furore eroico. [par. 3] Il rinnovamento deve però estendersi alla società, alla politica e alla religione attraverso una «buona magia» come apertura e comprensione dell’altro. [par. 4] 6. LA

RIFLESSIONE POLITICA

Un ultimo aspetto della filosofia umanistico-rinascimentale è la riflessione politica sullo Stato. Machiavelli elabora un’analisi della natura umana incentrata sulla nozione di riscontro tra individuo e storia e sul ruolo della fortuna, e un esame disincantato della crisi italiana. [par. 1] Sull’analisi della natura umana è incentrata anche la riflessione morale di Guicciardini, che vede come massima virtù la discrezione, ossia un comportamento prudente e adatto alla situazione. [par. 2] Oltre al realismo, il pensiero politico si arricchisce anche di importanti contributi nella costruzione di modelli astratti di Stato: l’utopia politica di Moro e di Campanella offre all’immaginario culturale dei contemporanei importante materiale di riflessione. [par. 3]

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Unità 1 Umanesimo e Rinascimento

Parole chiave Barbarie. In Montaigne termine con cui ogni società definisce quello che si discosta dai propri costumi e consuetudini. Attraverso l’analisi di questo concetto egli esprime la sua concezione della storicità della morale. Dignità dell’uomo. Concetto con cui Pico indica la collocazione privilegiata dell’uomo che consiste nella sua libertà di essere artefice di se stesso. Discrezione. Nella riflessione morale di Guicciardini indica la suprema virtù dell’uomo, la sua capacità di comprendere, analizzare e decidere una linea di azione prudente, consapevole e adatta alle circostanze. Dotta ignoranza. In Cusano, definizione paradossale della doppia natura della conoscenza umana: il suo carattere inadeguato e la consapevolezza dei propri limiti. Follia. Soggetto dell’opera più importante di Erasmo: in essa egli distingue una follia negativa (il mondo cristiano contemporaneo) da abbandonare, e una follia positiva (il ritorno alle radici cristiane, l’imitazione di Cristo ecc.) da perseguire per ritrovare Dio. Furore eroico. Nel pensiero di Bruno l’esperienza razionale che permette all’uomo, attraverso un affinamento interiore, di contemplare l’unità del reale e la relazione tra finito e infinito. Giustificazione. Concetto teologico che esprime l’azione attraverso cui Dio redime l’uomo dal peccato originale. Correlato all’attributo divino della giustizia è interpretato in maniera diversa: nel cattolicesimo viene dato rilievo alle opere, mentre nel pensiero riformato il contributo umano è limitato alla fede ed è determinante il giudizio imperscrutabile (predestinazione) di Dio. Magia. Dal greco maghèia, «dottrina dei Magi persiani (sacerdoti astrologi)»; la capacità di dominare e manipolare la realtà attraverso pratiche spirituali, mentali e rituali. Nel pensiero rinascimentale Ficino, Pico, Campanella, Bruno la considerano una forma di conoscenza vera, mentre Pomponazzi le nega veridicità. Microcosmo. Termine greco composto da mikròs, «piccolo», e kòsmos, «mondo», che indica l’uomo attraverso un’analogia strutturale tra esso e il mondo nel suo complesso (il «macrocosmo», da makròs, «grande»). Utilizzata da molti filosofi antichi, passata poi nel sapere medico, nel neoplatonismo, nella gnosi e nella cabbala, e infine ai filosofi rinascimentali tra cui Ficino, Cusano, Bruno, questa analogia applica al cosmo concetti antropomorfi (anima, simpatia, fine ecc.) e viceversa ipotizza intime corrispondenze

tra parti del cosmo e parti del corpo umano (per esempio la corrispondenza tra i quattro elementi e gli umori corporei). Pia philosophia. Concezione che Ficino deriva dalla tradizione ermetico-platonica: esiste una sapienza originaria e antichissima, proveniente da Dio e rivelata da Ermete Trismegisto, in cui convergono verità filosofiche e teologiche (filosofia della natura, immortalità dell’anima, teoria della salvezza ecc.) che raggiungono la propria perfezione nel pensiero cristiano. Primalità. Nell’ontologia di Campanella i tre principi originari dell’essere, poter essere, saper essere e voler essere, che determinano l’agire di Dio e delle creature. Nel primo si esplicano in forma piena e perfetta, mentre nelle seconde la loro manifestazione incontra tre principi negativi: impotenza, ignoranza e odio. Rinascimento. Categoria storiografica che indica il periodo di rinascita letteraria e artistica compreso tra la seconda metà del Quattrocento e la seconda metà del Cinquecento; in filosofia comprende i nuovi platonismi, forme di naturalismo, i sistemi di Campanella e Bruno e il pensiero politico di Machiavelli. Riscontro. Termine della filosofia politica di Machiavelli che indica il rapporto tra indole e caratteristiche dell’individuo e realtà storica: se vi è corrispondenza tra questi due elementi, l’agire umano è destinato al successo («fortuna»), altrimenti al fallimento. Teologia della Croce. In Lutero indica la riflessione sulla figura di Cristo (cristologia) come rivelazione della misericordia divina: Cristo condivide il destino dell’uomo peccatore che culmina con l’esperienza della Croce, l’abbandono del Padre e la morte di Dio; proprio il simbolo dell’estrema sofferenza vissuta da Cristo per redimere gli uomini dal peccato, diviene però, secondo Lutero, il segno della misericordia del Padre. Umanesimo. Categoria storiografica che indica il periodo tra la seconda metà del Trecento e la fine del Quattrocento caratterizzato dallo studio dell’antichità, dalla riscoperta filologica dei testi classici e da una nuova concezione della centralità e della dignità dell’uomo. Utopia. Neologismo coniato da Moro (dal greco ou, «non», e tòpos, «luogo») per indicare il proprio modello politico immaginario e ideale; passato poi a definire ogni progetto politico, sociale, normativo astratto. Vicissitudine. In Bruno indica il principio che governa il mutamento perenne della sostanza infinita (materia) da cui si originano tutti gli enti finiti, le loro trasformazioni e il succedersi dei cicli storici. 67

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Questionario I

CARATTERI DELL’UMANESIMO

1

16

Qual è il ruolo della filologia all’interno dell’Umanesimo? (max 2 righe) LA

DALL’ITALIA

ALL’EUROPA: DIFFUSIONE DELL’UMANESIMO

RIFLESSIONE POLITICA

17

Qual è il ruolo della storia antica nella riflessione di Machiavelli? (max 2 righe)

Chiarisci in un massimo di 4 righe perché la riflessione di Erasmo può essere definita «filosofia cristiana».

18

Che rapporto esiste tra la discrezione e l’interesse proprio nella riflessione morale di Guicciardini? (max 3 righe)

Spiega in un massimo di 6 righe il significato delle seguenti espressioni che riassumono le tesi di Lutero: sola gratia, sola fide, sola Scriptura.

19

Qual è l’organizzazione della Città del Sole di Campanella? (max 8 righe)

E RIFORMA RELIGIOSA

2

3

4

IL

Come mai secondo Montaigne l’analisi interiore ha valore universale? (max 2 righe)

NUOVO PLATONISMO DEL

5

6

7

8

LA

RINASCIMENTO

Lavoriamo sui testi 20

Che cosa sono gli opuscoli ermetici e qual è il loro legame con la tradizione cristiana? (max 4 righe)

Quali sono gli unici attributi di Adamo secondo Pico in T1? (max 2 righe)

21

Quali sono i temi essenziali della pia philosophia di Ficino? (max 8 righe)

Secondo Montaigne in T3, qual è la materia dei suoi Saggi? (max 3 righe)

22

Qual è il giudizio di Pico sull’aristotelismo? (max 1 riga)

Che cosa si è obbligata a fare la natura secondo Montaigne in T4? (max 2 righe)

23

Qual è il rapporto tra Dio e il mondo secondo Cusano? (max 6 righe)

Qual è il rapporto tra intelletto e verità secondo Cusano in T6? (max 3 righe)

24

Cosa significa che la mente umana è, secondo Cusano, «forma del mondo congetturale» in T7? (max 1 riga)

25

Che cosa potrebbe permettere alla natura umana di costituire «la pienezza di tutte le perfezioni dell’universo», secondo Cusano in T8? (max 1 riga)

FILOSOFIA DELLA NATURA FRA MAGIA E SCIENZA

9

Spiega in un massimo di 6 righe la teoria dei cicli storici di Bruno.

Qual è la concezione della morale di Pomponazzi? (max 4 righe)

10

Qual è il principio del movimento nella filosofia della natura di Telesio? (max 2 righe)

11

Qual è il legame tra teoria dell’essere e animazione universale nel sistema di Campanella? (max 3 righe)

26

Secondo Bruno in T9, l’uomo è in grado di cogliere l’unità dell’infinito in maniera privilegiata rispetto agli altri enti? (max 2 righe)

12

Quali sono le somiglianze e le differenze tra pensiero magico e pensiero scientifico? (max 4 righe)

27

Qual è la chiave che permette di comprendere la «ricoperta e velata natura», secondo Bruno in T10? (max 1 riga)

28

Qual è l’errore che porta alla rovina il principe secondo Machiavelli in T14? (max 2 righe)

L’UOMO

NELL’INFINITO:

BRUNO

13

Quali sono le critiche di Bruno a Copernico? (max 4 righe)

14

Qual è il rapporto tra materia e forma nell’ontologia di Bruno? (max 2 righe)

15

Esponi in un massimo di 3 righe il rapporto tra vicissitudine e metempsicosi nella filosofia di Bruno.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

1. Che cos’è la rivoluzione scientifica 2. La rivoluzione copernicana 1. Il moto della Terra 2. Il sistema tolemaico

2. Lo studio sperimentale e matematico dei moti

terreni 3. La teoria della conoscenza del Saggiatore 4. Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, la condanna, l’abiura

3. Il sistema copernicano 4. La disputa sul De revolutionibus

6. Bacone e il metodo scientifico 1. Gli errori della tradizione

3. Il compromesso di Tycho Brahe

2. La teoria degli «idoli» 3. Il metodo della scienza

4. Keplero: verso una moderna fisica dei cieli

4. La conoscenza delle forme 5. Scienza e tecnica

1. Il Mysterium cosmographicum 2. La «nuova astronomia» e le prime due leggi 3. L’«Armonia del mondo» e la terza legge 4. La fortuna di Keplero

5. Galileo e la nascita della scienza moderna 1. Il Sidereus Nuncius

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Galileo, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

1

Che cos’è la rivoluzione scientifica

Fra il Cinquecento e il Seicento avviene un cambiamento nel pensiero filosofico e scientifico europeo che è stato giudicato epocale e a proposito del quale gli storici della scienza si sono trovati d’accordo nel parlare di «rivoluzione scientifica». Tra la pubblicazione del De revolutionibus orbium caelestium di Copernico nel 1543 e la pubblicazione dei Philosophiae Naturalis Principia Mathematica di Newton nel 1687, si assiste non solo alla nascita della scienza moderna, ma anche a un mutamento radicale nell’immagine stessa della scienza e della figura ➥ Laboratorio sul lessico, del «filosofo naturale», cioè di colui che si occupa della conoscenza e del domiNatura / naturale, p. 131 nio del mondo naturale. I tratti caratteristici Attraverso i contributi di personaggi come Copernico, Tycho Brahe (1546-1601), della scienza moderna Keplero (1571-1630), Galileo e infine Isaac Newton (1642-1727), si verifica una vera e propria mutazione che porta all’immagine della scienza così descritta da Paolo Rossi: Una nuova immagine della scienza

Quella nuova immagine della scienza […] era l’atto di nascita di un nuovo tipo di sapere inteso come una costruzione perfettibile, che nasce dalla collaborazione degli ingegni, che necessita di un linguaggio specifico e rigoroso, che ha bisogno, per sopravvivere e crescere su se stesso, di proprie specifiche istituzioni: un tipo di sapere che tende a elaborare proposizioni «vere» e a formulare asserzioni «vere» intorno al mondo e che concepisce questa «verità» come qualcosa che va sottoposto alla prova degli esperimenti e al confronto con teorie alternative. Un tipo di sapere, ancora, che crede nella capacità di crescita della conoscenza, che non si fonda sul puro e semplice rifiuto delle teorie precedenti, ma sulla loro sostituzione con teorie più «larghe», che siano logicamente più «forti», che abbiano maggior potere esplicativo e predittivo, maggior contenuto di controllabilità. Una nuova figura dell’uomo di scienza

Cooperazione tra studiosi e moltiplicazione dei luoghi del sapere

70

Corrispondentemente, la figura dell’uomo di scienza diventa del tutto diversa da quella dell’antico sapiente. Colui che si occupa di scienza non è più solo il dotto detentore di un sapere indiscutibile, basato sull’autorità degli antichi e per pochi eletti, ma è invece il portatore di un sapere da sottoporre continuamente al giudizio dell’esperienza, da comunicare il più possibile e quindi formulare in un linguaggio comprensibile. La nuova scienza si costituisce come un’impresa comune, come un «sapere universale», dove più studiosi sono portati a collaborare e a interagire nello sforzo intersoggettivo di comprensione della natura. Il nuovo uomo di scienza può appartenere alle categorie più diverse e il nuovo processo culturale si svolge, in gran parte, al di fuori delle università e dei luoghi tradizionali del sapere. I protagonisti di questo processo sono infatti non solo insegnanti universitari, ma anche medici, viaggiatori, curiosi, farmacisti, o chiunque avesse una curiosità, anche dilettantesca, da far valere: a tutti è aperta l’appartenenza alle società scientifiche, senza che sia necessaria una caratteristica del dotto del tempo, la conoscenza del latino, o una cattedra universitaria.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica Nuove teorie e un nuovo mondo

Dall’ordine teleologico all’ordine causale

Relazioni causali e leggi matematiche

Primato della matematica

Oltre che a una nuova immagine della scienza e dell’uomo di scienza, le scoperte effettuate, le nuove teorie elaborate, i nuovi strumenti e metodi proposti in questo periodo rivoluzionario concorrono tutti all’affermarsi anche di una nuova immagine sia del mondo naturale sia della posizione che l’uomo assume in questo mondo. L’immagine tradizionale della natura era derivata dalla filosofia aristotelica, che era stata poi riletta in chiave cristiana nel Medioevo. La natura era concepita come ordinata da Dio in senso teleologico: ogni cosa era supposta avere un proprio fine a cui tendere, una propria causa finale, che ne indicava la propria natura essenziale. Con i risultati della nuova scienza questa immagine viene progressivamente messa in discussione: l’ordine della natura diventa, da teleologico, causale. Non è più tanto la causa finale lo strumento che consente di cogliere il funzionamento della natura quanto la causa efficiente: la struttura della natura è retta da relazioni di causa ed effetto, dove causa è l’evento il cui accadere comporta l’accadere dell’effetto. Come scrive Galileo, «quella […] si debba propriamente stimar causa, la qual, posta, segue sempre l’effetto, e rimossa si rimuove». Anche se non necessariamente indirizzata verso un fine, la natura, grazie a questo insieme di relazioni causali, conserva un proprio ordine. In essa possono essere rintracciate relazioni costanti che regolano il comportamento dei fenomeni. La natura è quindi retta da regole uniformi, che lo scienziato cerca di formulare in proposizioni di carattere generale, cioè in leggi, e possibilmente in linguaggio matematico. La matematica, che nell’antichità e nel Medioevo era considerata per lo più una costruzione intellettuale astratta, viene ora applicata allo studio della natura e diventa lo strumento principale che accompagna il sorgere della nuova scienza. Come aveva osservato già Leonardo da Vinci, che per alcuni aspetti può essere considerato un precursore della mentalità alla base della rivoluzione scientifica, «nessuna umana investigazione si può dimandare vera scienza, s’essa non passa per le matematiche dimostrazioni».

Finalismo e causalità

Obiettivo della scienza Principio d’ordine della natura

L’uomo e la Terra non sono più al centro del mondo

Contrasti con la filosofia del tempo e le Sacre Scritture

Fisica medievale

Fisica moderna

Risalire alla causa finale del fenomeno

Individuare la causa efficiente del fenomeno

Ordine teleologico derivato dalla creazione divina

Regolarità della natura

leggi matematiche

Alla concezione tradizionale del mondo corrispondeva una determinata immagine della posizione dell’uomo: ogni cosa era concepita in funzione dell’uomo. L’uomo era il centro della Terra e la Terra il centro dell’universo. L’organizzazione del mondo era posta da Dio in relazione all’uomo, aveva influenza sul suo carattere e sul suo destino. Con la nuova scienza, la Terra perde la sua posizione centrale nell’universo e la natura viene progressivamente spersonalizzata. Questi risultati si pongono in forte contrasto con gli assunti della filosofia del tempo e con le Sacre Scritture, da cui era derivata l’immagine tradizionale del mondo. Per affermare la nuova immagine, la scienza dovrà mettere in discussione queste autorità, rendersi autonoma dalle dottrine dei filosofi del passato e dal71

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

➥ Sommario, p. 119

la lettera delle Scritture: «i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta», dirà Galileo. Si tratta di un processo lungo e travagliato, di cui illustreremo qui di seguito le tappe più significative.

La posizione dell’uomo nel mondo nella concezione tradizionale

Dio

Mondo Terra Uomo Fine della creazione

La rivoluzione copernicana

2 I testi

N. Copernico De revolutionibus orbium caelestium libri sex: L’ipotesi del moto della Terra è coerente con i dati osservativi, T1;

Copernico avvia la rivoluzione scientifica

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Contro l’uso degli eccentrici, T2; Il Sole al centro, T3; Le ragioni di Copernico, T5 Commentariolus: Tesi principali della teoria di Copernico, T4

Il processo di cambiamento scientifico e concettuale chiamato «rivoluzione scientifica», che nell’arco di circa un secolo e mezzo porta sia alla nascita della scienza moderna sia a una nuova visione del mondo e della posizione dell’uomo al suo interno, ha ufficialmente inizio con la pubblicazione nel 1543 a Norimberga del De revolutionibus orbium caelestium dell’astronomo polacco Niccolò Copernico.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

La vita e le opere Niklas Koppernigk (italianizzato in Niccolò Copernico) nacque in Polonia, a Torun (Pomerania), il 19 febbraio 1473. Restò presto orfano di entrambi i genitori e venne adottato dallo zio materno, futuro vescovo dell’Ermia. Studiò all’università di Cracovia dove conobbe l’astronomia e se ne appassionò; pochi anni dopo venne in Italia e studiò a Bologna diritto civile e diritto canonico. Lo zio che lo mantenne agli studi venne nominato vescovo e per il nipote, pensando a una sua futura carriera ecclesiastica, riuscì a ottenere la nomina a canonico della cattedrale di Frauenburg. Copernico tuttavia continuò a studiare nelle università italiane, a Roma e, dal 1501, dopo una breve parentesi di servizio a Frauenburg, a Padova e a Ferrara, dove si laureò in diritto canonico. In Italia si confermò e si ravvivò comunque la sua passione per l’astronomia e Copernico fece le sue prime osservazioni del cielo. Terminato il periodo di studi intorno al 1504 tornò a Frauenburg, dove si stabilì definitivamente. A Frauenburg lavorò come amministratore per il duca Alberto di Prussia, occupandosi sia di economia che di giustizia e lavorò anche, come diplomatico, per lo zio vescovo. Ma l’interesse più forte e l’occupazione principale di Copernico fu l’astronomia. Fin dal ritorno dall’Italia iniziò la lunga elaborazione, che durò oltre trent’anni, di una nuova cosmologia. La teoria di Copernico venne diffusa in varie versioni e

in stadi successivi di elaborazione. Dapprima Copernico fece circolare manoscritto il Commentariolus, dove formulò in modo molto chiaro le sue tesi centrali. Le idee di Copernico ricevettero subito accoglienza sfavorevole nel mondo protestante (Lutero, Melantone), per le implicazioni contrarie alla lettura del testo biblico allora corrente. L’astronomo polacco non cambiò idea e proseguì nel suo lavoro. Nonostante il grande interesse del mondo accademico, attese comunque con prudenza prima di pubblicare la sua teoria, consapevole dei contrasti a cui andava incontro. Dopo un lunghissimo lavoro affidò infine il manoscritto definitivo del De revolutionibus al giovane discepolo Rheticus (Georg Joachim Lauschen, 1516-1574), il quale, inviato a Frauenburg su sollecitazione di Melantone, divenne subito un entusiasta sostenitore della teoria copernicana di cui pubblicò un’esposizione nel 1540, anonima, la Narratio prima. L’anno successivo questo scritto venne ristampato, a Basilea, non più anonimo. Così la fama di Copernico si diffuse tra le persone colte del tempo e l’astronomo polacco venne ancora, da più parti, sollecitato a pubblicare il suo capolavoro. Il De revolutionibus venne dato alle stampe da Rheticus nel 1543, quando l’autore stava per morire, a cura del teologo luterano Andrea Osiander, che premise all’opera una celebre e controversa prefazione. La leggenda narra che il primo esemplare fosse giunto a Copernico il 24 maggio, il giorno della sua morte.

L’opera di Copernico segna propriamente l’avvio di quella che è stata denominata rivoluzione astronomica o anche rivoluzione copernicana: una trasformazione che inizialmente avviene solo nel campo dell’astronomia, ma che, per le conseguenze che ne risulteranno, si rivelerà una vera rivoluzione delle idee e una trasformazione del modo in cui l’uomo guarda all’universo e al suo rapporto con esso.

1 La tesi rivoluzionaria: la Terra si muove intorno al Sole

T1

L’ipotesi del moto della Terra è coerente con i dati osservativi N. Copernico, De revolutionibus orbium caelestium libri sex

Il moto della Terra In che cosa consiste, dunque, la rivoluzione astronomica a cui Copernico dà inizio con la sua opera, e in che senso il suo contributo ha un carattere rivoluzionario? Copernico compie di fatto un rivolgimento: sovverte le posizioni tradizionalmente assegnate alla Terra e al Sole nell’universo, attribuendo alla Terra un moto di rotazione intorno al Sole invece che l’inverso. Un rivolgimento che, sottolinea Copernico, è del tutto in accordo con i dati delle osservazioni compiute fino ad allora. La maggioranza degli autori considera pacifico che la Terra stia immobile al centro del mondo e stimerebbe inconcepibile, se non addirittura ridicola, la tesi contraria. […] Se si ammette che il cielo non sia affatto in movimento e che sia invece la Terra a girare da occidente a oriente, e se – accogliendo questa ipotesi – si esamina ciò che apparirebbe della nascita e del tramonto del Sole, della Luna e delle stelle, si troverà che queste cose si comporterebbero proprio come avviene nella realtà. 73

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il cielo contiene e abbraccia tutti gli astri, è il luogo comune di tutte le cose: perché non si deve attribuire il movimento al contenuto invece che al contenente, al locato piuttosto che al locante? L’astronomia del Cinquecento

2

Copernico non è certo il primo, nella storia del pensiero scientifico, a ipotizzare che la Terra si muova. Perché dunque il suo contributo assume un carattere così rivoluzionario? Per comprenderlo, occorre considerare chi era Copernico, il contesto nel quale s’inserisce la sua opera, e quindi il modo in cui egli usa la sua ipotesi del moto della Terra nella costruzione del proprio sistema astronomico. Copernico era uno specialista, un astronomo di grande fama, che si era dedicato in tutto il corso della sua vita professionale allo studio matematico dei moti planetari. Lavorò fino alla morte alla soluzione del problema della corretta descrizione dei moti dei pianeti: un problema che non era ancora stato risolto in modo soddisfacente. Il sistema del mondo dominante con cui si trovava a fare i conti era quello cosiddetto «tolemaico», nel quale convivono la fisica aristotelica, l’astronomia tolemaica, alcune correnti neoplatoniche, elementi di astrologia e una certa teologia cristiana.

Il sistema tolemaico

Il contesto scientifico in cui Copernico opera è dunque dominato, per la fisica, dall’aristotelismo, e per l’astronomia matematica – cioè quella disciplina che si occupava esclusivamente di ottenere un modello matematico adatto per la descrizione dei moti planetari, senza preoccuparsi degli aspetti ‘fisici’ come per esempio le ‘cause’ di questi moti – dalla teoria fondata sull’opera dell’astronomo alessandrino Claudio Tolomeo, vissuto nel II secolo d.C. La fisica aristotelica I capisaldi della fisica aristotelica (e della cosmologia tolemaica fondata su questa fisica), possono essere riassunti schematicamente nei seguenti punti: 1) la distinzione tra a) mondo terrestre, o mondo sublunare, che è il luogo dell’alterazione e del mutamento, dove i moti naturali dei corpi sono rettilinei, difformi e limitati temporalmente, e i corpi che lo compongono sono formati da combinazioni dei quattro elementi terra, acqua, aria e fuoco, e b) mondo celeste, dove tutto è inalterabile e perenne, gli unici moti ammessi sono quelli circolari (e, in quanto tali, perfetti) uniformi ed eterni, e i pianeti, le stelle e le sfere celesti che lo compongono sono formati da un quinto elemento, l’etere o quinta essentia, che è solido ma imponderabile e trasparente; 2) la distinzione tra a) moti naturali, che sono i moti dei corpi verso i loro luoghi naturali (i moti ‘verso il basso’ per i corpi pesanti, i moti ‘verso l’alto’ per i corpi leggeri), e b) moti violenti, che sono i moti dovuti all’azione di una forza esterna e quindi cessano quando cessa la forza (la causa); 3) la concezione cosmologica che vede l’universo come delimitato dalla sfera delle stelle fisse, il «primo mobile», il cui moto circolare si trasmette per contatto alle altre sfere fino a giungere alla sfera della Luna, che è il limite inferiore del mondo celeste. La Terra, che per la sua natura non celeste non può avere moto circolare, rimane ferma al centro dell’universo.

Due pilastri: fisica aristotelica e astronomia tolemaica

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Unità 2 La rivoluzione scientifica La struttura dell’universo secondo la fisica aristotelica Il divenire

Le tipologie dei movimenti La composizione dei corpi Estensione

Mondo celeste

I corpi sono permanenti e immutabili

Solo moto circolare uniforme

Un unico elemento = quinta essentia

Dal cielo delle stelle fisse (limite esterno) fino alla Luna

Mondo sublunare

Alterazione e mutamento continui

Movimenti naturali contro movimenti violenti

Quattro elementi = terra, aria, acqua, fuoco

Pianeta Terra

Il modello di Eudosso: le sfere omocentriche

Da Eudosso a Tolomeo: gli epicicli, gli eccentrici e gli equanti

La cosmologia tolemaico-aristotelica era una sorta di traduzione nella realtà del modello geometrico, del tutto astratto, proposto da Eudosso di Cnido nel IV secolo a.C. In questo modello, che spiega i fenomeni celesti con l’ausilio di 27 sfere omocentriche (poi portate a 33 dall’astronomo Callippo nella seconda metà del IV secolo, e successivamente a 55 da Aristotele), lo scopo principale consiste nel trovare una soluzione matematica al problema del moto anomalo dei pianeti che l’osservazione mostrava non essere né circolare né uniforme. A tal fine Eudosso aveva introdotto l’idea che a ogni pianeta corrispondesse un diverso sistema di sfere omocentriche, che ruotano di moto uniforme ma con velocità diverse e con diversa inclinazione le une rispetto alle altre. Non conta, in questa prospettiva, né la causa di queste rotazioni né se le sfere abbiano esistenza reale: le sfere di Eudosso sono cioè puri artifici matematici introdotti per spiegare il movimento dei pianeti. Con l’intento di offrire una migliore aderenza del sistema di calcolo ai fenomeni osservati, Apollonio di Perge e poi Ipparco di Nicea (nel II secolo a.C.) escogitano un nuovo tipo di descrizione basato sugli «epicicli» (vedi Figura 1) e sugli «eccentrici» (vedi Figura 2). Questa descrizione viene poi migliorata e codificata da Claudio Tolomeo nella sua Syntaxis, comunemente nota come Almagesto. E così nasce il sistema detto «tolemaico».

Figura 1

Teoria degli epicicli. Il disegno A mostra il movimento del pianeta come combinazione di due rotazioni: la rotazione del pianeta descrive un cerchio (epiciclo) intorno a un centro che a sua volta ruota lungo una traiettoria circolare (deferente). Il disegno B mostra l’orbita del pianeta risultante dalla combinazione dei due movimenti di rotazione.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Figura 2

Teoria degli eccentrici. È raffigurato il moto di un pianeta (indicato con P) intorno alla Terra (T). La Terra si trova in un punto intermedio tra il centro (C) e la circonferenza dell’orbita. Per questo il sistema che si viene a costituire è detto eccentrico. I due punti indicati come Perigeo e Apogeo, sono rispettivamente il punto di minima e di massima distanza del pianeta P dalla Terra.

Ferma restando l’ipotesi della Terra immobile al centro dell’universo e della rotazione intorno ad essa della sfera delle stelle fisse, il moto di ciascun pianeta viene ora spiegato ricorrendo al moto uniforme del pianeta lungo la circonferenza di un cerchio (l’epiciclo), il cui centro ruota, a sua volta uniformemente, lungo la circonferenza di un cerchio eccentrico rispetto al centro dell’universo (la Terra). La varietà dei moti è quindi rappresentabile introducendo un opportuno numero di epicicli, e facendo talvolta ricorso a un altro tipo di cerchi (gli equanti, vedi Figura 3), che non possono in alcun modo essere interpretati in senso fisico, ma che servono come ipotesi ad hoc per salvare il paradigma dell’uniformità dei moti celesti, ivi compresa la distanza variabile dei pianeti dalla Terra. Questa ricchezza e versatilità del sistema di calcolo dell’astronomia tolemaica spiega la sua tenuta e il suo successo per più di mille anni. Figura 3

Teoria degli equanti. Nel suo movimento intorno alla Terra il pianeta percorre l’epiciclo di centro C. Il movimento è eccentrico poiché il centro del deferente (D) non coincide con la posizione della Terra. Inoltre, C non si sposta uniformemente rispetto a D, ma rispetto al punto equante (E), collocato in posizione opposta alla Terra rispetto a D. Questa caratteristica del movimento del pianeta può essere descritta anche attraverso le linee VE e BD: con il movimento del pianeta la linea VE si sposta uniformemente (percorre angoli uguali in tempi uguali), mentre lo spostamento della linea BD non è uniforme.

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3 Critica del sistema di Tolomeo

T2

Contro l’uso degli eccentrici

N. Copernico, Dedica del De revolutionibus orbium caelestium libri sex

Gli influssi pitagorici e platonici

Il sistema copernicano Delle due anime rispettivamente fisica e matematica del sistema del mondo tolemaico, la fisica aristotelica e l’astronomia matematica basata sull’Almagesto di Tolomeo, è soprattutto la seconda a essere oggetto di critica da parte di Copernico. Che cosa disturba maggiormente Copernico nell’astronomia tolemaica? Non il fatto che non fosse in grado di rendere conto adeguatamente di tutti i fenomeni osservati: Copernico stesso non è un grande osservatore e, dal punto di vista del «salvare i fenomeni», la sua teoria astronomica non sarebbe molto superiore a quella precedente. A spingere Copernico a sostenere la centralità del Sole nell’universo, e la conseguente riduzione della Terra a un pianeta ruotante insieme agli altri pianeti attorno al Sole, sono piuttosto motivi di altra natura. Innanzitutto, la divergenza che egli avverte tra la fisica aristotelica (che sosteneva la perfetta circolarità dei moti celesti) e l’astronomia tolemaica (i moti planetari descritti nella teoria tolemaica non erano sempre circolari uniformi). Coloro poi che sono ricorsi agli eccentrici, per quanto sembri che per mezzo di essi abbiano risolto in gran parte i moti apparenti mediante calcoli corrispondenti alle previsioni, tuttavia hanno ammesso cose che per lo più sembrano essere contrarie ai primi principi circa l’uniformità del movimento. E la cosa più importante, cioè la forma del mondo e la esatta simmetria delle sue parti, non poterono trovarla o ricostruirla mediante il ricorso agli eccentrici. In secondo luogo, l’influsso sul suo pensiero del pitagorismo e del platonismo, ciò che lo porta ad attribuire un significato particolare sia alla presenza di perfette simmetrie e armonie nel suo sistema del mondo, sia al ruolo centrale del Sole, al quale assegna una dignità particolare, una natura ‘regale’.

Figura 4

Sistema copernicano. La sfera delle stelle fisse (I) è la parte più esterna del cosmo ed è immobile; al suo interno si trovano, concentriche, le orbite dei pianeti, nell’ordine: Saturno (II, compie una rivoluzione o rotazione completa ogni 30 anni), Giove (III, una rivoluzione ogni 12 anni), Marte (IV, una rivoluzione ogni 2 anni), la Terra (V, una rivoluzione ogni anno), circondata a sua volta dall’orbe lunare, quindi Venere (VI, una rivoluzione ogni 9 mesi), Mercurio (VII, una rivoluzione ogni 80 giorni). Al centro si trova il Sole.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

T3

Il Sole al centro N. Copernico, De revolutionibus orbium caelestium libri sex

Copernico costruisce una nuova teoria matematica dei moti celesti

T4

Tesi principali della teoria di Copernico N. Copernico, Commentariolus

L’elaborazione della teoria fino al De revolutionibus

4 La teoria di Copernico come ipotesi: il consiglio pragmatico di Osiander

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Al centro di tutti risiede il Sole. Chi infatti situerebbe in questo stupendo tempio una luce in altro o migliore luogo di questo, da cui illuminare ogni cosa simultaneamente? […] Così dunque il Sole, quasi come seduto sul soglio regale, governa la famiglia degli astri che gli girano intorno. […] Noi troviamo dunque in quest’ordine la mirabile armonia dell’universo e un nesso stabile tra il moto e la grandezza delle sfere, quale in altro modo non si può reperire. Copernico dunque rimuove la Terra (e con essa l’umanità) dal centro del mondo e ne fa un pianeta ruotante, insieme ad altri, intorno al Sole. Ma, a differenza di coloro che già nel passato avevano avanzato l’ipotesi del moto della Terra (come, nell’antichità, il pitagorico Filolao e Aristarco di Samo), sulla base di tale ipotesi Copernico costruisce un complesso sistema matematico, una vera e propria teoria. Le tesi centrali di questa costruzione, la completa elaborazione della quale è contenuta nel De revolutionibus, sono chiaramente formulate già nel testo De hypothesibus motuum coelestium commentariolus (che si suppone Copernico scriva tra il 1507 e il 1512) e sono le seguenti: 1. Non esiste un solo centro di tutti gli orbi celesti o sfere. 2. Il centro della Terra non è il centro dell’universo, ma solo della gravità e della sfera della Luna. 3. Tutte le sfere ruotano intorno al Sole come al loro punto centrale […]. 4. Il rapporto tra la distanza della Terra dal Sole e l’altezza del firmamento è tanto più piccolo del rapporto fra il raggio terrestre e la distanza Terra-Sole che la distanza della Terra dal Sole è impercettibile in confronto all’altezza del firmamento. 5. Qualunque moto appaia nel firmamento non deriva da un qualche moto del firmamento ma dal moto della Terra. Pertanto la Terra, con gli elementi a lei più vicini […] compie una completa rotazione sui suoi poli fissi in un moto diurno, mentre il firmamento e il più alto cielo rimangono immobili. 6. Ciò che ci appare come movimenti del Sole non deriva dal suo moto, ma dal moto della Terra e della nostra sfera con la quale ruotiamo attorno al Sole come ogni altro pianeta. La Terra ha pertanto più di un movimento. 7. L’apparente moto retrogrado e diretto dei pianeti non deriva dal loro moto, ma da quello della Terra. Il moto della sola Terra è pertanto sufficiente a spiegare tutte le disuguaglianze che appaiono nel cielo. Il testo del Commentariolus circola solo come manoscritto, e ha già una certa diffusione. Gli anni 1523-1532 sono, probabilmente, quelli in cui Copernico lavora alla stesura del De revolutionibus, che fu pubblicato solo nella primavera del 1543.

La disputa sul De revolutionibus Il De revolutionibus viene pubblicato dall’editore Petreio di Norimberga, sotto la cura del teologo luterano Andrea Osiander (1498-1552). Questi suggerisce a Copernico, in una lettera del 20 giugno 1541, di presentare la sua teoria come un’ipotesi puramente matematica: il moto della Terra, se interpretato come moto reale, andava contro la lettura corrente delle Sacre Scritture. Come già nel 1539 era

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stato sottolineato da Lutero, che in uno dei Discorsi a tavola stigmatizzava l’«astronomo da quattro soldi» che, affermando il moto della Terra, pretendeva sovvertire tutta l’astronomia contro la Scrittura, in accordo alla quale Giosuè ordinò al Sole, non alla Terra, di fermarsi. La convinzione Il suggerimento di Osiander viene rifiutato da Copernico, che nella Dedica al parealistica di Copernico pa Paolo III riconferma la propria convinzione realistica (il suo sistema non è uno dei tanti, ma quello vero), oltre a sottolineare – come aveva fatto già il suo discepolo Rheticus nella Narratio – la maggiore semplicità e armonia del suo sistema rispetto a quello tolemaico.

T5

Le ragioni di Copernico

N. Copernico, Dedica del De revolutionibus orbium caelestium libri sex

Forse la Santità Vostra non si stupirà del fatto che io abbia osato dare alla luce i frutti del mio lavoro – dopo aver speso tanta fatica nell’elaborarli – e decidere di far stampare i miei pensieri sul moto della Terra; quanto piuttosto si aspetterà di udire da me come mi sia venuto in mente di osare di immaginarmi un movimento della Terra, che è contrario all’opinione ormai accettata dai matematici e che contrasta col comune modo di considerare le cose. […] E così io, dopo aver considerato che la Terra si muovesse […], trovai infine, dopo una lunga e attenta indagine, che se si rapportano al circuito della Terra i movimenti degli altri astri erranti calcolati secondo la rivoluzione di ciascuna stella, non solo ne conseguono i loro movimenti e fasi, ma anche l’ordine e la grandezza delle stelle e di tutti gli orbi e lo stesso cielo diventa un tutto così collegato che in nessuna parte di esso si può spostare qualcosa senza crear confusione delle restanti parti di tutto l’insieme.

L’interpretazione di Osiander

Il rifiuto di Copernico di presentare il moto della Terra come mera ipotesi non impedisce tuttavia a Osiander (che inoltre muta arbitrariamente il titolo De revolutionibus in De revolutionibus orbium caelestium) di premettere una prefazione anonima alla prima edizione dell’opera, nella quale viene asserito il carattere puramente ipotetico non solo della teoria copernicana ma di qualsiasi teoria astronomica (Praefatio):

La concezione puramente ipotetica dell’astronomia copernicana

È compito dell’astronomo infatti comporre, mediante un’osservazione diligente e abile, la storia dei movimenti celesti e quindi di cercarne le cause ovvero, poiché in nessun modo è possibile cogliere quelle vere, di immaginare e inventare delle ipotesi qualsiasi sulla cui base questi movimenti, riguardo sia al futuro sia al passato, possano essere calcolati con esattezza conformemente ai principi della geometria. E questi due compiti l’autore di quest’opera li ha assolti egregiamente. Poiché infatti non è necessario che queste ipotesi siano vere e neppure verosimili, ma basta questo soltanto: che esse offrano dei calcoli conformi all’osservazioni.

Il nuovo sistema astronomico è utilizzato anche al di fuori della cerchia dei seguaci di Copernico

Questa interpretazione in chiave pragmatica di Osiander – non importa che le ipotesi siano vere, basta che «salvino i fenomeni» – trova terreno fertile presso chi voleva servirsi dei vantaggi indubbi dell’astronomia copernicana senza tuttavia impegnarsi sul fronte della realtà o meno delle sue tesi: molti astronomi si servono, per esempio, dei risultati del De revolutionibus pur non accettando che la Terra si muova. In particolare, tutti si servono delle nuove tavole planetarie note come «tavole pruteniche» (in quanto dedicate al duca di Prussia), compilate sulla base delle tecniche matematiche e dei risultati di Copernico da Erasmo Reinhold nel 1551. Lo stesso Reinhold, d’altronde, non si dichiarava seguace di Copernico. 79

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Ma la disputa sulle tesi copernicane non rimane certo limitata al mondo dell’astronomia, per quanto il De revolutionibus sia un’opera a carattere molto tecnico (contenente, in gran parte, formule matematiche, diagrammi e tavole) e rivolta essenzialmente a un pubblico di esperti. Come già accennato, la trasformazione dell’astronomia operata da Copernico apre le porte a radicali mutamenti anche in altri campi, dalla cosmologia e dalla fisica alla filosofia e alla religione. Alla rivoluzione astronomica messa in moto da Copernico si accompagna un processo di trasformazione più profondo che, come abbiamo visto, prende il nome di «rivoluzione scientifica», e in virtù del quale, per dirla con lo storico della scienza Alexandre Koyré, «l’uomo ha perso il suo posto nel mondo, o forse più correttamente ha perso il mondo stesso che formava il quadro del suo pensiero e l’oggetto della sua conoscenza, e ha dovuto trasformare e sostituire non solo le sue concezioni fondamentali, ma le strutture stesse del suo pensiero». Confronto tra il sistema copernicano e il sistema tolemaico

Sistema tolemaico Il Sole e i pianeti girano intorno alla Terra

Complicazioni teoriche ed eccezioni ad hoc per spiegare i movimenti apparenti dei cieli

L’uomo è al centro dell’Universo

Sistema copernicano La Terra gira intorno al Sole insieme agli altri pianeti

Maggiore semplicità della teoria e maggiore coerenza con i principi: i movimenti apparenti dei cieli sono spiegati dal movimento della Terra

L’uomo è in una posizione periferica, il suo pianeta sullo stesso piano degli altri

Posizione di Osiander I calcoli di Copernico sono ottimi e utilizzabili tecnicamente in astronomia, ma la verità resta quella suffragata dalle Scritture, secondo cui la Terra e l’uomo sono al centro

La posta in gioco è un intero sistema del mondo

La posta in gioco nella disputa circa il carattere ipotetico o realistico delle tesi di Copernico è quindi molto alta. Per gli oppositori di Copernico si tratta non tanto di difendere il precedente sistema astronomico, quanto di evitare la catena di conseguenze a cui l’accettazione della verità di quanto sosteneva Copernico può condurre. Come possano essere percepite le implicazioni del nuovo sistema del mondo è bene illustrato nei versi del poeta londinese John Donne (1572-1631):

Il vecchio mondo è dissolto

La nuova filosofia pone in dubbio ogni cosa, / l’elemento del fuoco è tutto spento; / il Sole è perduto, e la Terra, e in nessun uomo la mente può guidarlo per dove cercarla. / E apertamente gli uomini ammettono che questo mondo è finito, / quando nei pianeti e nel firmamento / cercano così tanti il nuovo; e poi vedono che questo / si polverizza ancora nei suoi atomi. / Tutto quanto a pezzi, ogni coesione scomparsa; / ogni giusta provvidenza, e ogni relazione: / principe, suddito, padre, figlio, son cose dimenticate, / poiché ogni uomo pensa d’essere riuscito, solo / a diventare una fenice, e che quindi non ci può essere / nessun altro della sua specie all’infuori di lui.

➥ Sommario, p. 119

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Il compromesso di Tycho Brahe

3 I testi

T. Brahe Lettera di T. Brahe a J. Keplero: L’osservazione delle comete contro la realtà delle sfere celesti, T6

Un eccezionale osservatore

La scoperta di una nuova stella: un cambiamento nei cieli

De mundi aetherei recentioribus phaenomenis: Il moto dei pianeti intorno al Sole, T7

Se a Copernico si deve la trasformazione della teoria astronomica, al danese Tyge (Tycho) Brahe, che nasce tre anni dopo la pubblicazione del De revolutionibus e sarà la figura dominante, in campo astronomico, degli ultimi decenni dell’astronomia cinquecentesca, si deve un contributo fondamentale all’innovazione delle tecniche e dei metodi dell’osservazione dei pianeti e delle stelle. Tycho Brahe è ritenuto il migliore degli osservatori a occhio nudo della storia dell’astronomia. Nel corso della sua vita, non solo esegue numerosissime osservazioni delle posizioni dei corpi celesti, procurandosi strumenti (come astrolabi, sestanti e quadranti) sempre più precisi – spesso disegnandoli, costruendoli e calibrandoli lui stesso –, ma dà anche una svolta all’osservazione dei moti planetari. Brahe promuove infatti la pratica di osservare i pianeti con regolarità durante tutto il loro moto orbitale, e non solo quando si presentano in una configurazione particolarmente favorevole, come invece si usava fare. Questa innovazione dà subito importanti risultati, come per esempio la scoperta di numerose anomalie nelle orbite dei pianeti rispetto a quanto ottenuto o previsto con i dati e con le teorie a disposizione fino ad allora. La sera dell’11 novembre del 1572 si verifica un evento che doveva renderlo famoso: osserva un nuovo corpo celeste, luminosissimo, nella costellazione di Cassiopea. La nuova stella osservata da Brahe (oggi sappiamo che si trattava dell’esplosione di una supernova), suscita subito un enorme interesse in tutta Europa e viene seguita con grande attenzione nei diciotto mesi in cui rimane visibile, perdendo via via luminosità fino a scomparire agli inizi del 1574. Grazie ai suoi strumenti sofisticati, Brahe riesce a stimarne con una discreta precisione la distanza dalla Terra.

La vita e le opere Tyge (Tycho) Brahe nacque a Knudstrup, in Danimarca, nel 1546. Di nobili origini (era figlio del governatore del castello di Helsingborg), si interessò presto di astronomia e di astrologia. Compì i suoi studi a Copenaghen e a Lipsia e visitò anche altre università, come quelle di Wittenberg e Basilea. Nel 1573 rese conto nello scritto De nova stella dei risultati delle sue osservazioni, culminate nella scoperta, l’11 novembre del 1572, di un nuovo luminosissimo corpo celeste. Nel 1576 si trasferì ad Hveen, un’isoletta donatagli dal re danese Federico II, dove costruì l’osservatorio di Uraniborg, a cui si aggiunse poi quello sotterraneo di Stjoerneborg. Vi rimase fino

al 1597, quando, in seguito a disaccordi sorti con il nuovo re di Danimarca Cristiano IV, lasciò l’isola, per andare due anni dopo a stabilirsi in un altro castello-osservatorio vicino a Praga, nel ruolo di matematico imperiale offertogli da Rodolfo II. I risultati degli studi di Brahe degli anni di Uraniborg, durante i quali condusse ricerche sistematiche sulle comete, furono raccolti nell’opera De mundi aetherei recentioribus phaenomenis liber secundus, («Sui fenomeni più recenti del mondo celeste»), pubblicata nel 1588. Nel 1600 Brahe incontrò Keplero, che fu suo assistente e lo sostituì, dopo la morte del maestro, sopraggiunta nel 1601, nel ruolo di matematico imperiale presso la corte boema.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Una cittadella in Danimarca per osservare le stelle

Le comete: altri mutamenti nelle regioni eteree

T6

L’osservazione delle comete contro la realtà delle sfere celesti T. Brahe, Lettera di T. Brahe a J. Keplero

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In base alle sue stime, di cui rende conto nello scritto De nova stella del 1573, la «nova» risulta posizionata ben al di là del sistema solare, in prossimità di quella che allora si chiamava la sfera delle stelle «fisse»: ciò dimostra che qualcosa di mutevole è quindi presente anche nei cieli ritenuti immutabili, contro la convinzione – fondata sulla cosmologia e sulla fisica aristoteliche – che la mutabilità sia propria solo del mondo sublunare. Nel 1576 il re danese Federico II offre in dono a Brahe l’isoletta di Hveen, insieme a una ricca dotazione annua, per convincerlo a svolgere le proprie ricerche in Danimarca (anziché a Basilea, dove Brahe aveva manifestato l’intenzione di stabilirsi). L’offerta viene accettata e Brahe fa costruire sull’isola una specie di cittadella dell’astronomia, il castello-osservatorio di Uraniborg (Città di Urano). Il castello, al quale viene aggiunto anche un secondo osservatorio sotterraneo chiamato Stjoerneborg o «Città delle stelle» (formato da nicchie scavate nel terreno per evitare i disturbi dovuti alle eventuali vibrazioni degli edifici), diventa presto il luogo privilegiato di formazione per molti giovani astronomi europei. Brahe vi resterà fino al 1597. Negli anni successivi al suo arrivo a Hveen, Tycho Brahe conduce una sistematica osservazione delle comete, a partire dallo studio della grande cometa avvistata nel 1577. Grazie alle sue precise misure, Brahe riesce a dimostrare in modo conclusivo come le comete osservate abbiano «parallassi» piccolissime e siano quindi, anch’esse (come la stella nuova del 1572), molto più lontane dalla Terra di quanto non lo sia l’orbita della Luna. La parallasse è il fenomeno per cui un oggetto (una stella) sembra spostarsi rispetto allo sfondo (la volta celeste) se si cambia il punto di osservazione (per esempio per effetto del moto della Terra), e che risulta tanto minore quanto l’oggetto è più lontano dal punto di osservazione (vedi Figura 5). In base alla dimostrazione di Brahe risulta dunque che le comete non si trovano nel mondo sublunare, come pensavano gli aristotelici, ma «nelle regioni eteree del mondo», e le loro orbite possono attraversare le sfere planetarie. Questo fatto mette decisamente in difficoltà la tesi aristotelica della realtà delle sfere celesti: come possono essere sfere solide di cristallo, se vengono attraversate dalle orbite di corpi celesti? A tale proposito, così scrive Brahe a Keplero: Secondo la mia opinione, la realtà di tutte le sfere – comunque possano essere concepite – deve essere esclusa dai cieli. Questo ho appreso da tutte le comete che sono apparse nei cieli, fino dalla stella nuova del 1572, e che sono, in verità, fenomeni celesti. Esse non seguono infatti le leggi di nessuna delle sfere, ma agiscono piuttosto in contraddizione con esse […]. È chiaramente provato dal moto delle comete che la macchina del cielo non è un corpo duro e impenetrabile composto di varie sfere reali, come fino ad ora è stato creduto da molti, ma è fluido e libero, aperto in tutte le direzioni, tale da non opporre assolutamente ostacolo alcuno alla libera corsa dei pianeti che è regolata, in accordo alla sapienza legislativa di Dio, senza alcun macchinario né alcun rotolamento di sfere reali […] In tal modo non viene ammessa alcuna reale e incoerente penetrazione delle sfere: esse non esistono realmente nei cieli, ma vengono ammesse solo a beneficio dell’insegnamento e dell’apprendimento.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica Figura 5

Parallasse lunare. Nel disegno in alto vediamo spiegato l’effetto di parallasse attraverso il confronto tra due casi di osservazione della Luna. L’osservatore nel punto A della superficie terrestre vede la Luna (L) guardando in direzione del punto L2 sulla sfera delle stelle fisse. L’osservatore nel punto B, invece, vede la Luna guardando in direzione di L1 e quindi come sfondo della Luna vede una diversa porzione della sfera delle stelle fisse. L’effetto cambia a seconda della posizione della Luna; nel disegno in basso vediamo i due casi estremi: quando la Luna è collocata allo Zenit (punto Z) l’effetto di parallasse è nullo, quando la Luna è collocata all’orizzonte (O) l’effetto è massimo.

Le orbite delle comete trasgrediscono il moto circolare

Il sistema ticonico del mondo a metà strada tra Tolomeo e Copernico

Lo studio delle orbite delle comete porta Brahe, oltre alla negazione del carattere materiale delle sfere orbitali, all’abbattimento di un altro dogma dell’astronomia a lui precedente, sia tolemaica sia copernicana: quello della perfetta circolarità dei moti celesti. In base ai dati osservativi che ha raccolto, egli arriva infatti a ipotizzare che l’orbita della cometa del 1577 abbia forma ovale invece che circolare. Si tratta della prima volta che, nella storia dell’astronomia, viene ipotizzato che un corpo celeste possa muoversi lungo un’orbita che non sia circolare. Sarà comunque solo con Keplero che un’ipotesi di tale natura assumerà concretezza (tanto da diventare, come vedremo, la base della prima delle tre leggi dei moti planetari da lui formulate). L’opera De mundi aetherei recentioribus phaenomenis liber secundus, stampata a Uraniborg nel 1588, in cui sono raccolti ed elaborati i risultati di questi studi di Brahe, è famosa anche per il nuovo sistema astronomico che vi viene proposto, noto come «sistema ticonico del mondo». Sulla base delle numerosissime osservazioni effettuate, Tycho Brahe giunge a elaborare un proprio sistema della disposizione dei pianeti e delle stelle, a carattere intermedio – o di compromesso – tra quello tolemaico e quello copernicano. Del sistema tolemaico Brahe mantiene la tesi fondamentale: l’immobilità della Terra e la sua centralità nell’universo. La Terra è al centro di un universo che è racchiuso dalla sfera delle stelle, la cui rotazione giornaliera spiega i moti stellari circolari: «Al di là di ogni dubbio, penso che si debba stabilire con gli antichi astronomi e i pareri ormai accettati dai fisici, con la ulteriore attestazione delle Sacre Scritture, che la Terra che noi abitiamo occupa il centro dell’universo e che non è mossa in cerchio da nessun moto annuo, come volle Copernico». 83

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Critica del sistema copernicano

Critica del sistema tolemaico

Il compromesso di Tycho Brahe: la Terra conserva solo in parte la sua centralità

Le motivazioni che spingono Brahe a rifiutare l’ipotesi copernicana del moto della Terra sono di vario tipo: attribuire movimento al «corpo grosso, pigro, e inabile a muoversi della Terra» urta «non solo contro i principi della fisica, ma anche contro l’autorità delle Sacre Scritture che confermano in vari passi la stabilità della Terra»; il fatto che non si osservi alcun effetto di parallasse stellare non si può spiegare, nel sistema copernicano, se non con l’‘inconveniente’ di dover porre una distanza immensa («un vastissimo spazio vuoto interposto») tra l’orbita di Saturno e la sfera delle stelle fisse; inoltre, se la Terra fosse in moto, una pietra lasciata cadere da una torre raggiungerebbe il suolo lontano dalla sua base (qui Brahe aderisce a quella che è la credenza comune), al contrario di quanto di fatto osservato. Ma anche il sistema tolemaico non va bene per Brahe. La «vecchia distribuzione tolemaica degli orbi celesti non era abbastanza coerente ed era superfluo il ricorso a tanto numerosi e sì grandi epicicli», mentre «la moderna innovazione introdotta dal grande Copernico» permetteva di evitare «tutto ciò che nella disposizione tolemaica risultava superfluo e incoerente, senza contravvenire ai principi della matematica». Qual è dunque la soluzione di Brahe, l’ipotesi che a suo giudizio consente il migliore compromesso tra i due sistemi precedenti, evitando le «non piccole assurdità» contenute in entrambi? Una ipotesi che «non fosse in contrasto né con la matematica né con la fisica, e che non dovesse sfuggire di nascosto alle censure teologiche e che, nello stesso tempo, soddisfacesse in modo completo alle apparenze celesti»? Il compromesso a cui arriva Tycho Brahe è il seguente: come nel sistema tolemaico, la Terra è al centro delle orbite del Sole e della Luna; ma – e qui inizia la differenza con il sistema tolemaico e la vicinanza con quello copernicano – è il Sole, non la Terra, a essere al centro delle orbite degli altri cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno; vedi Figura 6).

Figura 6

Sistema ticonico. Viene raffigurata la struttura del sistema del mondo di Tycho Brahe: la Terra è al centro delle orbite della Luna e del Sole, mentre i pianeti girano intorno al Sole; all’esterno si trova il firmamento delle stelle fisse.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

T7

Il moto dei pianeti intorno al Sole T. Brahe, De mundi aetherei recentioribus phaenomenis

La conciliazione tra le esigenze di calcolo e la difesa delle concezioni tradizionali

➥ Sommario, p. 119

Asserisco inoltre che i cinque pianeti restanti volgono i propri giri intorno al Sole come propria guida e re, e che sempre lo osservano quando si situa nello spazio intermedio delle loro rivoluzioni. Cosicché rispetto al circuito di esso anche i centri delle orbite che gli descrivono intorno compiono un giro annuale. Trovai infatti che ciò non aveva luogo soltanto in Venere e Mercurio per le minori digressioni di tali pianeti dal Sole, ma anche nei tre pianeti superiori [Mercurio, Giove e Saturno]. E in tal modo […] ogni apparente ineguaglianza di movimento che dagli antichi era spiegata con gli epicicli, per Copernico era dovuta al moto annuo della Terra, viene giustificata in modo convenientissimo mediante tale concomitanza del centro del’orbita dei pianeti stessi insieme all’annua rivoluzione del Sole […] ed esso governa tutta l’Armonia della schiera dei pianeti come Apollo (nome del quale veniva insignito dagli antichi) in mezzo alle Muse. Il sistema misto, in parte geocentrico e in parte eliocentrico, così proposto da Tycho Brahe ha il doppio vantaggio di essere, dal punto di vista dei calcoli delle posizioni dei pianeti, del tutto equivalente a quello copernicano, e dal punto di vista della religione e del senso comune, in accordo con le concezioni tradizionali. Viene quindi bene accolto da quanti vogliono conservare i vantaggi matematici del sistema copernicano ed evitare, allo stesso tempo, gli inconvenienti fisici, cosmologici e teologici che il moto della Terra sembra comportare.

Il sistema ticonico come teoria di compromesso Collocazione della Terra

Ferma al centro

= sistema tolemaico

Collocazione del Sole

Orbita attorno alla Terra

= sistema tolemaico

Le orbite dei pianeti

Hanno come centro il Sole

= sistema copernicano

Strutture ad hoc (epicicli)

Non ci sono (non sono necessarie)

= sistema copernicano

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Keplero: verso una moderna fisica dei cieli

4 I testi

J. Keplero Mysterium cosmographicum: Sei cieli per cinque solidi regolari, T8

Assistente di Tycho Brahe

Nell’ultimo periodo della sua vita, Tycho Brahe ha un assistente d’eccezione: Johannes Kepler. Del giovane astronomo, convinto assertore del sistema copernicano, Brahe aveva molto apprezzato l’opera prima, nota col titolo abbreviato di Mysterium cosmographicum. Dal febbraio del 1600 Keplero, su invito del grande astronomo danese, si trasferisce in Boemia, e lì rimane fino al 1612, sostituendo Brahe, dopo la morte di questi nell’ottobre del 1601, nel ruolo di Matematico imperiale. Keplero ha dunque la straordinaria opportunità di avere a disposizione il ricchissimo patrimonio di dati osservativi raccolti da Brahe. Su questo patrimonio, da lui definito «l’opera più importante di Tycho», egli si sentì chiamato a costruire l’edificio della vera teoria astronomica, l’architettura dell’universo. Come nell’antichità Tolomeo aveva edificato il suo sistema a partire dalle osservazioni dell’astronomo Ipparco, afferma Keplero in una lettera al suo maestro Michael Maestlin scritta poco dopo la morte di Brahe, così «questo Ipparco [Tycho] aveva bisogno di un Tolomeo [Keplero] che edificasse, su quella base [le osservazioni di Tycho], le teorie degli altri cinque pianeti».

La vita e le opere Johannes Kepler (o Keplero, dalla forma latinizzata Keplerus) nacque nel 1571 a Weil der Stadt, cittadina vicino a Stoccarda. Compì i suoi studi in Germania, all’università di Tubinga. Nel 1594 si trasferì in Austria, a Graz, con l’incarico di insegnante di matematica; qui concepì e pubblicò, nel 1596, la sua prima opera, il Mysterium cosmographicum, ristampato nel 1621. Nel 1600, su invito del grande astronomo danese, si trasferì in Boemia, a Praga, dove rimase fino al 1612, divenendo assistente di Brahe e sostituendo il maestro dopo la morte (1601) nell’incarico di Matematico imperiale. Gli an-

1 La ricerca delle ragioni della struttura del sistema planetario

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Astronomia nova: Dalle orbite circolari alle orbite ellittiche, T9; La «facoltà magnetica» è la causa fisica del moto dei pianeti, T10

ni boemi furono dedicati allo studio dell’orbita di Marte, i cui risultati furono pubblicati nel 1609 nella sua opera principale, Nuova astronomia delle cause, o Fisica dei cieli, conosciuta anche come Astronomia nova. Nel 1612 Keplero si trasferì a Linz, dove ricoprì la carica di Matematico del distretto; qui pubblicò le opere Dioptrica (1618) e Harmonices mundi libri quinque («Armonia del mondo»; 1619). Vi rimase per quattordici anni, fino al trasferimento a Ulm, dove pubblicò, nel 1617, su sollecitazione degli eredi di Brahe, le Tavole rudolfine, alle quali si era dedicato fin dagli anni in cui era assistente di Brahe a Praga. Morì a Ratisbona nel 1630.

Il Mysterium cosmographicum Trovare una soluzione definitiva al problema della struttura del sistema planetario, e in particolare svelare le ragioni di tale struttura, il perché del numero e dei moti dei pianeti e delle dimensioni delle loro orbite, costituisce l’obiettivo di tutta l’attività scientifica di Keplero.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica Le tre questioni fondamentali

Una formazione copernicana

La credenza nell’armonia del mondo e l’interesse per l’astrologia

L’armonia come nozione fondata sulla matematica

I poliedri platonici

L’architettura geometrica del cosmo

Come scrive nel Mysterium cosmographicum, la sua opera prima dedicata alla disposizione delle orbite dei pianeti, o «mistero cosmografico»: «Di tre questioni ero principalmente impegnato a ricercare la ragione per la quale esse sono così e non in altro modo: il numero, l’estensione e il periodo degli orbi [le orbite]». Perché i pianeti sono di quel dato numero, perché sono disposti precisamente a quelle date distanze dal Sole, e perché possiedono quelle determinate velocità nel loro moto orbitale sono dunque le domande fondamentali che si pone Keplero, e alle quali risponderà, a tappe progressive, fino al completamento della sua visione cosmologica con l’Harmonices mundi («Armonie del mondo») del 1619. Quando compone il Mysterium nel corso del 1595, Keplero non ha ancora a disposizione i dati osservativi di Brahe, ma conosce bene quelli utilizzati da Copernico e la teoria di quest’ultimo. Keplero era stato introdotto al sistema copernicano durante gli studi all’università di Tubinga dal suo «Maestro di Matematica» Michael Maestlin, che era un sostenitore di Copernico. Keplero viene subito talmente attratto dalla teoria copernicana da prenderne apertamente le difese, cercando al tempo stesso di svilupparla integrandone le «ragioni matematiche» con «ragioni fisiche e metafisiche». Una prima articolazione di queste ragioni è contenuta nel Mysterium, ed è fondata sulla profonda convinzione che dominerà tutta la vita sia personale sia scientifica di Keplero: quella dell’esistenza di un’«armonia del mondo» che, espressione della perfezione di Dio, si manifesta in tutti gli aspetti del creato, dal sistema solare alle relazioni umane (e li connette fra loro). Da questo punto di vista, risulta naturale l’interesse che Keplero nutre anche per l’astrologia, tanto da dedicare addirittura un’opera ai fondamenti di questa disciplina (considerata come un settore dell’astronomia). Un interesse che tra l’altro gli porta un certo successo quando, finiti gli studi, si trova a occupare, nel 1594, il doppio incarico di insegnante di matematica al seminario protestante di Graz, capitale della provincia austriaca della Stiria, e di «Mathematicus della provincia». Tra i compiti che quest’ultima carica comportava, c’è infatti anche quello di stilare un calendario annuale con l’oroscopo, e Keplero si distingue subito riuscendo ad azzeccare alcune previsioni, come quella della particolare ondata di freddo che si avvera l’anno dopo il suo arrivo e quella di un’invasione dei turchi in Europa. Parlando di «armonia» Keplero, influenzato dalle tradizioni pitagorica e neoplatonica, intende qualcosa di ben preciso, fondato sulla matematica, e cioè relazioni aritmetiche e figure geometriche. Mosso dalla persuasione che ci debba essere una ragione per tutto ciò che Dio ha creato e che questa ragione sia di natura matematica, è attraverso strumenti come le proporzioni e le figure regolari che Keplero cerca una soluzione al problema planetario. Tra le figure regolari, sono i cosiddetti «poliedri platonici» che forniscono la chiave di volta della costruzione cosmografica del Mysterium. Scrive Keplero nell’introdurre l’opera: «Mi sono proposto di dimostrare, con questa operetta, o lettore, che Dio Ottimo Massimo, nella costruzione del mondo e nella disposizione dei cieli, guardò ai cinque corpi solidi regolari che tanto sono stati celebrati fino dal tempo di Pitagora e Platone e che dispose numero, proporzioni e movimenti delle cose celesti secondo le proprietà di quei corpi». In che modo, per Keplero, Dio avrebbe usato i cinque solidi regolari nella costruzione del mondo? Disponendo le cose in accordo alla seguente archittettura: i pianeti si muovono su sfere tutte centrate sul Sole e ordinate in modo tale che 87

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

ognuno dei cinque poliedri si trovi incluso tra due sfere, secondo una precisa disposizione fondata su proporzioni numeriche. Procedendo dall’esterno verso l’interno (cioè verso il Sole), ai pianeti Saturno, Giove, Marte, Terra, Venere e Mercurio (i sei pianeti allora conosciuti) corrispondono sei sfere concentriche, separate l’una dall’altra, nell’ordine, da un cubo (esaedro), un tetraedro, un dodecaedro, un ottaedro, e un icosaedro (vedi Figura 7). Figura 7

I cinque poliedri platonici nella teoria di Keplero. Nel disegno A sono raffigurati i cinque poliedri regolari già utilizzati da Platone nel Timeo (rispettivamente cubo, tetraedro, dodecaedro, icosaedro e ottaedro). Nel disegno B, invece, si vede come essi sono utilizzati nel sistema planetario di Keplero: i cinque solidi sono inscritti, uno dopo l’altro, nelle sfere dei pianeti, seguendo l’ordine di cui al disegno A dalla sfera più esterna (quella di Saturno, in cui è inscritto un cubo) alla più interna (quella di Mercurio, in cui è inscritto un ottaedro).

Il perché del numero dei pianeti

T8

Sei cieli per cinque solidi regolari

J. Keplero, Mysterium cosmographicum

Le ragioni fisiche e metafisiche delle distanze nel sistema planetario

88

L’idea di utilizzare figure geometriche come i poliedri regolari nella descrizione del mondo fisico non è certo nuova nella storia della scienza (basti pensare al ruolo di questi poliedri nella dottrina degli elementi contenuta nel Timeo di Platone). Ma il modo in cui Keplero traduce quest’idea è del tutto inedito. Come racconta Keplero stesso, egli arriva alla sua particolare costruzione cosmografica sviluppando un’idea che gli era balenata in mente, nel corso di una lezione, mentre illustrava con un disegno un fenomeno relativo alle congiunzioni dei pianeti. Il giorno 19 dell’anno 1595, mentre davo una dimostrazione ai miei scolari […] pensai che se avessi voluto far uso nel mio tentativo di tutte le figure regolari, non sarei mai stato in grado di arrivare fino al sole, né avrei individuato il motivo per cui gli orbi sono sei invece che venti o cento. […] Ritenevo che il mio desiderio sarebbe stato soddisfatto se avessi potuto far corrispondere alla reciproca grandezza dei cieli (che Copernico stabilì essere sei) soltanto cinque figure fra tutte le infinite figure possibili, che avessero proprietà particolari che nessuna delle altre figure possiede. […] Se qualcuno […] venisse informato dell’esistenza di cinque solidi regolari, costui ricorderebbe subito il famoso scolio di Euclide […] nel quale si dimostra che non è possibile trovare o costruire più di cinque corpi regolari. I pianeti sono sei perché ci sono solo cinque solidi regolari possibili. Così Keplero risponde alla prima delle tre domande base che motivano la sua opera. La costruzione fondata sui poliedri platonici gli fornisce una risposta anche alla seconda domanda: quella relativa alle distanze dei pianeti dal Sole. Le ragioni che ad-

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Un salto di qualità: il confronto con i dati osservativi di Tycho Brahe

Le ragioni delle variazioni di velocità

duce per la sua teoria dei solidi regolari, cioè perché i solidi siano disposti proprio in quel modo tra le sfere planetarie, sono di natura fisica, matematica (come quella che giustifica il numero dei pianeti), ma anche metafisica, teologica e astrologica. Per esempio: distinguendosi i corpi regolari, in base alle proprietà matematiche, in due generi (il cubo, il tetraedro e il dodecaedro sono «corpi primari», l’ottaedro e l’icosaedro «corpi secondari»), la Terra, in quanto abitata dall’uomo che è il fine della creazione, è ‘degna’ d’essere posta tra i due generi di corpi; il cubo ha la posizione più esterna perché rappresenta il solido più importante (essendo, tra le altre cose, l’unico solido generato dalla propria base, l’unico a indicare con i suoi elementi le tre direzioni dello spazio, l’unico ad avere sei lati come nell’uomo sono sei le possibili orientazioni); il cubo, con i suoi angoli retti, si addice al carattere inesorabile e inflessibile di Saturno, l’ottaedro, per la sua mobilità, si addice alla versatilità e rapidità d’ingegno di Mercurio; e via dicendo. L’uso dei poliedri platonici, per quanto basato in larga parte su ragioni che non chiameremmo oggi scientifiche, non è frutto di mera speculazione per Keplero: la sua architettura planetaria deve rendere conto dei valori osservati per le dimensioni delle orbite e per i moti dei corpi celesti. È dunque con grande entusiasmo che Keplero si reca da Tycho Brahe in Boemia: finalmente avrà a disposizione dati osservativi in gran numero, e ben più precisi di quelli precedenti, per verificare l’accordo della sua teoria cosmografica con l’esperienza. Il confronto con i dati di Brahe spingerà Keplero a modificare, in parte, la sua teoria, ma non lo porterà mai ad abbandonare del tutto il suo uso dei cinque solidi regolari; tanto che, ancora nel 1621, curerà una ristampa del Mysterium. La teoria dei poliedri platonici fornisce una risposta alle prime due domande (relative, rispettivamente, al numero dei pianeti e alle loro distanze dal Sole), ma non alla terza domanda: rimane da spiegare perché i pianeti abbiano velocità che variano non solo da pianeta a pianeta (la velocità risulta tanto minore quanto più distante è il pianeta dal Sole) ma anche all’interno di ogni orbita. La soluzione che propone Keplero nel Mysterium è la seguente: il Sole viene visto come la causa fisica del moto dei pianeti, la loro «anima motrice»; questa virtus solare mette in moto i pianeti e, distribuendosi nello spazio, si indebolisce con la distanza. Anche in questo caso coesistono, nella descrizione di Keplero, ragioni di varia natura, in cui entrano in gioco, per il ruolo fisico del Sole, considerazioni relative anche alla sua ‘bellezza’ («il Sole è il corpo più bello, in qualche modo l’occhio del mondo»), alla sua luminosità (che «adorna, dipinge e abbellisce gli altri corpi del mondo»), al suo calore («il Sole è il focolare del mondo»), e così via.

Le domande di Keplero Numero dei pianeti

Estensione delle orbite dei pianeti

Periodo delle orbite dei pianeti

Domande

Risposte

Perché esattamente sei pianeti?

Perché ci sono solo cinque poliedri regolari

Perché esattamente alle distanze che hanno dal Sole?

Perché i cinque poliedri regolari hanno una determinata successione, spiegabile con ragioni matematiche, teologiche, astrologiche

Perché esattamente con le velocità e le durate delle orbite che hanno?

Perché la virtus motrice del Sole indebolisce la sua azione all’aumentare della distanza

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Un emblema dell’evoluzione della scienza

2 Le tavole «rudolfine»

L’Astronomia nova, il capolavoro di Keplero

L’orbita di Marte: la più eccentrica

T9

Dalle orbite circolari alle orbite ellittiche

J. Keplero, Astronomia nova

La prima legge

90

Questo intrecciarsi di geniali intuizioni fisiche e acute soluzioni matematiche con considerazioni di tutt’altro tipo è caratteristico dell’intera opera di Keplero. Per questa sua doppia natura, razionale e sperimentale da una parte, mistica e metafisica dall’altra, la figura di Keplero come scienziato è un emblema del processo evolutivo che avviene all’interno del sapere scientifico tra il Cinquecento e il Seicento.

La «nuova astronomia» e le prime due leggi Appena arrivato in Boemia, Keplero riceve subito l’incarico di occuparsi del problema dell’orbita di Marte, in vista della preparazione di nuove tavole astronomiche, dette «rudolfine», in onore dell’imperatore Rodolfo II. Queste tavole dovevano sostituire, sulla base dei nuovi dati osservativi raccolti da Brahe, quelle precedenti note come «pruteniche» (e che vedranno la luce, per opera di Keplero, solo nel 1627). Il moto orbitale di Marte era rimasto fino ad allora un mistero, per le numerose irregolarità che presentava e che nessuno dei sistemi astronomici esistenti permetteva di spiegare. Keplero impiegherà sei anni per venire a capo del problema, ma tutto il lavoro che compirà in questi anni è di capitale importanza in quanto gli permetterà di rivoluzionare la «fisica dei cieli». Il risultato di questa sua fatica è contenuto nella sua opera più importante, l’Astronomia nova (il titolo per intero è, in italiano, la Nuova astronomia delle cause, o Fisica dei cieli), che termina di scrivere nel 1606 ma non riesce a far pubblicare prima del 1609 (lo stesso anno in cui Galileo punterà il suo cannocchiale verso il cielo). Un lavoro a proposito del quale il grande astronomo e storico della scienza J.L. Dreyer ha affermato che «nella storia dell’astronomia ci sono solo altre due opere di pari importanza, il De revolutionibus di Copernico e i Principia di Newton». Che cosa ottiene dunque Keplero di così rilevante combattendo con le difficoltà collegate al moto di Marte? Marte è il pianeta più eccentrico, in quanto la sua orbita si discosta da una circonferenza più di quelle degli altri pianeti. Questo significa che, proprio perché è il pianeta che presenta maggiori irregolarità quando si cerchi di descriverlo per mezzo di un’orbita circolare, è anche il pianeta il cui studio più facilmente può suggerire la vera forma dell’orbita. E infatti è proprio studiando i problemi posti dall’orbita di Marte, alla luce dei dati di Brahe, che Keplero arriva alla rivoluzionaria conclusione che le orbite dei pianeti non sono circolari ma ellittiche. Scopo principale della presente opera è di correggere la dottrina astronomica (particolarmente per ciò che attiene al moto di Marte) […] di modo che i dati che calcoliamo dalle tavole corrispondano ai dati ricavabili dall’osservazione dei fenomeni celesti. Il che, fino a questo momento, non si è potuto fare in modo soddisfacente. […] Attraverso dimostrazioni molto laboriose e servendomi dei risultati di moltissime osservazioni, giunsi finalmente a stabilire che la traiettoria del pianeta in cielo non è circolare, ma è una traiettoria ovale perfettamente ellittica. Infrangendo una tradizione millenaria e attraverso un faticosissimo cammino che si protrarrà per diversi anni (durante i quali approfondisce anche altri argomenti, come l’ottica, per la rilevanza di questa disciplina ai fini delle osservazioni astronomiche) e di cui fornisce un dettagliato resoconto nella sua opera, Keplero arriva

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

dunque a stabilire che l’orbita di un pianeta ha la forma di un’ellisse di cui il Sole occupa uno dei fuochi. Questa conclusione è nota come prima legge di Keplero. La seconda legge Nel lungo percorso che lo porta alla scoperta della forma ellittica delle orbite planetarie, Keplero arriva anche a formulare, già nel 1602, quella che (nonostante sia la prima) è invece nota come seconda legge di Keplero: la linea che congiunge un pianeta con il Sole, o raggio vettore, descrive aree uguali in tempi uguali. Con questa legge Keplero riusciva a rendere conto di quanto risultava dai dati dell’osservazione, cioè della natura non uniforme del moto dei pianeti, e del modo in cui la loro velocità variava a seconda della distanza a cui si trovavano dal Sole lungo la propria traiettoria orbitale. Ma Keplero non si ferma a questa descrizione ‘geometrica’; cerca anche di chiarire la causa fisica della variazione di velocità dei moti orbitali e a tale scopo ricorre a «facoltà magnetiche», ispirandosi al De Magnete, pubblicato nel 1600 dall’inglese William Gilbert. Più precisamente Keplero attribuisce al Sole – che teorizza ruoti su se stesso portandosi dietro nel suo moto i pianeti come se li sferzasse – un’emanazione magnetica, che attrae i pianeti (immaginati come piccoli magneti) quando i poli opposti sono più vicini, e li respinge leggermente per il resto dell’orbita.

T10

La «facoltà magnetica» è la causa fisica del moto dei pianeti J. Keplero, Astronomia nova

La semplicità della teoria

3 Il completamento delle leggi dei moti planetari

Dalla geometria appresi che una tale traiettoria viene descritta se si assegna al motore proprio dei pianeti la funzione di far oscillare il corpo lungo la linea retta che termina nel Sole. […] La mia costruzione fu infine terminata con l’aggiunta del tetto quando dimostrai che questa oscillazione [librazione] deve essere prodotta da una facoltà magnetica corporea. I motori che sono propri dei pianeti appaiono in tal modo essere, con ogni probabilità, affezioni degli stessi corpi planetari, simili a quell’affezione che è nel magnete che tende verso il polo e attrae il ferro. In tal modo tutto il sistema dei movimenti celesti è governato da facoltà meramente corporee, ossia magnetiche. Fa eccezione solo la rotazione locale del corpo Sole, per spiegare la quale sembra sia necessaria la forza proveniente da un’anima. Grazie alla sostituzione delle orbite circolari di Tolomeo, Copernico e Brahe con le orbite ellittiche, e del moto uniforme dei pianeti attorno a un punto (posto al centro o vicino al centro) con la legge di uniformità della velocità areale (la seconda legge di Keplero), veniva dunque eliminata ogni necessità di ricorrere a espedienti come erano stati gli eccentrici, gli epicicli o gli equanti dell’astronomia precedente. Come ha osservato lo storico e filosofo della scienza Thomas Kuhn, «per la prima volta una singola curva geometrica, non combinata con altre curve, e una singola legge di moto bastano a prevedere la posizione dei pianeti, e per la prima volta queste previsioni sono in perfetto accordo con le osservazioni disponibili». In questo modo si raggiunge uno degli scopi principali di Keplero, e cioè la semplicità e l’unità della natura.

L’«Armonia del mondo» e la terza legge Il sistema di leggi planetarie di Keplero viene portato a compimento con l’aggiunta, vari anni più tardi, di una terza legge, nota appunto come terza legge di Keplero. Si tratta di una legge di natura differente dalle prime due, e apparentemente un po’ misteriosa: stabilisce che i quadrati dei periodi di rivoluzione di due 91

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il ritorno ai temi pitagorici e la teoria musicale del sistema planetario

La teoria della «proporzione sesquialtera»

L’assetto finale della teoria di Keplero

pianeti sono proporzionali ai cubi delle loro distanze medie dal Sole. Questa legge è contenuta nell’opera più singolare di Keplero, con la quale egli tenta di costruire una teoria coerente dell’universo interamente fondata su leggi armoniche: l’opera, che s’intitola Harmonices mundi libri quinque, viene terminata nel 1618 e pubblicata nel 1619 a Linz, dove Keplero si è trasferito da quando, nel 1612, ha dovuto lasciare Praga in seguito all’abdicazione di Rodolfo II. A Linz Keplero rimarrà per quattordici anni con la qualifica di «Matematico del Distretto», finché per motivi religiosi connessi alla Guerra dei trent’anni sarà costretto a spostarsi di nuovo, iniziando un vagabondaggio presso vari mecenati fino alla morte, che lo coglierà a Ratisbona nel 1630. Con l’Harmonices mundi Keplero intende portare a compimento l’opera intrapresa con il Mysterium cosmographicum: mostrare come l’intero creato sia governato da leggi armoniche, dando una ragione matematica di tutto ciò che concorre a formare l’«armonia del mondo». Dopo molti anni, con il bagaglio dei risultati astronomici e fisici da lui nel frattempo ottenuti, e di un accurato studio delle basi teoriche della musica, Keplero riprende dunque la tematica pitagorica del Mysterium e cerca una nuova legge che permetta di superare i limiti della descrizione precedente. Nella sua costruzione cosmografica basata sui solidi regolari si era infatti occupato solo della ‘struttura spaziale’ del sistema planetario, lasciando aperto il problema della ‘struttura temporale’: cioè il problema del rapporto, per i pianeti, tra la durata dei loro periodi di rivoluzione e la grandezza delle orbite. Alla ‘descrizione statica’ fondata sui cinque solidi regolari Keplero affianca ora una ‘descrizione dinamica’, per cui i moti orbitali vengono a essere collegati a una teoria musicale del sistema planetario, sulla base dell’associazione a ogni pianeta di un «tono» o «modo musicale». In questo contesto si comprende il valore capitale che assume per Keplero la scoperta della terza legge: il rapporto tra i cubi (l’esponente 3) e i quadrati (l’esponente 2) contenuto nella legge, rispecchia il ruolo fondante che ha la «proporzione sesquialtera» (cioè il rapporto 3/2, che produce, in musica, l’intervallo detto di ‘quinta’) nel sistema musicale pitagorico. Come scrive Keplero, la chiave di volta per «vincere le tenebre della mente» dopo «ventidue anni di attesa» dal Mysterium è data dal fatto «certissimo ed esattissimo» che «la proporzione che lega i tempi periodici di ciascuna coppia di pianeti sia precisamente la proporzione sesquialtera delle distanze medie» (la sua terza legge). Un risultato che, è importante sottolineare, Keplero mette subito a confronto con i dati sperimentali di Tycho Brahe, trovando un tale accordo tra questi e la sua teoria che «sulle prime pensa di sognare». Numero dei pianeti Teoria dei poliedri platonici Estensione delle orbite

92

Durata delle orbite

Virtus motrice del Sole

Rapporto tra durata ed estensione

Terza legge

}

Armonia universale

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

4

La fortuna di Keplero

Le tre leggi di Keplero, che ancora troviamo oggi, così denominate, nei manuali di fisica, emergono dunque da un contesto che avremmo difficoltà a qualificare come scientifico. Questo spiega la fortuna controversa che ebbero, tra i contemporanei di Keplero, le sue opere. Con il suo misticismo dei numeri e la sua metafisica delle armonie da una parte, la sua razionalità matematica e l’attenzione ai dati sperimentali dall’altra, Keplero rappresenta una figura di passaggio. La sua ‘antichità’ si esprime nei temi pitagorici e neoplatonici che ne permeano le opere e nel suo mescolare, nelle costruzioni teoriche, a ragioni di tipo fisico e matematico ragioni di tutt’altra natura; la sua ‘modernità’ si esprime nella ricerca sistematica di precise leggi matematiche che regolino i moti e le dimensioni orbitali dei pianeti, e di cause fisiche che ne spieghino le caratteristiche e le particolarità. Se nella prospettiva odierna è possibile avere una chiara visione di questa distinzione tra gli aspetti antichi e moderni di Keplero, questo non vale per i suoi contemporanei, per i quali non era certo facile discriminare tra quanto di davvero scientifico e quanto di arbitraria speculazione ci fosse nelle sue opere. Compreso appieno solo Galileo, in particolare, non comprenderà mai davvero la rilevanza dei risultati nella rivalutazione raggiunti da Keplero (con grande dispiacere di quest’ultimo, che di Galileo avepostuma va invece grandissima stima), giudicandolo molto distante dal proprio modo di essere scienziato (riterrà perfino che alcune tesi di Keplero fossero «più tosto a diminutione della dottrina di Copernico che a stabilimento»). Bacone lo ignorerà completamente, e Cartesio lo ricorderà soltanto per i contributi sull’ottica. In realtà è solo dopo gli anni sessanta del Seicento, quando Newton ne farà uso nella sua opera, che le leggi di Keplero acquisteranno finalmente piena credibilità ➥ Sommario, p. 119 nel mondo scientifico.

Una figura di passaggio verso la modernità

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Galileo e la nascita della scienza moderna

5 I testi

G. Galilei Sidereus Nuncius: L’esperienza sensibile dei corpi celesti, T11 Lettera di G. Galilei a Giuliano de’ Medici: L’osservazione sostiene la teoria copernicana, T12 Il Saggiatore: Distinzione tra le qualità oggettive e le

1

qualità soggettive, T13; L’universo è un libro scritto in caratteri matematici, T14 Dialogo sopra i due massimi sistemi: Contro il principio dell’autorità, T15 L’atto di abiura: L’abiura di Galileo, T16

Il Sidereus Nuncius

Nel 1609 il quarantacinquenne professore di matematica allo Studio di Padova Galileo Galilei punta un giorno verso il cielo il cannocchiale costruito con le proprie mani e comincia una serie di osservazioni: questa immagine ha assunto il significato simbolico della nascita della scienza moderna. Lo studioso che, non solo manifesta fiducia in uno strumento nato nell’ambiente degli artigiani e dei meccanici, solitamente disprezzati dalla scienza ufficiale, ma non esita ad agire egli stesso da artigiano, ricostruendo quello strumento per poi usarlo con metodo e spirito scientifico ai fini della conoscenza della natura, è l’emblema del ‘nuovo uomo di scienza’. La cultura tradizionale guarda in realtà con sospetto alle arti meccaniche e al lavoro manuale, né miglior sorte ce l’hanno gli strumenti pensati come aiuti per i sensi: in questa frattura, e nella convinzione della sua utilità e della sua necessità, troviamo tutta l’importanza del cannocchiale galileiano come nuovo strumento scientifico. Un nuovo modo Che cosa vede dunque Galileo con questo strumento che usa per osservare di vedere con sistematicità il cielo, per fare «centinaia e migliaia di esperienze in mille e mille oggetti, e vicini e lontani, e grandi e piccoli, e lucidi e oscuri»? Il vedere attraverso il cannocchiale è un nuovo modo di vedere, che permette innanzitutto di scoprire aspetti diversi di cose già viste. Come nel caso della Luna, la cui superficie vista da più vicino appare non più «liscia, uniforme e di sfericità esattissima, come di essa Luna e degli altri corpi celesti una numerosa schiera di filosofi ha ritenuto», ma simile a quella terrestre, con irregolarità dello stesso genere (contro la distinzione della tradizione aristotelica tra mondo celeste e mondo sublunare; vedi Figura 8); e come nel caso della Via Lattea e delle nebulose, che Galileo scopre essere, invece che semplici «nubi biancheggianti» di cui non si conosceva l’essenza, degli ammassi di miriadi di stelle.

L’importanza del cannocchiale come nuovo strumento di indagine scientifica

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

T11

L’esperienza sensibile dei corpi celesti G. Galilei, Sidereus Nuncius

Bellissima cosa e oltremodo a vedersi attraente è il poter rimirare il corpo lunare, da noi remoto quasi sessanta semidiametri terrestri, così da vicino, come se distasse di due soltanto di dette misure; […] e quindi con la certezza che è data dell’esperienza sensibile, si possa apprendere non essere affatto la Luna rivestita di superficie liscia e levigata, ma scabra e ineguale, e allo stesso modo della faccia della Terra, presentarsi ricoperta in ogni parte di grandi prominenze, di profonde valli e di anfratti. Di più, l’aver rimosse le controversie riguardo alla Galassia o Via Lattea, con l’aver manifestato al senso, oltre che all’intelletto, l’essenza sua, non è da ritenersi, mi pare, cosa di poco conto; come anche il mostrare direttamente essere la sostanza di quelle Stelle, che fin qui gli Astronomi hanno chiamato Nebulose, di gran lunga diversa da quel che fu creduto finora, sarà cosa molto bella e interessante.

Figura 8

La superficie della Luna. L’immagine della Luna visibile guardando attraverso il cannocchiale in due fasi diverse: si notano nei disegni le irregolarità della superficie del corpo celeste.

La vicinanza dei pianeti

L’osservazione attraverso il cannocchiale rivela anche una differenza sostanziale tra le stelle e i pianeti: le prime – punti luminosi circondati da «raggi brillanti» – «si mostrano di uguale figura all’occhio nudo e viste al cannocchiale» (sono dunque lontanissime); i secondi invece, cambiano notevolmente di grandezza, «presentano i loro globi esattamente rotondi e definiti e, come piccole lune luminose perfuse ovunque di luce, appaiono circolari». 95

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Anche Giove ha dei satelliti

Il Sidereus Nuncius e le scoperte fatte col cannocchiale

Nuove scoperte sui pianeti

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L’osservazione sostiene la teoria copernicana G. Galilei, Lettera di G. Galilei a Giuliano de’ Medici

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Ma vedere attraverso il cannocchiale porta anche, e soprattutto, a scoprire cose nuove, mai viste prima. Oltre all’improvviso popolarsi del cielo di innumerevoli stelle «invisibili alla vista naturale», come nel caso di quelle componenti la Via Lattea, Galileo fa una delle sue più importanti scoperte astronomiche: vede le quattro lune (o satelliti) di Giove. La Terra non è più l’unico pianeta ad avere una sua luna: «il senso mostra quattro stelle erranti attorno a Giove, così come la Luna attorno alla Terra». Il pisano Galileo le battezzerà «stelle medicee» in onore del granduca di Toscana Cosimo II de’ Medici, che, offrendogli il posto di «Filosofo e matematico primario» a Firenze, gli permetterà di tornare nella regione d’origine dopo diciotto anni trascorsi a Padova. Al granduca Galileo dedica anche il volumetto dal titolo Sidereus Nuncius, pubblicato a Venezia nel marzo del 1610, nel quale annunciava le scoperte fatte con il cannocchiale e le conseguenze che ne derivavano per la filosofia naturale e la concezione del mondo. Galileo era da tempo un convinto sostenitore del sistema copernicano. Come aveva scritto nel 1597 a Keplero quando questi gli aveva mandato una copia del Mysterium cosmographicum, egli si era convertito da molti anni alla teoria di Copernico e aveva scritto «molte ragioni per preferirla e confutazioni agli argomenti contrari», ma senza aver osato pubblicare nulla. Nel 1604, quando si era di nuovo verificato un evento analogo a quello della «stella nova» studiata nel 1572 da Tycho Brahe – fenomeni che mettevano in difficoltà la tesi aristotelica dell’immutabilità dei cieli –, Galileo aveva cominciato a esporre pubblicamente il proprio pensiero, sia in conferenze sia nel Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova (1605), criticando la pretesa da parte di una certa filosofia di risolvere i problemi astronomici solo per mezzo di considerazioni metafisiche e non invece, come era opportuno, attraverso determinate misure. Le misure ottenute per mezzo del cannocchiale permisero a Galileo di aggiungere presto ai risultati esposti nel Sidereus Nuncius altre fondamentali scoperte astronomiche: da quella relativa alla particolare configurazione di Saturno, che gli risultava come formato da tre corpi sferici (Galileo non aveva uno strumento sufficientemente potente per visualizzare gli anelli di Saturno), alla scoperta delle fasi di Venere (vedi Figura 9). Il fatto (non spiegabile nel sistema tolemaico) che il pianeta Venere «va mutando le figure nell’istesso modo che fa la Luna» fornisce, per Galileo, un argomento decisivo a favore della teoria copernicana: Venere, nel suo moto intorno al Sole, doveva presentare fasi alterne di illuminazione come accadeva per la Luna. Dopo questi risultati Galileo lascia da parte ogni cautela: è ormai convinto di avere «sensate e certe dimostrazioni» delle due grandi questioni rimaste fino ad allora «dubbie tra’ maggiori ingegni del mondo»: cioè il fatto che i pianeti ruotino intorno al Sole e che siano corpi opachi, che brillano solo di luce riflessa. Come scrive nel gennaio del 1611 a Giuliano de’ Medici: Venere necessarissimamente si volge intorno al Sole, come anco Mercurio e tutti li altri pianeti, cosa ben creduta da i Pitagorici, Copernico, Keplero e me, ma non sensatamente provata, come ora in Venere e Mercurio. Avranno dunque il Sig. Keplero e gli altri Copernicani da gloriarsi di aver creduto e filosofato bene, sebbene ci è toccato e ci è per toccare ancora ad essere reputati dall’universalità dei filosofi in libris per poco intendenti e poco meni che stolti.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica Figura 9

Le fasi di Venere. Nel disegno A è raffigurata l’orbita di Venere intorno al Sole secondo il sistema copernicano e si vede come tale sistema si accordi con l’osservazione delle fasi del pianeta. Nel disegno B, invece, è raffigurata l’orbita di Venere intorno alla Terra (con epiciclo), secondo il sistema tolemaico, e si vede come non sia possibile osservare le fasi di Venere in un tale sistema, poiché il centro dell’epiciclo del pianeta è sempre sulla linea retta che congiunge la Terra al Sole.

La soluzione del problema delle macchie solari

Il colpo di grazia per questi «filosofi in libris», «il funerale o piuttosto l’estremo e ultimo giudizio della pseudofilosofia», è rappresentato per Galileo dalla soluzione del problema delle macchie solari alla quale egli arriva grazie alle accurate misure che gli permette l’uso del cannocchiale. Contro l’ipotesi che le macchie fossero causate da corpi in moto nello spazio tra Terra e Sole, Galileo dimostra che esse sono contigue alla superficie del Sole e che il loro moto indica, di conseguenza, un vero e proprio movimento del Sole. Galileo è persuaso che questo non possa creare alcuna difficoltà «agli ingegni specolativi e liberi, che ben intendono non essere mai stato con efficacia veruna dimostrato, né anco potersi dimostrare, che la parte del mondo fuori del concavo dell’orbe lunare non sia soggetta alle mutazioni e alle alterazioni», come scrive in una delle lettere raccolte e pubblicate con il titolo Istorie e dimostrazioni intorno alle macchie solari.

La vita e le opere Galileo Galilei nacque a Pisa il 15 febbraio 1564. La famiglia nel 1574 si trasferì a Firenze, dove Galilei compì i primi studi. Successivamente, per volere del padre, andò all’università di Pisa per studiare medicina, ma provò scarso interesse per la materia e presto tornò a Firenze, dove passò allo studio della matematica e compì le prime osservazioni di fenomeni fisici. Già nel 1583 ottenne i primi importanti risultati con i suoi studi sul moto di oscillazione del pendolo. Dopo una prima pubblicazione tecnico-scientifica, La bilancetta (1586), significativamente dedicata a esporre il suo progetto di uno strumento di misura (una bilancia idrostatica) e alcuni studi letterari, nel 1589 ottenne il suo primo incarico universitario, come lettore di matematica a Pisa. Vi restò per tre anni, durante i quali in-

traprese i primi studi sul moto, e in particolare sul moto di caduta dei gravi, e stese alcuni manoscritti sull’argomento (De motu). Nel 1592 si trasferì all’università di Padova, dove si inserì in un mondo culturale molto vivo e intraprese varie ricerche scientifiche. La prima opera di astronomia che pubblicò è un opuscolo in dialetto padovano, di cui non figura come autore, intitolato Dialogo de Cecco di Ronchitti da Bruzene in perpuosito de la Stella Nuova (1605). Continuò e si approfondì l’interesse di Galilei per la fabbricazione e l’utilizzo nelle ricerche scientifiche di strumenti di osservazione e di misura. Così nel 1609, avuta notizia di un «occhiale» costruito in Olanda per poter osservare, ingranditi, gli oggetti lontani, egli realizzò un proprio strumento con cui compì le osservazioni poi descritte nel Sidereus Nuncius (1610).

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Nel 1610 tornò in Toscana per ricoprire il posto di «Filosofo e matematico primario» a Firenze. Galilei era pienamente coinvolto nel dibattito sul sistema planetario, punto focale della vita culturale dell’epoca e oggetto di aspre controversie. Nel 1613 venne pubblicata la raccolta di lettere Istorie e dimostrazioni intorno alle macchie solari. Inoltre Galilei iniziò a preoccuparsi del rapporto tra scienza e fede, come testimonia l’importante lettera a Benedetto Castelli (1613). Le preoccupazioni dello scienziato pisano erano fondate, tanto che nel 1615 venne denunciato al Sant’Uffizio dell’Inquisizione romana e nel 1616 arrivarono l’atto di censura e il celebre colloquio con il cardinale Bellarmino. L’oggetto principale del contendere era la teoria copernicana, condannata dalla Chiesa di Roma. Degli anni 1619-1623 è la polemica con il gesuita Orazio Grassi sulle comete; da essa avrà origine una delle opere principali di Galilei, Il Saggiatore (1623). Nello stesso periodo l’atteggiamento della Chiesa sembrò cambiare anche a causa della morte nel 1621 del cardinale Bellarmino e dell’elezione a papa nel 1623,

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con il nome Urbano VIII, del cardinale Maffeo Barberini, noto estimatore di Galileo. Lo scienziato pisano si dedicò allora all’elaborazione di una nuova e definitiva opera in difesa del sistema copernicano, che inizialmente pensò di intitolare Dialogo sopra il flusso e il riflusso delle maree e che sarà finalmente pubblicata nel 1632 con il titolo di Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. Ma la reazione della Chiesa fu di nuovo durissima: la pubblicazione venne confiscata e arrivarono per lo scienziato un nuovo processo davanti al Sant’Uffizio, la condanna al carcere e l’abiura. Lo scienziato ottenne di poter vivere ritirato in casa e si trasferì prima a Siena e poi nella sua villa di Arcetri, vicino a Firenze, dove restò fino alla morte, sopraggiunta nel 1642. Negli ultimi anni Galilei divenne progressivamente cieco, ma riuscì a terminare un’ultima grande opera, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali, pubblicata in Olanda, a Leida, nel 1638.

Lo studio sperimentale e matematico dei moti terreni

La polemica galileiana contro il sapere scientifico tradizionale non si esplica solo nell’ambito dell’astronomia. Un altro terreno su cui Galileo viene a scontrarsi con l’aristotelismo è quello della teoria fisica del moto dei corpi pesanti (o «gravi»), sia in caduta libera sia «proiettati» (cioè lanciati). Le ricerche sul moto occupano tutta la vita scientifica di Galileo: a cominciare dalle prime indagini svolte durante gli anni pisani che precedono il suo trasferimento a Padova nel 1592 (e durante i quali ricopre un posto di lettore di matematica allo Studio di Pisa), fino alla sua ultima grande opera, intitolata Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attenenti alla meccanica e ai movimenti locali, che raccoglie e organizza tutti i suoi risultati sulla fisica e matematica del moto e sulla resistenza dei materiali. La concezione Quando, tra la fine del Cinquecento e i primi anni del Seicento, Galileo cominaristotelica del moto cia a dedicarsi allo studio dei movimenti dei gravi, una teoria fisica del moto in senso moderno è ancora tutta da costruire. La fisica allora dominante era quella della tradizione aristotelica, le cui tesi principali si fondavano su generalizzazioni di osservazioni empiriche ricavate dall’esperienza quotidiana. Dominava l’idea, basata sul principio che tutto ciò che si muove è mosso (finché dura il movimento) da qualcosa, che ci fosse una distinzione fondamentale e qualitativa tra stato di quiete e stato di moto: l’esperienza comune suggerisce infatti che un carretto stia fermo se non riceve nessuna spinta, che si muova se viene spinto, che il suo moto cessi appena ne cessa la causa (la forza con cui è trascinato). Non esistevano nozioni precise di che cosa fossero la velocità e l’accelerazione (non si sapeva, per esempio, che la velocità media fosse uguale allo spazio percorso diviso per l’intervallo di tempo necessario a percorrerlo); nello studio dei movimenti, l’attenzione era concentrata sulla velocità piuttosto che sull’accelerazione, che si pensava fosse presente solo in una fase iniziale e transitoria del moto;

Le ricerche sulla caduta dei gravi

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La mancanza di una teoria moderna del moto e il ricorso all’astrazione

Un laboratorio per lo studio del moto dei gravi

I primi due risultati fondamentali

e si riteneva, infine, che la velocità del movimento fosse direttamente proporzionale alla forza applicata. Tutte queste supposizioni, apparentemente giustificate dall’immediata esperienza dei sensi, sono errate dal punto di vista della fisica moderna: il principio d’inerzia (la cosiddetta «prima legge di Newton»), secondo il quale ogni corpo persevera nel suo stato di quiete o di moto rettilineo uniforme, a meno che non sia costretto da forze impresse a mutare quello stato, ci dice che non c’è differenza qualitativa tra uno stato di quiete e uno stato di moto rettilineo uniforme, e che ci può dunque essere uno stato di moto senza che venga applicata una forza; la legge fondamentale della meccanica (nota come «seconda legge di Newton»), secondo cui il cambiamento di moto è proporzionale alla forza motrice impressa, stabilisce che è l’accelerazione a essere direttamente proporzionale alla forza applicata, non la velocità. Questo ci fa capire come, per l’uomo di scienza del Seicento, la via per arrivare a una formulazione moderna delle leggi del moto non era quella della semplice generalizzazione a partire da esperienze particolari; allo scienzato Galileo occorreva compiere un’operazione di astrazione dalle situazioni particolari e contingenti che erano oggetto di osservazione. In altre parole, occorreva la capacità di distinguere gli elementi costitutivi del fenomeno indagato da quelli puramente accidentali. Nei suoi studi sul moto dei gravi in caduta libera e dei «proietti» (ossia i corpi lanciati nell’aria), Galileo compie i primi fondamentali passi in questa direzione. Si rende progressivamente conto di come la resistenza del mezzo in cui avviene il moto sia solo un elemento accidentale e non costitutivo del moto, al contrario di quanto si era fin lì ritenuto, e cerca di realizzare esperimenti in condizioni tali da minimizzare l’azione perturbatrice del mezzo: sia con strumenti che riducano gli attriti, sia sperimentando su moti più lenti di quelli dei gravi in caduta libera, come i moti oscillatori dei pendoli e i moti su piani inclinati. Allo stesso tempo costruisce strumenti di misura, come il cronometro ad acqua per misurare gli intervalli di tempo, e ne affina via via la precisione, allestendo nella propria abitazione un vero e proprio laboratorio (anche con l’aiuto di un tecnico). Il cammino che Galileo percorre in questo modo verso una moderna fisica del moto passa attraverso i due seguenti fondamentali risultati, ottenuti rispettivamente nel 1604 e intorno al 1608: 1) la legge di caduta dei gravi: partendo dalla premessa errata che la velocità di un grave in caduta libera sia proporzionale allo spazio percorso (invece che al tempo trascorso, come sarebbe arrivato a concludere correttamente in seguito), Galileo arriva attraverso un ragionamento di natura geometrica alla giusta conclusione che gli spazi percorsi sono proporzionali ai quadrati dei tempi necessari per percorrerli; 2) la forma parabolica delle traiettorie dei proietti: Galileo giunge a questo risultato applicando allo studio dei moti di proietti, come quello descritto da una pallina tra l’istante in cui abbandona il piano inclinato e l’istante in cui colpisce il suolo, la pratica geometrica della composizione dei moti fino ad allora applicata solo ai moti celesti. La concezione tradizionale si fondava sulla distinzione aristotelica tra moto naturale (il moto con cui un corpo tende al proprio ‘luogo naturale’) e moto violento (il moto provocato dall’azione di una forza; vedi p. 74). Perciò il movimento del corpo lanciato nell’aria veniva visto come la successione di due movimenti distinti: prima il corpo è soggetto a un moto violento dovuto al lancio, poi, quando tale moto s’interrompe, riprende 99

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il suo moto naturale di caduta verso il basso. Galileo comprende che non c’è discontinuità tra i due moti (quello dovuto al lancio e quello di caduta), annullando così di fatto la distinzione tra moti naturali e violenti, e che la loro composizione geometrica dà come risultato una traiettoria parabolica. Galilei e il moto dei gravi

Approccio aristotelico

Approccio galileiano

Esperienza quotidiana

Esperienza in condizioni controllate (laboratorio)

Astrazione: vengono isolati gli elementi essenziali

Misure con appositi strumenti

Generalizzazioni di osservazioni quotidiane

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Teorie generali

La teoria della conoscenza del Saggiatore

Le posizioni di Galileo nettamente a favore del sistema copernicano e contro alcune tesi fondamentali della fisica aristotelica cominciarono presto a suscitare critiche e polemiche specialmente negli ambienti religiosi. Galileo, accusato da più parti di voler sovvertire, con i suoi argomenti, la filosofia naturale aristotelica e le Sacre Scritture, comprese di doversi difendere e provò a farlo in una lettera inviata all’amico Benedetto Castelli nel dicembre del 1613, in modo che nell’ambiente della corte dei Medici si venisse a conoscenza di ciò che egli pensava del rapporto tra scienza e fede. La linea difensiva di Galileo si basava sulla distinzione tra verità delle Scritture (verità de fide) e verità della scienza (verità de rerum natura): le divine scritture sono assolutamente vere quando si occupano dei problemi de fide, ma per quanto riguarda i problemi de rerum natura si limitano a pochissimi riferimenti, tali che possano essere compresi da persone senza cultura. Spettava dunque al buon cristiano di interpretare con saggezza quei riferimenti, non fermandosi al senso letterale di quanto era spesso scritto in un linguaggio metaforico. Il tentativo di conciliazione tra teologia e astronomia copernicana operato da Galileo si rivela subito troppo debole e nel 1615 egli viene denunciato al Sant’Uffizio dell’Inquisizione romana per affermazioni «sospette e temerarie» contenute nella lettera al Castelli. La censura Nel febbraio del 1616 i teologi del Sant’Uffizio stendono l’atto di censura sulle del cardinale affermazioni che sostengono il moto della Terra intorno al Sole, e pochi giorni doBellarmino po Galileo viene convocato e ammonito dal cardinale Bellarmino: gli viene ordi-

Un primo tentativo di conciliazione tra scienza e fede

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L’antefatto del Saggiatore

Una polemica sulle comete

Una questione di realtà: qualità oggettive e soggettive dei corpi

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Distinzione tra le qualità oggettive e le qualità soggettive

G. Galilei, Il Saggiatore

nato di «abbandonare completamente detta opinione, non accoglierla, difenderla e insegnarla in alcun modo con parole e con scritti». Poco dopo usciva il decreto di condanna della Sacra Congregazione dell’Indice che proibiva tutti i libri che sostenevano la dottrina copernicana, a partire dal De revolutionibus stesso. A Galileo veniva così «serrata la bocca» e tale sarebbe rimasta fino a quando, nel 1623, non avrebbe dato alle stampe Il Saggiatore. L’occasione che si offre a Galileo per tornare pubblicamente in campo è la polemica con il gesuita Orazio Grassi, matematico presso il Collegio Romano, a proposito della teoria di questo sulle comete. Contro il Grassi, Galileo interviene in realtà già nel 1619, suggerendo all’amico Mario Guiducci il testo del Discorso sulle comete (uscito a nome del Guiducci). A questo testo il Grassi aveva risposto con uno scritto in chiave chiaramente antigalileiana, intitolato Libra astronomica et philosophica, che costituisce l’obiettivo polemico del Saggiatore. Qual era dunque il fulcro della polemica? Il Grassi, contro chi usava il fenomeno delle comete a favore della dottrina copernicana, sosteneva che queste compiono orbite circolari attorno al Sole, elaborando una tesi già difesa da Tycho Brahe, e sostenendola con misure di parallasse da cui deduceva che le comete non potevano muoversi al di sotto dell’orbita lunare. Il suo vero obiettivo, che non sfuggiva a Galileo, era di sostenere la superiorità del sistema ticonico rispetto a quello copernicano. Galileo non disponeva di una teoria sulla natura delle comete e sul loro moto. Ma ciò che lo preoccupava era soprattutto l’idea che si potesse far leva su una teoria delle comete per confutare il sistema copernicano. L’attacco di Galileo alle tesi di Grassi ha dunque come scopo quello di demolire la base osservativa su cui si regge la tesi del gesuita. Il punto che mette a fuoco la questione, per Galileo, diventa così quello della realtà o meno degli oggetti da sottoporre a misura: se quindi le comete siano oggetti reali (come sostengono Tycho Brahe e Grassi) o non lo siano, come egli vuole dimostrare. Il ragionamento sul quale si basa per raggiungere questo scopo è centrato sulla famosa distinzione che introduce tra le qualità oggettive dei corpi (come le configurazioni geometriche, le disposizioni nello spazio, gli stati di movimento e il numero delle parti costituenti i corpi), che esistono indipendentemente dal soggetto conoscente, e le qualità soggettive (come i colori, i sapori, gli odori, i suoni e il calore), cioè le qualità che si costituiscono solo nella relazione dell’oggetto naturale con la sensibilità del soggetto. Per tanto io vi dico che ben sento tirarmi dalla necessità, subito che concepisco una materia o sostanza corporea, a concepire insieme ch’ella è terminata e figurata di questa o di quella figura, ch’ella in relazione ad altre è grande o piccola, ch’ella è in questo o quel luogo, in questo o quel tempo, ch’ella si muove o sta ferma, ch’ella tocca o non tocca un altro corpo, ch’ella è una, poche o molte, né per veruna imaginazione posso separarla da queste condizioni; ma ch’ella debba esser bianca o rossa, amara o dolce, sonora o muta, di grato o ingrato odore, non sento farmi forza alla mente di doverla apprendere da cotali condizioni necessariamente accompagnata: anzi se i sensi non ci fussero scorta, forse il discorso o l’immaginazione per sé stessa non v’arriverebbe già mai. Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori etc., per la parte del suggetto nel qual ci par che riseggano, non sieno altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sì che rimosso l’animale, siano levate e annichilate 101

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

tutte queste qualità […] Ma che ne’ corpi esterni, per eccitare in noi i sapori, gli odori e i suoni, si richiegga altro che grandezze, figure, moltitudini e movimenti tardi o veloci, io non lo credo; e stimo che, tolti via le orecchie le lingue e i nasi, restino bene le figure i numeri e i moti, ma non già gli odori né i sapori né i suoni, li quali fuor dall’animale vivente non credo che sieno altro che nomi, come a punto altro che nome non è il solletico e la titillazione, rimosse l’ascelle e la pelle intorno al naso. La riflessione di Galileo riguarda qui il tema del rapporto tra percezione e realtà, tra ciò che ci appare e ciò che esiste veramente. La conoscenza scientifica deve essere indipendente dalle particolarità del «corpo sensitivo», deve rivolgersi solo a ciò che realmente caratterizza il mondo esterno. Solo in questo modo, cioè riferendosi alle qualità oggettive, la conoscenza può progredire verso la verità. Galileo esprime chiaramente, in questo punto, la tesi del carattere oggettivo della scienza modernamente intesa (quella che, abbiamo visto, nasce con la rivoluzione scientifica): nella descrizione della natura dovevano essere eliminati tutti gli elementi soggettivi e qualitativi che non facevano parte dell’architettura oggettiva dell’universo, quegli elementi su cui invece si erano basate, per esempio, la magia e l’astrologia (fondate proprio sulla possibile influenza dell’uomo sulla natura e della natura sull’uomo). L’argomento di Galilei: Come utilizza dunque Galileo la sua teoria della conoscenza contro la tesi del le comete come Grassi sulle comete? L’argomento di Galileo è il seguente: le comete fanno parte illusioni ottiche del mondo delle apparenze, delle qualità soggettive, e quindi non sono oggetto di scienza. Non sono corpi reali ma illusioni ottiche: tolta la vista, esse svaniscono. Oggi sappiamo che Galileo era in errore nel considerare le comete come pure apparenze, ma la sua argomentazione deve essere giudicata inserendola nel contesto in cui egli opera. All’epoca, dal punto di vista scientifico non c’erano infatti argomenti validi per sostenere il carattere reale delle comete. L’atteggiamento di Galileo era quindi quello di un vero scienzato: i dati a disposizione non permettevano al Grassi di difendere la tesi ticonica delle comete. Il Grassi aveva così scelto in modo infondato il problema delle comete per difendere il sistema ticonico. Per questo Galileo gli rimprovera di essersi basato, nell’agire in tale maniera, più sull’autorità di Tycho Brahe che non su argomenti veri e controllabili. L’errore del Grassi, secondo Galileo, sta proprio nel modo di concepire la filosofia naturale, stimando che «la filosofia sia un libro e una fantasia d’un uomo come l’Iliade e l’Orlando Furioso, libri ne’ quali la meno importante cosa è che quello che vi è scritto sia vero». La filosofia naturale è invece, secondo Galileo, qualcosa di molto diverso. Percezione e realtà: il carattere oggettivo della scienza

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L’universo è un libro scritto in caratteri matematici

G. Galilei, Il Saggiatore

Scopi e criteri di valutazione della scienza

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La filosofia è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi agli occhi (io dico l’universo) ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscere i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi ed altre figure geometriche, senza i quali mezi è impossibile a intenderne umanamente parola; senza questi è un aggirarsi vanamente per un oscuro labirinto. In questo passo diventato famosissimo e che ha fatto parlare di platonismo di Galileo, viene dunque ribadita la ferma convinzione galileiana della necessità di usare gli strumenti adeguati nell’esplorazione della natura: innanzitutto quelli ma-

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

tematici, solo attraverso i quali si può raggiungere la verità sulla struttura fisica oggettiva, e quindi quantitativa, del mondo. E le teorie sulla natura devono essere valutate in base alla verità o meno di quello che dicono, non in base a criteri di autorità. La scienza non si limita a formulare ipotesi per salvare i fenomeni (come sostenevano molti a proposito della teoria copernicana), ma ha lo scopo di svelare, attraverso gli strumenti adatti, come il mondo è veramente fatto. L’immagine della scienza nel Saggiatore

Soggetto

Qualità soggettive (sapore, colore ecc.)

Percezione

Oggetto

Qualità oggettive (caratteristiche misurabili)

Conoscenza scientifica = conoscenza oggettiva = indipendente dalle caratteristiche del soggetto

4 Un nuovo contesto politico, più tollerante

➥ Percorso tematico, p. 753

Il Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, la condanna, l’abiura Quando Galileo scrive Il Saggiatore la situazione politica era decisamente migliorata. Nel 1621 era morto il cardinale Bellarmino, e nel 1623 era stato eletto come nuovo papa, con il nome di Urbano VIII, il cardinale Maffeo Barberini, che aveva in più occasioni manifestato la sua stima per Galileo. Nel nuovo clima di maggiore tolleranza che si era instaurato, Galileo si sentì incoraggiato a proseguire la sua opera in difesa del copernicanesimo e in particolare a sviluppare il progetto della stesura di un Dialogo sopra il flusso e il riflusso delle maree, con il quale aveva l’intenzione di mettere definitivamente a tacere gli oppositori della dottrina del moto della Terra. Era infatti sua ferma convinzione che la spiegazione del fenomeno delle maree sulla base del moto della Terra costituisse l’argomento fisico decisivo a favore dell’ipotesi copernicana. Sotto tale rispetto egli era in errore, ma si può comprendere come, fedele al suo metodo scientifico, il ‘nuovo uomo di scienza’ Galileo non potesse accettare la spiegazione che si basava su non ben determinati «influssi» da parte della Luna, che all’epoca apparivano alquanto misteriosi e a Galileo sembravano dello stesso genere delle qualità occulte del sapere magico. Il testo sarà pronto agli inizi del 1630, ma Galileo dovrà aspettare il 1632 per ottenere l’autorizzazione alla stampa, e dovrà accettare di cambiare il titolo in Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano. 103

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’opera è scritta in volgare, in quanto non è diretta ai ristretti ambienti accademici ma al pubblico ben più vasto della borghesia, del clero e delle corti. Da qui anche il tono colloquiale che è favorito dalla struttura del testo, che riproduce, sotto forma di dialogo, il dibattito fra tre protagonisti: Sagredo (ispirato al patrizio veneziano Giovan Francesco Sagredo, nel cui palazzo si immagina svolgersi la discussione), che raffigura l’intellettuale libero e senza pregiudizi; Salviati (ispirato al fiorentino Filippo Salviati) che impersona lo scienziato che argomenta in modo calmo e misurato a favore della dottrina copernicana; e Simplicio, l’unico personaggio fittizio, che rappresenta il difensore della tradizione aristotelica, e che pur non essendo uno sprovveduto teme ogni novità che vada contro il sapere costituito. Per esempio, a Salviati che argomenta contro la distinzione aristotelica tra il mondo celeste immutabile e incorruttibile e il mondo terreno soggetto al mutamento e alla corruzione, Simplicio risponde: «Questo modo di filosofare tende alla sovversion di tutta la filosofia naturale, ed al disordinare e mettere in con quasso il cielo e la Terra e tutto l’universo. Ma io credo che i fondamenti de i Peripatetici sien tali, che non ci sia da temere che con la rovina loro si possano costruire nuove scienze». Simplicio e l’autorità Simplicio rappresenta tipicamente la mentalità che predilige il valore dell’autodi Aristotele rità rispetto alla lezione del ragionamento e dell’esperienza. Se si lascia l’autorità di Aristotele, chiede a un certo punto Simplicio, su quale altra autorità basarsi, «chi ne ha da essere scorta nella filosofia»? La risposta che Galileo dà per mezzo di Salviati è diventata il manifesto del suo pensiero. I personaggi del Dialogo

T15

Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi, ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si deva avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica più a cercar d’intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è più vergognosa che ’l sentir nelle pubbliche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili, uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo. […] Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotele, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta.

La struttura del Dialogo in quattro giornate

L’intera discussione fra i tre personaggi è articolata in quattro giornate. La prima giornata è dedicata alla dimostrazione dell’insostenibilità della concezione del mondo secondo la tradizione aristotelica (basata appunto sulla distinzione tra mondo celeste e sublunare), alla quale Galileo contrappone, per mezzo delle argomentazioni del Salviati e del Sagredo, la tesi dell’unicità del mondo fisico, descrivibile da un’unica e medesima scienza. La seconda giornata prende in detta-

Contro il principio dell’autorità

G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi

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Unità 2 La rivoluzione scientifica ➥ Laboratorio di lettura, p. 122

Un impatto brusco

L’Inquisizione blocca la diffusione del Dialogo

➥ Sommario, p. 119

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L’abiura di Galileo

G. Galilei, L’atto di abiura

gliato esame tutti i tipici argomenti rivolti contro l’ipotesi del moto diurno della Terra (cioè della rotazione che la Terra compie in un giorno su se stessa): da quello della pietra lasciata cadere dall’alto di una torre, che dovrebbe toccare il suolo in un punto spostato verso occidente rispetto alla base della torre, a quello del vento che dovremmo sentire per effetto del moto della Terra, o degli effetti centrifughi che da tale moto dovrebbero risultare. A tutti questi argomenti Galileo risponde con quello che poi è stato chiamato il «principio di relatività galileiano»: cioè il principio per cui, in base alle osservazioni compiute all’interno di un determinato sistema di riferimento (per esempio, una nave), non è possibile stabilire se il sistema sia in quiete o in moto uniforme. Nella terza giornata è preso in considerazione il moto annuale della Terra (la rivoluzione che la Terra compie intorno al Sole). Infine nella quarta giornata viene discussa per esteso quella che Galileo ritiene la prova inconfutabile a favore del moto della Terra, cioè la sua teoria del fenomeno delle maree. Il Dialogo venne pubblicato nel febbraio e già nell’estate la reazione ostile contro le sue tesi era diventata così forte da suscitare una presa di posizione da parte dello stesso papa Urbano VIII. Galileo, consapevole della portata della sua opera, aveva cercato di moderarne l’impatto fingendo di aderire, nel proemio e nelle parole conclusive del libro, alla posizione che considerava l’astronomia copernicana alla stregua di pura ipotesi matematica, senza pretesa di descrizione della realtà. Ma questa sua adesione risultava ben poco credibile alla luce del resto dell’opera, e non poteva servire a salvare Galileo dal dramma che si stava preparando. Nel luglio del 1632 l’Inquisitore di Firenze diede l’ordine di sospendere la diffusione del Dialogo e di confiscare tutte le copie esistenti. Il testo fu mandato alla Congregazione del Sant’Uffizio e in ottobre fu intimato a Galileo di recarsi a Roma e mettersi a disposizione del Commissario dell’Inquisizione. Galileo riuscì a rimandare la partenza per qualche mese, ma nel gennaio del 1633 dovette alla fine mettersi in viaggio per presentarsi al Sant’Uffizio. La triste vicenda terminò con la sentenza di condanna emessa il 22 giugno del 1633. Nello stesso giorno Galileo fu costretto a leggere un pubblico atto d’abiura. Io Galileo, figliolo del q. Vincenzo Galileo di Fiorenza, dell’età mia d’anni 70, […] con cuore sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, eresia e setta contraria alla Santa Chiesa; e giuro che per l’avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simil sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d’eresia lo denonziarò a questo S. Offizio, o vero all’Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Bacone e il metodo scientifico

6 I testi

F. Bacone Il parto maschio del tempo: La magia tradisce l’esperienza, T17; Accusa alla filosofia contemplativa, T18 Nuovo Organo: Gli «idoli» condizionano anche chi ha accesso alla verità, T19; I quattro tipi di «idoli», T20; I tre passaggi del metodo induttivo, T23; La tavola della presenza, T24; Interpretare per andare oltre le tre tavole, T25; L’esperimento cruciale, T26; Api, ragni e formiche: la scienza oltre

Una carriera politica importante

Francis Bacon, o Francesco Bacone, è insieme con Galilei il grande pensatore grazie al quale il sapere scientifico acquisisce consapevolezza del proprio metodo e delle proprie potenzialità pratiche. Ma Bacone è anche una figura peculiare rispetto agli altri protagonisti della rivoluzione scientifica. Se essi, come abbiamo visto, hanno praticato direttamente la scienza, Bacone non fu uno scienziato ma principalmente un politico.

La vita e le opere Francis Bacon (italianizzato in Francesco Bacone), nacque a Londra il 22 gennaio 1561, figlio di sir Nicholas Bacon, per vent’anni Lord Guardasigilli della regina Elisabetta. Dopo gli studi di legge a Cambridge, al Trinity College, venne avviato alla carriera diplomatica; si recò in Francia al seguito dell’ambasciatore inglese. Alla morte del padre tornò in Inghilterra dove fece l’avvocato e avviò una brillante carriera politica che lo portò presto in parlamento. Con l’ascesa al trono di re Giacomo I la carriera di Bacone ebbe un’impennata tanto da giungere alle cariche di Lord Guardasigilli e poi di Lord Cancelliere e ai titoli di barone di Verulamio e di visconte di Sant’Albano. Già negli anni della più intensa attività politica, Bacone scrisse numerose opere filosofiche, tra le quali i primi due volumi della Instauratio magna («La grande Instaurazione», la raccolta delle sue opere principali): La dignità e il progresso del sapere divino e umano (1605) e, importantissimo, il Nuovo Organo (1620). Scrisse inoltre alcune opere di rilievo che saranno pubblicate postume, L’annuncio di una nuova cultura

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l’empirismo e il dogmatismo, T27; Conoscenza della causa formale e principi della trasformazione dei corpi, T28; Il rapporto dell’uomo con la natura e l’importanza degli strumenti, T29 La grande Instaurazione: Critica dell’uso del sillogismo, T21; L’enumerazione semplice, T22 Nuova Atlantide: Gli strumenti tecnici immaginati da Bacone, T30

tra le quali si ricordano Il parto maschio del tempo (terminato nel 1603) e La confutazione delle filosofie (1608). In politica Bacone si trovò al centro di molte controversie. Da sempre convinto lealista e sostenitore del potere monarchico, attirò l’ostilità di molti parlamentari. Nel 1621, accusato di corruzione nel momento in cui il re Giacomo I convocava il parlamento per l’imposizione di nuove tasse, ammise la sua colpevolezza ed evitò il carcere, ma subì l’interdizione dai pubblici uffici e si ritirò a vita privata. Si dedicò allora agli studi a tempo pieno, fino alla morte improvvisa nel 1626. Nell’ultimo periodo scrisse una rielaborazione del precedente volume La dignità e il progresso del sapere divino e umano, intitolata De dignitate et augmentis scientiarum («Sulla dignità e l’accrescimento delle scienze», 1623), e i due tomi del III volume della Instauratio magna, rispettivamente intitolati Historia naturalis et experimentalis («Storia naturale e sperimentale», 1622) e Silva silvarum («La selva della selve», pubblicato postumo nel 1627). Quest’ultimo testo reca in appendice la Nuova Atlantide, incompiuta.

Con Bacone si afferma la consapevolezza, di fronte alla nascente scienza della natura e alle numerose scoperte e invenzioni, della necessità di un nuovo modo di praticare la filosofia e più in generale di una nuova cultura. Secondo Bacone, questo rinnovamento del sapere avrebbe avuto grandi conseguenze pratiche e

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avrebbe condotto a un’epoca che si sarebbe differenziata da tutte le altre; di questo nuovo periodo della storia dell’umanità egli stesso si attribuì il ruolo di annunziatore e di iniziatore.

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Gli errori della tradizione

Per giungere a questo rinnovamento occorre, secondo Bacone, rifiutare nettamente la filosofia del passato. La critica alla tradizione è il passo indispensabile per costruire la filosofia della nuova epoca, sebbene nella sua opera, come si vedrà in seguito, siano ancora presenti temi della tradizione (della magia, dell’astrologia, dell’aristotelismo e del platonismo). Due sono i principali obiettivi polemici verso i quali, fin dai suoi primi lavori filosofici, Bacone indirizza la propria attenzione: il sapere della magia e il sapere della filosofia tradizionale, ai quali contrappone il sapere della scienza e la filosofia sperimentale che nasce dal contatto diretto con la natura e l’esperienza. Critica della magia Il sapere della magia è un sapere segreto e solo per iniziati, mentre il sapere dele contrapposizione la scienza è di carattere pubblico e intersoggettivo; il sapere della magia cerca con la scienza cause occulte, non controllabili empiricamente, mentre il sapere della scienza si basa sull’osservazione empirica e sulla ripetizione sperimentale. L’esperienza costituisce, per Bacone, la guida della filosofia. Nella sua prima e breve opera filosofica, Il parto maschio del tempo, il filosofo inglese si scaglia duramente contro le imposture dei maghi e contro Paracelso, il principale esponente delle correnti magiche e alchimistiche del Cinquecento.

Primo passo: la critica della tradizione

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Tu non soltanto, come i Sofisti, hai oscurato la luce della natura (il cui santissimo nome la tua impura bocca pronuncia tante volte), ma l’hai spenta addirittura. Essi disertano l’esperienza, tu l’hai tradita. L’evidenza che proviene dalle cose è ancora cruda e maschera la realtà, tu hai sottoposto quest’evidenza a un’interpretazione già preordinata. Invece del calcolo dei movimenti, hai cercato le trasformazioni delle sostanze e in tal modo hai tentato di corrompere le fonti della scienza e di spogliare la mente degli uomini. Alle difficoltà e alle oscurità degli esperimenti […] hai aggiunto ostacoli nuovi ed estranei. E dunque non è vero che tu abbia conosciuto o seguito la guida dell’esperienza! Hai fatto anzi tutto il possibile per accrescere l’ingordigia dei maghi.

La filosofia tradizionale è una filosofia di parole

Anche il sapere della filosofia della tradizione è stato cieco di fronte all’esperienza, e proprio per questo motivo è risultato oscuro e sterile: una filosofia delle parole senza contatto con la realtà, e perciò incapace di avere conseguenze pratiche, di dar luogo a invenzioni e scoperte. Fino dai tempi della Grecia classica, fino da Platone e Aristotele, secondo Bacone, la filosofia ha preferito le vie dell’astrazione all’analisi attenta della realtà. La filosofia greca ha poi tramandato questo carattere a quella successiva, fino alla filosofia a lui contemporanea. Tutto ciò non è stato solo il frutto di un errore filosofico, ma una vera e propria colpa morale dei filosofi del passato, che hanno peccato di superbia intellettuale, sostituendo al difficile lavoro di indagine della natura la speculazione astratta e la contemplazione interiore. Leggiamo nel brano che segue l’atto d’accusa che Bacone rivolge a Platone.

La magia tradisce l’esperienza

F. Bacone, Il parto maschio del tempo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

T18

Accusa alla filosofia contemplativa F. Bacone, Il parto maschio del tempo

Il rifiuto dell’autorità della tradizione

Magia, scienza e filosofia contemplativa

Quando asserisci falsamente che la verità è abitante nativo della mente umana e non viene dall’esterno, quando distogli le nostre menti dalle osservazioni della storia e delle cose, verso le quali invece non si è mai sufficientemente attenti ed obbedienti, quando ci insegni a volgere all’interno gli occhi della mente e ad umiliarci davanti ai nostri idoli ciechi e confusi sotto il nome di contemplazione, allora tu commetti una colpa capitale. Inoltre, come già Galileo, Bacone rimprovera alla filosofia della tradizione di aver preferito alla guida dell’esperienza l’autorità di pochi filosofi del passato. Essa si è accontentata delle loro dottrine, dedicandosi all’interpretazione dei testi, e non è progredita nello studio della natura. La conseguenza è che le scienze sono rimaste per duemila anni «nello stesso stato senza nessun progresso degno di nota», come scrive in un’opera composta nel 1608, La confutazione delle filosofie: «Dio non vi ha fatto dono di anime razionali perché portiate a degli uomini il tributo che dovete al vostro Autore (vale a dire la fede che è dovuta a Dio e alle cose divine), né vi ha accordato fermi e validi sensi per studiare gli scritti di pochi uomini, ma per studiare il cielo e la terra che sono opera di Dio».

Magia La verità è in interpretazioni preordinate rispetto all’esperienza

Scienza sperimentale L’interpretazione dell’esperienza deve essere ricavata dall’esperienza stessa

Filosofia contemplativa La verità è nella mente dell’uomo e quindi non si deve guardare all’esperienza

Mondo naturale

Non c’è sapere eterno

2 Errori che si frappongono tra l’intelletto e la realtà

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Al culto dell’autorità e alla sapienza degli antichi, Bacone obietta che non c’è un sapere che possa essere considerato indubitabile e la cui autorità sia eterna e si debba imporre a tutti. Come si esprime in un’altra opera di questo periodo, i Pensieri e conclusioni sull’interpretazione della natura o sulla scienza operativa: «per universale consenso la verità è figlia del tempo».

La teoria degli «idoli» Tutte queste errate concezioni della tradizione filosofica sono dovute al fatto che la mente umana soltanto con molta difficoltà riesce ad avere un accesso alla realtà diretto e scevro da pregiudizi. Nell’intelletto umano si radicano, infatti, tutta una serie di errori e false illusioni – «idoli» vengono chiamati da Bacone (idola, in latino): cioè forme vane di sapere – che risultano di ostaco-

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lo alla corretta comprensione della realtà. Da questi errori l’uomo si deve liberare se vuole approdare al raggiungimento della verità e alla conoscenza della natura. La teoria degli idoli è contenuta in un’opera pubblicata nel 1620, il Nuovo Organo, nella quale vengono fissate le tesi principali della filosofia di Bacone.

T19

Gli «idoli» condizionano anche chi ha accesso alla verità F. Bacone, Nuovo Organo

Prima tipologia: gli idoli della tribù

Seconda tipologia: gli idoli della spelonca

Terza tipologia: gli idoli del foro

Quarta tipologia: gli idoli del teatro

T20

I quattro tipi di «idoli»

F. Bacone, Nuovo Organo

Gli idoli e le false nozioni che sono penetrati nell’intelletto umano fissandosi in profondità dentro di esso, non solo assediano le menti in modo da rendere difficile l’accesso alla verità, ma addirittura (una volta che questo accesso sia dato e concesso) di nuovo risorgeranno e saranno causa di molestia anche nella stessa instaurazione delle scienze: almeno che gli uomini, preavvertiti, non si agguerriscano per quanto è possibile contro di essi. Gli errori da cui la mente umana può essere sviata sono, a seconda della loro origine, di quattro tipi: gli «idoli della tribù», gli «idoli della spelonca», gli «idoli del foro» e gli «idoli del teatro». Gli idoli della tribù (idola tribus) derivano dalla natura della specie umana, in particolare dalla tendenza naturale della mente a semplificare e a deformare le cose, e dalla naturale insufficienza dei sensi a cogliere gli aspetti più reconditi della natura. Proprio in quanto tendenze naturali, essi sono comuni a tutti gli uomini. Gli idoli della spelonca (idola specus) sono invece gli errori che hanno origine nella natura singolare di ogni individuo, la quale, a causa della sua propria e particolare costituzione, dell’educazione ricevuta, dell’influsso dell’ambiente e delle circostanze esterne, riflette sempre in modo diverso la luce della natura, così come – dice Bacone con un implicito riferimento al mito della caverna di Platone – in una spelonca viene riflessa la luce che viene dall’esterno. Gli altri due tipi di errori non derivano dalle caratteristiche generali o singolari della natura umana, ma direttamente dalla realtà esterna rispetto all’uomo. Gli idoli del foro (idola fori) hanno origine nelle caratteristiche dell’interazione e del consorzio tra gli uomini, e in particolare nel linguaggio usato in questa interazione, il quale, nascendo da un uso comune e volgare, porta con sé le tracce dell’ignoranza. Il foro, cioè la piazza e il mercato, è il luogo esemplare in cui avviene il contatto fra gli uomini e in cui nascono gli errori di questo tipo; la maggior parte di essi deriva da un uso confuso e ambiguo delle parole, oppure dall’uso delle parole per riferirsi a oggetti inesistenti. Gli idoli del teatro (idola theatri), sono invece gli errori che si possono imputare alle diverse teorie apparse sulla scena della filosofia: esse hanno creato false rappresentazioni della realtà e della natura, storie immaginarie analoghe a quelle che vengono recitate sul palcoscenico di un teatro. Di questo genere sono per esempio, secondo Bacone, la dottrina dei quattro elementi o la teoria del moto circolare dei pianeti. Gli idoli della tribù sono fondati sulla stessa natura umana e sulla stessa tribù o razza umana. Pertanto si asserisce falsamente che il senso è la misura delle cose. Al contrario, tutte le percezioni, sia del senso che della mente, derivano dall’analogia con l’uomo, non dall’analogia con l’universo. L’intelletto umano è simile a uno specchio che riflette irregolarmente i raggi delle cose, che mescola la sua propria natura a quella delle cose e le deforma e le travisa. […] 109

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Gli idoli della spelonca sono idoli dell’uomo in quanto individuo. Ciascuno infatti (oltre alle aberrazioni proprie della natura umana in generale) ha una specie di propria caverna o spelonca che rifrange e deforma la luce della natura: o a causa della natura propria e singolare di ciascuno, o a causa dell’educazione e della conversazione con gli altri, o della lettura di libri, e dell’autorità di coloro che vengono onorati e ammirati, o a causa delle diversità delle impressioni a seconda che siano accolte da un animo già condizionato e prevenuto oppure sgombro ed equilibrato. […] Vi sono poi gli idoli che derivano quasi da un contratto e dalle reciproche relazioni del genere umano: li chiamiamo idoli del foro a causa del commercio e del consorzio degli uomini. Gli uomini infatti si associano per mezzo dei discorsi ma i nomi vengono imposti secondo la comprensione del volgo e tale errata e inopportuna imposizione ingombra straordinariamente l’intelletto. […] Le parole fanno violenza all’intelletto e confondono ogni cosa e trascinano gli uomini a innumerevoli e vane controversie e finzioni. […] Vi sono infine gli idoli che sono penetrati nell’animo degli uomini dai vari sistemi filosofici e dalle errate leggi delle dimostrazioni. Li chiamiamo idoli del teatro perché consideriamo tutte le filosofie che sono state accolte e create come altrettante favole presentate sulla scena e recitate, che hanno prodotto mondi fittizi da palcoscenico. Non parliamo soltanto dei sistemi filosofici attuali o delle antiche filosofie e delle antiche sette, perché è sempre possibile comporre e combinare molte altre favole dello stesso tipo. Interpretazione della natura contro anticipazione della natura

Anticipazione della natura e interpretazione della natura

Tutti questi idoli conducono a delle errate rappresentazioni della natura e della realtà. Ci sono, infatti, due modi di rappresentare la natura, uno errato e uno vero. Le rappresentazioni errate sono chiamate da Bacone «anticipazioni della natura»: esse sono errate perché prodotte frettolosamente dall’esame di pochi dati o dall’esame soltanto dei dati più abituali. Le rappresentazioni vere sono invece chiamate «interpretazioni della natura»: esse sono vere perché prodotte dall’esame di molti dati, inclusi quelli meno abituali. Le interpretazioni della natura, cioè, sono vere perché prodotte seguendo il corretto metodo di acquisizione della conoscenza: l’induzione, di cui si tratterà nel prossimo paragrafo. Gli errori della tradizione sono dunque anticipazioni e non interpretazioni della natura, ed essi sono destinati a essere scacciati qualora venga seguito il metodo corretto, attraverso il quale è possibile giungere a una rappresentazione non deformata della realtà: «ricavare i concetti e gli assiomi per mezzo dell’induzione vera: questo è senza dubbio il rimedio adatto per scacciare e rimuovere gli idoli».

Conoscenza erronea («idoli»)

Anticipazione della natura

Conoscenza scientifica

Interpretazione della natura

L’interpretazione della natura conseguita grazie al metodo scientifico è una rappresentazione corretta di essa perché evita gli idoli che si frappongono tra la mente umana e la conoscenza della natura e che distorcono le rappresentazioni tradizionali

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3 Un Nuovo Organo per superare la logica aristotelica

Il metodo della scienza Il metodo di acquisizione della conoscenza viene delineato da Bacone nel Nuovo Organo. Già dal titolo quest’opera si pone come la presentazione di una nuova logica, in grado di superare la vecchia logica contenuta nell’Organo aristotelico. Di questo metodo si sarebbe dovuta avvalere la scienza nella sua opera di conoscenza della realtà. Il primo passo compiuto da Bacone è quello di criticare la logica deduttiva di Aristotele come una logica sterile e inadatta alla scienza della natura. Il metodo sillogistico aristotelico deduce da alcuni assiomi generali delle conclusioni particolari attraverso delle assunzioni intermedie (come nel noto sillogismo: tutti gli uomini sono mortali, Socrate è un uomo, allora Socrate è mortale). Il metodo sillogistico, sostiene Bacone, è formalmente ineccepibile, ma è sterile, perché le conclusioni non aggiungono niente a quanto già contenuto nelle premesse; ed è inadatto alla scienza, perché non dà garanzie che le premesse siano vere e ricavate in maniera corretta dalla realtà naturale.

T21

Noi respingiamo la dimostrazione per mezzo del sillogismo, perché essa non produce che confusione, e fa sì che la natura ci sfugga dalle mani. Quantunque infatti nessuno possa dubitare che due cose che si accordano con un termine medio, si accordino anche fra di loro (che è una specie di certezza matematica), tuttavia è qui nascosto un inganno: perché il sillogismo consta di proposizioni, le proposizioni di parole e le parole sono le etichette e i segni delle nozioni. Pertanto se le nozioni della mente (che sono come l’anima delle parole e le basi di tutta questa struttura e di questo edificio) sono vaghe, falsamente o arbitrariamente astratte dalle cose, non sufficientemente definite e delimitate, e infine in molti modi erronee, tutto l’edificio crolla. Respingiamo dunque il sillogismo, e non solo per ciò che concerne i principi (ai quali neppure i logici lo applicano), ma anche per quanto riguarda le proposizioni medie, che senza dubbio il sillogismo produce e partorisce, ma che sono sterili di opere, remote dalla pratica e prive di valore relativamente alla parte attiva delle scienze.

Critica della concezione aristotelica dell’induzione

Ma anche Aristotele non si era limitato al metodo sillogistico-deduttivo. Aveva affiancato ad esso un procedimento induttivo attraverso il quale, dall’esame dei casi particolari, si poteva passare a principi di carattere generale. Tuttavia, il modo aristotelico di concepire l’induzione è, secondo Bacone, scorretto: l’induzione di Aristotele si limita a trarre immediatamente dal particolare il generale, e in ciò consiste il suo errore. Essa si basa su quella che Bacone chiama «enumerazione semplice»: l’enumerazione di una serie di casi da cui immediatamente viene indotto il principio generale. Il passaggio dal caso particolare ai principi generali deve invece essere un passaggio graduale, che non trae il generale immediatamente dal particolare, come nel caso dell’induzione per enumerazione semplice, ma che «induce» dal particolare prima degli «assiomi medi», dai quali possono poi essere indotti gli «assiomi generali». L’induzione così concepita non è quindi mera generalizzazione, ma è una vera e propria «interpretazione» della realtà.

T22

Finora il procedimento era questo: dal senso e dai particolari si volava ai principi più generali come verso poli fissi intorno ai quali si svolgono le dispute; da questi principi poi si facevano derivare tutti gli altri mediante proposizioni medie. Metodo, questo, senza dubbio molto rapido, ma precipitoso, inadatto a con-

Critica dell’uso del sillogismo F. Bacone, La grande Instaurazione

L’enumerazione semplice F. Bacone, La grande Instaurazione

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

durci alla natura e invece adatto e favorevole alle dispute. Secondo noi invece gli assiomi devono ricavarsi insensibilmente e gradatamente in modo da giungere solo in ultimo ai principi generali. Questi principi, in tal modo, riescono non puramente ideali, ma ben determinati e tali che la natura li riconosca come suoi propri e più noti a sé ed essi ineriscano al midollo delle cose. Ma dobbiamo apportare grandissimi cambiamenti anche alla forma stessa dell’induzione e al giudizio che per mezzo di essa si compie. Infatti quell’induzione di cui parlano i dialettici, e che procede per semplice enumerazione, è qualcosa di puerile che conclude precariamente ed è esposta al pericolo di una istanza contraddittoria; essa coglie soltanto i fatti consueti e non perviene a una conclusione. Alle scienze è necessaria un’induzione di forma tale da risolvere e analizzare l’esperienza e concludere necessariamente mediante legittime esclusioni ed eliminazioni. Il metodo induttivo basato sull’esclusione

T23

I tre passaggi del metodo induttivo

F. Bacone, Nuovo Organo

Questa nuova induzione non si basa, quindi, sulla semplice enumerazione ma sull’esclusione. È solo dopo l’attenta scelta dei casi e delle conclusioni non essenziali che si giunge agli assiomi medi e da qui agli assiomi generali. Il procedimento ideato da Bacone prevede tre passaggi: come primo passo deve essere predisposto un attento lavoro di raccolta dei dati, che Bacone chiama «storia naturale e sperimentale»; questo lavoro da solo non è tuttavia sufficiente, in quanto i dati così raccolti mancano di ordine; come secondo passo devono quindi essere predisposte delle «tavole» in cui i dati sono registrati e ordinati; solo su questa base è possibile il terzo passo, costituito dall’induzione per eliminazione. In primo luogo bisogna infatti preparare una storia naturale e sperimentale sufficiente e buona: essa è il fondamento di tutto; e non si deve immaginare o escogitare, ma scoprire quello che la natura fa o produce. Ma la storia naturale e sperimentale, è tanto varia e sparsa da confondere e disgregare l’intelletto, se non venga fissata e disposta nell’ordine adatto. A questo scopo bisogna preparare tavole e coordinazioni delle istanze, strutturate in modo tale che l’intelletto possa agire su di esse. Ma, anche ciò fatto, l’intelletto abbandonato a sé e al suo spontaneo movimento è inadatto e incapace alla costruzione degli assiomi, se non venga guidato e aiutato. Così in terzo luogo si deve ricorrere alla induzione legittima e vera che è la chiave stessa dell’interpretazione.

I due tipi di induzione

Dati particolari dell’esperienza

Storia naturale (raccolta dei dati particolari)

Induzione tradizionale (scienza aristotelica)

Tavole e coordinazioni dei casi particolari

Enumerazione semplice

(Generalizzazione)

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Induzione per eliminazione

Teorie generali

(Interpretazione)

Induzione baconiana

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Unità 2 La rivoluzione scientifica Tre tipi di tavole per ordinare i dati

T24

La tavola della presenza

F. Bacone, Nuovo Organo

La tavola dell’assenza e la tavola dei gradi

La «prima vendemmia», prima ipotesi provvisoria di spiegazione

T25

Interpretare per andare oltre le tre tavole

F. Bacone, Nuovo Organo

Le tavole in cui vengono ordinati i dati dell’esperienza sono di tre tipi: «tavole della presenza», «tavole dell’assenza» e «tavole dei gradi». Nella tavola della presenza vengono riportati tutti casi in cui compare il fenomeno di cui si cerca la spiegazione; per esempio tutti i casi in cui si manifesta il fenomeno del calore: i raggi del sole, i vari tipi di fiamma, i fulmini e così via. […] sopra una natura data si deve fare un ordine di comparizione, di fronte all’intelletto, di tutte le istanze note che si trovano insieme in una stessa natura, anche se in materie oltremodo differenti. E quest’ordine di comparizione dev’essere fatto storicamente, senza far uso di speculazioni affrettate o di eccessive sottigliezze. Per esempio, nell’indagine della forma del caldo: Istanze che si trovano insieme nella natura del caldo 1. I raggi del sole, soprattutto d’estate e a mezzogiorno 2. I raggi del sole riflessi e condensati, come fra i monti o fra pareti e soprattutto negli specchi ustori 3. Le meteore infuocate 4. I fulmini ardenti 5. Le eruzioni di fiamme dalle viscere dei monti, ecc. […] Denominiamo questa tavola: Tavola dell’Essenza e della Presenza Nella tavola dell’assenza («Tavola della Deviazione o dell’Assenza in Prossimità») vengono riportati tutti i casi che sono prossimi e simili ai precedenti, ma nei quali il fenomeno che viene indagato è assente, per esempio i raggi della luna, i raggi delle comete, i fuochi fatui, i lampeggiamenti che fanno luce ma non bruciano ecc. Nella tavola dei gradi («Tavola dei gradi o comparativa»), infine, sono riportati i casi in cui il fenomeno è presente ma varia per gradi di intensità, «sia che la comparazione dell’aumento e della diminuzione venga fatta in uno stesso soggetto, sia che venga fatta in soggetti diversi». Attraverso una stesura esauriente delle tavole, si può giungere all’esclusione delle ipotesi non pertinenti (per esempio che la causa del calore risieda nella «luce», perché il calore è presente nei metalli riscaldati al di sotto dell’incandescenza, o che risieda nella «tenuità», perché anche un materiale denso come l’oro può essere facilmente riscaldato, e così via); e si può tentare una prima provvisoria ipotesi di spiegazione, che è detta da Bacone «prima vendemmia» (vindimiatio prima): per esempio che il calore sia una specie di moto, un moto che tende a dilatare il corpo, che tende verso l’alto, che non appartiene a tutto il corpo ma solo alle sue parti e che è molto rapido. Ma poiché la verità emerge più in fretta dall’errore che dalla confusione, riteniamo utile permettere all’intelletto, dopo aver fatto e soppesato le tre Tavole di prima citazione (così come le abbiamo poste) di accingersi a tentare l’opera di interpretazione della natura nell’affermazione, sia partendo dalle istanze comprese nelle Tavole, sia dalle altre che mano a mano si prestino. Siamo soliti chiamare questo tipo di tentativo, Permesso dell’intelletto, o Interpretazione iniziale, oppure Prima Vendemmia. […] Sulla base di questa Prima Vendemmia, la forma o definizione vera del calore (di quello che è in ordine all’universo e non relativo soltanto al senso) è, espressa in poche parole, la seguente: Il caldo è un moto espansivo, trattenuto, che opera mediante le parti minori del corpo. 113

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La conferma della «prima vendemmia»

T26

L’esperimento cruciale

F. Bacone, Nuovo Organo

4 Il bilanciamento tra esperienza e ragione

T27

Api, ragni e formiche: la scienza oltre l’empirismo e il dogmatismo

F. Bacone, Nuovo Organo

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L’ultimo passaggio per capire se il procedimento di induzione risulta corretto e se siamo quindi di fronte a una vera interpretazione della natura, è costituito dal sottoporre le ipotesi a cui si giunge dopo la prima vendemmia a numerosi esperimenti di conferma, chiamati «istanze prerogative». L’istanza più importante è il cosiddetto «esperimento cruciale» (instantia crucis), attraverso il quale si arriva a selezionare una sola spiegazione fra più ipotesi possibili, scartando le altre come errate, così come a un incrocio si sceglie quale strada seguire scartando tutte le altre. Tra le istanze prerogative metteremo al quattordicesimo posto le istanze cruciali, con termine preso in prestito alle croci che si mettono ai bivi delle strade ad indicare la biforcazione. […] Il loro scopo è questo: quando nell’indagine su una natura, l’intelletto è come in equilibrio, incerto se attribuire e assegnare a una tra due o più nature la causa della natura su cui indaga, dato il concorso frequente e ordinario di più nature, allora le istanze cruciali mostrano che l’unione di una sola di queste nature con la natura indagata è certa e indissolubile, mentre quella con le altre è varia e separabile. Sicché la questione è risolta, e la prima natura è accolta come causa, mentre l’altra è abbandonata e ripudiata. Queste istanze recano quindi moltissima luce, e hanno grande autorità, tanto che qualche volta il processo dell’interpretazione si arresta ad esse e da esse è concluso.

La conoscenza delle forme Il metodo induttivo così delineato si presenta come un procedimento in cui i dati raccolti dall’esperienza vengono bilanciati con le ipotesi e le congetture della ragione. Bacone stesso è consapevole dell’importanza di questo equilibrio fra esperienza e ragione, per evitare i difetti insiti nel privilegiare solo l’esperienza – è la posizione di coloro che chiama «empirici» – , oppure nel privilegiare solo la ragione – è la posizione di coloro che chiama «dogmatici» o «razionalisti». Utilizzando una similitudine che diverrà poi famosa, i primi sono paragonati alle formiche, che consumano direttamente il materiale da loro accumulato, i secondi ai ragni, che creano da sé la tela che darà loro nutrimento; la posizione corretta è quella che unisce le virtù di entrambe le posizioni: cioè quella delle api, che ricavano il nutrimento dall’esterno, ma lo trasformano secondo la propria natura. Coloro che trattarono le scienze furono o empirici o dogmatici. Gli empirici, come le formiche, accumulano e consumano. I razionalisti, come i ragni, ricavano da sé medesimi la loro tela. La via di mezzo è quella delle api, che ricavano la materia prima dai fiori dei giardini e dei campi, e la trasformano e digeriscono in virtù della loro propria capacità. Non dissimile è il lavoro della vera filosofia che non si deve servire soltanto o principalmente delle forze della mente; la materia prima che essa ricava dalla storia naturale e dagli esperimenti meccanici non deve essere conservata intatta nella memoria ma trasformata e lavorata dall’intelletto. Così la nostra speranza è riposta nell’unione sempre più stretta e più santa delle due facoltà, quella sperimentale e quella razionale, unione che non si è finora realizzata.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Il fine del procedimento induttivo è quello di giungere alla conoscenza della «forma» della cosa studiata, cioè di ciò che viene considerato l’essenza profonda e la vera natura della cosa; una conoscenza che Dio ha immediatamente ma che l’uomo può raggiungere solo attraverso il metodo induttivo. Delle quattro cause individuate da Aristotele – materiale, finale, efficiente e formale – Bacone scarta infatti le prime tre come inutili e sterili, e ritiene essenziale solo la causa formale, sforzandosi di dare a questa nozione un significato nuovo. Forma, schematismo La nozione di forma è connessa ad altri due concetti introdotti da Bacone, quellatente e processo lo di «schematismo latente» e quello di «processo latente»: lo schematismo lalatente tente è la struttura ultima e non percepibile di un particolare fenomeno; il processo latente è il processo di trasformazione, anch’esso non immediatamente visibile ai sensi, del fenomeno. Conoscere la forma è allora conoscere lo schematismo e il processo latente, la struttura essenziale e la legge che regola la trasformazione del fenomeno: «compito e scopo dell’umana scienza è trovare la forma di una natura data, ossia la differenza vera, o natura naturante o fonte di emanazione (questi sono i termini di cui disponiamo che più si avvicinano ad indicare la cosa). [A questo compito ne è subordinato un altro:] la scoperta in ogni generazione e movimento, del processo latente reso ininterrotto dal processo efficiente manifesto e dalla materia manifesta fino alla forma che è posta all’interno; e allo stesso modo la scoperta dello schematismo latente dei corpi che sono in quiete e non in movimento». La forma delle cose come oggetto della scienza

Il percorso della scienza nella ricerca della conoscenza delle forme

Una concezione ancora qualitativa della scienza

Da

a

Natura manifesta ai sensi (fenomeni)

Essenza nascosta dei fenomeni naturali (natura latente)

Processualità: generazione movimento

Processo latente

Corpi in quiete

Schematismo latente

Uno dei problemi maggiori nell’interpretazione del pensiero di Bacone è spiegare cosa egli intenda con la nozione di «forma»; ed è anche uno degli aspetti in cui è apparso più evidente il legame con la tradizione aristotelica e scolastica. Come quella tradizione, Bacone privilegia un’analisi qualitativa della realtà, lasciando fuori della sua attenzione quanto invece si era già affermato con Keplero e Galileo: la centralità della nozione di causa efficiente, a cui preferisce quella di causa formale, da una parte, l’uso della matematica ai fini della scienza dall’altra. La matematica è ancora considerata da Bacone come qualcosa di estraneo al procedimento scientifico, come uno strumento utile a rendere conto di un ordine metafisico di armonia universale, così come essa era stata concepita nella tradizione platonica. 115

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Parte prima La nascita della filosofia moderna L’alchimia e la trasformazione dei corpi

T28

Conoscenza della causa formale e principi della trasformazione dei corpi

F. Bacone, Nuovo Organo

Non solo, ma la conoscenza delle forme avrebbe per Bacone aperto alla scienza orizzonti sorprendenti, tanto da essere soddisfatte le stesse aspirazioni della magia e dell’alchimia. Bacone ritiene, come gli alchimisti, che una volta conosciute le nature semplici di un corpo, sia possibile separarle da esso; si possa per esempio separare una pietra dal suo colore, dal suo peso, dalla sua duttilità ecc., e introdurre tali nature in un altro corpo, tanto da poter trasformare una qualsiasi pietra in oro. Se uno conosce la causa di qualche natura (come della bianchezza o del colore) soltanto in alcuni soggetti particolari, la sua scienza è imperfetta; e se può indurre un effetto soltanto sopra alcune materie (tra quelle che ne sono suscettibili) egualmente la sua potenza è imperfetta. Se uno conosce soltanto la causa efficiente e quella materiale (che sono cause variabili e nient’altro che veicoli e cause che in alcuni casi trasportano la forma), può sì raggiungere nuove scoperte in materie abbastanza simili e predisposte, ma non penetrare più a fondo i termini fissi delle cose. Ma, chi conosce le forme, questi abbraccia l’unità della natura nelle materie più diverse. Può dunque scoprire e produrre cose che ancora non sono state realizzate: quali né gli accadimenti naturali, né le attività sperimentali, né il caso stesso hanno mai portato a compimento o sottoposto alla riflessione umana. Perciò dalla scoperta delle forme discende la contemplazione vera e l’operare libero. […] Il precetto o assioma della trasformazione dei corpi è di duplice genere. Il primo genere riguarda il corpo come un insieme di nature semplici. Così nell’oro si trovano insieme queste: è giallo; pesante di un determinato peso; malleabile e duttile sino a un certo grado di estensibilità; non si volatilizza né perde di quantità nel fuoco; fonde con un certo grado di fluidità; si separa e si scioglie in determinati modi; e così di seguito per altre nature che insieme sono presenti nell’oro. Questo assioma deduce dunque la cosa dalle forme delle nature semplici. Chi conosce infatti le forme e i modi di introdurre il giallo, il peso, la duttilità, la solidità, la fluidità, la solubilità e così via, nonché i loro gradi e modi, vedrà come far sì che queste cose possano congiungersi in un corpo, onde ne consegua la sua trasformazione in oro. Elementi moderni e pre-moderni convivono così nel pensiero di Bacone, come del resto, lo si è visto, in gran parte dei protagonisti della rivoluzione scientifica.

5 Un legame inscindibile

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Scienza e tecnica Il riconoscimento del legame della scienza con l’operare tecnico è uno degli aspetti di maggiore interesse e novità del pensiero di Bacone. Il ruolo pratico della scienza viene apprezzato in tutta la sua importanza: come viene sempre ripetuto, per Bacone «sapere è potere». Innanzitutto la tecnica è di aiuto nel perseguimento della conoscenza; senza uno stretto rapporto con il fare tecnico la scienza non sarebbe possibile, dato che affinché si abbia scienza è necessaria la costruzione di nuovi strumenti e l’elaborazione di complessi esperimenti. Così si apre il Libro Primo del Nuovo Organo:

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

T29

Il rapporto dell’uomo con la natura e l’importanza degli strumenti

F. Bacone, Nuovo Organo

I. L’uomo, ministro e interprete della natura, opera e intende solo per quanto, con la pratica o con la teoria, avrà appreso dell’ordine della natura: di più non sa né può. II. Né la nuda mano, né l’intelletto abbandonato a se stesso hanno potenza. I risultati si raggiungono con strumenti e con aiuti e di questi ha bisogno non meno l’intelletto che la mano. Come gli strumenti amplificano e reggono il moto della mano, così gli strumenti della mente guidano o trattengono l’intelletto. III. La scienza e la potenza umana coincidono perché l’ignoranza della causa fa mancare l’effetto. La natura infatti non si vince se non obbedendo ad essa, e ciò che nella teoria ha valore di causa, nell’operazione ha valore di regola.

Inoltre, il perfezionamento della tecnica è conseguenza diretta della scienza. Grazie alla scienza l’uomo può accrescere la propria forza e il proprio dominio sulla realtà, viene messo in possesso di invenzioni e scoperte che diventano lo strumento di questo dominio. Compito della scienza è non solo conoscere, ma trasformare la realtà a vantaggio dell’uomo. L’utopia della Nuova Un mondo utopico in cui si realizza questo dominio della scienza e della tecnica Atlantide viene immaginato da Bacone in una delle sue ultime opere, rimasta incompiuta, la Nuova Atlantide. In essa viene descritta una società ideale, scoperta in un’isola immaginaria al largo del Perù, «Bensalem». Nell’isola trova attuazione una perfetta convivenza morale e civile fra gli uomini; gli scienziati detengono il potere politico e, dopo avere liberata la mente umana dalle illusioni e dai fantasmi, usano la scienza al servizio dei loro cittadini, per estenderne la potenza e il dominio sulla natura. Essi sono riuniti in una istituzione, la Casa di Salomone, la cui organizzazione, delineata nei dettagli da Bacone, ha costituito il prototipo delle prime accademie scientifiche d’Europa (in particolare della Royal Society di Londra, fondata nel 1662), nelle quali trovò realizzazione il modello di sapere pubblico e intersoggettivo praticato dalla nuova scienza naturale. Così Bacone descrive gli scopi della Casa di Salomone e alcuni dei suoi ritrovati tecnici (molti dei quali cesseranno di essere utopici con lo sviluppo del progresso scientifico):

Conoscere e dominare il mondo

T30

Gli strumenti tecnici immaginati da Bacone F. Bacone, Nuova Atlantide

Fine della nostra istituzione è la conoscenza delle cause e dei segreti movimenti delle cose, allo scopo di allargare i confini del potere umano verso la realizzazione di ogni possibile obiettivo. I mezzi e gli strumenti sono i seguenti: abbiamo ampie caverne più o meno profonde, le più profonde delle quali si addentrano nella terra fino a seicento cubiti […]. Chiamiamo queste caverne «regioni inferiori» e ce ne serviamo per esperienze di coagulazione, indurimento, refrigerazione e conservazione dei corpi. Ne usiamo anche a imitazione delle miniere naturali, per la produzione di nuovi metalli artificiali, mediante la combinazione di vari materiali ivi giacenti da moltissimi anni […]. Abbiamo inoltre officine meccaniche dove fabbrichiamo macchine e strumenti per ogni genere di movimenti: qui facciamo esperimenti per realizzare moti più veloci di quelli che voi avete realizzato sia con le vostre bocche da fuoco sia con qualunque altra vostra macchina e per realizzare il movimento e moltiplicarlo, servendoci di deboli forze, mediante ingranaggi e altri sistemi e infine per rendere questi moti più forti e potenti dei vostri: superiori anche a quelli dei vostri più grandi cannoni e colubrine […]. Imitiamo il volo degli uccelli, e riusciamo entro certi limiti a librarci in aria. Abbiamo navi e imbarcazioni per navigare sott’acqua e per resistere alle tempeste marine, e cinture di sicurezza e congegni per reggersi a galla. 117

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Il progetto di un’enciclopedia universale delle scienze

➥ Sommario, p. 119

Il progetto di un sapere universale ispirato a questi ideali viene elaborato da Bacone in un’altra opera dell’ultimo periodo, Sulla dignità e l’accrescimento delle scienze. In quest’opera (che rielabora uno scritto del primo periodo, La dignità e il progresso del sapere divino e umano), è delineata l’esigenza di un’enciclopedia universale delle scienze, che segua, nella sua ripartizione, le facoltà della mente umana: la storia, corrispondente alla memoria, la poesia, corrispondente all’immaginazione, la filosofia (a sua volta distinta in teologia, scienza della natura e scienza dell’uomo), corrispondente alla ragione. Bacone non ebbe modo di portare a compimento l’imponente progetto, tuttavia esso ebbe grande fortuna, rappresentando il modello a cui si ispirarono, un secolo dopo, Diderot e d’Alembert per la realizzazione della Enciclopedia illuministica (vedi Unità 11, p. 567 ss.).

Suggerimenti bibliografici Per una ricostruzione storica complessiva vedi R.S. Westfall, La rivoluzione scientifica del XVII secolo, il Mulino, Bologna 1999. Un punto di vista alternativo a quello prevalente e più attento agli aspetti di continuità con il passato è quello di S. Shapin, La rivoluzione scientifica, Einaudi, Torino 2003. Segnaliamo anche uno studio interessante sull’importanza della tecnica e delle macchine per gli sviluppi della scienza moderna: P. Rossi, I filosofi e le macchine 1400-1700, Feltrinelli, Milano 2002. Un’ottima introduzione a Galilei è fornita dalla seguente monografia: S. Drake, Galileo, il Mulino, Bologna 1998. Per un’introduzione a Bacone con un particolare riguardo al problema del rapporto con il pensiero rinascimentale si può vedere il sempre attuale P. Rossi, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza, il Mulino, Bologna 2005. I brani antologizzati sono tratti da: P. Rossi (a cura di), La rivoluzione scientifica: da Copernico a Newton, Loescher, Torino 1973: p. 73 (T11), pp. 143-144 (T4), p. 148 (T2), pp. 149-150 (T5), p. 153 (T3), pp. 154-155 (T1), p. 115 (T6), pp. 157-159 (T7), pp. 160-161 (T8), p. 165 (T9), pp. 165-166 (T10); inoltre i brani citati a p. 70 (p. XIII), p. 79 (pp. 186-187) e p. 83 (p. 157). G. Galilei, Opere, Barbera, Firenze 1890-1909: vol. 6 (T13); p. 232 (T14); vol. 7, pp. 138-139 (T15); vol. 11, p. 12 (T12); vol. 19, p. 407 (T16); inoltre il brano citato a p. 104 (vol. 7, p. 62). F. Bacone, Scritti filosofici, a cura di P. Rossi, UTET, Torino 1975: pp. 108-109 (T18), pp. 111112 (T17), pp. 533-534 (T21), pp. 534-535 (T22), pp. 551-552 (T29), p. 559 (T19), pp. 560-562 (T20), pp. 607-608 (T27), pp. 641-644 (T28), p. 650 (T23), pp. 650-652 (T24), pp. 681 e 687 (T25), p. 717 (T26), pp. 855-856, 862 (T30); inoltre il brano citato a p. 108 (p. 407). Il brano di A. Koyré citato a p. 80 è tratto da Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano 1970, p. 11. Il brano di J. Donne citato a p. 80 è tratto da Anatomy of the world, 1611.

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Sommario 1. CHE

COS’È LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

Va sotto il nome di «rivoluzione scientifica» il cambiamento epocale avvenuto nel pensiero filosofico e scientifico europeo fra il XVI e il XVII secolo. Questo processo storico modifica radicalmente la natura della scienza, la figura dello scienziato e più in generale il rapporto dell’essere umano con la conoscenza e con l’universo. Si avviano mutamenti culturali e concettuali fondamentali: l’abbandono della concezione finalistica della natura, l’identificazione dell’obiettivo della scienza con la ricerca di leggi causali generali esprimibili in formule matematiche e l’abbandono dell’idea della centralità dell’essere umano e del pianeta Terra nell’universo. 2. LA

RIVOLUZIONE COPERNICANA

La rivoluzione scientifica parte nel XVI secolo con le ricerche astronomiche di Copernico e la pubblicazione del suo De revolutionibus. [par. 1] Egli sostiene che è la Terra a muoversi intorno al Sole e non viceversa, e su questa tesi costruisce un sistema astronomico alternativo a quello tolemaico, fondato sui capisaldi della fisica aristotelica come la distinzione tra mondo terrestre e mondo celeste e tra moti naturali e moti violenti. [parr. 2-3] La teoria di Copernico è ben sviluppata tecnicamente e gli astronomi iniziano a utilizzare le sue tavole, ma la sua descrizione del cosmo è in contrasto con la lettura corrente della Bibbia e con l’idea radicata che l’uomo e la Terra sono al centro dell’universo. Copernico non recede dalle sue convinzioni e rifiuta i compromessi, come quello suggerito da Osiander che vuole riconciliare scienza e fede dando alla teoria scientifica solo un valore ipotetico, senza pretese di verità. [par. 4] 3. IL

COMPROMESSO DI

TYCHO BRAHE

Brahe è uno dei maggiori protagonisti del dibattito astronomico del XVII secolo. Egli passa alla storia come il maggior osservatore del cielo a occhio nudo raccogliendo, anche grazie al suo grande osservatorio, un’enorme mole di dati sui fenomeni celesti, patrimonio prezioso anche per i suoi successori. Le osservazioni contraddicono il sistema tolemaico: per esempio le traiettorie delle comete passano attraverso le ipotetiche «sfere» trasparenti dei cieli e non sono circolari. Brahe tuttavia ha da obiettare anche contro il sistema copernicano e propone una sua originale ipotesi di compromesso tra i due, il cosiddetto «sistema ticonico». 4. KEPLERO:

VERSO UNA MODERNA FISICA DEI CIELI

Johannes Kepler (Keplero), grande studioso dei moti planetari, elabora una teoria astronomica innovativa, avvalendosi anche dei dati osservativi raccolti da Brahe, di cui è collaboratore e successore. [par. 1] Keplero afferma che le orbite planetarie sono ellittiche ed enuncia le tre leggi fisiche ancora oggi note come «leggi di Keplero». [parr. 2-3]

Keplero è una figura emblematica del suo tempo: da un lato è moderno perché formula le sue teorie in termini matematici e si attiene saldamente ai dati di osservazione, dall’altro resta legato alla tradizione pitagorica e platonica e certe sue tesi hanno ragioni mistico-metafisiche non meno che scientifiche. [par. 4] 5. GALILEO

E LA NASCITA DELLA SCIENZA MODERNA

Con Galileo Galilei si compie la creazione di una nuova scienza e la sua figura riassume molti tratti dello scienziato moderno. Egli elabora un metodo sperimentale avanzato e fa cadere la barriera tradizionale tra scienza e tecnica con la costruzione e l’uso del cannocchiale per l’osservazione degli astri e di un laboratorio in cui ripetere le esperienze sulla caduta dei gravi in condizioni controllate. I risultati delle sue ricerche sono altrettanto rilevanti: porta nuove prove a sostegno della verità della teoria di Copernico, nega la distinzione tra moto naturale e moto violento e getta le basi per una teoria del moto in forma matematica. [parr. 1-2] Nel Saggiatore Galilei, introducendo la distinzione tra qualità oggettive e soggettive rivendica la capacità della scienza di conoscere la realtà oggettiva, indipendente dalle condizioni del soggetto conoscente, attraverso la misurazione e l’espressione matematica delle caratteristiche quantitative dei fenomeni. [par. 3] Il lungo e drammatico confronto con la Chiesa termina con la condanna del capolavoro di Galilei, il Dialogo sopra i due massimi sistemi e con l’abiura dello scienziato. [par. 4] 6. BACONE

E IL METODO SCIENTIFICO

Bacone è uno dei massimi metodologi e promotori della scienza moderna. In polemica con la filosofia contemplativa di matrice platonica e con la magia, afferma la necessità di un nuovo approccio alla conoscenza della natura. [par. 1] Nella sua teoria degli «idoli» Bacone classifica ed esamina i principali errori che viziano la conoscenza umana e nel Nuovo Organo elabora un metodo di induzione per avanzare progressivamente nella conoscenza della natura sottoponendo le ipotesi generali a conferma e a selezione sulla base dell’esperienza. [parr. 2-3] Accanto ad aspetti di grande modernità, nel pensiero di Bacone sopravvivono elementi tradizionali come la concezione qualitativa dell’oggetto della scienza (le forme) che rimanda da un lato all’aristotelismo e dall’altro all’alchimia. [par. 4] Infine un tratto tipicamente moderno della filosofia di Bacone è la valorizzazione del rapporto tra scienza e tecnologia: la tecnologia fornisce alla scienza strumenti per conoscere la natura, la teoria scientifica serve a perfezionare gli strumenti tecnologici e l’intreccio scienza-tecnologia serve – sapere è potere – a dominare la natura. [par. 5] 119

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Parole chiave Accelerazione. Variazione della velocità nell’unità di tempo. Questa grandezza, prima trascurata e mal definita, ha una parte importante nella nascita della scienza moderna, particolarmente in relazione alle ricerche di Galilei sul moto dei gravi. Astrazione. Generalizzazione operata escludendo gli elementi reputati accidentali e conservando solo quelli essenziali. Base osservativa. Il complesso dei dati delle osservazioni su cui si basa una teoria fisica. Eliocentrico. Detto del sistema teorico del cosmo che pone al centro il Sole. Geocentrico. Detto del sistema teorico del cosmo che pone al centro la Terra.

Moto violento. Nella fisica aristotelica, il movimento impresso a un corpo da un altro corpo; questo concetto viene contrapposto a quello di moto naturale. Poliedri platonici. I cinque solidi regolari ossia tetraedro, cubo, ottaedro, dodecaedro e icosaedro. Sono detti «platonici» per la funzione fondamentale che è stata loro attribuita nella genesi del cosmo nel Timeo di Platone. Qualità oggettive. In un processo conoscitivo, le caratteristiche dell’oggetto indipendenti dallo stato del soggetto; per via di tale indipendenza la loro conoscenza ha validità oggettiva. Nel Saggiatore Galilei identifica le qualità oggettive con le caratteristiche quantitative dei fenomeni, misurabili ed esprimibili in termini matematici.

Induzione. Ragionamento che procede dal particolare al generale; esso permette di costruire una teoria generale a partire dai dati dell’esperienza, che è sempre particolare.

Qualità soggettive. Le caratteristiche dell’oggetto, date nell’esperienza, che dipendono dallo stato del soggetto e per questo non hanno valore di conoscenza della realtà. Per Galilei (Saggiatore) colori e sapori sono esempi di qualità soggettive.

Intersoggettivo. Condiviso e/o condivisibile da una molteplicità di soggetti; l’intersoggettività della conoscenza ne rende possibile il controllo da parte di persone diverse e in circostanze diverse e, in epoca moderna, diventa un criterio importante di validità oggettiva.

Relatività (principio galieiano di). Principio enunciato da Galilei nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, secondo il quale non è possibile riconoscere se un sistema di riferimento è in quiete o in moto rettilineo uniforme in base a esperienze di meccanica compiute al suo interno.

Legge (fisica). Proposizione universale che descrive l’andamento di determinati fenomeni fisici, tipicamente formulata in termini matematici nella scienza moderna.

«Salvare i fenomeni». Espressione che si riferisce al rapporto tra teoria scientifica ed esperienza: una teoria «salva i fenomeni» quando è coerente con i dati osservativi. L’espressione è stata utilizzata dai sostenitori della concezione secondo la quale la scienza non può ambire alla conoscenza della realtà e quindi deve limitarsi a «salvare i fenomeni».

Mondo celeste. Concetto fondamentale della fisica aristotelica, che distingue nettamente il mondo celeste, in cui esistono solo movimenti perfettamente circolari e nessun altro mutamento, dal mondo terrestre o sublunare. Mondo terrestre (o sublunare). Il mondo del nostro pianeta; nella fisica aristotelica è contrapposto nettamente al mondo celeste e si caratterizza per essere soggetto a ogni sorta di mutamento, di generazione e di corruzione. Moto naturale. Nella fisica aristotelica, il movimento di ciascun corpo verso il luogo a cui tende per sua natura (luogo naturale), che può essere interrotto solo dal raggiungimento del luogo naturale o da un moto violento.

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Sistema tolemaico / Astronomia tolemaica / Cosmologia tolemaica. Denominazioni che si riferiscono alla concezione del cosmo codificata dall’astronomo Tolomeo nel II secolo d.C. e adottata con sviluppi e aggiustamenti successivi fino all’epoca di Copernico. Verità de fide. Espressione introdotta da Galilei in contrapposizione a «verità de rerum natura» per distinguere l’ambito delle verità della religione da quello delle verità scientifiche e tentare di conciliare scienza e fede. Verità de rerum natura. Termine introdotto da Galilei in contrapposizione a «verità de fide».

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Questionario CHE

COS’È LA RIVOLUZIONE SCIENTIFICA

1

LA

RIVOLUZIONE COPERNICANA

2

3

IL

In che modo la nuova scienza legittima la sua pretesa di superare le autorità del sapere tradizionale come la filosofia antica e i testi biblici? (max 3 righe) Quali sono le due grandi dottrine che caratterizzano la concezione del cosmo prima di Copernico? (max 2 righe) In che cosa consiste l’incoerenza che Copernico attribuisce alla concezione tradizionale e in particolare all’uso degli «eccentrici»? (max 3 righe)

COMPROMESSO DI

4

5

In che modo Copernico nella sua teoria rende conto delle osservazioni del moto, almeno apparente, del Sole secondo T4? (max 3 righe)

12

Quali ragioni adduce Copernico in T5 per avvalorare la sua tesi del moto della Terra? (max 4 righe)

13

Per quali ragioni Tycho Brahe ritiene in T6 che le sue osservazioni delle comete smentiscano la teoria delle sfere celesti? (max 2 righe)

14

Con quale tipo di procedimento Keplero in T9 è arrivato a sostenere, contro la teoria precedentemente accettata, che le orbite planetarie hanno forma ellittica? (max 2 righe)

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Quale contributo nuovo rivendica Galilei in T12 alle sue ricerche, che fa compiere un passo avanti all’astronomia moderna, oltre Copernico e gli altri suoi predecessori? (max 2 righe)

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In che cosa consistono in realtà e dove risiedono, secondo Galilei in T13, le qualità soggettive? (max 4 righe)

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Qual è il rapporto corretto tra lo scienziato e l’autorità dei classici per Galilei in T15? (max 3 righe)

VERSO UNA MODERNA FISICA DEI CIELI

Da dove deriva e in quali termini è esprimibile l’armonia del mondo di cui parla Keplero? (max 4 righe)

GALILEO

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TYCHO BRAHE

Quali sono le motivazioni che portano Tycho Brahe a elaborare un terzo sistema astronomico, diverso da quello tolemaico e da quello copernicano? (max 5 righe)

KEPLERO:

Lavoriamo sui testi

E LA NASCITA DELLA SCIENZA MODERNA

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A che cosa serve il cannocchiale a Galileo nello studio dell’astronomia? (max 3 righe)

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Quale esigenza conoscitiva fondamentale porta Galileo a costruire un laboratorio per lo studio del moto dei gravi? (max 3 righe)

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Qual è l’errore fondamentale della filosofia contemplativa secondo quanto dice Bacone in T18? (max 3 righe)

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Quale movimento planetario è l’oggetto del contendere nel Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo e perché è così importante? (max 4 righe)

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Come si generano secondo Bacone in T20 gli idoli del foro e quali sono gli elementi che condizionano la conoscenza umana in questo caso? (max 3 righe)

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Perché Bacone respinge in T21 il sillogismo aristotelico, pur essendo consapevole che esso è un ragionamento logicamente valido? (max 3 righe)

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Qual è dal punto di vista di Bacone in T27 la chiave per il superamento dei limiti dell’empirismo e del dogmatismo da parte della scienza moderna? (max 4 righe)

BACONE 9

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E IL METODO SCIENTIFICO

Bacone ritiene che la scienza moderna debba rompere con la cultura tradizionale, che ostacola la conoscenza della natura: quali sono i due principali obiettivi polemici in questo senso? (max 2 righe) A che scopo Bacone auspica la collaborazione di scienza e tecnica? (max 2 righe)

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Laboratorio di lettura Galileo, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo Nella seconda giornata del Dialogo, pubblicato nel 1632 con l’intenzione di mettere definitivamente a tacere gli oppositori della dottrina copernicana, Galileo prende in esame gli argomenti tipicamente utilizzati contro l’ipotesi del moto diurno della Terra, cioè contro l’ipotesi secondo cui la Terra compie una rotazione completa su se stessa nell’arco di un giorno. A tali argomenti Galileo risponde, come si vede nel brano che segue (composto da estratti dal testo della seconda giornata del Dialogo), con ragionamenti basati su due principi: il principio della composizione dei moti e quello che è divenuto noto come principio della relatività galileiana (cioè il principio per cui, in base alle osservazioni compiute in un determinato sistema di riferimento, non è possibile stabilire se questo sia in uno stato di quiete o di moto rettilineo uniforme). I due personaggi che discutono sono il copernicano Salviati e l’aristotelico Simplicio.

Il moto della Terra Premessa: l’esame degli argomenti basati sui fenomeni terrestri

Commento e interpretazione

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SALVIATI – Gli argomenti che si producono in questa materia son di due generi: altri hanno riguardo a gli accidenti terrestri, senza relazione alcuna alle stelle, ed altri si cavano dalle apparenze ed osservazioni delle cose celesti. Gli argomenti di Aristotile son per lo più cavati dalle cose intorno a noi, e lascia gli altri alli astronomi; però sarà bene, se così vi pare, esami-

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A. Galileo si riferisce in queste righe agli argomenti utilizzati tradizionalmente contro l’ipotesi del moto della Terra, che sono di due tipi, a seconda che della Terra venga considerato il moto giornaliero di rotazione su se stessa o il moto annuale di rivoluzione intorno al Sole: gli argomenti del primo tipo, come la maggior parte di quelli discussi da Aristotele, sono basati su osservazioni che riguardano fatti che avvengono sulla Terra; gli argomenti del secondo tipo sono fondati sull’osservazione dei fenomeni celesti, cioè su osservazioni di natura astronomica. Nella seconda giornata Galileo, per bocca di Salviati, si concentra sugli argomenti basati su fatti terrestri, rimandando alla terza giornata la discussione di quelli di tipo astronomico. B. Oltre agli argomenti contro il moto della Terra di Aristotele, Galileo deve tener conto di tutti quelli addotti da numerosi altri astronomi (tra i quali innanzitutto Tolomeo e Tycho Brahe) e filosofi. Il suo metodo è di raggrupparli il più possibile, in modo da confutarli tutti insieme in una volta sola. C. L’argomento più forte («la più gagliarda ragione») rivolto contro l’ipotesi del moto di rotazione nell’arco di un giorno (la «conversion diurna») della Terra è quello basato sull’osservazione del moto di caduta libera verticale dei corpi pesanti («gravi»). Secondo coloro che negano la possibilità del moto terrestre, un sasso lasciato cadere dalla cima di una torre, per effetto dello spostamento verso oriente della Terra (che ruota in senso orario), dovrebbe toccare il suolo in un punto spostato verso occidente rispetto alla base della torre, che è solidale con il moto di rotazione («vertigine») della Terra. Questo argomento, considerato di validità indiscutibile («irrefragabile») dagli aristotelici, si fonda sull’assunzione (che poi Galileo dimostrerà non essere valida) che il sasso, una volta in

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Tesi da confutare: la caduta dei gravi e il moto di un proietto dimostrano l’immobilità della Terra

Confutazione dell’argomento: richiesta di una prova Risposta: la prova è nei sensi

nar questi presi dalle esperienze di Terra, e poi verremo all’altro genere. [A] […] E perché da Tolomeo, da Ticone e da altri astronomi e filosofi, oltre a gli argomenti d’Aristotile, presi, confermati e forticati da loro, ne son prodotti de gli altri, si potranno unir tutti insieme, per non aver poi a replicar le medesime o simili risposte due volte. […] [B] Per la più gagliarda ragione si produce da tutti quella de i corpi gravi, che cadendo da alto a basso, vengono per una linea retta e perpendicolare alla superficie della Terra; argomento stimato irrefragabile, che la Terra stia immobile: perché, quando ella avesse la conversion diurna, una torre dalla sommità della quale si lasciasse cadere un sasso, venendo portata dalla vertigine della Terra, nel tempo che ’l sasso consuma nel suo cadere, scorrerebbe molte centinaia di braccia verso oriente, e per tanto spazio dovrebbe il sasso percuotere in terra lontano dalla radice della torre. [C] […] Fortificasi tal argomento con l’esperienza d’un proietto tirato in alto per grandissima distanza, qual sarebbe una palla cacciata da una artiglieria drizzata a perpendicolo sopra l’orizzonte, la quale nella salita e nel ritorno consuma tanto tempo, che nel nostro parallelo l’artiglieria e noi insieme saremmo per molte miglia portati dalla Terra verso levante, talché la palla, cadendo, non potrebbe mai tornare appresso al pezzo, ma tanto lontana verso occidente quanto la Terra fosse scorsa avanti. [D] […] Ora, per cominciar a sviluppar questi nodi, domando al signor Simplicio, quando altri negasse a Tolomeo e ad Aristotile che i gravi nel cader liberamente da alto venissero per linea retta e perpendicolare, cioè diretta al centro, con qual mezo lo proverebbero. [E] SIMPLICIO – Col mezo del senso, il quale ci assicura che quella torre è diritta e perpendicolare, e ci mostra quella pietra nel cadere venirla radendo, senza piegar pur un capello da questa o da quella parte, e percuotere al piede giusto sotto ’l luogo donde fu lasciata. [F]

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aria, cominci a cadere da fermo (cioè come se non avesse più nessuna componente del moto di rotazione terrestre a cui ha partecipato fino al momento del distacco dalla torre). D. Un’altra osservazione che, per gli aristotelici, ‘rafforza’ l’argomento contro il moto della Terra è quella del moto di un corpo lanciato in aria o ‘proiettato’ in direzione verticale, per esempio una palla lanciata da un cannone puntato in direzione verticale verso l’alto. L’argomento dice: se la Terra si muovesse, il proiettile (dopo aver compiuto tutto il suo percorso in direzione verticale prima verso l’alto, e poi verso il basso nel suo moto di ricaduta) dovrebbe cadere, come succedeva al sasso caduto dalla torre, in un punto tanto distante dalla base del cannone quanto la Terra (e quindi il cannone solidale con essa) si fosse mossa verso levante durante il tempo del percorso del proiettile. Nel caso del proiettile l’effetto di spostamento del punto di caduta dovrebbe essere ancora più vistoso (e quindi l’argomento risultare ancora più forte) dato che il tempo durante il quale il proiettile rimane in aria può essere molto più lungo di quello di caduta del sasso (visto che il proiettile va prima verso l’alto e poi verso il basso). E. Galileo si appresta, per bocca di Salviati, a confutare gli argomenti degli aristotelici, seguendo un metodo ‘maieutico’: Simplicio viene condotto passo passo nel ragionamento fino ad arrivare a dedurre da sé quello che Salviati (Galileo) vuole dimostrare. In sostanza, viene messo in luce come Aristotele e i suoi seguaci incorrano nell’errore che proviene dal supporre la cosa stessa che si vuole dimostrare (per quanto nella supposizione essa venga mascherata sotto un’altra espressione). F. Simplicio non ha dubbi: è l’esperienza sensibile (il «senso») che ci mostra che la pietra cade radente e arriva proprio alla base della torre. 123

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Domanda ipotetica: e se a muoversi fosse la Terra? Risposta: due tipi di moto Interpretazione: quindi si tratta di un moto composto

Prima conseguenza: la prova proposta da Simplicio non vale

Obiezione di tipo logico: l’argomento presuppone ciò che vuole dimostrare L’argomento di Aristotele: la premessa è la negazione del moto composto

SALVIATI – Ma quando per fortuna il globo terrestre si movesse in giro, ed in conseguenza portasse seco la torre ancora, e che ad ogni modo si vedesse la pietra nel cadere venir radendo il filo della torre, qual bisognerebbe che fusse il suo movimento? [G] SIMPLICIO – Bisognerebbe in questo caso dir più tosto «i suoi movimenti», perché uno sarebbe quello col quale verrebbe da alto a basso, e un altro converrebbe ch’ella n’avesse per seguire il corso della torre. [H] SALVIATI – Sarebbe dunque il moto suo un composto di due, cioè di quello col quale ella misura la torre, e dell’altro col quale ella la segue: dal qual composto ne risulterebbe che il sasso descriverebbe non più quella semplice linea retta e perpendicolare, ma una trasversale, e forse non retta. [I] SIMPLICIO – Del non retta non lo so; ma intendo bene che di necessità sarebbe trasversale, e differente dall’altra retta perpendicolare, che ella descrisse stando la Terra immobile. SALVIATI – Adunque dal solamente vedere la pietra cadente rader la torre, voi non potete sicuramente affermare che ella descriva una linea retta e perpendicolare, se non supposto prima che la Terra stia ferma. [L] SIMPLICIO – Così è; perché quando la Terra si movesse, il moto della pietra sarebbe trasversale, e non a perpendicolo. SALVIATI – Ecco dunque il paralogismo d’Aristotile e di Tolomeo evidente e chiaro, e scoperto da voi medesimo, nel quale si suppon per noto quello che s’intende di dimostrare. [M] […] La difesa dunque d’Aristotile consiste nell’esser impossibile, o almeno nell’aver egli stimato impossibile, che ’l sasso potesse muoversi di un moto misto di retto e di circolare; perché quando e’ non avesse avuto per impossibile che la pietra potesse muoversi al centro e ’ntorno al centro unitamente, [N] egli avrebbe inteso che poteva accadere che ’l sasso cadente potesse venir radendo la torre tanto muovendosi ella quando stando ferma,

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G. Salviati spinge Simplicio a ragionare su quali sarebbero le conseguenze sul moto di caduta della pietra nel caso («quando per fortuna») che la Terra si muovesse. H. Simplicio cade nella ‘trappola’ e riconosce che, nel caso che la Terra si muova, la pietra ha due tipi di moto: quello conferitole dal movimento della Terra e quello di caduta verso il basso per effetto della gravità. I. Salviati fa vedere a Simplicio come quello che ha appena detto non sia altro che un caso di applicazione del principio galileiano di composizione dei moti. Uno dei moti è quello col quale la pietra percorre la torre dall’alto in basso (cioè il moto di caduta verso il centro della Terra dovuto alla gravità); l’altro è quello della torre (solidale con la Terra), al quale la pietra, in quanto lasciata cadere dalla cima della torre, partecipa. Il moto composto (da questi due moti) avrà una traiettoria «trasversale» che risulterà dalla composizione geometrica delle traiettorie corrispondenti ai due moti componenti. L. Salviati conduce Simplicio ad ammettere che il fatto che la pietra cada alla base della torre non è condizione sufficiente per l’immobilità della Terra: la pietra può cadere alla base della torre anche nel caso in cui la Terra si muova, perché la sua traiettoria non è più verticale (come quando la Terra sta ferma) ma «trasversale» per effetto della composizione del moto di caduta verticale con il moto di rotazione della Terra al quale partecipa anch’essa. M. L’argomento di Aristotele è dunque viziato nella forma («paralogismo»), perché presuppone («suppon per noto») ciò che vuole dimostrare (l’immobilità della Terra). N. Aristotele, se non avesse negato la possibilità che la pietra potesse muoversi sia verso il

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Seconda obiezione: la fisica aristotelica è incoerente

Risposta alla seconda obiezione: non c’è incoerenza, sono due casi diversi

Simplicio esprime la ragione alla base della sua posizione

Controreplica: Simplicio non comprende che il moto del sistema di riferimento si comunica a tutti i corpi nello stesso modo

e in conseguenza si sarebbe accorto che da questo radere non si poteva inferir niente attenente al moto o alla quiete della Terra. Ma questo non iscusa altramente Aristotile, perché […] Aristotile medesimo concede al fuoco l’andare in su naturalmente per linea retta e il muoversi in giro col moto diurno, participato dal cielo a tutto l’elemento del fuoco ed alla maggior parte dell’aria; se dunque e’ non ha per impossibile mescolare il retto in su col circolare, comunicato al fuoco ed all’aria dal concavo lunare, [O] assai meno dovrà reputare impossibile il retto in giù del sasso col circolare, che fusse naturale di tutto ’l globo terrestre, del quale il sasso è parte. SIMPLICIO – A me non par cotesta cosa, perché quando l’elemento del fuoco vadia in giro insieme con l’aria, facilissima anzi necessaria cosa è che una particella di fuoco, che da Terra sormonti in alto, nel passar per l’aria mobile riceva l’istesso movimento, essendo corpo così tenue e leggiero e agevolissimo ad esser mosso; ma che un sasso gravissimo […] che da alto venga a basso e sia già posto in sua balìa, si lasci trasportare né da aria né da altro, ha del tutto dell’inopinabile. [P] […] Io non resto capace, che l’aria possa imprimere in un grandissimo sasso […] il moto col quale essa medesima si muove e che per avventura ella comunica alle piume, alla neve ed altre cose leggierissime; anzi veggo che un peso di quella sorte, esposto a qualsivoglia più impetuoso vento, non vien pur mosso di luogo un sol dito: or pensate se l’aria lo porterà seco. SALVIATI – Gran disparità è tra la vostra esperienza e ’l nostro caso. Voi fate sopraggiugnere il vento a quel sasso posto in quiete; e noi esponghiamo nell’aria, che già si muove, il sasso, che pur si muove esso ancora con l’istessa velocità, talché l’aria non gli ha a conferire un nuovo moto, ma solo mantenerli, o per meglio dire non impedirli, il già concepito: [Q] voi volete cacciar il sasso d’un moto straniero [R] e fuor della sua natura; e noi conservarlo nel suo naturale. Se voi volevi produrre una più aggiustata esperienza, dovevi

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centro della Terra (per effetto della gravità), sia intorno al centro della Terra (nel moto solidale con quello di rotazione diurna della Terra), avrebbe compreso che il sasso può cadere alla base della torre anche nel caso in cui la Terra si muova, e che quindi questa osservazione non può essere usata come prova contro il moto della Terra. Ciò che nega Aristotele è dunque la possibilità di un moto «misto di retto e circolare», cioè la possibilità della composizione dei moti. Ma questo non giustifica tuttavia Aristotele, argomenta Salviati, perché nel caso del fuoco accetta la possibilità di un moto misto dello stesso tipo di quello che nega alla pietra. O. Il «concavo lunare» è la superficie interna concava della sfera celeste su cui ruota la Luna. P. La risposta di Simplicio contro l’argomento di Salviati si basa sull’idea che non si possano trattare allo stesso modo i comportamenti nell’aria di un corpo leggerissimo («così tenue e leggiero») come il fuoco e di un sasso pesantissimo («gravissimo»). Simplicio non è ‘capace’ di comprendere che il moto del sistema di riferimento si comunica a tutti i corpi nello stesso modo, indipendentemente da come essi sono fatti. Q. Salviati espone in queste righe il significato del concetto di sistema di riferimento, il cui moto, in quanto comune a tutto ciò che è in esso, non ha influenza sul comportamento (in esso) delle cose che contiene. Così l’aria non deve conferire un nuovo moto alla pietra, ma solo mantenere il moto ‘naturale’ che entrambe hanno, aria e pietra, in quanto solidali allo stesso sistema di riferimento. R. «Estraneo», non naturale.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Nuova difesa Seconda parte della confutazione: l’analogia tra nave e Terra

Concessione di Simplicio

Critica metodologica: l’esperienza contro la tradizione

dire che si osservasse, se non con l’occhio della fronte, almeno con quel della mente, [S] ciò che accaderebbe quando un’aquila portata dall’impeto del vento si lasciasse cader da gli artigli una pietra; la quale, perché già nel partirsi dalle branche volava al pari del vento, e dopo partita entra in un mezo mobile con egual velocità, ho grande opinione che non si vedrebbe cader giù a perpendicolo, ma che, seguendo il corso del vento ed aggiugnendovi quel della propria gravità, si moverebbe di un moto trasversale. SIMPLICIO – Bisognerebbe poterla fare una tale esperienza, e poi secondo l’evento giudicare […]. [T] SALVIATI – Or ditemi; se la pietra lasciata dalla cima dell’albero, quando la nave cammina con gran velocità, cadesse precisamente nel medesimo luogo della nave nel quale casca quando la nave sta ferma, qual servizio vi presterebber queste cadute circa l’assicurarvi se ’l vassello sta fermo o pur se cammina? [U] SIMPLICIO – Assolutamente nissuno: in quel modo che, per esempio, dal batter del polso non si può conoscere se altri dorme o è desto, poiché il polso batte nell’istesso modo ne’ dormienti che ne i vegghianti. [V] SALVIATI – Benissimo, avete voi fatta mai l’esperienza della nave? SIMPLICIO – Non l’ho fatta; ma ben credo che quelli autori che la producono, l’abbiano diligentemente osservata […] SALVIATI – Che possa esser che quelli autori la portino senza averla fatta, voi stesso ne sete buon testimonio, che senza averla fatta la recate per sicura e ve ne rimettete a buona fede [Z] al detto loro: sì come è poi non solo possibile, ma necessario, che abbiano fatto essi ancora, dico di rimettersi a i suoi antecessori, senza arrivar mai a uno che l’abbia fatta; perché chiunque la farà, troverà l’esperienza mostrar tutto ’l contrario di quel che

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S. Cioè con la ragione: molte supposizioni apparentemente giustificate dall’immediata esperienza dei sensi sono in realtà errate, come si arriva a comprendere con il ragionamento (sempre lasciando poi all’esperienza il ruolo di ultimo giudice del risultato così raggiunto). T. Con questa frase Simplicio offre il destro a Salviati perché questi possa ‘incastrarlo’ definitivamente: gli oppositori del moto della Terra basano spesso i loro argomenti su esperienze che non hanno mai fatto, prendendo per buono quanto detto da ‘autorità’ precedenti come Aristotele. U. Salviati usa qui l’analogia tra il sistema di riferimento rappresentato da una nave in moto uniforme e il sistema di riferimento rappresentato dalla Terra per ribadire il fatto che l’osservazione che una pietra cade alla base del supporto (l’albero della nave o la torre) dalla cui cima è lasciata andare non può dire nulla sulla questione se il sistema di riferimento sia in moto uniforme o fermo. Questa analogia è molto utile in quanto permette di immaginare una situazione in cui sia possibile sperimentare gli effetti (o meglio: l’assenza di effetti) del moto uniforme del sistema di riferimento sugli oggetti contenuti in esso. Quello che avviene sulla nave infatti si può sperimentare nei due casi in cui essa stia ferma o sia in moto uniforme (mentre non si può fermare la Terra per vedere l’eventuale differenza con il caso di moto uniforme). V. Simplicio deve riconoscere che dalla caduta della pietra alla base dell’albero non si può dedurre nulla sullo stato di moto della nave (se cammini di moto uniforme o stia ferma), come dal battere del polso non si può vedere una differenza tra coloro che dormono e coloro che sono svegli. Z. Salviati approfitta del fatto che Simplicio ammetta di non aver mai compiuto personalmente l’esperienza della caduta della pietra dalla cima dell’albero di una nave per criticare un modo diffuso di procedere dei filosofi, che è quello di basarsi su quanto detto

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Unità 2 La rivoluzione scientifica

Conseguenza: l’errore è pensare che la Terra stia ferma

Teoria alternativa: la Terra si muove e il moto dei corpi è composto Obiezione a Salviati: la sua teoria è contraria alla testimonianza dei sensi Conclusione di Salviati: l’inosservabilità del moto comune

Confutazione definitiva della tesi aristotelica: l’esperimento del «gran navilio»

viene scritto: cioè mostrerà che la pietra casca sempre nel medesimo luogo della nave, stia ella ferma o muovasi con qualsivoglia velocità. Onde, per esser la medesima ragione della Terra che della nave, dal cader la pietra sempre a perpendicolo al piè della torre non si può inferir nulla del moto o della quiete della Terra. […]. L’errore di Aristotile, di Tolomeo, di Ticone, vostro, e di tutti gli altri, ha radice in quella fisa e inveterata impressione [AA], che la Terra stia ferma, della quale non vi potete o sapete spogliare né anco quando volete filosofare di quel che seguirebbe, posto che la Terra si movesse; […]. Se la Terra sta ferma, il sasso si parte dalla quiete e scende perpendicolarmente; ma se la Terra si muove, la pietra altresì si muove con pari velocità, né si parte dalla quiete, ma dal moto eguale a quel della Terra, col quale mescola il sopravegnente in giù e ne compone un trasversale. SIMPLICIO – Ma, Dio buono, come, se ella si muove trasversalmente, la veggo io muoversi rettamente e perpendicolarmente? Questo è pure un negare il senso manifesto; e se non si deve credere al senso, per qual altra porta si deve entrare a filosofare? SALVIATI – Rispetto alla Terra, alla torre e a noi, che tutti di conserva ci moviamo, col moto diurno, insieme con la pietra, il moto diurno è come se non fusse, resta insensibile, resta impercettibile, è senza azione alcuna, e solo ci resta osservabile quel moto del quale noi manchiamo, che è il venire a basso lambendo la torre. […] [BB] E qui, per ultimo sigillo della nullità di tutte le esperienze addotte, mi par tempo e luogo di mostrar il modo di sperimentarle tutte facilissimamente. Rinserratevi con qualche amico nella maggior stanza che sia sotto coverta di alcun gran navilio, [CC] e quivi fate d’aver mosche, farfalle e simili ani-

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da altre persone considerate ‘autorevoli’. Qui si manifesta tutta la polemica galileiana contro il ‘principio di autorità’: cioè il principio che detta il comportamento di gran parte degli avversari del copernicanesimo, che si basano, nelle argomentazioni, sull’autorità di qualcuno (primo fra tutti, Aristotele) invece che su fatti controllabili e, possibilmente, verificati di persona. AA. L’errore principale compiuto da Aristotele, Tolomeo, Tycho Brahe e tutti coloro che si oppongono al moto della Terra sta nell’opinione («impressione») fatta e irrigidita che la Terra sia ferma; per cui non riescono di fatto a liberarsi di questa opinione nemmeno quando cercano di ipotizzare che cosa succederebbe nel caso che la Terra si muovesse, cadendo appunto nel paralogismo messo in evidenza prima nel testo da Salviati. BB. Simplicio non riesce a comprendere il fatto che l’osservatore stesso fa parte del sistema di riferimento, e non può dunque accorgersi del moto comune a tutte le cose che stanno in esso. Come ribadisce Salviati, del moto «composto» della pietra, l’osservatore infatti può vedere solo la componente che riguarda il moto di caduta verso il basso (e quindi la vede «muoversi rettamente e perpendicolarmente», come dice Simplicio), non la componente dovuta al moto della Terra (cioè del sistema di riferimento), che è dunque «come se non fusse» e sfugge all’osservazione dei sensi («resta insensibile»). CC. Salviati a questo punto propone, come ultima e definitiva prova («sigillo») della nullità di tutti gli argomenti portati contro il moto della Terra, un esperimento che considera conclusivo. Si tratta del celebre argomento galileiano del «gran navilio», per cui, in base a osservazioni meccaniche compiute all’interno di una nave che si muove di moto uniforme, non è possibile «comprender se la nave cammina o pure sta ferma» (righe 158-159). L’argomento viene sempre preso a illustrazione di quello che è chiamato «principio di relatività galileiano»: cioè il principio per cui le leggi della meccanica non 127

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maletti volanti; siavi anco un gran vaso d’acqua, e dentrovi de’ pescetti; sospendasi anco in alto qualche secchiello, che a goccia a goccia vadia versando dell’acqua in un altro vaso di angusta bocca, che sia posto a basso: e stando ferma la nave, osservate diligentemente come quelli animaletti volanti con pari velocità vanno verso tutte le parti della stanza; i pesci si vedranno andar notando indifferentemente per tutti i versi; le stille cadenti entreranno tutte nel vaso sottopposto; e voi, gettando all’amico alcuna cosa, non più gagliardamente la dovrete gettare verso quella parte che verso questa, quando le lontananze sieno uguali; e saltando voi, come si dice, a piè giunti, eguali spazii passerete verso tutte le parti. Osservate che avrete diligentemente tutte queste cose, benché niun dubbio ci sia che mentre il vassello sta fermo non debbano succedere così, fate muover la nave con quanta si voglia velocità; [DD] ché (pur che il moto sia uniforme e non flutIl risultato atteso tuante in qua e in là) [EE] voi non riconoscerete una minima mutazione in dall’esperimento tutti li nominati effetti, né da alcuno di quelli potrete comprender se la naconfutatorio ve cammina o pure sta ferma: voi saltando passerete nel tavolato i medesimi spazi che prima, né, perché la nave si muova velocissimamente, farete maggior salti verso la poppa che verso la prua, benché nel tempo che voi state in aria, il tavolato sottopostovi scorra verso la parte contraria al vostro salto; e gettando alcuna cosa al compagno, non con più forza bisognerà tirarla, per arrivarlo, se egli sarà verso la prua e voi verso poppa, che se voi

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variano nel passare da un sistema di riferimento a un altro che si muove, rispetto al primo, di moto rettilineo uniforme (il principio di relatività verrà poi esteso da Albert Einstein nel 1905 a tutte le leggi della fisica). In realtà, il principo che enuncia qui Galilei, illustrandolo con esempi molto suggestivi, è quello della non incidenza di un movimento uniforme comune sulle esperienze di meccanica: di fatto, Galilei non ha ancora chiaro che, perché valga davvero il principio di relatività, il moto deve essere non solo uniforme ma anche rettilineo. Il moto della Terra (e quindi della nave ad essa solidale) è uniforme ma circolare; comunque in prima approssimazione, se considerato solo localmente, anche il moto della Terra può essere visto come rettilineo e questo giustifica in qualche modo le ‘esperienze’ portate da Galileo.

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Conclusione: il moto del sistema di riferimento è comune a tutto ciò che in esso si muove

fuste situati per l’opposito; le gocciole cadranno come prima nel vaso inferiore, senza caderne pur una verso poppa, benché, mentre la gocciola è per aria, la nave scorra molti palmi; i pesci nella loro acqua non con più fatica noteranno verso la precedente che verso la sussequente parte del vaso, ma con pari agevolezza verranno al cibo posto su qualsivoglia luogo dell’orlo del vaso; e finalmente le farfalle e le mosche continueranno i lor voli indifferentemente verso tutte le parti, né mai accaderà che si riduchino verso la parete che riguarda la poppa, quasi che fussero stracche in tener dietro al veloce corso della nave, dalla quale per lungo tempo, trattenendosi per aria, saranno state separate; e se abbruciando alcuna lagrima d’incenso si farà un poco di fumo, vedrassi ascender in alto ed a guisa di nugoletta trattenervisi, e indifferentemente muoversi non più verso questa che quella parte. E di tutta questa corrispondenza d’effetti ne è cagione l’esser il moto della nave comune a tutte le cose contenute in essa ed all’aria ancora [corsivo nostro], che per ciò dissi io che si stesse sotto coverta; ché quando si stesse di sopra e nell’aria aperta e non seguace del corso del nave, differenze più e men notabili si vedrebbero in alcuni de gli effetti nominati […].

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(da G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, Einaudi, Torino 1970)

DD. La nave, a differenza della Terra, permette appunto di sperimentare le due situazioni – quella in cui il sistema di riferimento si muove (di moto uniforme) e quella in cui il sistema di riferimento sta fermo (sempre rispetto alla Terra) – e quindi di osservare se ci sono differenze tra le esperienze di meccanica che si possono compiere all’interno della nave, nell’uno e nell’altro caso. La risposta di Galileo è appunto che non ci sono differenze (le gocce d’acqua cadono nel vaso esattamente nello stesso modo, i pesci nuotano nella loro vasca in una direzione o nell’altra esattamente con lo stesso sforzo, le farfalle e le mosche continuano a volare in tutte le direzioni senza nessuna differenza, e così via), per quanto («perché», riga 160) la nave si possa far muovere con grandissima velocità. EE. Qui si vede bene come Galilei parli solo di moto ‘uniforme’, non di moto uniforme e rettilineo.

Questionario sull’argomentazione 1

Nella sua confutazione delle teorie aristoteliche, Salviati pone a Simplicio una serie di domande. Qual è l’obiettivo di questo modo di procedere? (max 4 righe)

2

Che funzione ha nell’argomentazione di Salviati la scoperta del paralogismo nel ragionamento dei sostenitori dell’immobilità della Terra? (max 3 righe)

3

Quale innovazione introduce Salviati, rispetto alla teoria aristotelica, quando fa ricorso al principio di composizione dei moti? (max 4 righe)

4

Perché alla fine del brano citato Salviati utilizza l’analogia tra la Terra e la nave per illustrare il principio della relatività del movimento rispetto all’osservatore? (max 3 righe) 129

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Laboratorio sul lessico Filosofia e vita quotidiana NATURA / NATURALE Ambiguità del termine «natura»

Il significato più generale: «natura» come «mondo»

La contrapposizione tra «naturale» e «artificiale»

Un confine difficile da stabilire

Casi-limite tra natura e artificio

1. La natura e il mondo Poche parole, nel linguaggio comune e non solo in questo, sono così ambigue e così difficili da definire come «natura»: qualunque tentativo non può che essere un’approssimazione, quando si affrontano termini così generali. A voler fare un po’ di ironia, si potrebbe risolvere la questione dicendo che la natura è quella cosa di cui si occupano le scienze naturali, ma è evidente che in questo modo si sarebbe soltanto evitato, seppur senza fare errori, di avvicinarsi a una definizione. Un primo tentativo di definizione potrebbe allora prendere le mosse dal significato più generale del termine: la natura è l’insieme delle cose esistenti, tra le quali rientriamo anche noi. In questo modo, ci sono molte affinità tra la parola «natura» e la parola «mondo», e probabilmente molti punti di contatto o di intersezione tra esse; ma non sono identiche. Quando parliamo di «mondo», ci riferiamo di solito alla totalità degli oggetti e allo spazio in cui essi sono inclusi, ma quando parliamo di «natura» intendiamo di solito qualcosa di più specifico: ci riferiamo in questo caso sì agli oggetti, ma visti anche attraverso le loro caratteristiche principali e attraverso le leggi che ne regolano il funzionamento, o almeno le leggi attraverso le quali noi ne spieghiamo il funzionamento. Anche nel linguaggio quotidiano, infatti, si parla delle «leggi della natura», ma non delle «leggi del mondo». 2. Natura e artificio Qualcuno potrebbe obiettare che non tutti gli oggetti sono «natura», perché alcuni sono frutto dell’arte umana, nel senso generale di frutto dell’azione degli uomini: ciò che viene utilizzato, in questo caso, è un’antica contrapposizione tra ciò che è naturale e ciò che è artificiale, o tra «natura» e «artificio». Ci sarebbero allora oggetti naturali diversi dagli oggetti artificiali: l’albero o la mela sono oggetti naturali, mentre un’automobile è artificiale. Intuitivamente, la distinzione tra natura e artificio ci sembra ovvia, ma non lo è poi così tanto. Un esempio della difficoltà di stabilire un confine tra natura e artificio può essere preso dall’attività umana naturale per eccellenza: l’agricoltura. Un albero da frutta è naturale? E fino a quando conserva questa sua caratteristica? E, soprattutto, può perderla? Se l’albero viene curato, potato, seguito dalla mano dell’uomo diventa qualcosa di «artificiale» o, forse, qualcosa di intermedio? Piante che non avrebbero lo stesso sviluppo senza l’intervento dell’uomo sono ancora naturali? Il confine è evidentemente difficile da stabilire. Ma le cose sono ancora più complicate. Non è infatti facile nemmeno stabilire con certezza il carattere di oggetti che, a prima vista, nessuno avrebbe dubbi nel definire artificiali. Pensiamo, per esempio, a una diga, e poniamo che una diga venga formata nel tempo dagli avvallamenti del terreno, o dalle eruzioni vulcaniche o dai terremoti (sempre che si possa in questo caso parlare di «dighe» e non di mari, o di laghi). Nessuno avrebbe dubbi nel considerare questi specchi d’acqua fenomeni naturali. 131

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Parte prima La nascita della filosofia moderna L’azione umana tra arte e natura

Il criterio della semplicità geometrica…

… e i suoi limiti

Natura come consuetudine e regolarità

L’insolito come non naturale

Fenomeni soprannaturali

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Poi prendiamo in considerazione una diga fatta dai castori: anche in questo caso, probabilmente, avremmo pochi dubbi sulla naturalità dell’evento e della «diga» formata dagli alacri animaletti. E fin qui va bene. Ma in base a quale criterio dovremmo rifiutare la stessa caratteristica della «naturalità» a una diga costruita dagli uomini, che sono anch’essi, certamente, parte della natura, anche se la loro natura biologica è diversa e si è evoluta in modo diverso dai castori? Il confine è, ancora una volta, labile; e si può – si può, non si deve – arrivare alla strana conclusione che la bellezza del tramonto non è diversa o più naturale della bellezza di un grattacielo o di un quadro fatti dagli uomini. Per tutti questi oggetti, infatti, valgono certi principi universali: sono le leggi «di natura», come quelle della fisica e della chimica, che hanno permesso tanto il sorgere del sole e la sua percezione da parte degli esseri umani quanto la costruzione di grattacieli da parte di questi ultimi. La situazione non cambierebbe molto se andassimo alla ricerca di criteri molto raffinati, come qualcuno ha cercato di fare. Un criterio di questo genere potrebbe essere l’individuazione della «artificialità» nella semplicità geometrica delle simmetrie e nella ripetizione delle forme, che sembrano segni certi della mano dell’uomo. In questo modo, effettivamente, potremmo classificare come naturali le montagne, i fiumi e i laghi, e come artificiali le macchine o gli edifici. Ma il criterio sarebbe, in realtà, del tutto insufficiente: in questo modo risulterebbero artificiali, per fare qualche esempio, gli alveari, le ragnatele e i cristalli che sono certo naturali, ma non solo: risulterebbero artificiali le costituenti prime della materia, e quindi anche della natura, come l’atomo e le particelle elementari studiati dalla fisica. Certo si tratta di un esito paradossale, ma se ci si fonda su argomenti e non semplicemente su affermazioni istintive e non meditate, scopriamo, approfondendo le nozioni di «natura» e di «artificio», che non abbiamo a disposizione molti criteri per distinguere ciò che appartiene al primo ambito e ciò che appartiene al secondo. 3. Natura e normalità Un significato estremamente diffuso del termine «natura» è quello di normale, consueto, abituale. La normalità, in questo senso, è ciò che rientra nella norma, non intesa come una prescrizione, ma come la regolarità e la prevedibilità di un carattere o di un evento. Si tratta di un significato del termine «natura» che va del tutto al di là della distinzione – vera o presunta – tra natura e artificio. In questa prospettiva, ciò che è naturale si contrappone a ciò che è insolito e raro, ma anche a ciò che è soprannaturale. Nel primo caso, ciò che è insolito o raro viene considerato anormale e quindi non facente parte della natura ordinaria delle cose, non perché sia davvero esterno alla natura – se questa è l’insieme di tutti gli oggetti esistenti – ma perché è qualcosa che avviene di rado, che normalmente non prevediamo, che ci sembra eccezionale (anche in senso negativo) rispetto alle nostre aspettative. L’anormalità viene vista allora come qualcosa che vìola un ordine, una regolarità. Tutto ciò non ha alcuna connotazione valutativa, positiva o negativa che sia: la morte è naturale quanto la vita, e la salute è naturale quanto la malattia. Un caso limite dell’uso del termine «natura» come normalità, regolarità prevedibile, è quando questo venga contrapposto a un’eccezionalità dovuta a forze soprannaturali, come nel caso dei fenomeni magici o dei miracoli che troviamo in molti tipi di superstizioni e di religioni. In questo caso, chi opera la magia o il miracolo si colloca di regola al di fuori della natura, ed è questa collocazione che

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Laboratorio sul lessico Natura / naturale

permette l’interruzione dell’ordine naturale attraverso poteri soprannaturali, ovvero poteri che non dipendono dalle leggi di natura e non sono limitati da esse, ma sono in grado di dominarle.

L’essenziale bontà della natura

La bontà del creatore della natura

Le limitazioni degli interventi sulla natura

Il fondamento del «diritto naturale»

La bontà intrinseca della natura

Natura e valore morale

Il piano dei fatti e quello dei valori

4. Natura e valore Un uso importante del termine «natura» e dell’aggettivo «naturale» è quello che dà a queste parole una connotazione di valore. Questo uso si fonda sostanzialmente sull’idea che la natura sia un modello da seguire nel comportamento, ovvero, detto in altre parole, che la natura sia buona e debba essere seguita anche dagli uomini – o almeno non contrastata – nella loro condotta. Questo tipo di atteggiamento può essere giustificato, o spiegato, sulla base di mentalità molto diverse, accomunate dall’idea della bontà della natura. In primo luogo, si può pensare che la natura sia buona perché è stata creata da un essere buono: è, questa, la prospettiva prevalente nella religione cristiana, che crede all’esistenza di un Dio creatore buono e onnipotente. La natura deve essere allora seguita perché in essa sono implicitamente contenuti anche i comandi di Dio: interrompere, o modificare sostanzialmente, i processi naturali è illegittimo, perché l’uomo non ha il diritto di intervenire su qualcosa di cui non è l’artefice. Questa mentalità può avere per conseguenza anche l’illegittimità di un intervento sulla propria vita, perché anche la nostra vita, come parte della natura, non è qualcosa che ci appartenga. Essa può però anche limitare in generale l’intervento dell’uomo sulla natura, per lo stesso motivo: se la scienza è in grado, per esempio, di compiere determinati interventi sulla natura che ne modifichino radicalmente la struttura, questa mentalità ne può contestare la legittimità proprio per un diritto limitato degli uomini sulla natura, che non appartiene loro in modo incondizionato, ma soltanto parzialmente. Su una prospettiva come quella appena descritta può fondarsi anche una certa idea del «diritto di natura». Il diritto di natura, in questa interpretazione, sarebbe un codice normativo fondato su un’autorità superiore che ha creato la natura, ed esso costituisce al tempo stesso il modello di legittimità di altri tipi di diritto, e in particolare del diritto umano, positivo, creato dagli uomini: c’è un diritto oggettivo e assoluto che non può essere violato dalle norme morali e giuridiche concretamente esistenti perché ha una radice superiore, soprannaturale. L’idea che la natura sia buona e debba essere un modello da seguire o comunque un universo da non violare non ha però necessariamente bisogno di una legittimazione soprannaturale. Si può pensare che la natura sia buona e che quindi debba essere seguita anche da un punto di vista non religioso, attribuendo sempre, implicitamente o esplicitamente, un’autorità superiore alla natura. Comunque li si giustifichi, è da questi tipi di atteggiamento che deriva l’uso della coppia «natura» / «contro natura» come una coppia di termini che hanno valore morale: è moralmente legittimo ciò che è conforme alla natura e alle sue indicazioni (che riteniamo di trarre dal suo funzionamento), mentre è moralmente illegittimo tutto ciò che sia contro natura, ovvero che vìoli l’andamento naturale delle cose. C’è chi contesta questa impostazione del rapporto tra l’uomo e la natura e non ritiene che le indicazioni della natura debbano diventare normative per il comportamento degli esseri umani: il piano della natura sarebbe allora il piano dei fatti, che non sono in sé moralmente significativi ma corrispondono soltanto a un certo funzionamento degli organismi naturali, mentre il piano dei valori e delle norme morali sarebbe un piano diverso, che non può essere derivato dall’osservazione della natura. 133

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Esercitiamoci sulla natura 1. Rifletti e completa

Vi sono diversi significati attribuiti al termine «NATURA»:

1. La NATURA è l’insieme di tutte le __________.

2. La NATURA è ciò che si contrappone agli __________.

3. La NATURA è ciò che rientra nella consuetudine.

4. La NATURA è espressione di una bontà divina o intrinseca.

Problema: la «natura» e il «________________» non sembrano coincidere.

Problema: il limite tra «naturale» e «artificiale» è ______________.

Problema: ciò che è «insolito» risulta «non ____________».

Problema: ogni ________________ sulla natura risulta illecito o immorale.

2. Spunti per il dibattito: io e… la natura 1

Dopo aver letto il testo e completato lo schema, rispondi alle seguenti domande, giustificando le tue risposte: – Quale delle accezioni del termine «natura» elencate nel testo è a tuo avviso quella prevalente nell’uso linguistico quotidiano? – Ti sembra che l’argomento contro la distinzione tra «natura» e «artefatti» presente nel testo sia convincente? È possibile a tuo avviso sostenere sensatamente questa distinzione? – Ritieni che la natura e tutto ciò che si dice «naturale» sia anche intrinsecamente buono? Se sì, su quali basi? – Pensi che qualcosa possa dirsi «naturale» per il semplice fatto che è «consueta» o «frequente»? Perché?

2

Immagina che lo sviluppo scientifico e tecnologico si evolva in modo tale da permettere la costruzione di computer che, al posto dei consueti componenti elettronici (microchip ecc.), facciano uso di materiali organici, come neuroni veri e propri o cellule di altro genere. Supponi inoltre che questi (potentissimi) ‘calcolatori organici’ vengano utilizzati per progettare e costruire delle macchine. – Che genere di oggetti sarebbero tali ‘calcolatori organici’? In particolare, sarebbero da considerarsi artefatti o parte del regno della natura? E perché? – Considera le macchine progettate da tali ‘calcolatori organici’: in che rapporto starebbero queste con tali computer da un lato e con gli esseri umani dall’altro?

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3

Immagina che in una data società venga attribuito alla natura, in ogni suo aspetto, un valore sacro, inviolabile. In altri termini, che ogni manifestazione e processo naturale sia considerato «buono» in se stesso, sia esso utile o dannoso alla sopravvivenza degli individui: la pioggia, il sole, una inondazione, un terremoto, un virus che attacca l’organismo, un animale innocuo, una belva feroce. Niente di ciò che è «naturale» deve essere ostacolato nel suo decorso. – Come pensi che possa strutturarsi una società che assuma questo atteggiamento di principio rispetto alla natura? – Credi che potrebbe svilupparsi qualcosa di analogo alla medicina in una società del genere? Se sì, che forma assumerebbe tale scienza?

4

Prova a fare l’ipotesi che l’intera umanità contragga in modo irreversibile un morbo che rende gli individui estremamente fotosensibili, al punto di non poter essere esposti alla luce del sole per più di qualche minuto. L’intera vita sociale sarebbe così stravolta e riorganizzata in modo da sfruttare le ore di luce per dormire o restare al chiuso e quelle di buio per uscire e svolgere le attività lavorative, ricreative, di studio ecc. – Ti sentiresti di poter affermare che in una tale situazione è «naturale» dormire di giorno e svolgere le consuete attività (lavorative ecc.) di notte? In che senso di «naturale»? – Come credi si modificherebbero l’aspetto fisico e i tratti psicologici dell’uomo costretto a un tale stile di vita rovesciato? Ti sentiresti di considerare «naturali» tali modificazioni?

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna 1. 2. 3. 4. 5. 6.

«La libertà di giudicare da sé» In cammino nell’Europa del Seicento Un pensatore su molti fronti e l’unità del sapere Costruire il mondo (e l’uomo): fisica e fisiologia Idee come rappresentazioni Ritrovare il fondamento

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Le Meditazioni metafisiche

I testi Regole per la guida dell’intelligenza: Cercare da solo le ragioni degli altri, T1; Una logica generale della conoscenza, T4; L’unità del metodo, T5 I principi della filosofia: L’albero della conoscenza, T2; La chiarezza e la distinzione, T12 Discorso sul metodo: Rapporti e proporzioni, T3; Il dominio sulla natura, T6; L’origine del mondo, T7; L’uomo come sistema meccanico, T8; Il cogito e l’evidenza, T16 L’uomo: Il meccanismo della rappresentazione, T9; La di-

stinzione tra idee e immagini mentali, T10 Meditazioni metafisiche: Certezza e verità assoluta, T11; Ricominciare dalle fondamenta, T13; Dal dubbio alla certezza di esistere, T14; Scienza e conoscenza interiore, T15; La prova ontologica, T17; Io e il mio corpo, T18 Le passioni dell’anima: L’azione del corpo sull’anima, T19; Non esiste un luogo dell’anima, T20; Il controllo delle passioni, T21

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

1 Ricerca filosofica come percorso di formazione

«La libertà di giudicare da sé» Spesso si abusa della nozione di «crisi» e dell’idea della «transizione» tra epoche, ma nel caso di Cartesio questi concetti colgono un’indubbia realtà. Egli non soltanto vive un periodo di profonde trasformazioni, ma soprattutto riesce a essere interprete dei problemi di fondo della sua cultura, contribuendo in modo decisivo alla nascita di nuove forme di organizzazione del sapere. Filosofo alla ricerca della certezza, ha saputo anzitutto dare ascolto alle incertezze del suo tempo, individuandone le ragioni profonde. La vita e il pensiero di Cartesio sono state un percorso di trasformazione, personale e culturale, che egli compie dando ordine, fondamento e senso a quanto avviene a lui e intorno a lui. Nel Discorso sul metodo (1637) – nel quale unisce la presentazione di una nuova concezione della conoscenza e l’autobiografia – descrive la sua storia personale come esemplare: in quelle pagine egli vuole rappresentare la propria «vita come in un quadro», che ognuno possa giudicare, ovvero come una «storia» o una «favola» dalla quale trarre esempi istruttivi. E molto istruttiva è, in effetti, la sua vicenda.

La crisi della cultura scolastica Una formazione tradizionale

Viaggiare attraverso culture e opinioni

Lo spaesamento e la perdita delle certezze

Nuova scienza e crisi del senso comune

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Dall’età di undici anni Cartesio è allievo del collegio di gesuiti di La Flèche, una delle più rinomate istituzioni educative in Francia. Fa esperienza così nel modo più intenso del sistema culturale che stava entrando in crisi, non soltanto per il peso dirompente che iniziava ad avere la moderna scienza matematica della natura, ma anche per la crescente sensazione di inaffidabilità delle fonti tradizionali di certezza, in campo scientifico come in campo religioso, morale e politico. La mente di Cartesio inizia a viaggiare, prima che, alla fine degli studi, egli si metta in cammino per l’Europa: la lettura, dirà poi, è come «una conversazione con gli uomini dei secoli passati» (allo studio umanistico, di lingue, filologia, storia, retorica venivano dedicati i primi sei anni di istruzione a La Flèche), e «in realtà conversare con gli autori degli altri secoli è quasi lo stesso che viaggiare». Cartesio si muove, nella sua prima formazione, anzitutto nel tempo, facendo già esperienza della pluralità disorientante delle opinioni, dei costumi, dei modi di vita; e così del fatto che non vi è necessariamente coincidenza tra ciò che si incontra o si riceve come un ‘dato’ attraverso l’educazione e ciò che è ragionevole: «è giusto avere qualche conoscenza dei costumi dei diversi popoli, per poter meglio giudicare dei nostri e per non ritenere che tutto ciò che non è conforme alle nostre usanze sia ridicolo e contrario alla ragione». L’esperienza del viaggiare, che poi diventerà reale e intensa per Cartesio dopo il suo baccalaureat in diritto a Poitiers nel 1616, se causa un salutare sommovimento delle convinzioni solo passivamente accolte, può condurre, però, anche allo spaesamento: attraversando epoche e luoghi si diventa «alla fine stranieri nel proprio paese». La straordinaria apertura che la crisi della cultura scolastica porta con sé ha il suo rovescio nella mancanza di un luogo proprio nel quale abitare, di un fondamento del sapere adeguato alla nuova epoca. Mentre Cartesio studia nel collegio dei gesuiti, Galilei si confronta con la possibilità di rendere compatibili le nuove visioni astronomiche con le verità della fe-

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

de, discute con Keplero del sistema copernicano, di un universo non ancora infinito ma sicuramente non più centrato sull’uomo. La scienza moderna mette in questione anche le certezze del senso comune: la percezione immediata (per esempio il Sole che gira intorno alla Terra) non corrisponde alla realtà mostrata dalla scienza (la Terra che gira intorno al Sole). La stessa inquietudine della cultura artistica del Seicento, in cui è centrale il tema del sogno, dell’illusione, dell’artificio, esprime anche il senso di incertezza che si va creando rispetto al rapporto con le cose del mondo. La perdita dell’unità Le guerre di religione, provvisoriamente fermate in Francia nel 1598 dall’editto religiosa e le guerre di Nantes, mostrano la virulenza dello scontro tra contrapposte credenze assoludi religione te, intaccando la solidità di fondamenti di fede che si pretendono indiscutibili. La Guerra dei trent’anni, tra potenze cattoliche e protestanti, che inizia nel 1618 e alla quale Cartesio partecipa a suo modo (cattolico, si arruola in un primo tempo, dato che in questa prima fase la Francia non partecipa alle ostilità, nei reggimenti di volontari francesi che servono sotto il principe protestante olandese di Nassau), conferma la lacerazione tra fedi diverse. La stessa idea di un fondamento divino del potere politico è posta in discussione da autori come Johannes ➥ Percorso tematico, p. 611 Althusius (1557-1638 ca.) o Ugo Grozio (1583-1645) che riconducono la legittimità del potere politico alla sovranità del popolo, oppure a principi derivanti dalla natura razionale umana.

Una nuova fondazione del sapere Salvaguardare l’autonomia del sapere

L’autonomia della ricerca razionale

Inventio contro memoria

T1

Cercare da solo le ragioni degli altri Regole per la guida dell’intelligenza, regola decima

Il riferimento all’autorità come origine della validità dei più disparati discorsi umani non è più soddisfacente, e in questo senso e solo in questo senso, Cartesio esprime addirittura fastidio per i libri: «che nella maggior parte, lette poche righe, guardate le figure, hanno rivelato tutto, perché il resto fu aggiunto per riempire la carta». Il problema filosofico centrale di Cartesio diventa allora quello di una nuova fondazione del sapere che ne salvaguardi l’autonomia da altre e diverse istanze. L’idea di una ragione propriamente umana e comune a ognuno che possa ricominciare radicalmente da capo, è la cifra di un problema filosofico e di un atteggiamento culturale, e quasi spirituale, che caratterizza la modernità – e giustamente Cartesio è stato visto come esponente fondamentale della filosofia moderna. L’epoca che, a un certo punto, ha definito se stessa con questo aggettivo, «non può e non vuole», secondo le parole del filosofo contemporaneo Jürgen Habermas (nato nel 1929), «prendere in prestito i suoi criteri di orientamento da modelli di altre epoche; essa deve trarre da se stessa la propria normatività». È sullo scoprire piuttosto che sull’accettare passivamente delle verità, sulla inventio opposta alla memoria, che Cartesio insiste anche nei ricordi dei suoi primi passi. Confesso di essere nato con una mente tale che ho sempre trovato il più grande piacere dello studio non nell’ascoltare le ragioni degli altri, ma nel trovarle industriandomi io stesso; e solo questo avendomi spinto, ancora giovane, a imparare le scienze, tutte le volte che un libro prometteva nel titolo qualcosa di nuovo, prima di leggere oltre, tentavo se per caso non ottenevo qualcosa di simile, grazie ad una certa sagacia congenita, e mi guardavo bene che una lettura prematura non mi togliesse questo innocente diletto. 137

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La ricerca di un sapere evidente

L’esame della ragione per legittimare il sapere

Il paradigma della modernità

➥ Sommario, p. 177 Cartesio e il suo tempo

Non è solo il ricordo di un’indole personale, ma un aspetto esemplare di una storia: traluce l’idea di un sapere valido soltanto perché tale di fronte alla sola ragione dell’individuo, legittimato rispetto a fondamenti razionali: un sapere che può essere, dirà poi Cartesio con un termine peculiare, «evidente». La conoscenza appresa, tramandata, non costituisce scientias, ma historias (anche Galilei, nel Dialogo sopra i due massimi sistemi, a coloro che privilegiavano i libri agli «occhi nella fronte e nella mente» dice: «deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria»). Così, dirà Cartesio, «le scienze depositate nei libri» non hanno nessun privilegio, ma anzi, «non si avvicinano tanto alla verità quanto invece vi si avvicinano i semplici ragionamenti che può fare naturalmente un uomo di buon senso intorno alle cose che gli si presentano». Davanti alla ragione, giudice di sé e di ogni sapere, le conoscenze dell’epoca si mostrano tutte inadeguate. Cartesio – pur prudente e rispettoso della Rivelazione – oserà sottoporre a critica razionale anche la teologia proveniente dal libro considerato più autorevole, la Bibbia. Richiamando la Lettera ai Romani di san Paolo sosterrà che «tutto quel che si può sapere di Dio lo si può dimostrare con argomenti che non si traggano se non dalla nostra mente stessa». L’insufficienza del sapere tramandato, racconta Cartesio, «mi faceva prendere la libertà di giudicare da me tutti gli altri». Non si tratta solo della libertà che il giovane Cartesio rivendica per sé, ma del diritto dell’individuo moderno di riconoscere solo ciò che il «lume naturale», la ragione di cui tutti sono partecipi, considera legittimo. Il compito che Cartesio assume – di rifondare il sapere in base a ciò che regge alla prova dell’autonoma ragione individuale – sarà, infine, anche il compito che un’intera epoca darà a se stessa. Nel modo ambiguo e complesso di ogni inizio, la filosofia di Cartesio è paradigmatica di un atteggiamento, proprio del pensiero e dell’uomo moderni, che ha avuto un notevole peso storico, ma non è mai stato fino a oggi un dato culturale comunemente accettato, un’acquisizione storica ineluttabile e irreversibile. L’idea di sottoporre tutto alla ragione autonoma, e alla sua forza universale, rappresenta un modo di comprendere il mondo che, proprio perché vuole avere in sé i propri fondamenti, ne è sempre alla ricerca, e può quindi esser posto in questione. Cartesio contribuisce ad avviare un progetto che è, secondo alcuni, ancora «incompiuto», secondo altri, già superato: per questi ultimi nella nostra epoca (che dagli anni ottanta del Novecento si è chiamata «postmoderna») l’ideale di una ragione autonoma e autofondata sarebbe tramontato e non avrebbe più senso. Crisi epocale

Tendenze personali

Nuova scienza e nuova cosmologia

Affermare l’autonomia della ricerca razionale

Crisi delle certezze del senso comune

Ricerca di un sapere evidente e autofondato

Fine dell’unità dei cristiani e guerre di religione

Curiosità e desiderio di scoprire da solo la verità

Messa in discussione di un fondamento divino del potere politico e del diritto

Spaesamento di fronte alla varietà di opinioni e al cadere delle vecchie certezze

Il problema filosofico centrale per Cartesio è una nuova fondazione del sapere

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

2 Approfondire le proprie conoscenze e cercare la pace

Coraggio intellettuale e cautela nella vita

Soldato e viaggiatore alla ricerca della propria missione

I sogni di Cartesio

Rifugio olandese e contatti con matematici e scienziati

I rapporti con i Rosacroce

In cammino nell’Europa del Seicento Si è accennato a quanto l’esperienza del viaggiare sia stata importante per Cartesio. In un suo sogno famoso, che egli ha raccontato, trova un libro sulla sua scrivania, lo apre e legge le parole del poeta latino Ausonio (310-395 d.C.): Quod vitae sectabor iter? «Quale cammino seguirò nella vita?». A un certo punto Cartesio crede di avere trovato la risposta: «dedicare tutta la mia vita a coltivare la ragione, e progredire quando potessi nella conoscenza della verità». Ma per seguire questo cammino nella sua vita, per perseguire questo scopo, di vie nell’Europa del Seicento Cartesio ne percorrerà moltissime, cercando allo stesso tempo di arricchire la sua conoscenza e di trovare le condizioni esterne per potere svolgere i suoi studi in tranquillità d’animo e senza rischi. La figura umana e di pensatore di Cartesio è segnata da tendenze almeno in apparenza contraddittorie: il coraggio della ricerca del nuovo, la curiosità inesauribile, la voglia di cercare la scienza «nel gran libro del mondo», e la cautela, la ricerca di quella pace che gli consentisse di attingere anche la scienza che poteva, invece, «trovare in se stesso». Trovare la pace non è facile nell’Europa del Seicento, e Cartesio in realtà, dopo la conclusione dei suoi studi, cerca piuttosto la guerra: trascorsi due anni a Parigi, dove tornerà in molte occasioni, decide nel 1618 di arruolarsi nell’esercito del principe protestante olandese Maurizio di Nassau, scegliendo la vita militare, dirà il suo primo biografo Adrien Baillet (1649-1706), come «passaporto per il mondo». Da quel momento, sempre accompagnato da un valletto e grazie anche alle consistenti fortune della sua famiglia, inizia un itinerario attraverso l’Europa, caratterizzato in questa fase soprattutto dalla volontà di nuove esperienze e dalla ricerca della sua missione nella vita. È un percorso quasi frenetico e certo avventuroso, se si pensa cosa significasse viaggiare in quell’epoca, e singolare, perché Cartesio trova il tempo di cominciare a coltivare i propri pensieri e di fare le sue prime scoperte. Nel paese di Neuburg sul Danubio, nella notte del 10 novembre 1619, Cartesio vive un’esperienza particolare, con tre sogni che sembrano indicargli la sua missione, e la scoperta dei fondamenti di una scientia mirabilis, una scienza meravigliosa, di cui non dice nei suoi appunti quale sia (per qualcuno si tratta della geometria analitica: e dunque questa data avrebbe cambiato la storia della matematica). Dopo molti altri viaggi, nel 1628 si stabilisce infine – ma il termine è abbastanza improprio, perché cambierà residenza molto spesso – in Olanda. Sarà questo il Paese, tollerante, ricco di stimoli, che Cartesio, dopo quasi dieci anni di peripezie per l’Europa, considererà il più adatto alla prosecuzione del suo cammino di pensiero. Il girovagare, che sarebbe poco definire irrequieto, è per Cartesio anche un modo per prendere contatto con matematici e scienziati dei Paesi che visita, e in questo modo comincerà già presto a farsi notare. La sua prima ‘opera’ compiuta – un trattato di musica, il Compendium musicae – non la pubblica, ma la dona alla fine del 1618 al dotto olandese Isaac Beeckman (1588-1637). Tra i suoi primi contatti vi è anche, a Ulm in Germania, il matematico Johann Faulhaber (1580-1635) membro della confraternita dei Rosacroce, una società segreta di alchimisti, matematici, mistici, e in genere scienziati, che vogliono trasformare il mondo attraverso il sapere. I Rosacroce sono contrari al potere ec139

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Le accuse di ateismo

La prudenza nel pubblicare

Curioso verso tutto ma ostile all’esoterismo

L’interesse per le discipline tecniche e la medicina

L’ultimo rifugio in Svezia

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clesiastico, e intendono promuovere una unità del genere umano che vada al di là dei confini nazionali – idee certo pericolose per quei tempi. Si è spesso discusso se Cartesio abbia non solo preso contatto, ma si sia persino affiliato alla Confraternita: alcune immagini dei suoi sogni famosi richiamano la simbologia Rosacroce. Certamente Cartesio ne condivide alcune idee, come l’unità del sapere o la critica alla scienza praticata nelle università. E anch’egli ha avuto rapporti difficili con la Chiesa. Cattolico quasi per caso – la sua famiglia proveniva dal Poitou, regione prevalentemente protestante – Cartesio resta, probabilmente con convinzione, nella religione in cui è stato allevato, ma teme a lungo l’Inquisizione e vive per molto tempo nell’Olanda protestante, cercandovi anche un ambiente più protetto in cose religiose. Ma gli attacchi più duri e le accuse di ateismo verranno paradossalmente da ambienti olandesi. Pubblicata nel 1637, anonima, l’opera che lo rende subito celebre, il Discorso sul metodo, Cartesio rinuncia a pubblicare un’altra opera preparata per quattro anni, Il Mondo o Trattato sulla luce (incompleto e pubblicato postumo), «per fare atto di completa obbedienza alla Chiesa», sperando sempre, al contempo, di potere ottenere un mutamento di opinione da parte delle gerarchie ecclesiastiche. Oscilla spesso tra la volontà di rendere pubbliche le sue scoperte e la risoluzione di tenerle nascoste in attesa di tempi migliori. Pubblicare in quei tempi non è un atto indifferente. Il controllo della Chiesa e del suo Sant’Uffizio si estende o cerca di estendersi su tutta l’Europa. Nel 1619 un filosofo, Giulio Cesare Vanini (1585-1619), è morto sul rogo a Tolosa, con l’accusa di ateismo, la stessa che sarà mossa anche a Cartesio dai suoi avversari in Olanda. Molti dei suoi contatti col mondo intellettuale europeo Cartesio li tiene tramite padre Marin Mersenne, un frate parigino di grande cultura che è in comunicazione con le maggiori personalità dell’epoca. Studioso di numerose discipline, interessato a tutte, Cartesio si preoccupa sempre della ricaduta pratica del sapere; si accosta anche alle «scienze più curiose e rare», che comprendono la magia naturale (che nel Rinascimento includeva studio della natura e pratiche esoteriche), ancora non distinta chiaramente, nell’opera degli uomini colti del tempo di Cartesio, dallo studio della natura oggi riconosciuto come scientifico. Ma rifiuta presto la ricerca di chiavi misteriose e arcane di ogni sapere: come scrive una volta a Mersenne, gli «bastava vedere soltanto la parola arcanum in una proposizione, per cominciare ad averne subito un cattivo concetto». I viaggi servono a Cartesio anche per osservazioni di ogni genere: da quelle riguardanti le tecniche militari – si reca all’assedio di Larochelle del 1628 per studiare la costruzione di una grandiosa diga eretta per bloccare il porto –, alle osservazioni di fenomeni naturali (i temporali e il disgelo sulle Alpi, le inondazioni delle isole nel mar del Nord), alla conoscenza di usi e costumi, e di diverse lingue. Gli interessa moltissimo la medicina, con cui spera in un certo momento di prolungare anche la propria vita, e che considera tra le scienze più importanti: «La conservazione della salute è stata da sempre lo scopo principale dei miei studi, e sono sicuro che è possibile acquistare molte conoscenze in medicina che finora sono state ignorate». Frequenta a lungo anche le botteghe dei macellai, per dissezionare animali, e l’anfiteatro di anatomia dell’università di Leida. Divenuto famoso, Cartesio deve difendersi da attacchi sul piano teorico, ma anche da minacce molto più concrete: il rettore dell’università di Utrecht – il teo-

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➥ Sommario, p. 177

logo calvinista Gisbert Voet (1588-1676) – usa la risposta di Cartesio a un libello anticartesiano (in cui lo accusa tra l’altro di essere un Rosacroce) per citarlo per diffamazione e mobilitare anche la municipalità della sua città contro di lui. Forse questa vicenda è tra i motivi che inducono Cartesio ad accettare l’invito della regina di Svezia, Cristina, a recarsi a Stoccolma presso la sua corte. Dalla Svezia Cartesio non torna più: secondo alcuni per il clima rigido, secondo altri perché viene avvelenato (forse per il timore che favorisca la conversione della regina al cattolicesimo, cosa che qualche anno dopo la sua morte avviene effettivamente), muore l’11 febbraio 1650, all’età di cinquantatré anni.

La vita e le opere René Descartes («Cartesio» deriva da Cartesius, la latinizzazione del suo cognome) nacque il 31 marzo del 1596 a La Haye in Turenna, proveniente da un’agiata famiglia francese. Studiò dal 1606 al 1614 nel collegio di gesuiti di La Flèche. Nel 1616 ottenne il baccalaureato in diritto canonico e civile all’università di Poitiers. Trascorsi due anni a Parigi, dove tornerà in molte occasioni, decise nel 1618 di arruolarsi nell’esercito del principe protestante olandese Maurizio di Nassau. Dopo essere stato acquartierato a Breda con l’esercito, si mise in viaggio verso il Nord, andando ad Amsterdam, Copenaghen, poi a Danzica, e attraversando la Polonia, l’Ungheria, la Germania, fermandosi a Francoforte, dove assistette all’incoronazione dell’imperatore Ferdinando II (30 agosto 1619); si arruolò poi di nuovo in un esercito, questa volta quello di Massimiliano di Baviera, principe cattolico, che strinse d’assedio Praga e ne fece fuggire Federico di Boemia. Con la figlia di Federico, Elisabetta, molti anni dopo Cartesio intreccerà un intenso rapporto, anche epistolare, che stimolerà molte delle sue riflessioni. Nel novembre del 1619 ebbe un’esperienza particolare che gli fece intravedere i fondamenti di una «scienza meravigliosa». Ripresi i suoi viaggi, nel 1623 arrivò anche in Italia, dove non riuscì, come voleva, a incontrare Galilei. Tornato in Francia nel 1624, quattro anni dopo, infine, si stabilì in Olanda. Nel 1628 iniziò anche un trattato che rimase incompiuto, circolando però manoscritto, e venne pubblicato postumo: le Regole per la guida dell’intelligenza, in cui Cartesio esponeva per la

3 Una ricerca che intreccia scienza e filosofia

prima volta un metodo per garantire certezza assoluta alle proprie conclusioni. Dal 1630 al 1633 scrisse Il Mondo o Trattato sulla luce (postumo), che comprendeva anche una parte intitolata L’uomo; interruppe l’opera a causa della condanna di Galileo. Nel 1637 uscì anonimo a Leida il Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze più la Diottrica, le Meteore e la Geometria che sono saggi di questo metodo, l’opera che lo rese famoso e dette inizio alla diffusione del cartesianesimo. Il 19 novembre 1640 inviò a padre Mersenne il manoscritto delle Meditazioni metafisiche con le Prime obiezioni formulate dal teologo scolastico olandese Jan de Kater (Caterus); l’opera uscì nell’agosto del 1641 con in aggiunta le Seconde obiezioni di Mersenne; le Terze del filosofo inglese Thomas Hobbes; le Quarte di Antoine Arnauld, un teologo giansenista formatosi nella cerchia di Pascal; le Quinte di Pierre Gassendi (1592-1655), un filosofo francese autore di un modello di meccanicismo alternativo a quello cartesiano; le Seste di vari teologi e geometri; al testo erano state aggiunte anche le risposte di Cartesio a tutte le osservazioni rivoltegli. Nel gennaio del 1642 furono stampate a parte le Settime obiezioni, opera di un gesuita, con le risposte di Cartesio. Due anni dopo, nel 1644, furono pubblicati I principi della filosofia in cui egli presentava in maniera sistematica il proprio pensiero sul mondo e sull’uomo; nel 1649 uscì la sua ultima opera, Le passioni dell’anima, un’analisi delle emozioni in rapporto al corpo. Trasferitosi in Svezia su richiesta della regina Cristina, morì a Stoccolma nel 1650.

Un pensatore su molti fronti e l’unità del sapere Il ruolo storico principale di Cartesio è stato senz’altro quello di tentare una rifondazione generale del sapere sulla base di nuove premesse, ma questo compito centrale e propriamente filosofico non è stato il suo scopo esclusivo, né il suo unico ambito di azione. Se ha potuto svolgerlo è, invece, perché si è immerso nelle conoscenze dell’epoca, non soltanto attraversandole, ma praticandone molte, in modo nient’affatto marginale, contribuendo anzi al cambiamento dei modelli di sapere scientifico utilizzati. La filosofia era allora, ed è stata a lungo ancora dopo Cartesio, una disciplina intrecciata ad altre forme di conoscenza. Separare 141

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nettamente in questo contesto, per esempio, metafisica e fisica non risulterebbe facile: Cartesio stesso, per citare un solo punto, pensava di trattare delle verità eterne e del loro rapporto con Dio nella sua fisica. Nell’opera I principi della filosofia (1644), l’articolazione della filosofia stessa rende chiaro come essa non corrisponda a una riflessione solo metafisica o di tipo metascientifico (una riflessione sulla scienza).

T2

L’albero della conoscenza Lettera a Picot, in I principi della filosofia

L’impegno di tutta la vita per la ‘nuova scienza’

I saggi scientifici e il Discorso sul metodo

La Diottrica

Le Meteore

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[…] tutta la filosofia è come un albero, di cui le radici sono la metafisica, il tronco è la fisica, e i rami che sortono da questo tronco sono tutte le altre scienze, che si riducono a tre principali, cioè la medicina, la meccanica e la morale, intendo la più alta e perfetta morale, che, presupponendo un’intera conoscenza delle altre scienze, è l’ultimo grado della saggezza. Vedremo in conclusione come Cartesio riconduca le altre scienze alla saggezza, cioè alla «perfetta conoscenza di tutte le cose che l’uomo può sapere, tanto per la condotta della vita, quanto per la conservazione della sua salute e l’insieme di tutte le arti» (Lettera a Picot, cit.). Ora è importante sottolineare che, per quanto sia impropria e anacronistica per l’epoca di Cartesio una netta distinzione tra scienza e filosofia, e per quanto i suoi interessi da subito siano stati ad ampio raggio e molteplici, si può dire che egli si è occupato prima di scienze che di filosofia, e di queste ha continuato a occuparsi per tutta la vita: in particolare di matematica, fisica, ottica, meteorologia, fisiologia, medicina, embriologia, musica (studiata dal punto di vista matematico dei rapporti tonali), di macchine e problemi tecnici di diverso tipo. Cartesio non si limita dunque – per quanto grande sia questo compito – a fornire un nuovo quadro filosofico e metafisico che consenta di comprendere la scienza moderna della natura, ma opera in concreto per contribuire a farle prendere forma, per costituirla in quanto tale. Si ricorda raramente oggi che la sua opera forse più famosa, il Discorso sul metodo, cui abbiamo fatto già cenno, non è che la prefazione a un’opera più complessa, la prima che Cartesio pubblica, apparsa nel 1637 con il titolo Discorso sul metodo per ben condurre la propria ragione e cercare la verità nelle scienze più la Diottrica, le Meteore e la Geometria che sono saggi di questo metodo. È un libro che comprende dunque la raccolta di un saggio di ottica (precisamente di teoria della rifrazione), uno di meteorologia e uno di geometria, saggi che devono realizzare ed esemplificare la teoria sul metodo esposta nel discorso introduttivo. Si tratta, secondo il filosofo e storico della scienza Alexandre Koyré (1892-1964) di «tre saggi scientifici di una novità sorprendente e di un interesse capitale». La Diottrica tratta della rifrazione, ma anche del telescopio e del cannocchiale, di strumenti cioè che hanno avuto un ruolo centrale per modificare la nostra visione del mondo fisico (vedi Galilei e il suo Sidereus Nuncius, p. 94 ss.); in questo saggio si parla, però, anche dell’occhio, e della natura della percezione sensibile, un tema di valore centrale per la teoria della conoscenza. Le Meteore si occupano, secondo una delimitazione dell’ambito di ricerca stabilita da Aristotele, dei cosiddetti fenomeni sublunari, ossia quelli che si producono sulla Terra e tra la Terra e la Luna – dunque in parte quelli oggetto dell’odierna meteorologia, ma anche fenomeni come quello inquietante e misterioso dei ‘pareli’, «l’apparizione di parecchi soli», ossia macchie luminose vicine al Sole dovute alla rifrazione della luce attraverso particelle di ghiaccio presenti nel-

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l’atmosfera. Cartesio, in particolare, dà in quest’ambito una spiegazione dell’arcobaleno che costituisce una straordinaria applicazione della matematica allo studio di fenomeni fisici e che egli stesso considerava tra i migliori esempi di messa in pratica del proprio metodo. Un nuovo modello Ma al di là dei contenuti e delle tesi particolari dei trattati cartesiani, in parte di spiegazione superati dallo sviluppo della scienza fisica, le opere scientifiche di Cartesio moscientifica strano un cambiamento radicale nel modo stesso di affrontare i fenomeni della natura. Se la meteorologia scolastica spiegava per esempio la brina e la rugiada ancora in riferimento a quella che Aristotele chiamava la loro «causa finale» (gli effetti benefici per le piante), per Cartesio ogni spiegazione è genetica, consiste cioè nell’indicazione delle condizioni del prodursi del fenomeno, e meccanicistica, nel senso che utilizza soltanto i parametri di estensione (la qualità della materia di occupare uno spazio in larghezza, lunghezza e profondità) e movimento, che possono essere trattati in modo matematico. In questo senso, la disciplina contenuta nel terzo trattato, la Geometria, costituisce un fondamento decisivo, e non solo un’applicazione particolare e accessoria, per la concezione cartesiana dello studio della natura: diventa l’inizio e la premessa costante per un progetto più ampio e ambizioso, quello della rifondazione del sapere su basi nuove e unitarie.

La geometria analitica La matematizzazione dello spazio fisico

I caratteri della geometria analitica

Riforma della matematica ed evoluzione della fisica

La matematica che Cartesio trova insegnata ai suoi tempi considera la geometria e l’algebra discipline nettamente separate. La geometria si occupa delle figure costruibili con riga e compasso, l’algebra di equazioni con simboli e numeri. Cartesio introduce il sistema poi noto come «coordinate cartesiane», ossia l’utilizzazione di un sistema di riferimento di assi ortogonali che consentono di ‘tradurre’ qualunque figura dello spazio in termini numerici e di costruire tramite equazioni anche figure che non risultano costruibili con rette e cerchi, ossia con il sistema tradizionale di riga e compasso (per esempio linee curve complesse). Con la geometria analitica, così escogitata, 1) si ottiene l’unificazione di due discipline matematiche, consentendo di trattare problemi geometrici in termini di equazioni, ma anche di rappresentare quantità attraverso segmenti e risolvere problemi algebrici con costruzioni di tipo geometrico; 2) si rende possibile la soluzione di problemi matematici prima insoluti; 3) ma soprattutto si svincola la geometria dai limiti dell’immaginazione, e si rende possibile la matematizzazione dello spazio fisico, con un sistema capace di trasformare linee in numeri e numeri in linee: una premessa indispensabile per la piena applicazione della matematica allo studio dei fenomeni naturali. La geometria, tra i primissimi oggetti di interesse di Cartesio, diventa allora una chiave di accesso che va di gran lunga al di là del suo pur significativo valore settoriale, e anche al di là del suo ruolo di premessa fondamentale per lo sviluppo della scienza. Cartesio nel riformare la matematica si rende conto anche del suo ruolo cruciale in rapporto a una nuova maniera di concepire le cose stesse della natura, i fenomeni, che la ‘nuova scienza’ – quella che oggi chiamiamo «newtoniana» – stava facendo emergere, e che sconvolgeva la stessa metafisica classica, il suo modo di intendere l’essenza delle cose. 143

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Dal sapere fondato sulle essenze alla ricerca di leggi e funzioni

Cartesio e la ‘nuova scienza’

Il mondo aristotelico è un mondo di sostanze, di cose compiute dotate di una loro natura interna, o essenza, in grado di determinare le proprietà che le cose manifestano. A questo corrisponde l’ideale di un ordine classificatorio, nel quale le diverse ‘qualità’ delle cose naturali vengono organizzate secondo le medesime relazioni ontologiche esistenti tra le forme o essenze che le determinano. I protagonisti della rivoluzione scientifica seicentesca, Keplero, Galilei, Newton, invece, si occupano ormai di leggi, funzioni, ossia di regole del prodursi dei fenomeni: sono soltanto le relazioni stesse ciò che può essere colto dalla scienza e che rende pienamente conto di ciò che accade, lo rende controllabile e prevedibile. Una logica che preveda solo le forme di inclusione tra classi – come era quella aristotelica – non è più in grado di corrispondere alla natura delle cose del mondo fisico, alla nuova ontologia che la scienza moderna prefigura e sottintende. Cartesio si rende conto che è necessario un nuovo e più potente strumento, e l’unificazione di algebra e geometria, e con esse di numero e spazio, che egli intravede precocemente gli sembra soltanto il segno di qualcosa di ulteriore e di più vasto.

Abbandono del finalismo e dell’essenzialismo aristotelici

Spiegazione genetica: trovare le condizioni del prodursi del fenomeno Utilizzazione solo dei parametri passibili di trattazione matematica, estensione e moto (meccanicismo) Matematizzazione dello spazio fisico attraverso la geometria analitica

Ricerca di leggi e funzioni

La matematica universale Nel Discorso sul metodo si narra della scoperta dell’unità di algebra e geometria alla luce di un principio più generale:

T3

Discorso sul metodo, 2

[…] osservando come tutte [le scienze particolari che comunemente sono chiamate matematiche] per quanto i loro oggetti siano diversi, son d’accordo a considerare questi soltanto dal lato dei rapporti e delle proporzioni, pensai che era meglio esaminare soltanto questi rapporti, o proporzioni, in generale, supponendoli in quegli oggetti che potevano facilitarmene la conoscenza, ma senza limitarli ad essi in nessun modo per poterli dopo applicare ugualmente bene a tutti gli altri oggetti a cui convenissero.

La ricerca di uno strumento universale di conoscenza: la mathesis universalis

L’unità di algebra e geometria, di numero e spazio, viene vista da subito dunque nel quadro di un compito più ampio: quello di individuare uno strumento universale, capace di conservare il meglio delle discipline – logica, algebra, geometria –, capace in altri termini di essere lo strumento di comprensione di un

Rapporti e proporzioni

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

mondo concepito secondo l’ordine delle relazioni. Nelle Regole per la guida dell’intelligenza (scritte prima del Discorso, in gran parte negli anni 1627-1628, mai pubblicate mentre Cartesio era in vita, ma circolate manoscritte) questo programma più vasto è espresso con grande chiarezza. Se quello che conta sono ordine e misura – relazioni matematizzabili – «non ha interesse se tale misura si debba cercare nei numeri, o nelle figure, o negli astri, o nei suoni, o in qualunque altro oggetto». E dunque è possibile quell’altra disciplina, ossia «una scienza generale che spieghi tutto ciò che si può chiedere circa l’ordine e la misura non riferite ad alcuna speciale materia». Cartesio pensa in questa fase di darle il nome di mathesis universalis, una matematica universale che in realtà costituisca la logica generale del sapere umano.

T4

Una logica generale della conoscenza Regole per la guida dell’intelligenza, regola quarta

L’unità del sapere

E per quanto io menzionerò qui molte cose relative a figure e numeri, perché non si possono prendere da nessun’altra disciplina esempi altrettanto evidenti e altrettanto certi, tuttavia chiunque avrà riflettuto attentamente sul mio punto di vista, si accorgerà facilmente che io qui non penso affatto alla matematica ordinaria, ma che espongo un’altra disciplina, della quale tali cose sono più maschere che parti. Essa deve contenere difatti i primi rudimenti della ragione umana, e deve estendersi fino a estrarre la verità da qualunque soggetto; e, per parlare liberamente, sono convinto che essa sia preferibile ad ogni altra conoscenza a noi umanamente trasmessa, in quanto fonte di tutte le altre. Mentre concepisce l’idea di una logica generale della conoscenza, Cartesio si persuade della essenziale unità di ogni sapere umano, contro la suddivisione in campi separati della conoscenza corrispondenti a diversi tipi di entità che caratterizzava l’impostazione aristotelico-scolastica.

T5

Poiché tutte le scienze non sono altro che sapere umano, che rimane uno e identico, per diversi che siano gli oggetti a cui viene applicato, né da essi acquisisce maggiori distinzioni di quante ne acquisisca la luce del sole dalla varietà delle cose che illumina, non è necessario costringere le menti entro alcun limite; infatti la conoscenza di una sola verità non ci allontana dal trovarne un’altra, come invece accade per la pratica di una sola arte, ma anzi ci è utile.

Il progetto di un sapere unitario necessita di un metodo

Chi riesca a possedere la ragione del prodursi delle cose – con la reductio rerum ad causas, la riconduzione delle cose alla loro causa – finisce per possedere la chiave di ogni conoscenza, se tutte le cose sono concatenate tra di loro secondo un unico ordine di nessi, di relazioni che costituiscono tutto ciò che delle cose è possibile conoscere. Come vedremo, Cartesio è anche consapevole del fatto che questo progetto, rispetto al preteso sapere delle essenze, comporta una certa ‘distanza’ da ciò che è conosciuto, dalla sua natura ultima. Ma comporta anche la possibilità di un dominio su di esse ben più potente di qualunque sapere che è in ultima analisi memoria. Lo strumento per ottenere una tale conoscenza è disporre dei principi per acquisirla, non di informazioni accumulate: e dunque il compito che si presenta è quello di stabilire una logica che indichi come raggiungere e possedere saldamente le verità. Si tratta di stabilire un metodo, ossia delle regole del procedere, che possano valere per qualunque conoscenza.

L’unità del metodo

Regole per la guida dell’intelligenza, regola prima

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Una filosofia pratica La filosofia deve produrre effetti positivi per l’uomo

Questo progetto metodologico, che vedremo da vicino nella sua parte teorica, Cartesio non si limita a concepirlo, lo porta avanti in pratica. In questo senso il suo pensiero non è una pura riflessione metodologica, filosofica, ma una complessiva riforma della conoscenza che unisce alla riflessione sul conoscere e sui suoi fondamenti il tentativo di produrre un sapere di tipo nuovo. Nel Discorso sul metodo, scritto maturo e consapevolmente programmatico, pubblicato dopo molti anni di studi e di riflessioni, Cartesio dichiara di volere impiegare il tempo che gli resta da vivere «nello studio della natura per acquistare qualche conoscenza da cui sia possibile ricavare regole per la medicina più sicure di quelle in uso oggi». Il sapere che viene maggiormente esaltato in queste pagine è quello di una filosofia «pratica» – opposta a quella «meramente speculativa che si insegna nelle scuole» – che possa produrre il bene degli uomini attraverso un tipo di conoscenza che renda possibile controllare la natura.

T6

[…] venendo a conoscere la forza e le azioni del fuoco, dell’acqua, dell’aria, degli astri, dei cieli e di tutti gli altri corpi che ci circondano, altrettanto distintamente di come conosciamo le tecniche impiegate dai nostri artigiani, possiamo egualmente applicarle a tutti gli usi che sono loro propri, diventando così quasi dominatori e padroni della natura.

Il dominio sulla natura

Discorso sul metodo, 6

Controllo della natura e nuova immagine del mondo

➥ Sommario, p. 177 Una nuova immagine del mondo

Unità di tutte le scienze

4 Lo studio dei fenomeni fisici

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Per ottenere tutto ciò è necessario cambiare il modo di conoscere: non cercare di giungere fino all’essenza nascosta delle cose, ma sviluppare una conoscenza adeguata allo spirito umano che renda conto, però, pienamente del prodursi dei fenomeni. Così per esempio non dovremo ricercare nel magnete qualche essenza peculiare e sconosciuta, da cogliere con l’intelletto: ma «tutto quello che a tale proposito può essere procurato dalla mente umana noi crederemo di averlo conseguito se percepiremo con la massima distinzione quella mescolanza di enti, o di nature, già noti, che produca gli stessi effetti che si manifestano nel magnete». L’idea di un dominio sulla natura attraverso il sapere, che ha in Bacone (vedi Unità 2, p. 108 ss.) un precursore, che, però, non trova la formulazione metodologica adeguata agli sviluppi della scienza fisico-matematica, si traduce in Cartesio nel programma di costruzione di un sapere basato su principi affidabili, che produca una diversa e più adeguata immagine del mondo intero.

Unità del metodo

Riconduzione delle cose alle loro cause

Conoscenza con fini pratici: controllo sulla natura

Costruire il mondo (e l’uomo): fisica e fisiologia Per molti anni, prima di dare alle stampe il Discorso con la Diottrica, le Meteore e la Geometria, Cartesio si occupa, come si diceva, di molte scienze diverse, ma anche di problemi metafisici. I suoi studi più intensi vanno in un primo tempo

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alla matematica, che a un certo punto – nel 1628 – ritiene di avere quasi «esaurito», dopo aver sviluppato l’unione di geometria e algebra. Si dedica poi a problemi di metafisica, ma si imbatte nel fenomeno dei pareli (vedi sopra p. 142), quello trattato nelle Meteore, che erano stati osservati nel marzo del 1629 vicino a Roma dal padre gesuita Schneiner, e questo lo conduce decisamente verso la fisica. Tale questione particolare, però, rimanda ad altre, e Cartesio, anche per la sua idea della fondamentale unità di tutto il sapere e dell’interconnessione di tutti i fenomeni, decide di trattare tutti i fenomeni sublunari, e poi la luce, e infine l’insieme del mondo fisico. Il proposito Così nel novembre 1629 scrive in una lettera: «anziché spiegare un solo fenodi una fisica generale: meno, mi sono risolto a spiegare tutti i fenomeni della natura». Il progetto, come Il Mondo si vede piuttosto ambizioso, subisce varie vicissitudini e sfocia poi nel piano, di vasto impianto ma limitato ai fenomeni più fondamentali, di un trattato intitolato Il Mondo o Trattato sulla luce, in cui il nesso con i problemi della diottrica, che intanto stava sviluppando, è dato dalla spiegazione preliminare del fondamentale problema della luce.

La favola del mondo Il Mondo o Trattato sulla luce non viene mai pubblicato durante la vita di Cartesio, perché nel 1633 Galileo viene condannato dal Sant’Uffizio per la sua difesa della concezione eliocentrica. Ancora, nel 1600 Giordano Bruno è stato bruciato sul rogo per aver sostenuto tra l’altro l’eternità dell’universo e l’infinità dei mondi. Cartesio, sempre estremamente prudente, rinuncia alla pubblicazione, anche perché non crede che la teoria del movimento della Terra possa facilmente essere omessa: «Tutte le cose che spiegavo nel mio trattato, tra cui c’era anche l’opinione del moto della Terra, dipendevano talmente le une dalle altre, che basta sapere che una è falsa per conoscere che tutte le ragioni su cui mi fondavo non hanno più alcuna forza». Il trattato viene pubblicato dopo la sua morte, in due volumi; il primo, contenente la parte finale sull’uomo, nel 1662 in latino (De Homine), il secondo, contenente le prime parti, nel 1664 in francese, col titolo Le Monde. Ma alcuni aspetti del trattato sul mondo saranno esposti da Cartesio nel Discorso sul metodo. L’espediente retorico: Cartesio non ha atteso, però, la condanna di Galileo per rendersi conto di come la teoria presentata le sue teorie sul mondo fisico siano pericolose e ha scelto un espediente retorico come ipotesi particolare con il quale proporre il suo modo di vedere. Nella sua esposizione, presentata come un’ipotesi, Dio si limita a creare la materia, a infonderle una certa quantità di movimento e a darle delle leggi che la governino. Dopo ciò, il mondo si evolve autonomamente e l’unica concessione di Cartesio alla teologia tradizionale è ammettere che Dio ‘concorre’ all’accadere dei fenomeni, limitandosi a conservare ciò che esiste senza turbare l’ordine naturale («concorso ordinario»). Così narra egli stesso la genesi del suo testo e il suo artificio espositivo: Il processo a Galileo e la rinuncia alla pubblicazione

T7

L’origine del mondo

Discorso sul metodo, 5

Il mio progetto era di raccogliervi tutto ciò che, prima di scriverlo, ritenevo di sapere sulla natura delle cose materiali. Ma proprio come i pittori che, non potendo egualmente bene rappresentare su di una superficie piana tutte le diverse facce di un corpo solido, ne scelgono una delle principali da metter in luce, e ombreggiando invece tutte le altre, le fanno apparire per quello che possono essere viste 147

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guardando la prima, così io, nel timore di non riuscire a fare rientrare nel mio discorso tutto quello che avevo in mente, presi la decisione di esporvi ampiamente solo quanto concepivo della luce; poi, sempre in relazione ad essa, di aggiungervi qualcosa sul sole e sulle stelle fisse, perché è da questi astri che proviene quasi tutta la luce; sui cieli, perché la trasmettono; sui pianeti, sulle comete e sulla terra perché la riflettono; e in particolare su tutti i corpi che si trovano sulla terra, perché sono colorati o trasparenti o luminosi; e infine sull’uomo, perché ne è lo spettatore. Anzi per lasciare un po’ in ombra tutti questi miei argomenti e poter dire più liberamente ciò che ne pensavo, senza essere costretto a seguire o a confutare le opinioni che sono comunemente accettate dai dotti, deliberai di lasciare tutto questo nostro mondo alle loro dispute e di parlare unicamente di ciò che accadrebbe in un mondo nuovo, se Dio creasse ora da qualche parte, negli spazi immaginari, sufficiente materia per comporlo, e agitasse in vario senso e senza ordine le diverse parti di tale materia in modo da formarne un caos tanto confuso quale possono fingerselo i poeti; e poi niente altro facesse che prestare il suo concorso ordinario alla natura, lasciandola agire secondo le leggi da lui stabilite. Scelta di prudenza, ma anche presentazione di un nuovo modello teorico

Svincolarsi dal peso della teologia

Tre elementi

Creazione della materia e leggi del moto

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Si tratta dunque di una costruzione ipotetica, fantastica, ambientata in quegli «spazi immaginari» che gli scolastici concepivano come spazi fittizi posti oltre i limiti del mondo e dunque dello spazio. Cartesio parla anche della sua «favola del Mondo», che sembra dunque quasi presentata come una sorta di fantascienza (fisico-teologica) ante litteram. Eppure questa favola ha ragioni profonde. Presentare tutto come la costruzione di un «mondo nuovo» non risponde solo a motivi di opportunità e prudenza, che non sarebbero comunque sufficienti dopo la condanna di Galileo (tant’è vero che Cartesio si guarda bene dal pubblicare il testo anche in questa forma). Certo, è per Cartesio «un espediente per mezzo del quale io possa dire la verità, senza colpire l’immaginazione di nessuno, né urtare le opinioni comunemente accolte». Ma la «favola del Mondo», la Descrizione di un mondo nuovo intende anche mostrare la costruzione di un mondo – del nostro mondo – a partire da alcuni elementi semplici e basilari e alcune leggi fondamentali: vuole mostrare non cosa il mondo sia, ma come si sia prodotto, in modo analogo a come un orologiaio è in grado di stabilire le regole di composizione di un meccanismo pur non avendolo costruito. Smontare e rimontare il mondo, partendo dal caos per ritrovare l’ordine: è questo il progetto di Cartesio, e la natura ‘ipotetica’ che egli sottintende alla sua costruzione non indica tanto la natura della sua certezza (che si trattasse appunto di ipotesi), ma la sua volontà di svincolare la conoscenza del mondo da conseguenze metafisiche troppo rigide. La favola del «mondo nuovo», la costruzione ipotetica del mondo consente a Cartesio di svincolarsi dalla teologia, che per lui era «talmente asservita ad Aristotele, che è quasi impossibile esplicare un’altra filosofia, senza che sembri subito contro la fede». Il Mondo procede dall’individuazione di tre elementi (fuoco, aria, terra), che non vengono, però, spiegati in riferimento alle ‘qualità’ (calore, freddo, umidità e secchezza), che a loro volta devono essere spiegate, ma in riferimento a movimento, grandezza, figura e disposizione delle parti. Sono forma e movimento delle particelle a spiegare in altri termini le proprietà diverse di fuoco, aria e terra. Ma la favola vera e propria – «attraverso la quale la verità non mancherà di manifestarsi a sufficienza» – prevede che Dio crei la materia (altrove Cartesio la definirà res extensa, «sostanza estesa»), la cui essenza o attributo essenziale, viene

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identificata con la sua proprietà di occupare un certo spazio, ossia con l’estensione, e crei anche delle leggi di natura, ossia delle regole che nella materia determinano il mutamento, derivato dal movimento originario impresso da Dio. Queste leggi sono tre: 1) ogni parte della materia rimane nello stesso stato finché il contatto con altre non la obblighi a cambiarlo; 2) la quantità di moto negli urti si conserva; 3) ogni corpo tende a continuare il proprio movimento in linea retta. Il primo avvio dato da Dio, la quantità originaria di moto, insieme alle leggi, fanno sì che poi l’universo faccia tutto da solo, che le parti «arrivino a districarsi da sole». L’infinità Dall’identificazione tra materia ed estensione risulta l’infinità della sostanza estedella sostanza estesa sa, perché: 1) infinito è lo spazio euclideo (lo spazio concepito secondo la geometria di Euclide, incentrata sul postulato secondo cui le rette parallele non si incontrano mai) con cui la sostanza coincide; 2) la divisibilità della sostanza è egualmente infinita: le particelle di materia sono chiamate da Cartesio «corpuscoli» e non hanno la caratteristica degli atomi che sono indivisibili: essi sono, invece, divisibili all’infinito; 3) la sostanza estesa è continua (non è pensabile il vuoto) e quindi non ha limiti. I vortici e i corpi celesti Le leggi del movimento fanno sì che si creino dei vortici attraverso i quali le particelle si muovono in diverse direzioni, costituendo dei sistemi di corpi al centro dei quali vi sono le particelle di fuoco, mentre quelle di terra finiscono per aggregarsi costituendo i pianeti. Vi saranno allora «tanti diversi cieli per quante stelle vi sono, – e poiché il loro numero è indefinito, lo sarà anche quello dei cieli». Il sistema solare – concepito dunque secondo l’ipotesi eliocentrica – è uno di questi vortici, costituito a sua volta da vortici, che spiegano l’attrazione gravitazionale e lo stesso moto dei pianeti (vedi Figura 1). È una teoria che non reggerà il confronto con quella di Newton, ma che cerca anch’essa di trovare una spiegazione unitaria della gravità e del moto dei pianeti. Figura 1

Immagine dei cieli dal Mondo: al centro di ogni vortice c’è il Sole o una stella (S, E, e, A); la materia compresa tra i punti F, F, G, G, F, F è la parte di cielo che gira intorno al Sole S; quella compresa tra H, G, G, H gira attorno a un’altra stella e. Le lettere L o K indicano delle possibili orbite intorno alla stella che delimitano il passaggio da un’area in cui la velocità delle particelle di materia è maggiore, a causa della forza centrifuga, a una in cui la velocità è minore poiché si allontana dal centro del vortice. Le linee del trapezio indicano il comporsi delle forze dei vari vortici. La linea punteggiata in alto, che somiglia a un fiume, rappresenta il tragitto di una cometa.

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Il rapporto tra fisica e metafisica Autonomia delle spiegazioni fisiche

Dio, fondamento di ogni verità

La «derealizzazione del mondo»

La fisica cartesiana

La fisica cartesiana ha un rapporto peculiare con la metafisica. Da un lato questa costruzione si svincola da conseguenze metafisiche: la fisica non ha bisogno di essere anche una metafisica, e il problema della conoscenza del mondo fisico può essere relativo solo al modo in cui l’uomo può conoscerlo. Il Mondo si apre con l’avvertenza antiscolastica, di cui riparleremo, sulla «differenza fra le nostre sensazioni e le cose che le producono». Cartesio insisterà sul fatto che si deve distinguere «l’intellezione che è conforme alla natura della nostra mente dal concetto adeguato delle cose, che nessuno ha non solo dell’infinito, ma neppure di alcuna cosa per quanto piccola». Dall’altro lato, tutte le verità, comprese le verità eterne che, secondo Cartesio, reggono le dimostrazioni dei matematici, hanno il loro fondamento in Dio: anche la stabilità delle tre leggi citate dipende esclusivamente dal fatto che Dio conserva ogni cosa mediante un’azione continua (concorso ordinario) e che la sua natura è immutabile. La favola del mondo per un verso libera la potenza della mente umana che immagina la genesi del tutto secondo le proprie forze; per un altro, come ha scritto un interprete novecentesco, Ferdinand Alquié (1906-1985), produce una «derealizzazione del mondo», una distanza di principio tra il sapere umano e le cose stesse che può essere recuperata – e questo sarà il progetto metafisico fondamentale di Cartesio – soltanto riconducendo la conoscenza umana non a verità assolute, ma a un’assoluta certezza, e legando quest’ultima, infine, alla veridicità di Dio.

Costruzione ipotetica che spiega non solo come il mondo è ma come si è prodotto Dio crea la materia, le infonde una quantità di moto, stabilisce delle leggi immutabili perché fondate sulla propria immutabilità La materia (res extensa) è suddivisa in tre elementi, diversi per dimensioni, forma ecc. dei corpuscoli, ed è infinita L’interazione di materia e leggi del moto forma il cosmo: vortici e assenza di vuoto

Autonomia del mondo fisico, ma ruolo di Dio, creatore e conservatore del mondo Il carattere ipotetico di questa ricostruzione produce una distanza tra sapere umano e cose stesse (derealizzazione)

L’uomo come macchina Il precoce superamento del modello fisico e fisiologico cartesiano

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La costruzione del mondo fisico di Cartesio è molto importante dal punto di vista metodologico, per la generale e coerente impostazione meccanicistica e la trasformazione delle forme sostanziali nei due unici fattori di estensione e movimento. Ma non resisterà nei suoi contenuti alla concorrenza dell’impostazione newtoniana, e teorie come quella dei vortici, che pure ebbe larga diffusione, saranno poi abban-

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Una coerente fisiologia meccanicistica

L’interesse di Cartesio per gli automi

L’ipotesi dell’uomo-macchina

Il dualismo cartesiano e l’unione mente-corpo

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L’uomo come sistema meccanico

Discorso sul metodo, 5

donate. Dal punto di vista dello sviluppo interno della scienza, dunque, il contributo di Cartesio fu significativo ma passeggero. Lo stesso vale, forse ancor di più, per le teorie fisiologiche, che pagano lo scotto alle limitate conoscenze del tempo. Tuttavia la ricostruzione interamente meccanica del corpo umano – fino alla soglia dell’anima razionale (o mente) – offre un modello influente e significativo per la comprensione dell’uomo, la cui portata si estende fino ai moderni progetti, scientifici e filosofici insieme, di comprensione della mente umana basati sulla sua riduzione a processi fisiologici (o comunque naturali), affiancati in ambito tecnologico da ricerche per la costruzione di enti artificiali umanoidi, robot pensanti, «coscienze artificiali». Cartesio si interessa dell’uomo-macchina (la sua teoria riguardo agli animali, e all’uomo fino al punto in cui con essi coincide, è che siano in realtà come macchine), e il naturale rovescio di questo interesse è quello per la macchina-uomo, ovvero per gli automi. Un aneddoto che circolava su Cartesio voleva che egli, negli ultimi anni della sua vita, viaggiasse con un automa meccanico che riproduceva una bambina. Sia vero o meno, il modello dell’ultima parte del Mondo, quella pubblicata prima col titolo De Homine (vedi p. 147), è quello della ricostruzione meccanica del corpo umano, con importanti risvolti, però, di teoria della conoscenza, in quanto questa ricostruzione doveva render conto anche dei sensi e del cervello. Cartesio presenta ancora la sua esposizione come una ‘favola’, come l’ipotesi di altri uomini che non siamo noi, ma sono del tutto analoghi a noi: «Come noi, questi uomini saranno formati di un’anima e di un corpo. E, a parte, prima di ogni altra cosa, è necessario che vi descriva il corpo; poi, essa pure a parte, l’anima; e infine che vi mostri come queste due nature devono essere congiunte e unite per formare uomini che ci rassomiglino». Come si vede, la posizione di Cartesio è il dualismo: due nature, due sostanze (che in altre opere definirà res extensa e res cogitans, sostanza estesa e sostanza pensante) che, però, sono «congiunte». La parte dove egli descrive l’unione mente-corpo manca nel testo che ci è pervenuto. Ma nel Discorso e nelle Meditazioni metafisiche (vedi p. 170 ss.) questa unione, mai spiegata fino in fondo, è indicata come non estrinseca, diversa da quella di un pilota e la sua nave: la mente è «congiunta e unita più strettamente» al corpo. Tuttavia l’anima «non può assolutamente essere tratta dalla potenza della natura», deve essere creata espressamente. La costruzione dell’uomo si arresta dunque a questo punto, ma ci conduce, però, fino all’ultimo passo verso questa soglia, ossia fino alla presentazione nel cervello, alla coscienza, di quelle che potremmo chiamare, con una espressione che Cartesio non usa, le ‘idee materiali’ (le tracce ultime di un sistema meccanico che ci rappresenta le cose esterne). Nel caso dell’uomo vi sono, però, difficoltà supplementari, così che la costruzione fittizia, la supposizione fantastica deve cominciare a uno stadio successivo. Ai problemi precedenti si aggiunge la difficoltà – scrive Cartesio nel Discorso sul metodo – che le conoscenze riguardanti animali e uomo non sono sufficienti. Poiché non ne avevo ancora una conoscenza sufficiente per parlarne con lo stesso metodo usato per le altre cose, e cioè dimostrando gli effetti mediante le cause e indicando da quali elementi e in qual modo la natura debba produrli, mi contentai di supporre che Dio formasse il corpo di un uomo del tutto simile a uno dei nostri sia nell’aspetto esteriore delle membra che nella conformazione interna dei suoi organi, e usando la stessa materia da me descritta. E che al principio non 151

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infondesse in lui nessun’anima ragionevole, né altro che gli servisse da anima vegetativa o sensitiva, ma solo gli accendesse nel cuore uno di quei fuochi senza luce che avevo già spiegato. È dunque la fisiologia e non la genesi – il funzionamento, non la costruzione – dell’uomo che Cartesio si sente di spiegare, di nuovo sulla base di un primo motore meccanico, che è qui il calore prodotto nel cuore. La funzione del cuore viene vista appunto come quella di produrre il calore necessario al movimento dell’organismo. La fisiologia cartesiana, esposta anche nel Discorso sul metodo, si basa su una concezione del corpo umano come sistema meccanico-idraulico. La moderna divisione funzionale tra sistema circolatorio e sistema nervoso è qui assente, mentre i due aspetti vengono visti invece in continuità l’uno con l’altro. Gli «spiriti animali» Un ruolo importante lo gioca l’ipotesi cartesiana dei cosiddetti «spiriti animali». A dispetto del nome, che per noi suona tra il mistico e il magico, si tratta di una ipotesi fisica che Cartesio propone per spiegare diversi fenomeni di funzionamento del corpo. Vi sono tre generi di spiriti: 1) quelli «naturali», particelle dissolte dalla digestione; 2) quelli «vitali», provenienti dalla rarefazione del sangue; 3) e quelli «animali», che possono sussistere allo stato puro, ossia separati dal sangue. Gli spiriti animali sarebbero «un certo vento sottilissimo, o meglio ancora una fiamma vivissima e purissima», che si produrrebbe a partire dal sangue nel cervello. Essi viaggiano anche attraverso i nervi, i quali – come si dice nel trattato Le passioni dell’anima pubblicato nel 1649 – sono dei piccoli filamenti o piccoli canaletti «pieni, come il cervello, di una certa aria o vento sottilissimo». Le funzioni degli spiriti La natura sottile degli spiriti animali, trasportati nel sangue, ne consente la trasmissione per tutto il corpo, in modo da garantire, tra le altre cose, la comunicazione del movimento ai muscoli a partire dal cervello, e consente poi loro di operare – allo stato puro, come si diceva – nel cervello. Sottilissimi, gli spiriti animali non incontrano resistenza e formano dunque una specie di perpetuum mobile («ente sempre in moto») che tiene in comunicazione cervello, nervi e resto del corpo. La ghiandola pineale Le particelle sottili giungono infine nella ghiandola pineale, che «deve venire immaginata come una fonte copiosissima, dalla quale esse scorrono, simultaneamente, in ogni direzione nella concavità del cervello». È nella ghiandola pineale (o Conarion, vedi Figura 2) che gli spiriti animali «perdono la forma del sangue», si separano cioè dalle altre particelle, restando allo stato puro. Il motore meccanico dell’organismo umano è il cuore

Figura 2

Il cervello e la ghiandola pineale, indicata con la lettera H, secondo Cartesio (da L’uomo). Cartesio la sceglie come luogo dell’unione tra mente e corpo perché ha una posizione centrale nel cervello e perché è l’unica sua parte semplice e non doppia.

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➥ Sommario, p. 177

5 La relazione rappresentativa tra cose e mondo

Le species intenzionali della tradizione

Nella tradizione: idea come essenza

In Cartesio: funzione rappresentativa delle idee

➥ Percorso tematico, p. 401 La formazione delle idee

La ghiandola pineale svolge un ruolo cruciale, in quanto è la sede in cui avviene il passaggio dalle figure materiali tracciate in essa dagli spiriti, in seguito alla percezione dei sensi, all’anima razionale, la mente immateriale: è «la sede principale dell’anima e il luogo dove si formano tutti i nostri pensieri». Cartesio la individua in base a ragioni puramente anatomiche: perché è l’unica parte del cervello che non sia doppia, per la sua posizione centrale. Ma l’aspetto più interessante è che egli cerca di dare una teoria delle rappresentazioni dei sensi che – fino a quando giungono al luogo adatto «per esservi considerate dall’anima» – è interamente fisiologica e meccanica. È da qui che parte la sua teoria della conoscenza.

Idee come rappresentazioni Il Mondo inizia con la tesi secondo cui tra le sensazioni e le cose che le producono non esiste un rapporto di somiglianza. Cartesio mette così radicalmente in questione l’idea della somiglianza come fondamento della relazione rappresentativa, e introduce, invece, una concezione secondo la quale le idee presenti nel nostro pensiero rappresentano le cose in modo analogo a come avviene con le parole, che «non hanno alcuna rassomiglianza con le cose che significano, ma non per questo sono meno in grado di farcele concepire». La tradizione da cui Cartesio muove interpretava la percezione come trasmissione di species intenzionali, ossia di qualità emesse dall’oggetto e ricevute nei sensi, concepite come una sorta di ‘immagini’ delle cose. Le species, cui la mente doveva assimilarsi, erano in qualche modo espressione della natura (la ‘forma’) della cosa. Per il modello di conoscenza che valeva ancora ai tempi di Cartesio, un’idea non è anzitutto una rappresentazione mentale, ma una certa natura o essenza eterna. Cartesio stesso ricorda che il termine «era consueto nel lessico filosofico per designare le forme delle percezioni nella mente divina», le essenze delle cose nell’intelletto di Dio. Una simile essenza può sussistere in diversi modi d’essere: o solo nella mente, oppure anche in re, ossia nella realtà. L’idea non è dunque un’immagine della cosa con cui essa vada collegata: è la cosa stessa (come la manifesta la sua natura essenziale), ma nel modo peculiare di ciò che è solo nell’intelletto. L’idea non può non ‘rappresentare’ la cosa perché è la cosa in uno dei suoi modi di essere, quel modo di essere che essa ha nell’intelletto. Anche per Cartesio idee in senso proprio sono quelle contenute nella mente immateriale (diversa dal cervello in cui si formano le tracce), ma in quella umana (non in quella divina). E alla loro base sta un sistema rappresentativo in cui non contano più le species («piccole immagini volteggianti per l’aria, che tanto affaticano l’immaginazione dei filosofi», ironizza Cartesio nella Diottrica), non vi è un passaggio di qualcosa di reale, che esprima la natura della cosa, ma un sistema di corrispondenze che sta per le cose percepite. Come si formano le idee? Cartesio parte dalla visione: i raggi luminosi, colpendo il fondo dell’occhio, muovono i filamenti del nervo ottico che giungono fino alla «superficie interna del cervello». Il cervello stesso è concepito da Cartesio come un tessuto di filamenti sottilissimi che danno luogo a pori, e dunque a tubicini che si rivolgono tutti in direzione della ghiandola pineale. I tubicini sono mobili e possono essere piegati dalla forza del movimento degli spiriti, mantenendo, «quasi fossero fatti di piombo o di cera», le ultime pieghe che hanno ricevuto (vedi Figura 3). 153

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I diversi punti dell’oggetto trasmettono raggi che comprimono il fondo dell’occhio, e, tirando i filamenti, accrescono le aperture dei pori. La compressione del fondo dell’occhio traccia, dice Cartesio, «una figura che si riferisce all’oggetto» e questa determina, attraverso il microsistema meccanico-idraulico dei filamenti-pori e degli spiriti animali, il fatto che quella stessa figura venga ‘disegnata’ sulla superficie interna del cervello. Ciò avviene attraverso una specie di calco in negativo: dal momento che gli spiriti animali sono in massima attività all’interno della ghiandola, e dunque è lì il vero principio attivo, è l’apertura dei tubi a far sì che gli spiriti fuoriescano più liberamente e velocemente nei punti corrispondenti: come le aperture dei tubicini tracciano la figura sulla superficie del cervello, così la fuoriuscita degli spiriti traccia la figura all’interno della ghiandola (vedi Figura 4). Le idee non sono È dunque un sistema di ‘figure’ che si trasmettono di piano in piano secondo il immagini principio della ‘traccia’ a dar luogo alle «idee». Il primo esempio di Cartesio è riferito alla visione, ma viene precisato subito che il modello non è soltanto ottico, e dunque le idee non sono immagini in senso letterale.

La traccia materiale nel cervello

T9

Il meccanismo della rappresentazione L’uomo, 5

E notate che, con queste figure, io non intendo qui riferirmi soltanto alle cose che rappresentano in qualche modo la posizione delle linee e delle superfici degli oggetti, ma anche a tutte quelle che, secondo quanto ho detto sopra, potranno dare all’anima l’occasione di sentire il movimento, la grandezza, la distanza, i colori, i suoni, gli odori, e altre simili qualità: e anche quelle cose che potranno far sentire il solleticamento, il dolore, la fame, la sete, la gioia, la tristezza e altre simili passioni.

Figura 3

L’immagine degli aghi attraverso la tela nel trattato L’uomo. Le particelle aprono i pori dei filamenti che costituiscono i nervi e questi pori rimangono poi dilatati, facilitando i passaggi successivi. Così Cartesio spiega il permanere nella memoria delle idee.

Figura 4

L’azione degli oggetti che colpiscono i sensi e il loro produrre «idee» nella ghiandola pineale (da L’uomo), attraverso un meccanismo che segue le leggi geometriche della rifrazione. I numeri dispari 1, 3, 5 indicano la traccia lasciata sul fondo dell’occhio, i numeri pari 2, 4, 6, che comunicano con ognuno dei precedenti attraverso un tubicino, indicano i punti in cui la traccia si forma sulla parete del cervello, le lettere minuscole a, b, c indicano i pori che si aprono sulla ghiandola.

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna Un sistema di corrispondenze

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La distinzione tra idee e immagini mentali L’uomo, 5

La formazione della memoria

Corrispondenza funzionale tra idea e cosa

Le idee materiali non appartengono alla mente

➥ Sommario, p. 177

Così nella Diottrica Cartesio utilizza l’immagine dei ciechi che tastano col bastone il terreno; la loro percezione può diventare così «perfetta ed esatta da poter dire che vedono con le mani». Quello descritto nel Mondo è dunque un complesso sistema rappresentativo di tracce delle cose corporee, con molteplici e anche multiformi corrispondenze nella vita mentale dell’uomo che stiamo immaginando. Di questo sistema di corrispondenze solo alcune tracce vengono identificate come idee. Fra tutte queste figure, solo quelle che vengono tracciate negli spiriti sulla superficie della ghiandola H [vedi Figura 2], dove è la sede dell’immaginazione e del senso comune, devono essere considerate come idee, cioè come le forme o immagini che l’anima razionale considererà immediatamente quando, essendo unita a questa macchina, essa immaginerà o sentirà qualche oggetto; dovranno invece esserne escluse quelle che si imprimono negli organi dei sensi esterni o sulla superficie interna del cervello. Sulla superficie interna del cervello si conservano, invece, senza la perfezione che possiedono nella ghiandola, figure che si riferiscono a quelle degli oggetti per il fatto che si mantengono aperti o tendono a riaprirsi più facilmente certi percorsi: si costituisce così la memoria (vedi Figura 3), che non è formata da rappresentazioni attuali, ma dalla possibilità di riattivarsi di tracce grazie alla via privilegiata, già aperta, che possono trovare le particelle. Soltanto il prodotto finale di un sistema di tracce con corrispondenze strutturali a catena costituisce l’idea (materiale) in senso proprio. L’idea è dunque un’immagine della cosa non perché vi somigli, ma in forza di quella che oggi chiameremmo una corrispondenza funzionale, ossia un insieme di relazioni, governate da una regola, tra due sistemi. A questa macchina fittizia – di cui si dirà, però, che non si è supposto alcun organo «di cui non ci si possa facilmente persuadere che ve ne siano di assolutamente simili in noi» – va poi aggiunta secondo Cartesio un’anima razionale, di cui si sarebbe data la descrizione. Per questo motivo si dice che le figure all’interno della ghiandola pineale saranno quelle che l’anima razionale «considererà immediatamente». Le idee in quanto tracce nel cervello (sulla ghiandola pineale) non appartengono in senso proprio alla mente – e non possono appartenervi, in effetti, stando alle premesse teoriche di Cartesio, in quanto come entità corporee hanno un’estensione, che non può essere propria invece della mente in quanto res cogitans. Come precisa Cartesio in una lettera: «Le formae sive species corporee che devono esistere nel cervello affinché noi ci immaginiamo qualcosa, non sono pensieri; un pensiero è piuttosto una attività della mente che si immagina qualcosa, cioè che si rivolge a queste species». La mente come res cogitans non è estesa, ma può rivolgersi a ciò che è esteso, e lo fa nella ghiandola pineale ‘osservando’ le tracce materiali. Come questo possa avvenire resta un problema di fondo del sistema cartesiano.

Le idee ‘materiali’ Res extensa: corpo

Uomo-macchina

Cervello e microsistema meccanico-idraulico

Idee ‘materiali’ come tracce nel cervello (nella ghiandola pineale)

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La distanza tra la conoscenza e la cosa

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Certezza e verità assoluta Risposte alle seconde obiezioni, in Meditazioni metafisiche

Il sapere fondato sulla certezza e la ricerca di un nuovo metodo

Ritrovare il fondamento Le tracce contemplate dalla coscienza per dar luogo a idee immateriali sono un sistema di corrispondenze funzionali che soltanto rappresentano il mondo, non ne esprimono la natura ultima. Anche nelle Regole per la guida dell’intelligenza Cartesio parla del rapporto tra idee preparate nei sensi corporei e loro conoscenza intellettuale e sostiene che «si dovranno presentare ai sensi non le cose stesse, ma piuttosto delle loro figure ridotte»: il mondo riportato a estensione e conosciuto attraverso una rete di relazioni fisico-matematiche sta per il mondo reale. La rappresentazione non è la cosa. Da questa distanza tra rappresentazione e cosa, che la teoria scolastica in linea di principio non contemplava, si può prescindere solo se ad essa fa da contrappeso la certezza del conoscere, la sua saldezza e la sua efficacia. Cartesio esprime bene questa situazione in un passo delle Risposte alle obiezioni di Mersenne: Non appena noi pensiamo di concepire chiaramente qualche verità, siamo naturalmente portati a crederla. E se questa credenza è così forte che non possiamo mai avere alcuna ragione per dubitare di quello in cui crediamo in tal modo, non vi è nulla da ricercare di più: noi abbiamo, riguardo a ciò, tutta la certezza che si può ragionevolmente desiderare. Che c’importa se qualcuno immagina che ciò stesso, della cui verità siamo fortemente persuasi, sembra falso agli occhi di Dio e degli angeli, e che, pertanto, assolutamente parlando, è falso? Perché dobbiamo angustiarci per questa falsità assoluta, poiché noi non vi crediamo e non ne abbiamo neppure il minimo sospetto? Il progetto cartesiano di rifondare il sapere sulla certezza deriva dalla generale instabilità e apparente inaffidabilità del sapere del tempo, ma anche dalla natura della nuova forma di conoscenza che Cartesio stesso cerca di promuovere, e dalla nuova ontologia che ne scaturisce. Cartesio mantiene una ontologia di essenze eterne, ma limitandola alle due uniche sostanze, pensiero ed estensione. Tra le ‘cose’ del mondo non vi sono invece sostanze, e neppure loro essenze assolute: per esempio non esiste la sostanza ‘cavallo’, né un’essenza come la ‘cavallinità’. Su questo sfondo va letta la ricerca di un nuovo metodo, esposta nel Discorso sul metodo, e la sua fondazione metafisica, approfondita soprattutto nelle Meditazioni metafisiche.

L’ontologia cartesiana

Due essenze eterne

Res extensa, sostanza estesa

Essenza o attributo essenziale: estensione

Modi della sostanza estesa: corpi

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Separazione ontologica tra sostanze

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Res cogitans, sostanza pensante

Essenza o attributo essenziale: pensiero

Modi della sostanza pensante: menti

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

Il Discorso sul metodo L’esposizione di alcuni aspetti del metodo

La struttura del Discorso

Narrazione autobiografica dell’insoddisfazione verso il sapere dell’epoca

Non una teoria, ma il risultato della propria esperienza

Il primo titolo che Cartesio sceglie per quello che diventerà il Discorso suonava, in modo più ambizioso ed enfatico: Il progetto di una Scienza universale, che possa innalzare la natura al suo più alto grado di perfezione. In più, la Diottrica, le Meteore e la Geometria, in cui le materie più curiose che l’autore ha potuto scegliere, per dar prova della Scienza Universale che propone, sono spiegate in modo tale, che anche quelli che non hanno studiato le possono intendere. Nel corso della realizzazione dell’opera il titolo cambia, e Cartesio spiega tale scelta sostenendo di non volere esporre in essa tutto il metodo che egli ha in mente, ma soltanto «dirne qualcosa», aggiungendo anche di aver rinunciato a titoli come Trattato del metodo «per mostrare che non mi propongo di insegnarlo, ma solo di parlarne». Le strategie retoriche di Cartesio sono sempre condizionate da cautele e da tecniche di persuasione particolari, ma in questo caso sono ben motivate poiché in definitiva il Discorso è tutto tranne che un trattato. Scritto in francese, con una scelta molto significativa per l’epoca, come i saggi ricordati che lo accompagnano, è diviso in sei parti. La prima è una sorta di breve storia di sé e del maturare delle proprie convinzioni; la seconda continua la storia, iniziando anche a esporre il nuovo metodo e le sue ragioni; la terza presenta quella che Cartesio definisce «morale provvisoria», da adottare, e da lui adottata, prima di trovare fondamenta solide, e descrive poi l’ulteriore percorso di ricerca della certezza; la quarta narra delle «prime meditazioni» su temi metafisici e illustra il principio «io penso dunque sono» e la dimostrazione dell’esistenza di Dio; la quinta espone gli elementi principali del Trattato sul mondo; la sesta infine narra dei motivi che lo hanno indotto a non pubblicare quel trattato, e di quelli che lo hanno spinto a scrivere i saggi scientifici e il Discorso stesso. Cartesio disegna un veloce quadro dei motivi di insoddisfazione trovati durante il suo studio nei riguardi di quasi tutte le discipline, fino ad affermare di essersi trovato tra tanti dubbi ed errori da avere nel suo cammino scoperto sempre di più la propria ignoranza. Le stesse scienze matematiche, privilegiate per «la certezza e l’evidenza» delle loro ragioni, gli risultano di uso incerto, non in grado di fare da fondamento a qualcosa «di più elevato». In generale, il suo percorso è quello di liberazione da ogni sapere tramandato, in favore di ciò che «poteva trovarsi in me stesso o nel gran libro del mondo»: la base di ogni sapere valido viene ricondotta al «lume naturale», o «buon senso», la facoltà di distinguere il vero dal falso presente in ogni uomo. Viene descritto un processo complesso, dove all’insoddisfazione verso le diverse forme di sapere si unisce la constatazione – attraverso l’esperienza dei viaggi – della variabilità dei costumi e delle opinioni nel tempo e nei diversi popoli, e il peso dell’abitudine e dell’esempio; ma l’esperienza del dubbio e dello spaesamento non diventa subito progetto di riforma, anzi: nella situazione dell’«uomo che cammina da solo e nelle tenebre» è necessario procedere lentamente e con circospezione. Cartesio non si presenta come riformatore (e anzi ha parole di riprovazione verso quelli che non fanno altro che progettare riforme), senz’altro per motivi di fondatissima prudenza: ma anche perché preferisce proporre un’esperienza piuttosto o prima che una teoria. 157

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La morale provvisoria e i principi del metodo Un progetto di conoscenza

Un codice di comportamento durante la ricerca: la morale provvisoria

Le regole

Morale provvisoria e autonomia della ragione

I quattro principi del metodo

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L’esperienza è quella di un uso autonomo della ragione, che, però, non si libera di tutto ciò che costituisce ostacolo ad esso senza prima avere delineato un nuovo progetto di conoscenza: «non volli neppure iniziare rifiutando radicalmente tutte le opinioni che tempo addietro si erano potute introdurre nel mio animo senza l’esame della ragione prima di aver meditato a lungo il progetto che mi accingevo a compiere». La ragione naturale ha dunque bisogno di un metodo per non procedere secondo una «curiosità cieca»; senza di esso (come diceva già la quarta delle Regole per la guida dell’intelligenza) il rischio è che «con studi disordinati e meditazioni oscure il lume naturale sia confuso e l’intelligenza accecata». Così all’esperienza del dubbio si unisce per molti anni – racconta Cartesio – una condotta che consente di cercare senza aver ancora trovato: «quasi nove anni trascorsero senza che io avessi preso posizione intorno alle difficoltà che maggiormente vengono discusse tra i dotti e senza che avessi incominciato a ricercare i fondamenti di una filosofia più certa di quella tradizionale». La morale provvisoria che Cartesio descrive è di nuovo il racconto di un’esperienza e di un metodo per poter ricercare nuove certezze senza muoversi nel vuoto: prima di cominciare a ricostruire la casa in cui si abita, bisogna sì abbatterla, ma averne intanto «un’altra dove poter soggiornare comodamente per tutto il tempo che durano i lavori». La morale provvisoria consiste di poche massime: 1) ubbidire alle leggi e ai costumi del proprio Paese, conservando la religione in cui si è stati educati – seguendo per il resto le opinioni più moderate generalmente accolte da coloro con cui si vive; 2) esser fermo e risoluto nelle proprie azioni, seguendo le opinioni che si è deciso di accogliere, senza oscillare e cambiare direzione; 3) cercare di vincere se stessi piuttosto che la fortuna e cambiare i desideri, anziché l’ordine del mondo. Non bisogna dimenticare che queste massime esprimono più una storia che una teoria, e che adottandole Cartesio mantiene al contempo il principio della libertà da vincoli che impediscano di perfezionare i giudizi, dunque la libertà di abbandonare qualunque opinione. La convinzione della presenza e prevalenza del «lume naturale» lo induceva infatti a non doversi «contentare, neppure per un istante delle opinioni altrui». Anzi, trattandosi di una razionalità intuitiva e condivisa, esso gli garantisce un fondamento abbastanza sicuro per le sue scelte e la possibilità di far appello a un identico «buon senso» degli altri. La morale provvisoria dunque non contrasta con la «libertà di giudicare da sé tutti gli altri». E le stesse regole della morale provvisoria sono rivedibili: si tratta «di non perdere alcuna occasione per trovarne delle migliori, nel caso che ve ne fossero». La morale provvisoria non sospende l’autonomia della ragione, la guida del lume naturale, ma ne è una provvisoria espressione. La ragione che cerca certezza sa muoversi in gradi diversi e provvisori di saldezza delle opinioni, riconoscendoli come tali. I principi del metodo che Cartesio espone nel Discorso, e che precedono il racconto della morale provvisoria in quanto sono principi euristici, di ricerca, non certezze acquisite (come sono quelle esposte nella quarta parte), vengono presentati come qualcosa che possiede i vantaggi di logica, geometria e algebra senza condividerne i difetti. Sono quattro: 1) non accogliere nulla che non sia conosciuto con evidenza, ossia con tale chiarezza e distinzione da non aver motivo di metterlo in dubbio;

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

2) suddividere ciascuna difficoltà in tutte le parti in cui è possibile e necessario dividerla; 3) condurre con ordine i pensieri muovendo dagli elementi semplici per salire progressivamente ai complessi; 4) fare enumerazioni complete e rassegne generali in modo da esser certi di non aver tralasciato nulla. Evidenza come Il primo principio contiene nozioni centrali del pensiero cartesiano: l’evidenza, chiarezza e distinzione intesa non come qualcosa di sensibile, ma come il presentarsi alla mente «pura e attenta» di qualcosa che non può esser messo in dubbio; e l’idea di chiarezza e distinzione, che con l’evidenza è strettamente interconnessa, in quanto ciò che si presenta con chiarezza e distinzione è appunto evidente. Nei Principi della filosofia Cartesio così definisce queste due qualità delle idee, che poi avranno una lunga storia nella filosofia del Seicento e del Settecento:

T12

La chiarezza e la distinzione

I principi della filosofia, parte prima, par. 45

Analisi e sintesi

La matrice matematica del metodo

L’uso limitato del sillogismo

Il metodo cartesiano

Chiamo chiara quella percezione che è presente e manifesta alla mente che vi presta attenzione: come noi diciamo di vedere chiaramente le cose che, per la loro presenza all’occhio che intuisce, lo muovono abbastanza fortemente e apertamente. E distinta, quella che, essendo chiara, è da tutte le altre così disgiunta e precisa, da non comprendere in sé se non ciò che è chiaro. Essendo chiaro e distinto solo ciò che si presenta a un unico atto della mente, la conoscenza deve individuare (analisi) le parti semplici che possono essere colte in tal modo. Con queste si deve operare una sintesi, seguendo un ordine che parta da quelle più fondamentali (che non ne presuppongono altre) per poi risalire a quelle che presuppongono solo le precedenti e così via. L’analisi e la sintesi possono svolgersi in modo corretto solo se gli elementi sono stati identificati esattamente e in modo completo. Questo controllo è richiesto dalla quarta regola. Ne scaturisce un’idea di conoscenza come risoluzione in elementi semplici, di cui si ha conoscenza certa, e ricomposizione sulla loro base del più complesso, fino a esaurire le condizioni di ciò che va conosciuto. La matrice matematica di questo metodo è palese e sottolineata da Cartesio stesso. Sono le «catene di ragionamenti, lunghe, eppure semplici e facili, di cui i geometri si servono per pervenire alle loro più difficili dimostrazioni», il modello per giungere a qualunque verità in ogni campo del sapere. Tuttavia non si tratta delle catene di deduzioni dei sillogismi, dove dal generale si deduce il particolare. Esteso oltre i confini delle discipline matematiche in senso stretto questo metodo diventa una più generale procedura euristica – ossia per trovare nuove verità – e di controllo. Invece, le tradizionali forme del sillogismo non possono per Cartesio servire a trovare verità di cui non si disponga già, e dunque, scrive nelle Regole, «la dialettica consueta è del tutto inutile a coloro che desiderano cercare la verità delle cose, e […] può invece giovare soltanto, talora, a esporre agli altri più facilmente delle ragioni già note, e […] pertanto deve essere trasferita dalla filosofia alla retorica». Accogliere solo ciò che è conosciuto con evidenza Metodo cartesiano: quattro principi euristici, di ricerca

Scomposizione in elementi semplici (analisi) Passare ordinatamente dal semplice al complesso (sintesi) Enumerazioni complete e rassegne generali (regola di controllo)

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il dubbio e il cogito La nuova fisica richiede un nuovo fondamento metafisico, e la nuova teoria della conoscenza, che con essa si sviluppa, richiede di ristabilire un rapporto solido con la realtà ‘rappresentata’. Nella Parte quarta del Discorso Cartesio fa vedere come il metodo di ricerca della verità venga applicato per rifondare, stavolta senza cautele, l’intero edificio della conoscenza. Tuttavia il percorso qui riassunto è svolto poi con maggiore ampiezza e soprattutto con notevole approfondimento nell’opera – questa volta scritta in latino – che Cartesio intitola Medita➥ Laboratorio di lettura, tiones de prima philosophia, oggi note come Meditazioni metafisiche, pubblicata p. 180 nel 1641. La radicalità Cartesio ha, però, fatto circolare il testo prima della stampa presso studiosi del delle Meditazioni suo tempo, per riceverne osservazioni, che pubblica e a cui risponde in appendice allo stesso volume, con il titolo Obiezioni e risposte. Nel Discorso Cartesio dice che le sue meditazioni «sono talmente metafisiche e così inconsuete che forse non a tutti saranno gradite». In realtà teme – rivolgendosi a un pubblico più vasto e scrivendo in francese – che l’influsso della parte distruttiva risulti troppo forte. Nelle Meditazioni latine procede invece in modo radicale. Il progetto di rifondazione della conoscenza

T13

È da tempo che mi sono reso conto di quanto di falso avevo preso per vero fin dall’infanzia e di come sia dubbio tutto quel che in seguito vi ho costruito sopra; ed è da allora che ho capito che, se aspiravo a stabilire nelle scienze qualcosa di solido, destinato a durare, avrei quindi avuto da buttare all’aria tutto quanto, per una volta nella vita, e ricominciare dalle fondamenta.

La distruzione generale

«Buttare all’aria tutto quanto, per una volta nella vita»: anche questo compito, se deve aver uno scopo, va svolto in modo metodico. Cartesio procede a una «distruzione generale» delle sue opinioni scegliendo non tanto di dimostrare che siano false (compito che può essere altrettanto difficile di una dimostrazione della verità) ma che vi sia almeno una ragione per mettere in dubbio ognuna di esse, o meglio le fondamenta generali di ogni opinione. In dubbio vengono poste in primo luogo le verità basate sui sensi. Alla tradizionale osservazione sul fatto che i sensi possono ingannare, si aggiunge la considerazione – che pone in dubbio anche sensazioni come quella dell’esistenza delle proprie mani, del proprio corpo – che tutto, ogni cosa che ci circonda, potrebbe essere nient’altro che un sogno. All’ipotesi del sogno sembrano resistere alcune qualità senza le quali non ci può essere neppure immaginazione, e dunque nemmeno sogno: colori, estensione, figura, quantità, luogo, tempo. Sembrano salvarsi allora aritmetica e geometria, le discipline che trattano di ciò che è «semplice e generale» e non si occupano del fatto se esista in natura o no. Qui Cartesio ricorre all’ipotesi che Dio possa ingannarlo, e poi, per consolidare per così dire il dubbio ed evitare problematiche teologiche, all’ipotesi di un «genio malvagio, che sommamente potente e astuto, ce la metta tutta per ingannarmi». A questo dubbio non resiste infine neanche la certezza matematica. Cartesio raggiunge così il suo scopo preliminare: mettere da parte ciò che può essere sottoposto anche al minimo dubbio. La situazione diventa come quella di chi, gettato «in un gorgo profondo», non riesca né a poggiare il piede sul fondo né a risalire in superficie. È necessario che questo diventi una vera esperienza.

Ricominciare dalle fondamenta

Prima meditazione, in Meditazioni metafisiche

I sensi e il sogno

Il dubbio colpisce le conoscenze matematiche

Un’esperienza spirituale vissuta in prima persona

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

Cartesio costruisce le sue Meditazioni sulla base del modello delle meditazioni religiose, degli esercizi spirituali, proponendo un percorso in prima persona, scandito temporalmente, descritto sempre al presente: narra della propria meditazione, più che proporre una teoria. Cartesio è consapevole del peso dei pregiudizi e della loro capacità di riproporsi laddove non si raggiunga un assenso profondo alle verità trovate. E questo problema è particolarmente grave in metafisica, dove le verità contraddicono i pregiudizi cui siamo abituati. La consapevolezza Cosa può fare l’io che è caduto in quel gorgo, che è riuscito a fare esperienza del di esistere fatto che non c’è niente di certo nel sapere soltanto ricevuto? Qui Cartesio introduce uno degli argomenti più celebri della storia della filosofia. È possibile che mi inganni su tutto, che qualunque contenuto della mia mente sia prodotto da me stesso. È possibile che esista un essere sovrumano (Dio o un genio maligno) che dedichi tutte le sue energie per ingannarmi sempre. Ma ora sorge una domanda che può capovolgere il dubbio: come posso io non essere nulla, se lui mi inganna? Quindi io sono qualcosa, io esisto.

T14

Dal dubbio alla certezza di esistere

Seconda meditazione, in Meditazioni metafisiche

Ma, allora, non sarò qualcosa almeno io? È a questo punto che rimango incerto, perché è vero che ho supposto di non avere affatto sensi né corpo, e tuttavia mi chiedo: sono forse io così legato al corpo e ai sensi da non poter esistere senza di essi? Mi sono bensì persuaso che non esiste proprio nulla al mondo, né cielo né terra né menti né corpi; ma per ciò anche che non esisto neppure io? No di certo! Esistevo di certo, se mi sono persuaso di qualcosa! Ma se ci fosse un non so qual ingannatore, quanto mai potente ed astuto, che si dia da fare, ad ingannarmi sempre? Ebbene, nel caso che lui mi inganni, allora non c’è dubbio che esisto anch’io; e, mi inganni pure quanto ne è capace, non potrà però mai far sì che io non sia niente, fintantoché penserò di essere qualcosa. Così, una volta ben bene ponderato tutto quanto, alla fine si ha da stabilire che l’asserto io esisto è impossibile che non sia vero ogni qual volta io lo pronunci o concepisca mentalmente.

In queste pagine Cartesio non pronuncia il celebre cogito ergo sum («penso dunque sono»), che si trova invece nei Principi della filosofia e, in francese, nel Discorso. Ma ricava dal persuadersi, e dall’ingannarsi – che sono modi del cogitare – la certezza dell’esistenza dell’io che ‘pensa’. Molti interpreti parlano a questo proposito del «principio della filosofia moderna», della istituzione di un nuovo rapporto tra pensiero ed essere. Cartesio non dà una teoria della soggettività, ma pone le basi per una filosofia che svolga questo compito, sia offrendo una teoria nuova del cogitare, ossia delle rappresentazioni mentali, sia assegnando all’io un ruolo centrale in un sistema di fondazione. Il ruolo cruciale Locke, Leibniz, Kant, l’idealismo tedesco (Johann G. Fichte, 1762-1814; Friedell’autoriferimento drich W.J. Schelling, 1775-1854; Georg W.F. Hegel, 1770-1831), la fenomenologia (corrente della filosofia del Novecento fondata da Edmund Husserl (18591938), svilupperanno questo principio, e certamente tutto il pensiero successivo a Cartesio lo rilegge e si confronta con esso, fino alla contemporanea filosofia analitica, che ha riscoperto il ruolo cruciale dell’autoriferimento (del riferimento a sé del soggetto come condizione del riferimento a cose nel mondo). Ed è con la forza apparente o meno di questo principio che devono confrontarsi anche autori che cercano di sostituire un altro paradigma o modello di sapere filosofico a questo, incentrato sul primato della soggettività.

Il principio della filosofia moderna: un nuovo rapporto tra pensiero ed essere

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Natura argomentativa e originalità del cogito

Dalla consapevolezza di esistere alla certezza di essere una «cosa che pensa»

La tesi cartesiana cogito ergo sum è stata da subito oggetto di intensa discussione. Anzitutto si è discusso sulla sua natura argomentativa: se si tratti di una inferenza (ossia di una conclusione logica da premesse, come il ‘dunque’ suggerirebbe), di una intuizione immediata, o di altro (per esempio di un atto ‘performativo’, qualcosa di valido nel momento in cui viene compiuto – «vero ogni qual volta io lo pronunci o concepisca mentalmente», scrive Cartesio). Si è discusso parimenti sulla sua originalità, in quanto un pensiero assai simile è presente in Agostino, come già i contemporanei di Cartesio notano. Ma, come ogni proposizione filosofica, anche questa acquista il suo senso dalla sua funzione nel pensiero in cui si inserisce. Vediamo come Cartesio la utilizza. Se il dubbio portato all’estremo ha prodotto la certezza che «io esisto», si pone subito la questione di «che cosa mai io sia». Qui Cartesio applica di nuovo il principio di ammettere solo ciò che sfugge a ogni dubbio. Sono un uomo? ma non so cosa significhi davvero. Cosa pensavo di essere? qualcuno che aveva un volto, mani, insomma un corpo. Ma tutto questo è messo in dubbio dall’ipotesi del genio malvagio. Cos’è che appartiene inseparabilmente a quell’io che non può non esistere? Non il camminare e il nutrirsi, e nemmeno il sentire, perché queste cose non avvengono senza il corpo. E allora il pensare? «Qui ho trovato», dice Cartesio: il cogitare è l’unico atto che non posso separare dall’io che esiste, e dunque di me posso dire solo questo: sono una «cosa che pensa», una res cogitans.

Il cogito

Certezze eliminate dal dubbio: – verità dei sensi: i sensi possono ingannare – esistenza del mio corpo: potrei sognare – esistenza delle qualità e delle essenze matematiche: potrei essere ingannato

L’io dubita di tutto perché potrebbe esistere un genio maligno che lo inganna sempre

Se lui mi inganna, io sono qualcosa

Io esisto

Cogitare Che cos’è, però, a sua volta il pensiero? Bisogna fare attenzione a non identificare il cogitare con il pensiero inteso in un senso troppo ristretto, vicino al nostro uso consueto. Cartesio dice con molta chiarezza cosa intende: «Ma cos’è una cosa che pensa? Di certo una cosa che dubita, intende intellettualmente, afferma, nega, vuole, non vuole, e anche immagina e sente. Se tutto ciò mi appartiene, in verità non è poco» (Seconda meditazione). Il rapporto tra pensiero Come si vede, il cogitare comprende molte cose che forse non ci si aspetterebbe e autocoscienza pensando al significato comune di «pensare»: comprende per esempio il volere (e anche l’amare e l’odiare), e addirittura l’immaginazione e i sensi. Ma il sentire non era stato escluso perché legato al corpo? Qui Cartesio fa una precisazioll significato di cogitare

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ne importante: il sentire può ingannare, perché adesso credo di vedere, udire, o di avere caldo, e invece per esempio sto soltanto sognando. Ma «di certo mi sembra di vedere, udire, avere caldo; ed è questo che non può essere falso». Ciò che caratterizza propriamente il cogitare è questo «mi sembra di…», dunque una coscienza dei propri atti, una coscienza riflessiva che accompagna qualunque tipo di rappresentazione. È il fenomeno dell’autocoscienza che Cartesio, pur parlando ben poco, esplicitamente, di ‘coscienza’, finisce per mettere in rilievo, assegnandogli anzi un ruolo centrale. Ciò che caratterizza tutti gli atti cogitativi, quelli sopra elencati, è la cogitatio, dice anche Cartesio nelle sue Risposte alle seste obiezioni, ovvero la coscienza, intesa come qualcosa che è naturalmente noto a ogni essere pensante, pur non essendo vera e propria ‘scienza’.

T15

Scienza e conoscenza interiore

Risposte alle seste obiezioni, in Meditazioni metafisiche

La certezza si estende alle idee

È cosa certissima che nessuno può esser certo di pensare e di esistere, se, innanzi tutto, non conosce la natura del pensiero e dell’esistenza. Non che per ciò vi sia bisogno di una scienza riflessa o acquistata per mezzo di una dimostrazione e molto meno della scienza di questa scienza, per la quale si conosce che si sa, e, di nuovo, che si sa di sapere, e così all’infinito, essendo impossibile che si possa mai avere una tale scienza di qualsiasi cosa; ma basta sapere ciò per mezzo di quella specie di conoscenza interiore che precede sempre quella acquisita e che è tanto naturale a tutti gli uomini, per quanto riguarda il pensiero e l’esistenza, che, sebbene, forse, accecati da pregiudizi e più attenti al suono delle parole che al loro significato, noi possiamo fingere di non averla, è nondimeno impossibile che veramente non l’abbiamo. Ciò che appartiene alla res cogitans ha questa comune caratteristica, che la distingue da tutto ciò che appartiene ai corpi, la cui comune caratteristica è data, come si è visto, dall’estensione, e costituiscono dunque la res extensa. La dimensione della res cogitans – è questo il punto che per Cartesio diventa di importanza decisiva – è una dimensione in cui non vi è spazio per l’errore, in quanto costituisce la semplice presentazione – priva per così dire di elementi di disturbo – delle idee alla mente. La mente pura e attenta che contempla le idee dispone dunque dell’evidenza. Nel Discorso Cartesio presenta le cose in modo che sembra quasi aver ricavato il principio metodico e il modello dell’evidenza dall’esperienza del cogito (d’altra parte è, però, questo principio a spingere alla ricerca di una certezza quale quella offerta dal cogito):

T16

[…] avendo notato che nella proposizione io penso dunque sono non c’è assolutamente nulla che me ne assicuri la verità, se non che vedo nel modo più chiaro che per pensare si deve essere, giudicai che potevo assumere come regola generale che sono vere tutte quelle conoscenze che concepiamo in maniera chiarissima e distintissima.

La distinzione delle idee in base alle loro componenti

Dalla dimensione delle idee come ciò che si presenta in modo immediato alla mente può muovere l’ulteriore percorso di rifondazione del sapere. Cartesio organizza l’ambito dei «pensieri», delle cogitationes in questo modo: da un lato vi sono quei pensieri che hanno una natura rappresentativa, che sono in questo senso come immagini delle cose: «come per esempio quando penso un uomo, o una chimera, o un angelo, o Dio». Questi sono propriamente le «idee». Poi vi sono «forme ulteriori», che presuppongono un’idea, una rappresentazione di qualcosa, ma caratterizzano ulteriormente l’atto di pensiero: «per esempio voglio, o te-

Il cogito e l’evidenza

Discorso sul metodo, 4

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

mo, o affermo, oppure nego». Cartesio li chiama «volontà, affetti e giudizi». Il rapporto tra queste componenti può essere espresso in questo modo:

Pensieri

Componente ‘rappresentativa’

Componente ‘rappresentativa’ + altra forma

Idee

Volontà Affetti Giudizi

Ogni pensiero ha comunque una componente rappresentativa e può avere un’altra forma. Questa è la suddivisione e organizzazione che Cartesio dà ai «pensieri», ossia a tutti i contenuti della mente. Le idee, le componenti che rappresentano qualcosa, non possono in quanto tali essere ‘false’: che mi rappresenti una capra o una chimera non fa differenza. Ma il problema è la corrispondenza con qualcosa di esistente. La distinzione delle idee Distrutta la concezione di idea come modello delle cose nella mente di Dio, rein base all’origine sta la questione della conformità delle idee con cose fuori di me. In relazione all’origine del contenuto delle idee Cartesio propone un’altra distinzione: 1) idee innate (date dalla mia stessa natura: il comprendere cosa sia una cosa, il pensiero, la verità); 2) idee avventizie (originate da cose fuori di me: udire un rumore, vedere il sole, avvertire il calore); 3) idee fatte da me (sirene, ippogrifi, esseri fantastici). Questa suddivisione è, però, soltanto nominale, ossia esprime a questo punto dell’argomentazione solo definizioni alle quali non so se corrisponde qualcosa: potrebbe essere che tutte le idee siano solo un prodotto della mia mente, dalla quale non uscirei mai.

L’esistenza di Dio Il cogito ergo sum ha consentito di raggiungere una prima certezza. Non si tratta, però, della prima conoscenza certa: nella discussione sulle premesse di questo ragionamento si sottolineava che devo sapere per esempio che per pensare bisogna essere, devo sapere cosa sia esistenza, pensiero: presupposti che Cartesio ammette nei Principi della filosofia. Pensiero, essere, sono comunque tra le idee innate. Quella che riguarda l’esistenza dell’io è allora piuttosto la prima conoscenza certa di un’esistenza, la prima certezza con valore ontologico. Si tratta ora di trovare altre conoscenze con lo stesso peso, di riguadagnare la certezza dell’esistenza di «cose fuori di me». Questo percorso passa in Cartesio anzitutto dalla dimostrazione dell’esistenza di Dio, per giungere per questo tramite a quella dell’esistenza del mondo. Un’eredità scolastica: A questo punto Cartesio è più vicino al linguaggio e all’ontologia della scolastiidee e «gradi» di realtà ca. Considerate rispetto al loro contenuto, le idee contengono più o meno realitates, «realtà». Questa parola non ha, però, il senso odierno (qualcosa che c’è effettivamente, esistente), ma si riferisce a qualità di una cosa, a determinazioni dell’essere (che possono anche non esistere ma essere solo rappresentate). Le realitates possono anche essere ordinate in «gradi». Una sostanza per esempio ha più «realtà» dei suoi accidenti (o modi), in quanto le sue qualità non richiedono l’esistenza di altre. Esistenza dell’io come prima certezza ontologica

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Esaminando tutte le idee che trovo in me (sostanza pensante) rispetto al loro grado di «realtà», trovo che una non potrebbe derivare da me, in quanto ha per contenuto una realtà ontologicamente superiore a me, e la cui causa, perciò, non può che essere di livello ontologico superiore al mio: quella di Dio come sostanza infinita, indipendente, sommamente intelligente, sommamente potente, creatrice. Prima prova Questa idea, che io concepisco come massimamente chiara e distinta, non può dell’esistenza provenire da me stesso in quanto i suoi contenuti oltrepassano quanto in me può di Dio essere contenuto: come essere finito – il fatto che dubito, desidero ecc. è per Cartesio segno che «mi manca qualcosa» – non potrei avere in me l’idea di una sostanza infinita se questa non provenisse da un ente effettivamente infinito. L’idea di Dio

La prima prova dell’esistenza di Dio

Verità autoevidente: il grado di realtà delle idee equivale al grado di realtà delle loro cause Tra le mie idee c‘è quella di un Ente infinito, indipendente, sommamente potente, sommamente intelligente: Dio Io non posso esserne la causa perché non sono infinito, indipendente, sommamente potente ecc. Quindi deve essere causata da una realtà ontologicamente superiore a me e dotata di un grado di realtà superiore L’Ente infinito, indipendente, sommamente potente ecc. esiste necessariamente: Dio esiste

Seconda prova

La seconda prova dell’esistenza di Dio

A questa prova Cartesio ne aggiunge una seconda, che non procede dalla presenza di una certa idea in me, ma dalla mia stessa esistenza: non dal cogitare, ma dal sum. Da cosa deriva la mia esistenza? Non da me stesso, altrimenti non sarei imperfetto, ma mi sarei dato tutte le perfezioni; non da cause naturali (i miei genitori), perché in una causa ci dev’essere altrettanta realtà che nel suo effetto, e la causa di una «cosa pensante» che ha in sé l’idea di Dio dovrebbe avere anche questa «realtà», cosa che nessun elemento materiale può avere. Come si vede, pur procedendo questa prova dall’esistenza dell’io anche qui la presenza dell’idea di Dio ha un suo ruolo. Inoltre, l’identificazione dell’io con la sostanza pensante libera l’io-anima dal corpo: i miei genitori «si sarebbero limitati a immettere talune disposizioni in quella materia alla quale in passato ritenevo, appunto, di inerire io, e cioè quella mente che sola, invece, ora assumo come tutto me stesso». Resta infine solo Dio come possibile causa della mia esistenza. Io esisto, io sono una sostanza pensante e ho l’idea di Dio Da cosa deriva la mia esistenza? Non da me perché sono imperfetto Inoltre ho in me l’idea di Dio, che non può derivarmi da cause naturali, perché Dio è l’Ente perfetto, onnipotente ecc. Chi può aver dato origine a una sostanza pensante con l’idea di Dio? Verità autoevidente: in una causa ci deve essere almeno altrettanta realtà che nel suo effetto Solo l’Ente infinito, indipendente, sommamente potente ecc. può essere causa dell’esistenza di me come sostanza pensante con l’idea di Dio: Dio esiste necessariamente

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La semplice presenza in noi della idea di Dio si trasforma, attraverso queste prove, anche nella dimostrazione del suo essere un’idea innata: né fittizia, per tutti i motivi detti, e né ricavata dai sensi. Terza prova Una terza prova viene inserita da Cartesio nella Quinta meditazione, quasi incidentalmente durante la trattazione delle verità della matematica pura e delle essenze delle cose fisiche, ossia delle altre idee innate. Quasi incidentalmente, perché in realtà Cartesio tratta lì, come vedremo, del rapporto tra essenze (ciò che determina che cosa è un qualcosa) ed esistenze (il fatto che un qualcosa è), e la dimostrazione in questione, nota come prova ontologica, è un passaggio – l’unico possibile – dall’essenza all’esistenza, una derivazione della necessaria esistenza di Dio dall’idea della sua essenza presente in noi. Se dall’idea di una figura geometrica posso trarne tutte le proprietà, non sarà possibile procedere in modo simile, ma stavolta con un risultato ontologicamente rilevante, nel caso dell’idea di Dio?

T17

La prova ontologica

Quinta meditazione, in Meditazioni metafisiche

La terza prova: la prova ontologica

Orbene, se dal solo fatto che posso trarre dal mio pensiero l’idea di una cosa segue che a questa cosa appartiene veramente tutto ciò che io percepisco chiaramente e distintamente appartenerle, da ciò non si potrà derivare anche un argomento per provare l’esistenza di Dio? È certo, infatti, che l’idea di Dio, ossia di un ente sommamente perfetto, la trovo in me non meno dell’idea di qualsiasi figura o numero; e io non intendo meno chiaramente e distintamente che alla natura di Dio appartiene di esistere in ogni tempo di quanto intendo che alla natura di una figura o di un numero appartiene quel che io dimostri di essi; e pertanto – anche nel caso che non tutto fosse vero, quanto sostenuto nelle Meditazioni precedenti – dovrei esser certo dell’esistenza di Dio almeno altrettanto quanto finora lo sono sempre stato delle verità matematiche. Esistono delle idee, le essenze matematiche, a cui appartengono delle proprietà che io vedo distintamente e chiaramente In me c’è l’idea di un Ente perfetto Alla natura (essenza) dell’Ente perfetto appartiene chiaramente e distintamente la proprietà dell’esistenza necessaria = esistere in ogni tempo Come alle essenze matematiche appartengono necessariamente (sempre) le proprietà di quella figura o di quel numero Così l’esistenza di Dio è implicata dalla sua essenza

La prova ontologica come architrave del razionalismo

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Questo argomento, che ha un precedente soltanto analogo in quello di Anselmo d’Aosta già criticato da Tommaso d’Aquino, assume, con il ponte che crea tra la dimensione delle essenze e quella dell’esistenza, un ruolo cruciale che va ben oltre l’aspetto teologico e che ne farà, con importanti variazioni sul tema, un architrave delle ontologie razionalistiche, da Nicolas Malebranche (1638-1715) a Spinoza e a Leibniz, a Christian Wolff (1679-1754), ad Alexander G. Baumgarten (1714-1762). Non serve in altri termini soltanto alla dimo-

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

strazione dell’esistenza di Dio, ma a garantire una permeabilità tra due sfere – quella di ciò che può essere conosciuto e quella di ciò che esiste – che è alla base della possibilità di una conoscenza ‘trasparente’, senza residui, del mondo. L’argomento di Cartesio sarà oggetto di una critica molto efficace da parte di Kant (vedi Unità 14, p. 682 ss.), che colpirà in questo modo anche l’impianto delle ontologie citate.

L’errore, la veridicità di Dio, le essenze Dio come garante della verità

Origine dell’errore

La volontà e l’intelletto

Il giudizio errato come precipitazione

Il recupero delle certezze perdute: le verità matematiche o geometriche

Le dimostrazioni dell’esistenza di Dio non sono nelle Meditazioni fine a se stesse, ma rappresentano un passo per ritrovare un fondamento certo alla conoscenza del mondo esterno. Se Dio esiste ed è un essere perfetto, non potrà ingannarmi. Ma per arrivare da questa constatazione alla fiducia nella «certezza e verità di ogni scienza» è necessario proseguire il nostro percorso argomentativo. Dio non può ingannarmi. Ma allora da dove viene l’errore? Spiegare questo è necessario per tenere insieme la certezza nelle possibilità delle scienze con la consapevolezza della fallibilità della conoscenza umana. La soluzione di Cartesio è nell’analisi del rapporto tra intelletto e volontà. L’uomo dispone di queste due fondamentali capacità, e pur essendo un ente imperfetto, non è ad esse (e dunque all’aver ricevuto da Dio qualcosa di non adeguato) che va ricondotto l’errore. La volontà, in quanto dotata di libero arbitrio, è in me così grande da non poterne concepire una più grande, ed è soprattutto per il fatto di avere una volontà assolutamente libera che siamo «immagine e somiglianza di Dio». L’intelletto è sì limitato e finito rispetto a quello divino, ma l’ho ricevuto da Dio e dunque «qualunque cosa intenda con l’intelletto, senza dubbio la intendo correttamente né può accadere che in ciò mi inganni». Dunque non da limiti intrinseci, ma da un uso imperfetto di queste facoltà scaturisce l’errore, che risiede nel loro scorretto rapporto. L’idea per Cartesio non è ancora giudizio, e non può esser falsa. Il giudizio dipende secondo il suo modo di vedere dalla volontà, che può affermare o negare, concedere il suo assenso a una rappresentazione, oppure sospendere il giudizio stesso. Se io non trattengo la volontà nei limiti di ciò che intendo, e precisamente in modo che non vada oltre quanto le è mostrato in modo chiaro e distinto dall’intelletto, cado in errore, per «precipitazione» del giudizio. «La percezione dell’intelletto deve precedere sempre la determinazione della volontà»: se seguo questa massima non sbaglierò, perché ogni rappresentazione chiara e distinta è vera. Ma ogni rappresentazione chiara e distinta è vera solo sul presupposto della veridicità di Dio. Sulla veridicità di Dio, conciliata nel modo detto con la fallibilità del giudizio umano, Cartesio costruisce la rifondazione di ogni sapere dopo l’esperienza del dubbio. E lo fa seguendo un ordine inverso rispetto a quello della loro distruzione metodica. In primo luogo si dedica alla rifondazione di quelle verità che rientrano tra le idee innate, definite in una lettera «certe nozioni primitive, che sono come gli originali sul cui modello noi formiamo tutte le altre conoscenze». Esse costituiscono, si dice nella Quinta meditazione, quelle «verità tanto palesi ed in accordo con la mia natura che, quando le scopro per la prima volta, ho l’impressione, più che di imparare qualcosa di nuovo, di ricordarmi di qualcosa che conoscevo già». C’è una chiara allusione qui al Menone platonico e alla sua dottrina della reminiscenza delle idee (la conoscenza è ricordo di idee contemplate dall’anima prima di incarnarsi nel corpo). 167

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Il platonismo delle essenze matematiche

Dalle verità matematiche alle proprietà matematizzabili delle cose

La vera struttura del mondo

Conosciamo veramente le strutture ideali, non i corpi

Veridicità divina come fondamento assoluto del sapere

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E infatti Cartesio ripropone una metafisica platonica di queste verità ideali, che corrispondono alla mathesis generale (vedi sopra, p. 144 s.), a quella che qui viene detta «matematica pura e astratta». Alcune delle idee che possono trovarsi in me non sono un «mero niente» neppure se ad esse non corrispondesse nulla fuori di me, perché esse riguardano comunque qualcosa che non è inventato da me: «una natura, o essenza, o forma, immutabile ed eterna». Le verità ‘matematiche’ – ma non in senso stretto, perché riguardano grandezze, figure, posizioni, movimenti, durate – hanno questo carattere, e di esse posso fidarmi. È da notare che Cartesio nel titolo della Quinta meditazione, quella in cui argomenta l’affidabilità delle verità matematiche, dice che parlerà dell’«essenza delle cose materiali». In realtà sullo sfondo di questa fondazione ontologica delle verità matematiche sta la questione della idealizzazione matematica del mondo fisico, della sua liberazione dalle «forme essenziali» della tradizione scolastica in favore di essenze di tipo nuovo, che corrispondono alle proprietà matematizzabili (estensione e movimento) che devono essere conoscibili con la scienza universale di tipo nuovo, e che fondano la moderna scienza fisico-matematica della natura. Così il filosofo francese sostiene in conclusione della Quinta meditazione che è possibile che mi siano «completamente note e certe un’infinità di cose», «anche di tutta quella natura corporea che fa da oggetto alla matematica pura». Gli oggetti della conoscenza basata sulla matematica pura non sono una mia costruzione e non sono un niente, ma neppure sono qualcosa di esistente: essi, però, possono esistere («l’esistenza possibile è una perfezione dell’idea di triangolo»), e dunque esprimono la struttura del mondo fisico. Le cose materiali sono oggetto della matematica pura soltanto riguardo alla loro possibilità: che esse siano possibili è garantito dal loro essere concepite con chiarezza e distinzione: «non c’è dubbio che Dio è in grado di far essere tutto quel che io sono capace di concepire in modo appunto chiaro e distinto». La discrepanza tra entità ideali ed entità fisiche – il fatto che per esempio non vi siano in natura linee, punti inestesi – non annulla la corrispondenza del conoscere con la sostanza (perché tale è solo la res extensa, mentre le figure geometriche – fatte di linee e punti – non sono considerate esse stesse come sostanze, ma come «i termini, sotto i quali è contenuta la sostanza»). Gli enti oggetto della matematica universale sono ‘essenze’ delle cose materiali, loro strutture ideali, anche se tali essenze non comportano di per sé anche l’esistenza effettiva. La veridicità di Dio non garantisce solo la loro verità quando si manifestano in modo pieno alla mente, ma anche la permanenza della loro acquisizione: la difficoltà ad avere sempre presenti le ragioni delle nostre conoscenze evidenti, le fonti di evidenza, potrebbe far vacillare la convinzione, se non si basasse sul principio che quanto percepito una volta con chiarezza e distinzione non può cessare di essere vero. Noi ci ricordiamo spesso delle conclusioni di certe premesse, non delle premesse stesse che ne costituivano la base evidente: del fatto che un ragionamento ci convinceva, non del perché ci convinceva. La memoria introdurrebbe allora un elemento di incertezza, che Cartesio vuole escludere. L’evidenza, sigillata dalla veridicità di Dio, serve anche a dare alle conoscenze che la possiedono una solidità diversa da tutte le altre: da quelle conoscenze che si reggono su molteplici ragioni, magari tutte plausibili, nessuna, però, fondata in modo assoluto. Quella che Cartesio in questo modo intende ritrovare è non solo una ragionevolezza, ma una stabilità assoluta dell’impianto del sapere.

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

Le cose materiali

Primo argomento: l’immaginazione come tramite tra mente e corpo

Secondo argomento: dai dubbi sulla conoscenza sensibile…

… alla dimostrazione dell’esistenza dei corpi

Ritrovato il fondamento delle verità matematiche, e dunque dell’essenza dei corpi, delle cose materiali, va ancora stabilito il punto più importante per superare il dubbio metodico, e cioè l’esistenza delle cose esterne alla mente. È il tema della Sesta meditazione. Il primo argomento di Cartesio a favore dell’esistenza delle cose esterne passa attraverso il ruolo dell’immaginazione. Questa facoltà «parrebbe non esser altro che un’applicazione della facoltà conoscitiva a un corpo che le sia presente intimamente». Ciò sembra risultare da queste constatazioni: 1) per immaginare sono necessari, rispetto al concepire le cose con l’intelletto, uno sforzo, una tensione particolari; 2) la facoltà di immaginare, pur essendo in me, sembra non essere essenziale alla mia esistenza: se non l’avessi rimarrei quello che sono. La sua funzione sembra allora dipendere dalla necessità da parte dell’anima di rivolgersi al corpo (è l’immaginazione che contempla le immagini corporee, le tracce nella ghiandola pineale). Questo, però, rende solo probabile che un corpo esista, non lo dimostra. Il secondo argomento si svolge in riferimento ai sensi. Cartesio ricapitola i motivi che portano a credere alla testimonianza dei sensi circa l’esistenza del mondo esterno: il fatto che le sensazioni si presentano senza il mio consenso; che sono più vivaci e chiare di quelle della memoria o della riflessione; che le idee intellettuali sembrano venire dopo e derivare dalle sensazioni stesse. Inoltre vi sono buoni motivi per ritenere mio il corpo che chiamo tale: non me ne sono mai separato, avverto in esso appetiti, affetti, stimolazioni dolorose o piacevoli. Tuttavia tutto ciò era stato messo in questione dal dubbio. I sensi esterni sbagliano spesso (per esempio nel valutare le dimensioni delle cose, o la loro forma: una torre che sembra tonda da vicino appare quadrata ecc.), e perfino sul dolore mi posso sbagliare. Cartesio richiama il fenomeno dell’‘arto fantasma’, ossia quello sperimentato da persone che, avendo perso un braccio o una gamba in seguito a un’amputazione, continuano a sentire dolore nella parte del corpo che non hanno più. E poi c’è l’ipotesi del sogno, che tutto sia un sogno, e quella radicale del genio ingannatore (vedi p. 160). Ma ora è possibile superare questi dubbi e ritornare alla verità dei sensi. Il ragionamento non è semplicissimo. Si presuppone che alla mente non appartenga altra natura che quella di essere una cosa che pensa. La possibilità di formare «idee di cose sensibili» non presuppone pensiero nel senso di intellezione, e «tali idee si producono in me senza che io vi collabori, e anzi spesso senza la mia volontà». Non resta che l’ipotesi che provengano da una sostanza diversa da quella pensante. Una tale sostanza o è corpo, o è Dio («o qualche creatura comunque più nobile del corpo», per esempio l’ipotetico genio maligno). Non v’è, però, alcun indizio che mi faccia propendere verso l’ipotesi che sia Dio direttamente a far sì che io abbia tali idee, e anzi vi sono indizi (quelli sopra ricordati) che mi spingono a credere che esse provengano dai corpi. Quindi, conclude Cartesio, se Dio non è ingannatore, allora, le cose corporee esistono veramente. 169

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Il percorso delle Meditazioni

Dubbio

Cogito = certezza di esistere

Io che esisto sono una cosa che pensa

Io in quanto cosa che pensa ho le idee

Tra le idee c’è quella di Dio: prime due prove dell’esistenza di Dio

Spiegazione dell’errore: dipende dalla mia volontà

Veridicità divina che garantisce la conoscenza certa (evidenza)

Essenze matematiche e terza prova

Conoscenza della struttura matematica del mondo

Esistenza delle cose esterne e unione mente-corpo

La mente, il corpo e le passioni Il problema del rapporto mente-corpo

➥ Percorso tematico, p. 187

T18

Io e il mio corpo

Sesta meditazione, in Meditazioni metafisiche

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Mente, o anima, e corpo, res cogitans e res extensa, sono ora entrambi, tramite la mediazione di Dio, assicurati nella loro indubitabile esistenza. Cartesio si trova, però, di fronte il problema di congiungere queste dimensioni, ossia di spiegare, una volta che abbia affermato che il mio corpo è «congiunto a me molto strettamente», in che modo questo avvenga, come questa unione sia possibile e pensabile. Il Mondo, abbiamo visto, si interrompe proprio a questo punto. Nella Sesta meditazione Cartesio cerca di dire qualcosa a questo proposito, e poi il tema tornerà centrale nel suo ultimo scritto, Le passioni dell’anima. Raggiunta per così dire l’affidabilità delle cose corporee e di ciò che esse testimoniano, è dall’esperienza di me e del mondo che si può partire per cercare di chiarire l’unione di mente e corpo. Non c’è dubbio che tutto ciò che mi è insegnato dalla natura abbia una qualche verità; ché per natura, in generale, ora non intendo che Dio stesso, ovvero l’ordine delle cose create stabilito da Dio, e per natura mia in particolare, l’insieme di tutto ciò che a me è stato dato da Dio. Ora, la natura, così intesa, nient’altro mi insegna tanto chiaramente quanto che ho un corpo che sta male quando io sento dolore, ha bisogno di cibo o bevande quando io soffro la fame o la sete; e così via; non devo quindi dubitare che in ciò ci sia qualcosa di vero. Poi, attra-

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verso queste stesse sensazioni di dolore, fame, sete, ecc., la natura mi insegna pure che io non sono meramente presente al mio corpo come un nocchiero lo è al suo vascello, bensì gli sono congiunto quanto mai strettamente e (per così dire) mescolato, in modo da comporre un’unità con esso. Altrimenti, infatti, quando il mio corpo è ferito non ne risentirei dolore, io che non sono che una cosa che pensa, ma percepirei tale ferita col puro intelletto, così come un nocchiero percepisce con la vista se qualcosa si rompa nel suo vascello; e, quando il corpo ha bisogno di cibo o bevande, ciò io lo intenderei intellettualmente in modo chiaro, senza avere sensazioni confuse di fame e sete, ché di sicuro queste sensazioni di sete, fame, dolore, ecc. non sono che modi confusi di pensare, derivanti dall’unione e (per così dire) commistione della mente col corpo. È come io vivo il mio corpo a testimoniarmi allora che il corpo è mio, ossia essenzialmente proprio di quell’anima, ad essa congiunto in modo non estrinseco. Allora la ‘natura’ qui da approfondire, precisa Cartesio, va intesa in un senso più stretto, è quella che mi è stata data da Dio «in quanto io sono composto di mente e corpo», non solo ‘pensiero’, e non solo leggi fisiche dei corpi, ma il rapporto tra il pensiero e i corpi: in questo senso la natura mi insegna che devo ricercare alcuni corpi e fuggirne altri; avrò percezioni gradite e sgradite, e allora posso capire che «il mio corpo, o meglio io tutt’intero» posso ricevere sia danni che vantaggi dall’incontro con gli altri corpi intorno a me. Comprendere l’unione Il trattato Le passioni dell’anima, che Cartesio scrive su sollecitazione della prinattraverso l’analisi cipessa Elisabetta di Boemia, con la quale aveva intrattenuto una intensa e intedelle passioni ressante corrispondenza su temi filosofici, ha al suo centro l’unione mente-corpo, che Cartesio intende affrontare in relazione al tema delle passioni. Passioni dell’anima, precisa Cartesio, che muove dal netto dualismo tra anima e corpo, e sottolinea che per conoscere le passioni dell’anima è necessario anzitutto distinguere le sue funzioni da quelle del corpo.

L’evidenza dell’unione tra mente e corpo

T19

L’azione del corpo sull’anima

Le passioni dell’anima, art. 2

Io considero anche che non v’è oggetto alcuno, a nostra conoscenza, che agisca più immediatamente sull’anima nostra del corpo a cui essa è unita; per cui noi dobbiamo pensare che quello che è in essa passione, è in genere azione nel corpo. Perciò non v’è strada migliore per giungere alla conoscenza delle nostre passioni di un esame della differenza fra l’anima e il corpo, per sapere a quale dei due sia da attribuirsi ognuna delle funzioni esistenti in noi.

L’azione e la passione sono, premetteva Cartesio, una medesima cosa con due nomi, a seconda che la si consideri in una prospettiva o in un’altra. E, abbiamo letto, c’è passione dell’anima quando c’è azione del corpo: per cui è facile vedere come le passioni dell’anima siano un fenomeno decisivo per la questione dell’unione tra mente e corpo. Unione che, come Cartesio scrive proprio in una lettera a Elisabetta, è una tra le idee innate, l’unica che riguardi l’anima e il corpo presi insieme, e «da cui dipende quella della forza con cui l’anima muove il corpo e il corpo agisce sull’anima causando i suoi sentimenti e le sue passioni». L’anima non è Cartesio sottrae all’anima la funzione di principio vivificante del corpo, di ciò che il principio vivificante vi infonde movimento, sostenuta dall’aristotelismo: per questo aspetto il corpo è del corpo una macchina del tutto autonoma, ed è il suo mancato funzionamento che costituisce la morte, a cui consegue l’abbandono dell’anima. Tutti i movimenti che facciamo senza la nostra volontà sono allora interamente da attribuire al movimento deL’unione come idea innata

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

I pensieri dell’anima

L’anima e la volontà

Delimitazione dell’analisi delle passioni

Definizione delle passioni in senso stretto (emozioni)

L’unione reale di anima e corpo come fondamento delle emozioni

T20

Non esiste un luogo dell’anima

Le passioni dell’anima, art. 30

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gli «spiriti», di cui abbiamo parlato (vedi p. 152), esattamente come il movimento di un orologio è prodotto dalla forza della sua carica e dal movimento degli ingranaggi. Il corpo nella misura in cui è corpo animale non è altro che una macchina. All’anima non può esser attribuito nient’altro che i pensieri (da ricordarsi che come abbiamo visto, Cartesio si riferisce alle cogitationes, ai contenuti della mente, non ai pensieri in senso stretto), che qui Cartesio suddivide in: 1) azioni, ossia gli atti volontari di cui sperimentiamo che vengono dall’anima direttamente e che solo da essa dipendono; 2) passioni, le percezioni di ogni genere che si trovano in noi che non è l’anima a rendere quali sono, ma che essa riceve dalla cose. Gli atti della volontà hanno termine o nell’anima stessa (quando sono rivolti a oggetti non materiali: amare Dio, per esempio), o nel corpo (la volontà di camminare, per esempio). Bisogna fare attenzione al fatto che Cartesio non sta parlando della volontà in senso stretto come facoltà, ma degli atti volontari, e dunque di ogni operazione mentale che la mente stessa controlla (è da ricordarsi che il giudizio per Cartesio, come abbiamo visto, dipende dalla volontà, e dunque ne dipende ogni atto conoscitivo, vedi p. 167). Tuttavia questa suddivisione viene superata poi in Cartesio da una più precisa, in quanto alcuni dei ‘pensieri’ che pur non dipendono dal controllo della volontà vengono esclusi dalle passioni intese in senso più ristretto, le passioni dell’anima: queste ultime vengono fatte coincidere con quelle che oggi noi chiamiamo emozioni, e che anche Cartesio decide di chiamare in questo modo. Prendendo in esame le «percezioni» involontarie, Cartesio esclude dalle passioni che intende studiare anzitutto gli atti involontari di immaginazione (il sogno, le fantasticherie a occhi aperti), che sono sì, secondo lui, dovuti al movimento degli spiriti nel cervello, ma non hanno una causa tanto determinata quanto le percezioni delle cose esterne, ricevute attraverso i nervi, di cui sono solo come «un’ombra e una copia». Esclude poi le percezioni riferite agli oggetti fuori di noi, e quelle riferite al nostro corpo (fame, sete, dolore, caldo), e identifica infine le passioni in senso stretto, o sentimenti o emozioni, con quelle «che riferiamo alla nostra anima», «i cui effetti si sentono come se fossero nell’anima stessa», e che hanno il carattere particolare che l’anima «non può sentirle senza che siano proprio come le avverte»: in questo caso, per le emozioni, non vale neppure la limitazione precedentemente detta che escludeva sogni e immaginazioni involontarie (fantasticherie), perché l’emozione sognata è un’emozione veramente provata. Le emozioni vengono così ‘filtrate’ accuratamente da tutto ciò che si può trovare nell’anima, e sembrano allora da identificare come ciò che di corporeo è più ‘vicino’ all’anima, come ciò che, tra tutte le cose che l’anima non deve a se stessa, più direttamente la investe in quanto tale. L’emozione è qualcosa di cui l’io non dispone e che tuttavia è in un senso molto forte «mia». Si vede allora come essa sia la dimensione decisiva per potere almeno avvicinarsi alla congiunzione di anima e corpo. Per intendere più compiutamente tutte queste cose, bisogna tuttavia sapere che l’anima è veramente congiunta a tutto il corpo, e che non si può dire in senso proprio che essa sia in qualcuna delle sue parti piuttosto che in altre, perché il corpo è uno e, in qualche modo, indivisibile, per via della disposizione dei suoi organi, talmente collegati gli uni agli altri che la perdita di uno di essi rende difettoso tutto il corpo; e perché l’anima è di tal natura che non ha rapporto né con

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

l’estensione, né con le dimensioni, né con le altre proprietà della materia di cui il corpo si compone, ma solamente con tutto l’insieme dei suoi organi, come si vede dalla possibilità di concepire la metà o il terzo dell’anima […]. Il meccanismo che unisce mente e corpo

Pur non avendo propriamente un luogo, perché inestesa, l’anima ha una «sede», ossia un rapporto privilegiato, come si è visto, con la ghiandola pineale. Attraverso di essa l’anima controlla il corpo. La ghiandola pineale (vedi p. 152 s.) veniva concepita infatti come un organo mobile, che assumeva diverse inclinazioni, tanto venendo influenzata dal movimento delle particelle (vedi Figura 5), quanto influenzandolo. La volontà è in grado infatti di agire direttamente sul movimento della ghiandola, controllando così il corpo.

Figura 5

La mobilità della ghiandola pineale è influenzata dal calore proveniente dal cuore attraverso le arterie che la sorreggono (vedi nell’immagine i filamenti posti sotto). Basta una minima percezione per farla oscillare. Nell’immagine la vediamo piegarsi verso destra e indirizzare su quel lato il flusso di spiriti, favorendo l’apertura dei pori a, b, c e il passaggio degli spiriti verso i punti 2, 4, 6. In questo modo dalla ghiandola parte l’impulso a muovere le parti del corpo collegate con i punti elencati sopra (da L’uomo).

Il movimento della ghiandola trasmette un movimento agli spiriti che lo trasmettono ai nervi e da questi ai muscoli. Da una unica rappresentazione contenuta nella ghiandola possono scaturire movimenti di più organi verso un oggetto (vedi Figura 6). Figura 6

Il coordinamento tra la percezione degli oggetti e il movimento delle membra (da L’uomo). Nell’immagine, oltre al meccanismo della visione che abbiamo già visto nella Figura 4 a p. 154, si distinguono i tubicini del sistema idraulico del corpo immaginato da Cartesio, che partono dal cervello e raggiungono i muscoli del braccio, facendolo muovere.

Il problema del potere dell’anima sulle passioni

Ma il problema centrale delle Passioni dell’anima non è solo di spiegare l’azione dell’anima sul corpo, dunque i suoi atti volontari, ma anche quello – importante per la vita morale dell’uomo – di quale potere abbia l’anima nei confronti delle passioni, visto che esse per definizione sono ciò che sfugge alla sua libertà. Le passioni hanno una particolare persistenza: non sono solo causate, come per esempio una sensazione, ma mantenute e rafforzate da un determinato movimento degli spiriti. 173

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Azione indiretta dell’anima sulle passioni attraverso l’abitudine

Analisi delle passioni e passioni «primitive»

Il primo esempio di indagine fisiologica dei processi mentali

Una morale dell’equilibrio tra passioni

T21

Il controllo delle passioni

Le passioni dell’anima, art. 212

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La soluzione che Cartesio intravede è quella di un controllo indiretto: non possiamo evocare o sopprimere volontariamente delle passioni, ma possiamo controllarle indirettamente, associandole a rappresentazioni. Il coraggio non ce lo si può dare, almeno d’un colpo: ma è possibile considerare le ragioni che persuadono che il pericolo non è grande, oppure che il rischio è maggiore a fuggire che a difendersi, che dalla lotta si avrà soddisfazione ecc. Le passioni possono interagire con le rappresentazioni razionali, e si svolgerà così una lotta per il movimento della ghiandola pineale, che, servendosi l’anima di un «artifizio» indiretto, potrà avere alterne vicende. Ma fondamentalmente per Cartesio ognuno può acquistare dominio sulle passioni, anche attraverso l’esercizio e l’istituzione di un’abitudine che associno diversamente rappresentazioni delle cose e movimenti ad esse congiunti che eccitano passioni, o separando le associazioni già esistenti. Cartesio approfondisce nel dettaglio la sua analisi delle passioni, che non possiamo qui ripercorrere. Segue anche qui, però, le regole del suo metodo scompositivo e compositivo (vedi p. 158 s.), individuando sei passioni «primitive», dalle quali tutte le altre risultano composte o di cui costituiscono sottospecie: ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza. Per esempio, dal desiderio può scaturire la speranza o il timore, a seconda che il suo oggetto sia considerato facilmente conseguibile o meno. Si cerca di costituire così una sorta di ‘grammatica delle emozioni’, con la quale si possa scrivere ogni enunciato della vita emotiva. Ogni passione viene collegata con aspetti fisiologici: soltanto la meraviglia – che precede ogni percezione sul senso positivo o negativo per noi dell’oggetto – è legata al solo cervello, mentre le altre sono connesse anche con cuore, milza, fegato ecc. Se Cartesio non risolve il problema mente-corpo (come lo si chiama oggi), sul quale del resto lavora ancora la filosofia contemporanea, dà, però, un esempio interessante e importante di trattazione unitaria di aspetti psicologici e fisiologici (di psicosomatica) che l’insistenza soltanto sul suo impianto dualistico di base fa spesso cadere nell’ombra. Dimenticando la sua profonda convinzione dell’unitarietà di mente e corpo non si nota così – con la fretta di incasellarlo nello schema del dualismo, che un filosofo contemporaneo come Daniel Dennett (nato nel 1942) ha spiritosamente assegnato al «secchio della spazzatura della storia» – che la sua trattazione offre un primo importante esempio di ciò che oggi si chiamano «neuroscienze», ossia di indagine fisiologica sui processi della mente basata sulla conoscenza delle funzioni cerebrali. La teoria cartesiana pone, infine, le basi per una morale dell’equilibrio tra le passioni (che egli valuta positivamente, considerandole per loro natura tutte buone, e ritenendo dannoso solo il loro cattivo uso o eccesso) e la ragione. Non è una morale della rinuncia alle passioni. Temperate dalla ragione, sono anzi le passioni la fonte di ogni bene o male nella vita, dirà Cartesio concludendo il suo trattato. Il saperle usare è allora la saggezza, che come avevamo visto quando si parlava dell’«albero della filosofia» (vedi p. 142), si esprime in una morale, non più provvisoria, che presuppone tutte le altre scienze che Cartesio ha cercato di abbozzare. L’anima può avere i propri piaceri a parte; ma quelli che ha in comune col corpo dipendono completamente dalle passioni. Perciò gli uomini che la passione può far vibrare di più, sono capaci di gustare in questa vita le maggiori dolcezze. È vero che possono anche trovarvi le maggiori amarezze, se della passione non sanno fare buon uso, e se hanno contraria la fortuna. Ma la saggezza proprio

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➥ Sommario, p. 177

in questo torna utile: nell’insegnare a rendersi talmente padroni delle passioni, a dirigerle con tale abilità, da far sì che esse cagionino soltanto mali molto sopportabili, e perfino tali che sia sempre possibile volgerli in gioia.

Pensieri, azioni e passioni che hanno termine nell’anima

amare Dio, applicare il pensiero a un oggetto non materiale

che hanno termine nel corpo

camminare ecc.

Azioni (atti volontari)

causate dall’anima

Pensieri

Passioni, percezioni o conoscenze che si trovano in noi (ricevute dalle cose rappresentate)

percezioni degli atti volontari, e di tutte le immaginazioni o altri pensieri che ne dipendono (anche: immaginazione di cose che non esistono, considerazione di cose intelligibili) immaginazioni involontarie (sogni, fantasie da svegli) riferite a oggetti esterni

vedere, udire ecc.

riferite al nostro corpo dolore, fame, sete ecc. causate dal corpo

che giungono attraverso i nervi riferite alla nostra anima

– quelle i cui effetti si sentono nell'anima stessa; – le principali sono sei: ammirazione, amore, odio, desiderio, gioia, tristezza; – sono l’oggetto principale delle Passioni dell’anima

Suggerimenti bibliografici Una biografia scritta da uno dei più grandi storici della filosofia italiani: E. Garin, Vita e opere di Cartesio, Laterza, Roma-Bari 1993. Una biografia, ricca di riferimenti alle lettere, incentrata sulle origini e sullo sviluppo del pensiero di Cartesio: G. Rodis-Lewis, Cartesio. Una biografia, Editori Riuniti, Roma 1997. Un’opera che affronta la questione del rapporto tra scienza e metafisica: F. Alquié, Lezioni su Descartes. Scienza e metafisica in Descartes, ETS, Pisa 2005. Due guide preziose per affrontare il percorso argomentativo delle Meditazioni metafisiche: S. Di Bella, Le meditazioni metafisiche di Cartesio. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 1997. E. Scribano, Guida alla lettura delle «Meditazioni metafisiche» di Descartes, Laterza, Roma-Bari 2006.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Le lezioni di uno dei maggiori storici della scienza del Novecento: A. Koyré, Lezioni su Cartesio, Trachinda Editori, Milano 1990. Un testo complesso, che approfondisce alcuni dei punti più controversi della nozione cartesiana di mente: S. Landucci, La mente in Cartesio, Franco Angeli, Milano 2002. Un’opera appassionata che affronta la teoria cartesiana all’interno di una presentazione, complessa e originale, del tema delle passioni tra XVII e XVIII secolo: R. Bodei, Geometria delle passioni, Feltrinelli, Milano 1991. I brani antologizzati sono tratti da: Cartesio, Regole per la guida dell’intelligenza, Bompiani, Milano 2000. Cartesio, Opere, a cura di E. Garin, Laterza, Bari 19671. Cartesio, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1999. Cartesio, Le passioni dell’anima, Bompiani, Milano 2003. Descartes, Opere, a cura di G. Cantelli, Mondadori, Milano 1986. Descartes, Meditazioni metafisiche, a cura di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 1997.

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Sommario 1. «LA

LIBERTÀ DI GIUDICARE DA SÉ»

Cartesio occupa un ruolo fondamentale nella storia della filosofia perché ha saputo incarnarne uno dei passaggi epocali: quello segnato dalla fine della cultura medievale scolastica; dalla nascita della nuova cosmologia e della nuova scienza; dal vacillare delle verità religiose e di un fondamento divino del diritto e del potere. Pur avendo ricevuto una formazione scolastica, egli è stato capace di distaccarsi dalla tradizione viaggiando, in un primo tempo attraverso la cultura e le opinioni, grazie alle sue letture, e poi per dieci anni attraverso l’Europa. Il suo scopo, insieme personale ed epocale, è la rifondazione di un sapere razionale, autonomo e autogarantito. 2. IN

CAMMINO NELL’EUROPA DEL

SEICENTO

L’uomo e il filosofo sembrano attraversati da tendenze contraddittorie: un coraggio e una curiosità fuori dal comune e una grande prudenza, nell’esporre e, talvolta, nel pubblicare le proprie idee; la volontà di fare nuove esperienze, affrontando i rischi della vita militare e i continui viaggi, e la ricerca di un rifugio tranquillo dove poter lavorare e studiare, che trova prima in Olanda e poi, negli ultimi anni, in Svezia; l’interesse per ogni disciplina e conoscenza tecnica e il rifiuto della tradizione esoterica. 3. UN

PENSATORE SU MOLTI FRONTI

E L’UNITÀ DEL SAPERE

Cartesio ha avuto il ruolo storico di costruire una nuova unità del sapere anche per la sua capacità di essere, prima che un grande filosofo, uno scienziato di valore, impegnato in maniera non occasionale in molti ambiti. Il suo progetto prevede la costruzione di un edificio del sapere, che in un suo scritto egli paragona a un albero, comprendente metafisica, fisica, scienze e culminante con la saggezza, la conoscenza perfetta che le riassorbe tutte sotto di sé. Il suo massimo contributo alla scienza è rappresentato dai tre saggi pubblicati assieme al Discorso sul metodo: una teoria della rifrazione, Diottrica, una teoria dei fenomeni sublunari, Meteore, e la Geometria, che unifica l’algebra e la geometria euclidea. L’unità di discipline così diverse è data dal metodo fondato sulle nozioni di ordine e misura, relazioni matematizzabili, sulla spiegazione genetica (ricondurre le cose alle proprie cause) e sul meccanicismo, ossia la riduzione dei fenomeni fisici a descrizioni che non ricorrono alle essenze aristoteliche e scolastiche, ma alle nozioni di estensione e movimento. 4. COSTRUIRE

IL MONDO (E L’UOMO): FISICA

E FISIOLOGIA

Affrontando successivamente la fisica, Cartesio sceglie un artificio retorico: descrive sotto forma di ipotesi, una ‘favola’, l’origine del mondo, concentrandosi sul feno-

meno della luce. In questo modo può esporre il suo modello teorico svincolandosi dal peso della teologia e soffermandosi solo sugli aspetti meccanici dell’evoluzione del cosmo. La sua teoria ipotizza la creazione della materia (res extensa) da parte di Dio, che le infonde una certa quantità di moto e stabilisce tre leggi che ne guidano l’evoluzione. La sostanza estesa è infinita e formata da corpuscoli; successivamente il mondo si organizza in un sistema di vortici che escludono il vuoto. Un’analoga ipotesi meccanicistica descrive anche la fisiologia umana fermandosi alle soglie dell’anima o mente, costituita dalla res cogitans o sostanza pensante. I processi fisiologici cerebrali sono frutto dell’azione di una materia sottilissima e rarefatta, gli spiriti animali, che tracciano le ‘idee materiali’ sull’organo che funge da tramite tra il livello fisiologico e quello psicologico, la ghiandola pineale. 5. IDEE

COME RAPPRESENTAZIONI

Cartesio concepisce le idee come rappresentazioni che stanno per la cosa attraverso un complesso sistema di corrispondenze. Nel passaggio dalla visione alla formazione delle tracce materiali sul cervello, il meccanismo rappresentativo è guidato dalle leggi fisiche della rifrazione, che sono all’origine anche della memoria. Queste idee-tracce non appartengono alla mente. 6. RITROVARE

IL FONDAMENTO

La parte metafisica della riflessione cartesiana ha come scopo di rifondare la certezza del conoscere. Cartesio muove da una nuova ontologia: il dualismo di due sostanze identificate dagli attributi dell’estensione e del pensiero. Il processo di rifondazione assume la forma di presentazione della propria esperienza, che inizia con il rifiuto di tutte le conoscenze possedute attraverso il dubbio. Ma proprio la consapevolezza di poter essere ingannato permette a Cartesio di raggiungere la prima certezza ontologica, quella di essere qualcosa. Il successivo passaggio consiste nell’identificare se stesso con una sostanza pensante che possiede alcuni contenuti mentali, le idee. Attraverso un’analisi di esse Cartesio individua un’idea innata, quella di Dio, che attraverso tre prove, tra cui quella ontologica, gli permette di raggiungere la certezza dell’esistenza di un Dio perfetto e quindi verace. Sulla veridicità divina si fonda il criterio dell’evidenza come garanzia di certezza per le successive acquisizioni metafisiche: la validità delle verità matematiche, l’esistenza delle cose esterne, il dualismo delle sostanze e la soluzione del problema mente-corpo attraverso l’idea innata dell’unione reale. L’ultima fase della riflessione cartesiana sarà l’analisi delle passioni dell’anima, le emozioni provocate dall’azione del corpo sulla res cogitans, e la comprensione di come può l’anima assumere il controllo su di esse attraverso l’abitudine. 177

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Parole chiave Corpuscolo. La particella minima della materia, divisibile all’infinito: ne esistono tre tipi diversi per dimensioni, che formano i tre elementi del cosmo cartesiano, cioè terra, aria e fuoco. Coscienza. A partire da Cartesio (anche se egli vi accenna raramente) indica la consapevolezza, soggettiva e interiore, di sé e dei propri atti mentali, immediatamente autoevidente, che accompagna in modo riflessivo l’intera vita della mente. Dualismo. Ogni concezione (religiosa, psicologica, ontologica ecc.) che afferma l’esistenza di due principi autonomi e indipendenti l’uno dall’altro. Dubbio. Cartesio sceglie questo atteggiamento di critica razionale come primo momento del suo cammino di rifondazione del sapere: il dubbio gli permette di liberarsi da tutte le forme di credenza ingenua (fiducia nei sensi, esistenza dei corpi esterni e del proprio corpo) o acquisita (verità matematiche, tradizione filosofica e scientifica), ma gli fornisce anche il primo elemento su cui ricostruire le proprie certezze. Nelle Meditazioni l’esperienza del dubbio gli fa raggiungere la prima certezza ontologica, quella di essere qualcosa. Estensione. L’essenza, o attributo essenziale (extensio), della sostanza estesa che indica la proprietà di occupare una parte di spazio in larghezza, lunghezza e profondità. Evidenza. La forma di certezza più alta della teoria della verità cartesiana, intuitiva e immediata: i suoi contenuti si presentano con le proprietà di chiarezza (sono nitidi per la mente attenta) e distinzione (sono perfettamente distinguibili da ogni altro contenuto). Idea. Ogni contenuto della mente immateriale umana capace di rappresentare, nel senso di ‘stare per’, una cosa o res o un suo modo. In Cartesio esiste anche la nozione, che però egli non definisce, di ‘idea materiale’ ossia la traccia ultima di una cosa esterna che, attraverso un sistema meccanico di trasmissione, si forma sulla ghiandola pineale. Le idee si distinguono sulla base delle componenti (se hanno un altro elemento oltre quello rappresentativo sono volizioni, giudizi ecc.) e in base all’origine, in innate, fattizie e avventizie. Mathesis universalis. Letteralmente l’espressione significa «matematica universale» e indica la logica generale del sapere umano che accomuna ogni conoscenza e di cui Cartesio tratta nelle Regole per la guida dell’intelligenza. Meccanicismo. Una teoria fisica che riduce tutti i fenomeni a materia e movimento. 178

Metodo. L’insieme di prescrizioni che, per Cartesio, permettono di raggiungere la certezza in ogni ambito del sapere: ricercare l’evidenza, scomporre i problemi in elementi semplici, risalire dagli effetti alle cause, fare enumerazioni complete e ricostruire tutti i nessi e le relazioni tra gli oggetti indagati, siano essi mentali o materiali. Passione. Sostantivo derivato dal greco pàthos, indica una modificazione subita dall’anima (emozione) ad opera del corpo attraverso un meccanismo fisiologico che coinvolge il cervello. Cartesio individua sei passioni primitive, che si compongono variamente per produrre tutte le altre. Pensiero. Parola che Cartesio usa con due significati: il primo indica l’essenza, o attributo essenziale, della sostanza pensante, ossia l’attività mentale (cogitatio); il secondo indica tutti i contenuti mentali o cogitationes (idee, volizioni, giudizi ecc.), ossia gli oggetti di tale attività. Problema mente-corpo. Data la totale alterità tra le sostanze del mondo cartesiano, indica la questione di come possano interagire due realtà totalmente eterogenee e tra cui non esiste causalità reciproca. Cartesio lo risolve ipotizzando l’esistenza di un organo, la ghiandola pineale, che partecipa, separatamente, sia dei processi fisiologici che di quelli psicologici e funge da tramite tra i due piani ontologici. Res cogitans / Res extensa. La sostanza pensante e la sostanza estesa, le due realtà ontologiche che costituiscono il mondo cartesiano, definite attraverso la negazione reciproca: la res cogitans pensa e non è estesa, la res extensa è estesa e non pensa. Spiriti animali. Nozione che Cartesio desume dalla tradizione medica e indica una materia sottilissima, mobilissima ed estremamente pura ottenuta dal sangue attraverso la combustione. Si trovano nel cervello e scorrono nei nervi. Esistono altri due tipi di spiriti, inferiori per purezza: quelli della digestione, o naturali, e quelli ottenuti per rarefazione del sangue, o vitali. Unione mente-corpo. La reale unità di mente e di corpo nell’uomo, idea innata che possiamo cogliere intuitivamente e osservare attraverso i suoi effetti, i principali dei quali sono, rispettivamente, le passioni dell’anima e le azioni volontarie del corpo. Vortice. Modello di organizzazione del cosmo cartesiano: le leggi del moto formano queste entità al cui centro, grazie alla forza centrifuga, si addensano le particelle dell’elemento più pesante (terra) e si forma un corpo celeste. Gli altri due elementi sono spinti verso i margini esterni del vortice.

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Questionario «LA

LIBERTÀ DI GIUDICARE DA SÉ»

1

2

IN

UN

Quali sono gli elementi che denotano la crisi della cultura scolastica nel XVII secolo? (max 4 righe) Qual è la concezione della ragione di Cartesio? (max 3 righe)

CAMMINO NELL’EUROPA DEL

SEICENTO

3

Perché Cartesio decide di arruolarsi nell’esercito? (max 1 rigo)

4

Chi erano i Rosacroce e che rapporti ebbe con loro Cartesio? (max 4 righe)

PENSATORE SU MOLTI FRONTI E L’UNITÀ DEL SAPERE

5

Qual è il modello di spiegazione scientifica seguito da Cartesio? (max 2 righe)

6

Qual è la differenza fondamentale tra il modo aristotelico di concepire la realtà e quello della nuova scienza? (max 6 righe)

COSTRUIRE 7

8

IDEE

Lavoriamo sui testi 15

Qual è il contenuto della mathesis universalis secondo Cartesio in T4? (max 2 righe)

16

Con quale similitudine Cartesio descrive l’unità del sapere umano in T5? (max 1 rigo)

17

Qual è il ruolo nel mondo fisico del concorso ordinario di Dio di cui Cartesio parla in T7? (max 3 righe)

18

Per quale motivo Cartesio si accontenta di supporre la formazione di un corpo umano da parte di Dio in T8? (max 3 righe)

19

Che differenza sussiste tra idee e immagini mentali secondo Cartesio in T10? (max 3 righe)

20

Con quale argomento Cartesio si libera dell’ipotesi di una falsità assoluta della nostra certezza in T11? (max 2 righe)

21

Quali differenze esistono tra una percezione chiara e una distinta secondo Cartesio in T12? (max 3 righe)

22

Esponi i passaggi dell’argomento con cui Cartesio raggiunge la certezza di esistere in T14. (max 4 righe)

23

Attraverso quale mezzo conosciamo la natura del pensiero e dell’esistenza, secondo Cartesio in T15? (max 3 righe)

24

Quali sono le due nozioni di natura che Cartesio espone in T18? (max 4 righe)

25

Per quali motivi Cartesio afferma che l’anima è congiunta a tutto il corpo, ma non ha un luogo proprio in T20? (max 3 righe)

IL MONDO (E L’UOMO): FISICA E FISIOLOGIA

Per quali scopi Cartesio scrive la favola del mondo e quali sono i suoi contenuti? (max 4 righe) Quali aspetti dell’essere umano restano esclusi dal modello dell’uomo macchina? Qual è il presupposto ontologico di questa esclusione? (max 4 righe)

COME RAPPRESENTAZIONI

9

Qual è la differenza fondamentale tra la nozione antica e medievale di idea e quella cartesiana? (max 3 righe)

10

Descrivi in un massimo di 5 righe il meccanismo della rappresentazione attraverso le idee.

RITROVARE

IL FONDAMENTO

11

Di quante parti si compone il Discorso sul metodo e quali argomenti affronta? (max 8 righe)

12

Che cos’è la morale provvisoria e quali sono le sue regole? (max 6 righe)

13

Qual è la differenza tra analisi e sintesi nel processo conoscitivo? (max 2 righe)

14

Quali cose vengono revocate in dubbio nel percorso delle Meditazioni, e in quale ordine? E in quale ordine vengono recuperate? (max 8 righe) 179

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

LABORATORIO DI LETTURA Le Meditazioni metafisiche Analisi di un pezzo di cera Il brano che segue è tratto dalla seconda delle Meditazioni metafisiche. Cartesio ha dimostrato la necessità dell’esistenza della res cogitans, ma deve ancora vincere il pregiudizio del modo comune di pensare e acquisire una convinzione più chiara. Approfondisce allora la sua conoscenza della mente passando attraverso l’analisi dell’apparente certezza del senso comune: quella che riguarda l’esistenza di un oggetto percepito attraverso i sensi – in questo caso, di un pezzo di cera.

Premessa: la mente è ancora schiava dei pregiudizi

Tesi: è più certa la conoscenza della propria esistenza che quella sensibile del mondo esterno Metodo: assecondare la mente

Commento e interpretazione

180

Ora sì che comincio a conoscere un po’ meglio che cosa sono. E nondimeno ancora mi sembra (non ce la faccio proprio a non crederlo) che le cose corporee – si tratti solo di immagini formate col pensiero, oppure vengano anche colte con i sensi, qui non fa differenza – siano conosciute molto più distintamente di quel non so che, di me, che invece non cade sotto l’immaginazione. In verità, sarebbe ben strano se, delle cose che mi rendo conto che sono dubbie, ignote, estranee a me, io le comprendessi più distintamente di quel che conosco come vero, e cioè me stesso; ma ora capisco anche di che si tratta: alla mia mente piace di divagare, e non si adatta ancora ad essere costretta entro i confini della verità. [A] E sia pure, allora: consentiamole di andare a briglia sciolta, ancora per una volta; ma affinché, ritirandole poi subito la briglia ad arte, essa accetti più facilmente di venire guidata. [B]

1

5

10

A. Cartesio ha dimostrato che dal dubbio deriva almeno la certezza che io sono. E che ciò che sono è una «cosa che pensa» (res cogitans), cioè che «dubita, intende intellettualmente, afferma, nega, vuole, non vuole, e anche immagina e sente». Ma questa dimostrazione, per quanto solida, non riesce da sola a smuovere convinzioni radicate, come la sicurezza ingenua di conoscere meglio le cose esterne che «quel non so che, di me» di cui non posso avere un’immagine. In questo primo passo del brano viene in luce chiaramente il carattere particolare delle «meditazioni», il loro essere non una semplice trattazione argomentativa, logica, dei problemi, ma appunto anche una sorta di esercizio spirituale, di tipo quasi religioso: la mente «non ce la fa a non credere» a certe cose, è spesso portata fuori dalla concentrazione su una verità acquisita (le «piace di divagare»). La verità non va solo conosciuta, ma riconquistata sempre di nuovo, fatta propria in profondità, perché possa mostrarsi nella sua evidenza e avere un effettivo assenso da parte di chi pensa. B. Il percorso meditativo è allora qui quello di seguire la mente nelle sue credenze spontanee, ‘ingenue’ («andare a briglia sciolta»), per poi revocarle, metterle in questione una alla volta. Come vedremo, Cartesio fa giocare l’una contro l’altra due convinzioni comuni: che i sensi ci diano l’essere vero delle cose, e che una cosa – in questo caso il pezzo di cera – permanga la stessa pur subendo variazioni. C. Si prende in esame un corpo, non il concetto di corpo in generale; un corpo come si presenta ai sensi: attraverso sapore, odore, colore, figura e grandezza, resistenza al tatto, suono.

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna Analisi della conoscenza: come i sensi vedono le qualità di un corpo

Prima domanda: i sensi percepiscono ciò che permane al di là del mutamento?

Prima risposta: i sensi vedono solo le qualità mutevoli

Seconda domanda: è forse l’immaginazione a conoscere il corpo?

Di tutte le cose, consideriamo dunque quelle che comunemente si ritiene di comprendere più distintamente; e cioè i corpi, che tocchiamo e vediamo (e non i corpi considerati in generale, ché di solito siffatte concezioni generali sono assai più confuse, bensì proprio un determinato corpo particolare). Prendiamo, per esempio, questa cera che, appena tirata fuori dall’alveare, ancora non ha perso del tutto il sapore del miele e mantiene un po’ dell’odore dei fiori da cui è stata raccolta: il suo colore, la sua figura e la sua grandezza sono lì, tutti evidenti; la si può toccare senza problemi, e, se la si batte con un dito, emetterà un suono; insomma, si ha tutto quel che sembra necessario perché un corpo possa essere conosciuto il più distintamente possibile. [C] Ma ecco che, mentre io sto parlando, essa viene avvicinata al fuoco: scompare quanto le rimaneva di sapore, l’odore svanisce, il colore cambia, vien meno la figura, la grandezza cresce, e la cera si fa liquida, calda, a fatica la si può toccare, e, se la si batte, non emetterà più alcun suono. Ebbene: rimane ancora la stessa cera di prima? Lo rimane, certo; nessuno lo nega, nessuno ritiene che non lo rimanga. Ma che cos’era allora che in essa veniva compreso prima, tanto distintamente? [D] Di sicuro niente di quel che coglievo con i sensi, ché ora è mutato, appunto, tutto quanto cadeva sotto il gusto, l’odorato, la vista, il tatto, l’udito, e tuttavia la cera rimane la stessa di prima. Forse quel che prima veniva compreso tanto distintamente era quel che penso ora, e cioè neppure allora, in verità, la cera era quella dolcezza del miele, né quel profumo dei fiori né quella bianchezza, quella figura o quel suono, bensì un corpo che poco fa mi appariva in questi modi ed ora mi appare invece in modi differenti. [E] Che cosa è però, con precisione, quel che così immagino? Facciamo attenzione, per vedere quel che rimanga una volta messo da parte quanto non appartiene alla cera. Nient’altro, di certo, che di essere essa un qualcosa di esteso, flessibile, mutevole. [F] Ma che cos’è il suo essere flessi-

15

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25

30

35

40

D. Tutte quelle qualità prima evocate come ciò che identifica la cera possono mutare: non sono dunque i sensi a dirci cos’è la cera. Cos’è allora che garantisce veramente la nostra certezza che la cera, trasformandosi e presentandosi dunque in modo del tutto diverso ai sensi, sia la medesima, ossia una cera diversa, ma non un’altra cera? E. Se nessuna delle qualità sensibili ci dice cos’è la cera, forse la sua natura sta nell’esser un corpo che può assumere più modi di manifestarsi («modi» – o «accidenti» – erano termini scolastici che si opponevano a «sostanza», ciò che fa da sostrato stabile alle proprietà mutevoli di un ente). Se non sono i sensi a dire cos’è qualcosa, forse lo fa l’immaginazione: quella facoltà che si occupa di estensione, grandezza, figura, ossia delle qualità che sono comuni a più sensi che Cartesio sta per nominare (per questo l’immaginazione è identificata anche col «senso comune», la facoltà che per Aristotele coglieva appunto le qualità comuni a diversi sensi). Grandezza e figura sono modi dell’estensione, in quanto sostanza: ciò identifica il corpo appunto come res extensa. Queste qualità sono mutevoli, ma l’immaginazione sarebbe in grado di seguirne le trasformazioni e dunque di stabilire una continuità. F. Allora l’essenza di un corpo come la cera è di essere qualcosa di esteso che può mutare figura (questo vuol dire qui «flessibile») e grandezza (questo è inteso con «mutevole»)? Anche questa soluzione, dopo quella che attribuiva ai sensi la conoscenza distinta della cosa, viene da qui in poi messa in questione.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Seconda risposta: l’immaginazione non può comprendere le qualità essenziali dei corpi

Prima conclusione: solo la mente attenta percepisce e si rappresenta correttamente un corpo

bile e mutevole? [G] Forse questo, che io immagino che la cera può mutare figura, da rotonda in quadrata, da quadrata in triangolare, e così via? Niente affatto! Capisco infatti che la cera è suscettibile di infiniti mutamenti di questo genere, però io non sono in grado di percorrerli con l’immaginazione, in quanto infiniti; per cui il mio comprenderla come suscettibile appunto di infiniti mutamenti non è opera della facoltà immaginativa. [H] Che cos’è poi il suo essere estesa? In realtà, neppure l’estensione della cera io la conosco con l’immaginazione, ché, quando essa si liquefà, la sua estensione cresce, e di più se arriva a bollire ed ancora di più se il calore aumenta ancora; per cui, non giudicherei correttamente che cosa sia la cera, se non la ritenessi suscettibile di ben maggiori varietà di estensioni di quante io mai ne abbracci con l’immaginazione. [I] Non resta quindi se non concludere che io non lo immagino mai, che cosa sia questa cera, ma lo percepisco soltanto con la mente [L] (e dico questa cera in particolare, ché quanto alla cera in generale è ancor più chiaro). [M] Ma che cos’è questa cera che non è percepita se non dalla mente? Di certo la stessa che io vedo, tocco, immagino, insomma la stessa che fin dall’inizio ritenevo che esistesse; e tuttavia – si noti bene – la percezione di essa non è un vedere, un toccare, un immaginare, e non lo è stata mai, nonostante che prima mi sembrasse così, perché è invece una visione esclusivamente mentale, [N] la quale poi può essere o imperfetta e confusa, come era prima, oppure chiara e distinta, come è ora, a seconda

G.

H.

I.

L.

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Da notare che figura e grandezza sono «qualità primarie», da distinguere dalle «qualità secondarie» (sapore, colore, odore, suono) prima considerate. Cartesio accetta questa distinzione (già abbracciata da Galilei nel Saggiatore), e riconosce il primato delle qualità primarie, ma la sua intenzione non è qui di sottolineare questo punto. Bisogna notare che qui Cartesio procede un po’ velocemente: perché la capacità di avere una figura e una grandezza (questo vuol dire «flessibile» e «mutevole») dovrebbe appartenere alla cera più di quella di avere un colore o una certa resistenza? La ragione potrebbe stare nel fatto che queste qualità sono comuni a più sensi, ma qui Cartesio non lo dice. Sono comunque le qualità matematizzabili, trattabili in modo matematico. Cartesio sostiene in ogni caso che nulla appartiene al concetto di corpo se non che «è una cosa con lunghezza, larghezza, profondità, capace di diverse figure e movimenti». E che «grandezza, distanza, figura non sono percepite che dal ragionamento» (Seste obiezioni). L’esclusione esplicita di durezza, colore, pesantezza ecc. dalla natura dei corpi è svolta nei Principi della filosofia, 2,4,11. Essere flessibile e mutevole vuol dire potere assumere infinite figure e grandezze. L’immaginazione non è capace di rappresentare infiniti mutamenti come possibili, può solo rappresentarne un numero indefinito. Inoltre (Cartesio qui però non lo dice) l’immaginazione non è in grado di immaginare qualunque cosa l’intelletto concepisca. Nella sesta Meditazione si fa riferimento all’esempio del triangolo e del chiliagono (poligono di mille lati): mentre il primo posso immaginarlo, «non è che i mille lati li immagini, ossia li veda – allo stesso modo in cui invece ne vedo tre – come se fossero presenti». Concepisco però il chiliagono con l’intelletto altrettanto bene che il triangolo. Nella frase precedente Cartesio ha confutato la possibilità di abbracciare con l’immaginazione le infinite figure che un corpo può assumere. Qui, parlando di infinite «estensioni», intende in realtà più precisamente grandezze, ossia quantità determinate di estensione. Come si diceva, figura e grandezza sono le proprietà che un corpo esteso ha necessariamente. «Lo percepisco soltanto con la mente»: sola mente percipere. Il latino percipere non equivale in Cartesio all’odierno «percepire», che si riferisce per lo più alla percezione attraverso i

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

Digressione: i pregiudizi indotti dal linguaggio comune

Ripresa dell’argomento: la forma di conoscenza più vera è quella dell’intelletto

che io presti minore o maggiore attenzione a che cosa sia ciò di cui essa consta. [O] Per un momento mi fermo anche a considerare, tutto stupefatto, quanto la mia mente sia incline ad errare, rendendomi conto che, anche se rifletto tra me e me, senza parlare, tuttavia continuo a rimanere legato proprio alle parole e sono come ingannato dal modo in cui comunemente si parla. Se l’abbiamo di fronte, infatti, diciamo che vediamo la cera stessa, anziché che giudichiamo che essa è presente inferendolo dal colore o dalla figura; per cui ne concluderei subito che la cera la si conosce con una visione oculare e non con una visione esclusivamente mentale, se non mi fosse però accaduto di guardare da una finestra degli uomini per la strada, per esempio, e di dire che li vedevo, secondo il medesimo uso corrente per cui lo si dice della cera; ma, in un caso come questo, che cosa vedo in realtà se non dei cappelli e dei vestiti, sotto i quali potrebbero anche celarsi degli automi? Che sono uomini, in realtà, lo giudico; ma, allora, quel che ritenevo di vedere con gli occhi lo comprendo soltanto con la facoltà di giudicare di cui è dotata la mia mente. Comunque, chi aspiri ad essere superiore al volgo nel sapere dovrebbe vergognarsi di essere indotto in dubbio dai modi di parlare correnti [P]. Ma passiamo oltre, e, riprendendo il filo, consideriamo se, che cosa la cera sia, io lo percepivo meglio e con maggiore evidenza allorché la vedevo per la prima volta e credevo di conoscerla con i sensi esterni (o tutt’al più col «senso comune», come vien chiamato, vale a dire con la facoltà imma-

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sensi, ma è termine generico per tutti gli atti mentali, analogo all’odierno «rappresentare». M. Qui si pone un problema interpretativo. Cartesio sta sostenendo allora implicitamente, parlando di questo rappresentare con la «sola mente» dopo che ha escluso sensi e immaginazione, che la mente è in realtà intelletto (la facoltà che ora entra in gioco)? Secondo questa interpretazione, Cartesio sosterrebbe che il cogitare è in ultima analisi intendere con l’intelletto (intelligere), stabilendo una gerarchia tra i modi di cogitare. In questa direzione andrebbero alcune formulazioni, in altri luoghi delle Meditazioni, dove si afferma che sentire e immaginare «includono pur in qualche modo l’intellezione», mentre non avviene il contrario; e che «senza di queste [facoltà di sentire e immaginare] posso intendere con l’intelletto me stesso tutto intero, mentre viceversa non si possono intendere quelle due facoltà senza di me». Tuttavia Cartesio sostiene anche che cogitare significa, l’abbiamo visto, «dubitare, intendere intellettualmente, affermare, negare, volere, immaginare, sentire» (nella traduzione francese delle Meditazioni anche amare e odiare), e lo ripete in più luoghi. Cogitatio è, per i Principi della filosofia (1,45), «tutto quello che per noi, che siamo consci anche di noi stessi, avviene in noi, in quanto ne abbiamo in noi consapevolezza. E così non solo il conoscere, il volere, l’immaginare, ma anche il sentire sono qui quella stessa cosa che chiamiamo cogitare». N. mentis inspectio: uno «scorgere, esaminare con la mente» – opposta qui alla visione che si compie con gli occhi, la visio oculi di cui si parla poco più sotto. O. La rappresentazione della cera «non è stata mai» un sentire o immaginare, ma fin dall’inizio un intendere, che ora è diventato chiaro e distinto. La chiarezza e distinzione (criteri fondamentali per Cartesio della conoscenza vera) sono date, rispettivamente, dal manifestarsi a una menta attenta, e dalla precisione, ossia dal contenere solo «ciò che appare manifestamente», gli elementi essenziali di qualcosa (vedi I principi della filosofia, 1,45). P. Tutto questo capoverso mette in guardia contro l’inganno derivante dall’uso comune delle parole. Quella che viene chiamata «visione» è in realtà un giudizio, cosa resa più evidente dall’esempio degli uomini visti dalla finestra, che letteralmente non vedo quando dico di vederli, ma presumo (giudico) che ci siano.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Prima conseguenza: la conoscenza di qualcosa rafforza la mia certezza di esistere

ginativa), oppure lo concepisco meglio ora, invece, dopo che ho diligentemente ricercato tanto che cosa sia la cera quanto come la si conosca. [Q] Sarebbe davvero sciocco rimanere in dubbio. Che cosa c’era infatti di distinto in quella prima percezione? Che cosa, che non sembri che possa essere percepito anche da qualsiasi animale? Invece, allorché io distinguo la cera dalle sue forme esteriori – come se la considerassi, una volta toltele le vesti, nella sua nudità – non la posso percepire così; e cioè come essa è in verità (anche se può ben darsi che nel mio giudizio si trovi ancora qualche errore), se non con una mente umana. [R] E che dirò, allora, proprio di questa mente, e cioè di me stesso (dal momento che fino ad ora non ammetto che in me ci sia altro oltre alla mente), io che ho l’impressione di percepire tanto distintamente quella cera? Di certo, conosco me stesso non soltanto con tanto maggior verità e certezza, ma anche con tanto maggior distinzione ed evidenza. Infatti, se giudico che la cera esiste per il fatto che io la vedo, da questo stesso fatto, che io la vedo, di certo segue con molto maggiore evidenza che io ora esisto anch’io; ché può darsi che quella cera che vedo in verità non esista, può anche darsi che io non abbia neppure occhi con cui vedere alcunché, ma quel che sicuramente non può darsi è che, allorché io vedo, o penso di vedere, qualcosa (due cose, vedere e pensare di vedere, fra cui ora non faccio distinzione), [S] non esista proprio io che penso così. Allo stesso modo, se giudico che la cera esiste per il fatto che io la tocco, seguirà di nuovo la stessa conclusione, e cioè che

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Q. Cartesio «passa oltre», evidenziando così che il suo scopo argomentativo principale qui non è parlare della percezione della cera o della conoscenza della identità degli oggetti, ma esaminare in quale forma di conoscenza – dei sensi o intellettuale – vi sia maggiore certezza, con l’intento di mostrare che una certezza puramente intellettuale, come quella della mia esistenza, è senz’altro ben più salda e indubitabile. Così non si tratta di stabilire una gerarchia tra le diverse cogitationes, una priorità dell’intelligere (intendere intellettuale) sulle altre forme, ma una gerarchia tra la conoscenza della propria esistenza – data dal passaggio dal cogito al sum – e quella comunemente considerata affidabile, la conoscenza sensibile del mondo esterno. R. L’intelletto può sbagliare, ma è in ogni caso l’intelletto (proprio soltanto della mente dell’uomo) a cogliere la vera natura della cosa. Sensazione e immaginazione sono per Cartesio processi meccanici, dunque presenti anche negli animali (che sono, nella sua concezione, «macchine»). A questo Gassendi opporrà, nelle Quinte obiezioni (vedi p. 207 s.), che un cane riconosce il padrone sotto le vesti e anche in diverse posizioni, e riconosce una lepre come la stessa da viva e da scorticata. S. Qui non è in questione il vedere qualcosa, il vedere come modo di riferirsi a cose realmente esistenti, ma il vedere come tipo di atto mentale: rispetto a ciò, parlare di «vedere» o di «credere di vedere» non fa alcuna differenza. T. Nota che Cartesio sta qui articolando il cogito nelle sue diverse forme: abbiamo un video ergo sum («vedo quindi sono»), un tango ergo sum («tocco quindi sono»), un imagino ergo sum («immagino, raffiguro quindi sono»). Questo dimostra che il cogitare non è necessariamente intellettuale, un «pensare» in senso stretto. Intellettuale – e chiara e distinta – è la conoscenza della mia esistenza, come lo è in ultima analisi, abbiamo visto, quella dell’esistenza dei corpi. U. Non solo l’esistenza della mente, ma anche la sua natura è conosciuta con maggiore chiarezza e distinzione. Qui Cartesio va oltre la semplice certezza del cogito, affermando che posso sapere con evidenza molte cose della mente. Come osserverà rispondendo alle Quinte obiezioni di Gassendi (vedi p. 207 s.), ogni conoscenza di cose esterne rivela un

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Unità 3 Cartesio e la nascita della filosofia moderna

Seconda conseguenza: conosco distintamente la natura della mia mente

Seconda conclusione e dimostrazione della tesi iniziale: la mia percezione della mia mente è la conoscenza più certa ed evidente

io esisto. E seguirà altrettanto, anche se lo giudico a partire dal fatto che io immagino la cera, o da qualsivoglia altra premessa di questo genere. [T] Naturalmente, poi, questo, di cui mi rendo conto a proposito della cera, varrà anche per tutte quante le altre cose che io ritenga che si trovino fuori di me. Inoltre, se la percezione della cera è apparsa più distinta dopo che l’ho conosciuta non soltanto con la vista o il tatto, ma con ben altro ancora, quanto più distintamente – devo ammettere – conosco ora me stesso, dal momento che ogni considerazione che aiuti a percepire meglio la cera o qualsiasi altro corpo attesta altrettanto, ed anzi anche di più, quale sia la natura della mia mente! [U] Eppure nella mente stessa c’è ancora così tanto, con cui conoscerla più distintamente, che sembra appena il caso di considerare quel che si riverbera su di essa considerandola a partire dai corpi. Ed eccomi così arrivato alla conclusione a cui volevo arrivare: ora che so, infatti, che, a parlare propriamente, neppure i corpi vengono percepiti con i sensi o con la facoltà immaginativa, bensì soltanto con l’intelletto, ossia non già perché toccati o visti, bensì soltanto perché concepiti appunto con l’intelletto, conosco palesemente che niente può essere percepito da me con maggiore facilità ed evidenza che la mia mente. Poiché però non ci si riesce a liberare tanto presto dell’abitudine alla vecchia opinione contraria, è il caso che per oggi mi fermi qui, affinché questa scoperta io la possa imprimere più profondamente nella mia memoria, con un’assidua meditazione. [V]

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(da R. Descartes, Meditazioni metafisiche, trad. di S. Landucci, Laterza, Roma-Bari 1977)

corrispondente potere della mente: «Come possiamo distinguere molti vari attributi nella cera: che essa è bianca, che è dura, che di dura diventa liquida, ecc.; così ve ne sono altrettanti nello spirito: che ha la facoltà di conoscere la bianchezza della cera; che ha la facoltà di conoscerne la durezza; che può conoscere il cambiamento di questa durezza o liquefazione, ecc.». Resta aperta la questione se questo possa davvero rappresentare una comprensione chiara e distinta della mente. Gassendi chiedeva una conoscenza che non fosse solo enumerazione di facoltà: «poiché si attende da voi, e voi ci promettete, una conoscenza di voi più esatta dell’ordinaria, senza dubbio vi rendete conto che non basta dirci come fate, che siete una cosa che pensa, che dubita, che intende, e così via, ma che dovete lavorare su di voi stesso, con una specie d’operazione chimica, in guisa tale che possiate scoprirci e farci conoscere l’interno della vostra sostanza». V. Di nuovo viene in luce il carattere delle meditazioni: un’acquisizione profonda di conoscenza, che non può limitarsi all’apprenderla, ma deve anche condurre a farla propria.

Questionario sull’argomentazione 1

Perché, secondo l’opinione comune, è più difficile conoscere la mente piuttosto che i corpi? (max 2 righe)

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Che cosa conosciamo di un corpo attraverso i sensi? (max 1 riga)

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Per quale motivo l’immaginazione non è in grado di comprendere tutti i mutamenti di un corpo? (max 2 righe)

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Quale facoltà adopero per dire che le figure che vedo attraverso la finestra sono uomini? (max 1 riga)

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Da quale fatto consegue che «niente può essere percepito da me con maggior facilità ed evidenza che la mia mente»? (max 2 righe)

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo?

I testi Cartesio Risposte alle quinte obiezioni: Il distacco dalla tradizione aristotelica, T1 J.O. de La Mettrie L’uomo macchina: La coscienza non distingue in maniera sostanziale uomini e animali, T2 B. Spinoza Etica: La simultaneità tra stati mentali e corporei, T3

G.W. Leibniz Chiarimenti sulle difficoltà che il sign. Bayle ha trovato nel «Nuovo sistema dell’unione dell’anima e del corpo»: Anima e corpo: due orologi ben costruiti, T4 J. Locke Saggio sull’intelletto umano: L’io non è una sostanza spirituale, T5

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Che rapporto c’è tra anima e corpo? 1

Rivoluzione scientifica e crisi dell’ilemorfismo

Nella filosofia moderna il rapporto tra anima e corpo assume un carattere fortemente problematico, che lo rende oggetto di un vivace dibattito, iniziato a cavallo tra Seicento e Settecento e non ancora concluso, come è testimoniato dalle diverse posizioni a confronto nell’ambito della «filosofia della mente», uno dei settori della filosofia contemporanea più coltivato, sia nei Paesi anglosassoni sia nel continente europeo. Alle origini di questo dibattito vi è la crisi della concezione aristotelica dell’anima come forma del corpo – impostasi nella Scolastica attraverso la mediazione di Tommaso –, nell’ambito della quale il rapporto tra i due termini non poneva particolari problemi. Esso risultava infatti analogo al rapporto che, in un tavolo, lega il legno di cui è fatto e la sua forma, ossia ciò che fa di esso un tavolo: secondo la dottrina di matrice aristotelica oggi chiamata «ilemorfismo» (da hy`le = materia e morphè = forma), infatti, come la forma di ogni oggetto è la sua funzione, allo stesso modo la forma del corpo, cioè l’anima, è ciò che lo rende tale, ossia ciò che conferisce ad esso vita, sensibilità e pensiero. Due alternative La progressiva sostituzione della fisica aristotelica con il meccanicismo, che si all’ilemorfismo verifica nel contesto della rivoluzione scientifica, è accompagnata dall’abbandono di questa concezione ilemorfica dell’anima, principalmente a favore di due ipotesi, tra loro alternative: da un lato, la riduzione materialistica dell’anima a semplice organo corporeo; dall’altro, una divaricazione sempre più netta tra il corpo – parte dell’universo fisico, regolato dalle leggi necessarie di causa-effetto – e l’anima, depurata da ogni materialità. Va da sé che, una volta accentuato il divario tra i due termini, risultasse più complicato spiegare il loro nesso.

Origini del dibattito sul rapporto tra anima e corpo: la crisi della concezione aristotelica

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Argomento di Cartesio a favore del dualismo di anima e corpo

Il pensiero è indipendente dal corpo

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Il dualismo cartesiano: due sostanze interagenti Il primo a porre su nuove basi – rispetto al pensiero antico e medievale – la questione del rapporto tra anima e corpo è Cartesio, che intende i due termini come due sostanze differenti e completamente eterogenee: la «cosa pensante» e la «cosa estesa» (vedi Unità 3, p. 170 ss.). Cartesio dimostra il dualismo sostanziale tra anima e corpo a partire dal celebre argomento del «cogito», secondo il quale se dubito di qualcosa e quindi penso, allora necessariamente esisto. Il dubbio metodico e l’ipotesi del genio maligno della prima meditazione mettono in crisi ogni forma di certezza – a partire da quella dell’esistenza delle cose corporee, percepite con i sensi –, salvo quella dell’esistenza di me stesso in quanto essere dubitante e, dunque, pensante. Se unicamente il fatto di essere pensante mi garantisce la mia esistenza, allora tutte le proprietà appartenenti alla natura corporea – come la facoltà nutritiva o quella motoria, concepite dalla tradizione aristotelica come funzioni dell’anima –

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo?

Anima e corpo sono sostanze distinte

Rifiuto della tradizione aristotelica

Due diverse concezioni dell’anima

Il termine «mente» è preferibile ad «anima»

T1

Il distacco dalla tradizione aristotelica Cartesio, Risposte alle quinte obiezioni

si rivelano invece come inessenziali al mio io: la sola proprietà che costituisce la mia essenza è il pensiero, inteso nel senso di coscienza, che rivela così la propria natura di sostanza sussistente attraverso se stessa, cioè indipendentemente dal corpo. Questa indipendenza è provata dal fatto che posso immaginare di non avere un corpo e tuttavia di continuare a esistere, mentre appena cesso di pensare io, in quanto consapevolezza di me, cesso di esistere. In sintesi, si può dire che, poiché grazie al «cogito» ho un’idea chiara e distinta di me come qualcosa alla quale solo il pensare – e non il corpo – è essenziale, allora si può dimostrare che l’anima e il corpo sono due sostanze separate e differenti: nella prospettiva cartesiana, infatti, la veracità divina ci garantisce che tutte le cose che concepiamo chiaramente e distintamente sono come le concepiamo. La posizione di Cartesio è in deliberata e consapevole rottura rispetto alla tradizione aristotelica, che considerava anima e corpo come forma e materia di un’unica sostanza. Da un lato, Cartesio innalza la materia e il corpo da mera «potenza» – ossia possibilità di accogliere forme – al rango di sostanza, governata in modo autonomo dalle leggi della fisica. Dall’altro, la definizione dell’anima come «cosa pensante» equivale a un netto rifiuto della tripartizione aristotelica dell’anima in facoltà nutritiva, sensitiva e razionale. Aristotele riconosceva nella facoltà razionale una prerogativa degli uomini; la presentava però come una funzione riassorbente in sé le funzioni inferiori, cioè quella nutritiva e quella sensitiva, proprie rispettivamente delle piante e degli animali. Di contro, Cartesio identifica l’anima esclusivamente con il «cogito», che, in quanto pensiero in atto che ha bisogno solo di sé per sussistere, è quanto di più lontano possa esservi dall’anima razionale della tradizione aristotelica. Per prendere le distanze da quest’ultima, Cartesio mette in discussione la stessa opportunità di continuare a utilizzare il termine aristotelico «anima». Ai suoi occhi questo termine è fuorviante e non consente di cogliere la differenza tra gli animali e gli uomini: nella prospettiva cartesiana – fondata sull’identificazione tra animo, pensiero e coscienza – gli animali, essendo privi di pensiero, non hanno nessuna anima e nessuna coscienza, bensì sono dei meccanismi inconsapevoli che, al pari degli orologi, non provano né dolore né piacere; l’uomo ha invece un’anima, o meglio l’unica cosa che meriti di essere chiamata con questo nome, cioè il pensiero o la coscienza. Per questo, per evitare confusioni con l’anima della tradizione aristotelica, Cartesio preferisce adoperare il termine «mente», o «spirito» – come viene detto esplicitamente nella risposta che il filosofo dà a uno dei suoi critici, Pierre Gassendi. IV. L’oscurità che voi [scilicet: Gassendi] trovate qui è fondata sull’equivoco della parola anima; ma io l’ho tante volte nettamente illuminata, che mi vergogno a tornarci su. Ecco perché dirò solamente che i nomi sono stati d’ordinario imposti da persone ignoranti, il che fa sì che essi non convengano sempre con molta precisione alle cose significate […]. Così, poiché, forse, i primi autori dei nomi non hanno distinto in noi quel principio, in forza del quale ci nutriamo, cresciamo e facciamo, senza il pensiero, tutte le altre funzioni che ci sono comuni con le bestie, da quello, in forza del quale pensiamo, essi han chiamato l’uno e l’altro col solo nome di anima; e vedendo dopo che il pensiero era differente dalla nutrizione, han chiamato con nome di spirito [mens] quella cosa che in noi ha la facoltà di pensare, ed hanno creduto che fosse la 189

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principale parte dell’anima. Ma io, osservando che il principio in forza del quale ci nutriamo, è interamente distinto da quello in forza del quale pensiamo, ho detto che il nome di anima, quando è preso insieme per l’uno e per l’altro, è equivoco e che, per prenderlo precisamente per «l’atto primitivo [actus primus]» o «forma principale dell’uomo [praecipua hominis forma]», dev’essere inteso solamente di quel principio, in forza del quale pensiamo: così l’ho il più delle volte chiamato col nome di spirito [mens] per togliere quell’equivoco di ambiguità. Poiché non considero lo spirito come una parte dell’anima ma come quell’anima tutta quanta che pensa. Interazione reciproca tra mente e corpo

Come spiegare l’interazione tra mente e corpo?

Il ruolo della ghiandola pineale

Dualismo cartesiano e libero arbitrio

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L’affermazione cartesiana di un dualismo sostanziale tra mente e corpo non equivale affatto, però, al disconoscimento dei reciproci rapporti tra le due dimensioni che contraddistinguono l’uomo: l’unico essere che nella prospettiva cartesiana è caratterizzato dalla compresenza di due sostanze così eterogenee. Cartesio concepisce sì il pensiero come una sostanza immateriale indipendente e in linea di principio separabile dalla dimensione corporea, ma al tempo stesso ammette come un fatto che ci si presenta quotidianamente «con certissima e evidentissima esperienza» l’unione che lega mente e corpo nell’uomo prima della morte, in un nesso di interazione reciproca: noi sperimentiamo continuamente la forza che la mente ha di muovere il corpo – la mia volontà di alzare un piede provoca, per esempio, il movimento del piede verso l’alto – e quella che il corpo ha di agire sulla mente, causando i suoi sentimenti e le sue sensazioni, come avviene nel caso in cui la mia mano si scotta e provo una sensazione di dolore. Questa interazione tra mente e corpo è per Cartesio espressione di un’unione più stretta di quella che esiste tra un pilota e la sua nave, per cui non è appropriato dire che la mente dirige il corpo come il primo guida la seconda: il pilota che vede una falla nella sua nave non ne è, infatti, consapevole in modo immediato e diretto come noi sappiamo, attraverso il dolore, che il nostro corpo è ferito. La spiegazione di questa interazione, ammessa da Cartesio come un fatto evidente e incontrovertibile, risulta però fortemente problematica, una volta presupposto il dualismo sostanziale di mente e corpo: se il corpo umano è res extensa – i cui movimenti sono spiegabili in termini meccanicistici, come pura azione e reazione –, come è possibile che un moto meccanico corporeo produca una modificazione o passione nella res cogitans, che non è sottoposta alle leggi meccaniche? E, viceversa, com’è possibile che un moto volontario della mente produca una modificazione nel corpo, sottostante in maniera necessaria alle leggi meccaniche? Cartesio torna più volte sulla questione, ritenendo di potere indicare una soluzione ricorrendo all’ipotesi della ghiandola pineale, cioè l’epifisi (situata nel cervello): attraverso quest’ultima gli «spiriti» – particelle sottili di materia, veicoli di movimento nei nervi – farebbero avvertire alla mente i moti corporei stimolando in essa le sensazioni corrispondenti, che solo la mente è capace di avere; sempre per mezzo della ghiandola pineale la mente metterebbe in movimento gli «spiriti» che producono i moti corporei. La soluzione cartesiana risultò poco soddisfacente già per molti contemporanei e indubbiamente la fisiologia cartesiana è oggi poco più che una curiosità storica. Nonostante ciò, il dualismo cartesiano presenta un indubbio vantaggio, che ne ha favorito la ripresa, anche in tempi recenti: il vantaggio di rendere possibile la fondazione del libero arbitrio. Si può, infatti, sostenere che gli uomini sono ca-

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo?

paci con i loro liberi atti di volontà di deviare in certi punti il corso del mondo – quale è determinato dalle leggi di natura – solo se si parte dal presupposto dualistico che la mente sia una sostanza immateriale distinta dal corpo e, in quanto tale, in grado di sottrarsi alle leggi della fisica. Dunque, prendendo radicalmente le distanze dalla concezione aristotelica dell’anima, Cartesio sostiene che l’anima (o, per usare un termine meno ambiguo, la mente) è una sostanza distinta dal corpo e autonoma rispetto ad esso. Questa tesi è, a suo avviso, del tutto compatibile con il fatto – evidente – che tra le due sostanze ci sono uno stretto legame e un’interazione reciproca.

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Risposte monistiche Monismo materialista

Hobbes nega che ci sia una sostanza incorporea

L’errore di Cartesio

Gli eventi mentali sono meccanismi fisici

Il dualismo cartesiano tra anima e corpo divise i contemporanei e i successori di Cartesio. Esso fu completamente rifiutato dai fautori di monismi di segno opposto – materialistico o spiritualistico –, che negarono rispettivamente l’esistenza di una «sostanza immateriale» o della «sostanza corporea». Espressione paradigmatica del monismo materialistico moderno – basato sulla nuova scienza della natura fondata da Galileo – è la filosofia di Hobbes. Muovendo dall’assunto che esistano solo corpi, Hobbes vede nella «sostanza immateriale» (qual è, secondo Cartesio, il pensiero) una contraddizione in termini: il riferimento a una sostanza incorporea è privo di senso, perché «sostanza» vuol dire «corpo» e, quindi, parlare di una sostanza immateriale o incorporea equivale all’assurdo di parlare di un «corpo incorporeo». Partendo da questi presupposti, nel primo gruppo delle Terze obiezioni alle Meditazioni metafisiche di Cartesio, Hobbes critica aspramente la pretesa cartesiana di dedurre dal «cogito» l’esistenza di una sostanza pensante sussistente in maniera indipendente e distinta rispetto alla sostanza corporea: dall’affermazione «io penso», ossia «io sono pensante» – egli argomenta –, si può certo dedurre che esisto, ma non che sono pensiero, nel senso cartesiano di «intelletto incorporeo». Non vi è, infatti, nessuna ragione logica per escludere che il soggetto di quell’atto del pensiero – soggetto che è distinto dall’atto che compie – sia qualcosa di corporeo, come sostiene Hobbes: a suo avviso, il pensare non è altro che una proprietà del mio corpo, e niente affatto una sostanza a sé stante (vedi Unità 6, p. 342, T3). Nella prospettiva hobbesiana, dunque, l’anima umana è materiale e tutti i suoi atti – dalle percezioni sensoriali sino alle rappresentazioni intellettuali e alle decisioni volontarie – non sono che movimenti, prodotti dai movimenti dei corpi esterni secondo le leggi del meccanicismo che regola l’intera natura. Anche Cartesio aveva descritto le sensazioni e le percezioni come un meccanismo regolato da leggi necessarie. A prescindere dal comune meccanicismo, tra i due pensatori vi è però una grande differenza nel modo di concepire il rapporto tra anima e corpo. Mentre nella teoria cartesiana – fondata sul presupposto del dualismo sostanziale tra res cogitans e res extensa – il meccanismo delle percezioni corporee è la causa, attraverso la ghiandola pineale, di un evento mentale che accade in 191

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La Mettrie: gli esseri umani sono semplici macchine

Anima e corpo hanno la stessa natura

T2

La coscienza non distingue in maniera sostanziale uomini e animali J.O. de La Mettrie, L’uomo macchina

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una sostanza distinta e indipendente rispetto al corpo, per Hobbes l’evento mentale non è nulla di diverso dal meccanismo fisico, bensì si riduce ad esso. Per questo motivo, Hobbes può essere considerato come il primo sostenitore, nella storia del pensiero filosofico moderno, di quella che oggi viene chiamata «teoria dell’identità tra ‘mente e cervello’», alternativa rispetto al dualismo cartesiano. Il monismo materialistico giunge al suo esito più radicale ed estremo – secondo un percorso non lineare – in alcuni esponenti del pensiero illuministico, come d’Holbach (1723-1789) e La Mettrie (1709-1751). Nella sua celebre opera L’uomo macchina, pubblicata nel 1748, quest’ultimo estende all’uomo la dottrina cartesiana secondo la quale gli animali sono dei meccanismi privi di coscienza, giungendo così a conclusioni opposte rispetto al dualismo cartesiano. Cartesio aveva concepito sì il corpo umano come una macchina, alla quale però si aggiunge e si fonde la mente, intesa come sostanza immateriale e cosciente. Partendo dalla constatazione delle numerose somiglianze esistenti tra il comportamento degli animali – che sono semplici macchine – e quello degli uomini, La Mettrie sostiene invece che nulla ci autorizza a negare ad essi la coscienza: ma se si ammette – come La Mettrie – che delle macchine come gli animali possano essere coscienti, allora il fatto di essere pensante e cosciente non può più essere addotto, come aveva fatto Cartesio, a prova dell’esistenza, nell’uomo, di una sostanza irriducibile al meccanismo materiale. Certo, La Mettrie riconosce che negli esseri umani vi sono alcune funzioni – come il pensiero e la coscienza morale – assenti nelle creature animali; egli ritiene, però, che la loro presenza sia perfettamente spiegabile in virtù del maggiore grado di complessità dell’organizzazione della materia cerebrale: non è affatto necessario ricorrere all’ipotesi di una differenza sostanziale tra le rispettive nature e, più in generale, tra anima e corpo. Il pensiero non è che una modificazione della materia e l’affermazione che gli esseri umani sono macchine così come lo sono gli animali è del tutto compatibile con il riconoscimento della loro capacità di pensare e di distinguere ciò che, dal punto di vista morale, è bene da ciò che è male. È vero che quel celebre filosofo [scilicet: Descartes] ha commesso molti sbagli, e nessuno lo nega: ma in fin dei conti ha conosciuto la natura animale, e per primo ha dimostrato perfettamente che gli animali erano delle pure macchine. […] in fin dei conti, sebbene egli faccia della retorica intorno alla distinzione delle due sostanze, è evidente che non è che una furberia, un’astuzia stilistica, per far sorbire ai teologi un veleno nascosto all’ombra di un’analogia che colpisce tutti e che i soli teologi non vedono. Perché è essa, è tale forte analogia, che spinge tutti gli scienziati e i competenti ad ammettere che quegli esseri fieri e vani, che si distinguono più per la loro presunzione che per il nome di uomini, per quanto desiderio abbiano di innalzarsi, in fondo non sono altro che degli animali e delle macchine che si muovono stando in posizione verticale. Tutti hanno quel meraviglioso istinto che, una volta educato, produce l’intelligenza, la quale ha sempre sede nel cervello […]. Essere macchina, sentire, pensare, saper distinguere il bene dal male come il blu dal giallo, in una parola, essere nato con un’intelligenza e con un sicuro istinto morale, e tuttavia non essere che un animale, sono dunque cose fra le quali non c’è contraddizione maggiore che fra l’essere una scimmia o un pappagallo e saper godere di piacere.

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo? Berkeley: esistono solo sostanze spirituali

Sul versante opposto rispetto al monismo materialistico si colloca il monismo spiritualistico, la cui espressione più radicale è costituita, in epoca moderna, dal pensiero di George Berkeley (1685-1753), che sviluppa in maniera paradossale l’empirismo anti-metafisico di Locke, fino a giungere alla negazione di ogni realtà materiale extra-mentale. Immaterialismo radicale che implica la falsità non solo del suo opposto, cioè del materialismo, ma anche del dualismo cartesiano: per Berkeley, infatti, non esistono sostanze materiali accanto a quelle spirituali, ma solo sostanze spirituali.

Monismo neutrale e dualismo degli attributi in Spinoza

C’è una sola sostanza: il Dio-Natura

Mente e corpo sono modi finiti di due attributi di Dio

Tra corpo e mente non c’è interazione causale

Corrispondenza tra stati mentali e corporei

Un caso a parte è costituito dal monismo sostenuto da Spinoza, che si distingue sia da quello materialistico, sia da quello spiritualistico per il suo carattere neutrale. Secondo l’ontologia spinoziana, se per «Sostanza» si intende ciò che sussiste e può essere concepito indipendentemente da qualsiasi altra cosa, non può che esservi una sola Sostanza, cioè il Dio-Natura; soltanto quest’ultimo esiste unicamente in virtù della sua stessa essenza, mentre tutte le altre cose non sono che sue determinazioni particolari o, meglio, suoi «modi», che dipendono da Lui e sono in Lui. Quest’unica Sostanza non ha né carattere esclusivamente spirituale, né carattere esclusivamente corporeo: la sua essenza è costituita da infiniti attributi, tra i quali rientrano sia il pensiero, sia l’estensione (cioè lo spazio, coincidente con la materia della fisica cartesiana, data l’inesistenza del vuoto); essi sono gli unici attributi conoscibili dall’uomo, in quanto essere finito costituito da una mente e da un corpo, che sono modi finiti rispettivamente del pensiero e dell’estensione infinita di Dio. Pur negando, in esplicita polemica con Cartesio, un dualismo sostanziale tra res cogitans e res extensa – a favore di un monismo neutrale della sostanza –, Spinoza ammette, dunque, un dualismo degli attributi: estensione e pensiero sono due attributi differenti dell’unica Sostanza assolutamente infinita – cioè il Dio-Natura –, ciascuno dei quali esprime per intero l’essenza infinita di Dio stesso, mentre le menti e i corpi sono modi finiti dell’estensione e del pensiero. Partendo da queste premesse ontologiche, Spinoza concepisce il rapporto tra mente e corpo secondo la teoria della simultaneità e coincidenza tra «l’ordine delle azioni e passioni corporee» e «l’ordine delle azioni e passioni della mente». Da un lato, Spinoza rifiuta in maniera decisa tutte le dottrine che affermano la possibilità di un’influenza reciproca tra la mente e il corpo – e, in particolare, la teoria cartesiana della ghiandola pineale –, in quanto nega la possibilità di un’azione causale tra modi di attributi diversi quali sono il pensiero e l’estensione: a ciascuno degli attributi corrisponde una serie infinita di modi finiti, derivante da Dio secondo un ordine necessario retto dal principio di causalità, senza però che nessun termine di una delle due serie possa incidere su quelli dell’altra. Quindi non è possibile che la mente agisca sul corpo, né è possibile il contrario. Dall’altro lato, il monismo neutrale della Sostanza consente a Spinoza di affermare una corrispondenza necessaria tra l’ordine delle idee e l’ordine delle cose e, di conseguenza, tra stati mentali e modificazioni corporee: essendo il Dio193

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Natura sia la totalità delle idee sia la totalità delle cose, in Esso non può esistere un’idea che non sia idea di qualcosa, così come non può esistere un corpo senza che di questo vi sia un’idea. L’anima, o meglio la mente, per Spinoza non è appunto nient’altro che l’idea di un dato corpo, che in Dio deve necessariamente esistere, se vi è quel corpo: in virtù della corrispondenza necessaria tra ordine delle idee e ordine delle cose, ogniqualvolta avviene un mutamento in un corpo vi deve sempre essere anche un’idea del mutamento stesso, cioè una modificazione degli stati mentali. Simultaneità tra vita Pur non essendovi nessuna interazione causale tra mente e corpo, tutto ciò che mentale e vita corporea penso, percepisco o voglio va dunque di pari passo – o, meglio, procede in maniera simultanea – con ciò che accade nel mio corpo, secondo una sorta di parallelismo: e questo perché vita psichica e vita corporea sono espressioni di un’unica Sostanza, entrambe rette, al proprio interno, dalla legge di quest’ultima, cioè dal principio di determinazione causale. È in questo senso che per Spinoza le decisioni della mente e le determinazioni del corpo sono la stessa cosa, semplicemente considerata sotto due dimensioni diverse (pensiero ed estensione).

T3

La simultaneità tra stati mentali e corporei B. Spinoza, Etica, 3, prop. 2, Scolio

Spinoza non riduce la mente al corpo

Anima e corpo sono inseparabili

Il corpo ha la stessa dignità della mente

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[…] la mente e il corpo sono una sola e medesima cosa, che viene concepita ora sotto l’attributo del pensiero ora sotto l’attributo della estensione. Onde viene che l’ordine o concatenazione delle cose è lo stesso, sia che la natura venga concepita sotto questo aspetto sia sotto quell’attributo; e conseguentemente anche che l’ordine delle azioni e passioni del nostro corpo è per natura simultaneo all’ordine delle azioni e passioni della mente […]. La teoria spinoziana della simultaneità e coincidenza tra stati mentali e modificazioni corporee non va confusa con la riduzione materialistica dei primi alle seconde. Spinoza non ritiene affatto che la mente sia un semplice organo corporeo, come il cervello; affermando la coincidenza tra i due termini, egli vuole piuttosto dire che, in virtù del monismo neutrale della Sostanza, la mente occupa nella catena logica delle idee lo stesso posto che il corpo occupa nella catena causale dei modi dell’estensione. Tuttavia, anche la concezione spinoziana – non meno di quella materialistica – si pone in netta rottura rispetto alla tradizione di pensiero cristiana che, fino a Cartesio, aveva concepito l’anima come entità indipendente dal corpo e da esso separabile, in grado di dirigere e guidare i movimenti corporei. Per Spinoza l’anima non è né forma sostanziale (forma del corpo, come sostiene l’ilemorfismo), né sostanza (come afferma Cartesio), bensì semplicemente un modo di questa, al pari del corpo, dal quale è inseparabile – in quanto non è altro che «idea di un corpo» – e sul quale non può esercitare alcun dominio o influenza, in base a quanto si è detto. Oltre a negare come assurda e inspiegabile la possibilità dell’interazione tra anima e corpo – a favore della teoria della simultaneità e del parallelismo tra stati mentali e modificazioni corporee –, Spinoza rigetta ogni forma di subordinazione gerarchica del corpo rispetto all’anima, muovendo dal presupposto che il materiale e lo spirituale, in quanto espressioni dell’unica Sostanza (il Dio-Natura), abbiano pari dignità. Oltre alla rivalutazione della corporeità, il monismo materialistico e quello neutrale di Spinoza presentano ulteriori punti comuni.

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo? Il libero arbitrio è un’illusione

Ogni modo finito è determinato dalla legge di causalità

Tutti gli esseri viventi hanno una mente

L’anima non è principio di vita

Dio come unica sostanza e parallelismo tra anima e corpo

4 Teorie che negano l’interazione tra mente e corpo

In primo luogo, nell’ambito di entrambe le dottrine viene meno ogni spazio per il libero arbitrio (cioè per la libertà della volontà umana). Non a caso, sia Hobbes sia Spinoza criticano aspramente la concezione della libertà come arbitrio (cioè come facoltà di scelta), sia pure partendo da prospettive differenti. La riduzione materialistica degli eventi mentali a modificazioni corporee induce Hobbes a ritenere che la volontà umana non si sottragga affatto al determinismo universale (per cui ogni cosa e ogni evento hanno necessariamente una causa). Per Spinoza, il libero arbitrio – e soprattutto la convinzione di potere dirigere i propri movimenti corporei in base ad esso – è una mera illusione, derivante dall’ignoranza delle cause efficienti delle proprie azioni e decisioni: ogni modo finito – sia del pensiero, sia dell’estensione – esiste e agisce in quanto è determinato a esistere e ad agire in maniera necessaria da un altro modo finito secondo la legge di causalità; di conseguenza, nemmeno la mente, in quanto modo finito del pensiero, è libera. Al contrario, in ogni suo stato essa è determinata in maniera necessaria da quello precedente, secondo un regresso all’infinito. In secondo luogo, anche in Spinoza viene a ridursi sensibilmente la distanza tra gli uomini e gli altri esseri viventi, come si è visto accadere nel caso di La Mettrie. In quanto idea di un dato corpo, l’anima non è, infatti, neanche per Spinoza una prerogativa esclusivamente umana: in Dio c’è necessariamente un’idea di qualsiasi cosa; dato che il Dio-Natura spinoziano è immanente, e non una sostanza separata dal mondo, l’idea che è in Lui è anche nelle cose. Di conseguenza, in ogni cosa vi è un’idea del proprio corpo, cioè una «mente». Questa mente o anima che Spinoza attribuisce a tutti gli esseri viventi – in quanto modo finito del pensiero, determinato in maniera meccanica dal principio di causalità – è molto più vicina alla macchina del materialismo moderno che all’ineffabile e spontaneo principio di vita teorizzato dall’animismo rinascimentale (concezione secondo la quale l’intera natura è retta da forze vitali e spirituali, da un’anima): nell’ontologia spinoziana, l’anima non è, infatti, principio della vita più di quanto lo sia il corpo, dal momento che entrambi sono mossi dal conatus, cioè dalla tendenza all’autoconservazione. La posizione di Spinoza sul problema del rapporto tra anima (o mente) e corpo è, così, un’originale alternativa tanto al monismo materialistico di Hobbes e di La Mettrie, quanto al monismo spiritualistico di Berkeley: esiste un’unica sostanza – Dio –, che non è solo corporea, né solo spirituale. Spinoza sostiene inoltre che tra l’anima, o la mente, e il corpo non c’è un rapporto di interazione reciproca, come sosteneva Cartesio, ma di simultaneità; e pur rifiutando la riduzione (caratteristica del materialismo) della sfera mentale a quella corporea, è d’accordo con Hobbes nel sostenere che la volontà umana non è libera e con La Mettrie nel concepire l’anima come prerogativa non esclusivamente umana.

Dio, anima e corpo Nel corso del Seicento e del Settecento vengono elaborate diverse teorie che, essendo fondate sulla negazione della possibilità di interazione reciproca tra mente o anima e corpo, possono apparire vicine al parallelismo spinoziano, dal quale però sono profondamente distanti. Esse sono infatti basate sulla tradizionale concezione cristiana di Dio come puro spirito che di fatto, come si è appena vi195

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’occasionalismo e l’identità di causa e creazione

L’unica causa di tutto è Dio: le cause degli eventi sono «occasioni» del suo intervento

Tesi comune agli occasionalisti e a Leibniz

Leibniz rifiuta l’occasionalismo perché contraddice la perfezione di Dio

L’armonia prestabilita

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sto, Spinoza rifiuta, sostenendo un monismo neutrale della Sostanza: la Sostanza, cioè il Dio-Natura, non ha un carattere puramente spirituale (così come non è esclusivamente corporea). Tra queste teorie va ricordato innanzitutto l’orientamento chiamato «occasionalismo», che trova i suoi rappresentanti più significativi in Arnold Geulincx (16241669) e Malebranche (vedi Unità 4, p. 203 e 211). A prescindere dalle differenze, anche sensibili, tra i vari esponenti dell’occasionalismo, essi affrontano la questione del rapporto tra anima e corpo muovendo da un presupposto comune. Questo consiste nella negazione dell’efficacia causale delle cose create, perché solo Dio agisce veramente: secondo l’osservazione formulata per la prima volta da Geulincx – sulla base di spunti cartesiani –, è impossibile fare qualcosa senza sapere come la cosa in questione venga prodotta, e dunque solo Dio è causa vera di tutto ciò che accade, nella misura in cui solo Dio sa come un evento si produce; o più semplicemente, come argomenta Malebranche, causare equivale a creare, e la capacità di creare appartiene solo a Dio. Partendo dall’accettazione del dualismo cartesiano di res cogitans e res extensa e dalla negazione dell’efficacia causale delle cause seconde, gli occasionalisti rifiutano la possibilità di un’azione causale tra mente e corpo e affermano piuttosto la radicale dipendenza dell’una e dell’altro da Dio: né il corpo agisce sull’anima, né questa sul corpo; la concomitanza di modificazioni nel corpo e nell’anima, che riscontriamo nella vita quotidiana, è spiegabile esclusivamente risalendo a Dio, vera «causa» di tutto. È Dio che, «in occasione» di un certo stato del mio corpo – come una lacerazione della pelle –, produce la sensazione corrispondente, che nell’esempio addotto è il dolore; o viceversa, in occasione di un mio atto di volontà, come l’intenzione di sollevare un piede, provoca nel corpo un movimento adeguato. Dunque, quelle che a noi sembrano cause di certi eventi sono, in realtà, «occasioni» dell’intervento di Dio. Leibniz condivide con gli occasionalisti il rifiuto dell’interazionismo cartesiano: nell’orizzonte della metafisica leibniziana, infatti, la monade, sostanza che costituisce gli «spiriti» o le «anime ragionevoli», e le monadi che appaiono come «corpo» – cioè quelle che hanno percezioni oscure – sono tra loro completamente indipendenti, così come ogni monade rispetto a tutte le altre. Scartata l’ipotesi cartesiana dell’interazione reciproca tra anima e corpo, anche Leibniz ritiene che la corrispondenza tra stati mentali e corporei debba essere ricondotta a Dio. Tuttavia, egli prende espressamente le distanze dalla soluzione elaborata dagli occasionalisti riguardo al rapporto tra spirito e corpo, che – nella versione che ebbe maggiore diffusione, cioè in quella di Malebranche – presuppone un continuo intervento di Dio per produrre, in occasione del movimento del corpo, un moto dell’anima, e viceversa: una simile spiegazione equivale per Leibniz all’ipotesi di un miracolo continuo. Tale ipotesi, oltre a essere assurda e antieconomica, contraddice la perfezione di Dio. Presumere che Dio debba intervenire in ogni istante per far concordare stati mentali e stati corporei equivale a ipotizzare che la sua creazione sia così imperfetta da richiedere di continuo aggiustamenti e riparazioni, ovvero degradare Dio al livello di un ‘abile operaio’ che, per far concordare due orologi cattivi, è costretto a regolarli in ogni momento. All’interazionismo e all’occasionalismo Leibniz contrappone una teoria che con-

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo?

sidera la corrispondenza tra stati mentali e stati corporei come caso particolare dell’universale armonia prestabilita, cioè dell’armonia voluta da Dio all’atto della creazione; essa fa sì che tutte le monadi, pur essendo atomi (o sostanze individuali) spirituali tra i quali non c’è alcuna interazione, possano costituire un mondo perfettamente coerente. Armonia tra vita Così intesa, la coincidenza tra le fasi dell’evoluzione dell’anima e quelle dell’ecorporea e vita psichica voluzione del corpo non risulta né frutto di un’azione reciproca, né effetto di un continuo intervento di Dio, bensì semplicemente la conseguenza di un ‘artificio divino preventivo’, in virtù del quale vita corporea e vita psichica sono state regolate originariamente e in anticipo – una volta per tutte – in modo da concordare per l’eternità. Dio abile orologiaio In questa spiegazione, che per Leibniz è l’unica degna della perfezione divina, Dio è dunque concepito come un abilissimo orologiaio, che abbia costruito due orologi in modo così perfetto che essi, funzionando ciascuno per proprio conto, segnino sempre e infallibilmente la stessa ora.

T4

Anima e corpo: due orologi ben costruiti

G.W. Leibniz, Chiarimenti sulle difficoltà che il sign. Bayle ha trovato nel «Nuovo sistema dell’unione dell’anima e del corpo»

Ho già detto che si possono ipotizzare tre sistemi per spiegare la relazione tra l’anima ed il corpo, e cioè: 1) il sistema dell’influsso dell’uno sull’altro, che è quello seguito nelle scuole e che, nel senso in cui comunemente viene inteso, io, come i cartesiani [gli occasionalisti], ritengo impossibile; 2) il sistema di un sorvegliante perpetuo che rappresenti nell’uno ciò che accade nell’altro, press’a poco come se un uomo fosse incaricato di accordare continuamente due orologi mal costruiti ed incapaci di accordarsi, e 3) il sistema dell’accordo naturale delle sostanze, quale sarebbe quello di due orologi ben costruiti: sistema che io ritengo possibile quanto quello del sorvegliante e più degno dell’Autore di queste sostanze, orologi ed automi. Si è dunque visto che se gli occasionalisti accettano la tesi cartesiana della distinzione tra anima o mente e corpo, negano però che ci sia tra essi un rapporto di interazione reciproca. Anche Leibniz lo nega, ma mette in discussione la spiegazione occasionalistica della relazione tra l’anima e il corpo e propone la teoria dell’armonia prestabilita, che considera migliore dell’occasionalismo dal punto di vista teorico e assai più adeguata alla perfezione divina.

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Verso una soluzione anti-metafisica

Al di là delle differenze illustrate, le soluzioni del problema del rapporto animacorpo finora prese in esame sono accomunate dall’impostazione metafisica, secondo la quale la questione può essere affrontata solo a partire da una definizione preliminare della natura ontologica dell’anima. In conclusione del presente percorso, occorre almeno accennare a un approccio completamente diverso, destinato ad avere molta fortuna nei secoli successivi: la soluzione anti-metafisica del problema anima-corpo alla quale approda John Locke, partendo dalla critica del concetto aristotelico di sostanza. Locke La tesi lockiana della inconoscibilità della sostanza – tesi fondata sull’assunto e l’inconoscibilità empiristico che gli uomini possano conoscere solo le proprietà degli oggetti riledella sostanza vabili attraverso i sensi – vale anche a proposito delle sostanze corporee e spiriUn nuovo modo di affrontare il problema anima-corpo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Delle sostanze possiamo dire solo che esistono

L’«io» non è una sostanza pensante

L’identità personale è conoscibile

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L’io non è una sostanza spirituale

J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, 2,27, par. 12

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tuali: come l’idea di sostanza in generale non è altro che il frutto della supposizione, indimostrata e indimostrabile, che esistano sostegni dei gruppi di proprietà di cui osserviamo ripetutamente la compresenza, allo stesso modo l’idea di uno spirito è semplicemente l’idea di un sostrato comune alle attività mentali di una certa persona. Locke non pone in discussione l’esistenza né della sostanza corporea né di quella spirituale: al contrario, egli ritiene che mediante la sensazione possiamo inferire con certezza l’esistenza di corpi esterni che ne sono la causa, e mediante la riflessione possiamo concludere con altrettanta certezza di esistere come esseri pensanti. Dunque, esistono sia le sostanze corporee, sia quelle spirituali. Tuttavia, per Locke di queste sostanze non possiamo affermare nient’altro, se non che esistono: la loro costituzione interna o la loro maniera di agire ci è ignota ed è destinata a restare tale, in quanto il nostro intelletto può conoscere solo il materiale che gli è offerto dall’esperienza. Di conseguenza, non possiamo sapere se l’anima sia materiale o meno, a differenza di quanto sosteneva Cartesio: la nostra ignoranza in proposito è tale che non siamo neanche in grado né di negare né di affermare la compresenza di materia e di pensiero, cioè l’esistenza di una materia pensante (vedi Unità 6, T9, p. 332). Dichiarato insolubile il problema del rapporto metafisico tra anima e corpo, Locke imposta la questione in modo differente: se non ha senso interrogarsi sulla natura (spirituale o materiale) dell’anima – trattandosi di un interrogativo al quale è impossibile offrire una risposta –, occorre piuttosto indagare le leggi empiriche che regolano i meccanismi di associazione tra stati mentali. Una simile indagine è l’unica dalla quale il filosofo possa attendere qualche chiarimento a proposito del concetto di «io» o «persona», che Locke non concepisce più – alla maniera di Cartesio – come sostanza o cosa pensante, bensì, sia pure in modo embrionale, come relazione tra stati mentali. L’anima come sostanza spirituale è inconoscibile, ma questo non pregiudica la conoscenza dell’io o dell’identità personale. Ciò dipende dal fatto che, nella prospettiva lockiana, quest’ultima non consiste nel permanere di una identica sostanza spirituale – al di sotto dei cambiamenti dei miei stati mentali –, ma piuttosto nella continuità del flusso dei ricordi; «io» sono il legame tra tutte quelle azioni e tutti quei pensieri che, in virtù del ricordo e della coscienza (ossia della riflessione su me stesso), riconosco come miei. Ad avviso di Locke non ha importanza stabilire se ciò che fa sì che una persona rimanga la stessa persona nel corso del tempo sia una sola sostanza o sia, invece, una successione di sostanze diverse. Nel secondo caso come nel primo, infatti, l’identità della persona dipende dalla sua coscienza, che rimane la stessa. […] la domanda è: che cosa costituisce la stessa persona; non se si tratta della stessa identica sostanza che pensa sempre nella stessa persona, il che, in questo caso, non importa proprio niente. Infatti sostanze diverse sono unite da una medesima coscienza (là dove partecipano di essa) in una persona sola, come corpi diversi sono uniti da una medesima vita in un animale solo, la cui identità è conservata in quel cambiamento di sostanze dall’unità di una sola vita continua. Poiché è la stessa coscienza che fa sì che un uomo sia se stesso per se stesso, l’identità personale dipende proprio e solamente da questa, sia essa connessa a una sostanza individuale sia che possa continuarsi in una successione di varie sostanze. Infatti, nella misura in cui un essere intelligente può ripetere l’idea di

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Percorso tematico Che rapporto c’è tra anima e corpo?

un’azione passata con la stessa coscienza che ne aveva in principio e con la stessa coscienza che ha adesso di qualsiasi azione presente, in questa misura si tratta dello stesso io personale. Giacché solo per mezzo della coscienza che ha dei propri pensieri e azioni presenti, l’io è ora un io per se stesso, e così sarà lo stesso finché la stessa coscienza può estendersi ad azioni passate o a venire. E la distanza di tempo e il cambiamento di sostanze non ne farebbero due persone più di quanto un uomo diventerebbe due uomini portando oggi vestiti diversi da quelli che portava ieri […]. Come si è visto nel corso di queste pagine, alla questione del rapporto tra anima e corpo sono state date risposte molto diverse. C’è però un elemento comune alle soluzioni proposte da Cartesio, dai sostenitori del monismo materialistico (tra cui Hobbes e La Mettrie), da Berkeley (che difende il monismo spiritualistico), da Spinoza (che sostiene una forma neutrale di monismo), dagli occasionalisti e da Leibniz: il problema viene affrontato sulla base di un’indagine sulla natura della sostanza. L’originalità della riflessione di Locke su questo tema non consiste nel tipo di soluzione che viene elaborata – soluzione che, ad avviso del filosofo inglese, non esiste –, ma, piuttosto, nel modo di affrontarlo.

I brani antologizzati sono tratti da: R. Cartesio, Risposte alle quinte obiezioni, 4, in Id., Meditazioni metafisiche, in Id., Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Laterza, Roma-Bari 1992, vol. 2, p. 343. J.O. de La Mettrie, L’uomo macchina, a cura di G. Preti, SE, Milano 1990, p. 64. B. Spinoza, Ethica, trad. di S. Giametta, Bollati Boringhieri, Torino 1992. G.W. Leibniz, Chiarimenti sulle difficoltà che il sign. Bayle ha trovato nel «Nuovo sistema dell’unione dell’anima e del corpo», in Id., Scritti filosofici, vol. 1, a cura di D.O. Bianca, UTET, Torino 1967, pp. 212-213. J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, a cura di M. e N. Abbagnano, UTET, Torino 1971, libro 2, cap. 27, par. 12, pp. 395-396.

Questionario 1

Quale ruolo ha l’ipotesi della ghiandola pineale nella concezione cartesiana del rapporto tra anima e corpo? (max 4 righe)

3

Come viene argomentata da Spinoza la tesi secondo la quale tra la mente e il corpo non c’è interazione reciproca? (max 6 righe)

2

Perché Hobbes considera contraddittoria la nozione di sostanza immateriale? (max 3 righe)

4

Quali sono le ragioni dell’insoddisfazione di Leibniz nei confronti della spiegazione data dagli occasionalisti del rapporto tra anima e corpo? (max 7 righe) 199

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Unità 4 L’età cartesiana

1. Razionalismo cartesiano e sapere erudito 1. Il dibattito sulla filosofia cartesiana 2. L’erudizione 3. Gli antichi, i moderni, la tradizione

2. In dialogo con Cartesio: Gassendi e Arnauld 1. Gassendi: atomismo ed empirismo 2. Arnauld: razionalismo e difesa della religione

3. L’ordine metafisico: Malebranche 1. 2. 3. 4.

La teoria delle idee e l’occasionalismo La critica dell’erudizione Il rapporto tra fede e ragione L’agire divino: la metafisica dell’ordine e la semplicità delle vie 5. Il problema del male

4. L’ordine del cuore: Pascal 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7.

Pascal e la scienza moderna I limiti della ragione La ragione e il cuore: geometria e finezza La duplicità dell’uomo: grandezza e miseria Il dio nascosto La scommessa La morale e la polemica con i gesuiti

5. Critica della tradizione e teodicea: Bayle 1. La critica della superstizione e dell’idolatria 2. La tolleranza 3. Il problema del male e la critica della teodicea

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Razionalismo cartesiano e sapere erudito

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Le due sfide dell’età cartesiana

1 Gli interlocutori di Cartesio nelle Meditazioni

Cartesiani e anticartesiani

Aristotelici e agostiniani di fronte a Cartesio

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La filosofia della seconda metà del XVII secolo si trova a dover rispondere a due sfide. Da un lato, si pone il problema dell’inevitabile confronto con la filosofia di Cartesio, ossia con una metafisica razionalistica che mette al centro del proprio orizzonte la conoscenza e il metodo razionale. Dall’altro lato, si sviluppa enormemente un sapere erudito che ha importanti riflessi nella cultura filosofica: è bene ricordare quest’aspetto, per non aderire con troppa facilità a un’immagine del pensiero del Seicento che lo identifichi come l’epoca della metafisica razionalistica. Razionalismo cartesiano ed erudizione costituiscono quindi i due grandi temi di questi decenni, con frequenti sovrapposizioni.

Il dibattito sulla filosofia cartesiana Il dialogo con Cartesio inizia prima dell’uscita delle sue Meditazioni metafisiche: è Cartesio stesso, infatti, che pubblica le obiezioni di alcuni importanti personaggi della cultura filosofica contemporanea, a cui è stato dato in lettura il manoscritto, seguite dalle proprie risposte. Oltre a filosofi di prima grandezza come Thomas Hobbes, tra gli interlocutori di Cartesio compaiono personaggi importanti della riflessione filosofica seicentesca come Pierre Gassendi (vedi p. 206 ss.), che si muove alla ricerca di un’impostazione propria per affrontare i grandi temi della scienza moderna e concepisce una teoria meccanicistica alternativa sia a quella di Cartesio sia a quella del filosofo inglese, e Antoine Arnauld (vedi p. 208 ss.), il protagonista più rappresentativo, con Blaise Pascal (vedi p. 214 ss.), della cultura sviluppata nell’abbazia di Port-Royal, e autore con Pierre Nicole (1625-1695) di una Logica che ha un’enorme influenza fino a tutto il Settecento. Lo scontro tra cartesiani e anticartesiani costituisce un aspetto centrale della filosofia del Seicento, con alleanze consapevoli e inconsapevoli di vario genere e con tentativi di mediazione differenti. Si tratta di schieramenti che si vanno intersecando, come ha notato lo storico della filosofia contemporanea Carlo Borghero, con le polemiche tra i diversi ordini religiosi. Le università e gli ordini più legati alla tradizione aristotelica (i gesuiti e i domenicani) assumono una posizione critica verso Cartesio, mentre chi rimanda a Platone e, soprattutto, ad Agostino (i giansenisti e i benedettini, oltre agli agostiniani), intende combattere la tradizione e trovare al cartesianesimo vie di accesso nella cultura scientifica e filosofica. Ciò avviene proprio a Port-Royal, nel cui ambito maturano le riflessioni di Arnauld, di Nicole, di Pascal: il cogito cartesiano viene accostato esplicitamente, in questa prospettiva, alle tesi di Agostino, che aveva dato ampio spazio all’introspezione.

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Unità 4 L’età cartesiana Il giansenismo e i suoi legami con l’agostinismo

L’occasionalismo di Malebranche

L’antropologia filosofica di Pascal

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Ad Agostino, infatti, era dedicata l’opera del vescovo di Ypres, Cornelius Jansen (latinizzato in Giansenio, 1585-1638), che sta all’origine del movimento che da lui prende il nome, il giansenismo, che ha a Port-Royal il centro della sua diffusione. Il giansenismo è caratterizzato dal rigore morale, dalla difesa della teoria agostiniana della grazia e della predestinazione e dalla proposta di una riforma della devozione cristiana, tutti tratti che contribuiscono al prestigio intellettuale e morale del movimento (condannato dalla Chiesa già nel 1653). I problemi nati nell’ambito della metafisica cartesiana conoscono durante il Seicento importanti sviluppi. I maggiori sono: 1) l’elaborata forma di occasionalismo proposta da Nicolas Malebranche (vedi p. 211), ossia la teoria metafisica secondo cui, una volta accettata l’impossibilità di una causalità reciproca tra corpi e menti, data la distinzione tra le due sostanze, tutti gli eventi materiali e mentali (cause efficienti, pensieri, volizioni ecc.) dipendono dall’agire divino. È Dio stesso, quindi, che in occasione di ogni evento interviene, ed è egli l’unico vero agente; 2) la critica del razionalismo e la riflessione sull’uomo di Pascal, il grande e originale pensatore che esprime la molteplicità delle questioni affrontate nel corso del secolo. Pascal è innanzitutto un grande scienziato consapevole delle novità della scienza moderna e del metodo razionale, ma rappresenta anche l’inquietudine per un essere umano non più garantito da un cosmo fatto a sua misura, con l’uomo al proprio centro, come avveniva nell’immagine tolemaica del mondo. Dal suo pensiero emerge la duplicità della condizione umana, la cui grandezza consiste nella capacità di pensare ma la cui miseria non è meno significativa per la sua piccolezza di fronte all’universo e alla distante e irraggiungibile grandezza divina.

L’erudizione

L’erudizione è il secondo tratto rilevante del dibattito filosofico seicentesco. Essa assume nel corso del secolo varie configurazioni, ma certo diventa uno strumento importantissimo per la critica razionalistica della religione. In questo senso, l’opera più importante è sicuramente il Trattato teologico-politico (1670) di Baruch Spinoza, teso a mettere in luce tutte le difficoltà e le contraddizioni dei libri sacri per la tradizione ebraico-cristiana. Storia sacra Oltretutto, contemporaneamente si diffondono studi che rivelano la scarsa affie storia profana dabilità della cronologia biblica, contrastante con le altre fonti disponibili, costituite sì dagli storici antichi come Erodoto, ma anche dalle fonti egizie, caldee, persiane e cinesi (queste ultime note attraverso i gesuiti). In questo modo, la storia viene progressivamente staccandosi dalla storia sacra per fare emergere la maggiore verosimiglianza di una storia «profana», cioè non fondata sul racconto della Bibbia.

Erudizione e critica della religione

La cronologia biblica Per molti secoli la Bibbia è stata letta non solo come una testimonianza di fede, ma anche come un testo storico: essa infatti, parallelamente alla narrazione dell’incontro con Dio e della rivelazione della sua parola attraverso i

patriarchi e i profeti, descrive anche le vicende del popolo ebraico dalle storie dei patriarchi alla prigionia in Egitto, al ritorno nella Terra promessa sotto la guida di Mosè, alla fondazione del regno ecc. Sulla base dei dati biblici, sia nella tradizione ebraica

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

che in quella cristiana viene delineata una cronologia che, con oscillazioni tra gli interpreti, stabilisce una data esatta a partire dalla creazione del mondo e per tutti i fatti successivi riportati nella Scrittura. I due calcoli più accreditati sono quello di Filone ebreo (20 ca. a.C.50 ca. d.C.) per il quale la creazione narrata nella Bibbia è avvenuta nel 3761 a.C. e quello del vescovo Eusebio di Cesarea (265 ca.-339 ca. d.C.) per il quale essa va retrodatata al 5202 a.C. Sulla base di questi due Il libertinismo erudito e la letteratura clandestina

La rinascita delle scuole filosofiche antiche

I maggiori esponenti del libertinismo

Un fenomeno importante è il libertinismo erudito, che dimostra quanto l’apologetica cristiana, timorosa dei possibili esiti sovversivi della ricerca storica, finisca per lasciare questo tipo di indagini nelle mani dei critici della religione. I libertini sviluppano infatti ampiamente e fino all’ateismo la critica della religione, anche attraverso una letteratura clandestina, ed esercitano una notevole influenza fino nel pensiero del XVIII secolo. Questa critica della religione è spesso sorretta, tra l’altro, dalla ripresa delle scuole filosofiche greche successive ad Aristotele, che conoscono un notevole successo nel corso del Seicento: 1) lo stoicismo propone una morale autosufficiente e svincolata dalla religione; 2) l’epicureismo presenta una concezione materialistica della realtà e dell’uomo; 3) lo scetticismo mette infine l’accento sui limiti delle possibilità di conoscere. Esempi significativi del pensiero libertino sono François La Mothe Le Vayer (1588-1672) e Gabriel Naudé (1600-1653). Destinato a una certa notorietà è poi Savinien de Cyrano de Bergerac, un personaggio che professa una forma di naturalismo panteistico e lo concilia con l’atomismo di Gassendi e che, autore di finzioni letterarie, diverrà famoso (nell’Ottocento) in seguito alla reinterpretazione romanzata e leggendaria della sua figura.

Cyrano de Bergerac: tra storia e finzione letteraria Nell’affrontare la figura di Cyrano de Bergerac bisogna distinguere tra due aspetti, entrambi interessanti ma da ottiche diverse. Dal punto di vista storico Hercule Savinien de Cyrano de Bergerac (1619-1655) era un nobile parigino che, dopo aver fatto parte per alcuni anni dell’esercito e aver acquistato fama di grande spadaccino, si dedicò alla letteratura. Frequentò gli ambienti libertini e compose opere di genere diverso: la commedia in prosa Il pedante gabbato, 1654; la tragedia La morte di Agrippina, 1654; numerose Lettere (1654); e due romanzi in cui narrava viaggi fantastici, L’altro mondo o Gli stati e gli imperi della Luna, postumo (1657); e Gli stati e gli imperi del Sole, postumo (1662). Scrisse anche alcuni capitoli di un trattato di fisica. Nei suoi romanzi filosofici, che sono il primo esempio di questo genere letterario e precorrono i temi della fantascienza moderna, espone, con una prosa barocca ricca di

La difesa della religione

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calcoli, per esempio, nel 1650 il mondo avrebbe avuto o 5411 anni oppure 6852. I primi sviluppi delle scienze della Terra (geologia, paleontologia ecc.) e lo studio della storia dei popoli antichi mettono ben presto in crisi queste antiche certezze: come la rivoluzione scientifica ha reso infinito lo spazio, così la verifica critica della cronologia biblica allunga, in maniera sconcertante per gli uomini del Seicento, i tempi della storia.

iperboli, metafore, antitesi, teorie filosofiche e fisiche in linea con le acquisizioni della scienza moderna (il movimento della Terra, l’infinità dello spazio, l’eternità del mondo, l’atomismo ecc.) ma condannate dalla Chiesa. La scelta della fantascienza è stata perciò interpretata da alcuni come una strategia libertina, ossia un modo sottile di divulgare tesi pericolose facendole passare per creazioni fantastiche. Nonostante questi tratti interessanti, il valore storico-filosofico di Cyrano è stato dimenticato per molti anni ed è tornato alla notorietà con la commedia omonima che gli ha dedicato Edmond Rostand (1868-1918) nel 1897. Lo scrittore francese lo ha trasformato in un personaggio ironico e romantico al tempo stesso: uno spadaccino-poeta dall’animo vivace e bellissimo ma esteriormente molto brutto, afflitto da un naso sproporzionato. Nella commedia Cyrano è capace di conquistare a nome di un altro la donna che ama, ma, anche dopo la morte del suo amico-rivale, non è capace di rivelarle la sua devozione, salvo in punto di morte.

Qualche intelligente difensore della religione come Richard Simon (1638-1712) o Jean Le Clerc (1657-1736) cerca di attenuare con gli strumenti dell’erudizione i risultati ritenuti più pericolosi, con ammissioni parziali del nuovo stato del-

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Unità 4 L’età cartesiana

le discipline storiche ed erudite. Ma gran parte dell’apologetica rifiuta in linea di principio questa nuova situazione, cercando magari di tornare al principio di autorità, ossia ribadire la certezza che tutto quanto è scritto nella Bibbia deve essere ritenuto vero. È questa la direzione presa da Jacques-Bénigne Bossuet (1627-1704) nel suo Discorso sulla storia universale (1681), che delinea un quadro della storia le cui tappe seguono la cronologia della storia sacra e la cui evoluzione è retta dalla Provvidenza divina: tutti gli eventi del mondo sono indirizzati al compimento dei propositi di Dio.

3 La disputa tra antichi e moderni

Gli antichi, i moderni, la tradizione Nell’ambito del confronto con il passato rientra anche la cosiddetta Disputa sugli antichi e sui moderni, nata su problemi estetici e poi ampliata agli altri campi del sapere. Sviluppatasi nella seconda metà del Seicento, l’inizio del dibattito concerne la lingua e la letteratura: alcuni sostengono la supremazia della tradizione classica, mentre altri difendono i tentativi di abbandonare il classicismo e di favorire un rinnovamento di generi, stile e temi. Dall’ambito letterario il confronto si sposta su opposizioni di natura filosofica (autorità / ragione, pregiudizi / progresso ecc.). La filosofia dell’età cartesiana È una delle città in cui risiede Cartesio

Vi muore Hobbes

Scozia

Vi crea un circolo filosofico e vi muore Spinoza

Vi muore Cartesio Stoccolma

Edimburgo REGNO DI Vi si stabilisce, pubblicandovi le DANIMARCA sue opere, e vi muore Bayle E NORVEGIA PROVINCE INGHILTERRA UNITE Malmesbury È una delle città in cui riLondra Leida Amsterdam Brandeburgo L'Aia siede Cartesio. Vi nasce Rotterdam Hannover Spinoza Ypres Lipsia Varsavia PAESI BASSI IMPERO Clermont SPAGNOLI ROMANO Praga Meaux GERMANICO Vi nasce Leibniz Parigi Vienna La Haye FRANCA REGNO DI CONTEA FRANCIA SVIZZERA AUSTRIA Carlat REGNO Milano REP. DI Avignone D’UNGHERIA VENEZIA Vi lavora e muore Leibniz DUC. DI SAVOIA Champtercier GRANDUC. STATO DELLA DI TOSCANA CHIESA Corsica Roma REGNO IMPERO Napoli DI NAPOLI OTTOMANO Baleari Sardegna

IRLANDA

Vi nasce Hobbes

Cornelius Jansen (Giansenio) è vescovo in questa città dal 1636 al 1638 Vi nasce Pascal Vi nasce Cartesio Vi nasce Bayle Maggior centro filosofico seicentesco. Vi vivono Mersenne, Gassendi, Malebranche, Arnauld, Pascal e Fontenelle e i maggiori pensatori libertini, La Mothe Le Vayer, Gibilterra Naudé e Cyrano de Bergerac. Vicino a a Versailles, pochi chilometri fuori città, sorge Port-Royal, il centro del giansenismo. Vi passano lunghi periodi Hobbes e Leibniz

Hardwick Hall

Sede vescovile ricoperta da Bossuet nel periodo di maggior impegno apologetico

Vi nasce Gassendi

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Fontenelle: la difesa dei moderni

La storia come progresso e la pluralità dei mondi

Bayle: sintesi tra razionalismo ed erudizione

➥ Sommario, p. 228

L’intervento più rilevante, nella discussione filosofica è quello di Bernard Le Bovier de Fontenelle (1657-1757), con lo scritto Digressione sugli antichi e i moderni (1688). La valutazione di Fontenelle è tutta a favore dei moderni, che hanno accumulato una maggiore conoscenza soprattutto nello sviluppo delle scienze e che hanno visto in Cartesio un primo, decisivo passo avanti per quello che riguarda l’analisi del ragionamento e della dimostrazione. Si apre così, seppure limitatamente allo sviluppo del sapere, la possibilità di vedere la storia umana in termini di progresso. Allo stesso tempo, tra l’altro, lo stesso Fontenelle dimostra tutta l’importanza metafisica del copernicanesimo e le sue implicazioni. Egli pubblica infatti, nel 1686, i Dialoghi sulla pluralità dei mondi: tra le questioni che vengono poste, c’è anche quella, per molti versi inquietante, dell’esistenza di altri mondi abitati, oltre alla Terra. Una sorta di sintesi tra impostazione razionalistica ed erudizione è rappresentata, alla fine del secolo, dal Dizionario storico-critico (1697) di Pierre Bayle, una gigantesca critica della tradizione e degli errori in essa accumulati: Bayle getta così un ponte ideale dal Seicento verso gli sviluppi della filosofia del secolo successivo, il secolo dei lumi, che utilizzerà ampiamente gli argomenti del Dizionario. Di grande rilevanza, in questo senso, è l’acuta trattazione che Bayle fa del problema del male e di ciò che dopo Leibniz si chiamerà «teodicea», ovvero la giustificazione di Dio di fronte al problema dell’esistenza del male nel mondo.

In dialogo con Cartesio: Gassendi e Arnauld

2 I testi

A. Arnauld - P. Nicole La logica, o l’arte di pensare: Il dubbio e la certezza in Agostino, T1

Tra gli interlocutori principali di Cartesio vanno ricordati, come si è detto, Pierre Gassendi, a cui si deve la formulazione di una originale teoria meccanicistica, e Antoine Arnauld la cui opera principale, La logica, avrà grande influenza per tutto il Settecento.

1 Gassendi e le Meditazioni

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Gassendi: atomismo ed empirismo Gassendi, uno degli autori delle obiezioni alle Meditazioni cartesiane (le Quinte), interviene in modo significativo nel dibattito sulla metafisica e in generale sulla filosofia cartesiana, pubblicando lui stesso un volume contenente in ap-

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Unità 4 L’età cartesiana

pendice le Meditazioni, accompagnate però dalle proprie obiezioni, dalle risposte di Cartesio e da sue ulteriori osservazioni a queste risposte.

La vita e le opere Pierre Gassendi nacque a Champtercier in Provenza nel 1592 e studiò teologia, conseguendo il dottorato nel 1614, mentre due anni dopo prese gli ordini religiosi. Dal 1617 insegnò filosofia a Aix-en-Provence, ma dal 1626 si stabilì a Parigi entrando in contatto con il circolo di Mersenne e con i libertini La Mothe Le Vayer e Naudé. La sua prima opera Exercitationes paradoxicae adversus aristoteleos («Esercitazioni in forma di paradossi contro gli aristotelici», 1624) è una critica del modello aristotelicoscolastico di scienza. A partire dal 1630 si interessò della filosofia di Epicuro alla quale dedicò diverse opere, la Le critiche di Gassendi a Cartesio

Circolarità della nozione cartesiana di evidenza

Un modello di fisica alternativo: l’atomismo

più importante delle quali è il Syntagma philosophicum («Esposizione filosofica sistematica», postumo, 1658) in cui cercò di conciliare epicureismo e cristianesimo elaborando un sistema di filosofia della natura meccanicistico. Dal 1640 fu coinvolto da Mersenne nella discussione sulle Meditazioni di Cartesio, per le quali scrisse le Quinte obiezioni; nel 1644 pubblicò in un volume personale, Disquisitio metaphysica («Disquisizione metafisica») il testo delle proprie obiezioni con le risposte di Cartesio ampliato di nuove osservazioni e critiche al rivale. Dal 1645 al 1648 ricoprì la cattedra di astronomia al Collegio reale di Parigi. In questa città morì nel 1655.

Gassendi è un pensatore intensamente influenzato dallo scetticismo ed è profondamente critico nei confronti sia dell’aristotelismo sia del naturalismo rinascimentale, segnato secondo lui dalla magia. Ma di particolare rilevanza è il suo confronto con Cartesio. Le sue critiche riguardano: 1) il dualismo tra pensiero ed estensione, ossia la separazione ontologica tra sfera spirituale e sfera materiale e l’assenza di interazione causale tra di esse, che rende difficile a Cartesio dimostrare come Dio agisca sul mondo e come sia possibile l’unità tra mente e corpo (vedi Unità 3, p. 170 ss.); 2) la nozione di sostanza cartesiana che Gassendi ritiene inutilizzabile, e di natura metafisica. Cartesio identifica ogni sostanza con il suo attributo principale, pensiero o estensione, ed è convinto di descriverne pienamente l’essenza attraverso queste proprietà (vedi Unità 3, p. 148 s.). Gassendi ritiene invece che, pur conoscendone le manifestazioni esteriori (che siamo in grado di ricostruire attraverso l’osservazione e l’esperienza) la natura interna delle cose ci sfugga e che la sostanza sia inconoscibile perché solo Dio che l’ha prodotta la conosce veramente; 3) e, soprattutto, la concezione cartesiana dell’evidenza, ossia la tesi che esistano verità chiare e distinte che si possono cogliere attraverso l’intuizione (vedi Unità 3, p. 158 s.). Per quanto riguarda la teoria della verità, secondo Gassendi Cartesio non riesce a giustificare il proprio criterio dell’evidenza, o meglio, lo giustifica attraverso un ragionamento di tipo circolare. Andando alla ricerca di un criterio per verificare la chiarezza e distinzione delle idee, Cartesio si affida all’evidenza, della quale deve poi però trovare, a sua volta, un criterio infallibile. Questo criterio infallibile viene individuato nella veridicità divina e si fonda quindi sull’esistenza di Dio e sulla sua natura di Ente perfettissimo (buono, giusto, non ingannatore ecc.). Ma precedentemente l’esistenza di Dio è stata dimostrata utilizzando lo stesso criterio dell’evidenza (poiché la prima prova delle Meditazioni inizia dalla presenza in noi di un’idea chiara e distinta, ossia autoevidente, di Dio come di una sostanza infinita, indipendente ecc.), e quindi, afferma Gassendi, il ragionamento è circolare. Alla concezione metafisica cartesiana, che identifica la sostanza estesa con la materia e la pensa attraverso l’idealizzazione matematico-geometrica (come infinita, priva di vuoto, divisibile all’infinito ecc.), Gassendi contrappone l’ato207

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La teoria della conoscenza: empirismo, induzione, sperimentalismo

Etica e religione: epicureismo e fede in Dio

mismo di Epicuro, una teoria fisica che gli sembra priva delle elucubrazioni metafisiche di Cartesio. Oltretutto, l’atomismo è pienamente adeguato per spiegare la natura così come viene vista dalla scienza moderna, della quale Gassendi è un convinto sostenitore. In questo quadro, egli sostiene l’esistenza del vuoto, contrapponendosi alla tesi cartesiana della divisibilità infinita dell’estensione e, quindi, dell’inesistenza del vuoto. L’atomismo permette di spiegare da un lato la permanenza della materia, dall’altro i mutamenti che avvengono nel mondo fisico. Sul piano della teoria della conoscenza, Gassendi è un convinto empirista e sostiene quindi che il conoscere si fonda sull’esperienza. Rifacendosi alla teoria atomistica della materia, Gassendi pensa che alla base del processo conoscitivo ci sia la percezione, il cui meccanismo consiste nello staccarsi di atomi dall’oggetto conosciuto, che vanno a colpire i sensi del soggetto che conosce. È solo attraverso il ripetersi di esperienze empiriche che è possibile avere un’anticipazione, ovvero un processo di elaborazione delle percezioni che consente di trarre conclusioni generali a partire dalle singole esperienze (induzione) e di formulare ipotesi da sottoporre alla verifica sperimentale. Pur assumendo, sul piano etico, una posizione ispirata all’epicureismo, che vede l’uomo volto principalmente alla ricerca del piacere, sul piano religioso Gassendi si guarda bene dall’assumere posizioni eccentriche. Egli cerca piuttosto di rendere l’epicureismo compatibile con la dottrina cristiana, eliminandone il tratto materialistico: gli atomi sono creati da Dio e possono essere da Dio annientati. Se rifiuta le prove cartesiane dell’esistenza di Dio, Gassendi ritiene però che sulla base dell’ordine del mondo voluto da Dio, che lo ha creato, si possa risalire alla sua esistenza. E la fede ha un proprio ambito nel quale non ci può essere conflitto con la ragione.

La filosofia di Gassendi

Critiche a Cartesio: – rifiuto del dualismo ontologico – inconoscibilità della sostanza – circolarità dell’evidenza Gassendi

Sperimentalismo, empirismo e induzione Meccanicismo e atomismo Etica epicurea; Dio creatore degli atomi; conciliazione fede / ragione

2 Arnauld e la logica

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Arnauld: razionalismo e difesa della religione Antoine Arnauld, dopo Pascal, è il personaggio più importante della cultura giansenistica. Anch’egli, come Gassendi, autore di obiezioni alle Meditazioni di Cartesio (le Quarte), scrive con Pierre Nicole la Logica o l’arte di pensare, un testo di grande influenza storica che ha lasciato il segno, oltre che nella logica, anche negli sviluppi della linguistica (ossia nella scienza che studia i linguaggi) moderna e contemporanea.

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Unità 4 L’età cartesiana

La vita e le opere Antoine Arnauld nacque a Parigi nel 1612. Si laureò in teologia nel 1641 ma venne espulso dalla Sorbona nel 1656 a causa delle sue idee. Capo spirituale del movimento giansenista a partire dal 1643 e duramente attaccato dai gesuiti, ottenne un periodo di tregua nello scontro con le autorità ecclesiastiche negli anni tra il 1669 e il 1677. Oltre alla stesura delle Quarte obiezioni alle Meditazioni cartesiane (1640) e alla lunga amicizia e collaborazione con Pascal, condusse un vivace confron-

to su temi teologici e filosofici con Malebranche tra il 1683 e il 1685 ed ebbe un importante scambio epistolare con Leibniz tra il 1686 e il 1687. Morì a Bruxelles nel 1694. Le sue opere più importanti sono: Della comunione frequente (1643); Grammatica generale e ragionata (1660, scritta in collaborazione con C. Lancelot); La logica, o l’arte di pensare (1662, in collaborazione con P. Nicole); Trattato delle idee vere e false (1683); Riflessioni filosofiche e teologiche sulla natura e la grazia (1685-1686).

Accostamento del cogito cartesiano al pensiero di Agostino

La logica non è soltanto l’arte della dimostrazione, ma riguarda, con chiara ispirazione cartesiana, tutto il pensiero come l’attività più importante dello spirito. Nella Logica, Arnauld e Nicole cercano di conciliare la filosofia di Cartesio con la fede cristiana, accostando, anche nella polemica verso lo scetticismo, il cogito cartesiano al pensiero di Agostino e alla certezza dell’autocoscienza, della coscienza di sé, che in Agostino accompagna anche l’errore. La questione del dubbio, tramite la quale Cartesio tenta di fondare un metodo per giungere alla verità, era stata già affrontata da Agostino, con una soluzione che precorreva quella cartesiana. Il criterio della chiarezza che caratterizza la coscienza di sé dovrà allora essere il criterio per procedere nella ricerca della verità.

T1

Se si trovasse qualcuno che potesse dubitare di stare dormendo o esser folle o che potesse perfino credere che l’esistenza di tutte le cose esteriori è incerta, e che è dubbio che ci sia un sole, una luna, una materia, almeno nessuno potrebbe dubitare, come dice sant’Agostino, se pensa, è, vive. Infatti, sia che dorma, sia che vegli, sia che abbia lo spirito sano sia malato, sia che si inganni, sia che non si inganni, è certo almeno, poiché pensa, che egli è e vive, essendo impossibile separare l’essere e la vita dal pensiero, e credere che quel che pensa non è e non vive, e da questa conoscenza chiara, certa e indubbia egli può formare una regola per approvare come veri tutti i pensieri che troverà chiari, come quello gli appare.

Il dubbio e la certezza in Agostino

A. Arnauld - P. Nicole, La logica, o l’arte di pensare, 4,1

Limitazione dell’evidenza all’intendere

Il credere, sapere autentico accanto all’intendere

L’opinare, fonte dell’errore

Come fa notare Arnauld nelle sue obiezioni a Cartesio, però, il criterio razionale della chiarezza e distinzione deve essere per lui limitato a una sfera determinata dello spirito, che chiama, sulla scia di Agostino, quella dell’intendere, il sapere razionale che ha per oggetto le cose che riguardano le scienze e «che cadono sotto la nostra intelligenza», lasciando però fuori le cose «che riguardano la fede e le azioni della nostra vita». Oltre all’intendere, al sapere razionale, infatti, un’altra forma di sapere autentico è dato proprio dalla fede, cioè dal credere, che riguarda le questioni religiose e che è fondato non sulla chiarezza e distinzione ma sul peso e sul credito che vengono conferiti a qualche grave e potente autorità in ambiti nei quali l’uomo non è in grado di intendere razionalmente, come la fede. L’intendere razionale e il credere come forme di sapere autentico si contrappongono piuttosto all’opinare. L’opinare è la fonte dell’errore ed è una cosa vergognosa e indegna degli uomini per due motivi: innanzitutto, perché colui che crede di sapere qualcosa che in realtà ignora non è più capace di imparare, poi, perché la presunzione è un carattere negativo e segno di «poco giudizio». 209

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Limiti al razionalismo per difendere la religione

➥ Sommario, p. 228

Arnauld cerca quindi di riconoscere la novità e la validità del razionalismo cartesiano, ma vuole anche evitarne le possibili implicazioni pericolose per la religione, che egli intravede come utilizzabili dal pensiero scettico e libertino. Per far ciò, limita la portata del criterio razionalistico cartesiano della chiarezza e della distinzione, tenendone fuori la religione, come del resto dichiara esplicitamente, nel suo dialogo con Cartesio, avvertendolo che altrimenti quelli che tendono oggi alla «empietà» potrebbero servirsi degli argomenti cartesiani per combattere la fede.

Le forme del sapere in Arnauld Forme di sapere autentico Arnauld

Intendere, il sapere razionale che ha per oggetto le cose che riguardano le scienze, conosciute attraverso l’evidenza (idee chiare e distinte)

Credere, riguarda le questioni religiose ed è fondato sull’autorità

Sapere inautentico

Opinare, fonte dell’errore derivante dalla presunzione di sapere

L’ordine metafisico: Malebranche

3 I testi

N. Malebranche La ricerca della verità: La superiorità di Cartesio su Aristotele, T2; La fede e l’evidenza razionale, T3

Tra cartesianesimo e agostinismo

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Nicolas Malebranche è uno dei pensatori più originali e di maggior influenza dell’epoca, ben maggiore di quella che tendiamo oggi ad attribuirgli. Anch’egli, come Arnauld, testimonia l’incontro tra filosofia cartesiana e tradizione agostiniana, anche se su una questione centrale della teoria della conoscenza egli si distacca dalla posizione di Cartesio per assumere una posizione propria, polemizzando al riguardo proprio con Arnauld.

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Unità 4 L’età cartesiana

La vita e le opere Nicolas Malebranche, figlio di un segretario del re, nacque a Parigi nel 1638 e a ventidue anni divenne novizio nell’ordine dell’Oratorio, prendendo i voti nel 1664. In quello stesso anno conobbe la filosofia di Cartesio e l’occasionalismo e nel 1675 pubblicò la sua prima opera, La ricerca della verità, a cui quattro anni dopo aggiunse i Chiarimenti. Intervenne nella polemica tra gesuiti e giansenisti con il Trattato della natura e della grazia

1 Il rifiuto dell’innatismo cartesiano ➥ Percorso tematico, p. 401

Il platonismo cristiano

Dio come fonte della conoscenza

La dipendenza dell’uomo da Dio

Occasionalismo e legge di causalità

(1680) e iniziò un intenso confronto con Arnauld, al quale prese parte anche Bossuet e che terminò nel 1687. Ebbe anche profondi interessi matematici e scientifici sulla base dei quali pubblicò un trattato Sulla comunicazione dei moti (1692) e studiò il funzionamento degli organismi viventi. Morì a Parigi nel 1715. Le opere in cui sintetizzò il suo pensiero sono Meditazioni cristiane e metafisiche (1682), Trattato di morale (1684), Colloqui sulla metafisica e sulla religione (1688).

La teoria delle idee e l’occasionalismo L’opera principale di Malebranche è La ricerca della verità, che è anche una rassegna critica delle teorie disponibili per quanto riguarda le idee e il modo in cui, attraverso le idee, è possibile la conoscenza umana. Malebranche rifiuta la tesi cartesiana del carattere innato di alcune idee, e riformula in modo proprio, e diverso, la teoria di Cartesio secondo la quale tali idee sono modificazioni innate della mente la cui evidenza ci è garantita dalla veridicità divina. La teoria delle idee innate di origine platonica si è trasformata nel pensiero medievale a partire da Agostino, per il quale le idee sono essenze-archetipi delle cose poste nella mente divina, che gli uomini conoscono grazie all’intuizione intellettuale. Collocandosi in questa linea teorica, ma radicalizzandola per sottolineare la potenza divina (nell’occasionalismo solo Dio agisce), Malebranche interpreta le idee come essenze che noi vediamo direttamente in Dio, in un processo in cui ciò che emerge è la passività della mente umana: in occasione del fatto che i nostri sensi vengono colpiti da un oggetto esterno, Dio stesso suscita in noi l’idea di tale oggetto. In questo modo la conoscenza non si fonda affatto sull’impressione sensibile che arriva dall’esterno, e l’intelletto non è inteso come attivo ma come passivo, seppur come passivo nei confronti di Dio. Dio non è soltanto, come in Cartesio, il garante dell’evidenza delle conoscenze, ma il produttore della conoscenza stessa. La tesi della visione delle idee direttamente in Dio «supposto che Dio acconsenta» ha anche il fine di dimostrare agli uomini che essi non sono in grado di far nulla senza l’aiuto divino e quindi che essi sono in una «totale dipendenza da Dio, la più grande dipendenza possibile». In questo modo Malebranche difende la posizione occasionalistica diffusa in età cartesiana e sostenuta anche da altri filosofi (per esempio da Geulincx, l’iniziatore di questa corrente). Del resto, non solo la teoria delle idee rivela l’occasionalismo di Malebranche: una posizione analoga viene assunta dal filosofo anche riguardo alla legge di causalità, ovvero alla legge di natura che è il perno della scienza moderna. Il rapporto causale tra due palle da biliardo, tale che una colpendo l’altra è la causa del suo movimento, è anch’esso un rapporto che ci induce in errore, se ci spinge a pensare che il movimento della prima palla sia la causa del movimento della seconda: anche qui, il movimento della prima palla è soltanto l’occasione del movimento della seconda, che deve essere prodotto da Dio. Dio è quindi causa di tutte le cose e anche di qualunque movimento del mondo. 211

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

2 Con Cartesio, contro Aristotele

T2

La superiorità di Cartesio su Aristotele N. Malebranche, La ricerca della verità, 6,2

3 I rischi del dubitare

Tensione tra ragione e fede: necessità di divisione dei compiti

T3

La fede e l’evidenza razionale N. Malebranche, La ricerca della verità, 1,3,2

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La critica dell’erudizione Nonostante le notevoli deviazioni di rotta che impone al pensiero cartesiano, Malebranche è profondamente convinto della sua superiorità sulla tradizione aristotelica. I criteri cartesiani della chiarezza e dell’evidenza, che vengono ribaditi alla fine della Ricerca della verità, ne sono la prova più convincente. In chiusura del brano che segue, emerge anche la polemica di Malebranche verso l’erudizione, che anch’egli teme per le sue possibili implicazioni pericolose per la religione, come dimostrano le teorie dei libertini (vedi p. 204). Se si considera che Aristotele e i suoi seguaci non hanno osservato le regole – come si deve ritenere, sia per le prove che ne ho addotto, sia per la conoscenza delle opinioni dei più zelanti difensori del filosofo – forse si terrà in dispregio la sua dottrina nonostante tutte le prospettive favorevoli in cui ce la presentano coloro che si lasciano sbalordire da parole che non capiscono. Ma, se si guarda alla maniera di filosofare di Descartes, non si potrà dubitare della sua consistenza; perché ho dimostrato a sufficienza che ragiona solo su idee chiare ed evidenti e che comincia dalle cose più semplici per passare poi alle più complesse che ne dipendono Chi leggerà le opere di questo dotto si convincerà pienamente di ciò che dico di lui, purché le legga con tutta l’attenzione necessaria per capirle; e proverà una segreta gioia per essere nato in un secolo e in un paese tanto fortunato da risparmiarci la fatica di andare a cercare nei secoli passati, fra i pagani, e ai confini della terra, fra i barbari o fra gli stranieri, un dottore che ci istruisca sulla verità.

Il rapporto tra fede e ragione Lo stesso dubbio cartesiano è valutato da Malebranche ben diversamente quando si riferisca all’utilizzo che ne ha fatto Cartesio, ovvero il dubitare «correttamente» ai fini della ricerca della verità, oppure all’utilizzo che ne viene fatto dai critici della religione, o addirittura dagli atei, il cui dubbio è un dubbio tenebroso che non guida verso la luce ma «sempre ne allontana». Ciononostante, Malebranche è consapevole della tensione che può instaurarsi tra ragione e fede. Le idee della ragione ci sono state date da Dio soltanto per muoverci nell’ordine naturale delle cose, e in questo ambito ci dobbiamo affidare certamente al criterio dell’evidenza. Cosa diversa sono i misteri della fede, per i quali non può essere utilizzato lo stesso criterio. Il rapporto tra ragione e fede è quindi fondato su una netta divisione dei compiti: Malebranche sembra non vedere che il passo potrebbe essere breve per l’affermazione di un conflitto tra fede e ragione, un conflitto incomponibile che potrebbe concludersi con la vittoria della ragione. Bisogna dunque distinguere i misteri della fede dalle cose della natura. Bisogna sottomettersi ugualmente alla fede e alla evidenza, ma nelle cose di fede non si deve andare a cercare l’evidenza prima di crederle, come in quelle della natura non ci si deve fermare alla fede, ossia all’autorità dei filosofi. In una parola: per aver fede bisogna credere ciecamente, mentre per essere filosofi bisogna vedere evidentemente: infatti l’autorità divina è infallibile, mentre tutti gli uomini sono soggetti a sbagliare.

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Unità 4 L’età cartesiana

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Rifiuto del volontarismo teologico

L’agire divino è regolato da leggi generali e uniformi

La semplicità, criterio metafisico e fisico

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L’agire divino: la metafisica dell’ordine e la semplicità delle vie Malebranche affronta anche un problema che era emerso dalla riflessione cartesiana. Cartesio aveva infatti sostenuto, sia pure con formulazioni diverse e in modo non nettissimo, l’assoluta arbitrarietà della volontà divina e, di conseguenza, della creazione, includendo tra le cose create anche le verità eterne, ossia le essenze matematiche e le leggi logiche (per esempio il principio di non contraddizione). In esplicita polemica con tale teoria, Malebranche riprende la posizione agostiniana: le proposizioni razionali, come le verità eterne della metafisica e della matematica, non sono frutto dell’arbitrio, ma esprimono piuttosto la natura di Dio, del quale Malebranche sottolinea in quest’ambito piuttosto la saggezza che la potenza assoluta, arbitraria. L’intervento divino e la creazione stessa non possono essere per Malebranche né arbitrari né il frutto di interventi particolari: l’ordine che caratterizza l’universo è un ordine contrassegnato dalla semplicità delle leggi della natura e dalla generalità dei principi su cui si regge. L’intervento divino nel mondo, nell’occasionalismo di Malebranche, non si attua quindi in casi particolari, ma attraverso leggi generali che rispondono al criterio della massima perfezione e della semplicità. Oltretutto, la semplicità diventa un importante criterio anche sul piano fisico, e non solo sul piano metafisico dell’azione di Dio, perché costituisce una chiave per la comprensione della natura secondo la nuova scienza matematica che caratterizza la rivoluzione scientifica.

Il problema del male

Il rapporto tra le leggi generali volute da Dio e il problema dell’esistenza del male è oggetto dell’interesse di Malebranche in particolare nel Trattato della natura e della grazia, un testo del 1680 che l’autore rielabora continuamente negli anni successivi fino al 1712, poco prima della morte. Sulla base della semplicità delle vie divine e delle leggi generali della natura – che sarebbe segno di imperfezione, da parte di Dio, dover modificare intervenendo in qualche occasione particolare – Malebranche rifiuta, naturalmente, l’i➥ Percorso tematico, p. 321 dea che Dio possa essere responsabile del male del mondo, anche se il problema si pone davvero in tutta la sua complessità, se Dio è l’unico ente che agisce realmente nell’universo. La presunzione Per Malebranche è piuttosto l’uomo che giudica il mondo in modo errato e preantropocentrica suntuoso, pensando che il fine della creazione del mondo possa essere il benesdell’uomo sere degli uomini. Questo atteggiamento antropocentrico distorce la realtà della creazione e la grandezza divina, perché Dio non può aver creato che per la propria gloria, non certo in funzione dell’esistenza o del benessere degli uomini: Dio non può agire per altro che non sia la propria gloria. Agire altrimenti, infatti, sarebbe inde➥ Sommario, p. 228 gno di Dio. Dio non può essere responsabile del male

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Parte prima La nascita della filosofia moderna La filosofia di Malebranche

Teoria della conoscenza: – rifiuto dell’innatismo cartesiano – teoria della visione delle idee in Dio – Dio come produttore della conoscenza

Fisica occasionalistica: Dio come unica causa efficiente

Critica dell’erudizione e dell’aristotelismo

Malebranche

Metafisica razionalistica: – rifiuto dell’arbitrarismo – scelte divine fondate su saggezza e immutabilità della natura di Dio – ordine del reale fondato su leggi generali, semplici e uniformi Soluzione del problema del male: l’uomo non è in grado di cogliere nella sua interezza l’ordine metafisico del reale

L’ordine del cuore: Pascal

4 I testi

B. Pascal Pensieri: L’amor proprio, T4; L’uomo è una canna che pensa, T5; La morte e il divertimento, T6

Originalità e grandezza del pensiero di Pascal

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Blaise Pascal esprime tutta la grandezza e tutta la tensione intellettuale ed esistenziale del secolo XVII. Grande scienziato, o meglio, vero e proprio prodigio fin da giovanissimo, Pascal è nella sua originalità, nella sua genialità e nella sua tormentata considerazione della condizione umana, grande e misera allo stesso tempo, uno degli intellettuali più significativi, e al tempo stesso più affascinanti, della sua epoca. Accanto alla sua opera maggiore soltanto abbozzata e progettata come un’ambiziosa apologia del cristianesimo, i Pensieri (che videro la luce dopo la sua morte precoce, avvenuta a trentanove anni), bisogna ricordare che Pascal è l’autore di uno dei primi capolavori della lingua francese, le Provinciali, scritto dopo la condanna dell’amico Arnauld come giansenista e in parte redatto in collaborazione con lui.

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La vita e le opere Blaise Pascal nacque a Clermont, in Alvernia, nel 1623. Il padre apparteneva alla piccola nobiltà e inizialmente fu lui a occuparsi della sua educazione. Nel 1635 la famiglia si trasferì a Parigi e, spinti da comuni interessi scientifici, padre e figlio frequentarono il circolo di Mersenne entrando in contatto con i due più famosi matematici del tempo, Girard Desargues (1591-1661) e Gilles de Roberval (1602-1675), e attraverso di loro con i maggiori protagonisti della rivoluzione scientifica, Galilei, Cartesio, Evangelista Torricelli, Pierre de Fermat. Nel 1640 Pascal pubblicò il Saggio sulle coniche e nel 1644 concepì il progetto di una macchina calcolatrice che brevettò cinque anni dopo. Nel 1646 entrò in contatto con il giansenismo e avvenne la sua «prima conversione», ma non abbandonò né gli studi (del 1647 sono i Nuovi esperimenti intorno al vuoto) né la vita mondana. Due eventi sconvolsero la sua vita: la morte del padre nel 1651 e l’anno successivo l’ingresso nel convento di Port-Royal della sorella, che portò a una rottura tra i due. Dopo un periodo di intensa attività scientifica e di frequentazioni di ambienti libertini, Pascal ebbe nel 1654 una profonda crisi spirituale, la «seconda conver-

sione», che ha narrato in un Memoriale, e aderì intimamente al giansenismo ritirandosi per un periodo a PortRoyal. Negli anni successivi alternò periodi di ritiro con la ripresa delle attività di studio, risolvendo il problema della roulette o cicloide, intervenendo in difesa di Arnauld con le Provinciali (diciotto lettere scritte tra il 1656 e il 1657) e progettando un’opera apologetica in difesa della religione cristiana. Alla sua morte, avvenuta nel 1662 a Parigi, rimanevano di quest’ultima una serie di piccoli fogli, privi di un ordine. Una prima edizione dei Pensieri uscì nel 1669 a opera di un gruppo di amici e parenti tra cui Arnauld e Nicole, ma molti frammenti erano stati espunti, altri rielaborati e si era scelto di raggrupparli in base ai temi affrontati. Nel 1711 un nipote di Pascal incollò gli originali su fogli bianchi raccolti in un album, probabilmente nell’ordine in cui si trovavano alla morte dell’autore. La prima edizione integrale ricavata da questo manoscritto è del 1844; fondamentali per gli studi su Pascal sono le due edizioni di Léon Brunschvicg, rispettivamente del 1897 e del 1904, che seguono un criterio logico e sistematico, e quelle di Jean Chevalier, del 1925 e del 1936, che cercano di ricostruire il suo progetto originale.

In Pascal si esprime tutto il disagio esistenziale che affonda le radici nella nuova considerazione dell’essere umano inserito in un universo che è diventato infinito: è un’infinitezza che rimpicciolisce l’essere umano di fronte al cosmo, e a Dio, anche se gli viene ancora riconosciuta una qualità che lo solleva decisamente al di sopra di tutto il creato, il pensiero. Nel pensiero Pascal rappresenta quindi la presa di coscienza dell’uomo copernicano, parte di la grandezza dell’uomo un mondo del quale non è più il centro astronomico, certo, mentre ne è ancora quello esistenziale e metafisico. La grandezza dell’uomo sta nel suo pensiero, quello stesso pensiero che ha compiuto la rivoluzione scientifica, fondata sulla matematica, e ha reso possibile la filosofia di Cartesio, verso la quale la posizione di Pascal non è però di incondizionata approvazione. Disagio esistenziale di fronte all’infinito

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Pascal e la scienza moderna

Pascal offre fin da bambino prove indubbie della sua incredibile intelligenza e del suo talento per le scienze. Almeno stando alle testimonianze della sorella, egli ricostruisce a dodici anni, nel 1635, alcune proposizioni degli Elementi di geometria di Euclide, senza averne mai letto il testo. A sedici anni, scrive e poi pubblica un Saggio sulle coniche, mentre pochi anni dopo concepisce un sistema meccanico per realizzare le operazioni di calcolo, ovvero una prima «macchina calcolatrice». Gli studi sul vuoto Al tempo stesso, Pascal si occupa del problema del vuoto (scrivendo una prefazione a un trattato sull’argomento), la cui esistenza viene negata da Cartesio e sostenuta negli stessi anni da Evangelista Torricelli (1608-1647); inoltre affronta la questione della dinamica dei liquidi, giungendo a formulare il principio detto appunto – anche oggi – di Pascal, per il quale la pressione esercitata da un liquido si trasmette con uguale intensità in tutte le direzioni. Per quanto poi riguarda

Gli studi scientifici e tecnici

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

il rapporto del mondo moderno con il mondo antico, Pascal ritiene che la scienza moderna sia superiore alla scienza antica, perché consiste in un cumulo di conoscenze molto maggiore.

I limiti della ragione

2 La critica del razionalismo cartesiano

La colpa di Cartesio

Gli inganni reciproci tra sensi e ragione

I limiti della conoscenza morale

Del tutto consapevole dell’attacco al sapere sferrato dalle correnti scettiche, e del rischio della polemica libertina verso la religione, con tutta la passione per la scienza Pascal ha ben presente il carattere limitato della ragione, che si manifesta nelle forme più diverse. La sopravvalutazione delle capacità intellettuali dell’uomo, che diventa una forma di intellettualismo presuntuoso, è uno dei limiti anche della riflessione di Cartesio, che costruisce su di esse tutto il suo sistema razionalistico senza però, secondo Pascal, cogliere la portata enorme della presenza di Dio, salvo farne il garante di un sistema fisico e metafisico fondato su se stesso attraverso il percorso razionale delle Meditazioni (vedi Unità 3, p. 160 ss.). Nel frammento n. 77 (numerazione Brunschvicg) dei Pensieri trova espressione tutta la diffidenza di Pascal verso la metafisica razionalistica di cui Cartesio è il massimo rappresentante: «Non posso perdonarla a Cartesio, il quale in tutta la sua filosofia avrebbe voluto poter fare a meno di Dio, ma non ha potuto evitare di far dare un colpetto al mondo per metterlo in moto; dopo di che non sa più che farne di Dio». Per Pascal, invece, la ragione umana è piuttosto limitata, e l’uomo è tanto più limitato, quanto più pensa di affidarsi alla sola capacità deduttiva di tipo matematico, argomentativo. In realtà l’uomo è un essere «pieno d’errore», e ha grandi limiti nella sua possibilità di conoscere la verità. Se i sensi ingannano la ragione attraverso false apparenze, la ragione si vendica: il risultato è una sorta di inganno reciproco tra le due possibili fonti di conoscenza, i sensi e la ragione. In questo atteggiamento si rivela la radice scettica o «pirroniana» (come ci si riferisce in questo secolo allo scetticismo, richiamando Pirrone, il filosofo greco del IV-III secolo a.C.) della critica pascaliana ai limiti della ragione umana. Questi limiti si mostrano anche nella possibilità di conoscenza della moralità, dei criteri del giusto e dell’ingiusto, che la più parte degli uomini sembra affidare agli usi e ai costumi dei popoli cui ciascuno appartiene: questo atteggiamento scettico e relativistico che si fonda sui diversi costumi dei diversi popoli, celebrato da Michel de Montaigne (vedi Unità 1, p. 25 ss.), non avrebbe in realtà luogo se l’uomo fosse in grado di conoscere davvero cos’è la giustizia.

I moralisti francesi Una delle caratteristiche della modernità, ossia dell’epoca del pensiero che inizia con la rivoluzione scientifica e il tentativo cartesiano di rifondare la filosofia con la sola forza della ragione, è la centralità che assume la riflessione sulla natura umana. È vero che l’uomo non è più il centro dell’universo, ma la perdita dei vincoli dettati dall’autorità politica e religiosa e il bisogno di sottoporre ogni cosa all’esame della ragione richiedono comunque una più attenta riflessione su se stessi, sul proprio posto nel mondo, su come ci si comporta e sulle motivazioni profon-

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de delle proprie scelte. Oltre che il secolo dei grandi sistemi metafisici, il Seicento è un secolo di moralisti, e un posto di rilievo tra questi lo hanno alcuni autori francesi. L’attenzione alla natura umana ha tra i suoi precursori l’umanista Montaigne, in cui compaiono vari temi morali, che troveranno un’eco sia nel XVII che nel XVIII secolo: il confronto con le culture extraeuropee e il tema dei «selvaggi»; il rifiuto di ogni concezione metafisica della natura umana; la consapevolezza dei limiti della conoscenza; la negazione di una differenza qualitativa tra natura animale e umana; il rifiuto della morale stoica

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e della grandezza e centralità dell’uomo nell’universo. Prendendo spunto da una moda letteraria in voga nei salotti e nella conversazione, François de La Rochefoucauld (1613-1680), uno dei protagonisti della vita politica francese, pubblica nel 1664 una raccolta di aforismi intitolata Massime, che il critico italiano Giovanni Macchia (1912-2001) definisce «piccoli lavori di oreficeria». Si tratta di brevi frasi lapidarie o riflessioni più articolate, intrise di un profondo pessimismo sulla natura umana, dominata dall’«amor di sé», ossia dall’egoismo: la raccolta si apre infatti, a partire dalla IV edizione, con

l’affermazione «Il più delle volte le nostre virtù sono soltanto vizi camuffati». Nel 1688 escono invece I caratteri di Teofrasto, tradotti dal greco con i caratteri o i costumi di questo secolo di Jean de La Bruyère (1645-1696), in cui, di seguito alla traduzione dell’opera dell’allievo di Aristotele, incontriamo brevi massime o ritratti (nell’ultima edizione se ne contano 1120) in cui l’autore analizza l’indole degli uomini, dividendoli in tipologie. Dietro molti di essi i contemporanei potevano riconoscere personaggi illustri dell’epoca rappresentati con amara ironia e acutezza.

Ipocrisia e autoinganno dell’uomo

L’uomo, afferma Pascal, non è in grado di conoscere se stesso. In questa critica della pretesa conoscenza di sé, che è anche e soprattutto critica dell’ipocrisia e dell’autoinganno dell’uomo, Pascal può essere accostato alla incisiva e pungente critica dell’ipocrisia che si sviluppa nelle riflessioni e nelle massime dei moralisti francesi del suo secolo sopra ricordati, come La Rochefoucauld. Se tutti gli uomini sapessero che cosa dicono l’uno dell’altro «non esisterebbero quattro amici al mondo». Gli uomini rifiutano di dirsi la verità e, ciò che è ancora più grave, di dire la verità a se stessi. Si rivela così l’amor proprio nel suo significato negativo di concentrazione benevola su di sé, che rifiuta di vedere in se stessi quegli stessi difetti che ritiene di individuare negli altri.

T4

La natura dell’amor proprio e di questo io umano consiste nel non amare che se stesso e non considerare altro che sé. Ma che farà? Non potrà certo impedire che questo oggetto da lui amato non sia pieno di difetti e miserie; vuole essere grande e si vede piccolo; vuole essere felice e si trova miserabile; vuole essere perfetto e si trova pieno di imperfezioni; vuole essere oggetto dell’amore e della stima degli uomini, e si accorge che i suoi difetti meritano la loro avversione e il loro disprezzo. Questo imbarazzo in cui si trova produce in lui la più ingiusta e criminale passione che sia possibile immaginare; infatti concepisce un odio mortale contro quella verità che lo riprende e lo convince dei suoi difetti. Desidererebbe annientarla e, non potendo distruggerla in se stessa, la distrugge, per quanto può, nella sua conoscenza e in quella degli altri, vale a dire mette tutto il suo impegno nel nascondere i suoi difetti agli altri e a se stesso e non può tollerare né che gli vengano mostrati né che lui li veda. È indubbiamente un male essere pieno di difetti; ma il male maggiore è esserne pieno e non volerlo riconoscere, poiché vi si aggiunge il male di un’illusione volontaria. Non vogliamo che gli altri ci ingannino; non troviamo giusto che gli altri vogliano essere stimati più di quel che meritano; dunque non è neppure giusto ingannarli e volere che ci stimino più di quel che meritiamo.

L’amor proprio B. Pascal, Pensieri, n. 100 (numerazione Brunschvicg)

3 Subordinazione della ragione alla fede

La ragione e il cuore: geometria e finezza Un aspetto particolare della consapevolezza pascaliana dei limiti della ragione umana lo si ritrova nella opposizione tra ragione e cuore. Pur segnato dal peccato originale, e quindi ormai incapace di conoscere l’infinito, l’uomo è, però, capace attraverso la sua ragione di conoscere le cose finite, grazie alla propria riflessione 217

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

e al metodo geometrico. Ma la conoscenza dei principi (esistenza dello spazio, del tempo, del movimento, dei numeri) è lasciata da Pascal a ciò che chiama «il cuore», che se da un lato permette di cogliere i principi, dall’altro è l’organo deputato a rilevare le verità più importanti ed essenziali, ovvero le verità della religione e della fede. Il riconoscimento dei limiti della ragione ha insomma per esito, in questo modo, la subordinazione della razionalità all’organo della fede. «Spirito di geometria» Una contrapposizione analoga e affine ha luogo, nel pensiero di Pascal, tra lo cartesiano e «spirito «spirito di geometria» e lo «spirito di finezza». Lo spirito di geometria è evidendi finezza» pascaliano temente legato alla ragione e alla capacità di argomentare rigorosamente, traendo le conclusioni logicamente corrette a partire da determinate premesse. Lo spirito di geometria riesce bene, come ha scritto il filosofo Giulio Preti (1911-1972), quando si tratta di affrontare materie semplici a partire da pochi e chiari assiomi. Lo spirito di finezza invece – la stessa denominazione è rivelatrice – è appunto più raffinato, è un principio di orientamento in materie complesse, che non possono essere risolte sulla base di pochi e semplici principi ma che prevedono il presentarsi contemporaneo di molti principi e quindi la necessità di utilizzare una sorta di istinto, di scelta intuitiva, di spirito fine. Si tratta di un atteggiamento particolarmente adatto per affrontare le questioni che riguardano l’uomo e la sua esistenza.

4 L’ambivalenza della condizione umana

Legame tra grandezza e miseria nell’uomo

Il pensiero e la consapevolezza caratteri distintivi dell’uomo

T5

L’uomo è una canna che pensa B. Pascal, Pensieri, n. 347

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La duplicità dell’uomo: grandezza e miseria Tutto il tono degli scritti di Pascal è improntato a sottolineare la strutturale duplicità dell’uomo, cioè la sua grandezza e, al tempo stesso, la sua miseria. Quella dell’uomo è del resto una grandezza che nasce anche dalla consapevolezza, o almeno dalla capacità di arrivare alla consapevolezza della propria miseria e piccolezza. La grandezza dell’uomo consiste infatti anche e soprattutto nella sua capacità di riconoscersi «miserabile», poiché un albero, per esempio, non sa di essere miserabile. La stessa duplicità della natura umana si esprime infatti nell’idea dell’uomo radicalmente segnato dal peccato e però, al tempo stesso, nella possibilità della salvezza per opera della grazia divina. Grandezza e miseria sono quindi due elementi che rimandano l’uno all’altro, e che devono costituire il principio del modo in cui l’uomo guarda a se stesso. L’infinità dell’universo e la forza della natura lo possono inghiottire «come un punto» e cancellare in un attimo la sua presenza fisica, e quindi non è certo in questa dimensione che andrà ricercata la grandezza dell’uomo. Anzi, l’uomo ha la stessa fragilità di una canna, esposta alle seppur minime variazioni delle condizioni naturali, mentre il pensiero, e la consapevolezza di tutto quello che accade a lui e intorno a lui, sono in grado di nobilitarlo, di dargli una dignità superiore a ogni altro essere naturale. L’uomo non è che una canna, la più debole della natura; ma è una canna pensante. Non c’è bisogno che tutto l’universo s’armi per schiacciarlo: un vapore, una goccia d’acqua basta ad ucciderlo. Ma, anche se l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe ancor più nobile di chi lo uccide, perché sa di morire e conosce la superiorità dell’universo su di lui; l’universo invece non ne sa niente.

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Tutta la nostra dignità consiste dunque nel pensiero. È con questo che dobbiamo nobilitarci e non già con lo spazio e il tempo che potremmo riempire. Studiamoci dunque di pensar bene: questo è il principio della morale. In realtà, invece, l’uomo si distoglie continuamente dal pensare, e basta ben poco per distrarre la sua mente. Non c’è certo bisogno, dice ironicamente Pascal, di un rombo di cannone, ma è sufficiente il ronzio di una mosca vicino al suo orecchio, o il rumore di una ruota, perché egli diventi incapace di prendere la giusta decisione. È però ben più grave l’intenzionale e colpevole tentativo continuo di non riflettere su se stesso e sulla propria condizione. Il divertissement Riflettendo su questo atteggiamento di fuga dell’uomo, Pascal introduce il tema come distrazione del divertissement, del «divertimento», inteso, in senso letterale, come «distradella mente zione», ovvero come operazione della mente che tende a distogliere lo sguardo e la riflessione da ciò che è davvero importante (la miseria e la fragilità umane, il bisogno di Dio come autore e fine dell’esistenza). Una volta che non riesca a distrarsi, l’uomo infatti è assalito dalla noia che si trasforma spesso in disperazione e tristezza. È nei Pensieri dedicati a questo tema che compare la figura della morte: anche la vita apparentemente più appagata è in realtà una vita infelice, se non ci si può affidare al divertimento. La fragilità dell’attenzione dell’uomo

T6

La morte e il divertimento B. Pascal, Pensieri, n. 139

5

Immaginate un re circondato da tutte le soddisfazioni che possono appagarlo: se però è senza divertimento ed è lasciato a considerare e a riflettere quello che è, allora la sua malinconica felicità non lo sosterrà per nulla e sarà necessariamente vittima della visione di ciò che lo minaccia, delle rivolte che possono accadere e infine della morte e delle malattie che sono inevitabili; cosicché, se egli è privo di quel che si chiama divertimento, diventa infelice e più infelice dell’ultimo dei suoi sudditi, che gioca e si diverte.

Il dio nascosto

La prospettiva religiosa di Pascal è profondamente segnata dalla coscienza del peccato originale e della infinita e non colmabile – se non attraverso la grazia – distanza di Dio dal mondo, i tratti che insieme con il rigorismo morale rivelano nel modo più chiaro l’impronta giansenistica del pensiero di Pascal. Questa distanza di Dio, sostiene il filosofo, viene riconosciuta esplicitamente dal cristianesimo, e questo riconoscimento è il segno della sua superiorità rispetto alle altre religioni. Il Dio nascosto È Dio che chiarisce a chi vuole ciò che appare oscuro, attraverso la grazia: è soe il ruolo della grazia lo presunzione quella di coloro che vogliono spiegare attraverso la semplice razionalità l’oscurità della religione. È falsa la religione di coloro che negano questo carattere alla religione ed è incapace di istruire la religione che non ci dà una spiegazione delle oscurità, come il cristianesimo invece fa con la dottrina del peccato originale e della grazia: «Poiché Dio si è così nascosto, ogni religione che afferma che Dio non è nascosto non è vera; e ogni religione che non ne dà la spiegazione non istruisce. La nostra fa tutto questo: Vere tu es Deus absconditus», «veramente tu sei un Dio nascosto», come scrive Pascal citando il versetto biblico dal libro del profeta Isaia. La distanza di Dio dal mondo

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

6 Un argomento razionale ma non una prova metafisica

L’appello al lume naturale

Scommettere sull’esistenza di Dio

La scommessa come argomentazione razionale

La scommessa All’interno dei Pensieri si trova, in una posizione abbastanza isolata, una delle tesi più spesso ricordate – e più vivacemente discusse – del pensiero di Pascal, l’argomento detto del pari, ovvero della scommessa, che è tanto suggestivo quanto enigmatico, perché Pascal è in realtà spesso polemico verso il raziocinare metafisico e verso le prove dell’esistenza di Dio, mentre in questa occasione la sua argomentazione è lucidamente razionale. Solo che, invece di fare appello a nozioni teologiche o metafisiche, il suo ragionamento prende le mosse da uno dei sentimenti più radicati nella natura umana: la ricerca del proprio utile. Pascal dichiara esplicitamente di volere utilizzare non la fede ma il solo lume naturale, ossia la ragione di cui tutti sono partecipi. La ragione non ci può dire nulla con assoluta certezza sull’esistenza di Dio, ma ciononostante essa deve prendere posizione, deve cioè scommettere su questa eventualità, come viene indotta a fare da un calcolo razionale che ha la funzione, in Pascal, di predisporre, di preparare alla fede: quest’ultima, infatti, può essere soltanto un dono di Dio. Pascal cerca di mostrare quanto sia vantaggioso scommettere sull’esistenza di Dio, rispetto alla sua non-esistenza, visti i vantaggi che sono in gioco nel caso Dio esista. Il problema è se sia conveniente rinunciare ai beni di questa vita in nome di qualcosa che la ragione non mi può mostrare per certo, ovvero la vita eterna come beatitudine: di fronte a una simile posta in palio, afferma Pascal, la scommessa non può che essere sull’esistenza di Dio. La vita eterna come beatitudine è infatti infinitamente superiore a qualunque altro bene, poiché è eterna e poiché si tratta di una gioia che qualitativamente non ha paragoni con nessun’altra. In ballo c’è un’eternità di vita e di felicità.

L’uomo cerca sempre il proprio utile

Vi sono due alternative: Dio esiste o Dio non esiste

Si deve scommettere su una delle due ipotesi

Se Dio non esiste e crediamo in lui, non perdiamo nulla; se Dio esiste e non crediamo in lui perdiamo la beatitudine eterna

Conviene scommettere sull’esistenza di Dio

7 In difesa del giansenismo

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La morale e la polemica con i gesuiti L’attacco ai giansenisti e in particolare ad Arnauld condotto dalla Chiesa con la condanna papale ufficiale (nel 1653, con la bolla Cum occasione), e contemporaneamente dai dottori della Sorbona, impone a Pascal una netta presa di posizione che riguarda prevalentemente la morale dei gesuiti, i principali avversari dei

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Unità 4 L’età cartesiana

Due concezioni della grazia a confronto

I gesuiti e la casistica

Pascal e la condanna della casistica

➥ Sommario, p. 228

giansenisti. È questo il contenuto delle Provinciali, una serie di scritti in forma di lettere pubblicate anonimamente da Pascal, con la collaborazione di Arnauld, ricchi d’ironia e di sarcasmo nei confronti dei gesuiti e diventati nei secoli successivi un modello di prosa per la lingua francese. L’oggetto del contendere è il tentativo dei gesuiti di costruire una morale più vicina all’uomo e nella quale la ragione gioca un ruolo importante: si confrontano due diverse concezioni della grazia, e due opposte valutazioni del peso del peccato originale e delle capacità umane. 1) Secondo i gesuiti, che seguono la teoria del loro confratello Luis de Molina (1536-1600), nonostante la colpa originaria che discende dal peccato di Adamo, la grazia sufficiente permette all’uomo di operare bene, e quindi gli si riconosce una capacità autonoma. 2) Invece, secondo la tradizione agostiniana, seguita dal giansenismo e da Pascal, la salvezza è operata in tutto e per tutto dalla grazia efficace, che viene direttamente da Dio e che dimostra l’impossibilità di una salvezza che venga conquistata dall’uomo, anche solo in parte, autonomamente. Per la loro posizione radicale su questo tema i giansenisti vengono giudicati dalla gerarchia ecclesiastica lontani dalla teologia ufficiale e vicini alla posizione delle Chiese riformate, e per questo condannati. Nel tentativo di rivalutare la ragione e il suo ruolo, i gesuiti danno largo spazio alla casistica, cioè all’esame accurato dei singoli casi che hanno significato morale, cercando in questo modo di attenuare il rigore della moralità cristiana, anche per motivi opportunistici: i principi generali sono di un certo tipo, ma l’analisi del caso particolare permette di concedere eccezioni e modi particolari di comportamento proprio nel passaggio dal principio generale al caso particolare. L’uso diffuso della casistica permette di adeguare la morale cristiana ai costumi e agli usi sociali, rendendola così più praticabile e, in sostanza, più attraente, ma spingendosi, per i suoi critici, fino al limite dell’ipocrisia. Pascal rifiuta decisamente questo atteggiamento sia nei Pensieri sia, ancor più, nelle Provinciali, e ad esso contrappone una ferma sottolineatura del peso del peccato originale e della necessità di un’interpretazione rigoristica della morale cristiana, sempre concepita come modello inflessibile di coerenza.

Temi della filosofia di Pascal

Interesse per la scienza e studi scientifici Limiti della metafisica razionalistica di Cartesio: – scetticismo: inganni reciproci tra sensi e ragione – l’uomo non è in grado di conoscere né la morale né se stesso – distinzione cuore / ragione – distinzione spirito di geometria / spirito di finezza

Pascal

Analisi esistenziale della condizione umana: – angoscia esistenziale, noia e divertissement – miseria e grandezza dell’uomo – la grandezza dell’uomo risiede nel pensiero Giansenismo e polemica con i gesuiti: – difesa di Arnauld – apologia del cristianesimo – rifiuto delle prove dell’esistenza di Dio e scommessa – concezione della grazia efficace e predestinazione – rigorismo morale e rifiuto della casistica

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Critica della tradizione e teodicea: Bayle

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I testi P. Bayle Pensieri sulla cometa: L’ateo superiore all’idolatra, T7; I

costumi di una società senza religione, T8 Dizionario storico-critico: La realtà del male, T9

È legittimo vedere in Pierre Bayle la conclusione del secolo cartesiano e razionalistico e, al tempo stesso, erudito e scettico. In Bayle, infatti, trovano compimento l’impostazione razionalistica, che viene portata alle sue estreme conseguenze e che costituisce il fondamento dell’analisi storica, e l’atteggiamento erudito e scettico che proviene dalla letteratura libertina. L’operazione di Bayle si compie, con grandiosità, nel Dizionario storico-critico del 1696, poi ampiamente integrato nelle edizioni successive: una seconda edizione ampliata e corretta, dopo alcune critiche, compare nel 1702, quando Bayle è ancora in vita; un’edizione definitiva viene pubblicata postuma ventiquattro anni dopo la sua morte, nel 1730. La rivalutazione La polemica verso la conoscenza storica caratterizza tanto la filosofia cartesiadella conoscenza na (si tratta di una conoscenza non chiara e distinta) quanto l’influentissima ristorica flessione di Malebranche, polemico verso l’erudizione anche per il timore dei suoi esiti antireligiosi. Bayle, da questo punto di vista, segue piuttosto i tentativi di rivalutare la conoscenza solo probabile delle discipline storiche che Arnauld ha riconosciuto nella Logica. Il generale atteggiamento scettico di Bayle vale anche nei confronti della storia, che oltretutto si presta a essere modificata e manipolata per interessi di parte; certamente però il Dizionario si confronta con la tradizione utilizzando il doppio registro della critica razionalistica e dell’indagine storica, e mostrando come le due prospettive possano fecondamente interagire.

Bayle come sintesi dei temi dell’età cartesiana

La vita e le opere Pierre Bayle nacque a Carlat, nell’Alvernia, nel 1647. La sua famiglia era protestante, ma egli si convertì al cattolicesimo nel 1669 mentre frequentava l’università di Tolosa, gestita dai gesuiti; tuttavia l’anno successivo ritornò al protestantesimo. Ricoprì l’incarico di professore di filosofia prima a Sedan, dal 1675, e poi a Rotterdam dal 1681 e in questi anni studiò la filosofia contemporanea: Malebranche, gli scolastici, i gassendisti, ma anche filosofi eterodossi come i libertini, Spinoza e Hobbes. Nel 1682 pubblicò i Pensieri sulla cometa e nel 1684 fondò la rivista «Nouvelles de la république des lettres», che

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divenne presto molto diffusa e influente e di cui fino al 1687 fu quasi redattore unico: sul periodico comparivano recensioni, annunci di pubblicazioni, segnalazioni riguardanti la vita culturale. Nel frattempo era avvenuta la sua rottura con il calvinismo rigorista e nel 1693 Bayle venne destituito dalla cattedra. Da questo momento si mantenne solo grazie alla sua attività di scrittore, pubblicando il Dizionario storico-critico, uscito inizialmente in due volumi nel 1696 e in seconda edizione nel 1702; le Aggiunte ai pensieri sulla cometa (1694, 1704) e la Risposta alle domande di un provinciale (1703-1706). Morì a Rotterdam nel 1706.

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Unità 4 L’età cartesiana

1 Il dibattito sulle comete

Contro l’argomento del consenso

Esame razionale di credenze e superstizioni

La critica della superstizione e dell’idolatria La critica della tradizione come critica della superstizione, che svolgerà un importante ruolo nel Dizionario, comincia a essere esercitata da Bayle nei Pensieri sulla cometa (pubblicati anonimi), che contestano una pretesa interpretazione miracolistica dei fenomeni astronomici, e in particolare delle comete, per la vita dell’uomo: è voce corrente e opinione diffusa, infatti, che le comete portino sciagure, ed è proprio questa tesi che viene negata da Bayle. Il fine razionalistico della critica della superstizione non è nuovo, ma in realtà Bayle intende mettere in discussione l’idea che un ampio consenso su un’opinione – come quella degli effetti soprannaturali delle comete – possa contribuire ad aumentare la verosimiglianza di quell’opinione: l’antichità e l’universalità di un’opinione, scrive Bayle, non sono un segno della sua verità (una critica analoga è presente in John Locke, vedi Unità 6, p. 363). Tutte le testimonianze e le credenze, quindi, devono essere esaminate con attenzione, a meno che non si voglia cadere nella superstizione e nell’idolatria, come nel caso della «invenzione» che il sole abbia offuscato la luce alla morte di Cesare, un evento pericolosamente simile, anche se Bayle si guarda bene dal metterlo in connessione diretta, all’oscuramento del sole alla morte di Cristo tramandato dal racconto evangelico.

La difesa dell’ateismo L’ateismo è preferibile all’idolatria

T7

L’ateo superiore all’idolatra P. Bayle, Pensieri sulla cometa, 119 P

Un tema di grande novità nella riflessione di Bayle è il modo di affrontare l’ateismo. Egli si contrappone infatti alle tesi tradizionali, secondo le quali l’ateismo sarebbe il massimo pericolo, inevitabilmente legato alla corruzione dei costumi e strutturalmente incompatibile con qualunque tipo di vita sociale. L’ateismo, insomma, ovvero una tesi religiosa, ha conseguenze devastanti anche sul piano morale, se si segue la tradizione. Ma è questa la tesi che Bayle, esplicitamente, nega. In realtà, il demonio preferisce l’idolatria all’ateismo: credere in falsi dèi rende più difficile la conversione, rispetto a una posizione genuinamente atea, perché lo zelo di un idolatra è una disposizione del cuore molto più radicata. […] lo zelo di un idolatra è una disposizione del cuore molto più pericolosa dell’indifferenza, perché, sempre generalmente parlando, un uomo bigotto e pervicacemente attaccato ai suoi falsi principi è più difficile che riconosca la verità di un uomo che non sa a che cosa credere. Per questo mi sembra preferibile essere atei.

Per quanto poi riguarda l’idea che l’ateismo conduca «necessariamente» alla corruzione dei costumi, ovvero alla corruzione morale, quest’idea è per Bayle il frutto della falsa convinzione che sia la razionalità a guidare la condotta umana, e che gli uomini seguano quegli stessi precetti che razionalmente riconoscono e ritengono migliori. Moventi non razionali In realtà il comportamento dell’uomo non è determinato dalle conoscenze genedelle azioni rali che egli ha di ciò che deve fare, ovvero dai suoi principi, ma piuttosto dalla passione, dalle inclinazioni o dalle abitudini. Per questo una società di atei Ateismo e condotta morale

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avrebbe le stesse possibilità di sopravvivere pacificamente di quante ne hanno le società pagane, che del resto vengono accostate in modo esplicito alla vita sociale del mondo cristiano contemporaneo. Valore sociale In tutti i tipi di società – e qui emerge il grande pessimismo di Bayle sulla natudella pena ra umana – ciò che permette la convivenza sono ben più le punizioni e quindi le leggi penali che le convinzioni religiose. Che è un modo come un altro per dire che non c’è, tra le diverse società umane, gran differenza per quanto riguarda la moralità, e se c’è non ha radice nella religione.

T8

Se, dopo tutte queste osservazioni, si vuole sapere come io immagini una società di atei, non avrò alcuna difficoltà a sostenere che essa sarebbe, a mio parere, nei costumi come nelle azioni civili, del tutto simile a una società di pagani. Sarebbero necessarie, è vero, leggi molto severe e scrupolosamente applicate per punire i criminali; ma leggi simili non sono necessarie ovunque? E noi stessi avremmo il coraggio di uscire dalle nostre case se il furto, l’assassinio e tutte le altre violenze fossero permesse dalle leggi emanate dal nostro sovrano? Non si deve forse esclusivamente al rinnovato vigore dato dal re alle leggi contro i malfattori, se per le vie di Parigi giorno e notte siamo protetti dai loro soprusi? Senza tali leggi non saremmo anche noi esposti alle stesse violenze che vengono perpetrate negli altri paesi, quantunque i predicatori e i confessori facciano oggi il loro dovere assai meglio di una volta? […] È proprio il caso di affermare, senza cadere nella retorica, che nella maggior parte delle persone la giustizia umana è la vera causa della virtù.

Superiorità dell’ateismo sul fanatismo religioso

Bayle sembra spingersi fino alla tesi contraria, rispetto alla tradizione: chi sembra davvero pericoloso dal punto di vista sociale è il fanatico della falsa religione, che però rischia di non potere essere più distinto dal fanatico della religione «vera», ossia cristiana. L’ateo non sembra soggetto, invece, a molte tentazioni che caratterizzano il credente, per cui Bayle finisce per dipingere una figura dell’ateo superiore a qualunque credente. La trattazione finisce per essere una sorta di apologia dell’ateismo come mai comparsa prima, appoggiandosi, qui e altrove, a figure di atei intese come modelli di «onestà», a partire dall’ateo che costituisce anche un modello di riflessione filosofica coerente, Spinoza.

I costumi di una società senza religione P. Bayle, Pensieri sulla cometa, 161

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La tolleranza

Alla convinzione dei rischi del fanatismo religioso si accosta in Bayle, ben presto, la preoccupazione per le sorti della convivenza di religioni diverse e di credenze diverse. Non è certo una preoccupazione fuori posto, questa di Bayle: il 15 ottobre del 1685, infatti, Luigi XIV revoca l’editto di Nantes con cui la Francia aveva permesso la libertà di religione quasi un secolo prima. E Bayle prende posizione anche in questa occasione, concentrando la propria attenzione sull’idea della coscienza del singolo come «voce di Dio»: è la sacralità della coscienza, anche quando fosse in errore, a diventare per Bayle il fondamento della tolleranza. Difesa della libertà La coscienza che sbaglia, o «errante», quando è in buona fede, ha gli stessi didi coscienza ritti della coscienza giusta, se non altro perché in materia di fede non ci sono prove certe e definitive che non rimandino da ultimo alla coscienza dei singoli.

Sacralità della coscienza in tema di religione

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Unità 4 L’età cartesiana Separazione tra moralità e religione

3 Il dibattito sul problema del male

➥ Percorso tematico, p. 321 L’attenzione alle tesi dei manichei

Agostino e la teoria del male come privazione

Radicalismo di Bayle

Razionalità del manicheismo

T9

La realtà del male

P. Bayle, Dizionario, art. Manichei, D

Dal pensiero di Bayle, quindi, sia quando affronta la questione degli atei, sia quando si occupa della coscienza «errante», ciò che sicuramente emerge è la necessità di separare la moralità dalla religione: la religione non è condizione di rettitudine morale, al contrario, sembra piuttosto essere spesso la causa della peggiore immoralità.

Il problema del male e la critica della teodicea L’incompatibilità tra fede e ragione, tratteggiata nelle varie opere minori di Bayle, è al centro del Dizionario storico-critico, e trova espressione nella spregiudicata analisi condotta da Bayle sul problema del male, che dal Dizionario si allunga fino a tutto il Settecento, dopo che Leibniz, proprio in replica a Bayle, conia il nuovo termine per il problema della giustizia divina di fronte al male del mondo, la «teodicea». Non è un caso che nel curioso impianto del Dizionario – dove si trovano occorrenze per personaggi semisconosciuti, e mancano personaggi di prima grandezza come, per esempio, Platone – due voci importanti siano quelle dedicate ai manichei e ai pauliciani (un altro nome della medesima setta manichea), che risolvevano il problema dell’esistenza del male del mondo in un modo incompatibile con il monoteismo cristiano, ovvero affermando l’esistenza di due principi indipendenti e contrapposti, il principio del bene e il principio del male. Al manicheismo si era opposto Agostino, che cerca di evitare le conseguenze dualistiche della tesi manichea ritenendo il male come semplice assenza di bene, come una semplice privazione, dovuta alla finitezza di tutto ciò che è creato, e non come qualcosa di positivo, dotato di una propria esistenza autonoma. La semplice privazione, il male che Agostino chiama metafisico, sarebbe all’origine del male fisico e del male morale che caratterizza la finitezza e quindi l’essere umano. Come fa anche per altri problemi in cui il contrasto tra fede e ragione appare insanabile – per esempio il dogma della trinità, o la transustanziazione nell’eucarestia –, Bayle rifiuta le soluzioni di compromesso, mettendo piuttosto direttamente il dito sulla piaga: il male non può essere visto come una semplice «assenza» o mancanza di perfezione, è piuttosto qualcosa di ben presente e di effettivo, che può essere osservato di continuo nella vita quotidiana degli uomini, sia per l’aspetto fisico, del dolore, sia per l’aspetto morale, della malvagità umana. Il contrasto tra la fede in un Dio buono e onnipotente e la presenza del male è dimostrato proprio dalla lucida sensatezza razionale della soluzione manichea, che dalla compresenza inspiegabile di male e di bene trae la conclusione dell’esistenza di due principi contrapposti. La posizione di questa setta non è contraria alla ragione, mentre lo è, se si rimane sul piano della razionalità, quella del Dio cristiano, che assomma in sé le qualità di essere unico, buono e onnipotente. L’uomo è cattivo e infelice: tutti lo sanno, osservando ciò che passa all’interno del proprio animo e le relazioni che sono costretti ad avere con il prossimo. È sufficiente vivere cinque o sei anni per convincersi perfettamente di questi due punti; coloro che vivono a lungo e sono ben addentro negli affari lo sanno ancora meglio. I viaggi costituiscono in proposito delle lezioni esemplari, perché fanno ve225

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dere ovunque le testimonianze della infelicità e della malvagità umane. Ovunque si vedono prigioni e ospedali, ovunque ladri e mendicanti […] La storia, propriamente parlando, non è altro che una raccolta dei delitti e delle disgrazie del genere umano; ma osserviamo che questi due mali, quello morale e quello fisico, non sono gli unici protagonisti di tutta la storia né esauriscono tutta l’esperienza dei singoli individui: vediamo che ovunque c’è sempre un po’ di bene morale o un po’ di bene fisico, alcuni esempi di virtù, alcuni esempi di felicità, ed è proprio in questo che risiede la difficoltà. Perché se non vi fossero che malvagi e disgraziati, non sarebbe affatto necessario ricorrere all’ipotesi dei due principi. Sul piano razionale le tesi manichee sono allora molto più coerenti e molto più capaci di spiegare l’esperienza, rispetto alle tesi cristiane. Bayle difende la sensatezza della vecchia domanda posta da Lattanzio attraverso il riferimento a Epicuro: Dio non sembra poter essere contemporaneamente buono, giusto e onnipotente, altrimenti il male non esisterebbe. Se Dio è in grado di evitare il male e non lo fa non è buono, e se non è in grado di evitarlo, non è onnipotente. Due soluzioni Fede e ragione si trovano in Bayle in una contrapposizione così radicale che non al conflitto restano molte soluzioni, una volta che si sia accertata la loro incompatibilità. Le ragione / fede scelte disponibili sono soltanto due: o un fideismo cieco, che si affida totalmente alla fede senza curarsi del responso della ragione, o un ateismo conseguente sul piano della razionalità. Bayle dichiara sempre la propria adesione alla prima soluzione, ma rimane una questione aperta se questa dichiarazione non sia altro che l’ennesimo modo di mascherare la propria più profonda convinzione, come ➥ Sommario, p. 228 fanno, in questi anni e negli anni successivi, molti altri pensatori.

Il dilemma sulla natura di Dio

Bayle e il problema del male

Il male è qualcosa di reale, non è semplice privazione Se accettiamo l’immagine teologica razionale di Dio, vi è una contraddizione tra la sua potenza e la sua bontà: se Dio è buono e onnipotente il male non dovrebbe esistere L’ipotesi manichea che esistano due principi contrapposti in perenne lotta tra loro è più razionale di quella della teologia cristiana

Suggerimenti bibliografici Per il libertinismo sono utili l’antologia curata da O. Pompeo Faracovi, Il pensiero libertino, Loescher, Torino 1977, e il classico studio di J. Spink, Il libero pensiero in Francia da Gassendi a Voltaire, Vallecchi, Firenze 1974. Più recente il volume di T. Gregory, Etica e religione nella critica libertina, Guida, Napoli 1986. Su Gassendi vedi T. Gregory, Scetticismo ed empirismo. Studio su Gassendi, Laterza, Bari 1961, e la monografia di M. Messeri, Causa e spiegazione. La fisica di Pierre Gassendi, Angeli, Milano 1985. Su Malebranche, soprattutto dal punto di vista della teoria della conoscenza: M. Priarolo, Visioni divine. La teoria della conoscenza di Malebranche tra Agostino e Descartes, ETS, Pisa 2004. Per Pascal, un’introduzione utile è A. Bausola, Introduzione a Pascal, Laterza, Roma-Bari 2003, con la classica monografia di P. Serini, Pascal, Einaudi, Torino 1952, più volte ristampato.

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Unità 4 L’età cartesiana Temi e autori dell’età cartesiana

Libertinismo erudito: La Mothe Le Vayer, Naudé, Cyrano de Bergerac

Erudizione: critica storica e recupero delle filosofie antiche

Tentativi di conciliare analisi storico-critica e religione: Simon e Le Clerc

Difesa della cronologia biblica: Bossuet

Disputa tra antichi e moderni: Fontenelle Gassendi: critiche a nozioni cartesiane, empirismo, ripresa dell’epicureismo conciliato con il cristianesimo

Diffusione del cartesianesimo e metafisica razionalista

Bayle: erudizione e razionalismo, analisi storico-critica, tolleranza e critica della teologia Malebranche: cartesianesimo occasionalista e agostinismo; critica dell’erudizione

Giansenismo: riproposizione dell’agostinismo e rigorismo morale

Arnauld: ripresa della nozione cartesiana di evidenza (intendere) e giansenismo; critiche alla teoria delle idee di Malebranche

Gesuiti: difesa dell’aristotelismo e casistica

Pascal: critiche al cartesianesimo; limiti della scienza e del razionalismo; spirito di geometria e spirito di finezza; apologetica cristiana e riflessione su miseria e grandezza dell’uomo; polemica con i gesuiti

Dibattito interno al mondo cattolico tra aristotelici e platonico-agostiniani

Per Bayle il testo introduttivo più importante è G. Mori, Introduzione a Bayle, Laterza, Roma-Bari 1996, ma vedi anche G. Cantelli, Teologia e ateismo. Saggio sul pensiero filosofico e religioso di Pierre Bayle, La Nuova Italia, Firenze 1969. Per tutta la questione della teodicea in età cartesiana, in generale, è fondamentale il libro di S. Landucci, La teodicea in età cartesiana, Bibliopolis, Napoli 1986; sulle discussioni seicentesche è da vedere anche E. Scribano, Da Descartes a Spinoza. Percorsi della teologia razionale nel Seicento, Angeli, Milano 1988. Per la questione della conoscenza storica è da vedere il libro di C. Borghero, La certezza e la storia. Cartesianesimo, pirronismo e conoscenza storica, Angeli, Milano 1983. I brani antologizzati sono tratti da: A. Arnauld - P. Nicole, La logica, o l’arte di pensare, parte 4, cap. 1, in Grammatica e logica di Port-Royal, a cura di R. Simone, Ubaldini, Roma 1969. N. Malebranche, La ricerca della verità, a cura di M. Garin, Laterza, Roma-Bari 1983. B. Pascal, Pensieri, a cura di G. Auletta, Mondadori, Milano 1994. P. Bayle, Pensieri sulla cometa, a cura di G. Cantelli, Laterza, Roma-Bari 1979. P. Bayle, Dizionario storico-critico, a cura di G. Cantelli, Laterza, Roma-Bari 1976.

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Sommario 1. RAZIONALISMO

CARTESIANO E SAPERE ERUDITO

Nella filosofia della seconda metà del Seicento sono centrali la metafisica razionalistica di Cartesio e lo sviluppo dell’erudizione. Il dibattito sul cartesianesimo (iniziato con le Obiezioni e risposte alle Meditazioni metafisiche) e lo scontro tra cartesiani e anticartesiani si intrecciano con due correnti della teologia cristiana: una aristotelica e una platonico-agostiniana, rinnovata dal giansenismo. Dal punto di vista filosofico due importanti interlocutori di Cartesio sono Malebranche, con l’occasionalismo, e Pascal, con la sua critica del razionalismo e la riflessione sull’uomo. [par. 1] Gli esiti più importanti dell’erudizione sono: la critica della religione, che accompagna la consapevolezza della scarsa affidabilità della storia sacra e fornisce argomenti al libertinismo erudito, che si esprime attraverso una vasta letteratura clandestina e spesso approda all’ateismo; la rinascita della filosofia delle scuole antiche (epicureismo, stoicismo, scetticismo). [par. 2] Al rapporto con il mondo antico è collegata anche la disputa su antichi e moderni in cui ha un ruolo importante Fontenelle. [par. 3] 2. IN

DIALOGO CON

CARTESIO: GASSENDI

E

ARNAULD

Uno dei principali interlocutori di Cartesio è Gassendi, che critica la metafisica cartesiana mettendo in luce i problemi del dualismo, il carattere metafisico della nozione di sostanza e la circolarità dell’argomentazione delle Meditazioni a proposito dell’evidenza. Gassendi elabora anche un proprio sistema ispirato all’epicureismo in cui presenta una fisica meccanicista e atomista, una teoria della conoscenza empirista e un’etica del piacere. [par 1] Un altro critico di Cartesio è Arnauld, che sottolinea il legame del cartesianesimo con l’agostinismo e dal punto di vista della conoscenza limita il valore dell’evidenza all’intendere, affiancandogli un’altra forma di sapere autentico, il credere. [par. 2] 3. L’ORDINE

METAFISICO:

MALEBRANCHE

Malebranche è uno dei filosofi più influenti dell’età cartesiana e tenta di conciliare il pensiero cartesiano con quello di Agostino. La sua teoria delle idee riprende la tradizione del platonismo cristiano radicalizzandola in senso occasionalista: le idee sono essenze che vediamo direttamente in Dio; e anche il nesso causale tra eventi fisici dipende dall’azione divina. [par. 1] Malebranche consente con Cartesio nella critica dell’aristotelismo ma mette in guardia contro l’erudizione e l’esasperazione del dubbio scettico, che fa-

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voriscono le argomentazioni dei libertini. [parr. 2 e 3] Contro l’arbitrarismo cartesiano egli afferma l’immutabilità dei decreti divini fondati sulla saggezza del Creatore e la sua azione regolata da leggi generali, semplici e uniformi: soltanto cogliendo l’ordine metafisico del reale l’uomo diviene consapevole che Dio non è la causa del male. [parr. 4 e 5] 4. L’ORDINE

DEL CUORE:

PASCAL

Pascal è un grande scienziato che contribuisce allo sviluppo della matematica e della fisica, pur riconoscendo i limiti della scienza. [par. 1] Le sue critiche maggiori vanno alla pretesa cartesiana che la ragione sia l’unica fonte della conoscenza: esiste una forma di sapere fondata sul «cuore», ed esistono due atteggiamenti conoscitivi complementari, lo spirito di geometria e lo spirito di finezza, che incarnano rispettivamente l’ideale dimostrativo cartesiano e la conoscenza del gusto e della morale fondata sul senso comune e accessibile a tutti gli uomini. [parr. 2 e 3] Nonostante i propri limiti e la propria fragilità, l’uomo è il centro del creato perché possiede il pensiero ed è capace di nobilitarsi grazie ad esso, anche se spesso, angosciato dalla propria condizione e preda della noia, si rifugia nel divertissement, nella «distrazione». [par. 4] Per superare il vuoto dell’esistenza, però, l’unico vero aiuto è la fede in Dio, effetto della sua grazia e non raggiungibile per via razionale, anche se attraverso un’argomentazione persuasiva, la scommessa, è possibile convincersi dei vantaggi della fede. [parr. 5 e 6] Dal punto di vista teologico Pascal sostiene la teoria della grazia efficace contro quella della grazia sufficiente difesa dai gesuiti, dei quali condanna anche l’uso della casistica. [par. 7] 5. CRITICA

DELLA TRADIZIONE E TEODICEA:

BAYLE

Bayle, unendo erudizione e razionalismo, sottopone a un’acuta analisi storico-critica la superstizione e l’idolatria, mostrando la superiorità morale degli atei sui fanatici di ogni credo e la compatibilità tra ateismo e vita associata. [par. 1] Dalla condanna del fanatismo religioso Bayle trae argomenti a favore della tolleranza e della libertà di coscienza nelle scelte religiose. [par. 2] Fondamentale è infine la sua analisi del problema del male che mette in crisi la tradizionale visione teologica di Dio: dal punto di vista della ragione, Bayle respinge la definizione del male come privazione e argomenta la coerenza del manicheismo, affermando che le uniche due soluzioni al conflitto tra fede e ragione sono il fideismo o l’ateismo. [par. 3]

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Unità 4 L’età cartesiana

Parole chiave Ateismo. Teoria filosofica che nega l’esistenza di Dio e ritiene che l’idea di Dio sia un prodotto dell’uomo. Nel Seicento si danno due spiegazioni sull’origine di tale idea: la superstizione e l’ignoranza delle vere cause delle cose e la teoria dell’impostura, ossia la convinzione che tale nozione sia stata creata per motivi politici. Cuore. Termine con cui Pascal indica un meccanismo conoscitivo opposto alla ragione che procede attraverso l’intuizione ed è in grado di cogliere i principi primi (esistenza del tempo, dello spazio, dei numeri, del moto ecc.); in quanto capacità di «sentire» Dio, è il fondamento della fede. Divertissement. Atteggiamento psicologico che spinge l’uomo alla continua ricerca di distrazione, per colmare il vuoto della propria esistenza. Erudizione. Insieme approfondito di conoscenze delle lingue, dei testi, delle culture e delle filosofie antiche che nel Seicento diviene uno stimolo essenziale alla critica della religione, della superstizione e della tradizione storica e teologica fondata sulla Bibbia. Fideismo. Atteggiamento religioso proprio di chi, di fronte agli argomenti eruditi e razionali contro la teologia e le Scritture, decide di accettare le verità e gli insegnamenti delle Chiese sulla base della sola fede. Giansenismo. Movimento religioso (secoli XVIIXVIII) nato dalla dottrina del vescovo Cornelius Jansen e legato alla tradizione agostiniana, che sostiene una teoria della predestinazione e della grazia vicina al protestantesimo, una visione ascetica della vita e un rigorismo morale. Grazia sufficiente / Grazia efficace. Teorie opposte della grazia divina, ossia dell’atto gratuito con cui Dio concede la salvezza agli uomini: la prima indica un intervento divino sufficiente a rendere l’uomo capace di collaborare alla propria salvezza attraverso l’azione; la seconda un intervento di Dio, dettato dall’imperscrutabile decreto divino, che è l’unica fonte della salvezza. Idolatria. Venerazione di oggetti e/o immagini; termine usato come sinonimo di «religione pagana» e composto dal greco èidolon, «immagine», e lautrèuein, «servire». Letteratura clandestina. Testi prodotti e diffusi clandestinamente, spesso in forma manoscritta e anonima, o perché posti all’Indice o perché espongono e diffondono tesi filosofiche contrarie alla teologia, alla morale e alla politica tradizionali.

Libertinismo. Forma di pensiero (XVI-XVIII secolo) che afferma la libertà di riflessione e di critica in morale e in religione. Nel XVII secolo vi confluiscono vari elementi filosofici, che ogni autore dosa in modo diverso: 1) presenza di determinati autori antichi (Epicuro, Pirrone, Lucrezio ecc.) e moderni (Bruno, Hobbes, Spinoza ecc.); 2) filosofie naturalistiche e panteistiche antiche e rinascimentali; 3) critica della metafisica, scetticismo, relativismo conoscitivo ed etico; 4) critica della religione, spinta spesso fino all’ateismo; 5) erudizione. Manicheismo. Dottrina religiosa creata dal persiano Mani nel III secolo in cui si afferma l’esistenza di due principi, uno del Bene e l’altro del Male in perenne lotta. Molte sette cristiane si sono ispirate alle dottrine manichee (pauliciani, bogomili, catari) e tutte ritengono il nostro mondo una mescolanza dei due principi, spiegando così l’origine del male. Metafisica razionalistica (razionalismo). In Cartesio la scienza che si occupa di stabilire i fondamenti e i principi della conoscenza (gnoseologia) e le caratteristiche e le proprietà delle sostanze (ontologia) con il solo ausilio della ragione e dell’argomentazione razionale. Occasionalismo. La teoria metafisica formulata tra il 1660 e il 1670 tra i cartesiani, secondo cui, accettata l’impossibilità di una causalità reciproca tra corpi e menti, data la separazione ontologica tra le due sostanze stabilita da Cartesio, le cause seconde (siano esse cause efficienti o ragioni / moventi) sono solo apparentemente dipendenti da una catena materiale di eventi o dalle volizioni individuali, mentre in realtà è Dio, come causa prima, che agisce in occasione di esse. Scommessa. Argomentazione persuasiva elaborata da Pascal per indurre chi non crede ad aprirsi alla possibilità della fede in Dio facendo appello all’interesse e all’utile. Spirito di geometria / Spirito di finezza. Due atteggiamenti conoscitivi descritti da Pascal come opposti, ma di pari dignità e legittimità: il primo (cartesiano) procede per deduzioni e dimostrazioni ordinate e razionali, si applica alla scienza e individua principi evidenti ma lontani dall’uso comune; il secondo (pascaliano) procede attraverso il sentimento e il giudizio (il cuore), si applica al gusto e alla vita morale, individua principi sottili e numerosi percepiti attraverso il senso comune o lume naturale. 229

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Questionario RAZIONALISMO 1

2

IN

CARTESIANO E SAPERE ERUDITO

15

Con quale argomento Agostino supera il dubbio, secondo Arnauld in T1? (max 2 righe)

Che cos’è il libertinismo e qual è il suo rapporto con l’erudizione? (max 3 righe)

16

Per quale motivo non è possibile dubitare dei risultati della riflessione cartesiana, secondo Malebranche in T2? (max 1 riga)

17

Qual è il diverso fondamento della fede e della ragione, secondo Malebranche in T3? (max 2 righe)

18

Qual è il male maggiore dell’uomo secondo Pascal in T4? (max 1 riga)

19

Di cosa l’universo non è consapevole secondo Pascal in T5? (max 1 riga)

20

Qual è l’origine della malinconia dell’uomo, anche del più potente, secondo Pascal in T6? (max 1 riga)

21

Qual è, secondo Bayle in T8, la vera causa del comportamento corretto degli uomini? Cosa implica questo per una società di atei? (max 4 righe)

22

Qual è il motivo che spinge la ragione a ipotizzare l’esistenza di due principi, Bene e Male, secondo Bayle in T9? (max 2 righe)

DIALOGO CON

CARTESIO: GASSENDI

E

ARNAULD

3

Quali sono le critiche di Gassendi a Cartesio? (max 6 righe)

4

In un massimo di 3 righe sintetizza le forme di conoscenza definite da Arnauld.

L’ORDINE

METAFISICO:

MALEBRANCHE

5

Spiega in un massimo di 4 righe la tesi di Malebranche che solo Dio agisce, riferendoti sia alla teoria della conoscenza che alla fisica.

6

Che cos’è l’arbitrarismo cartesiano e perché Malebranche lo rifiuta? (max 5 righe)

7

Quali sono le caratteristiche delle leggi di natura stabilite da Dio secondo Malebranche? (max 1 riga)

L’ORDINE

DEL CUORE:

PASCAL

8

Quali sono secondo Pascal i casi in cui sono più evidenti i limiti della ragione? (max 4 righe)

9

Definisci la nozione pascaliana di cuore in un massimo di 2 righe.

10

Che cos’è il divertissement e da cosa è provocato? (max 3 righe)

11

Quali sono i motivi principali dello scontro tra Pascal e i gesuiti? (max 8 righe)

CRITICA

DELLA TRADIZIONE E TEODICEA:

BAYLE

12

Con quali argomenti Bayle difende la preferibilità dell’ateismo sul fanatismo? (max 4 righe)

13

Che cos’è la coscienza «errante» secondo Bayle? (max 1 riga)

14

Perché il manicheismo è più razionale della tradizionale teologia cristiana? (max 2 righe)

230

Lavoriamo sui testi

Quali temi collegano il giansenismo all’agostinismo? (max 2 righe)

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

1. Spinoza 1. Lo ‘scandalo’ dello spinozismo 2. Una vita ‘per la verità’ 3. Il Dio-Natura dimostrato con «metodo geometrico» 4. Antropologia e morale 5. La teoria della conoscenza 6. La critica della religione rivelata

2. Leibniz 1. L’ultima armonia 2. Un genio universale tra teoria e prassi

3. Anime come specchi: la rappresentazione del mondo 4. La logica e i suoi presupposti metafisici 5. Sostanza e mondo 6. Il finalismo, Dio e i possibili, la libertà

♦ Sommario, Parole chiave, Questionario ♦ Laboratorio di lettura: Spinoza, Etica ♦ Tesi a confronto: Spinoza ateo o «ebbro di Dio»: chi è il Dio di Spinoza?

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

1

Spinoza I testi

B. Spinoza Epistolario: La libera ricerca come valore supremo, T1; La libertà vera e la libertà fittizia, T4 Etica: Le definizioni di sostanza, attributo, modo, T2; La legge necessaria della natura divina, T3; La libera potenza di Dio, T5; L’ordine necessario delle cose, T6; L’equivocità del nostro parlare di Dio, T7; Il carattere illusorio della libertà di scelta, T8; La natura necessaria di tutti gli affetti, T9; La regola di vita del saggio, T10; La conquista della serenità,

1

Bayle: Spinoza come ateo virtuoso

Spinoza è veramente ateo?

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T11; «Nulla è più utile all’uomo degli altri uomini», T12; Le forme della conoscenza, T13; La conoscenza immaginativa è in sé positiva, T14; La difficile via della saggezza, T15 Trattato teologico-politico: La credulità umana è figlia della paura, T16; L’origine delle lotte di religione, T17; Lo scontro sulla interpretazione delle Scritture, T18; Studio della Scrittura e studio della natura, T19; La fede e la libertà di filosofare, T20; Elogio dell’uomo virtuoso e saggio, T21; Il miracolo nasce dall’ignoranza delle leggi naturali, T22

Lo ‘scandalo’ dello spinozismo Per più di un secolo dal loro primo diffondersi, il complesso di idee che la tradizione storica ha individuato come proprie della filosofia di Spinoza – designate con il termine «spinozismo» – furono oggetto di polemiche violente. Su Spinoza caddero gli anatemi delle gerarchie ecclesiastiche di diverse religioni, ma non solo: anche filosofi di opposte correnti posero ogni cura nel prendere le distanze dal suo pensiero. Per quel che si riteneva di conoscerne, esso apparve, infatti, come uno scandalo, perché fu considerato ateo, determinista e materialista, nonostante fosse generalmente riconosciuta l’onestà di costumi dell’uomo Spinoza. Unione di ateismo e virtù che creava anch’essa scandalo, in quanto contraddiceva la convinzione comune del legame necessario tra religione e morale. Alla formazione e diffusione di quest’immagine dello spinozismo – dominante sino alla fine del Settecento – contribuì soprattutto l’articolo Spinoza del Dizionario storico-critico (1697) di Bayle, un’opera in cui le dottrine sia filosofiche che religiose non venivano solo esposte in brevi voci enciclopediche ma anche discusse criticamente. A Bayle si deve uno dei primi ritratti del pensatore olandese come «ateo virtuoso» e la definizione del suo pensiero come un ateismo «di sistema», svolto «secondo un metodo tutto nuovo», cioè una «dottrina coerente e concatenata alla maniera dei matematici». La fondatezza di quest’accusa di ateismo costituisce uno dei punti più controversi nella storia della ricezione dello spinozismo, sino ai nostri giorni: respinta dallo stesso Spinoza – anche se forse per motivi di mera prudenza – essa fu poi capovolta dai romantici (fine XVIII - prima metà XIX secolo), che aderirono entusiasticamente al pensiero spinoziano sulla base di un’interpretazione fortemente religiosa di esso. Anche nella storiografia spinoziana dell’ultimo secolo – contraddistinta da un maggiore distacco critico – vi è un filone interpretativo che non ha esitato a definire «gratuita» l’ipotesi dell’‘ateismo’ di Spinoza.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Le reazioni dei contemporanei e dei pensatori settecenteschi non possono, però, essere considerate come del tutto ingiustificate, o motivate da meri interessi politici e confessionali. Infatti, è indubbio che il Dio di Spinoza non è né il Dio dei teologi né quello dei filosofi: l’equiparazione spinoziana di Dio con la Natura – intesa come cosmo meccanicamente determinato da leggi necessarie – si presenta piuttosto come consapevole alternativa rispetto alla concezione giudaicocristiana di Dio come Ente personale trascendente. Di questa Spinoza offre una confutazione condotta con una coerenza sistematica assente nei pensatori precedenti, che pure si erano distaccati dalla tradizione. La salvezza attraverso Su questa nuova base, Spinoza pone sì al centro della propria indagine un prola saggezza blema classico della tradizione filosofica occidentale: il problema di quale sia la strategia adeguata per raggiungere la salvezza, ossia per sottrarre l’uomo – e i suoi beni – alla fragilità propria della finitezza. La soluzione che egli elabora non è più, però, la consolazione offerta dalla fede nella Provvidenza o nell’aldilà: per Spinoza la strada maestra per raggiungere la salvezza è piuttosto la saggezza intesa come «meditazione della vita», fondata su una comprensione naturalistica del mondo e degli «affetti umani».

Il Dio di Spinoza non è quello dei teologi

2

Una vita ‘per la verità’

L’eccentricità del pensiero spinoziano appena messa in rilievo non costituisce il frutto geniale di una meditazione solitaria, bensì piuttosto il risultato dell’originale confronto critico con suggestioni di natura molteplice: 1) da un lato, la tradizione religiosa, filosofica e mistica dell’ebraismo; 2) dall’altro, lo studio approfondito dei testi della nuova scienza della natura e di diverse correnti filosofiche – dalla Scolastica al naturalismo rinascimentale e alla filosofia cartesiana – reso possibile dal vivace ambiente culturale dell’Olanda del Seicento. L’ambiente olandese, Spinoza nasce e vive, infatti, in uno dei momenti di massimo splendore della stoliberale e tollerante ria d’Olanda che, godendo all’epoca della fama di patria della tolleranza, aveva attirato i principali spiriti liberi. Tuttavia, ciò non impedì a Spinoza di essere in più occasioni vittima di quell’«odio teologico» da lui stesso aspramente criticato: dall’espulsione dalla comunità ebraico-portoghese di Amsterdam per sospetto di eterodossia, alle molteplici condanne del Trattato teologico-politico – uscito anonimo nel 1670 – da parte non solo delle autorità ecclesiastiche, ma anche dei poteri civili. Tra ebraismo e nuova scienza

La vita e le opere Baruch Spinoza nacque ad Amsterdam nel 1632. Proveniente da una famiglia ebraica di origini portoghesi, frequentò a partire dal 1639 la scuola ebraica, acquistando familiarità con la lingua e la tradizione religiosa dell’ebraismo (Antico Testamento e Talmud, l’insieme di scritti per l’interpretazione della legge ebraica). Dal 1652 studiò il latino, che gli permise di leggere i massimi autori della filosofia contemporanea. Nel 1656, a causa delle sue posizioni contrastanti con la rigida ortodossia religiosa, venne bandito dalla sinagoga. L’espulsione gli

impedì di continuare a lavorare nell’attività commerciale di famiglia: Spinoza scelse di vivere povero, lavorando come politore di lenti di cannocchiali e microscopi, e intanto venne a contatto con varie sette cristiane e continuò lo studio della filosofia e del latino. Tra il 1658 e il 1659 probabilmente scrisse in latino il Tractatus de intellectus emendatione («Trattato sull’emendazione dell’intelletto»), rimasto incompiuto. Nel 1660 scrisse in olandese il Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità, che fu riscoperto e pubblicato solo nel 1862 e che offre una prima versione del pensiero

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

spinoziano. Parte di esso venne riformulata secondo il metodo geometrico nel 1662 e costituisce la prima parte, su Dio, dell’Ethica more geometrico demonstrata («Etica dimostrata con metodo geometrico»), l’opera che occupò Spinoza per tutta la vita. Dal 1661 Spinoza si trasferì a Rijnsburg e nel 1663 pubblicò Renati Des Cartes principiorum philosophiae pars I e II («Principi della filosofia cartesiana») una sintesi della filosofia di Cartesio esposta «secondo il metodo geometrico» con in appendice i Cogitata metaphysica («Pensieri metafisici»), in cui Spinoza esprime le proprie riflessioni. Nel 1663 si trasferì vicino a L’Aja ed entrò in relazione con il segretario della Royal Society londinese Henry Oldenburg con cui scambiò negli anni molte delle numerose lettere che compongono il suo interessantissimo Epistolario. Conobbe in questo periodo anche Jan de Witt, il massimo esponente del partito liberale e democratico olandese, che gli assegnò una pensione annua. Nel 1670 pubblicò anonimo il Tractatus theologico-politicus («Trattato teologico-politico»), che difende la libertà di coscienza e sostiene il valore della tolleranza religiosa. Il liLa reticenza di Spinoza a pubblicare

Un atteggiamento prudente e strategico

Un forte spirito d’indipendenza e la passione per la verità

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bro fu ben presto inserito nell’Indice dei libri proibiti e condannato anche dai protestanti. In quell’anno Spinoza si trasferì in città, a L’Aja. Nel 1672 le vicende politiche olandesi portarono alla sconfitta del governo repubblicano e al feroce assassinio di Jan de Witt. Nel 1673 Spinoza rifiutò una cattedra all’università di Heidelberg. Nel 1675 pensò di pubblicare l’Etica ma rinunciò perché era sicuro che sarebbe stata accolta con odio. L’opera, ormai completa, si compone di cinque parti intitolate: «Dio»; «La natura e l’origine della mente»; «La natura e l’origine degli affetti»; «La schiavitù umana e la forza degli affetti»; «La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana». Negli ultimi anni Spinoza lavorò anche a un Tractatus politicus («Trattato politico»), che lasciò incompiuto. Morì nel 1677 e in quello stesso anno vennero pubblicate le Opere postume (comprendenti l’Etica, il Trattato sull’emendazione dell’intelletto, l’Epistolario, il Trattato politico e una Grammatica della lingua ebraica in compendio) subito inserite nell’Indice e mai più pubblicate fino all’Ottocento.

Non sorprende, dunque, che Spinoza abbia esitato a dare alle stampe i suoi scritti: il suo capolavoro, l’Ethica more geometrico demonstrata, uscì nella raccolta di Opere postume – pubblicata l’anno stesso della sua morte, con le sole iniziali B.D.S., senza editore e senza luogo – insieme alle Lettere e ad altri scritti rimasti incompiuti, cioè il giovanile Trattato sull’emendazione dell’intelletto, il Trattato politico e la Grammatica della lingua ebraica in compendio; un altro scritto giovanile, cioè il Breve trattato su Dio, l’uomo e la sua felicità, fu scoperto e pubblicato unicamente nel corso dell’Ottocento. Non è un caso che l’unico libro che Spinoza pubblicò durante la propria vita siano i Principi della filosofia cartesiana – comprendenti in appendice i Pensieri metafisici – vale a dire un’opera in cui egli offre un’esposizione, condotta secondo il metodo geometrico, dei capisaldi non del proprio pensiero, bensì di quello cartesiano, che pure per molti aspetti non condivideva. La reticenza di Spinoza a rendere pubbliche le proprie idee – che peraltro non ne impedì la diffusione già durante la sua vita, grazie alla precoce formazione di un circolo spinoziano – è espressione di prudenza, ma non di mancanza di coraggio. Essa è da ricondurre piuttosto, oltre al sincero rispetto per le leggi e consuetudini del proprio Paese, soprattutto al desiderio di conservare le condizioni esterne necessarie per proseguire la ricerca della verità e «affermare in ogni modo la libertà di filosofare». La preoccupazione di salvaguardare la propria indipendenza caratterizza in maniera costante, infatti, il comportamento di Spinoza, come traspare da due atti pubblici particolarmente significativi, all’inizio e alla fine della sua vicenda intellettuale. Il primo è la scelta di non accettare la pensione che il comitato direttivo della comunità ebraico-portoghese di Amsterdam gli aveva offerto, a condizione di non manifestare il proprio dissenso: piuttosto che rinunciare alla libertà di esprimere le proprie convinzioni, Spinoza preferì affrontare le difficoltà economiche causate dalla scomunica – che lo costrinse a interrompere l’attività commerciale svolta sino a quel momento insieme al fratello – dedicandosi alla levigatura delle lenti per telescopio e microscopio, in cui raggiunse peraltro ben presto grande perizia e fama. Il secondo è il rifiuto di una cattedra alla prestigiosa università di Heidelberg, offer-

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

tagli nel 1673 dall’Elettore del Palatinato Carlo Luigi per tramite di J. Ludovicus Fabritius – professore della medesima università – con l’annotazione che lì avrebbe goduto della «più ampia libertà di filosofare», di cui però si aveva fiducia che non avrebbe abusato per turbare la religione pubblicamente professata. A tale invito Spinoza rispose esprimendo il desiderio di dedicarsi in maniera esclusiva e, soprattutto, senza limiti o imposizioni, alla ricerca della verità, per la quale nutriva forse la sola passione che lo abbia animato con intensità costante.

T1

La libera ricerca come valore supremo B. Spinoza, Epistola XLVIII

3

Il metodo geometrico come garanzia di rigore e certezza

Estensione del metodo all’ambito morale

Illustrissimo signore, […] non posso essere indotto ad afferrare questa splendida occasione, anche se ho ponderato a lungo fra me la cosa. Penso infatti innanzitutto che se volessi dedicarmi all’educazione dei giovani dovrei abbandonare la ricerca filosofica. Inoltre penso di non sapere entro quali limiti si debba contenere codesta libertà di filosofare, per non dare l’impressione di voler turbare la religione pubblicamente istituita: poiché gli scismi nascono non tanto da un ardente zelo religioso, quanto piuttosto dalla varietà delle passioni umane ovvero dallo spirito di contraddizione, per cui c’è l’abitudine di distorcere e condannare tutte le affermazioni, anche se giuste. E siccome ho già fatto esperienza di queste cose nel condurre vita privata e solitaria, avrò molto più da temerne una volta innalzato a quel grado di importanza. Vedete dunque, illustre signore, che se non mi muovo non è per la speranza di una migliore fortuna, ma per amore di quella tranquillità, che non credo di potere ottenere in altro modo se non con l’astenermi dal pubblico insegnamento.

Il Dio-Natura dimostrato con «metodo geometrico» Spinoza dedica alla trattazione del concetto di Dio la prima parte della sua Etica, in cui confluiscono le riflessioni sull’argomento già svolte negli scritti precedenti – in particolare nella prima sezione del Breve trattato giovanile e nel Trattato teologico-politico – rielaborate e soprattutto ordinate sistematicamente, secondo il «metodo geometrico» che dà il titolo all’opera. Quest’ultimo consiste in un procedimento argomentativo ed espositivo che, partendo da definizioni, assiomi e postulati, si svolge sinteticamente attraverso «proposizioni», spesso accompagnate da corollari e scolii, cioè commenti aggiunti a ulteriore chiarimento di un concetto. La scelta di adoperare tale procedimento – che Spinoza denomina «metodo geometrico», con chiaro riferimento agli Elementi del matematico greco Euclide (IV-III secolo a.C.) – è dettata innanzitutto dall’idea che le scienze matematiche costituiscano un modello di rigore e certezza. Si tratta di una convinzione che Spinoza condivide con la maggior parte dei principali pensatori dell’epoca, da Cartesio a Hobbes. Nell’Etica, però, egli allarga in modo peculiare l’ambito di applicazione del metodo geometrico, adoperandolo per la prima volta per trattare temi che vanno dalla metafisica alla psicologia sino alla morale: secondo i presupposti fondamentali dell’ontologia spinoziana, il metodo geometrico è, infatti, l’unico strumento appropriato per indagare ogni ambito della realtà, in quanto nel suo complesso quest’ultima non è altro che un intero geometricamente ordinato di cose concatenate in maniera necessaria, e dunque sistematicamente deducibili l’una dall’altra. 235

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

L’unicità della sostanza Seguendo questo metodo, nella prima parte dell’Etica Spinoza fa discendere da una serie di definizioni e assiomi tutto quanto concerne la natura di Dio, inteso quale sostanza dotata di infiniti attributi. La base di questa costruzione è costituita dalle definizioni di tre nozioni chiave della metafisica spinoziana, cioè quelle di «sostanza», «attributo» e «modo».

T2

Le definizioni di sostanza, attributo, modo

B. Spinoza, Etica, 1, def. 3, 4 e 5

La sostanza: autonomia ontologica e conoscitiva

I modi: dipendenza ontologica e conoscitiva

Gli attributi: qualità essenziali della sostanza

La sostanza è causa di se stessa, increata ed eterna

236

Per sostanza intendo ciò che è in sé e per sé si concepisce: vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra da cui debba essere formato. Per attributo intendo ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua essenza. Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, per cui anche viene concepito. La definizione della sostanza è divisa in due parti. Nella prima parte, Spinoza afferma che essa è «ciò che è in sé», intendendo dire che la sostanza è ciò che ha in se stessa, e non in altro, la causa della propria esistenza. Nella seconda parte, egli si riferisce invece alla conoscibilità della sostanza, affermando che essa è ciò che «per sé si concepisce»: questa formulazione si comprende solo tenendo conto che per Spinoza la conoscenza vera è conoscenza genetica, cioè conoscenza della causa di una determinata cosa. Ora, la sostanza è ciò che «per sé si concepisce», proprio in quanto – essendo causa di se stessa – la sua conoscenza non presuppone il concetto o la conoscenza di nient’altro. La definizione di «modi» esprime una realtà opposta sia sul piano ontologico sia su quello della conoscenza. Questi sono, infatti, le molteplici forme (alterazioni, «affezioni») in cui la sostanza si esprime. In quanto tali, i modi di ogni specie non hanno la causa della propria esistenza in sé, bensì «in altro», cioè nella sostanza stessa, la quale viene così a essere anche la condizione necessaria della loro conoscibilità. Fra la sostanza e i modi nell’ontologia spinoziana si collocano gli attributi, ossia le qualità che costituiscono l’essenza della sostanza e le ineriscono in maniera necessaria. Tra gli attributi e la sostanza esiste un legame così stretto che possiamo separarli solo attraverso la ragione. Occorre dunque determinare i loro rapporti reciproci e distinguere le caratteristiche dell’una e degli altri. Da un lato, per Spinoza non possono esistere due sostanze del medesimo attributo: dal momento che l’attributo è un tratto distintivo della sostanza, infatti, due sostanze costituite dal medesimo attributo non si distinguerebbero in nulla e, dunque, di fatto sarebbero una sola e identica sostanza. Dall’altro lato, egli afferma che non vi è nulla di assurdo nel concepire una sostanza dotata di più attributi. A partire da queste premesse, Spinoza deduce le proprietà generali della sostanza. Le principali sono riconducibili, in ultima analisi, alla concezione di quest’ultima come «causa sui», ossia come «causa di se stessa». Secondo la definizione spinoziana, infatti, una cosa che è «causa di se stessa» è ciò la cui essenza implica necessariamente l’esistenza, ossia ciò che non può non esistere. Ma abbiamo già visto che la sostanza è per definizione ciò che è causa di sé in senso ontologico; identificandola con la causa sui affermiamo dunque che esiste anche in modo necessario. Tutto questo equivale a dire che essa è increata ed eterna.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Gli attributi sono infiniti nel loro genere

La sostanza è una: monismo

La sostanza è Dio

Non esistono sostanze create

Inoltre, per Spinoza la sostanza – in quanto causa di sé – esiste necessariamente come infinita, cioè come dotata di infiniti attributi: ciò che è causa di sé è, infatti, infinito, non essendo determinato e limitato da nient’altro nel darsi l’esistenza. In quanto costitutivi della sostanza divina, anche i singoli attributi sono infiniti, ma in maniera diversa rispetto alla sostanza. L’infinità che compete a ciascun attributo è, infatti, un’infinità relativa, che si riferisce cioè a un solo genere: per esempio, l’attributo del pensiero è infinito solo in quanto esprime tutta la realtà e perfezione di un aspetto dell’essenza della sostanza, cioè il pensiero, ma la sua infinitezza non riguarda in nessun modo altri aspetti della medesima essenza, come per esempio l’estensione (vedi sotto, p. 238). Quella che compete alla sostanza è invece un’infinità assoluta, che comprende al suo interno tutti gli attributi. Dall’affermazione dell’infinità assoluta della sostanza discende quella della sua unicità, che costituisce il tratto peculiare dell’ontologia spinoziana, per questo motivo correntemente definita come monistica. Come si è già detto, infatti, Spinoza esclude che in natura possano esistere due sostanze del medesimo attributo, ossia che abbiano in comune la medesima qualità essenziale. Si potrebbero allora ammettere due sostanze costituite da attributi diversi; ma anche questo è impossibile, una volta posto – come fa Spinoza – che la sostanza non può che esistere come infinita, cioè come dotata di infiniti attributi. Essendo infinita in senso assoluto, infatti, essa comprende nella sua essenza tutti i possibili aspetti del reale, sia quelli che noi conosciamo (pensiero ed estensione) che altri che non siamo in grado di concepire. Di qui la conclusione che «non esiste che una sola sostanza» infinita, che non è altro che Dio, dal momento che, come si è detto all’inizio di questo paragrafo, Spinoza concepisce Dio come sostanza dotata di infiniti attributi: «Oltre Dio non si può dare né concepire alcuna sostanza». Attraverso la dimostrazione di tale affermazione, Spinoza prende espressamente le distanze rispetto a quello che egli considera come uno dei principali equivoci della filosofia di Cartesio che – oltre alla «sostanza prima» e infinita di Dio – aveva ammesso anche, come «sostanze seconde» e «create», l’estensione (la res extensa) e il pensiero (la res cogitans), o meglio la pluralità delle sostanze pensanti (vedi Unità 3, p. 148 ss.). Per Spinoza, invece, come si è visto, non ha senso parlare di «sostanze create», dal momento che la sostanza è per definizione ciò che è causa di sé; di conseguenza, egli concepisce il pensiero e l’estensione non come «due diverse sostanze», bensì esclusivamente come due degli infiniti «attributi» che costituiscono l’essenza dell’unica sostanza increata e infinita, che è Dio.

L’ontologia di Spinoza

Sostanza

Infiniti attributi che non conosciamo

Distinzione reale: non ammette intercausalità

Essenza della sostanza

Attributo pensiero

Modi del pensiero: sono in altro e si concepiscono grazie ad altro

Distinzione reale: non ammette intercausalità

La sostanza è infinita

Attributo estensione

Modi dell’estensione: sono in altro e si concepiscono grazie ad altro

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Il Dio-sostanza: liquidazione del Dio-persona e della «creatio ex nihilo» Dio è anche materia

Rottura con la tradizione e con Cartesio

➥ Percorso tematico, p. 753 La sostanza non è divisibile né passiva

Dio è immanente

Dio è causa immanente e continua

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Già dalle ultime osservazioni emerge in modo chiaro una delle innovazioni più radicali che il monismo spinoziano implica nel modo di concepire la divinità. Includere l’estensione tra gli attributi della sostanza significa, infatti, concepire Dio anche come materia, dato che l’estensione è, a partire da Cartesio, l’attributo essenziale della materia. Ciò rappresenta un’aperta e consapevole rottura con la concezione di Dio come «puro spirito», condivisa da una secolare tradizione religiosa e filosofica che arriva sino a Cartesio. Spinoza prende espressamente posizione contro coloro che «negano che Dio sia corporeo», adducendo innanzitutto gli argomenti generali appena esposti, il cui significato fondamentale è l’idea che l’infinità della sostanza non può esaurirsi in una sola forma dell’Essere: per questo Dio, oltre che pensiero, deve essere anche estensione. Coloro che «cercano di dimostrare che la sostanza corporea è indegna della natura divina, e non può appartenerle» si sono basati sull’assunto che la materia sia divisibile, e in quanto tale finita – si può, infatti, dividere solo ciò che è composto di parti finite – e passiva – perché ciò che viene diviso patisce su di sé un’azione – dunque incompatibile con la perfezione divina. Per Spinoza, la divisibilità e la passività riguardano la materia solo in quanto essa si particolarizza in modi finiti; come parte dell’essenza di Dio, invece, l’estensione non è divisibile, in quanto tutti gli attributi, come si è visto, sono infiniti nel loro genere, e di conseguenza non sono né divisibili né passivi. La portata innovativa del monismo spinoziano rispetto alla concezione tradizionale del divino non si esaurisce nella tesi della corporeità di Dio, bensì va ben oltre. In primo luogo, la corrispondenza biunivoca che Spinoza stabilisce tra Dio e la sostanza è alla radice del rifiuto della concezione di Dio come essere trascendente – cioè al di là e al di sopra del mondo – e a favore di una concezione immanentistica, secondo la quale «Tutto ciò che è, è in Dio, e niente può essere né essere concepito senza Dio». Nel sistema spinoziano, infatti, affermare che al di fuori di Dio non può esserci alcuna altra sostanza, equivale ad affermare che al di fuori di Dio non può esserci nulla, dal momento che, oltre alla sostanza, per Spinoza esistono solo i «modi» che, però, non sono altro che le molteplici forme, infinite e finite, in cui la sostanza stessa si esprime, attraverso la particolarizzazione dei suoi attributi. Precisamente, per Spinoza i modi sono interni alla sostanza – che ne è la causa – in quanto egli attribuisce a Dio una «causalità immanente», cioè una causalità consistente nel produrre effetti che non sono separati dalla causa, bensì continuano a sussistere in essa, mentre, reciprocamente, la causa continua a operare in loro. A differenza di quanto avviene nella creazione, che è invece un tipo di causalità transitiva, consistente nel produrre qualcosa che poi esiste separatamente dal creatore. La distanza della causalità del Dio spinoziano rispetto alla creazione del mondo dal nulla attribuita a Dio dalla tradizione religiosa e filosofica occidentale, risulta ancora più marcata, se si prendono in considerazione le proposizioni 16 e 17 della prima parte dell’Etica, che vale la pena citare per intero, pur omettendo le relative dimostrazioni.

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T3

La necessità della natura divina B. Spinoza, Etica, 1, prop. 16 e 17

Dalla necessità della divina natura devono seguire infinite cose in infiniti modi […]. Dio agisce per le sole leggi della sua natura e non costretto da alcuno.

La prima proposizione esprime la concezione dinamica ed espansiva dell’infinito caratteristica di Spinoza, in base alla quale una sostanza infinita, quale è Dio, non può che esplicare una causalità infinita, esprimendosi nelle infinite cose e negli infiniti modi che costituiscono la Natura. Ciò significa che la causalità del Dio spinoziano è caratterizzata da una ferrea necessità, che la distingue in maniera essenziale dalla creazione in quanto atto di libero arbitrio. Un Dio che non può che produrre infinite cause, infatti, non è libero nel senso di potere creare o non creare qualunque cosa voglia. Dio è libero Tuttavia, come viene messo in rilievo nella seconda proposizione, la necessità della causalità divina non elimina la libertà come la intende Spinoza. Per quest’ultimo, infatti, nel suo unico vero significato la libertà sta a indicare non la libertà d’indifferenza – cioè la facoltà di scelta priva di motivazione e completamente indifferente rispetto alle conseguenze (sulla critica di quest’ultima, vedi anche T8) – bensì l’autodeterminazione ad agire senza condizionamenti esterni, in base alla sola «necessità della propria natura».

La causalità divina è infinita e necessaria

T4

La libertà vera e la libertà fittizia

B. Spinoza, Epistola LVIII

Io dico che è libera quella cosa che esiste ed agisce per la sola necessità della sua natura: è invece costretta quella che è determinata ad esistere e a operare in un certo e determinato modo. Per esempio, Dio esiste liberamente anche se necessariamente, poiché esiste per la sola necessità della sua natura. Allo stesso modo Dio comprende se stesso e tutte le cose in modo assolutamente libero, poiché è conseguenza della sola necessità della sua natura che comprenda tutto. Vedete dunque che io metto la libertà non nella libera decisione, ma nella libera necessità. Ma scendiamo alle cose create, che sono tutte determinate a esistere e a operare in un certo e determinato modo. Per intendere questo con chiarezza pensiamo a una cosa semplicissima: una pietra, per esempio, riceve in base a una causa esterna una certa quantità di moto con la quale poi, cessato l’impulso della causa esterna, continuerà necessariamente a muoversi. Dunque questo continuare della pietra nel moto è coatto, non perché sia necessario, ma perché deve essere definito dall’impulso della causa esterna. E quel che dico qui della pietra si deve intendere di qualunque cosa singola, per quanto la si concepisca composta e atta a più cose: in altri termini, ciascuna cosa è necessariamente determinata da qualche causa esterna a esistere e a operare in un certo e determinato modo. Proviamo ora a pensare che la pietra, mentre comincia a muoversi, pensi, e sappia di sforzarsi, per quanto è in suo potere, di continuare il movimento. Essa a questo punto, in quanto puramente consapevole del proprio sforzo, che non le è indifferente, si crederà di essere perfettamente libera e di continuare nel suo moto per il semplice motivo che lo vuole. Così è fatta la famosa libertà umana, di cui tutti si vantano: consiste nel semplice fatto che gli uomini conoscono il proprio desiderio e ignorano le cause da cui sono determinati. Così il bambino crede di desiderare liberamente il latte, il ragazzo rissoso la vendetta, il pauroso la fuga; e l’ubriaco crede di dire per libera scelta cose che poi, da sobrio, vorrebbe avere taciuto; e ancora gli squilibrati, i chiacchieroni, e tanta gente del genere, 239

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credono di agire per libera scelta, e non di essere trascinati da impulsi. E trattandosi di un pregiudizio innato in tutti gli uomini non è facile liberarsene. Sebbene infatti l’esperienza mostri più che a sufficienza che gli uomini di nulla sono meno capaci che di controllare i propri istinti, e che spesso, combattuti da affetti contrari, vedono il meglio e si attengono al peggio, si credono tuttavia liberi. Il motivo è che alcune cose le desiderano debolmente e l’istinto verso di esse può essere facilmente represso ricorrendo alla memoria di un’altra cosa di cui spesso ci ricordiamo. Con ciò ho abbastanza spiegato, se non erro, il mio pensiero sulla necessità libera e coatta, e sulla fittizia libertà umana. Nel Dio-sostanza non c’è opposizione tra necessità e libertà

T5

La libera potenza di Dio B. Spinoza, Etica, 1, scolio alla prop. 17

La vera potenza di Dio è infinita e in atto

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Nella prospettiva di Spinoza, dunque, viene meno l’opposizione tra necessità e libertà, e il Dio-sostanza, pur essendo necessitato a produrre infiniti modi, risulta essere una causa sommamente libera: dal momento che al di fuori di esso non vi è nulla che possa costringerlo, la sua azione causale è determinata, infatti, in maniera esclusiva e necessaria dalle «leggi della sua natura». Su questo punto il distacco dalla tradizione è molto profondo, e Spinoza stesso avverte l’esigenza di segnalarlo, confutando le ragioni degli avversari. Altri credono che Dio sia causa libera, perché – secondo loro – può far sì che non avvengano o non siano prodotte da lui quelle cose che noi abbiamo detto procedere dalla sua natura, che sono cioè in suo potere. […] Dicono che se avesse creato tutte le cose che aveva nel suo intelletto, allora non avrebbe potuto creare di più, e credono che questo ripugni all’onnipotenza di Dio. Ma io ritengo di avere dimostrato abbastanza chiaramente che dalla somma potenza di Dio – ossia dalla sua infinita natura – infinite cose in infiniti modi sono derivate necessariamente, e seguono sempre per la stessa necessità: nel medesimo modo che dalla natura del triangolo – dall’eternità e per l’eternità – segue che i suoi tre angoli devono essere eguali a due retti. Dunque l’onnipotenza di Dio fu in atto dall’eternità e per l’eternità, e per l’eternità rimarrà nella stessa attualità. E in questo modo si stabilisce, a mio parere, una onnipotenza di Dio di gran lunga più perfetta. Pare anzi che gli avversari (sia lecito parlare apertamente) neghino l’onnipotenza di Dio. Sono infatti costretti ad ammettere che Dio intende infinite cose creabili, che tuttavia non potrà mai creare. Altrimenti, infatti, se cioè egli creasse tutto ciò che intende, secondo loro esaurirebbe la sua onnipotenza e si renderebbe imperfetto. Dunque, per affermare che Dio è perfetto, sono ridotti a dovere simultaneamente ammettere, che egli non può compiere tutte le cose, a cui la sua potenza si estende; e non vedo che cosa si possa immaginare di più assurdo di ciò, o di più ripugnante alla divina onnipotenza. Il principale obiettivo polemico di Spinoza è la dottrina dei filosofi scolastici che, per salvare la libertà della creazione, avevano affermato che Dio sceglie liberamente di portare all’esistenza ciò che vuole, tra le essenze – cioè gli archetipi delle cose – presenti attualmente nel suo intelletto. Per Spinoza tale dottrina limita e nega la perfezione divina, in quanto in realtà implica una riduzione inaccettabile della sua onnipotenza. In Dio – come causa di sé, la cui essenza implica necessariamente l’esistenza – non vi è differenza tra potenza (ciò che potrebbe accadere ma non è detto che accada) e atto (ciò che accade effettivamente), né in lui si possono distinguere l’intelletto dalla volontà, per cui è assurdo pen-

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sare che egli abbia la facoltà di non mettere in atto qualcosa che è in suo potere. Se Dio non avesse creato qualcosa che era nel suo intelletto, ciò potrebbe dunque dipendere solo da un limite della sua potenza, la cui ammissione costituirebbe, però, una negazione completa della tesi dell’onnipotenza divina. Se intendere quest’ultima come arbitrio sciolto da ogni legge – analogo a quello di un monarca assoluto – è contraddittorio, non resta che concepirla secondo il modello geometrico-matematico, cioè come una potenza infinita da cui tutte le cose esistenti derivano in maniera necessaria, così come le diverse proprietà del triangolo discendono dall’essenza del triangolo (la somma dei tre angoli interni è sempre uguale a due angoli retti).

Il determinismo e la confutazione del pregiudizio finalistico La concezione della causalità divina come causalità infinita, necessaria e immanente si ripercuote inevitabilmente anche sulla maniera di intendere il mondo, che da tale causalità è prodotto. In primo luogo, se il Dio-sostanza è causa di sé, che non può non esistere producendo in maniera necessaria le infinite cose che costituiscono l’universo, quest’ultimo risulterà, nel suo complesso, anch’esso infinito, increato ed eterno come Dio. Tesi che costituisce un ulteriore colpo inflitto alla tradizionale nozione di creazione come produzione del mondo dal nulla. La contingenza In secondo luogo, un Dio che esercita una causalità necessaria non può che pronon esiste durre un ordine necessario. Ciò significa che per Spinoza in natura «non vi è nulla di contingente», cioè nessuna cosa esistente che avrebbe potuto anche non essere, o essere diversamente da come è: tutto è e accade necessariamente, in quanto determinato a esistere e ad agire dalla necessità della natura divina; qualcosa ci appare contingente solo perché ignoriamo la causa che l’ha prodotta.

Il mondo è infinito, increato ed eterno

T6

L’ordine necessario delle cose

B. Spinoza, Etica, 1, prop. 33

Le cose non poterono essere prodotte da Dio in nessun’altra maniera, né in un ordine diverso da come sono state prodotte. Dimostrazione: Tutte le cose, infatti, sono seguite necessariamente dalla data natura di Dio (per la proposizione 16), e sono state dalla necessità della natura di Dio determinate a esistere e a operare in un certo modo […]. Se dunque le cose fossero potute essere di un’altra natura, o essere in un altro modo determinate a operare, così che l’ordine della natura fosse diverso; allora anche la natura di Dio potrebbe essere diversa da quella che già è; perciò […] anch’essa dovrebbe esistere, e di conseguenza ci potrebbero essere due o più Dei; il che […] è assurdo. Quindi le cose in nessun’altra maniera, né in un ordine diverso, eccetera. Come dovevasi dimostrare.

La causalità necessaria di Dio si esplica in due diverse maniere, in quelli che Spinoza definisce rispettivamente i «modi infiniti» e i «modi finiti». Modi infiniti: eterni I primi sono le proprietà costitutive degli attributi, che – derivando direttamenma causati te o indirettamente da questi ultimi – ne condividono l’infinitezza: per esempio, modi «infiniti» immediati dell’attributo dell’estensione sono il moto e la quiete, in quanto tutti i corpi che esistono o sono in quiete o sono in movimento. I modi infiniti derivano dagli attributi di Dio dall’eternità, in base a un rapporto di derivazione causale che è dunque sovra-temporale. 241

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Parte prima La nascita della filosofia moderna I modi finiti sono singoli, limitati nel tempo e nello spazio, determinati da altro

Il Dio-sostanza è la Natura

Identità dinamica tra sostanza e modi: Natura madre e figlia di se stessa

Negazione del finalismo antropocentrico

La nascita del pregiudizio finalistico ➥ Laboratorio di lettura, p. 305

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I modi finiti sono, invece, le cose singole, cioè le concretizzazioni particolari degli attributi, limitate nello spazio e nel tempo: l’attributo dell’estensione si particolarizza, per esempio, in una pietra, nel corpo di un dato animale o di un dato uomo. Dal momento che da Dio e dai suoi attributi non possono seguire che effetti infiniti, Dio non può essere causa dei modi finiti in maniera immediata. Per questo motivo, Spinoza indica la causa immediata di ogni cosa singola in un’altra cosa singola, la quale a sua volta è determinata a esistere e ad agire da un’altra cosa singola, e così via in un regresso all’infinito di cause finite, regolato in maniera necessaria dalla legge di causa-effetto. Alla radice di tutto questo processo vi è, però, il Dio-sostanza, che si conferma dunque come la causa prima ed efficiente di tutte le cose, anche di quelle infime: non in quanto assoluto, bensì in quanto si articola e si esprime nella serie infinita delle cause finite, ciascuna delle quali non è altro che la sostanza stessa in uno dei suoi aspetti particolari. Alla luce di quanto detto, risulta in modo chiaro come il Dio-sostanza spinoziano non sia altro che la Natura, intesa non vitalisticamente come forza animata misteriosa e imprevedibile, bensì – nello spirito della scienza moderna – come ordine necessario ed eterno, meccanicisticamente determinato dalla legge di causa-effetto. Dio non è al di sopra della Natura e delle sue leggi, in quanto le leggi e la necessità dell’essenza divina altro non sono che leggi e necessità della Natura. Sulla base di queste premesse, Spinoza riprende la distinzione scolastica tra «Natura naturante» («Natura non creata e che crea») e «Natura naturata» («Natura creata»), caricandola però di un significato profondamente innovativo. Con il primo termine egli designa la sostanza e i suoi attributi in quanto causa libera, e con il secondo l’insieme dei modi visti come effetti; dal momento che questi ultimi, in quanto prodotti di una causalità immanente, sono interni alla stessa sostanza, è evidente che, nell’ontologia spinoziana, tale distinzione non sta a indicare una separazione, bensì piuttosto un rapporto di identità dinamica, in base alla quale la Natura è madre e figlia di se stessa. Dalla concezione della causalità divina come una causalità necessaria – e dalla conseguente affermazione del determinismo come principio universale – discende la negazione di ogni finalismo in natura e, in particolare, del finalismo antropocentrico, consistente nel considerare tutte le cose naturali come mezzi creati da Dio per l’utile dell’uomo. Una simile visione finalistica aveva dominato per secoli la metafisica e le tradizioni religiose occidentali – dai greci in poi – anche se, all’epoca di Spinoza, aveva già iniziato a mostrare i primi segni di crisi, sotto i colpi della rivoluzione copernicana e della rivoluzione scientifica: andavano in questa direzione il rifiuto del primato ontologico dell’uomo in Bruno (vedi Unità 1, p. 48 s.), o la negazione galileiana dell’interesse scientifico delle cause finali (vedi Unità 2, p. 100 ss.). Spinoza considera la concezione finalistica come un mero pregiudizio, o meglio come la radice di tutti i pregiudizi. Proprio per questo, nell’Etica egli non si limita a confutarla, ma – per rendere più credibile la propria critica – vuole anche rendere ragione della sua genesi e della forte capacità di attrazione che essa esercita. Quest’ultimo obiettivo è perseguito da Spinoza mediante un’analisi del comportamento comune degli uomini: secondo la sua spiegazione, il pregiudizio finalistico deriva, infatti, dal fatto che gli uomini nascono ignorando le cause efficienti di tutte le cose – anche dei loro stessi desideri – mentre sono immediatamente consapevoli del fine che si propongono, cioè la ricerca dell’utile. Questa condizione li induce a ritenere che il loro agire sia determinato non da cause effi-

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cienti, bensì da cause finali, cioè dall’utile che si pongono come scopo: proiettando la propria esperienza sulle cose naturali e sulla loro causa prima, essi giungono così a immaginare che tutto sia mosso da cause finali – e non da cause efficienti – e che il mondo sia stato creato per gli scopi degli uomini da un Dio mosso a sua volta dal fine di essere adorato dall’uomo. Il finalismo nasce In base alla genealogia appena illustrata, la concezione teleologica, o finalistica, dall’immaginazione risulta dunque essere un semplice frutto dell’immaginazione, la cui falsità è dimostrata da Spinoza innanzitutto attraverso il richiamo ai caratteri essenziali della causalità della sostanza: l’azione secondo un fine – oltre a essere incompatibile con la perfezione divina, dal momento che si persegue come scopo solo ciò di cui si è carenti – presuppone, infatti, un’intelligenza e una volontà. Il Diosostanza non ha invece né intelletto né volontà, a meno di non usare questi termini, solitamente riferiti ai modi, con un significato completamente diverso dal solito, come quando diamo il medesimo nome a un animale, il cane, e a una costellazione celeste, il Cane maggiore.

T7

L’equivocità del nostro parlare di Dio B. Spinoza, Etica, 1, scolio della prop. 17

[…] l’intelletto e la volontà, che costituirebbero l’essenza di Dio, dovrebbero differire toto caelo dal nostro intelletto e dalla nostra volontà, né potrebbero convenire in altro che nel nome; non altrimenti, cioè, di come convengono tra loro il cane, segno celeste, e il cane, animale latrante. La confutazione del finalismo non è altro, dunque, che il coronamento di una teoria della divinità che ha con sistematica coerenza smontato l’immagine troppo umana del Dio-persona forgiata dalla riflessione filosofica e teologica precedente, giungendo sino al punto di concepire, se non un universo senza Dio, senza dubbio un universo senza scopo.

4 Ordine delle cose e ordine delle idee

La causalità reciproca vale solo fra modi dello stesso genere

Distinzione reale e parallelismo tra spirito e materia

Antropologia e morale Come si è già detto, gli attributi della sostanza sono infiniti. Tuttavia, soltanto due di questi infiniti attributi sono accessibili alla conoscenza dell’uomo, in quanto essere finito costituito da una mente e da un corpo, entrambi modi finiti rispettivamente dell’attributo pensiero e dell’attributo estensione di Dio. Per Spinoza non solo la serie infinita dei corpi bensì anche quella delle idee deriva da Dio secondo un ordine necessario, regolato dal principio della determinazione causale: come una cosa c è determinata da una cosa b, a sua volta prodotta da una cosa a, allo stesso modo un’idea c non può che scaturire da un’idea b, a sua volta causata da un’idea a. Il principio della determinazione causale non vale, però, nel rapporto tra due modi di attributi diversi: ogni attributo della sostanza – esprimendo l’essenza di essa – non può essere stato prodotto da un altro attributo, bensì è in essa da sempre. Di conseguenza, tra la serie delle idee e la serie delle cose estese non vi può essere alcuna interazione causale: le idee non sono causate dalle cose percepite, così come esse a loro volta non possono esercitare alcuna influenza sui corpi. Questa negazione di ogni possibilità di causalità reciproca tra i due ordini costituisce una conseguenza immediata del monismo spinoziano, che da un lato rifiuta la distinzione sostanziale tra spirito e materia, ma dall’altro sostiene che un in243

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Al mutamento nell’ordine delle cose corrisponde un’idea del mutamento stesso

flusso causale è possibile solo tra modi che appartengono al medesimo genere o attributo. Per Spinoza, quindi, sia le singole idee sia le singole cose sono modi finiti di un’unica e medesima sostanza, considerata, però, sotto i due diversi attributi del pensiero e dell’estensione, tra i quali sussiste una distinzione reale. Tra idee e cose, dunque, non può esservi un rapporto di causalità, ma piuttosto un rapporto di perfetta coincidenza e identità su due piani paralleli e distinti: «l’ordine e la connessione delle idee sono identici all’ordine e alla connessione delle cose». In parole più semplici, per Spinoza nessun termine di una delle due serie può incidere su quelli dell’altra, ma quando si ha un mutamento nell’ordine delle cose si ha sempre anche un’idea del mutamento stesso. Tale corrispondenza si verifica necessariamente, in quanto il Dio-Natura è sia la totalità delle idee sia la totalità delle cose: di conseguenza, in esso non può esistere una cosa senza che di questa vi sia un’idea, così come non può esistere un’idea che non sia idea di qualcosa.

La causalità in Spinoza

Causa di sé

Sostanza

Causa necessaria ed eterna Causa immanente e continua Causalità efficiente tra la sostanza e il mondo (immanenza)

Causa infinita Attributo

Causa unica Causa dei modi del proprio genere

Causalità reciproca tra modi dello stesso genere: a ➞ b ➞ c …

Modo

Causalità efficiente solo orizzontale tra modi

Il rapporto mente-corpo Sulla base di queste premesse ontologiche, Spinoza stabilisce un’unione strettissima tra il corpo e la mente: egli concepisce, infatti, quest’ultima come l’idea di un dato corpo, idea che in Dio deve necessariamente esistere, se vi è quel corpo. Dal principio dell’identità dell’ordine delle idee e dell’ordine delle cose, segue anche che nel corpo non può avvenire nulla, senza che di tale mutamento vi sia un’idea nella mente. Tutte le cose Ciò vale a proposito di tutte le cose, e non solo degli esseri umani; per questo mosono mente e corpo, tivo, Spinoza non considera la mente in generale come una prerogativa esclusiva ossia animate degli uomini. Di tutte le cose c’è un’idea in Dio, in quanto per ogni cosa o modo dell’estensione divina vi è un’idea o mente corrispondente nel pensiero divino: ora, siccome Dio è immanente, l’idea che è in Dio è nelle cose. Spinoza ripete dunque il pensiero rinascimentale secondo il quale «tutte le cose sono animate», ma attribuendogli un significato molto differente da quello che esso aveva, per esempio, nel pensiero di Bruno: per Spinoza, infatti, la mente non è l’ineffabile e Unione tra corpo e mente

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La specificità della mente umana: è modo inseparabile dal corpo umano

La mente non ha potere sulle passioni: simultaneità e coincidenza fra idee e passioni

La forza degli appetiti corporei

T8

Il carattere illusorio della libertà di scelta B. Spinoza, Etica, 3, scolio della prop. 2

spontaneo principio della vita, bensì – in quanto modo finito di uno degli attributi della sostanza – è rigidamente determinata in maniera meccanica dalla legge di causa-effetto. Così intesa, l’anima non è principio della vita più di quanto lo sia il corpo, dal momento che entrambi sono mossi da quello che Spinoza definisce il conatus, cioè la tendenza all’autoconservazione (vedi sotto, p. 248). La specificità della mente umana consiste, per Spinoza, unicamente nel fatto di essere idea di un corpo quale quello umano, che egli intende come un organismo composto da più individui di natura diversa (sulla base della fisica cartesiana, vedi Unità 3, p. 150 ss.), bisognoso, per la propria autoconservazione, di molti altri corpi (gli organi), sui quali a sua volta agisce. Questa concezione della mente ha anch’essa un significato profondamente innovativo rispetto alla tradizione di pensiero platonica e cristiana che, sino a Cartesio, aveva inteso l’anima quale sostanza indipendente dal corpo e da esso separabile, sede della spiritualità. Innanzitutto per Spinoza l’anima non è sostanza, bensì solo un modo di essa, come tutte le altre cose finite. In secondo luogo, in quanto idea di un corpo, la mente è inseparabile da quest’ultimo. Infine, tra mente e corpo non vi è alcuna gerarchia: Spinoza non ritiene il materiale come inferiore allo spirituale, bensì conferisce a essi pari dignità, concependo entrambi come uguali espressioni della sostanza, tra le quali tra l’altro non è possibile nessun rapporto causale. A partire da queste premesse, Spinoza nega la tesi stoica – ripresa anche da Cartesio – che la mente umana abbia per natura o possa conquistare, mediante l’esercizio, un «potere assoluto sulle passioni» del corpo. Tra gli argomenti solitamente addotti a sostegno del presunto «impero» della mente sul corpo, il principale è costituito dall’esperienza che gli uomini comuni fanno, riguardo alla capacità di seguire o meno – senza nessun motivo – una data passione corporea e di muovere o meno una data parte del corpo (per esempio, la lingua, quando decidono di parlare o tacere): in altri termini, la coscienza della cosiddetta libertà di scelta. A questo genere di argomenti, Spinoza contrappone la propria teoria della simultaneità e coincidenza tra «l’ordine delle azioni e passioni corporee» e «l’ordine delle azioni e passioni della mente». Innanzitutto, appellandosi alla stessa esperienza, Spinoza mostra come, a uno sguardo attento, coloro che credono di determinare il proprio corpo all’azione in virtù di «un libero decreto della mente», «sognano a occhi aperti», dal momento che in realtà non fanno altro che seguire il loro appetito corporeo più forte: così, per esempio, il pauroso non sceglie liberamente di determinare le proprie gambe alla fuga, bensì fugge in quanto determinato a tale gesto in maniera necessaria da quella che in quel momento è la sua passione più forte, cioè la paura; analogamente, la chiacchierona parla non perché abbia liberamente deciso di muovere la propria lingua, ma piuttosto in quanto la sua lingua è irrefrenabilmente mossa dall’impeto di parlare, che è evidentemente la passione più forte nel suo corpo. […] Certo le cose umane andrebbero assai meglio se fosse ugualmente in potere degli uomini tanto il tacere quanto il parlare. Ma l’esperienza insegna più che abbastanza, che nulla gli uomini hanno così poco in loro potere quanto la loro lingua, e che nulla sanno fare di meno che dominare i loro appetiti. Per questo i più credono che possiamo fare liberamente solo le cose che appetiamo moderatamente, poiché il desiderio di queste cose può essere facilmente imbrigliato col ricordo di un’altra cosa, di cui spesso ci rammentiamo; e invece non quelle che 245

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

desideriamo con un grande affetto, che non può essere placato dal ricordo di un’altra cosa. Insomma, se costoro non avessero sperimentato che facciamo molte cose, di cui poi ci pentiamo, e che spesso, quando cioè siamo combattuti da contrari affetti, vediamo il meglio e seguiamo il peggio, niente impedirebbe loro di credere che noi facciamo tutto liberamente. Così il bambino crede di desiderare liberamente il latte, e il fanciullo adirato di volere liberamente la vendetta, e il pauroso la fuga. Così, persino l’ubriaco crede di dire per libera decisione della mente quelle cose che, più sobrio, vorrebbe non aver dette; così il mentecatto, la chiacchierona, il ragazzo, e moltissima gente di questo tipo, credono di parlare per libera decisione della mente, quando invece semplicemente non possono contenere l’impeto che hanno di parlare; sicché la stessa esperienza non meno chiaramente della ragione insegna che gli uomini credono di essere liberi per questa sola causa, che sono consci delle loro azioni e ignari delle cause da cui vengono determinati, e che inoltre le decisioni della mente non sono nient’altro che gli stessi appetiti, e perciò variano secondo il variare delle disposizioni del corpo. Infatti ognuno regola tutto secondo il suo proprio affetto; quelli poi che sono combattuti da affetti contrari non sanno quello che vogliono, e quelli che non ne hanno nessuno con facilità sono mossi di qua e di là. Tutto ciò mostra certo chiaramente che tanto la decisione della mente quanto l’appetito e la determinazione del corpo sono per natura simultanei, o piuttosto una sola e medesima cosa che, considerata e spiegata mediante l’attributo del pensiero, diciamo decisione, e, quando invece è considerata sotto l’attributo dell’estensione e dedotta dalle leggi del moto e della quiete, diciamo determinazione. L’illusione della libertà

Parallelismo tra stati mentali e determinazioni corporee

Il rifiuto della teoria cartesiana dell’interazione tra sostanze

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La convinzione di potere dirigere in maniera assoluta il proprio corpo in base a delle libere decisioni della mente è per Spinoza una mera illusione, che nasce negli uomini per il fatto di ignorare le cause efficienti delle proprie azioni. Secondo il rigido determinismo che è alla base dell’ontologia spinoziana, infatti, ogni modo finito – sia del pensiero sia dell’estensione – esiste e agisce in quanto è determinato a esistere e ad agire da un altro modo finito: anche la mente, dunque, in quanto modo finito del pensiero, non è libera, ma è piuttosto determinata a volere questo o quello da una causa, che a sua volta è stata determinata da un’altra, secondo un regresso all’infinito. In base a quanto detto sopra, la causa che determina le decisioni della mente non è il corpo – così come del pari la mente non può determinare il corpo a muoversi – dal momento che tra due modi di attributi diversi non vi può essere alcun rapporto causale: piuttosto, ogni stato mentale è determinato dalla catena precedente di stati mentali, così come ogni movimento corporeo ha la sua causa nella serie antecedente di movimenti. Pur senza interferire, la vita psichica e quella corporea scorrono, però, in maniera simultanea e secondo un ordine che coincide in maniera necessaria, in quanto sono espressioni di un’unica sostanza, entrambe regolate dalle leggi di quest’ultima, cioè il principio di determinazione causale: in questo senso, dunque, le decisioni della mente e le determinazioni del corpo sono per Spinoza una sola e medesima cosa, semplicemente considerata sotto due dimensioni diverse. Il monismo consente dunque a Spinoza di risolvere uno dei problemi centrali della filosofia dualistica di Cartesio che – muovendo dal presupposto che res cogitans e res extensa fossero due sostanze distinte e completamente eterogenee – non aveva poi saputo spiegare la relazione tra l’anima e il corpo umani, se non

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

ricorrendo alla teoria della ghiandola pineale, ossia postulando che in un punto del corpo (l’epifisi posta nel centro del cervello) vi fosse il luogo dell’interazione reciproca, ma senza dire niente sulla natura di questa interazione. Questa tesi cartesiana nell’Etica è rigettata come «un’ipotesi più occulta di ogni occulta qualità», priva di ogni rigore scientifico. Corpi e menti in Spinoza

Attributo estensione

Corpi: tutti i modi dell’attributo estensione

Corpo umano: composto da più individui di natura diversa

Determinazioni corporee

Non influenzano le decisioni della mente

Distinzione reale e parallelismo: non c’è causalità reciproca né gerarchia tra gli attributi

Attributo pensiero

Poiché Dio è immanente la mente è anche nel corpo

La mente umana è inseparabile dal corpo

Menti: idee presenti nella mente divina

Mente umana: è diversa perché è l’idea di un corpo umano

Non possono determinare i moti del corpo

Stati mentali

La deduzione degli affetti La concezione deterministica della vita intellettuale e affettiva degli uomini imprime all’indagine etica di Spinoza un carattere peculiare. In primo luogo, essa lo induce a rifiutare la posizione privilegiata e di dominio che una lunga e consolidata tradizione di pensiero aveva attribuito all’uomo rispetto alla natura, in virtù della sua presunta capacità di governare in maniera assoluta le proprie passioni e di autodeterminarsi ad agire: dal momento che la mente umana non esercita alcun impero sul corpo, gli esseri umani non formano affatto un «Impero nell’Impero della natura», bensì sono piuttosto per Spinoza una semplice parte di questa, sottoposta, al pari delle altre, alle sue leggi, cioè al principio della determinazione causale. Non esistono affetti Questo presupposto è alla base dell’impostazione rigorosamente scientifica che o passioni buoni Spinoza adotta nell’indagine sugli affetti umani, in espressa polemica con quei fio cattivi in sé losofi e moralisti che – assumendo come parametro di giudizio una «natura umana che non esiste in nessun luogo» – avevano stigmatizzato alcuni affetti umani come vizi o debolezze. Nel determinismo universale dell’ontologia spinoziana, una simile condanna moralistica delle passioni risulta priva di senso, in quanto è imputabile come vizio dell’uomo solo ciò che è frutto di una libera scelta, e non il risultato dell’ordine necessario della natura. In quanto obbediscono alle medesime leggi della Natura-sostanza infinita di cui l’uomo è parte, gli affetti possono e devono, invece, essere studiati con il medesimo metodo geometrico utilizzato nell’indagine sulle altre cose generate dalla Natura, come Spinoza afferma nella Prefazione alla terza parte dell’Etica, intitolata Origine e natura degli affetti. L’uomo come parte della Natura

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T9

La natura necessaria di tutti gli affetti B. Spinoza, Etica, 3, Prefazione

L’affetto: intreccio di corporeità e consapevolezza

La tendenza universale all’autoconservazione: il conatus

Il desiderio come essenza dell’uomo

Affetti positivi e negativi: aumento o diminuzione della potenza

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Nella natura non c’è niente che si possa attribuire a suo vizio; la natura è infatti sempre la stessa, e la sua virtù e potenza di agire una e medesima dappertutto; cioè le leggi e le regole della natura, secondo le quali tutte le cose divengono, e da certe forme si trasmutano in altre, sono dovunque e sempre le stesse, e perciò uno e medesimo deve essere anche il modo di intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, ossia mediante le universali leggi e regole della natura. Dunque gli affetti di odio, ira, invidia, eccetera, in sé considerati, conseguono dalla stessa virtù e necessità della natura, come le altre cose singole; e perciò ammettono certe cause mediante le quali vengono intesi, e hanno certe proprietà ugualmente degne della nostra conoscenza che quelle di qualsiasi altra cosa, della cui sola contemplazione ci dilettiamo. Perciò, tratterò della natura e delle forze degli affetti, e del potere della mente di dominarli, con lo stesso metodo con cui ho trattato, nelle parti precedenti, di Dio e della mente, e considererò le azioni umane e gli appetiti, come se fosse questione di linee, superfici o corpi. Per «affetto» Spinoza intende un’affezione del corpo che ne accresce o diminuisce la potenza di agire, unita all’idea di tale affezione: coerentemente con la concezione dell’uomo come unità indissolubile di mente e corpo, l’affetto è dunque concepito come il risultato di un intreccio altrettanto inscindibile tra una componente corporea – cioè la modificazione del corpo che determina l’affezione – e una componente mentale – che consiste nell’idea o consapevolezza di tale affezione. Prendendo le mosse da questa definizione, Spinoza deduce gli affetti umani a partire da una legge universale della Natura, cioè la legge in base alla quale ogni cosa si sforza e non può non sforzarsi, per quanto è in sé, di perseverare nel proprio essere: legge che altro non è che una traduzione in termini metafisici del principio fisico dell’inerzia, cioè la legge che afferma che un corpo mantiene la propria condizione di moto o di quiete a meno che non intervenga un altro corpo a modificarla. Questa tendenza all’autoconservazione (in latino conatus) – che è l’espressione della infinita potenza della sostanza – rappresenta per Spinoza l’essenza di ogni cosa singola. Di conseguenza, pur essendo generale per tutti gli enti, essa si esplica in maniera diversa nelle varie nature, con delle differenze che esprimono le differenze tra le essenze: secondo l’esempio addotto nell’Etica, il cavallo e l’uomo sono spinti entrambi dalla medesima tendenza ad autoconservarsi attraverso la procreazione, che si manifesta, però, nel primo sotto la forma di libidine equina, mentre nel secondo sotto la forma di libidine umana. Precisamente, il conatus che costituisce l’essenza dell’uomo si manifesta per Spinoza sotto la forma del desiderio (in latino cupiditas): termine con cui egli intende l’appetito accompagnato dalla coscienza, ovvero lo sforzo alla conservazione e al potenziamento di sé, riferito simultaneamente alla mente e al corpo. Se il desiderio costituisce la sua essenza, l’uomo non può non fare ciò che segue da esso. Così intesa, la cupiditas si configura come il fondamento di tutti gli affetti umani, sia quelli di segno positivo sia quelli di segno negativo: i primi sono il passaggio a una potenza e perfezione maggiore, che Spinoza definisce con il termine di laetitia o gioia; i secondi, denominati con il termine tristitia o tristezza, sono invece il passaggio inverso, cioè una diminuzione della potenza del proprio essere. Il desiderio, la gioia e la tristezza rappresentano gli «affetti primari», cioè gli affetti basilari, da cui per Spinoza è possibile derivare tutti gli altri per composizione: per esempio, attraverso la determinazione per effetto di ciò che produce gioia, il desiderio si trasforma in amore, e per effetto di ciò che produce tristezza in odio.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz La geometria degli affetti

Conatus: sforzo per autoconservarsi comune a tutte le cose

Cupiditas: appetito accompagnato dalla coscienza. Essenza dell’uomo

La cupiditas è il fondamento di tutti gli affetti umani Affetti primari o basilari Affetti positivi, tutti legati alla laetitia o gioia

Affetti negativi, tutti legati alla tristitia o tristezza

Aumento della potenza individuale

Diminuzione della potenza individuale

Da questi due affetti derivano l’amore, l’odio e tutti gli altri affetti

Un’etica della «laetitia» Bene e male come nozioni soggettive

Il principio dell’utile: aumentare la propria potenza

La condanna degli affetti collegati alla tristezza

Soltanto dopo avere indagato la struttura e la genesi degli affetti, Spinoza procede, nella quarta parte dell’Etica, a un esame di essi, volto a distinguere quelli buoni da quelli cattivi. Anche tale esame non poggia, però, su nessuna morale presupposta. Spinoza ritiene, infatti, che il bene e il male non siano comandamenti divini, né entità ontologiche assolute o qualità oggettive delle cose, bensì nozioni meramente soggettive, che formiamo perché paragoniamo le cose tra di loro. Queste nozioni sono dunque relative alla prospettiva di chi giudica e al momento in cui tale giudizio viene formulato: per esempio, la musica – che è buona per i malinconici e cattiva per gli afflitti – risulta invece indifferente per i sordi. Nella valutazione degli affetti, l’unico criterio di giudizio che secondo Spinoza è in linea di principio condivisibile da ognuno, al di sopra di ogni relativismo, è costituito dai dettami della ragione coincidenti con l’universale legge di natura, in base alla quale ciascuno deve cercare il proprio utile, ovvero deve sforzarsi di conservare e potenziare il proprio essere. Di conseguenza, per bene egli intende ciò che maggiormente incrementa la potenza – ed è dunque fonte di gioia – e per male ciò che invece la diminuisce, generando tristezza. Il risultato dell’esame degli affetti condotto sulla base di un simile criterio di giudizio è una ferma condanna di tutti gli affetti della tristezza: quest’ultima – essendo per definizione la discesa a una condizione di minore potenza e perfezione – è «direttamente cattiva». Alla tristezza Spinoza riconduce sia gli affetti correntemente considerati come negativi, dalla crudeltà all’invidia, sia alcuni affetti tradizionalmente additati come virtù dall’ethos cristiano, quali l’umiltà e il pentimento. Nell’antropologia spinoziana, l’umiltà è, infatti, definita come la tristezza che sorge dalla contemplazione della propria impotenza; il pentimento è invece descritto come la tristezza derivante da una qualche azione passata, che 249

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rende l’uomo doppiamente infelice e impotente, una volta perché è stato vinto da un desiderio smodato e un’altra volta perché se ne duole vanamente. Il valore dei piaceri Assumendo come unico parametro di valutazione e unica legge quella del conasemplici: gli affetti tus all’autorealizzazione – naturale e razionale al tempo stesso – Spinoza elabodi gioia ra così un’etica che è in netta rottura rispetto allo spirito di sacrificio tipico della morale cristiana, affermando esplicitamente che l’uomo saggio non disprezza i semplici piaceri della vita, anzi li accetta come buona regola di vita. Al contrario degli affetti di tristezza, infatti, gli affetti di gioia sono per Spinoza buoni in sé, in quanto fonti di arricchimento, utili alla conservazione e al potenziamento del nostro essere nella sua totalità, cioè sia nella dimensione corporea sia in quella mentale.

T10

La regola di vita del saggio B. Spinoza, Etica, 4, scolio della prop. 45

Soltanto una cupa e triste superstizione vieta di dilettarsi. Perché infatti sarebbe più lecito estinguere la fame e la sete piuttosto che cacciare la malinconia? Questa è la mia norma e di ciò sono convinto: che nessun nume, né un’altra persona, se non invidiosa, prova piacere alla mia impotenza e al mio danno, né può ritenere che siano una nostra virtù le lacrime, i singhiozzi, la paura e le altre cose simili, che sono segni di un animo impotente; ma, anzi, più grande è la letizia da cui siamo affetti, più grande la perfezione a cui passiamo, cioè tanto più è necessario che noi partecipiamo alla natura divina. Usare quindi delle cose e dilettarsene quanto è possibile (non certo fino alla nausea, che non è questo un dilettarsi), è dell’uomo saggio. Dico che è dell’uomo saggio rifocillarsi e ricrearsi con moderato e piacevole cibo e bevanda, come pure con gli odori, con l’amenità delle piante verdeggianti, il bel vestire, la musica, gli esercizi del corpo, gli spettacoli e le altre cose simili, di cui ognuno può usare senza alcun danno per gli altri. Infatti il corpo umano si compone di moltissime parti di diversa natura che abbisognano continuamente di alimento vario e nuovo perché il corpo tutto sia ugualmente atto a quelle cose che possono seguire dalla sua natura, e di conseguenza affinché la mente sia anch’essa ugualmente atta a intendere più cose assieme. Questa regola di vita, pertanto, conviene ottimamente sia con i nostri principi, sia con la pratica comune.

Dalla schiavitù alla libertà In questa cornice, può a prima vista apparire incomprensibile che gli uomini commettano consapevolmente il male, dal momento che questo consiste nella tristezza, mentre il bene coincide con la gioia, che dovrebbe naturalmente essere dotata di una capacità di attrazione superiore. Spinoza risolve questo problema, riconducendo il fatto che l’uomo spesso commette il male – pur vedendo il bene – a quella che egli definisce la «schiavitù umana», ovvero l’«impotenza a dominare» gli affetti, che sottrae l’individuo a se stesso gettandolo nelle mani della fortuna, cioè delle cause esterne. Il conflitto Secondo i presupposti dell’ontologia deterministica di Spinoza, infatti, l’impulso tra autodeterminazione di ogni individuo a conservare e a potenziare il proprio essere – che è anche ime cause esterne pulso ad affetti gioiosi – è una tendenza necessaria che, però, non si verifica mai allo stato perfetto, perché le cause esterne nel loro concorso combinato sono sempre più potenti della cosa singola. Di conseguenza, l’impulso umano all’autoconservazione e alla realizzazione di sé urta, per ciascuno, contro la preponderanza delle cause esterne. 250

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz La forza degli affetti immediati

La libertà come potere della mente sugli affetti

Affetti passivi e affetti attivi

Agire è divenire una causa adeguata, ossia consapevole

Comprensione dell’ordine necessario e controllo delle passioni

Di qui deriva il manifestarsi di una enorme quantità di comportamenti passionali dannosi all’individuo stesso, che pure li vive immaginando di perseguire il meglio per sé. L’uomo che cede per esempio al vizio del bere e arreca così danno a se stesso – comportandosi in contrasto con l’impulso di autoconservazione – lo fa perché è determinato ad agire da impulsi esterni che sollecitano alcune parti del suo corpo verso quel piacere immediato, con una forza superiore a quella del timore delle conseguenze nocive provocate, sul lungo periodo, dal suo gesto. E questo non per una sua debolezza o colpa particolari, ma semplicemente perché, nella geometria delle passioni costruita da Spinoza, un affetto immediato, cioè riferito a una cosa vicina nello spazio e nel tempo, è sempre di intensità superiore rispetto a un affetto mediato, riferito a qualcosa di assente o meramente possibile. Questo non significa che, per Spinoza, non vi siano vie di uscita dalla schiavitù, cioè dalla soggezione umana rispetto alle passioni. Certo, egli ritiene – in polemica con la tradizione stoica e con Cartesio – che l’uomo non possa mai raggiungere uno stato di completa immunità dalle passioni, in quanto esso è una parte della natura che non può sottrarsi all’influsso delle altre parti, di cui ha continuamente bisogno per conservarsi. Fermo restando questo assunto, Spinoza ammette, però, che l’uomo possa elevarsi a una condizione di libertà intesa non come libero arbitrio, bensì nel senso di potenza della mente sugli affetti: l’obiettivo fondamentale della sua etica è proprio quello di indicare i passaggi necessari in questa direzione. La peculiarità di essa consiste nel fatto che la strada dell’emancipazione non è concepita nei termini di una repressione razionale degli affetti, ma piuttosto come una strategia di trasformazione e conversione delle passioni, in grado di ridurre al minimo la componente di passività. Il presupposto di questa concezione etica è costituito dalla distinzione degli affetti in passivi e attivi: 1) passivi sono quegli affetti congiunti a un’affezione di cui siamo solo causa parziale, insieme ad altre concause esterne, di cui dunque patiamo l’influsso; 2) attivi sono definiti invece quegli affetti congiunti a un’affezione di cui noi stessi siamo la causa adeguata, cioè la causa esclusiva, attraverso le sole leggi della nostra natura. Per comprendere quest’ultima definizione, occorre chiarire come l’uomo possa essere causa di qualcosa solo attraverso se stesso, pur essendo una parte della natura dipendente da tutte le altre. Per Spinoza, ciò è possibile in quanto essere causa adeguata e attiva di qualcosa non significa uscire o deviare dalla necessaria catena di cause-effetti – di cui l’uomo non è che un anello – bensì equivale semplicemente ad avere un’idea adeguata delle cose, cioè un’idea non contaminata dalle nostre impressioni soggettive e dunque corrispondente alla reale natura delle cose. L’uomo in possesso di un’idea adeguata non potrà, infatti, che comportarsi in base a essa, cioè esclusivamente in base a una legge della sua natura. In questo modo, egli si sgancerà dall’influsso passivo delle cause esterne senza deviare dal meccanismo naturale, dal momento che, al contrario, formarsi un’idea adeguata delle cose significa proprio cogliere i necessari nessi causali di cui la realtà è intessuta. Questa comprensione dell’ordine necessario dell’universo ha tra l’altro di per sé l’effetto benefico di ridurre al minimo il potere delle passioni sul nostro animo, in quanto l’uomo che la acquisisce comprende che non ha senso desiderare di essere in una condizione diversa da quella in cui si trova. 251

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

T11

La conquista della serenità

B. Spinoza, Etica, 5, scolio della prop. 5

La passività risiede nell’inconsapevolezza

Capire è emanciparsi dalla schiavitù

Libertà è consapevolezza

Libertà è gioia

Libertà è sommo bene e conoscenza vera di Dio

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Quanto più questa conoscenza, secondo cui le cose sono necessarie, si esplica intorno alle cose singole, che più distintamente e vividamente immaginiamo, tanto è maggiore questa potenza della mente sugli affetti, cosa che la stessa esperienza attesta. Vediamo infatti che la tristezza derivante dalla perdita di qualche bene si mitiga, appena l’uomo, che ha subito la perdita, considera che in nessun modo avrebbe potuto conservarlo. Così anche vediamo che nessuno compiange un bambino per il fatto che non sa parlare, camminare, ragionare, e che vive tanti anni quasi inconsapevole di se stesso. Ma se gli uomini nascessero per la maggior parte adulti, e soltanto uno o due bambini, allora tutti compiangerebbero i bambini, perché allora non considererebbero l’infanzia come una cosa naturale e necessaria, ma come un vizio o peccato della natura. Di contro, l’uomo è causa parziale dei propri affetti – e dunque soggetto alle passioni – quando è in possesso unicamente di idee inadeguate delle cose, cioè di quelle idee che, sorte sulla base del fortuito incontro con la natura, in realtà rispecchiano più le modificazioni interne del nostro corpo che la natura delle cose stesse. L’uomo la cui conoscenza si ferma a questo punto, non si comporta secondo le proprie idee delle cose, ma è piuttosto passivamente determinato dalle cause esterne. Sulla base di queste premesse, Spinoza ammette la possibilità di convertire le passioni in affetti attivi, mediante l’acquisizione di una conoscenza chiara e distinta dell’affetto stesso. Una simile conversione è ai suoi occhi la via maestra per l’emancipazione dell’uomo dalla schiavitù delle passioni: pur non potendo mai ottenere un dominio assoluto sugli affetti, la mente umana può acquisire su di essi un potere che è tanto maggiore, quanto maggiore è la conoscenza che ne ha. In altri termini, per Spinoza la forza della ragione non è da sola sufficiente per contrastare la forza degli affetti. Di conseguenza, essa non deve agire sulle passioni direttamente, bensì indirettamente, attraverso un processo di chiarificazione degli affetti che – convertendo la gioia e il desiderio da passioni in azioni – li potenzia sino a renderli invincibili rispetto alle pulsioni distruttive e autodistruttive. Così intesa, l’emancipazione dalla schiavitù delle passioni non consiste, dunque, in una completa distruzione della vita emotiva, ma piuttosto nel conseguimento di una condizione di predominanza degli affetti attivi – cioè degli affetti rischiarati dalla ragione – che permette quel pieno dispiegamento dello sforzo alla conservazione e al potenziamento di sé, in cui Spinoza ripone sia la virtù sia la felicità. Schiavo è per Spinoza colui che, trascinato dalla forza cieca di passioni non illuminate dalla luce della ragione, commette gesti di cui non conosce le conseguenze, procurando spesso danno a se stesso oltre che agli altri. Libero è colui che, agendo sulla base di una conoscenza adeguata di se stesso e dei propri desideri, dirige i suoi sforzi verso la massima gioia, cioè verso il suo vero utile o bene, che è tale non solo per lui, ma anche per tutti gli uomini: infatti soltanto le passioni, che sono estremamente variabili, dividono gli uomini, spingendoli a considerare come beni oggetti diversi. Quando invece all’origine della gioia vi è un’idea adeguata, non si può che amare – cioè giudicare come bene – le medesime cose, ossia ciò che sappiamo con certezza aumentare la nostra potenza. Tale è innanzitutto la stessa conoscenza adeguata: in particolare, poiché ogni conoscenza adeguata implica l’idea di Dio, il sommo bene non potrà che consistere nella conoscenza di Dio. Oltre alla conoscenza, un ulteriore bene vero per l’uomo è, secondo Spinoza, l’unione con i

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

propri simili. Egli ritiene, infatti, che nulla sia più utile all’uomo della vita in società, che gli consente di aumentare la propria potenza e di procurarsi molto più facilmente ciò di cui ha bisogno, così come di contrastare con maggiori probabilità di successo i pericoli che incombono sulla sua autoconservazione.

T12

«Nulla è più utile all’uomo degli altri uomini» B. Spinoza, Etica, 4, coroll. 1 e scolio della prop. 35

Libertà dalle passioni è amore per la vita

L’etica spinoziana: dalla schiavitù alla libertà

Nessuna cosa singola si dà in natura, che sia all’uomo più utile dell’uomo che vive sotto la guida della ragione. Infatti, la cosa più utile all’uomo è quella che massimamente conviene con la sua natura […], cioè (come per sé noto) l’uomo. Ma l’uomo agisce assolutamente secondo le leggi della sua natura, quando vive sotto la guida della ragione […]. Ciò che abbiamo or ora dimostrato, attesta quotidianamente con tante e così chiare testimonianze, che quasi a tutti è in bocca il detto: per l’uomo l’uomo è Dio. Accade tuttavia raramente che gli uomini vivano sotto la guida della ragione; le cose, piuttosto, stanno in modo che essi per lo più sono invidiosi, e molesti gli uni agli altri. Ma, ciononostante, non riescono a sopportare la vita solitaria, sicché quella definizione, secondo cui l’uomo è un animale sociale, ha incontrato nella maggior parte larghi consensi. E in realtà le cose stanno in modo che dalla comune società degli uomini sorgono molti più vantaggi che danni. Irridano dunque quanto vogliono i satirici le cose umane, e le detestino i teologi, e lodino quanto possono i malinconici la vita incivile ed agreste, disprezzando gli uomini ed ammirando i bruti; gli uomini seguiteranno a sperimentare che con l’aiuto reciproco si procacciano ciò di cui hanno bisogno molto più facilmente, e che non possono evitare i pericoli che dovunque incombono, se non a forze unite. Per tacere, poi, che è molto più meritevole e più degno della nostra conoscenza contemplare le azioni degli uomini che non quelle dei bruti. Nella prospettiva spinoziana, la libertà dalle passioni è dunque quanto di più lontano possa esservi rispetto all’ideale ascetico di rinuncia a esse per paura di ciò che verrà dopo la morte. Per Spinoza, la libertà dalle passioni coincide piuttosto con una conoscenza razionale che ha per oggetto esclusivamente la vita, la sua conservazione e il suo potenziamento mediante l’unione con i propri simili: «l’uomo libero non pensa a niente meno che alla morte; e la sua sapienza è meditazione non della morte, ma della vita». La morte – in quanto negazione dell’impulso all’autoconservazione che costituisce l’essenza di tutti gli individui – non può che essere un evento passivamente subito. Questo la situa dunque al di fuori dell’orizzonte mentale di colui che è libero proprio in quanto, agendo sulla base del principio interno della propria conoscenza adeguata, ha ridotto al minimo l’influsso delle cause esterne su di sé. Ciò non significa che il sapiente possa sottrarsi alla morte, della cui necessità è al contrario pienamente consapevole, in quanto sa di essere un piccolo atomo nella totalità della Natura. Tuttavia, egli sceglie di agire nel mondo e di dedicarsi alla vita piuttosto che ripiegarsi su se stesso e sul proprio destino mortale.

Schiavitù L’uomo è inconsapevole dell’origine delle proprie passioni

Attraverso un’idea adeguata, chiara e distinta di sé, l’uomo vede chiaramente le cause delle passioni

Si comporta in modo conforme alle leggi della propria natura, ossia accetta la necessità divenendo causa adeguata

La consapevolezza raggiunta rende più efficace lo sforzo di autoconservazione e il potenziamento di sé

L’uomo si libera dalla schiavitù delle passioni e raggiunge la massima gioia Libertà

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

5 I tre generi di conoscenza

T13

Le forme della conoscenza B. Spinoza, Etica, 2, scolio 2 della prop. 40

Il problema degli universali

Conoscenza di primo tipo: esperienza vaga e idee mutile e confuse

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La teoria della conoscenza Come si è appena visto, Spinoza stabilisce una corrispondenza tra i livelli della vita affettiva ed etica dell’uomo – da un lato – e i diversi generi di conoscenza, istituendo un nesso indissolubile tra il possesso di idee adeguate e la possibilità dell’uomo di liberarsi dalla schiavitù delle passioni. Più precisamente, Spinoza distingue tre forme del conoscere, in tutte e tre le redazioni della teoria della conoscenza che ci ha tramandato, contenute nel Trattato sull’emendazione dell’intelletto, nel Breve trattato e nell’Etica. L’Etica contiene non solo la versione di dottrina della conoscenza più matura, ma offre anche la visione d’insieme più sintetica dei tre generi di conoscenza, che sono presentati e introdotti da Spinoza nel secondo scolio della proposizione 40 della seconda parte. Da quanto è stato detto sopra, appare chiaro che noi percepiamo molte cose e formiamo nozioni universali: in primo luogo, dalle cose singole rappresentateci dai sensi in maniera mutila e confusa e senza ordine per l’intelletto […]: e perciò sono solito chiamare tali percezioni conoscenza da esperienza vaga. In secondo luogo, da segni, per esempio dal fatto che, udite o lette certe parole, ci ricordiamo delle cose, e di esse formiamo certe idee simili a quelle mediante le quali immaginiamo le cose […]. In seguito chiamerò questi due modi di contemplare le cose conoscenza di primo genere, opinione o immaginazione. In terzo luogo, infine, dal fatto che abbiamo nozioni comuni e idee adeguate delle proprietà delle cose […]; e questo lo chiamerò ragione e conoscenza di secondo genere. Oltre questi due generi di conoscenza se ne dà un terzo, come in seguito dimostrerò, che chiameremo sapere intuitivo. E questo genere del conoscere procede dall’idea adeguata dell’essenza formale di certi attributi di Dio alla conoscenza adeguata dell’essenza delle cose. In primo luogo per Spinoza il problema centrale della conoscenza è costituito dal problema della formazione delle nozioni universali: ciascuno conosce, infatti, molte cose, ma nessuno attribuisce il valore di scienza alle sue conoscenze, se non è in grado di estenderle dal particolare al generale. Per esempio, un esperimento dà luogo a sapere scientifico soltanto se da esso si può ricavare una legge applicabile alla generalità dei fenomeni da esso interessati. Muovendo da questa visione della conoscenza, Spinoza ne distingue tre modi. 1) La prima è definita «conoscenza di primo genere, opinione o immaginazione», ed è a sua volta articolata in due tipi. Innanzitutto, è conoscenza di primo genere quella dell’uomo che forma «nozioni universali» – cioè trae conclusioni generali – a partire da quella che Spinoza denomina «esperienza vaga», intendendo con tale espressione le idee delle affezioni del nostro corpo. In altri termini, quelle idee che sono il corrispettivo mentale delle modificazioni subite dal nostro corpo in seguito al fortuito incontro con le cose esterne (percezioni di suoni, colori, odori ecc.). Tali idee sono prive di ordine e «mutile», in quanto non rispecchiano la totalità dei rapporti in cui ogni singola cosa è inserita, ordinati secondo la rigida legge di determinazione causale. Inoltre, esse sono confuse, in quanto sovrappongono alla cosa rappresentata le modificazioni del nostro corpo, e variano dunque inevitabilmente da soggetto a soggetto. Per que-

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Conoscenza di secondo tipo: nozioni «per sentito dire» Ragione come conoscenza discorsiva delle leggi naturali

Sapere intuitivo come conoscenza adeguata di Dio

L’errore è solo dell’immaginazione

Ragione e scienza intuitiva conoscono «sotto una specie di eternità»

sto motivo, le idee delle affezioni del nostro corpo in cui consiste l’immaginazione non possono fungere da base per la conoscenza scientifica. La seconda variante della conoscenza di primo genere è invece quella che Spinoza definisce conoscenza «per sentito dire», che ha luogo quando l’uomo forma le proprie idee delle cose accettando senza verifiche le conoscenze altrui, recepite in forma scritta o parlata. 2) Il secondo genere di conoscenza si chiama «ragione», e compendia le procedure del sapere scientifico dell’età galileiana e cartesiana. Con il termine «ragione» Spinoza designa, infatti, la conoscenza discorsiva, che forma leggi universalmente valide partendo non dalle idee delle affezioni corporee, bensì dalle «nozioni comuni», cioè dalle idee delle componenti geometrico-matematiche comuni al nostro corpo e al corpo che ci impressiona. A differenza delle idee delle affezioni del nostro corpo, le idee di ciò che è comune a tutti i corpi sono per Spinoza sempre «adeguate», cioè riflettono la struttura delle cose, identica per tutti gli uomini: una nozione comune è, per esempio, l’affermazione che tutti i corpi o si muovono o stanno fermi. Proprio in quanto sono «idee adeguate», le nozioni comuni ci permettono di raggiungere leggi universalmente valide in ogni scienza. Proprietà comuni a tutte le cose sono l’estensione, il moto e la quiete: nell’ontologia spinoziana, i corpi, infatti, in quanto modi finiti dell’estensione, devono tutti partecipare non solo di quest’ultima, ma anche dei suoi modi immediati e infiniti (vedi sopra, p. 236 s.), cioè il moto e la quiete. 3) La terza e più alta forma di conoscenza, che in questa pagina dell’Etica è chiamata «sapere intuitivo», si svolge in direzione inversa rispetto a quella razionale. Per scienza intuitiva Spinoza intende, infatti, quella conoscenza che, invece di procedere alla formulazione di leggi universali, muove immediatamente dalla conoscenza più universale possibile – l’idea dell’essenza di Dio in quanto estensione e pensiero – per dedurre, a partire da essa, l’essenza delle cose singole, ossia ciò che dall’eternità e per l’eternità le distingue le une dalle altre. Un simile procedimento è per Spinoza possibile, dato che secondo i presupposti della sua ontologia tutte le cose particolari sono in Dio – che è causa della loro essenza ed esistenza – e «sono concepite per mezzo di Dio», cioè possono essere adeguatamente conosciute solo attraverso la sostanza infinita, che ne è la causa prima. L’errore può per Spinoza derivare solo dal primo genere di conoscenza, mentre il secondo e il terzo non possono mai essere fonte di falsità. Inoltre, in quanto conoscenza inadeguata, frammentaria e parziale, la prima forma di conoscenza considera le cose come contingenti. Al contrario, la ragione e la scienza intuitiva, che sono una conoscenza adeguata e vera, considerano le cose come necessarie, cogliendo i rapporti e la struttura in cui esse sono inserite. Inoltre, cogliendo le cose nella loro genesi dalla necessità della natura divina, la ragione e la scienza intuitiva le percepiscono – afferma Spinoza – «sotto una certa specie di eternità» (sub specie aeternitatis). Tale affermazione può apparire contraddittoria, dal momento che sembra impossibile percepire come eterne le cose la cui esistenza ha una durata nel tempo. Tuttavia, l’apparente contraddizione viene meno, se si considera che le cose particolari non sono che modi della sostanza, la quale è eterna e infinita: l’essere totale di questa rimane identico così come anche le leggi che regolano la manifestazione della sua infinita potenza nella infinita pluralità dei modi, ciascuno dei quali muta nella forma, ma permane come momento della sostanza. 255

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L’ambivalenza dell’immaginazione Fonte del pregiudizio ma anche manifestazione necessaria della mente

Immaginazione e vita corporea

Immaginazione e cose esterne: un’utile risorsa

Immaginazione e memoria: all’origine di molti processi psichici

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L’immaginazione è per Spinoza il genere di conoscenza più basso, fonte di idee mutile e confuse, cioè di quelle idee inadeguate che, come si è visto sopra, pongono l’uomo in una condizione di passività rispetto alle cause esterne e in uno stato di schiavitù rispetto alle passioni. Conformemente a questo presupposto, Spinoza fa risalire all’immaginazione ogni forma di superstizione – come si vedrà meglio nell’esame della critica spinoziana della religione – e tutti i pregiudizi umani, compreso il pregiudizio dei pregiudizi, cioè quello finalistico. In realtà, però, l’immaginazione non è per Spinoza esclusivamente una fonte di errore, bensì costituisce piuttosto una manifestazione fisiologica e necessaria della mente umana, in quanto indissolubilmente legata al corpo di cui essa è idea. La rivalutazione della corporeità che, come si è visto, caratterizza la filosofia spinoziana rispetto alle teorie tradizionali non può non riverberarsi anche sulla sua teoria dell’immaginazione, conferendole dei tratti peculiari che vale la pena di mettere in risalto. A tale scopo, occorre innanzitutto ritornare sul nesso tra immaginazione e vita corporea: come la mente è l’idea del corpo, così le immagini con le quali le cose esterne ci si presentano – cioè le idee proprie dell’immaginazione – sono le idee delle modificazioni che avvengono nel nostro corpo sotto l’impulso delle cause esterne. Idee che si danno nella nostra mente in maniera necessaria, in virtù del parallelismo psico-fisico che si è illustrato sopra. Dal momento che le modificazioni corporee permangono anche una volta venute meno le cause che le hanno provocate, nella mente permangono anche le idee di esse: motivo per cui nella mente vi possono essere anche immagini di cose assenti. L’immaginazione non è altro che la rappresentazione meccanica e necessaria – cioè regolata da leggi – delle cose esterne come presenti, che può avere luogo sia quando le cose sono effettivamente presenti sia quando esse sono assenti o non esistenti. In entrambi i casi, l’immaginazione non è in sé una nociva fonte di errore, bensì può diventarlo solo sulla base di un suo uso distorto. Nel primo caso, cioè quando oggetti dell’immaginazione sono individui presenti, è vero, certo, che essa non ci fa conoscere l’essenza delle cose esterne: l’immaginazione ci offre, infatti, le idee delle affezioni del nostro corpo, facendoci così conoscere unicamente l’impatto che la cosa esterna ha su di noi. Tuttavia, ciò non vuol dire affatto che essa sia in sé difettosa o inutile: al contrario, informandoci sugli effetti che le cose esterne hanno sul nostro corpo, l’immaginazione ci offre delle risorse preziose per discernere ciò che è utile o dannoso alla conservazione e al potenziamento del nostro essere, in cui consiste il bene. Il difetto e l’errore si hanno solo se la mente di colui che immagina scambia gli effetti delle cose su di sé per la reale natura o essenza delle cose. Lo stesso discorso vale per il secondo caso, cioè quando gli oggetti che l’immaginazione rappresenta come presenti sono invece lontani nel tempo e nello spazio, o addirittura inesistenti. Tale espressione dell’immaginazione non equivale, di per sé, a una forma di delirio o alla produzione di sogni e allucinazioni. L’evocazione di ciò che è assente ha piuttosto, in sé considerata, una funzione fondamentale: essa è, infatti, l’elemento senza il quale non sarebbero possibili la comunicazione e le relazioni tra gli uomini, né ogni tipo di collegamento tra i fatti psichici. Senza di essa, non potremmo parlare con nessuno di un Paese lontano, o di un nostro caro che è morto, o di un amico che vive in un’altra città; anzi, qualora tale amico venisse a trovarci, non lo riconosceremmo.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz I rischi nell’uso dell’immaginazione

T14

La conoscenza immaginativa è in sé positiva B. Spinoza, Etica, 2, scolio della prop. 17

È lo stesso Spinoza a richiamare l’attenzione sul potenziale positivo dell’immaginazione. La raffigurazione di cose vicine o lontane come presenti – in cui consiste l’immaginazione – non è in sé un vizio della natura umana, ma piuttosto una virtù e una forza, a patto che l’evocazione non si sovrapponga tanto alla mente da far sì che uno creda effettivamente presente ciò che invece è assente. Soltanto in questo caso si tratterebbe di un delirio o di un’allucinazione, che è una chiara forma di patologia, mentre l’immaginazione è, nella normalità, un’espressione fisiologica della mente, ineliminabile e necessaria quanto le affezioni del corpo. […] Vorrei notaste che le immaginazioni della mente, in sé riguardate, non contengono nessun errore, ossia che la mente non erra per il fatto di immaginare, ma solo in quanto è considerata mancare dell’idea che escluda l’esistenza di quelle cose che immagina come a sé presenti. Perché se la mente, mentre immagina a sé presenti cose non esistenti, sapesse nello stesso tempo che quelle cose non esistono, certo attribuirebbe a virtù della sua natura e non a vizio questa potenza di immaginare; specie se questa facoltà di immaginare dipendesse dalla sua sola natura, cioè […] se questa facoltà di immaginare della mente fosse libera.

Scienza intuitiva, amore intellettuale di Dio e beatitudine Amore intellettuale di Dio: culmine della conoscenza e della virtù

Non è un ritorno al Dio-persona

Caratteri dell’amore intellettuale

Amore raggiunto attraverso l’idea di Dio

Il nesso tra vita intellettuale e vita etica vale anche per gli stadi superiori della conoscenza: come si è visto, infatti, il processo di emancipazione dalle passioni può compiersi solo attraverso l’acquisizione di quella «conoscenza adeguata» delle cose che, preclusa all’immaginazione-opinione, è prerogativa della ragione e della scienza intuitiva. In particolare, Spinoza indica il culmine del processo di liberazione dell’uomo e la suprema virtù nella pratica del terzo genere di conoscenza – cioè la scienza intuitiva – che egli concepisce come indissolubilmente legata all’affetto dell’«amore intellettuale di Dio», identificato con la «beatitudine». Le espressioni «beatitudine» e «amore di Dio» richiamano in modo inevitabile alla mente le religioni tradizionali: non a caso, la dottrina dell’amore intellettuale di Dio è stata in passato uno dei punti d’appoggio delle letture religiose e misticheggianti del pensiero di Spinoza e, ancora in tempi recenti, è stata indicata da alcuni studiosi come uno dei segni della permanenza del Dio-persona accanto al Dio-Natura. In realtà, però, nonostante le innegabili ambiguità e difficoltà dei passaggi che si riferiscono a questi concetti – tuttora oggetto di controversie – non occorre ricorrere al Dio-persona per spiegarne il significato. L’amore intellettuale di Dio non ha nulla a che vedere, infatti, con l’amore come sentimento reciproco che lega tra loro due soggetti, e che presupporrebbe necessariamente il riferimento a un Dio personale. Si tratta dunque di spiegare in che cosa esso invece consiste. L’amore in generale è, per Spinoza, l’affetto di gioia accompagnato dall’idea di una causa esterna, ove la gioia – come si è visto – è il passaggio a una perfezione superiore. L’uomo che raggiunge il terzo genere di conoscenza passa a una perfezione superiore rispetto a quando non possedeva tale conoscenza, e prova dunque un affetto di gioia. Questa gioia è amore di Dio, in quanto è accompagnata dall’idea di Dio come sua causa: come si è visto, infatti, l’idea di Dio – inteso non come Dio personale e 257

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Beatitudine come conoscenza di Dio attraverso le cose

Generi di conoscenza e gradi di certezza

trascendente, bensì come ordine geometrico dell’universo – è il punto di partenza della scienza intuitiva, che deduce l’essenza delle cose singole in quanto sono in Dio e derivano necessariamente da Dio. Infine, si tratta di un amore intellettuale, in quanto la gioia concomitante con l’acquisizione della scienza intuitiva esprime un incremento di perfezione nell’ambito del conoscere, che non riguarda il corpo. Solo la mente conosce in maniera perfetta la realtà, in quanto considera le cose non nel contesto di relazioni spazio-temporali contingenti con altre menti e altri corpi, bensì nel loro legame di derivazione necessaria ed eterna dalla natura divina. In sintesi, l’amore intellettuale di Dio può essere descritto – com’è stato detto – come la semplice gioia di cui godono lo scienziato e il filosofo, quando intendono l’ordine necessario ed eterno immanente nell’universo e comprendono le cose singole come elemento e manifestazione necessaria di tale ordine. Parimenti, la beatitudine che coincide con questo amore intellettuale di Dio è sì una forma di conoscenza di Dio – in quanto gioia che scaturisce dal terzo genere di conoscenza – ma non è in nessun modo la contemplazione ascetica di un Dio trascendente. Come si è visto, infatti, la scienza intuitiva è conoscenza di Dio solo e nella misura in cui è conoscenza dell’essenza delle cose singole, ove per Spinoza questa forma di conoscenza di Dio è la più elevata proprio in quanto, coerentemente con i presupposti della propria ontologia immanentistica, egli ritiene che «Quanto più intendiamo le cose singole, tanto più intendiamo Dio». Sulla base di questi presupposti, Spinoza capovolge completamente la concezione ascetica della beatitudine come risultato del distacco dal mondo e della repressione delle passioni: di contro, egli sostiene che l’uomo può frenare queste ultime solo in quanto gode della beatitudine, cioè solo una volta che abbia raggiunto la conoscenza adeguata, che gli consenta di ridurre al minimo la componente passiva dei propri affetti.

Generi di conoscenza

Grado di certezza

Immaginazione: 1° tipo

Oggetto Percezioni o conoscenza da esperienza vaga, cioè idee delle affezioni del corpo

Certezza soggettiva Immaginazione: 2° tipo

Certezza oggettiva e universalmente valida

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Conoscenza inadeguata, frammentaria e parziale, anche se utile Conoscenze «per sentito dire»

Ragione

Scienza intuitiva

Risultato

Nozioni comuni, ossia idee Conoscenza adeguata della natura e delle sue leggi delle componenti universali geometrico-matematiche dei corpi: estensione, moto, quiete Il Dio-sostanza e tutte le Conoscenza adeguata cose in quanto derivano da di Dio e delle cose singole: lui, permangono in lui, sono amore intellettuale di Dio concepibili attraverso di lui

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

6 La salvezza dei pochi saggi

T15

La difficile via della saggezza B. Spinoza, Etica, 5, scolio della prop. 42

È possibile la salvezza della moltitudine?

T16

La credulità umana è figlia della paura B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Prefazione

Paura e speranza: passioni impotenti e fonti di superstizione

La critica della religione rivelata Come si è appena visto, il messaggio fondamentale dell’Etica consiste nell’individuazione della «conoscenza adeguata» come la via maestra per raggiungere la libertà e la salvezza. Il saggio, in quanto consapevole dell’ordine necessario ed eterno nel quale è unito al Dio-Natura, non subisce turbamenti dall’esterno; egli è perciò libero e gode di una tranquillità dell’animo che non può essere scalfita da nulla. Spinoza è tuttavia conscio che questa strada della salvezza, insegnata dalla ragione, è una strada straordinariamente difficile, alla portata di pochi. Dalle cose dette risulta quanto più ricco e più forte sia il saggio dell’ignorante, che è spinto soltanto dalla libidine. Infatti l’ignorante, oltre ad essere agitato in molti modi da cause esterne e a non possedere mai un vero compiacimento dell’animo, vive inoltre quasi inconsapevole di sé, di Dio e delle cose; e appena cessa di patire, cessa anche di essere. Invece il saggio, in quanto è considerato tale, è difficilmente turbato nell’animo; ma, consapevole di sé, di Dio e delle cose secondo una certa necessità eterna, non cessa mai di essere, bensì possiede il vero compiacimento dell’animo. Se, ora, la via che come ho mostrato conduce a ciò, sembra estremamente difficile, può tuttavia essere trovata. E arduo, in verità, deve essere ciò che raramente si trova. Come infatti potrebbe avvenire, se la salvezza fosse sotto mano e potesse essere ottenuta senza molta fatica, che fosse negletta quasi da tutti? Ma tutte le cose eccellenti sono tanto difficili quanto rare. Il problema della salvezza dei più – cioè della moltitudine di coloro che, ignari di sé e del mondo, sono in balia delle proprie passioni fluttuanti e incontrollate – costituisce invece il problema centrale dell’altro scritto fondamentale del filosofo olandese, cioè il Trattato teologico-politico, che si apre proprio con la descrizione della condizione in cui si trova la maggior parte degli esseri umani vittime della propria ignoranza e del destino, combattuti tra paura e speranza, sempre pronti a rifugiarsi nella superstizione. Se gli uomini potessero dirigere tutte le loro cose con sagge e certe decisioni, oppure se la fortuna fosse loro sempre favorevole, non sarebbero soggetti ad alcuna superstizione. Ma, poiché spesso si trovano in difficoltà tali che non sanno prendere alcuna decisione, e poiché di solito, a causa degli incerti beni della fortuna che essi desiderano smoderatamente, fluttuano miseramente tra la speranza e la paura, il loro animo è quanto mai incline a credere qualsiasi cosa: quando è preso dal dubbio, esso è facilmente sospinto or qua or là, e tanto più quando esita agitato dalla speranza e dalla paura, mentre nei momenti di fiducia è pieno di vanità e presunzione. Spinoza sa che tutti gli uomini sono soggetti per natura alla superstizione, poiché tutti sono soggetti alle due passioni che la generano: la speranza e la paura, che non a caso nell’Etica sono presentate come due affetti che non possono essere di per sé buoni, in quanto segni di un animo impotente, cioè soggetto ed esposto alle alterne vicende della fortuna. Spinoza è inoltre persuaso che la teologia, in quanto sistema della superstizione, esalti in maniera strumentale il timore e la speranza, riferendoli rispettivamente a una punizione e a un premio eterni. 259

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Parte prima La nascita della filosofia moderna Religione: la salvezza attraverso l’obbedienza

Mosso dalla convinzione che il potere della sola ragione sia di gran lunga inferiore a quello della superstizione, nel Trattato teologico-politico Spinoza si sforza dunque di individuare un percorso di salvezza alternativo, che non sia basato solo sulla ragione, bensì coinvolga anche l’immaginazione. In questa prospettiva, egli riconosce una funzione non solo legittima ma anche essenziale alla religione, in quanto strumento utile per indurre gli uomini al controllo parziale delle proprie passioni – cioè alla virtù – non mediante la conoscenza adeguata, bensì mediante l’obbedienza. Tuttavia, al tempo stesso Spinoza ritiene che tale importante funzione non possa essere assolta dalla religione insegnata e professata dalle diverse confessioni dell’Europa del Seicento che, per la reciproca rivalità, avevano insanguinato e continuavano a insanguinare il continente, generando quel clima di intolleranza di cui egli stesso era stato vittima.

T17

Mi sono spesso meravigliato che uomini, i quali si vantano di professare la religione cristiana, cioè l’amore, la gioia, la pace, la moderazione e la lealtà verso tutti, combattessero tra loro con tanta ostilità e nutrissero a vicenda, continuamente, un odio così feroce, da far riconoscere da queste cose, più facilmente che da quelle, la fede di ciascuno; le cose sono ormai arrivate al punto che quasi non si può riconoscere di che si tratti – cioè se di un cristiano o di un turco o di un ebreo o di un pagano – se non dal modo di vestire e dal culto, o dalla Chiesa che frequenta o, infine, dall’opinione che segue e dal maestro sulla cui parola è solito giurare. Per il resto conducono tutti la stessa vita. Cercando dunque la causa di questo male, non ho avuto dubbi che esso derivasse dall’opinione del volgo secondo cui è stata prerogativa della religione considerare i ministeri della Chiesa dignità e i suoi uffici benefici, nonché rendere i massimi onori ai pastori. Infatti, non appena incominciò nella Chiesa questo abuso, subito una grande brama di amministrare i sacri uffici si impossessò dei peggiori e lo zelo di diffondere la divina religione degenerò in una sordida avarizia e nell’ambizione, e lo stesso tempio degenerò in un teatro dove venivano ascoltati non dottori della Chiesa, ma oratori, il cui proposito non era di istruire il popolo, bensì di condurlo all’ammirazione nei loro confronti, di denigrare pubblicamente gli avversari e di insegnare soltanto cose nuove e insolite, che suscitassero la più grande ammirazione da parte del volgo; da tutto questo, evidentemente, non potevano sorgere che grandi contese, invidie e odio, che il passare del tempo non è riuscito a sedare. Non c’è dunque da meravigliarsi se dell’antica religione non sia rimasto altro che il culto esterno (col quale il volgo sembra adulare Dio più che adorarlo), e se la fede non sia ormai altro che la credulità e un insieme di pregiudizi: pregiudizi che trasformano gli uomini da esseri razionali in bestie – in quanto impediscono del tutto che ciascuno si serva liberamente della propria facoltà di giudicare e distingua il vero dal falso – , e che sembrano escogitati a bella posta per spegnere del tutto il lume dell’intelletto. La pietà e la religione, oh Dio immortale!, consistono in arcane assurdità, e coloro che disprezzano del tutto la ragione e che respingono e avversano l’intelletto in quanto corrotto per natura, proprio questi, per colmo di ingiustizia, sono creduti in possesso del lume divino. In verità, se anche avessero una scintilla del lume divino, non sarebbero così dissennati con tanta superbia, ma imparerebbero a rendere il culto a Dio con maggior saggezza, e si distinguerebbero dagli altri non già per l’odio, ma per l’amore; e non perseguiterebbero con tanta ostilità

L’origine delle lotte di religione

B. Spinoza, Trattato teologico-politico, Prefazione

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

quelli che dissentono da loro, ma (se davvero si preoccupassero della loro salvezza, e non del proprio successo) sarebbero misericordiosi nei loro confronti. Depurare la religione dalla superstizione

La funzione della religione

Sulla base di un’analisi molto pessimistica della condizione religiosa del proprio tempo, Spinoza ritiene che la religione possa esercitare l’importante compito di condurre alla salvezza la massa di coloro che non sono in grado di sollevarsi alla conoscenza adeguata soltanto se depurata dai pregiudizi teologici. Per questo motivo, egli dedica tutta la prima parte del Trattato teologico-politico alla confutazione sistematica dei pregiudizi religiosi, che presuppone e integra, calandola nella concretezza della storia, l’indagine su Dio e sulle passioni svolta nell’Etica. La seconda parte dell’opera ha invece per tema centrale la fondazione della libertà civile e politica, e verrà illustrata nel capitolo dedicato ai principali modelli teorici del giusnaturalismo moderno (vedi Unità 7, p. 440). Cosa insegna l’Etica

Cosa insegna la religione

La saggezza è la via maestra per raggiungere libertà e salvezza

L’obbedienza alle regole serve per il controllo delle passioni

Si serve della ragione e della scienza intuitiva

Si serve dell’immaginazione

Vale solo per pochi

Vale per la moltitudine

Un nuovo metodo d’interpretazione delle Scritture L’indagine critica delle fonti

T18

Lo scontro sulla interpretazione delle Scritture

B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. 7

Consapevole del fatto che la ragione non è tenuta in grande considerazione dai teologi, per criticare i principali pregiudizi di questi ultimi Spinoza non si serve solo di argomenti razionali. Decide piuttosto di scendere sul terreno dei suoi avversari, cercando di dimostrare la falsità delle loro posizioni a partire dalla fonte principale della conoscenza teologica occidentale, cioè le Sacre Scritture. Scelta che è dettata anche dalla constatazione che l’interpretazione di queste ultime costituiva da sempre – e in particolare dopo la Riforma protestante – il principale terreno di scontro tra le diverse correnti teologiche e confessioni religiose. È sulla bocca di tutti che la Sacra Scrittura è la parola di Dio che insegna agli uomini la vera beatitudine o la via della salvezza; ma nei fatti dimostrano tutt’altra cosa. Il volgo, infatti, di nulla sembra preoccuparsi di meno che di vivere secondo gli insegnamenti della Sacra Scrittura, e vediamo che quasi tutti spacciano per parola di Dio le loro invenzioni e non badano ad altro che a costringere gli altri, col pretesto della religione, ad essere del loro parere. Vediamo, dico, che i teologi si sono per lo più dati da fare per trovare il modo di estorcere alle Sacre Lettere e di accreditare con l’autorità divina le loro finzioni e i loro pareri, e che in nessuna cosa essi agiscano con minore scrupolo e con maggiore avventatezza quanto nell’intepretazione della Scrittura, cioè del pensiero dello Spirito Santo; 261

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

e se nel far ciò sono presi da qualche preoccupazione, questa non è il timore di attribuire allo Spirito Santo qualche errore e di deviare dalla via della salvezza, ma di essere colti in errore dagli altri. Per porre fine una volta per tutte a questo genere di controversie e per «liberare la mente dai pregiudizi dei teologi», Spinoza adopera un nuovo metodo di lettura dei Libri Sacri che si può definire storico-critico, in quanto è fondato sulla ricostruzione storica del testo mediante un’accurata indagine filologica, cioè mediante la ricerca dell’autentico significato storico delle parole. Alla base di un simile metodo vi è il rifiuto del presupposto basilare della interpretazione teologica tradizionale, cioè la tesi che le Sacre Scritture siano un’opera scritta da Dio stesso – concepito a immagine e somiglianza degli uomini – attraverso le mani dei profeti. Le Scritture come Per Spinoza, di contro, si tratta di libri che, al pari di ogni altro documento letdocumento letterario terario, possono e devono essere interpretati solo sulla base di un’accurata anae umano lisi filologica, in quanto i loro autori sono anch’essi semplici uomini. A loro Dio ha trasmesso un certo insegnamento etico-religioso non attraverso un rapporto personale e sovrannaturale, bensì attraverso la sua semplice idea, presente nella mente umana. La scelta di adoperare tale metodo costituisce anche una presa di distanza rispetto all’interpretazione delle Sacre Scritture mediante l’applicazione di principi filosofici. Per Spinoza, infatti, come la conoscenza della Natura va ricavata dalla sola Natura, così la conoscenza di ciò che è contenuto nella Scrittura va ricavato dalla sola Scrittura, senza contaminarla con le opinioni filosofiche dell’interprete e senza piegarla ai principi della conoscenza naturale.

Ricostruzione storica e indagine filologica

T19

Studio della Scrittura e studio della natura

B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. 7

Il metodo di interpretazione della Scrittura non differisce dal metodo di interpretazione della natura, ma concorda del tutto con questo. Infatti, come il metodo di interpretazione della natura consiste essenzialmente nell’apprestare la storia della natura, dalla quale, in quanto base di dati certi, traiamo le definizioni delle cose naturali, così per interpretare la Scrittura è necessario allestire la sua storia genuina e trarre da questa, come da dati certi e da principi, con passaggi legittimi, il pensiero degli autori della Scrittura: in questo modo chiunque (se, naturalmente, per interpretare la Scrittura e per discorrere delle cose in essa contenute, non ammetterà nessun altro dato e principio se non esclusivamente quelli che si ricavano dalla stessa Scrittura e dalla sua storia) procederà senza alcun pericolo di errare.

Conoscenza naturale e rivelazione Sulla base dei criteri appena illustrati, Spinoza mostra come le stesse Sacre Scritture, se correttamente interpretate, non offrano alcun appiglio, ma al contrario contraddicano i principali pregiudizi teologici. Il primo e più importante tra questi è per Spinoza l’affermazione del primato della conoscenza rivelata o profetica – in quanto veicolo di messaggi divini – rispetto a quella naturale. Pari valore Contro tale tesi, egli ricava, a partire dalle Sacre Scritture, una descrizione deltra rivelazione la natura e dei caratteri della profezia che gli consente di rivendicare l’autonoe conoscenza naturale mia e la pari dignità della scienza rispetto a essa. In primo luogo, partendo dalla definizione della profezia / rivelazione come la «conoscenza certa di qualcosa, Le stesse Scritture contraddicono i pregiudizi teologici

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

La rivelazione utilizza l’immaginazione

La rivelazione è conoscenza soggettiva fondata su una certezza morale

La rivelazione fornisce un sapere pratico

Distinzione e autonomia reciproca tra filosofia e teologia

T20

La fede e la libertà di filosofare

B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. 14

rivelata da Dio agli uomini», Spinoza può equiparare la conoscenza naturale a quella rivelata. Dal momento che – come si è visto – egli ritiene che la conoscenza di Dio sia fonte e causa della conoscenza naturale di tutte le cose, quest’ultima può essere considerata, a pari titolo di quella profetica, come conoscenza rivelata da Dio agli uomini. Le differenze tra la conoscenza profetica e quella naturale non consistono, dunque, nella fonte da cui derivano, ma sono invece di altra natura. Innanzitutto, mentre l’organo della scienza è la ragione, quello della conoscenza profetica è l’immaginazione: le Scritture mostrano, infatti, che Dio si è rivelato ai profeti esclusivamente mediante parole e immagini, cioè mediante due elementi che si collocano entrambi nel dominio dell’immaginazione. Come si è visto sopra, l’immaginazione è il genere più basso di conoscenza. Di conseguenza, la diversa origine della conoscenza scientifica e di quella religiosa implica anche una diversità nel tipo di certezza. Soltanto la prima – in quanto conoscenza razionale o di secondo genere – perviene a una certezza oggettiva, universalmente valida. Tramite la profezia o rivelazione, che dipende dalla sola immaginazione, il profeta perviene invece a conoscenze che portano il segno ineliminabile della sua soggettività individuale, cioè del suo temperamento e delle sue opinioni: il profeta malinconico profetizza eventi funesti, mentre quello allegro eventi lieti. La rivelazione è dunque priva della certezza oggettiva e matematica: l’unico tipo di certezza che Spinoza le riconosce è la certezza morale, cioè una forma di certezza fondata non sull’evidenza della cosa conosciuta, bensì prevalentemente sull’inclinazione dell’animo dei profeti al bene e alla giustizia. Ciò comporta una delimitazione del campo proprio della rivelazione e di quello della conoscenza naturale. Sulla base dei presupposti appena illustrati, Spinoza nega, infatti, che le Sacre Scritture contengano insegnamenti speculativi, utili alla conoscenza della realtà materiale e spirituale, attingibile solo mediante la conoscenza naturale. Agli insegnamenti della rivelazione egli riconosce un valore esclusivamente pratico, cioè quello di offrire norme di vita pratica adatte a tempi, luoghi e individui determinati, in grado di guidare alla virtù – attraverso lo strumento dell’obbedienza a Dio – gli uomini incapaci di seguire la strada della ragione. A questa distinzione tra rivelazione e conoscenza naturale corrisponde quella tra teologia e filosofia. In polemica con i sostenitori della subordinazione della seconda alla prima o viceversa, Spinoza nega che tra le due sia possibile qualsiasi forma di interferenza, presentandole come ambiti completamente diversi. Fondamento della fede o della teologia sono «i racconti e la lingua» e il suo scopo è solo l’obbedienza; essa non ha dunque alcun punto di contatto con la filosofia, il cui fondamento sono le nozioni comuni e il lume naturale della ragione, e il cui solo scopo è la verità. Tra la fede, ossia la teologia, e la filosofia non c’è alcuna relazione, ovvero affinità, cosa che chiunque conosca lo scopo e il fondamento di queste due facoltà non può ignorare. Lo scopo della filosofia, infatti, non è altro che la verità, mentre quello della fede, come abbiamo abbondantemente dimostrato, non è altro che l’ubbidienza e la pietà. Inoltre, i fondamenti della filosofia sono le nozioni comuni, sicché essa deve essere ricavata dalla sola natura. Quelli della fede, invece, sono le storie e la lingua, ed essa deve essere ricavata dalla sola Scrittura e rivelazione, come abbiamo mostrato nel capitolo VII. 263

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

La fede, dunque, concede a ognuno la somma libertà di filosofare, in modo che tutti possano pensare ciò che vogliono su qualsiasi cosa senza empietà: essa condanna come eretici e scismatici soltanto coloro che insegnano opinioni per sostenere la ribellione, gli odi, le contese e l’ira e, al contrario, considera credenti coloro che, in proporzione alla forza della loro ragione e alle loro possibilità, sostengono la giustizia e la carità. Due concezioni di Dio: vera quella filosofica, solo utile quella religiosa

In base alla distinzione tra filosofia e teologia, risulta vera solo la conoscenza di Dio offerta dalla prima: la conoscenza intellettuale della natura divina quale è in sé, cioè non come Ente personale che comanda obbedienza, bensì come ordine necessario di cause ed effetti. Conoscenza che, come si è visto, per il saggio è anche condizione sufficiente della virtù. La conoscenza di Dio offerta dalla religione rivelata, che è una conoscenza immaginativa, non è invece vera: per venire incontro al bisogno degli uomini comuni di avere un modello di vita morale da imitare, la rivelazione fornisce, infatti, una rappresentazione antropomorfica della divinità. Nonostante ciò, essa è ammissibile e anzi utile e necessaria, nella misura in cui è funzionale a spingere alla virtù tramite l’obbedienza – e dunque a condurre alla salvezza – tutti coloro che non sono in grado di elevarsi alla conoscenza adeguata.

La critica dei dogmi, dei riti e dei miracoli Elementi essenziali e non essenziali della rivelazione

Non esiste un popolo eletto

La profezia appartiene a tutti i popoli

I riti e i dogmi non sono necessari alla salvezza

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La tesi che la religione rivelata abbia come scopo l’esortazione all’obbedienza costituisce anche un criterio per discernere quanto in essa è essenziale da ciò che invece è estrinseco e contingente, derivante dalla mentalità dei profeti o dall’esigenza di adattarsi alla mentalità dei destinatari. Secondo Spinoza, infatti, per inculcare la virtù tramite l’obbedienza è sufficiente una nozione di Dio molto semplice, quale Ente Supremo che esige di essere adorato tramite l’esercizio della giustizia e della carità. Tutte le altre notizie sulla natura divina – e in particolare i complicati dogmi speculativi su di essa, contenuti nelle Scritture o stabiliti dalla tradizione, spesso in contraddizione tra loro e all’origine delle divisioni tra le differenti religioni rivelate – non servono al fine di stimolare alla virtù mediante l’obbedienza. Di conseguenza, esse devono essere considerate come elementi inessenziali rispetto alla religione rivelata e rispetto al conseguimento della salvezza. Sulla base di questi presupposti, Spinoza finisce di fatto per negare l’assunto basilare di tutte le comunità religiose fondate sulla fede in una determinata rivelazione, e in particolare della religione ebraica, in quanto religione del ‘popolo eletto’. Egli nega cioè l’assunto che la salvezza costituisca la prerogativa esclusiva dei membri di una determinata confessione religiosa – in opposizione alle altre – e richieda come condizione necessaria la fede nei dogmi e nelle storie peculiari di quest’ultima, nonché la pratica delle cerimonie di culto da essa prescritte, presentate come comandamenti divini. Innanzitutto, Spinoza dimostra, a partire dalle stesse Scritture, che il dono della profezia è comune a tutti i popoli e a tutte le religioni. Di conseguenza, risulta infondata sia la pretesa degli ebrei di essere il popolo eletto da Dio – nel senso di unico popolo cui Dio avrebbe riservato tale dono – sia quella di qualsiasi altro popolo o religione di considerarsi depositari esclusivi della rivelazione profetica. In secondo luogo, egli nega che, in generale, le cerimonie di culto e la fede nel contenuto storico positivo delle diverse religioni rivelate costituiscano una condizione

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

necessaria per la salvezza. Le differenti narrazioni storiche delle diverse religioni rivelate sono solo degli strumenti per esortare alla virtù, tramite l’appello all’esperienza, coloro che non sono in grado di seguire una dimostrazione razionale. Dal momento che la virtù – che sola può dare salvezza e beatitudine – è una e universale, ne segue che la fede nelle storie narrate dalle rivelazioni non rende di per sé beati, ed è utile solo in rapporto agli insegnamenti morali che tali storie vogliono trasmettere.

T21

Elogio dell’uomo virtuoso e saggio B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. 5

Origine psicologica della fede nei miracoli

L’indagine filosofica svela il miracolo

T22

Il miracolo nasce dall’ignoranza delle leggi naturali

B. Spinoza, Trattato teologico-politico, cap. 6

La fede nei miracoli appartiene a un’epoca prescientifica

Sicché, se uno legge le storie della Sacra Scrittura e presta loro fede in tutto, ma non fa attenzione all’insegnamento contenuto in tali storie e non corregge la propria vita, è come se leggesse il Corano o i lavori teatrali dei poeti, o tutt’al più le comuni cronache, con quell’attenzione che è usuale nel volgo. Al contrario, come abbiamo detto, colui che ignora completamente quelle storie, e nondimeno ha opinioni salutari e segue il vero modo di vivere, questi è realmente beato e ha realmente in sé lo spirito di Cristo. Il principio di utilità vale anche per i riti del culto religioso, in cambio dei quali – argomenta Spinoza – la Scrittura promette esclusivamente benessere e piaceri materiali, lasciando dunque intendere che essi non giovano affatto alla beatitudine, bensì esclusivamente alla prosperità di un ordinamento sociale e politico. Infine, Spinoza sottopone a una critica sistematica quella componente delle religioni rivelate, che a suo avviso è la principale espressione del desiderio di ogni popolo di convincere e convincersi che il proprio Dio è il più potente di tutti gli dèi: la fede nei miracoli. In questo caso, Spinoza fonda la propria critica non solo sull’esame filologico delle Scritture – dal quale egli ricava la conclusione che in esse l’espressione «azione di Dio» si riferisce all’ordine della natura quale deriva da leggi eterne, e non a un intervento sovrannaturale in contrasto con tale ordine – ma anche e soprattutto sulla conoscenza naturale. La questione se si possa concedere che in natura accada qualcosa che sia contrario alle sue leggi è, infatti, un tema schiettamente filosofico, che può e deve essere indagato con un approccio razionale. Come si è visto, Spinoza nega che sia possibile una deviazione dal necessario ordine delle cause naturali, a partire dal presupposto che non vi è alcuna differenza tra la potenza di Dio e la potenza e la necessità naturali. Di conseguenza, egli considera il miracolo la semplice espressione di un difetto di conoscenza. […] da queste cose – cioè, in natura non accade niente che non segua dalle sue leggi; le sue leggi si estendono a tutte le cose concepite dallo stesso intelletto di Dio; infine la natura conserva un ordine fisso e immutabile –, segue chiarissimamente che il nome «miracolo» non può essere inteso se non rispetto alle opinioni degli uomini, e non significa nient’altro che un fatto del quale non possiamo spiegare la causa naturale sull’esempio di un’altra causa consueta, o almeno non può spiegarla colui che scrive o racconta il miracolo. Con la propria definizione di miracolo, Spinoza colloca la possibilità di tale esperienza in un’epoca in cui non esisteva ancora la scienza esatta. Un’epoca di ignoranza, in cui le rappresentazioni erano dominate dall’immaginazione e dalle passioni, e gli uomini erano ben lontani dal possedere una conoscenza adeguata – cioè chiara e distinta – dei fenomeni; un’epoca in cui conoscere una cosa non significava dedurla in maniera necessaria dalla sua causa, ma semplicemente ren265

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La conoscenza ci libererà dalla credenza nei miracoli

Identità tra decreti divini e leggi universali della natura ➥ Sommario, p. 302

derla familiare, accostandola ai fatti abitualmente conosciuti; per cui tutto ciò che appariva come completamente nuovo non poteva che risultare miracoloso. All’esperienza del miracolo degli antichi egli contrappone la propria viva esperienza del progresso della conoscenza naturale, reso possibile dall’applicazione del metodo geometrico-matematico anche nel campo della fisica. Alla luce della consapevolezza delle possibilità illimitate di progresso dischiuse dalla nuova scienza, Spinoza afferma che ciò che sfugge alla nostra comprensione non appare come un miracolo – cioè come qualcosa che è in sé inspiegabile, in quanto al di sopra delle leggi naturali – bensì semplicemente come qualcosa che non è ancora stato compreso, ma potrà esserlo in futuro, grazie a ulteriori ricerche scientifiche. Alla teologia biblica, radicata nell’esperienza del miracolo quale intervento personale di Dio nel mondo, Spinoza contrappone dunque la propria teologia – fondata sull’identificazione tra Dio e l’ordine fisso e immutabile della natura – nella quale i decreti divini altro non sono che le stesse leggi universali della natura.

La critica della religione

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Critica della religione

Ricostruzione storica dei testi e indagine filologica

Pari valore tra conoscenza profetica e conoscenza naturale

Distinzione tra elementi essenziali e non essenziali delle Scritture

Indagine filosoficoscientifica sulla natura

Scritture come documento letterario e umano

Delimitazione reciproca di ambiti: due immagini di Dio

Negazione di alcune ‘verità di fede’ e dei riti

Rifiuto dei miracoli

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

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Leibniz I testi

G.W. Leibniz Nuovi saggi sull’intelletto umano: Il progresso dell’umanità, T23; Le idee nell’intelletto divino, T27 Monadologia: Il mulino, T24 Che cos’è un’idea: L’espressione, T25 Pensieri senza pretese intorno all’uso e al miglioramento della lingua tedesca: Segni come gettoni in luogo di denaro, T26 Prefazione alla scienza generale: I caratteri e il calcolo, T28 Storia ed elogio della lingua caratteristica universale: I benefici della caratteristica universale, T29 Dissertazione sull’arte combinatoria: Verità di ragione e verità di fatto, T30

1

Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità: L’individuo racchiude infiniti fatti, T31 Saggi di teodicea: Nulla è senza una ragione, T32; La scelta di Dio, T42; L’origine del male metafisico, T43 Discorso di metafisica: La sostanza come essere completo, T33; La sostanza come specchio dell’universo, T34; La forza, T35; L’autonomia della spiegazione meccanicistica, T39; Il limite della spiegazione meccanicistica, T40; Progetto e strumenti, T41 Nuovo sistema della natura: I punti metafisici di sostanza, T36 Lettera ad Arnauld: Un principio vitale, T37 Lettera a De Volder: L’animale come struttura complessa, T38

L’ultima armonia

L’opera di Leibniz, di enorme ricchezza e complessità, offre uno straordinario intreccio di tematiche e di linee di pensiero in cui si raccolgono motivi almeno in apparenza contraddittori, che tuttavia si coniugano in uno sforzo di sintesi e di mediazione teso a ricondurre a un’armonia complessiva i principali risultati della cultura della sua epoca e quelli che Leibniz stesso raggiunge. Leibniz è stato sempre convinto che verità che si presentano come contraddittorie possano trovare, attraverso uno scavo più profondo, una nascosta assonanza: ha creduto che, analogamente a ciò che egli stesso disse a proposito delle fedi religiose, molte asserzioni discrepanti del sapere umano si oppongano più in ciò che negano che in ciò che affermano. Prospettive molteplici e punti di vista differenti non si contraddicono se ripensati in una unità più vasta. Un progetto Da questa sua convinzione personale, dalla sua figura di «genio universale», cafilosoficamente unitario pace di innovazioni nei campi più diversi, e dal suo profondissimo talento speculativo è scaturito un progetto filosofico che cercava – forse per l’ultima volta – di tenere insieme e anzi di rafforzare reciprocamente istanze che già si presentavano in conflitto e che gli sviluppi successivi della cultura e del pensiero avrebbero tendenzialmente separato, o la cui contrapposizione sarebbe stata vissuta comunque in seguito in modo più drammatico: scienza moderna e metafisica, meccanicismo e cause finali, forme sostanziali e matematizzazione dei fenomeni, specializzazione del sapere e unità enciclopedica, azione scientifica e culturale e prassi politica, pensiero e tecnica, fede e ragione, libertà e necessità, male nel mondo e presenza di Dio. La ricerca di una nascosta assonanza

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Anche le filosofie che dopo Leibniz insisteranno sull’unità del sapere e sulla razionalità del reale non saranno in grado di prospettare in egual misura un’armonica convergenza di forme di sapere e di ambiti del reale che si presentino come inconciliabili. Al centro di questo progetto sta l’idea di una ragione in grado di rendere conto di ogni aspetto del mondo e di guidare il progressivo perfezionamento dell’uomo. Risultati Al tempo stesso, quello che è stato chiamato l’«eclettismo creativo» di Leibniz, la non sistematici sua capacità di assorbire e fare proprie le più diverse prospettive in campi dispadell’opera di Leibniz rati, con contributi innovativi, ha prodotto risultati e modelli concettuali che possono prescindere dalla sua complessiva visione armonizzante. La capacità di dialogare in molti campi e con posizioni diverse, il tentativo di rendere sempre più concreta l’armonia progettata, ha fatto sì che Leibniz non abbia mai dato una sistemazione davvero compiuta e definitiva al suo pensiero in una summa della sua prospettiva filosofica, ma si sia espresso in una miriade di opere diverse su temi anche particolari. Così che l’unità dello stesso sistema che teorizzava l’armonia del tutto è rimasta per certi versi un progetto non completamente definito. E la filosofia di Leibniz paradossalmente poche volte è stata recepita come un tutto.

L’idea di una ragione unificante

2 Uno degli ultimi eruditi universali

La formazione

Il primo incarico diplomatico a Parigi

Gli studi matematici e la disputa con Newton

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Un genio universale tra teoria e prassi La figura dell’erudito universale, dell’uomo di cultura che si occupa dei rami più disparati del sapere, diffusa in particolare a partire dal Rinascimento e ancora nel Seicento, si realizza nell’opera di Leibniz a livelli alti in molti campi, in una misura che in seguito non sarà più possibile conseguire. Anche in questo Leibniz segna un culmine significativo, perché sarà lo sviluppo del sapere e della cultura a rendere impossibile, prima ancora che una sintesi, quale quella tentata da Leibniz, anche solo una simile compresenza di competenze e attività diverse in una sola persona. Genio precoce – a otto anni leggeva gli autori latini, a dodici i greci, a tredici si occupava di logica – Leibniz si immerse subito in riflessioni ad ampio raggio, e si dedicò nel corso della sua vita non soltanto a discipline diverse, ma ad attività intellettuali non limitate all’ambito scientifico e teorico. Non fu un professore (rifiutò una cattedra all’università di Altdorf) né uno scienziato di professione, ma piuttosto giurista e diplomatico, e anche storico, al servizio di principi. Il suo primo incarico, a ventun anni, è quello di magistrato per conto del principe elettore e arcivescovo di Magonza; nel frattempo aveva già scritto di metafisica, diritto, matematica, e una Dissertazione sull’arte combinatoria,1666) in cui delinea un progetto di «logica inventiva» e di «scrittura universale» che continuerà a perseguire e a perfezionare in seguito. Su incarico di un suo amico e protettore, il barone Johann Christian von Boineburg, svolge nel 1672 il suo primo incarico diplomatico a Parigi, avendo così l’occasione di entrare in contatto con un mondo culturale aperto e innovatore, e di conoscere in particolare Christiaan Huygens (1629-1695), importante scienziato e matematico olandese, che lo spinge e lo indirizza nello studio della matematica più avanzata, tra cui quella di Cartesio. Pochi anni dopo, nel 1775, scopre il calcolo infinitesimale, un’acquisizione fondamentale della matematica moderna, che sarà oggetto successivamente di una

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Gli studi storici: linguistica e geologia

I viaggi e l’epistolario

I progetti pratici

Il tentativo di riunificazione delle Chiese cristiane

La fondazione dell’Accademia delle Scienze di Berlino

disputa con Newton circa la priorità della scoperta (è ormai chiaro che essa avvenne parallelamente e indipendentemente, con metodi diversi, da parte di entrambi gli autori). In seguito alla morte dell’elettore di Magonza, Leibniz passa, nel 1676, al servizio come consigliere del duca di Hannover Johann Friedrich von Braunschweig-Lünenburg. Alla corte dei duchi di Hannover, con i quali però i rapporti furono talvolta difficili, resterà legato fino alla sua morte, pur accettando incarichi da altri sovrani. A Hannover, presso l’Archivio Leibniz, sono ancora conservati i suoi manoscritti e le sue lettere: una massa di scritti non ancora tutti pubblicati. Accanto agli interessi matematici, giuridici, filosofici e fisici di cui si è detto, Leibniz coltiva studi di linguistica storica ed etimologia, studi in ambito geologico: redige una storia della Terra (la Protogaea), di cui pubblica un breve rendiconto nel 1693 – l’opera completa, come è accaduto per molti scritti di Leibniz, che ha pubblicato per lo più brevi testi programmatici o riassuntivi, o brevi saggi su temi specifici, verrà stampata solo dopo la sua morte. Svolge anche, su incarico della corte di Hannover, una lunga ricerca storica sulla casa di Braunschweig, nella quale applica metodi storiografici rigorosi, stabilendo nuovi standard scientifici nella ricerca storica. Dei suoi incarichi sia diplomatici che scientifici approfitta anche per compiere molti viaggi, che lo portano a Londra, in Olanda, in Italia, in Austria, oltre che, come si è detto, in Francia, e gli consentono contatti personali con studiosi in tutta Europa. L’epistolario scientifico di Leibniz, di mole impressionante, che conteneva contributi filosofici rilevantissimi, coinvolge autori come Hobbes, Spinoza, Malebranche, Newton, Samuel Clarke (1675-1729), Arnauld, e moltissimi altri studiosi del suo tempo. Nel corso della sua vita di studioso e di diplomatico Leibniz cerca di realizzare diversi progetti concreti. Progetta una macchina calcolatrice («calcolatrice a scatti»), basata su un ingranaggio cilindrico in grado di svolgere le quattro operazioni fondamentali, di cui presenta un prototipo alla Royal Society di Londra (ma sarà la definizione della numerazione binaria il suo maggiore contributo alla futura storia dei calcolatori); lavora a lungo alla costruzione di un sistema di drenaggio per le miniere dello Harz, basato sui mulini a vento. Nella sua azione diplomatica Leibniz svolge diversi incarichi, spesso mirati a favorire processi di pace. Concepisce un progetto di riunificazione delle Chiese cristiane, per il quale lavora anche su incarico del duca di Hannover. Di confessione protestante, rifiuta di convertirsi al cattolicesimo quando gli viene offerto l’incarico di custode della Biblioteca Vaticana soprattutto per conservare la libertà di ricerca scientifica che non vede riconosciuta dalla Chiesa cattolica; ma cerca appunto costantemente di promuovere il superamento delle divisioni tra i cristiani (i principi per cui lavorò erano cattolici), e almeno l’unità delle Chiese protestanti. Leibniz si rende conto presto che il suo progetto di una scienza universale, di una enciclopedia che offrisse una «Porta delle Cose», non è realizzabile senza una organizzazione del lavoro scientifico nei campi più diversi, senza lo sforzo congiunto di più persone. Concepisce allora l’idea di un’Accademia delle Scienze, che riesce a realizzare nel 1700 a Berlino, con l’appoggio del principe elettore di Brandeburgo Federico III. Nasce così l’Accademia prussiana delle Scienze, di cui diventa presidente, alla quale Leibniz intende dare finalità non solo scienti269

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

fiche. Nel proporla Leibniz scrive che l’Accademia «avrebbe dovuto unire la teoria alla pratica, con vantaggio non solo delle arti e delle scienze, ma anche del paese e dei suoi abitanti, attraverso la promozione dell’industria manifatturiera e del commercio». Il motto che sceglie per l’Accademia – Teoria cum praxi («Teoria e prassi») – esprime chiaramente questo intento. Una concezione attiva È in generale la sua visione dell’uomo come di un essere che ha il compito di dell’uomo di cultura perseguire un costante perfezionamento di se stesso a spingerlo verso una concezione attiva dell’operato dell’uomo di cultura. Concluderà i suoi Principi razionali della natura e della grazia, scritti nel 1714 (due anni prima della morte) per un principe, Eugenio di Savoia (generale dell’impero e raffinato umanista, 1663-1736), scrivendo: «la nostra felicità non consisterà mai e non deve affatto consistere in una gioia piena, in cui non ci sarebbe più nulla da desiderare – e che renderebbe ottuso il nostro spirito –, ma in una progressione continua di nuovi piaceri e di nuove perfezioni». Lo stesso progredire continuo, favorito dall’«alleanza della pratica con la teoria», deve essere possibile al genere umano. Dopo avere insistito sulla rivalutazione delle arti manuali, delle professioni e dei mestieri, così conclude i suoi Nuovi saggi sull’intelletto umano:

T23

Il progresso dell’umanità

G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano

Bisognerebbe però, per far questo, mutare in molte cose la situazione attuale della letteratura, e dell’educazione dei giovani, e di conseguenza la situazione politica. E quando considero quanto hanno progredito gli uomini in conoscenza da un secolo o due, e quanto sarebbe facile per loro procedere incomparabilmente più avanti per diventare più felici, non dispero che si possa pervenire a qualche miglioramento considerevole, in un tempo più tranquillo, sotto qualche gran principe che Dio potrà far sorgere per il bene del genere umano.

La vita e le opere Gottfried Wilhelm von Leibniz nacque nel 1646 a Lipsia, in Sassonia, dove si formò studiando le lingue classiche e la filosofia scolastica e dedicandosi, poi, alla filosofia moderna. Conobbe così le opere di Francesco Bacone, Tommaso Campanella, Giordano Bruno, Giovanni Keplero, Galileo Galilei e Cartesio e aderì al meccanicismo cartesiano. Nel 1663 si laureò in filosofia e tre anni dopo in diritto presso l’università di Altdorf, in Svizzera; in quello stesso anno uscì la sua prima opera Dissertatio de arte combinatoria («Dissertazione sull’arte combinatoria»), in cui presentò la sua teoria della logica come calcolo, rimasta inedita fino agli inizi del Novecento. Nel frattempo aveva intrapreso la carriera diplomatica presso l’arcivescovo di Magonza, per poi passare, nel 1676 al servizio del duca di Hannover, alla cui corte rimarrà fino alla morte, ricoprendo vari incarichi: bibliotecario, diplomatico, storiografo ufficiale. Tra il 1672 e il 1676 aveva anche soggiornato a Parigi, dove conobbe Nicolas Malebranche e Antoine Arnauld, e studiò con il matematico olandese Christiaan Huygens. Si recò in missione diplomatica anche in Inghilterra, nel 1673, dove pre-

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sentò alcuni suoi esperimenti alla Royal Society. Nel 1700 fondò l’Accademia prussiana delle scienze, a Berlino. In questi anni si dedicò a molte discipline (teologia, diritto costituzionale, matematica e meccanica) e nel 1675 formulò la sua teoria del calcolo infinitesimale, che rese pubblica nel 1684. Stabilitosi ad Hannover, elaborò molti scritti, prevalentemente in francese: Discorso di metafisica (1686), il Nuovo sistema della natura, della comunicazione tra le sostanze e dell’unione tra l’anima e il corpo (1695), i Nuovi saggi sull’intelletto umano (17041705), in cui criticava e commentava il Saggio sull’intelletto umano di John Locke, che non pubblicò per la sopravvenuta morte del filosofo inglese nel 1704 e che uscirono postumi nel 1765. I Saggi di teodicea (1710) furono la maggiore e la più sistematica tra le opere edite; mentre gli ultimi lavori furono i Principi della natura e della grazia fondati sulla ragione e la Monadologia (1714), entrambi dedicati alla metafisica. Leibniz lasciò anche un’imponente mole di taccuini, articoli, note e un epistolario ricchissimo (circa quindicimila lettere) frutto dei contatti con più di mille corrispondenti. Morì nel 1716 e fu sepolto ad Hannover.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

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Anime come specchi: la rappresentazione del mondo Nella produzione di Leibniz non esiste un’opera sistematica di ampio respiro come le Meditazioni cartesiane o l’Etica di Spinoza. Per seguire l’indagine leibniziana sulla razionalità e sull’intima unità del reale il nostro cammino inizia dalla sua teoria della rappresentazione e quindi dalla sua teoria della conoscenza come fondamentale relazione unificante tra le sostanze.

Rappresentazione e sostanza spirituale L’universo come gioco di specchi

La sostanza intelligente

La percezione come espressione del molteplice in unità

T24

Il mulino

G.W. Leibniz, Monadologia, 17

L’intero universo è per Leibniz un sistema rappresentativo: non è soltanto la mente umana a essere capace di rappresentazione, ma ogni sostanza semplice è per lui «un perpetuo specchio vivente dell’universo». L’universo, si può dire, è un gioco di specchi, perché i rapporti reciproci di rappresentazione (o di «espressione», come dirà Leibniz) ne costituiscono la struttura profonda. Questa grandiosa e complessa teoria può svolgersi sulla base di una nozione di rappresentazione che appunto non è legata all’operare di una mente umana, e che pertanto deve prevedere una gradualità e una complessità tali da rendere conto dei diversi ordini di sostanze che possono partecipare a questo gioco di rappresentazione, fino alla sua forma più sviluppata costituita dalla sostanza intelligente, dall’anima umana. Se tutto è uno specchio, v’è tuttavia tra la sostanza intelligente e le altre, secondo Leibniz, una notevole differenza, «tanto grande quanto quella che c’è tra lo specchio e colui che vede». La «percezione», il termine più generale che Leibniz utilizza per quella che noi chiameremmo rappresentazione, inizia a esistere dove c’è l’espressione di una molteplicità in unità: dunque non vi è rappresentazione in una traccia materiale, per esempio in una traccia nel cervello, che abbia ragioni puramente meccaniche, ma solo dove vi è un processo di unificazione (e dunque una sostanza semplice, una unità in grado di attuarlo). Leibniz non ammette, di conseguenza, che la materia possa pensare. È quanto viene espresso nell’immagine del mulino, ossia nell’analogia del cervello con una macchina al cui interno, potendovi penetrare, mai si potrebbe trovare pensiero, rappresentazione. D’altra parte si deve riconoscere che la percezione, e quel che ne dipende, è inesplicabile mediante ragioni meccaniche, cioè mediante le figure e i movimenti. Immaginiamo una macchina strutturata in modo tale che sia capace di pensare, di sentire, di avere percezioni; supponiamola ora ingrandita, con le stesse proporzioni, in modo che vi si possa entrare come in un mulino. Fatto ciò, visitando la macchina al suo interno, troveremo sempre e soltanto pezzi che si spingono a vicenda, ma nulla che sia in grado di spiegare una percezione.

Rappresentazione e coscienza Contro Cartesio e Locke rifiuta l’identificazione tra pensiero e coscienza

C’è un grado basilare della rappresentazione che Leibniz riconosce, contro la visione cartesiana, cui si ricollegava in quegli anni anche Locke, con il quale egli si confronta direttamente nell’opera Nuovi saggi sull’intelletto umano (scritti ne271

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

Le percezioni insensibili e le loro funzioni

Gusti e sensazioni inconsce

Moventi dell’agire

Legami tra un ente e il resto dell’universo

Dimensione nascosta del rappresentare

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gli anni 1704-1705, apparsi solo nel 1765). Leibniz sostiene la possibilità di rappresentazioni di cui il soggetto non è consapevole, che chiama «piccole percezioni» o «percezioni insensibili». In questo modo rompe l’identificazione tra pensiero e coscienza, ossia la tesi che ogni nostro atto mentale è sempre accompagnato dallo ‘sguardo interiore’ della coscienza (vedi p. 290 s.), aprendo la strada all’indagine sulle rappresentazioni inconsce che avrà in seguito un notevole sviluppo. Le piccole percezioni o percezioni insensibili vengono identificate con percezioni parziali che non siamo in grado di distinguere di per sé e che quindi non sono oggetto della nostra attenzione. Si tratta di «mutamenti nell’anima stessa che noi non appercepiamo» (di cui cioè non siamo consapevoli) «perché queste impressioni sono o troppo piccole, e in numero troppo elevato, o troppo unite, in modo che, separate, non hanno niente che le faccia distinguere, mentre aggiunte ad altre non mancano di avere il loro effetto e di farsi sentire, se non altro confusamente, nell’insieme». Leibniz fa l’esempio del rumore del mare: per udirlo è pur necessario, sostiene, sentire il rumore di ciascuna onda che ne fa parte, anche se ognuno di questi rumori non è percepibile isolatamente, ma lo è soltanto nell’insieme di cui fa parte. Questi singoli rumori che non percepiamo, però, non possono essere nulla, altrimenti anche il rumore di centomila onde sarebbe nulla: centomila nulla non riescono a produrre qualcosa. Una parte delle nostre rappresentazioni è dunque fuori dall’ambito di ciò di cui ci rendiamo conto. Le percezioni insensibili rivestono per Leibniz una grande importanza nel complesso del suo sistema: esse avrebbero nella teoria dell’anima lo stesso grande rilievo che i corpuscoli nella fisica. Costituiscono quel ‘non so che’ che spesso ci fa valutare la qualità delle cose, determina i nostri gusti; caratterizzano inoltre e costituiscono l’individuo stesso, che conserva delle tracce dei suoi stati precedenti collegandoli con quelli presenti, senza che questa operazione sia consapevole, e senza che se ne conservi memoria in senso proprio. Ma le rappresentazioni inconsapevoli sono anche quelle che ci muovono in molte occasioni, che possono guidare le nostre azioni e che danno anche corpo a quella «inquietudine» che costituisce per Leibniz un tono continuo del nostro desiderio e del nostro piacere, e che differisce dal dolore solo per la misura. Ma le piccole percezioni sono anche, infine, ciò che costituisce il legame che ogni essere ha con tutto il resto dell’universo: con l’eccezione dell’anima umana, il rispecchiamento del mondo è dato da queste percezioni non consapevoli: «si può anche dire che, in conseguenza di queste piccole percezioni, il presente è pieno dell’avvenire e carico del passato, che tutto è conspirante […], e che nella più piccola sostanza occhi penetranti come quelli di Dio potrebbero leggere tutto lo svolgimento delle cose dell’universo». La stessa armonia prestabilita tra mente e corpo, che costituisce un aspetto importante del pensiero leibniziano, è fondata sulle percezioni inconsapevoli (vedi p. 290). Individuare questa dimensione nascosta del rappresentare serve a Leibniz anche a sottolineare quella che egli chiama «l’immensa sottigliezza delle cose», che egli vede dispiegarsi nella natura graduale e progressiva dei processi rappresentativi. La conoscenza umana si colloca su una dimensione continua che procede da gradi bassi fino alle forme superiori di intelligenza.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Cos’è un’idea La scala delle idee

Idea cartesiana come entità mentale

➥ Percorso tematico, p. 401

Idea leibniziana come capacità

La nozione di rappresentazione come espressione

T25

L’espressione G.W. Leibniz, Che cos’è un’idea

In questa prospettiva si colloca la ridefinizione dei tipi di rappresentazione operata da Leibniz, e la differenziazione di distinti tipi di idee in una scala di sempre maggiore adeguatezza conoscitiva. Cartesio aveva posto le fondamenta per svincolare la nozione di idea dalle sue connotazioni ontologiche: l’idea non è più la cosa stessa in uno dei suoi modi di essere, quel modo di essere che ha nell’intelletto, e dunque l’essenza della cosa, ma un’entità mentale che deve rappresentare la cosa, riferirsi ad essa (vedi Unità 3, p. 153 ss.). Leibniz conserva questa caratteristica moderna dell’idea, la articola in una complessa tipologia di forme di rappresentazione, per recuperare però poi in un modo nuovo e particolare la sua valenza ontologica. In un breve scritto del 1678, Che cos’è un’idea, Leibniz intende per idea «qualcosa che è nella mente», dunque non le tracce che sono impresse nel cervello (la rappresentazione, come abbiamo visto con l’esempio del mulino, non è qualcosa di materiale e quindi la mente è qualcosa di distinto dal cervello). Egli sottolinea poi che l’idea non è un atto particolare del pensare (una singola rappresentazione nella mente), ma una facoltà, ossia la capacità di pensare una cosa. Abbiamo infatti un’idea di qualcosa anche quando non vi stiamo pensando: la nostra idea di cavallo non è l’immagine o il pensiero di un cavallo che abbiamo adesso, ma la possibilità di pensare questo animale in quanto tale. Questo pensare è sostanzialmente un esprimere: Leibniz dice nei Nuovi saggi sull’intelletto umano che l’idea è un «oggetto immediato interno» – qualcosa che si presenta immediatamente all’anima – ma questo oggetto è un’espressione della natura o delle qualità delle cose. Con la nozione di espressione Leibniz cerca di articolare il concetto di rappresentazione in modo da precisare in che cosa consista il nesso rappresentativo tra pensiero e cosa. Esso consiste sostanzialmente in un sistema di corrispondenze che consentono di risalire dalla proprietà di ciò che rappresenta alle proprietà di ciò che è rappresentato. Si dice che «esprime» qualcosa, ciò che ha disposizioni reciproche che corrispondono alle disposizioni reciproche della cosa da esprimere. Ma le espressioni sono diverse: il disegno di una macchina, ad esempio, «esprime» la macchina stessa, la rappresentazione scenografica di una cosa su un piano esprime il solido corrispondente, un discorso esprime pensieri e verità, i caratteri esprimono i numeri, una equazione algebrica esprime il cerchio o altra figura. È comune a tutte queste espressioni il fatto che dalla contemplazione delle disposizioni della cosa esprimente possiamo giungere alla conoscenza delle proprietà corrispondenti della cosa da esprimere. Da ciò è chiaro che non è necessario che ciò che esprime sia simile alla cosa espressa, purché sia conservata una certa analogia delle disposizioni reciproche. È anche chiaro che alcune espressioni hanno il loro fondamento in natura; altre, invece, almeno in parte, poggiano sull’arbitrio, come le espressioni che avvengono per mezzo di parole o di caratteri. Quelle che sono fondate in natura, o postulano una qualche somiglianza, qual è quella tra un circolo grande ed un circolo piccolo, o tra una regione e la sua carta geografica; o una certa connessione quale c’è tra il circolo e l’ellissi che lo rappresenta in proiezione, ciascun punto della quale corrisponde, secondo una legge determinata, ad un punto del circolo. In questo caso, in verità, un circolo sarebbe rappresentato male da un’altra fi273

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

gura più simile. Similmente, ogni effetto totale rappresenta l’intera sua causa, in quanto è sempre possibile dalla conoscenza dell’effetto passare alla conoscenza della sua causa. Così le azioni di una persona ne rappresentano l’animo e lo stesso mondo, in qualche modo, rappresenta Dio. Può anche accadere che le cose che si esprimono reciprocamente derivino dalla stessa causa, ad esempio, il gesto ed il discorso. Così i sordi capiscono coloro che parlano, non dal suono, ma dai movimenti della bocca. L’espressione si fonda su una legge costante di relazione

Una cosa esprime un’altra, dirà altrove Leibniz, «quando c’è un rapporto costante e regolato tra ciò che si può dire dell’una e dell’altra»: dove c’è una legge costante di relazione che consente di riferire elementi dell’una cosa a elementi dell’altra. La nozione di espressione ha un valore che oltrepassa quello della relazione tra una mente e le cose, ma viene utilizzata per rendere comprensibile questo rapporto, nella sua forma più generale: essa infatti non si limita a render conto della relazione tra qualcosa di «mentale» e il mondo «esterno», ma può valere per il rapporto tra qualunque genere di pensiero e il suo «oggetto», di qualunque natura esso sia – può valere tanto per la sensazione animale che per la conoscenza intellettuale. Con essa Leibniz intende superare l’idea della rappresentazione come somiglianza con l’oggetto rappresentato, che già Cartesio aveva criticato, ma che era stata ripresa per esempio da Locke riguardo alla formazione delle idee di qualità primarie dei corpi.

Tipi di rappresentazione e rapporti di espressione

Tipi di rappresentazione: – piccole percezioni: rappresentazioni inconsce – idee: oggetti immediati interni della mente. Non sono atti mentali, ma capacità di pensare una cosa – sensazioni: coscienza di oggetti esterni

La rappresentazione come espressione è una relazione unificante del reale Esempi di rapporti di espressione: – – – – –

disegno di una macchina macchina rappresentazione su due dimensioni solido discorso pensieri caratteri numeri equazione algebrica figura geometrica

Esprimono la cosa in generale per analogia delle disposizioni reciproche. In particolare possono esprimere: 1) per natura – attraverso somiglianza – attraverso proiezione – come l’effetto ‘rappresenta’ la causa – attraverso una causa comune 2) arbitrariamente – come i caratteri – come le parole

La scala delle idee Idee e tipi di conoscenza

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In uno scritto del 1684, le Meditazioni sulla conoscenza, la verità e le idee, Leibniz offre un’articolata classificazione di tipi diversi di conoscenza. L’idea come oggetto immediato interno viene distinta dalla sensazione come appercezione

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Idea chiara e oscura

Idee confuse e distinte

Idea adeguata e inadeguata Idea semplice e complessa

(coscienza) di un oggetto esterno. Ma soprattutto le idee vengono suddivise in diversi tipi. Anzitutto viene proposta la distinzione tra idee chiare e idee oscure. Un’idea è chiara quando è sufficiente a riconoscere una cosa e a distinguerla (se ho un’idea chiara di un abete, sarò in grado di riconoscerlo e di distinguerlo da altri tipi di albero). Quando questo non è possibile, allora sono sì in possesso di un’idea, ma questa va considerata oscura. Un’idea perfettamente chiara in relazione alle cose sensibili non esiste: non dispongo mai di un criterio di discriminazione assolutamente affidabile (un colore che ben conosciamo ha però sfumature che non potremmo mai distinguere; un tipo di pianta che sappiamo riconoscere potrebbe suddividersi in varietà che non sappiamo più discriminare). Le specie ultime – il tipo che non conosce ulteriori differenziazioni – non possono essere identificate nel mondo sensibile. Un’idea chiara può essere a sua volta confusa o distinta. Chiara e distinta una idea lo è quando non soltanto la si può distinguere dalle altre – Leibniz direbbe che in questo caso è piuttosto «distinguente» –, ma quando si è in grado di distinguere i suoi componenti, ciò che essa racchiude. In tal caso è possibile svolgere un’analisi e dare una definizione, mentre per un’idea chiara e confusa (come quelle del calore o di un colore) è indispensabile ricorrere a esempi: un colore non lo si può definire, ma può soltanto essere mostrato. Se sono in grado di distinguerlo, non sono però consapevole dei criteri che mi portano alla distinzione. Se a loro volta le note componenti un’idea vengono conosciute in modo distinto, l’idea è adeguata, altrimenti, se le note sono conosciute ma in modo confuso, l’idea è inadeguata. Un aspetto importante del pensiero di Leibniz è tuttavia la considerazione che la mente umana non è in grado di afferrare direttamente le idee, se non in misura limitata: cogliamo con un unico atto della mente le idee semplici (quelle da cui sono formate tutte le altre). In questo caso, e in genere quando possiamo pensare contemporaneamente le nozioni che rientrano in un’idea, si parla di conoscenza intuitiva. Invece non siamo in grado di rendere presenti alla mente tutti i tratti costituenti le idee complesse: per questo motivo la mente opera con segni, che costituiscono dunque uno strumento indispensabile per pensare. Questo tipo di conoscenza – l’unica possibile all’uomo per idee complesse – è chiamata da Leibniz «simbolica».

La classificazione delle idee in Leibniz

Oscura Confusa (le note non possono essere distinte; è indispensabile ricorrere a esempi) Idea (oggetto immediato interno)

Chiara (basta a riconoscere e a distinguere la cosa)

Distinta (si distinguono nell’oggetto i segni che lo fanno conoscere; è possibile un’analisi o una definizione)

Inadeguata (le note sono conosciute in modo confuso)

Adeguata (tutte le note sono a loro volta distinte)

Conoscenza simbolica (le note non sono colte in un unico atto) Conoscenza intuitiva (le note sono colte in un unico atto) Conoscenza simbolica (le note non sono colte in un unico atto) Conoscenza intuitiva (le note sono colte in un unico atto)

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Idee e linguaggio «Abbiamo le idee delle cose semplici, abbiamo solo i caratteri delle cose composte»: sulla base di questa assunzione, Leibniz attribuisce una importanza fondamentale al linguaggio come elemento indispensabile del pensiero umano, affermando anche che «se mancassero i caratteri, non potremmo mai pensare distintamente né ragionare di alcunché». Dal momento che la mente umana non è in grado di dominare, cioè di cogliere con un unico atto idee complesse o catene di ragionamenti, essa può riuscire a farlo solo attraverso segni che stiano per (che simboleggino) le idee. Linguaggio Non pensando l’idea nella sua complessità, ma solo il singolo segno che la simcome manipolazione boleggia, la mente può conservare memoria e attenzione nel ragionamento. Leibdi simboli e segni niz parla a questo proposito di «pensieri ciechi» (o anche di «pensieri sordi»), ossia di pensieri che si svolgono manipolando simboli, mantenendosi per così dire a distanza dalle idee, senza averle presenti alla mente in quanto tali, come avverrebbe in una conoscenza «adeguata e intuitiva», in cui potremmo pensare allo stesso tempo – per così dire in un colpo solo – tutte le nozioni che compongono un’idea complessa. Il linguaggio svolge così la funzione di una guida nell’immensa complessità del mondo immateriale dei pensieri, di un «filo sensibile» che consente alla mente umana di orientarsi nel labirinto dei pensieri. Leibniz usa anche l’immagine di gettoni che sostituiscono provvisoriamente il denaro contante. Linguaggio e idee complesse o catene di ragionamento

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Segni come gettoni in luogo di denaro G.W. Leibniz, Pensieri senza pretese

Il rifiuto del nominalismo

Verità come espressione di un’analogia strutturale

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Così come, nelle grandi città commerciali, o nel gioco o in altre circostanze, non sempre si paga in denaro, ma, in luogo di questo, ci si serve di foglietti o di gettoni fino all’ultimo regolamento di conti o pagamento, allo stesso modo si comporta l’intelletto con le immagini delle cose. Soprattutto quando ha molto da pensare, esso si serve di segni di esse, in modo da non avere necessità di considerare di nuovo la cosa, ogni volta che questa si presenta. Questa concezione non conduce però a conseguenze nominaliste, ossia alla visione secondo la quale – come pensava Hobbes – segni e linguaggio costituiscono una organizzazione arbitraria, sottoposta alla variabilità delle lingue, di rappresentazioni che non hanno un loro ordine in sé (vedi Unità 6, p. 348 s.). I segni possono essere arbitrari, ma non lo sono le idee cui si riferiscono, e soprattutto non lo sono le connessioni tra queste che essi sono in grado di esprimere: vi è «una qualche disposizione complessa, un ordine, che conviene alle cose». La verità per l’uomo è garantita da quest’ordine interno alle cose e dal rapporto – la «proporzione», dice Leibniz – che hanno tra di loro insiemi di caratteri che esprimono la stessa cosa: non l’identità di segni o parole, ma la loro analogia strutturale, che corrisponde a un medesimo rapporto con le cose. Noi possiamo, per esempio, operare con sistemi numerici diversi (come possono essere quello decimale o quello binario), ma in qualunque sistema numerico dai calcoli risulteranno le stesse proporzioni.

La logica e i suoi presupposti metafisici Definite le nozioni fondamentali della teoria della conoscenza di Leibniz (rappresentazione, idee e loro classificazione in base alle capacità di esprimere la co-

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noscenza, la natura del linguaggio), passiamo ora ad analizzare la sua logica e i rapporti di questa con il piano dell’essere, o l’ontologia, iniziando dall’origine delle idee.

Le idee nel «paese dei possibili» Verità e legami tra idee

La verità è fondata nel legame delle idee. Ma di che tipo è questo legame? Leibniz lo spiega in un brano in cui sostiene che esse sono fondate nell’intelletto divino, in una sostanza necessaria, ovvero uno spirito supremo che le pensa e così le fa esistere nella loro interconnessione. Queste idee sono il «prototipo», il modello di quelle presenti nelle anime umane.

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La verità non è che condizionale e dice che, nel caso che il soggetto esista, lo si troverà in quel certo modo. Ma si chiederà ancora in cosa è fondata una simile connessione, dal momento che in essa vi è della realtà che non trae in inganno. La risposta sarà che essa è fondata nella connessione delle idee. Ma si domanderà, replicando, dove sarebbero queste idee se non esistesse alcuno spirito, e cosa diverrebbe allora il fondamento reale di questa certezza delle verità eterne. Tutto questo ci conduce infine all’ultimo fondamento della verità, vale a dire a quello spirito supremo e universale che non può non esistere, il cui Intelletto a dire il vero è la regione delle verità eterne, come ha riconosciuto Sant’Agostino il quale esprime ciò in maniera assai vivida. E affinché non si pensi che non è necessario ricorrervi, bisogna considerare che queste verità necessarie contengono la ragione determinante e il principio regolativo delle esistenze stesse e, in una parola, le leggi dell’universo. Pertanto queste verità necessarie, essendo anteriori alle esistenze degli esseri contingenti, bisogna pure che siano fondate nell’esistenza di una sostanza necessaria. È qui che io trovo il prototipo delle idee e delle verità che sono impresse nelle nostre anime […].

Le idee nell’intelletto divino

G.W. Leibniz, Nuovi saggi sull’intelletto umano, 4,11

Accanto e a fondamento della concezione delle idee come forme di rappresentazione nella mente umana, con la gradazione di modi in cui possono operare, v’è in Leibniz la ripresa della concezione tradizionale di stampo platonico delle idee come archetipi, modelli delle cose, indipendenti dal pensiero umano, alle quali anzi il pensiero umano deve poter pervenire o ritornare (con la modificazione, tipica del pensiero medievale, secondo la quale questi archetipi sono fondati nell’intelletto di Dio). La concezione Questa ossatura ontologica classica della nozione di idea si unisce, come vedredi Leibniz mo meglio, con la concezione della rappresentazione come espressione, corrispondenza di rapporti, per dare vita a una particolare metafisica in cui la relazione rappresentativa costituisce una struttura portante della realtà stessa. Dio e le essenze Le idee concepite dall’intelletto di Dio costituiscono una «regione delle verità eterne» che Leibniz chiama anche il «paese dei possibili», in quanto le idee come modelli delle cose contengono la possibilità dell’esistenza di queste ultime (che equivale alla loro realtà nella mente di Dio); in base a un atto della volontà divina queste pure possibilità possono essere poi tradotte in esistenze. Dio stesso è un ente perfettissimo in quanto è la congiunzione di tutte le «perfezioni» in un medesimo soggetto, ossia delle determinazioni positive che, in combinazioni differenti, possono dar luogo all’essenza delle cose del mondo.

Il platonismo medievale e le idee come archetipi

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In senso pieno Dio è autore delle esistenze, non delle idee in quanto archetipi delle cose, che costituiscono un universo dei possibili pensato da Dio – e in questo senso non da lui indipendente – e pertanto obiettivamente dato, immutabile ed eterno, ma che è non da lui scelto, voluto. Dio e le esistenze Un’unica esistenza precede il mondo delle possibilità, quella di Dio («senza Dio non solo non ci sarebbe niente di esistente, ma non ci sarebbe niente di possibile»), ma tutto il resto si impianta sulle idee-archetipi. Dio sceglie a quale «possibile» dare attuazione, e il «paese dei possibili» così precede tutte le altre realtà, che in esso hanno il loro fondamento. Un Dio che calcola Si può esprimere questa struttura ontologica anche dicendo che Dio non opera sulle idee, ma con le idee; il suo pensiero fa esistere le idee, ma la sua volontà non ne dispone: il suo operare è un combinare le idee tra di loro, un calcolare. Di qui una frase leibniziana divenuta celebre: Cum Deus calculat et cogitationes exercet fit mundus, «Quando Dio calcola e mette in atto i suoi pensieri il mondo sorge». Dio non sceglie le essenze

Il pensiero come calcolo e la caratteristica universale La logica come combinazione di idee

I progetti seicenteschi di una nuova logica

Leibniz e la logica matematica

L’atomismo concettuale come premessa della logica di Leibniz

Proposizioni complesse come connessioni di proposizioni semplici

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La scienza che si occupa della combinazione delle idee tra di loro, ossia della connessione tra i pensieri (inclusione o esclusione tra concetti, legami di derivazione tra proposizioni) è la logica. Già da quello che si è detto risulta evidente come in Leibniz logica e metafisica siano strettamente intrecciate: una scienza della connessione dei pensieri è allo stesso tempo una scienza di quel «paese dei possibili» in cui va visto il modello per tutto ciò che esiste. La logica tradizionale, di matrice aristotelica, non era stata concepita però come legata all’idea di calcolo: matematica e logica erano discipline del tutto distinte. Che il pensare fosse riconducibile al calcolare era stata un’idea avanzata da Hobbes, per il quale il ragionamento poteva esser identificato con operazioni di addizionare e sottrarre (vedi Unità 6, p. 350). Inoltre, già in Cartesio (vedi Unità 3, p. 144 s.) si era fatta avanti l’idea di una «matematica universale» come scienza delle relazioni, che doveva andare al di là della matematica tradizionale e riguardare semmai principi generali della ragione umana e un metodo per la conoscenza. Leibniz pone le basi per quella che sarà la futura logica matematica cercando di ricondurre le regole logiche (come quelle dei sillogismi) a relazioni numeriche, sulla base dell’operazione preliminare di utilizzare simboli come lettere e numeri per esprimere i concetti e le loro combinazioni, ossia le proposizioni. Sullo sfondo delle analisi e costruzioni logiche di Leibniz c’è un’idea relativa alla struttura sia del pensiero che della realtà che si può chiamare «atomismo concettuale»: la conoscenza razionale può essere ricondotta, attraverso l’analisi progressiva delle sue componenti, a elementi ultimi che costituiscono nozioni «primitive» semplici, ossia idee che non sono a loro volta composte da altre, e che corrispondono alle categorie più generali, ai generi sommi in cui possono essere ricompresi tutti gli enti. Attraverso il collegamento dei concetti primitivi, in ordini diversi di complessità, si formerebbe l’universo del conoscere razionale. Così ogni proposizione complessa non sarebbe che il risultato della connessione – svolta tramite due sole funzioni come negazione e congiunzione – di proposizioni elementari, alle quali la proposizione complessa potrebbe essere ricondotta, e parimenti ogni proposizione elementare potrebbe essere ricondotta a con-

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

Il metodo dell’analisi

Verità come calcolo

Il superamento del linguaggio naturale: la «lingua esatta»

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I caratteri e il calcolo

G.W. Leibniz, Prefazione alla scienza generale

L’arte caratteristica universale

cetti primitivi, dai quali ogni verità potrebbe scaturire sulla base di quello che è per Leibniz il principio fondamentale di ogni relazione logica (ma che è anche più in generale un principio fondamentale della sua filosofia), ossia quello dell’inerenza del predicato nel soggetto. Secondo questo principio è vera la proposizione affermativa in cui il predicato esprime una nota, un concetto parziale contenuto nel concetto del soggetto. Così, la proposizione «l’uomo è un animale» è vera se il predicato «animale» inerisce al (è contenuto nel) concetto del soggetto, «uomo». Il giudizio «A è B» in realtà è formulato in base al principio di identità, ossia ha in fondo la forma «AB è B»: anche se la nota B (nel nostro esempio, l’animalità dell’uomo) è implicita o nascosta nel concetto A, e deve essere appunto esplicitata dall’analisi. Se qualunque verità è riconducibile alla fine a una combinatoria di nozioni primitive (per Leibniz anche le proposizioni ipotetiche, quelle della forma «se A allora B» sono riconducibili all’inerenza di un predicato nel soggetto), allora, una volta identificate queste nozioni, sarà possibile ricavarne ogni verità, e soprattutto farlo attraverso un calcolo, che garantisca la sicurezza e la possibilità di condividere, come in matematica, i risultati raggiunti. Per fare questo bisogna però superare le ambiguità presenti nelle lingue naturali, che non consentono di impiegarle per una procedura di controllo analoga al calcolo, «in maniera cioè che si possano scoprire gli errori di ragionamento risalendo alla formazione ed alla costruzione delle parole». Questo problema può essere risolto escogitando una lingua artificiale – Leibniz parla di una «lingua esatta», di una «scrittura veramente filosofica», o di «una sorta di alfabeto dei pensieri umani» – che indichi le nozioni primitive per mezzo di segni («caratteri») con i quali si possa poi operare attraverso le procedure univoche e meccaniche di un calcolo. È dunque chiaro che se riuscissimo a trovare dei caratteri o dei segni adatti ad esprimere tutti i nostri pensieri con la stessa esattezza e precisione con cui l’aritmetica esprime i numeri e l’analisi geometrica esprime le linee, potremmo realizzare in tutte le materie, nella misura in cui esse si basano sul ragionamento, tutto ciò che si può fare in aritmetica e in geometria. Tutte le indagini che dipendono dal ragionamento verrebbero infatti realizzate mediante la trasposizione di tali caratteri e attraverso una specie di calcolo. Ciò renderebbe molto facile la scoperta di belle cose, perché non occorrerebbe più rompersi la testa come ci tocca fare attualmente e tuttavia saremmo certi di poter fare tutto ciò che i dati disponibili ci permettono di fare. Inoltre saremmo in grado di convincere tutti delle nostre scoperte e conclusioni, poiché sarebbe facile verificare il calcolo o rifacendolo o cercando qualche prova simile a quella del nove in aritmetica. E se qualcuno dubitasse dei miei risultati gli direi: «calcoliamo, Signore» e, prendendo penna ed inchiostro, risolveremmo subito la questione. Questo disegno grandioso di una «lingua nuova» basata su caratteri è il progetto di un’arte caratteristica universale, che avrebbe dovuto costituire agli occhi di Leibniz «il più grande organo della ragione», ossia non soltanto un mezzo per raggiungere univocità e sicurezza nella conoscenza, ma anche una ars inveniendi, ossia una tecnica per trovare nuove verità. Essa costituisce l’obiettivo di molte riflessioni logico-metodologiche che cercano di superare i limiti della logica 279

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Il metodo dell’arte caratteristica

L’arte caratteristica universale come strumento di pace e progresso

aristotelica, vista appunto solo come un mezzo per ordinare conoscenze, ma non per trovarne di nuove. Per realizzare un simile progetto naturalmente non basta l’attribuzione di caratteri alle nozioni primitive (anche se alla scelta dei caratteri Leibniz dava una certa importanza), ma è necessario soprattutto identificare (per analisi) tali nozioni, e stabilire un metodo che consenta lungo il percorso inverso (per sintesi) di costruire le nozioni complesse, ricostruendo quelle già note, ma trovandone anche di nuove, non ancora conosciute. Il progetto di Leibniz non ha tuttavia soltanto intenti scientifici: egli lo inserisce in una visione più generale, propria del suo modo di pensare, che mira alla promozione del bene comune e alla realizzazione della pace tra gli uomini: in essa avevano un posto centrale la diffusione del sapere a cerchie sempre più ampie di persone, la comunicazione tra comunità di scienziati, la possibilità di basarsi sul discorso razionale. L’arte caratteristica universale era concepita come il più potente strumento volto a questo fine, quello «di avanzare con un progresso sicuro, per quanto è in nostro potere, e di servirci e di fruire, come mai è stato fatto, dei tesori già scoperti e dei benefici divini per la salute del corpo e la perfezione della mente».

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Una volta stabiliti i numeri caratteristici della maggior parte delle nozioni, l’umanità avrà un nuovo genere di organo, che aumenterà la potenza della mente assai più di quanto le lenti ottiche giovino alla vista, e di tanto superiore ai microscopi e ai telescopi di quanto la ragione sopravanza la vista. Né mai l’ago magnetico ha recato maggior vantaggio ai naviganti di quanto ne recherà questa stella polare a color che navigano il mare degli esperimenti. Quali altre conseguenze ne derivino è in mano al destino; tuttavia esse non potranno che essere grandi e buone. Poiché mentre da tutte le altre doti gli uomini possono esser resi peggiori, è la retta ragione soltanto che non può che essere salutare. Ma nessuno, infine, dubiterà che la ragione sia retta, quando essa risulterà in ogni caso egualmente chiara e certa come finora lo è stata nell’aritmetica.

Caratteristica universale come sapere universale e ordinato

Trattandosi non di una lingua autonoma rispetto alla natura delle cose, ma ancorata ad essa, la caratteristica universale diventa la chiave della comprensione di tutto e sfocia tendenzialmente in un sapere universale e ordinato: «chi imparerà la lingua imparerà al tempo stesso anche l’enciclopedia, che sarà la vera Porta delle Cose». Leibniz si renderà conto progressivamente della difficoltà non soltanto dell’impresa in generale, ma in particolare della individuazione di nozioni assolutamente primitive e univoche, che risultino fondate nell’essenza delle cose: «se però gli uomini siano mai in grado di condurre la perfetta analisi delle nozioni, ossia se si possano ricondurre i loro pensieri a primi possibili e alle nozioni irresolubili, vale a dire (ciò che è lo stesso) agli stessi attributi di Dio, cause prime e ragione ultima delle cose, non oserei ora affermarlo». Riterrà però, da un lato, che possa essere già un notevole risultato individuare nozioni che siano relativamente, ossia per noi, concetti primitivi, in rapporto alle analisi che siamo stati finora in grado di svolgere; e cercherà dall’altro lato di costruire intanto un sistema di calcolo logico come se le nozioni primitive fossero state individuate, compiendo così studi e passi avanti importanti nella elaborazione di una logica matematica come disciplina autonoma, che saranno poi riscoperti nel Novecento.

I benefici della caratteristica universale

G.W. Leibniz, Storia ed elogio della lingua caratteristica universale

Difficoltà irresistibili

Vantaggi certi: verso la logica matematica come disciplina autonoma

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz L’arte caratteristica universale Atomismo concettuale: la conoscenza può essere ridotta per analisi a idee semplici

Le proposizioni complesse sono connessioni di proposizioni semplici ottenute attraverso negazione e congiunzione

Principio dell’analisi: inerenza del predicato nel soggetto

Arte caratteristica universale come nuova lingua: combinatoria di nozioni primitive attraverso il calcolo

opera per analisi dal complesso al semplice e per sintesi dal semplice al complesso

favorisce la diffusione del sapere e la comunicazione

supera il linguaggio naturale

è un sapere universale e ordinato

presenta difficoltà di realizzazione, ma anticipa aspetti della logica formale novecentesca

Tipi di verità La garanzia metafisica della conoscenza

Verità delle cose dal punto di vista di Dio

Difficoltà nel conoscere le idee semplici

Dimostrazione e induzione

Parlare di verità – di qualunque verità – come di inerenza del predicato al soggetto, se per inerenza si intende l’essere incluso in una nozione, comporta una concezione delle idee come qualcosa di dato obiettivamente, che non è soltanto un contenuto della mente umana. Le idee infatti, abbiamo visto, si incardinano nella mente di Dio, e all’uomo spetta, in qualche modo, di riconoscerle. In questo senso tutto ciò che viene attribuito a un soggetto è già contenuto, in linea di principio, in esso (se il predicato non è contenuto espressamente nel soggetto, vi è contenuto virtualmente): l’intera realtà è traduzione in esistenza di un mondo dei possibili in cui le idee sono già fissate e prefigurano ciò che può esistere. Leibniz è, però, consapevole che questo sfondo ontologico valido in linea di principio, che costituisce la garanzia metafisica della conoscenza, è vero da un punto di vista assoluto, quello appunto rappresentato da Dio, ma non è colto come tale dalla conoscenza umana. Dal punto di vista della ragione umana per esempio è difficile concepire realmente la conoscenza di concetti primi, assolutamente semplici, in quanto ad essi non sarebbe applicabile la nozione di «espressione», che è basata sulla corrispondenza regolata tra relazioni, e presuppone dunque una complessità. Per questo motivo anche Leibniz sostiene che le idee sensibili, come quelle del colore oppure del calore, siano solo «semplici in apparenza» e possono essere trattate come semplici, ma non lo sono effettivamente. In uno scritto giovanile, confrontato con il problema, arriva a sostenere che l’unico concetto primitivo, che non può essere risolto in altri ma si manifesta attraverso se stesso, è la sostanza suprema, cioè Dio. In ogni caso, solo una parte delle verità – quelle fondate nelle essenze – è conoscibile per l’uomo attraverso dimostrazione, ossia in modo puramente razionale, e dunque ricostruibile per mezzo di una logica combinatoria. Altre verità, che si presentano all’uomo come non necessarie, devono essere conosciute a partire dall’esperienza (sono fondate nell’esistenza), per induzione, ossia partendo dal particolare dato per risalire al generale. 281

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Parte prima La nascita della filosofia moderna

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Verità di ragione e verità di fatto G.W. Leibniz, Dissertazione sull’arte combinatoria

Verità e modalità

Verità di ragione e di fatto e metodo dell’analisi

Analisi umana e divina

Distinzione tra necessità assoluta e ipotetica

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Bisogna tener presente infine che quest’arte delle combinazioni si rivolge interamente ai teoremi, ossia alle proposizioni che appartengono alla verità eterna, ovvero che sono tali non per arbitrio di Dio ma in virtù della propria natura. In verità tutte le proposizioni singolari, per così dire storiche, come per esempio «Augusto fu imperatore dei Romani», oppure le osservazioni, vale a dire proposizioni universali, la verità delle quali è fondata non sull’essenza, ma sull’esistenza, sono tutte vere come per caso, cioè per arbitrio di Dio, come per esempio «Tutti gli uomini adulti in Europa hanno cognizione di Dio». Di queste non si dà dimostrazione, bensì induzione, sebbene talvolta si possa dimostrare un’osservazione mediante un’osservazione con l’aiuto di un teorema. La riflessione leibniziana sulla natura della verità, posta in relazione con i presupposti metafisici della sua concezione delle idee (come archetipi chiamati all’esistenza da Dio) sposta ora la sua analisi in un altro ambito della logica: la riflessione sulle modalità. La logica modale è quella che si occupa di distinguere – e utilizzare correttamente – le proposizioni che affermano una verità necessaria da quelle che esprimono una verità solo possibile, e infine, da quelle che descrivono una verità contingente, ossia vera solo a causa di una successione di possibilità realizzate. Leibniz afferma che: 1) le verità di ragione sono necessarie. Il loro opposto è impossibile: Leibniz dice anche che sono vere in tutti i mondi possibili; 2) le verità di fatto – egli parla anche di proposizioni esistenziali – sono contingenti. Il loro opposto è possibile, ossia avrebbe potuto realizzarsi se la successione dei fatti fosse stata diversa. Solo per le verità necessarie vale il metodo dell’analisi: «Quando una verità è necessaria, se ne può trovare la ragione mediante l’analisi, risolvendola in idee e in verità più semplici, fino a pervenire a quelle primitive». Va osservato però che anche le verità di fatto hanno il loro fondamento ultimo nel principio secondo cui la verità è inerenza del predicato nel soggetto: dunque in linea di principio anche un’azione storica, che conosciamo attraverso i fatti e che logicamente – ossia in base a pure relazioni tra concetti – avrebbe potuto essere altrimenti, ha tuttavia il suo fondamento nella natura del soggetto, ha una sua ragione interna. Questa però non può esser riconosciuta nella sua interezza dall’uomo, perché presuppone un’analisi infinita, che è possibile soltanto per Dio, che non solo concepisce tutti i possibili, ma penetra nelle ragioni delle esistenze, di quei possibili che sono realizzati. Vi è da un lato una necessità assoluta (detta anche «geometrica» o «metafisica»), appunto valida in tutti i mondi possibili, dall’altro una necessità ipotetica, derivabile dall’essenza di un individuo effettivamente esistente (quell’essenza che è diventata esistenza per un decreto di Dio), che all’uomo non è dato di conoscere nella sua interezza. Così, dall’essenza di Augusto si potrebbe derivare (Dio lo può fare) che diventerà imperatore dei romani, ma all’uomo è possibile saperlo soltanto attraverso i fatti, ossia tramite l’esperienza. La nozione di un individuo (essenza) è in linea di principio completa: contiene tutto ciò che di questo individuo si può dire in relazione a tutti i predicati possibili, e include pertanto in sé una infinità di fatti.

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Unità 5 Il soggetto e il mondo: Spinoza e Leibniz

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L’individuo racchiude infiniti fatti

G.W. Leibniz, Ricerche generali sull’analisi delle nozioni e delle verità

Le verità miste

Tipi di verità in Leibniz

Tutte le proposizioni esistenziali sono certamente vere, ma non necessarie; infatti, non possono essere dimostrate se non con un procedimento all’infinito, ossia mediante la scomposizione fino a fatti infiniti; cioè non possono venir dimostrate se non in base ad una completa nozione dell’individuo, che implica infiniti esistenti. Così, se dico «Pietro rinnega», intendendo riferirmi ad un tempo determinato, si presuppone certo anche la natura di quel tempo, la quale implica certamente pure tutti gli esistent